Verum gaudium res severa est
Andata e ritorno nel taedium vitae
Il punto di partenza: l’humanitas
romana
• L’ideale dell’humanitas nasce a Roma nel II sec a.c, cioè nel pieno
delle guerre di conquista attraverso le quali Roma viene a contatto
con la cultura dell’Oriente greco.
• Cratete di Mallo, Polibio, Panezio di Rodi con il loro arrivo a Roma
determinarono uno scambio di esperienze, di idee, di modelli etici:
la centralità dell’uomo come protagonista della storia della città e
quella dell’uomo come “persona” comporta l’idea che l’insieme
degli uomini costituisce una humanitas destinata a fondare realtà
nuove. Il pragmatismo e il moralismo romani si competrenano con
l’idealismo e l’apertura della civiltà greca; l’homo humanus è un
essere dotato di qualità eccellenti quali al virtus, il coraggio ma
anche la gentilezza, il garbo che l’essere umano, sociale per
eccellenza, possiede proprio grazie alla cultura (summa di nozioni,
preparazione filosofica e culturale, educazione morale ed etica).
• Cicerone, De officiis, I, 16, 50-51; III, 5, 21-26; 6, 26-27)
Non solo humanitas: sintomatologia e
diagnostica del male di vivere
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Anneo Sereno, l’interlocutore del De tranquillitate animi, si rivolge a Seneca come
a un medico dell’anima: egli sa di essere in balia di un male oscuro, non un dolore
certo e profondo ma piuttosto una nausia.
L’instabilità, il “mal di mare” dell’esistenza dipendono dalla mancanza di
tranquillitas animi, ed è quindi materia della filosofia. Ma prima della cura Seneca
compie una disanima del male stesso in tutti i suoi risvolti. (De tranq. an.I, 16; 18;
II, 1-3).
Circa 50 anni dopo Plutarco di Cheronea (50-120 d.c) nei suoi Moralia rivisita la
metafora del mal di mare che già era divenuta un topos sia nella precettistica
filosofica sia nel linguaggio comune: Come quelli che hanno paura e soffrono il mal
di mare, pensando che staranno meglio se da una nave leggera trasborderanno su
u gaulos, e poi su una trireme, non giungono a nessun miglioramento, poiché da un
luogo all’altro portano insieme con sé la disposizione al mal di mare e la paura; così
i mutamenti della vita non eliminano il turbamento dell’anima: questo dolore
consiste nella inesperienza delle cose, nella mancanza di riflessione, nel non potere
né sapere usare rettamente i beni presenti (…). (De tranquillitate animi, 2, 466 b-c)
Anche Cicerone e Lucrezio…
• Nel III libro delle Tusculanae Cicerone affronta la questione della aegritudo
, della “afflizione” o “depressione”con piglio da filosofo: Certamente si
tenga presente questo, che se l’animo non sarà guarito, cosa che non può
verificarsi senza l’aiuto della filosofia, non ci sarà fine delle nostre angosce.
(..)Se è verosimile che chi piombi nell’afflizione piombi anche nel timore
capita che colui, alle quali accadono queste cose, sia servo; ma queste cose
non capitano all’uomo forte: nessuno è sapiente se non è forte, dunque il
sapiente non cadrà nell’afflizione (Tusc. disp. III, 6, 12; 7, 14)
• Eppure lo stesso uomo, nella sua dimensione privata, si lascia scappare:
Quale rifugio avrebbe potuto esserci per me spogliato dai conforti della
famiglia e degli onori della vita pubblica? Gli studi letterari, credo, a cui
assiduamente mi dedico,ma anche essi mi pare mi tengano lontano dal
porto e dal rifugio e per così dire mi rimproverino perché rimango in questa
vita in cui niente vi è se non il prolungamento di un tempo infelicissimo.
Perciò mi dedico alle lettere nelle quali consumo tutto il tempo, non per
chiedere loro un rimedio duraturo, ma un lieve oblio del dolore (Ep. ad fam.
V,15)
Quousque eadem?
