Le donne avvocato: una lotta per i diritti Nell’antica Roma il fatto che il mestiere di avvocato fosse esercitabile solo dagli uomini e non dalle donne sembrava ai Romani, dalla mentalità maschilista, semplicemente ovvio. Per questo motivo, non esisteva alcuna legge specifica che vietasse alle donne di praticare la professione. Tre donne, nel primo secolo avanti Cristo, si erano rese conto di ciò grazie alla loro preparazione culturale (facevano parte di famiglie agiate) e sfruttarono questa assenza di divieti, presentandosi in tribunale come avvocati in cause sia civili sia penali. Le loro storie sono raccontate da Valerio Massimo, ma questo scrittore romano, estremamente di parte e contrario all’emancipazione delle donne, su certi punti è alquanto inaffidabile. In tribunale per necessità: Mesia Sentinate La prima donna dell’elenco di Valerio Massimo è Mesia di Sentino (Sentinate), donna colta con grandi capacità oratorie. Mesia non era una ribelle, non andò in tribunale per sfidare il potere maschile, ma fu costretta a improvvisarsi avvocato. Questo perché era stata accusata di un crimine e nessun uomo voleva difenderla da quelle accuse. Alla fine dovette difendersi da sola, davanti a una corte di giustizia presieduta da un pretore di nome Lucio. Mesia dimostrò la sua innocenza con grande forza d’animo, e convinse molti dei giudici. Il verdetto di innocenza fu deciso quasi all’unanimità. Valerio Massimo, nel raccontare la storia di Mesia, è senza dubbio in imbarazzo, e ne parla in modo impreciso, omettendo molti particolari importanti (di quale crimine fu accusata Mesia? Perché nessuno era disposto a difenderla?). C’è un buon motivo: Valerio Massimo, anche se è fermamente contrario alle donne avvocato, non può non riconoscere che Mesia non aveva scelta e che l’alternativa per lei sarebbe stata un’ingiusta condanna. La ribelle del foro: Afrania Nei confronti di Mesia Valerio Massimo è più perplesso che furioso, mentre contro la seconda donna dell’elenco, Afrania, si accanisce con odio smisurato. Questa donna, moglie del senatore Licinio Bucco, voleva approfittare il più possibile del suo diritto di esercitare la professione di avvocato. Si presentava perciò in tribunale spessissimo, esprimendo la sua opinione su qualunque processo. Sulle altre donne avvocato Valerio Massimo è relativamente obiettivo, mentre parlando di Afrania associa a lei qualunque genere di connotato negativo. La descrive come attaccabrighe, impudente, incapace di tenere la bocca chiusa (“stancando continuamente i tribunali con i suoi latrati”). Alla fine si sbilancia del tutto, dicendo che “di un simile mostro bisogna far sapere ai posteri più quando morì che quando nacque”. Infatti ci informa che morì nel 49 a.C., ma non ci dice il suo anno di nascita. La figlia dell ’oratore: Ortensia Ortensia, figlia dell’oratore Ortensio Ortalo, è l’unica donna avvocato di cui Valerio Massimo parla con rispetto. Nel 42 a.C. i triumviri imposero alle donne patrizie di Roma una pesante tassa. Le donne trovarono ingiusto il provvedimento, ma nessun uomo voleva perorare la loro causa, perciò fu una di loro, Ortensia appunto, a opporsi al tributo davanti agli stessi triumviri, che cedettero e ritirarono la tassa. Gli argomenti di Ortensia erano inoppugnabili: chi non è politicamente rappresentato non può essere sottoposto a tassazioni di qualunque genere. Molti secoli più tardi le femministe usarono questo argomento per ottenere il diritto di voto; alle donne romane, che non avevano speranze di ottenere potere politico, bastava essere esentate dalle tasse. Ortensia perorò la causa delle donne con una straordinaria eloquenza e vinse. Perché lei fu rispettata e le altre due no? Perché Valerio Massimo e i romani in generale videro in lei il proseguimento dell’opera del padre Ortensio, e, mentre Ortensia parlava, per loro era come se a parlare fosse il fantasma del grande oratore. Sulpicia: “Finalmente è giunto l ’amore!” Fin dal 1838, quando Otto Gruppe attribuì per primo i Carmi di Sulpicia a una puella di età augustea ,essi hanno ricevuto una valutazione critica improntata alla loro caratterizzazione come produzione dilettantesca ed amatoriale. Si legga il passo chiave dell’analisi di Gruppe: ”E’ vero,questi carmi sono metricamente corretti,tuttavia allo stesso tempo essi sono più di questo. Evidentemente essi provengono da una mano non esperta:espressione goffa la costruzione spesso si può mettere insieme solo con difficoltà. E’ inconcepibile che Tibullo possa aver scritto in questo modo,fosse pure in annotazioni sbrigative;ma è del tutto concepibile che una donna colta (Tibullo chiama Sulpicia DOCTA PUELLA)si sia espressa in questo modo. Notiamo un certo numero di colloquialismi come IAM. A un’indagine attenta il critico riconoscerà prontamente un latino femminile,impervio all’analisi condotta con un metodo linguistico rigoroso,ma che trova espressioni naturali,semplici per idee di vita quotidiana senza elaborazione stilistica cosciente ed artistica. Il dibattito sull’esistenza o meno di un vero e proprio latino femminile continuò per tutto l’800,e, dopo molte critiche,venne infine superato. Ma il nocciolo dell’argomentazione di Gruppe era che in realtà non pensava affatto che donne romane usassero un sottolinguaggio diverso. La poesia di Sulpicia ha una tendenza all’espressione spontanea e non artistica,una certa obliquità di pensiero,e un rifiuto delle costrizioni rigorose delle strutture maschili della logica e della sintassi. Questa valutazione è rimasta stabile fino alla considerazione di Sulpicia che si è avuto in Santirocco(1979)che