La rassegna stampa di Oblique gennaio 2013 Per gentile concessione della casa editrice 66thand2nd, pubblichiamo un estratto del romanzo di Anthony Cartwright Heartland, in libreria dal 31 gennaio. Durante l’adolescenza Adnan si era chiuso in sé stesso; gli sembrava di non avere alternative. Studiava in modo meccanico, se ne stava nella sua cameretta davanti al computer da cui ormai era soggiogato, un diluvio di zero e uno, immerso in manuali e riviste specializzate a imparare il linguaggio dei processori e a piegare le cose alla sua volontà. Lavorate sodo, li scongiurava suo padre tutto contento; lavorate sodo e qualcosa nella vita combinerete. Alla televisione, però, Adnan guardava i vestiti e le macchine che un giorno avrebbe di certo fatto sue e si infilava i pantaloni da scuola smessi e consumati alle ginocchia su cui si era cucito il marchio della Farah. Se lavorava sodo avrebbe combinato qualcosa, diceva suo padre, che però aveva lavorato mille ore al giorno solo per finire in esubero e l’unica cosa che aveva combinato era distruggersi. Si riteneva addirittura fortunato per aver trovato un posto da zincatore nella fabbrica dietro alla sede della Roman Mosaic, mentre tanti erano senza lavoro. Ogni tanto Adnan tirava su qualcosa come tassista per Joey Khan, sempre in giro fino a tardi nei fine settimana. In un raptus di pathos adolescenziale gli era venuto in mente di scrivere arbeit macht frei sopra l’ingresso della stazione dei taxi, come nella foto del campo di concentramento in un libro di storia di Zubair. Ma non era solo il problema dell’arcana relazione tra lavoro e guadagno e rs_gen13.indd 1 l’apparente mancanza di collegamento tra le due cose a tormentarlo. Guardava Rob e altri ragazzi con cui era cresciuto, le loro imprese quotidiane – calcio, botte, ragazze – e ne voleva anche lui. Certo che poteva combinare qualcosa, come diceva suo padre, se stava tranquillo al suo posticino, studiava e si dedicava al computer, ai suoi zero e uno, sì, poteva combinare qualcosa, ma entro i limiti stabiliti. Perfino qualcosa in più degli altri, anche questo gli era chiaro. Le regole gli erano chiare, gli era chiaro come andava il mondo. Ed era questo il problema. Non gli bastava combinare qualcosa. Voleva tutto. A volte andava in bagno e si guardava allo specchio. Pakistano di merda, diceva piano. Queste cose Zubair non le capiva. Di notte restavano svegli a chiacchierare nei loro letti quasi appiccicati. Zubair voleva iscriversi a Legge e diventare avvocato. Musica per le orecchie di loro padre. Va bene, buona idea, sussurrava Adnan al buio, ma poi? ma dopo? Discutevano di macchine, vestiti, donne, ma Zubair non parlava sul serio, Adnan lo sapeva. Per suo fratello erano soltanto sogni. Non si rendeva conto che i desideri bisogna andarseli a prendere. Ma con la forza, non con il lavoro. Alla fine il discorso s’incagliava sempre qui, Zubair gli diceva che non riusciva a seguirlo, per lui andava bene così punto e basta e adesso dormiamo. A Adnan non sarebbe mai andata bene, se lo era giurato. 01/02/2013 16:20:57 Anthony Cartwright Heartland Traduzione dall’inglese di Daniele Petruccioli 66thand2nd, Attese, pp. 289 – euro 17 7 giugno 2002. Nella sede del Cinderheart Football Club tutti gli occhi sono rivolti a Inghilterra-Argentina, attesissima partita dei mondiali nippo-coreani. La faccia di Beckham riempie lo schermo, si attende con ansia il riscatto degli inglesi dalle delusioni del passato. L’insegnante di sostegno Rob Catesby ripensa alla sua prima volta allo stadio insieme al padre, alla sua carriera da calciatore semiprofessionista e alla decisione di appendere definitivamente gli scarpini al chiodo. Ma prima gli restano ancora 90 minuti da giocare. Nel melting pot della provincia inglese, percorsa dai rigurgiti nazionalisti del British National Party, a catalizzare l’attenzione di giornalisti e tifosi è infatti un’altra sfida, quella tra il Cinderheath Fc, formazione di soli bianchi, e una squadra composta da giocatori musulmani: «una partita capace di scatenare una guerra razziale nel Black Country». Rob si troverà ad affrontare Zubair, fratello di Adnan, l’amico del cuore svanito nel nulla. Qualcuno pensa che sia morto, Rob sospetta che si sia arruolato nelle file di al-Qaeda. Solo Jasmine, un’altra vecchia amica d’infanzia, sa cos’è realmente accaduto… Heartland è un affresco dell’Inghilterra multietnica di oggi, abilmente calato nel tessuto postindustriale di Dudley, distretto siderurgico delle West Midlands. In un racconto appassionato che indaga il trauma dell’Europa all’indomani dell’11 settembre, l’autore entra nel cuore nero di una comunità rancorosa e diffidente, dove le differenze di classe e di religione costringono anche gli amici a schierarsi gli uni contro gli altri. Anthony Cartwright è nato a Dudley nel 1973. A vent’anni si trasferisce a Norwich per studiare Letteratura angloamericana presso la University of East Anglia. Dopo disparate esperienze lavorative, nel 1998 diventa docente di inglese e comincia a insegnare in diverse scuole dell’East London e del Nottinghamshire. Il suo libro d’esordio, The Afterglow, ha vinto il Betty Trask Award nel 2004. Il secondo romanzo, Heartland (2009), libro dell’anno per il «Guardian», è stato selezionato tra i finalisti del Commonwealth Writers’ Award: Best Novel 2010. Nell’agosto 2012 è uscito il suo ultimo lavoro, How I Killed Margaret Thatcher. Autori come Jonathan Coe e David Peace hanno elogiato la forza narrativa e lo stile di Cartwright, spesso accostato alla tradizione del realismo sociale britannico e ai nomi di David Storey, Alan Sillitoe e Roddy Doyle. Per definirne l’ambizioso disegno narrativo, Philip Oltermann del «Guardian» ha paragonato Heartland a Underworld di Don DeLillo. rs_gen13.indd 2 01/02/2013 16:21:01 Céline è la passione di chi ha letto molto poco. | Charles Dantzig – Oliviero Ponte di Pino, «Tutti i modi per dire libro» la Repubblica, 3 gennaio 2013 – Paolo Di Stefano, «L’editoria tedesca va in tribunale» Corriere della Sera, 3 gennaio 2013 – Enzo Golino, «Nella fabbrica del vocabolario» la Repubblica, 4 gennaio 2013 – Beppe Severgnini, «Elogio morale della precisione» La Lettura del Corriere della Sera, 6 gennaio 2013 – Cesare De Michelis, «Il mestiere dell’editore: produrre libri» Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013 – Alfonso Berardinelli, «È saggio scrivere saggi» Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013 – Stefania Vitulli, «I libro di carta vivrà… finché faremo l’amore» Panorama, 7 gennaio 2013 – Franco Marcoaldi, «Teresa Cremisi: “Noi editori, intellettuali decaduti, …”» la Repubblica, 7 gennaio 2013 – Francesco M. Cataluccio, «Utopia a Milano» Doppiozero, 8 gennaio 2013 – Antonio Prudenzano, «Mauri (neo vicepresidente di Messaggerie): “Nel 2013 spero nella rivincita…”» Affari italiani, 8 gennaio 2013 – Elena Stancanelli, «Il segreto di Jane. Perché continuiamo ad amare Orgoglio e pregiudizio» la Repubblica, 8 gennaio 2013 – Marco Bertoncini, «Ecatombe di grandi librerie» ItaliaOggi, 9 gennaio 2013 – Raffaella De Santis, «Baricco: “Esistono bello e brutto. Non esistono né il colto né il popolare”» la Repubblica, 11 gennaio 2013 – Zadie Smith, «Inno alla gioia» la Repubblica, 12 gennaio 2013 – Dario Pappalardo, «“Ecco come la mia Schiappa ha scalato tutte le classifiche”» la Repubblica, 14 gennaio 2013 – Giuseppe Culicchia, «Vendite volanti e testi a nolo. I librai rispondono alla crisi» La Stampa, 15 gennaio 2013 rs_gen13.indd 3 5 8 10 12 15 17 19 21 24 26 28 30 31 33 37 39 01/02/2013 16:21:02 – Luca Raffaelli, «Giovani, ma senza rabbia. I fumetti di Zerocalcare» la Repubblica, 16 gennaio 2013 – Guido Vitiello, «La ditattura del carino» La Lettura del Corriere della Sera, 19 gennaio 2013 – Massimiliano Parente, «Case, librai, promotori. Nella giungla di carta vale la legge del più forte» il Giornale, 19 gennaio 2013 – Mario Baudino, «Quando la libreria si difende con un trattore» La Stampa, 20 gennaio 2013 – Francesco Erbani, «L’Ora di Consolo. Cronache siciliane raccontate a sangue freddo» la Repubblica, 21 gennaio 2013 – Antonio Prudenzano, «“Dopo la fase delle promozioni i prezzi degli ebook si assesteranno”» Affari italiani, 21 gennaio 2013 – Daniele Martino, «Speciale librerie | Torino: germogli in periferia» Doppiozero, 22 gennaio 2013 – Alessandra Arachi, «Perché anche i nativi digitali preferiscono il libro di carta» Corriere della Sera, 22 gennaio 2013 – Stefania Parmeggiani, «Bestseller fatto in casa. Così gli editori vanno a caccia di scrittori…» la Repubblica, 22 gennaio 2013 – Jacopo Iacoboni, «Updike, il coniglio ha fatto blurb» La Stampa, 24 gennaio 2013 – Antonio Gnoli, «Lo scrittore riluttante. Permunian: “I libri sono il manicomio in cui vivo solo”» la Repubblica, 24 gennaio 2013 – Emilia Costantini, «Come reinventare il libraio» Corriere della Sera, 25 gennaio 2013 – Eleonora Lombardo, «Sellerio dopo Sellerio» la Repubblica Palermo, 26 gennaio 2013 – Stefano Montefiori, «Chi ha paura di un capolavoro» La Lettura del Corriere della Sera, 27 gennaio 2013 – Caterina Bonvicini, «Gatti, operai e De Filippi. Così nasce un romanzo» il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2013 – Lorenzo Rosoli, «Galeotto fu il libro…» Avvenire, 30 gennaio 2013 – Gian Paolo Serino, «L’antologia di Don DeLillo: nove pezzi contro il conformismo» Libero, 31 gennaio 2013 41 43 45 47 48 50 52 54 55 57 59 62 63 65 68 71 73 Raccolta di articoli pubblicati da quotidiani e periodici nazionali tra il primo e il 31 gennaio 2013. Impaginazione a cura di Oblique Studio rs_gen13.indd 4 01/02/2013 16:21:02 Tutti i modi per dire libro Tra macchine che stampano i volumi «espresso» e siti per romanzi in 140 caratteri, ecco i termini per capire l’editoria digitale Oliviero Ponte di Pino, la Repubblica, 3 gennaio 2013 Per cinquecento anni, il libro è stato più o meno quello che si era inventato a Venezia Aldo Manuzio. All’improvviso tutto è cambiato. Da un lato il libro si è digitalizzato – e dunque smaterializzato. Dall’altro, quasi a controbilanciare questa deriva nel virtuale, l’oggetto fisico, la sua «cosità», hanno assunto una diversa importanza. Il Controdizionario del libro cerca di raccontare quello che sta accadendo ai margini del libro e ai confini dell’editoria. ad personam, libro: servizio offerto da diverse case editrici che personalizzano le singole copie con il nome del proprietario in copertina, una dedica, o modificando la quarta, eccetera. airport library: biblioteca self service aperta nel 2010 all’aeroporto di Amsterdam-Schipol, oltre la zona controllo passaporti, con 1290 libri in 29 lingue. akinator: app che chiede all’utente di pensare a un personaggio, e poi gli pone una serie di domande: attraverso le riposte, cerca di indovinare di quale personaggio si tratti. billy index: indice che valuta, sul modello del Big Mac Index, il potere d’acquisto nei diversi paesi comparando i prezzi di Billy, la libreria Ikea. biolibro: volume realizzato con carte e inchiostri ecologici, o con il font olandese Ecofont, progettato per risparmiare inchiostro attraverso l’utilizzo di «microbuchi». book bloc: manifestanti che nei cortei portano scudi di gommapiuma colorati, dove hanno scritto titolo e autore di un libro, usati per la prima volta il 23 novembre 2010, in una manifestazione contro il governo Berlusconi. rs_gen13.indd 5 book date: manifestazione pubblica dove è necessario presentarsi assumendo l’identità di uno scrittore, portando con sé un libro amato e appassionante, per provare a «sedurre» il proprio interlocutore in cinque minuti; finiti i cinque minuti, si cambia partner e si ricomincia. bookmooch.com: social network in cui ogni utente mette a disposizione i libri di cui vuole disfarsi. Ogni libro messo a disposizione vale un decimo di punto, ogni libro regalato vale un punto; con i punti accumulati è possibile ottenere gratis altri libri. bookshelf porn: sito che pubblica le fotografie degli scaffali delle librerie degli utenti. Il motto è una frase del regista John Waters: «Se vai a casa di qualcuno e non ci sono libri, non scoparci». booktrack: applicazione per ebook reader che arricchisce romanzi e saggi con una colonna sonora; riconosce il ritmo di lettura e sincronizza la musica al testo. I brani musicali «corrispondono emotivamente alle parole sulla pagina». book training: incontri che hanno l’obiettivo di consentire ai partecipanti di prendere attivamente parte a una conversazione di argomento letterario senza sfigurare, pur non avendo letto i libri di cui si parla. bücherwald: giardino pubblico di Berlino nel quale praticare il bookcrossing. I volumi sono sistemati in nicchie scavate nel tronco degli alberi e protetti da una tendina di plastica trasparente. culturnomica: nuova disciplina scientifica che si propone di introdurre metodi quantitativi nello studio dei fenomeni culturali; grazie alla digitalizza- 01/02/2013 16:21:02 zione di milioni di volumi e alla potenza di calcolo dei moderni elaboratori, diventa possibile misurare la frequenza assoluta e relativa delle parole dal 1500 a oggi. digitorial: contenuto narrativo, saggistico o divulgativo in cui l’elemento digitale (con le sue possibilità di interazione e socializzazione) è presente fin dall’inizio della progettazione. Si contrappone alla digitalizzazione, la semplice trasposizione in formato digitale di materiali analogici preesistenti. editor digitale: nuova figura professionale, in grado di creare «libri aumentati», ovvero contenuti multimediali equilibrando testo, immagini, suoni, interazioni… espresso book machine: macchina in grado di stampare e rilegare un libro in formato tascabile, lanciata nel 2008: per stampare e rilegare un volume di 300 pagine con copertina cartonata impiega circa tre minuti. ff o fanfiction: opere scritte dai fan prendendo come spunto i personaggi o le storie di un lavoro originale. I fan possono creare sequel e prequel, aggiungere episodi o ampliare le sottotrame, ma anche creare trame alternative. A volte si spingono fino alla parodia, in altri casi accentuano gli aspetti erotici (lemon). flipback: libro cartaceo delle dimensioni di un iPhone (8x12 cm) e del peso di soli 123 grammi che si sfoglia in orizzontale; lanciato nel 2009 dall’editore olandese Jongbloed, specializzato nella pubblicazione di Bibbie. freelance editor: redattore che lavora come libero professionista, e non presso un editore. living library, the: biblioteca dove, accanto ai libri, in occasioni predefinite, si possono incontrare persone disponibili a raccontare la propria storia, in una mezz’ora circa. mobi-romanzo: testo narrativo pubblicato su dispositivi mobili (telefono cellulare, tablet). nanoism.net: pubblica testi lunghi al massimo 140 battute e li posta su twitter, ricompensando gli autori con micropagamenti (naturalmente…). neuro lit crit: nuova disciplina scientifica che studia le reazioni neurobiologiche alla lettura: attra- verso un sistema di elettrodi, è possibile evidenziare le zone del cervello attivate dalla lettura di una determinato brano, per poi confrontarle con le zone del cervello attivate da altre attività. odore dei libri: nel 2009 un gruppo di ricercatori britannici e sloveni è riuscito a identificare l’aroma della carta «stagionata»: «note erbose con un pizzico di acidità e un accenno di vaniglia sopra un fondo di muffosità». La ricerca «potrebbe fornire un aiuto prezioso agli archivi e alle biblioteche per la conservazione e il restauro di volumi pubblicati tra il xix e il xx secolo». Smell of Book™ è uno spray da applicare a Kindle e iPad per «avere il meglio dei due mondi, la comodità dell’ebook e l’amato profumo dei libri di carta». Paper Passion è un profumo femminile che mescola tredici diverse fragranze per ottenere l’odore della carta: viene presentato con un packaging a forma di libro ideato da Karl Lagerfeld, che in occasione del lancio ha sentenziato: «L’odore dei libri è il migliore del mondo». Per chi frequenta pagine facebook come «Amanti dell’odore dei libri nuovi» o «Sniffatori di libri». pirate kiosk: sportello che ospita un server con una copia di Piratebay, celebre sito di peer-to-peer: basta avvicinarsi con un portatile acceso per collegarsi via wi-fi e scaricare materiali aggirando le normative sul copyright. prezzo dei libri: nel 2011 Amazon ha creato una app che legge il codice isbn-ean di un volume e confronta immediatamente il prezzo: se quello su Amazon.com è superiore a quello del negozio, Amazon praticava immediatamente uno sconto di 5 dollari. pronto soccorso letterario: lo offre il sito 118libri.it ed è rivolto a «un lettore alla deriva che non sappia che libro scegliere per la fase esistenziale che sta vivendo». recensioni a pagamento: giudizi pubblicati su internet da utenti apparentemente disinteressati e indipendenti, che invece vengono commissionati e remunerati dall’autore o dalla casa editrice. recensioni facciali: hanno «lo scopo di recensire tramite un unico scatto fotografico e un’unica espressione facciale il senso del libro che abbiamo letto e 6 rs_gen13.indd 6 01/02/2013 16:21:02 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 Smell of books trovare il sunto definitivo dei nostri pareri a fine lettura», perché «una faccia vale più di mille parole». recensioni-fai-da-te: molti autori usano uno pseudonimo per recensire favorevolmente i propri libri (e magari denigrare quelli dei concorrenti). Quando vengono scoperti alcuni si pentono, come R.J. Ellory: «Ho sbagliato, chiedo scusa ai lettori e alla comunità degli scrittori». Altri, come Stephen Leather, si difendono: «Lo fanno tutti gli scrittori che conosco. È un nuovo metodo di marketing, non se ne può fare a meno nell’èra del web». scrivi o muori: l’applicazione Write or Die punisce chi non scrive abbastanza in fretta. L’utente imposta il numero di parole che vuole (o deve) scrivere in un certo lasso di tempo e sceglie il tipo di castigo che vuole ricevere se non rispetta l’impegno. spoiler: post su un sito internet o su un blog che anticipa il finale di un film o di un libro, guastando dunque il piacere dello spettatore o del lettore; la netiquette prevede che venga segnalato con uno «spoiler alert». wonderbook: software di realtà aumentata che consente di visualizzare le storie contenute nel libro, proiettando sullo schermo della PlayStation animazioni, creature e ambientazioni digitali con le quali è possibile interagire. Lo slogan: «Un libro, mille storie». Espresso book machine 7 rs_gen13.indd 7 01/02/2013 16:21:02 L’editoria tedesca va in tribunale Crisi e strategie di mercato spaccano il vertice della Suhrkamp Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 3 gennaio 2013 Che fine farà la gloriosa Suhrkamp, una delle più prestigiose case editrici d’Europa? La domanda non è affatto esagerata e non riguarda solo il destino dell’azienda tedesca ma tocca questioni più ampie che concernono il rapporto tra lavoro culturale e mercato. Fondata a Francoforte nel 1950 da Peter Suhrkamp, transfuga di Fischer Verlag, che aveva guidato dal 1936, alla morte del suo primo proprietario nel ’59 fu rilevata dal suo braccio destro, Siegfried Unseld, destinato a diventare un altro mostro sacro dell’editoria europea. Il fondatore, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, aveva portato con sé dalla Fischer i maggiori autori di lingua tedesca, da Hermann Hesse a Thomas Mann, da Bertolt Brecht a Max Frisch, creando un catalogo di altissimo prestigio internazionale a cui si aggiunsero col tempo i maggiori scrittori del Novecento europeo e americano, compresi gli italiani Pirandello, Svevo, Ungaretti, Pavese, Gadda. Con la scomparsa di Unseld, avvenuta nell’ottobre 2002, la gestione passa alla sua seconda moglie Ulla Berkéwicz, che pur rinnovando il catalogo non ha tradito la missione originaria di una casa editrice sempre collocata nell’ambito della sinistra culturale, attenta alle avanguardie letterarie e alle scienze sociali, un ruolo paragonabile a quello che in Italia hanno volto l’Einaudi e la Feltrinelli. Ripetutamente al centro di polemiche per le difficoltà economiche cui, come è toccato ad altri editori di cultura, ha dovuto far fronte negli anni, con una decisione coraggiosa e molto discussa nel 2010 la Suhrkamp si è trasferita a Berlino abbandonando la sua sede rs_gen13.indd 8 originaria: cosa che accade raramente per editori che hanno la loro forza anche nell’identificazione storica con la propria città (immaginate un’Einaudi che traslocasse a Milano!). Fatto sta che qualcuno ha definito la Suhrkamp dell’ultimo decennio, anche per le controversie ereditarie che si accesero ancora vivo (e già malato) Unseld, una sorta di infinita «soap opera» giornalistica, sempre al centro di pettegolezzi, crisi, appetiti economici. Ora però la questione si fa più drammatica e non solo per l’assetto finanziario. Apparentemente gli equilibri sono chiari: la Fondazione di famiglia, la cui (contrastata) rappresentante è Ulla Berkéwicz, detiene il 61 percento delle azioni, mentre il 39 per ento appartiene dal 2006 all’imprenditore mediatico Hans Barlach, il cui nonno, Ernst, fu un famoso scultore espressionista. Barlach, pur avendo solo esperienza di editoria quotidiana e televisiva, non ha mai taciuto l’ambizione di dirigere la casa editrice di Unseld e rimprovera all’attuale dirigenza una gestione deludente sul piano finanziario: «Sarebbe molto più vantaggioso» si è spinto a dichiarare «sfruttare solo il catalogo senza produrre più novità». Salvo poi auspicare nuovi mega-bestseller. È un braccio di ferro, che dura da anni, tra due modi opposti di intendere l’industria editoriale. Da una parte una leadership che intende valorizzare la tradizione senza compromettere la qualità tentando avventure nella letteratura commerciale; dall’altra il salto verso i suggerimenti del mainstream anche a costo di tradire gli intenti originari, magari semplificando la struttura redazionale che si avvale di editor di altissima qualità. 01/02/2013 16:21:02 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 L’ultimo appiglio per rovesciare gli equilibri societari è arrivato a Barlach su un piatto d’argento quando ha scoperto che Ulla Berkéwicz, senza informare i soci, ha affittato alle edizioni una villa storica di famiglia nel quartiere berlinese di Nikolassee, da sempre utilizzata come sede di rappresentanza editoriale e adesso adibita anche ad archivio. Ora Barlach, nel chiedere la restituzione di oltre 280 mila euro, ha fatto causa scatenando una battaglia tra avvocati, e il tribunale regionale gli ha dato ragione al punto da imporre le dimissioni della Berkéwicz come amministratrice, colpevole di aver mescolato gli interessi privati nella gestione aziendale. Qualcuno teme che se la sentenza verrà confermata si arriverà alla chiusura di una delle ultime case editrici indipendenti tedesche. Ovviamente non sono mancati gli appelli e i pronunciamenti degli autori a sostegno dell’erede di Unseld. Lo scrittore austriaco Peter Handke ha definito Barlach una sorta di oscuro Satana, il cui scopo è quello di cancellare il simbolo di una glo- riosa storia culturale per farne solo uno strumento di guadagno. Hans Magnus Enzensberger, uno degli autori di più lunga fedeltà, ha minacciato, come Handke, di lasciare la Suhrkamp qualora dovesse subentrare Barlach, un manager privo di competenze editoriali il cui unico progetto sarebbe quello di «cannibalizzare i diritti d’autore»: «Con lui non resterò un minuto in più», ha dichiarato al settimanale Die Zeit. Se dovesse spuntarla, Barlach avrà comunque vita dura, viste le prese di posizione delle ultime settimane. Tutte autorevoli e molte delle quali pubblicate su Der Spiegel. Per il poeta Volker Braun, da quarant’anni fedele alla Suhrkamp, l’iniziativa di Barlach si riduce a una lotta di potere economico che espone un’impresa culturale agli attacchi del mercato; per il musicista Thomas Meinecke, anch’egli autore della casa, lo spauracchio economico è solo un pretesto; per la poetessa novantenne Friederike Mayröcker la signora Berkéwicz è stata degna direttrice del più grande editore occidentale. Dunque, vietato l’accesso agli intrusi. 9 rs_gen13.indd 9 01/02/2013 16:21:02 Nella fabbrica del vocabolario Intervista a Valeria Della Valle che coordina quello Treccani Enzo Golino, la Repubblica, 4 gennaio 2013 Dotato di un gusto letteratissimo e liricheggiante a cui piegava la sua prosa romanzesca, Gesualdo Bufalino, siciliano di Comiso, amico di Leonardo Sciascia che lo convinse al debutto editoriale con Sellerio, immaginò che se fosse finito in un’isola priva di tutto, non avrebbe voluto «altro libro che un dizionario. Tante sono le grida e le musiche ch’è possibile udire nelle sue viscere vertiginose». Tra le tante definizioni di quel Grande libro della vita, un autentico Libro mondo, che è il Dizionario, o Vocabolario che dir si voglia, questa è sembrata a Valeria Della Valle il modo migliore per concludere la sua relazione in un recente convegno fiorentino dell’Accademia della Crusca di cui Nicoletta Maraschio è rs_gen13.indd 10 presidente. E festeggiare così i quattrocento anni (1612) del Vocabolario della Crusca, pilastro della nostra civiltà linguistica e dell’identità nazionale, proprio mentre a Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, il 9 novembre scorso è stato attribuito il ruolo di Accademico della Crusca honoris causa. Il tema del convegno era formulato con l’intento quanto mai pratico di mostrare e discutere «come si fanno e come si usano i vocabolari». Valeria Della Valle insegna Linguistica italiana a Roma, Università La Sapienza, coordina sul piano scientifico il Vocabolario Treccani edito in cinque volumi dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (pri- 01/02/2013 16:21:02 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 ma e seconda edizione dirette da Aldo Duro tra il 1986 e il 1994), e con Giovanni Adamo l’Osservatorio neologico della lingua italiana. Scrutatrice provetta di quel che accade nel magma delle parole, conosce i rischi e i piaceri di chi mette mano alla compilazione e/o alla revisione di un dizionario. Tanto più quando ci si debba confrontare con precedenti autorevoli. Per esempio? Almeno nel mio caso, da una parte si vorrebbero rispettare fino in fondo impostazione e caratteristiche delle opere già pubblicate; dall’altra la consapevolezza che la lingua si rinnova nel corso del tempo costringe a revisioni e aggiornamenti. Quando racconto ai miei studenti la storia della nostra lingua attraverso i vocabolari, mi chiedono se ogni vocabolario non sia altro che la copia del precedente. Hanno ragione? In un certo senso, sì. E poiché stiamo celebrando il quarto centenario del Vocabolario della Crusca, dobbiamo ammettere che tutto nasce da quel grande lavoro. In ogni vocabolario, anche il più recente, c’è ancora molto del fondamentale prototipo. È cambiato il rapporto fra il dizionario e chi lo consulta? Giovanni Nencioni, autorevole storico della lingua, già nel 1985 intervenne sull’argomento. Non è più il dizionario che, pedagogicamente, prefigura lo scolaro o lo scrittore da educare e guidare, ma è chi consulta a cercare uno strumento lessicografico capace di rispondere a domande sulla lingua in se stessa e nei suoi rapporti con la cultura, la realtà, la prassi sociale. Come si usa, oggi, un dizionario? In maniera molto diversa da quando, in passato, il contenuto era considerato sacro. Il lettore moderno ha invece un atteggiamento non passivo ma critico, e cerca risposte molto più ampie. Non si accontenta del significato delle parole, vuole la data della prima attestazione, risposte ai dubbi grammaticali, abbondante fraseologia d’uso non più soltanto letteraria, segnalazione dei registri e della frequenza, possibilità di ricerche incrociate attraverso le banche dati. Quali novità ha introdotto nella terza edizione del Treccani, uscita nel 2008 e da lei curata? La squadra redazionale che ho guidato si è arrampicata sull’impalcatura del restauro, consapevole che i dizionari dell’uso non sono archivi di parole immobili, ma riflettono il momento storico in cui sono prodotti. Abbiamo introdotto – esposte al convegno fiorentino – novità lessicali come mobbizzare, par condicio, quote rosa e altre. Abbiamo incrementato gli esempi di frasi del parlato quotidiano: come l’uso figurato del verbo spalmare nel senso di distribuire qualcosa nel tempo e nello spazio soprattutto nel linguaggio della pubblica amministrazione e della politica (spalmare gli aumenti delle tasse su tutti i contribuenti). Ancora un aspetto importante è stato l’arricchire con nuovi significati il lessico tecnicoscientifico (da bioarchitettura a domotica a Ogm). E così pure le risposte ai dubbi del lettore spiegando la pronuncia corretta, la grafia di parole italiane e straniere, questioni di grammatica e di sintassi. Novità tra le più vistose è l’atteggiamento verso le donne. A cominciare da me, che dirigo il Treccani, una volta evento impensabile per una rappresentante del genere femminile… Oggi redattrici (prima inesistenti) e redattori prendono le distanze rispetto a espressioni impregnate di conformismo, a stereotipi ormai abusati del maschilismo: come i proverbi del tipo chi disse donna disse danno. E si veda anche l’evoluzione delle voci coppia e omosessualità dalla prima alla terza edizione, via via definite con maggiore incisività e correttezza. Nelle citazioni delle frasi d’autore la letteratura non ha l’importanza e il peso di una volta. È vero, non sono più gli scrittori a rappresentare un modello d’imitazione per la lingua scritta. Comunque ho inserito poeti e prosatori interessanti scelti anche tra i più giovani (un nome per tutti, Valeria Parrella), e mai citati nelle due precedenti edizioni. Un aggiornamento significativo per il futuro della lingua e della letteratura italiane. 