La rassegna
stampa di
Oblique
gennaio 2013
Per gentile concessione della casa editrice 66thand2nd,
pubblichiamo un estratto del romanzo di Anthony Cartwright
Heartland, in libreria dal 31 gennaio.
Durante l’adolescenza Adnan si era chiuso in sé
stesso; gli sembrava di non avere alternative. Studiava
in modo meccanico, se ne stava nella sua cameretta
davanti al computer da cui ormai era soggiogato, un
diluvio di zero e uno, immerso in manuali e riviste
specializzate a imparare il linguaggio dei processori
e a piegare le cose alla sua volontà. Lavorate sodo, li
scongiurava suo padre tutto contento; lavorate sodo
e qualcosa nella vita combinerete.
Alla televisione, però, Adnan guardava i vestiti e le
macchine che un giorno avrebbe di certo fatto sue e
si infilava i pantaloni da scuola smessi e consumati
alle ginocchia su cui si era cucito il marchio della
Farah. Se lavorava sodo avrebbe combinato qualcosa,
diceva suo padre, che però aveva lavorato mille ore
al giorno solo per finire in esubero e l’unica cosa
che aveva combinato era distruggersi. Si riteneva
addirittura fortunato per aver trovato un posto
da zincatore nella fabbrica dietro alla sede della
Roman Mosaic, mentre tanti erano senza lavoro.
Ogni tanto Adnan tirava su qualcosa come tassista
per Joey Khan, sempre in giro fino a tardi nei fine
settimana. In un raptus di pathos adolescenziale
gli era venuto in mente di scrivere arbeit macht
frei sopra l’ingresso della stazione dei taxi, come
nella foto del campo di concentramento in un libro
di storia di Zubair. Ma non era solo il problema
dell’arcana relazione tra lavoro e guadagno e
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l’apparente mancanza di collegamento tra le due
cose a tormentarlo. Guardava Rob e altri ragazzi
con cui era cresciuto, le loro imprese quotidiane –
calcio, botte, ragazze – e ne voleva anche lui. Certo
che poteva combinare qualcosa, come diceva suo
padre, se stava tranquillo al suo posticino, studiava e
si dedicava al computer, ai suoi zero e uno, sì, poteva
combinare qualcosa, ma entro i limiti stabiliti.
Perfino qualcosa in più degli altri, anche questo gli
era chiaro. Le regole gli erano chiare, gli era chiaro
come andava il mondo. Ed era questo il problema.
Non gli bastava combinare qualcosa. Voleva tutto.
A volte andava in bagno e si guardava allo specchio.
Pakistano di merda, diceva piano.
Queste cose Zubair non le capiva. Di notte restavano svegli a chiacchierare nei loro letti quasi appiccicati. Zubair voleva iscriversi a Legge e diventare
avvocato. Musica per le orecchie di loro padre. Va
bene, buona idea, sussurrava Adnan al buio, ma poi?
ma dopo? Discutevano di macchine, vestiti, donne,
ma Zubair non parlava sul serio, Adnan lo sapeva.
Per suo fratello erano soltanto sogni. Non si rendeva conto che i desideri bisogna andarseli a prendere. Ma con la forza, non con il lavoro. Alla fine il
discorso s’incagliava sempre qui, Zubair gli diceva
che non riusciva a seguirlo, per lui andava bene così
punto e basta e adesso dormiamo. A Adnan non sarebbe mai andata bene, se lo era giurato.
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Anthony Cartwright
Heartland
Traduzione dall’inglese di Daniele Petruccioli
66thand2nd, Attese, pp. 289 – euro 17
7 giugno 2002. Nella sede del Cinderheart Football Club tutti gli occhi sono rivolti a Inghilterra-Argentina,
attesissima partita dei mondiali nippo-coreani. La faccia di Beckham riempie lo schermo, si attende con ansia il
riscatto degli inglesi dalle delusioni del passato. L’insegnante di sostegno Rob Catesby ripensa alla sua prima volta
allo stadio insieme al padre, alla sua carriera da calciatore semiprofessionista e alla decisione di appendere definitivamente gli scarpini al chiodo. Ma prima gli restano ancora 90 minuti da giocare. Nel melting pot della provincia
inglese, percorsa dai rigurgiti nazionalisti del British National Party, a catalizzare l’attenzione di giornalisti e tifosi
è infatti un’altra sfida, quella tra il Cinderheath Fc, formazione di soli bianchi, e una squadra composta da giocatori musulmani: «una partita capace di scatenare una guerra razziale nel Black Country». Rob si troverà ad affrontare
Zubair, fratello di Adnan, l’amico del cuore svanito nel nulla. Qualcuno pensa che sia morto, Rob sospetta che si
sia arruolato nelle file di al-Qaeda. Solo Jasmine, un’altra vecchia amica d’infanzia, sa cos’è realmente accaduto…
Heartland è un affresco dell’Inghilterra multietnica di oggi, abilmente calato nel tessuto postindustriale di
Dudley, distretto siderurgico delle West Midlands. In un racconto appassionato che indaga il trauma dell’Europa all’indomani dell’11 settembre, l’autore entra nel cuore nero di una comunità rancorosa e diffidente, dove
le differenze di classe e di religione costringono anche gli amici a schierarsi gli uni contro gli altri.
Anthony Cartwright è nato a Dudley nel 1973. A vent’anni si trasferisce a Norwich per studiare Letteratura
angloamericana presso la University of East Anglia. Dopo disparate esperienze lavorative, nel 1998 diventa
docente di inglese e comincia a insegnare in diverse scuole dell’East London e del Nottinghamshire. Il suo libro
d’esordio, The Afterglow, ha vinto il Betty Trask Award nel 2004. Il secondo romanzo, Heartland (2009), libro
dell’anno per il «Guardian», è stato selezionato tra i finalisti del Commonwealth Writers’ Award: Best Novel
2010. Nell’agosto 2012 è uscito il suo ultimo lavoro, How I Killed Margaret Thatcher. Autori come Jonathan
Coe e David Peace hanno elogiato la forza narrativa e lo stile di Cartwright, spesso accostato alla tradizione del
realismo sociale britannico e ai nomi di David Storey, Alan Sillitoe e Roddy Doyle. Per definirne l’ambizioso
disegno narrativo, Philip Oltermann del «Guardian» ha paragonato Heartland a Underworld di Don DeLillo.
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Céline è la passione di chi ha letto molto poco. | Charles Dantzig
– Oliviero Ponte di Pino, «Tutti i modi per dire libro»
la Repubblica, 3 gennaio 2013
– Paolo Di Stefano, «L’editoria tedesca va in tribunale»
Corriere della Sera, 3 gennaio 2013
– Enzo Golino, «Nella fabbrica del vocabolario»
la Repubblica, 4 gennaio 2013
– Beppe Severgnini, «Elogio morale della precisione»
La Lettura del Corriere della Sera, 6 gennaio 2013
– Cesare De Michelis, «Il mestiere dell’editore: produrre libri»
Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013
– Alfonso Berardinelli, «È saggio scrivere saggi»
Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013
– Stefania Vitulli, «I libro di carta vivrà… finché faremo l’amore»
Panorama, 7 gennaio 2013
– Franco Marcoaldi, «Teresa Cremisi: “Noi editori, intellettuali decaduti, …”»
la Repubblica, 7 gennaio 2013
– Francesco M. Cataluccio, «Utopia a Milano»
Doppiozero, 8 gennaio 2013
– Antonio Prudenzano, «Mauri (neo vicepresidente di Messaggerie): “Nel 2013 spero nella rivincita…”»
Affari italiani, 8 gennaio 2013
– Elena Stancanelli, «Il segreto di Jane. Perché continuiamo ad amare Orgoglio e pregiudizio»
la Repubblica, 8 gennaio 2013
– Marco Bertoncini, «Ecatombe di grandi librerie»
ItaliaOggi, 9 gennaio 2013
– Raffaella De Santis, «Baricco: “Esistono bello e brutto. Non esistono né il colto né il popolare”»
la Repubblica, 11 gennaio 2013
– Zadie Smith, «Inno alla gioia»
la Repubblica, 12 gennaio 2013
– Dario Pappalardo, «“Ecco come la mia Schiappa ha scalato tutte le classifiche”»
la Repubblica, 14 gennaio 2013
– Giuseppe Culicchia, «Vendite volanti e testi a nolo. I librai rispondono alla crisi»
La Stampa, 15 gennaio 2013
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– Luca Raffaelli, «Giovani, ma senza rabbia. I fumetti di Zerocalcare»
la Repubblica, 16 gennaio 2013
– Guido Vitiello, «La ditattura del carino»
La Lettura del Corriere della Sera, 19 gennaio 2013
– Massimiliano Parente, «Case, librai, promotori. Nella giungla di carta vale la legge del più forte»
il Giornale, 19 gennaio 2013
– Mario Baudino, «Quando la libreria si difende con un trattore»
La Stampa, 20 gennaio 2013
– Francesco Erbani, «L’Ora di Consolo. Cronache siciliane raccontate a sangue freddo»
la Repubblica, 21 gennaio 2013
– Antonio Prudenzano, «“Dopo la fase delle promozioni i prezzi degli ebook si assesteranno”»
Affari italiani, 21 gennaio 2013
– Daniele Martino, «Speciale librerie | Torino: germogli in periferia»
Doppiozero, 22 gennaio 2013
– Alessandra Arachi, «Perché anche i nativi digitali preferiscono il libro di carta»
Corriere della Sera, 22 gennaio 2013
– Stefania Parmeggiani, «Bestseller fatto in casa. Così gli editori vanno a caccia di scrittori…»
la Repubblica, 22 gennaio 2013
– Jacopo Iacoboni, «Updike, il coniglio ha fatto blurb»
La Stampa, 24 gennaio 2013
– Antonio Gnoli, «Lo scrittore riluttante. Permunian: “I libri sono il manicomio in cui vivo solo”»
la Repubblica, 24 gennaio 2013
– Emilia Costantini, «Come reinventare il libraio»
Corriere della Sera, 25 gennaio 2013
– Eleonora Lombardo, «Sellerio dopo Sellerio»
la Repubblica Palermo, 26 gennaio 2013
– Stefano Montefiori, «Chi ha paura di un capolavoro»
La Lettura del Corriere della Sera, 27 gennaio 2013
– Caterina Bonvicini, «Gatti, operai e De Filippi. Così nasce un romanzo»
il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2013
– Lorenzo Rosoli, «Galeotto fu il libro…»
Avvenire, 30 gennaio 2013
– Gian Paolo Serino, «L’antologia di Don DeLillo: nove pezzi contro il conformismo»
Libero, 31 gennaio 2013
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Raccolta di articoli pubblicati da quotidiani e periodici nazionali
tra il primo e il 31 gennaio 2013.
Impaginazione a cura di Oblique Studio
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Tutti i modi per dire libro
Tra macchine che stampano i volumi «espresso»
e siti per romanzi in 140 caratteri, ecco i termini per capire l’editoria digitale
Oliviero Ponte di Pino, la Repubblica, 3 gennaio 2013
Per cinquecento anni, il libro è stato più o meno
quello che si era inventato a Venezia Aldo Manuzio. All’improvviso tutto è cambiato. Da un lato il
libro si è digitalizzato – e dunque smaterializzato.
Dall’altro, quasi a controbilanciare questa deriva nel
virtuale, l’oggetto fisico, la sua «cosità», hanno assunto una diversa importanza. Il Controdizionario
del libro cerca di raccontare quello che sta accadendo
ai margini del libro e ai confini dell’editoria.
ad personam, libro: servizio offerto da diverse
case editrici che personalizzano le singole copie con
il nome del proprietario in copertina, una dedica, o
modificando la quarta, eccetera.
airport library: biblioteca self service aperta nel
2010 all’aeroporto di Amsterdam-Schipol, oltre la
zona controllo passaporti, con 1290 libri in 29 lingue.
akinator: app che chiede all’utente di pensare a un
personaggio, e poi gli pone una serie di domande:
attraverso le riposte, cerca di indovinare di quale
personaggio si tratti.
billy index: indice che valuta, sul modello del Big
Mac Index, il potere d’acquisto nei diversi paesi
comparando i prezzi di Billy, la libreria Ikea.
biolibro: volume realizzato con carte e inchiostri
ecologici, o con il font olandese Ecofont, progettato per risparmiare inchiostro attraverso l’utilizzo di
«microbuchi».
book bloc: manifestanti che nei cortei portano
scudi di gommapiuma colorati, dove hanno scritto
titolo e autore di un libro, usati per la prima volta il
23 novembre 2010, in una manifestazione contro il
governo Berlusconi.
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book date: manifestazione pubblica dove è necessario presentarsi assumendo l’identità di uno scrittore, portando con sé un libro amato e appassionante,
per provare a «sedurre» il proprio interlocutore in
cinque minuti; finiti i cinque minuti, si cambia partner e si ricomincia.
bookmooch.com: social network in cui ogni utente mette a disposizione i libri di cui vuole disfarsi.
Ogni libro messo a disposizione vale un decimo di
punto, ogni libro regalato vale un punto; con i punti
accumulati è possibile ottenere gratis altri libri.
bookshelf porn: sito che pubblica le fotografie degli scaffali delle librerie degli utenti. Il motto è una
frase del regista John Waters: «Se vai a casa di qualcuno e non ci sono libri, non scoparci».
booktrack: applicazione per ebook reader che arricchisce romanzi e saggi con una colonna sonora;
riconosce il ritmo di lettura e sincronizza la musica
al testo. I brani musicali «corrispondono emotivamente alle parole sulla pagina».
book training: incontri che hanno l’obiettivo di
consentire ai partecipanti di prendere attivamente
parte a una conversazione di argomento letterario
senza sfigurare, pur non avendo letto i libri di cui
si parla.
bücherwald: giardino pubblico di Berlino nel quale praticare il bookcrossing. I volumi sono sistemati
in nicchie scavate nel tronco degli alberi e protetti
da una tendina di plastica trasparente.
culturnomica: nuova disciplina scientifica che
si propone di introdurre metodi quantitativi nello
studio dei fenomeni culturali; grazie alla digitalizza-
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zione di milioni di volumi e alla potenza di calcolo
dei moderni elaboratori, diventa possibile misurare
la frequenza assoluta e relativa delle parole dal 1500
a oggi.
digitorial: contenuto narrativo, saggistico o divulgativo in cui l’elemento digitale (con le sue possibilità di interazione e socializzazione) è presente fin
dall’inizio della progettazione. Si contrappone alla
digitalizzazione, la semplice trasposizione in formato digitale di materiali analogici preesistenti.
editor digitale: nuova figura professionale, in
grado di creare «libri aumentati», ovvero contenuti
multimediali equilibrando testo, immagini, suoni,
interazioni…
espresso book machine: macchina in grado di
stampare e rilegare un libro in formato tascabile,
lanciata nel 2008: per stampare e rilegare un volume
di 300 pagine con copertina cartonata impiega circa
tre minuti.
ff o fanfiction: opere scritte dai fan prendendo
come spunto i personaggi o le storie di un lavoro
originale. I fan possono creare sequel e prequel, aggiungere episodi o ampliare le sottotrame, ma anche
creare trame alternative. A volte si spingono fino
alla parodia, in altri casi accentuano gli aspetti erotici (lemon).
flipback: libro cartaceo delle dimensioni di un
iPhone (8x12 cm) e del peso di soli 123 grammi che
si sfoglia in orizzontale; lanciato nel 2009 dall’editore olandese Jongbloed, specializzato nella pubblicazione di Bibbie.
