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Per trattamento si intende spesso riferirsi
all’accezione “penitenziario
criminologica”, intesa come l’insieme
delle tecniche modificative della
personalità del condannato, poste in essere
al fine di favorire la rieducazione ed il
reinserimento nella società.
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Le posizioni teoriche su questa funzione
della pena, che possiamo chiamare
“correzionale”, giustificano la sanzione
penale con la sua essenza trattamentale. La
finalità rieducativa, attraverso la
trasformazione della personalità del
condannato, legittimerebbe la sanzione
criminale, la sua utilità.
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L’idea di pena come misura di
rieducazione si rifà al modello riabilitativo.
La sanzione non può consistere in una
mera retribuzione ma deve essere un
mezzo di difesa contro il delinquente che
non va tanto punito, ma riadattato alla vita
sociale
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L’interpretazione della delinquenza a cui si
rifà questo modello si basa su tre elementi
fondamentali
- l’ideale riabilitativo per il quale la
comprensione delle cause dell’atto
criminoso è funzionale al reinserimento
sociale e quindi ad un’attività di
rieducazione
- La predizione della pericolosità sociale
- L’individualizzazione del trattamento
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Dietro quindi l’idea rieducativa della pena
c’è la convinzione che il delitto sia effetto
di una patologia da rimuovere con tecniche
apposite e che la pena privativa della
libertà sia l’ambito naturale del
trattamento.
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Oggi ormai è acquisita la critica di questa
idea di trattamento e si collega in primo
luogo alla crisi del concetto di pena
proprio della cosiddetta filosofia
correzionale, che si basa appunto sulla
pretesa finalità medicinale della pena, a
partire da una contestazione del diritto
dello Stato a pretendere una
trasformazione del reo e ad una
valutazione dell’impossibilità di ottenerla
durante l’esecuzione della pena
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Una più articolata elaborazione dell’idea di trattamento che
superi l’ideologia classica di trattamento stesso, che
rivela la crisi del concetto di pena a partire dalla
contestazione del diritto dello Stato a pretendere una
trasformazione del reo e a ottenerla durante l’esecuzione
della pena è formulata da Luigi Daga, già Direttore
dell’Ufficio Studi e Ricerche dell’Amministrazione
Penitenziaria per il quale il possibile superamento delle
argomentazioni delle teorie critiche del trattamento si può
svolgere solo nell’ambito di una rilegittimazione del
trattamento rieducativo che tenga conto della necessità di
riformulare le finalità e le metodiche del trattamento
penitenziario, finalità che non potranno più essere dirette
“positivamente” alla costruzione di un modello di valori
univoco, ma solo “in negativo” ad un comportamento non
lesivo dell’ordinamento sociale
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Le metodologie per Daga dovranno prescindere da ogni
approccio coattivo, tanto più difficile da realizzarsi in un
sistema di tipo premiale, per ridefinirsi nell’ottica del
servizio, garantendo un aumento delle opportunità di
reinserimento sociale, parallelamente alla diminuzione
del deterioramento conseguente alla restrizione detentiva.
Il trattamento, come strumento di umanizzazione della
pena andrebbe quindi individuato come diritto, vale a dire
come diritto alla fruizione di servizi interni penitenziari,
al fine di depotenziare l’effetto desocializzante e
criminogeno della detenzione, ma senza un legame
diretto con la rieducazione ed il reinserimento. Il
trattamento infine come “tecnica della rieducazione” non
potrebbe essere altro che un “contratto di trattamento”,
rispettando però la garanzia di una non coazione sulla
personalità dell’utente.
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E questa prospettiva si rinforza anche in
relazione alla domanda se abbia senso un
percorso educativo in un contesto di
restrizione, e ancor prima se sia possibile
educare quando manca il presupposto della
libertà
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Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione
scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre
cause del disadattamento sociale…(art. 13, c. 2 O.P)
L’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei
bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche,
affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione
di una normale vita di relazione. Ai fini dell’osservazione si provvede
all’acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, clinici, psicologici e sociali
e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto
le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi
del trattamento. Sulla base dei dati giudiziari acquisiti, viene espletata, con
il condannato o l’internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche
poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse
per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle
conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa.