11 rs_gen13.indd 11 01/02/2013 16:21:02 Elogio morale della precisione Beppe Severgnini, La Lettura del Corriere della Sera, 6 gennaio 2013 «Nei corsi di scrittura, il punto su cui tornavo più spesso era la precisione. La letteratura quale linguaggio definitivo per circoscrivere una materia mobile e multicolore come il «sentire» […]. Per contagio ho finito per amare la precisione non specificamente letteraria, come quella della manualistica dedicata alle costruzioni navali (con definizioni tecniche stranianti dell’acqua e delle imbarcazioni), all’arte militare, al gioco degli scacchi, alle ricette alcoliche […]. E ne raccomando la lettura come propedeutica alla prosa». La libreria di casa è un giacimento di serendipity, si trovano le cose che non si stanno cercando. Negli ultimi giorni dell’anno è sbucato Prima persona, da cui è tratta la citazione iniziale. Un volume che ci permette di ricordare Giuseppe Pontiggia – uomo e scrittore delizioso – nel decennale della scomparsa; e consente all’autore di portarci un regalo, a distanza di tempo. Un regalo vero, un viatico per questo anno strano che comincia: l’amore per la precisione. Precisione non è solo elenchi, ma è anche elenchi: dalle genealogie della Bibbia alle navi dell’Iliade ai cetacei di Melville, che hanno bloccato molti (ma non Achab, né Ismaele) nella rotta verbale verso Moby Dick. La scrittura è il luogo dell’esattezza. Il marchio di fabbrica del cattivo scrittore è la confusione (che l’interessato, ovviamente, considera arte). Ma la questione non è solo letteraria o culturale. La precisione diventerà lo spartiacque tra chi prova e chi tenta; tra chi costruisce e chi accumula. In ultima analisi, tra chi riesce e chi fallisce. Precisione non è pignoleria. La precisione ha uno scopo, la pignoleria nessuno. I pignoli sono manieristi; le donne e gli uomini precisi sono romantici. Sanno che il caso entra dappertutto, ma niente esce solo per caso. Perché Hugo Cabret resta un film speciale, e ci porta a dimenticare il fastidio del cinema che si cita addosso? Perché il ragazzino protagonista unisce tecnica e incoscienza, ama i meccanismi e i rs_gen13.indd 12 sogni, sistema i congegni e aggiusta la vita: sua e degli altri. Italo Calvino dedica alla «Esattezza» la terza delle sue Lezioni americane (preparate per l’università di Harvard nel 1985, pubblicate nel 1988). Parte da Giacomo Leopardi, e ricorda che, quando definisce il concetto di «vago», il poeta dell’Infinito era preciso («Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite», Zibaldone, 25 settembre 1821). Calvino, nella stessa lezione, cita anche Roland Barthes e Robert Musil, due tra gli scrittori che più hanno coltivato la precisione. L’uomo senza qualità un talento ce l’aveva di sicuro: decrittare la vita intorno a lui. Voi direte: perché tutto questo dovrebbe importarci? In questo incerto e insolito 2013 – dopo ventisei anni tornano quattro cifre diverse tra loro – non dovremmo occuparci invece del lavoro che non c’è, soprattutto per i più giovani? Non dovremmo pensare alla politica, tentata da catastrofici ritorni al passato? La precisione – obietterà qualcuno – è un dolce di lusso, meglio pensare al pane quotidiano. Beh, si sbaglia: la precisione è la farina, senza la quale non si ottiene né pane né dolci. In un mercato del lavoro che offre sempre meno e chiede sempre di più non c’è spazio per il «più o meno». E invece la tentazione del pressapochismo è fortissima: consente infatti di sperimentare frettolosamente molte cose, sperando che almeno una vada bene. Se dalle vite private passiamo alla vita pubblica, lo spettacolo è ancora più malinconico. Un breve elenco delle sciatterie italiane occuperebbe l’intero primo numero 2013 della Lettura, e rovinerebbe l’umore di tutti noi. Eppure non c’è dubbio. È la mancanza di esattezza – delle norme, delle procedure, dell’amministrazione, della giustizia, delle carriere – che ha spinto l’Italia a scivolare verso il basso. Senza rumore, perché il declino si può oliare, come una carrucola. 01/02/2013 16:21:02 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 Alla precisione – e all’imprecisione – ci si abitua da giovani: non è mai troppo presto per imboccare il sentiero della faciloneria. L’inesattezza è una compagna gentile, che ci sussurra di non fare sforzi. Cercare, preparare, disporre, controllare, ricordare, mantenere le promesse costa fatica. Eppure l’umanità si divide tra quelli che fanno (bene) ciò che dicono; e gli altri, che annunciano inutilmente e promettono invano. I propositi spesso sono generici; ma si possono precisare, prima di presentarli in società. Ai ragazzi che si avvicinano dopo un incontro pubblico e dicono: «Devo chiederle una cosa…», rispondo: «Scrivimi», e passo l’email personale. Si fanno vivi in due su dieci. È una selezione naturale e utile. Chi scrive, infatti, ha quasi sempre qualcosa da proporre o da chiedere. Anna ha inviato una brillante autocritica generazionale al blog Solferino28; Filippo scriverà il suo libro; Maria Elena lavora su Tacito e twitter; Martina combinerà architettura e scrittura; Elettra ha organizzato un insolito incontro in Bocconi; Greta è diventata giornalista; Hermes e Diana ci proveranno. Ognuno di loro ha un’idea precisa, non una vaga aspirazione; presenta una proposta, non soltanto generica disponibilità. Quei ragazzi – e ho citato solo vicende degli ultimi due mesi – hanno capito «la forza dei legami deboli» (copyright Mark S. Granovetter). Più femmine che maschi: credo non sia un caso. Usare i propri contatti non è una cosa cattiva: i ragazzi devono farlo. Non in modo cinico; in modo preciso. Devono capire che le prime impressioni – sì, anche un’email – contano. Devono imparare a rendersi rilevanti e interessanti; decidere cosa vogliono; poi chiederlo, in maniera sintetica. Tutto ciò non vuol dire diventar vecchi anzitempo; significa non buttare i dieci anni più importanti della propria vita. Molti, in America e in Europa, sostengono che «i trent’anni sono i nuovi vent’anni». È una colossale sciocchezza. Peggio: è un’istigazione alla rassegnazione. I vent’anni contano, eccome. E vanno trattati con delicatezza e precisione. In The Defining Decade (2012), dedicato proprio ai ventenni, la terapeuta Meg Jay spiega che l’esattezza dei comportamenti non è solo un modo soddisfacente di vivere con gli altri; è anche la condizione di ogni avanzamento personale e professionale. L’autrice ricorda la tattica del giovane Benjamin Franklin (uno dei grandi strateghi americani della quotidianità): se aveva bisogno di conoscere qualcuno, il futuro firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza chiedeva un piccolo, semplice favore. Era convinto, infatti, che a molti non dispiacesse sentirsi buoni. Meg Ray lo ricorda ai ragazzi di oggi: it’s good to be good. Non tutti voglio imbrogliarvi, là fuori. Mi ha colpito la conversazione tra Stefano Soatto, padovano, 44 anni, professore di Robotica alla Ucla (University of California Los Angeles), e Rossella Tercatin, 24 anni, autrice di una intervista per Pagine ebraiche a Judea Pearl, vincitore del Turing Award 2012 (considerato il Nobel dell’informatica), pioniere dell’analisi causale. Scrive di lui Soatto: «Un ingegnere elettronico della Rca diventato un pilastro della Computer Science, uno dei riformatori di Artificial Intelligence, uno dei caposaldi di Machine Learning, fino ad arrivare ai fondamenti della statistica». L’ho conosciuto, qualche anno fa, proprio grazie a Soatto: un personaggio di un’intelligenza folgorante e di un’umanità disarmante. Nell’intervista – originale, documentata e scrupolosa – Rossella commette però un piccolo errore: descrive Stanford come «una università Ivy League». Soatto le ha scritto: «Ti mando un paio di commenti; scusa se mi permetto di farteli, ma visto che sei Oggi la sciatteria è un vizio che non ci possiamo permettere giovane e giornalista, rappresenti un nodo importante del futuro del tuo paese. Stanford non è una Ivy League. Ciò non vuol dire che non sia un’ottima università, ma quando uno scrive è importante verificare la correttezza di tutte le affermazioni, anche se apparentemente banali o prive di conseguenze. Quando una cosa è scritta, è scritta per sempre, ed è 13 rs_gen13.indd 13 01/02/2013 16:21:02 difficile immaginare quali ripercussioni possa avere a distanza di anni. Purtroppo questo concetto si sta perdendo con l’abitudine all’imprecisione dovuta al ciclo giornalistico accelerato (senza revisione editoriale), ai blog, social media etc. Ma molti giovani qui negli Usa lo stanno imparando sulla propria pelle, quando gli uffici di ammissione all’università oppure i potenziali datori di lavoro vanno a cercare le tracce che uno ha lasciato. Paradossalmente, oggi è più facile commettere errori, ed è più difficile cancellarli». Pignoleria? No, esattezza motivata e finalizzata. Una piccola lezione utile per tutti, ma indispensabile per noi italiani. Chi ce l’ha fatta, fateci caso, ha saputo unire brillantezza e precisione. La prima è congenita; la seconda va coltivata. Pochi di noi dovranno preoccuparsi della propria intuizione, dell’intelligenza emotiva o della capacità di pensiero associativo; quasi tutti, invece, dobbiamo badare alla nostra costanza e affidabilità. Esiste un sospetto metodico di superficialità verso noi italiani: lamentarsi non serve, bisogna smentire con i fatti. Orari, appuntamenti, note-spese, interventi in riunione, consegne, scadenze: se un tedesco se ne scorda, è distratto; se ce ne dimentichiamo noi, pensano che siamo sciatti. La precisione non è solo una sana consuetudine lavorativa; è anche un atteggiamento verso le persone e le cose. Prendiamo l’ironia: non può essere generica. Per funzionare, deve essere esatta: solo così ci aiuterà a sorridere delle imperfezioni del mondo, soprattutto di quelle che non possiamo correggere. L’ironia è chirurgia verbale. Non può essere imprecisa, altrimenti rischia di uccidere ciò che vuol salvare. Lella Costa – autrice nel 2000 con Gabriele Vacis del monologo Precise parole (tutto torna) – ha appena pubblicato Come una specie di sorriso. Scrive: «Non sempre l’ironia fa ridere, anzi. Spostare lo sguardo, cambiare il punto di vista, illuminare la realtà da una prospettiva diversa, affermare dignità e superiorità sul destino richiedono rigore, disincanto, consapevolezza, lucidità implacabile e obiettività assoluta». È così. L’ironia è precisa: ecco perché funziona bene su twitter che, come ho scritto più volte, considero una forma di igiene mentale quotidiana. Giulia @CraftyKitteh – 30 anni, milanese, «antropologa fotografa, sognatrice e appassionata di crochet/uncinetto» – ha letto la mia definizione e ne ha proposto una migliore: «Twitter? Un filo intermentale». Brava Giulia. Uncinetto verbale: un lavoro di precisione. Quando una cosa è scritta, è scritta per sempre, ed è difficile immaginare quali ripercussioni possa avere a distanza di anni. Purtroppo questo concetto si sta perdendo con l’abitudine all’imprecisione dovuta al ciclo giornalistico accelerato (senza revisione editoriale), ai blog, social media etc. 14 rs_gen13.indd 14 01/02/2013 16:21:02 Il mestiere dell’editore: produrre i libri Cesare De Michelis, Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013 Cari amici di :due punti edizioni, il libro-manifesto che vi accingete a mettere in circolazione col titolo Essere editori oggi prende lo spunto dalla crisi che in quest’ultimo anno ha investito anche l’editoria libraria e soprattutto le piccole case editrici, che sono ovviamente le più fragili, e dalla rivoluzione che contemporaneamente è stata provocata dall’affermarsi delle nuove tecnologie, a cominciare dall’ebook, le cui conseguenze non è facile né immaginare né misurare, e vuole aprire un confronto per ridefinire lo statuto stesso del lavoro editoriale e più in generale del lavoro culturale. La premessa da cui partite è che nessuna tecnologia può sostituire l’editore (o l’editor) nel suo ruolo fondamentale di «selezionatore» dei testi da offrire al pubblico tra i molti che vengono prodotti e quindi di promotore della loro diffusione, ma al tempo stesso valutate severamente i modi nei quali l’editoria attuale svolge il suo compito, asservita com’è a logiche di mercato «consumiste» e dominata com’è da concentrazioni «monopoliste», che vanno contrastate duramente per non compromettere la libertà dell’intero sistema della conoscenza e della creatività, la quale per altro riconoscete che la vostra attività di piccoli editori non è stata e non è in grado di difendere da sola. La rivoluzione tecnologica e il sistema partecipativo consentito dalla rete possono, dunque, trasformarsi in una straordinaria occasione per rivoluzionare il sistema in essere rendendolo «migliore», riducendo di fatto il potere della finanza, perché le risorse necessarie all’impresa editoriale sono di gran lunga minori, e il potere del pubblico, che attraverso le comunità virtuali è assai meno condizionato dal marketing e dalla pubblicità e, quindi, capace di orientarsi più liberamente, il che dovrebbe premiare le proposte (i libri) degli editori «impegnati e militanti» come voi. A dire il vero l’esperienza già fatta dal cinema o dalla musica non sembra darvi ragione, visto che gli rs_gen13.indd 15 orientamenti degli spettatori e degli ascoltatori non sembrano essersi inequivocabilmente rivolti verso opere di maggior impegno o qualità, ma la ragione delle mie perplessità non dipende soltanto da uno scetticismo consolidatosi negli anni, quanto invece dal proposito che difendete di correggere le distorsioni del libero mercato trasformandolo in «equo e solidale» attraverso strumenti come la «garanzia partecipativa» o il no-profit. Voi stessi alla fine del manifesto affermate come essenziali due valori che è sempre stato difficile far convivere: da un lato c’è la «bibliodiversità» e cioè il pluralismo e dall’altro la «sostenibilità» e cioè la misura, frutto di una selezione responsabile, che non affidi alla discrezionalità dei lettori tutta la responsabilità della scelta di fronte a un’offerta che rischia di essere smisurata. La necessità di investire risorse economiche per pubblicare un libro ha fino ad oggi consentito di misurare la «sostenibilità» in modo non ideologico: un libro si poteva stampare e mettere in commercio solo immaginando un pubblico di lettori (e acquirenti) che consentisse di recuperare le spese sostenute, e il fatto che l’autore non venisse considerato un lavoratore da retribuire, ma un socio con il quale dividere gli incassi, era il modo per riconoscerne l’indipendenza e l’autonomia. Quando tutto il sapere e tutta l’invenzione degli autori sarà gratuitamente disponibile in rete diventerà ancora più difficile orientarsi nella foresta delle proposte editoriali e insignificante o superfluo misurare il consenso che ciascuna di esse sarà capace di raccogliere, e probabilmente diventeranno decisive le risorse da destinare alla propaganda e alla promozione, che non venendo dal pubblico verranno da chi ha «interesse» a sostenere idee o persone a prescindere dal giudizio dei destinatari. A questo punto l’editore non conterà più per le sue scelte, ma per la capacità di raccogliere fondi al servizio di forze che lo sovrastano e ne condizionano 01/02/2013 16:21:02 il lavoro. Il mercato del libro dalle sue origini, da quando cioè è stato possibile riprodurre meccanicamente un testo, è stato caratterizzato da un eccesso di offerta rispetto a una domanda che faticava a esprimersi con chiarezza, e contemporaneamente ha dovuto fare i conti con la pretesa di limitare la sua libertà con strumenti più o meno autoritari, perché è stato subito chiaro che non tutti i libri erano egualmente «buoni», anzi che molti di essi diffondevano errori o menzogne, o peggio suggerivano azioni malvagie o criminali. Alla fin fine c’è da augurarsi che, mentre si trasformerà il supporto sul quale i libri, molti libri, andran- no in giro cercando e incontrando lettori, il mercato resista abbastanza simile a quello che esiste, il quale poi pur tra mille contraddizioni ha certo consentito a molte misere opere di vendere più copie di quante avrebbero meritato, ma ha anche permesso lo sviluppo e la diffusione di una cultura che, nonostante i guai della modernità, non è certo peggiore di quella che la ha preceduta. Qualità e quantità, è cosa nota, faticano a procedere insieme, ma l’importante è che il confronto continui rinnovandosi ogni volta, mediando e rimediando, senza né sperare né attendersi che il conflitto possa essere superato una volta per tutte. 16 rs_gen13.indd 16 01/02/2013 16:21:02 È saggio scrivere saggi Un volume curato da Anna Dolfi avvalora un sospetto che da tempo va affermandosi: le migliori prove oggi arrivano non dalla fiction ma dalla saggistica. Anche in Italia Alfonso Berardinelli, Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013 Nonostante l’ottimismo commerciale (un po’ disperato) di cui si alimenta il romanzo, nonostante l’aureola convenzionale di cui gode la poesia (o l’idea di poesia), sulla sorte attuale della letteratura europea gli interrogativi non mancano. Il fatto che raramente vengano formulati non migliora la situazione. Il nuovo millennio non ha portato scoperte nuove, né ha prodotto opere tali da apparire caratteristiche di una nuova epoca. La maggiore e più sintomatica novità è quantitativa: moltissimi sono gli scrittori e ognuno di loro pubblica molti libri. La formula «Letteratura in pericolo», lanciata qualche anno fa da un trascurabile pamphlet di Tzvetan Todorov, non ha certo convinto gli autori, più prolifici che mai, pur avendo attirato l’attenzione di qualche critico capace di guardare al di là delle apparenze. Dato che risulta latitante anche la letteratura teatrale (se qualche autore c’è, viene trascurato volentieri) non si può che pensare alla saggistica: il meno consacrato dei generi letterari, ancora non del tutto ammesso nel regno della “creatività”, anche perché non sempre si sa distinguere la saggistica che è letteratura da quella accademica e giornalistica, che quasi mai lo è. Un chiaro sintomo di questa ansia e incertezza (ontologica o deontologica) è il caso di alcuni ottimi saggisti che per sentirsi scrittori in piena regola si sono messi a scrivere romanzi «da dimenticare» e di fatto dimenticati: è accaduto, per esempio, a George Steiner, a Susan Sontag e a Claudio Magris. Appena diverso è il caso di Roberto Calasso, che cerca non sempre felicemente di trasfigurare in rs_gen13.indd 17 narrazione lo studio dei miti e un’erudizione bibliografica maturata in decenni di lavoro editoriale. Comunque, se vogliamo identificare gli autori italiani oggi di maggior prestigio fuori dai nostri confini, troviamo proprio saggisti come Magris e Calasso, nonché un filosofo scrittore che si muove fra teologia, letteratura e politica come Giorgio Agamben. A questo punto posso azzardare un’ipotesi diagnostica. Dopo tanti secoli gloriosi e tante rivoluzioni novecentesche violentemente autocritiche, la narrativa e la poesia non sembrano più avere in Europa energia sufficiente per inventare nuovi miti, nuovi personaggi e nuove forme. Quando qualcuno ha provato a confrontare la prima metà del Novecento con la seconda, ha dovuto constatare che gli ultimi, indiscutibili classici erano quelli che avevano aperto e chiuso con i loro capolavori la fase terminale della modernità, portandola ai suoi limiti estremi: Proust, Valéry e i surrealisti, Kafka, Musil e Benn, Joyce, Woolf e Eliot. Da allora in poi, fino alla postmodernità, soprattutto i romanzieri sono diventati un fenomeno «fuori teoria», dando luogo a una varia vicenda di casi singoli, abnormi e contraddittori: che cosa hanno infatti in comune Henry Miller, Döblin, Céline, Faulkner, Hemingway, Borges, Blixen, Nabokov, Singer, Simenon, Morante, Solzenicyn? Dopo gli anni Venti, i migliori narratori hanno quasi tutti abbandonato le rivoluzioni formali appena compiute e hanno fatto ognuno a modo suo. 01/02/2013 16:21:02 Ma intanto, nel corso di un intero secolo, la saggistica aveva invaso e accerchiato, minacciato e nutrito gli altri generi letterari. I narratori puri, come Hemingway, Simenon e Singer, diminuivano, mentre aumentavano quelli riflessivi, compromessi e contaminati con la saggistica: si va da Gadda e Borges a Orwell, Camus, Queneau. La storia di Dopo gli anni Venti, i migliori narratori hanno quasi tutti abbandonato le rivoluzioni formali appena compiute e hanno fatto ognuno a modo suo. Calvino, già in zona postmoderna, mostra in modo esemplare la svolta dal racconto puro alla dissoluzione metaletteraria del racconto e infine alla saggistica narrante di Palomar e Collezione di sabbia. In poeti-saggisti come Pasolini e Enzensberger, la saggistica ha preso il sopravvento, sia fuori che dentro la poesia. Infine, l’influenza e perfino la moda di uno dei più geniali e più esoterici critici del Novecento, Walter Benjamin, ha creato una vasta area di contaminazioni e di scambi fra invenzione speculativa e invenzione stilistica: influenza e moda che si è sommata a quella di Roland Barthes, passato dalla critica della società borghese e di massa alla semiologia letteraria e più tardi all’aforistica autobiografica. Sono stato spinto a queste considerazioni dalla lettura del volume La saggistica degli scrittori (Bulzoni, pagg. 456, € 35,00) a cura di Anna Dolfi, interamente dedicato alla teoria, alla pratica e alla presenza della forma saggistica nella letteratura del Novecento. Leggendolo, ho avuto l’impressione ricorrente che esaminando il passato questo volume proponga anche una strada per il presente e per il futuro: insomma, critica militante in forma di studio. Dopo gli atti di due convegni voluti da Giulia Cantarutti e pubblicati dal Mulino, Il sag- gio. Forme e funzioni di un genere letterario (2007) e Prosa saggistica di area tedesca (2011) e dopo le indagini di Angela Borghesi su una serie di Genealogie critiche (Quodlibet 2011), ecco dunque una serie di contributi (oltre venti) dovuti a studiosi italiani e francesi. La precisione delle analisi e la varietà degli scrittori presi in esame fanno di questo libro un vademecum critico che non pretende di esaurire il discorso, ma incoraggia a continuarlo in altre direzioni. I due capitoli teorici di apertura, dovuti a Enza Biagini e Marielle Macé, ripercorrono un itinerario nel quale non potevano mancare Lukàcs e Adorno, Sartre, Bataille e Barthes. Vengono poi dedicati due capitoli a Benjamin e a Queneau, a cui seguono studi sull’osmosi fra narrazione e saggio in Gadda, Carlo Levi, Meneghello, Manganelli, Calvino, Sciascia, Pasolini, Volponi, Arbasino, Magris. La saggistica dei poeti avrebbe forse richiesto un altro libro; qui ci si limita a pochi esempi, del resto ben scelti: Sereni, Luzi, Zanzotto, Bonnefoy. Alla resa dei conti, ciò che emerge potrebbe essere definito «riflessione narrante». Anche nelle sue ramificazioni americane (Borges, Octavio Paz, Saul Bellow, Gore Vidal) la letteratura europea tende a includere una filosofia di se stessa e del mondo che raramente si incontra con quella dei filosofi professionali, poiché evita le astrazioni generalizzanti e preferisce muoversi fra microstoria e micrologia della vita quotidiana, anche quando l’obiettivo è focalizzato sulla società e la politica. Enzensberger e Steiner possono essere considerati fra i più originali filosofi contemporanei, certo non inferiori ad Habermas o a Derrida. In Italia, dopo Pasolini e Calvino, gli ultimi maestri del Novecento sono stati tre saggisti narratori come Raffaele La Capria, Cesare Garboli e Piergiorgio Bellocchio, che invece di scrivere romanzi hanno scritto saggi. Qualche buona ragione deve esserci. Poco formalizzato, il genere saggistico è il più libero e duttile dei generi letterari. Si adatta ai più diversi contenuti e alle più varie circostanze. Possiamo anche scommettere, credo, sul suo futuro. 18 rs_gen13.indd 18 01/02/2013 16:21:02 Il libro di carta vivrà… finché faremo l’amore L’ebook è già una rivoluzione alla portata di tutti. Ma il virtuale non sostituirà l’odore delle pagine stampate, il calore di un’amicizia, la passione dell’eros Stefania Vitulli, Panorama, 7 gennaio 2013 Partiamo dai libri. Università Cattolica, Milano, un pomeriggio di lezione come tanti altri: accanto al docente, un esperto di virtualità, amministratore delegato del più grande store indipendente di ebook in Italia. Il digitale ha disincrostato la cultura, i libri sono alla portata di tutti, averne uno in pochi secondi sul proprio monitor è la rivoluzione di questi anni. Studenti, esultate, almeno una l’avete sottomano, di rivoluzione. Ma gli studenti, si sa, sono fatti per protestare: «Vogliamo il profumo della carta!». L’ospite è interdetto. Peraltro gli studenti sono di Lettere: gente fuori dal mondo, si sa, ma anche potenziali scrittori, editor, librai. Tutti mestieri in via di estinzione, secondo i seminari più avanzati sul tema: le librerie rimarranno solo vetrine negli aeroporti, dice uno studio olandese di due anni fa, l’autopubblicazione eliminerà editori e agenti e i libri si scriveranno da soli, autogenerati da software 4.0. E invece questi studenti che ancora hanno conosciuto il profumo della carta lo pretendono in camera, dicono, da annusare nella libreria sopra il letto prima di dormire. Se lo aspettano quando il libro è nuovo, ché ha un odore diverso, e a volte addirittura lo comprano in base all’odore. Valori da riflusso, lontani dai magma concettuali in cui si sono incistati i detrattori del digitale, valori da corpo sciolto. Sta di fatto che, 6 mesi dopo quella lezione, al Salone del libro di Torino, a chi si avvicina agli ebook del suddetto store indipendente viene regalata una boccetta di plastica vuota. Contiene «il profumo della carta», dice l’etichetta. Finché ci saranno generazioni che il profumo della carta se lo ricordano, lo rs_gen13.indd 19 desidereranno. Brutta cosa, i ricordi. Hanno questa maldestra tendenza a fissarsi sulla realtà. Passiamo agli scrittori. Dice Glenn Cooper, uno da 3 milioni di copie, quello della Biblioteca dei morti (Editrice Nord, 430 pagine, 13 euro) e i suoi seguiti: «Quando trovo un libro che mi sembra utile, lo compro in ebook. Mi arriva in 10 secondi. Ma uso il digitale solo come anteprima. Se il libro è interessante, ne compro una prima copia che sottolineo e uso per le ricerche. Poi una seconda, che conservo intonsa in biblioteca. Per i libri ci vuole rispetto». Intende i libri fisici… «Perché, esistono libri non fisici?» risponde Cooper. Libro digitale è un ossimoro. Libro cartaceo una ridondanza. A pensarci, lo spleen del reale diventa allora un’esilarante assurdità: come diciamo «biologico» per conferire alla natura una naturalità ontologica, diciamo «analogico» per dare alla realtà una dignità terminologica. Vogliamo, insomma, rassicurarci: esistiamo, anche se ci trasformiamo fino quasi a non riconoscerci più. Lo schermo virtuale si sovrappone al reale, mica lo cancella. Siamo come bambini: se ti metti un velo davanti al volto, pensano che tu sia sparito. Amiamo il virtuale, lo idolatriamo, a tratti. Ma forse che non se lo merita? Il virtuale ci dà grandi soddisfazioni. Ci accompagna dappertutto, in ogni minuto, e le sue sirene ci gratificano enormemente più del reale. Checché ne dica la polizia postale, è un porto sicuro, e se ci manipola chi se ne frega: ci crediamo così intelligenti da sapere manipolare meglio noi lui. Ci fa regali di sapore mitologico: l’ubiquità, l’onni- 01/02/2013 16:21:02 scienza, la microfama. Siamo famosi, nel circuito che abbiamo creato sui social network. Abbiamo dei fan, pochi o tanti che importa? È gente che «ci segue». Che vuole sapere che cosa pensiamo. «Piscio, dunque penso» dice Jean Clair ne L’inverno della cultura (Skira, 112 pagine, 16 euro). «Incontinenza dell’io. Prostata delle civiltà stanche. Catastrofe». Ma più avanti, però: «L’artista lascia dietro di sé degli oggetti ai quali si attribuirà, probabilmente con un po’ di leggerezza, la virtù dell’immortalità; sono comunque oggetti che, privi di qualsiasi utilità, senza alcuna destinazione d’uso, usciti dal circuito commerciale, sono testimonianze uniche e incomparabili nella loro fragilità e vulnerabilità, in questo senso impregnati, come i vasi di Babilonia, di una certa sacralità». Non si può forse dire la stessa cosa, con le stesse parole, dell’amore? L’arte virtuale, l’amore virtuale, l’amicizia virtuale e persino gli ebook non vinceranno la battaglia con il reale perché semplicemente non esistono. Finché avremo un corpo, per quanto malandato, governeremo sul senso del bello e sceglieremo a chi o a che cosa attribuire l’origine delle cose: «La mia principale con- solazione in quest’anno che ho vissuto morendo è stata la presenza degli amici» scrive lo scomparso giornalista Christopher Hitchens in Mortalità (Piemme, 112 pagine, 12 euro). L’ultima profezia del fondatore del movimento cyberpunk, Bruce Sterling, famoso perché di solito ci azzecca, è che le nostre idee su ciò che abbiamo saranno sempre più fragili: mettiamo le foto ricordo su quelle che oggi vengono chiamate «nuvole», in rete. Ci fidiamo, ma l’unico strumento di archiviazione valido rimane la pellicola. La realtà sopravvive, è la tecnologia a estinguersi, chiarisce Sterling: «Le stampanti 3d hanno un potenziale rivoluzionario, ma le rivoluzioni non hanno bisogno di tecnologia per realizzarsi: pensate al 1968, al 1989. O alla primavera araba del 2010». Il rischio, piuttosto, è che, avvinazzati dalla virtualità, non ci si applichi più a comprendere la struttura che sottende alle azioni analogiche ovvero reali. La scelta di studiare scienze umane ha subito un crollo in tutto il mondo occidentale, a favore della concentrazione sulle tecnologie. Come potremo insegnare ai cyborg a fare l’amore se non sappiamo che cosa contiene la nostra «vagula blandula» anima astrusa? Libro digitale è un ossimoro. Libro cartaceo una ridondanza. A pensarci, lo spleen del reale diventa allora un’esilarante assurdità: come diciamo «biologico» per conferire alla natura una naturalità ontologica, diciamo «analogico» per dare alla realtà una dignità terminologica. Vogliamo, insomma, rassicurarci: esistiamo, anche se ci trasformiamo fino quasi a non riconoscerci più. Lo schermo virtuale si sovrappone al reale, mica lo cancella. Siamo come bambini: se ti metti un velo davanti al volto, pensano che tu sia sparito. 