ROBERTO BENASCIUTTI MUSSOLINI: L’UOMO E IL MITO A mia madre Amalia 2 Tutti i diritti sono riservati all’autore Benasciutti Roberto Copyright 2004 Via Borgo Dora, 31 - 10152 Torino - 011/43.66.442 Il disegno della copertina, dal titolo “il Mussolini di Sacchetti”, tratto dall’ “Illustrazione italiana”, è contenuto nel libro “Il Cesare di cartapesta” di Gec, pubblicato a Torino nel 1945. 3 NOTE SULL’AUTORE Roberto Benasciutti è nato a Padova il 6/12/1951 e vive a Torino sin dall’età di dieci anni. Laureatosi presso l’Università degli studi di Torino nel 1984, ha svolto diversi lavori fra i quali spicca l’attività d’insegnante di francese e inglese per una decina d’anni. ELENCO CRONOLOGICO DEGLI SCRITTI 1. “La tentazione di Kampala” (racconto sull’Uganda in rovina), 1990 (pubblicato a spese dell’autore) 2. “L’inganno dei tropici” (romanzo breve sull’immigrazione filippina nel mondo), 1997 (pubblicato a spese dell’autore) 3. “Il libro delle cento favole”, 2002 (pubblicato a spese dell’autore) 4 5 PREFAZIONE Mi sono prefisso con questo scritto di esprimere la mia opinione sull’argomento “IL MITO DI MUSSOLINI” che richiederebbe una trattazione più ampia, riproponendomi di approfondire il tema anche grazie al contributo dei miei lettori. A questo scopo, invito chiunque lo desideri a scrivermi per aprire un proficuo e costruttivo dibattito. ROBERTO BENASCIUTTI 6 7 I° CAPITOLO Mussolini, il fascismo e l’Italia fra le due guerre mondiali (1919–1939). Benito Mussolini nacque nel villaggio di Dovia, frazione di Predappio di Forlì, nel 1883 da una famiglia di modeste origini. Nel 1901, all’età di diciotto anni conseguì il diploma di maestro. La sua giovinezza fu ca ratterizzata dall’attiva militanza nelle fila del Partito Socialista Italiano (P.S.I.). Nel 1911 il giovane rivoluzionario socialista si adoperò anche con mezzi violenti contro la ventilata guerra di Libia e nell’ottobre dello stesso anno fu arrestato assieme a Pietro Nenni. Mussolini scontò cinque mesi e mezzo di carcere, ma grazie a questa esperienza, cominciò a farsi un nome negli ambienti socialisti della Romagna, che venne valorizzato in qualche modo dal congresso nazionale del P.S.I. di Reggio Emilia del 1912, durante il quale manifestò tendenze radicali. Chiamato in seguito alla direzione del quotidiano del partito, “L’Avanti”, si distinse nel propagandare il socialismo con uno stile nuovo che si basava sull’appello diretto alle masse e sull’uso di formule agitatorie e rivoluzionarie. Gli anni dal 1912 al 1919 evidenziarono sia il suo desiderio di cambiare profondamente le cose, sia la sua personalità complessa e contraddittoria. Infatti, relativamente al conflitto mondiale, egli passò dalla “neutralità assoluta“ alla “neutralità attiva ed operante”, il che voleva dire essere a favore dell’intervento italiano. Questo mutato atteggiamento gli procurò l’espulsione dal P.S.I. 8 Nel 1914 egli fondò il quotidiano “Il popolo d’Italia” in cui espresse più volte forti tendenze interventiste. Nel 1915 Mussolini si arruolò volontario, ed il 23 febbraio 1917 fu ferito abbastanza gravemente dallo scoppio di un lanciabombe durante un’esercitazione. Mussolini annotò le sue vicissitudini militari nel “Diario di guerra” ed essendo dichiarato inabile a riprendere il servizio, riassunse la direzione de “Il popolo d’Italia”. Nel 1919 fondò in Piazza S. Sepolcro a Milano i fasci di combattimento assieme ad un centinaio di seguaci. Politicamente il nuovo movimento si schierò a sinistra, proponendo audaci riforme sociali e assumendo tinte repubblicane, anticapitalistiche e anticlericali. Contemporaneamente i fasci di combattimento ostentarono un acceso nazionalismo e una notevole avversione verso i socialisti. Ciò che contraddistinse la nuova formazione politica fu il suo stile aggressivo e violento che spesso si traduceva in “azione diretta” contro gli oppositori. Nel II° congresso dei fasci, che si tenne a Milano nel 1920, Mussolini rinnegò il suo repubblicanesimo ed invitò i partecipanti a difendere la borghesia. E’ a quel periodo che si fa risalire l’inserimento dei fasci nel “sistema”, che si accompagna ad una graduale accettazione della società borghese e della Chiesa cattolica. Nel 1921 i fasci di combattimento si trasformarono in Partito Nazionale Fascista (P.N.F.), che raccoglieva oltre 200.000 iscritti. Il periodo 1919 – 1925 / ’26, che ebbe come evento centrale la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, fu segnato fra l’altro dall’instabilità delle Istituzioni e da una grave crisi economica, entrambe nefaste conseguenze della I° guerra mondiale. Quello che occorre sottolineare è che, nell’Italia di allora lacerata da insanabili conflitti sociali e dalla povertà dilagante, il popolo doveva scegliere fra il fascismo ed il socialismo massimalista. 9 I movimenti moderati come il Partito Popolare Italiano di Don Luigi Sturzo, che pure aveva un buon seguito, non riuscivano a placare la paura della borghesia e di una parte del popolo verso l’ipotetica rivoluzione socialista. Fu così che nella situazione politico-sociale del primo dopoguerra si prospettarono due soluzioni alternative: l’ipotesi rivoluzionaria che proponeva cambiamenti radicali e il progetto fascista che col suo patriottismo e nazionalismo, unito al rispetto per la Chiesa cattolica, si rifaceva in qualche misura alle nostre tradizioni culturali. Forse tra comunismo e fascismo la maggioranza degli Italiani considerò il secondo il male minore, nonostante il clima di violenza voluto dai fascisti. Durante il quinquennio 1925 – ’30, dopo le leggi repressive del governo del 1925 – ’26 che pongono fine alle libertà politiche, sindacali e di riunione, Mussolini e i suoi collaboratori si dedicano alla costruzione dello Stato fascista, di natura autoritaria. Esso si basa su due figure chiave: il Re, capo dello Stato e il Duce, capo del governo. Dalla diarchia “Re-Duce” e dai due rispettivi sistemi gerarchici, dipende tutto il sistema politico, sociale ed economico della “Nuova Italia”. Nel settore pubblico si assiste ad un notevole rafforzamento degli apparati statali, sia di natura burocratica sia per quanto concerne l’estensione delle loro competenze. Si ricordi a tal proposito la creazione di vari enti per le bonifiche, per la previdenza sociale e per gli interventi nell’economia. Politicamente la vita del Paese s’incentra sull’attività del P.N.F., il cui organo centrale è il Gran Consiglio, e sulle sue organizzazioni parallele. Mussolini intende creare uno Stato totalitario, ma si tratta in realtà di un totalitarismo imperfetto. Esso è infatti limitato sia dall’autorità della Corona, sia - dopo la stipulazione dei Patti Lateranensi del 1929- dall’attività estesa e capillare delle associazioni cattoliche che dipendono dalla Santa Sede. Giuridicamente i sindacati fascisti sono ormai gli unici a poter stipulare contratti con le organizzazioni imprenditoriali; di 10 conseguenza i sindacati non fascisti sono destinati a scomparire. Nel volgere di qualche anno, il fascismo da ideologia dominante diventa un sistema politico, economico e sociale, una filosofia, grazie soprattutto al contributo del filosofo idealista Giovanni Gentile (1875-1944) e, infine, una cultura. Ciò è in parte dovuto al pensiero, all’azione e allo stile di vita di Mussolini che già da qualche anno si fregia del titolo di Duce. Egli si avvale dell’opera di molti collaboratori nei campi specifici della politica, dell’economia, della filosofia e del diritto, ma è certo che la sua figura traspare spesso dietro gli eventi e le manifestazioni intellettuali di quegli anni. Per fornire, sia pure sinteticamente, una visione complessiva del periodo in questione è opportuno citare la “Carta della scuola” del 1923 e la “Carta del lavoro” del 1927. Con l’emanazione del primo documento, proposto da Giovanni Gentile, il governo crea un solido sistema scolastico che sopravvive a lungo alla caduta del Regime. Con l’entrata in vigore del secondo documento, il governo getta le basi del sistema corporativo che dovrebbe eliminare, o per lo meno ridimensionare, gli interessi egoistici sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori dipendenti nell’interesse superiore della Nazione. In questo quinquennio (1925-’30) nasce e si sviluppa il mito di Mussolini. Perché non è nato prima? Anzitutto si può notare che il periodo 1920-’25 è troppo turbolento per permettere il sorgere di culti della personalità. In secondo luogo diversi uomini politici attirano l’interesse dell’opinione pubblica. Basti menzionare, fra gli altri, Giacomo Matteotti (1885-1924), Antonio Gramsci (18911937), Giovanni Amendola (1882-1926) e Piero Gobetti (1901-1926). Già nel periodo socialista Mussolini intuisce che bisogna appellarsi al popolo, ed in seguito si rivela un “trascinatore di masse”, ma nei primi anni venti la competizione dei suoi rivali si fa sicuramente sentire. Dopo le “leggi fascistissime” del 1926, il Duce finisce per non avere 11 più avversari: la strada del culto della personalità è ormai spianata. A questa punto ci si può chiedere se il capo del fascismo abbia creato il culto e il mito di se stesso oppure se essi siano stati imposti dal Regime fascista. L’intensa attività politica ed intellettuale del Duce dimostrano che ci si trova di fronte a un personaggio eccezionale (nel bene e nel male). Al riguardo, è sufficiente ricordare i suoi numerosi scritti, le sue biografie, che cominciano ad essere esposte nelle vetrine delle librerie, il suo dinamismo nella gestione del partito e del governo, la sua partecipazione in prima persona ad eventi, manifestazioni e cerimonie d’interesse nazionale: a titolo d’esempio citiamo il suo lavoro come mietitore durante la campagna del grano del 1925. Da quanto esposto appare evidente che Mussolini si sia costruito da sé il suo culto. Ma si può anche ipotizzare la tesi opposta, oppure complementare, e cioè che il suo culto sia stato imposto agli Italiani, anzitutto tramite la graduale fascistizzazione di tutta la vita pubblica. Infatti, i ritratti del Duce venivano esposti nelle scuole e negli uffici e campeggiavano nelle strade in larghi cartelli. I muri erano istoriati da scritte che riportavano celebri frasi del capo del fascismo firmate con la sigla “M”. In occasione delle sue visite in grandi e piccole città, il P.N.F. gli rendeva omaggio mobilitando le folle. I suoi discorsi venivano trasmessi alla radio e pubblicati sui giornali e la sua immagine appariva sovente nei cinegiornali dell’ “era fascista” . Si scrivevano e si ascoltavano canzoni inneggianti a lui, al Re, al fascismo ed alla patria. In conclusione, è corretto affermare che in parte il Duce creò il culto di se stesso, in parte lo impose tramite il Regime. Negli anni 1927 – ’28 lo stato fascista poggia su basi istituzionali molto solide da un punto di vista politico, sociale, economico e giuridico. Rimane ancora da risolvere l’annoso problema dei rapporti con la Chiesa cattolica, che rappresenta una grande spina nel fianco della classe politica italiana fin dal Risorgimento. 12 Ancor prima che da un’ottica istituzionale, la questione religiosa si pone per Mussolini da un punto di vista personale. Nonostante la sua educazione cattolica, durante il periodo socialista egli si era dichiarato ateo, ed aveva esternato il suo anticlericalismo sia in alcuni scritti, sia con gesti e comportamenti volgari e deprecabili. Il suo atteggiamento verso il Cattolicesimo comincia a cambiare dal 1915, cioè dall’anno della sua partecipazione come volontario alla Ia guerra mondiale. Ciò è documentato fra l’altro da alcune note contenute nel suo “Diario di guerra” in cui si avverte l’affiorare del suo interesse per la religione cattolica ed il suo centro, Dio, non più concepito come “il fantasma di Dio” dell’irrequieto periodo della sua giovinezza, ma come una presenza misteriosa che inizia a farsi sentire nella vita di trincea durante i rari momenti di tregua che scandiscono le azioni belliche. Secondo Don Ennio Innocenti il processo di conversione del Duce fu molto lungo, graduale e sofferto, ma è ipotizzabile supporre che ai suoi ripensamenti interiori corrispondano dei cambiamenti esteriori sia a livello familiare, sia nell’ambito delle relazioni sociali. Infatti egli si sposa in Chiesa con Rachele Guidi a Milano nel 1925, e insieme impartiscono ai figli un’educazione cattolica. Dai primi anni venti negli ambienti del P.N.F. si nutre una considerazione sempre maggiore per la curia romana e nel 1923, già a capo del governo, Mussolini riconosce “la funzione universale della Chiesa cattolica” . Per riassumere, si ha l’impressione che il Duce si prepari prima come cristiano e poi come uomo politico a dialogare con le autorità ecclesiastiche. Condotte segretamente per anni, le trattative fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica si conclusero l’ 11 febbraio del 1929 con la stipulazione dei Patti Lateranensi, che comprendevano: 1) un trattato riguardante la questione romana (cioè la Conciliazione) 2) un concordato che regolava i rapporti fra Stato e Chiesa 13 3) una convenzione finanziaria con la quale lo Stato italiano s’impegnava a corrispondere alla Santa Sede una ingente somma di denaro, per indennizzarla delle ferite inferte in seguito agli eventi del 20 settembre del 1870 (Breccia di Porta Pia). Con i Patti Lateranensi si assiste alla nascita dello Stato della Città del Vaticano, si ottiene una completa riappacificazione religiosa in Italia, ed essendo da allora stipendiato dallo Stato italiano, il Clero, libero da preoccupazioni finanziarie, può occuparsi completamente della sua missione pastorale. Struttura di base della Chiesa, la parrocchia col suo parroco, le sue organizzazioni e i suoi limitati beni immobili (in genere gli edifici annessi al luogo di culto) , diventa un’attiva realtà locale in diversi settori – religioso, educativo e sociale – della vita culturale della Nazione. Per concludere, l’esito positivo del processo di conciliazione rafforza sia l’autorità dello Stato italiano, sia il prestigio della Chiesa cattolica. Nel Palazzo del Laterano la curia romana si organizza come Stato indipendente e si dedica fondamentalmente alla conservazione e alla diffusione della fede cattolica nel mondo. Nel 1932 Mussolini fa visita a Pio XI° e questi dichiara che “il Duce è l’uomo della Provvidenza”. L’appellativo di “uomo della Provvidenza” si diffonde rapidamente e rafforza il prestigio di Mussolini la cui famiglia vive secondo i dettami della Chiesa cattolica, come quella di suo fratello Arnaldo. Anche a livello teorico il Duce ammette il suo mutato atteggiamento nei confronti della Chiesa cattolica. Infatti, nelle interviste concesse allo scrittore ebreo Emil Ludwig e raccolte nel libro “Colloqui con Mussolini” del 1932 il Duce afferma metaforicamente che “Cesare è inferiore a Cristo” . Per quanto riguarda il campo del diritto, nel 1931 entrano in vigore il nuovo codice penale e di procedura penale, frutto della riflessione dei fratelli Rocco. Riguardo al primo, si tratta di un codice di stampo autoritario che si ispira al concettualismo d’impronta tedesca e che introduce, fra l’altro, la pena di morte. Entrambi ben concorrono a creare e a 14 garantire il clima di ordine e sicurezza che il fascismo si era ripromesso di assicurare agli Italiani. Riferendosi al periodo 1929-1936, lo storico revisionista Renzo De Felice usa l’espressione “gli anni del consenso” per indicare l’adesione di milioni di Italiani alla politica fascista. In effetti l’attività delle centinaia di antifascisti che si trovavano in Italia e all’estero scalfiva solo marginalmente l’operato di Mussolini ed il “crescendo di certezza” che si diffondeva nel popolo nei confronti dei progetti governativi. Lo storico menzionato fa iniziare il periodo in questione nel 1929, anno di stipulazione dei Patti Lateranensi, ma gli “anni del consenso” si potrebbero retrodatare al 1927, quando fu emanata la Carta del lavoro. Analogamente, De Felice li fa finire nel 1936 dopo la conquista dell’Etiopia, ma li si potrebbe postdatare al 1939, anno in cui si insedia la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Al di là dei problemi di periodizzazione storica del Ventennio, è opportuno porsi la seguente domanda: quali sono gli eventi e i conseguenti mutamenti di atteggiamento dell’opinione pubblica verso il fascismo che giustificano l’espressione coniata da Renzo De Felice? Si è già notato che i Patti Lateranensi rappresentano un successo politico e personale del Duce che, come capo del governo, deve in seguito porre rimedio alle ripercussioni italiane della crisi economica mondiale provocata dal crollo della borsa americana di Wall Street del 1929. L’Italia punta su un massiccio intervento dello Stato nell’economia, e così facendo si allinea all’azione dei governi americano e tedesco. A tal proposito, si ricordi fra l’altro la creazione dell’Istituto Mobiliare Italiano (I.M.I.) nel 1931 e dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (I.R.I.) nel 1933. Negli anni trenta il detto evangelico “crescete e moltiplicatevi” predicato dal Clero tende ad armonizzarsi con la politica demografica del Regime che mira appunto all’aumento della natalità. L’orientamento del governo era ben sintetizzato dalla frase mussoliniana “il numero è potenza”. 15 Quindi, il Duce vide nella conquista dell’Abissinia uno sbocco per la nostra emigrazione presente e futura, legata al previsto aumento della natalità. I risvolti internazionali del conflitto etiopico furono complessi e sofferti e misero l’Italia in contrasto con la Società delle Nazioni. Inizialmente, il governo fascista non propendeva per una soluzione militare. Si pensava di poter giungere a un compromesso lasciando in carica l’Imperatore d’Etiopia Haile Selassie, detto il Negus, e sfruttando contemporaneamente il vastissimo territorio soggetto alla sua giurisdizione con l’apporto del lavoro e dei capitali italiani. Ma per diverse ragioni l’ipotesi di compromesso col Negus fallì e lo scoppio delle ostilità fu la conseguenza di tale disaccordo. Da un punto di vista morale e politico, l’Italia aggredì una Nazione pacifica. Ma una parte degli Italiani considerò il conflitto come una “guerra umanitaria” per liberare la popolazione indigena da un Regime feudale, corrotto e schiavista. Il corpo di spedizione italiano, composto da circa 400.000 uomini, ebbe la meglio sul malequipaggiato esercito etiopico. Le ostilità durarono dal 3 ottobre 1935 al 5 maggio 1936 e si conclusero con l’entrata delle truppe italiane comandate da Badoglio in Addis Abeba. L’impresa etiopica suscitò l’entusiasmo e la partecipazione emotiva della maggior parte degli Italiani, che credevano fermamente nelle prospettive mussoliniane di sfruttamento e valorizzazione della nuova Colonia e nella diffusione della Civiltà di Roma presso le popolazioni autoctone. Nel 1936, dopo il risorgere dell’Impero su “i colli fatali di Roma”, il mito di Mussolini raggiunse l’apogeo. Nel 1937 Filippo Speciale, un insegnate elementare della provincia di Belluno, scrive un saggio dal titolo “Augusto fondatore dell’Impero romano – il Duce fondatore dell’Impero italiano” col quale si prefigge di informarci sui motivi per cui il capo del fascismo è diventato un mito. Prima di illuminarci sul parallelo fra Augusto e Mussolini, l’autore 16 paragona quest’ultimo ad altri personaggi storici. Vale la pena di riportare detti paragoni in ordine cronologico. 1) MOSE’ – MUSSOLINI “come Mosè per ordine di Dio liberò il popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto, così il Duce, ispirato dall’Altissimo ha tratto il popolo d’Italia dalla schiavitù del bolscevismo e lo ha guidato verso la conquista (dell’Impero) ad onta di 52 Stati invidiosi della nostra ascesa”. 2) NAPOLEONE – MUSSOLINI “5 maggio 1821: Napoleone (1769-1821) morì prigioniero degli Inglesi a S. Elena; 5 maggio 1936: gli Etiopici videro gli Italiani entrare in Addis Abeba. L’Inghilterra, grande protettrice dell’Impero schiavista (l’Etiopia), vide nel Duce Napoleone redivivo”. 3) GARIBALDI – MUSSOLINI “Mussolini agì come l’eroe dei due mondi”. (Giuseppe Garibaldi: 1807-1882) 4) S. GIOVANNI BOSCO – MUSSOLINI “come S. Giovanni Bosco (1815-1888) sofferse miseria e disprezzo” Storicamente incongrui, questi paralleli ci suggeriscono tuttavia che il mito del Duce comincia a radicarsi nell’animo di molti Italiani. Come si è sottolineato, l’accostamento fondamentale del libro è fra Cesare Augusto e Mussolini. Vediamo con Filippo Speciale due “eventi” che accomunano i due capi-popolo. “Augusto (30 a.C. – 14 d.C.) fu l’uomo della Provvidenza che strappò all’anarchia la repubblica romana e le diede tranquillità. Rafforzò i confini (….) . 17 Allo stesso modo il Duce con la Marcia su Roma (….)”. “Augusto protegge la religione dello Stato. Il Duce migliora i rapporti con la Santa Sede e rende più solido il sentimento religioso della Nazione”. In sintesi, Mussolini come Augusto difende la famiglia, i buoni costumi, la religione ufficiale, il diritto romano, la patria e l’Impero. Fra i paragoni proposti dall’autore, quello fra Augusto e Mussolini è il più interessante, anche se i due protagonisti vissero in contesti culturali completamente opposti. Per concludere il breve discorso sull’avventura etiopica, è utile soffermarsi sulla testimonianza di Giovanni Artieri, che vi partecipò e che scrisse il libro “Le guerre dimenticate di Mussolini – Etiopia e Spagna” . Egli ammette apertamente che il Duce permise l’uso di gas lacrimogeni e di iprite (o gasmostarda) per l’artiglieria e l’aviazione. Si trattò comunque di un uso limitato nel tempo e nello spazio, effettuato dai reparti di Badoglio e non da quelli di Graziani, e finalizzato alla prevenzione di una lunghissima resistenza (o guerriglia) “nelle caverne, forre, anfratti, macchie, boschi, foreste dell’immenso territorio”. Relativamente alla valutazione complessiva della guerra d’Etiopia, Giovanni Artieri sostiene che nel 1935 il capo del fascismo “non poteva rendersi conto dello sfaldamento dei grandi Imperi coloniali esistenti, anche perché questo processo non era ancora visibile”. Ma l’opinione or ora formulata contraddice l’azione di Mussolini che tende a favorire di lì a poco l’inizio del processo di liquidazione del colonialismo inglese in India e in Africa. Per quel che riguarda la penisola indiana, basti ricordare il pensiero e l’attività di Chandra Subhas Bose (1897-1945) che si ispirava più al modello politico-sociale proposto dal fascismo italiano che a quello propugnato dal nazismo tedesco. Bose intendeva reagire alla dominazione inglese con la lotta armata. Durante la II° guerra mondiale, divenuto capo di un esercito ostile all’egemonia britannica e composto da 80.000 soldati, Bose si mantenne in contatto con Mussolini, Hitler e Hirokito, fu 18 aiutato militarmente dalle forze dell’Asse e si sacrificò per i suoi ideali nel 1945 durante i tragici giorni della disfatta delle potenze amiche. Per quanto concerne l’Africa e il Medio Oriente, è opportuno rammentare che nel marzo del 1937 Mussolini si recò in Libia e durante una manifestazione, a cavallo, impugnò teatralmente “la spada dell’Islam” per simboleggiare la sua solidarietà verso i popoli musulmani insoddisfatti del colonialismo inglese e francese. Dopo la conquista dell’Impero, resasi nemica dell’Inghilterra e della Francia, l’Italia si avvicina alla Germania. Durante l’arco del Ventennio la politica estera di Mussolini fu sovente mutevole, ma a partire dagli anni 1935-’36 il suo orientamento filo-tedesco è ormai evidente. Il Duce era convinto che prima o poi in Europa sarebbe scoppiata la guerra e che il III° Reich avrebbe finito per soggiogare il continente europeo. Da questa premessa scaturisce l’intenzione del capo del fascismo di legarsi a Hitler. La seconda metà degli anni trenta è caratterizzata dall’intervento italiano nella guerra di Spagna (1936-’39) e dall’emanazione delle leggi razziali del 1938. Per quanto attiene alla guerra civile spagnola, fu la falange capeggiata dal Generalissimo Franco a chiedere aiuti all’Italia. Poteva Mussolini rimanere indifferente di fronte alle difficoltà dei falangisti? Contemporaneamente i repubblicani spagnoli chiedevano soccorso alle forze di sinistra europee, e in particolare al governo francese. Il cruento conflitto registrò atrocità da ambo le parti e si concluse con la vittoria dei franchisti nel 1939. Alla fine delle ostilità il Paese era semidistrutto; complessivamente le vittime superarono il mezzo milione. Per quanto concerne la promulgazione delle leggi razziali, l’atteggiamento del capo del fascismo, ancora una volta, fu contraddittorio e discutibile. Ne “I colloqui con Mussolini” di Emil Ludwig del 1932, il Duce afferma che in Italia non esiste un problema razziale, 19 vista l’esiguità della comunità ebraica. La tesi di Mussolini si modifica radicalmente nella II° metà degli anni trenta. Secondo la storiografia antifascista, il fascismo assume allora un volto esplicitamente e inequivocabilmente razzista. Il punto di vista di Renzo de Felice è diverso. In sostanza, lo storico revisionista ritiene che sia difficile capire i motivi che hanno indotto il Duce a cambiare idea. Don Ennio Innocenti, autore del saggio “Disputa sulla conversione di Mussolini” sostiene che il capo del fascismo non aveva niente contro gli Ebrei come razza o come popolo; la sua avversione era diretta contro le “logge massonico-giudaiche” molto potenti in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti, da lui ritenute propugnatrici di un capitalismo senza regole che sfruttava i deboli. Uno dei problemi fondamentali sulle persecuzioni antiebraiche in Italia è questo:furono causate dalle leggi razziali applicate fino al 25 luglio del 1943? E, se lo furono, in quale misura? Sulla questione, il dibattito fra storici “nonrevisionisti” e “revisionisti” è tuttora aperto. Forse la guerra di Spagna aveva favorito la diffusione del mito del Duce: “per vincere ci vogliono i leoni di Mussolini”, diceva un inno dei combattenti fascisti, e negli ambienti cattolici la considerazione verso il Duce si era accresciuta, visto che i repubblicani spagnoli si erano dimostrati nemici dichiarati del Clero e dei Gesuiti. Ma è certo che l’emanazione delle leggi razziali lese il prestigio di Mussolini e suscitò irritazione e scontento da parte del Vaticano, che mal tollerava l’orientamento razzista, palese od occulto, del governo italiano a partire dal 1938. Già anticipato dalla guerra civile spagnola, nel 1939 si respira in Europa un clima di guerra voluto e alimentato dal III° Reich che con l’aggressione alla Polonia del settembre dello stesso anno, scatenò quello che da molte parti fu definito“l’immane conflitto”. 20 21 II° CAPITOLO La IIa Guerra Mondiale: l’alleanza Italia Germania (giugno 1940 - luglio 1943 ). L’armistizio, La Repubblica sociale Italiana (R.S.I. ) e il Regno del Sud ( 1943 - 1945 ). 