è stato praticamente il primo a prendere sul serio Sulpicia come un’artista professionale. Gli approcci alla poesia romana si situano nell’ambito di quegli studi che sottolineano la natura di costruzione culturale di un’elegia e la sua estrema letterarietà. In Sulpicia l’approccio autobiografi sta è stato particolarmente forte(epistole,biglietti d’amore,note di diario),in quanto appesantito da preconcetti sul femminile in quanto non riflessivo e non artistico,sulla donna in quanto natura opposta all’uomo in quanto cultura. Questo carattere amatoriale delle poesie di Sulpicia è sorprendentemente ribadito nella prima menzione femminista della poetessa. E’ in effetti sorprendente che la prima frase del femminismo classicista che è stata soprattutto di carattere ginocritico,cioè rivolta alle donne come scrittrici,e più in generale alla storia delle donne in quanto agenti della storia e della cultura,non abbia prestato molta attenzione a Sulpicia. Matthew Santirocco(1989),nel suo articolo significativamente intitolato “Sulpicia reconsidered”,tratta finalmente i carmi di Sulpicia come poesie. Egli mette in discussione il carattere amatoriale di Sulpicia e guarda ala sua opera come alla produzione di un’artista. Santirocco mette in luce procedimenti strutturali sofisticati nelle elegie di Sulpicia ed interpreta la sua sintassi come parte di un programma poetico. Elegia 3.13 Tandem venit amor, qualem texisse pudori Quam nudasse alicui sit mihi fama magis. Exorata meis illum Cytherea Camenis Adtulit in nostrum deposuitque sinum. Exoluit promissa Venus:mea gaudia narret, Dicetur situi non habuisse sua. No ego signatis quicquam mandare tabellis, Ne legat id nemo quam meus ante, velim, Sed peccasse iuvat,voltus conponere famae Taedet: cum digno digna fuisse ferar. Infine giunse l’amore, tale che la vergogna di averlo celato sarebbe per me un disonore più grande che non quello di averlo rivelato a qualcuno. Esortata dalle mie Camene, Cyterea lo portò qui e lo depose nel mio petto. Venere mantenne le promesse: narra le mie gioie colui che avrà sostenuto di non averne di proprie. Io non vorrei consegnare i miei messaggi a tavolette sigillate, affinchè non li legga qualcuno prima del mio uomo. Ma peccare è utile, mi dà fastidio accostare il volto all’onore: che sia ritenuta di essere stata io degna di lui, con uno degno di me. Elegia 3.14 Giunge il compleanno odioso, che dovrò tristemente trascorrere in una campagna noiosa, e senza Cerinthus. Che c’è di più dolce della città? O forse che è adatta, per una ragazza, una casa di campagna e il freddo fiume che scorre nell’agro di Arezzo? Su, sta’ tranquillo, o Messalla troppo sollecito verso di me: i viaggi spesso non sono opportuni. Trascinata via, io lascio qui il mio cuore e i miei sentimenti, anche se non permetti che io segua la mia volontà. Invisus natalis adest, qui rure molesto Et sine Cerintho tristis agendus erit. Dulcius urbe quid est? An villa sit apta puellae Atque Arretino frigidus amnis agro? Iam, nimium Messalla mei studiose, quiescas: non tempestivae, saepe, propinque, viae. Hic animum sensusque meus abducta relinquo, Arbitrio quamvis non sinis esse meo. Elegia 3.15 Scis iter ex animo sublatum triste puellae? Natali Romae iam licet esse suo. Omnibus ille dies nobis natalis agatur, Qui nec opnanti nunc tibi forte venit. Sai che il peso di quel triste viaggio è stato tolto dall’animo della tua ragazza? Ora le è consentito di essere a Roma nel giorno del suo compleanno. Sia celebrato da tutti noi quel compleanno, che ora giunge per caso a te che non te lo aspettavi. Elegia 3.16 Gratum est, securus multum quod iam tibi de me Permittis, subito ne male inepta cadam. Sit tibi cura togae potior pressumque quasillo Scortum quam Servi filia Sulpicia: solliciti sunt pro nobis, quibus illa dolori est, Mi fa piacere che tu ti permetti ormai molto ne cedam ignoto, maxima causa, toro. riguardo a me, senza preoccuparti che io possa all’improvviso cadere scioccamente in rovina. Abbi pure a cuore una toga e una prostituta gravata dal cestello piuttosto che Sulpicia figlia di Servio. Ci sono alcuni preoccupati per me, per i quali sarebbe una ragione immensa di dolore se soccombessi a un letto ignobile. Elegia 3.17 Estne tibi, Cerinthe, tuae pia cura puellae, Quod mea nunc vexat corpora fessa calor? A ego non aliter tristes evincere morbos Optarim, quam te si quoque velle putem. At mihi quid prosit morbos evincere, si tu Nostra potes lento pectore ferre mala? Non senti, o Cerinto, una compassionevole preoccupazione per la tua amata, perché la febbre ora strazia il mio corpo debole? Ah certamente non vorrei guarire dalla mia malattia infelice se non sapessi che anche tu lo desideri alla stessa maniera! Perché mai dovrei guarire dal male, se con cuore apatico puoi sopportare la mia malattia? Elegia 3.18 Che io non sia per te,o mia luce,ormai il tuo amore incontenibile E mi sembra che io sia stata in questi ultimi tempi incosciente Se sono caduta in qualche errore nell’età più fertile, Della quale riconosco di essermi pentita, più del fatto di averti abbandonato la scorsa notte, desiderando di celare la mia passione. Ne tibi sim, mea lux, aeque iam fervida cura Ac videor paucos ante fuisse dies, Si quicquam tota conmisi stulta iuventa, Cuius me fatear paenituisse magis, Hesterna quam te solum quod nocte reliqui, Ardorem cupiens dissimulare meum. Ipazia di Alessandria Non sono poi tante le donne che hanno avuto in passato (e purtroppo anche nel presente) la possibilità di distinguersi in vari campi, tra i quali c’è senza dubbio la scienza, considerata fino a non molto