20 rs_gen13.indd 20 01/02/2013 16:21:02 Teresa Cremisi: «Noi editori, intellettuali decaduti, saremo salvati dai lettori ragazzini» L’italiana alla testa di Flammarion: «Come decido di pubblicare un libro? Faccio silenzio dentro di me e sento se è il momento giusto» Franco Marcoaldi, la Repubblica, 7 gennaio 2013 Per secoli la nostra capacità di giudizio si è formata sui libri, base indiscussa della conoscenza. Ma chi giudica, a sua volta, i libri? Chi decide se, come e perché pubblicarli? Per affrontare questo tema, difficile pensare a una persona più adatta di Teresa Cremisi, nata nel 1945 a Alessandria d’Egitto da padre italiano e madre anglo-spagnola, che con i libri, e di libri, è vissuta una vita intera. Fin da quando, appena laureata, entrò in Garzanti, dove dopo una lunga trafila (lessicografa per i dizionari, responsabile del dipartimento scolastico, direttrice letteraria), avrebbe finito per assumere, nel 1985, il ruolo di condirettrice generale. Il vero grande salto, però, arriva nel 1989, quando Antoine Gallimard la vuole con sé come direttrice editoriale dell’omonima casa francese. Nel 2005, un ulteriore passaggio: stavolta alla testa di Flammarion. Ed è qui che la incontro, a Place de l’Odéon numero 1: un indirizzo prestigioso, anche se i pochi ambienti che ho modo di vedere suggeriscono la sede di un elegante editore di nicchia, non la tolda di comando di un colosso, il quarto, della fiorente industria libraria francese. «Lei mi chiede della parte più alta e nobile del mio mestiere. Perché giudicare un testo vuol dire valutarne la bellezza. Ma vuol dire, prima ancora, mettere in azione quella sensibilità editoriale in base alla quale si capisce che è arrivato il momento giusto per pubblicare quel certo libro. Ciò che formula l’editore, infatti, non è un giudizio assoluto, ma condizionato dal tempo in cui vive. Intendo dire che è molto più effimero dell’abituale giudizio sul bello, legato a un tempo infini- rs_gen13.indd 21 tamente più lungo, che può a volte durare l’intero arco di una civiltà. Per noi editori si tratta sempre di una valutazione contingente, a partire dalla quale ci assumiamo il rischio, quali che siano le circostanze commerciali, di pubblicare un testo in cui si crede. Tutto questo riguarda il cinque percento della nostra attività, perché l’altro novantacinque si fonda sulla pura convenienza: l’editore, sarà bene non dimenticarlo, è anche e soprattutto un commerciante». Come avviene la scelta del libro giusto al tempo giusto? Si deve anticipare di poco una sensibilità che è già nell’aria, ma non ancora riconosciuta e fatta propria da tutti. Bisogna stare attenti, però, a non anticipare troppo, altrimenti si rischia che quel testo non venga capito. Si ritorna così a quanto detto prima: noi editori siamo metà intellettuali e metà commercianti. Occupandoci di cose dello spirito, forse non ci comportiamo allo stesso modo del fiorista qui all’angolo che ieri mi spiegava come prima le orchidee non andassero affatto, mentre ora vanno alla grande e tra qualche mese, magari, cominceranno di nuovo a non vendere. Nel nostro mestiere c’è quel piccolo quid in più: di fronte a un futuro, possibile libro, l’editore dovrà fare silenzio in sé stesso, e se sente che è il momento giusto, osare il necessario. E i classici, allora? Quelli, in teoria, dovrebbero andare bene sempre. È vero fino a un certo punto. Anche loro subiscono la moda. Prenda Shakespeare: ora è all’apice della 01/02/2013 16:21:02 sua fortuna, ma nell’Ottocento non accadeva altrettanto. Anche i grandissimi autori conoscono i loro cicli; pur trattandosi di cicli molto più lunghi di quelli abituali. Quanto conta la struttura di una casa editrice nella scelta e nel giudizio di un libro? Ciò che formula l’editore, infatti, non è un giudizio assoluto, ma condizionato dal tempo in cui vive. Intendo dire che è molto più effimero dell’abituale giudizio sul bello, legato a un tempo infinitamente più lungo, che può a volte durare l’intero arco di una civiltà. Quando un’azienda editoriale appartiene a un grande gruppo quotato in borsa, obbedisce a regole, tempi e condizionamenti molto diversi rispetto a quelli di una azienda familiare. Ma tutta l’editoria, più in generale, è enormemente cambiata da quando è entrato in campo l’uso massiccio di strumenti di controllo un tempo inesistenti. Negli anni Settanta, a fine stagione non sapevamo neppure se avevamo guadagnato o perso soldi. Adesso si sa praticamente tutto: il sell out, la redditività. E l’uso di questi strumenti, ovviamente, cambia la vita dell’editore. Senza contare che allora c’erano vendite più lunghe e più lente. Anche questo è cambiato, con l’avvento di quella che, con orribile termine, si chiama bestsellerizzazione. Girando nelle librerie parigine, ho avuto l’impressione che la saggistica abbia un peso ben maggiore di quanto accade in Italia. Se si riferisce all’esposizione sui banchi ha ragione. In Francia si pubblica molta saggistica e per lo più di ottima qualità. In termini di copie vendute invece le cosiddette scienze umane sono in netto regresso rispetto a vent’anni fa. Mentre in Italia il tracollo delle vendite è generalizzato. Lo so, e non riesco ancora a spiegarmelo del tutto. Ovviamente non è a causa del digitale, che ha inciso molto poco. Come poco incide in Francia: lo 0,70,8 percento. Ci sono problemi nelle librerie, è vero; alcuni attribuiscono questo tracollo al passaggio da sconti selvaggi a sconti molto più controllati. Io non saprei azzardare nessuna ipotesi. Anche perché qui in Francia c’è una situazione completamente diversa: una contrazione del 2,5-3 percento, la stessa di tutti gli altri consumi. Sempre in libreria ho osservato i primi libri Flammarion che mi sono caduti sotto gli occhi. E nell’ordine ho visto: un saggio di Canfora su Giulio Cesare, l’ultimo libro di papa Ratzinger, il manuale del perfetto arrivista e una monografia di Bonnefoy su Giacometti. Cosa lega tra loro questi libri? Nulla, e nulla deve legarli. Questa casa editrice è nata nel 1876, proprio qui, sotto le arcate del teatro dell’Odéon, dove il giovane Flammarion cominciò a stampare i testi teatrali. Ogni azienda ha il proprio dna e quello di Flammarion è fatto di varietà e facilità di accesso a un vasto pubblico. A differenza di Gallimard, che nasce cinquant’anni dopo, e si lega a una élite alto borghese, alla grande letteratura e alla rivista Nrf , Flammarion è una casa editrice generalista: da noi si pubblica letteratura popolare e di alto livello, abbiamo un enorme catalogo di storia e filosofia, e da quarant’anni in qua ci occupiamo di tutto ciò che sta tra l’arte e i libri di pratiques, come li chiamano i francesi. Non a caso il motto del primo Flammarion era: offrire libri di qualità a un prezzo accessibile e rivolti al maggior numero di persone. A dire il vero facciamo anche i libri di Cartier a quattrocento euro, ma non per questo dismettiamo collane al prezzo di copertina di soli due euro. Anche in un colosso generalista come questo resta un criterio comune di giudizio? Io non posso certo giudicare tutta la nostra produzione: si tratta di mille e settecento titoli all’anno! Questa è un’azienda fatta di tanti orti. Ma le posso 22 rs_gen13.indd 22 01/02/2013 16:21:02 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 assicurare che ciascuno ara, semina e coltiva al meglio il suo. Spesso mi domando: siamo così sicuri che leggere qualsiasi cosa, fa comunque bene? Detto altrimenti: tra una cattiva lettura e una buona passeggiata, lei cosa sceglierebbe? Personalmente, sceglierei una buona passeggiata. Però rimango convinta del fatto che, qualsiasi cosa si legga, è sempre meglio che non leggere. Nella mia vita lavorativa ho definitivamente abbandonato ogni genere di snobismo. Compreso quello della casa editrice perfetta, che pubblica soltanto libri perfetti. Visto che stiamo parlando di giudizio sui libri, conta ancora quello dei critici francesi? Una critica unanimemente positiva su uno scrittore sconosciuto conta moltissimo. L’esordiente che si affaccia sulla scena letteraria e raccoglie critiche elogiative da cinque o sei critici di gusti differenti può trarne un immenso beneficio in termini di mercato. Diverso il caso degli scrittori affermati, per non parlare dei bestseller. Qui il ruolo della critica è assolutamente inesistente. Televisione e radio che ruolo hanno? Decisamente positivo, in particolare la radio. Perché è molto ascoltata ed è ricca di trasmissioni dedicate ai libri e quindi ai dibattiti. Del resto si sa, il francesi parlano dalla mattina alla sera. Resta comunque che il mercato librario rappresenta il doppio di quello italiano, per una popolazione grosso modo identica. E questo vorrà pure dir qualcosa. Anche lei è preoccupata per un possibile, progressivo distacco delle nuove generazioni dalla lettura? Nient’affatto. Da cinquant’anni in qua, le giovani generazioni non hanno mai letto così tante pagine, come oggi. In un mercato europeo e nordamericano in contrazione, l’editoria per ragazzi cresce di qualche punto. E non è solo il successo di Harry Potter a portare questa crescita: ogni due o tre anni si impongono nuovi bestseller destinati ai ragazzi. 23 rs_gen13.indd 23 01/02/2013 16:21:02 Utopia a Milano Francesco M. Cataluccio, Doppiozero, 8 gennaio 2013 Alcuni avranno forse letto, nel giorno della Befana, sul Corriere della Sera, l’intervista a Lucio Morawetz nella quale annunciava che la libreria Utopia, di via Moscova, chiuderà e riaprirà, dopo un paio di mesi, in via Vallazze, a Città Studi. La notizia segue di pochi giorni quella della cassa integrazione, già in atto, per circa 60 librai della storica libreria Hoepli (fondata a Milano nel 1870), che ha sede a due passi da piazza Duomo ed è una delle più belle e fornite librerie d’Europa. Sempre in centro, cambia sede (e si sposta in via Cesare Cesariano) anche la curiosa libreria del Mondo Offeso e ha da poco chiuso la libreria di Brera, come pure la libreria antiquaria Rovello, punto di riferimento per gli amanti dei testi antichi. Questa è veramente una grande ferita per la città. La chiusura della libreria Utopia è non solo una ferita culturale, perché sparisce dal centro una delle migliori librerie di Milano (dove era possibile trovare e scoprire titoli di piccolissimi editori dei quali spesso non si era a conoscenza), ma anche un luogo di ritrovo intelligente e l’occasione di incontri e dibattiti mai scontati o banali. In questo modo, largo La Foppa rimarrà soltanto un presidio per bar e aperitivi che sono anch’essi assai utili alla nostra vita, ma che non possono essere l’unica categoria merceologica che, assieme ai negozi di moda, monopolizza il paesaggio del centro della città. La libreria Utopia chiude, e si trasferisce in periferia (con tutto il rispetto per Città Studi), perché, come le altre librerie, a causa della crisi e il calo delle vendite non ce la fa più a pagare l’affitto di un locale in centro. Il libraio Lucio Morawetz è stato molto dignitoso (categoria sempre più rara) nel non chiedere fino ad oggi aiuto e nel non rivendicare per sé un «trattamento di favore». È cosciente del valore anche civile del suo lavoro (nel quale si è speso, con i suoi dipen- rs_gen13.indd 24 denti e collaboratori, ben oltre le normali otto ore e senza badare ai giorni festivi), ma non ha preteso nulla per questo. L’amministrazione di Milano e l’assessorato alla cultura però non possono oggi limitarsi a esprimere un amaro rammarico, ma debbono intervenire tempestivamente per fermare questo scempio culturale e umano. La chiusura di una libreria come Utopia, e come le altre, è infatti un problema civile e sociale, che riguarda tutta la città. La questione era già venuta fuori lo scorso anno con il ventilato aumento delle tariffe per l’«occupazione del suolo pubblico» che rischiava (e rischia) di uccidere i piccoli chioschi di libri usati sparsi per la città. Sarebbe necessaria una maggiore sensibilità concreta verso i problemi delle rivendite dei libri. Non si ha evidentemente abbastanza chiaro che le librerie sono dei presidi della cultura e della democrazia. Sono dei luoghi pubblici dove le persone si incontrano, parlano, si fanno delle idee, giudicano. Le librerie fanno parte del panorama culturale e sociale di Milano, come la Scala, il Piccolo Teatro, i musei. Tutte istituzioni che, quando sono in crisi, ricevono giustamente dei finanziamenti dall’Amministrazione, perché sarebbe impensabile la città senza di loro. Se è inimmaginabile una Milano senza la Scala, lo è altrettanto senza le sue librerie. C’è un’idea di paesaggio per la quale si batte con forza da anni Salvatore Settis che sostiene che esso è un insieme di tante cose, di stratificazioni storiche e di costumi, che non possono essere cancellati (come non si possono abbattere gli alberi o spianare le colline) senza correre il rischio che la qualità della nostra vita, e delle culture e delle memorie che ci tengono assieme, ne risultino per sempre compromesse. Quando i bouquiniste di Parigi hanno iniziato a risentire, alcuni anni fa, della crisi, l’amministrazione 01/02/2013 16:21:02 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 della città li ha agevolati in tutti i modi, con la riduzione delle tasse e sovvenzioni. «La nostra città» sostenne il funzionario responsabile «non potrebbe nemmeno immaginare che sparissero i bouquiniste. I turisti che arrivano sul lungo Senna cosa direbbero se al loro posto vi trovassero dei venditori di souvenir o distributori di hot dog?!». E cosa diranno i visitatori di Milano quando nel centro della città non troveranno nemmeno una libreria e, salendo su dal metrò Moscova, si guarderanno attorno in una piazza circondata da soli bar? E noi milanesi ci rassegneremo a comprare i libri soltanto su internet (perché, a quel punto, è comunque meno frustrante, e si perde meno tempo, che farlo in un megastore). I luoghi sono Storia e storie. E allora non si può pensare di risolvere il problema con «affitti di altri immobili a prezzi agevolati». Perché spostando un luogo si uccide la sua identità: la libreria Utopia è una vicenda che dura lì da 36 anni. Altrove sarà un’altra cosa, e tutti perderemo qualcosa di importante. Che cosa si può concretamente fare? 1) il Comune di Milano ripensi alla categoria assai civile della «destinazione d’uso», ampiamente ignorata dalle amministrazioni «liberiste» precedenti: si vincolino, per ragioni storiche e paesaggistiche, alcune attività al proprio luogo, almeno per quanto riguarda l’affitto (dove c’era una libreria non potrà esserci un esercizio commerciale differente; dove c’era una galleria d’arte non potrà esserci un negozio di scarpe, ma un’altra galleria ecc.: se il proprietario, legittimamente, vuole cambiare la destinazione d’uso di un locale in centro, allora deve venderlo); 2) il Comune di Milano possiede centinaia di immobili sfitti: proponga ai proprietari lo scambio con un altro immobile di eguale valore e si consideri garante e proprietario del luogo e dell’attività che si vuole tutelare; 3) il Comune di Milano, e il suo assessorato alla cultura, si facciano promotori di una rete di librai indipendenti e tradizionalmente legati a dei luoghi storici e preveda delle forme di agevolazioni per le loro attività; 4) il Comune di Milano favorisca e incentivi forme di attività commerciali plurime che, mantenendo l’identità del luogo, permettano al gestore di integrare i guadagni con la vendita di altri prodotti (la libreria Utopia aveva offerto una piccola parte del suo locale alla rivendita di vini di qualità, ma lo spazio era troppo angusto e insufficiente a realizzare un esercizio redditizio); 5) nel caso risultasse impossibile mantenere la libreria là dove era, allora sì che il Comune dovrebbe offrire dei suoi spazi a prezzi agevolati, ma a due condizioni: a) che lo spazio sia nel centro della città; b) che sia più ampio del vecchio, in modo da permettere altre attività (come, ad esempio, incontri e smercio di alimentari e bibite di qualità) che incrementino il fatturato e rendano autosufficiente economicamente il gestore. Il centro di una città senza le vetrine delle librerie è triste e squallido: un luogo senza libri, diceva Cicerone, è come un corpo senza anima. La chiusura di una libreria come Utopia, e come le altre, è infatti un problema civile e sociale, che riguarda tutta la città. 25 rs_gen13.indd 25 01/02/2013 16:21:02 Mauri (neo vicepresidente di Messaggerie): «Nel 2013 spero nella rivincita del libro, ma…» Mentre a Milano (come pure nel resto d’Italia) molte librerie fanno i conti con la crisi del mercato, Messaggerie italiane, holding di un gruppo che controlla aziende specializzate nella distribuzione e nel commercio di libri e anche attività editoriali attraverso il Gruppo editoriale Mauri Spagnol, si è appena riorganizzata Antonio Prudenzano, Affari italiani, 8 gennaio 2013 Il natale, tradizionalmente, è il periodo dell’anno in cui si vendono più libri. Ma le festività appena trascorse sono state meno positive del solito per il mercato librario, che da mesi fa i conti con il rallentamento delle vendite, in un contesto di crisi generale. Il 2013 si è poi aperto con la notizia della cassa integrazione per la storica libreria Hoepli e con le difficoltà che vivono molte librerie indipendenti nella stessa Milano, la città italiana in cui si leggono più libri. Il nuovo anno è inoltre cominciato con alcune novità che riguardano Messaggerie italiane, holding di un gruppo che include distribuzione e editoria: Stefano Mauri, già presidente e ad del gruppo Gems, è stato nominato vicepresidente, con delega allo sviluppo strategico. Del suo nuovo incarico e della situazione del mercato librario parla con affaritaliani.it. Se le librerie sono in difficoltà nella «capitale» del mercato librario e della lettura, Milano, allora le prospettive per il futuro di questo settore sono davvero nerissime… Quando ho cominciato a lavorare, i libri si vendevano solo in libreria. Oggi gli italiani leggono di più e soprattutto i giovani (si veda ad esempio il recente rapporto Istat), ma le librerie subiscono la concorrenza di supermercati, negozi online, edicole, autogrill, tablet e reader, audiolibri in mp3, pay tv, internet in genere oltre a tutti i rimedi che i lettori escogitano per risparmiare in tempi di crisi. E penso al prestito, alle biblioteche, ai cauti acquisti… Quindi, intanto distinguerei tra crisi di mercato, che riguarda tutti i consumi e non soltanto i libri, crisi rs_gen13.indd 26 delle grandi librerie in un contesto certo non facile, e crisi della lettura, che non mi risulta. Inoltre Milano ha molte grandi librerie perché è il principale mercato. Ma proprio per questo è anche il primo i cui consumatori avvertono i colpi della crisi. Poi ci sono in Italia librerie che riescono comunque a sorridere, di solito sono di medie dimensioni e i titolari, anzi sarebbe meglio dire le titolari, hanno uno stretto legame personale e di fiducia con la clientela. Il cda di Messaggerie l’ha appena nominata vicepresidente. Concretamente, quali saranno i suoi primi obiettivi? Innanzitutto Messaggerie Italiane non è un distributore. È la holding di un gruppo che controlla aziende specializzate nella distribuzione e nel commercio di libri e anche attività editoriali attraverso il Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Nell’attuale scenario, portando me e Alberto Ottieri nella holding, si vuole rafforzare la vocazione di holding industriale di Messaggerie Italiane. La mia nomina a vicepresidente del gruppo sancisce anche il rilievo che in questi anni ha conquistato l’attività editoriale e la sua importanza per il futuro nonché l’indipendenza, che ho sempre garantito e che gli azionisti hanno sempre rispettato, delle nostre direzioni editoriali. La stessa passione eclettica per le case editrici che ha portato mio nonno e mio padre a sviluppare la distribuzione e mio zio Achille a proseguire sulla loro strada è stata alla base dello sviluppo del gruppo Longanesi e poi di Gems, che nel tempo hanno «adottato» o fondato diverse attività editoriali. 01/02/2013 16:21:03 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 In qualche modo Gems ha aperto delle porte agli editori distribuiti da Messaggerie Libri e viceversa. Una distribuzione di questo livello, che da 99 anni assiste gli editori indipendenti, non è comune in Europa. Come tutti i gruppi editoriali del mondo siamo di fronte a nuove sfide in un periodo in cui crisi e cambiamento tecnologico si assommano e il miglior modo per affrontarlo è sostenere le singole strategie dei singoli business come è la tradizione di questo gruppo, ma inserendole in una cornice di lungo periodo unitaria e coordinata. La crisi impone una spending review e una attenzione ai costi e alla finanza maggiore che in passato, e tutte quelle misure comuni a tutte le aziende. Anche sotto questo profilo una maggiore unità del gruppo è una carta che è il momento di giocare. Rispetto a tante altre realtà siamo avvantaggiati perché non subiamo la forte flessione strutturale dei periodici e della pubblicità, attività sulle quali non abbiamo mai potuto contare troppo. Quanto al digitale, elaboreremo una strategia partendo dal nostro punto di forza: siamo, credo, l’unico gruppo nei paesi di un certo rilievo a essere tra i protagonisti della produzione editoriale libraria e anche tutt’oggi leader nell’e-commerce del libro. Quello che accade tra l’autore e il lettore è destinato a cambiare, non c’è dubbio, ma autori e lettori resteranno e noi sappiamo sia come nascono i buoni libri attraverso le attività editoriali sia cosa vogliono i lettori, attraverso le librerie e l’ecommerce. Abbiamo sempre investito molto in tecnologia per tradizione, già mio padre era uno dei principali clienti di Ibm begli anni Settanta, oggi controlliamo Ibs, abbiamo fondato Edigita, leader nella distribuzione di ebook, con Rcs Libri e Feltrinelli, abbiamo strutture distributive estremamente sofisticate sotto il profilo tecnologico, forniamo servizi alle principali piattaforme internazionali di e-commerce. È stata istituita la Fondazione Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, in concomitanza con i trent’anni di attività della scuola che verranno celebrati a Venezia il 25 gennaio. Nel tradizionale incontro di fine genna- io, quest’anno più che di editoria digitale si parlerà delle difficoltà e delle prospettivo del mercato «tradizionale» legato ai testi cartacei, ancora dominante. In questo momento lei ha più chiaro quale sarà il futuro prossimo del mercato? Il 2013 sarà ancora dominato dal segno meno? L’ebook, del quale si è parlato nelle scorse edizioni, è uno sbocco importante e nel quale facciamo la nostra parte, ma in tutto il mondo i lettori chiedono prevalentemente di leggere libri. Quest’anno, ci scusino gli internettuali, ci occupiamo del 99 percento del mercato, cioè della distribuzione del libro, invitando i principali distributori mondiali. Purtroppo, come dimostrano le ricerche sulla fiducia dei consumatori, ci vuole poco al «signor 2013», come lo chiama Massimo Gramellini, a far meglio del «signor 2012», eppure ci credono in pochi. Prima o poi confido che la fiducia nel futuro torni a splendere nel mondo e nel nostro paese in particolare e si spezzi questa spirale viziosa. In realtà, ad esempio, il nostro secondo semestre è stato nettamente migliore del primo, il che autorizza la speranza. Allora anche i libri e gli ebook avranno la loro rivincita. Ma non ho la sfera di cristallo. Ma oggi in Italia per un giovane ha senso aprire una nuova libreria? Quello che accade tra l’autore e il lettore è destinato a cambiare, non c’è dubbio, ma autori e lettori resteranno e noi sappiamo sia come nascono i buoni libri attraverso le attività editoriali sia cosa vogliono i lettori, attraverso le librerie e l’e-commerce. Un giovane animato da profonda passione, con l’umiltà di capire che deve imparare tante cose e non può improvvisare un mestiere, con capacità di relazionarsi con gli editori e gli autori e i suoi clienti, aprendo il negozio nella via giusta potrà sempre prosperare. Ma certamente dovrà lottare più che in passato. 27 rs_gen13.indd 27 01/02/2013 16:21:03 Il segreto di Jane. Perché continuiamo ad amare «Orgoglio e pregiudizio» Il capolavoro della Austen compie due secoli e rimane uno dei libri più letti e citati di sempre. Anche e soprattutto dagli scrittori Elena Stancanelli, la Repubblica, 8 gennaio 2013 «My own darling Child», lo chiama Jane Austen in una lettera alla sorella Cassandra. Sono passati duecento anni da quando, il 29 gennaio 1813, Thomas Egerton pubblica Orgoglio e pregiudizio. Andrà bene, esaurirà la tiratura, verrà tradotto in francese. Il più prestigioso editore londinese, Thomas Cadell, al quale la scrittrice si era rivolta per primo, lo aveva rifiutato. Ma è l’unico insuccesso con cui la scrittrice dovrà fare i conti. Morirà nel 1817 amata dai lettori e dalla critica. I suoi sei romanzi verranno accolti tutti con entusiasmo, Walter Scott ne riconoscerà l’immenso talento, e dopo di lui molti altri scrittori guarderanno al suo lavoro con rispetto e devozione. Farà in tempo a godersi la soddisfazione di essere rs_gen13.indd 28 stimata dai colleghi, privilegio che in pochi possono vantare, ma non potrà immaginare che anno dopo anno, secolo dopo secolo, i suoi libri diventeranno un punto di riferimento imprescindibile. Quanto saranno considerati un miracolo di esattezza, per stile e contenuti, quanto saccheggiati, copiati, idolatrati. Non potrà immaginare, perché inimmaginabile, il fanatismo, che in questi giorni prende la forma delle celebrazioni che in tutto il mondo impazzano per il bicentenario. Quale artista che dal silenzio della sua stanza mette al mondo creaturine arbitrarie e parziali può prevedere che il suo lavoro saprà parlare a persone tanto diverse, in tempi che non si somigliano, dentro culture con riferimenti incomparabili? 01/02/2013 16:21:03 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 Da duecento anni Austen è padrona dei nostri cuori, maestra di seduzione, imbattibile palleggiatrice di parole e sentimenti. Feroce e affilata, ha inventato donne la cui intelligenza ci sembra di non riuscire a doppiare, la cui coscienza è ben al di là da essere raggiunta. Le nostre storie d’amore sono quasi sempre lagne di ragazzine, esperimenti di pornografia emotiva se confrontate a quel laboratorio di antropologia sociale che Austen elabora romanzo dopo romanzo. Io lavoro «con un pennello sottilissimo su un pezzettino d’avorio, producendo poco effetto dopo molta fatica», scrive al nipote Edward. Questa sua abilità di decifrare il mondo a partire dal minuscolo frammento di un io qualsiasi, da un pezzettino d’avorio, è il suo segreto. Uno dei tanti, che fanno di lei uno degli scrittori più letti, e riletti. Quasi un oggetto di culto, più che un classico. Nei nostri zoppicanti programmi scolastici non è prevista, né i suoi romanzi scalano facilmente le classifiche degli imprescindibili. Se ne può fare una questione di genere – gli uomini non la leggerebbero con lo stesso nostro entusiasmo – provare a immaginare che quello che le manca per entrare nell’empireo sono gli sfondi, la grande Storia che preme alle spalle dei personaggi, l’epica. Poco male, Austen se ne può fregare e cedere il podio, dal momento che può vantare un credito inestimabile: i suoi libri fanno bene. Intendo che, dati per inoppugnabili stile brillantezza trame scintillio dei dialoghi…, se continuiamo a tornare alle sue pagine è perché li consideriamo, anche, dei libri di selfhelp ante-litteram. Luoghi dove razzolare alla ricerca di sentenze definitive sul senso e il dissenso, l’amore e il disamore. Tra quei due sostantivi perfettissimi, falsi ossimori che titolano i suoi capolavori, Austen infila tutto ciò che serve a un’esistenza sana e vigorosa. Impariamo da lei il gusto dell’intelligenza, la capacità di non arretrare, il divertimento di costruire un’identità, il piacere dell’amicizia. Persino a considerare il denaro non solo come parte integrante e non volgare della vita, ma come uno degli elementi del discorso amoroso. «Le donne sole», scrive Austen alla nipote Fanny, «hanno una spaventosa tendenza a essere povere – fortissimo argomento in favore del matrimonio». Una visione economica dell’esistenza, l’abilità di svelare il doppio movimento dell’ascesa/discesa sociale, è un dono di pochi scrittori: Dickens, Balzac, Austen. Anche questo li rende eterni. È uscito da poco un saggio di un economista, Branko Milanovic, che analizza Orgoglio e pregiudizio come fosse un trattato sulla ricchezza. In Chi ha e chi non ha, storie di diseguaglianze (il Mulino), spiega che il reddito della famiglia di Elizabeth Bennet, protagonista del romanzo, è di circa tremila sterline l’anno, quello di Darcy di diecimila. Inoltre, se il padre di Elizabeth fosse morto senza un erede maschio, i suoi beni sarebbero finiti nelle mani del viscido cugino, il reverendo William Collins. Ora, cosa fa Elizabeth? Primo rifiuta, abbastanza ragionevolmente, l’orrendo cugino. Ma subito dopo rifiuta anche il fighissimo Darcy, solo perché la sua prima impressione su di lui era stata pessima (First Impression era il titolo della prima versione di Orgoglio e pregiudizio). Sempre secondo l’economista Milanovic, il rapporto tra i due scenari, Elizabeth nubile o sposa di Darcy, è di cento a uno. Il romanzo, quindi, potrebbe essere letto come la storia di una donna che impiega tutta la sua intelligenza a far rientrare l’uomo che, per motivi economici deve proprio sposare, dentro i parametri complicatissimi ma ineludibili delle sue convinzioni. Farà in tempo a godersi la soddisfazione di essere stimata dai colleghi, privilegio che in pochi possono vantare, ma non potrà immaginare che anno dopo anno, secolo dopo secolo, i suoi libri diventeranno un punto di riferimento imprescindibile. 