freelance editor: redattore che lavora come libero professionista, e non presso un editore.
living library, the: biblioteca dove, accanto ai libri, in occasioni predefinite, si possono incontrare
persone disponibili a raccontare la propria storia, in
una mezz’ora circa.
mobi-romanzo: testo narrativo pubblicato su dispositivi mobili (telefono cellulare, tablet).
nanoism.net: pubblica testi lunghi al massimo 140
battute e li posta su twitter, ricompensando gli autori con micropagamenti (naturalmente…).
neuro lit crit: nuova disciplina scientifica che
studia le reazioni neurobiologiche alla lettura: attra-
verso un sistema di elettrodi, è possibile evidenziare
le zone del cervello attivate dalla lettura di una determinato brano, per poi confrontarle con le zone
del cervello attivate da altre attività.
odore dei libri: nel 2009 un gruppo di ricercatori
britannici e sloveni è riuscito a identificare l’aroma
della carta «stagionata»: «note erbose con un pizzico
di acidità e un accenno di vaniglia sopra un fondo
di muffosità». La ricerca «potrebbe fornire un aiuto
prezioso agli archivi e alle biblioteche per la conservazione e il restauro di volumi pubblicati tra il
xix e il xx secolo». Smell of Book™ è uno spray da
applicare a Kindle e iPad per «avere il meglio dei
due mondi, la comodità dell’ebook e l’amato profumo dei libri di carta». Paper Passion è un profumo
femminile che mescola tredici diverse fragranze per
ottenere l’odore della carta: viene presentato con un
packaging a forma di libro ideato da Karl Lagerfeld,
che in occasione del lancio ha sentenziato: «L’odore
dei libri è il migliore del mondo». Per chi frequenta
pagine facebook come «Amanti dell’odore dei libri
nuovi» o «Sniffatori di libri».
pirate kiosk: sportello che ospita un server con una
copia di Piratebay, celebre sito di peer-to-peer: basta avvicinarsi con un portatile acceso per collegarsi
via wi-fi e scaricare materiali aggirando le normative
sul copyright.
prezzo dei libri: nel 2011 Amazon ha creato una
app che legge il codice isbn-ean di un volume e
confronta immediatamente il prezzo: se quello su
Amazon.com è superiore a quello del negozio,
Amazon praticava immediatamente uno sconto di
5 dollari.
pronto soccorso letterario: lo offre il sito
118libri.it ed è rivolto a «un lettore alla deriva che
non sappia che libro scegliere per la fase esistenziale
che sta vivendo».
recensioni a pagamento: giudizi pubblicati su
internet da utenti apparentemente disinteressati e
indipendenti, che invece vengono commissionati e
remunerati dall’autore o dalla casa editrice.
recensioni facciali: hanno «lo scopo di recensire
tramite un unico scatto fotografico e un’unica espressione facciale il senso del libro che abbiamo letto e
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Smell of books
trovare il sunto definitivo dei nostri pareri a fine lettura», perché «una faccia vale più di mille parole».
recensioni-fai-da-te: molti autori usano uno
pseudonimo per recensire favorevolmente i propri libri (e magari denigrare quelli dei concorrenti). Quando vengono scoperti alcuni si pentono,
come R.J. Ellory: «Ho sbagliato, chiedo scusa ai
lettori e alla comunità degli scrittori». Altri, come
Stephen Leather, si difendono: «Lo fanno tutti
gli scrittori che conosco. È un nuovo metodo di
marketing, non se ne può fare a meno nell’èra del
web».
scrivi o muori: l’applicazione Write or Die punisce
chi non scrive abbastanza in fretta. L’utente imposta
il numero di parole che vuole (o deve) scrivere in un
certo lasso di tempo e sceglie il tipo di castigo che
vuole ricevere se non rispetta l’impegno.
spoiler: post su un sito internet o su un blog che
anticipa il finale di un film o di un libro, guastando dunque il piacere dello spettatore o del lettore;
la netiquette prevede che venga segnalato con uno
«spoiler alert».
wonderbook: software di realtà aumentata che
consente di visualizzare le storie contenute nel libro,
proiettando sullo schermo della PlayStation animazioni, creature e ambientazioni digitali con le quali
è possibile interagire. Lo slogan: «Un libro, mille
storie».
Espresso book machine
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L’editoria tedesca va in tribunale
Crisi e strategie di mercato spaccano il vertice della Suhrkamp
Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 3 gennaio 2013
Che fine farà la gloriosa Suhrkamp, una delle più
prestigiose case editrici d’Europa? La domanda non
è affatto esagerata e non riguarda solo il destino
dell’azienda tedesca ma tocca questioni più ampie
che concernono il rapporto tra lavoro culturale e
mercato. Fondata a Francoforte nel 1950 da Peter
Suhrkamp, transfuga di Fischer Verlag, che aveva
guidato dal 1936, alla morte del suo primo proprietario nel ’59 fu rilevata dal suo braccio destro, Siegfried Unseld, destinato a diventare un altro mostro
sacro dell’editoria europea. Il fondatore, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, aveva portato con
sé dalla Fischer i maggiori autori di lingua tedesca,
da Hermann Hesse a Thomas Mann, da Bertolt
Brecht a Max Frisch, creando un catalogo di altissimo prestigio internazionale a cui si aggiunsero col
tempo i maggiori scrittori del Novecento europeo e
americano, compresi gli italiani Pirandello, Svevo,
Ungaretti, Pavese, Gadda.
Con la scomparsa di Unseld, avvenuta nell’ottobre
2002, la gestione passa alla sua seconda moglie Ulla
Berkéwicz, che pur rinnovando il catalogo non ha
tradito la missione originaria di una casa editrice
sempre collocata nell’ambito della sinistra culturale, attenta alle avanguardie letterarie e alle scienze
sociali, un ruolo paragonabile a quello che in Italia
hanno volto l’Einaudi e la Feltrinelli. Ripetutamente al centro di polemiche per le difficoltà economiche cui, come è toccato ad altri editori di cultura,
ha dovuto far fronte negli anni, con una decisione
coraggiosa e molto discussa nel 2010 la Suhrkamp
si è trasferita a Berlino abbandonando la sua sede
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originaria: cosa che accade raramente per editori che
hanno la loro forza anche nell’identificazione storica
con la propria città (immaginate un’Einaudi che traslocasse a Milano!). Fatto sta che qualcuno ha definito la Suhrkamp dell’ultimo decennio, anche per le
controversie ereditarie che si accesero ancora vivo (e
già malato) Unseld, una sorta di infinita «soap opera» giornalistica, sempre al centro di pettegolezzi,
crisi, appetiti economici.
Ora però la questione si fa più drammatica e non
solo per l’assetto finanziario. Apparentemente gli
equilibri sono chiari: la Fondazione di famiglia, la
cui (contrastata) rappresentante è Ulla Berkéwicz,
detiene il 61 percento delle azioni, mentre il 39 per
ento appartiene dal 2006 all’imprenditore mediatico Hans Barlach, il cui nonno, Ernst, fu un famoso scultore espressionista. Barlach, pur avendo solo
esperienza di editoria quotidiana e televisiva, non ha
mai taciuto l’ambizione di dirigere la casa editrice di
Unseld e rimprovera all’attuale dirigenza una gestione deludente sul piano finanziario: «Sarebbe molto
più vantaggioso» si è spinto a dichiarare «sfruttare
solo il catalogo senza produrre più novità». Salvo poi
auspicare nuovi mega-bestseller.
È un braccio di ferro, che dura da anni, tra due modi
opposti di intendere l’industria editoriale. Da una parte una leadership che intende valorizzare la tradizione
senza compromettere la qualità tentando avventure
nella letteratura commerciale; dall’altra il salto verso i
suggerimenti del mainstream anche a costo di tradire
gli intenti originari, magari semplificando la struttura
redazionale che si avvale di editor di altissima qualità.
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L’ultimo appiglio per rovesciare gli equilibri societari è arrivato a Barlach su un piatto d’argento quando ha scoperto che Ulla Berkéwicz, senza informare
i soci, ha affittato alle edizioni una villa storica di famiglia nel quartiere berlinese di Nikolassee, da sempre utilizzata come sede di rappresentanza editoriale
e adesso adibita anche ad archivio. Ora Barlach, nel
chiedere la restituzione di oltre 280 mila euro, ha
fatto causa scatenando una battaglia tra avvocati, e
il tribunale regionale gli ha dato ragione al punto da
imporre le dimissioni della Berkéwicz come amministratrice, colpevole di aver mescolato gli interessi
privati nella gestione aziendale. Qualcuno teme che
se la sentenza verrà confermata si arriverà alla chiusura di una delle ultime case editrici indipendenti
tedesche.
Ovviamente non sono mancati gli appelli e i pronunciamenti degli autori a sostegno dell’erede di
Unseld. Lo scrittore austriaco Peter Handke ha
definito Barlach una sorta di oscuro Satana, il cui
scopo è quello di cancellare il simbolo di una glo-
riosa storia culturale per farne solo uno strumento
di guadagno. Hans Magnus Enzensberger, uno degli autori di più lunga fedeltà, ha minacciato, come
Handke, di lasciare la Suhrkamp qualora dovesse
subentrare Barlach, un manager privo di competenze editoriali il cui unico progetto sarebbe quello di
«cannibalizzare i diritti d’autore»: «Con lui non resterò un minuto in più», ha dichiarato al settimanale
Die Zeit. Se dovesse spuntarla, Barlach avrà comunque vita dura, viste le prese di posizione delle ultime settimane. Tutte autorevoli e molte delle quali
pubblicate su Der Spiegel. Per il poeta Volker Braun,
da quarant’anni fedele alla Suhrkamp, l’iniziativa di
Barlach si riduce a una lotta di potere economico che
espone un’impresa culturale agli attacchi del mercato; per il musicista Thomas Meinecke, anch’egli
autore della casa, lo spauracchio economico è solo
un pretesto; per la poetessa novantenne Friederike
Mayröcker la signora Berkéwicz è stata degna direttrice del più grande editore occidentale. Dunque,
vietato l’accesso agli intrusi.
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Nella fabbrica del vocabolario
Intervista a Valeria Della Valle che coordina quello Treccani
Enzo Golino, la Repubblica, 4 gennaio 2013
Dotato di un gusto letteratissimo e liricheggiante
a cui piegava la sua prosa romanzesca, Gesualdo
Bufalino, siciliano di Comiso, amico di Leonardo
Sciascia che lo convinse al debutto editoriale con
Sellerio, immaginò che se fosse finito in un’isola
priva di tutto, non avrebbe voluto «altro libro che
un dizionario. Tante sono le grida e le musiche ch’è
possibile udire nelle sue viscere vertiginose». Tra le
tante definizioni di quel Grande libro della vita, un
autentico Libro mondo, che è il Dizionario, o Vocabolario che dir si voglia, questa è sembrata a Valeria
Della Valle il modo migliore per concludere la sua
relazione in un recente convegno fiorentino dell’Accademia della Crusca di cui Nicoletta Maraschio è
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presidente. E festeggiare così i quattrocento anni
(1612) del Vocabolario della Crusca, pilastro della nostra civiltà linguistica e dell’identità nazionale,
proprio mentre a Giorgio Napolitano, presidente
della Repubblica, il 9 novembre scorso è stato attribuito il ruolo di Accademico della Crusca honoris
causa.
Il tema del convegno era formulato con l’intento
quanto mai pratico di mostrare e discutere «come si
fanno e come si usano i vocabolari».
Valeria Della Valle insegna Linguistica italiana a
Roma, Università La Sapienza, coordina sul piano
scientifico il Vocabolario Treccani edito in cinque
volumi dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (pri-
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ma e seconda edizione dirette da Aldo Duro tra il
1986 e il 1994), e con Giovanni Adamo l’Osservatorio neologico della lingua italiana. Scrutatrice
provetta di quel che accade nel magma delle parole,
conosce i rischi e i piaceri di chi mette mano alla
compilazione e/o alla revisione di un dizionario.
Tanto più quando ci si debba confrontare con precedenti autorevoli.
Per esempio?
Almeno nel mio caso, da una parte si vorrebbero rispettare fino in fondo impostazione e caratteristiche
delle opere già pubblicate; dall’altra la consapevolezza che la lingua si rinnova nel corso del tempo
costringe a revisioni e aggiornamenti. Quando racconto ai miei studenti la storia della nostra lingua
attraverso i vocabolari, mi chiedono se ogni vocabolario non sia altro che la copia del precedente.
Hanno ragione?
In un certo senso, sì. E poiché stiamo celebrando
il quarto centenario del Vocabolario della Crusca,
dobbiamo ammettere che tutto nasce da quel grande
lavoro. In ogni vocabolario, anche il più recente, c’è
ancora molto del fondamentale prototipo.
È cambiato il rapporto fra il dizionario e chi lo consulta?
Giovanni Nencioni, autorevole storico della lingua, già nel 1985 intervenne sull’argomento. Non
è più il dizionario che, pedagogicamente, prefigura
lo scolaro o lo scrittore da educare e guidare, ma è
chi consulta a cercare uno strumento lessicografico
capace di rispondere a domande sulla lingua in se
stessa e nei suoi rapporti con la cultura, la realtà, la
prassi sociale.
Come si usa, oggi, un dizionario?
In maniera molto diversa da quando, in passato, il
contenuto era considerato sacro. Il lettore moderno
ha invece un atteggiamento non passivo ma critico,
e cerca risposte molto più ampie. Non si accontenta
del significato delle parole, vuole la data della prima
attestazione, risposte ai dubbi grammaticali, abbondante fraseologia d’uso non più soltanto letteraria,
segnalazione dei registri e della frequenza, possibilità di ricerche incrociate attraverso le banche dati.
Quali novità ha introdotto nella terza edizione del
Treccani, uscita nel 2008 e da lei curata?
La squadra redazionale che ho guidato si è arrampicata sull’impalcatura del restauro, consapevole che i
dizionari dell’uso non sono archivi di parole immobili, ma riflettono il momento storico in cui sono
prodotti. Abbiamo introdotto – esposte al convegno
fiorentino – novità lessicali come mobbizzare, par
condicio, quote rosa e altre. Abbiamo incrementato
gli esempi di frasi del parlato quotidiano: come l’uso
figurato del verbo spalmare nel senso di distribuire qualcosa nel tempo e nello spazio soprattutto nel
linguaggio della pubblica amministrazione e della
politica (spalmare gli aumenti delle tasse su tutti i
contribuenti). Ancora un aspetto importante è stato
l’arricchire con nuovi significati il lessico tecnicoscientifico (da bioarchitettura a domotica a Ogm).
E così pure le risposte ai dubbi del lettore spiegando
la pronuncia corretta, la grafia di parole italiane e
straniere, questioni di grammatica e di sintassi.
Novità tra le più vistose è l’atteggiamento verso le donne.
A cominciare da me, che dirigo il Treccani, una
volta evento impensabile per una rappresentante
del genere femminile… Oggi redattrici (prima inesistenti) e redattori prendono le distanze rispetto a
espressioni impregnate di conformismo, a stereotipi
ormai abusati del maschilismo: come i proverbi del
tipo chi disse donna disse danno. E si veda anche
l’evoluzione delle voci coppia e omosessualità dalla
prima alla terza edizione, via via definite con maggiore incisività e correttezza.
Nelle citazioni delle frasi d’autore la letteratura non
ha l’importanza e il peso di una volta.