• Lucrezio parte dalle tragica condizione umana, che incapace di farsi
guidare dalle sue facoltà razionali e di conoscere a fondo il valore
della scienza e della filosofia si abbandona a questo stato di
ignoranza e di angoscia: Se potessero gli uomini anche sapere da
quali cause ciò nasca e da dove si formi nel petto un sì grande, per
così dire, fardello del male, non condurrebbero la vita così come ora
per lo più vediamo, che ognuno non sa cosa vuole per sé e cerca
sempre di cambiar luogo, come se potesse deporre il peso. (..)In
questo modo ciascuno fugge se stesso, ma a quell’io a cui
evidentemente non è possibile sfuggire contro voglia sta avvinto e lo
odia, per il fatto che malato non conosce la causa del male; e se la
vedesse bene ciascuno, lasciata ogni cosa, si sforzerebbe di
conoscere prima la natura della realtà, perché è in gioco la
condizione dell’eternità, non di una sola ora, in cui ci sia per gli
uomini da aspettarsi tutto il tempo, che resta dopo la morte. (De rer.
Natura III, 1053-1075)
La prosopopea della Natura
• Che cos’è che ti sta tanto a cuore, o mortale, che troppo
indugi a desolati lamenti? Perché deplori e piangi la
morte? Infatti se ti fu gradita la vita precedentemente
trascorsa e se tutti i piaceri non scorsero via come versati in
un vaso forato, e non si perdettero senza vantaggio, perché
non ti ritiri come un convitato sazio di vita e serenamente
non accetti un tranquillo riposo? Ma se i frutti di cui hai
goduto si sono perduti e dispersi e la vita ti è venuta a noia,
perché cerchi di aggiungere ancora ciò che a sua volta finirà
male e svanirà tutto senza gioia, e piuttosto non poni fine
alla vita e all’angoscia? Infatti non c’è niente che io possa
ancora inventare e scoprire per te che ti piaccia: tutte le
cose sono sempre uguali (eadem sunt omnia semper). (III,
931-945)
Spleen et idéal
• “Come mai, dicevate, questa tristezza strana/che assale
come il mare la roccia nera e spoglia?”/ Quando in nostro
cuore già una volta ha vendemmiato/ vivere è male. E’ un
segreto a tutti noto/ un dolore molto semplice, e per niente
misterioso/e, come la vostra gioia, scintillante per tutti./
Smettete dunque di cercare, o bella curiosa!/E, sebbene
dolce sia la vostra voce, tacete!/ tacete, ignorante! anima
sempre in estasi!/ bocca dalla risata infantile!Ancora più
della Vita/la Morte ci avvince speso con sottili lacci./
Lasciate, lasciate il mio cuore inebriarsi di una
menzogna/lasciatelo affondare nei vostri begli occhi come
in un bel sogno/e a lungo dormire all’ombra delle vostra
ciglia. (Baudelaire, Semper eadem)
Orazio e la strenua inertia
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Nell’ Epistula I, 11, indirizzata all’amico Bullazio che ha girato il mondo, Orazio, il
poeta dell’equilibrio, dimostra di essere oppresso da un male oscuro, cioè il senso
di accidia, di vuoto, di stanchezza che fa sì che domini il bisogno di stare soli nella
deserta Lebedo, oscura località della Ionia. Ma la presenza dell’epicureismo fa
prendere coscienza al poeta della sua condizione e gli permette di capire i luoghi o
gli accadimenti non possono darci la serenità ma solo una gioia effimera.
Ma tu lo sai cos’è Lebedo: un villaggio più deserto di Gabii e di Fidene; eppure là
vorrei vivere e, dimentico dei miei e sperando di essere dimenticto da loro, da terra
guardare da lontano il mare in tempesta.(..)Tu, qualunque ora felice ti abbia
elargito un dio, accettala con mano gradita né rinviare le gioie di anno in anno
perché tu, in qualunque luogo sia stato, possa dire di essere vissuto con gioia.
