Analisi testuale Paradiso, XV, vv.88-129 La ripresa del discorso di Cacciaguida ha la sostenutezza e la dignità degli stilemi scritturali («O fronda mia in che io compiacemmi... », v. 88), ma si rivolge subito al nodo affettivo di una memoria antica a lungo vagheggiata nella mente. Inizia così il grande flash back su Firenze antica. Fiorenza dentro da la cerchia antica, ond'ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica. (vv. 97-99) La rievocazione di quell'età felice prende rilievo dalla comparatio per contrarium con la nequizia del presente. Si ricostruisce attorno a Firenze il complesso sistema di opposizioni semantiche che caratterizzano l'apertura del canto: «dentro da la cerchia antica» localizza la misura modesta, patriarcale del primo comune nobiliare, in contrasto con la Firenze grande e potente del comune borghese: Ma la cittadinanza, ch'è or mista di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vediesi ne l'ultimo artista. Oh quanto fora meglio esser vicine quelle genti ch'io dico, e al Galluzzo e a Trespiano aver vostro confine, che averle dentro e sostener lo puzzo del villan d'Aguglion... (XVI, vv. 49-56) La purezza dei vecchi fiorentini è contaminata dal puzzo villanesco della gente nova affluita dal contado. La rivoluzione economica e politica della borghesia comunale è rifiutata nel nome di una fedeltà ai valori cortesi e cavallereschi del passato. Il lettore è colpito dalla violenza improvvisa di nove non allineati in pochi versi: Non avea catenella, non corona, non gonna contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona. Non faceva... (vv. 100-103) E ancora «non fuggien...», «non avea case...», «non v'era giunto...», « non era vinto... ». L'insistita iterazione dà l'esatta misura del rifiuto del presente e di un'altera chiusura nel passato. E il presente è visto attraverso una rassegna di vanità che cercano di mascherare il vuoto interiore, la corruzione morale. Il lusso si accompagna all'impudicizia, e il risultato è il disordine spirituale e civile, la fine della vecchia Firenze, «in pace, sobria e pudica», che l'occhio nostalgico di Cacciaguida si ferma ora a contemplare nei suoi fieri e sani cittadini, Bellincion Berti e la sua donna, i Nerli e i Vecchietti e tanti altri sui quali spazierà la memoria nella rassegna del canto XVI. Alla catenella, alla corona, alle gonne contigiate, alla cintura, alle case vuote e alla camera del vizio si contrappongono le semplici cose di una vita ordinata, di un «bello viver di cittadini» (vv. 130-131): il cuoio e l'osso, il viso non dipinto, la pelle scoperta, il fuso e il pennecchio, lo studio de la culla. Lo smodato desiderio di benessere e di grandezza (in forma quasi antonomastica l’Uccellatoio che vuole vincere Montemalo, vv. 109-110) ha prodotto una vergognosa razza di Cianghelle e di Lapi Saltarelli che hanno sostituito i vecchi nobili cittadini ben degni di Cincinnato e di Cornelia. Anche il ricordo favoloso di quei tempi è andato perduto con le leggende di Troia, di Roma e di Fiesole che le donne raccontavano in famiglia. Con ciò il santo crociato vuol dire che i fiorentini hanno smarrito pure la dignità della loro stirpe e questo discorso si riallaccia all'amara invettiva di Brunetto contro le bestie fiesolane, che infieriranno contro Dante, l'unico vero erede della romanità.