Michele Camerota Galileo discepolo di Archimede Roma, 13 novembre 2013 «Per conseguir dunque il fine d’una così difficil impresa [studiare le matematiche], s’applicò a studiare Archimede, con il consiglio del menzionato Ricci [Ostilio Ricci], dal quale ancora gli fu dato in dono. È cosa impossibile a raccontare quanto incremento ricevesse dal studio di questo gran’huomo; certo è che con la scorta di lui stabilì saldissimi fondamenti e non dubitò poscia di sollevarsi in alto, con impennar l’ali alla speculazione, investigando non solamente le cose più nascose operate dalla natura in questo mondo inferiore o sublunare, ma di sapere ancora tutto quello che si trova di maraviglioso nel superiore e celeste: potersi, diceva egli, passeggiar sicuro e senza inciampo sì per la terra come per il cielo, mentre non si fossero smarrite le pedate d’Archimede; e stimava ciò esser permesso a chiunque l’intendea, ma che in questo consistea ogni difficultà». N. Gherardini, Vita di Galileo, (1654); (cfr. OG, XIX, p. 637). «Confesso la mia negligentia in esser stato troppo a risponderle; ma mi sono lasciato trasportare dal tempo, che volevo mandargli il libro, il quale è apunto finito di stampare adesso. Io conosco benissimo che V. S. non ha punto bisogno di questo comento, ma il libro è fatto per i principianti: e non so se nella praefatione del secondo libro io sarò stato troppo arrogante in esser contrario a Eutocio, a Pappo et a molti altri moderni; ma io ho voluto pigliar la parte di Archimede più che io ho potuto. Haverò caro di saper il suo giuditio, quale stimo sopra ogni altro». Guidobaldo Dal Monte a Galileo, 24 marzo 1588 «Salv. Queste sono alcune proposizioni attenenti al centro di gravità de i solidi, le quali in sua gioventù andò ritrovando il nostro Accademico, parendogli che quello che in tal maniera aveva scritto Federigo Comandino non mancasse di qualche imperfezzione. Credette dunque con queste proposizioni, che qui vedete scritte, poter supplire a quello che si desiderava nel libro del Comandino; ed applicossi a questa contemplazione ad instanza dell’Illustrissimo Sig. Marchese Guid’Ubaldo Dal Monte, grandissimo matematico de’ suoi tempi, come le diverse sue opere publicate ne mostrano, ed a quel Signore ne dette copia, con pensiero di andar seguitando cotal materia anco ne gli altri solidi non tocchi dal Comandino; ma incontratosi, dopo alcun tempo, nel libro del Sig. Luca Valerio, massimo geometra, e veduto come egli risolve tutta questa materia senza niente lasciar in dietro, non seguitò più avanti, ben che le aggressioni sue siano per strade molto diverse da quelle del Sig. Valerio. Sagr. Sarà bene dunque che in questo tempo che s’intermette tra i nostri passati ed i futuri congressi, V. S. mi lasci nelle mani il libro, che io tra tanto anderò vedendo e studiando le proposizioni conseguentemente scrittevi». G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Leida, 1638, p. 288. «Si come è assai noto a chi di leggere gli antichi scrittori cura si prende, avere Archimede trovato il furto dell'orefice nella corona d'oro di Ierone, così parmi esser stato sin ora ignoto il modo che sì grand’uomo usar dovesse in tale ritrovamento: atteso che il credere che procedesse, come da alcuni è scritto, co ’l mettere tal corona dentro a l'aqqua, avendovi prima posto altrettanto di oro purissimo e di argento separati, e che dalle differenze del far piu o meno ricrescere o traboccare l’aqqua venisse in cognizione della mistione dell'oro con l’argento, di che tal corona era composta, par cosa, per così dirla, molto grossa e lontana dall' esquisitezza; e vie più parrà a quelli che le sottilissime invenzioni di sì divino uomo tra le memorie di lui aranno lette ed intese, dalle quali pur troppo chiaramente si comprende, quanto tutti gli altri ingegni a quello di Archimede siano inferiori, e quanta poca speranza possa restare a qualsisia di mai poter ritrovare cose a quelle di esso simiglianti. Ben crederò io che, spargendosi la fama dell'aver Archimede ritrovato tal furto co ’l mezo dell’aqqua, fosse poi da qualche scrittore di quei tempi lasciata memoria di tal fatto; e che il medesimo, per aggiugner qualche cosa a quel poco che per fama avea inteso, dicesse Archimede essersi