tempo fa un appannaggio esclusivamente maschile. Molte donne hanno dovuto pagare con la vita questa loro passione in quanto era vista come una colpa per la quale vergognarsi poiché una donna non poteva permettersi si superare o addirittura screditare il lavoro di un uomo. Fra queste donne c’è certamente Ipazia, vissuta ad Alessandria d’Egitto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C. C’è da dire che però Ipazia non si avvicinò da sola agli studi scientifici, ma fu esortata dal padre Teone, che lo rende noto nell’intestazione del III libro del suo commento al “Sistema matematico di Tolomeo” dove scrive “Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia.”Ma Ipazia, oltre ad essere una grande filosofa e studiosa era anche insegnante e difatti “Introdusse molti alle scienze matematiche”, come ci dice Filostorgio, colto storico ecclesiastico del V secolo. Addirittura pare esistessero opere autografe, purtroppo scomparse nel tempo. Infatti Ipazia, particolarmente dedita all’astronomia, compì numerose e interessanti scoperte riguardanti gli astri, che riportò in un libro chiamato “Canone astronomico”. Un’altra disciplina a cui Ipazia era molto interessata è la filosofia. Da Socrate Scolatico (teologo, avvocato e storico della Chiesa nell’Impero Romano d’Oriente) viene definita come la terza caposcuola del Platonismo, dopo Platone e Plotino. Riassumendo, il Platonismo è una dottrina filosofica insegnata da Platone per primo in una scuola fondata nel 387 a.C. poco fuori dalle mura di Atene e chiamata Accademia dal nome dell’eroe Accademo che aveva donato agli ateniesi il terreno dove si trovava la scuola. Per Platone il “Tutto esistente” è diviso in due mondi: quello idee, perfetto, immutabile ed eterno e quello della materia, fragile e corruttibile. Tornando ad Ipazia, i suoi elogi più belli sono stati tessuti da Pallada (grammatico di fede pagana vissuto tra il IV e il V secolo) in uno dei suoi epigrammi, che dice: “Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia, sacra bellezza delle parole,astro incontaminato della sapiente cultura.”Il senso dell’attività di Ipazia si concentra nel terzo verso, che indica sia l’amore per l’astrologia che la tensione filosofica di Ipazia. Bisogna però dire che è sbagliato considerare scienza e filosofia due discipline separate, infatti Ipazia era maestra di neoplatonismo, nel quale confluivano anche matematica e geometria. Ipazia morì nel 415 d.C. per assassinio e dopo la sua morte e i primi ad occuparsi della sua biografia furono gli storici ecclesiastici Socrate Scolastico e Filostorgio ma quando completarono le loro opere molte delle persone implicate nell’omicidio erano ancora vive e quindi esse non poterono essere pubblicate, saranno poi rese pubbliche circa ottant’anni dopo da Damascio di Damasco. Egeria Nell’anno 1884 lo studioso italiano Gamurrini, trovando nella biblioteca della Fraternità di S.Maria in Arezzo il manoscritto Pellegrinaggio ad loca santa, lo attribuì ad una certa Silvia o Silvania, abitante della Gallia, sorella o cognata di Ruffino d’Acquitania. L’itinerario, scritto tutto in latino, contiene nelle sue 44 pagine il frammento di un avvincente viaggio. Durante l’intera durata del pellegrinaggio, la donna racconta alle sue “sorelle” tutte le sue imprese, cammini attraverso lontani deserti, incontri con i monaci, colloqui con i vescovi delle città che toccava, le interessantissime cerimonie a cui aveva assistito a Gerusalemme. Molti studiosi hanno cercato di risalire al motivo di questo interessante viaggio portato avanti da questa nobildonna, ma purtroppo le notizie che ci sono pervenute non riescono a risolvere il quesito di questo viaggio alla scoperta di nuove terre. Nel 1903 un frate benedettino, Dom Fèrotin, trova delle coincidenze con il testo dei viaggi di una pia donna di cui parla l’Abate Valerio, che viveva in Galizia nel VII secolo. Proprio l’Abate Valerio fa per primo il nome di Egeria. Il nome della nobildonna appare in diverse lettere dell’Abate e viene scritto in diversi modi: Eteria, Echeria, Eeheria, Seteria, Etheria, Aethera, Eitheria. La forma scelta da Dom Fèrotin è Eitheria, che in francese significa celeste. Sono state fatte diverse ipotesi dagli studiosi riguardo la provenienza della donna, ma Gamurrini, ritenendo Egeria sorella o cognata di Rufino, pensava che provenisse dalla Gallia. Invece, Dom Fèrotin e Leclercq erano convinti che provenisse dalla Galizia. Egeria, durante il suo lungo viaggio, attraversò Palestina, Egitto, Fenicia, Mesopotamia e Arabia; parte del suo viaggio si pensa che l’abbia compiuto in compagnia di altra gente, invece la seconda parte del viaggio da sola. Tale ipotesi si può ricavare dal fatto che il suo diario inizia con verbi al plurale e termina al singolare. Lo scritto è incompleto, poiché mancano alcuni passi importanti riguardanti la partenza e il viaggio dalla sua terra di provenienza al Sinai. L’unica parte che ci è pervenuta è divisa in due sezioni: 1. Dal capitolo I al capitolo XXIII, i viaggi; 2. Liturgie di Gerusalemme. Nella prima sezione sono raccontati i quattro pellegrinaggi verso il monte Sinai con ritorno a Gerusalemme, il monte Nebo, Idumea, la Mesopotamia con ritorno a Costantinopoli. Il tutto è arricchito con varie indicazioni topografiche e geografiche. Ac sic ergo et ibi gratias Deo agentes iuxta consuetudinem perexivimus iter nostrum. Item euntes in eo itinere vidimus vallem de sinistro nobis venientem amenissimam, quae vallis erat in gens, mittens torrentem in Iordanem infinitum. Et ibi in ipsa valle vidimus monasterium cuiusdam fratris nunc id