La letteratura italiana degli anni Sessanta e la contestazione giovanile a cura di F. Baldini 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 1958-1963 Pontificato di Giovanni XXIII. Processo di decolonizzazione (Congo Belga) e proclamazione dell’indipendenza algerina (1962). 1960-1963 Kennedy- Kruscev: la crisi cubana e la distensione. 1962 Politica di riforme in Italia: nazionalizzazione dell’industria elettrica (per favorire lo sviluppo del paese mediante il controllo statale della fornitura di energia a basso costo); approvazione della riforma della scuola media unificata (obbligo scolastico portato a 14 anni con il sostegno economico dello stato). 1963- 1978 Pontificato di Paolo VI. La Cina di Mao: primi contrasti con l’Urss, la rivoluzione culturale, primi approcci degli USA per far sì che la Cina entri nella comunità internazionale (Nixon 1967). 1964-1975 La guerra del Vietnam. 1967 Guerra dei sei giorni tra Israele e Paesi arabi. 1968 La primavera di Praga . 1968 La contestazione studentesca dall’America all’Europa: la lotta di classe come ideologia del proletariato per la trasformazione della società borghese. 1969 Autunno caldo: scioperi operai per l’aumento dei salari e per il miglioramento delle condizioni di lavoro. 1. 2. 3. 4. 5. Dalla fine degli anni ‘50 l’Italia giunge all’apice del boom economico: trionfo società del benessere e rafforzamento industrie situate nel “triangolo industriale” (Milano, Genova, Torino) con conseguente emigrazione masse contadine dal Sud Italia al Nord Italia. Nuove frontiere della scienza: nuovi farmaci (antibiotici, psicofarmaci, anticoncezionali); progressi nella chirurgia (primo trapianto del cuore); sviluppo dell’aviazione civile; conquista dello spazio (dal primo satellite artificiale allo sbarco sulla luna). Crescita del tenore di vita e trasformazione antropologica dei costumi (dovuta alle innovazioni tecnologiche, al consumismo, ad una nuova comunicazione introdotta dalla televisione). Trionfo dei mass media: maggiore velocità nella comunicazione delle notizie, le quali hanno ormai una dimensione transnazionale. Passaggio, soprattutto in Italia, da una società contadina a una urbana. Trasformazione del volto delle città, che divennero metropoli. Nascita di quartieri periferici, necessità di ammodernamento strutture sanitarie e dell’istruzione, unificazione del Paese attraverso, anche per merito della televisione, del superamento dei dialetti. La Seconda Guerra Mondiale P.P. Pasolini In morte del realismo (1960) da La religione del mio tempo (1961) Il neorealismo degli anni Cinquanta Il Realismo, secondo Pasolini, 1. ha dato voce al “dolore proletario”, “sigillato col sangue partigiano”; 2. ha lasciato opere e atti che gli “sopravviveranno”; 3. ha dato in dono “a ciascuno settantacinque lire di rinnovato senso della storia”; 4. ha inventato uno stile che è “nato per esprimere il reale” e che si rifiutava “a ogni onore ufficiale”. Da questo punto di vista esso: 1. è “da considerare un testamento” perché si poneva l’obiettivo di riconciliare gli italiani con la storia; 2. è stato “pugnalato” dai contemporanei ed è “defunto” a causa di una reazione stilistica che avrebbe “livellato ogni cosa”. 1960 1961 1962 Levi P. Moravia A. 1964 1967 1968 Il giardino dei Finzi Contini Lessico familiare La ragazza di Bube Berto G. Il male oscuro Sciascia L. Il giorno della civetta A ciascuno il suo Milani L. L’obbedienza non è più una virtù Lo scialo Lettera a una professoressa Allegoria e derisione Calvino I. Pasolini P.P 1966 La noia Ginzburg N. Pratolini V. 1965 La tregua Bassani G. Cassola C 1963 La giornata di uno scrutatore La religione del mio tempo Accattone Mamma Roma Le cosmicomiche Orestiade Vangelo secondo Matteo Ti con zero Uccellacci uccellini Edipo re Teorema La sequenza del fiore di carta Biografia 1. Proveniente da una famiglia bergamasca di umili origini (i genitori erano mezzadri), quarto di tredici fratelli. Divenuto Patriarca di Venezia nel 1953, alla morte di Pio XII, nel 1958, fu eletto Pontefice con sua sorpresa, all’età di 57 anni. Sarebbe stato, secondo i cardinali, un Papa di “transizione”. Il suo calore umano, la sua gentilezza, la sua esperienza diplomatica conquistarono il mondo tutto, cattolico e laico. Per il primo Natale da Papa visitò i bambini malati dell'ospedale romano Bambin Gesù; il giorno di