BIBLIOGRAFIA
Terre alte, terre di fascino: quattro province lungo l’antica via del sale.
Arti grafiche bicidi srl , Genova
Oltrepò pavese: terre da vivere e da scoprire
Studio sessantasei Casteggio
Catalogo del sistema museale della Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese
Guardamagna stampa Varzi
Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese
In giro per l’Oltrepò Pavese: tra cultura, storia, arte e natura
Jona srl Paderno Dugnano (MI)
O.P.
Terra D.O.C. di Lombardia
Torchio De’Ricci.
La cucina delle nonne
Key books
I sapori delle stagioni nella terra pavese
Edizioni Verba e Scripta
Internet
Interviste
Archivi familiari
Durante quest’anno scolastico gli alunni della scuola secondaria di primo
grado
di Godiasco, sono diventati protagonisti nella riscoperta del passato
e del loro futuro, attraverso visite guidate, uscite sul territorio,
interviste,
ricerche di documenti significativi, di storie familiari e tradizioni
alimentari.
Ho condotto gli alunni a riscoprire le loro radici storico-sociali-culturali
e religiose.
Abbiamo rappresentato, attraverso una pluralità di narrazioni e di
linguaggi,
un percorso espositivo che, alla fine, spero abbia prodotto nei ragazzi
consapevolezza e senso di appartenenza al proprio territorio.
Un grazie a tutti per la collaborazione.
L’insegnante referente
Un tempo, ancora vicino a noi, esisteva un intenso legame tra
tavola e terra,
quasi un filo invisibile che legava la cucina all’orto, al frutteto
e alla stalla.
Esisteva un vero e proprio ‘calendario gastronomico ’ con un
Nell’Oltrepo’ l’anno gastronomico era sempre
inaugurato dal Capodanno.
Dalla tavola era bandito il pollo, considerato di cattivo
auspicio. Invece veniva consumato il maiale, il “musino” e il
“cotechino”, accompagnato dalle lenticchie, simbolo della raccolta e
del profitto, e l’oca arrosto con insalata di verze.
In occasione della festa di Sant’Antonio, 17 gennaio, s’interrompeva la
macellazione del maiale per ringraziare il Santo protettore degli animali. Questa,
cominciata l’11 novembre, festa di san Martino, si concludeva verso la metà di
febbraio. La monotonia della cucina impoverita veniva spezzata dall’uccisione del
maiale, esso attraverso diverse fasi veniva cucinato e in seguito, in occasione di
questo grande avvenimento, venivano invitati tutti i parenti e gli amici. Si voleva
anche inaugurare l’anno agricolo, si auspicava che i raccolti fossero stati
abbondanti. In questa occasione si cominciava a preparare la carne per i salumi,
infatti chi possedeva un maiale e quindi poteva lavorarne la carne era considerato
‘uno che sta bene’.
Altra tradizione era consumare la zuppa di castagne perché avrebbe propiziato
una
buona raccolta dei bozzoli di gelso.
La festa del carnevale cominciava il sabato “grasso” al
martedì. Si usava mangiare agnolotti e frittelle, soprattutto
le chiacchiere accompagnate da buon vino. I giovani si
mascherano, andavano di casa in casa come augurio di
buona fortuna, la sera si ritrovavano a danzare nella
Società Operaia di Mutuo Soccorso, oggi “teatro Cagnoni”.
Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, le contadine nascondevano in seno la
semente dei bachi da seta per favorirne l’apertura.
Sempre in quest’occasione si friggevano frittelle dolci con lo strutto, sulla stufa,
più note come ‘farsòe’. La tradizione racconta che San Giuseppe non aveva il
pane, così decise di friggere farina e olio; per questo motivo si usa mangiare le
frittelle in quel giorno.
Dopo la stagione fredda si arrivava alla
Quaresima, periodo di digiuno e di
astinenza dalla carne. La tradizione voleva
che si mangiasse “magro”, quindi veniva
consumato prevalentemente pesce: aringa
e merluzzo pescati nel mar Ligure.
Il giorno di Pasqua si mangiava il gallo, l’unico animale rimasto
nel pollaio, che si doveva rinnovare con la nuova
stagione. Le nonne amavano donare ai loro nipotini ‘ar cavagnòe da
l’oeu’, un cestino fatto di pane contenente un uovo cotto al forno. Le
prime erbe dei prati ed i formaggi venivano utilizzati per
preparare la torta pasqualina.