29 rs_gen13.indd 29 01/02/2013 16:21:03 Ecatombe di grandi librerie Marco Bertoncini, ItaliaOggi, 9 gennaio 2013 La notizia della crisi che ha colpito la libreria Hoepli di Milano costituisce l’ennesima mazzata sulle librerie italiane. Stavolta, però, non si tratta di un minore negozio librario, bensì di uno fra i maggiori centri di vendita non nel solo capoluogo lombardo, bensì nell’intera penisola. L’elenco dei negozi che vendono libri e che chiudono è lungo: da Firenze, a Roma, da Bologna, a Napoli, le cronache locali dei quotidiani sono ricorrentemente colme di notizie di sempre nuovi abbandoni, anche di nomi considerati storici, con decine e decine di anni sulle spalle. Ovviamente la sparizione di tanti luoghi rappresenta un depauperamento culturale. Nel caso della libreria Hoepli, a due passi dal Duomo, estesa su più piani e con ampi spazi di vendita che hanno sempre attirato migliaia di acquirenti e di bibliomani, alla ricerca di novità, di testi ignoti, di libri pubblicati da editori sconosciuti, stupiscono le dimensioni. La notizia del ridimensionamento e dunque della crisi è un colpo duro, che colpisce l’intera città di Milano, al cui interno la presenza della Hoepli da tempo immemorabile è sempre stata sinonimo di cultura. Il discorso, inevitabilmente, riguarda tutte le altre librerie, anche antiquarie, che hanno ceduto le armi senza essere sostituite. Eppure, non c’è che dire: si espande sempre più la vendita in rete. Una piccola libreria non può resistere, di fronte alla molteplicità dei titoli, all’estensione delle case editrici, ai costi crescenti di spedizione, ai limiti immodificabili del proprio margine. Ogni volta che una libreria minore chiude, si leggono lettere di frequentatori abituali, che lamentano il venir meno del vecchio libraio, divenuto un consulente che segnalava le novità, avvezzo a indirizzare i clienti dei quali conosceva vezzi e passioni. Similmente, si ricordano le presentazioni di novità librarie, spesso allestite in spazi angusti delle librerie, nelle metropoli come nelle città di provincia. Tutto cancellato. Le doglianze sono estese presso tutti i frequentatori delle numericamente sempre più compresse librerie. Tuttavia non si può negare la comodità senza eguali dell’ordine tramite internet: si sceglie, si ordina senza nemmeno uscire, si riceve a domicilio in breve tempo il libro richiesto, si ottiene uno sconto di solito superiore a quello che la libreria amica poteva permettersi di concedere agli stessi clienti affezionati. Semmai, c’è da dolersi che una legge dirigista abbia imposto limiti agli sconti librari. Le grandi centrali di vendite in rete sfruttano al massimo, per elargire sconti, le possibilità lasciate dalla legge n. 128 del 2011, cosiddetta «legge Levi» dal nome del propugnatore Ricardo Franco Levi. Non c’è che fare: si possono ricevere, scontati, libri di editori introvabili, in autoedizione, nuovi oppure da anni in catalogo. Similmente, anche l’antiquariato librario si serve di internet. I vantaggi pratici sono ampiamente superiori alla perdita anche di rapporti umani che le vecchie librerie garantivano La notizia del ridimensionamento e dunque della crisi è un colpo duro, che colpisce l’intera città di Milano, al cui interno la presenza della Hoepli da tempo immemorabile è sempre stata sinonimo di cultura. rs_gen13.indd 30 01/02/2013 16:21:03 Baricco: «Esistono bello e brutto. Non esistono né il colto né il popolare» Intervista allo scrittore che porta in teatro a Roma e su repubblica.it le sue letture sui mutamenti del gusto: «Ascoltare la Recherche è come vedere giocare Messi» Raffaella De Santis, la Repubblica, 11 gennaio 2013 Ai tempi di Pickwick – erano gli anni Novanta – arrivava in televisione a parlarci di Carver o García Márquez in maniche di camicia e jeans scoloriti. E già quel gesto, quel togliere la cravatta alla letteratura, fu una piccola rivoluzione mediatica. Oggi Alessandro Baricco porta al teatro Kate Moss e Tucidide, il re di Francia Luigi xvi e Marcel Proust. Il metodo è quello che lo scrittore preferisce da sempre: accostare l’alto e il basso, sorprendere con avvicinamenti spiazzanti tra scrittori e giocatori, musica classica e pop star. Quattro personaggi per quattro lezioni intorno al gusto, alla giustizia, al tempo e alla scrittura, che si terranno da giovedì 17 gennaio fino a domenica 20 al teatro di Roma Palladium. Le Palladium Lectures saranno trasmesse live in streaming su repubblica.it e poi in televisione su Sky Arte e su Effe Tv, il canale della Feltrinelli che debutterà a marzo. Iniziamo da qui. Come possono stare insieme Kate Moss e Tucidide? Se si vogliono capire i meccanismi della civiltà e il modo di stare al mondo degli umani, la cultura alta non offre materiali più significativi della cultura popolare. Dunque, se lo scopo è questo, Kate Moss può essere utile come la Callas, Proust o Tucidide. Che cosa la colpisce in Kate Moss? Volevo raccontare l’anomalia di questo personaggio che ha modificato il nostro gusto collettivo all’inizio degli anni Novanta. Capire perché è diventata un’icona. Kate Moss ha imposto un tipo di bellezza anoressica selvaggia, acerba, molto infantile in un momento in cui le top model erano completamente diverse. rs_gen13.indd 31 Ha segnato una svolta nel gusto sociale? Nel suo primo servizio fotografico sulla rivista inglese The Face, Kate Moss ha 16 anni. È l’estate del 1990. Quell’immagine rispetto alle copertine di Elle o Vogue rivela un altro mondo. Kate è bruttina, totalmente diversa dal modello rappresentato dalla Schiffer. Mi interessava capire come mai il gusto collettivo avesse compiuto in così breve tempo un tale salto in avanti. Mi affascinano questi strappi nel tempo, questi balzi improvvisi. Nella lirica è successa la stessa cosa quando si è passati dalla Tebaldi alla Callas. E ha capito perché sono avvenuti questi cambiamenti? Forse perché c’erano delle attese non soddisfatte, dei desideri non appagati. C’era una fame collettiva di realtà, dovuta al fatto che ci si era allontanati troppo dalle cose vere. La voce della Callas è più vera di quella della Tebaldi. Kate Moss è più vera di Claudia Schiffer. Un accostamento ardito, ma come farà a passare nelle sue letture da Kate Moss a Tucidide? È possibile perché Tucidide non è così lontano da noi. Leggerò il dialogo degli ateniesi e dei Melii, contenuto nella Guerra del Peloponneso, un dialogo in cui gli ambasciatori ateniesi incontrano gli oligarchi di Melo e devono trattare. È bello scoprire che molto tempo fa si ponevano gli stessi nostri problemi: cosa sia giusto fare, cosa sia la giustizia, quali diritti esistono al di là di quelli della forza e della debolezza. Leggere Tucidide non è importante 01/02/2013 16:21:03 perché bisogna leggere i Greci, ma perché quella sua riflessione sulla giustizia è valida ancora oggi. Al Palladium farà dunque delle lezioni, come se fosse a scuola. Le piace insegnare o essere considerato un pedagogo la imbarazza? Mi piace la scuola in tutte le sue forme, anche quando l’allievo sono io. Ma insegnare deve essere soprattutto un’esperienza emotiva, altrimenti mi annoia, non mi interessa. È questo tipo di emozione che ha provato davanti alla storia della fuga di Luigi XVI dopo la Rivoluzione? La lezione parte da una cartina che descrive l’allontanamento di Luigi xvi da Parigi. La mia è una riflessione sul tempo, sul fatto che delle volte si sfalda, che nella nostra vita non c’è puntualità, che spesso arriviamo troppo presto o troppo tardi. Il re fugge, ma la notizia viaggia molto più lentamente di lui. Ci sono dei posti in cui dopo qualche giorno si pensa ancora di vivere sotto la monarchia, mentre tutto è crollato. È la stessa situazione che troviamo in Shakespeare: Giulietta si risveglia un minuto dopo che Romeo è morto. I tempi non coincidono, è il dramma di noi umani. Proust è una sua vecchia passione, come reagisce il pubblico di fronte a una lettura non proprio facile? Ascoltare Proust è come vedere Messi giocare a pallone. Io mi limito a leggerlo per far capire quanto fosse bravo. Da artigiano smonto il testo per mostrare la sua tecnica di scrittura. Avvicinare Kate Moss e Proust può sembrare però anche un vezzo po’ snob… Non è una scorciatoia. Se viene percepito come un eccesso di brillantezza, pazienza. A me non fanno paura gli intellettuali brillanti. Perché no? Alla gente piace anche fare delle esperienze brillanti nella vita. Faccio fatica a considerarlo un difetto. Già nei primi anni Novanta scriveva L’anima di Hegel e le mucche del Winsconsin. Le piacciono le contaminazioni postmoderne? In quegli anni si chiamavano trasversalismi e si usava la categoria del postmoderno. Adesso però bisognerebbe capire che siamo andati oltre. Non c’è più nessuna linea di demarcazione tra l’arte colta e popolare. C’è una sola cultura. È un dibattito vecchio? Esistono cose brutte e cose belle, vive e morte, semplici e più complesse. Tutto qui… E poi mi sono laureato su Adorno, so cosa voleva dire arte alta e arte popolare. E dopo cos’è successo, ha rinnegato Adorno per l’industria culturale? È come laurearsi sulla Germania dell’Est due anni prima della caduta del Muro. Invece che studiare il futuro, stavo studiando una cosa che sarebbe presto morta. Non ho rinnegato Adorno, ma conoscendolo bene ho potuto valutarne nel corso degli anni gli errori tragici. Quindi non dobbiamo preoccuparci se l’arte colta sembra caduta in discredito? C’è un errore di partenza. Noi scambiamo per arte colta un’arte che al tempo era popolare. Il teatro musicale di Verdi era popolare. Era quello che facevano a quel tempo, senza domandarsi se fosse colto o popolare. Giulietta si risveglia un minuto dopo che Romeo è morto. I tempi non coincidono, è il dramma di noi umani. I barbari possono apprezzare Proust? A un barbaro certe cose non interessano semplicemente perché non gli abbiamo spiegato che sono importanti per la sua sopravvivenza. Anche i barbari possono capire Proust. E possono emozionarsi. 32 rs_gen13.indd 32 01/02/2013 16:21:03 Inno alla gioia Quella nostra faticosa felicità così lontana dal piacere. La scrittrice Zadie Smith racconta la più ricercata delle emozioni, «insensata come gli umani» Zadie Smith, la Repubblica, 12 gennaio 2013 Potrebbe essere utile distinguere il concetto di piacere da quello di gioia. Ma forse è una distinzione che tutti fanno molto facilmente, di continuo, e sono solo io a essere confusa. Molta gente sembra credere che la gioia sia solo la versione più intensa del piacere, e che ci si arrivi per la stessa strada: basta solo spingersi qualche passo più avanti. Ma la mia esperienza dice tutt’altro. E se mi chiedeste se desidero provare più spesso gioia nella vita, non sono affatto sicura che risponderei di sì, proprio perché si dimostra un’emozione molto difficile da gestire. A me non appare tanto evidente come si dovrebbe fare a conciliare la gioia con il resto della nostra vita quotidiana. Forse la prima cosa da dire è che io provo almeno un po’ di piacere ogni giorno. Mi chiedo: sarà più della dose normale? Per me era così anche durante l’infanzia, periodo in cui, viceversa, tanta gente è infelice. Non penso che sia perché mi succedono di continuo cose meravigliose, ma perché le piccole cose su di me hanno un grande impatto. Mi sembra, per esempio, di trarre una soddisfazione superiore alla norma dal cibo: qualunque tipo di cibo. Un sandwich con l’uovo strapazzato comprato da uno di quei camioncini sudici su Washington Square ha veramente il potere di risollevarmi la giornata. Qualunque cosa mi venga messa davanti, in termini di cibo, di solito la promuovo col massimo dei voti. Verrebbe da pensare che alla gente piaccia cucinare per me, o mangiare in mia compagnia; ma in realtà mi dicono che è noioso. Quando non c’è giudizio critico non ci può essere apprezzamento della competenza né gratitudine per uno sforzo speciale. rs_gen13.indd 33 «Non dire che era delizioso», mi avverte mio marito, «dici sempre che è tutto delizioso». «Ma era delizioso davvero». La cosa lo fa impazzire. Posso passare un’intera giornata a pregustare un ghiacciolo. La persistente ansia che riempie il resto della mia vita si placa nel momento in cui ho il sapore di qualcosa di buono in bocca. E benché sia vero che quando il sapore finisce l’ansia ritorna, non abbiamo tante fonti affidabili di piacere, in questa vita, da permetterci di snobbarne una che è così facilmente a disposizione, specie qui in America. Un ghiacciolo all’ananas. Anche l’enorme ansia della scrittura si può fermare per gli otto minuti che ci vogliono per mangiare un ghiacciolo all’ananas. L’altra mia fonte quotidiana di piacere sono - ma vorrei che ci fosse un modo migliore per dirlo – «le facce della gente». Una ragazza dai capelli rossi, con un magnifico nasone che lei probabilmente detesta, gli occhi verdi e quella carnagione poco amante del sole composta più di lentiggini che di pelle. Oppure un uomo adulto corpulento che fuma una sigaretta sotto la pioggia, con i baffi zuppi, sopra i quali, sorpresa: gli occhi svegli, il naso tozzo e la bocca da angioletto che aveva a otto anni. Uscendo dalla biblioteca a fine giornata affretto un po’ il passo verso casa per raccontare a mio marito di un adolescente spigoloso, con gli occhi di gatto, in jeans attillati e stivali a tacco alto, una normalissima felpa grigia, il trucco della sera prima e una setosa parrucca da Pocahontas indossata un po’ sbilenca sopra la capigliatura afro. Camminava ancheggiando, con le trecce al vento, usando l’intera Broadway come sua 01/02/2013 16:21:03 passerella personale. «Una principessina fuori servizio». Lo aggiungo per chiarezza, ma mio marito annuisce con un pizzico di insofferenza: non c’era bisogno di ulteriori commenti. Anche mio marito è un osservatore professionista. In genere dei consigli che si trovano sulle riviste femminili bisogna solo diffidare, ma c’è qualcosa Anche l’enorme ansia della scrittura si può fermare per gli otto minuti che ci vogliono per mangiare un ghiacciolo all’ananas. di vero nella vecchia massima del «condividere gli stessi interessi». In effetti aiuta. A me piace starlo a sentire quando mi racconta della ragazza cinese che ha visto nell’atrio, con un grosso libro di medicina in mano, così bella che sembrava quasi dipinta. O dell’altissimo kenyano che ha incrociato in ascensore, la cui eleganza allungata riduceva tutti gli altri corpi nelle vicinanze alla condizione rattrappita e nodosa di un troll. In genere si tratta di persone che non ho visto – mio marito lavora all’ottavo piano della biblioteca, io al quinto – ma il solo ascoltarle descrivere può essere un piacere quasi equivalente a quello di incontrarle dal vivo. E ancora più piacevole è quando ricreiamo la camminata, i gesti o la voce di questi sconosciuti, o intere conversazioni – fra due persone in fila al bancomat, o due studenti su una panchina accanto alla fontana. E poi ci sono tutte le cose che fa e dice il nostro cane, totalmente antropomorfizzato e in genere offensivo, quando esprime il mondo di cose che io e mio marito non possiamo fare o dire in prima persona, fra noi o ad altra gente. «State facendo il cane», ha detto di recente nostra figlia, sorprendendoci. Ha quasi tre anni e tutti i nostri linguaggi in codice stanno perdendo la loro privacy e diventandole comprensibili. Ovviamente sapevamo che prima o poi sarebbe arrivata alla piena consapevolezza, e che prima di allora avremmo dovuto smettere di litigare, fumare, mangiare carne, usare Internet, parlare della faccia delle altre persone e dare voce al cane, ma adesso quel momento è arrivato, lei capisce tutto, e noi ci ritroviamo incapaci di cambiare. «Smettetela di fare il cane», ha detto, «è da stupidi», e per la prima volta in otto anni abbiamo guardato il cane e ci siamo vergognati. Di tanto in tanto anche la bambina è un piacere, anche se perlopiù è una gioia, il che significa che non ci dà molto piacere, ma più che altro quella strana commistione di terrore, dolore e delizia che sono arrivata a riconoscere come gioia, e con cui adesso devo trovare un modo per convivere quotidianamente. È un problema nuovo. Fino a poco tempo fa avevo conosciuto la gioia solo cinque volte in vita mia, forse sei, e ogni volta avevo tentato di dimenticarla subito dopo, per paura che il suo ricordo rendesse insensato e distruggesse tutto il resto. Diciamo sei. Tre di queste volte ero innamorata, ma solo una volta era un amore capace di funzionare, o verosimilmente in grado di procurarmi del piacere anche a lungo termine. Due volte ero drogata - di sostanze molto diverse. Una volta ero nell’acqua, una volta su un treno, una volta seduta in cima a un muro, una volta in cima a una collina, una volta in un locale notturno e una volta in un letto d’ospedale. È difficile trarre conclusioni generali di fronte a un assortimento di dati così ridotto e disomogeneo. Quello su cui sono incerta è il caso del locale, e dato che si trattava sostanzialmente di un’esperienza collettiva sento di poter coinvolgere il pubblico nel dibattito sulla questione. Mi rivolgo in particolare ai miei connazionali britannici. Connazionali britannici! O meglio, quelli di voi che hanno avuto la fortuna di provare la prima generazione dell’anfetamina chiamata ecstasy senza sperimentare le reazioni negative, a volte letali, che ora sappiamo essere state subite da altri: ecco, ho una domanda per voi. Quella era gioia? Mi interesserebbe particolarmente sentire l’opinione di chi si trovava in un locale chiamato Fabric, vicino al vecchio mercato della carne di Smithfield, in una sera dell’anno 1999 (mi dispiace di non saper 34 rs_gen13.indd 34 01/02/2013 16:21:03 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 essere più precisa), quando il dj mixò Can I Kick It? e poi Smells Like Teen Spirit al pezzo house che sembrava essere durato senza interruzioni per le quattro ore precedenti. Io, personalmente, stavo uscendo dai cavernosi bagni unisex (!) nella speranza di trovare la mia amica Sarah, o, se non lei, il mio amico Warren, o, se non lui, qualcuno che avesse pietà di una ragazza che aveva preso dell’ecstasy di cui stava per cominciare a sentire l’effetto, e che aveva perso tutti e tutto, compresa la sua borsa. Incespicando, mi reimmersi nella bolgia. Quasi tutti i maschi erano a torso nudo e quasi tutte le femmine, me compresa, indossavano strani grembiulini, di moda all’epoca, che coprivano solo il davanti del torace, e mantenevano il decoro solo grazie a qualche laccetto dall’aria non molto robusta legato in un fiocco grazioso dietro la schiena. Mi feci largo in mezzo a quella ressa di schiene nude sudate, disperata, chiedendomi dove, in un mega locale del genere, ci si potesse coricare per la notte (sulle scale? davanti all’uscita antincendio?). Ma ogni cosa che tentavo di guardare esplodeva in mille pezzi e si riassestava in una serie di frammenti che componevano un disegno, come se vivessi dentro un caleidoscopio. E comunque, dove stavo cercando di andare? Non c’era più nessun «bar» e nessuna «chillout zone»: c’era solo la pista da ballo. Era tutta una pista. Tutti ballavano. Io rimasi ferma, schiacciata da ogni lato dalle danze, convinta che da un momento all’altro sarei andata fuori di testa. Poi all’improvviso sentii Q-Tip – benedetto Q-Tip! –, non un sintetizzatore, non un vocoder, ma QTip, con la sua voce umana, che rappava sopra un beat umano. E mentre la testa mi si scoperchiava per lasciar entrare l’umanissimo Q-Tip, un tipo magro come uno spillo con due occhi enormi si allungò in mezzo a un mare di corpi per prendermi la mano. Continuava a farmi la stessa domanda a ripetizione: La senti? La sentivo sì. I miei tacchi assurdi mi stavano uccidendo, avevo una paura tremenda di morire, ma allo stesso tempo traboccavo di godimento nel sentire che Can I Kick It? veniva suonata proprio in quel particolare istante della storia del mondo, e adesso si stava trasformando in Smells Like Teen Spirit. Presi il tipo per mano. Il coperchio della testa mi volò via definitivamente. Ballammo e ballammo. Ci abbandonammo alla gioia. Anni dopo, ascoltando una canzone intitolata Weak Become Heroes, dell’artista inglese The Streets, ho trovato quell’esperienza ricreata quasi perfettamente nelle sue rime, e mi sono resa conto che, così come la maggioranza dei bambini americani che erano vivi nel 1969 videro l’atterraggio sulla luna, quasi tutti gli inglesi che avevano fra i sedici e i trent’anni negli anni Novanta hanno incontrato una qualche versione del pasticcaro smilzo in cui mi ero imbattuta io quella sera al Fabric. Il nome che gli dà The Streets è «European Bob». Io ho il sospetto che sia una figura archetipica della mia generazione. Un altro esemplare di questa razza è il personaggio di «Super Hans» nella sitcom britannica Peep Show, anche se sarebbe più corretto dire che Super Hans è European Bob «da vecchio» (a quarant’anni). Il nome del mio pasticcaro non me lo ricordo, ma lo chiamerò «Sorrisone». Era uno di quegli sconosciuti che si incontravano esclusivamente sulla pista di una discoteca, oppure su una spiaggia di Ibiza. Tendevano ad avere soprannomi inesplicabili, nessun domicilio o legame familiare che si potesse mai identificare, una capacità illimitata di assumere droghe e un senso di benevolenza universale verso tutti gli uomini e le Era uno di quegli sconosciuti che si incontravano esclusivamente sulla pista di una discoteca, oppure su una spiaggia di Ibiza. donne, a prescindere dal colore della pelle, dal credo religioso o dallo stato di alterazione. […] Quella era gioia? Probabilmente no. Ma imitava piuttosto bene le condizioni della gioia. Racchiudeva, in forma minore, la grossa fatica che in genere precede la gioia, e la sensazione – una volta 35 rs_gen13.indd 35 01/02/2013 16:21:03 raggiunta la gioia – che il soggetto che la prova sia in qualche modo «entrato» in quell’emozione, e ci sia scomparso dentro. Il piacere è qualcosa che «ho», una sensazione che voglio provare e fare mia. Una vacanza al mare è un piacere. Un vestito nuovo è un piacere. Ma sulla pista di quel locale io ero la gioia, o quantomeno un pezzetto di gioia, insieme a tutte quelle altre centinaia di persone che erano anche loro parte della gioia. […] L’amore vero è arrivato molto più tardi. Era alla fine di una strada lunga e difficile, e fino all’ultimo momento ero convinta che non sarebbe sbocciato. Il suo arrivo mi ha colto così di sorpresa, così impreparata, che per quel giorno avevo già programmato di andare a visitare insieme il museo dell’Olocausto di Auschwitz. Sul treno che ci portava al pullman che ci avrebbe portati a destinazione, tu mi accarezzavi i piedi. Eravamo diretti verso tutto ciò che rende la vita intollerabile, e provavamo l’unica cosa che la rende degna di essere vissuta. E cioè la gioia. Ma non serve a niente pensarci o parlarne. È del tutto fuori posto accanto alla furiosa litigata su chi ha pulito la casa o è andato a prendere la bambina. È irrilevante quando si sta seduti tranquilli sul divano a guardare un vecchio film, o si fa l’imitazione di due vecchiette in un negozio, o quando io mangio un ghiacciolo mentre tu mi guardi male, o quando lavoriamo su due piani diversi della stessa biblioteca. Non c’entra nulla con la quotidianità. La cosa che nessuno dice mai della gioia è che contiene pochissimo vero piacere. Eppure se non l’avessimo sperimentata affatto, almeno una volta, come faremmo a vivere? Un pensiero conclusivo: a volte la gioia si moltiplica pericolosamente. L’esempio più famigerato sono i figli. Non è già abbastanza tremendo che la persona amata, con la quale hai provato autentica gioia, un giorno finirai per perderla? Perché aggiungere a quest’incubo un figlio, la cui perdita, se mai dovesse avvenire, equivarrebbe per te al totale annientamento? Va detto che una gioia altrettanto pericolosa, per molte persone, è rappresentata dal cane o dal gatto, dato che le relazioni con gli animali sono in un certo senso rese ancora più intense dalla loro ineluttabile finitudine. Uno spera sempre di andarsene prima del proprio figlio. Ma è quasi sicuro che il cane se ne andrà prima di lui. La gioia è una follia soltanto umana. Lo scrittore Julian Barnes, parlando del lutto, una volta ha detto: «Tanto valore ha una cosa, tanto fa male perderla». In realtà era stato un suo amico a scrivere questa frase in una lettera di condoglianze, e Julian l’ha ripetuta a mio marito, che l’ha ripetuta a me. Da allora, quelle parole ci sono rimaste impresse per mesi, nella loro chiarezza e brutalità. Tanto valore ha una cosa, tanto fa male perderla. Che paradosso. Perché uno dovrebbe accettare delle condizioni tanto assurde? Se fossimo sani di mente e ragionevoli, ogni volta sceglieremmo senz’altro un piacere piuttosto che una gioia, come fanno, sensatamente, gli animali stessi. In fondo un piacere, quando finisce, non fa molto male a nessuno, e si può sempre rimpiazzare con un altro di valore più o meno equivalenti. 36 rs_gen13.indd 36 01/02/2013 16:21:03 «Ecco come la mia Schiappa ha scalato tutte le classifiche» Casi editoriali: Jeff Kinney spiega il successo del Diario numero 6 Dario Pappalardo, la Repubblica, 14 gennaio 2013 Meglio della Rowling, del papa e di Camilleri: la Schiappa, per la prima volta, ha battuto tutti. Diecimila copie in meno di una settimana, il sesto episodio del diario più amato dai ragazzini è in testa alla classifica dei libri più venduti. Queste avventure della Schiappa, cioè di Greg dodicenne qualunque e per questo di successo, si chiamano Si salvi chi può. Le pubblica come sempre il Castoro, piccolo editore che fin dall’inizio decise di puntare sul suo autore Jeff Kinney. Era il 2008 quando uscì il primo libro. Negli Usa aveva iniziato come blog e poi, nel 2007, con una tiratura di 15 mila copie. Immediatamente esaurite. Oggi in Italia i diari sono oltre il milione e mezzo di copie. È stato tradotto in 30 paesi, superando i 60 milioni di copie globali, e dando vita a tre film. Così nessuno si stupisce più del trionfo di ogni storia. Nessuno tranne Kinney, 42 anni, una moglie e due figli, nonché un lavoro a tempo pieno per una società di Boston (Poptropica) dove progetta e sviluppa giochi educativi per il web. «Mi sembra che tutto questo sia capitato a qualcun altro», spiega ridendo. «Mi sento dentro al Truman Show». E d’altra parte non potrebbe prenderla diversamente: nel 2009 quando Time lo mise nei cento personaggi più influenti al mondo commentò «ma se non sono nemmeno la persona più influente in casa mia». Jeff è un Greg adulto, in fondo. O meglio un adulto-bambino reo confesso. Che, forse per questo, ha saputo creare un ragazzino che non è migliore degli altri, che affronta tribolazioni quotidiane ben note e impaziente di crescere. Non sono sicuro che dietro alla Schiappa ci sia un segreto. Credo che ad appassionare i ragazzini sia una combinazione di diversi elementi: i disegni a fumetti, l’umorismo, e la facilità con cui possono rapportarsi al protagonista, Greg. Penso che quando i ragazzi aprono uno dei miei libri, ci vedano subito un divertimento, non un compito da svolgere. La domanda che deve aver ricevuto più spesso: qual è il segreto della Schiappa? Quali sono i suoi modelli letterari? Non credo di avere un modello letterario. I miei libri rs_gen13.indd 37 Quanto tempo le occorre per scrivere ogni singola avventura? E come la scrive: chiede l’opinione di qualcuno? Da dove trae la sua ispirazione? Ci ho messo otto anni per creare l’universo della Schiappa. Per scrivere una nuova storia, mi occorrono circa nove mesi: ci lavoro solo la sera e nei weekend. Quanto sono importanti i disegni di Greg per il successo della storia? Moltissimo. Non credo che i miei libri avrebbero avuto tutto questo successo se non fossero pieni di disegni a fumetti. Sono le vignette a sostenermi. Perché i ragazzi si identificano con un ragazzino normale senza superpoteri? La Schiappa è una sorta di risposta a Harry Potter? In senso lato, sì. Amo i libri di Harry Potter e penso che J.K. Rowling sia la miglior narratrice dei nostri tempi. Ma quando ho iniziato a scrivere di un ragazzino, volevo che fosse molto normale e imperfetto. Quando scrivo i miei libri, mi concentro sulle battute più che sul racconto. 01/02/2013 16:21:03 vengono dai fumetti. Quando ero piccolo, ho letto tutti i fumetti possibili di Paperino e Zio Paperone. Volevo diventare vignettista in un giornale, ma non ci sono riuscito, e alla fine sono diventato un autore. Chi sono gli antenati della Schiappa? C’è un personaggio che si chiama Peter Hatcher, protagonista del libro Tales of a Fourth Grade Nothing a cui Greg Heffley somiglia molto. Peter Hatcher era un bambino normale, i suoi problemi erano vicini ai miei da ragazzino. E credo ci sia in Greg anche un po’ di Holden Caulfield, il protagonista de Il giovane Holden. Quante lettere riceve dai ragazzini suoi fan? E quante dai grandi? Ho ricevuto decine di migliaia di lettere da ragazzini e genitori. È una vera impresa e sono indietro di anni nel rispondere!. Cosa le scrivono? Ricevo moltissime lettere da genitori e insegnanti che mi scrivono che i miei libri sono gli unici, che i loro figli o alunni amano leggere. E questo è molto gratificante. La mia speranza è che i miei libri possano avvicinare i ragazzi alla lettura, e che poi quegli stessi ragazzi si possano spingere verso più grandi e articolate avventure nel mondo della letteratura. Chi è il tipico lettore della Schiappa? Come se lo immagina? Un ragazzino comune, tra i 7 e i 12 anni. Non c’è distinzione tra maschi e femmine. Quali altri libri leggono i fan di Greg? Quali sono le loro preferenze letterarie? Penso che molti ragazzi che leggono i miei libri si spingano poi verso letture più impegnative, come i libri di Harry Potter o quelli mitologici di Rick Riordan. Ci sono oggi anche molti nuovi libri simili alla serie di Diario di una Schiappa, credo che i ragazzi amino questo formato. Che ne pensa dell’essere ragazzi oggi? È vero che sono meno consapevoli della realtà e del mondo circostante di quanto non fossero in passato? Sono troppo dipendenti dalla rete? Credo che i ragazzi di oggi debbano affrontare più sfide di quanto dovessi fare io alla loro età. Internet e i social media presentano una serie di nuovi pericoli. Penso che i ragazzi siano molto connessi, ed è una cosa da tenere un po’ sotto controllo. I ragazzi hanno bisogno di fare esperienza del mondo naturale e di imparare a interagire con gli altri offline. Cosa possiamo fare per avvicinare i ragazzi ai libri? Se riusciamo a immaginare che cosa li interessa e a proporre loro delle letture vicine a questi interessi, riusciremo più facilmente ad avvicinarli alla lettura. L’esperienza della lettura può avvenire in tanti modi… articoli sul web, riviste, fumetti… La buona notizia è che ognuno di essi è importante. Come si cresce un ragazzo, oggi? Un genitore deve essere più permissivo o più severo? Non sono un esperto di educazione o di pedagogia, ma se ci sforziamo di comprendere quali siano i talenti e gli interessi dei nostri figli, possiamo poi metterli nella condizione di realizzarsi. Nel suo ultimo libro parla molto del cibo a scuola. Pensa che ci sia un’attenzione eccessiva verso l’alimentazione dei ragazzi, o è davvero un problema? Specialmente in America ci stiamo rendendo conto che ciò che abbiamo mangiato negli ultimi 30 anni non è vero cibo. C’è tutto un movimento che cerca di tornare alla genuinità del cibo non trattato e non confezionato. Io sono il peggiore di tutti: mangio tanti di quei cibi pronti che sono molto fortunato a essere vivo. Qual è il migliore complimento che ha ricevuto per Greg? L’ho ricevuto da un critico che ha detto che quando si leggono i miei libri non si nota che a scrivere per Greg sia un adulto. Mi sforzo di creare personaggi autentici, così sono felice ogni volta che qualcuno considera Greg un personaggio reale. Fino a quando continuerà a scrivere di Greg? Ho capito qualche anno fa che i miei personaggi sono più dei fumetti che dei personaggi letterari. E i migliori personaggi a fumetti vivono per sempre. 