1) L’Italia in guerra ( 1940 – 1943 ). Durante gli “anni del consenso” (1929 – 1936 ) il fascismo aveva mostrato all’Italia più il suo volto civile che quello militare. In questo contesto rientrò anche la conquista dell’Etiopia: nel progetto mussolinario, dopo la guerra ( 1935 – ’36 ) avrebbe dovuto fiorire un “Impero di pace”. Tuttavia, nel corso degli anni trenta le caratteristiche di stampo militare, paramilitare e disciplinare del regime si accentuarono anche se nel contempo le Istituzioni civili continuarono a garantire un ordinato progresso della società italiana. Adolf Hitler salì al potere nel 1933 e da quell’anno gradualmente la Germania cercò d’affermare la sua presenza politica e militare nel vecchio continente. Nel complesso gioco delle alleanze in Europa e in quello delle rivendicazioni territoriali del III° Reich, Mussolini si propose come mediatore, ottenendo però scarsi risultati. Ciò dipendeva in ultima analisi dal fatto che la Germania voleva la guerra a tutti i costi per imporre la sua supremazia. Nella Ia metà degli anni trenta la scelta di una politica filo-tedesca da parte del Duce si basava sulla considerazione che la guerra sarebbe scoppiata nel giro di qualche anno e che il III° Reich l’avrebbe vinta. La stipulazione del “Patto d’Acciaio”, firmato a Berlino nel 1939, rafforzò ulteriormente l’alleanza militare fra la Germania e l’Italia. Nel settembre del 1940, per occupare il corridoio di Danzica, i Tedeschi aprirono le ostilità invadendo la Polonia e provocando l’intervento di Francia e Gran 22 Bretagna in difesa della sovranità della Nazione amica. Provata dalla conquista dell’Impero, dal mantenimento delle Colonie e dalla guerra di Spagna, l’Italia rese subito palese la sua “non-belligeranza”. In quei mesi tormentati, a livello diplomatico il nostro Paese fece di tutto per evitare il conflitto. Ma il 10 giugno 1940, quando la Francia era ormai prossima alla capitolazione, l’Italia dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna: ancora una volta il capo del fascismo manifestò atteggiamenti complessi e contraddittori. A proposito dell’ “immane conflitto”, possiamo porci alcune domande: 1) In Italia, fu il solo Mussolini a volerlo? 2) Quale fu l’atteggiamento della Corona, delle alte sfere militari, dei gerarchi fascisti nei confronti del Duce e della sua decisione di aprire le ostilità? In pochi mesi il conflitto si estese a macchia d’olio. Mussolini iniziò a condurre una sorta di “guerra parallela “ a quella del Fuhrer concentrando la sua azione nei Balcani ( invasione della Grecia ) e in Africa ( contro gli Inglesi ). Il 22 giugno 1941 il III° Reich attaccò inaspettatamente la Russia, violando l’accordo di “non –aggressione” fra le due Nazioni sottoscritto da Ribbentrop e Molotov il 23 agosto 1939. La “guerra parallela” voluta da Mussolini – che fra l’altro rivestiva l’incarico di comandante supremo delle forze armate – non procedeva bene né nei Balcani né in Africa: in entrambi i territori l’esercito italiano registrò diverse sconfitte ed in quel periodo la popolarità del Duce cominciò ad incrinarsi seriamente. Agli inizi del 1943 le sorti della guerra volgevano decisamente a favore degli Alleati ( le forze anglo-americane ) e della Russia. Le truppe italo - tedesche avevano abbandonato l’Africa, riuscivano a reggere in Europa e nei Balcani, ma si erano ritirate da una parte della Russia. Con l’invasione della Sicilia del giugno 1943 ad opera degli Alleati, iniziò il collasso politico-militare del Regime fascista. Per rovesciare Mussolini alcuni gerarchi tramarono una “cospirazione”, d’intesa col Re e le alte sfere militari. Nel 23 realizzare questo “complotto”, i capi fascisti si attennero al rispetto delle norme dello Statuto Albertino. In data 24 luglio 1943 si giunse alla convocazione del Gran Consiglio, organo supremo del Regime, e Dino Grandi presentò il suo ordine del giorno. Il documento prevedeva che il Duce rimettesse il suo incarico di comandante supremo delle forze armate al Sovrano, che doveva assumersi totalmente la responsabilità politica e militare di fronte alla Nazione, martoriata fra l’altro dai bombardamenti dell’aviazione anglo-americana. Dopo una lunga e animata discussione si pervenne alla votazione dell’ordine del giorno Grandi: si registrarono 19 “si”, 7 “no” e una sola astensione. Nel concludere la seduta, Mussolini esclamò: “Voi avete provocato la crisi del Regime”. Il giorno dopo il Duce chiese udienza al Re, che accettò d’incontrarlo nel pomeriggio: era la domenica del 25 luglio. Il Sovrano accettò le “dimissioni” di Mussolini. Da quel momento per quest’ultimo iniziò una serie di peregrinazioni durante le quali dalla condizione di “protetto per motivi di sicurezza” passò a quella di “prigioniero”. Mussolini fu trasportato in autoambulanza dapprima in una caserma romana, dove trascorse tre giorni, poi fu imbarcato per l’isola di Ponza. Successivamente egli fu reimbarcato per la Maddalena ed infine trasportato in idrovolante nella penisola, per essere di nuovo condotto in autoambulanza in una caserma dei carabinieri sul Gran Sasso, in località Campo Imperatore a 2.100 metri d’altezza, il 28 agosto 1943. In quei giorni Vittorio Emanuele III° e Badoglio completavano il piano di rovesciamento delle alleanze. L’otto settembre 1943 il nuovo governo proclamò l’armistizio, provocando confusione, smarrimento e paura nelle forze armate e nella popolazione: l’Italia era diventata ormai un campo di battaglia fra i Tedeschi e gli Alleati. Il 12 settembre 1943 un reparto d’assalto tedesco comandato dal Capitano Otto Skorzeni liberò Mussolini prigioniero al Gran Sasso senza incontrare la minima resistenza da parte dei suoi carcerieri e lo fece portare in Germania con un piccolo aereo da ricognizione. In quel periodo l’Italia venne divisa in due, militarmente e 24 politicamente. Il nord ed il centro della penisola, Roma compresa, caddero nelle mani dei Tedeschi; nel meridione si stanziarono gli Alleati. Nel nord, a Salò, nei pressi del lago di Garda, si insediò il governo della Repubblica Sociale Italiana ( R.S.I. ) con a capo Mussolini, alleato, se non controllato, dai nazisti. Da Roma il governo Badoglio si trasferì nel sud, creando il “Regno del Sud” con capitale Napoli. I Tedeschi riuscirono a fermare l’avanzata degli Alleati, attestandosi su una linea difensiva ( la linea Gustav ) che da Gaeta raggiungeva la foce del Sangro ( nell’area di Pescara ) e che aveva il suo “centro” nella zona di Cassino, nelle vicinanze di Roma. 2) I seicento giorni della Repubblica Sociale Italiana e lo sfacelo del fascismo: Mussolini meno Duce e più uomo L’arco di tempo 1943 – ’45 è fondamentale per comprendere la storia del XX° secolo. In quegli anni funestati dall’ “immane conflitto”, il progetto e la realizzazione di un “Nuovo Ordine” auspicato dalle Nazioni del cosiddetto “Patto Tripartito” ( Italia, Germania e Giappone ) vennero cancellati per sempre. Secondo il Duce, in relazione a questo disegno l’Italia doveva ritagliarsi uno “spazio imperiale” nei Balcani ed in Africa, ed in questi territori il fascismo avrebbe fatto rifiorire la Civiltà di Roma. La sconfitta dei “tre volti del fascismo”, cioè: fascismo, nazismo ed action français ( per usare la terminologia dello storico tedesco Ernst Nolte ), e quella dell’imperialismo giapponese del 1945, assunse un carattere epocale. Il periodo in questione è pure importante per cercare di capire lo sviluppo della personalità di Mussolini, sia nei suoi aspetti umani sia in quelli mitici. Il 29 luglio 1943 il fondatore del fascismo compiva 60 anni, proprio nei giorni in cui era prigioniero del governo Badoglio. Già da anni soffriva di un’ulcera duodenale, e, a causa dell’andamento disastroso della guerra, si considerava ed era considerato politicamente finito. A proposito delle sue 25 condizioni psicologiche, nei “Pensieri pontini e sardi” scritti in cattività a Ponza ed alla Maddalena, riferendosi implicitamente ai grandi uomini, egli annota: “la caduta nella polvere li riconduce all’umanità, a quella umanità che si potrebbe definire elementare”. Il 1943 segnò uno spartiacque nella storia del mito di Mussolini. Sempre nel volumetto succitato, egli infatti osserva: “Negli ultimi tempi la richiesta di mie fotografie erma molto diminuita …” E ancora: “sentivo che queste fotografie sarebbero state stracciate o nascoste, un giorno …”. La scrittrice di sinistra Camilla Cederna curò nel 1989 un’antologia di lettere di donne italiane indirizzate al capo del fascismo dal titolo “Caro Duce”. Si contavano a centinaia di migliaia le missive che le donne scrivevano a Mussolini e questo flusso epistolare s’interruppe nel 1943 quando, per parafrasare Camilla Cederna, le masse cretinizzate dalla propaganda fascista si svegliarono. Nella riunione del Gran Consiglio del fascismo del 24 luglio 1943, Mussolini disse: “In questo momento io sono certamente l’uomo più detestato, anzi odiato in Italia, il che è perfettamente logico, da parte delle masse ignare, sofferenti, sinistrate, denutrite, sottoposte alla terribile usura fisica e morale dei bombardamenti ‘liberatori’ ed alla suggestione della propaganda nemica …” Da una parte queste frasi evidenziano la drammatica situazione del popolo italiano che piange i suoi innumerevoli morti nei diversi fronti e nella penisola; dall’altra esse mettono in luce la profonda crisi del mito. Con l’avvento al potere del governo del Maresciallo Badoglio, nelle principali città vengono abbattute e defenestrate statue e fotografie del Duce. Nel 1944 Mussolini scrive un libro dal titolo: “Il tempo del bastone e della carota” in cui, parlando in terza persona, in relazione agli avvenimenti degli ultimi giorni del luglio 1943, osserva:” la folla scorrazzò per le strade… commise violenze sulle persone, cancellò con un’ iconoclastia feroce e stupida tutto ciò che poteva ricordare Mussolini e il fascismo”. 26 In sintesi, una furia iconoclasta si abbatté sul mito, accompagnata da anatemi e maledizioni. Mussolini accettò di diventare il capo della Repubblica Sociale Italiana, che formalmente si strutturava come uno Stato indipendente, e che contava circa 1 milione di soldati repubblicani. Perché lo fece, se già prima del 25 luglio 1943 si considerava un uomo finito? Ne “Il tempo del bastone e della carota” egli scrisse di essere disponibile a trasferirsi nella sua residenza di Predappio, chiamata “La Rocca delle Camminate” nel caso di una sua sostituzione. Allora, perché assecondò i piani di Hitler per l’Italia? Secondo gli storici antifascisti, Mussolini accettò l’incarico del Fuhrer per continuare a governare e ad imporre il fascismo all’Italia, sia pure sotto il controllo tedesco. L’opinione degli storici revisionisti e fascisti è che il Duce si rese docile al volere dei nazisti per alleviare le sorti della popolazione dell’Italia del centro - nord. Insomma, la scelta era: o il governo di Mussolini in collaborazione con i Tedeschi, oppure “il tallone tedesco” premuto sulla popolazione italiana del centro-nord sino a schiacciarla. Il 23 settembre 1943 il capo del fascismo annunciò la formazione del nuovo governo. Il suo programma era: “costituente - riconciliazione - socializzazione”. Nei seicento giorni della Repubblica di Salò, nessuno di questi tre punti programmatici fu realizzato. Il Duce lavorò sul progetto di socializzazione che prevedeva fra l’altro, un’ampia partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese con il godimento degli utili. Ma le sue formulazioni teoriche non trovarono alcun riscontro fra le masse operaie dei grandi stabilimenti industriali del nord, ormai stanche della guerra e del fascismo. Il Partito Fascista Repubblicano, erede del Partito Nazionale Fascista, si riunì a Verona a metà novembre del 1943, ed emise un documento di stampo tanto ideologico quanto programmatico passato alla Storia come “il Manifesto di Verona”. Nell’Italia repubblicana anzitutto comandavano i Tedeschi, che applicavano contro i partigiani le loro ferree leggi militari, poi 27 venivano alcuni reparti speciali della R.S.I. Nullo o quasi era il potere di Mussolini, che tuttavia divenne presto una sorta di punto di riferimento, se non un simbolo, difficilmente sostituibile. Egli trascorreva la maggior parte del tempo nella sua residenza, a Villa Feltrinelli a Gargnano. Le sue giornate erano intense: riceveva capi militari e funzionari civili, fascisti, uomini di cultura e religiosi che gli erano rimasti amici nella sventura: scriveva articoli per giornali, pur essendo la sua salute precaria. Raramente usciva per ispezionare alcuni reparti dell’esercito repubblicano, e limitato era il tempo che dedicava all’amante, Claretta Petacci, nonostante si sia romanzato molto sul loro amore. Politicamente il Duce rimaneva il capo teorico di una Repubblica di fedelissimi, che quotidianamente subiva sia l’azione militare degli Alleati, che miravano a sfondare la linea Gustav all’altezza di Cassino, sia gli attacchi dei partigiani. Dopo il crollo della linea Gustav, nell’autunno del 1944 l’offensiva anglo - americana s’arrestava sulla cosiddetta linea gotica, cioè su quel sistema di fortificazioni costruite e difese dai Tedeschi e dai repubblichini, che congiungeva Rimini a La Spezia. I nazisti e i fascisti ripresero fiato e il 16 dicembre 1944 Mussolini tenne al Teatro Lirico di Milano il suo ultimo discorso, in cui apparve rinfrancato e in gran forma. Egli dichiarò che le armi segrete avrebbero condotto le forze dell’Asse alla vittoria ed enfatizzò le prospettive del fascismo repubblicano che s’incentravano sulla formazione di una nuova costituente, a guerra finita, e sul trinomio: Italia . Repubblica – Socializzazione. A proposito del fervore suscitato dall’oratoria del Duce fra i Milanesi, Giovanni Artieri, scrittore e giornalista di destra, osservò che il successo del discorso del Teatro Lirico è inspiegabile , anche a molti anni di distanza. Nell’aprile del 1945 gli Alleati ripresero l’offensiva per distruggere la linea gotica fiancheggiati indirettamente dai gruppi partigiani, che operavano un po’ ovunque. L’esercito tedesco era in rotta in tutta Europa e a Milano Mussolini cercò 28 di trattare la resa con i capi della resistenza, facendo leva sulla mediazione ecumenica del Cardinale Schuster, Arcivescovo della città. Ma la negoziazione ebbe un esito negativo perché il Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia (C.L.N.A.I.) aveva già deciso che il Duce dovesse morire. Il 27 aprile Mussolini fuggì verso la Valtellina con Claretta Petacci ed alcuni gerarchi, unendosi ad una autocolonna tedesca. Catturato da un gruppo di partigiani comandati dal “Colonnello Valerio”, il 28 fu giustiziato assieme a Claretta Petacci ed ai gerarchi. Il 29 le salme vennero trasportate a Milano, appese per i piedi ad un distributore di benzina in Piazzale Loreto ed esposte alla barbara violenza della folla. 3) L’avventura militare della Repubblica Sociale Italiana e la conversione di Mussolini. Mussolini decise di accogliere la proposta di Hitler di diventare il capo della R.S.I. per alleggerire il peso dell’occupazione tedesca, o forse per evitare che il Fuhrer “facesse tabula rasa dell’Italia”. Ma il suo rientro sulla scena politica fu una delle cause dello scoppio della guerra civile, perché divise il centro-nord della penisola tra fascisti da una parte e antifascisti dall’altra. Che cosa sarebbe successo se il Duce si fosse ritirato dalla vita politica? Probabilmente Hitler avrebbe dato l’incarico di guidare la neonata Repubblica ad Alessandro Pavolini o ad un altro gerarca fedele all’alleanza con i nazisti come, ad esempio, Roberto Farinacci. Ma né l’uno né l’altro possedevano il carisma del fondatore del fascismo. Ci si può dunque chiedere: La guerra civile sarebbe ugualmente scoppiata? In caso affermativo, essa avrebbe assunto proporzioni meno estese? La breve odissea della Repubblica di Salò coinvolse Mussolini a livello familiare con il “processo di Verona” del gennaio del 1944, in cui i membri del Gran Consiglio del fascismo, accusati di tradimento per aver votato a favore dell’ordine del giorno Grandi, furono condannati a morte. 29 Tredici di loro riuscirono a sfuggire all’autorità repubblicana: ricordiamo almeno Grandi, Bottai e Federzoni; sei furono arrestati, fra i quali Galeazzo Ciano, genero del Duce. Edda Ciano si adoperò in ogni modo col padre per salvare il marito. Secondo Paolo Alatri, autore di una biografia tascabile di Mussolini pubblicata nel 1995, pare che la domanda di grazia inoltrata al Duce dai condannati a morte non sia mai pervenuta a destinazione. Egli precisa: “La questione è rimasta misteriosa e controversa”. Durante il conflitto, a più riprese Mussolini fu accusato di essere un dittatore sanguinario per aver mandato al fronte centinaia di migliaia di giovani. Ora, se avesse graziato Ciano, avrebbe dovuto render conto anche dell’accusa di “nepotismo”: a questo punto il suo ritratto di “despota orientale” avrebbe raggiunto l’apice. Durante la sua permanenza a Gargnano, il Duce s’incontrava con Claretta Petacci. Alcuni storici sostengono che questa donna fu il più grande amore della sua vita. Sergio Luzzato nel suo libro “Il corpo del Duce” ritiene che la sua amante svolgesse un ruolo determinante nella creazione del clima di “basso Impero” che permeava l’ambiente repubblicano del Lago di Garda. Altri storici, fra cui Don Ennio Innocenti, affermano invece che la Petacci si limitasse a ritagliarsi un piccolo spazio nella vita del capo del fascismo. Il sacerdote in questione, nella “Disputa sulla conversione di Mussolini” scrive che quest’ultimo diverse volte si era proposto di lasciare l’amante, giungendo persino a preparare, nel gennaio del 1945, un decreto per far espatriare la famiglia Petacci; ma il provvedimento non fu attuato. La Petacci fece di tutto per rimanere nelle vicinanze della residenza del Duce, suscitando l’irritazione e la gelosia di donna Rachele. Leggendo i libri di Mussolini: “Vita di Arnaldo” (1932) e “Parlo con Bruno” (1941), scritti rispettivamente in occasione della morte del fratello e del figlio, si può notare che il senso della famiglia è un valore molto importante nella sua vita. Quindi è logico ipotizzare che Benito amasse profondamente Rachele, che gli aveva dato cinque figli. Egli era un uomo 30 esuberante ed un peccatore, ma combatteva le sue debolezze e alla fine ritornava al “nido familiare”. Negli anni 1942-’43 la crisi religiosa di Mussolini divenne più intensa e sofferta. Anche in quel biennio travagliato e fino alla morte la sua personalità manifestò degli aspetti “mitici” che saranno ampiamente affrontati nell’ultimo capitolo. Ora è opportuno approfondire la sua evoluzione religiosa nel più vasto quadro del processo di conversione che inizia negli anni venti. Già nel suo “Diario di guerra” (1915-’17) si possono sottolineare alcune note che, sia pure in modo vago, richiamano alla mente la misteriosa presenza di Dio. Durante i primi anni venti il suo atteggiamento verso la Chiesa, sia a livello personale, sia a livello sociale, comincia a cambiare. Se il giovane rivoluzionario socialista forse si compiaceva di commettere atti profanatori e di pronunciare discorsi sprezzanti contro i religiosi, il più maturo Benito si ravvede e guarda con crescente attenzione al Clero ed alle sue Istituzioni, che svolgono una costante opera di mediazione fra i partiti politici in lotta. L’animo di Mussolini era reso inquieto sia dalla passione politica, sia dalla incessante riflessione sul Cattolicesimo che certamente leniva in parte le sue ambizioni di potere. In questa situazione spirituale, dominata dalla ricerca di Dio, si può ipotizzare che il Duce fosse il mandante dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti? Ma ora non possiamo diffonderci su questo argomento, che riprenderemo nel prossimo capitolo. Possiamo tracciare a grandi linee l’itinerario spirituale di Mussolini analizzando alcuni suoi scritti. Ne “La Dottrina del fascismo” (1932), egli scrive: “Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale” . La “Vita di Arnaldo” non è solo una biografia del fratello del Duce, scomparso nel 1931. La narrazione affronta anche la morte di Sandrino, figlio di Arnaldo. La fine prematura del giovane sconvolge la vita del padre che trova la forza di continuare a 31 vivere solo pregando e confidando in Dio. Dalla lettura di questo tragico evento si trae l’impressione che anche Benito sia coinvolto nel particolare clima religioso in cui vive la famiglia di Arnaldo. Nella IIa metà degli anni trenta le velleità politiche e militari della Germania mettono in crisi l’equilibrio europeo. In questo periodo, la figura del Duce cambia. Nel libro “Le guerre dimenticate di Mussolini”, a proposito del Duce, l’autore, Giovanni Artieri, scrive: “… dopo la proclamazione dell’Impero e sino al 25 luglio 1943 l’uomo cambiò, rimodellato da un culto della personalità che fu caratteristica comune delle dittature europee”. E’ lecito chiedersi se in questo arco di tempo (1935-’40) il processo di conversione di Mussolini si sia arrestato. Certamente il periodo in questione fu uno dei più oscuri della sua vita di cristiano e di statista. Ora, ritornando all’analisi dei libri del Duce, è opportuno riassumere e commentare brevemente “Parlo con Bruno” (1941). Benito rievoca la scomparsa del figlio Bruno, che si era arruolato nell’aviazione. Il padre racconta la carriera militare del figlio, premiata con diversi riconoscimenti al merito. Bruno muore durante un’esercitazione nel 1941. La narrazione assume un tono commosso e lirico che raggiunge l’apice nella pagina di “congedo”: “Una sola goccia di sangue che sgorgò dalle tue tempie lacerate e scorse sulla tua faccia impallidita, vale più di tutte le mie opere presenti passate future. Poiché solo il sacrificio del sangue è grande; tutto il resto è effimera materia. Solo il sangue è spirito, solo il sangue conta nella vita degli individui e in quella dei popoli: solo il sangue dà la porpora alla gloria…”. Queste frasi sono pervase da un forte afflato di spiritualità. Esse non evidenziano un atteggiamento cristiano, però sottolineano che lo spirito è superiore alla materia: il Duce sta percorrendo dunque la via che porta a Cristo. Nel biennio 1941-’42 il processo di conversione di Mussolini raggiunge il culmine. Quali sono le ragioni che lo inducono a convertirsi? Se ne possono individuare almeno tre, legate fra loro: 32 1°) la prematura scomparsa del figlio Bruno; 2°) la morte di centinaia di migliaia di Italiani, al fronte e in Italia “per causa sua”: 3°)la considerazione che la maggior parte degli Italiani erano convinti che lui fosse il solo responsabile dell’entrata in guerra dell’Italia e delle relative conseguenze. Nei “Pensieri pontini e sardi” il capo del fascismo scrive: “Due libri mi hanno molto interessato in questi ultimi tempi: “La vita di Gesù” di G. Ricciotti e “Giacomo Leopardi” di Saponaro. Anche Leopardi è stato un po’ crocifisso!” (pensiero n° 5) Sempre riferendosi alla sua permanenza nell’isola di Ponza, ne “Il tempo del bastone e della carota”, il Duce narra in terza persona: “Mussolini trascorse le giornate di Ponza in perfetta solitudine, traducendo in tedesco le “Odi barbare” di Carducci e leggendo la “Vita di Gesù” di Giuseppe Ricciotti, che poi lasciò in dono al parroco dell’isola”. Nella “Disputa sulla conversione di Mussolini” Don Ennio Innocenti, riportando la testimonianza del parroco di Ponza, annota le frasi di quest’ultimo riferite al Duce: “Avrebbe voluto parlarmi. La crisi dello spirito era fortissima. Lo seppi. Sollecitai il colonnello dei carabinieri al quale avevo chiesto di far visita al relegato, ma non mi fu concesso”. La crisi interiore del Duce era dovuta anche al timore di essere consegnato agli Inglesi, essendo noto che egli avrebbe preferito darsi la morte piuttosto di cadere nelle mani dei suoi nemici. Don Ennio Innocenti prosegue: “Dunque Mussolini, caduto in disgrazia, è stato portato in alto da quel libro”. L’incontro fra il “relegato” e il parroco non avvenne. La detenzione nell’isola non garantiva la “sicurezza” del Duce: i Tedeschi, infatti, stavano cercando ovunque il “prigioniero”. Egli fu quindi reimbarcato per la Maddalena. A proposito della permanenza del Duce nell’isola, Don Ennio Innocenti specifica: “…… di qui, presumibilmente, quella smagliatura dei controlli verificatasi alla Maddalena che permise a Mussolini un prolungato e costruttivo incontro con il parroco Don Capula, verso il quale il Duce conservò sentimenti di stima e di gratitudine. (cfr. “Il 33 tempo” 15-01-1950, articolo di Giovanni Artieri: l’autore ha accertato che Mussolini ebbe quattro incontri col parroco, ognuno della durata di due ore)”. Relativamente allo stato d’animo del “relegato”, sempre il sacerdote summenzionato precisa: “Testimonianze qualificate assicurano ch’egli si riteneva “morto”, schiacciato, soprattutto, dal giudizio, diventato comune, che proprio lui avesse voluto la guerra. Pesava, inoltre, sulle sue condizioni mentali un gravissimo deperimento fisico con effetti di preoccupante apatia”. Trasportato al Gran Sasso, in località Campo Imperatore, Mussolini venne liberato dal reparto tedesco comandato da Otto Skorzeni il 12 settembre 1943. Nello stesso mese nacque la Repubblica Sociale Italiana. Ci si può domandare se durante il periodo del fascismo repubblicano il Duce abbia continuato il suo dialogo con Dio. Le testimonianze e i documenti in nostro possesso ci permettono di rispondere affermativamente. Don Ennio Innocenti c’informa che nel dicembre 1943 il capo del fascismo incontrò diverse volte Fra’ Ginepro, un religioso ligure dotato, fra l’altro, di una feconda vena letteraria. Riferendosi a quest’ultimo, l’autore della “Disputa sulla conversione di Mussolini” scrive: “Il frate colse immediatamente l’occasione e propose per l’indomani, di portargli il Santissimo Sacramento: il Duce accettò. Fra’ Ginepro racconta: “ non avevo detto nulla a nessuno. Forse non lo avrei detto mai, neanche agli amici più intimi, se non mi avessero spinto alle rivelazioni le infamie accumulate sul suo cadavere …. Quel mattino, alle 9:30, trovai pochi militi agli sbarramenti di Gargnano che mi diedero subito il passo…. Alle dieci la confessione era finita”. Secondo Don Ennio Innocenti, i rapporti fra il Duce e il suo confessore si raffreddarono nel 1944: Fra’ Ginepro chiese dei favori di “natura politica” che Mussolini non poteva esaudire. Durante il 1944 un francescano, Padre Eusebio, entrò inaspettatamente nella vita dell’”uomo della Provvidenza”. Padre Eusebio, al secolo Sigfrido Zappaterreni, nacque nel 1913 nel Lazio e morì nel 1985 in Argentina. 