servito dell’aqqua nel modo che poi è stato dall’universal creduto. Ma il conoscer io che tal modo era in tutto fallace e privo di quella esattezza che si richiede nelle cose matematiche, mi ha più volte fatto pensare in qual maniera, co ’l mezo dell’aqqua, si potesse esquisitamente ritrovare la mistione di due metalli; e finalmente, dopo aver con diligenza riveduto quello che Archimede dimostra nei suoi libri Delle cose che stanno nell'aqqua ed in quelli Delle cose che pesano ugualmente, mi è venuto in mente un modo che esquisitissimamente risolve il nostro quesito: il qual modo crederò io esser l’istesso che usasse Archimede, atteso che, oltre all’esser esattissimo, depende ancora da dimostrazioni ritrovate dal medesimo Archimede». G. Galilei , La bilancetta (cfr. OG, I, p. 368). Bilancia idrostatica Bilancetta in vetro – Museo Galileo, Firenze – XVII secolo, Firenze. Realizzata in vetro soffiato, questa bilancetta idrostatica è costituita da un braccio sospeso ad un fulcro in posizione centrale. Ad una estremità del braccio è appesa una sferetta di vetro sigillata, all'altra un cestello contenente frammenti di cristallo. La bilancia consente di misurare la densità dei fluidi. Questo risultato si ottiene immergendo la sferetta di vetro in un fluido. Per controbilanciare la spinta di tale fluido e mantenere la bilancia in equilibrio, è necessario porre nel cestello un determinato peso (corrispondente a un certo numero di frammenti di cristallo). Più denso è il fluido, più alto risulterà il numero dei frammenti di cristallo necessari per bilanciare la spinta. La bilancetta abbina il principio della spinta di Archimede a quello della bilancetta galileiana. Galileo: il modello idrostatico negli scritti De motu «Lationem omnem naturalem, sive deorsum sive sursum illa sit, a propria mobilis gravitate vel levitate fieri, inferius explicaturi» OG, I, p. 251. [«Spiegheremo più sotto che il moto naturale, sia verso il basso che verso l’alto, viene fatto a partire dalla pesantezza o dalla leggerezza propria del mobile»] La ‘pesantezza (o leggerezza) propria’ di un mobile equivale per Galileo al suo peso specifico. Ne risulta un quadro problematico costruito in larga misura in analogia con l’idrostatica archimedea, che assume come termini prioritari della spiegazione dinamica il confronto tra peso specifico del mobile e quello del mezzo. Si delineano così tre casi: 1)i corpi dello stesso peso specifico del mezzo nel quale sono immersi non si muovono né verso l’alto né verso il basso; 2) i corpi più leggeri del mezzo ambiente ascendono; 3) i corpi più pesanti del mezzo circostante procedono necessariamente verso il basso. Il moto naturale viene, pertanto, riportato alla sperequazione sussistente tra il peso specifico del mobile e quello del mezzo in cui il corpo si trova immerso. Nella prospettiva galileiana un simile confronto di gravità specifiche non conduce solo alla determinazione della causa e della direzione del moto, ma funge anche da misura della velocità stessa del movimento. In tal senso, quando il peso specifico p del corpo a è maggiore di quello del mezzo m, il movimento sarà diretto verso il basso con una velocità eguale alla differenza pa – pm. Nel caso, invece, che pa < pm, il corpo si sposterà con un moto ascensionale, la cui velocità equivarrà a pm – pa. Infine, quando pa = pm allora la velocità sarà pari a zero (v = 0); si avrà, in sostanza, uno stato di equilibrio–quiete. «Cum enim certissimis, clarissimis atque subtilissimis mathematicis demonstrationibus sis assuetus, utpote divini Ptolomaei et divinissimi Archimedis, crassioribus quibusdam rationibus nullo pacto assentiri potes». OG, I, p. 368. [«Quando ti sei abituato a dimostrazioni matematiche certissime, chiarissime e sottilissime, come quelle del divino Tolomeo e del divinissimo Archimede, non puoi in alcun modo prestare assenso ad altre più grossolane».] «Methodus quam in hoc tractatu servabimus, ea erit, ut semper dicenda ex dictis pendeant; nec unquam (si licebit) declaranda supponam tanquam vera. Quam quidem methodum mathematici mei me docuere: nec satis quidem a philosophis quibusdam servatur […]». OG, I, p. 285. [«Il metodo che osserveremo in questo trattato sarà quello di far dipendere sempre le