(art. 27, c. 1 D.P.R. 230/2000)
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….il punto fondamentale e decisivo è di accertare se il soggetto si è
realmente ravveduto o sta realmente ravvedendosi, se, di
conseguenza, egli osserva le norme e le disposizioni solo perché non
può fare diversamente o perché, invece, le accetta e con esse accetta
il sistema di valori della società civile.
Il giudizio è, dunque, estremamente difficile, in quanto bisogna,
certo, ricercare dati oggettivi e riscontri verificabili, ma bisogna
anche cercare, in qualche modo, di penetrare nella mente e
nell’anima delle persone e di capirne le intenzioni. E’ già difficile
dimostrare se una persona ha commesso un delitto, ma è anche più
difficile valutare se essa ne commetterà o ha l’intenzione di
commetterne altri. Se è difficile giudicare il passato, è ancora più
difficile giudicare il futuro, fare una previsione.
(Circolare n. 3337-5787 del 07.02.92 “Istituti penitenziari e centri di
servizio sociale: costituzione e funzionamento delle aree”)
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Elemento fondamentale che ci permette di riflettere sull’attività di
osservazione è il pregiudizio, così come ci viene offerto dall’ermeneutica.
Possiamo definire il pregiudizio un’anticipazione non problematizzata di un
giudizio, o meglio come afferma H.G. Gadamer in “Verità e metodo”, un
giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di
tutti gli elementi obiettivamente rilevanti. Ma sebbene il concetto di
pregiudizio possegga una valenza negativa, esso non significa
necessariamente giudizio falso o infondato. La riabilitazione del pregiudizio
viene proprio da Gadamer per il quale non solo sussistono pregiudizi
legittimi, ma per il quale essi sono la manifestazione della finitudine storica
dell’individuo, ossia del fatto che l’uomo è un ente “situato” che appartiene
ad un determinato mondo storico sociale, da cui deriva valori e credenze.
Questo carattere costitutivo dei pregiudizi fa si che si configurino come delle
linee orientative provvisorie, come nostro orizzonte di precomprensione
della realtà, suscettibili di conferma o, come più spesso accade, di correzione
e smentita.
Pur essendo immerso nei pregiudizi e pur essendo obbligato a coesistere con
essi, in quanto forma mentis, l’uomo non può quindi fare a meno di
sottoporli a prova, saggiandone la consistenza e la validità.
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Nella circolare del 2003 è stato definito GOT – Gruppo osservazione e
Trattamento – quel “gruppo allargato di cui fanno parte o possono essere
chiamati a far parte, con il cordinamento dell’educatore, tutti coloro che
interagiscono con il detenuto e che collaborano al trattamento stesso”
E’ pertanto un gruppo la cui composizione è estremamente mobile a seconda
di coloro che si occupano dello stesso singolo soggetto in esecuzione di
pena.
E’ il detenuto il comune denominatore nel GOT e qui avviene lo scambio di
informazioni con tutti gli operatori, la condivisione delle valutazioni sui
singoli casi, la decisione sulla suddivisione dei compiti al fine di evitare la
ridondanza di interventi simili, ferma restando la centralità del ruolo
dell’educatore penitenziario.
L’educatore penitenziario svolge rispetto al caso le funzioni di “segretario
tecnico” e quindi avrà il compito di attivare la richiesta di un contributo di
consulenza al servizio sociale, di incentivare il coinvolgimento attivo di tutti
i soggetti che collaborano al trattamento, promuovendo riunioni di
confronto e di valutazione congiunta e svolgendo gli interventi suoi propri.