34 Fu il capo dei cappellani delle brigate nere (circa una quarantina) dell’esercito della Repubblica sociale Italiana. L’incontro a Gargnano fra Mussolini e Padre Eusebio fu costruttivo e fra loro nacque un sentimento di stima e di reciproca simpatia che facilitò il dialogo. Presto il Duce aprì il suo animo al Sacerdote francescano: possiamo dedurlo dalle parole riferite a Mussolini secondo il racconto di Don Ennio Innocenti: “In realtà egli, nell’intimo, aveva sempre creduto in Dio …. Nell’immortalità, nella sanzione eterna al bene e al male morale”. Queste frasi ci fanno capire che il giovane rivoluzionario socialista, seppur inconsapevolmente, era pur sempre un credente, anche quando “spicconava la Madonna di Forlì” o commetteva altri atti profanatori e vandalici contro la Chiesa. Avendo subito il fascino della personalità del Duce, Padre Eusebio si prefigge di aiutarlo. Quest’ultimo infatti si sente un pastore che vive per il suo gregge. Le accuse di razzismo che gli furono mosse nel dopoguerra risultano false. Verso gli Ebrei “egli era ecumenico”, però avversava le cosiddette “logge massonico – giudaiche”. All’interno della Chiesa, qualcuno lo aveva accusato di nutrire “un amore viscerale” per Mussolini, ma in realtà questo “amore viscerale” era solo per Cristo, come dimostrò ampiamente la sua opera missionaria svolta in Argentina dopo la fine del conflitto. Dopo aver raccolto le confidenze del Duce, Padre Eusebio lo confessò il 14 novembre del 1944. Relativamente al Natale di quell’anno, Don Ennio Innocenti scrive: “Nel successivo colloquio della mattina di Natale P. Eusebio seppe con amabilità provocare Mussolini a dettare quella professione di fede in Cristo che lodevolmente fu poi diffusa per mezzo dei “santini”, come abbiamo già ricordato. Eccola: “Cristo si vede a Betlemme, si conosce a Nazareth, si ammira sul Tabor, si crede sul Golgota, si ama attraverso il Vangelo. E’ l’unico vero rivoluzionario, che della sua Croce ha fatto leva e bandiera per sollevare il mondo agli splendori della fede divina. Io vedo in lui l’asse della Storia e i secoli gli danzano intorno. Stanchi di lotta e di odio, gli uomini si appoggiano 35 alla Croce e guardano ai suoi occhi che rischiarano le vie dell’eternità. Il Vangelo è il poema sublime dell’amore universale sgorgato dal cuore di Cristo e scritto col sangue divino. L’eco dell’Eterno si ripercuote sulla terra attraverso la sua parola, che è luce per l’intelligenza e fiamma per lo spirito. Il Vangelo è il libro dell’unità, è la chiave del mistero della vita, messaggio di Dio e programma per gli uomini, dove l’amore crea e rinnova, trionfa nel perdono ed impera nell’esaltazione del dolore. L’ultima parola trasformatrice si dice nell’atmosfera del cielo sull’alto della Croce, dove Cristo conduce gli uomini oltre le soglie dell’infinito, nel Regno dell’amore inteso alle scaturigini dell’immortalità dello spirito”. Nell’aprile del 1945 Mussolini assiste allo sfacelo della Repubblica sociale Italiana. Dopo il fallimento della mediazione tentata dal Cardinale Schuster fra i gerarchi di Salò e i rappresentanti della resistenza per una resa onorevole della Repubblica sociale Italiana, Mussolini lascia Milano per unirsi ad una autocolonna tedesca che percorrerà la Valtellina. Arrestato da un gruppo partigiano, col coraggio dell’exbersagliere e con la forza della fede il Duce affronta a testa alta le armi dei suoi esecutori, assieme a Claretta Petacci, gridando: “Mirate al cuore!” 36 37 III° CAPITOLO Le peripezie della salma di Mussolini (1945 – 1957): il corpo e le onoranze rituali. 1) L’assassinio di Matteotti e l’esecuzione di Mussolini. Sergio Luzzato, nel suo libro “Il corpo del Duce” pubblicato a Torino nel 1988 fornisce un ampio resoconto della vicenda della salma del Duce. L’autore dedica alcune pagine all’argomento: corpo di Matteotti - corpo di Mussolini. Sia il capo socialista, sia il fondatore del fascismo, sono uccisi freddamente; i cadaveri di entrambi subiscono una violenza inaudita. L’assassinio di Matteotti ricade su Mussolini che, vent’anni più tardi, pagherà con la vita la sua colpa secondo la legge della giustizia o la falce della vendetta. Relativamente all’ipotesi formulata da Sergio Luzzato, ci si può chiedere: il Duce fu veramente il mandante del delitto Matteotti? Gli storici antifascisti non hanno alcun dubbio: chi altri poteva essere? Le opinioni degli storici fascisti e quelle degli studiosi revisionisti, pur essendo molto diverse fra loro, convergono sulla constatazione che il “caso Matteotti” sia complesso ed intricato. Per farci un’idea della diversità delle argomentazioni proposte, è opportuno segnalare almeno due opere: “Le guerre dimenticate di Mussolini” di Giovanni Artieri, che mette efficacemente in risalto il punto di vista della destra. “Manuale di storia contemporanea” di Giardina Sabbatucci - Viadotto, un testo scolastico adottato nei licei, che può essere collocato fra gli scritti degli storici revisionisti. 38 Nel suo libro “Le guerre dimenticate di Mussolini”, Giovanni Artieri, riferendosi all’ultimo discorso pronunciato dall’esponente socialista a Montecitorio il 31 maggio 1924, scrive: “….Matteotti…. promise di continuare nella successiva seduta, destando fastidio e preoccupazione in Mussolini che avrebbe pronunciato la frase: ‘Nessuno me lo toglie dai piedi?’ Era un invito un po’ campato in aria, ma raccolto diligentemente il 10 agosto 1924 . Lo scandalo fu enorme e avrebbe potuto provocare la fine del fascismo. Si buttavano i distintivi per le strade. Si aspettava da un istante all’altro la dimissione del governo. Mussolini aveva già detto di essere pronto a difendersi dal suo banco di deputato. Ma, rapidamente, si pronunciò un moto di reazione violentissimo da parte delle legioni della milizia delle province settentrionali che “sfilarono” a Roma per ammonire Mussolini nel caso avesse dato prova di debolezza e di costituzionalità. Si inscenò un processo a Chieti … Matteotti, tubercolotico, era morto per emottisi a seguito dei maltrattamenti, pochi minuti dopo essere stato spinto nell’automobile…” Per quel che concerne il clima politico estremamente critico provocato dall’assassinio Matteotti, il “Manuale di storia contemporanea” sopramenzionato scrive: “il 10 giugno 1924 il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario, fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi membri di un’organizzazione illegale alle dipendenze del P.N.F., caricato a forza su un’auto e ucciso a pugnalate. Il suo cadavere, abbandonato in una macchina a pochi chilometri dalla capitale, fu trovato solo due mesi dopo… Sebbene gli esecutori materiali del crimine fossero stati arrestati dopo pochi giorni, né allora né in seguito si poterono individuare con certezza i mandanti diretti. Il Paese capì tuttavia che il delitto era il risultato di una pratica ormai consolidata di violenza e di impunità, di cui Mussolini e i suoi seguaci portavano intera la responsabilità …” Per completare il quadro degli avvenimenti in cui si consuma la tragedia di Matteotti, è d’obbligo citare alcune parti del discorso pronunciato dal Duce in Parlamento il 3 gennaio 39 1925, in cui sostiene che la “Questione morale” (sollevata, fra l’altro, dall’orrendo crimine) è chiusa: “Ebbene dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il Popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. (….). Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere….” Prima di esprimere il nostro parere sul delitto in questione, ci sembra utile riassumere cronologicamente gli avvenimenti: - 30 maggio 1924: discorso di Matteotti alla Camera - 10 giugno 1924: rapimento e assassinio del capo socialista - giugno 1924: secessione dell’Aventino: dopo il delitto, i deputati dell’opposizione al governo presieduto da Mussolini per protesta lasciano il Parlamento e si ritirano sul colle dell’Aventino. - 3 gennaio 1925: discorso di Mussolini al Parlamento sulla “Questione morale”; da quel giorno Mussolini ed il P.N.F. decidono di “sbaragliare l’opposizione” iniziando dai parlamentari dell’Aventino Noi non crediamo che Mussolini sia il “responsabile diretto” del delitto Matteotti, per le seguenti ragioni: 1) Fra il pronunciare una frase minacciosa (“nessuno me lo toglie dai piedi?”) e il dare ordini per l’esecuzione di un omicidio, il divario è grande. 2) Durante il I° conflitto mondiale, nella logorante guerra di trincea, il bersagliere Benito Mussolini ha sempre combattuto contro il nemico austriaco a viso aperto (si legga al proposito il suo “Diario di guerra”); perché negli anni venti avrebbe dovuto cambiare il metodo di lotta contro gli avversari politici? Perché si sarebbe messo a “ordire trame nell’ombra” contro i nemici? Se così fosse, quali sarebbero le prove concrete contro di lui? Sempre rimanendo nel “tema dell’oscurità”, non è forse noto quanto egli abbia detestato e abbia lottato contro le associazioni segrete come la massoneria? 40 3) Mussolini era un uomo esuberante e pieno di sé. Nella sua vanità e nel suo orgoglio, egli sapeva bene che nessun rivale (compreso Matteotti) poteva veramente ostacolarlo. Il Duce non era più intelligente o più colto dei suoi avversari, ma possedeva un talento incomparabile nel “trascinare le masse”, che forse erano ammaliate dalla sua personalità. Essendo consapevole che la sua vittoria politica si sarebbe consolidata nel giro di pochi anni, perché avrebbe dovuto ricorrere all’omicidio come strumento di lotta politica? Dopo aver preso atto di queste tre argomentazioni che intendono ridimensionare la gravità delle accuse mosse a Mussolini nel delitto Matteotti, il lettore potrebbe interrogarsi sui motivi che hanno indotto il Duce ad addossarsi tutte le responsabilità del misfatto davanti al Parlamento il 3 gennaio 1925. Noi rispondiamo sostenendo che il discorso in questione fu la premessa per una serie di operazioni “machiavelliche” volte alla fascistizzazione della Nazione e al “colpo di stato” che però, almeno formalmente, non avvenne mai. Dopo il delitto Matteotti, Mussolini cercò di riagganciare l’opposizione dell’Aventino, ma inutilmente, perché essa non si fidava più di lui. Ritenendo dunque che il Paese dovesse scegliere forzatamente fra la destra e la sinistra, il Duce agì in questo modo: 1) Puntò dapprima sull’unità del P.N.F. 2) Col discorso del 3 gennaio 1925 si accollò la responsabilità dell’operato di tutto il partito; di conseguenza, tale discorso sancì l’unità del P.N.F. di fronte alla Nazione. 3) Da quel giorno egli potè usare gli squadristi come “forza d’urto” per sopraffare le opposizioni, cioè per effettuare il “colpo di stato” che avrebbe dato vita al Regime fascista. Se confrontiamo la tesi or ora esposta con la riflessione dello storico tedesco Ernst Nolte (n.1923), possiamo domandarci se 41 esse evidenzino dei punti di contatto. Nel suo voluminoso saggio “Il fascismo nella sua epoca” pubblicato nel 1993 a Milano, dopo aver sottolineato “le offerte quasi imploranti da parte di Mussolini” per riprendere il dialogo con l’Aventino, l’autore scrive: “E’ peraltro abbastanza comprensibile che l’Aventino non volesse fidarsi di un uomo che con la stessa sincerità diceva cose perfettamente contrastanti a seconda che parlasse davanti al Senato o davanti a un’adunata di camicie nere. Ancor oggi è difficile ritenere con certezza quale fosse il suo “vero” volto. Mussolini non cadde perché lo appoggiavano il Re e il Papa, il Senato e l’industria, timorosi di potersi trovare di nuovo di fronte ai socialisti e ai comunisti…”. Nel concludere la nostra breve dissertazione sul delitto Matteotti, riteniamo doveroso riportare le frasi che esprimono il punto di vista del Duce e del fratello Arnaldo. “Vita di Arnaldo” scritta da Benito e pubblicata nel 1932, contiene una parte del carteggio fra i due fratelli. Benito trascrive una missiva del fratello sull’argomento che stiamo affrontando: “In un’altra lettera del 26 luglio 1926 [Arnaldo] così si esprimeva: “Questa tragedia di Matteotti non è il periodo aureo del fascismo, ma è stata invece l’occasione più luminosa per misurare di quali soldati fosse composta qualche branca gerarchica fascista”. Con questo commento Arnaldo ammette la “negatività” dell’assassinio Matteotti, ma riconosce che esso è servito per mettere in luce le “squadre” pronte a sacrificarsi per la “Nuova Italia”. Ne “Il tempo del bastone e della carota” pubblicato nel 1941, Mussolini, nel capitolo intitolato Il dramma della diarchia analizza sinteticamente i principali avvenimenti del Ventennio (1922 – 1942). A proposito del delitto in questione, egli scrive: “Anno di crisi seria fu, invece, il 1924. Il Regime dovette fronteggiare le conseguenze di un delitto che, prescindendo da ogni altra considerazione, era per il modo e per il tempo, politicamente sbagliato”. 42 Nel brano citato, vorremmo sottolineare l’inciso “prescindendo da ogni altra considerazione”. E’ nostra convinzione che si tratti anzitutto di “considerazioni di carattere morale”, che gli impediscono di concepire il delitto come strumento di lotta politica. 2) Il successore di Mussolini la “secessione dell’Aventino” (giugno 1924 - gennaio 1925) mise profondamente in crisi il governo guidato dal Duce. Relativamente a tale periodo, nel libro “Il fascismo nella sua epoca”, Ernst Nolte scrive: “C’è qualche ragione di ritenere che allora Mussolini pensò di ritirarsi e di proporre al Re come suo successore Filippo Turati; ma è anche ragionevole pensare, in base ad altri indizi, che allora riprendessero vita in lui le idee del 1919”. Forse per la prima volta si presentava il problema della successione di Mussolini, in un arco di tempo in cui l’avvenire del fascismo era duramente ostacolato dai suoi avversari. Nel biennio 1925 – 1926, puntando sul tacito consenso della monarchia e sulla collaborazione delle forze conservatrici, i fascisti realizzano “col bastone e con l’olio di ricino”, una sorta di “colpo di stato”. Alla violenza gli antifascisti reagiscono con la violenza, tentando fra l’altro, di uccidere il Duce, che subisce ben quattro attentati. In questo clima effervescente, negli ambienti fascisti e in quelli antifascisti, si pone la questione della successione di Mussolini. Questa problematica provoca una divisione fra gli esuli antifascisti in Francia e in Gran Bretagna. Schematizzando, si possono individuare due gruppi: i marxisti e i moderati. I primi sono propensi a rifiutare l’ipotesi del “tirannicidio”; secondo il loro punto di vista, morto il Duce, si provvederebbe a sostituirlo con una personalità di primo piano, visto che il Regime fascista è ormai diventato un sistema. I moderati, come i fratelli Carlo e Nello Rosselli, invece, sono del parere che l’assassinio del “dittatore” 43 innescherebbe la crisi dello stato totalitario. Affrontando il progetto del “ tirannicidio”, nel già menzionato libro “Il corpo del Duce”, Sergio Luzzato riporta l’opinione dell’esule e storico antifascista Gaetano Salvemini (1873 – 1957): “A pochi giorni di distanza dall’insuccesso di Lucetti, lo storico in esilio chiede ospitalità al direttore del “Manchester Guardian” per spiegare ai lettori britannici che nulla più dell’uccisione di Mussolini avrebbe avvantaggiato la coalizione militare . capitalistica al potere in Italia. Tolto di mezzo l’assassino di Matteotti, il successore del Duce avrebbe potuto presentarsi agli Italiani con le mani nette di sangue: la morte di Mussolini sarebbe oggi per il Regime una grazia incomparabile”. Nonostante questa riflessione estremamente incisiva, l’idea di uccidere il capo del fascismo fu coltivata per tutto il Ventennio sia nei circoli antifascisti all’estero, sia nei gruppi antifascisti operanti in clandestinità nel nostro Paese. Per i fascisti, l’ipotesi della morte di Mussolini era motivo di preoccupazione. Infatti, la maggior parte di loro considerava il Duce e il Regime come una cosa sola. Tuttavia, anche fra i fedelissimi al capo del fascismo si potevano ascoltare dei pareri improntati ad uno spirito di equilibrio. Ne “Il corpo del Duce”, Sergio Luzzato cita l’esempio di Giuseppe Bottai: “Faceva eccezione l’ex ardito Giuseppe Bottai, ansioso di sottrarre il fascismo alla sua dimensione puramente biologica, determinato a disincarnare la dottrina dal corpo del capo”. Durante gli “anni del consenso” (1929 – 1936), da una parte la figura del Duce comincia a diventare mitica soprattutto fra le masse indottrinate; dall’altra, negli ambienti delle alte sfere militari e della gerarchia fascista, si prende in considerazione, forse con un certo distacco, la prospettiva di una eventuale scomparsa di Mussolini. Dunque, era immaginabile che un gerarca potesse succedergli? Nessuno l’avrebbe dichiarato esplicitamente, visto che Mussolini era in buona salute, ma l’ipotesi che ce ne fosse più di uno disponibile a diventare capo del governo al suo posto pare accettabile. E’ azzardato proporre una rosa di nomi? 44 Crediamo di no. Limitiamoci a menzionare i seguenti gerarchi: Dino Grandi, Luigi Federzoni, Giuseppe Bottai, Roberto Farinacci, Costanzo Ciano e Italo Balbo. Ma qual era l’opinione del Duce in merito alla possibilità di designare un prosecutore della sua opera? La maggior parte degli storici ritiene che egli provasse una notevole ammirazione per Costanzo Ciano (1876 - 1939) e Italo Balbo (1896 - 1940), che avevano in comune la realizzazione di “imprese gloriose”. Costanzo Ciano, Ammiraglio della regia marina, durante la Ia Guerra Mondiale legò il suo nome ad una celebre incursione navale della squadriglia MAS contro gli Austriaci conosciuta come la “beffa di Buccali” (11 febbraio 1918). Italo Balbo, quadrunviro durante la “Marcia su Roma” (28 ottobre 1922), si occupò in seguito dell’organizzazione dell’aviazione e passò alla Storia soprattutto per le sue “trasvolate oceaniche” (1930 - 1931). Oltre a essere un comandante militare di una certa levatura, Costanzo Ciano era uno dei maggiori rappresentanti della borghesia livornese, cioè di un tipo di borghesia onesta, attiva, rispettosa delle altre classi sociali e, pertanto, “nazionale”, che non dispiaceva affatto a Mussolini. Italo Balbo, ras di Ferrara, era un fascista franco e leale che sacrificava la sua vita per il Partito Nazionale Fascista e per l’aviazione. Fra i due “papabili”, sia per la differenza d’età, sia per le diverse esperienze di vita (quelle di Balbo erano più inerenti all’attività del partito), è lecito dedurre che il Duce preferisce “il giovane” Italo Balbo. Al riguardo, è interessante sottolineare alcune frasi del ritratto di Italo Balbo abbozzato da Ernst Nolte nella sua opera più volte citata: “…generalissimo della milizia, ministro dell’aviazione, maresciallo dell’aria e governatore della Libia, fu l’unico fascista che, nonostante le gelosie e i sospetti di Mussolini, seppe affermarsi notevolmente come una personalità inconfondibile, anche – e non da ultimo – per i voli delle sue squadriglie sull’Atlantico. Benché molto stimato da Hitler che vedeva in lui l’uomo del Rinascimento e un degno successore del Duce (“Hitler’s table talk”, Londra, 1953, p. 613), era un duro avversario della politica filo45 tedesca e fu praticamente l’unico a prendere le difese degli Ebrei nel Gran Consiglio. Cadde, colpito dalla propria contraerea, su Sollum, nell’estate del 1940”. Dopo la “conquista dell’Impero” (1936), il prestigio di Mussolini era ineguagliabile. In quel periodo il Duce avrebbe realizzato il suo “capolavoro” dimettendosi, o perlomeno rimanendo in carica col proposito di nominare un successore dell’altezza d’ingegno di Balbo, di Costanzo Ciano, di Grandi, di Bottai, di Federzoni, o di qualche altra personalità di rilievo del Regime. Se così fosse avvenuto, l’Italia avrebbe rivolto la cura dovuta alle Colonie, migliorando il tenore di vita di tutti gli abitanti (indigeni e coloni italiani); infine, non si sarebbe fatta coinvolgere dal III° Reich “nell’immane conflitto”. “Ma le dittature non si fermano!”, recita un detto popolare che, nel caso del destino della nostra Nazione, si dimostrò veritiero. Durante il periodo 1936 – 1943, le relazioni fra la maggior parte dei gerarchi e il fondatore del fascismo furono complesse e sofferte e si risolsero nella drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo del 24 luglio 1943. In questo arco di tempo – ipotizzata la morte del Duce e non essendo stato designato alcun successore – noi riteniamo che, da un punto di vista gerarchico, il segretario del P.N.F., prima di tutti gli altri “papabili”, avrebbe reso palese al Re la sua intenzione di sostituire Mussolini. Questa ipotesi si basa sulla considerazione che il Duce credeva il P.N.F. la forza propulsiva di tutto il fascismo; pertanto, egli si sforzava di cercare “l’uomo giusto” atto a ricoprire degnamente la carica di segretario del partito. Durante la seduta del Gran Consiglio del fascismo del 24 luglio 1943, la maggior parte dei gerarchi, votando l’ordine del giorno Grandi, fece cadere Mussolini ed il Regime, rimettendo il suo “mandato” all’autorità del Re: in tal modo, storicamente, l’immagine del Duce venne ridimensionata per sempre. Nei seicento giorni della Repubblica Sociale Italiana, Mussolini non nominò il suo successore, e questo è comprensibile: a Salò, infatti, come nel resto del territorio della neonata Repubblica, nessuno poteva garantire la 46 sicurezza di nessuno. Indro Montanelli sostiene che nel periodo repubblicano “i Tedeschi volevano Alberto Tassinari al posto del Duce”. Tassinari era una personalità di secondo piano del fascismo, ma probabilmente era un fascista filo tedesco al massimo grado. Nell’Aprile del 1945 i partigiani si apprestano a catturare i gerarchi rimasti fedeli a Mussolini (Pavolini, Farinacci, Buffarini - Guidi, Mezzasoma ed altri), manifestando così la ferma intenzione di eliminare fisicamente eventuali continuatori ed emuli del capo del fascismo. Nel II° dopoguerra, la maggior parte dei fascisti che rifiutano d’inserirsi nel sistema democratico, aderiscono al Movimento Sociale Italiano (M.S.I.). La fondazione ufficiale del M.S.I. avviene nel 1947 a Roma, dove Giorgio Almirante è eletto segretario nazionale. Nell’arco di quarant’anni (1947 - 1987), il Movimento Sociale conta tre segretari: Giorgio Almirante dal 1947 al 1950; Augusto De Marsanich dal 1950 al 1954; Arturo Michelini dal 1954 al 1969; nuovamente Giorgio Almirante dal 1969 al 1987. con la segretaria di Gianfranco Fini (1987), inizia il “rinnovamento graduale, ma sostanziale” (sono parole sue), che porterà il partito contrassegnato dalla fiamma tricolore a “confluire” dopo qualche anno in Alleanza Nazionale (A.N.), cioè in ultima analisi, secondo il nostro modesto parere, a tagliare le proprie radici dall’albero multiforme del fascismo. Nel 1967 l’ormai anziano Augusto De Marsanich, presidente del Movimento Sociale Italiano, pronunciò a Torino un discorso per celebrare il “ventennale del M.S.I.”. In un cinema del centro della città affollato di “nostalgici”, l’oratore missino raccontò, fra l’altro, un episodio della sua carriera parlamentare. Negli anni cinquanta, quando era segretario nazionale del partito, il leader democristiano Alcide De Gasperi gli chiese: “Ma lei è il successore di Mussolini?” Narrando l’aneddoto De Marsanich sorrise, e alla sua ilarità fecero eco le risate bonarie del pubblico missino. Al di là della battuta interlocutoria del rappresentante della democrazia cristiana, ci si può porre il seguente quesito: il 47 segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano è il continuatore dell’opera del Duce? Essendo noto che verso la fine del Ventennio il segretario del Partito Nazionale Fascista era il gerarca che aveva le maggiori probabilità di succedere a Mussolini, noi siamo dell’avviso che il segretario del M.S.I. possa rivendicare la facoltà di credersi il prosecutore dell’opera del capo del fascismo. Ma questa tesi merita un approfondimento, legato al contributo di Giorgio Almirante. Nei giorni di preparazione del “congresso di Genova” del 1960 (che non si tenne per “ragioni di sicurezza”), il Movimento Sociale Italiano doveva decidere se appoggiare “dall’esterno” in Parlamento il governo monocolore democristiano presieduto da Pier Ferdinando Tambroni. In quei frangenti, un giornalista del “La Stampa” di Torino raccoglie una frase confidenziale di Giorgio Almirante: “Al giorno d’oggi, Mussolini non lo nominerei neanche presidente del partito!”. Noi riteniamo che l’espressione del capo missino abbia colpito nel segno. Il Duce appartiene infatti “all’epoca dei fascismi”, che si conclude nel 1945 con la sconfitta epocale delle forze dell’Asse. Se si prende come punto di riferimento il 1945, il 1960 si colloca in un’altra epoca, contrassegnata, fra l’altro, da un avanzato processo d’industrializzazione che riguarda l’America, l’Europa e una parte dell’Asia, dalla “guerra fredda” fra l’Occidente e i Paesi comunisti e da un irreversibile processo di decolonizzazione in Africa e in Asia. Vista in questo contesto, politicamente la figura di Mussolini appare inconsistente come un fantasma. Da questa considerazione ne deriva un’altra, potremmo dire il suo opposto: è utopico credere che Mussolini possa avere un successore dopo la “sconfitta epocale dei fascismi del 1945”; semmai, egli può avere dei discepoli. In questa ottica, noi crediamo che, dal punto di vista della destra, Giorgio Almirante sia stato il miglior allievo del “Maestro di Predappio”. Parlando ora dei nostri giorni, si può azzardare l’ipotesi che i segretari di alcuni partiti di estrema destra (movimento sociale – fiamma tricolore, forza nuova, fronte nazionale, fascismo e libertà) si considerino i successori di 48 Mussolini? Bisognerebbe verificarla intervistando i responsabili di tali movimenti. Per quanto concerne il punto di vista della sinistra sull’argomento oggetto di discussione, è utile riportare l’opinione espressa dallo storico Nicola Tranfaglia. Durante il Convegno “Fascismi di ieri e di oggi” svoltosi a Torino nel maggio 2003, alla domanda da noi formulata: “Chi è il successore di Mussolini?”, Tranfaglia rispose, fra il serio e il faceto, segnalandone due: Marco Pannella e Silvio Berlusconi. Pur elogiando Pannella per le sue battaglie di carattere civile, lo storico di sinistra lo accomuna a Berlusconi per la sua notevole incoerenza politica. 