cose da dire da quelle già dette, e (se possibile) di non porre mai come vero ciò che deve ancora essere dimostrato. Tale metodo mi è stato insegnato dai miei matematici, ma esso non è abbastanza rispettato da certi filosofi […]». «Sileant, profecto, sileant, qui philosophiam consequi posse autumant absque divinae mathematicae cognitione. Ecquis unquam negabit, hac sola duce verum a falso dignosci posse, huius auxilio ingenii acumen excitari, hac denique duce quicquid inter mortales vere scitur percipi et intelligi posse?» OG, I, p. 401. [«Tacciano, dunque, quelli che sostengono di poter conseguire una conoscenza filosofica senza aver nozione della divina matematica. E chi mai oserà negare che con la sola guida della matematica si riesce a discernere il vero dal falso, e che col suo aiuto si amplifica l’acutezza dell’ingegno, e, infine, che, seguendola, è possibile percepire e comprendere tutto ciò che di vero si conosce tra i mortali».] «Dico, dunque, la cagione per la quale alcuni corpi solidi discendono al fondo nell'acqua, esser l'eccesso della gravità loro sopra la gravità dell'acqua, e, all'incontro, l'eccesso della gravità dell'acqua sopra la gravità di quelli esser cagione che altri non discendano, anzi che dal fondo si elevino e sormontino alla superficie. Ciò fu sottilmente dimostrato da Archimede, ne' libri Delle cose che stanno sopra l'acqua; ripreso poi da gravissimo Autore, ma, s'io non erro, a torto, sì come di sotto, per difesa di quello, cercherò di dimostrare». «[…] dico, prima, che l'essere semplicemente la dottrina d’Archimede discorde da quella d’Aristotile, non dovrebbe muovere alcuno ad averla per sospetta, non constando cagion veruna per la quale l’autorità di questo debba essere anteposta all'autorità di quello». «Non disprezziam dunque quei civanzi [vantaggi], pur troppo tenui, che il discorso, dopo qualche contemplazione, apporta alla nostra intelligenza; e accettiamo da Archimede il sapere, che allora qualunque corpo solido andrà al fondo nell'acqua, quand'egli sarà in ispecie più grave di quella, e che s'ei sarà men grave, di necessità galleggerà, e che indifferentemente resterebbe in ogni luogo dentro all'acqua, se la gravità sua fusse totalmente simile a quella dell'acqua». «Salv. [...] io piglio come principio noto quello che nelle mecaniche si dimostra tra le passioni del vette, che noi chiamiamo leva, cioè che nell’uso della leva la forza alla resistenza ha la proporzion contraria di quella che hanno le distanze tra ’l sostegno e le medesime forza e resistenza. Simp. Questo fu dimostrato da Aristotile, nelle sue Mecaniche, prima che da ogni altro. Salv. Voglio che gli concediamo il primato nel tempo; ma nella fermezza della dimostrazione parmi che se gli deva per grand’intervallo anteporre Archimede, da una sola proposizione del quale, dimostrata da esso ne gli Equiponderanti, dependono le ragioni non solamente della leva, ma della maggior parte de gli altri strumenti mecanici». «[…] io non suppongo cosa nessuna se non la diffinitione del moto, del quale io voglio trattare e dimostrarne gl'accidenti, imitando in questo Archimede nelle Linee Spirali, dove egli, essendosi dichiarato di quello che egli intenda per moto fatto nella spirale, che è composto di due equabili, uno retto e l'altro circolare, passa immediatamente a dimostrare le sue passioni. Io mi dichiaro di volere esaminare quali siano i sintomi che accaggiono nel moto di un mobile il quale, partendosi dallo stato di quiete, vada movendosi con velocità crescente sempre nel medesimo modo, cioè che gl'acquisti di essa velocità vadano crescendo non a salti, ma equabilmente secondo il crescimento del tempo». «Ma tornando al mio trattato del moto, argomento ex suppositione sopra il moto, in quella maniera diffinito; siché quando bene le conseguenze non rispondessero alli accidenti del moto naturale de' gravi descendenti, poco a me importerebbe, sicome nulla deroga alle dimostratione di Archimede il non trovarsi in natura alcun mobile che si muova per linee spirali. Ma in questo sono io stato, dirò così, avventurato, poiché il moto dei gravi et i suoi accidenti rispondono puntualmente alli accidenti dimostrati da me del moto da me definito». Galileo a G. B. Baliani, 7 gennaio 1639.