Santo Stefano visitò i carcerati nella prigione romana di Regina Coeli («Non potete venire da me, così io vengo da voi”) Accarezzò il capo di un recluso che, disperato, gli si buttò ai piedi domandandogli se «le parole di speranza che Lei ha pronunciato valgono anche per me» Fra lo stupore dei suoi consiglieri e vincendo le remore e le resistenze della parte conservatrice della Curia, indisse un Concilio ecumenico, il Concilio Vaticano II. L‘’11 ottobre 1962, in occasione della serata di apertura del Concilio, piazza San Pietro era gremita di fedeli che percepivano la storicità dell’evento. Chiamato a gran voce ad affacciarsi, egli fece un discorso a braccio poetico e salutò la Luna. Morì il 3 giugno del 1963 per un tumore allo stomaco. Il Concilio fu chiuso dal suo successore Paolo VI nel 1965. Nel 1964 P.P. Pasolini dedicò alla memoria del Papa il suo Vangelo secondo Matteo. Fotografia 1. 2. 3. 4. 5. Incipit dell’enciclica: “La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel rispetto dell’ordine stabilito da Dio”. Tale ordine è scolpito nell’essere degli uomini ed è rivelato dalla coscienza. La coscienza deve, nella modernità, misurarsi con i progressi introdotti dalla tecnica e dalla scienza. Tale adesione al concetto di progresso non deve avvenire tuttavia in nome della ragione, ma del sentimento, della fede, dell’amore. L’amore, specifica l’enciclica, è “l’atteggiamento d’animo che fa sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui”; di conseguenza, esso vivifica e integra l’ordine di natura morale che regola la convivenza tra gli uomini. All’interno di questi rapporti, la persona conserva una sua centralità, con i suoi diritti ma anche i suoi doveri; gli uni e gli altri non possono che essere “attuati” in virtù di decisioni personali: “Coloro che, mentre rivendicano i propri diritti, dimenticano o non mettono nel debito rilievo i propri doveri, corrono il pericolo di costruire con una mano e distruggere con l’altra”. Principio guida degli uni e degli altri deve essere quindi l’altruismo e l’amore per il prossimo. La modernità e i “segni dei tempi”: - viene riconosciuta la dignità umana delle classi lavoratrici, alle quali è riconosciuto il diritto di rivendicare miglioramenti “economici”, “sociali”, “politici” e “di partecipare in forme e gradi adeguati ai beni della cultura” (“nei lavoratori è vivamente operante l’esigenza di essere considerati e trattati non mai come esseri privi di intelligenza”); - viene riconosciuto come positivo l’ingresso della donna nella vita pubblica: ella non è più considerata uno “strumento”, ma una “persona”, sia nell’ambito della vita domestica che in quello della vita “pubblica”; - viene ritenuta indispensabile la costituzione dei popoli in comunità politiche indipendenti, nel contesto di un processo di processo di decolonizzazione di sempre più ampio respiro. - viene fortemente invocata una politica di disarmo (“si mettano al bando le armi nucleari; si pervenga al disarmo integrato da controlli efficaci”.) resa necessaria dall’equilibrio del terrore fondato sull’a corsa alle armi nucleari. Biografia Don Lorenzo Milani nacque a Firenze nel 1923 da un’agiata famiglia borghese. Ebreo per parte di madre, avvertì fin da giovane una forte propensione artistica, al punto di frequentare, a Milano, l’accademia di Brera. Nel 1943 giunse inaspettata, la vocazione religiosa. Nel 1947 Don Milani, divenuto prete, viene inviato a Calenzano (Firenze) come viceparroco. Qui fece i suoi primi esperimenti di scuola popolare e scrisse le sue Esperienze pastorali (che saranno pubblicate nel 1958). Trasferito, a seguito di contrasti con la Curia, a S. Andrea di Barbiana dall’arcivescovo di Firenze E. Florit, raccolse intorno a sé un gruppo di ragazzi, figli di famiglie povere, con i quali sperimentò, per alcuni anni , nuovi modi di fare scuola. Erano già comparsi i primi segni della sua malattia (1960)quando scrisse due opere rappresentative di quegli anni e non solo: L’obbedienza non è più una virtù (1965) e Lettera a una professoressa (1967), composta insieme ai suoi allievi alla vigilia della morte. Tale opera ha costituito la premessa ideale e culturale della più interessante sperimentazione che abbia sostanziato la voglia di nuovo propria del ’68. Morì ancor giovane, all’età di quarantaquattro anni, il 26 giugno 1967 . Le sue ossa riposano a Barbiana. 