3) L’odissea della salma di Mussolini Benito Mussolini, Claretta Petacci ed alcuni gerarchi fascisti sono fucilati davanti al cancello della villa Belmonte a Giulino di Mezzegro il 28 aprile 1945 da un gruppo di partigiani capeggiati dal “Colonnello Valerio”, nome di battaglia di Walter Audisio. Il giorno dopo, le salme vengono trasportate a Milano e scaricate come fossero carne da macelleria in Piazzale Loreto. Dopo essere rimasti ammucchiati sul selciato ed aver subito l’atroce violenza della folla inferocita, i cadaveri sono appesi per i piedi al traliccio di un distributore di benzina. Nel pomeriggio, le salme sfigurate e irriconoscibili sono portate all’obitorio milanese per essere sottoposte all’autopsia. In seguito, sono inumate nel cimitero milanese di Musocco, in gran segreto. Nel biennio 1945 – ’46, si formano i primi gruppi neofascisti in clandestinità. Domenico Leccisi, assieme ad altri “camerati”, fonda nel milanese il Partito Fascista Democratico (P.F.D.). Uno degli obiettivi del neonato movimento è di ricercare il luogo in cui sono custoditi i resti mortali del capo del fascismo. Nell’arco di un anno gli aderenti al P.F.D. riescono a identificare l’appezzamento di terreno del campo 16 del cimitero di Musocco in cui giacciono le spoglie mortali del Duce. Nella notte del 22 aprile 1946, Domenico Leccisi, 49 con la collaborazione di due “camerati”, trafuga la salma di Mussolini e l’affida a due Padri francescani, che provvedono a collocarla in un luogo sacro. In un periodo di cento giorni, la Polizia individua i trafugatori; dopo il loro arresto, per ostacolare le ricerche, i Padri francescani trasferiscono le spoglie mortali del Duce alla Certosa di Pavia. Ma il clamore suscitato dall’evento e lo sviluppo delle indagini induce i religiosi a collaborare con la Polizia. Essi conducono gli inquirenti alla Certosa di Pavia e in data 12 agosto 1946 la questura di Milano emette un comunicato ufficiale annunciante il ritrovamento della salma. Conclusasi la vicenda, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, d’intesa col Cardinale Schuster, Arcivescovo di Milano, ordina che le spoglie mortali siano custodite in una cappella del convento dei Padri cappuccini di Cerro Maggiore, nelle vicinanze del capoluogo lombardo. Un alone di riservatezza circonda l’operazione, eseguita con la massima cura da poliziotti ligi al dovere. E’ la “ragion di stato” che consiglia il governo italiano di occultare il corpo del Duce dal 1946 al 1957, e a far sì che solo poche autorità civili e religiose vengano a conoscenza dell’ubicazione della salma. Nella IIa metà degli anni cinquanta, il governo, i partiti politici di centro e di sinistra (esclusi i comunisti) e una larga parte dell’opinione pubblica, tendono a credere che il Movimento Sociale Italiano non rappresenti più alcun pericolo per le Istituzioni democratiche. Anche a livello parlamentare la tensione politica fra antifascisti e neofascisti va in parte a stemperarsi. In questa atmosfera di relativa serenità, nel 1957 il governo monocolore democristiano presieduto da Adone Zoli decide di restituire la salma di Mussolini ai familiari. Per stendere un velo di silenzio sulla tumulazione, il governo Zoli autorizza il trasferimento dei resti mortali il 30 agosto 1957, giorno in cui molti Italiani sono ancora in ferie. Ma la notizia si diffonde rapidamente e Predappio di Forlì viene presto “invasa” da giornalisti provenienti da ogni parte d’Italia. Essi immortalano con le macchine fotografiche le diverse fasi della cerimonia. Tuttavia 50 potremmo dire che, dai poveri resti umani straziati ma affidati alla pietà cristiana per dodici anni (1946 – 1957), è la fama del morto che oscura le passioni dei vivi. La salma riceve gli onori dei familiari, con Donna Rachele in testa, delle figure di rilievo del Movimento Sociale Italiano, e di numerosi “camerati” accorsi per la tumulazione. Il 31 agosto 1957, le spoglie mortali del Duce sono calate nel sarcofago e là riposano tuttora, nella tomba di famiglia del cimitero di San Cassiano di Predappio. Questa breve cronaca dell’odissea del corpo del Duce richiama alla mente una delle sue profezie, contenuta nel libro “Vita di Arnaldo” (1932) e riportata, con qualche lieve variante, sotto forma di epigrafe nella cappella Mussolini del cimitero di San Cassiano. Riteniamo doveroso trascriverla: “Sarei grandemente ingenuo se chiedessi di essere lasciato in pace da morto. Attorno alle tombe dei capi di quelle grandi trasformazioni che si chiamano rivoluzioni, non ci può essere pace; ma tutto quello che fu fatto non potrà essere cancellato. Mentre il mio spirito, ormai libero dalla materia, vivrà, dopo la piccola vita terrena, la vita immortale e universale di Dio. Non ho che un desiderio; quello di essere sepolto accanto ai miei nel cimitero di San Cassiano”. Dal 1957 la tomba del Duce è meta di “pellegrinaggi” da parte dei neofascisti, che hanno elaborato sul “sepolcro di San Cassiano” un rituale basato essenzialmente su “date sacre ed eventi cari al fascismo”, da commemorare con regolarità. Dinque, dal 1957 il Movimento Sociale Italiano si prefigge di onorare la figura di Mussolini. Se azzardiamo un paragone fra il Movimento Sociale e i fasci di combattimento, arriviamo a formulare due considerazioni: 1) Nel 1919 Mussolini inserisce i fasci di combattimento nella vita politica dell’ Italia del I° dopoguerra, cioè nella storia; egli continua quest’opera col Partito Nazionale Fascista (P.N.F.) 2) Nel II° dopoguerra i neofascisti non riescono a ritagliarsi uno spazio che permetta loro di operare 51 efficacemente nella scena politica, cioè nella storia; in altre parole “essi si chiudono nel ghetto oppure sono ghettizzati dai partiti del cosiddetto arco costituzionale”. Tuttavia, grazie alla loro instancabile lotta politica e sindacale, i missini proiettano Mussolini nel mito. Perché i fatti si sono svolti in questo modo? La ragione essenziale è questa: i fasci di combattimento nascono nel clima euforico di vittoria della Ia guerra mondiale, anche se si tratta di una “vittoria mutilata”. Essendo membri di un partito di vincitori, i fascisti posseggono la forza e l’entusiasmo per fare la storia. Il Movimento Sociale sorge dalle ceneri del fascismo, dopo la “sconfitta epocale dei fascismi del 1945”. Pertanto i missini sono e si sentono dei vinti. Considerando Mussolini il capo spirituale del loro partito, i neofascisti creano un divario insuperabile fra loro stessi e la realtà politica: infatti è evidente che il fascismo non ha più alcun avvenire né in Italia né altrove. Così, rimpiangendo e lodando l’opera del Duce nel contesto culturale del II° dopoguerra in cui essa non ha più alcun valore politico, i neofascisti finiscono per collocare Mussolini nel mito. Durante il convegno sui “Fascismi di ieri e di oggi” tenutosi a Torino nel maggio 2003, un relatore si chiedeva, con sorpresa, come è stato possibile che un partito dichiaratamente neofascista come il M.S.I. sia “sopravvissuto” per oltre quarant’anni nella Repubblica democratica italiana, nata dai valori della resistenza. Inoltre, egli sottolineava che, nell’ambito delle formazioni politiche di estrema destra, la lunga vita del Movimento Sociale Italiano costituiva un caso unico in Europa. Noi cerchiamo di rispondere al suo quesito adducendo tre motivi, di carattere rispettivamente politico, organizzativo e culturale. Affrontiamo il primo motivo rammentando questo avvenimento: nel 1945 Guglielmo Giannini (1891 – 1960), commediografo e uomo politico, fonda “l’uomo qualunque” 52 (U.Q.). Presto, questo movimento politico raccoglie i voti “degli scontenti e degli indecisi”, cioè di quella parte di Italiani che non si sentono più fascisti, ma che non accettano nemmeno di farsi governare dal Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) e dai successivi governi democratici. Quando “l’uomo qualunque” viene quasi “polverizzato” nelle elezioni politiche del 1948, il Movimento Sociale – nato nel 1947 – ha già riunito nelle sue fila una parte dell’elettorato exqualunquista. Dal 1947 in avanti, per oltre quarant’anni, i capi neofascisti hanno continuamente adottato la seguente tecnica: da una parte seguire le esigenze dei “nostalgici”, che si sarebbero estinti nel corso di qualche decennio per ragioni anagrafiche; dall’altra “corteggiare” gli Italiani insoddisfatti dei risultati ottenuti dai “governi della partitocrazia”, promettendo loro, in alternativa, un sistema di governo “giusto ma forte, autorevole ma non autoritario”. Per quanto concerne il secondo motivo, cioè quello relativo all’organizzazione del partito, dobbiamo tener presente che, nel giro di qualche anno (sempre a partire dal 1947), il M.S.I. crea una solida rete di federazioni provinciali, che dipendono dalla direzione nazionale di Roma. Negli anni cinquanta nascono le organizzazioni gerarchicamente dipendenti dal partito in campo sindacale, universitario, giovanile e sportivo. Fra queste, ricordiamo almeno la Confederazione Italiana Sindacati Nazionali (C.I.S.N.A.L.), fondata a Napoli nel 1950. Il sindacalismo missino si basa sui postulati del “sindacalismo nazionale” del Ventennio. Per circa quarant’anni la C.I.S.N.A.L. combatte le sue battaglie contrattuali a favore dell’applicazione della teoria del corporativismo. Nel 1996 la C.I.S.N.A.L. – resasi indipendente dal M.S.I. negli anni ottanta – si trasforma in Unione Generale Lavoro (U.G.L.). Il M.S.I. e la C.I.S.N.A.L. diffondono il loro pensiero e difendono la loro azione attraverso il quotidiano “Il Secolo d’Italia”, fondato a Roma nel 1952 da Franz Turchi, prefetto di La Spezia durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana. Negli anni novanta, il Movimento Sociale Italiano 53 conclude il suo itinerario politico “confluendo” in Alleanza Nazionale (A.N.). Veniamo ora la terzo motivo, di carattere culturale. Nel II° dopoguerra, i rappresentanti del Movimento Sociale, nelle riunioni di partito e nei comizi ripetono spesso che il fascismo era una cultura, basata sul pensiero, sull’azione e sullo stile di vita del Duce. Nel corso degli anni ottanta, Giorgio Almirante in un suo discorso definì Mussolini “un Evangelista tradito”. Il suo comizio ebbe una notevole risonanza in negativo: centinaia di consigli comunali nell’intero territorio nazionale si riunirono per “giudicare e condannare” (in senso metaforico) l’espressione pronunciata dal segretario del Movimento Sociale. Noi siamo del parere che Giorgio Almirante abbia previsto la protesta dei consigli comunali. Perché dunque egli elogiò “in maniera solenne” Mussolini? Probabilmente, ancora una volta per rinnovare il mito. Si riproponeva cioè una sorta di “rapporto speculare” fra Mussolini e il MS.I. di cui beneficiava sia il partito neofascista, sia l’uomo di Predappio. In effetti, molti “media” si occuparono del comizio missino e, di riflesso, dell’opera del Duce, suscitando per l’ennesima volta discussioni, polemiche e quesiti sul fascismo. Terminiamo la nostra analisi storica ponendoci la domanda: che cosa intendeva dire Giorgio Almirante con la definizione “Evangelista tradito”? Noi proponiamo due interpretazioni: 1) il segretario missino si riferiva alla “dimensione cattolica” del fascismo (il cosiddetto clerico fascismo), che era uno degli aspetti dell’albero multiforme dell’ideologia fascista. 2) Giorgio Almirante accennava all’evento che raccontiamo sinteticamente: durante l’occupazione della Russia effettuata dalle forze dell’Asse, Mussolini provvide a far distribuire innumerevoli copie di Vangeli nei territori sottratti all’Esercito sovietico. Tenendo conto di questo, l’espressione almirantiana significherebbe: “Il Duce era un diffusore di Vangeli, ma la sua opera di evangelizzazione fu tradita, cioè 54 disattesa, dalle popolazioni russe che a grande maggioranza continuarono a simpatizzare per i bolscevichi”. 55 IV° CAPITOLO 1) La personalità del Duce L’Opera Omnia del capo del fascismo comprende 44 volumi, ai quali si devono aggiungere: - “Il tempo del bastone e della carota” (1944); - “Colloqui con Mussolini” (1932) di Emil Ludwig. Ma quest’ultimo libro, a rigore, è da considerarsi appunto un testo di Emil Ludwig. Leggendo alcuni libri della raccolta, ci si rende conto che la personalità di Mussolini è complessa e contraddittoria. Infatti, le sue numerose esternazioni a volte si contraddicono, a volte mettono in dubbio aspetti e valori dell’ideologia fascista che in altri punti sono ritenuti indiscutibili. Nel complesso, l’Opera Omnia denota il continuo sviluppo della riflessione del Duce. Da un’attenta lettura di qualche scritto della raccolta, le cui pagine a volte sono suscettibili di diverse interpretazioni, si trae l’impressione che ad essa si possa far dire tutto e il contrario di tutto. Anche la politica di Mussolini, sia interna sia internazionale, in certi frangenti appare confusa, intricata e ricca di mutamenti. Quali criteri dunque è consigliabile seguire nel cercare di valutare l’opera complessiva (cioè pensiero ed azione) del fondatore del fascismo? Se ne può proporre più di uno, ma noi riteniamo che il criterio più semplice sia quello cronologico, che si fonda anzitutto sulla suddivisione della vita di Mussolini in “periodi storicamente ben definiti”. In secondo luogo si analizzano i principali avvenimenti della vita del Duce nei “diversi periodi storicamente ben definiti” tenendo conto della sua riflessione, del suo comportamento di uomo politico e di statista, del contesto politico e culturale di quegli anni in Italia e nel mondo. Prima di riportare un abbozzo di schema cronologico, vorremmo permetterci una valutazione di carattere generale 56 sulla figura del Duce: Mussolini fu “un uomo dal multiforme ingegno”, ma non fu un genio. La sua mente si nutriva della lettura di giornali, libri e scritti di varia natura, nell’assimilazione di idee e concezioni politiche, sociali e religiose. L’uomo di Predappio rielaborò sovente concezioni ed esperienze di natura politica, economica e sociale, ma non creò quasi nulla: a ben vedere, c’è poco di originale nel fascismo. Tuttavia dobbiamo precisare che, rispetto ad altre forme di governo, il Regime fascista presenta aspetti nuovi a livello esteriore e formale (predilezione per il colore nero nelle uniformi e nei simboli del partito e delle organizzazioni da esso dipendenti; preparazione di scenografie originali per manifestazioni quali parate e cerimonie, ecc..). D’altra parte, che cosa si poteva ancora inventare in politica e in economia nel XX° secolo? Abbiamo affermato che Mussolini non fu un genio né in politica né in economia. In entrambi i campi egli ebbe indubbiamente delle intuizioni felici, ma soprattutto in politica estera, commise degli errori madornali, il più clamoroso dei quali fu l’alleanza con il III Reich di Hitler e la conseguente entrata in guerra dell’Italia a fianco dei Tedeschi il 10 giugno 1940. Il Duce fece un grande sbaglio perché sapeva che l’intervento militare degli Stati Uniti a fianco delle Potenze della Triplice Alleanza aveva cambiato il corso della Ia guerra mondiale. Inoltre il capo del fascismo era ben consapevole che “l’imperialismo del dollaro” (è una sua espressione) caratterizzava le relazioni economiche e commerciali fra i diversi continenti già negli anni trenta. A questo punto, stupisce il fatto che, prevedendo l’allargarsi della II guerra mondiale, egli non abbia immaginato che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti a fianco della Gran Bretagna e della Francia, modificando totalmente l’esito dell’ “immane conflitto”. In economia, i suoi errori non furono macroscopici. Limitiamoci comunque a menzionarne uno: la campagna del grano (1925). Complessivamente, essa fu positiva perché dimostrò l’impegno morale, civile ed economico degli 57 Italiani, che si sentirono coinvolti “come popolo” contro i secolari problemi della povertà e della sottoalimentazione. Ma qualche economista sostenne, probabilmente a ragione, che in alcune terre della penisola si potevano coltivare altri cereali in alternativa al grano, che avrebbero economicamente reso di più. Occupiamoci ora del criterio cronologico, che abbiamo tratteggiato prima, per inquadrare la vita di Mussolini. Schematicamente, possiamo individuare in quattro periodi: 1) periodo socialista (1900 – 1914) 2) Interventismo e fasci di combattimento (1914 – 1922) 3) Ventennio (1922 – 1942) 4) Repubblica Sociale Italiana (1943 – 1945) Nel periodo marxista, Mussolini crede nel marxismo e combatte tenacemente per la causa dei lavoratori. Durante gli anni dell’Interventismo (1914 – 1918), la sua fede nel socialismo comincia a vacillare. I fasci di combattimento (1919 – 1922) vedono il futuro Duce schierato a sinistra nel campo sociale (lotta al capitalismo), e a destra nei rapporti internazionali (nazionalismo in politica estera). Nel Ventennio, il Partito Nazionale Fascista (P.N.F.) manifesta apertamente il suo volto di ideologia di destra (difesa della proprietà privata, tutela del capitale, adozione del sistema corporativo, politica estera ispirata ai principi del nazionalismo e dell’imperialismo). Nei seicento giorni della Repubblica Sociale Italiana, Mussolini elabora la teoria del fascismo repubblicano basandosi sul nazionalismo, e puntando sui programmi di socializzazione per riconquistare le masse. Inoltre, egli ritorna a coltivare gli ideali repubblicani, che avevano contrassegnato il periodo dei fasci di combattimento. Dopo questa sintetica esposizione dell’opera del Duce, possiamo chiederci: hanno ragione gli storici di sinistra quando ripetono che il pensiero e l’azione di Mussolini sono un coacervo di contraddizioni irrisolte? Noi siamo del parere che essi esprimano un giudizio discutibile. La nostra opinione 58 è che la personalità del Duce, pur essendo ricca di contraddizioni, tentennamenti ed esitazioni, sia ben riassunta nei suoi tratti essenziali dal titolo di una sua raccolta di scritti e discorsi: “Dal socialismo alla Nazione” (1914 – 1915). Approdando alla Nazione (intesa in senso etnico), Mussolini compie un salto politico e sociale, spirituale e culturale. Il giovane Mussolini è un rivoluzionario, ma “il più maturo Benito” crede nell’individualismo, abbraccia la teoria del superuomo e si converte al nazionalismo. Nel periodo socialista, il giovane rivoluzionario lotta per l’eguaglianza fra gli uomini e per la parità fra le Nazioni. Nella teoria del superuomo e nel nazionalismo, invece, “il più maturo Benito” scopre la diversità, rispettivamente, fra gli uomini e fra le Nazioni. Nella diversità, il miglior individuo o la migliore Nazione si distingue ed emerge. In sintesi, il fascista o la Nazione fascista dialoga e si confronta con tutti, ma non si confonde con nessuno. Da un punto di vista spirituale, agli anni convulsi del periodo socialista, marcati da forti dubbi esistenziali e da critiche profonde alla Chiesa cattolica come Istituzione, segue il periodo fascista della ricerca della verità, della fede e di un buon rapporto con la Curia Romana. Questo lungo e sofferto periodo di crisi spirituale si risolverà a livello sociale con la stipulazione dei Patti Lateranensi (1929), e a livello personale con la conversione degli anni 1943 – 1944. Mussolini riesce a coniugare armoniosamente l’idea di Nazione con quella di “conquista”. Infatti, l’individuo ricerca ed acquisisce il benessere materiale e l’equilibrio spirituale; la Nazione rivendica uno spazio, non necessariamente geo – politico: può trattarsi anche, in senso lato, di uno “spazio di Civiltà”. Facciamo degli esempi: riscoperta della Civiltà romana; valorizzazione dell’identità della Nazione attraverso la riscoperta delle proprie radici; realizzazione di “imprese gloriose” come le trasvolate oceaniche di Italo Balbo. L’idea di conquista che permea il fascismo è ben espressa da alcune battute, e dal loro semplice accompagnamento musicale, della “canzone dei sommergibilisti”, che riportiamo in parte: 59 rapido ed invisibile passa il sommergibile ………………… è così che vive il marinar nel profondo cuor, nel sonante mar, del nemico e dell’avversità …………………… La lotta del fascista si svolge su “due fronti”: “nel profondo cuor”; egli combatte dentro di sé per raggiungere l’equilibrio interno, cercando di armonizzare la passione con la ragione, la natura con la cultura, la carne con lo spirito; “nel sonante mar”, affrontando a viso aperto il nemico e l’avversità. Questo “spirito di conquista” del fascista è riecheggiato da alcune battute della sigla della trasmissione televisiva “Fascisti su Marte” (2002): siamo incredibili siam sommergibili siamo gli ignifughi gli irrevocabili conquistador del sangue con onor ed anche a questi alieni le reni spezzerem fascisti su Marte, pianeta rosso aspetta che veniam da te, fascisti su Marte, noi ti daremo al nostro Duce al nostro Re Se nel periodo della Repubblica Sociale Italiana il Duce metterà l’enfasi sui progetti di socializzazione, ciò non vuol dire che egli ritorni al fascismo delle origini, considerato, globalmente, di sinistra. I suoi programmi di socializzazione non sono di matrice marxista ma “nazionale”: infatti, gli interessi dei lavoratori sono sempre subordinati a quelli della Nazione nel suo complesso. In sostanza, Mussolini rimane fascista sempre, fino in fondo e fino alla fine perché non rinuncerà mai all’idea dell’Italia come Nazione e come Potenza. La sua concezione di Nazione, 60 ispirata al modello della Civiltà romana, non è in contrasto con la fede cattolica alla quale egli perviene dopo aver percorso un itinerario irto di difficoltà. In effetti, il Duce è convinto che solo l’equilibrio fra le grandi Potenze, anche se di segno politico opposto, può garantire al mondo una pace duratura ed il graduale progresso dell’umanità. 2) I tre volti del fascismo ed il mito del capo Dalla lettura del libro di Ernst Nolte “Il fascismo nella sua epoca”, risulta evidente che ciascuno dei “tre volti del fascismo” (fascismo, nazismo, action française), ha una relazione strettissima col suo fondatore. In effetti, è difficile separare il fascismo dalla figura di Benito Mussolini, il nazismo da quella di Adolf Hitler, l’action française da quella di Charles Maurras (1868-1952). Tuttavia si deve ammettere che, quando il fascismo diventa un Regime, anche il suo capo può essere sostituito. In Italia, un gerarca fascista di rilievo poteva candidarsi alla successione del Duce dal 1927 (anno dell’emanazione della Carta del Lavoro). In Germania, Hitler, salito al potere nel 1933, nella seconda metà degli anni trenta poteva essere sostituito da un gerarca nazista di primo piano come, ad esempio, Goering. Il caso francese è più complesso perché l’action française – movimento di estrema destra con tendenze monarchiche – si ritaglia un effettivo spazio politico solo durante il periodo dell’occupazione tedesca della Francia e del conseguente insediamento della Repubblica di Vichy (1940-1944). Comunque, è certo che il governo presieduto dal Maresciallo Henri philippe Pètain (1856-1951), “capo dello stato francese sotto il presidio tedesco”, poteva governare anche senza la collaborazione dei membri dell’action française. Sulla figura del capo nei regimi fascisti, la riflessione di Ernst Nolte presenta dei punti di contatto con quella di George Mosse (1918-1999), uno studioso tedesco del nazismo. Infatti, entrambi gli storici osservano che in un regime fascista il capo 61 è una figura esemplare per eccellenza, un superuomo dotato di virtù che sono una prerogativa della Nazione che egli rappresenta; ma il capo possiede queste virtù al massimo grado, unitamente a un potere carismatico che lo innalza su un piedistallo, sopra tutti e tutto. Inoltre, i due studiosi soprammenzionati rilevano che fra il capo e la Nazione (intesa in senso etnico e culturale), si crea una sorta di rapporto circolare basato sulla solidarietà reciproca, totale, cieca, indiscutibile, quasi di natura religiosa e pertanto, in ultima analisi, “mitica”. In sostanza, il capo ordina e la Nazione ubbidisce, ma il presupposto di questa ubbidienza assiomatica è che il capo deve interpretare le aspirazioni della Nazione e, nel portarle a compimento, deve sentirsi “il condottiero” della stessa, usando gli strumenti politici, diplomatici e militari che si addicono all’altezza del suo ingegno. Ora è lecito chiedersi: che cosa ha causato la nascita di questo rapporto “mitico”? Prima di rispondere al quesito, è indispensabile tracciare una breve storia del concetto di Nazione nell’età moderna. L’idea di nazione in senso politico, cioè intesa come un popolo che vive su un dato territorio, che ha una propria identità politica e culturale da difendere, nasce durante la Rivoluzione francese. La Francia, di fronte all’Austria e agli Stati tedeschi che le hanno dichiarato guerra, si sente una Nazione in armi e, per difendere la propria Rivoluzione, mobilita un forte e numeroso esercito facendo ricorso, fra l’altro, alla “leva in massa” (agosto 1793). Nella seconda metà dell’Ottocento, negli ambienti politici e culturali conservatori di alcuni Paesi europei quali la Francia e la Germania, il concetto di Nazione accentua la sua connotazione etnica e razziale, enfatizzando le affinità di natura biologica che uniscono i membri di una stessa Nazione. Questa rielaborazione concettuale è dovuta soprattutto a due motivi: 1°) i possedimenti coloniali; 2°) la rivoluzione industriale. 62 Il confronto con le popolazioni locali nelle Colonie africane ed asiatiche rende gli Europei consapevoli di avere una cultura diversa, che si fonda anche sul fatto di appartenere alla razza bianca. Riguardo al secondo motivo, è noto che, a partire dalla IIa metà del Settecento, la rivoluzione agricola, concentrando gran parte delle terre nelle mani della borghesia agraria, costringe le masse dei contadini ad emigrare nei nuovi centri urbani alla ricerca di lavoro. Questi flussi di disperati diventano manodopera a basso costo per le nascenti industrie. Affrontando il tema dello sfruttamento delle masse di proletari che lavorano nelle fabbriche, il Conte Alexis de Tocqueville (1805-1859) scrive che l’aristocrazia del denaro è una delle più dure che sia mai apparsa sulla terra. In sintesi, il popolo che abitava nelle città, per reagire alle durissime condizioni di lavoro e di vita, poteva scegliere una di queste quattro possibilità: 1°) ritornare nelle campagne; 2°) emigrare in America; 3°) lottare per la causa marxista; 4°)aderire ai movimenti nazionalisti. Analizziamo brevemente queste alternative. E’ sicuro che la borghesia agraria non intendeva concedere nulla ai contadini. Di conseguenza, ritornare nelle campagne significava fare nuovamente la fame. Emigrare in America era possibile. Il nuovo continente aveva già accolto numerosi emigranti europei, ma verso la fine dell’Ottocento, Paesi come gli Stati Uniti cercavano di regolare i flussi migratori imponendo delle quote d’ingresso. Riguardo la terza possibilità, lottare per il socialismo divenne una sorta di imperativo per la maggior parte “degli sfruttati e degli oppressi”. Infatti, le masse urbane vedevano nella teoria marxista, finalizzata all’abolizione delle classi sociali, una sorta di affrancamento globale da condizioni di vita e di lavoro inaccettabili ed ingrate. 