38 rs_gen13.indd 38 01/02/2013 16:21:03 Vendite volanti e testi a nolo. I librai rispondono alla crisi A Torino c’è chi affitta i libri, a Roma chi li vende nella propria auto. E gli enti pubblici cercano nuove strade per sostenere la lettura Giuseppe Culicchia, La Stampa, 15 gennaio 2013 A Torino in via Onorato Vigliani, quartiere Mirafiori, la libreria Takuma ha deciso di fronteggiare la crisi noleggiando i libri. Un giorno, un euro; una settimana, quattro; due settimane, sette. A Milano invece la storica libreria Hoepli, sei piani nell’omonima via dietro il Duomo e quasi un secolo e mezzo di storia, ha appena messo in cassa integrazione a rotazione per tre mesi i circa sessanta dipendenti. E a Roma? La libreria Bibli a Trastevere, che nel 1995 fu tra le prime in Italia a dotarsi di una caffetteria e che a metà 2011 ha dovuto arrendersi causa sfratto, da quasi un anno ha ottenuto un nuovo spazio dal Comune. Tuttavia non ha ancora riaperto: ristrutturarlo costa quasi un milione. Stefania Monea della Takuma presidia un avamposto: «Mirafiori si sa è un quartiere di frontiera, da sempre accanto alle novità trattiamo scolastica e usato. Tenere aperto non è mai stato facile, ma la crisi sta picchiando duro. A natale ho visto clienti affezionati rinunciare all’acquisto per via del prezzo di copertina. Così, quasi per gioco, ci è venuto in mente di noleggiare i libri». E cosa è successo? «Beh, sono venuti a trovarci in tanti. Il primo libro affittato è stato quello di Gramellini. Poi i romanzi della Oggero e di Wilbur Smith. Giusto ieri un ragazzo ci ha chiesto Se questo è un uomo: deve leggerlo per la scuola, conta di restituirlo in due giorni». E i diritti d’autore? Stefania mi rassicura: «Se il libro piace, poi lo comprano. Con Gramellini e la Oggero è successo». Smith se ne farà una ragione, gli eredi di Levi possono ancora sperare. rs_gen13.indd 39 A Milano Stefano Boeri, assessore alla Cultura, è fresco reduce dal brindisi di commiato della libreria Utopia di via Moscova, fondata nel ’77 dagli anarchici del circolo Ponte della Ghisolfa e frequentata tra gli altri da Consolo e De André: negli ultimi tre anni gli incassi erano scesi del 30 percento, la prospettiva è riaprire a febbraio a Città Studi. Intanto però hanno chiuso la Rovello, libreria antiquaria aperta nel 1893, e la Libreria di Brera. «Non è un fenomeno nuovo. Chi conosce Milano ricorda l’Einaudi in Galleria Manzoni e la Cortina, sparite diversi anni fa. Oggi fa riflettere il fatto che le librerie indipendenti chiudano nella città dove si producono e si vendono più libri in Italia, malgrado abbiano saputo specializzarsi e curare il rapporto con i clienti». Le ragioni? «A parte la crisi, gli affitti eccessivi. Quelli residenziali sono calati, i commerciali no. Milano al piano terra si sta svuotando». Che può fare l’amministrazione? «Cercare di calmierare il mercato con bandi pubblici, affittando spazi comunali con il 40 percento di sconto. Stiamo mappando la città, centro compreso, per individuare i luoghi più adatti. Ma vanno affrontati anche altri temi: gli incentivi alla lettura, la polifunzionalità delle librerie. Negli Usa si è pensato a spazi per bambini e circoli di lettura. Bisogna offrire altri servizi, oltre alla vendita». Farlo intendere ai teorici della redditività a metro quadro non sarà facile. Un tempo a Torino i librai si lamentavano del Salone del Libro, oggi i loro colleghi milanesi fanno lo stesso con Bookcity. «È stato un evento popolare, ed è questa la strada per 01/02/2013 16:21:03 recuperare lettori. Proprio a Bookcity con Umberto Eco abbiamo proposto agli editori di adottare le biblioteche civiche: per le librerie di quartiere dovrebbero diventare punti di riferimento nei quali organizzare incontri e coinvolgere i ragazzi delle scuole. Per superare la crisi, editori, librerie e biblioteche devono allearsi». Mi sono detta che se non riuscivo a pagare affitto e bollette, potevo caricare i libri sull’auto: oggi che la gente non va in libreria, è la libreria che deve andare dalla gente. A Roma Gabriella Magginelli, fondatrice di Bibli con Agnese Andreoli, racconta: «Quando abbiamo dovuto chiudere la sede di via dei Fienaroli, ormai un anno e mezzo fa, abbiamo chiesto al Comune di aiutarci a trovare un altro spazio. E alla fine ce l’hanno assegnato: 400 metri quadri in via San Francesco di Sales, con un giardino stupendo, per un affitto di soli 39 mila euro l’anno». Peccato per il tetto in Eternit. «Il restauro e il rifacimento del tetto costano circa un milione. E certo non è possibile far fronte a una spesa simile vendendo libri o aprendo un caffè. È un peccato: la Bibli era una casa aperta a tutti». Sempre a Roma, Monica Maggi è diventata una libraia volante. «Per due anni e mezzo ho avuto una libreria nel centro commerciale di Morlupo, Roma Nord», mi spiega fuori dal Radio Wuonz Club di via Nemorense, dove ha organizzato un reading dedicato a Pasolini. «Per me era un sogno. Ma poi ho dovuto fare i conti col prezzo imposto e la necessità di un magazzino. Organizzavo incontri, laboratori. Non è bastato. Per non venire travolta dai debiti ho dovuto chiudere». Addio libreria. Anzi no: «Mai rassegnarsi. Mi sono detta che se non riuscivo a pagare affitto e bollette, potevo caricare i libri sull’auto: oggi che la gente non va in libreria, è la libreria che deve andare dalla gente». Messa in piedi un’associazione culturale, Monica ha iniziato a girare per Roma inventandosi iniziative in posti insoliti, dalla gelateria al Tuscolano al fioraio dei Parioli. «Organizzo concerti con letture di poesie, salotti letterari, proiezioni, degustazioni. La mia formula anticrisi? Abbattere i costi. Non devo più pagare né affitto né luce, ho un’auto a gas e un telefono che mi permette di fare l’ufficio stampa di me stessa e dei locali a cui mi appoggio. E un blog, Libra 2.0». Inventiva e fiducia, insomma. Gli stessi ingredienti che a Napoli, dove pochi mesi fa ha chiuso la storica libreria Guida Merliani (ventimila euro al mese d’affitto non trattabili, inutile mobilitazione del quartiere del Vomero, lunghe code di clienti al momento della vendita fallimentare dei libri), usa Raimondo Di Maio, della Dante e Descartes. «Noi abbiamo aperto nel 1984 con l’idea di proporre cultura anziché bestseller e di cercare lettori anziché consumatori, specializzandoci in letteratura del Novecento e cultura meridionale, libri esauriti e rari. Napoli è città con biblioteche private straordinarie, solo ieri in una casa ho trovato tutte le annate della Critica di Croce». Per il signor Di Maio, però, non c’è solo la crisi: «È un problema di sistema. Messaggerie ha chiuso i magazzini di Napoli e Roma e per ricevere certi titoli da Milano dobbiamo aspettare quindici giorni. Gli editori del Nord usano Napoli al posto del macero, da noi si fa remainder selvaggio. E poi l’occupazione militare degli spazi in libreria, con titoli di personaggi televisivi che nulla hanno a che fare con la letteratura. Noi da ragazzi per i libri rinunciavamo alle scarpe nuove, oggi gli universitari corrono a vendersi Heidegger non appena superato l’esame di Filosofia». Ma non ci sono solo le librerie che chiudono. Di nuovo a Torino in via Di Nanni, Marcello Fassetta ha inaugurato la Borgo San Paolo il primo dicembre scorso. «È presto per fare un bilancio, però il quartiere ci ha accolti bene». Ma perché aprire in questo momento? «Per rabbia nei confronti dell’appiattimento in cui viviamo. Ogni libreria è una voce in più, non si può solo e sempre parlare di soldi, tasse e crisi». Del resto, se uno non fosse un po’ idealista non farebbe il libraio. 40 rs_gen13.indd 40 01/02/2013 16:21:03 Giovani, ma senza rabbia. I fumetti di Zerocalcare Intervista all’autore delle strisce nate sul web e diventate un caso editoriale Luca Raffaelli, la Repubblica, 16 gennaio 2013 «Ricorda: nessuno guarisce dalla propria infanzia»: questa la (perfetta) citazione in quarta copertina di Polpo alla gola, primo successo del fumetto italiano a essere nato in libreria. Più di venticinquemila copie vendute per il precedente La profezia dell’armadillo (pubblicati da Bao-Publishing). Protagonisti di entrambi un alter ego del ventinovenne Zerocalcare, nome d’arte di Michele Rech. Le sue esilaranti difficoltà a diventare adulto sono venate di grandi malinconie, quasi il futuro fosse solo rivolto all’indietro, al recente e indimenticabile passato di studente. Zerocalcare nasce realizzando fumetti all’interno del Forte Prenestino occupato di Roma, mentre la sua popolarità se l’è conquistata sulla rete. Qualche settimana fa il suo libro è arrivato rs_gen13.indd 41 anche su uno «scudo» di uno studente che manifestava in piazza. Zerocalcare, quello scudo significa essere diventato il simbolo di un sentire collettivo? In verità quello mi è sembrato un corto circuito. Io ero a quel corteo e nel corteo c’era uno scudo con il libro mio. Assurdo, no? Però poi ho capito che vale più quello di mille presenze in classifica. Però insisto: nei suoi libri c’è qualcosa in cui molti si riconoscono. Cosa? Non lo so. Quando non avevo ancora successo mi dicevo che certe atmosfere che nascono all’intorno degli spazi occupati possono uscire dal recinto ed 01/02/2013 16:21:03 essere capite anche da persone non affini a noi. Ma forse questa risposta non basta. Che dice? Forse c’è l’esaltazione di un sentire giovanile (e forse anche di un’immaturità) che non si vuole perdere. Quasi l’unica ancora di salvezza nei confronti della cattiveria del mondo degli adulti fosse quella non diventare mai come loro. È così? Sì, condivido: ci sono dei sentimenti legati alla mia infanzia e alla mia adolescenza che non voglio perdere. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia, e cioè quello che ti hanno costruito intorno perché tu non ti senta mai compiuto, mai maturo. Io sono uscito dalla scuola dieci anni fa insieme ai miei compagni. Beh, dopo dieci anni ancora non abbiamo alcuna sicurezza sulla nostra vita. I miei amici stanno ancora a lottare con i contratti a progetto, ancora non sanno bene se si possono permettere una casa e l’idea di una famiglia è piuttosto improbabile. A differenza del fumetto degli anni Settanta (di Pazienza, Scòzzari, Tamburini) nelle sue storie c’è molta meno arrabbiatura e al suo posto un atteggiamento consolatorio. Forse è vero. Ma credo che nel nostro paese non riusciamo a essere davvero arrabbiati. È così tanta la disillusione che viene a mancare lo spazio per dirigere la propria rabbia. Ma non potrebbe essere pericoloso questo coccolarsi nella propria insoddisfazione? Oppure potrebbe essere un atto di coerenza. In realtà non faccio fumetti politici e non vivo una situazione preinsurrezionale. Esco dal Forte Prenestino e vado a casa a vedere le serie tv mangiando plumcake. E di questo parlo nelle mie storie. Si dice che il successo le sia arrivato quasi per caso. È vero? Ho cominciato spinto da uno scetticismo assoluto. È stato merito di Makkox (altro fumettista nato sul web, ndr) se ho continuato. E quando ho visto che le mie storielle raccoglievano un po’ di consenso ho avuto lo stimolo per cominciare a farne di nuove. Poi c’è stato il salto con la storiella di Trenitalia. Con quello storia (in cui si critica il sito dei Frecciarossa, la mania dei treni veloci e costosi, e anche il comportamento dei passeggeri, ndr) qualcosa è cambiato, i contatti si sono moltiplicati. Li conta gli accessi quotidiani? No, ho smesso perché mi mette ansia contare tutti i giorni. Quello che ho visto è che le condivisioni sono 22 mila. L’armadillo è nato prima sul web, mentre il Polpo è nato come libro. Quanto è cambiato il suo modo di lavorare? Quando ho cominciato a lavorare al Polpo ancora non si era messo in moto tutto quel meccanismo che è venuto fuori negli ultimi tempi. Quindi le decisioni le ho prese a cuor leggero. Poi quando la cosa ha cominciato a crescere, a contratto già firmato e anticipo già preso, mi sono reso conto che tutto quello che mi stava accadendo intorno richiedeva uno sforzo ulteriore rispetto alla leggerezza con cui l’avevo preso. In che senso? Soprattutto nel dover trovare un senso complessivo al lavoro che stavo facendo. Non solo storielle, ma qualcosa di più strutturato con una tabella di marcia precisa. E c’è riuscito? No. Nonostante tutti i miei buoni propositi mi sono ritrovato a fare le cose a braccio, ho dovuto modificare alcune parti già fatte per legarle alle nuove che stavo pensando. Ma sono soddisfatto del risultato. E ora? Sto cercando davvero di cambiare il mio metodo di lavoro, di scrivere un soggetto e una sceneggiatura dettagliati. L’obiettivo è soprattutto eliminare il panico da consegna. Non c’è il pericolo di abbassare il livello di spontaneità? Ma per quello non smetto di lavorare per il biog. E siccome ho la fortuna di lavorare per Bao, che punta a farmi fare un libro all’anno, avrei voglia di provare a fare delle cose diverse, anche correndo il rischio che non siano quelle che mi riescono meglio. In che maniera il successo ha cambiato la sua vita? Faccio molte più presentazioni e molte meno ripetizioni. Ma non so ancora se quello dei fumetti diventerà un mestiere. 42 rs_gen13.indd 42 01/02/2013 16:21:03 La dittatura del carino L’interessante, il buffo, e altri esorcismi del bello: le categorie (minori) che anestetizzano l’estetica Guido Vitiello, La Lettura del Corriere della Sera, 19 gennaio 2012 Puoi fare il giro più largo, perderti per ore tra scaffali e biblioteche, ma alla fine la risposta che cercavi ti attende sempre lì, nelle strisce di Charlie Brown. La scena è questa: Schroeder, il biondino con il culto di Beethoven, è chino sul suo pianoforte a coda giocattolo; Lucy, la tirannica sorella maggiore di Linus che lo corteggia senza dargli pace, è appollaiata all’altro capo del piano, e legge una descrizione del compositore da ragazzo: spalle larghe, collo corto, testa grossa, naso carnoso… «Ha l’aria carina», commenta. Schroeder lancia uno di quegli urli cubitali che nei fumetti di Schulz mandano i bambini a gambe all’aria: «Beethoven non era carino!». Saranno pure Peanuts, o noccioline, insomma le nugae dei latini; eppure ecco messo in scena, in forma di battibecco galante, il grande conflitto estetico del nostro tempo. Il kantiano Schroeder difende le tradizionali categorie del bello e del sublime, le sole che gli appaiano degne di Beethoven; Lucy incarna lo spirito dell’estetica pop, dove uno scarmigliato musicista romantico può essere trattato come Hello Kitty, dove la Nona è fischiettabile come un jingle, dove insomma è il carino a regnare sul gusto. «L’amore del Bello è odio del Carino», si legge nell’Eva futura di Villiers de l’Isle-Adam, e sarebbe il motto ideale in calce alla vignetta di Schulz (o viceversa). Ma il carino non regna solitario. Sianne Ngai, una anglista dell’università di Stanford, ha appena dedicato un libro alle categorie estetiche che dominano la sensibilità corrente, Our Aesthetic Categories: Zany, Cute, Interesting (Harvard University Press). Accanto al carino – il cute – ci sono dunque l’interessante rs_gen13.indd 43 e lo zany, qualcosa che sta tra il buffo, l’istrionesco e il bizzarro. Sono categorie minori, ma non per questo marginali; semmai, dice Ngai, triviali, tipiche di una cultura dove sono crollati gli argini tra arte e consumo, arte e design, arte e vita quotidiana, tra la hegeliana «domenica della vita» e la prosa dei giorni feriali, e dove è sempre più difficile, per l’estetica, fare provincia a sé e rivendicare confini certi. Va detto che Ngai si muove sul terreno un po’ nebbioso dei cultural studies statunitensi, e che le sue intuizioni risplendono sotto incrostazioni di gerghi – dal postmodernismo al marxismo accademico ai gender studies – che si ha una certa pena a grattar via. Ma la materia che maneggia è così viva, le questioni a cui si accosta così centrali, che non si rimpiange la fatica. Il carino, l’interessante e il bizzarro sono la moneta corrente spesa nelle conversazioni, nei giudizi informali, nelle chiacchiere del dopo mostra o del dopo film, ma anche il puntello delle recensioni e della critica d’occasione, che ha sempre bisogno di un carnet di aggettivi-tappabuchi. Hanno spodestato silenziosamente il bello e il sublime, che pure conservano, nelle loro roccaforti, il severo prestigio dei monarchi decaduti. Ma queste creaturine dall’aria così dimessa, così mite – e non c’è bisogno di rievocare i grandi archetipi del barboncino inferocito o del neonato urlante – viste da vicino sono tutt’altro che innocue. Il carino, per esempio, è letale. È la forbice capace di spuntare le unghie al più selvatico dei felini, lo strumento di una regressione al crepuscolarismo bamboleggiante, la trasfigurazione del 01/02/2013 16:21:03 mondo in peluche. Ngai ne parla come di una via per spadroneggiare esteticamente sulla debolezza, mescolanza ambivalente di tenerezza e sadismo (e per inciso, Fruttero e Lucentini hanno scritto grandi cose sul lato oscuro del carino, categoria ignota agli antichi, e sul nesso occulto tra Shirley Temple e Adolf Hitler, «il mostruoso dittatore urlante» e «la mostruosa frugoletta che canta le sue canzoncine»). E poi, a pensarci bene, è un giudizio positivo o negativo? Siamo autorizzati a risentirci se ce lo affibbiano? È un dono avvelenato, un cavallo di Troia? Non è chiaro, ma potete cercare una prima risposta nello sguardo da potenziale squartatore che un giovanissimo Nanni Moretti, in un dibattito televisivo, lanciò a Mario Monicelli che aveva appena definito Io sono un autarchico un «film carino». Lo stesso vale per «interessante», il più anemico dei giudizi, che può essere usato facilmente come sinonimo appena mascherato del suo contrario, e che non si sa bene se designi una reazione assente, affievolita, tutta cerebrale o così perplessa da restare indefinibile. Ne va che il giovane romanziere elogiato per il suo «esordio interessante» dovrebbe fare la stessa faccia interdetta della ragazzina che si sente etichettare come «un tipo». Ma c’è un tratto comune alle categorie di Ngai su cui si dovrebbe ragionare un poco: la freddezza, o se vogliamo la coolness, che è anche padronanza di sé. «Chi può vivere tra fiamme perenni?», chiedeva l’antico profeta. Il carino, l’interessante, il buffo riflettono al fondo esperienze estetiche mezzo soffocate, crepitanti appena sotto uno strato di cenere. Il Beethoven sublime di Schroeder incombe dall’alto e ti fa tremare, il Beethoven carino di Lucy è una bestiola addomesticata in grembo. E già che le risposte, a cercarle bene, sono tutte nei Peanuts, vien voglia di rovesciare i termini di quel vecchio dibattito sulla secolarizzazione dell’esperienza estetica e sullo spettatore che si riscuote dalla soggezione religiosa verso l’opera d’arte. Al contrario, c’è qui il segno di una soggezione più grande, di un timore reverenziale che diventa timor panico e richiede in tutta fretta uno scongiuro, una scappatoia scaramantica. Diceva William Carlos Williams che gli uomini temono la bellezza più che la morte. Non è da escludere che il carino, l’interessante e i loro tiepidi parenti siano gli strumenti di un esorcismo: basta pronunciare quelle formule di rito e il sortilegio dell’arte non è più minaccioso. Dov’è, Bellezza, il tuo pungiglione? Altro modo per dire che la nostra estetica potrebbe essere, in fin dei conti, un’anestetica: una scienza non già del sentire, ma del non sentire. O del sentire il meno possibile. Il carino, l’interessante e il bizzarro sono la moneta corrente spesa nelle conversazioni, nei giudizi informali, nelle chiacchiere del dopo mostra o del dopo film, ma anche il puntello delle recensioni e della critica d’occasione, che ha sempre bisogno di un carnet di aggettivi-tappabuchi. 44 rs_gen13.indd 44 01/02/2013 16:21:04 Case, librai, promotori. Nella giungla di carta vale la legge del più forte Federico di Vita illustra «usi e abusi» del pericoloso circuito letterario Massimiliano Parente, il Giornale, 19 gennaio 2013 In teoria non ci sarebbe nulla di più noioso che sentire la piccola editoria che si lamenta della piccola editoria, dopo cinque minuti si finisce per rimasticare André Schiffrin e idee da quadrivio funebre gadlerneriano tipo la «bibliodiversità». Oppure saltano fuori Christian Raimo e Nicola Lagioia con un pistolotto contro il berlusconismo. Tuttavia se volete lavorare in una piccola casa editrice tutto quello che c’è da sapere sulla piccola editoria italiana ve lo rivela un libro di Federico di Vita dalla copertina pomo-trash che si intitola Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria (Tic edizioni). Perché bisogna essere proprio pazzi sia per aprire una casa editrice che per volerci lavorare. È anzitutto il racconto di un mondo darwiniano in via d’estinzione, con il piccolo editore strangolato dal promotore a sua volta strangolato dal distributore a sua volta strangolato dal libraio che è strangolato dalle grandi catene che comunque si stanno strangolando da sole a causa della crisi. Il pesce grande mangia il pesce piccolo e tra i grossi predatori qui figurano le librerie Feltrinelli, per esempio. Pasquale Colaps, che è stato per anni il direttore («ero il più stronzo di Roma») di uno dei più grossi promotori, la Pde, spiega che oggi gran parte dei libri dei piccoli editori acquistati dalle Feltrinelli non appaiono mai sugli scaffali: «prendono lo stesso questi libri in deposito ma non li tolgono nemmeno dagli scatoloni; il corriere glieli porta e loro li lasciano per mesi in magazzino». È una specie di truffa, perché «così facendo Feltrinelli fa bella figura nel comprare i libri della piccola editoria pur sapendo che non li venderà: li metterà in resa e non li pagherà». rs_gen13.indd 45 Nel manuale comunque si lamentano tutti: in primis i librai dell’ignoranza dei promotori, che ormai si presentano in libreria con i loro copertinari senza sapere di cosa parlano. Racconta Leonardo Giuloni, che ha una libreria Einaudi: «L’altro giorno me ne è arrivato uno in libreria dicendomi che il giovane autore sarà lo scrittore italiano del futuro e si rifà nella sua struttura lessicale all’Ammaniti Prima Maniera. Ho creduto che il 01/02/2013 16:21:04 promotore fosse impazzito e gli ho detto “ma che cazzo stai a di’? Come ti è venuto in mente di dire Ammaniti Prima Maniera?”. Lui ha risposto che stava scritto sulla scheda». Gli agenti a loro volta si lamentano degli editori, come Stefano Tettamanti: «A noi agenti ci cominciano a rispondere cose come: “troppo alto”, “troppo di nicchia”, “troppo divertente”, “troppo bello”… Ma allora pubblicate solo quelli brutti». A vedere cosa esce ogni mese viene da rispondere di sì. Sappiate che Fazi ha fatto soldi ma partendo con una società finanziaria, minimum fax si sta facendo più minimum, Castelvecchi è passata di mano in mano e non c’è più Castelvecchi, Coniglio ha chiuso e Fandango non si sente tanto bene. L’editoria romana è un grande tritacarne di insuccessi dove alla lunga da cosa muore cosa, con due grandi macellerie di successo: Fazi e Newton Compton. I quali infatti parlano di libri come macellai. È un settore in cui non c’è mercato ma ci si butta lo stesso perché «i piccoli editori sono montati, vivono di illusioni». Tra le vittime designate spesso anche i tipografi, che al limite non si pagano e si cambiano. Il piccolo editore in ogni caso è «l’ultimo dei cavalieri erranti», «l’ultimo degli illusi» e non ti paga o ti paga poco e tardi, e nell’ultimo decennio la piccola editoria ha assorbito tutta la disoccupazione dei laureati in materie umanistiche creando un tipo di precariato particolare: quello gratuito. Insomma, tra concorsi letterari, corsi di editoria, di scrittura, perfino corsi di lettura, e fiere, e feste, e perfino sagre del libro, tutto un magnamagna molto italiano dove perfino a pochi anni fa si vivacchiava e oggi i nodi vengono al pettine, perché attenzione: il manuale di Federico di Vita non è un manuale di sopravvivenza individuale. Anzi, di Vita stesso, che non era affatto choosy, ha gettato la spugna con una considerazione molto pragmatica e rassegnata: «A conti fatti penso che per quanto si possa immaginare di volersi sacrificare sull’altare di un lavoro affascinante, non si possa mai arrivare all’idea di immolare la possibilità di pagarsi un affitto». È anzitutto il racconto di un mondo darwiniano in via d’estinzione, con il piccolo editore strangolato dal promotore a sua volta strangolato dal distributore a sua volta strangolato dal libraio che è strangolato dalle grandi catene che comunque si stanno strangolando da sole a causa della crisi. L’editoria romana è un grande tritacarne di insuccessi dove alla lunga da cosa muore cosa, con due grandi macellerie di successo: Fazi e Newton Compton. I quali infatti parlano di libri come macellai. È un settore in cui non c’è mercato ma ci si butta lo stesso perché «i piccoli editori sono montati, vivono di illusioni». 46 rs_gen13.indd 46 01/02/2013 16:21:04 Quando la libreria si difende con un trattore Mario Baudino, La Stampa, 20 gennaio 2013 In Inghilterra si sono quasi dimezzate in dieci anni. In Italia, dove sono in numero inferiore, continuano a essere circa 1800. Oggi. Ma domani? Scommettere sul futuro delle nostre librerie pare un azzardo, il panorama è poco promettente: cali notevoli del mercato del libro (il 2012 finirà intorno a meno 8 per cento), chiusure e riduzioni di personale, come nel caso della Hoepli di Milano e della catena di librerie Coop, che hanno fatto ricorso alla cassa integrazione. Ne parliamo con Stefano Mauri e Romano Montroni alla vigilia dell’apertura a Venezia della «Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri», giunta al trentesimo anno. Voluta dalla famiglia Mauri (che controlla Messaggerie, il più grande distributore indipendente italiano, il gruppo editoriale Gems, e una catena di librerie oltre a Ibs, online) la Scuola ha formato generazioni di librai esperti e appassionati, fornendo loro gli strumenti tecnici di questo mestiere difficile. Montroni, che ha guidato la grande crescita delle librerie Feltrinelli e ora ha inventato quelle della Coop, fa parte con Mauri del comitato scientifico. Da una parte un libraio puro, «natural born bookseller» per dirla con Oliver Stone. Dall’altra un manager che è soprattutto editore, alla guida di Gems, terzo gruppo italiano dopo Mondadori, vicinissimo a Rcs-libri. Guardando a questi trent’anni, ricordano come la scuola sia nata in un altro momento particolarmente critico. Era il periodo in cui le jeanserie scacciavano i librai dai centri storici. Ora la crisi dei consumi sta completando il ciclo? mauri: «Il libraio ha margini di guadagno molto ridotti. Già gli affitti sono un grave problema, anche se molti sono riusciti a ricontrattarli. Non tutti, come ha scritto proprio La Stampa. Il calo generale dei consumi si traduce in un calo di acquisti anche per i libri: siamo a una flessione rs_gen13.indd 47 dell’8 percento, che in altri settori dove i guadagni sono molto maggiori verrebbe assorbita più facilmente». montroni: «La libreria soffre di più». Più degli editori? Il 2012 ha colpito anche loro. Laterza sta discutendo di cassa integrazione, Giunti l’ha già avviata. Senza contare che nelle aziende editoriali i contratti di lavoro precari sono molti. E quelli in scadenza rischiano di non venir rinnovati. mauri: «Negli anni Ottanta c’era più sicurezza, ora le cose sono molto cambiate. Ma se guardiamo bene ai numeri della crisi, scopriamo che non vale per tutti i settori. Per esempio, la narrativa continua ad andare bene, con una polarizzazione sul bestseller. Non perde quasi nulla, o è in pareggio. Il disastro è la saggistica». montroni: «Il fenomeno del bestseller riguarda un arco di mercato che va dall’edicolante al supermarket. E in questo contesto sono le librerie di catena a soffrire di più. Quelle indipendenti non hanno scelta: devono differenziarsi. Il cliente, loro cliente, vuole il catalogo. E poi ci vogliono proposte originali. Conosco un libraio della Coop di Mondovì che contro il parere di tutti ha messo in vetrina un volume sui trattori. Ne ha vendute 250 copie». Posta in questi termini, sembra una questione di maggiore o minore bravura. Una selezione naturale. Non è un po’ troppo semplice? montroni: «In certi casi si chiude perché c’è tanta passione, ma anche incapacità di gestione. È chiaro che allora si soffre molto più degli altri». mauri: «Però fra le librerie che chiudono ce ne sono alcune con vent’anni di attività alle spalle. Volumi di affari e importanza culturale non necessariamente si equivalgono. Parlavo della crisi della saggistica: ecco, temo che abbia fatto molte vittime». 