È vero, non sono più gli scrittori a rappresentare un
modello d’imitazione per la lingua scritta. Comunque ho inserito poeti e prosatori interessanti scelti
anche tra i più giovani (un nome per tutti, Valeria
Parrella), e mai citati nelle due precedenti edizioni.
Un aggiornamento significativo per il futuro della
lingua e della letteratura italiane.
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Elogio morale della precisione
Beppe Severgnini, La Lettura del Corriere della Sera, 6 gennaio 2013
«Nei corsi di scrittura, il punto su cui tornavo più
spesso era la precisione. La letteratura quale linguaggio definitivo per circoscrivere una materia mobile e
multicolore come il «sentire» […]. Per contagio ho
finito per amare la precisione non specificamente letteraria, come quella della manualistica dedicata alle
costruzioni navali (con definizioni tecniche stranianti
dell’acqua e delle imbarcazioni), all’arte militare, al
gioco degli scacchi, alle ricette alcoliche […]. E ne
raccomando la lettura come propedeutica alla prosa».
La libreria di casa è un giacimento di serendipity, si
trovano le cose che non si stanno cercando. Negli
ultimi giorni dell’anno è sbucato Prima persona, da
cui è tratta la citazione iniziale. Un volume che ci
permette di ricordare Giuseppe Pontiggia – uomo e
scrittore delizioso – nel decennale della scomparsa;
e consente all’autore di portarci un regalo, a distanza
di tempo.
Un regalo vero, un viatico per questo anno strano
che comincia: l’amore per la precisione. Precisione
non è solo elenchi, ma è anche elenchi: dalle genealogie della Bibbia alle navi dell’Iliade ai cetacei di
Melville, che hanno bloccato molti (ma non Achab,
né Ismaele) nella rotta verbale verso Moby Dick. La
scrittura è il luogo dell’esattezza. Il marchio di fabbrica del cattivo scrittore è la confusione (che l’interessato, ovviamente, considera arte). Ma la questione non è solo letteraria o culturale. La precisione
diventerà lo spartiacque tra chi prova e chi tenta; tra
chi costruisce e chi accumula. In ultima analisi, tra
chi riesce e chi fallisce.
Precisione non è pignoleria. La precisione ha uno
scopo, la pignoleria nessuno. I pignoli sono manieristi; le donne e gli uomini precisi sono romantici.
Sanno che il caso entra dappertutto, ma niente esce
solo per caso. Perché Hugo Cabret resta un film speciale, e ci porta a dimenticare il fastidio del cinema
che si cita addosso? Perché il ragazzino protagonista
unisce tecnica e incoscienza, ama i meccanismi e i
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sogni, sistema i congegni e aggiusta la vita: sua e
degli altri.
Italo Calvino dedica alla «Esattezza» la terza delle
sue Lezioni americane (preparate per l’università di
Harvard nel 1985, pubblicate nel 1988). Parte da
Giacomo Leopardi, e ricorda che, quando definisce
il concetto di «vago», il poeta dell’Infinito era preciso
(«Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite», Zibaldone, 25 settembre 1821). Calvino, nella
stessa lezione, cita anche Roland Barthes e Robert
Musil, due tra gli scrittori che più hanno coltivato la
precisione. L’uomo senza qualità un talento ce l’aveva di sicuro: decrittare la vita intorno a lui.
Voi direte: perché tutto questo dovrebbe importarci? In questo incerto e insolito 2013 – dopo ventisei
anni tornano quattro cifre diverse tra loro – non dovremmo occuparci invece del lavoro che non c’è, soprattutto per i più giovani? Non dovremmo pensare
alla politica, tentata da catastrofici ritorni al passato?
La precisione – obietterà qualcuno – è un dolce di
lusso, meglio pensare al pane quotidiano. Beh, si
sbaglia: la precisione è la farina, senza la quale non
si ottiene né pane né dolci.
In un mercato del lavoro che offre sempre meno e
chiede sempre di più non c’è spazio per il «più o
meno». E invece la tentazione del pressapochismo
è fortissima: consente infatti di sperimentare frettolosamente molte cose, sperando che almeno una
vada bene. Se dalle vite private passiamo alla vita
pubblica, lo spettacolo è ancora più malinconico.
Un breve elenco delle sciatterie italiane occuperebbe
l’intero primo numero 2013 della Lettura, e rovinerebbe l’umore di tutti noi. Eppure non c’è dubbio.
È la mancanza di esattezza – delle norme, delle procedure, dell’amministrazione, della giustizia, delle
carriere – che ha spinto l’Italia a scivolare verso il
basso. Senza rumore, perché il declino si può oliare,
come una carrucola.
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La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013
Alla precisione – e all’imprecisione – ci si abitua
da giovani: non è mai troppo presto per imboccare il sentiero della faciloneria. L’inesattezza è una
compagna gentile, che ci sussurra di non fare sforzi.
Cercare, preparare, disporre, controllare, ricordare,
mantenere le promesse costa fatica. Eppure l’umanità si divide tra quelli che fanno (bene) ciò che dicono; e gli altri, che annunciano inutilmente e promettono invano.
I propositi spesso sono generici; ma si possono precisare, prima di presentarli in società. Ai ragazzi che
si avvicinano dopo un incontro pubblico e dicono:
«Devo chiederle una cosa…», rispondo: «Scrivimi»,
e passo l’email personale. Si fanno vivi in due su
dieci. È una selezione naturale e utile. Chi scrive,
infatti, ha quasi sempre qualcosa da proporre o da
chiedere. Anna ha inviato una brillante autocritica
generazionale al blog Solferino28; Filippo scriverà
il suo libro; Maria Elena lavora su Tacito e twitter;
Martina combinerà architettura e scrittura; Elettra ha organizzato un insolito incontro in Bocconi; Greta è diventata giornalista; Hermes e Diana
ci proveranno. Ognuno di loro ha un’idea precisa,
non una vaga aspirazione; presenta una proposta,
non soltanto generica disponibilità. Quei ragazzi – e
ho citato solo vicende degli ultimi due mesi – hanno
capito «la forza dei legami deboli» (copyright Mark
S. Granovetter). Più femmine che maschi: credo
non sia un caso.
Usare i propri contatti non è una cosa cattiva: i ragazzi devono farlo. Non in modo cinico; in modo
preciso. Devono capire che le prime impressioni
– sì, anche un’email – contano. Devono imparare
a rendersi rilevanti e interessanti; decidere cosa vogliono; poi chiederlo, in maniera sintetica. Tutto ciò
non vuol dire diventar vecchi anzitempo; significa
non buttare i dieci anni più importanti della propria
vita. Molti, in America e in Europa, sostengono che
«i trent’anni sono i nuovi vent’anni». È una colossale
sciocchezza. Peggio: è un’istigazione alla rassegnazione. I vent’anni contano, eccome. E vanno trattati
con delicatezza e precisione.
In The Defining Decade (2012), dedicato proprio ai
ventenni, la terapeuta Meg Jay spiega che l’esattezza
dei comportamenti non è solo un modo soddisfacente di vivere con gli altri; è anche la condizione di
ogni avanzamento personale e professionale. L’autrice ricorda la tattica del giovane Benjamin Franklin
(uno dei grandi strateghi americani della quotidianità): se aveva bisogno di conoscere qualcuno, il futuro firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza
chiedeva un piccolo, semplice favore. Era convinto,
infatti, che a molti non dispiacesse sentirsi buoni.
Meg Ray lo ricorda ai ragazzi di oggi: it’s good to be
good. Non tutti voglio imbrogliarvi, là fuori.
Mi ha colpito la conversazione tra Stefano Soatto,
padovano, 44 anni, professore di Robotica alla Ucla
(University of California Los Angeles), e Rossella Tercatin, 24 anni, autrice di una intervista per
Pagine ebraiche a Judea Pearl, vincitore del Turing
Award 2012 (considerato il Nobel dell’informatica), pioniere dell’analisi causale. Scrive di lui Soatto:
«Un ingegnere elettronico della Rca diventato un
pilastro della Computer Science, uno dei riformatori di Artificial Intelligence, uno dei caposaldi di
Machine Learning, fino ad arrivare ai fondamenti
della statistica». L’ho conosciuto, qualche anno fa,
proprio grazie a Soatto: un personaggio di un’intelligenza folgorante e di un’umanità disarmante.
Nell’intervista – originale, documentata e scrupolosa – Rossella commette però un piccolo errore: descrive Stanford come «una università Ivy League».
Soatto le ha scritto: «Ti mando un paio di commenti; scusa se mi permetto di farteli, ma visto che sei
Oggi la sciatteria è un vizio
che non ci possiamo permettere
giovane e giornalista, rappresenti un nodo importante del futuro del tuo paese. Stanford non è una
Ivy League. Ciò non vuol dire che non sia un’ottima
università, ma quando uno scrive è importante verificare la correttezza di tutte le affermazioni, anche
se apparentemente banali o prive di conseguenze.
Quando una cosa è scritta, è scritta per sempre, ed è
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difficile immaginare quali ripercussioni possa avere
a distanza di anni. Purtroppo questo concetto si sta
perdendo con l’abitudine all’imprecisione dovuta al
ciclo giornalistico accelerato (senza revisione editoriale), ai blog, social media etc. Ma molti giovani
qui negli Usa lo stanno imparando sulla propria
pelle, quando gli uffici di ammissione all’università
oppure i potenziali datori di lavoro vanno a cercare le tracce che uno ha lasciato. Paradossalmente,
oggi è più facile commettere errori, ed è più difficile cancellarli».
Pignoleria? No, esattezza motivata e finalizzata.
Una piccola lezione utile per tutti, ma indispensabile per noi italiani. Chi ce l’ha fatta, fateci caso,
ha saputo unire brillantezza e precisione. La prima
è congenita; la seconda va coltivata. Pochi di noi
dovranno preoccuparsi della propria intuizione,
dell’intelligenza emotiva o della capacità di pensiero associativo; quasi tutti, invece, dobbiamo badare
alla nostra costanza e affidabilità. Esiste un sospetto
metodico di superficialità verso noi italiani: lamentarsi non serve, bisogna smentire con i fatti. Orari,
appuntamenti, note-spese, interventi in riunione,
consegne, scadenze: se un tedesco se ne scorda, è
distratto; se ce ne dimentichiamo noi, pensano che
siamo sciatti.
La precisione non è solo una sana consuetudine lavorativa; è anche un atteggiamento verso le persone
e le cose. Prendiamo l’ironia: non può essere generica. Per funzionare, deve essere esatta: solo così ci
aiuterà a sorridere delle imperfezioni del mondo,
soprattutto di quelle che non possiamo correggere.
L’ironia è chirurgia verbale. Non può essere imprecisa, altrimenti rischia di uccidere ciò che vuol
salvare.
Lella Costa – autrice nel 2000 con Gabriele Vacis
del monologo Precise parole (tutto torna) – ha appena pubblicato Come una specie di sorriso. Scrive:
«Non sempre l’ironia fa ridere, anzi. Spostare lo
sguardo, cambiare il punto di vista, illuminare la realtà da una prospettiva diversa, affermare dignità e
superiorità sul destino richiedono rigore, disincanto, consapevolezza, lucidità implacabile e obiettività assoluta». È così. L’ironia è precisa: ecco perché
funziona bene su twitter che, come ho scritto più
volte, considero una forma di igiene mentale quotidiana. Giulia @CraftyKitteh – 30 anni, milanese,
«antropologa fotografa, sognatrice e appassionata
di crochet/uncinetto» – ha letto la mia definizione
e ne ha proposto una migliore: «Twitter? Un filo
intermentale». Brava Giulia. Uncinetto verbale: un
lavoro di precisione.
Quando una cosa è scritta, è scritta per sempre,
ed è difficile immaginare quali ripercussioni possa avere
a distanza di anni. Purtroppo questo concetto si sta
perdendo con l’abitudine all’imprecisione dovuta al ciclo
giornalistico accelerato (senza revisione editoriale),
ai blog, social media etc.
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Il mestiere dell’editore: produrre i libri
Cesare De Michelis, Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013
Cari amici di :due punti edizioni, il libro-manifesto
che vi accingete a mettere in circolazione col titolo
Essere editori oggi prende lo spunto dalla crisi che in
quest’ultimo anno ha investito anche l’editoria libraria e soprattutto le piccole case editrici, che sono ovviamente le più fragili, e dalla rivoluzione che contemporaneamente è stata provocata dall’affermarsi
delle nuove tecnologie, a cominciare dall’ebook, le
cui conseguenze non è facile né immaginare né misurare, e vuole aprire un confronto per ridefinire lo
statuto stesso del lavoro editoriale e più in generale
del lavoro culturale.
La premessa da cui partite è che nessuna tecnologia può sostituire l’editore (o l’editor) nel suo ruolo fondamentale di «selezionatore» dei testi da offrire al pubblico tra i molti che vengono prodotti
e quindi di promotore della loro diffusione, ma al
tempo stesso valutate severamente i modi nei quali l’editoria attuale svolge il suo compito, asservita
com’è a logiche di mercato «consumiste» e dominata
com’è da concentrazioni «monopoliste», che vanno
contrastate duramente per non compromettere la
libertà dell’intero sistema della conoscenza e della
creatività, la quale per altro riconoscete che la vostra
attività di piccoli editori non è stata e non è in grado
di difendere da sola.
La rivoluzione tecnologica e il sistema partecipativo
consentito dalla rete possono, dunque, trasformarsi
in una straordinaria occasione per rivoluzionare il sistema in essere rendendolo «migliore», riducendo di
fatto il potere della finanza, perché le risorse necessarie all’impresa editoriale sono di gran lunga minori, e il potere del pubblico, che attraverso le comunità virtuali è assai meno condizionato dal marketing
e dalla pubblicità e, quindi, capace di orientarsi più
liberamente, il che dovrebbe premiare le proposte (i
libri) degli editori «impegnati e militanti» come voi.
A dire il vero l’esperienza già fatta dal cinema o dalla musica non sembra darvi ragione, visto che gli
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orientamenti degli spettatori e degli ascoltatori non
sembrano essersi inequivocabilmente rivolti verso
opere di maggior impegno o qualità, ma la ragione
delle mie perplessità non dipende soltanto da uno
scetticismo consolidatosi negli anni, quanto invece
dal proposito che difendete di correggere le distorsioni del libero mercato trasformandolo in «equo
e solidale» attraverso strumenti come la «garanzia
partecipativa» o il no-profit. Voi stessi alla fine del
manifesto affermate come essenziali due valori che
è sempre stato difficile far convivere: da un lato c’è
la «bibliodiversità» e cioè il pluralismo e dall’altro la
«sostenibilità» e cioè la misura, frutto di una selezione responsabile, che non affidi alla discrezionalità
dei lettori tutta la responsabilità della scelta di fronte a un’offerta che rischia di essere smisurata.
La necessità di investire risorse economiche per
pubblicare un libro ha fino ad oggi consentito di
misurare la «sostenibilità» in modo non ideologico:
un libro si poteva stampare e mettere in commercio
solo immaginando un pubblico di lettori (e acquirenti) che consentisse di recuperare le spese sostenute, e il fatto che l’autore non venisse considerato
un lavoratore da retribuire, ma un socio con il quale dividere gli incassi, era il modo per riconoscerne
l’indipendenza e l’autonomia. Quando tutto il sapere e tutta l’invenzione degli autori sarà gratuitamente disponibile in rete diventerà ancora più difficile
orientarsi nella foresta delle proposte editoriali e
insignificante o superfluo misurare il consenso che
ciascuna di esse sarà capace di raccogliere, e probabilmente diventeranno decisive le risorse da destinare alla propaganda e alla promozione, che non
venendo dal pubblico verranno da chi ha «interesse»
a sostenere idee o persone a prescindere dal giudizio
dei destinatari.