est monachi. Tunc ego, ut sum satis curiosa, requirere coepi, quae esset haec vallis, ubi sanctus monachus nunc monasterium sibi ferisse; non enim putabam hoc sine causa esse. E così, ringraziando Dio come d’abitudine, continuammo il nostro cammino. Durante il percorso vedemmo a sinistra un’amenissima valle, grande, con un torrente che si gettava nell’immenso Giordano. E in quella valle vedemmo un monastero di un fratello, cioè di un monaco. Allora io, che sono abbastanza curiosa, iniziai a chiedere che valle fosse quella dove il santo monaco si era costruito il monastero; infatti pensavo che ci fosse un motivo ben preciso. Baudonivia In una realtà altomedievale in cui erano sicuramente presenti personalità dedite alla scrittura, poche erano quelle che lo facevano di professione. Tuttavia Baudonivia o Baldonivia fu una di queste. Parliamo di una donna, francese, cresciuta in un monastero, quello di S. Croce di Poitiers, in cui le monache conoscendo le doti di Baudonivia la incitano a scrivere un libro sulla vita della Santa e della regina Radegonda, un’impresa difficile che tuttavia affronta manifestando in tale racconto anche i suoi più personali desideri di donna e la volontà di una pace tesa al raggiungimento dell’unità francese che in quel periodo era ancora un lontano traguardo.Il personaggio di Radegonda affascina molto Baudonivia, rapita piccolissima da re Clotario I che la porta con sé a corte con l’intento di istruirla e l’obiettivo di sposarla, senza però fare i conti con la volontà della donna stessa che mai avrebbe accettato il matrimonio con un uomo violento come Clotario.Per questo, forse in segno di ribellione, comincia a comportarsi come una serva e ad aiutare chi aveva più bisogno di lei (prigionieri, condannati a morte, pellegrini ecc.). All’uccisione del fratello per mano del marito, Baudonivia prende coraggio: lascia il castello e il re definitivamente, pur sapendo che la legge allora dava diritto al marito, in questi casi, di uccidere la moglie ricoprendola di fango.Pensa così di dedicarsi alla vita monastica, ma le viene negata perché non era concesso ad una donna sposata. Questa la storia di Baudonivia, una donna che non si è mai arresa e che si è avvicinata a Dio, divenendo Santa, nonostante le varie avversità, perché Cristo abitava già in lei. Cum lectio legebatur, illa sollicitudine pia animarum nostrarum curam gerens, dicebat: 'Si non intellegitis quod legitur, quid est, quod non sollicite equiritis speculum animarum vestrarum?' Quod etsi minus pro reverentia interrogare praesumebatur, illa pia sollicitudine maternoque affectu, quod lectio continebat, ad animae salutem praedicare non cessabat. Quando si leggeva la lectio, ella, prendendosi cura con pia sollecitudine delle nostre anime, diceva: “ Se non capite ciò che viene letto, perché non interrogate sollecite lo specchio delle vostre anime?”. E anche se non si osava porre domande a causa della reverenza, ella non smetteva di predicare ciò che la lectio conteneva, per la salvezza dell’anima, con pia sollecitudine e affetto materno. Rosvita Di Rosvita non si hanno molte notizie e per qualche tempo si è pensato anche che fosse stata inventata da Conrad Celtis, colui che l’aveva scoperta. E’ probabilmente nata nel 935 e morta dopo il 373. Lei era una canonichessa,donna che a differenza delle suore doveva solo rispettare i voti di castità e obbedienza. Era di una nobile famiglia, ma non si sa di preciso quando entrò nel convento di Gandersheim: alcuni ipotizzano che sia stata educata fin da piccola dalle suore, altri dicono che entrò in convento solo in età adulta (ipotesi, quest’ultima, che sembra la più attendibile), infatti Rosvita fu istruita nella sua corte da Raterio e nel monastero da Gherberga, madre badessa che la giudò e alla quale dedicò il suo libro di poesie. Rosvita aveva una buona conoscenza dei classici: dal suo stile evinciamo il fatto che abbia letto l’Eneide, le Georgiche, le Egloghe e le Metamorfosi; ha letto e studiato anche autori cristiani come Boezio e Sant’Agostino. L’opera di Rosvita si divide in 3 libri: 1. Dedica a Gherberga e prefazione, otto leggende sacre dette anche poemetti agiografici. 2. Prefazione e commedie in prosa. 3. Gesta Ottonis (poemetto sulle gesta di Ottone I prima dell’ascesa al trono) e i Primordia cenobii Ganceshemensis (2 poemetti storici in esametri leonini). Salve, regalis proles carissima stirpis, Gerbirg, illustris morbus et studiis. Accipe fronticula, dominatrix alma, serena, Quae tibi purganda offero carminula, Eius et incultos degnante dirige stichos, Quam doctrina tua instruit egregia; Et, cum sis certe vario lassata labore, Ludens dignare hos modulos legere, Hanc quoque sordidolam tempta purgare camenam Ac fulcire tui flore magiterii, Quo laudem dominae syudium supportet alumnae Doctricique piae carmina discipulae. Salve, famosissima discendente di stirpe reale, o Gherberga, di illustri comportamenti e studi, ricevi questa piccola copertina e le poesiole che ti offro da correggere. Correggi con degnazione questi rozzi versi di quella che è stata istruita dalla tua eccelsa sapienza ed essendo stanca per i vari impegni, leggi le mie parole per divertirti e tenta di migliorare la musa imperfetta e di abbellirla con il fiore della tua magistralità affinchè lo studio della tua aluna porti lode alla superiora e i versi della discepola portino lode alla pia maestra. Francesca Caccini Francesca Caccini, nota come la Cecchina, nacque a Firenze nel 1587, primogenita di Giulio Caccini. Sotto la guida del padre intraprese lo studio di canto, liuto, clavicembalo e composizione, a