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L’equipe è invece il “gruppo ristretto”, avente rilevanza esterna,
presieduta dal Direttore dell’Istituto, ed è composta dall’Educatore,
dall’Assistente sociale incaricato del caso, dall’Esperto e dal
Comandante [e dal medico], soltanto quindi dalle figure
istituzionalmente competenti alla “gestione” dell’esecuzione della
pena e che hanno pertanto competenza a definire formalmente la
sintesi/aggiornamento dell’osservazione, ed un’ipotesi di trattamento
intra o extramurario che, se ben funziona il coordinamento di cui
sopra (e sarà compito del segretario tecnico di “veicolare” in sede
di equipe tutte le riflessioni, informazioni ed ipotesi raccolte presso
gli operatori del GOT), trarrà origine dal lavoro di tutti gli operatori
del GOT
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E’ possibile attivare processi di cambiamento
nell’ambito del contesto detentivo e quindi
durante l’esecuzione della pena detentiva?
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Per Piero Bertolini dietro un comportamento
disadattato c’è sempre una personale visione
del mondo. Ma ogni weltanschauung non è mai
una visione definitiva, statica. Essa si modifica
in base alle esperienze fatte.
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Il cambiamento del comportamento avviene se
la persona è in grado di modificare il modo di
vedere se stessa e se stessa nel mondo, nel
rapporto con gli altri
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Non è però attraverso un condizionamento o
una situazione coercitiva che possono avvenire
questi percorsi di modificazione. Solo se alla
base c’è una scelta di libertà, può esserci
un’evoluzione della propria visione del mondo e
un reale cambiamento
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 “deformazione”
 dilatare
il campo di esperienza
 metodo autobiografico
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La risorsa fondamentale nell’educazione
dell’adulto è la sua esperienza.
Un adulto impara da ciò che fa, dice, pensa.
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ALL’ADULTO SI CHIEDE DI AUTOEDUCARSI,
DI ESSERE GUIDA DI SE STESSO,
ASSUMENDO LA RESPONSABILITA’ DELLA
PROPRIA VITA E DANDO SENSO ALLE
PRATICHE DELLA QUOTIDIANITA’
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“Terza via” dell’orientamento
autobiografico che si rivolge a diversi modi di
apprendere, attraverso pratiche narrative e
riflessive, rispetto all’approccio classico di
intervento educativo con adulti svantaggiati
(“paradigma terapeutico” dell’EDA) come
recupero, sostegno e rafforzamento del
discente, che confermava una visione
“carenziale” del soggetto in formazione,
secondo una visione tipica nella pratiche
tradizionali di (ri)educazione di soggetti
marginali, ma anche in contesti insospettabili di
formazione aziendale e occupazionale (es.
riqualificazione professionale)
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Nel raccontarsi, e nel farlo all’interno
di un certo contesto, il soggetto
costruisce se stesso, si forma
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Con il movimento autobiografico non sono
introdotti nuovi strumenti o nuove metodologie
di formazione e apprendimento in età adulta,
ma è resa operativa una profonda
trasformazione del concetto di educazione.
Centrale in questa trasformazione è
l’introduzione nel discorso pedagogico della
soggettività, del discente da un lato, del
formatore dall’altro, in cui l’uno è riconosciuto
capace di automotivarsi ad apprendere e
attribuire significati autonomi alle proposte
educative, l’altro non è da intendersi come
osservatore neutro, ma che opera a partire
dalla propria storia e orizzonte di conoscenza.
La formazione diventa allora relazione
formativa.
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Anche per Duccio Demetrio l’educazione ha a
che fare in senso stretto con il concetto di
cambiamento, a tal punto che per questo autore
il prodotto dell’azione educativa non sembra
avere senso se non nella rilevazione dei
processi di cambiamento prodotti dall’azione
educativa stessa.