A questo punto l’editore non conterà più per le sue
scelte, ma per la capacità di raccogliere fondi al servizio di forze che lo sovrastano e ne condizionano
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il lavoro. Il mercato del libro dalle sue origini, da
quando cioè è stato possibile riprodurre meccanicamente un testo, è stato caratterizzato da un eccesso di offerta rispetto a una domanda che faticava a
esprimersi con chiarezza, e contemporaneamente ha
dovuto fare i conti con la pretesa di limitare la sua
libertà con strumenti più o meno autoritari, perché è
stato subito chiaro che non tutti i libri erano egualmente «buoni», anzi che molti di essi diffondevano errori o menzogne, o peggio suggerivano azioni
malvagie o criminali.
Alla fin fine c’è da augurarsi che, mentre si trasformerà il supporto sul quale i libri, molti libri, andran-
no in giro cercando e incontrando lettori, il mercato
resista abbastanza simile a quello che esiste, il quale
poi pur tra mille contraddizioni ha certo consentito
a molte misere opere di vendere più copie di quante
avrebbero meritato, ma ha anche permesso lo sviluppo e la diffusione di una cultura che, nonostante i
guai della modernità, non è certo peggiore di quella
che la ha preceduta. Qualità e quantità, è cosa nota,
faticano a procedere insieme, ma l’importante è che
il confronto continui rinnovandosi ogni volta, mediando e rimediando, senza né sperare né attendersi
che il conflitto possa essere superato una volta per
tutte.
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È saggio scrivere saggi
Un volume curato da Anna Dolfi avvalora un sospetto che da tempo va affermandosi:
le migliori prove oggi arrivano non dalla fiction ma dalla saggistica. Anche in Italia
Alfonso Berardinelli, Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2013
Nonostante l’ottimismo commerciale (un po’ disperato) di cui si alimenta il romanzo, nonostante
l’aureola convenzionale di cui gode la poesia (o l’idea di poesia), sulla sorte attuale della letteratura
europea gli interrogativi non mancano. Il fatto che
raramente vengano formulati non migliora la situazione. Il nuovo millennio non ha portato scoperte nuove, né ha prodotto opere tali da apparire
caratteristiche di una nuova epoca. La maggiore e
più sintomatica novità è quantitativa: moltissimi
sono gli scrittori e ognuno di loro pubblica molti
libri. La formula «Letteratura in pericolo», lanciata qualche anno fa da un trascurabile pamphlet di
Tzvetan Todorov, non ha certo convinto gli autori,
più prolifici che mai, pur avendo attirato l’attenzione di qualche critico capace di guardare al di là
delle apparenze. Dato che risulta latitante anche
la letteratura teatrale (se qualche autore c’è, viene
trascurato volentieri) non si può che pensare alla
saggistica: il meno consacrato dei generi letterari,
ancora non del tutto ammesso nel regno della “creatività”, anche perché non sempre si sa distinguere
la saggistica che è letteratura da quella accademica
e giornalistica, che quasi mai lo è.
Un chiaro sintomo di questa ansia e incertezza (ontologica o deontologica) è il caso di alcuni ottimi
saggisti che per sentirsi scrittori in piena regola si
sono messi a scrivere romanzi «da dimenticare» e di
fatto dimenticati: è accaduto, per esempio, a George
Steiner, a Susan Sontag e a Claudio Magris.
Appena diverso è il caso di Roberto Calasso, che
cerca non sempre felicemente di trasfigurare in
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narrazione lo studio dei miti e un’erudizione bibliografica maturata in decenni di lavoro editoriale. Comunque, se vogliamo identificare gli autori
italiani oggi di maggior prestigio fuori dai nostri
confini, troviamo proprio saggisti come Magris e
Calasso, nonché un filosofo scrittore che si muove fra teologia, letteratura e politica come Giorgio
Agamben.
A questo punto posso azzardare un’ipotesi diagnostica. Dopo tanti secoli gloriosi e tante rivoluzioni novecentesche violentemente autocritiche, la narrativa e la poesia non sembrano più
avere in Europa energia sufficiente per inventare nuovi miti, nuovi personaggi e nuove forme.
Quando qualcuno ha provato a confrontare la
prima metà del Novecento con la seconda, ha dovuto constatare che gli ultimi, indiscutibili classici erano quelli che avevano aperto e chiuso con i
loro capolavori la fase terminale della modernità,
portandola ai suoi limiti estremi: Proust, Valéry
e i surrealisti, Kafka, Musil e Benn, Joyce, Woolf
e Eliot. Da allora in poi, fino alla postmodernità, soprattutto i romanzieri sono diventati un
fenomeno «fuori teoria», dando luogo a una varia
vicenda di casi singoli, abnormi e contraddittori:
che cosa hanno infatti in comune Henry Miller,
Döblin, Céline, Faulkner, Hemingway, Borges,
Blixen, Nabokov, Singer, Simenon, Morante, Solzenicyn? Dopo gli anni Venti, i migliori
narratori hanno quasi tutti abbandonato le rivoluzioni formali appena compiute e hanno fatto
ognuno a modo suo.
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Ma intanto, nel corso di un intero secolo, la saggistica aveva invaso e accerchiato, minacciato e nutrito gli altri generi letterari. I narratori puri, come
Hemingway, Simenon e Singer, diminuivano,
mentre aumentavano quelli riflessivi, compromessi
e contaminati con la saggistica: si va da Gadda e
Borges a Orwell, Camus, Queneau. La storia di
Dopo gli anni Venti, i migliori narratori
hanno quasi tutti abbandonato le rivoluzioni
formali appena compiute e hanno fatto
ognuno a modo suo.
Calvino, già in zona postmoderna, mostra in modo
esemplare la svolta dal racconto puro alla dissoluzione metaletteraria del racconto e infine alla saggistica narrante di Palomar e Collezione di sabbia.
In poeti-saggisti come Pasolini e Enzensberger,
la saggistica ha preso il sopravvento, sia fuori che
dentro la poesia. Infine, l’influenza e perfino la
moda di uno dei più geniali e più esoterici critici
del Novecento, Walter Benjamin, ha creato una
vasta area di contaminazioni e di scambi fra invenzione speculativa e invenzione stilistica: influenza
e moda che si è sommata a quella di Roland Barthes, passato dalla critica della società borghese e
di massa alla semiologia letteraria e più tardi all’aforistica autobiografica.
Sono stato spinto a queste considerazioni dalla
lettura del volume La saggistica degli scrittori (Bulzoni, pagg. 456, € 35,00) a cura di Anna Dolfi,
interamente dedicato alla teoria, alla pratica e alla
presenza della forma saggistica nella letteratura
del Novecento. Leggendolo, ho avuto l’impressione ricorrente che esaminando il passato questo
volume proponga anche una strada per il presente
e per il futuro: insomma, critica militante in forma
di studio. Dopo gli atti di due convegni voluti da
Giulia Cantarutti e pubblicati dal Mulino, Il sag-
gio. Forme e funzioni di un genere letterario (2007)
e Prosa saggistica di area tedesca (2011) e dopo le
indagini di Angela Borghesi su una serie di Genealogie critiche (Quodlibet 2011), ecco dunque una
serie di contributi (oltre venti) dovuti a studiosi
italiani e francesi. La precisione delle analisi e la
varietà degli scrittori presi in esame fanno di questo libro un vademecum critico che non pretende
di esaurire il discorso, ma incoraggia a continuarlo
in altre direzioni. I due capitoli teorici di apertura,
dovuti a Enza Biagini e Marielle Macé, ripercorrono un itinerario nel quale non potevano mancare Lukàcs e Adorno, Sartre, Bataille e Barthes.
Vengono poi dedicati due capitoli a Benjamin e
a Queneau, a cui seguono studi sull’osmosi fra
narrazione e saggio in Gadda, Carlo Levi, Meneghello, Manganelli, Calvino, Sciascia, Pasolini,
Volponi, Arbasino, Magris. La saggistica dei poeti avrebbe forse richiesto un altro libro; qui ci si
limita a pochi esempi, del resto ben scelti: Sereni,
Luzi, Zanzotto, Bonnefoy.
Alla resa dei conti, ciò che emerge potrebbe essere definito «riflessione narrante». Anche nelle sue ramificazioni americane (Borges, Octavio
Paz, Saul Bellow, Gore Vidal) la letteratura europea tende a includere una filosofia di se stessa
e del mondo che raramente si incontra con quella
dei filosofi professionali, poiché evita le astrazioni generalizzanti e preferisce muoversi fra microstoria e micrologia della vita quotidiana, anche
quando l’obiettivo è focalizzato sulla società e la
politica. Enzensberger e Steiner possono essere
considerati fra i più originali filosofi contemporanei, certo non inferiori ad Habermas o a Derrida. In Italia, dopo Pasolini e Calvino, gli ultimi
maestri del Novecento sono stati tre saggisti narratori come Raffaele La Capria, Cesare Garboli
e Piergiorgio Bellocchio, che invece di scrivere
romanzi hanno scritto saggi. Qualche buona ragione deve esserci. Poco formalizzato, il genere
saggistico è il più libero e duttile dei generi letterari. Si adatta ai più diversi contenuti e alle più
varie circostanze. Possiamo anche scommettere,
credo, sul suo futuro.
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Il libro di carta vivrà…
finché faremo l’amore
L’ebook è già una rivoluzione alla portata di tutti.
Ma il virtuale non sostituirà l’odore delle pagine stampate,
il calore di un’amicizia, la passione dell’eros
Stefania Vitulli, Panorama, 7 gennaio 2013
Partiamo dai libri. Università Cattolica, Milano,
un pomeriggio di lezione come tanti altri: accanto
al docente, un esperto di virtualità, amministratore
delegato del più grande store indipendente di ebook
in Italia. Il digitale ha disincrostato la cultura, i libri
sono alla portata di tutti, averne uno in pochi secondi sul proprio monitor è la rivoluzione di questi
anni. Studenti, esultate, almeno una l’avete sottomano, di rivoluzione. Ma gli studenti, si sa, sono
fatti per protestare: «Vogliamo il profumo della carta!». L’ospite è interdetto. Peraltro gli studenti sono
di Lettere: gente fuori dal mondo, si sa, ma anche
potenziali scrittori, editor, librai. Tutti mestieri in
via di estinzione, secondo i seminari più avanzati sul
tema: le librerie rimarranno solo vetrine negli aeroporti, dice uno studio olandese di due anni fa, l’autopubblicazione eliminerà editori e agenti e i libri
si scriveranno da soli, autogenerati da software 4.0.
E invece questi studenti che ancora hanno conosciuto il profumo della carta lo pretendono in camera, dicono, da annusare nella libreria sopra il letto
prima di dormire. Se lo aspettano quando il libro è
nuovo, ché ha un odore diverso, e a volte addirittura lo comprano in base all’odore. Valori da riflusso,
lontani dai magma concettuali in cui si sono incistati i detrattori del digitale, valori da corpo sciolto. Sta
di fatto che, 6 mesi dopo quella lezione, al Salone
del libro di Torino, a chi si avvicina agli ebook del
suddetto store indipendente viene regalata una boccetta di plastica vuota. Contiene «il profumo della
carta», dice l’etichetta. Finché ci saranno generazioni che il profumo della carta se lo ricordano, lo
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desidereranno. Brutta cosa, i ricordi. Hanno questa
maldestra tendenza a fissarsi sulla realtà.
Passiamo agli scrittori. Dice Glenn Cooper, uno da
3 milioni di copie, quello della Biblioteca dei morti
(Editrice Nord, 430 pagine, 13 euro) e i suoi seguiti: «Quando trovo un libro che mi sembra utile, lo
compro in ebook. Mi arriva in 10 secondi. Ma uso
il digitale solo come anteprima. Se il libro è interessante, ne compro una prima copia che sottolineo e
uso per le ricerche. Poi una seconda, che conservo
intonsa in biblioteca. Per i libri ci vuole rispetto».
Intende i libri fisici… «Perché, esistono libri non fisici?» risponde Cooper.
Libro digitale è un ossimoro. Libro cartaceo una
ridondanza. A pensarci, lo spleen del reale diventa
allora un’esilarante assurdità: come diciamo «biologico» per conferire alla natura una naturalità ontologica, diciamo «analogico» per dare alla realtà una
dignità terminologica. Vogliamo, insomma, rassicurarci: esistiamo, anche se ci trasformiamo fino
quasi a non riconoscerci più. Lo schermo virtuale si
sovrappone al reale, mica lo cancella. Siamo come
bambini: se ti metti un velo davanti al volto, pensano che tu sia sparito.
Amiamo il virtuale, lo idolatriamo, a tratti. Ma forse
che non se lo merita? Il virtuale ci dà grandi soddisfazioni. Ci accompagna dappertutto, in ogni minuto, e le sue sirene ci gratificano enormemente più del
reale. Checché ne dica la polizia postale, è un porto
sicuro, e se ci manipola chi se ne frega: ci crediamo
così intelligenti da sapere manipolare meglio noi lui.
Ci fa regali di sapore mitologico: l’ubiquità, l’onni-
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scienza, la microfama. Siamo famosi, nel circuito
che abbiamo creato sui social network. Abbiamo dei
fan, pochi o tanti che importa? È gente che «ci segue». Che vuole sapere che cosa pensiamo. «Piscio,
dunque penso» dice Jean Clair ne L’inverno della
cultura (Skira, 112 pagine, 16 euro). «Incontinenza dell’io. Prostata delle civiltà stanche. Catastrofe». Ma più avanti, però: «L’artista lascia dietro di
sé degli oggetti ai quali si attribuirà, probabilmente
con un po’ di leggerezza, la virtù dell’immortalità;
sono comunque oggetti che, privi di qualsiasi utilità,
senza alcuna destinazione d’uso, usciti dal circuito
commerciale, sono testimonianze uniche e incomparabili nella loro fragilità e vulnerabilità, in questo
senso impregnati, come i vasi di Babilonia, di una
certa sacralità». Non si può forse dire la stessa cosa,
con le stesse parole, dell’amore?
L’arte virtuale, l’amore virtuale, l’amicizia virtuale
e persino gli ebook non vinceranno la battaglia con
il reale perché semplicemente non esistono. Finché
avremo un corpo, per quanto malandato, governeremo sul senso del bello e sceglieremo a chi o a che cosa
attribuire l’origine delle cose: «La mia principale con-
solazione in quest’anno che ho vissuto morendo è stata la presenza degli amici» scrive lo scomparso giornalista Christopher Hitchens in Mortalità (Piemme,
112 pagine, 12 euro). L’ultima profezia del fondatore
del movimento cyberpunk, Bruce Sterling, famoso
perché di solito ci azzecca, è che le nostre idee su ciò
che abbiamo saranno sempre più fragili: mettiamo
le foto ricordo su quelle che oggi vengono chiamate
«nuvole», in rete. Ci fidiamo, ma l’unico strumento
di archiviazione valido rimane la pellicola. La realtà sopravvive, è la tecnologia a estinguersi, chiarisce
Sterling: «Le stampanti 3d hanno un potenziale rivoluzionario, ma le rivoluzioni non hanno bisogno di
tecnologia per realizzarsi: pensate al 1968, al 1989. O
alla primavera araba del 2010».