La Pentecoste è il giorno
della festa patronale del paese
che veniva celebrata
in chiesa, in piazza e sulle
tavole.
I piatti tipici consumati erano: i
salumi, i ravioli o i risotti, gli
arrosti, la torta paradiso e il
croccante.
Per i ragazzi questo era un giorno
di divertimento: si giocava in
piazza di giorno
e di sera si andava a ballare alla
«Società», oggi
Teatro Cagnoni.
Il lunedì della Pentecoste si festeggia la Santa Patrona,
Santa Reparata. È una festa soprattutto liturgica perché si fa
la processione con la reliquia della Santa per le vie del paese.
Questo è il periodo dei lavori in campagna, di
Conseguenza, la cucina si fa svelta. Non si
accendevano i fuochi in casa e spesso le donne
seguivano gli uomini al lavoro. In questo
periodo si preparava la ‘schita’ (un disco bianco
di acqua, sale e farina),che veniva fritta nello
strutto e in più farcita. I contadini, a pranzo,
Mangiavano sedano e gorgonzola,
accompagnati dal pane. Tornati dal lavoro si
rifocillavano con un uovo sbattuto nello zucchero
e nel vino. Tipici dell’estate erano i frutti,
consumati in grande quantità. A caratterizzare
tutta la cucina erano cibi freschi e crudi come
l’insalata di fagioli, pomodoro, uova sode e
acciughe. Molto usate anche frittate, formaggi,
robbioline. In collina si comperava il ‘sirass’,
una ricotta. L’uva verdea si riponeva in soffitta
dove veniva lasciata appassire sino a Natale. Con
Il mosto si preparava un dolcissimo budino e il
vino per tutto l’anno.
Con l’autunno cominciava
l’ultimo raccolto di noci,
nocciole, castagne, nespole e
altra frutta tardiva.
Queste ultime erano destinate
all’ammollo dell’ultimo vinello
torchiato o alla mostarda.
Si accendevano nuovamente i
fuochi e i piatti ritornavano ad
essere caldi: zuppa,
minestrone, polenta, carne
in umido; cominciava
anche la stagione della caccia.
Tipico di Ognissanti era la zuppa di
ceci, nei boschi si raccoglievano le
castagne e i funghi per la polenta.
L’11 novembre, San Martino, i
contadini terminavano i lavori
in campagna e si rinnovavano i
contratti di mezzadria. San
Martino era giorno di grande festa
e mercato: veniva acquistato il
bestiame, i panni pesanti per
l’inverno che avanzava e ci si
concedeva il vino novello. Il
pranzo era caratterizzato dalla
presenza della “busecca”, ossia la
trippa.
Il periodo dell’Avvento, fino a metà del
secolo scorso, veniva vissuto come
preparazione del Santo Natale e si
tendeva a mangiare di magro, dando
largo spazio a
polenta, zuppe, fagioli.
Il venerdì era d’obbligo
il piatto di “magro” per eccellenza:
il merluzzo.
La fine dell’avvento era il 23 dicembre.
La cena delle sette cene – sena di
sét sen – aveva un valore legato
alla religiosità e alla scaramanzia.
C’erano sette portate di magro,
sette le ore di luce dei giorni
intorno al solstizio, sette i peccati
capitali e sette candele del cero
sacro. Tra le pietanze tipiche vi
erano le cipolle ripiene, la torta di
zucca e la formaggetta con
mostarda e focaccia dolce,
insalata di peperoni sott’aceto,
lasagnette all’aià, merluzzo con
cipolle.
Il pranzo di Natale si apriva con un antipasto
molto ricco:
salame (crudo e cotto), cacciatorino, pancetta,
lingua di manzo cotta, con la salsa verde.
Primo piatto erano gli agnolotti conditi con sugo
di stufato; la
seconda portata era il cappone ripieno.
Al centro della tavola si trovava il miccone, che il
capofamiglia
avrebbe fatto benedire, il giorno di Sant’Antonio,
per poi
darlo agli animali sofferenti, nel corso dell’anno
seguente.
Nelle cucine delle nonne si preparava il pane a
forma di
bambola, chiamata “busela”, con all’interno noci
o uvetta. Il
panettone avanzato, si conservava per San
Biagio, con la
credenza che avrebbe curato dal mal di gola.
Gli avanzi del pranzo di Natale
costituivano
la cena di S. Stefano, 26
dicembre.
Il brodo del cappone veniva
impiegato per preparare
il risotto, il cappello del prete
veniva
accompagnato dal purè di
patate e di spinaci.
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