cui affiancò una solida preparazione in ambito letterario, come si ricava da testimonianze coeve che sottolineano le sue doti di poetessa. Iniziò la carriera di cantante, dapprima insieme ai membri della sua famiglia, con i quali formava il “concerto Caccini”; in seguito, spiccate qualità artistiche le aprirono una strada di incontrastato successo come solista. La prima implicita testimonianza di un impiego presso la corte medicea risale al 1602 e documenta l’esecuzione nel duomo di Pisa di musiche a tre cori dirette da Giulio Caccini, che aveva con sé la moglie e le tre figlie, ma alcune fonti già segnalano la presenza di Francesca ai festeggiamenti per le nozze di Caterina de’ Medici ed Enrico IV di Francia, celebrate nel 1600. La popolarità della famiglia Caccini si propagava da Firenze in tutta Italia e fino oltre le Alpi, tanto che i reali francesi chiesero a Ferdinando I de’ Medici di inviare loro il “concerto” al completo. Francesca, insieme al padre e alla sorella Settimia, soggiornò a Parigi per circa sei mesi e solo il mancato permesso da parte della corte fiorentina le impedì di rimanere al servizio di Enrico IV. Ritornata in Italia, entrò ufficialmente a servizio dei Medici nel 1607 e vi restò per circa un ventennio, affermandosi come insegnante, cantante e compositrice. In virtù della fama di virtuosa si esibì anche al di fuori della Toscana in lunghe tournees, al termine delle quali rientrava però a Firenze, costretta da un vincolo professionale ereditato dalla tradizione familiare che le imponeva di rimanere presso i Medici. In linea con una politica di sfarzosa ostentazione e promozione culturale della corte medicea, Francesca musicò libretti d’opera e feste teatrali, delle quali è difficile chiarire la struttura musicale, data l’approssimazione terminologica nella definizione di simili intrattenimenti e la scarsezza delle testimonianze superstiti. Nel repertorio teatrale possiamo annoverare Il ballo delle zigane, un balletto rappresentato a palazzo Pitti nel carnevale del 1615, del quale Francesca curò anche l’allestimento, e il più noto La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, ispirato alle vicende dell’omonimo personaggio ariostesco. La messa in scena fiorentina del 1625 in occasione della visita del futuro re di Polonia Vladislao IV colpì tanto favorevolmente l’ospite che in seguito egli volle riproporre lo spettacolo dinanzi alla sua corte con una compagnia di artisti italiani; nel 1682 La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina divenne così la prima opera italiana rappresentata all’estero. La produzione di Francesca Caccini comprende anche un ricco repertorio di pezzi per voce sola e basso continuo, che cercano di approfondire la sperimentazione delle possibilità della voce umana attraverso la ricca ornamentazione della linea melodica; analoga cura fu riservata alla scelta dei testi, grazie anche alla fondamentale collaborazione con Michelangelo Buonarroti il Giovane. Dopo il ritiro dalla vita musicale della città, le notizie della presenza della Caccini a Firenze si fecero sempre più scarse, fino a scomparire attorno al 1640, anno probabile della morte. Anna Maria Mozart Wolfgang le fece anche omaggio di un brano musicale, nel giorno del suo onomastico del 1776: il Divertimento in Re Maggiore per Oboe, Corni ed Archi KV 251, "Nannerl Septett". E non solo: la incoraggiò a comporre musica, attività nella quale evidentemente Nannerl aveva provato a cimentarsi. In una lettera dall'Italia del 7 luglio 1770, Mozart le scrisse:"Sono stupefatto! Non sapevo fossi in grado di comporre in modo così grazioso. In una parola, il tuo Lied è bello. Ti prego, cerca di fare più spesso queste cose."Evidentemente però Nannerl non seguì il consiglio del fratello, e se anche lo seguì, della sua musica non è rimasta traccia. Nessuna sua composizione è stata conservata e anche quel misterioso Lied si è perso chissà dove.Nannerl Mozart sposò nel 1784 il Barone Johann Baptist von Berchtold zu Sonnenburg e si trasferì con lui a Sankt Gilgen, un villaggio a 6 ore di carrozza da Salisburgo. Ebbe un figlio maschio, Leopoldl ("piccolo Leopold"), e due femmine, Jeanette e Marie Babette. Dovette rallentare le attività musicali e divenne una madre di famiglia, occupandosi dei propri figli e anche di quelli del marito, nati da ben due precedenti matrimoni. In seguito alla prematura scomparsa di Wolfgang (1791), però, Nannerl diede un contributo di notevole importanza alla promozione della sua figura di musicista, collaborando con i suoi biografi, autenticando le sue composizioni e incentivandone la pubblicazione. Rimasta vedova nel 1801, Nannerl tornò a Salisburgo e riprese alacremente l'insegnamento del pianoforte. Morì quasi ottantenne e negli ultimi anni della sua vita ebbe la consolazione di instaurare un rapporto affettuoso, materno, con suo nipote Franz Xaver Wolfgang Mozart, uno dei due figli di Amadeus. Oggi riposa nel cimitero di Salisburgo accanto a Johann Michael Haydn, il fratello di Franz Joseph Haydn, a sua volta musicista e compositore. Maria Anna Walburga Ignatia Mozart (Salisburgo, 30 luglio 1751 – Salisburgo, 29 ottobre 1829) è stata una pianista austriaca.Era la sorella maggiore di Wolfgang Amadeus Mozart, la figlia di Leopold Mozart e di Anna Maria Pertl. In famiglia la chiamavano "Nannerl" (come dire "Nannina" o "Nannarella") e con questo vezzeggiativo è passata alla storia. Come suo fratello, Nannerl Mozart rivelò un precoce talento musicale: da bambina si esibiva al suo fianco, al clavicembalo e al fortepiano, durante le tournées organizzate dal