01/02/2013 16:21:04 L’Ora di Consolo. Cronache siciliane raccontate a sangue freddo A un anno dalla morte dello scrittore esce un libro che ne raccoglie gli articoli Francesco Erbani, la Repubblica, 21 gennaio 2013 «Trapani», scrive Vincenzo Consolo, «ha l’aspetto e la fragile trasparenza di una città lagunare, allungata com’è su una lingua di terra in mezzo al mare e con tutti gli specchi d’acqua delle saline alle sue spalle». Era un giugno assolato del 1975 e lo scrittore di Sant’Agata di Militello, morto esattamente un anno fa, cominciava da Trapani le sue cronache del processo a Michele Vinci, un uomo accusato di aver ucciso tre bambine, due delle quali sorelle e sue nipoti. Un processo celebre e terribile che angosciò gli italiani dalle pagine di quotidiani e rotocalchi. Consolo scriveva per L’Ora di Palermo. Ma la sua lingua, a dispetto di quell’attacco così musicale e degli umori morbosi che la vicenda emanava dal fondo di una Sicilia misera e cupa, prese poi a seguire tutt’altro corso e a aderire in maniera netta, pulita, senza scorciatoie letterarie a una storia che si voleva costringere entro una schema rassicurante, correndo il rischio dell’errore giudiziario: il gesto di un alieno, di un criminale che andava bandito. Esercizi di cronaca s’intitola il volume in cui Salvatore Grassia e Salvatore Silvano Nigro raccolgono, per Sellerio, gli articoli che Consolo pubblicò sul quotidiano allora diretto da Vittorio Nisticò. L’Ora è una trincea dove si combattono la mafia e l’affarismo dei democristiani eredi di Lima e Ciancimino. Ed è anche, segnala Nigro, un luogo di raccolta per eccellenti cronisti-letterati: Consolo, almeno fino al 1969, prima di trasferirsi a Milano, e poi Giuliana Saladino, Michele Perriera, Sebastiano Addamo, Mario Farinella. Scrittori in senso pieno, che però all’Ora non piegano la cronaca alla letteratura, usano rs_gen13.indd 48 la letteratura per essere cronisti migliori. Quella di Consolo è una consapevole militanza giornalistica, che ora viene valorizzata colmando il vuoto che in sede critica sembrava essersi creato fra il suo esordio narrativo nel 1963 (con La ferita dell’aprile) e 1976, quando si afferma come scrittore di prima fila pubblicando Il sorriso dell’ignoto marinaio. In mezzo, invece, si colloca il giornalismo a Palermo e poi, sempre per L’Ora, da Milano. Del giornalismo Consolo assume l’attrezzatura, la curiosità intellettuale (basta leggere l’incontro-intervista con Licia Pinelli). E soprattutto la lingua – misurata e densa, apparentemente lontana dall’espressività che invece tinge le pagine del Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui, come è stato segnalato, la prosa incede allineando perfetti endecasillabi, il metro di Dante e dei sonetti di Petrarca. L’impressione che Consolo si muova agilmente su un doppio registro è tanto più fondata se si bada a un particolare: negli stessi giorni in cui segue le udienze trapanesi e compila cronache in cui le parole seguono i fatti senza scostarsene, Consolo rivede gli ultimi capitoli del romanzo, la cui prima parte è uscita presso un piccolo stampatore milanese suscitando in molti editori la brama di accaparrarsi l’intera opera (alla fine il libro sarà pubblicato da Einaudi). Il sorriso dell’ignoto marinaio è il romanzo che impone Consolo sulla scena letteraria. Ma le distanze con le cronache trapanesi in qualche modo si ricompongono, spiegano Nigro e Grassia. Che intanto fanno notare un’analogia: il carcere in cui nel Sorriso vengono rinchiusi i rivoltosi di Alcara Li Fusi (il 01/02/2013 16:21:04 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 romanzo è ambientato nella Sicilia appena liberata da Garibaldi) ha la forma di una chiocciola, che dal buio va verso la luce; e un aspetto analogo ha il pozzo in cui sono state buttate due delle tre bambine, il pozzo che la corte di Trapani un giorno va a ispezionare e che Consolo racconta nella cronaca che in parte qui accanto riproduciamo. Nel Sorriso, aggiunge Nigro, «il tema di fondo è l’impostura della letteratura: la storia raccontata dalla letteratura non è la stessa cosa, per Consolo, della storia raccontata dai vinti, che è invece quella alla quale lui si attiene». È un’attitudine manzoniana. Consolo, insiste Nigro, quando si accinge a compilare le cronache sul processo Vinci «cerca una lingua diversa da quella della letteratura, eversiva tanto quanto la lingua del Sorriso con le sue impennate barocche lo è rispetto all’idioma letterario degli anni Settanta». Al centro delle cronache di Consolo campeggiano due figure. Quella di Michele Vinci, una sfinge silenziosa che tutti vorrebbero liquidare sbattendolo all’ergastolo senza riempire i buchi di un’indagine che serve rassicurare un’opinione pubblica trapanese timorosa che si possa scavare in complicità d’alto rango. E quella del pubblico ministero, il giovane magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto, altra fisionomia manzoniana, sottolinea Nigro, per il quale la verità del processo non è la verità della storia. Ciaccio Montalto è raccontato da Consolo nel pieno della sua «inquietudine morale», convinto che Vinci non abbia agito da solo perché lo dimostrano tutte le evidenze, eppure costretto a chiedere per lui, e per lui solo, un ergastolo. Che verrà comminato, cadendo «nel silenzio sospeso dell’aula come un fiato metafisico, fatale e terrifico». Queste parole Consolo non le scriverà sull’Ora a margine del processo. Ma su un altro giornale, nel gennaio del 1983, commentando la notizia dell’uccisione di Ciaccio Montalto per mano mafiosa. 49 rs_gen13.indd 49 01/02/2013 16:21:04 «Dopo la fase delle promozioni, i prezzi degli ebook si assesteranno». Intervista a Marco Ghezzi (40k) Mentre per 40K esce (direttamente in ebook) «L’amore è strano», il paranormal romance di un autore di culto come Bruce Sterling, Marco Ghezzi, ideatore di 40k, editore digitale del gruppo Bookrepublic, parla con affaritaliani.it del presente e del futuro dell’universo ebook Antonio Prudenzano, Affari italiani, 21 gennaio 2013 Brevi, low cost e in diverse lingue: sono gli ebook del marchio 40k (racconti e saggi di circa 40 mila battute – da qui il nome della collana − disponibili contemporaneamente in diverse lingue: italiano, inglese, francese, portoghese e prossimamente anche spagnolo). Marco Ghezzi è l’ideatore di quest’innovativa casa editrice digitale creata da DigitPub (gruppo Bookrepublic). Da quasi vent’anni Ghezzi opera all’incrocio tra editoria e tecnologia. Ha fondato Hestia Edizioni, Factory e Hops Libri. È stato responsabile dell’area libri di Tecniche Nuove, oltre che ad di Apogeo e di Kowalski. Affaritaliani.it lo ha intervistato. Da quest’anno, però, la struttura che lavora direttamente su 40k è economicamente autonoma e questo ci sembra il segnale più importante per il futuro. È in uscita L’amore è strano (solo in ebook, circa 300 pagine, drm free, euro 6,90) di Bruce Sterling. Come mai uno degli autori contemporanei di fantascienza più apprezzati (pubblicato in Italia da Mondadori) ha scelto 40k per questo «paranormal romance», che arriva in contemporanea in Italia e negli Usa? Sterling è stato uno dei primi autori a voler sperimentare, già nel 2010, la strada dell’editoria puramente digitale con 40k, con la pubblicazione di due racconti (Cigno nero e Il bisturi napoletano) in tre lingue: inglese, italiano e portoghese. Dal successo di quell’esperienza deriva la scelta di pubblicare esclusivamente in digitale e su due mercati in contemporanea il suo ultimo romanzo. Qual è il vostro bestseller? Quantitativamente, il nostro titolo più venduto è Cigno nero di Bruce Sterling, che insieme alla Blackburn è il nostro autore di punta per il mercato statunitense. Tra i più venduti in Italia vale la pena ricordare Derrick de Kerckhove e Ken Liu, che con L’uomo che mise fine alla storia è stato un piccolo fenomeno editoriale prima negli Stati Uniti e poi da noi. E veniamo al vostro marchio: qual è il fatturato di 40k? Se guardiamo al fatturato complessivo, stiamo parlando di cifre ancora relativamente piccole. rs_gen13.indd 50 40k è stata la prima casa editrice al mondo a lavorare contemporaneamente su più mercati internazionali: le vendite all’estero che fetta del vostro fatturato rappresentano? Oltre il 75 percento delle vendite deriva dal mercato estero, americano prevalentemente. È una delle ragioni per cui abbiamo deciso di tradurre in inglese il primo titolo della minisaga Mondo9, di Dario Tonani: Cardanica. Il mercato ebook in Italia è in costante crescita, anche se i numeri restano bassi: come immagina lo scenario nei prossimi anni, anche alla luce del generale rallentamento delle vendite dei libri cartacei? Ci aspettiamo una crescita sostenuta anche per i prossimi anni, sulla falsariga di quanto già successo nei paesi di lingua anglosassone. Alla crisi delle librerie tradizionali (negli Stati Uniti Borders ha chiuso e b&n non naviga in buone acque), in Italia 01/02/2013 16:21:04 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 dobbiamo aggiungere la congiuntura economica di certo non favorevole, che per la prima volta ha avuto un impatto molto forte sul mercato del libro. Molti lettori forti si stanno spostando verso il digitale, anche grazie alla politica commerciale di molte case editrici, che stanno proponendo molti dei loro titoli con grandi sconti. Credo che a questa fase «promozionale», utile ad allargare la base di «lettori digitali», seguirà presto una fase di assestamento con i prezzi di copertina degli ebook che rimarranno inferiori alla loro controparte cartacea, senza gli eccessi promozionali di oggi. Si parla molto di selfpublishing. In Italia il fenomeno dell’autopubblicazione a che punto è? L’autopubblicazione è un fenomeno che è sempre esistito in Italia, alimentato da pseudoconcorsi letterari promossi da case editrici specializzate in quella che in altri paesi viene definita vanity press. L’avvento del digitale e la disintermediazione nei rapporti tra scrittore e editore hanno reso possibile la nascita di piattaforme editoriali che in maniera trasparente offrono all’aspirante scrittore un accesso alla pubblicazione e al mercato più semplice. Una di queste piattaforme è Ilmiolibro, del gruppo l’Espresso (Bookrepublic da qualche mese è il partner distributivo de Ilmiolibro, ndr). Non siamo ancora ai numeri del selfpublishing nel mercato anglosassone, dove la capacità di penetrazione di Amazon e il peso dell’ebook hanno consentito l’affermarsi di autori da milioni di copie come Amanda Hocking o John Locke, ma è indubbio che la crisi dell’editoria, che sta coinvolgendo tutti gli elementi della filiera, apre nuove opportunità per gli autori. Qualche mese fa avete lanciato 40k Unofficial, un incrocio tra editoria tradizionale e selfpublishing. Si tratta di ebook che contengono approfondimento su temi di attualità, spesso proposti e pubblicati da giornalisti che sulla carta non avrebbero a disposizione 40 mila battute per i loro pezzi. Come sta andando? Gli unofficial sono il nostro modo di approcciare il selfpublishing: una piattaforma che nasce per offrire servizi agli autori, perché crediamo che l’editore, nel digitale, dovrà sempre più mettersi al servizio degli autori. Siamo molto contenti della capacità di attrazione che 40k sta esercitando sugli autori che si affacciano al digitale e questo non solo nel campo giornalistico. Presto cominceremo infatti a pubblicare brevi saggi e how-to su argomenti apparentemente molto lontani tra loro. Ci piace pensare agli unofficial come a un’enciclopedia universale. Un tema che divide è quello della pirateria (e quindi dell’uso o meno dei drm): 40k come si difende dai «pirati»? Non credo che il drm sia una risposta efficace alla pirateria, al contrario, nel rendere complicata la vita ai lettori i drm stanno allontanando molti potenziali lettori dagli ebook. Da sempre Bookrepublic, e quindi anche 40k, ha spinto per l’uso di strumenti di gestione dei diritti digitali non bloccanti. Applichiamo ai nostri ebook un social drm, che si limita a inserire un watermark nei file senza limitarne l’uso. Crediamo che adottando una giusta politica di prezzo, coinvolgendo gli autori stessi nei processi di comunicazione dell’opera e responsabilizzando i lettori, sia possibile vendere contenuti online remunerando tutte le parti coinvolte nel processo. Chiudiamo guardando al futuro: l’obiettivo di 40k per i prossimi mesi è di trasformarsi in una piattaforma aperta di pubblicazione per how-to e manualistica, creando una comunità di autori e professionisti dell’editoria. Perché proprio questa direzione? Perché crediamo che l’editore debba cambiare pelle e imparare a rivolgersi ai due estremi della filiera editoriale, autore e lettore, in modo completamente diverso. Deve essere in grado, da un lato, di parlare ai lettori in modo diretto e non mediato, coinvolgendo i propri autori in questo processo. E deve guardare ai propri autori come a partner ai quali fornire servizi e consulenza in cambio di contenuti. 51 rs_gen13.indd 51 01/02/2013 16:21:04 Speciale librerie | Torino: germogli in periferia Daniele Martino, Doppiozero, 22 gennaio 2013 A Torino lo tsunami sulle librerie indipendenti è passato qualche anno fa. Un tessuto c’è. C’è anche un librino, pubblicato da NdApress l’anno scorso in cui Elena Romanello fa il censimento di chi è rimasto e di chi è nato; nella prefazione, Boosta dei Subsonica (all’anagrafe Davide Dileo), scrive una sua ode a questi coraggiosi marinai in picciol navelli che solcano le onde grosse della crisi: «Che cos’è una libreria indipendente? È un posto magico in cui far tana mentre giochi a nascondino. È il luogo in cui la testa si dissocia dalla realtà. È il negozio in cui trovi tutte le vite del mondo… Le librerie indipendenti sono un avamposto. Le librerie indipendenti sono esteticamente affascinanti. E nelle librerie indipendenti trovi delle risposte». Il problema condiviso con Milano e Roma è il centro storico: l’escalation degli affitti ha mietuto vittime illustri: la libreria Druetto ha chiuso, e ora nei suoi vani c’è un negozio Stefanel. Feltrinelli ha acquisito la Ricordi e ha aperto alla stazione di Porta Nuova, rimanendo in piazza Castello. Fnac rischia la chiusura in tutta Italia. Non si può dire quindi che soltanto le piccole librerie rischino grosso: Fnac ha un significativo spazio dedicato ai libri. La storica libreria Paravia, una delle più antiche d’Italia, non ha firmato il rinnovo del contratto: Pirelli Re ha comprato, e vuole ristrutturare per rimettere il pezzo sul mercato con locazioni inaccessibili per uno che venda libri. Nel cuore di questa città-laboratorio (ci diciamo sempre così, qui, che siamo il laboratorio, perché quando vivi in costante trincea deprimente ti conforti pensando che sei solo il primo a doverti inventare soluzioni inedite) resistono solo la Comunardi (del resistente Paolo Barsi, da sempre isola per i fumetti, per la poesia, per cinema e teatro, per i ragionamenti politici), e Luxemburg (fondata da Angelo Pezzana, l’ideatore del Salone del Libro con Accornero, “il” posto che ha libri in lingua inglese); in insolita e confortante apertura dopo cena trovi buoni remainders dalla Bussola, con il pittore, poeta rs_gen13.indd 52 e maestro zen Ezio Zanin a fare il commesso; di giorno tascabili e fotografici da Mercurio. Resiste Arethusa (per decenni perla nera dell’occulto, dello spirituale, dell’orientale). La Legolibri di Corrado Ganasti e Massimo Minuti, specializzata in psicologia, ha tentato di allargarsi alla varia ma poi è rifluita sulla sua specializzazione. La Libreria dei Ragazzi, antesignana nella esclusiva per i piccoli lettori, è ancora lì. La Campus del «mitico» Femore prediletto dalla «mitica» Einaudi chiuse anni fa. Fine. Chi promuove i libri in libreria (la mia gola profonda) dice che di ricavi significativi dalle librerie indipendenti non ne arrivano. Che in Italia manca una vera intelligente legge sul tetto agli sconti quali quelle efficaci vigenti in Germania e Francia: si fanno tante chiacchiere, ma a memoria di operatore del settore l’unica città che fece qualcosa per i libri fu Roma con la giunta Veltroni, sostenendo l’apertura di librerie nei quartieri. Quartieri. Appunto. Qui Torino ha preso mosse creative per prima, sì. Quattro nuove librerie hanno piantato in quartieri non centrali nuove bandierine di coraggio e di innovazione: piccoli spazi, molte presentazioni, idee particolari. A Vanchiglia ci sono i due trentottenni Davide, Ferraris e Ruffinengo, che con la Libreria Therese in corso Belgio combattono dal 2010; sono a fianco di un cinema d’essai, i Fratelli Marx, quindi qualcuno lì ci arriva anche da fuori quartiere; e questo destino cinematografico i due l’hanno appena esteso all’anticamera di un altro d’essai, il Centrale, che è l’unica sala in città a proiettare film in versione originale; spazio ai piccoli editori indipendenti: Marcos y Marcos, Sellerio, minimux fax e Sur. Per proiettarsi fuori dal quartierino si sono inventati “Profumi per la mente”; vanno in giro casa per casa a proporre libri da leggere, e recentemente hanno anche trovato uno sponsor, la BookCar della edt che ha personalizzato una Dacia Duster bianca per promuovere soprattutto i suoi marchi Lonely 01/02/2013 16:21:04 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 Planet e Marco Polo (guide di viaggio) e Giralangolo (ragazzi): itinerando; «il libraio suona sempre due volte», è il motto dei Davidi; hanno già fatto un centinaio di incontri in cui raccontano i titoli che amano; vogliono togliere la polvere dai libri, quella che si deposita sugli scaffali dimenticati. In San Salvario c’è la libreria Trebisonda di Malvina Cagna, dal 2011: la sera spesso aperta per acchiappare giovanotti dalla movida del quartiere, in continua, delirante proliferazione di localini semivuoti; San Salvario era il fronte multiculturale della città, con continue risse di strada tra bande di immigrati africani, e spaccio pesante di droga; ora il quartiere cambia, schizofrenicamente rimescolato di drappelli ambulanti di immigrati o di choosy di centrosinistra. Nel quartiere un tempo operaio di San Paolo (quello da cui veniva il «mitico» sindaco comunista Diego Novelli) c’è dal 2010 Belgravia di Maria Caldarone e Luca Nicolotti: un sacco di spazio (qui il metro quadro non costa come in centro, ovvio), un sacco di presentazioni, un sacco di viavai, e un angolo per il bookcrossing. Infine c’è Rocco Pinto, oggi il più noto libraio di Torino fuori Torino, anche scrittore, perché da Voland ha da poco pubblicato i racconti Fuori catalogo: storie di libri e librerie; dirigeva in centro la libreria Torre di Abele, del Gruppo Abele, che è stata appe- na comprata dalla catena Giunti; ha resistito un po’, e poi si è buttato; nel quartiere Aurora Rossini Regio Parco, appena oltre l’Auditorium della Rai, sulla sponda del fiume su cui si affaccia il nuovo bellissimo polo universitario delle facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche, prima del cimitero centrale, una piccola, polverosa, grigia cartoleria con due vecchietti agonizzava: Rocco ha comprato anche i muri, ha ristrutturato, ed è partito a novembre; ha una prima sala sulla piazzetta, e una seconda saletta tutta dedicata a bambini e ragazzi, e una più segreta terza stanza in cui periodicamente allestisce tutto il catalogo di un editore indipendente; ha cominciato con Sellerio; si dice contento della start up. Io abito in quel quartiere, e avere una libreria indipendente con un libraio intelligente dentro ha cambiato la mia vita quotidiana: qualche volta, tornando a casa dalla casa editrice dove lavoro, passo di lì, alla libreria Il ponte sulla Dora; entro, e costringo l’orso Pinto a spiccicare qualche parola con me; prendo un libro che non stavo cercando. Ci presento il mio nuovo libro pubblicato da marcos y marcos, editore indipendente. Aderisco, insomma, al suo coraggio. E quando da casa compro online da Amazon qualche libro in inglese o francese, che mai una libreria indipendente mi farebbe arrivare, mi vergogno un po’. Non ce lo dico, a Rocco. Che cos’è una libreria indipendente? È un posto magico in cui far tana mentre giochi a nascondino. È il luogo in cui la testa si dissocia dalla realtà. È il negozio in cui trovi tutte le vite del mondo. 53 rs_gen13.indd 53 01/02/2013 16:21:04 Perché anche i nativi digitali preferiscono il libro di carta Alessandra Arachi, Corriere della Sera, 22 gennaio 2013 Il libro di carta è morto. Viva il libro di carta. Che, in tutta franchezza, è vivo, vegeto e destinato a un grande futuro. Perlomeno a giudicare dai dati freschi di una ricerca che il Censis ha realizzato insieme alla Fondazione Marilena Ferrari. Il dato più incredibile? Sono i giovani fra i 18 e i 24 anni quelli che più desiderano avere in casa un libro, preferibilmente bello. Già. Proprio così, sono i cosiddetti nativi digitali che, a dispetto degli stereotipi, più di tutti amano l’idea di possedere in casa un libro bello: il 65,1 percento, contro una media del 52 percento e un picco in basso del 48 percento per le persone fra i 55 e i 64 anni. Una cifra da ricordare: forse sarebbe il caso di non assecondare troppo i luoghi comuni. Perché sì, è vero, il Censis certifica che gli italiani che leggono almeno un libro l’anno sono diminuiti del 6,5 percento negli ultimi cinque anni (nel 2012 sono il 49,7 percento della popolazione). Ma è altrettanto vero che sono aumentati, e di parecchio, gli italiani che leggono un paio di libri l’anno (passati in cinque anni dall’11,2 percento al 41,1 percento). E di più: il libro digitale, l’ebook, non decolla, arrivato nel 2012 ad appena un 2,7 percento. Agli italiani, ci svela il Censis, piace toccarli i libri. Conservarli. Tramandarli. Ben l’82 percento dei nostri concittadini è preoccupato del futuro dei libri della propria biblioteca e vorrebbero che sopravvivessero a loro stessi, curati dalle mani delle persone care. Di più: oltre un italiano su due (il 53 percento per la precisione) conserva gelosamente in casa i libri ereditati, dai nonni, dai bisnonni, persino dagli amici. E se il picco della percentuale, il 64,5 percento, si raggiunge fra le persone laureate o diplomate, si scopre anche che ben il 38,5 percento di chi non ha alcun titolo di studio ama conservare i libri. Perché i libri sono considerati veri e propri oggetti del desiderio. «È stato un vero piacere scoprirlo con questa ricerca in questo momento storico in cui è molto acceso il dibattito culturale sulla smaterializzazione del libro», commenta Fabio Lazzari, vicepresidente della Fondazione Marilena Ferrari. Che continuando a scorrere i dati della ricerca realizzata con il Censis accende la luce su un’altra curiosa realtà: oltre il 50 percento degli italiani considera molto importante per un libro la bella stampa. Non soltanto: ben il 47,4 percento si concentra sulle illustrazioni di un volume, mentre il 40,2 percento considera anche la consistenza e la bellezza della carta e, addirittura, il 29,5 percento si preoccupa anche della rilegatura. Il libro di carta non è morto. Non può morire fino a quando il 70 percento degli italiani continuerà a considerare un bel libro alla stessa stregua di una vera e propria opera d’arte. E soltanto il 30 percento ribadisce che il libro conta esclusivamente per quello che c’è scritto. Lunga vita al libro bello e di carta. Sette italiani su dieci lo considerano un’opera d’arte, ma a differenza di un’opera d’arte non ne percepiscono la distanza, non ne sono intimoriti e, anzi, ben il 46 percento è invogliato a sfogliarlo. A toccarlo. A sentire vive quelle pagine di carta che, forse, nessuna rivoluzione digitale potrà davvero mai sottrarci. 40 percento. La percentuale di italiani che dichiarano di apprezzare molto di un libro la «bella carta», il 52 percento indica come requisito la «bella stampa». 53 percento. Gli italiani che conservano in casa i libri ereditati, la percentuale sale al 64 tra i laureati, si attesta al 38 tra chi non ha titoli di studio. rs_gen13.indd 54 01/02/2013 16:21:04 Bestseller fatto in casa. Così gli editori vanno a caccia di scrittori digitali fai-da-te Dalla Spagna all’Italia ormai è il selfpublishing la vera occasione di lancio per gli esordienti Stefania Parmeggiani, la Repubblica, 22 gennaio 2013 In un ambulatorio pubblico dell’Andalusia il pediatra Bruno Nievas si sfila il camice. Finite le visite, può immergersi in quei mondi paralleli che negli ultimi dodici mesi hanno cambiato la sua vita. Nievas è un medico, ma è anche uno scrittore, uno dei cinque sconosciuti che dopo avere venduto i loro romanzi fai-da-te sugli scaffali virtuali di Amazon sono finiti in blocco nelle scuderie di Ediciones B, società dello spagnolo Grupo Zeta. Il suo libro (un romanzo di fantascienza intitolato Realidad aumentada) è stato rivisto da un editor e pubblicato dopo che 42 mila persone lo avevano scaricato e commentato. Anche sei numeri non sono quelli della star del selfpublishing Amanda Hocking, il suo caso, e quello dei suoi quattro colleghi, dimostra come in Europa stia crescendo una nuova generazione di scrittori che debutta in solitudine e si affida alla rete per emergere dall’anonimato. Accade in Inghilterra, dove la Penguin ha investito 90 milioni di euro per acquistare una piattaforma canadese di selfpublishing, ma anche in Italia dove le case editrici cominciano a considerare i libri autopubblicati non solo come il trionfo della vanità, come una minaccia al ruolo degli editorie alla qualità, ma come un bacino in cui fare scouting. E questo nonostante le cifre siano ancora basse: nel nostro paese le opere andate in stampa senza editore sono circa 40 mila, neanche il 6 percento dei titoli in commercio e quelle digitali ancora meno, appena 6.500. Gli autori? Un agguerrito esercito di scrittori di thriller, gialli, fantasy, romanzi sentimentali o manuali d’uso pratico, che nella maggioranza dei casi arrivano rs_gen13.indd 55 dalla Lombardia (19 percento), dal Lazio (17,4) e dalla Campania (9,6). Scelgono ilmiolibro.it, ma anche Lulu, Lampidistampa, Youcanprint e nuove piattaforme come Narcissus, dove Newton Compton ha scoperto Ti prego lasciati odiare, romanzo rosa di Anna Premoli, domenica scorsa entrato nella top ten dei libri più venduti, prima della Rowling e subito dopo E.L. James. Anche editori tradizionali, come il gruppo Gems, hanno deciso di investire sul selfpublishing attraverso il concorso Io scrittore (1.109 partecipanti all’ultima edizione) nel quale autori esordienti si sottopongono alla valutazione tra pari. O Atlantica e Piemme che da maggio chiedono ai lettori di Geronimo Stilton di mettersi alla prova con la fan fiction. Infine la Mondadori, che da tempo sta lavorando a una sua piattaforma. «Il problema principale» spiega Giovanni Peresson, responsabile dell’ufficio statistiche dell’Associazione italiana editori «è che nei libri fai-da-te non c’è alcuna garanzia di qualità: prendiamo i saggi, può essere pubblicata qualsiasi cosa senza che a monte vi sia stato un controllo sulle fonti, sui fatti o sulle note». Una volta il lettore faceva affidamento su un libraio e un paio di giornali, ma oggi come può scoprire un buon libro sepolto sotto migliaia di titoli? Come può evitare di soccombere al rumore bianco, a quel fruscio indistinto di pagine che rischia di soffocare anche ciò che vale la pena conoscere? «Grazie alle recensioni e alle segnalazioni dei lettori», risponde Alessio Santarelli, responsabile del servizio Kindle Direct Publishing, lanciato da Amazon in Italia un anno fa. E le false 01/02/2013 16:21:04 recensioni? «Più la community è grande e più ha gli anticorpi per isolare gli impostori». In Italia è ancora presto per gli scrittori famosi che abbandonano i loro editori attirati da royalty del 70 percento. «I nostri numeri» continua Santarelli «rispecchiano quelli del mercato degli ebook, il fenomeno è agli inizi ma capita che ci sia chi entra nella top ten dei libri più scaricati». Max Dezzi con Amazzone di San Giorgio, Alessandro Venturini con Amabilmente condannato a moglie, Laura Bondi con Il diario di una cameriera, Vera Q con La scatola di cioccolatini di Silvia e Eleanor LeJune, pseudonimo dietro cui si cela la misteriosa autrice di Racconti erotici per una sera d’inverno. Un genere non casuale: l’erotismo sembra avere conosciuto, proprio grazie al digitale, una nuova fortunata stagione. Basti pensare al successo della signora E.L. James che con le sue sfumature, prima di trovare un editore, ha venduto dieci milioni di ebook. In pratica da sola ha coperto un terzo delle vendite di libri autopubblicati in America. Lei e pochi altri sono diventati ricchissimi senza editore. In America l’84 percento degli autori si divide il 28 percento dei download, il che significa che se un esordiente scendesse in strada cercando di vendere il libro fotocopiato ai passanti (più o meno quello che Moccia sostiene di avere fatto ai suoi esordi) guadagnerebbe di più. Lo scrittore Ewan Morrison, che in Inghilterra ha aperto la polemica sul Guardian, sostiene che la self-editoria non fa altro che riproporre lo stesso meccanismo di quella tradizionale: pochi che vendono molto, molti che vendono pochissimo. Possibile che non ci sia una terza possibilità? Marco Ferrario, uno dei fondatori della piattaforma di distribuzione Bookrepublic, è convinto di sì: «Bisogna solo imboccare la strada giusta». Con la collana Unofficial di 40k lui sta sperimentando un ibrido tra blog e libro, tra editoria tradizionale e selfpublishing: «Pubblichiamo autori selezionati in base alla loro reputazione in rete, ma non ci occupiamo dei testi, questi sono completa responsabilità dell’autore». Che nel futuro, nell’anno zero dell’editoria, dovrà padroneggiare molto più di una penna. Ed è per questo che stanno