63 Relativamente alla quarta possibilità, i capi dei movimenti nazionalisti si prefiggevano di orientare le masse verso i loro partiti, che offrivano una sorta di alternativa totale (cioè politica e culturale) al marxismo ed al liberalismo. La situazione politico-sociale dell’Italia a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è ben commentata dal già citato Manuale di Storia contemporanea di Giardina Sabatucci Viadotto:” allontanatosi il trauma delle prime e sfortunate imprese africane, molti uomini politici e intellettuali cominciavano a chiedersi perché l’Italia dovesse rassegnarsi ad un destino di Potenza di secondo rango, perché tanti lavoratori italiani fossero costretti a emigrare in cerca di lavoro nei Paesi più ricchi anziché impegnare le loro energie al servizio della grandezza nazionale. Ebbe allora notevole fortuna la teoria formulata dallo scrittore Enrico Corradini, secondo cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi all’interno di un singolo Paese, ma quello fra Paesi ricchi e Paesi poveri, fra “Nazioni capitalistiche” e “Nazioni proletarie” (ossia dotate di una popolazione in eccedenza rispetto alle risorse economiche). Applicata all’Italia, questa teoria portava a una contrapposizione nei confronti delle democrazie occidentali e, sul piano interno, al tentativo di contenere i conflitti sociali indirizzando la spinta delle masse verso obiettivi imperiali”. In questa prospettiva, limitiamoci a ricordare che: 1°) l’associazione nazionalista italiana nasce alla fine del 1910; 2°) la conquista della Libia, intrapresa dal governo Giolitti, avviene nel 1912; 3°) i nazionalisti italiani si dichiarano favorevoli all’intervento dell’Italia nella Ia guerra mondiale. Con la fine dello spaventoso conflitto, l’Italia completa l’unità territoriale con l’acquisizione del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia, anche se rimane aperta la questione di Fiume e della Dalmazia. Sergio Romano, giornalista e scrittore, afferma che la Ia guerra mondiale è la madre di tutte 64 le guerre. In effetti, diversi movimenti nazionalisti si fortificano in Europa negli anni venti. Sul terreno della Nazione, il fascismo, il nazismo e l’action française costruiscono il loro “spazio vitale”. Il nazionalismo del primo dopoguerra deve affrontare due “pericoli”: 1°) l’evoluzione del marxismo, che rappresenta il “nemico interno”; 2°) la minaccia, presunta o reale, degli Stati confinanti, che rappresenta il “nemico esterno”. Prima di confrontarsi con entrambi i “nemici”, la Nazione deve prendere piena coscienza di se stessa anche attraverso la riscoperta delle proprie radici remote, mitiche oppure gloriose. In Germania, i nazisti guardano con ammirazione mista a rimpianto all’epopea dei Nibelunghi. In Italia, i nazionalisti e i fascisti si ripromettono di valorizzare la Civiltà romana e il periodo del Risorgimento. Scendendo nel campo concreto della lotta politica, per orientare le masse a destra, il nazionalismo deve anzitutto proporre un’efficace alternativa economico-sociale per sbarrare la strada al comunismo. In ordine di tempo, il fascismo italiano è il primo dei fascismi che teorizza il sistema corporativo per inquadrare organicamente l’intera società italiana. Mussolini si fregia spesso dei suoi programmi corporativi, che permettono al fascismo di passare alla Storia come la “terza via”. La “Nazione fascista”, forte della sua alternativa corporativista, può misurarsi con i propri oppositori interni e, con la forza, può anche mirare a sopprimerli. All’estero, essa impiega tutte le sue energie nello sfruttamento dei propri possedimenti coloniali. La “Nazione fascista” si diversifica dalle altre Nazioni, ma il criterio della differenza vale anche al proprio interno: i capi militari e civili devono possedere delle capacità di comando e requisiti di altro genere. Visto che la Nazione tende ad esaltare le proprie radici mitiche, ne consegue che anche il capo deve essere una figura 65 mitica. Se il capo con le sue somme virtù e col suo carisma”divino” lega se stesso alla Nazione, si instaura un rapporto di circolarità fondato sulla solidarietà reciproca, totale e indiscutibile. Questa specie di relazione circolare rende il dittatore fascista una figura diversa sia dal despota orientale sia dal dittatore di tipo “tradizionale”. Abusando del suo potere illimitato, il despota orientale crea un divario insuperabile fra se ed il popolo sottomesso, e finisce per renderselo nemico. Il dittatore di stampo tradizionale ha pieni poteri, ma rappresenta di solito gli interessi particolari di una classe o “casta sociale” come ad esempio l’alta borghesia oppure i militari. Ed a tale classe o “casta sociale” il dittatore deve in qualche modo “rendere conto”. Invece, il dittatore fascista si lega totalmente alla Nazione con un rapporto circolare di natura mitica che soddisfa sia il capo sia la Nazione. Nel caso di una guerra vittoriosa, la Nazione lo porterà in trionfo; nel caso di una sconfitta militare che prostri la Nazione, il capo fascista è destinato a perire. 3) Il mito uno e trino di Mussolini Si è già notato che la figura del Duce comincia ad assumere una dimensione mitica a partire dal 1927, anno dell’emanazione della Carta del lavoro. Infatti, con la promulgazione di questo documento, il fascismo diventa un Regime, cioè un sistema, che ruota attorno al suo fondatore. Partendo dall’ipotesi della dimensione mitica di Mussolini (cosa che ci prefiggiamo di dimostrare), possiamo elaborare uno schema di periodizzazione del mito stesso: - il Ventennio (1922-1942); - la Repubblica Sociale Italiana (1943-1945); - l’Italia post-fascista (dal 1946 fino ai nostri giorni). Occupiamoci anzitutto del Ventennio ponendoci la seguente domanda: quali aspetti della personalità del Duce e quali periodi della sua vita si tingono di colorazioni mitiche? Per 66 rispondere al quesito, ci può illuminare la testimonianza dello scrittore ebreo di cultura tedesca Emil Ludwig (1881-1948). Nelle prime pagine del libro “Colloqui con Mussolini” (1932), egli scrive:” primo incontro. Sin dal primo momento riconobbi in Mussolini un uomo d’eccezione (…). Nel dialogo l’uomo si palesa in modo più naturale, soprattutto se è privo d’affettazione, come Mussolini, la cui caricatura resta sulla coscienza dei fotografi”. Emil Ludwig non è certamente il solo a credere che il Duce sia un uomo eccezionale. In effetti, la sua opinione è condivisa da altri scrittori, giornalisti, uomini politici e membri del Clero, fino ad arrivare alla gente comune. Ma quali impressioni suscita nel popolo il capo del fascismo? Se ne fa interprete, forse, lo scrittore Vitaliano Brancati (1907-1954), quando scrive:” [Mussolini] si presenta come il monolite. Tutto un pezzo: ma se tal pezzo si trova in una sala, la sala pare gli giri intorno; se si trova in mezzo a una folla, la folla gli rigurgita e bolle intorno; se si trova in mezzo a un popolo, il popolo gli fa cerchio, si dispone a piramide e lo accetta spontaneamente per vertice”. Sul corpo, sull’espressione del volto, sullo sguardo, sulla mimica, sulla gestualità e sull’oratoria del Duce le “interpretazioni” della gente comune e degli intellettuali sono diverse e a volte diametralmente opposte, a seconda dei sentimenti di simpatia o di antipatia, di amore o di odio che Mussolini ispira, appunto, al popolo e agli intellettuali. Ad esempio, i fascisti sottolineano spesso l’espressione bonaria e quasi fanciullesca del volto del Duce, col suo sorriso aperto. Negli atteggiamenti duri e severi di Mussolini, i suoi seguaci riconoscono l’espressione colma di preoccupazione del “padre di famiglia” che, diventato ormai “padre della patria”, s’indurisce nei suoi tratti e nei suoi atteggiamenti solo per il bene che nutre verso i suoi figli, cioè gli Italiani. Per gli antifascisti, il volto di Mussolini – con la sua fronte romana, gli occhi magnetici, le mascelle quadre, il cranio “tipo panzer” – diventa sovente motivo di sarcasmo anche nei loro giornali clandestini, che contengono disegni umoristici 67 aventi come soggetto le personalità del Regime. Gli antifascisti sono convinti che il portamento, la mimica, l’oratoria e la gestualità del Duce, esibiti nelle cerimonie e nei discorsi, rivelino più le sue doti di attore provetto che il suo talento di statista. Noi siamo dell’opinione che – più che dal corpo, dal portamento, dall’espressione del volto, dallo sguardo, dalla mimica, dalla gestualità, dalla voce e dall’oratoria, il mito di Mussolini nasca da una sorta di processo di fusione fra la sua personalità e la sua opera. Tale processo può essere raggruppato schematicamente per argomenti: 1°) il Duce padre di famiglia e padre della patria; 2°) Mussolini: un uomo come una favola; 3°) teatralità del fascismo e della vita pubblica; 4°) romanizzazione dell’Italia, conquista dell’Impero etiopico e abolizione della schiavitù nelle colonie; 5°) Mussolini difensore del Cattolicesimo, della religione cristiana, dei buoni costumi e “spada dell’Islam”. Relativamente al primo argomento, è noto che Mussolini fu un buon padre di famiglia. Nei primi anni di matrimonio, Benito mantiene la famiglia con il suo lavoro di giornalista e con i suoi incarichi retribuiti presso le Camere del lavoro. In seguito, insieme con la moglie Rachele, educa i figli secondo gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Nonostante le ripetute infedeltà coniugali, il “Maestro di Predappio” si preoccupa sempre della famiglia. Da parte sua, Rachele Guidi è moglie e madre esemplare, fino alla fine dei suoi giorni. Nel secondo dopoguerra, facendo affidamento sul conforto della religione e della fede, Rachele attende serena la restituzione della salma del marito, che avviene nell’agosto del 1957 a Predappio di Forlì, luogo in cui la famiglia Mussolini finalmente può dare ai poveri resti del Duce una degna sepoltura. Durante i primi mesi del 1957, alla notizia ufficiale della prossima restituzione della salma, Rachele si mette a ricamare il lenzuolo funebre per Benito, richiamando 68 alla mente con quel gesto il tempo in cui Penelope attendeva il ritorno di Ulisse alla “petrosa Itaca”. Durante la Ia guerra mondiale, il bersagliere Benito Mussolini – che si arruola volontario – è ferito gravemente durante un’esercitazione al fronte. Il suo sacrificio per la vittoria lo mette sulla strada che lo farà diventare “ padre della patria”: nel 1922 con la Marcia su Roma, egli “salva la patria dal comunismo”. Nel 1925, effettua il colpo di stato “per il Re e per la patria”. Con la stipulazione dei Patti Lateranensi del 1929, il motto “ Dio – Patria – Famiglia” diventa un trinomio inscindibile per la maggior parte degli Italiani. Con la “conquista dell’Etiopia” del 1936, il Duce dà alla patria un Impero. In breve, a partire da quell’anno gli Italiani non devono preoccuparsi di niente, se non di ubbidire: al resto ci pensa lui. In quel periodo il Duce si conferisce la carica di “Maresciallo dell’Impero”, forse per confermarsi nella convinzione di essere ormai il “padre della patria”. Veniamo ora al secondo argomento. E’ palese che nel mondo dell’infanzia la vita di Mussolini diventa presto una “favola bella”: i suoi ritratti, assieme al Crocifisso, adornano le aule delle scuole italiane durante il Ventennio. Relativamente all’educazione dei bambini nell’Italia fascista, riteniamo utile segnalare il libro “Una favola vera” di F. Hardouin, Milano, 1933. Si tratta di una biografia agiografica del Duce, adattata sotto forma di favola per l’infanzia. Riportiamo qui di seguito alcune parti della “favola vera” per cercare d’immaginare quali impressioni potesse suscitare nei bambini, che erano soprannominati “figli della lupa” e inquadrati ne “l’Opera Nazionale Balilla”: “C’era una volta a Predappio, paesello della fertile terra di Romagna, una famiglia che viveva assai modestamente ….. il 29 luglio del 1833 ricorreva la festa del Patrono della parrocchia e le campane suonavano a distesa. Nacque nella famiglia del fabbro un bambino; lo chiamarono Benito. Crebbe all’aria pura dei campi e trascorse i suoi primi anni andando a caccia di nidi e di frutta matura….. Ebbe un’infanzia triste e più 69 povera degli altri bambini del villaggio e triste ebbe pure la gioventù. Sin da ragazzetto dovette guadagnarsi la vita. A 19 anni divenne insegnante in un paesello sulle rive del Po e percepiva 50 lire al mese. Ma questa vita sedentaria e monotona non era fatta per lui. Lasciò la scuola, salutò i suoi allievi e l’ultimo giorno in classe diede loro da svolgere il compito: “Perseverando arrivi”. In verità egli non formò né un esercito, né un partito; in poco tempo come per incanto rivoluzionò e riformò la Nazione provando su tre solide basi le generazioni nuove: Religione Salute Forza ….. non lo vedremo mai ma si ha la sensazione che perfino l’aria che respiriamo è piena del suo fascino e della sua forza; e dalle capitali d’Europa e d’oltre Oceano si attende da Roma la parola del Duce”. La letteratura dell’infanzia del periodo del Ventennio è ricca di scritti apologetici di questo genere, che potrebbero essere ordinati in “raccolte”. In sostanza, i “figli della lupa” ricevono a scuola un’educazione fascista e cattolica che s’incentra sulla famiglia, sulle Istituzioni statali, sul Partito Nazionale Fascista (P.N.F.) e sulla Chiesa cattolica. Nell’ambito della famiglia, spicca la figura del padre. Al riguardo, noi azzardiamo dire che i bambini italiani hanno “tre padri”: il loro “padre vero”; Benito, padre esemplare della famiglia Mussolini e “padre della patria”; e infine il “Padre Celeste”, misteriosamente unito al Figlio e allo Spirito Santo nella “Famiglia Trinitaria”. Nell’approfondire il terzo argomento, cioè la teatralità del fascismo, anzitutto occorre tener presente una delle numerose definizioni del Regime fascista: “Il fascismo è il trionfo della retorica”. In effetti, la retorica e la teatralità accompagnano il corso della “Nuova Storia” diretto da Mussolini. A proposito della spettacolarizzazione del fascismo, l’intellettuale anarchico Camillo Berneri (1897 – 1937) scrive nel Ventennio una raccolta di brevi saggi ripubblicati a Pistoia nel 1983 col titolo: “Mussolini grande attore”. Una delle tesi della 70 raccolta è che nella scena politica italiana il Duce svolge contemporaneamente il ruolo di attore, autore, sceneggiatore e regista. Considerando l’Italia come un ampio palco teatrale e Mussolini come primo attore, il giornalista Luigi Barzini (1874 – 1947) scrive: “Ma lo spettacolo sarebbe stato nulla senza il suo primo attore. Assunse molte parti, o piuttosto una parte mutevole, sfaccettata, dai molti volti….. Era costretto a rinnovare il suo spettacolo continuamente…..” Secondo Luigi Barzini, Mussolini non si accontenta di fare l’attore, ma si dedica con passione anche alla regia: “Lo spettacolo più costoso che abbia mai visto. La regia era quasi impeccabile nel suo genere: stupende parate militari, riviste navali, saggi ginnici, fantasie di cavalieri arabi….. contro lo splendido scenario della natura italiana e delle antiche città gloriose”. Oltre l’articolo di Luigi Barzini, la raccolta di Camillo Berneri contiene, fra le altre, la testimonianza dell’intellettuale francese Henri Beraud, tratta dal suo libro “Ce Que j’ai vu à Rome”. Vale la pena di trascrivere alcune parti: “Mussolini è dovunque, in nome e in effige, in gesti e in parole – più ancora che Kemal in Turchia e più ancora di Lenin a Mosca. Apri un giornale qualunque: ecco riprodotto, commentato e celebrato un discorso “genialissimo” del Duce….. Un negozio: ci mostra il grand’uomo inquadrato da fiori e autografi….. Dopo sette anni di istantanee e di stereotipi, la profusione di questi ritratti è davvero incredibile. L’immagine del Duce fa parte dell’esistenza: essa domina tutte le circostanze della vita italiana. Non parlo soltanto degli atti pubblici: parlo della vita quotidiana, della vita della strada…..” Queste frasi richiamano alla mente un’espressione pronunciata da Jean Marie Le Pen, capo dell’estrema destra francese negli anni a cavallo fra la fine del XX° secolo e l’inizio del XXI°: “Il fascismo è un’ossessione italiana”. Noi precisiamo che l’ossessione s’incentra sulla figura di Mussolini. 71 Ritorniamo ora all’ipotesi di “Mussolini grande attore” per dire che noi la condividiamo soltanto in parte. Anche secondo il nostro parere il Duce aveva del talento per la recitazione, la sceneggiatura e la regia. Ma prima di sviluppare la nostra tesi in merito ai rapporti fra il “figlio del fabbro” e l’arte, riteniamo indispensabile citare la teoria del realismo cinematografico del critico francese Andrè Bazin, spiegata nel libro “Teoria del cinema” di Francesco Casetti, Milano, 2002. Il presupposto della teoria del realismo cinematografico di Andrè Bazin è che si crea una relazione strettissima fra la vita e il cinema. Esponendo il pensiero di Andrè Bazin, Francesco Casetti scrive: “ Il cinema aderisce al reale, e anzi partecipa alla sua esistenza….. se c’è un destino che il mezzo [cinematografico] insegue, è quello di sciogliersi nel mondo. Ancora, il principio cui il cinema ubbidisce diventa esplicito in tutte quelle situazioni che potremmo definire circolari, là dove una stretta connessione di realtà e immagine consente all’una di innescare l’altra, ma anche viceversa: i due poli interagiscono senza alcuna direzione obbligata. Si collocano qui le suggestive analisi baziniane di reportages di guerra….. Il cinema consente questa circolarità come nessun altro mezzo, e vi trova una delle proprie radici”. Esaminiamo adesso il “personaggio” Mussolini per approfondire la nostra tesi. E’ noto che il giovane rivoluzionario socialista coltiva le arti. Nominato segretario della Camera del lavoro di Trento nel 1909, Mussolini non dimentica la letteratura: sulla scrivania del suo ufficio, giornali rivoluzionari si sovrappongono a libri di letteratura e a un disegno dell’Inferno dantesco: l’arte e la vita procedono fianco a fianco nella vita del futuro Duce. Ritornato a Predappio nel 1910, basandosi sugli appunti presi alla Biblioteca di Trento, egli scrive il suo unico romanzo: “Claudia Particella. L’amante del Cardinale”. Si tratta di una vicenda ambientata nel Trentino del XVII° secolo, ai tempi degli Asburgo. Il giovane rivoluzionario è convinto di scrivere un romanzo storico, ma la critica lo ritiene, a ragione, un romanzo d’appendice. Comunque, quello che conta 72 sottolineare è la passione del futuro Duce per le belle lettere. Nonostante l’intensa e febbrile attività politica, sindacale e giornalistica, Mussolini si dedica quotidianamente alla scrittura, forse per tutta la sua vita. Noi ipotizziamo che negli anni trenta egli abbia scoperto le potenzialità del cinema non solo come mezzo per la propaganda politica, ma anche come arte per la riproduzione e spettacolarizzazione della vita. Come molti intellettuali dell’epoca, il Duce è affascinato dal fatto che il cinema è l’arte che più di tutte le altre si avvicina alla realtà: infatti l’immagine cinematografica, possedendo la dimensione spazio – temporale, riproduce totalmente il reale. Di qui nascono le teorie realiste: il cinema “insegue” la vita e quest’ultima si fa “accarezzare” dal cinema. Ciò innesca un rapporto di circolarità che lega strettamente vita e cinema e che probabilmente ammalia anche il capo del fascismo. In questa ottica circolare, Mussolini si rivela attore, autore, sceneggiatore e regista. Come attore, interpreta parti umili, anticipando forse i canoni di recitazione del neorealismo italiano: si fa riprendere nei panni del contadino che falcia il grano, del muratore che costruisce la casa, ecc. Ma può anche interpretare ruoli solenni di capo civile o militare durante le cerimonie civili o militari, e in queste vesti fa pensare ad un esperto attore americano. Per sintetizzare: secondo noi Mussolini è forse la più grande “star” del Ventennio, ma nel prendere le grandi decisioni militari non recita mai, perché crede che le sue ambizioni personali di natura “imperiale” coincidano con le aspirazioni del popolo italiano. Abbiamo già visto che l’Opera Omnia del fondatore del fascismo comprende numerose esternazioni, per non parlare di quei discorsi che hanno lo stesso valore delle esternazioni. Noi riteniamo che esse non alterino in alcun modo la sostanza del fascismo: fanno parte del personaggio Mussolini e della spettacolarizzazione delle cerimonie e manifestazioni pubbliche. Le esternazioni del Duce fanno nascere conversazioni, commenti e “dispute” nella vita pubblica e privata degli Italiani, nel mondo laico e in quello ecclesiastico: ne consegue che esse allontanano “l’attore” 73 Mussolini dalla realtà per proiettarlo nel mito. Cerchiamo di chiarire il concetto con un esempio: il Duce afferma: ” Chi non ha fatto la guerra, non è un uomo “. Interpretata alla lettera, l’espressione vuol dire appunto che per diventare veramente uomini, bisogna combattere. Ma il Duce voleva effettivamente significare questo? Se ci atteniamo a questa interpretazione, il francescano Padre Eusebio Zappaterreni – che durante il periodo del fascismo repubblicano lo confessa e lo induce a redigere una sorta di dichiarazione di fede – non è un uomo, perché non ha mai affrontato il nemico nel campo di battaglia. Noi crediamo che l’esternazione del capo del fascismo sia iperbolica e che significhi, invece, che la guerra è l’esperienza più dura che un uomo possa sopportare, e che, una volta superata, porti l’uomo a maturare pienamente. Se interpretata alla lettera, l’esternazione contraddice molti pensieri mussoliniani incentrati sul tema della pace. A nostro parere, lo scopo dell’esternazione è che si discuta sulla parola del Duce. Se il fascismo, oltrechè ideologia e cultura è anche cinema, teatro, spettacolo e retorica, Mussolini si eleva sopra tutto. Il Duce “modifica” la natura, scenario delle sue recite: nel Passo del Furlo, immerso nell’Appennino marchigiano, il profilo romano del Duce viene scavato nella roccia, per significare che egli è presente anche nella natura. Negli anni trenta, nelle campagne del Veneto, come ricorda una testimone dell’epoca, ora quasi novantenne, si intonava una canzone che recitava: “ Primavera delle genti torna a loro i suoi destini l’ha voluto Mussolini eja eja alalà ” A questo punto sorge spontanea una domanda, che può sembrare faceta : “è una prerogativa del Duce cambiare il corso delle stagioni?” 74 Per concludere, Mussolini vorrebbe fondere politica e cultura, arte e natura, realtà e spettacolo: ovviamente non riesce a perseguire totalmente i suoi obiettivi “titanici”, ma i risultati ottenuti in molti campi certamente concorrono a potenziare la sua dimensione mitica. Riferendoci al punto quattro, la Romanizzazione dell’Italia, ciò che contraddistingue il Partito Nazionale Fascista dagli altri movimenti politici, è l’interesse per la cultura romana e latina. Il fascismo affonda le sue radici nella Civiltà latina, ma accetta la profonda modifica dei valori religiosi, etici e politico-sociali apportata dal Cristianesimo nel mondo grecoromano. Infatti, pur paragonandosi direttamente o indirettamente ai grandi Imperatori romani, Mussolini riconosce che “Cristo è superiore a Cesare”. In un saggio dal titolo “ Mussolini e i Cesari” pubblicato a Milano nel 1933, l’autore, G. Vigano, paragona il Duce a ben diciassette Imperatori romani. Il testo in questione ben esemplifica la cosiddetta oleografia del Regime, che intende mettere in luce il profilo romano del fondatore del fascismo. Vigano annota nella sua premessa: “ Scrivo senza pretese, ma con fede nell’ uomo che rievoca, emula e supera la gloria dei Cesari, che crea una nuova epopea etica e sociale per l’era futura dei popoli “. Fra gli imperatori presi come termine di paragone, ricordiamo almeno i seguenti: - GIULIO CESARE (100-44 a.C.) - CESARE OTTAVIANO AUGUSTO (63 a.C.-14 d.C.) - VESPASIANO (9-79 d.C.) - COSTANTINO (274-337) - GIUSTINIANO (482-565) Senza dilungarci sugli accostamenti proposti dall’autore, ai fini della nostra dissertazione ci preme riportare questo passo: “ Titanico è lo sforzo che si sta compiendo nell’Agro Pontino, a pochi chilometri da Roma, ove era la palude, ora spuntano le spighe di grano, le poche capanne di paglia hanno ceduto il posto a moderne fattorie; ove razziavano zanzare e insetti, ora crescono e olezzano i fiori… 75 Come i Cesari davano ai loro veterani la terra ai reduci di guerra… Fra pochi anni centomila persone potranno trovare pane e lavoro sul terreno bonificato…” Dunque, nell’assegnare le terre ai reduci della Ia guerra mondiale, il Duce prosegue l’opera degli Imperatori romani, volta al conseguimento del benessere dello Stato e dei cittadini. Nel biennio 1935 – ’36, con la guerra all’Etiopia Mussolini conquista “un posto al sole” per l’Italia, riproponendo con la forza alla Comunità internazionale il modello della Civiltà romana. In un precedente capitolo abbiamo parlato diffusamente della IIa guerra italo – etiopica (1935 – ’36), che può essere vista come una ripresa della Ia guerra etiopica (1894 – ’96); quest’ultimo conflitto si era concluso con la nostra sconfitta. La IIa guerra italo – etiopica si risolse sostanzialmente a nostro favore con la vittoria riportata ai laghi Ascianghi (aprile 1936). Ma al di là della vittoria militare, occorre sottolineare lo spirito del colonialismo italiano. Nel libro “Le guerre dimenticate di Mussolini”, Giovanni Artieri, coglie nella sua essenza “l’imperialismo italiano”, che si basava sui fondamenti e sui valori della Civiltà romana: “La battaglia dell’Ascianghi aveva spalancato alle nostre truppe, alle centurie di lavoratori civili (che andavano schiudendo un meraviglioso ventaglio di strade carrozzabili, verso il sud) il paradiso di un’altra Etiopia, non più ferrigna, vermiglia, dentata; ma verde e feconda …… Il concetto vittoriano delle guerre coloniali inglesi veniva rovesciato: l’uomo bianco non si asteneva più, di fronte ai non bianchi, dalla fatica manuale affermando così una preminenza morale e razziale. Non più: l’Italiano, al contrario, conquistava questo prestigio lavorando dove era inconcepibile lavorare; seminudo, bevendo pochissima acqua, mangiando come poteva, riposando lo stretto necessario; gesta che agli occhi dei non bianchi valevano quanto qualunque vittoria in guerra”. 