padre. Avendo riscontrato le straordinarie qualità dei suoi figli, infatti, Leopold Mozart li portò fin da piccoli a suonare in molte città europee, tra le quali Vienna e Parigi.Durante questi viaggi, sia Wolfgang che Nannerl si ammalarono gravemente a più riprese, anche di malattie mortali come il vaiolo e il tifo. Fu Nannerl quella che corse il maggior pericolo: nel 1764 all'Aja, in Olanda, si ammalò di bronchite e le sue condizioni divennero in poco tempo così gravi che le fu somministrata l'estrema unzione. Guarì grazie all'interessamento della principessa di Nassau-Weilburg, sorella di Guglielmo V d’Orange, che le mandò il medico di corte. Nannerl era di fibra forte: sopravvisse anche alla tisi, che contrasse alcuni anni dopo.La sorella di Mozart divenne un'eccellente pianista e un'insegnante di musica molto apprezzata. Wolfgang aveva un'alta opinione del suo talento e della sua competenza, e le sottoponeva d'abitudine le proprie partiture per averne un parere; compose inoltre alcuni pezzi per pianoforte a quattro mani, e per due pianoforti, espressamente per suonarli in coppia con lei. È questo il caso, ad esempio, del Concerto per due pianoforti e orchestra K 365. Fanny Mendelssohn Fanny Cäcilie Mendelssohn Bartholdy, in seguito, da sposata, Fanny Hensel (Amburgo, 14 novembre 1805 – Berlino, 14 maggio 1847), è stata una pianista e compositrice tedesca. Fu sorella del più noto compositore Felix Mendelssohn; entrambi erano nipoti del filosofo ebreo Moses Mendelssohn. Fanny Mendelssohn nacque ad Amburgo, prima figlia del banchiere Abraham Mendelssohn (figlio del filosofo Moses Mendelssohn, che più tardi cambiò il nome della famiglia in Mendelssohn Bartholdy) e della moglie Lea, nipote dell'imprenditore Daniel Itzia. Fanny ebbe la possibilità di usufruire degli stessi insegnamenti dati al fratello Felix, condividendo numerosi insegnanti, fra cui Zelter. Come Felix (che nacque nel 1809), Fanny mostrò preococemente una grande abilità nel comporre musica. I frequenti ospiti del salotto di casa Mendelssohn, negli anni intorno al 1820, fra i quali c'erano Ignaz Moscheles e Sir George Smart, erano meravigliati dal talento dei due giovani fratelli Mendelssohn. Tuttavia, fu limitata dai pregiudizi del tempo nei confronti delle donne, pregiusizi sostenuti, pare, anche dal padre che tollerava, più che supportare, la sua attività di compositrice. Egli le scrisse nel 1820: 'La musica forse diventerà la sua (di Felix) professione, mentre per te può e deve essere solo un ornamento'. Il fratello Felix, invece, la supportava sia come compositrice che come artista, anche se era cauto (probabilente per ragioni familiari) sull'idea che lei pubblicasse le sue opere a proprio nome. Lui comunque la aiutò ad arrangiare un certo numero di componimenti che lei pubblicò a suo nome, e lei in cambio aiutò lui con delle critiche che lui considerava molto costruttive. Nel 1829, dopo un corteggiamento durato vari anni, Fanny sposò il pittore Wilhelm Hensel, che incoraggiava la sua produzione artistica. In seguito, le sue opere erano sempre suonate insieme a quelle del fratello durante i concerti che si tenevano nella casa di famiglia, a Berlino. Il suo debutto in pubblico al piano avvenne nel 1838, quando si esibì sulle note dell'opera del fratello, Piano Concerto No. 1. Morì nel 1847 a causa di complicazioni in seguito ad un ictus avvenuto mentre provava un'opera del fratello, 'The First Walpurgis Night'. In anni recenti, la sua musica è diventata nota grazie ad esecuzioni di sue opere durante dei concerti e alla pubblicazione di CD da parte di etichette quali Hyperion e CPO, oltre che a ricerche condotte sulla creatività musicale femminile, di cui è uno dei pochi esemplari dell'inizio del XIX secolo. Le sorelle Brönte Le sorelle Bronte, da sempre, rappresentano un caso veramente inspiegabile nella storia della letteratura, pur densa di episodi singolari e di eventi irripetibili. Quando si dice che la letteratura è una questione genetica: o forse nella loro storia c'è molto di più? Fatto sta che tutte e tre le immortali sorelle Bronte, Anne, Emily e Charlotte riuscirono a raggiungere risultati letterari notevolissimi soprattutto per l'epoca in cui vissero e per di più quasi contemporaneamente, diventando scrittrici affermate, e dando vita a dei capolavori unici e irripetibili ancora oggi godibilissimi e considerati a pieno titolo valide ed attuali fonti di ispirazione per centinaia di romanzi e film generati da essi ad anni luce di distanza. Ma come si spiega allora questo insolito e straordinario avvenimento letterario? Le sorelle Bronte vissero tutto l'arco della loro vita, tranne brevi parentesi che per loro rappresentavano sgradevoli esili forzati da cui presto fare ritorno, in una casa desolata con il cimitero in fondo al giardino, permeandosi dei simboli sacri e delle lapidi grigrie lambite solo dal vento dell'est, tuttavia la morte per loro non era qualcosa di orrendo, bensì costituiva l'inizio e la fine di ogni cosa. E proprio la morte rappresentò il tema dominante della loro stessa esistenza, andando a costituire anche nelle loro opere un punto di riferimento costantemente presente. In questo ambiente crebbero alimentando segrete passioni, nella solitudine e nel silenzio, trovando nella passione letteraria una valida fuga dalle preoccupazioni quotidiane legate alla ricerca di un lavoro, di una stabilità e di una indipendenza economica, trovando in essa sollievo alle morti premature dei loro cari, alle continue difficoltà e all'imminente rovina che ormai gravava sulla famiglia. Jane Austen Nata a Steventon nel 