“La Ragion Pura deve attenersi al sensibile,
la Ragion Pratica deve astenersene!”
Lo scopo della “Critica della Ragion
Pratica” è quello di criticare la ragion
pratica che pretende di restare sempre
legata solo all’esperienza. La ragion pratica
empirica non può, da sola, determinare la
volontà; vi è quindi il recupero della sfera
“noumenica” inaccessibile teoreticamente,
ma accessibile praticamente.
Quanto appena detto mostra la capacità
della Ragione di farsi “pratica” per l’azione.
La ragione è qui detta “pratica” perché non
riguarda più la conoscenza in quanto tale,
ma l'azione o, almeno, la conoscenza per
l'azione, cioè i principi a priori della vita
morale.
Il “primato” della ragion pratica, sostenuto da Kant,
consiste nella prevalenza dell’interesse pratico su
quello teoretico e nel fatto che la ragione ammette, in
quanto è pratica, proposizioni che non potrebbe
ammettere nel suo uso teoretico.
Questo primato trae la propria origine dalla teoria dei
postulati etici, proposizioni teoretiche non
dimostrabili che ineriscono alla legge morale come
condizione della sua stessa esistenza. Questi postulati
non possono però valere come conoscenze.
Kant insiste infatti sulla non-teoreticità di queste
proposizioni le quali rappresentano soltanto una
ragionevole speranza dell’esistenza di Dio e
dell’immortalità dell’anima e non possono
assolutamente essere intese come certezze razionali,
dal momento che un’eventuale ammissione della loro
validità conoscitiva minerebbe alla base i principi di
libertà e autonomia della morale stessa, e sarebbe
nuovamente la religione (o la metafisica) a fondare la
morale.
Kant sostiene invece che non sono le verità religiose a
fondare la morale, bensì avviene il contrario.
Egli respinge le dottrine etiche tradizionali che stabilivano il
fondamento delle norme etiche sulla conoscenza, sulla volontà
di Dio, sul sentimento; in Kant, invece, la norma morale è
frutto della decisione immediata dell'uomo.
La morale, infatti, nonostante derivi dalla conoscenza, nasce
dalla condizione dell'uomo in quanto uomo che produce le
norme di comportamento al di fuori della causalità deterministica
del mondo sensibile.
Non si tratta quindi di ragione empirica, condizionata dai
fenomeni, ma di ragione incondizionata, che nella assoluta
libertà stabilisce le norme di comportamento. L'uomo è
concepito come soggetto morale che agisce con libera volontà.
“La ragione umana ha il singolare destino di essere tormentata da
problemi a cui non può sottrarsi, giacché sono imposti dalla sua stessa
natura, e che tuttavia egli non riesce a risolvere, perché oltrepassano
ogni suo potere”.
(Critica della Ragion Pura, Prefazione)
Con questa posizione mentale si spiega come Kant abbia cercato di
risolvere, in altre opere, quei problemi di metafisica più urgenti nella
vita dello spirito, quali la libertà, l’immortalità dell’animo e l’esistenza
di Dio che non era riuscito a dimostrare nella Critica ella Ragion Pura.
Kant scrisse la Critica della ragion pratica per dimostrare entro quale
ambito i detti problemi possano risolversi; con la precisa convinzione
che la ragione pratica sia indipendente della conoscenza teoretica.
In quest’opera, scritta nel 1788, Kant affronta il problema
della morale ed usa il metodo critico per fondare su basi
razionali le norme del comportamento umano; egli, infatti,
afferma che dev’essere la ragione a determinare il modello
di comportamento umano.
L’uomo è quindi libero di compiere...
AZIONI LEGALI oppure
AZIONI MORALI
Questo tipo di azioni sono solo conformi
alle leggi stabilite dallo Stato (non
rubare, non uccidere, etc.) e risiedono nel
comportamento esteriore degli uomini;
secondo queste, si compie un’azione solo
perché la legge lo consente e non perché
si ritiene giusto farla.
L’azione legale, inoltre, possiede un
BASSO valore morale.
Questi tipi di azioni si riconoscono sia nel
rispetto della legge “esterna”, quella stabilita
dallo Stato, sia nel rispetto della legge “interna”,
quella stabilita dalla persona che la compie.
L'uomo, infatti, possiede una volontà la quale è ragione pratica che
si propone fini di cui è consapevole. La ragione, legislatrice in campo
conoscitivo, è tale anche in campo morale: su questa si fonda la
LEGGE MORALE, che è a priori, universale e assoluta, e si
distingue dalle massime pratiche, le quali, dato che hanno un
contenuto determinato, rappresentano le condizioni storiche e
ambientali dell'individuo.