76 In sostanza, il colonialismo italiano consiste in questo: da una parte i reparti militari per combattere le truppe indigene; dall’altra le centurie civili per costruire nei territori conquistati. Certo, anche il colonialismo italiano mostra il suo “braccio violento” nella sedizione delle ribellioni degli indigeni; ma il giudicarlo solo in relazione a questo aspetto – come fanno alcuni storici – appare limitato e riduttivo. Per completare la breve esposizione delle nostre imprese nell’Africa orientale, è d’obbligo ricordare che Mussolini abolisce la schiavitù in Etiopia: man mano che le truppe italiane conquistano il territorio, gli schiavi delle fattorie vengono liberati. Sempre a proposito della schiavitù nelle Colonie, è interessante trascrivere un commento di Paolo Alatri, tratto dalla citata biografia tascabile di Mussolini: “Nel 1926 Mussolini stesso, come si è accennato, si recò in Libia, con due corazzate e quindici navi da guerra; ma questa esibizione di forza non fece che acuire il ribellismo arabo, sicché la Colonia divenne teatro di una guerriglia permanente, nonostante il fatto che nelle Colonie (Libia, Somalia ed Eritrea) il governo fascista avesse profuso molto denaro e avesse lottato contro le epidemie e la schiavitù”. Per quanto riguarda l’ultimo argomento, cioè i rapporti fra Mussolini e la religione, abbiamo sufficientemente parlato dei “Patti Lateranensi” del 1929 nei capitoli precedenti. Con tale accordo nasce lo Stato della Città del Vaticano, ed il Regime fascista si impegna a concedere un ampio spazio religioso e culturale alla Chiesa cattolica nel territorio nazionale e nelle Colonie. Restando sul tema della religione, dobbiamo ricordare che il governo fascista rispetta i culti delle diverse Chiese protestanti operanti in Italia e che queste accettano “senza entusiasmo” il Regime fascista. Mussolini può essere considerato anche il difensore del Cattolicesimo in Spagna. Giovanni Artieri - inviato speciale de “La Stampa” di Torino prima in Etiopia poi in Spagna - sostiene che l’aiuto militare 77 italiano fu determinante nel decidere la sorte della guerra: grazie all’intervento di alcuni reparti italiani, i falangisti vinsero diverse battaglie importanti contro le “brigate internazionali” e le forze della sinistra spagnola; ed è noto che i falangisti, guidati dal Generalissimo Franco, erano il baluardo della Chiesa cattolica spagnola. Durante il Ventennio, in Italia la difesa del Cristianesimo si affianca a quella dei “buoni costumi”, effettuata tramite l’emanazione e l’applicazione di leggi severe a tutela, appunto, degli stessi. Oltre che difensore del Cattolicesimo, Mussolini si compiaceva di essere la “spada dell’Islam”. Il Duce credeva che nell’Africa del nord e nel Medio Oriente fosse giunta “l’ora dell’Islam”, che si sarebbe rivelata fatale per il colonialismo francese e inglese. Al proposito, ci preme riportare alcune parti di un articolo di Sergio Romano che s’intitola “Da Mussolini ad Andreotti la scelta araba dell’Italia”, pubblicato sul “Corriere della Sera” del 04/11/2001: “Più tardi la Libia divenne la nostra quarta sponda e il palcoscenico su cui il Regime mandò in scena la sua politica filo – araba. Governatore dal 1933, Italo Balbo sviluppò Tripoli e Bengasi, costruì una grande strada costiera e numerosi villaggi, organizzò due grandi insediamenti composti prevalentemente da contadini della Valle Padana. Il “clou” del suo governatorato fu una sorta di “sposalizio” dell’Italia con l’Islam in occasione della visita di Mussolini nel marzo del 1937. La cerimonia ebbe luogo nella Valle di Bugara alla presenza di duemila cavalieri arabi, fra inni di guerra e rulli di tamburo. Uno di essi si staccò dal gruppo e consegnò al capo del fascismo una spada d’oro intarsiato che Mussolini, come scrisse il “Popolo d’Italia”, “snudò” e “alzò fieramente puntata verso il sole”. Più tardi, dal castello di Tripoli, disse che l’Italia avrebbe rispettato le leggi del Profeta e promise che avrebbe dimostrato la “sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero”. La promessa fu in parte 78 mantenuta. I Libici ebbero una speciale cittadinanza e le truppe musulmane dell’esercito italiano (fra cui in particolare i carabinieri) godettero di un regolamento che rispettava le loro prescrizioni dietetiche. Erano gli anni in cui l’Italia cercava di scalzare il dominio anglo – francese in Africa del nord ……”. 4) I seicento giorni della Repubblica Sociale Italiana: la figura di Mussolini fra simboli, miti e realtà. Durante il periodo del fascismo repubblicano, l’Italia centro – settentrionale diventa un campo di battaglia tra le forze dell’Asse e gli eserciti alleati. La guerra si sviluppa dapprima lungo il fronte della linea Gustav, e in seguito, dopo il suo sfondamento, su quello della linea gotica. In un clima caratterizzato dall’odio, da episodi di violenza atroce e dalla guerra civile tra repubblichini e partigiani, la popolazione italiana è ridotta alla fame e sopporta durissime condizioni di vita. Tuttavia, anche in questo periodo tormentato gli Italiani continuano a coltivare le loro facoltà mitopoietiche e a dedicarsi alla creazione e alla distruzione di simboli. Nel tragico contesto della guerra civile, la figura del Duce assume nuove connotazioni simboliche e mitiche. Occupiamoci anzitutto delle valenze simboliche. Per i fascisti repubblicani, Mussolini diventa il simbolo della fedeltà e della continuità ideale e politica: al fascismo e all’Italia quale Nazione aderente al “Patto Tripartito” che unisce indissolubilmente in un “destino comune” il III° Reich, il Giappone e la Repubblica Sociale Italiana. I partigiani invece considerano Mussolini, ora più che mai, un Tiranno spietato, sanguinario e al servizio dei nazisti: secondo l’ottica antifascista, bisogna eliminare il Duce alla prima occasione propizia. Mussolini accetta l’incarico di guidare la Repubblica Sociale italiana nell’autunno del 1943, quando le sorti del conflitto volgono indiscutibilmente a favore degli Alleati. Pertanto, per i fascisti repubblicani egli diventa il 79 simbolo del coraggio e dell’audacia in quanto tali, indipendentemente cioè dall’esito del conflitto. I partigiani immaginano che il capo del fascismo trascorra i suoi giorni sul lago di Garda deliziandosi nei piaceri della buona tavola in compagnia dell’amante e dei gerarchi che gli sono rimasti fedeli. Nei ritagli di tempo fra una conversazione e l’altra e fra il pranzo e la cena, Mussolini prepara dei discorsi bellici per le camice nere arruolate nella Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R) e per i militari degli altri reparti dell’esercito repubblicano. I partigiani riassumono questi discorsi improntati alla retorica con l’espressione sarcastica: “Armiamoci e partite!”. Pertanto, agli occhi dei membri della resistenza, Mussolini è il simbolo della codardia e della viltà. Per quanto riguarda gli aspetti mitici della figura del Duce nel biennio repubblicano, precisiamo anzitutto che essi sono positivi nel campo fascista e negativi in quello antifascista. In primo luogo affrontiamo due paralleli positivi, che sono fra l’altro confermati da alcuni accenni del Duce stesso, contenuti nell’Opera Omnia. I repubblichini lo paragonano a Giulio Cesare (100 – 44 a.C.) e a Napoleone Bonaparte (1769 – 1821). L’accostamento fra Cesare e Mussolini era già stato proposto nel Ventennio, in particolare dalla letteratura agiografica del Regime. Tuttavia, nei seicento giorni della Repubblica Sociale Italiana, il paragone assume una colorazione fortemente realistica e drammatica: come Giulio Cesare fu tradito e pugnalato nel Senato romano da Marco Giunio Bruto e dai suoi amici durante le “idi di marzo” del 44 a.C., così Benito Mussolini fu “tradito” e “destituito” da Dino Grandi e dagli altri “congiurati” durante la riunione del Gran Consiglio del fascismo nella notte del 24 luglio 1943. Nell’ottica fascista il parallelo è certamente valido, soprattutto se si tiene presente che in ultima analisi, l’indecoroso spettacolo di Piazzale Loreto è la logica conseguenza del “tradimento” del 25 luglio 1943. la tesi del “tradimento” dei gerarchi, che causò la nascita “dell’Italia badogliana” fu sostenuta calorosamente dalla gran parte della storiografia 80 neofascista. Fra le eccezioni, merita citare l’opinione di Giovanni Artieri. Nel libro “Le guerre dimenticate di Mussolini”, l’autore accetta l’accostamento fra Cesare e Mussolini, ma non condivide l’ipotesi del “tradimento”. Lo scrittore summenzionato vuole mettere in luce la “complessità” dei rapporti politici e militari che traspariva, affiorava o si celava negli interventi dei gerarchi; i quali discussero l’ordine del giorno Grandi fino a notte inoltrata. Anziché esprimere un giudizio di natura morale sui “congiurati”, Giovanni Artieri preferisce richiamarsi al messaggio contenuto nell’opera teatrale “Julius Caesar” di William Shakespeare. Ecco che cosa scrive in proposito lo scrittore di destra succitato: “Il 25 luglio 1943, per esempio, (Mussolini) è abbattuto da una votazione democratica che lo mette in minoranza per 19 voti contro 7 e 1 astenuto. Diremo più avanti che non ci troviamo di fronte ad una congiura di traditori che lo elimina. Sono i suoi antichi luogotenenti, discepoli, amici (Grandi, Bottai, Federzoni, De Stefani, ecc..). Costoro possono dire, come Bruto nella tragedia di Shakespeare, di averlo atterrato NOT THAT I LOVED CAESAR LESS, BUT I LOV’D ROME MORE: “Non perché lo amavo di meno, ma perché amai Roma più di lui”. Roma, l’Italia: possiamo chiederci se, ancora oggi, la vita e il dramma di Mussolini sarebbero possibili?” Per sintetizzare la riflessione di Giovanni Artieri, diremo che i gerarchi, soffocando gli affetti e i sentimenti che li legavano al Duce da molto tempo, dovevano sacrificarlo per “salvare l’Italia”, senza ulteriori indugi. Anche il secondo accostamento: NAPOLEONE – MUSSOLINI, era già stato proposto nel Ventennio. Il Duce stesso si era compiaciuto di paragonarsi al “Piccolo Caporale”, al quale fu offerta la corona imperiale dal Pontefice Pio VII° a Parigi nel 1804 . Durante il Ventennio, il parallelo era stato visto sul versante della positività perché la “stella di Mussolini” brillava alta nel cielo. In effetti, come Napoleone voleva imporre il modello politico e istituzionale della Francia rivoluzionaria all’Europa, così Mussolini 81 intendeva instaurare col “bastone e la carota” l’epopea del fascismo nell’Europa mediterranea. Come la Francia rivoluzionaria ambiva ad estendere il suo Impero coloniale (la conquista dell’Egitto risale al 1798 e la sua restituzione ai Turchi data del 1802). Così l’Italia “proletaria e fascista” mirava ad ampliare i suoi domini coloniali con l’impresa etiopica degli anni 1935 – ’36. Anche il nemico era comune: la Gran Bretagna, che si era opposta sia ai disegni espansionistici della Francia napoleonica degli inizi del XIX° secolo, sia al progetto italiano della “conquista dell’Impero” della II metà degli anni trenta. Nel periodo del fascismo repubblicano, l’accostamento NAPOLEONE – MUSSOLINI viene rinnovato – per contro – sul versante della negatività. In effetti, la parabola discendente del Duce e dell’Italia in guerra richiama alla memoria gli ultimi anni del “Piccolo Caporale” e dell’Impero napoleonico: la battaglia di Waterloo, che vede impegnato l’esercito francese contro gli Anglo – Prussiani ed i loro Alleati, si svolge nel giugno del 1815. Il parallelo fra Napoleone e Mussolini può essere esteso anche al campo religioso: il Duce stipula i “Patti Lateranensi” nel 1929 dando vita, fra l’altro, alla nascita dello Stato della “Città del Vaticano”. Il Bonaparte stipulò il Concordato con lo Stato della Chiesa nel 1801, col quale il Cattolicesimo era riconosciuto come “religione della grande maggioranza dei Francesi”. Il Concordato divenne legge in Francia nel 1802. L’accostamento fra il “Piccolo Caporale” ed il Duce è proponibile anche nel campo civile: Napoleone lascia in eredità all’Europa il codice civile del 1804; Mussolini con la “Carta del lavoro” del 1927 presenta all’Europa la “Nuova Italia” in cui regna – sia pure forzatamente – la pace sociale. Quest’ultimo documento costituisce la base programmatica di una “terza via” politica, economica e sociale che si configura come alternativa sia al comunismo sia al capitalismo. Per renderci conto di ciò che il codice Napoleone rappresenta per l’Europa degli inizi del XIX secolo, è importante riportare 82 alcune parti della “scheda” che il Manuale del Corso di Storia moderna di Capra – Chittolini – Della Peruta dedica appunto a tale fonte giuridica: “ Il codice civile dei francesi, ribattezzato nel 1807 codice Napoleone, consta di 2281 articoli ed è suddiviso in tre libri: Delle persone; Dei beni e delle differenti modificazioni della proprietà; Dei differenti modi coi quali si acquista la proprietà. Dal punto di vista tecnico-giuridico, le formulazioni del codice realizzavano una felice sintesi fra il diritto romano e il diritto consuetudinario vigente in molte parti della Francia. Più in generale, come tutta l’opera politica e amministrativa di Napoleone, esse rappresentavano un compromesso fra i principi gerarchici e autoritari derivanti dalla tradizione dell’Antico Regime e i valori affermatisi nell’età dei Lumi e durante la Rivoluzione francese: laicità dello stato, eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, libertà di coscienza, libertà di lavoro e di intrapresa, carattere sacro e inviolabile della proprietà e dei contratti …”. Sempre riguardo al codice civile, gli autori del Manuale soprammenzionato precisano: “La rispondenza di questo codice al valori fondamentali espressi dalla Rivoluzione, la chiarezza ed il vigore dell’annunciato ne fanno uno dei veicoli principali dell’influenza francese e della modernizzazione delle strutture giuridiche in Europa e nel mondo. Le stesse caratteristiche si ritroveranno nei successivi codici napoleonici, il codice di commercio del 1807, i codici di procedura civile e criminale, il codice Penale del 1810”. Relativamente alla riflessione di Napoleone sui codici, il Manuale di Storia annota: “Non si sbagliava dunque Napoleone quando scriveva, nell’esilio di Sant’Elena: la mia vera gloria non consiste nell’aver vinto quaranta battaglie(…) ciò che nulla potrà cancellare, ciò che vivrà in eterno è il mio codice civile”. Torniamo ora al Duce per occuparci della “Carta del lavoro”, che è forse il progetto fascista che più degli altri mira a 83 modificare in profondità le strutture politico – sociali e sindacali dell’Italia della II metà degli anni venti, nella prospettiva della cosiddetta “terza via”. L’emanazione di questo documento (1927), è preceduta da un’intensa attività dei sindacati fascisti volta a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori a partire dall’aumento dei salari. Per avere un’idea della complessa situazione politico – sociale e sindacale dell’Italia del Ventennio, riteniamo utile trascrivere alcune pagine tratte dal libro tascabile “Storia del fascismo” di Giampiero Carrocci, pubblicato a Roma nel 1996: “Uno dei principi fondamentali affermati dal fascismo era la collaborazione fra il capitale e il lavoro. Ma le idee in proposito restavano assai confuse. Si chiamava questa collaborazione ora col nome di sindacalismo, ora col nome di corporativismo. Siccome, come si è detto, gli industriali si opposero, il sindacalismo integrale [cioè la creazione di sindacati che comprendano sia i datori di lavoro sia i lavoratori dipendenti] fu messo da parte e si proclamò ufficialmente l’esistenza del contrasto fra le classi; contrasto, peraltro, che il fascismo (si diceva) avrebbe composto in una sintesi superiore. Infatti nel giugno del 1925 (contemporaneamente al discorso dell’Augusteo – di Mussolini e quasi contemporaneamente alla ripresa del protezionismo doganale) il movimento sindacale italiano venne fascistizzato: il Gran Consiglio decise che solo i sindacati fascisti potevano rappresentare i prestatori d’opera nelle trattative con i datori di lavoro. Il 2 ottobre successivo i sindacati fascisti e gli industriali stipularono un accordo di importanza fondamentale (il Patto di Palazzo Vidoni), impegnandosi a collaborare …. Si arrivò così alla importante legge del 3 aprile 1926. Essa restò fondamentale su due punti: sanciva formalmente la rinuncia allo sciopero ed alle commissioni interne da parte dei sindacati; estendeva a tutti i rapporti di lavoro i contratti collettivi. Di questi primi due punti il primo era a vantaggio degli industriali, il secondo a vantaggio degli operai. Peraltro il primo punto venne fatto 84 osservare con un rigore affatto ignoto per il secondo punto. Il Lavoro Fascista, organo delle Unioni dei Prestatori d’Opera, mise spesso in rilievo, durante il Ventennio, la mancata osservanza della legge da parte dei datori di lavoro. Inoltre la tendenza dei Contratti Collettivi fu quella di basarsi sui salari delle aziende meno efficienti, cioè sui salari più bassi. Tuttavia, sul piano immediato, la legge coincise con un periodo di benessere di una parte degli operai. Sebbene le statistiche ufficiali non lo confermino, sembra che nella prima metà del 1926 i salari reali, grazie all’intervento dei sindacati fascisti, fossero aumentati tanto che in alcuni casi tornarono al livello del 1921 – 1922. La collaborazione fra capitale e lavoro non rispondeva soltanto a opportunità contingenti, cioè al bisogno di frenare e controllare il movimento rivendicativo degli operai, i cui salari erano colpiti dalle spinte inflazionistiche in atto. Essa rispondeva anche a esigenze più profonde. Si trattava, come si diceva e si ripeteva, di immettere le masse nello Stato. Il problema, che affondava le radici nel pensiero politico antigiolittiano del primo quindicennio del secolo, era maturato concretamente negli anni della guerra ed era esploso in forma drammatica nel dopoguerra. La classe dirigente italiana fu incapace di risolvere questo problema col metodo tradizionale della libertà. Il fascismo fu la risposta a questo problema. Ed infatti uno dei caratteri peculiari del fascismo rispetto agli altri Regimi reazionari fu quello di avere una sua componente sindacalista ed una base di massa”. Queste considerazioni di Giampiero Carrocci smentiscono categoricamente la tesi che considera il fascismo come una “rielaborazione dello Stato assoluto”: nella sua ferma intenzione d’inserire le masse nella realtà politica, economica, sociale, sindacale e istituzionale dello Stato cui appartengono, il fascismo si manifesta inequivocabilmente come un “prodotto storico e culturale del XX° secolo”. Il fatto “d’immettere le masse nello Stato” corrisponde ai disegni e alla volontà del Duce che, riferendosi al processo di fascistizzazione delle strutture politiche, economiche, sociali e 85 sindacali, dichiara: “Io vedo la foresta, io non vedo l’albero”. Ma proseguiamo nella lettura del testo del Carrocci: “Il 21 aprile del 1927 fu promulgata la Carta del lavoro: un insieme di principi generali con cui, nella forma, venivano confermate le istanze di collaborazione fra capitale e lavoro e con cui, nella sostanza, veniva confermata la rigida, organica subordinazione del lavoro al capitale. La Carta affermava: il lavoro, sia diretto che esecutivo, sia intellettuale che manuale, è tutelato dallo Stato. Poi specificava: l’iniziativa privata è lo strumento produttivo più efficace e utile nell’interesse della Nazione; l’intervento dello Stato ha luogo soltanto quando l’iniziativa privata manchi o sia insufficiente o quando siano in gioco interessi politici dello Stato. La Magistratura del lavoro, che entrò in funzione nello stesso 1927, svolse essenzialmente il compito di ridurre i salari, adeguandoli alla rivalutazione della lira, e di frenare la dinamica. Nel 1928 il sindacalismo fascista, sino allora prevalentemente rurale, riuscì finalmente a penetrare fra le masse del proletariato urbano. L’affermarsi dei sindacati fascisti fra le masse operaie va messo in relazione, a quanto sembra, con l’aumentata disoccupazione, provocata dalla rivalutazione della lira e soprattutto, col fatto che, per trovare lavoro, divenne praticamente obbligatoria l’iscrizione ai sindacati fascisti”. Tenendo conto del contributo del Carrocci, cerchiamo ora di delineare sinteticamente il quadro economico, sociale e sindacale dell’Italia dal 1927 al 1940 tramite un elenco di “principi ed eventi importanti”: 1) Uguaglianza giuridica fra imprenditori e prestatori d’opera 2) Abolizione del diritto di sciopero e scioglimento delle commissioni interne 3) Divieto di serrata per i datori di lavoro 4) 1927: istituzione della Magistratura del lavoro 5) 1934: legge istitutiva delle Corporazioni 6) 1939: la Camera dei deputati si trasforma in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che dovrebbero 86 rappresentare le categorie del mondo del lavoro (imprenditori e prestatori d’opera). I progetti corporativi del Regime fascista si intrecciano con la complessa realtà economico – sociale dell’Italia degli anni trenta. Al riguardo, limitiamoci a segnalare alcune finalità della politica economica del governo fascista: 1) Battaglia del grano (dal 1925 in avanti), per assicurare il pane a tutti gli Italiani e per far diminuire il deficit della bilancia commerciale causato, fra l’altro, dall’importazione di grano 2) Stabilizzazione della lira a “quota novanta” nel 1927 (90 lire = 1 sterlina) 3) Massiccio intervento dello Stato nell’economia dopo la crisi mondiale provocata dal crollo di Wall Street del 1929 4) Politica di “grandi lavori pubblici” e lavori di “bonifica integrale” in alcune regioni d’Italia (1928 – 1933). Mussolini crede nei suoi programmi corporativi sino alla fine dei suoi giorni. Durante il periodo del fascismo repubblicano, egli impiega una parte del tempo per approfondire i progetti di socializzazione. Nell’aprile del 1945, pochi giorni prima di essere giustiziato, il duce concede un’intervista a Gian Gaetano Cabella, direttore del “Popolo d’Alessandria”. Questo testo, “dettato, corretto, siglato da Lui”, precisava il frontespizio, passa alla Storia come il suo “testamento politico”. Fra l’altro, Mussolini dichiara: “Se le vicende di questa guerra fossero state favorevoli all’Asse, io avrei proposto al Fuhrer, a vittoria ottenuta, la socializzazione mondiale, e cioè, frontiere esclusivamente a carattere storico …. moneta unica …. abolizione reale e radicale di ogni armamento ….” L’esperienza corporativa si lega indissolubilmente ai Regimi fascisti. Ciò è provato dal fatto che a partire dal 1945, anno della sconfitta epocale dei fascismi, le teorie corporative non suscitano più alcun interesse nel mondo sindacale dei Paesi 87 che aderiranno alla Comunità Economica Europea (CEE). In questo contesto fa eccezione l’Italia che vede nascere a Napoli nel 1950 la Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori (C.I.S.N.A.L.), che dichiara apertamente di credere nei “postulati del sindacalismo nazionale”. Tuttavia, la C.I.S.N.A.L. svolge un ruolo rappresentativo di importanza marginale nel panorama sindacale italiano degli anni cinquanta e dei decenni successivi. Nella II metà degli anni novanta, la C.I.S.N.A.L. si trasforma in U.G.L. (Unione Generale Lavoro). Dopo la fine della IIa guerra mondiale, strutture e sindacati corporativi sopravvivono nella Spagna del Generalissimo Francisco Franco (1892 – 1975) e nel Portogallo di Antonio De Oliveira Salazar (1889 – 1970). Ritorniamo ora al parallelo NAPOLEONE – MUSSOLINI per esprimere una valutazione conclusiva. Nel campo militare, l’avventura dell’Italia fascista con la sua parabola dapprima ascendente e poi discendente può essere paragonata, sia pure a grandi linee, alle vicende dell’Impero napoleonico. Napoleone era un grande stratega; Mussolini, invece, era una capo militare dalle capacità “discutibili”. Nel campo civile, l’influenza dei codici napoleonici si fa sentire nella maggior parte dei Paesi europei nel corso di tutto il XIX° secolo. La “terza via” del fascismo italiano, teorizzata dal Duce ed incentrata sul corporativismo, dopo il 1945 cessa di essere un’alternativa al capitalismo e al comunismo. Nelle pagine conclusive del testo, ci ripromettiamo comunque di soffermarci sull’influenza dell’opera civile di Mussolini nell’Italia “nata dalla resistenza”. Durante il Ventennio, nel campo antifascista la figura di Mussolini era stato oggetto di sarcasmi, di improperi e di paragoni “in negativo”. Questi attacchi alla persona del Duce erano pubblicati su giornali clandestini o venivano espressi in conversazioni private; in entrambi i casi, per forza di cose, il loro “raggio d’azione” era molto limitato. La situazione cambia radicalmente nel mese di luglio del 1943, quando l’avanzata degli Alleati nel sud della penisola e 88 i bombardamenti delle fortezze volanti su Roma e su altre città innescano la crisi del Regime fascista. In quel mese, infatti, in numerose città si leggono scritte murali offensive o ironiche finalizzate alla distruzione ideologica del fascismo e dell’opera di Mussolini. Ne citiamo una per tutte, apparsa su un cancello di una casa milanese: Voleva Essere Cesare Morì Vespasiano La frase può essere interpretata in due modi diversi, ma compatibili fra loro: 1) il Duce si credeva Cesare; in realtà era solo Vespasiano 2) il “grande condottiero” è caduto in un vespasiano (nota: VESPASIANO: orinatoio pubblico in forma di edicola o di torretta che prende il nome dall’Imperatore Vespasiano, che provvide ad istituirli). Ai fini della nostra analisi, questa scritta è interessante perché colpisce frontalmente il “mito imperiale” di Mussolini; mito che la letteratura agiografica del Regime aveva pazientemente coltivato per anni. Durante il Ventennio, gli antifascisti avevano paragonato il Duce ai seguenti personaggi storici o letterari: - Cola di Rienzo (1313 – 1354) - Don Rodrigo (il signorotto de “I Promessi Sposi”) - Masaniello (1620 – 1647) un pescatore che, dopo aver capeggiato con successo una rivolta popolare contro il Dominio spagnolo a Napoli , fu trucidato dai suoi stessi amici) Nella “breve stagione” del fascismo repubblicano, i primi due paragoni sono riproposti sia nelle conversazioni private dei partigiani, sia nelle pubblicazioni clandestine della resistenza. 89 Occupiamoci anzitutto di Cola di Rienzo, inserendolo nel contesto politico – culturale della sua epoca. E’ una singolare figura di capo – popolo che vive in un periodo di profonda crisi delle due grandi Istituzioni medievali: l’Impero e il Papato. In questo arco di tempo, si possono cogliere i segni sia dell’imminente fioritura del Rinascimento, sia della formazione, in nuce, degli “Stati nazionali”. Il trono imperiale è conteso fra Lodovico il Bavaro, che è incoronato Imperatore a Roma nel 1328, e un altro pretendente, Carlo IV di Boemia. Il Papa si trova in esilio ad Avignone, da cui segue con apprensione lo sviluppo degli eventi politici dell’Europa. In quegli anni il vecchio continente è funestato dalla “peste nera” del 1348, che miete innumerevoli vittime. Per cercare di comprendere a fondo l’accostamento COLA DI RIENZO – MUSSOLINI, è fondamentale richiamare alla memoria, sia pure in forma succinta, le vicende biografiche di Cola di Rienzo. Al proposito, scegliamo la lettura di un brano tratto dal Manuale di Storia dal titolo “disegno storico della Civiltà” di Giorgio Spini: “Figlio di un oste, ma salito fino alla condizione di notaio, grazie all’ingegno fervidissimo ed alla vasta cultura formata attraverso la lettura appassionata degli scrittori classici, dotato di un’eloquenza affascinante e di una fantasia ardentissima piena delle memorie dell’antica Roma e di sogni di rinnovamento universale, Cola di Rienzo (Nicola di Lorenzo) emerge per la prima volta in mezzo alla torbida vita romana del Trecento in occasione di una ambasciata inviata alla Corte di Avignone nel 1342 dalla Cittadinanza romana ad implorare la proclamazione di un altro Giubileo per l’anno 1350, onde ristorare con l’afflusso dei pellegrini la città volgente ormai alla rovina. Guadagnatasi l’amicizia del più illustre degli Italiani allora viventi, Francesco Petrarca (1304 – 1374), nonché la fiducia del Pontefice Clemente VI, egli ritorna da Avignone insignito di una carica ufficiale: quella di Notaio della Camera 90 Apostolica, dell’Amministrazione Finanziaria, cioè, della città …” In sintesi, le alterne fortune politiche di Cola di Rienzo sia basano sul fondamento di porsi come intermediario fra il Papa e l’Imperatore e su quello della “difesa dei deboli”, cioè della plebe romana oppressa dai Baroni. Nominato Tribuno, egli sogna la rinascita dell’Impero latino e cristiano, per rendere possibile la rigenerazione morale dell’umanità. Fra Cola di Rienzo e la popolazione romana si sviluppa una relazione di amore – odio; l’odio è dovuto, fra l’altro, alle sue prove di stranezza e crudeltà. Nel 1354, in seguito a un tumulto popolare scoppiato contro di lui, cerca di allontanarsi da Roma travestito da carbonaio, ma viene riconosciuto dalla folla, che decide di giustiziarlo. Pur essendo molto difficile fare un accostamento fra due personaggi storici vissuti in epoche tanto diverse, dobbiamo tuttavia ammettere che le vicende biografiche del fondatore del fascismo richiamano alla mente più quelle di Cola di Rienzo che le vite dei Cesari. Per dimostrare la nostra tesi, segnaliamo le seguenti affinità: - Cola è figlio di un oste - Benito è figlio di un fabbro che in seguito diventa oste - Cola di Rienzo lascia Roma travestito da carbonaio; scoperto, viene trucidato a furor di popolo - Il Duce mira a raggiungere la Valtellina travestito da Tedesco; è catturato da un commando di partigiani, poi giustiziato e infine sottoposto allo scempio di Piazzale Loreto - Cola di Rienzo svolge il ruolo di mediatore fra il Papa e l’Imperatore - Mussolini si pone come moderatore fra la Germania e le altre Nazione europee nella I metà degli anni trenta - Entrambi “sognano l’Italia romana” Avendo verificato queste somiglianze biografiche, ci preme ora sottolineare che, per contrasto, il manifestarsi dell’altezza d’ingegno del Duce durante gli “anni del consenso” evochi 91 alla memoria molto più l’opera dei Cesari che quella di Cola di Rienzo. In effetti Mussolini crea un Regime, cioè un “sistema”; anche l’Impero romano da un punto di vista strutturale può essere considerato un “sistema”, laddove l’azione politico – sociale di Cola di Rienzo non apporta modifiche strutturali né all’Impero medievale né al Papato. Sull’opera di Cola di Rienzo è d’obbligo precisare che le opinioni degli storici sono diverse, a volte addirittura opposte. Per renderci conto di come gli antifascisti vedevano il parallelo COLA DI RIENZO – MUSSOLINI nel Ventennio è indispensabile trascrivere un breve passo tratto dal libro “Mussolini grande attore” dell’esule anarchico Camillo Berneri: “Sono numerosi i giornalisti stranieri che accostano Mussolini a Cola di Rienzo e a Masaniello. Candida ignoranza o sottile ironia? Il primo è l’uomo che conosceva AD AUDIENDUM VERBUM gli Imperatori e i più potenti Principi, si attribuiva il titolo di “Augusto” e dava un enorme valore ad un bagno fatto nella vasca di Costantino. Pretendeva di essere figlio di Arrigo VII: in conclusione, un megalomane e quasi un folle”. Nei giorni che seguono la “pubblica esposizione” delle salme di Mussolini, di Claretta Petacci e di alcuni gerarchi in Piazzale Loreto, un giornale della resistenza definisce il Duce “un Cola di Rienzo”. Sergio Luzzato, nel libro “Il corpo del Duce”, riferendosi a Piazzale Loreto, mette in evidenza “il confronto fra il miserando approdo di Mussolini e quello di Cola di Rienzo, il Tribuno sul cui cadavere il popolo romano si era accanito senza pietà dopo averlo elevato ai massimi onori”. Durante il Ventennio, l’accostamento DON RODRIGO – MUSSOLINI poteva essere espresso con una similitudine: “Come Don Rodrigo con i suoi sgherri spadroneggiava nei villaggi del Comasco, così il Duce con le sue Camice Nere vessava la popolazione italiana”. 