1775 e morta a Winchester nel 1817. Era figlia di un pastore anglicano, George Austen, visse per venticinque anni a Steventon con sei fratelli e la sorella Cassandra. Ben poco di certo si sa della sua vita e non si conoscono episodi degni di particolare nota; Jane non lasciò mai la sua famiglia e rimase nubile fino alla fine dei suoi giorni; dopo la morte i suoi fratelli distrussero gran parte delle lettere e delle carte private che le erano appartenute. Il nipote, J. E. Austen-Leigh, ne scrisse una biografia, pubblicata nel 1870 col titolo di Memorie; in esso Austen viene presentata come una signorina esemplare, presa dalla vita domestica e dedita solo incidentalmente alla letteratura. Orgoglio e pregiudizio: l’impossibilità di emancipazione: Il più celebre romanzo della scrittrice britannica Jane Austen, fu scritto tra il 1796 e il 1797 originariamente con il titolo First impressions e poi pubblicato anonimamente nel 1813.I temi principali del romanzo sono l’orgoglio di classe di Mr Darcy che crede di non poter ricevere alcun rifiuto e il pregiudizio di Miss Elizabeth Bennet che crede invece di sapere e di conoscere una persona da ciò che si dice di lei. E’ una storia d’amore, poetica, ironica e intelligente i cui personaggi sono caratterizzati nei comportamenti e nella psicologia in maniera dettagliata e precisa. Romantica senza essere melensa e dolce senza sciocchi sentimentalismi. Differenze di classe, satira delle vanità e debolezze della vita domestica osservate da uno spirito arguto e implacabile. E’ un racconto davvero splendido che non può mancare nella biblioteca di un appassionato lettore. George Eliot George Eliot, pseudonimo di Mary Anne Evans George Eliot, pseudonimo di Mary Anne Evans (22 novembre 1819.22 dicembre 1880), è stata una scrittrice britannica, una delle più importanti dell'epoca vittoriana. I suoi romanzi sono ambientati prevalentemente nella provincia inglese e sono famosi per il loro stile realista e la loro perspicacia psicologica. Ha usato uno pseudonimo maschile per essere sicura che le sue opere fossero valutate seriamente e senza pregiudizi, nonostante anche all'epoca numerose autrici pubblicassero liberamente i propri lavori sotto il loro vero nome. Eliot preferì usare lo pseudonimo anche per difendere la propria vita privata dal giudizio pubblico e quindi evitare scandali riguardanti la relazione extraconiugale con George Henry Lewes. Artemisia Gentileschi Artemisia nasce a Roma l'8 luglio del 1593, figlia di Prudenza Montoni, che morì quando la figlia aveva 12 anni, e Orazio Gentileschi, artista molto noto all'epoca. Fin da piccola si dimostra la più dotata dei sei figli del pittore e viene avviata dal padre alla pittura, nonostante fosse l' unica figlia femmina. Grazie al mestiere del padre avrà modo di frequentare fin dall'infanzia i più influenti artisti della Roma barocca. Nel 1612 Orazio chiede ad Agostino Tassi, col quale stava affrescando il Palazzo del Quirinale, di dar lezioni di prospettiva alla figlia. Egli però violenta Artemisia e fa i suoi comodi per un anno finchè il Gentileschi non decide di denunciarlo, probabilmente più per vendicarsi di sgarri professionali che non per lo stupro fine a sè stesso. Il processo si svolge a porte aperte e naturalmente lo scalpore e la curiosità nati intorno alla violenza subita dalla giovane devono aver pesato ulteriormente sulla già non facile condizione di Artemisia, che si trasferisce a Firenze dopo essere stata costretta a sposare Antonio Stiattesi. Tassi riesce a non ricevere punizioni dal tribunale grazie alla protezione della famiglia Borghese, a cui apparteneva anche il papa in carica, Paolo V. In Toscana, dove si fa chiamare col vero nome di famiglia, Lomi, il talento della giovane è molto apprezzato ed entra nelle grazie della Granduchessa Cristina de Medici e del Gran Duca Cosimo II. Artemisia è la prima donna ammessa, nel 1616, alla fiorentina Accademia del Disegno. Ma se in questo periodo la sua carriera procede con successo non si può dire lo stesso della vita privata: il marito la lascia e lei dovrà; crescere da sola le figlie, Prudentia e una bambina più piccola di cui non si sa quasi nulla, ambedue più tardi avviate alla carriera artistica. Nel 1620 lascia Firenze per tornare a Roma. In seguito raggiunge il padre a Genova dove incontra Antonie Van Dyck ed è probabile che i due si influenzino artisticamente a vicenda. Si trasferisce a Venezia per un breve periodo, poi nuovamente a Roma e nel 1630 è a Napoli e nel 1637 a Londra dove lavora il padre, per ritornare nella città partenopea 9 anni dopo, dove muore nel 1652. Giovanna Garzoni Giovanna Garzoni rappresenta una singolare figura di artista, nota per le sue pregevoli miniature e soltanto di recente apprezzata per aspetti non meno importanti della sua creatività, come la pittura, la ritrattistica o, addirittura, l'illustrazione scientifica. Nacque ad Ascoli Piceno forse da famiglia originaria di Venezia, e crebbe in un ambiente artistico (quella della madre fu una famiglia di orafi), guidata nelle prime esperienze del disegno dallo zio Pietro Gaia, seguace di Palma il giovane. Abbiamo pochissime notizie sui primi anni ascolani, la stessa data di nascita fu rilevata in una "sacra famiglia" datata 1616 "anno suae aetatis XVI", ora scomparsa. Da Ascoli si trasferì a Venezia, forse indirizzatavi dallo zio, e qui la sua limitata produzione fu caratterizzata da soggetti sacri che evidenziano una chiara influenza del Palma, tanto da non escludere contatti con la sua bottega. Nel 1630 si trasferì a Napoli al servizio della famiglia del Vicerè, ed