La legge morale è l'unico motivo determinante
della volontà pura. Ma, poiché questa legge è
semplicemente formale (cioè, richiede soltanto la
forma della massima, come universalmente
legislativa), così essa, come motivo determinante,
astrae da ogni materia, e perciò da ogni oggetto,
del volere.
(I. Kant, Critica della ragion pratica)
º La legge morale è universale, quindi non può essere ricavata
dall’esperienza: è "a priori" (la ragione è sufficiente “da
sola” - senza impulsi sensibili - a muovere la volontà);
º La legge morale è "razionale" nel senso che deve valere per
l’uomo in quanto essere ragionevole (non solo perché
conosciuta dalla ragione);
º La legge morale non è un’esigenza che l’uomo segue per
necessità di natura; quindi deve essere un "imperativo" (cioè
è una necessità oggettiva dell’azione; tale principio pratico è
valido per tutti).
Gli imperativi ipotetici subordinano il comando dell’azione da
compiere al conseguimento di un fine (es.: “Se vuoi essere promosso
devi studiare”):
§ se il fine è possibile l'imperativo si chiama problematico e
prescrive regole di abilità;
§ se il fine è reale l'imperativo si definisce assertorio e offre
solo consigli di prudenza.
Tali imperativi sono oggettivi solo per tutti coloro che si propongono
quello stesso fine; da questi derivano l’edonismo e l’utilitarismo.
L'imperativo è categorico quando non è il mezzo per ottenere un fine,
ma è fine a sé stesso.
L'imperativo categorico è uno solo ed è l'imperativo della moralità
perché il carattere di questa è esigere una subordinazione assoluta,
senza altra considerazione di utilità o di premio.
L'imperativo categorico deve essere espressione solo della "volontà
buona", e la volontà è buona indipendentemente dal raggiungimento
di un fine (basta che sia buona l'intenzione); questa ha il carattere
della razionalità, che è quello dell'universalità e necessità.
L'imperativo categorico è perciò precetto universale e necessario
della ragion pratica: esso non può essere che formale (perché
scaturisce dalla forma stessa della ragione), infatti ogni contenuto
empirico ne limiterebbe il valore.
Possiamo dunque concludere che:
L’imperativo categorico si fonda sulla forma, mai sul
contenuto (altrimenti si cadrebbe nell’empirismo e
nell’utilitarismo).
Esiste una forte analogia con l’etica cristiana, in quanto
non è definito morale ciò che si fa, ma l’intenzione con
cui lo si fa.
La moralità può valere solo sul piano personale e non ha
nulla a che fare con le leggi dello Stato, cui si obbedisce
anche per paura, e che si basano più sul contenuto che
sulla forma (infatti la legge non prende in considerazione
l’intenzione dell’azione, ma proprio il fatto).
Esiste un unico imperativo categorico, il “tu
e possiede tre caratteristiche:
devi”
“Agisci in modo che la massima della tua volontà
possa valere sempre, al tempo stesso, come
principio di una legislazione universale”
Questa caratteristica riguarda la legge che deve
coincide con la volontà personale, cioè bisogna eguagliare
la massima soggettiva alla legge oggettiva.
La ragione, infatti, in quanto tale è universale, e niente può
dirsi razionale se non travalica gli interessi del singolo per
porsi come norma che valga per tutti e per sempre.
“Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua
persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche
come scopo, e mai come semplice mezzo”
Questa caratteristica riguarda l’uomo, che viene
posto al di sopra di tutto; la norma è priva di
contenuti, infatti bisogna compiere una determinata
azione a prescindere dalle altre considerazioni.
L'uomo in quanto tale è ragione; lo strumentalizzare la
ragione (cioè l'uomo) degraderebbe la stessa morale a
mezzo, rendendo l'azione immorale.
“Agisci in modo tale che la tua volontà possa, in forza della
sua massima, considerarsi come istituente nello stesso tempo
una legislazione universale”
Riguarda l’uomo, che viene posto al di sopra di tutto; si
mula il
concetto di autonomia della volontà, cioè che l’uomo, in quanto
essere razionale, è legge a sé stesso.
Questa formula è il riconoscimento dell'autonomia della morale: è la
volontà (cioè: la retta ragione) che diviene la “legislatrice
universale”. In questo modo l'uomo si eleva a quel “regno dei fini”
(una “unione sistematica di esseri ragionevoli”), della quale ogni
membro è legislatore
suddito:
- legislatoree in
quanto incarna la ragione universale;
- suddito in quanto è un essere particolare.