92 Dopo l’approvazione delle leggi razziali del 1938, il paragone assume delle tinte più fosche: una lettera anonima scritta al Duce da una donna chiede la revoca delle leggi razziali, che colpiscono la Comunità ebraica italiana, composta da circa 40.000 anime. Chi si nasconde dietro l’anonimato ammonisce il Dittatore: se si persisterà nell’emarginare gli Ebrei, si dovrà tener presente il richiamo di Fra’ Cristoforo rivolto a Don Rodrigo: “Verrà un giorno …” Il dialogo de “I Promessi Sposi” fra Don Abbondio e Renzo Tramaglino riguardante la fine di Don Rodrigo – che muore di peste nel Lazzaretto – viene pubblicato in clandestinità durante il periodo del fascismo repubblicano e ripubblicato da un quotidiano romano dopo il macabro spettacolo di Piazzale Loreto. Ne riportiamo una parte per richiamarlo alla memoria del lettore: [E’ Don Abbondio che parla] “Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagia, con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto lui non c’è più, e noi ci siamo ….” Questa riproposizione del parallelo da parte di un quotidiano della Capitale mette in risalto, forse, quanto forte fosse l’avversione della maggioranza degli Italiani verso il Duce durante le “radiose giornate” dell’aprile del 1945. Dopo esserci soffermati sulle principali valenze simboliche e mitiche di Mussolini durante il biennio del fascismo repubblicano, sorge spontanea una domanda: “Com’era lui come uomo?” Al riguardo, ci illumina un brano tratto dal libro: “Le guerre dimenticate di Mussolini” di Giovanni Artieri: “Di se stesso, però dopo il 25 luglio 1943 aveva già scritto: “Mussolini, uomo morto. Assumerà una figura smunta, decaduta, ricondotta ad una tragica umiltà, qualcosa dell’antico aspetto e del suo destino di giovane proletario vagante, affamato; di sovversivo perseguitato per le città e i cantoni della Svizzera”. 93 Nel 1944, constatando l’incapacità del Duce di essere padrone degli eventi nell’Italia centro – settentrionale, Concetto Pettinato, direttore de “La Stampa” di Torino, scrive un articolo dal titolo significativo: “Se ci sei, batti un colpo!”. L’articolo, non firmato, e manifestamente riferito al Duce, suscita la sua collera. L’ipotesi che il potere politico e militare di Mussolini quale capo della Repubblica sociale Italiana fosse quasi inesistente, è confermata anche da alcuni antifascisti, fra i quali l’intellettuale di sinistra Franco Tranfaglia che nel maggio 2003 ammette: “Nel periodo del fascismo repubblicano il Duce non contava niente”. 5) Il mito di Mussolini nell’Italia post – fascista. Il terzo periodo del mito del Duce inizia nel 1946; supera il 2000 e a tutt’oggi è difficile prevedere se e quando si estinguerà. E’ nostra convinzione che nell’Italia “nata dalla resistenza” il mito di Mussolini si basi sulle seguenti realtà: 1) L’odissea della salma 2) L’Opera Omnia 3) La bibliografia ed il dibattito fra gli storici tradizionalisti e gli studiosi revisionisti sul fascismo 4) La filmografia e i documenti “sull’era fascista” diffusi dai mezzi di comunicazione di massa 5) Il sepolcro di Predappio e gli altri luoghi del mito 6) Il Movimento Sociale Italiano e la fiamma tricolore 7) L’indecoroso spettacolo di Piazzale Loreto e il suo ricordo L’odissea della salma inizia col suo trafugamento ad opera di Domenico Leccisi nel 1946, e si conclude con la tumulazione della stessa nel 1957 nel cimitero di S. Cassiano di Predappio di Forlì. Al di là della cronaca, conta sottolineare che le peripezie dei poveri resti del Duce da un lato danno l’occasione a giornalisti, scrittori e studiosi di riprendere il discorso, ormai a livello storico, “sull’avventura fascista in 94 Italia” e, di riflesso, su quella del suo artefice; dall’altro lato, l’immaginario collettivo s’interroga con interesse e senza posa sull’ubicazione del luogo sacro che raccoglie “il corpo del Duce” dando vita a numerosi aneddoti, storie e leggende sulla “presunta tomba” e sullo “spirito di Mussolini” che non trova requie. Fra l’altro, la trafugazione della salma diventa uno dei motivi ispiratori del romanzo “Un eroe del nostro tempo” di Vasco Pratolini (1913 – 1991), pubblicato nel 1949. L’odissea della salma serve da spunto per la stesura di innumerevoli articoli riguardanti Mussolini e l’epoca dei fascismi, pubblicati da settimanali a rotocalco quali “Oggi”, “Gente”, “Tempo” ed altri. Avvalendosi della collaborazione di giornalisti famosi e facendo affidamento sulla disponibilità di alcuni familiari del Duce e di ex – gerarchi a concedere ampie interviste, i settimanali in questione trasformano l’uomo di Predappio in un personaggio da rotocalco per oltre un trentennio (1946 – 1980). Gli anni ottanta segnano la scomparsa di molti testimoni autorevoli del Regime fascista; da allora gli articoli dedicati al Duce si fanno più rari. Sempre a proposito della stampa, è utile osservare che il mito di Mussolini è stato tenuto vivo anche dal quotidiano “Il Secolo d’Italia” fondato a Roma negli anni cinquanta da Franz Turchi, che fu giornale di partito dapprima del Movimento Sociale Italiano e in seguito di Alleanza Nazionale. Negli anni novanta , “Il Secolo d’Italia”e Alleanza Nazionale abbandonano gradualmente l’opera e il mito di Mussolini al loro destino. Ma in quel periodo nasce “Linea”, quotidiano romano a diffusione nazionale diretto da Pino Rauti e portavoce ufficiale del movimento sociale fiamma tricolore; questo giornale continua a coltivare il mito del “Maestro di Predappio”. Affrontiamo ora il secondo punto, cioè l’Opera Omnia del Duce. Negli anni cinquanta, alcuni libri di Mussolini furono pubblicati da piccole case editrici legate direttamente o indirettamente agli ambienti neo – fascisti. In questo contesto sono da ricordare gli sforzi dell’editori romano Ciarrapico di 95 ristampare diversi libri dell’Opera Omnia al fine di salvaguardare gli scritti mussoliniani dall’oblio. Nell’arco del trentennio 1951 – 1981, i quarantaquattro volumi dell’Opera Omnia sono stati riproposti in libreria dalla casa editrice “La Fenice” di Firenze. Nell’Opera Omnia Mussolini si rivela giornalista di talento, scrittore, storico, uomo politico e di cultura. Il giovane rivoluzionario socialista scrive solo un romanzo : “Claudia Particella. L’amante del Cardinale”. Si tratta della rielaborazione di una storia ambientata nel Trentino del XVII° secolo ai tempi dell’Impero degli Asburgo. A ragione, la critica lo ritiene un romanzo d’appendice. Ciononostante, il libro mette in luce le doti di scrittore in erba del futuro capo di governo, che si manifesteranno a tratti anche in altre opere. Ne “Il tempo del bastone e della carota”, il capo del fascismo racconta i principali avvenimenti politici e sociali del Ventennio e si sofferma sul triennio 1941 – 1944 per spiegare agli Italiani le ragioni militari e politiche che hanno portato alla caduta del fascismo (25 luglio 1943). Pubblicato sul “Corriere della Sera” a puntate, che furono successivamente raccolte in un fascicolo nel 1944, il libro raggiunse la tiratura di circa 300.000 copie. Il volumetto evidenzia il talento di Mussolini come giornalista e come storico. Ad una attenta analisi appare tuttavia chiaro che il Duce è uno storico di parte. La valutazione globale dell’Opera Omnia è un’operazione complessa che spetta, ovviamente, agli storici. In questa sede ci limitiamo a rammentare un giudizio di Indro Montanelli: “Mussolini, qualche bel libro l’ ha scritto!”. Di per se stessa, l’Opera Omnia, pur essendo voluminosa, non giustifica l’esistenza del mito. Infatti, ci sono intellettuali che hanno scritto opere più lunghe, più complesse e più interessanti di quella del Duce senza essere riusciti a diventare un mito. Però, se associamo l’Opera Omnia all’intensa vita pubblica e privata di Mussolini, forse ci rendiamo conto che la figura del “figlio del fabbro” assume connotazioni mitiche. 96 Per dimostrare l’attendibilità della nostra ipotesi, ci permettiamo di proporre un passo di Indro Montanelli, voce autorevole del giornalismo italiano per oltre cinquant’anni. Nel libro “Memorie del cameriere di Mussolini” pubblicato nel 1946, immedesimandosi in Quinto Navarro, presunto cameriere del Duce, Indro Montanelli scrive, in tono scherzoso: “ …. Avevo la netta sensazione come forse nessun altro Italiano, di quanto grave fosse la situazione del nostro Paese, sottoposto a una dittatura che non era soltanto dittatura politica, ideologica e militare, ma era anche la dittatura sui motori a scoppio, sul borace, sui cerchioni delle biciclette, sulle traduzioni dal latino, sulle macchine fotografiche, sulle ghiacciaie, sulle lampadine elettriche, sulle fabbriche di gazzose”. Se accettiamo il ritratto di “Mussolini dittatore onnipresente e onnisciente” sull’Italia e sugli Italiani tratteggiato da Indro Montanelli, il buon senso ci pone una domanda: “Dove e quando il Duce trovava il tempo per scrivere?”. Per quanto concerne il terzo punto, premettiamo che la bibliografia su Mussolini è vastissima. Il biennio della Repubblica Sociale Italiana, durante il quale a causa della guerra civile si scrive poco, segna una sorta di spartiacque fra la bibliografia del Ventennio e quella dell’Italia post – fascista. Occupiamoci anzitutto degli scritti “dell’era fascista”. Nel Ventennio prevale una bibliografia di tipo apologetico che punta su una serie di stereotipi che furono sintetizzati, dopo la caduta del fascismo, dai suoi oppositori con l’etichetta “oleografia del Regime”. Fra le biografie su Mussolini, forse la più celebre è quella di Giorgio Pini, che veniva distribuita nelle scuole e che aveva lo scopo pedagogico e politico di formare le giovani generazioni italiane al culto del Duce. La prima biografia su Mussolini fu quella scritta da Margherita Sarfatti, dal titolo “Dux”, che era riconosciuta come uno dei testi ufficiali del Regime. Entrambi i testi vengono pubblicati nel 1926. “Dux” è ristampato anche alla fine degli anni novanta. Relativamente a Giorgio Pini, riteniamo utile annotare questo 97 curioso parallelo fra la sua vita e la sua biografia sul fondatore del fascismo. Giornalista fra i più accreditati del Regime durante il Ventennio, nella redazione de “Il Popolo d’Italia”, è considerato il “portavoce” del Duce e le numerose ristampe della biografia su Mussolini gli procurano una grande notorietà. In seguito, Giorgio Pini è uno dei fondatori del Movimento Sociale Italiano, ma gli accordi elettorali degli anni cinquanta fra missini e monarchici deludono profondamente il suo animo di fascista “duro e puro”. In effetti, egli ritiene assurdo trovare un’intesa con i rappresentanti della destra monarchica, cioè con gli “eredi” di coloro che fecero cadere il Regime fascista. Pertanto, Giorgio Pini lascia il M.S.I. per aderire ad un gruppo neofascista “ortodosso” di Milano, detto appunto dei “milanisti”. Così il giornalista, fra i più apprezzati nel Ventennio, conclude la sua vita svolgendo un ruolo politicamente marginale negli ambienti neofascisti, continuando tuttavia a scrivere libri di indubbio interesse storico. Rivolgiamo ora la nostra attenzione alla sua biografia di Mussolini. Questo libro, diffuso in modo capillare nelle scuole durante il Ventennio, nell’epoca post-fascista è superato da altre biografie, meno agiografiche e più ricche di dati e informazioni. Ai nostri giorni, è possibile trovarlo ancora nelle bancarelle dei libri di seconda mano e nei mercatini delle pulci delle grandi città. Durante il ventennio, soprattutto all’estero, si assiste alla pubblicazione di libri e giornali antifascisti, in inglese, francese e italiano, spesso corredati da disegni e vignette. Questi testi, che mirano a distruggere il prestigio e la fama del “dittatore italiano”, di solito non riescono a raggiungere il nostro Paese a causa dei rigorosi controlli della censura fascista sulla stampa. Nell’Italia “nata dalla resistenza”, l’estesa bibliografia su Mussolini si può dividere in due serie di scritti: 1) le opere storiografiche 2) le opere letterarie 98 A loro volta, le opere storiografiche si possono suddividere nei seguenti quattro “filoni”: 1) il “filone” antifascista 2) il “filone” indipendente 3) il “filone” neofascista 4) il “filone” revisionista Il “filone” di libri antifascisti inizia con “Il Cesare di cartapesta – Mussolini nella caricatura”, pubblicato a Torino nel 1945 e scritto da un intellettuale che si firma con lo pseudonimo di Gec. Il libro offre un ritratto demistificatorio del Duce e del fascismo, tra il comico e il tragico, puntando sia su ampie argomentazioni sia sulle seicento vignette che illustrano il testo, riprese da giornali e riviste estere e da fogli pubblicati in Italia in clandestinità, oppure censurati, durante “l’era fascista”. Fra l’altro, Gec afferma: “La caricatura politica è un’arma formidabile”, anticipando forse inconsapevolmente, una frase dell’intellettuale ebreo Vittorio Foa relativa agli “anni del consenso”: “L’ironia è una forza!”. L’autore sintetizza il messaggio del libro nella parte finale della sua presentazione: “Tenete presente che la causa unica di ogni nostra rovina, di ogni nostro lutto, di ogni nostra miseria, si chiama Benito Mussolini. Senza Mussolini, il nostro popolo sarebbe forse oggi all’avanguardia delle pacifiche realizzazioni sociali. Senza Mussolini, forse, il nazionalismo non avrebbe messo radici in Germania e si sarebbe esaurito nel putsch di Monaco. Senza l’appoggio di Mussolini, Hitler non avrebbe potuto scatenare la sua follia pangermanista e tenere l’Europa nel suo sanguinoso faustrecht. Un nome solo ci affiora alle labbra in questo momento: Buchenwald [uno dei campi di sterminio nazisti]. Senza Mussolini, non sarebbe stato possibile Buchenwald”. Nell’arco di almeno cinquant’anni, la storiografia antifascista, facendo leva su argomentazioni a volte valide, altre volte oggetto di controversie fra gli storici, costruisce una serie di stereotipi sul fascismo e sul suo fondatore con lo scopo, 99 dichiarato o sottinteso, di demolire, di demonizzare, se non di cancellare “l’era fascista” dalla storia d’Italia. Il cliché più comune è questo: “Il fascismo: un Regime totalitario basato sulla disuguaglianza, sulla violenza e sull’odio; un Regime che ha ispirato la sua politica estera sul nazionalismo, sull’imperialismo e sul razzismo. Il nazismo: conseguenza “ovvia” del fascismo”. Un altro stereotipo che conosce una notevole fortuna e che può essere considerato il corollario del precedente è questo: “Mussolini: un dittatore pieno di contraddizioni, opportunista, voltagabbana, violento, crudele e sanguinario. Un uomo avido di potere e di gloria che alla fine diventa succube, se non servo, dei Tedeschi”. In estrema sintesi, per gli antifascisti Mussolini non è un mito, bensì uno psicopatico. Il “filone” di scritti antifascisti si diffonde nella scuola e nella società italiana anche grazie all’opera dei mezzi di comunicazione di massa. Il secondo “filone” riguarda i libri “indipendenti”, cioè gli scritti che non seguono né gli schemi interpretativi dell’antifascismo, né quelli proposti dal neofascismo. Possiamo considerare Indro Montanelli (1909 - 2001 ) e Curzio Malaparte (1898 - 1957) come i capiscuola di questo gruppo di giornalisti e scrittori “indipendenti”. Nel 1946 Indro Montanelli fa pubblicare il libro “Memorie del cameriere di Mussolini”, attribuito a Quinto Navarro. Mettendosi nei panni di Quinto Navarro, “presunto commesso” del Duce per oltre vent’anni, Indro Montanelli scrive una biografia, tra il serio e il faceto, dell’uomo di Predappio. Il celebre giornalista toscano elabora il cosiddetto cliché di “Mussolini buonuomo” : pur essendo pieno di difetti e di colpe, il Duce è un uomo (e non un demiurgo) che si fa carico di almeno vent’anni di Storia Patria senza avere le spalle del mitico Atlante. Narrando i principali avvenimenti della vita privata e pubblica del Duce con uno stile estremamente scorrevole, Montanelli 100 s’interroga sia sulle responsabilità e colpe di Mussolini, sia su quelle dei suoi collaboratori, e più in generale, sull’atteggiamento mutevole del popolo italiano nei confronti del fascismo. Lo schema di “Mussolini buonuomo” suscita un certo interesse negli ambienti culturali di destra e di centro nell’Italia degli anni cinquanta; tuttavia, continua ad essere un modello di riferimento per alcuni giornalisti e scrittori anche nei decenni successivi. Ricordiamo al proposito il libro di L. Somma “Mussolini morto e vivo” edito a Napoli nel 1960, in cui l’autore analizza lucidamente e in maniera problematica i principali eventi “dell’era fascista”. Sempre riferendosi al cliché di “Mussolini buonuomo”, è opportuno segnalare l’intervista concessa da Silvio Berlusconi al settimanale inglese “Spectator” e ripresa dalla stampa italiana, nel settembre 2003. Il capo del governo italiano afferma, fra l’altro: “Mussolini non ha mai ammazzato nessuno!”. Il terzo “filone” di libri, cioè la storiografia neofascista, inizialmente ha per oggetto la scrittura di nuovi testi agiografici sul Duce, che si può considerare come una delle risposte dei “nostalgici” allo scempio di Piazzale Loreto. A titolo d’esempio ne citiamo uno, che è in sintonia con il “mito imperiale”: “Benito I Imperatore” di Marco Ramperti, edito a Roma nel 1950. L’autore parte da un’ipotesi fanta-politica: immagina che nell’aprile del 1945 le forze dell’Asse abbiano vinto il conflitto grazie al tempestivo impiego della bomba atomica. Il Duce ritorna a Roma, e nella Città eterna cingerà la corona imperiale che già fu di Cesare Augusto. Sintetizzando la tesi di fondo che permea il libro, Sergio Luzzato scrive:” In sostanza, era una torrenziale filippica contro l’antifascismo, frutto bacato del tradimento monarchico dell’otto settembre, tragico carnevale di belle parole, bugiarda bandiera di un branco di assassini”. Durante gli anni cinquanta, la storiografia neo-fascista produce alcuni libri degni di nota. Citiamo almeno i nomi di 101 Bruno Spampanato e del già menzionato Giorgio Pini. Nella IIa metà degli anni sessanta, con la pubblicazione dell’opera a fascicoli:” Storia della guerra civile in Italia 1943-1945” di Giorgio Pisanò, acquistabile in edicola, la storiografia neo fascista si offre al grande pubblico. Essa raggiunge l’apogeo grazie all’opera paziente e a tratti meticolosa dello stesso Giorgio Pisanò, uomo politico missino; la sua inchiesta giornalistica “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini” pubblicata a Milano nel 1996, diventa presto un best seller. La quarta serie di libri riguarda il “revisionismo storico” e s’incentra sulla figura di Renzo De Felice (1929 – 1996) e sulla sua scuola. Il modello di analisi seguito da quest’ultimo non si basa su alcun schema precostituito: lo storico revisionista “indaga” direttamente la Storia: i fatti, le idee, i documenti (libri, filmati, ecc.) riguardanti il periodo oggetto del suo studio. Fra l’altro, Renzo De Felice abbozza un ritratto sfaccettato della personalità e della vita del Duce. Negli anni ottanta, l’opera complessiva dello storico revisionista (scritti e dibattiti) mette in discussione in maniera problematica alcuni schemi di interpretazione del fascismo che la storiografia antifascista riteneva inattaccabili. Ai fini della nostra analisi sul mito di Mussolini, ci preme annotare questo giudizio di Renzo De Felice sulla complessa e sofferta relazione fra il Regime fascista e gli Ebrei:” Mussolini non era razzista!”. Secondo il parere dei principali quotidiani pubblicati in Italia negli anni ottanta, questa affermazione dello storico revisionista “porta il mito di Mussolini alle stelle”. Senza entrare nel merito della complicata materia delle persecuzioni razziali in Italia, oggetto di controversia fra gli storici, ci permettiamo tuttavia di osservare che la “dichiarazione di fede” che il Duce rilascia a Padre Eusebio Zappaterreni nel 1944 induce a credere che il capo del fascismo non è razzista o che, per lo meno, se si è dimostrato tale con le leggi razziali del 1938, esse sono da intendersi moralmente e religiosamente annullate dalla medesima “dichiarazione di fede”. Infatti, 102 Gesù Cristo, i dodici Apostoli, S. Paolo, e i primi Cristiani erano ebrei: come poteva Mussolini da Cristiano “convertito” perseguitare il popolo giudaico? Fra le diverse valutazioni sull’opera di Renzo De Felice, ci limitiamo a citare la più scherzosa, espressa da Pino Rauti, fondatore del movimento sociale italiano fiamma tricolore e riferita a Mussolini: “Renzo De Felice si è innamorato del suo personaggio!” Veniamo ora alla letteratura prodotta sul “personaggio Mussolini” nel II° dopoguerra. Prima di approfondire l’argomento, è opportuno rammentare che il “Maestro di Predappio” riconosceva il proprio predecessore in Alfredo Oriani (1852-1909). Nei racconti di questo scrittore della IIa metà dell’Ottocento si avverte l’influenza del Romanticismo, in particolare di Victor Hugo (1802-1885) e di Eugene Sue (1804-1857). Secondo la critica, Alfredo Oriani rivela pienamente il suo talento nelle opere di riflessione storica e politica, che preannunciano la nascita del nazionalismo e dell’imperialismo italiano. Di qui nasce e si sviluppa l’interesse di Mussolini per lui. Ma, in ultima analisi, Oriani prediligeva il mondo risorgimentale degli eroi, laddove Mussolini vagheggiava l’ideale del superuomo. Dunque , il Duce si compiaceva di avere un precursore nel mondo della letteratura. Per contro, nella stessa letteratura italiana della IIa metà dell’Ottocento si dovevano cogliere i segni premonitori della nascita di un capo provvisto di doti eccezionali, che avrebbe riscattato il “misero destino” (secondo l’ottica nazionalista) dell’Italia del Risorgimento. Durante il Ventennio, l’intellettuale anarchico Camillo Berneri scrive:” [Mussolini] la letteratura se l’era covato per trent’anni”. Cerchiamo ora di riassumere l’intricato rapporto fra il Duce e la letteratura: l’uomo di Predappio, oggetto di un trentennio di produzione letteraria, si pregia di avere come predecessore Alfredo Oriani. Durante il periodo socialista, diventa un romanziere scrivendo ” Claudia Particella. L’amante del 103 Cardinale” (1910). In alcuni libri dell’Opera Omnia, egli rivela le sue qualità di scrittore. A questo punto , visti i suoi precedenti letterari, c’è da stupirsi se nell’Italia post-fascista la vita stessa di Mussolini diventi materia di racconti e di romanzi? Noi abbiamo trovato tre romanzi che hanno il Duce come protagonista: 1) A. Pennacchi, “Palude. Storia d’amore, di spettri e di trapianti” Roma, 1995 2) D. Bontempi, “Il sesso del Duce”, 1989 3) “Il naso di Mussolini”, di Lucio Trevisan 1998 (di cui abbiamo perso i riferimenti). Ne “Il corpo del Duce”, Sergio Luzzato sostiene che l’opera letteraria migliore sul capo del fascismo sia “Palude. Storia d’amore, di spettri e di trapianti”. A proposito di questo romanzo, Sergio Luzzato scrive: “… il fantasma del Duce si aggira nella città di Latina da lui fondata: la Latina ora memore, ora cinica degli anni novanta. A cavallo di una rombante motoguzzi, Mussolini esplora le strade e i canali, si affanna a rimuovere i gabinetti e i bidet che la gente vi butta dentro”. Questa dimensione “ecologica” del fantasma del Duce non dovrebbe sorprendere il lettore: infatti uno dei “comandamenti” del “decalogo” dei fascisti recita: “ La patria si serve anche facendo la guardia a un bidone di benzina”. Concludiamo la nostra succinta analisi sul personaggio di Mussolini nella letteratura riprendendo ancora Sergio Luzzato che ne “Il corpo del Duce” riporta in ordine alfabetico le offese che sono riferite al Duce: nell’opera dello scrittore espressionista Carlo Emilio Gadda sono circa un’ ottantina. Qui trascriviamo solo quelle che bersagliano il “mito imperiale”: - Napoleone fesso e tuttoculo - Pulcinella finto Cesare - Rincoglionito Quirino - Scipione Africano del due di coppe 104 Relativamente al romanzo “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda (1957), Sergio Luzzato annota: “Dalle colonne di Belfagor Giulio Cattaneo avrebbe salutato come splendide le ingiurie del Pasticciaccio al Duce defunto, mentre alcuni recensori comunisti sarebbero giunti a individuare nel capo del fascismo l’implicito colpevole del delitto di via Merulana”. Per quanto riguarda Carlo Emilio Gadda, dapprima “fascista convinto”, poi “amante deluso dal Duce”, vorremmo far osservare che le sue offese non hanno avuto alcuna presa sul linguaggio popolare: infatti la gente comune designa Mussolini con il termine Duce (e non con Buce) o con espressioni quali “il capo del fascismo” oppure “l’uomo di Predappio”. Affrontiamo ora il punto quattro, cioè la filmografia. I documentari sul fascismo prodotti dall’Istituto Luce durante il Ventennio forniscono ampi spaccati su alcuni aspetti della vita pubblica degli italiani, quasi tutti inquadrati nelle strutture del Regime.E’ superfluo aggiungere che si tratta di filmati che fanno parte “dell’oleografia del Regime”. Nell’Italia “nata dalla resistenza”, i lungometraggi riguardanti l’uomo di Predappio devono essere divisi in: - film di montaggio - film narrativi. Fra i primi spicca “Benito Mussolini” di Pasquale Prunas (1962), fra i secondi è degno di nota “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani (1974). “Benito Mussolini” di Pasquale Prunas è essenzialmente un racconto per immagini della vita del Duce e di quella dell’Italia teatro “dell’avventura fascista”. Premesso che non è facile riassumere, se non comprimere, oltre vent’anni di storia in un filmato di circa novanta minuti, dobbiamo comunque riconoscere che il lungometraggio riesce a tratteggiare con un certo vigore narrativo i principali eventi “dell’era fascista”. Lo sviluppo della narrazione mette maggiormente in luce Mussolini “condottiero militare”, che Benito “guida civile” della Nazione. 