2. Fotografia Barbiana: dal “cacio” e dalla “lana” ai “libri” e ai “giornali” Barbiana era “un mondo a parte, senza strada carrozzabile, senz’acqua, senza luce, senza telefono, senza posta; una piccola chiesa con tre povere case appoggiate addosso e una manciata di altre, sparpagliate nel bosco sul fianco nord del monte Giovi, a 500 metri d’altezza”. (G. Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini Castoldi Dalai, Milano 1996). Spersa nella campagna toscana, essa contava una quarantina di anime (“ho 42 anni e sono parroco di 42 anime”). Eppure, anche qui l’ansia di riscatto non era mai stata del tutto sopita: bastò un nulla perché tali “anime” riscoprissero, con la cultura, tutta la loro intatta dignità; i giovani cominciarono a frequentare la scuola popolare che don Milani, il giorno successivo al suo arrivo, aveva istituto. Egli faceva scuola “dodici ore al giorno. 365 giorni l’anno”: “i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale (“ogni giorno, a alta voce, da cima a fondo”, da Lettera), la posta. Scriviamo insieme […] Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e per studiare”(da L’obbedienza). Testamento (1966), in Lettere di Don Lorenzo Milani: “Gli volli più bene … che a Dio” con la “speranza che Lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”. “ I cappellani militari considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. Risposta di Don Lorenzo Milani ai cappellani militari toscani che avevano sottoscritto il comunicato dell’11/2/1965” : “Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati ed oppressi da un lato, privilegiati ed oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. “Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale”. Il cittadino “reagisce all’ingiustizia”, “ha libertà di parola e di stampa”, “deve sentirsi responsabile di tutto”. “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: ‘I care’. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori”. AAA: cercasi “guerra giusta”: “abbiamo preso i nostri libri di storia e siamo riandati a cento anni di storia italiana in cerca di una guerra giusta […] che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l’abbiamo ancora trovata”. “Ci è stato però di conforto tenere sempre dinnanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale. Così diversi dai milioni di giovani che affollano i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione”. “Non posso dire che l’unico modo di amare la legge è d’obbedirla […]. Bisogna avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”. Tali opinioni costeranno a Don Milani un processo (nel ’65-66) nel quale sarà assolto. Quello che pensavano i contadini (1 miliardo e 900 milioni) della scuola era quello che pensava Lucio; i borghesi erano invece “arrivisti a 12 anni” perché dietro la loro ansia di prendere il diploma c’era – secondo Don Milani - solo l’interesse individuale (“il diploma è quattrini”). “Se un compito è da quattro io gli do quattro”: questa la logica imperante nelle scuole italiane. Di qui l’accusa di Don Milani e dei suoi allievi nei confronti di quei docenti che, pretendendo di “far le parti uguali tra disuguali”, in realtà commettevano una grave ingiustizia. I figli dei borghesi sapevano meglio la grammatica e il latino, ma erano meno preparati degli altri nella “cultura umana”. (“L’ascensore è una macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per ignorare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in faccia e non entrare in casa”). Dopo l’istituzione della Nuova Scuola Media “arrivarono a Barbiana anche ragazzi di paese. Tutti bocciati, naturalmente”. L’idea di Don Milani era che nella scuola dell’obbligo, l’obbligo degli insegnanti sarebbe stato da loro assolto almeno “portando tutti a terza” senza bocciature. I figli dei contadini erano considerati “cretini”, “svogliati”, “cittadini di seconda buoni solo per il manovale”. Ma “Quando la scuola è poca – sosteneva con rabbia Don Milani - il programma va fatto badando solo alle urgenze” secondo una gerarchia. La scuola doveva “allacciarsi con la vita”. Bisognava congiungere la serietà degli studi con la scuola di massa (Don Milani avvertiva questa come la questione di fondo della democrazia in un passaggio particolarmente delicato della storia italiana). Don Milani lottò per una elevazione “civile” oltre che “religiosa” dei suoi discepoli.. Molti degli allievi di Lorenzo Milani riuscirono negli anni a farsi strada. “Bisogna avere idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto”. Biografia Pier Paolo Pasolini nacque a Bologna nel 1922 ma trascorse la fanciullezza e l’adolescenza in varie località d’Italia (il padre era ufficiale dell’esercito). Giunto a Bologna vi completa gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di lettere. Il suo esordio poetico avviene con il volumetto in dialetto friulano (quello della madre) Poesie a Casarsa (1942). Laureatosi con una tesi su Pascoli, nel 1947 inizia la attività di insegnante nella scuola media. Allo stesso tempo si iscrive al PC e si interessa alla lotta dei braccianti friulani contro i latifondisti. Trasferitosi nel gennaio ‘50 a Roma con la madre, trova lavoro presso una scuola parificata e compone le sue più famose raccolte poetiche: La meglio gioventù (1954), Le ceneri di Gramsci (1957); L’usignolo della Chiesa cattolica (1958). Data la versatilità del suo carattere, sperimenta anche altri generi artisici, dal romanzo (Ragazzi di vita, 1955; Una vita violenta, 1959) al cinema (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; Vangelo secondo Matteo, 1964; Uccellacci uccellini, 1966). Intellettuale di spicco del ’68, come ci testimoniano i suoi scritti (Passione e Ideologia, 1960; Scritti corsari, 1975 e le postume Lettere luterane, 1976), verrà ucciso nel novembre 1975, in circostanze ancora oggi misteriose, presso il vecchio Idroscalo di Ostia. 3. Fotografia The Beatles (un decennio di attività: 1960-1970) Marilyn Monroe (Andy Warhol, Marylin, serigrafia, 1964) Jurij Gagarin, primo uomo nello spazio (12 aprile 1961) Ernesto Che Guevara, combattente rivoluzionario (1928-1967) F. Guccini, Dio è morto (1965) A. Celentano, Il ragazzo della via Gluck (1966) G. Morandi, C’era un ragazzo (1967) 1. 2. 3. Dio è morto: la canzone, considerata blasfema dalla RAI, fu trasmessa invece da Radio Vaticana perché piacque ai cattolici del dissenso. Essi ne capirono il messaggio positivo: non a caso Guccini tenne il suo concerto, nel dicembre del 1968, ad Assisi. I giovani – secondo il cantautore – credettero di avvertire la “morte di Dio” nelle notti “dal vino sono bagnate”, nelle “stanze da pastiglie trasformate”, “ai bordi delle strade”, “nelle auto prese a rate” “nei campi di sterminio”, “coi miti della razza” e con gli “odi di partito”. Nonostante le illusioni e disillusioni, però, Guccini, come tutti quelli della sua generazione, aspirava ad un radicale rinnovamento, da attuare con “rivolte senza armi”. Tali speranze vennero riassunte nella analogia con la Resurrezione di Cristo, che si sarebbe manifestato attraverso la rinascita, dopo la morte, di ideali forti (“ciò che noi crediamo”, “vogliamo”, “faremo”). Il ragazzo della via Gluck: la canzone descrive la trasformazione delle città, il cui volto veniva progressivamente sfigurato dal cemento. Da luoghi di aggregazione sociale esse divenivano così grigie metropoli, segnate dal degrado e dalla solitudine. Celentano denunciava in tal modo il passaggio della civiltà italiana da uno stadio semicontadino a uno industriale, con i conseguenti interrogativi sul concetto di “sviluppo” quale si era determinato negli anni del boom economico. C’era un ragazzo: Morandi riassume nella canzone alcuni tratti saliente del costume imperante negli anni ’60: capelli lunghi (“capellone”, “studente”, “giovane” divennero sinonimi), cultura on the road (i ragazzi amavano viaggiare con il sacco a pelo e lo zaino in spalla facendo l’autostop e suonando con la chitarra le canzoni allora alla moda, come quelle dei “Beatles e dei Rolling Stones”), odio per la guerra (che allora era quella, sanguinosissima, del Vietnam). Non a caso la canzone si conclude con la morte del protagonista, mentre spara contro i Vietcong. GliGli angeli angelidel delfango fango (1966) (1966) Occupazione del palazzo della Sapienza Pisa (7/2/1967) Che cosa pensano le ragazze? (1966) Il ‘68 Morte di Paolo Rossi, Sapienza Roma (1966) Luigi Gui e la riforma universitaria (1966) La battaglia di Valle Giulia Roma (1/3/1968) Pasolini e il ‘68 Pasolini, in un articolo inedito (oggi contenuto in Scritti corsari) intitolato Sviluppo e progresso distinse i due concetti: il progresso era visto come una “nozione