nascendo corsi gratuiti, organizzati da chi crede nel libro democratico. Il primo febbraio cominceranno le lezioni della Bye bye book Academy per imparare a pubblicare, promuovere, distribuire e vendere in modo autonomo un’opera letteraria. Lo organizza a Empoli il Self Publishing Lab, una comunità di scrittori e lettori che non è contraria all’editoria tradizionale, ma che aderisce al movimento internazionale in difesa del libro democratico: «L’autopubblicazione è oggi alla portata di tutti. Non è un gioco però». Non basta un clic sullo schermo del proprio computer, in quel caso sarebbe meglio parlare di selfprinting. «Bisogna saper fare quello che dovrebbe fare un editore e, anzi, provare a farlo meglio». […] nei libri fai-da-te non c’è alcuna garanzia di qualità: prendiamo i saggi, può essere pubblicata qualsiasi cosa senza che a monte vi sia stato un controllo sulle fonti, sui fatti o sulle note. 56 rs_gen13.indd 56 01/02/2013 16:21:04 Updike, il coniglio ha fatto blurb Raccolte in volume le fascette editoriali scritte dal grande romanziere americano: ne esce la mappa di un lettore onnivoro Jacopo Iacoboni, La Stampa, 24 gennaio 2013 Pochissimi giorni fa, partecipando alla presentazione di un documentario sulla sua carriera, Philip Roth ha attaccato «quei provinciali» della giuria del Nobel, che non hanno mai dato il premio allo scrittore fenomenale del Teatro di Sabbath e di Pastorale americana. Sono in buona compagnia, ha detto Roth, e per consolarsi ha citato solo altri quattro grandi esclusi. «Ho corso con cavalli molto veloci», ha detto, e ha fatto questo elenco di nomi: William Styron, E.L. Doctorow, John Updike e Joyce Carol Oates. «Ma il comitato del Nobel non è d’accordo con me. Ci giudicano provinciali. Provinciali saranno loro». Updike, suo collega di Pulitzer, non ha più tempo per prenderlo in vita, il Nobel, ma sicuramente rs_gen13.indd 57 quest’elenco di Roth descriverebbe abbastanza bene le predilezioni di Updike lettore, gli scrittori che ha amato, citato, elogiato, e quelli su cui ha fatto scendere un silenzio che può essere legittimamente interpretato come un giudizio, perlomeno una mancanza di interesse, se non una stroncatura. Esce in America un libro che aiuta in questo gioco, con quel tanto di arbitrarietà che tutti i giochi hanno: The Collected Blurbs of John Updike, giudizi e fascette scritte dal grande autore di Corri, coniglio ma anche grande recensore del New Yorker. E il libro – di cui ha scritto The American Reader – diventa una specie di passaggio attraverso cui guardare l’America letteraria, contemporanea ma non solo, 01/02/2013 16:21:04 e il resto del mondo. È un po’ come se si entrasse nell’officina di un grande consulente editoriale, un Calvino, per dire. E infatti Calvino è l’unico autore italiano di cui Updike si occupa, in particolare scrivendo, a proposito di Se una notte d’inverno un viaggiatore, che «Calvino seduce e intrattiene il lettore tra le maglie di uno schema puntato a frustrare ogni ragionevole aspettativa». Intendiamoci: nei blurb non possono apparire stroncature, ma elogi, o come minimo pure descrizioni del lavoro di un autore. Ma è chiaro che Updike si occupa di ciò che gli piace o almeno gli interessa. Dunque, conviene enunciare a naso qualche escluso, così, per capirci: Updike non parla della generazione dei Foster Wallace, dei Franzen, degli Eugenides. Glissa su mostri sacri come Don DeLillo e Thomas Pynchon, in definitiva la narrativa spezzata del postmoderno non sembra interessarlo poi più di tanto. C’è invece un filo di augusta classicità che tiene insieme le sue scelte – americane, sudamericane o anche europee. Per dire, vi si ritrovano Vargas Llosa e García Márquez. Con evoluzioni significative. Del primo si dice inizialmente «il più grande scrittore peruviano – e uno dei migliori al mondo» (per Il caporale Lituma sulle Ande); ma poi addirittura «con Storia di Mayta Vargas Llosa ha rimpiazzato García Márquez come narratore sudamericano con cui gli americani devono fare i conti». Un capitolo a sé meritano i nordamericani, contemporanei o no dello stesso Updike. Il quale ha amato tantissimo – e si vede, è una sua palese fonte di ispirazione anche dal punto di vista tecnico, nella scrittura – uno come John Cheever: dei suoi Racconti osserva che «molte persone hanno scritto dei sobborghi, ma solo Cheever è stato capace di farne un archetipo». Lo entusiasma, dal punto di vista della prosa, E.L. Doctorow, nella Marcia è «splendido… ci guida attraverso una moltitudine di momenti di meraviglia e pietà, terrore e commedia… con una compassione elegiaca e una prosa di un’economia e una rapidità scintillante». Di Norman Mailer sostiene che è «penetrante, fresco, fervido… Il suo gospel è scritto in un inglese fresco, rilassato, eppure ha una inquietante dignità biblica». L’apprezzamento per il suo amico Roth è probabilmente il più alto; parlando della Controvita, Updike spiega che «nessun altro scrittore combina una superficie di tale rilassatezza colloquiale col disvelamento di un carico così denso di intelligenza mediatrice… Roth non ha mai scritto più scrupolosamente o, per dirla in breve, con più amore». Giudizio che forse solo per l’Hemingway del Giardino dell’Eden è altrettanto secco e entusiastico: «Un miracolo, pura, fresca inclinazione verso l’antica magia». Updike ha una passione per certa letteratura femminile, di Margaret Atwood e del suo L’assassino cieco scrive che è «opulento… brillante… La Atwood è una poetessa e allo stesso tempo un’inventrice di fiction, e raramente una frase della sua prosa, veloce, asciutta eppure avida, fallisce nel suo scopo». Di Anne Tyler, Una donna diversa, assicura che «non è solamente buona, è estremamente buona». Ama Muriel Sparks. Ma non si lascia sfuggire i classici contemporanei. Il Borges di Sette notti fa dire a Updike che «ascoltando i suoi discorsi rilassati ma così espliciti, realizzi che non ci sarà mai più una mente e una memoria così saldamente fissate». Non gli sfugge il genio di Thomas Bernhard. Su Nabokov è illuminante, e in parte sta quasi parlando di sé, del suo modo di concepire la scrittura: se l’autore di Lolita «scrive prosa nell’unico modo in cui bisognerebbe scrivere, estaticamente», è anche quello che tentò di fare l’autore di Coniglio, riposa, il libro che valse il Pulitzer a Updike. Non c’è puzza sotto al naso, in questo divoratore di libri. Di Paura di volare (di Erica Jong) scrive che è «senza paura e fresco», di Graham Greene che «il suo capolavoro è Il potere e la gloria», si occupa di Arundhati Roy (Il dio delle piccole cose – «un libro di vera ambizione deve inventare un suo linguaggio, e questo ci riesce»), non si sottrae a un elogio di Mordecai Richler e della Versione di Barney, libro privo in America del risvolto modaiolo italiano. Cita e ama Alvaro Mutis (le avventure di Maqroll il gabbiere), cita Mo Yan, o Pamuk («Con Neve è il probabile candidato turco al Nobel»). L’elenco potrebbe continuare, come le assenze illustri di cui dicevamo. In definitiva, due aggettivi ricorrono per descrivere la scrittura che Updike ha amato: una strana combinazione di «relaxed» e «flamboyant». 58 rs_gen13.indd 58 01/02/2013 16:21:04 Lo scrittore riluttante. Permunian: «I libri sono il manicomio in cui vivo solo» Incontro con l’autore da anni ai margini della società letteraria di cui ora esce «Il gabinetto del dottor Kafka» Antonio Gnoli, la Repubblica, 24 gennaio 2013 Non so cosa ancora stia cercando. Ma qualunque cosa sia merita attenzione. È una considerazione istintiva che mi nasce mentre sono in macchina con Mario Dondero in direzione Desenzano dove ci aspetta lo scrittore Francesco Permunian di cui fino alla lettura, a tratti folgorante, del suo Il gabinetto del dottor Kafka, sapevo pochissimo. Con Mario — che è uno dei grandi fotografi italiani – c’eravamo visti a Bergamo la sera prima e davanti a un piatto di casoncelli gli ho parlato di una figura irregolare che per 35 anni è stata bibliotecario a Desenzano sul Garda, ha scritto vari romanzi e un paio di raccolte di poesie, una dedicata a Mario Giacomelli (altro grandissimo della fotografia). Un’immagine, esibita nel Gabinetto del dottor Kafka, ritrae Permunian accanto a Giacomelli. La foto fu scattata da Gianni Berengo Gardin nel 1995. A quel tempo, come si intuisce dalla foggia del gilet di pelle, Giacomelli amava girare ancora con l’Harley Davidson. E una sera, in sella alla moto cosparsa di borchie e frange, portò Permunian a vedere la sua morosa: una giovane e avvenente parrucchiera, con la quale, nella stanza di un albergo, consumava le sue furenti passioni. In quel vasto magma di storie in cui ribolle la provincia veneta, Permunian aveva stretto amicizia con Andrea Zanzotto: venerava il poeta, soccorrendo a volte l’uomo esposto come pochi alle malattie immaginarie. Poi ci fu lo scambio epistolare con António Lobo Antunes. Lo scrittore lusitano era stato per anni – come da noi Mario Tobino – primario in un ospedale psichiatrico. E Permunian – che al manicomio aveva rs_gen13.indd 59 dedicato una parte cospicua dei suoi interessi giovanili e, aggiungo, del suo dolore – si era trovato più volte nei suoi libri a riflettere sulla follia. A Dondero – sempre così affascinato dal grande circo umano – il racconto su quest’uomo di 62 anni prigioniero delle proprie nevrosi (e per questo mi sentirei di aggiungere tra i più liberi) era sembrato una piccola rappresentazione del teatro della crudeltà. Che è la 01/02/2013 16:21:04 stessa che ritroviamo nei suoi romanzi. E quando finalmente lo scrittore ci accoglie nella biblioteca civica di Desenzano, vediamo un signore alto, magro, con occhi piccoli. Due fessure intermittenti che sprizzano curiosità e a tratti sofferenza. Gli chiedo del suo lavoro di scrittore: «Il mio primo romanzo, Cronaca di un servo felice, uscì che ave- Essendo dunque la letteratura ridotta oggidì a un cesso a cielo aperto, mi sono detto, perché non dovrei costruirmi anch’io il mio personale cesso d’autore in cui coltivare in solitudine le mie nevrosi, i miei fantasmi? vo 48 anni. Ebbe ben 32 rifiuti editoriali, prima di trovare un piccolo editore che lo travestì da raccontino noir. Lo lesse Maria Corti che se ne entusiasmò. Lo lesse l’editor Benedetta Centovalli che mi propose di pubblicare per Rizzoli. E furono altri due libri. Ma il grande editore ti chiede l’ovetto letterario e io non riesco a scodellarlo a comando. Il grande editore vuole la storia forte, la trama avvincente: un inizio e una fine. I miei libri sono più degli zibaldoni. C’è dentro tutto: l’invettiva, il sogno, la vita e le immagini». Permunian è veneto. «Sono nato nel Polesine, in una zona poverissima, da genitori analfabeti e fin dall’inizio ho portato con me le stigma dell’esclusione sociale e intellettuale». Parla con cadenza veneta. E scrive da veneto. Scrive, come avrebbe detto Guido Piovene, con quegli affanni psichici che oscillano tra narcisismo e masochismo. È un affascinante animale di provincia. Mentre ci conduce al ristorante, Dondero – con i suoi 83 anni – gli saltella intorno agile e felice. In questa giornata fredda, piovosa e triste con quel lago che, a pochi metri, incombe come un enorme psicofarmaco – Mario gli scarica il rullino della sua vecchia Leica. «Qui agli inizi del Novecento», dice Permunian indicando il Garda, «arrivavano gli scrittori della Mitteleuropa. Venivano per curarsi. Vi giunse anche Franz Kafka. Scese alla stazione di Desenzano, come racconta W.G. Sebald in Vertigine ». E Il gabinetto del dottor Kafka più che alludere alle laboriose occupazioni letterarie di Kafka, in realtà designa l’orinatoio alla turca della stazione di Desenzano, dove lo scrittore praghese fece una rapida sosta. Lasciando sulla parete, così immagina Sebald, un piccolo graffito. Forse il titolo di un racconto incompiuto: che nacque lì, tra le anonime pareti di un cesso. Ed è questa la ragione che ha spinto Permunian a eleggere il gabinetto della stazione di Desenzano – sulle cui panchine in alcune notti di insonnia ancora va a dormire – a simbolo della nostra attuale cultura: «Essendo dunque la letteratura ridotta oggidì a un cesso a cielo aperto, mi sono detto, perché non dovrei costruirmi anch’io il mio personale cesso d’autore in cui coltivare in solitudine le mie nevrosi, i miei fantasmi?». Dondero è strabiliato da tanta candida avversione al mondo e dall’archivio della sua memoria prodigiosa tira fuori un incontro avvenuto al bar Giamaica nei primi anni Cinquanta con Bianciardi e di quella volta che Luciano gli parlò delle prime scritte sulle pareti delle latrine: frasi di un’oscena e clandestina letteratura minore che avrebbero potuto gareggiare, senza sfigurare, con il neorealismo allora incombente. Un libro dovrebbe bastare a sé stesso. Ma non succede quasi mai. Non succede soprattutto quando l’autore continua a tormentarsi con il proprio passato, ad ascoltarne le voci: «A volte penso che tutte le figure di bambole che creo, quegli automi che ci sono soprattutto in La casa del sollievo mentale, che è poi il manicomio di Brusegana, surrogano un’assenza. Sono i morti, i revenant con i quali convivo», mi dice quasi sussurrando le parole. E non c’è niente di patetico in questa confessione che per un attimo sospende i discorsi a mezz’aria. E mi fa pensare che uno scrittore ha sempre una patria e che proprio il manicomio sia il luogo segreto da cui Permunian è partito: «Per quasi dieci anni sono rimasto ospedalizzato in quel luogo, redigendo e catalogando le schede degli altri pazienti. E non riuscivo a fare a meno di quel posto che mi proteggeva. Fu mia moglie a 60 rs_gen13.indd 60 01/02/2013 16:21:04 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 tirarmi fuori e a dirmi: Francesco, stai buttando la tua vita o quello che ne resta». Poi la moglie morì per un attacco di cuore e Permunian restò solo a badare a una figlia piccola, al suo lavoro di bibliotecario e ai suoi sogni di scrittore. E a distanza di trent’anni pensa ancora a quella donna nella glaciale immortalità che hanno certi ricordi che continuano a far male. La sofferenza psichica è una bestia ormai addomesticata: «Passo parte dei miei giorni e delle mie notti a scrivere. Sono diventato uno scrivano della follia. Roberto Roversi mi avvertì: la follia va costeggiata, ma attento a non finirci dentro. E ho imparato a non esserne risucchiato. Anche se l’immagine del manicomio è in me sempre presente: come una falla nella stiva della normalità; come un dolore antico che si presenta sotto forma di voragine. A volte la chiamano pazzia, a volte fuga dalla realtà. Però il mio terrore è farne una macchietta, passare per lo strambo di provincia. In letteratura non serve il pittoresco. Servono lucidità e rigore». Ho trascorso alcune ore ad ascoltare il resoconto di un’esistenza volatile e drammatica. Che possiede la dignità del rischio. E nell’edificio mentale dello scrittore si sono alternate le figure della sua vita: quelle che conobbero bene il luogo di contenzione, come Amelia Rosselli e Alda Merini che furono sue grandi amiche. O Zanzotto al quale inviava le sue poesie: «Questa non chiude, quest’altra ha troppa fuffa e balla. Non puoi scrivere con le lacrime, mi diceva». O Sergio Quinzio, il grande ed eretico biblista, che morì «quando il cuore gli si ingrossò fino a diventare quello di un bue». Permunian ha in programma di tornare a visitare il Sanatorium von Hartungen, in quella casa di cura «dove Kafka si illuse di trovare quella salute che non ebbe mai». E l’illusione governa i nostri sogni di guarigione e il difficile confronto con la malattia. Dice di essere passato direttamente dall’infanzia alla vecchiaia e di avere per lo più ignorato, nei suoi libri almeno, l’età della ragione. Dice che il lirico si è accartocciato nel grottesco. E rivela di avere ancora un romanzo da scrivere. Sono 13 anni che vi lavora e si chiamerà: L’ultima favola. Ultima anche perché, confessa, non avrà più nulla da aggiungere. 61 rs_gen13.indd 61 01/02/2013 16:21:04 Come reinventare il libraio Trasversale, interattivo, un po’ tecnologico e intrattenitore | Emilia Costantini, Corriere della Sera, 25 gennaio 2013 Librerie che chiudono? Librai disoccupati? Al contrario di quanto si pensa, la buona notizia è che, grazie a un’efficace e profonda trasformazione, alla diversificazione nei prodotti da vendere, all’integrazione con gli strumenti delle nuove tecnologie, le librerie non sono destinate a morire ma, in buona parte, tendono a modificarsi, adeguandosi ai nuovi linguaggi. La cattiva notizia è che non si conoscono ancora i tempi di tale trasformazione che, a causa della grave crisi economica, si potrebbero allungare. I trent’anni della Scuola per librai di Venezia, intitolata a Umberto e Elisabetta Mauri, si festeggiano all’insegna di un prudente ottimismo che ha permeato i sei giorni di seminario alla Fondazione Cirri, conclusi dagli interventi di Umberto Eco e della scrittrice spagnola Clara Sanchez. Cinque i temi posti sul tavolo del confronto per quanto riguarda il mestiere del libraio oggi: l’assortimento dell’offerta nelle librerie; il valore del servizio, dunque la competenza specifica degli operatori; l’importanza del marketing e cioè gli strumenti per attirare il pubblico; le risorse umane nella gestione delle librerie; e la distribuzione del prodotto librario, anche digitale. La parola d’ordine trasversale a quasi tutti gli interventi è stata «reinvenzione». Nelle analisi di Gian Arturo Ferrari (presidente del Centro per il libro e la lettura) e di Edoardo Scioscia (amministratore del gruppo Libraccio) si è più volte sottolineato che non si può continuare a pensare allo spazio delle librerie in senso tradizionale, ma occorre reinventare la professionalità dei librai. Le librerie che non vogliono chiudere, ma anzi addirittura ingrandirsi, non possono vendere solo libri, ma tutte le novità interattive e tecnologiche, dai tablet agli ereader. Devono proporsi come luoghi di incontro conviviale, dove consumare anche inedite proposte alimentari, fa osservare rs_gen13.indd 62 Oscar Farinetti, fondatore di Eataly. Insomma, luoghi dove il lettore-consumatore può trascorrere del tempo di «qualità superiore». La reinvenzione degli spazi, però, deve fare comunque i conti con la contrazione dei consumi e l’impoverimento delle risorse. E se da un lato l’ebook non viene più considerato lo spauracchio di scrittori e librai, è pure vero che la gente in Italia continua a leggere troppo poco. È categorico Achille Mauri presidente della Scuola omonima e di Messaggerie italiane: «La vera crisi sta nell’ignoranza degli italiani, che non leggono più neanche i bugiardini delle medicine! Peggio per loro, perché leggere allena il cervello e ritarda l’invecchiamento». Si comprano meno libri (la flessione è dell’8 percento circa), ma paradossalmente Stefano Mauri (amministratore delegato Gems) sostiene che i frequentatori dei book-store acquistano un maggior numero di strumenti che servono anche, ma non solo, alla lettura. «In ogni caso» commenta ancora Achille Mauri «sfido chiunque a entrare in una libreria e a non acquistare neanche un libro cartaceo! L’avvento del digitale poi è un’opportunità di forte crescita. Non va visto come un concorrente, ma sfruttato come valido alleato anche per la pubblicizzazione e la promozione del libro. Un po’ come sono state le rotelle messe alle valigie: sarà pure sparita la figura del facchino, ma non sono sparite le valigie, solo che adesso ce le portiamo da soli». Quale orizzonte dunque si profila? «Non bisogna avere paura» è fiducioso il presidente della Scuola di Venezia «bisogna guardare con ottimismo ai cambiamenti per uscire dal tunnel». Ma Rodrigo Dias, presidente della Scuola di formazione librai di Roma, conclude: «Di fronte a un pessimismo della realtà che è innegabile, ci vuole un forte ottimismo della volontà». 01/02/2013 16:21:04 Sellerio dopo Sellerio Tre romanzi in classifica, il boom degli eredi Eleonora Lombardo, la Repubblica Palermo, 26 gennaio 2013 Un’investigazione all’inglese da risolvere con attenta deduzione ambientata a Montesodi Marittimo, paesino della Toscana. Il commissario Montalbano festeggia il cinquantottesimo compleanno con una serie di crimini uno più efferato dell’altro. Petra Delicado si trova a investigare in Italia, nella città eterna. Questa la sintesi minima rispettivamente del romanzo Milioni di milioni di Marco Malvaldi, Una voce di notte di Andrea Camilleri e Gli onori di casa di Alicia Gimènez-Bartlett. Tre gialli, tre edizioni Sellerio, tre titoli nella classifica dei più venduti, Malvaldi e Camilleri da ottobre e la Bartlett subito, non appena uscita è già alla terza settimana assestata al secondo posto per la narrativa straniera. Non si tratta di coincidenze, ma del lavoro scrupoloso e sentito della casa editrice palermitana, affermazione di una genealogia di razza che testimonia come per i libri di qualità i lettori non mancano, senza bisogno di ebook e di app. A due anni dalla scomparsa di Elvira, a uno da quella di Enzo, fondatori della Sellerio, la tradizione continua, ma il successo non è più solo Camilleri quanto una serie di scelte azzeccate. «Il nostro lavoro è quello di cercare dei libri curati e non pensati in base a quello che possa o non possa andare» dice Antonio Sellerio commentando il successo consolidato di Camilleri e quello più recente di Malvaldi «i lettori ci danno numerosi feedback. È stato accolto bene Malvaldi perché scrive in modo molto coinvolgente, intelligente e allo stesso tempo semplice. Le sue doti sono state individuate e riconosciute in casa editrice, i commenti dei lettori che rs_gen13.indd 63 arrivano da più parti sono una conferma», continua Sellerio. Se da un lato le nuove tecnologie insidiano il libro di carta, consentono circuiti paralleli che affiancano e supportano l’editoria tradizionale. Non ci si accontenta più di andare fisicamente alle presentazioni dei libri per esprimere la propria opinione sulla storia e sull’autore: il lettore contemporaneo usa i social network o i blog per esprimere le sue preferenze. «Difficile fare il ritratto del lettore oggi, ciò che prima era un parametro fondamentale non conta più perché la tecnologia ormai è alla portata di tutti», spiega Sellerio. Tre titoli in classifica vuol dire sicuramente vendere di più, segnare una piccola risalita in un momento in cui non si può dire che il mercato del libro goda di ottima salute, anzi «il momento è durissimo, nel 2012 si è registrato un calo del 15 percento rispetto a una situazione sicuramente non ricca», ammette l’editore. Ma una casa editrice indipendente, da situazioni come questa, in cui alla verifica del lettore si registrano conferme solide e prolungate nel tempo, trae la possibilità di andare avanti, ovvero cercare e scommettere su nuovi autori, in un momento in cui il terrore di sbagliare, di uscire dal seminato di nomi sicuri, rappresenta davvero un azzardo. «I nomi nuovi» dice Sellerio «li cerchiamo. È questo il nostro lavoro e cerchiamo di farlo nel modo migliore. Cerchiamo anche esordienti siciliani, ma se poi un buon manoscritto mi arriva dal Trentino tanto meglio. La ricerca di un nuovo autore non segue 01/02/2013 16:21:04 criteri scientifici, e cerchiamo davvero di preservare una linea editoriale indipendente che non si lasci influenzare dalle tendenze. Per esempio, per ora tutti cavalcano l’onda del libro erotico, noi no». E i gialli, cavalli di battaglia della casa editrice? «Ecco, se dovessi pensare al romanzo che vorrei sulla scrivania domani, forse preferirei che non fosse un giallo, ma, anche qui, se si trattasse di un buon giallo con la sua precisa identità e scritto bene, non mi tirerei indietro». Lo prova il successo a natale della raccolta di racconti Capodanno in giallo nella quale sono stati riuniti i più famosi giallisti della casa editrice, oltre a Camilleri e Malvaldi, Esmahan Aykol, Gian Mauro Costa, Antonio Manzini e Francesco Recami. Ma la presenza costante nelle classifiche dei libri se da un lato pone in una condizione di maggiore comfort, dall’altro implica la responsabilità di avere gli occhi dell’intera filiera puntati addosso. «Non vuol dire solo vendere di più, ma anche avere più attenzione. Da parte dei librai, per esempio, che ti guardano più favorevolmente e che magari ti accordano maggiore fiducia se gli proponi delle novità. Le piccole librerie, in questo clima di terrore economico, sono paralizzate dal timore di fare nuovi investimenti e cercano un minimo di garanzia. Ecco, la classifica, la solidità delle vendite ci consente, in questo momento difficile, di avere energia per lanciare cose nuove e di dare fiducia a chi decide di sceglierci». Anche se Antonio Sellerio ci tiene a precisare che la sua casa editrice mantiene strenuamente l’identità costruita nel tempo dalla storia della sua famiglia, anche se Camilleri è un cavallo di battaglia da circa quindici anni, è innegabile che il successo recente è anche il successo della sua generazione, delle sue scelte prese in condivisione con la sorella Olivia, presidente della casa editrice: «Continuiamo a fare libri e a farli bene, cercando di seguirli con cura. Consapevoli che non se ne possono dare alla luce tanti, altrimenti non riusciremmo ad accompagnarli nelle vane fasi con l’attenzione e il lavoro che meritano. Diciamo che ci sottraiamo alla “tecnica dei girini” a cui tanti si affidano: lanciarne sul mercato tanti, quelli che sopravvivono bene e per gli altri amen». 64 rs_gen13.indd 64 01/02/2013 16:21:04 Chi ha paura di un capolavoro Perché è giusto difendere il «salto Fosbury verso l’inaudito» Stefano Montefiori, La Lettura del Corriere della Sera, 27 gennaio 2013 Charles Dantzig è un affermato scrittore e editore francese che a 51 anni ha deciso di dedicare un erudito saggio all’idea di capolavoro. Per difenderlo, innanzitutto. «Viviamo nella società dello sforzo che ci chiede di eccellere in ogni occasione. Dobbiamo sforzarci di essere sempre competitivi sul lavoro, diventare imprenditori, fondare una famiglia, comprare una seconda casa, fare bungee jumping durante le vacanze e venerare i campioni dello sport che visibilmente si sforzano tantissimo. Solo in letteratura lo sforzo è visto con sospetto: la mancanza di stile è rivendicata, invece che giudicata per quel che è, cioè pigrizia o assenza di talento». In omaggio alla nozione di capolavoro, di quel «Fosbury verso l’inesplorato quando per anni si era saltato a forbice», Dantzig si è messo a studiarlo per scoprire che nessuno, o quasi, lo aveva fatto prima. «Immaginavo esistesse una bibliografia sterminata sul concetto di capolavoro, invece niente. Neanche un titolo in lingua francese né in inglese, e credo lo stesso nel resto d’Europa. Si rende conto?». Dantzig è ancora stupito, mentre ne parla davanti a un succo di pompelmo in un caffè parigino. Eppure «capolavoro» esiste in tutti gli idiomi. Chef-d’oeuvre, obra maestra, obra prima, masterpiece, Meisterwerk, aristouryima o shedevr («importato nel russo dal francese, come un vestito da Parigi nel Settecento»), e così via. Come si spiega, prima di A propos des chefs-d’oeuvre (Grasset, pp. 276, euro 19,80), questa riluttanza a indagare su che cosa sia un capolavoro? «Perché viene trattato come un mistero della fede, e le persone hanno bisogno di sacro. La parola nasce intorno al rs_gen13.indd 65 1200 tra gli artigiani, e il primo a usarla in letteratura, che io sappia, è Voltaire in Il secolo di Luigi XIV (1752): “Si giudica un grand’uomo dai suoi capolavori, non dagli sbagli”. Ma dopo 250 anni, ancora non osiamo dare una definizione di che cos’è un capolavoro». Dantzig ci prova, alla fine di un libro che è un viaggio divertito tra secoli di libri e scrittori: «Il capolavoro letterario è un libro eccezionale che crea il suo proprio criterio e che non si può giudicare se non tramite sé stesso. Espressione la più audace possibile di una personalità, ogni capolavoro è unico. Niente attiene al capolavoro se non la forma di quel capolavoro. Il capolavoro è la creazione più esaltante dell’umanità». «È solo una proposta, un punto di partenza», dice Dantzig, che per 270 pagine cerca di illustrare il capolavoro partendo da esempi concreti. Come Teorema di Pier Paolo Pasolini. «Un capolavoro in molti casi non è perfetto. Pasolini ha avuto l’idea di scrivere una specie di romanzo muto in cui nessuno parla, non ci sono dialoghi, dà questa sensazione di affresco rinascimentale. Ma in due occasioni dimentica il progetto e fa parlare i suoi personaggi, due sbavature che tolgono il capolavoro da quel sacro piedistallo su cui viene a torto innalzato e lo rendono umano, accessibile, meraviglioso». Poi ci sono i capolavori presunti, come Don Chisciotte di Cervantes, «che nessuno legge», e che è considerato un capolavoro spesso per le ragioni sbagliate: «Non è un romanzo picaresco, ma una critica dei romanzi cavallereschi e un’analisi dei pericoli 01/02/2013 16:21:05 della lettura sulle menti fragili, intuizione che influenzerà Flaubert nella scrittura di Madame Bovary, sorta di Doña Quichotte». E i capolavori negati «soprattutto in ambito accademico, perché tanti studiosi e docenti, soprattutto in Francia, Germania e Italia, meno in Inghilterra, guardano ai capolavori con sufficienza, non amano appassionarsi all’opera La contestazione della nozione stessa di capolavoro fa molto Europa occidentale, e va di pari passo con l’idea che la nostra civiltà sia al crepuscolo. Tutti pronti a dire che il romanzo è morto, la letteratura è morta, eccetera. Sciocchezze. di un ingegno che non sia il loro. La contestazione della nozione stessa di capolavoro fa molto Europa occidentale, e va di pari passo con l’idea che la nostra civiltà sia al crepuscolo. Tutti pronti a dire che il romanzo è morto, la letteratura è morta, eccetera. Sciocchezze». Tra le parti più interessanti del lavoro di Dantzig c’è la tirata contro la «moda Céline» e i suoi appassionati difensori. «I lettori incolti si inventano dei capolavori inesistenti. A 40, 50 anni, dopo terribili studi di commercio e vent’anni di schiavitù e schiavismo in un’azienda, si lasciano affascinare durante i 15 giorni di vacanza da un libro celebre, chiassoso e impertinente. Tornano a Parigi e durante un consiglio di amministrazione buttano lì: “In Viaggio al termine della notte, Louis-Ferdinand Céline… Conoscete Céline?”