105 Durante l’ultima parte del film, il Duce è visto essenzialmente come un guerrafondaio: infatti, pochissime inquadrature colgono il “dittatore italiano” nelle vesti di mediatore fra la Germania e le altre Potenze europee prima dello scoppio della IIa guerra mondiale. Solo un’immagine – in cui si nota Mussolini in ginocchio davanti ad un altare di una piccola cappella – si riferisce alla sua conversione religiosa. Nel complesso, la visione della pellicola – col suo crescendo d’immagini di distruzione e di morte – lascia nel cuore una profonda tristezza, se non un senso di sgomento causato, forse, dall’ineluttabilità “dell’immane conflitto”, che promana soprattutto dalle inquadrature riguardanti il riarmo della Germania nazista. Fra i film narrativi, il più diffuso è senz’altro: “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani. Il lungometraggio narra le drammatiche vicende degli ultimi giorni del Duce, dalle trattative di Milano per la resa della Repubblica Sociale Italiana con i capi della resistenza, mediate dal Cardinale Schuster, Arcivescovo del capoluogo lombardo, alla fuga in Valtellina, che si conclude con la cattura di Mussolini, della Petacci, e di alcuni gerarchi al seguito. Le ultime inquadrature riguardano la fucilazione del Duce, eseguita davanti al cancello della Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Claretta implora pietà per Benito, ma invano, poi si frappone fra l’amante e il “colonnello Valerio”, e cade sotto una raffica di quest’ultimo; infine un’altra raffica lacera il corpo del Duce. Il nostro parere è che “Mussolini ultimo atto” non è un film storico, ma d’avventura. Certamente Carlo Lizzani prende spunto da una delle versioni storiche sugli ultimi giorni del Duce, secondo la quale il capo del fascismo e la sua amante furono appunto giustiziati davanti al cancello della villa Belmonte. Ma un film per essere definito storico, non deve rispettare solo la cronologia, i luoghi e lo svolgersi degli avvenimenti; deve tener conto anche della psicologia dei personaggi e del contesto psicologico, oltre che sociale, in cui sono collocati. 106 Veniamo al dunque: i tratti psicologici della personalità di Mussolini sono stravolti ad arte. Il Duce è visto essenzialmente come un codardo, un voltagabbana, pronto a tradire tutto e tutti pur di salvarsi. E’ in fuga da tutto e da tutti, se non, al limite, da se stesso. Per dimostrare la fondatezza della nostra critica, a titolo esemplificativo puntiamo la nostra attenzione sull’inquadratura che riprende il Duce seduto da solo in un salotto di un piccolo albergo della Valtellina. Pensoso, con lo sguardo rivolto al cielo, e, appellandosi mentalmente agli Americani che dovrebbero giungere dalla Svizzera per salvarlo, esclama:” Quando arriveranno?!” Ebbene, è noto che, prigioniero del governo Badoglio al Gran Sasso nel settembre del 1943, Mussolini aveva minacciato più volte di suicidarsi piuttosto che essere consegnato nelle mani degli Alleati. Forse non lo avrebbe fatto, anche perché, come scrive Don Ennio Innocenti, “Mussolini stava per raggiungere il livello della fede”. Tuttavia, il suo proposito di togliersi la vita fa capire quanto detestasse la prospettiva di essere consegnato ai suoi nemici. Per concludere, relativamente all’ atteggiamento di Mussolini verso gli Americani, fra il film e la realtà l’incongruenza è notevole. “Mussolini ultimo atto” è sicuramente un buon esempio di film d’avventura perché è di ottima fattura e ben interpretato; ma il Duce presentato da Carlo Lizzani “si muove troppo”: pertanto l’indagine psicologica risulta frammentata, confusa, a volte manifestamente erronea. In sintesi: il ritratto psicologico abbozzato è deludente e fuorviante. Prima di soffermarci sui documentari riguardanti il fascismo, è necessario introdurre il concetto di “personaggi panottici”. Al proposito, ci rifacciamo ad un testo di Michel Chion, critico cinematografico. In “Un’odissea del cinema. Il 2001 di Kubrick”, l’autore scrive:” I film panottici in cui i personaggi sono o si sentono ripresi dappertutto sono, com’è noto, una tradizione nella storia del cinema da ‘Tempi moderni’ (‘Modern Times’, 107 1936) di Chaplin, fino a ‘The Truman Show’ (id. 1988) di Peter Weir”. Ebbene, guardando alcuni documentari sul Ventennio, si ha l’impressione che anche Mussolini sia un personaggio panottico: perché quando si vede una cerimonia militare o civile, ci si aspetta che il Duce appaia da un momento all’altro. Analogamente, se un gerarca pronuncia un discorso, o se il Re o qualche funzionario di alto rango del Regime fa la sua comparsa, forse si percepisce la sensazione di trovarsi di fronte al personaggio secondario che preannuncia il protagonista, cioè il Duce. Forse un’impressione simile si prova visitando alcuni luoghi che fanno da sfondo alle esibizioni dell’uomo di Predappio. Facciamo un esempio: quando ci si trova a Roma davanti a Palazzo Venezia, non ci s’immagina forse che il Duce si affacci al balcone per pronunciare un discorso? Magari la fatidica dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna del 10 giugno del 1940? Per concludere: Mussolini è un personaggio panottico ed invisibile: panottico nei documentari e in alcuni film narrativi( ad esempio:” Un tè da Mussolini” di Franco Zeffirelli); invisibile nei luoghi storici che “testimoniano” la sua presenza. Per quanto concerne il punto cinque, è noto che il Cimitero di San Cassiano di Predappio di Forlì - in cui sono conservate le spoglie mortali del Duce – è meta di “pellegrinaggi” da parte dei neofascisti fin dal 1957. La villa di Belmonte a Giulino di Mezzegro (frazione di Dongo) e Piazzale Loreto a Milano sono altri luoghi “di culto” per il loro “valore altamente simbolico” (secondo l’ottica neofascista). Un accenno ai pellegrinaggi a Predappio è contenuto anche nel film “La dolce vita” di Federico Fellini (1960). Nello svilupparsi della narrazione, un giornalista, impersonato da Marcello Mastroianni, è spinto soprattutto dalla curiosità a partecipare a una festa notturna che si svolge in un castello romano. A un certo punto fa la sua comparsa un ex gerarca 108 che, alludendo a un pellegrinaggio a Predappio, dice:” E’ stata una cerimonia bellissima, mesta e commovente. Era il popolo, l’autentico popolo che portava fiori al suo capo amatissimo”. Fellini vede l’ex gerarca in una luce negativa, come negativa è del resto tutta la scena del ballo notturno al castello: il regista lancia strali contro l’aristocrazia romana, che non sa più che cosa fare per divertirsi e che non ha più alcun valore in cui credere. Riprendendo il discorso sui pellegrinaggi, è superfluo specificare che essi non erano così frequenti, come invece pare di capire dalle parole dell’ex gerarca. Tuttavia, bisogna tener presente che per i missini era doveroso commemorare alcune “date sacre” del fascismo a Predappio. Secondo Sergio Luzzato, l’afflusso annuale di visitatori alla tomba del Duce è di circa centomila persone, in maggioranza giovani. Ai giorni nostri, noi supponiamo che essi non siano attratti dal fascismo da un punto di vista ideologico, bensì dalla figura del Duce come uomo eccezionale. In altre parole, intendiamo dire che, superato il 2000, il mito di Mussolini è ormai decontestualizzato dagli avvenimenti “dell’era fascista”. Concludiamo la nostra breve dissertazione sulla tomba del Duce formulando una domanda:”Quanti sono stati i visitatori a Predappio dal 1957 sino a oggi?”. Per quel che riguarda il punto sei, è fondamentale tener presente che la fiamma tricolore, già simbolo del Movimento Sociale Italiano, era un emblema fascista. Alleanza Nazionale continua tuttora a mantenere la fiamma nel suo stemma, in cui essa è stata ridimensionata. La fiamma è stata ripresa anche da altre formazioni politiche di destra, e a ragione, perché è appunto un emblema fascista. Qui non ci dilunghiamo sui suoi molteplici valori simbolici; ci preme tuttavia ricordarne soltanto uno: essa rappresenta il “fuoco eterno” che arde nella tomba di Mussolini a San Cassiano di Predappio. Come è noto, il Movimento Sociale Italiano “confluisce” in Alleanza Nazionale negli anni novanta. 109 Noi ci trovavamo per caso a Roma alla fine di maggio del 1988, quando morirono, quasi negli stessi giorni, Giorgio Almirante e Pino Romualdi. Alcune aree della Città Eterna erano tappezzate di due manifesti; il primo riproduceva la fotografia di Almirante e recava la scritta: ALMIRANTE UN GRANDE ITALIANO Il secondo rappresentava l’immagine di Romualdi ed era accompagnato dalla scritta: ROMUALDI LE NOSTRE RADICI NON MUOIONO Noi propendiamo a credere che lo slogan: “le nostre radici non muoiono” riassuma e commenti al tempo stesso tutta la storia del Movimento Sociale Italiano. Nel giorno dei funerali congiunti di Almirante e di Romualdi, seguiti da circa centomila persone, provammo la sensazione che la scomparsa dei due discepoli di Mussolini coincidesse con la fine del neofascismo. Ebbene, le vicende politiche di Alleanza Nazionale ce lo hanno confermato. Prima di affrontare l’ultimo punto, cioè l’indecoroso spettacolo di Piazzale Loreto, vorremmo rispondere a questa domanda:”Quale eredità lascia il fascismo all’Italia? E che cosa rimane dell’opera di Mussolini?”. L’eredità è sia negativa, sia positiva. Vediamo anzitutto la parte negativa. Alla fine del II° conflitto mondiale una buona parte del Paese era devastato; le vittime militari e civili furono innumerevoli; l’economia era in ginocchio. Tuttavia il popolo italiano trovò la forza di reagire e di lottare contro le conseguenze dell’ “immane conflitto”. Diamo ora uno sguardo alla parte positiva dell’eredità. Con la stipula dei “Patti Lateranensi” del 1929, il Regime fascista ha permesso alla Chiesa cattolica di diventare in Italia un’Istituzione forte e duratura. “Inseriti” nella Costituzione della Repubblica Italiana del 1948, i “Patti Lateranensi” furono sottoposti a revisione nel 1984 durante il governo presieduto da Bettino Craxi. In relazione alla realtà politica, economica, sociale e religiosa degli anni ottanta, anche la Chiesa cattolica si dichiarò favorevole alla procedura di 110 revisione, che tuttavia non ha indebolito la missione pastorale della Città del Vaticano in Italia e nel mondo intero. Numerosi Enti pubblici creati dal fascismo (I.R.I., I.N.P.S., ecc.) hanno operato nell’Italia del dopoguerra; in seguito hanno subito profonde modifiche strutturali, richieste dai nuovi tempi. Un discorso analogo si può fare anche per il sistema scolastico che promana dalla riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923. La riforma gentiliana comincia a subire modifiche sostanziali a partire dagli anni ottanta. Ora chiediamoci:”Che cosa ricordano gli Italiani di Mussolini?” Forse le sue estese opere di bonifica. Ecco che cosa scrive in merito Gian Piero Carocci nel suo libro tascabile “Storia del fascismo”: ”I lavori pubblici ebbero il loro fulcro nelle bonifiche: la cosiddetta bonifica integrale, diretta da un distinto agronomo, Arrigo Serpieri…. Mosconi [Ministro delle Finanze], per finanziare i lavori pubblici, aumentò il carico tributario che da allora, nonostante gli sforzi contrari fatti fino al 1930, salì senza più interruzioni. A partire dal 1929 l’Italia detenne il primato, fra le Nazioni principali, nell’incidenza dell’imposta sul reddito. L’aumento tributario fu particolarmente sensibile per le imposte indirette. I lavori per la bonifica integrale furono condotti nel periodo 1928-1933. Fu una politica volta non tanto a mutare i rapporti sociali legati alla proprietà e allo sfruttamento della terra quanto a migliorare tecnicamente la produzione… Invece la riforma del latifondo siciliano, decisa poco prima dello scoppio della IIa guerra mondiale, restò sulla carta”. Nel Lazio, dopo la bonifica dell’Agro Romano furono fondate cinque città: Littoria (ora Latina) nel 1932, ed in seguito Sabaudia, Pontinia, Aprilia e Pomezia. Si sostenne una spesa di otto miliardi di lire; nel 1932 su 9.750.000 ettari di terreno ne erano stati bonificati più di 6.000.000. Opere di bonifica furono realizzate anche nella Maremma toscana. A proposito dei meriti e demeriti di Mussolini, argomento che provoca spesso polemiche e dispute, ci permettiamo di 111 annotare una frase di Francesco Storace, ex-governatore del Lazio: ”Cosa dovremmo fare, distruggere i Palazzi dell’EUR e riempire nuovamente di fango l’Agro Pontino?” (Corriere della Sera 11/10/03). Per quanto concerne l’indecoroso spettacolo di Piazzale Loreto, vorremmo sottolineare che il libro “Il corpo del Duce” di Sergio Luzzato contiene la cronaca di quei giorni tragici. Nel testo citato, l’autore parla del “crucifige” del Duce. Noi siamo inclini a pensare che, oltraggiando il corpo di Mussolini, gli antifascisti abbiano innalzato il mito alle stelle: perché hanno lacerato i resti senza vita dell’uomo che aveva dato all’Italia l’Impero e che, durante il periodo del fascismo repubblicano, si era immedesimato in Cristo. Ne “Il corpo del Duce”, sempre a proposito della “ pubblica esposizione” dei cadaveri di Piazzale Loreto, Sergio Luzzato riporta un commento di Guido Ceronetti, celebre giornalista de “La Stampa” di Torino, relativa a una trasmissione televisiva della “Combat Film”: “E’ strana, inspiegabile, la fortuna postuma del personaggio: quasi un sapore di vendetta dell’invisibile […] Il necrosadismo mascherato di alcuni milioni d’occhi fascinati da un tetro episodio di linciamento di due cadaveri, consente all’ombra di Mussolini di ridacchiare: ha dal canto suo dimenticato gli oltraggi e le empietà di Piazzale Loreto, ma lo diverte vedersi ancora così al centro dell’interesse e perfino delle passioni dei suoi italiani”. Noi siamo propensi a credere che l’interesse degli Italiani per Mussolini sia causato più dalla crescente passione per la Storia che dal “necrosadismo mascherato”. Ma perché l’ombra di Mussolini ridacchia e si diverte? Questo atteggiamento dello spirito del Duce si presta a molteplici interpretazioni; noi ci limitiamo a proporne una. Forse l’uomo di Predappio ridacchiando e divertendosi intende dire: “Ho fatto del male a viso aperto agli Italiani e all’Italia. Meritavo la morte, ma non l’oltraggio ripetuto. Lo scempio del mio corpo ha perfezionato il mito. E il mito si vendica sempre delle ingiustizie della Storia!” 112 APPENDICE I° MUSSOLINI E LA LETTERATURA Chiamato a Trento dai socialisti locali, nel 1909 Mussolini raggiunge la città e diventa segretario della locale Camera del lavoro. Presto la sua intensa attività di giovane rivoluzionario e di giornalista arrabbiato infiamma la vita politica e turba gli ambienti clericali e borghesi di tutto il Trentino, allora sotto la Dominazione austriaca. Egli trascorre buona parte del suo tempo libero nella Biblioteca cittadina e ha modo di leggere, fra l’altro, la storia della nobile famiglia dei Madruzzo, che governarono il Trentino come Principi – Vescovi dal 1512 al 1658 dimostrandosi strenui difensori dell’italianità della regione contro l’invadenza dei Tirolesi. Mussolini prende appunti sui Madruzzo e si ripromette di scrivere un romanzo focalizzato su Carlo Emanuele, ultimo rampollo della casa principesca. In pochi giorni il fervore politico, sindacale e giornalistico del giovane rivoluzionario finisce per preoccupare fortemente gli ambienti cittadini e per inquietare le autorità politiche. Così dopo otto mesi di permanenza a Trento, la polizia riesce a studiare dei motivi per espellerlo. Ritornato a Forlì, egli trova che suo padre, vedovo, convive con Nina Guidi; quest’ultima l’aiuta nell’osteria con due delle sue cinque figlie. Benito s’innamora di una delle due, la bionda Rachele, e dopo una fuga d’amore, la coppia si accasa in una modestissima abitazione. Mussolini non ha dimenticato l’esperienza trentina, e ciò è provato dalla sua corrispondenza con Cesare Battisti, proprietario del quotidiano “Il Popolo”, di Trento, col quale aveva combattuto molte battaglie ideologiche. Dal loro carteggio riaffiora l’idea di scrivere un romanzo sui Madruzzo. Spinto soprattutto dal bisogno di denaro a causa della sua difficile situazione familiare, il giovane agitatore romagnolo inizia a scrivere il romanzo “Claudia Particella. 113 L’amante del Cardinale”, che viene pubblicato a puntate sul “Popolo” di Trento, contribuendo a mantenere una buona tiratura del giornale. La vicenda si svolge nel Trentino del XVII secolo e s’incentra sulla storia d’amore fra il Cardinale Emmanuele Madruzzo, Principe – Vescovo di Trento, e Claudia Particella, figlia di Ludovico Particella, consigliere del Principato. Fin dall’inizio dell’avventura sentimentale, la giovane e bella Claudia domina psicologicamente Emmauele, uomo d mezza età che, pur di accontentarla, cede in tutto alle sue pretese finendo per dilapidare una parte considerevole del denaro pubblico. Tormentato dalla sua passione lunga e peccaminosa, il Madruzzo chiede al Papa la dispensa dalla carica cardinalizia per sposare Claudia. Durante il periodo d’attesa del Decreto papale, muore sua nipote Filiberta. Il Principe l’aveva fatta rinchiudere in un convento affinché – a causa della durezza della clausura – accettasse di sposare un pretendente gradito alla famiglia, anche se la giovane era innamorata del Conte di Castelnuovo. L’improvvisa dipartita di Filiberta mette in crisi Emmanuele. Nonostante il clima di segretezza che avvolge la fine della giovane, Don Benizio – segretario del Principe e segretamente innamorato di Claudia – viene a conoscenza della verità e medita assieme al conte di Castelnuovo la sua vendetta contro Claudia, anch’essa coinvolta nel piano per segregare Filiberta. Prima di mettere in atto i suoi propositi vendicativi, Don Benizio lascia Trento a cavallo per raggiungere Claudia che soggiorna nel castello di Tolmino. Egli intende perdonarla solo se lei accetta le sue offerte d’amore. Ma l’immediato rifiuto di Claudia stimola nel religioso la sete di vendetta. Informato dei fatti, il Madruzzo fa rinchiudere Don Benizio nelle segrete del castello del Buonconsiglio a Trento. La sua incarcerazione provoca un tumulto popolare, fomentato dal Conte di Castelnuovo. Per placare l’ira del popolo, il Principe accetta di far liberare Don Benizio. Ma quest’ultimo, d’intesa col Conte di Castelnuovo, riprende a tramare contro Claudia. I 114 due congiurati incaricano un sicario di ucciderla, ma questi, un tale Martelli, in due occasioni diverse fallisce il colpo ed in entrambi i casi viene graziato. In questo periodo burrascoso una religiosa, inviata dalla curia romana, comunica al Madruzzo il rifiuto del Papa di concedergli la dispensa per sposare Claudia. Tuttavia Emmanuele non si rassegna a questo stato di cose e continua a frequentare l’amante, anche pubblicamente. Durante un ricevimento al castello, Claudia viene avvelenata; colpita da dolori lancinanti, muore lasciando Emmanuele nella disperazione più profonda. Una grande processione voluta dal Principe conclude la narrazione. Il popolo crede che con tale atto solenne il Madruzzo intenda redimersi; in realtà quest’ultimo dedica mentalmente la cerimonia a Claudia in occasione del trigesimo della sua scomparsa. Il Principe si prefigge di vendicare l’amante odiata dal popolo e dal Clero, obbligandoli a partecipare ad un rito funebre in suo onore. Il Madruzzo trascorre gli ultimi anni della sua vita nel mesto ricordo dell’amante perduta e muore nelle stanze della sua residenza, nel 1658. Mussolini rielabora i suoi appunti sui Madruzzo con l’atteggiamento di uno scrittore alle prime armi, che modifica anzitutto alcuni fatti. Ad esempio, nella realtà storica Claudia Particella non viene avvelenata e muore dopo Emmanuele Madruzzo. Nel romanzo, la scomparsa di Claudia precede quella di Emmanuele e si capisce il perché: essendo la donna fatale, Claudia diventa il centro del racconto ed il culmine della vicenda: con la sua morte , la trama narrativa si esaurisce. Inoltre, Mussolini inventa di sana pianta qualche personaggio, come per esempio Don Benizio, modellando il nome di quest’ultimo sul suo (Benizio-Benito). Certamente egli intende scrivere un romanzo storico, ma il risultato finale è un romanzo d’appendice. Infatti, la vicenda s’impernia su nobili, Clero, dame, cavalieri. Mancano descrizioni efficaci e realistiche sia della vita dei nobili e del clero, sia di quella del popolino confinato “ai piè del castello”. 115 Lo scrittore in erba riesce a cogliere solo le manifestazioni esteriori (cerimonie e parate) dei nobili e vede intenzionalmente il Clero come un insieme di religiosi gaudenti e crapuloni più interessati a banchetti e ricevimenti che alla vita ecclesiastica. La prima parte del romanzo presenta una prosa asciutta e leggibile. Nella seconda parte la prosa, a volte vaga e imprecisa, sembra dettata dalla preoccupazione essenziale di raggiungere il finale in tempi brevi. Come scrittore alle prese col suo primo libro e quindi disposto ad appigliarsi a qualsiasi riferimento che possa tornare utile, il futuro Duce inframmezza la narrazione con citazioni illustri che dovrebbero nobilitarla e con descrizioni (o meglio imitazioni) di stampo manzoniano come, nell’apertura del romanzo, quella del paesaggio lacustre immerso nel silenzio. Tuttavia, nel tratteggiare le caratteristiche psicologiche di Emmanuele e in parte anche quelle di Claudia, Mussolini rivela “in nuce” il suo talento di scrittore. Ma il personaggio di Claudia non è ben definito. A volte la protagonista rivela un’indole egoistica e violenta, altre volte si dimostra generosa e compassionevole. In effetti, lo scrittore non riesce “a risolvere” le contraddizioni di Claudia, forse per mancanza di tempo: nel complesso, il ritratto psicologico risulta vago e indefinito. “Claudia Particella. L’amante de Cardinale” è l’unico romanzo di Benito Mussolini, anche se “Il Maestro di Predappio” manifesterà in altre opere le sue doti di scrittore. Ci limitiamo a ricordare “Il Diario di guerra” (1914-1917), e i tre drammi storici degli anni trenta:” Campo di maggio “, “Villafranca” e “Cesare”. Durante gli “anni del consenso” (1929-1936), ormai capo del Governo e riconciliato con la Chiesa cattolica, il Duce rinnega in parte il suo romanzo affermando:”E’ un libro di propaganda politica”, cioè, in altre parole, uno scritto anticlericale. Nel II° dopoguerra, il romanzo fu ripubblicato dall’editore Ciarrapico che si era prefisso di salvare dall’oblio l’opera mussoliniana. Nel 1986 il libro fu ristampato da un editore trentino che inquadrò la vicenda narrata secondo l’ottica del romanzo storico. 116 117 II° MUSSOLINI NELLA CARICATURA Il libro “Il Cesare di cartapesta – Mussolini nella caricatura”, edito a Torino nel 1945, contiene una raccolta di circa seicento vignette riprese soprattutto da giornali e riviste pubblicati all’estero durante il Ventennio. L’autore del testo si firma con lo pseudonimo di GEC. Abbiamo selezionato alcune caricature che colpiscono il “mito imperiale” del Duce. 118 Cesare Mussolini - Sono deciso a lasciare il buon Dio al suo posto, ma è necessario che sia italiano! 119 Il famoso Mussolini di Covarrubies 120 La Società delle Nazioni come la vorrebbe Mussolini 121 Mussolini e i ragazzi - Lasciate che i bimbi vangano a me... 122 Megalomania Mussolini si esercita nella parte di Imperatore d’Europa 123 La carta del lavoro in Italia Mussolini: Il mio gesto ha una grande portata sociale. Tra due guerre bisogna sempre dar soddisfazione algi operai... 124 La pace La porta del tempio di Giano è stata di nuovo aperta da Mussolini 125 128 Il nuovo Nerone Mussolini studia la parte per un nuovo attentato 126 Seipel e Mussolini Seipel: La tua fede è la mia e così il mio tirolo può essere tuo!! 127 Il protettore dell’Islam ... e il protettore del protettore dell’Islam 128 Per fortuna l’Italia ha la forma di uno stivale 129 Mussolini: - Lo stato sono io 130 Così parlò il Re - Credi a me Duce. Tu ed io, la mano nella mano, dominiamo questo secolo!! 131 L’appetito vien mangiando - Tutti i Ministeri a me!! 132 - Ah! Se potessi aggiungere questa tiara alla mia collezione! 133 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE (in ordine alfabetico) - - - 134 Paolo Alatri – Mussolini – Roma, 1996 Giovanni Artieri – Le guerre dimenticate di Mussolini – Etiopia e Spagna Milano, 1995 Camillo Berneri – Mussolini grande attore – Pistoia, 1983 Giampiero Carocci – Storia del fascismo – Roma, 1996 (a cura di) Camilla Cederna – Caro Duce – lettere di donne italiane a Mussolini Milano, 1989 (a cura di) Armando Cillari – Parola di Benito – Milano, 1992 Enrico Gianeri (GEC) – Il Cesare di cartapesta – Mussolini nella caricatura Torino, 1945 Hardouin di Belmonte – Una favola vera – Milano, 1932 Don Ennio Innocenti – Disputa sulla conversione di Mussolini – Roma, 1987 Emil Ludwig – Colloqui con Mussolini – Milano, 1932 Sergio Luzzato – Il corpo del Duce – Torino, 1999 Benito Mussolini – Opera Omnia – Firenze, 1951 1981 Benito Mussolini – Claudia Particella. L’amante del Cardinale – Trento, 1986 Quinto Navarra – Memorie del commesso di Mussolini – Milano, 1983 - - Ernst Nolte – Il fascismo nella sua epoca – Milano, 1993 Luigi Somma – Mussolini morto e vivo – Napoli Roma, 1960 Filippo Speciale – Augusto fondatore dell’Impero romano – il Duce fondatore dell’Impero italiano – Treviso, 1937 Giovanni Vigano – Mussolini e i Cesari – Milano, 1933 135 RINGRAZIAMENTI Desidero esprimere i miei sentiti ringraziamenti a: - Barbara e Franca per la correzione del testo; - Monica e Valentina per la composizione del dischetto. Colgo l’occasione per ringraziare la Direzione della Biblioteca civica di Torino per la gentile collaborazione. L’autore 136