Il rischio, piuttosto, è che, avvinazzati dalla virtualità, non ci si applichi più a comprendere la struttura
che sottende alle azioni analogiche ovvero reali. La
scelta di studiare scienze umane ha subito un crollo
in tutto il mondo occidentale, a favore della concentrazione sulle tecnologie. Come potremo insegnare
ai cyborg a fare l’amore se non sappiamo che cosa
contiene la nostra «vagula blandula» anima astrusa?
Libro digitale è un ossimoro.
Libro cartaceo una ridondanza.
A pensarci, lo spleen del reale diventa allora un’esilarante
assurdità: come diciamo «biologico» per conferire alla natura
una naturalità ontologica, diciamo «analogico» per dare
alla realtà una dignità terminologica. Vogliamo, insomma,
rassicurarci: esistiamo, anche se ci trasformiamo fino quasi
a non riconoscerci più. Lo schermo virtuale si sovrappone
al reale, mica lo cancella. Siamo come bambini: se ti metti
un velo davanti al volto, pensano che tu sia sparito.
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Teresa Cremisi: «Noi editori, intellettuali decaduti,
saremo salvati dai lettori ragazzini»
L’italiana alla testa di Flammarion: «Come decido di pubblicare un libro?
Faccio silenzio dentro di me e sento se è il momento giusto»
Franco Marcoaldi, la Repubblica, 7 gennaio 2013
Per secoli la nostra capacità di giudizio si è formata
sui libri, base indiscussa della conoscenza. Ma chi
giudica, a sua volta, i libri? Chi decide se, come
e perché pubblicarli? Per affrontare questo tema,
difficile pensare a una persona più adatta di Teresa Cremisi, nata nel 1945 a Alessandria d’Egitto
da padre italiano e madre anglo-spagnola, che con
i libri, e di libri, è vissuta una vita intera. Fin da
quando, appena laureata, entrò in Garzanti, dove
dopo una lunga trafila (lessicografa per i dizionari,
responsabile del dipartimento scolastico, direttrice
letteraria), avrebbe finito per assumere, nel 1985,
il ruolo di condirettrice generale. Il vero grande
salto, però, arriva nel 1989, quando Antoine Gallimard la vuole con sé come direttrice editoriale
dell’omonima casa francese. Nel 2005, un ulteriore
passaggio: stavolta alla testa di Flammarion. Ed è
qui che la incontro, a Place de l’Odéon numero 1:
un indirizzo prestigioso, anche se i pochi ambienti
che ho modo di vedere suggeriscono la sede di un
elegante editore di nicchia, non la tolda di comando di un colosso, il quarto, della fiorente industria
libraria francese. «Lei mi chiede della parte più alta
e nobile del mio mestiere. Perché giudicare un testo vuol dire valutarne la bellezza. Ma vuol dire,
prima ancora, mettere in azione quella sensibilità
editoriale in base alla quale si capisce che è arrivato
il momento giusto per pubblicare quel certo libro.
Ciò che formula l’editore, infatti, non è un giudizio assoluto, ma condizionato dal tempo in cui
vive. Intendo dire che è molto più effimero dell’abituale giudizio sul bello, legato a un tempo infini-
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tamente più lungo, che può a volte durare l’intero
arco di una civiltà. Per noi editori si tratta sempre
di una valutazione contingente, a partire dalla quale ci assumiamo il rischio, quali che siano le circostanze commerciali, di pubblicare un testo in cui
si crede. Tutto questo riguarda il cinque percento
della nostra attività, perché l’altro novantacinque si
fonda sulla pura convenienza: l’editore, sarà bene
non dimenticarlo, è anche e soprattutto un commerciante».
Come avviene la scelta del libro giusto al tempo giusto?
Si deve anticipare di poco una sensibilità che è già
nell’aria, ma non ancora riconosciuta e fatta propria
da tutti. Bisogna stare attenti, però, a non anticipare
troppo, altrimenti si rischia che quel testo non venga
capito. Si ritorna così a quanto detto prima: noi editori siamo metà intellettuali e metà commercianti.
Occupandoci di cose dello spirito, forse non ci comportiamo allo stesso modo del fiorista qui all’angolo che ieri mi spiegava come prima le orchidee non
andassero affatto, mentre ora vanno alla grande e
tra qualche mese, magari, cominceranno di nuovo
a non vendere. Nel nostro mestiere c’è quel piccolo
quid in più: di fronte a un futuro, possibile libro, l’editore dovrà fare silenzio in sé stesso, e se sente che
è il momento giusto, osare il necessario.
E i classici, allora? Quelli, in teoria, dovrebbero andare
bene sempre.
È vero fino a un certo punto. Anche loro subiscono
la moda. Prenda Shakespeare: ora è all’apice della
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sua fortuna, ma nell’Ottocento non accadeva altrettanto. Anche i grandissimi autori conoscono i loro
cicli; pur trattandosi di cicli molto più lunghi di
quelli abituali.
Quanto conta la struttura di una casa editrice nella scelta e nel giudizio di un libro?
Ciò che formula l’editore, infatti, non è un
giudizio assoluto, ma condizionato dal tempo
in cui vive. Intendo dire che è molto più
effimero dell’abituale giudizio sul bello, legato
a un tempo infinitamente più lungo, che può a
volte durare l’intero arco di una civiltà.
Quando un’azienda editoriale appartiene a un
grande gruppo quotato in borsa, obbedisce a regole, tempi e condizionamenti molto diversi rispetto
a quelli di una azienda familiare. Ma tutta l’editoria, più in generale, è enormemente cambiata
da quando è entrato in campo l’uso massiccio di
strumenti di controllo un tempo inesistenti. Negli
anni Settanta, a fine stagione non sapevamo neppure se avevamo guadagnato o perso soldi. Adesso
si sa praticamente tutto: il sell out, la redditività.
E l’uso di questi strumenti, ovviamente, cambia la
vita dell’editore. Senza contare che allora c’erano
vendite più lunghe e più lente. Anche questo è
cambiato, con l’avvento di quella che, con orribile
termine, si chiama bestsellerizzazione.
Girando nelle librerie parigine, ho avuto l’impressione
che la saggistica abbia un peso ben maggiore di quanto
accade in Italia.
Se si riferisce all’esposizione sui banchi ha ragione.
In Francia si pubblica molta saggistica e per lo più
di ottima qualità. In termini di copie vendute invece
le cosiddette scienze umane sono in netto regresso
rispetto a vent’anni fa.
Mentre in Italia il tracollo delle vendite è generalizzato.
Lo so, e non riesco ancora a spiegarmelo del tutto.
Ovviamente non è a causa del digitale, che ha inciso
molto poco. Come poco incide in Francia: lo 0,70,8 percento. Ci sono problemi nelle librerie, è vero;
alcuni attribuiscono questo tracollo al passaggio da
sconti selvaggi a sconti molto più controllati. Io non
saprei azzardare nessuna ipotesi. Anche perché qui
in Francia c’è una situazione completamente diversa: una contrazione del 2,5-3 percento, la stessa di
tutti gli altri consumi.
Sempre in libreria ho osservato i primi libri Flammarion che mi sono caduti sotto gli occhi. E nell’ordine ho
visto: un saggio di Canfora su Giulio Cesare, l’ultimo
libro di papa Ratzinger, il manuale del perfetto arrivista e una monografia di Bonnefoy su Giacometti. Cosa
lega tra loro questi libri?
Nulla, e nulla deve legarli. Questa casa editrice è
nata nel 1876, proprio qui, sotto le arcate del teatro
dell’Odéon, dove il giovane Flammarion cominciò a
stampare i testi teatrali. Ogni azienda ha il proprio
dna e quello di Flammarion è fatto di varietà e facilità di accesso a un vasto pubblico. A differenza di
Gallimard, che nasce cinquant’anni dopo, e si lega a
una élite alto borghese, alla grande letteratura e alla
rivista Nrf , Flammarion è una casa editrice generalista: da noi si pubblica letteratura popolare e di
alto livello, abbiamo un enorme catalogo di storia
e filosofia, e da quarant’anni in qua ci occupiamo di
tutto ciò che sta tra l’arte e i libri di pratiques, come
li chiamano i francesi.
Non a caso il motto del primo Flammarion era: offrire
libri di qualità a un prezzo accessibile e rivolti al maggior numero di persone.
A dire il vero facciamo anche i libri di Cartier a
quattrocento euro, ma non per questo dismettiamo
collane al prezzo di copertina di soli due euro.
Anche in un colosso generalista come questo resta un criterio comune di giudizio?
Io non posso certo giudicare tutta la nostra produzione: si tratta di mille e settecento titoli all’anno!
Questa è un’azienda fatta di tanti orti. Ma le posso
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assicurare che ciascuno ara, semina e coltiva al meglio il suo.
Spesso mi domando: siamo così sicuri che leggere qualsiasi cosa, fa comunque bene? Detto altrimenti: tra una
cattiva lettura e una buona passeggiata, lei cosa sceglierebbe?
Personalmente, sceglierei una buona passeggiata.
Però rimango convinta del fatto che, qualsiasi cosa
si legga, è sempre meglio che non leggere. Nella
mia vita lavorativa ho definitivamente abbandonato ogni genere di snobismo. Compreso quello della
casa editrice perfetta, che pubblica soltanto libri
perfetti.
Visto che stiamo parlando di giudizio sui libri, conta
ancora quello dei critici francesi?
Una critica unanimemente positiva su uno scrittore sconosciuto conta moltissimo. L’esordiente che
si affaccia sulla scena letteraria e raccoglie critiche
elogiative da cinque o sei critici di gusti differenti può trarne un immenso beneficio in termini di
mercato. Diverso il caso degli scrittori affermati, per
non parlare dei bestseller. Qui il ruolo della critica è
assolutamente inesistente.
Televisione e radio che ruolo hanno?
Decisamente positivo, in particolare la radio. Perché
è molto ascoltata ed è ricca di trasmissioni dedicate
ai libri e quindi ai dibattiti. Del resto si sa, il francesi
parlano dalla mattina alla sera. Resta comunque che
il mercato librario rappresenta il doppio di quello
italiano, per una popolazione grosso modo identica.
E questo vorrà pure dir qualcosa.
Anche lei è preoccupata per un possibile, progressivo distacco delle nuove generazioni dalla lettura?
Nient’affatto. Da cinquant’anni in qua, le giovani
generazioni non hanno mai letto così tante pagine,
come oggi. In un mercato europeo e nordamericano
in contrazione, l’editoria per ragazzi cresce di qualche punto. E non è solo il successo di Harry Potter
a portare questa crescita: ogni due o tre anni si impongono nuovi bestseller destinati ai ragazzi.
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Utopia a Milano
Francesco M. Cataluccio, Doppiozero, 8 gennaio 2013
Alcuni avranno forse letto, nel giorno della Befana,
sul Corriere della Sera, l’intervista a Lucio Morawetz
nella quale annunciava che la libreria Utopia, di via
Moscova, chiuderà e riaprirà, dopo un paio di mesi,
in via Vallazze, a Città Studi. La notizia segue di
pochi giorni quella della cassa integrazione, già in
atto, per circa 60 librai della storica libreria Hoepli
(fondata a Milano nel 1870), che ha sede a due passi
da piazza Duomo ed è una delle più belle e fornite
librerie d’Europa. Sempre in centro, cambia sede (e
si sposta in via Cesare Cesariano) anche la curiosa libreria del Mondo Offeso e ha da poco chiuso
la libreria di Brera, come pure la libreria antiquaria
Rovello, punto di riferimento per gli amanti dei testi
antichi.
Questa è veramente una grande ferita per la città. La
chiusura della libreria Utopia è non solo una ferita
culturale, perché sparisce dal centro una delle migliori librerie di Milano (dove era possibile trovare e
scoprire titoli di piccolissimi editori dei quali spesso
non si era a conoscenza), ma anche un luogo di ritrovo intelligente e l’occasione di incontri e dibattiti
mai scontati o banali.
In questo modo, largo La Foppa rimarrà soltanto un
presidio per bar e aperitivi che sono anch’essi assai
utili alla nostra vita, ma che non possono essere l’unica categoria merceologica che, assieme ai negozi
di moda, monopolizza il paesaggio del centro della
città.
La libreria Utopia chiude, e si trasferisce in periferia
(con tutto il rispetto per Città Studi), perché, come
le altre librerie, a causa della crisi e il calo delle vendite non ce la fa più a pagare l’affitto di un locale in
centro.
Il libraio Lucio Morawetz è stato molto dignitoso
(categoria sempre più rara) nel non chiedere fino ad
oggi aiuto e nel non rivendicare per sé un «trattamento di favore». È cosciente del valore anche civile
del suo lavoro (nel quale si è speso, con i suoi dipen-
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denti e collaboratori, ben oltre le normali otto ore
e senza badare ai giorni festivi), ma non ha preteso
nulla per questo.
L’amministrazione di Milano e l’assessorato alla
cultura però non possono oggi limitarsi a esprimere
un amaro rammarico, ma debbono intervenire tempestivamente per fermare questo scempio culturale
e umano.
La chiusura di una libreria come Utopia, e come
le altre, è infatti un problema civile e sociale, che
riguarda tutta la città. La questione era già venuta
fuori lo scorso anno con il ventilato aumento delle tariffe per l’«occupazione del suolo pubblico» che
rischiava (e rischia) di uccidere i piccoli chioschi di
libri usati sparsi per la città.
Sarebbe necessaria una maggiore sensibilità concreta verso i problemi delle rivendite dei libri. Non si
ha evidentemente abbastanza chiaro che le librerie
sono dei presidi della cultura e della democrazia.
Sono dei luoghi pubblici dove le persone si incontrano, parlano, si fanno delle idee, giudicano. Le librerie fanno parte del panorama culturale e sociale
di Milano, come la Scala, il Piccolo Teatro, i musei.
Tutte istituzioni che, quando sono in crisi, ricevono
giustamente dei finanziamenti dall’Amministrazione, perché sarebbe impensabile la città senza di loro.
Se è inimmaginabile una Milano senza la Scala, lo è
altrettanto senza le sue librerie.
C’è un’idea di paesaggio per la quale si batte con
forza da anni Salvatore Settis che sostiene che esso
è un insieme di tante cose, di stratificazioni storiche e di costumi, che non possono essere cancellati
(come non si possono abbattere gli alberi o spianare le colline) senza correre il rischio che la qualità
della nostra vita, e delle culture e delle memorie
che ci tengono assieme, ne risultino per sempre
compromesse.
Quando i bouquiniste di Parigi hanno iniziato a risentire, alcuni anni fa, della crisi, l’amministrazione
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della città li ha agevolati in tutti i modi, con la riduzione delle tasse e sovvenzioni. «La nostra città»
sostenne il funzionario responsabile «non potrebbe
nemmeno immaginare che sparissero i bouquiniste.
I turisti che arrivano sul lungo Senna cosa direbbero
se al loro posto vi trovassero dei venditori di souvenir o distributori di hot dog?!».
E cosa diranno i visitatori di Milano quando nel
centro della città non troveranno nemmeno una libreria e, salendo su dal metrò Moscova, si guarderanno attorno in una piazza circondata da soli bar?
E noi milanesi ci rassegneremo a comprare i libri
soltanto su internet (perché, a quel punto, è comunque meno frustrante, e si perde meno tempo, che
farlo in un megastore).