Poichè se la saggezza razionale rimuove gli affanni, e non un luogo che domina su
un’ampia distesa di mare, coloro che varcano il mare mutano il cielo, non l’animo.
Ci tormenta una accidia angosciante; con le navi e con le quadrighe cerchiamo la
felicità. Ma quello che cerchi è qui, è ad Ulubra, se non ti manca l’animo
equilibrato.
Nihil novi facio, nihil novi video: fit
aliquando et huius rei nausia
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Siamo nella XXIV Lettera a Lucilio: Seneca sta spiegando in che modo l’uomo possa
vincere il vano timore della morte. Nella parte finale del testo il filosofo invita ad
un rapporto equilibrato nei confronti sia della vita sia della morte, cioè a non
odiare troppo la vita cercando la morte come liberazione, né ad amare troppo la
vita agognando beni inesistenti. L’accettazione della vita in tutti i suoi valori
comporta una serena conduzione della propria esistenza che non si lascia irretire
da stati di depressione i quali potrebbero portare all’annullamento.
E’ proprio del saggio non fuggire dalla vita ma uscirne; e prima di tutto si eviti quel
sentimento che prende molti, la sfrenata bramosia della morte. C’è infatti, mio
Luicilio, una irriflessiva tendenza dell’animo che ghermisce spesso uomini di nobile
animo e di fortissimo carattere, spesso ignavi e prostrati; i primi disprezzano la
vita, i secondi ne sono oppressi. Taluni li prende il disgusto di fare e vedere le stesse
cose e non l’odio per la vita ma un fastidio, nel quale cadiamo per impulso della
stessa filosofia mentre diciamo “Fino a che punto sempre le stesse cose? (..) Di
nessuna cosa c’è fine, ma tutto è legato per formare un circolo, tutto fugge e
insegue (..). Non faccio niente di nuovo, niente di nuovo vedo: talvolta
sopraggiunge la nausea anche di questa situazione”. Molti sono quelli per cui
vivere non è penoso ma inutile. (Ep. ad Luc. XXIV, 25-26)
Chirone e Menippo
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Chirone è il centauro, maestro di Achille,che ferito involontariamente al ginocchio da una freccia di
Eracle, intrisa del sangue dell’idra di Lerna, preferì morire nonostante la sua condizione immortale;
ma Zeus lo trasforma nella costellazione del Sagittario. Luciano, autore del II d.C., ha trasformato
Chirone in un uomo depresso della monotonia della sua vita eterna; Menippo insinua nel suo
animo il pericolo che alla monotonia della vita del mondo possa sostituirsi un’altra monotonia,
quella della morte.
“Chirone: Ormai l’immortalità non era più piacevole. Il piacevole io ritengo che sia una cosa varia e
non uniforme. Io vivendo in eterno e godendo delle stesse cose, del sole, della luce, del cibo, ne fui
pieno; infatti il piacevole consisteva non nell’avere sempre le stesse cose, ma anche nel non
parteciparne affatto.
Menippo: Dici bene, Chirone. E come va la tua condizione nell’ade, da quando sei venuto per tua
libera scelta?
Chirone: Non male, Menippo. Infatti l’uguaglianza di condizione è molto democratica e non fa
nessuna differenza essere alla luce o al buio; e d’altronde non è necessario come lassù avere sete o
fame ma siamo liberi da questi fastidi.
Menippo: Bada di non contraddirti, che se l’eterna monotonia e l’uguaglianza delle cose della vita ti
ha nauseato, anche le cose di qui che sono uguali potrebbero ugualmente procurarti sazietà, e tu
avrai bisogno di cercare un cambiamento anche da qui per un’altra vita, credo, impossibile. Questo
bisogna fare, che chi ha senno accetti e si contenti di quello che ha e non giudichi insopportabile
nulla di ciò che si ha. (Luciano, Dialogo dei morti, 26)
Blaise Pascal
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Nei suoi Pensées il filosofo e matematico francese, partendo dal presupposto che
nulla l’uomo può senza l’aiuto della fede, conclude che soltanto attraverso la
ricerca di Dio si può aspirare a raggiungere la grandezza che è insita nell’essere
umano. L’uomo è un roi déchu capace solo di una conoscenza parziale; la sua
contraddizione è di aspirare alla felicità vivendo nell’infelicità.