iniziò la sua carriera di ritrattista, che le dette subito discreta notorietà, tanto da essere chiamata alla corte del duca di Savoia Amedeo I per interessamento della moglie, Cristina di Francia. A Torino restò pochi anni, fino al 1637, ma fu un periodo molto intenso, che ne decretò definitivamente la fama come miniaturista e ritrattista. Di quel periodo molte opere realizzate per la corte sabauda, soprattutto i ritratti dei duchi, che rivelano le sue qualità e la sua tecnica. Per quanto legata a stilemi del tardo manierismo, nelle sue opere la Garzoni espresse in tutta originalità tecniche di dosaggio del colore tali da dare al ritratto ed ai soggetti una luminosità ed una vivacità decisamente particolari. A Torino fu anche in contatto con un ambiente culturale aperto alle influenze internazionali, soprattutto quelle francesi, e le sue opere ne risentirono fortemente. Al periodo torinese vanno fatte risalire le sue prime nature morte, veri esempi di incrocio di tecniche ed influenze: nelle composizioni la Garzoni seppe mixare con sapiente scelta artistica le influenze fiamminghe e lombarde, poi imitata da quel Monfort che possiamo considerare come il suo erede naturale a Torino. La parentesi torinese si chiuse nel 1637. Dopo alcuni viaggi in Europa (forse Londra e Parigi), l'artista si stabilì a Firenze dove, in contatto con Cassiano del Pozzo, fu tentata dall'esperienza artistica che caratterizzerà la seconda parte della sua vita. Alle nature morte affiancò vasi di fiori, opere che hanno tramandato la sua abilità nel miniare e riprodurre splendide composizioni. A Firenze realizzò anche l'erbario figurato, testimonianza di una probabile vicinanza all'ambiente dei Lincei, che farà della Garzoni un illustratore scientifico importante ma sui generis: alla perfezione della riproduzione ed all'indagine della pianta non sacrificò la personale interpretazione della luce, del dosaggio dei colori, della disposizione dell'immagine. Dopo alcuni anni al servizio dei Medici , nel 1650 si trasferì definitivamente a Roma, dove rimase fino alla morte, frequentando l'Accademia di San Luca alla quale lasciò un taccuino con una serie di sue miniature. Miniò e disegnò fino alla fine, rispondendo anche ad una costante e fedele committenza, testimonianza della notorietà raggiunta che, sicuramente, ne fece una protagonista della Roma del '600. A Roma morì nel febbraio del 1670. Frida Kahlo Selvaggia e passionale come il suo paese d’origine, il Messico, violenta e dolcissima come l’attaccamento alla vita che la caratterizzò, visionaria e realistica come i suoi quadri, Frida Kahlo ( 1907 -1954) è sicuramente una delle più grandi artiste contemporanee, a lungo misconosciuta ma recentemente scoperta dalla critica. Immobilizzata sin dall’età di diciassette anni, in seguito alla poliomielite e a un grave incidente automobilistico, Frida partecipò attivamente alle vicende rivoluzionarie del suo paese, trovando infine nella pittura lo strumento più versatile per esprimere la sua disperata vitalità. Allieva, moglie e musa di Diego Rivera, ebbe contatti fecondi e a volte burrascosi, con molti protagonisti dell’arte europea tra le due guerre – Duchamp, Breton, Picasso, Kandiskij, tra gli altri- lasciando a tutti il ricordo di un artista tormentata e inconfondibile, di una personalità straziata e indimenticabile. Per Frida, la verità era da ricercarsi non tanto nella propria vita, quanto, piuttosto nell’affermazione del proprio io. Il soggetto che analizzò più compiutamente fu se stessa. Tra il 1926, anno in cui dipinse il suo primo lavoro, e le sue ultime opere del 1954, anno in cui morì, la Kahlo produsse più di cinquantacinque autoritratti, tra immagini individuali e quadri più elaborati: un numero spropositato, se si considera che la sua intera produzione conta centoquarantatrè dipinti noti. Ma la “verità” di Frida non consisteva semplicemente nella trascrizione di una vicenda biografica: la Kahlo trasformò le sue esperienze di vita ricorrendo a un simbolismo personalissimo, che tuttavia, trascendeva le questioni private per rivolgersi ad argomenti di carattere universale. Il complesso immaginario di Frida derivava da fonti indigene che ritornano nella sua opera insieme alle suggestioni della pittura coloniale di origine europea; inoltre, l’artista mescolò abilmente immagini del simbolismo cristiano e di quello azteco, rivalutandone allusioni e metafore che si colorano di nuove interpretazioni. La Kahlo è stata venerata per la sua resistenza proto- femminista ai limiti patriarcali, è stata mitizzata per la sua costante ricerca introspettiva, che contrastava con l’arte “pubblica” predominante nel periodo in cui visse. In Messico e tra le comunità ispaniche degli Stati Uniti, la Kahlo è diventata una figura culto. Gli autoritratti di Frida determinarono una frattura nella storia dell’arte, capovolgendo le aspettative inerenti alla rappresentazione del femminile. Ironicamente, l’artista è sia il soggetto che l’oggetto del suo sguardo spietato e sottile. La pittrice non rifuggiva dal dipingersi in una maniera decisamente realistica e poco femminile, evidenziando i suoi sottili baffetti, rappresentando se stessa in modo insolente con in mano una sigaretta e lo sguardo deciso, o vestendosi in modo anticonvenzionale. Negli autoritratti, il volto maschera della Kahlo si oppone con decisione e in modo perturbante al senso di angoscia che ne deriva. Quando la pittrice afferma: ”Ho dipinto la mia realtà”, non indica semplicemente il fatto di avere attinto dalla propria vita, ma, piuttosto, di aver ricostruito se stessa nei suoi dipinti.