I luoghi sono Storia e storie. E allora non si può pensare di risolvere il problema con «affitti di altri immobili a prezzi agevolati». Perché spostando un luogo si
uccide la sua identità: la libreria Utopia è una vicenda
che dura lì da 36 anni. Altrove sarà un’altra cosa, e
tutti perderemo qualcosa di importante.
Che cosa si può concretamente fare?
1) il Comune di Milano ripensi alla categoria assai civile della «destinazione d’uso», ampiamente
ignorata dalle amministrazioni «liberiste» precedenti: si vincolino, per ragioni storiche e paesaggistiche, alcune attività al proprio luogo, almeno
per quanto riguarda l’affitto (dove c’era una libreria
non potrà esserci un esercizio commerciale differente; dove c’era una galleria d’arte non potrà esserci un negozio di scarpe, ma un’altra galleria ecc.:
se il proprietario, legittimamente, vuole cambiare
la destinazione d’uso di un locale in centro, allora
deve venderlo);
2) il Comune di Milano possiede centinaia di immobili sfitti: proponga ai proprietari lo scambio con
un altro immobile di eguale valore e si consideri garante e proprietario del luogo e dell’attività che si
vuole tutelare;
3) il Comune di Milano, e il suo assessorato alla
cultura, si facciano promotori di una rete di librai
indipendenti e tradizionalmente legati a dei luoghi
storici e preveda delle forme di agevolazioni per le
loro attività;
4) il Comune di Milano favorisca e incentivi forme
di attività commerciali plurime che, mantenendo l’identità del luogo, permettano al gestore di integrare
i guadagni con la vendita di altri prodotti (la libreria
Utopia aveva offerto una piccola parte del suo locale alla rivendita di vini di qualità, ma lo spazio era
troppo angusto e insufficiente a realizzare un esercizio redditizio);
5) nel caso risultasse impossibile mantenere la libreria
là dove era, allora sì che il Comune dovrebbe offrire
dei suoi spazi a prezzi agevolati, ma a due condizioni:
a) che lo spazio sia nel centro della città;
b) che sia più ampio del vecchio, in modo da permettere altre attività (come, ad esempio, incontri e
smercio di alimentari e bibite di qualità) che incrementino il fatturato e rendano autosufficiente economicamente il gestore.
Il centro di una città senza le vetrine delle librerie è
triste e squallido: un luogo senza libri, diceva Cicerone, è come un corpo senza anima.
La chiusura di una libreria come Utopia,
e come le altre, è infatti un problema civile
e sociale, che riguarda tutta la città.
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Mauri (neo vicepresidente di Messaggerie):
«Nel 2013 spero nella rivincita del libro, ma…»
Mentre a Milano (come pure nel resto d’Italia) molte librerie fanno i conti con la crisi del mercato, Messaggerie
italiane, holding di un gruppo che controlla aziende specializzate nella distribuzione e nel commercio di libri
e anche attività editoriali attraverso il Gruppo editoriale Mauri Spagnol, si è appena riorganizzata
Antonio Prudenzano, Affari italiani, 8 gennaio 2013
Il natale, tradizionalmente, è il periodo dell’anno
in cui si vendono più libri. Ma le festività appena
trascorse sono state meno positive del solito per il
mercato librario, che da mesi fa i conti con il rallentamento delle vendite, in un contesto di crisi generale. Il 2013 si è poi aperto con la notizia della cassa integrazione per la storica libreria Hoepli e con
le difficoltà che vivono molte librerie indipendenti
nella stessa Milano, la città italiana in cui si leggono più libri. Il nuovo anno è inoltre cominciato con
alcune novità che riguardano Messaggerie italiane,
holding di un gruppo che include distribuzione
e editoria: Stefano Mauri, già presidente e ad del
gruppo Gems, è stato nominato vicepresidente, con
delega allo sviluppo strategico. Del suo nuovo incarico e della situazione del mercato librario parla con
affaritaliani.it.
Se le librerie sono in difficoltà nella «capitale» del
mercato librario e della lettura, Milano, allora le
prospettive per il futuro di questo settore sono davvero nerissime…
Quando ho cominciato a lavorare, i libri si vendevano solo in libreria. Oggi gli italiani leggono
di più e soprattutto i giovani (si veda ad esempio
il recente rapporto Istat), ma le librerie subiscono
la concorrenza di supermercati, negozi online, edicole, autogrill, tablet e reader, audiolibri in mp3,
pay tv, internet in genere oltre a tutti i rimedi che i
lettori escogitano per risparmiare in tempi di crisi. E
penso al prestito, alle biblioteche, ai cauti acquisti…
Quindi, intanto distinguerei tra crisi di mercato, che
riguarda tutti i consumi e non soltanto i libri, crisi
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delle grandi librerie in un contesto certo non facile,
e crisi della lettura, che non mi risulta. Inoltre Milano ha molte grandi librerie perché è il principale
mercato. Ma proprio per questo è anche il primo i
cui consumatori avvertono i colpi della crisi. Poi ci
sono in Italia librerie che riescono comunque a sorridere, di solito sono di medie dimensioni e i titolari, anzi sarebbe meglio dire le titolari, hanno uno
stretto legame personale e di fiducia con la clientela.
Il cda di Messaggerie l’ha appena nominata vicepresidente.
Concretamente, quali saranno i suoi primi obiettivi?
Innanzitutto Messaggerie Italiane non è un distributore. È la holding di un gruppo che controlla
aziende specializzate nella distribuzione e nel commercio di libri e anche attività editoriali attraverso
il Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Nell’attuale
scenario, portando me e Alberto Ottieri nella holding, si vuole rafforzare la vocazione di holding
industriale di Messaggerie Italiane. La mia nomina a vicepresidente del gruppo sancisce anche il
rilievo che in questi anni ha conquistato l’attività
editoriale e la sua importanza per il futuro nonché
l’indipendenza, che ho sempre garantito e che gli
azionisti hanno sempre rispettato, delle nostre direzioni editoriali. La stessa passione eclettica per le
case editrici che ha portato mio nonno e mio padre
a sviluppare la distribuzione e mio zio Achille a
proseguire sulla loro strada è stata alla base dello
sviluppo del gruppo Longanesi e poi di Gems, che
nel tempo hanno «adottato» o fondato diverse attività editoriali.
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In qualche modo Gems ha aperto delle porte agli editori
distribuiti da Messaggerie Libri e viceversa. Una distribuzione di questo livello, che da 99 anni assiste gli
editori indipendenti, non è comune in Europa.
Come tutti i gruppi editoriali del mondo siamo
di fronte a nuove sfide in un periodo in cui crisi e
cambiamento tecnologico si assommano e il miglior modo per affrontarlo è sostenere le singole
strategie dei singoli business come è la tradizione
di questo gruppo, ma inserendole in una cornice
di lungo periodo unitaria e coordinata. La crisi
impone una spending review e una attenzione ai
costi e alla finanza maggiore che in passato, e tutte quelle misure comuni a tutte le aziende. Anche sotto questo profilo una maggiore unità del
gruppo è una carta che è il momento di giocare.
Rispetto a tante altre realtà siamo avvantaggiati
perché non subiamo la forte flessione strutturale
dei periodici e della pubblicità, attività sulle quali
non abbiamo mai potuto contare troppo. Quanto al digitale, elaboreremo una strategia partendo
dal nostro punto di forza: siamo, credo, l’unico
gruppo nei paesi di un certo rilievo a essere tra i
protagonisti della produzione editoriale libraria e
anche tutt’oggi leader nell’e-commerce del libro.
Quello che accade tra l’autore e il lettore è destinato a cambiare, non c’è dubbio, ma autori e
lettori resteranno e noi sappiamo sia come nascono i buoni libri attraverso le attività editoriali sia
cosa vogliono i lettori, attraverso le librerie e l’ecommerce. Abbiamo sempre investito molto in
tecnologia per tradizione, già mio padre era uno
dei principali clienti di Ibm begli anni Settanta, oggi controlliamo Ibs, abbiamo fondato Edigita,
leader nella distribuzione di ebook, con Rcs Libri
e Feltrinelli, abbiamo strutture distributive estremamente sofisticate sotto il profilo tecnologico,
forniamo servizi alle principali piattaforme internazionali di e-commerce.
È stata istituita la Fondazione Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, in concomitanza con i trent’anni
di attività della scuola che verranno celebrati a Venezia
il 25 gennaio. Nel tradizionale incontro di fine genna-
io, quest’anno più che di editoria digitale si parlerà delle
difficoltà e delle prospettivo del mercato «tradizionale»
legato ai testi cartacei, ancora dominante. In questo momento lei ha più chiaro quale sarà il futuro prossimo del
mercato? Il 2013 sarà ancora dominato dal segno meno?
L’ebook, del quale si è parlato nelle scorse edizioni, è uno sbocco importante e nel quale facciamo
la nostra parte, ma in tutto il mondo i lettori chiedono prevalentemente di leggere libri. Quest’anno, ci scusino gli internettuali, ci occupiamo del
99 percento del mercato, cioè della distribuzione del libro, invitando i principali distributori
mondiali. Purtroppo, come dimostrano le ricerche sulla fiducia dei consumatori, ci vuole poco
al «signor 2013», come lo chiama Massimo Gramellini, a far meglio del «signor 2012», eppure
ci credono in pochi. Prima o poi confido che la
fiducia nel futuro torni a splendere nel mondo e
nel nostro paese in particolare e si spezzi questa
spirale viziosa. In realtà, ad esempio, il nostro secondo semestre è stato nettamente migliore del
primo, il che autorizza la speranza. Allora anche i
libri e gli ebook avranno la loro rivincita. Ma non
ho la sfera di cristallo.
Ma oggi in Italia per un giovane ha senso aprire una
nuova libreria?
Quello che accade tra l’autore e il lettore è
destinato a cambiare, non c’è dubbio, ma autori
e lettori resteranno e noi sappiamo sia come
nascono i buoni libri attraverso le attività
editoriali sia cosa vogliono i lettori, attraverso
le librerie e l’e-commerce.
Un giovane animato da profonda passione, con l’umiltà di capire che deve imparare tante cose e non può
improvvisare un mestiere, con capacità di relazionarsi
con gli editori e gli autori e i suoi clienti, aprendo il
negozio nella via giusta potrà sempre prosperare. Ma
certamente dovrà lottare più che in passato.
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Il segreto di Jane.
Perché continuiamo ad amare «Orgoglio e pregiudizio»
Il capolavoro della Austen compie due secoli e rimane
uno dei libri più letti e citati di sempre. Anche e soprattutto dagli scrittori
Elena Stancanelli, la Repubblica, 8 gennaio 2013
«My own darling Child», lo chiama Jane Austen in
una lettera alla sorella Cassandra. Sono passati duecento anni da quando, il 29 gennaio 1813, Thomas
Egerton pubblica Orgoglio e pregiudizio. Andrà bene,
esaurirà la tiratura, verrà tradotto in francese. Il più
prestigioso editore londinese, Thomas Cadell, al
quale la scrittrice si era rivolta per primo, lo aveva
rifiutato. Ma è l’unico insuccesso con cui la scrittrice
dovrà fare i conti. Morirà nel 1817 amata dai lettori e dalla critica. I suoi sei romanzi verranno accolti
tutti con entusiasmo, Walter Scott ne riconoscerà
l’immenso talento, e dopo di lui molti altri scrittori
guarderanno al suo lavoro con rispetto e devozione.
Farà in tempo a godersi la soddisfazione di essere
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stimata dai colleghi, privilegio che in pochi possono
vantare, ma non potrà immaginare che anno dopo
anno, secolo dopo secolo, i suoi libri diventeranno
un punto di riferimento imprescindibile. Quanto saranno considerati un miracolo di esattezza, per stile
e contenuti, quanto saccheggiati, copiati, idolatrati.
Non potrà immaginare, perché inimmaginabile, il
fanatismo, che in questi giorni prende la forma delle
celebrazioni che in tutto il mondo impazzano per il
bicentenario. Quale artista che dal silenzio della sua
stanza mette al mondo creaturine arbitrarie e parziali può prevedere che il suo lavoro saprà parlare
a persone tanto diverse, in tempi che non si somigliano, dentro culture con riferimenti incomparabili?
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La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013
Da duecento anni Austen è padrona dei nostri cuori,
maestra di seduzione, imbattibile palleggiatrice di
parole e sentimenti.
Feroce e affilata, ha inventato donne la cui intelligenza ci sembra di non riuscire a doppiare, la cui coscienza è ben al di là da essere raggiunta. Le nostre
storie d’amore sono quasi sempre lagne di ragazzine,
esperimenti di pornografia emotiva se confrontate a
quel laboratorio di antropologia sociale che Austen
elabora romanzo dopo romanzo.
Io lavoro «con un pennello sottilissimo su un pezzettino d’avorio, producendo poco effetto dopo molta
fatica», scrive al nipote Edward. Questa sua abilità di
decifrare il mondo a partire dal minuscolo frammento
di un io qualsiasi, da un pezzettino d’avorio, è il suo segreto. Uno dei tanti, che fanno di lei uno degli scrittori
più letti, e riletti. Quasi un oggetto di culto, più che
un classico. Nei nostri zoppicanti programmi scolastici
non è prevista, né i suoi romanzi scalano facilmente
le classifiche degli imprescindibili. Se ne può fare una
questione di genere – gli uomini non la leggerebbero
con lo stesso nostro entusiasmo – provare a immaginare che quello che le manca per entrare nell’empireo
sono gli sfondi, la grande Storia che preme alle spalle
dei personaggi, l’epica. Poco male, Austen se ne può
fregare e cedere il podio, dal momento che può vantare
un credito inestimabile: i suoi libri fanno bene. Intendo che, dati per inoppugnabili stile brillantezza trame
scintillio dei dialoghi…, se continuiamo a tornare alle
sue pagine è perché li consideriamo, anche, dei libri
di selfhelp ante-litteram. Luoghi dove razzolare alla
ricerca di sentenze definitive sul senso e il dissenso, l’amore e il disamore.
Tra quei due sostantivi perfettissimi, falsi ossimori
che titolano i suoi capolavori, Austen infila tutto ciò
che serve a un’esistenza sana e vigorosa. Impariamo
da lei il gusto dell’intelligenza, la capacità di non arretrare, il divertimento di costruire un’identità, il piacere dell’amicizia. Persino a considerare il denaro non
solo come parte integrante e non volgare della vita,
ma come uno degli elementi del discorso amoroso.
«Le donne sole», scrive Austen alla nipote Fanny,
«hanno una spaventosa tendenza a essere povere –
fortissimo argomento in favore del matrimonio».
Una visione economica dell’esistenza, l’abilità di
svelare il doppio movimento dell’ascesa/discesa sociale, è un dono di pochi scrittori: Dickens, Balzac,
Austen.
Anche questo li rende eterni. È uscito da poco un
saggio di un economista, Branko Milanovic, che
analizza Orgoglio e pregiudizio come fosse un trattato
sulla ricchezza. In Chi ha e chi non ha, storie di diseguaglianze (il Mulino), spiega che il reddito della famiglia di Elizabeth Bennet, protagonista del romanzo,
è di circa tremila sterline l’anno, quello di Darcy di
diecimila. Inoltre, se il padre di Elizabeth fosse morto
senza un erede maschio, i suoi beni sarebbero finiti
nelle mani del viscido cugino, il reverendo William
Collins. Ora, cosa fa Elizabeth? Primo rifiuta, abbastanza ragionevolmente, l’orrendo cugino. Ma subito
dopo rifiuta anche il fighissimo Darcy, solo perché
la sua prima impressione su di lui era stata pessima
(First Impression era il titolo della prima versione di
Orgoglio e pregiudizio). Sempre secondo l’economista
Milanovic, il rapporto tra i due scenari, Elizabeth nubile o sposa di Darcy, è di cento a uno. Il romanzo,
quindi, potrebbe essere letto come la storia di una
donna che impiega tutta la sua intelligenza a far rientrare l’uomo che, per motivi economici deve proprio
sposare, dentro i parametri complicatissimi ma ineludibili delle sue convinzioni.