sociale e politica […]; lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra”. Lo sviluppo tecnologico era invece per lui un fatto “pragmatico ed economico” inventato dalla borghesia che si ispirava a una ideologia consumistica. A volerlo “è chi produce; sono cioè gli industriali” e la massa che consuma. Esso aveva creato “la possibilità di una industrializzazione illimitata i cui caratteri sono transnazionali. I consumatori di beni superflui sono irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo sviluppo”. Per chiarire il concetto l’Autore usò un esempio: contrappose lo “Jesus” del Vaticano ai “blue-jeans Jesus” dimostrando come il mondo moderno avesse perso qualsiasi forma di pudore e di rispetto per il sacro. Del resto, la Chiesa stava attraversando un periodo di crisi profonda alla quale aveva cercato di porre riparo già agli inizi degli anni ‘60 con un Concilio. La crisi, per Pasolini, era dovuta a una serie di fattori che avevano comportato una profonda trasformazione antropologica della società italiana. Citando S. Paolo (“restano fede, speranza e carità, queste tre cose: di tutte la migliore è la carità”, dalla Prima Lettera ai Corinzi), Pasolini parlò per l’appunto di un “vuoto di carità e di cultura” come elementi caratterizzanti la società occidentale e capitalistica. La persona umana - di cui aveva parlato Giovanni XXIII nella Pacem in terris – stava infatti scomparendo “distrutta” e “sostituita” con “l’uomomassa”, in un Paese, quale l’Italia, in cui la “nuova religione” era sempre più costituita dall’edonismo “materialistico” della società consumistica. Il tutto viene riassunto dalla metafora della “scomparsa delle lucciole”: la civiltà contadina e paleoindustriale stava per Pasolini scomparendo, diventando qualcosa di “mostruoso”. A contribuire a questo cambiamento era stato il nuovo conformismo e il cattivo uso dei mezzi di comunicazione di massa. Pasolini riteneva che la TV stabilisse infatti un rapporto autoritario con gli spettatori – e perciò stesso antipedagogico e anticulturale - rendendo impossibile un dialogo nella verità e contribuendo così al pervertimento dei costumi. Pasolini, in un articolo intitolato “Contro i capelli lunghi” (poi raccolto in Scritti corsari) sostenne che i giovani degli anni ’60 avevano sostituito il linguaggio verbale con quello fisico e “silenzioso” emblematicamente rappresentato dai “capelli lunghi” e che questa “l’ineffabilità” era “l’ars retorica della loro protesta”. Per Pasolini, però, se interrogati, questi giovani borghesi, che si dicevano nauseati dalla civiltà consumistica, non avrebbero saputo esprimere a parole le ragioni del loro disagio se non per slogan e luoghi comuni. Questi giovani, nel ’68, erano parte del movimento studentesco e fecero diventare di moda il loro linguaggio . In realtà erano il prodotto di una sottocultura provocatoria nella forma , ma vuota e conformista nella sostanza. Mentre il ragazzo “piccolo-borghese”, secondo Pasolini, si adeguava al “modello televisivo” divenendo “rozzo e infelice”, il sottoproletario delle borgate si stava “imborghesendo”. Quest’ultimo, persa l’originaria “innocenza”, si vergognava ormai della propria ignoranza; sostituiva il termine relativo al proprio mestiere con quello di “studente”; abiurava al proprio modello culturale, venendo così iniziato al “disprezzo della cultura”. Pasolini, sull’Espresso, all’indomani degli scontri di Valle Giulia, scrisse una famosa poesia intitolata Il PC ai giovani! che spiazzò l’intellettualità nazionale. Egli sosteneva che ciò che era avvenuto nei pressi della Facoltà di Architettura rappresentava sì un “frammento di lotta di classe”, ma a ruoli rovesciati. Gli studenti, sebbene “dalla parte della ragione”, erano i “ricchi”; i poliziotti, sebbene dalla parte del torto, erano poveri e figli di poveri. Agli occhi di Pasolini il “potere” era riuscito finanche a pervertire degli ideali giusti, che egli stesso condivideva. Pasolini sosteneva che ormai, a seguito del mutamento del contesto sociale avvenuto nel dopoguerra, scarse erano le differenze tra fascisti e antifascisti: essi erano culturalmente, psicologicamente e fisicamente interscambiabili. L’omologazione aveva prodotto un appiattimento culturale e un conformismo di maniera, tali da mettere in crisi le vecchie ideologie e una visione progressiva della storia.