Chi esercita l’imperativo
categorico è capace di accedere
al Paradiso (vicinanza a Dio),
anche se non ne può avere la
certezza dell’esistenza.
Il concetto di paradiso è da comparare a quello di “sommo bene”;
nella vita terrena non è possibile, però, raggiungere il "sommo
bene", cioè la sintesi di virtù e felicità, a causa della natura
umana. È dunque moralmente necessario postulare l'esistenza di
Dio, cioè di un “essere perfetto”, che garantisca l'ordine morale
del mondo, cioè l'attuazione del sommo bene.
Il paradiso, comunque, non è né conoscibile né impromettibile,
altrimenti l’imperativo categorico diventerebbe imperativo
ipotetico o un’azione legale.
I postulati “non sono dogmi teoretici, ma presupposti…
quindi non ampliano la conoscenza speculativa, ma danno
alle Idee della ragione speculativa in generale una realtà
oggettiva, e autorizzano concetti di cui non si potrebbe
presumere di affermare neppure la possibilità”
I “postulati” non sono nient’altro che presupposti “pratici” che non
ampliano la conoscenza speculativa, ma danno alle Idee della Ragione
speculativa una realtà oggettiva, ed autorizzano perciò la possibilità di
alcuni concetti.
Tali postulati si devono ammettere per spiegare la "legge morale"; se
non li ammettessimo non si spiegherebbe la legge morale, ma questa è
un “fatto” innegabile, quindi i “postulati” hanno una realtà oggettiva.
Esistono tre postulati:
La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque
reciprocamente connesse. Qui io non domando se esse siano
anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia
piuttosto la semplice coscienza di sé di una ragion pura pratica,
e se questa sia identica al concetto positivo della libertà; ma
domando dove ha inizio la nostra conoscenza
dell’incondizionato pratico, se dalla libertà o dalla legge
pratica. [...] È quindi la legge morale della quale diventiamo
consci (appena formuliamo le massime della volontà), ciò che ci
si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto
della libertà, in quanto la ragione presenta quella legge come
un motivo determinante che non può essere sopraffatto dalle
condizioni empiriche perché del tutto indipendente da esse.
(I. Kant, Critica della ragion pratica)
La libertà, una realtà che precede l'attività
comportamentale umana, è la condizione stessa
dell'azione morale; dato che l'imperativo
categorico è un fatto, la realtà della libertà è un
presupposto.
Il mondo autentico dell'etica è nella libertà e non
al di fuori di essa (libertà che va intesa come
pratica dell'uomo nell'agire quotidiano).
Della libertà non si può tuttavia affermarne
l’esistenza oggettiva.
L'immortalità dell'anima è oggetto di fede morale, infatti è dovere
della “volontà buona” conformarsi alla legge morale: la conformità
completa della volontà alla legge morale sarebbe la santità.
Ma la santità può essere trovata solo in un processo all'infinito poiché
l'uomo è anche istinto, sentimento, irrazionalità: allora è doveroso
postulare un'esistenza che continui all'infinito, cioè l'immortalità.
Il postulato dell'immortalità dell'anima, teoreticamente
indimostrabile, compie una funzione morale: solo se crediamo
nella nostra immortalità, le nostre aspirazioni non sono
contraddittorie.
L'idea di Dio è un “postulato” dell'intelletto (pura esigenza e non
concetto), senza di Questi, infatti, perderebbe di significato il
possedere un’anima immortale.
La legge morale, inoltre, comanda di essere virtuosi, quindi “degni”
di essere felici; si postula quindi l’esistenza di Dio, Egli ha il
compito di far corrispondere in un “altro mondo” quella felicità che
compete al merito (non realizzabile in “questo mondo”).
Due cose riempiono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e
venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne
occupa: il
cielo stellato sopra di me, e la legge
morale in me .
Entrambe le cose non posso cercarle e semplicemente supporle come
fossero nascoste nell'oscurità o nel trascendente, al di fuori del mio
orizzonte; io le vedo davanti a me e le collego immediatamente con la
coscienza della mia esistenza. Il primo comincia dal luogo che io occupo
nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo
nell'infinitamente grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi,
e inoltre nei tempi illimitati del loro movimento periodico, nel loro
inizio e nella loro continuità. La seconda comincia dalla mia invisibile
identità, la personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera
infinità, ma di cui si può accorgere solo l'intelletto, e con il quale io
non mi riconosco, come là, in una connessione puramente accidentale,
ma in una necessaria e universale.
(Ragione pratica, A 287-289).
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KANT. La Critica della Ragion Pratica