Farà in tempo a godersi la soddisfazione
di essere stimata dai colleghi, privilegio
che in pochi possono vantare, ma non potrà
immaginare che anno dopo anno, secolo dopo
secolo, i suoi libri diventeranno un punto di riferimento imprescindibile.
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Ecatombe di grandi librerie
Marco Bertoncini, ItaliaOggi, 9 gennaio 2013
La notizia della crisi che ha colpito la libreria Hoepli di Milano costituisce l’ennesima mazzata sulle
librerie italiane. Stavolta, però, non si tratta di un
minore negozio librario, bensì di uno fra i maggiori
centri di vendita non nel solo capoluogo lombardo,
bensì nell’intera penisola. L’elenco dei negozi che
vendono libri e che chiudono è lungo: da Firenze, a
Roma, da Bologna, a Napoli, le cronache locali dei
quotidiani sono ricorrentemente colme di notizie di
sempre nuovi abbandoni, anche di nomi considerati
storici, con decine e decine di anni sulle spalle. Ovviamente la sparizione di tanti luoghi rappresenta
un depauperamento culturale.
Nel caso della libreria Hoepli, a due passi dal Duomo, estesa su più piani e con ampi spazi di vendita
che hanno sempre attirato migliaia di acquirenti e
di bibliomani, alla ricerca di novità, di testi ignoti,
di libri pubblicati da editori sconosciuti, stupiscono
le dimensioni. La notizia del ridimensionamento e
dunque della crisi è un colpo duro, che colpisce l’intera città di Milano, al cui interno la presenza della
Hoepli da tempo immemorabile è sempre stata sinonimo di cultura.
Il discorso, inevitabilmente, riguarda tutte le altre
librerie, anche antiquarie, che hanno ceduto le armi
senza essere sostituite. Eppure, non c’è che dire: si
espande sempre più la vendita in rete. Una piccola
libreria non può resistere, di fronte alla molteplicità
dei titoli, all’estensione delle case editrici, ai costi
crescenti di spedizione, ai limiti immodificabili del
proprio margine. Ogni volta che una libreria minore
chiude, si leggono lettere di frequentatori abituali,
che lamentano il venir meno del vecchio libraio, divenuto un consulente che segnalava le novità, avvezzo a indirizzare i clienti dei quali conosceva vezzi e
passioni. Similmente, si ricordano le presentazioni
di novità librarie, spesso allestite in spazi angusti
delle librerie, nelle metropoli come nelle città di
provincia. Tutto cancellato.
Le doglianze sono estese presso tutti i frequentatori delle numericamente sempre più compresse
librerie.
Tuttavia non si può negare la comodità senza eguali dell’ordine tramite internet: si sceglie, si ordina
senza nemmeno uscire, si riceve a domicilio in breve tempo il libro richiesto, si ottiene uno sconto di
solito superiore a quello che la libreria amica poteva
permettersi di concedere agli stessi clienti affezionati. Semmai, c’è da dolersi che una legge dirigista
abbia imposto limiti agli sconti librari. Le grandi
centrali di vendite in rete sfruttano al massimo, per
elargire sconti, le possibilità lasciate dalla legge n.
128 del 2011, cosiddetta «legge Levi» dal nome del
propugnatore Ricardo Franco Levi. Non c’è che
fare: si possono ricevere, scontati, libri di editori introvabili, in autoedizione, nuovi oppure da anni in
catalogo. Similmente, anche l’antiquariato librario
si serve di internet. I vantaggi pratici sono ampiamente superiori alla perdita anche di rapporti umani
che le vecchie librerie garantivano
La notizia del ridimensionamento e dunque della crisi
è un colpo duro, che colpisce l’intera città di Milano,
al cui interno la presenza della Hoepli da tempo
immemorabile è sempre stata sinonimo di cultura.
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Baricco: «Esistono bello e brutto.
Non esistono né il colto né il popolare»
Intervista allo scrittore che porta in teatro a Roma e su repubblica.it
le sue letture sui mutamenti del gusto: «Ascoltare la Recherche è come vedere giocare Messi»
Raffaella De Santis, la Repubblica, 11 gennaio 2013
Ai tempi di Pickwick – erano gli anni Novanta –
arrivava in televisione a parlarci di Carver o García
Márquez in maniche di camicia e jeans scoloriti. E
già quel gesto, quel togliere la cravatta alla letteratura, fu una piccola rivoluzione mediatica. Oggi
Alessandro Baricco porta al teatro Kate Moss e Tucidide, il re di Francia Luigi xvi e Marcel Proust. Il
metodo è quello che lo scrittore preferisce da sempre: accostare l’alto e il basso, sorprendere con avvicinamenti spiazzanti tra scrittori e giocatori, musica
classica e pop star. Quattro personaggi per quattro
lezioni intorno al gusto, alla giustizia, al tempo e alla
scrittura, che si terranno da giovedì 17 gennaio fino
a domenica 20 al teatro di Roma Palladium. Le Palladium Lectures saranno trasmesse live in streaming
su repubblica.it e poi in televisione su Sky Arte e su
Effe Tv, il canale della Feltrinelli che debutterà a
marzo. Iniziamo da qui. Come possono stare insieme Kate Moss e Tucidide?
Se si vogliono capire i meccanismi della civiltà e il
modo di stare al mondo degli umani, la cultura alta
non offre materiali più significativi della cultura popolare. Dunque, se lo scopo è questo, Kate Moss
può essere utile come la Callas, Proust o Tucidide.
Che cosa la colpisce in Kate Moss?
Volevo raccontare l’anomalia di questo personaggio
che ha modificato il nostro gusto collettivo all’inizio
degli anni Novanta. Capire perché è diventata un’icona. Kate Moss ha imposto un tipo di bellezza anoressica selvaggia, acerba, molto infantile in un momento
in cui le top model erano completamente diverse.
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Ha segnato una svolta nel gusto sociale?
Nel suo primo servizio fotografico sulla rivista inglese The Face, Kate Moss ha 16 anni. È l’estate del
1990. Quell’immagine rispetto alle copertine di Elle
o Vogue rivela un altro mondo. Kate è bruttina, totalmente diversa dal modello rappresentato dalla
Schiffer. Mi interessava capire come mai il gusto
collettivo avesse compiuto in così breve tempo un
tale salto in avanti. Mi affascinano questi strappi nel
tempo, questi balzi improvvisi. Nella lirica è successa la stessa cosa quando si è passati dalla Tebaldi
alla Callas.
E ha capito perché sono avvenuti questi cambiamenti?
Forse perché c’erano delle attese non soddisfatte,
dei desideri non appagati. C’era una fame collettiva di realtà, dovuta al fatto che ci si era allontanati
troppo dalle cose vere. La voce della Callas è più
vera di quella della Tebaldi. Kate Moss è più vera di
Claudia Schiffer.
Un accostamento ardito, ma come farà a passare nelle
sue letture da Kate Moss a Tucidide?
È possibile perché Tucidide non è così lontano da
noi. Leggerò il dialogo degli ateniesi e dei Melii,
contenuto nella Guerra del Peloponneso, un dialogo in cui gli ambasciatori ateniesi incontrano gli
oligarchi di Melo e devono trattare. È bello scoprire che molto tempo fa si ponevano gli stessi nostri
problemi: cosa sia giusto fare, cosa sia la giustizia,
quali diritti esistono al di là di quelli della forza e
della debolezza. Leggere Tucidide non è importante
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perché bisogna leggere i Greci, ma perché quella sua
riflessione sulla giustizia è valida ancora oggi.
Al Palladium farà dunque delle lezioni, come se fosse a
scuola. Le piace insegnare o essere considerato un pedagogo la imbarazza?
Mi piace la scuola in tutte le sue forme, anche quando l’allievo sono io. Ma insegnare deve essere soprattutto un’esperienza emotiva, altrimenti mi annoia, non mi interessa.
È questo tipo di emozione che ha provato davanti alla
storia della fuga di Luigi XVI dopo la Rivoluzione?
La lezione parte da una cartina che descrive l’allontanamento di Luigi xvi da Parigi. La mia è una riflessione sul tempo, sul fatto che delle volte si sfalda,
che nella nostra vita non c’è puntualità, che spesso
arriviamo troppo presto o troppo tardi. Il re fugge,
ma la notizia viaggia molto più lentamente di lui. Ci
sono dei posti in cui dopo qualche giorno si pensa
ancora di vivere sotto la monarchia, mentre tutto è
crollato. È la stessa situazione che troviamo in Shakespeare: Giulietta si risveglia un minuto dopo che
Romeo è morto. I tempi non coincidono, è il dramma di noi umani.
Proust è una sua vecchia passione, come reagisce il pubblico di fronte a una lettura non proprio facile?
Ascoltare Proust è come vedere Messi giocare a pallone. Io mi limito a leggerlo per far capire quanto
fosse bravo. Da artigiano smonto il testo per mostrare la sua tecnica di scrittura.
Avvicinare Kate Moss e Proust può sembrare però anche
un vezzo po’ snob…
Non è una scorciatoia. Se viene percepito come un
eccesso di brillantezza, pazienza. A me non fanno
paura gli intellettuali brillanti. Perché no? Alla gente piace anche fare delle esperienze brillanti nella
vita. Faccio fatica a considerarlo un difetto.
Già nei primi anni Novanta scriveva L’anima di Hegel e le mucche del Winsconsin. Le piacciono le contaminazioni postmoderne?
In quegli anni si chiamavano trasversalismi e si usava la categoria del postmoderno. Adesso però bisognerebbe capire che siamo andati oltre. Non c’è
più nessuna linea di demarcazione tra l’arte colta e
popolare. C’è una sola cultura.
È un dibattito vecchio?
Esistono cose brutte e cose belle, vive e morte, semplici e più complesse. Tutto qui… E poi mi sono
laureato su Adorno, so cosa voleva dire arte alta e
arte popolare.
E dopo cos’è successo, ha rinnegato Adorno per l’industria culturale?
È come laurearsi sulla Germania dell’Est due anni
prima della caduta del Muro. Invece che studiare il
futuro, stavo studiando una cosa che sarebbe presto
morta. Non ho rinnegato Adorno, ma conoscendolo
bene ho potuto valutarne nel corso degli anni gli errori tragici.
Quindi non dobbiamo preoccuparci se l’arte colta sembra
caduta in discredito?
C’è un errore di partenza. Noi scambiamo per arte colta un’arte che al tempo era popolare. Il teatro musicale
di Verdi era popolare. Era quello che facevano a quel
tempo, senza domandarsi se fosse colto o popolare.
Giulietta si risveglia un minuto dopo
che Romeo è morto. I tempi non coincidono,
è il dramma di noi umani.
I barbari possono apprezzare Proust?
A un barbaro certe cose non interessano semplicemente perché non gli abbiamo spiegato che sono
importanti per la sua sopravvivenza. Anche i barbari
possono capire Proust. E possono emozionarsi.
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Inno alla gioia
Quella nostra faticosa felicità così lontana dal piacere. La scrittrice Zadie Smith
racconta la più ricercata delle emozioni, «insensata come gli umani»
Zadie Smith, la Repubblica, 12 gennaio 2013
Potrebbe essere utile distinguere il concetto di piacere da quello di gioia. Ma forse è una distinzione che
tutti fanno molto facilmente, di continuo, e sono solo
io a essere confusa. Molta gente sembra credere che
la gioia sia solo la versione più intensa del piacere, e
che ci si arrivi per la stessa strada: basta solo spingersi qualche passo più avanti. Ma la mia esperienza
dice tutt’altro. E se mi chiedeste se desidero provare
più spesso gioia nella vita, non sono affatto sicura che
risponderei di sì, proprio perché si dimostra un’emozione molto difficile da gestire. A me non appare tanto evidente come si dovrebbe fare a conciliare la gioia
con il resto della nostra vita quotidiana.
Forse la prima cosa da dire è che io provo almeno
un po’ di piacere ogni giorno. Mi chiedo: sarà più
della dose normale? Per me era così anche durante l’infanzia, periodo in cui, viceversa, tanta gente
è infelice. Non penso che sia perché mi succedono
di continuo cose meravigliose, ma perché le piccole
cose su di me hanno un grande impatto. Mi sembra,
per esempio, di trarre una soddisfazione superiore
alla norma dal cibo: qualunque tipo di cibo.
Un sandwich con l’uovo strapazzato comprato da
uno di quei camioncini sudici su Washington Square ha veramente il potere di risollevarmi la giornata.
Qualunque cosa mi venga messa davanti, in termini
di cibo, di solito la promuovo col massimo dei voti. Verrebbe da pensare che alla gente piaccia cucinare
per me, o mangiare in mia compagnia; ma in realtà mi dicono che è noioso. Quando non c’è giudizio critico non ci può essere apprezzamento della
competenza né gratitudine per uno sforzo speciale.
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«Non dire che era delizioso», mi avverte mio marito,
«dici sempre che è tutto delizioso». «Ma era delizioso davvero». La cosa lo fa impazzire. Posso passare
un’intera giornata a pregustare un ghiacciolo. La
persistente ansia che riempie il resto della mia vita si
placa nel momento in cui ho il sapore di qualcosa di
buono in bocca. E benché sia vero che quando il sapore finisce l’ansia ritorna, non abbiamo tante fonti
affidabili di piacere, in questa vita, da permetterci di
snobbarne una che è così facilmente a disposizione, specie qui in America. Un ghiacciolo all’ananas.
Anche l’enorme ansia della scrittura si può fermare
per gli otto minuti che ci vogliono per mangiare un
ghiacciolo all’ananas. L’altra mia fonte quotidiana di piacere sono - ma
vorrei che ci fosse un modo migliore per dirlo – «le
facce della gente». Una ragazza dai capelli rossi, con
un magnifico nasone che lei probabilmente detesta,
gli occhi verdi e quella carnagione poco amante del
sole composta più di lentiggini che di pelle. Oppure
un uomo adulto corpulento che fuma una sigaretta sotto la pioggia, con i baffi zuppi, sopra i quali,
sorpresa: gli occhi svegli, il naso tozzo e la bocca da
angioletto che aveva a otto anni. Uscendo dalla biblioteca a fine giornata affretto un po’ il passo verso
casa per raccontare a mio marito di un adolescente
spigoloso, con gli occhi di gatto, in jeans attillati e
stivali a tacco alto, una normalissima felpa grigia,
il trucco della sera prima e una setosa parrucca da
Pocahontas indossata un po’ sbilenca sopra la capigliatura afro. Camminava ancheggiando, con le
trecce al vento, usando l’intera Broadway come sua
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passerella personale. «Una principessina fuori servizio». Lo aggiungo per chiarezza, ma mio marito
annuisce con un pizzico di insofferenza: non c’era
bisogno di ulteriori commenti. Anche mio marito è
un osservatore professionista. In genere dei consigli che si trovano sulle riviste
femminili bisogna solo diffidare, ma c’è qualcosa
Anche l’enorme ansia della scrittura si può
fermare per gli otto minuti che ci vogliono
per mangiare un ghiacciolo all’ananas.
di vero nella vecchia massima del «condividere gli
stessi interessi». In effetti aiuta. A me piace starlo a
sentire quando mi racconta della ragazza cinese che
ha visto nell’atrio, con un grosso libro di medicina
in mano, così bella che sembrava quasi dipinta. O
dell’altissimo kenyano che ha incrociato in ascensore, la cui eleganza allungata riduceva tutti gli altri
corpi nelle vicinanze alla condizione rattrappita e
nodosa di un troll. In genere si tratta di persone che
non ho visto – mio marito lavora all’ottavo piano
della biblioteca, io al quinto – ma il solo ascoltarle
descrivere può essere un piacere quasi equivalente a
quello di incontrarle dal vivo. E ancora più piacevole
è quando ricreiamo la camminata, i gesti o la voce di
questi sconosciuti, o intere conversazioni – fra due
persone in fila al bancomat, o due studenti su una
panchina accanto alla fontana.