[201] Niente è insopportabile all’uomo quanto di essere in un completo riposo,
senza passioni, senza faccende, senza un’occupazione.Avverte allora il proprio
nulla, la propria insufficienza, il proprio vuoto. Subito saliranno dal profondo
dell’animo suo la noia, l’umor nero, la tristezza.
[205] Quando mi sono messo a considerare il vario agitarsi degli uomini e i pericoli
e le pene a cui si espongono, nella Corte, in guerra (..)ho scoperto che tutta
l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene in pace,
in una camera.
[214] Nonostante queste miserie l’uomo vuole essere felice e non può non volerlo:
ma come potrà riuscirvi? Bisognerebbe che egli si rendesse immortale; ma, non
potendolo, ha deciso di astenersi dal pensarci.
[255] La grandezza dell’uomo sta in ciò, che si riconosce miserabile. Un albero non
si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili perché ci si riconosce tali; ma è
essere grandi riconoscere di essere miserabili.
Giacomo Leopardi
• “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. (..)il non
poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena,né, per così dire, dalla
terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e
al mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla
capacità dell’animo proprio; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di
nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior
segno di grandezza e di nobiltà che si vegga della natura umana. Perciò la
noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli
altri animali. (Pensieri, LXVIII)
• Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 105-143)
• Al conte Carlo Pepoli, vv. 1-12; 78-87 (1826): Altri, quasi a fuggir volto la
trista/umana sorte, in cangiar terre e climi/l’età spendendo, e mari e poggi
errando/tutto l’orbe trascorre, ogni confine/ degli spazi che all’uom
negl’infiniti/campi del tutto la natura aperse,/peregrinando aggiunge. Ahi
ahi, s’asside/sull’alte prue la negra cura, e sotto/ ogni clima, ogni ciel, si
chiama indarno/felicità, vive tristezza e noia.
The Waste Land
• La gente si riversava su London
Bridge,tanta,/ch’io non avrei mai creduto che
morte tanta n’avesse disfatta.(..) Là io vidi uno
che conoscevo, e lo fermai gridando:” Stetson!/Tu
eri con me sulle navi a Mylae!/Quel cadavere che
l’anno scorso hai piantato nel tuo giardino/ha
cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno/ o
l’improvvisa brinata ha disturbato la sua
aiuola?/Oh tien lontano di qui il cane,che è amico
all’uomo,/o con le sue unghie lo metterà allo
scoperto!/ Tu! hypocrite lecteur!-mon semblablemon frère! (The Burial of the Dead,1922)
Degas, L’assenzio
Tranche de vie
• Degas preferì sempre definirsi “pittore realista” e il soggetto di questo suo
“pezzo di vita” è colto in un momento qualunque: una prostituta
agghindata e un barbone robusto sono seduti a un tavolo di un caffè, di
fronte a due bicchieri, d’assenzio e di vino.
• L’asimmetria della composizione e il taglio dell’immagine fanno pensare
all’inquadratura precaria di un’istantanea, mentre l’attenzione ai giochi di
luce e l’uso del non-finito legano la tela alla ricerca degli impressionisti.
• Degas non rinuncia però mai alla prospettiva, solo la utilizza in modo
sbilanciato, adottando un punto di vista decentrato o alto: nessuno degli
oggetti dipinti è parallelo o perpendicolare al piano della tela e il gioco
delle linee oblique sembra risucchiare l’osservatore dentro lo spazio
stretto del dipinto.
• I due personaggi raffigurati non sono due autentici emarginati ma una
modella e un amico del pittore, messi in posa e vestiti ad arte.
• La vita della metropoli, Parigi, risulta un susseguirsi di momenti spesso
malinconici, il passaggio di tanti personaggi reietti sui quali cala la
disattenzione dei più.
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