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Educare significa sempre e comunque
produrre modificazioni a livello cognitivo
e comportamentale. Il concetto di
cambiamento è legato quindi
strutturalmente all’idea di educazione
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Nel passaggio dalla dimensione teoretica a
quella pratica, dal pensiero sull’educazione
all’agire educativo, la pedagogia è allora quella
scienza pratica che studia le condizioni che
inducono processi di cambiamento e
predispone le condizioni perché il cambiamento
possa attivarsi
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Il lavoro educativo, per Demetrio,
non accetta l’esistente ma lo
modifica.
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Nell’ambito di una relazione
educativa deve essere fornito all’
interlocutore la possibilità di una
diversa rappresentazione sociale e
personale, in funzione di un
cambiamento migliorativo.
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“Mi facevo, ora non più”
“Bevevo, ora non più”
ma anche
“Rapinavo, ora non più”
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Il lavoro, da genericamente
educativo, diventerà poi pedagogico
in senso stretto quando saprà
costruire e trasportare in ogni
situazione la rappresentazione del
cambiamento, inducendoli
“artificialmente” nel passaggio da
una dimensione spontaneistica
dell’intervento educativo ad una più
strettamente intenzionale
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Il colloquio motivazionale
Il colloquio motivazionale è una pratica usata in
ambito “correzionale” per incoraggiare
cambiamenti comportamentali positivi negli
autori di reato
Il CM si è sviluppato negli anni ’80 dalla
ricerca sul counselling nell’ambito
dell’alcolismo e ha l’obiettivo di
accrescere la motivazione intrinseca al
cambiamento negli autori di reato
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-
Tre principali principi di efficacia
dell’intervento del CM:
Indirizzare gli interventi agli autori di reato
maggiormente a rischio
Focalizzare l’attenzione sui comportamenti
che riducono il crimine (miglioramento
autocontrollo, implemento rete d’aiuto, impegno in valori
prosociali, cambiamento gruppo pari, riconnessione a
reti primarie/positive, trattamento abuso sostanze)
-
Essere adeguati allo stile dell’autore di
reato (rispondenza)
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Se l’obiettivo è quello di incoraggiare
cambiamenti comportamentali a lungo
termine, l’operatore deve usare tecniche
che danno accesso alla motivazione al
cambiamento intrinseca piuttosto che si
affidano solo a pressioni esterne
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-
-
La motivazione è predittiva dell’azione
La motivazione riguarda un comportamento
specifico
La motivazione è variabile
La motivazione è interattiva
La motivazione può essere influenzata sia da
fattori intriseci che estrinseci
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La motivazione intrinseca al cambiamento
può essere aumentata secondo tre principi
di base:
Autonomia (è la percezione avvertita dall’individuo di
sentirsi l’agente determinante di un azione: “Ho scelto di
farlo”)
Competenza (implica la convinzione relativa alla
fiducia: “io posso farlo” e al bisogno di credere che il
cambiamento sia importante e possibile)
Relazioni (è più probabile che si realizzi un
cambiamento quando ci sono persone che offrono
supporto all’autore di reato)
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Secondo il modello degli “stadi del
cambiamento”, originariamente sviluppato per
riflettere sul cambiamento comportamentale delle
persone che smettono di fumare, il cambiamento
è un processo che si sviluppa nel tempo.
Le persone possono partire da una posizione di
non sostanziale interesse al cambiamento
(precontemplazione), per poi avere una certa
consapevolezza o sentimento sul cambiamento
(contemplazione), essere determinate al
cambiamento (determinazione), iniziare a
cambiare (azione) e mantenere il cambiamento
nel tempo (mantenimento)
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Sono tre le forze principali che fanno
muovere attraverso gli stadi:
- La prima forza è inerente lo sviluppo
(la criminalità tende a diminuire con gli anni)
-
La seconda forza è inerente l’ambiente
- La terza forza è inerente al sistema penale,
al sistema sanzionatorio, alla riabilitazione
e alla relazione con gli operatori
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Il trattamento in carcere