. La gloria esclusivamente francese di questo romanzo è l’impostura letteraria di un paese provinciale e politicamente malato, che non si rassegna di avere perduto la guerra dopo che De Gaulle gli ha fatto credere di averla vinta. Céline è la passione di chi ha letto molto poco. Non per niente è adorato dal nostro ex presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy». E da uno dei più celebri e amati attori teatrali e di cinema francesi, Fabrice Luchini. «Ma il danno che Fabrice Luchini ha fatto alla letteratura francese negli ultimi 15 anni è considerevole. Luchini è un istrione, un Alberto Sordi senza il genio di Alberto Sordi. Luchini ha accreditato la tesi che Céline, come dice lui stesso, abbia inventato uno stile, quei punti di sospensione con il punto esclamativo, ma è falso: Céline li ha copiati dal poeta Jules Laforgue, lui sì autore del capolavoro Les moralités legendaires». Il viaggio di Charles Dantzig tra i capolavori prevede innamoramenti e stroncature ma – come è evidente dalla sua definizione – è impossibile stabilire un parametro univoco e oggettivo. Esiste un canone del capolavoro letterario e – tranne Viaggio al termine della notte – le opere che ne fanno parte generalmente non sono abusive, concede lo scrittore. L’Edipo a Colono di Sofocle, il Decameron di Boccaccio, il Riccardo III di Shakespeare, Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust sono difficili da contestare, e si potrebbe dire che il capolavoro letterario «è un grande libro verso il quale non esistono più obiezioni». Ma non basta, anzi, il consenso è un rischio. Il capolavoro rischia di diventare un anziano che si assopisce nella venerazione che si ha di lui. Preso nella ragnatela di note a piè di pagina e impiombato dalle citazioni, sempre le stesse, fatte da persone «che non l’hanno letto ma citano persone che citavano prima di loro», il capolavoro si annoia a morte, piazzato negli scaffali delle «biblioteche ideali». Finché un insolente ragazzino rompe la ragnatela, libera l’anziano e lo porta a giocare con sé mentre i vecchi continuano a guardare gli scaffali. Il libro di Dantzig, alla fine, è soprattutto un invito alla lettura indipendente, perché «il buon lettore è l’essere meno religioso del mondo», ed è solo tramite una lettura vera e sana e perennemente critica che i capolavori possono essere salvati. «La nozione di capolavoro è fondamentale, è necessaria alla sopravvivenza stessa della letteratura», dice Dantzig. I capolavori, male che vada, corrono il rischio di impolverarsi nelle librerie e di rappresentare la Porsche del ceto medio riflessivo, il santino da esibire o da riguardare ogni tanto per sentirsi a posto, rassicurati. Ma allo stesso tempo sono un baluardo contro la volgarità, «perché 66 rs_gen13.indd 66 01/02/2013 16:21:05 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 quelli che pensano solo ai soldi, quelli che osservano con sguardo di sufficienza chi legge un libro sul bus o in metro, sono intimiditi dal concetto di capolavoro. Non sanno bene che cosa sia ma sono restii ad attaccarlo. Le persone volgari sono intimidite dal capolavoro e questo è un bene». Dantzig esita a citare autori contemporanei, «per non sfavorirli. Se avessi scritto questo libro all’epoca di Chateaubriand, lo avrei probabilmente giudicato un autoremedio, prima del grandissimo e finale Le memorie dell’oltretomba». Tra i libri di solito non presenti nel canone dei capolavori, ma che invece Dantzig tiene a ricordare come tra i suoi preferiti, c’è De reditu suo di Rutilius Namatianus, «un funzionario dell’impero romano che viveva in Gallia, e che un giorno va nella capitale. Il libro è il racconto, scritto benissimo, del suo ritorno in Gallia. Rutilius Namatianus vede le prime devastazioni dei barbari, ma le scambia per l’opera casuale di banditi. Lui non lo sa, ma ci racconta il crollo dell’impero romano». Sempre fuori dal canone c’è poi il misconosciuto Horn di Louis Lerne, raro caso di autore contemporaneo. «Ma vorrei citare anche Caos Calmo di Sandro Veronesi» aggiunge Dantzig. «In particolare le prime 40 pagine, quelle che raccontano lo sventato annegamento, sono eccezionali. Il resto è discontinuo, ma come dicevo prima la perfezione non è necessaria». Nella lista dei «capolavori veri» c’è soprattutto, inevitabile, Alla ricerca del tempo perduto, opera anche questa baciata da un’imperfezione. «È la celebre frase, verso la fine, in cui Proust sostiene che la letteratura è l’unica vita che valga la pena di essere vissuta. Io non sono d’accordo, la letteratura per me è il migliore strumento per vivere bene, è un’arma al servizio della vita vera». Poco spazio è dato a Philip Roth, il re degli scrittori contemporanei. «Tra i capolavori metterei solo il Lamento di Portnoy, gli altri suoi libri li trovo troppo altalenanti». Il capolavoro secondo Dantzig non prevede l’uso di troppi dialoghi, «come per esempio in Libertà di Jonathan Franzen, con quelle centinaia di pagine di botta e risposta irritanti. Trovo che i dialoghi non andrebbero usati per fare avanzare la storia, per dare informazioni, ma per suggerire al lettore la psicologia del personaggio. In questa abitudine di oggi vedo l’insidiosa influenza delle serie tv». Abbiamo a che fare con un pericoloso letterato che non apprezza la grandezza di West Wing o Homeland o Borgen? «Al contrario, sono un grande fan delle serie tv. Non sono sicuro però che la trasposizione di quel procedimento in letteratura possa funzionare». Il libretto di istruzioni per scrivere un capolavoro, naturalmente, non esiste. Ci sono però atteggiamenti che, secondo Dantzig, ne allontanano la possibilità. Il compiacimento un po’ alla Marguerite Duras di Elsa Morante nell’Isola di Arturo. La pretesa di rappresentare un’epoca, «quando invece il capolavoro non è rappresentativo che di sé stesso». E poi, la minaccia suprema, il realismo. Lo praticano certi scrittori lasciando intendere che solo loro sono esatti e seri, «ma è una forma di ricatto, un tirare arbitrariamente dalla propria parte la realtà: non esistono capolavori impersonali». Una cosa, soprattutto, Dantzig si aspetta da un capolavoro: che trasformi il lettore stesso in capolavoro. Un buon romanzo siamo in grado di domarlo. Un capolavoro si impadronisce di noi. «Quando leggo Proust, io sono Proust». Le persone volgari sono intimidite dal capolavoro e questo è un bene. 67 rs_gen13.indd 67 01/02/2013 16:21:05 Gatti, operai e De Filippi. Così nasce un romanzo Emozioni, immagini, nevrosi. Dubbi e difficolta. Poi il risultato finale. Come gli scrittori trovano le idee per le loro opere. Obiettivo: dare un contorno preciso a qualcosa che, prima delle loro parole, non ce l’ha Caterina Bonvicini, il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2013 Quando studiavo storia dell’arte e frequentavo pittori, ho imparato una cosa: che l’opera di un artista si capisce fino in fondo quando si visita il suo studio. Solo lì, in mezzo a tele buttate per terra, disegni sparsi su un tavolo, colori e materiali che hanno una loro fisicità, e perfino un odore, puoi dire di conoscere il lavoro di qualcuno. Lo studio di uno scrittore è nella sua testa. L’impatto con il luogo è meno immediato, ma la sua officina è più accessibile: basta farsela raccontare. E se raccogli alcune voci, ti accorgi che i romanzi nascono e crescono in modi molto diversi. C’è chi parte dal titolo, come Marcello Fois. «Il titolo è una specie di bacchetta del rabdomante, capisco che sotto c’è l’acqua», dice. «Io scrivo mentalmente e archivio tutto in testa, per me non esistono appunti. Quando ho il titolo giusto, mi siedo e scrivo. Questo è il motivo per cui scrivo un sacco di cose contemporaneamente. A volte ho due titoli giusti, quindi due romanzi. Quando cambio titolo, cambio anche romanzo. È successo per Memoria del vuoto, che prima si chiamava Simile a un dolore». Chi parte da un’idea narrativa, come Alberto Garlini, che ha una visione aristotelica del processo creativo e fa iniziare tutto da «un’azione da cui nasce un conflitto. I romanzi sono come delle macchine. La carrozzeria è fatta dai personaggi e dall’azione, il motore è il nodo narrativo, cioè una situazione conflittuale di cui dobbiamo seguire gli esiti». E chi da una fissazione, da un inspiegabile interesse per qualcosa, come Mauro Covacich, che racconta: «Avevo una passione per i maghi, li guardavo per ore in tv (ho ancora rs_gen13.indd 68 quattro vhs da 240) e poi li sbobinavo provandone le voci, riversando tutto quel materiale in tre potenziali personaggi. Sono andato avanti così per circa un anno, annaspando nella frustrazione più totale. Poi un giorno ho alzato la testa dal computer e ho visto sotto casa un tizio alto due metri che svuotava i pozzetti per conto di una ditta di autospurgo. Era il protagonista della mia storia (L’esperimento, in uscita a marzo per Einaudi), l’ho capito subito: un operaio solitario, gigantesco, risucchiato nelle trasmissioni di astrologia». Prime righe da un’immagine E chi invece comincia da un’immagine, come Simona Vinci: «Ogni romanzo che ho scritto, ogni storia che ho raccontato, ha una genesi diversa però forse, la cosa che mi è capitata più spesso è la persistenza di un’immagine attorno alla quale, come un minuscolo granello di sabbia, si è generata la conchiglia». Idem per Sandra Petrignani: «Anch’io parto da un’immagine, sempre. Per esempio in Poche storie, lessi la notizia di una madre che aveva investito il figlio per sbaglio. Quello che mi scatta nella testa è l’immagine: una madre che sta facendo retromarcia e il bambino che aspetta di salire, dietro la macchina. Persino quando mi occupo delle vite degli altri, parto da lì. Adesso sto scrivendo sulla Duras e tutto nasce dall’immagine di un rapporto violento fra madre e figlia». Lo stesso vale per Teresa Ciabatti, anche se l’immagine si riduce a un particolare: «In genere parto da un personaggio, da una sua ossessione o caratteristica, da un piccolo dettaglio. Per 01/02/2013 16:21:05 La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013 questo romanzo (Il mio paradiso è deserto, in uscita a marzo per Rizzoli) sono partita da un’ombra: dopo la gravidanza ero molto ingrassata, non mi guardavo più allo specchio da un anno. Un giorno camminando per strada è comparsa sotto i miei piedi un’ombra immensa. Ci ho messo un po’ a capire che ero io. Da qui è nata Marta Bonifazi, un’obesa che non esce di casa da anni e che non si guarda allo specchio». O per Evelina Santangelo: «Le mie storie nascono spesso da un’immagine o una circostanza che mi colpiscono perché mi suscitano idee, intuizioni, altre circostanze o altre immagini particolarmente significative al punto che, lavorando di immaginazione, a poco a poco, ci scorgo un pezzo d’umanità, di società o di vita». Le donne sono più visive? Chissà. In ogni caso questo non è un sondaggio. Si parla di cose non misurabili, per fortuna. Come i sentimenti. Molti scrittori partono proprio da lì: da un’emozione, da un turbamento, da un ossessione, da qualcosa che non ha contorni precisi. E scrivono proprio per questo: per dare un contorno preciso a qualcosa che, prima delle loro parole, non ce l’ha. Lo spiega bene Nicola Lagioia: «Per quanto sia uno scrittore abbastanza metodico (scrivo ogni giorno, per almeno 5 o 6 ore) mi rendo conto che ogni mio libro nasce da momenti di forte irrazionalità. Iniziai a scrivere Occidente per principianti dopo un lungo viaggio a base di psilocibina, Riportando tutto a casa dopo un litigio violento con una cara amica. Il romanzo con cui sono alle prese da un anno e mezzo l’ho cominciato dopo un incubo avuto dormendo con mia moglie, in una casa al mare, una notte d’estate di qualche anno fa. Era uno di quei sogni che spalancano porte». Così a Valeria Parrella, per lei le storie nascono «dal dispiacere, dalla disillusione, dalla rabbia, dal rancore, dalla pietà, dalla commozione. Da un sentimento forte e doloroso che mi muove: questo movimento diventa la scrittura». E a Lidia Ravera, che però lega questi sentimenti al senso del tempo che li percorre: «I miei romanzi nascono da un’ossessione, dagli urti della vita, da un disagio profondo. Ogni stagione della vita è come un paese che cambi, il paese che vai ad abitare è l’età che attraversi. Questa stagionalità è un tempo non reversibile, da lì il dramma. Quando trovo la metafora attraverso cui riesco a centrare il bersaglio della mia angoscia, mi nasce in testa il personaggio che se ne farà carico. Il personaggio mi consente la distanza. La genesi nasce dal coinvolgimento e i personaggi sono la garanzia del distacco. Il romanzo, nel suo farsi, è un percorso di allontanamento da quell’angoscia». Esigenza di capire Molto diverso è il modo di procedere di autori come Siti o Starnone o Vasta. Per loro la letteratura nasce da una domanda, da un dubbio, dal bisogno di capire. Ha un carattere interrogativo. «In genere parto dal bisogno di chiarire a me stesso qualcosa (un odio, un’attrazione, la fascinazione per la merce, il finto che sembra vero)», racconta Walter Siti, «su quel bisogno di capire fabbrico un canovaccio, i personaggi vengono dopo. Ma prima ancora di partire riempio qualche quaderno di frasi che mi sono venute incontro in sogno o per strada; sono l’aria del tempo, da cui non posso prescindere». «A pensarci non ho mai scritto niente che non muova da un piccolo evento grezzo», dice Domenico Starnone, che ha affrontato il tema della genesi anche nel suo ultimo romanzo, Autobiografia Un giorno camminando per strada è comparsa sotto i miei piedi un’ombra immensa. Ci ho messo un po’ a capire che ero io. Da qui è nata Marta Bonifazi, un’obesa che non esce di casa da anni e che non si guarda allo specchio. erotica di Aristide Gambia. «Non un sentimento, non un’immagine, non una parola emozionata, ma un accadimento. Non è successo mai che mi sia accorto subito delle sue potenzialità. C’è voluto tempo, quasi sempre anni. Funziona così: il piccolo fatto resta lì nella memoria, di tanto in tanto si ripresenta 69 rs_gen13.indd 69 01/02/2013 16:21:05 ma non lo stesso: si modifica, si dilata, attrae altri materiali sparsi, mostra una sua forza catalizzatrice. Finché si presenta in una forma straordinariamente sintetica, una frase attraente, un incipit. Comincio da lì, poi ci ripenso, poi ci ritorno su. A volte lascio perdere, cerco altre vie di accesso. È la fase difficile dello scrivere, può durare un mucchio di tempo e non portare da nessuna parte. Poi, se va bene, succede che tutto comincia a funzionare. La scrittura che pareva un inutile e faticoso esercizio comincia a quadrare. I materiali che hai accumulato mostrano connessioni inevitabili. La scrittura comincia a correre, le giornate volano con piacere». In questa linea, può inserirsi anche Giorgio Vasta che considera «l’immaginazione narrativa uno strumento di ricapitolazione di una tranche della propria vita». «Si tratta di prendere atto di quelle che sono le proprie fissazioni», spiega. «All’inizio queste ossessioni possono apparire diverse fra loro, poi ti accorgi che c’è un denominatore comune e trovi un angolo visuale che mette in prospettiva questi pezzi eterogenei, e dà una possibilità di significazione. I discorsi sul tema intervengono dopo, a posteriori, ma è solo un problema di comunicazione del libro, quindi dell’ufficio stampa, non mio». In tutto questo, nell’officina dello scrittore che succede? Quali piccole nevrosi rendono grandi i romanzi che leggiamo? Quali sono i tormenti che un elegante libro stampato nasconde? Quanta energia quotidiana, quanta ostinazione, quanta fatica servono per non farci capire che dietro alla scrittura c’è energia, ostinazione e fatica? Guardiamoli un po’ così, mentre lavorano. Chiamiamoli per nome, adesso. Come amici di cui si conoscono i tic, le abitudini, le manie. Marcello che non riesce a scrivere nel silenzio e deve sempre avere intorno qualcuno, tanto che, quando è solo, accende la televisione su programmi di cucina, così sente «spentolare» nella stanza accanto. Nicola che lavora con il gatto addormentato sulla spalliera della poltrona («È incredibile come il gatto non abbia saltato mai un giorno di questo rituale»). Lidia che è capace di scrivere in mezzo a dieci persone che chiacchierano, ma solo sul suo Mac («E quando ne devo comprare uno nuovo, lo cerco il più possibile uguale al precedente»). Sandra che litiga con gli aggettivi. Alberto che inventa solo di mattina («Partire la mattina vuol dire partire senza pensieri, dopo le due non riesco»). Teresa che si concentra solo mentre ascolta programmi trash in tivù («De Filippi e D’Urso: d’estate, a fine palinsesto, è un problema»). Evelina che scarabocchia foglietti. Simona che pulisce la stanza in cui lavora («Il disordine mi distrae e fa uscire la mia ombra massaia»). Valeria che compone la sua Antigone in cucina, mentre un operaio usa il martello pneumatico tre metri più in là. Mauro che si sente in vena e lavora anche sulle mensole dell’ufficio postale, in mezzo ai formulari. Walter che scrive su un quaderno con un pennarello (nero TrattoPen a punta fine), disteso a pancia in giù. Domenico che si alza, mangiucchia, guarda la tivù, legge qualcosa, poi torna a sedersi e a scrivere, ascoltando lo stesso disco per ore. E Giorgio che si ritira in Finlandia, Svezia o Islanda («Ma il prossimo paese scandinavo sarà Roma»). Eccoli. Non aggiungo altro. All’inizio queste ossessioni possono apparire diverse fra loro, poi ti accorgi che c’è un denominatore comune e trovi un angolo visuale che mette in prospettiva questi pezzi eterogenei, e dà una possibilità di significazione. 70 rs_gen13.indd 70 01/02/2013 16:21:05 Galeotto fu il libro… C’è un mondo di lettori, dietro le sbarre; e chiede professionisti disposti ad aiutarlo. Domani alla Statale a confronto le biblioteche carcerarie italiane Lorenzo Rosoli, Avvenire, 30 gennaio 2013 C’è un’Italia «normale» che vive prigioniera della tivù, alla quale s’è consegnata, e che non ama la lettura né i libri, se non come complemento d’arredo o come oggetto di consumo (i cosiddetti «libroidi» da botto in classifica), pur avendo libero accesso ai libri, alle librerie e alle biblioteche. E c’è un’Italia che quella libertà d’accesso non l’ha, e dietro le sbarre ci sta davvero, e non solo è assetata di speranza, futuro, dignità, ma è anche affamata di libri e lettura. E chiede un’alternativa alla tivù in cella. È l’Italia delle carceri, vergogna d’Europa. È l’Italia delle biblioteche carcerarie: fatta di educatori, volontari, cappellani, detenuti appassionati, ma anche di bibliotecari professionisti. Che cerca, tra mille difficoltà, di dare attuazione all’articolo 12 della legge 354 del 26 luglio 1975 di riforma dell’ordinamento penitenziario, dove si stabilisce che ogni prigione debba avere una biblioteca. Lettera morta, o quasi, fino a una ventina d’anni fa. Oggi un po’ meno. Domani? Perché i libri abbiano sempre più cittadinanza anche dietro le sbarre, quell’Italia domani si dà appuntamento alla Statale di Milano per il quarto convegno nazionale delle biblioteche carcerarie. «Daremo voce a esperienze locali significative e spazio al confronto fra le istituzioni – dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) alla magistratura all’Associazione italiana biblioteche, l’Aib. E presenteremo la bozza di un protocollo d’intesa che definisca finalmente le relazioni tra carcere e territorio, fra biblioteca carceraria e biblioteche esterne» anticipa Giorgio Montecchi, ordinario di Bibliografia e rs_gen13.indd 71 Biblioteconomia alla Statale e presidente dell’ Associazione biblioteche carcerarie. «Un’intesa fra Dap, Associazione dei Comuni, Unione delle Province, Conferenza delle Regioni e Abi che potrebbe essere firmata già a settimane. Sarà lo strumento per estendere davvero anche ai carcerati il diritto di ogni persona al libro e alla lettura, contribuendo ad attuare il dettato costituzionale sul valore rieducativo della pena. Non basta una stanza con dentro qualche libro per dire: ecco una biblioteca». «E, non basta la buona volontà dell’educatore, del volontario o del carcerato colto per avere un buon bibliotecario» incalza Emanuela Costanzo, segretaria Associazione biblioteche carcerarie. «Serve un professionista competente nella catalogazione, nell’analisi dell’utenza, nella gestione di acquisti e scarti, nell’organizzazione dei servizi e degli eventi culturali e di tutto quel che fa, di una raccolta di libri, una vera biblioteca. Ecco allora il titolo del convegno: Il bibliotecario carcerario: una nuova professione? Speriamo di poter togliere il punto di domanda. La legge non prevede tale figura, affidando all’educatore la gestione della biblioteca». Quando la cattedra di Biblioteconomia della Statale iniziò a occuparsi del tema, mandò alle 250 carceri italiane un questionario. «Era il 1996. Risposero in 79. E solo una decina aveva la biblioteca: Torino, Roma, Padova, Ravenna, Treviso, Milano e alcuni istituti in Sardegna» racconta Costanzo. «Nell’ultimo decennio sono sorte nuove realtà, in genere gestite da volontari, che spesso sono bibliotecari. Così è a Como, ad esempio». 01/02/2013 16:21:05 Altre esperienze emblematiche? «Reggio Emilia, dove la bibliotecaria dell’Azienda ospedaliera è stata distaccata presso l’Ospedale psichiatrico giudiziario. A Monza, grazie alla collaborazione col sistema bibliotecario locale, è stato possibile distaccare una bibliotecaria: la novità di quel carcere è che i detenuti possono recarsi in biblioteca, mentre in genere sono i carcerati col ruolo di ‘‘scrivano” a portare nelle celle i libri richiesti dai compagni. Volterra dal 2009 è coinvolta in un progetto dell’Università di Pisa per raggiungere tutti gli studenti dell’ateneo: anche chi sta in carcere. Nelle Marche un’intesa fra Regione e sistemi bibliotecari ha aperto a tutti gli istituti di pena l’accesso al patrimonio librario pubblico». Il legame fra carcere e territorio è decisivo. Sempre. Come dimostrano le prime esperienze italiane. «Quella di Torino» prosegue Costanzo «dove il Comune fin dal 1988 ha aperto una biblioteca all’interno delle Vallette. A Roma dal ’99 una convenzione fra Comune e Dap ha permesso di avviare un sistema bibliotecario integrato tra le biblioteche comunali e tutte le carceri della città». Ci sono territori che «mandano» bibliotecari dietro le sbarre. «E carceri che li formano “in casa”, come Opera, alle porte di Milano, dove dal ’99 al 2004 si sono organizzati corsi di biblioteconomia per i detenuti. Questi, con alcuni bibliotecari esterni, hanno avviato una biblioteca interna sul modello di quelle del territorio, inserendosi nella rete del prestito interbibliotecario. Quel cammino di formazione, intanto, ha aperto ai detenuti chances di lavoro all’esterno del carcere». Ma cosa leggono i detenuti? «Chi sta fuori fatica a immaginarlo, ma in carcere è vivissima l’attenzione verso le “cose ultime”. E fra i libri più richiesti vi sono quelli di filosofia e di religione» risponde Costanzo attingendo alla propria esperienza Molti carcerati sono genitori e chiedono testi sull’infanzia e l’adolescenza. Richiestissimi i libri e le riviste di diritto, anche per collaborare con l’avvocato che prepara la difesa; i codici, ovviamente, devono essere aggiornati. Per i detenuti stranieri, libri in lingua madre. E spazio alla narrativa. Con le nuove uscite prendi l’occasione per portare in carcere gli autori, com’è stato con Moni Ovadia a Opera o Fleur Jaeggy a Como. Così rispondi anche al desiderio dei detenuti, sempre fortissimo, di dialogare con chi vive fuori». Il bibliotecario carcerario: una nuova professione? Speriamo di poter togliere il punto di domanda. La legge non prevede tale figura, affidando all’educatore la gestione della biblioteca. 72 rs_gen13.indd 72 01/02/2013 16:21:05 L’antologia di Don DeLillo: nove pezzi contro il conformismo Gian Paolo Serino, Libero, 31 gennaio 2013 Il vero dramma di un libro come L’Angelo di Esmeralda, nove racconti firmati da Don DeLillo, è che sia più commentato che letto. Uscito nelle librerie per Einaudi (pp. 208, euro 19) negli Stati Uniti è stato pubblicato lo scorso anno (con una copertina geniale: le ali di un angelo color giallo shocking su sfondo nero) e incoronato dal New York Times al primo posto dei cento migliori libri al mondo del 2011. Un riconoscimento forse esagerato per un libro che merita indubbiamente la lettura, ma che non è certo di facile comprensione per chi affronta lo scrittore italo-americano per la prima volta. Sia chiaro: sono racconti grandiosi, sospesi tra la sideralità dello sguardo narrativo e un linguaggio molto vicino al parlato newyorkese (ottimo lavorio e salti mortali, non sempre riusciti, per la traduttrice italiana Federica Aceto). Più che racconti, sono un laborato- rs_gen13.indd 73 rio di scrittura, il prequel a livello di concepimento dei suoi romanzi più riusciti. Non tanto Underworld, quello che da tanti è riconosciuto come il suo capolavoro, ma che in realtà è l’opera più noiosa e meno comprensibile al lettore italiano, che lo scrittore abbia pubblicato: un romanzo diventato di culto, come il pluriosannato David Foster Wallace, ma il cui demerito è di aver creato più che lettori innumerevoli scrittori epigoni in ogni parte del mondo. Rockstar e assassini Il vero DeLillo è quello di Great Jones Street (l’inferno di una rockstar smarrita raccontata in prima persona attraverso la macchina devasta sogni dello showbiz), di Libra (l’assassinio di Kennedy attraverso lo sguardo narrativo di Lee Oswald), di Rumore bianco (riuscitissima parodia degli intellettuali postmoderni, 01/02/2013 16:21:05 impegnati spesso a disquisire su argomenti come la «semiotica delle etichette alimentari»). I racconti, scritti tra il 1979 e il 2011, dimostrano come DeLillo sia l’unico scrittore capace di raccontare il nostro «trapassato presente». DeLillo è il più grande degli scrittori nostalgici: nostalgia di un universo, anche narrativo e di scrittura, ormai perso molto spesso nella commercialità della lettura. Qui non troverete nove «pezzi facili», ma letture una soglia di attenzione non da poco. Abbastanza facile perdersi nei labirinti narrativi se non ci si sintonizza con un DeLillo che spinge al massimo l’acceleratore sul vero problema del nostro mondo: proprio la mancanza di attenzione e la ricerca, in ogni libro, di uno specchio narrativo ci conforti e ci faccia rientrare in quell’unità di pensiero che è il nuovo grande utero materno della nostra società. Nessuno sconto al lettore, ma al contempo nessun rischio di noia. Lo sguardo di ogni racconto è quasi uno sguardo assente: come se lo scrittore scrivesse da un altro pianeta. Ed è la metafora costante che accomuna tutti e nove i racconti. Come fa dire a uno dei due astronauti dimenticati in orbita durante la Terza guerra mondiale nel racconto Momenti di umanità (non a caso scritto nel 1983, l’anno apocalittico immaginato da George Orwell ne Il Grande Fratello): «A me piace che le parole abbiano una certa reticenza, che rimangano aggrappate ad un punto scuro nel più profondo dell’interiorità». Il punto di vista del DeLillo formato racconto è in L’Acrobata d’avorio (1988) quando la protagonista sottolinea che «si sentiva svuotata di qualsiasi supposizione, persuasione, complicazione, bugia, di qualsivoglia intreccio di combinazioni che rende possibile vivere». DeLillo ha compreso che siamo soltanto «campioni biologici alla deriva» e per rifuggire all’idea dell’inutilità della vita, per rifuggire all’idea della morte come se la vita fosse qualcosa di garantito, cerchiamo di mettere a tacere l’idea della morte con ansiolitici, droghe, tv, religioni, lavoro che diventano oasi di sicurezza congelata. Ferocia totale Il DeLillo più feroce lo troviamo nel racconto che dà il titolo alla raccolta e che ne rappresenta il fulcro centrale del libro: L’Angelo Esmeralda (1994) in cui le protagoniste sono due suore che si muovono in una New York periferica, degradata e senza speranze (lo stesso Bronx nel quale DeLillo, di origini abruzzesi, è nato e cresciuto). Un luogo dove i bambini più che diventare adulti diventano adulterati, dove sopravvivere è il maggiore dei lussi: un luogo dove si incrociano le vite parallele di marginali e di pendolari dell’esistenza in fuga verso sogni alla deriva. Alla ricerca di un miracolo che non c’è: in questo caso l’apparizione di un murales che ritrae Esmeralda, bimba uccisa e violentata. Ed è in questo racconto che troviamo il miglior DeLillo, quello più combattivo, incapace, come tutti i protagonisti dei suoi quindici romanzi, di piegarsi alle regole delle convenzioni e convinzioni sociali. Quando prende posizione nei confronti della religione («La preghiera è una strategia pratica, l’acquisizione di un vantaggio temporale nei mercati dei capitali del Peccato e dell’Assoluzione») oppure della Legge non divina ma umana che pretende di condannare più che di giudicare, tanto da richiedere «le forbite locuzioni vittoriane che i moderni tribunali hanno adottato per fare pendant con i pannelli di legno»; della fuga nella droga («Quando sai in fondo di non valere nulla, solo un gioco d’azzardo con la morte riesce a soddisfare la tua vanità»). E poi ancora sulle regole della comunicazione: la condanna sociale al «disgustoso sciacallaggio sulla morte di una bambina al telegiornale della sera»: ma lo sciacallaggio non parte dalla televisione o dai giornali, bensì dal nostro essere spettatori. Quelli che descrive DeLillo siamo noi: persone oltraggiate, ferite, vulnerabili, perennemente alla deriva, perennemente in fuga da noi stessi oppure talmente intimisti da allontanarci dal mondo, ma non dal suo sguardo. Ed è questa la vera bravura e unicità di DeLillo. Perché, come scrive Martin Amis, i grandi scrittori come DeLillo possono portarci dove vogliono, ma la metà delle volte ci portano dove non vogliamo andare. 74 rs_gen13.indd 74 01/02/2013 16:21:05