E poi ci sono tutte le cose che fa e dice il nostro
cane, totalmente antropomorfizzato e in genere offensivo, quando esprime il mondo di cose che io e
mio marito non possiamo fare o dire in prima persona, fra noi o ad altra gente. «State facendo il cane»,
ha detto di recente nostra figlia, sorprendendoci.
Ha quasi tre anni e tutti i nostri linguaggi in codice stanno perdendo la loro privacy e diventandole
comprensibili. Ovviamente sapevamo che prima o
poi sarebbe arrivata alla piena consapevolezza, e che
prima di allora avremmo dovuto smettere di litigare,
fumare, mangiare carne, usare Internet, parlare della faccia delle altre persone e dare voce al cane, ma
adesso quel momento è arrivato, lei capisce tutto, e
noi ci ritroviamo incapaci di cambiare. «Smettetela
di fare il cane», ha detto, «è da stupidi», e per la prima volta in otto anni abbiamo guardato il cane e ci
siamo vergognati.
Di tanto in tanto anche la bambina è un piacere, anche se perlopiù è una gioia, il che significa che non
ci dà molto piacere, ma più che altro quella strana
commistione di terrore, dolore e delizia che sono
arrivata a riconoscere come gioia, e con cui adesso
devo trovare un modo per convivere quotidianamente. È un problema nuovo. Fino a poco tempo
fa avevo conosciuto la gioia solo cinque volte in vita
mia, forse sei, e ogni volta avevo tentato di dimenticarla subito dopo, per paura che il suo ricordo rendesse insensato e distruggesse tutto il resto.
Diciamo sei. Tre di queste volte ero innamorata, ma
solo una volta era un amore capace di funzionare, o
verosimilmente in grado di procurarmi del piacere
anche a lungo termine. Due volte ero drogata - di
sostanze molto diverse. Una volta ero nell’acqua, una
volta su un treno, una volta seduta in cima a un muro,
una volta in cima a una collina, una volta in un locale
notturno e una volta in un letto d’ospedale. È difficile
trarre conclusioni generali di fronte a un assortimento di dati così ridotto e disomogeneo. Quello su cui
sono incerta è il caso del locale, e dato che si trattava
sostanzialmente di un’esperienza collettiva sento di
poter coinvolgere il pubblico nel dibattito sulla questione. Mi rivolgo in particolare ai miei connazionali
britannici. Connazionali britannici! O meglio, quelli
di voi che hanno avuto la fortuna di provare la prima
generazione dell’anfetamina chiamata ecstasy senza
sperimentare le reazioni negative, a volte letali, che
ora sappiamo essere state subite da altri: ecco, ho una
domanda per voi. Quella era gioia?
Mi interesserebbe particolarmente sentire l’opinione di chi si trovava in un locale chiamato Fabric,
vicino al vecchio mercato della carne di Smithfield,
in una sera dell’anno 1999 (mi dispiace di non saper
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La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013
essere più precisa), quando il dj mixò Can I Kick It?
e poi Smells Like Teen Spirit al pezzo house che sembrava essere durato senza interruzioni per le quattro
ore precedenti. Io, personalmente, stavo uscendo
dai cavernosi bagni unisex (!) nella speranza di trovare la mia amica Sarah, o, se non lei, il mio amico
Warren, o, se non lui, qualcuno che avesse pietà di
una ragazza che aveva preso dell’ecstasy di cui stava
per cominciare a sentire l’effetto, e che aveva perso
tutti e tutto, compresa la sua borsa. Incespicando,
mi reimmersi nella bolgia. Quasi tutti i maschi erano a torso nudo e quasi tutte le femmine, me compresa, indossavano strani
grembiulini, di moda all’epoca, che coprivano solo
il davanti del torace, e mantenevano il decoro solo
grazie a qualche laccetto dall’aria non molto robusta
legato in un fiocco grazioso dietro la schiena. Mi
feci largo in mezzo a quella ressa di schiene nude
sudate, disperata, chiedendomi dove, in un mega
locale del genere, ci si potesse coricare per la notte (sulle scale? davanti all’uscita antincendio?). Ma
ogni cosa che tentavo di guardare esplodeva in mille
pezzi e si riassestava in una serie di frammenti che
componevano un disegno, come se vivessi dentro un
caleidoscopio. E comunque, dove stavo cercando di
andare? Non c’era più nessun «bar» e nessuna «chillout zone»: c’era solo la pista da ballo. Era tutta una
pista. Tutti ballavano. Io rimasi ferma, schiacciata
da ogni lato dalle danze, convinta che da un momento all’altro sarei andata fuori di testa.
Poi all’improvviso sentii Q-Tip – benedetto Q-Tip!
–, non un sintetizzatore, non un vocoder, ma QTip, con la sua voce umana, che rappava sopra un
beat umano. E mentre la testa mi si scoperchiava
per lasciar entrare l’umanissimo Q-Tip, un tipo magro come uno spillo con due occhi enormi si allungò
in mezzo a un mare di corpi per prendermi la mano.
Continuava a farmi la stessa domanda a ripetizione:
La senti? La sentivo sì. I miei tacchi assurdi mi stavano uccidendo, avevo una paura tremenda di morire, ma allo stesso tempo traboccavo di godimento
nel sentire che Can I Kick It? veniva suonata proprio
in quel particolare istante della storia del mondo,
e adesso si stava trasformando in Smells Like Teen
Spirit. Presi il tipo per mano. Il coperchio della testa
mi volò via definitivamente. Ballammo e ballammo.
Ci abbandonammo alla gioia.
Anni dopo, ascoltando una canzone intitolata Weak
Become Heroes, dell’artista inglese The Streets, ho
trovato quell’esperienza ricreata quasi perfettamente
nelle sue rime, e mi sono resa conto che, così come
la maggioranza dei bambini americani che erano vivi
nel 1969 videro l’atterraggio sulla luna, quasi tutti
gli inglesi che avevano fra i sedici e i trent’anni negli
anni Novanta hanno incontrato una qualche versione del pasticcaro smilzo in cui mi ero imbattuta io
quella sera al Fabric. Il nome che gli dà The Streets è «European Bob». Io ho il sospetto che sia una
figura archetipica della mia generazione. Un altro
esemplare di questa razza è il personaggio di «Super
Hans» nella sitcom britannica Peep Show, anche se
sarebbe più corretto dire che Super Hans è European Bob «da vecchio» (a quarant’anni). Il nome del
mio pasticcaro non me lo ricordo, ma lo chiamerò
«Sorrisone». Era uno di quegli sconosciuti che si incontravano esclusivamente sulla pista di una discoteca, oppure su una spiaggia di Ibiza. Tendevano ad
avere soprannomi inesplicabili, nessun domicilio o
legame familiare che si potesse mai identificare, una
capacità illimitata di assumere droghe e un senso di
benevolenza universale verso tutti gli uomini e le
Era uno di quegli sconosciuti che si incontravano
esclusivamente sulla pista di una discoteca,
oppure su una spiaggia di Ibiza.
donne, a prescindere dal colore della pelle, dal credo
religioso o dallo stato di alterazione. […]
Quella era gioia? Probabilmente no. Ma imitava
piuttosto bene le condizioni della gioia. Racchiudeva, in forma minore, la grossa fatica che in genere precede la gioia, e la sensazione – una volta
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raggiunta la gioia – che il soggetto che la prova
sia in qualche modo «entrato» in quell’emozione,
e ci sia scomparso dentro. Il piacere è qualcosa
che «ho», una sensazione che voglio provare e fare
mia. Una vacanza al mare è un piacere. Un vestito
nuovo è un piacere. Ma sulla pista di quel locale
io ero la gioia, o quantomeno un pezzetto di gioia, insieme a tutte quelle altre centinaia di persone
che erano anche loro parte della gioia.
[…]
L’amore vero è arrivato molto più tardi. Era alla
fine di una strada lunga e difficile, e fino all’ultimo
momento ero convinta che non sarebbe sbocciato. Il
suo arrivo mi ha colto così di sorpresa, così impreparata, che per quel giorno avevo già programmato di
andare a visitare insieme il museo dell’Olocausto di
Auschwitz. Sul treno che ci portava al pullman che
ci avrebbe portati a destinazione, tu mi accarezzavi
i piedi. Eravamo diretti verso tutto ciò che rende
la vita intollerabile, e provavamo l’unica cosa che la
rende degna di essere vissuta. E cioè la gioia. Ma non
serve a niente pensarci o parlarne. È del tutto fuori
posto accanto alla furiosa litigata su chi ha pulito la
casa o è andato a prendere la bambina. È irrilevante
quando si sta seduti tranquilli sul divano a guardare
un vecchio film, o si fa l’imitazione di due vecchiette
in un negozio, o quando io mangio un ghiacciolo
mentre tu mi guardi male, o quando lavoriamo su
due piani diversi della stessa biblioteca. Non c’entra
nulla con la quotidianità. La cosa che nessuno dice
mai della gioia è che contiene pochissimo vero piacere. Eppure se non l’avessimo sperimentata affatto,
almeno una volta, come faremmo a vivere?
Un pensiero conclusivo: a volte la gioia si moltiplica pericolosamente. L’esempio più famigerato sono
i figli. Non è già abbastanza tremendo che la persona amata, con la quale hai provato autentica gioia,
un giorno finirai per perderla? Perché aggiungere a
quest’incubo un figlio, la cui perdita, se mai dovesse
avvenire, equivarrebbe per te al totale annientamento? Va detto che una gioia altrettanto pericolosa, per
molte persone, è rappresentata dal cane o dal gatto,
dato che le relazioni con gli animali sono in un certo
senso rese ancora più intense dalla loro ineluttabile
finitudine. Uno spera sempre di andarsene prima del
proprio figlio. Ma è quasi sicuro che il cane se ne andrà prima di lui. La gioia è una follia soltanto umana. Lo scrittore Julian Barnes, parlando del lutto, una
volta ha detto: «Tanto valore ha una cosa, tanto fa
male perderla». In realtà era stato un suo amico a
scrivere questa frase in una lettera di condoglianze,
e Julian l’ha ripetuta a mio marito, che l’ha ripetuta a
me. Da allora, quelle parole ci sono rimaste impresse
per mesi, nella loro chiarezza e brutalità. Tanto valore
ha una cosa, tanto fa male perderla. Che paradosso.
Perché uno dovrebbe accettare delle condizioni tanto
assurde? Se fossimo sani di mente e ragionevoli, ogni
volta sceglieremmo senz’altro un piacere piuttosto
che una gioia, come fanno, sensatamente, gli animali stessi. In fondo un piacere, quando finisce, non fa
molto male a nessuno, e si può sempre rimpiazzare
con un altro di valore più o meno equivalenti.
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«Ecco come la mia Schiappa ha scalato tutte le classifiche»
Casi editoriali: Jeff Kinney spiega il successo del Diario numero 6
Dario Pappalardo, la Repubblica, 14 gennaio 2013
Meglio della Rowling, del papa e di Camilleri: la
Schiappa, per la prima volta, ha battuto tutti. Diecimila copie in meno di una settimana, il sesto episodio del diario più amato dai ragazzini è in testa
alla classifica dei libri più venduti. Queste avventure
della Schiappa, cioè di Greg dodicenne qualunque e
per questo di successo, si chiamano Si salvi chi può.
Le pubblica come sempre il Castoro, piccolo editore
che fin dall’inizio decise di puntare sul suo autore Jeff
Kinney. Era il 2008 quando uscì il primo libro. Negli
Usa aveva iniziato come blog e poi, nel 2007, con una
tiratura di 15 mila copie. Immediatamente esaurite.
Oggi in Italia i diari sono oltre il milione e mezzo
di copie. È stato tradotto in 30 paesi, superando i 60
milioni di copie globali, e dando vita a tre film. Così
nessuno si stupisce più del trionfo di ogni storia. Nessuno tranne Kinney, 42 anni, una moglie e due figli,
nonché un lavoro a tempo pieno per una società di
Boston (Poptropica) dove progetta e sviluppa giochi
educativi per il web. «Mi sembra che tutto questo sia
capitato a qualcun altro», spiega ridendo. «Mi sento
dentro al Truman Show». E d’altra parte non potrebbe prenderla diversamente: nel 2009 quando Time
lo mise nei cento personaggi più influenti al mondo
commentò «ma se non sono nemmeno la persona più
influente in casa mia». Jeff è un Greg adulto, in fondo. O meglio un adulto-bambino reo confesso. Che,
forse per questo, ha saputo creare un ragazzino che
non è migliore degli altri, che affronta tribolazioni
quotidiane ben note e impaziente di crescere.
Non sono sicuro che dietro alla Schiappa ci sia un
segreto. Credo che ad appassionare i ragazzini sia
una combinazione di diversi elementi: i disegni a fumetti, l’umorismo, e la facilità con cui possono rapportarsi al protagonista, Greg. Penso che quando i
ragazzi aprono uno dei miei libri, ci vedano subito
un divertimento, non un compito da svolgere.
La domanda che deve aver ricevuto più spesso: qual è il
segreto della Schiappa?
Quali sono i suoi modelli letterari?
Non credo di avere un modello letterario. I miei libri
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Quanto tempo le occorre per scrivere ogni singola avventura? E come la scrive: chiede l’opinione di qualcuno? Da dove trae la sua ispirazione?
Ci ho messo otto anni per creare l’universo della
Schiappa. Per scrivere una nuova storia, mi occorrono
circa nove mesi: ci lavoro solo la sera e nei weekend.
Quanto sono importanti i disegni di Greg per il successo
della storia?
Moltissimo. Non credo che i miei libri avrebbero
avuto tutto questo successo se non fossero pieni di
disegni a fumetti. Sono le vignette a sostenermi.
Perché i ragazzi si identificano con un ragazzino normale senza superpoteri? La Schiappa è una sorta di risposta a Harry Potter?
In senso lato, sì. Amo i libri di Harry Potter e penso
che J.K. Rowling sia la miglior narratrice dei nostri
tempi. Ma quando ho iniziato a scrivere di un ragazzino, volevo che fosse molto normale e imperfetto. Quando scrivo i miei libri, mi concentro sulle
battute più che sul racconto.
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vengono dai fumetti. Quando ero piccolo, ho letto
tutti i fumetti possibili di Paperino e Zio Paperone.
Volevo diventare vignettista in un giornale, ma non
ci sono riuscito, e alla fine sono diventato un autore.
Chi sono gli antenati della Schiappa?
C’è un personaggio che si chiama Peter Hatcher, protagonista del libro Tales of a Fourth Grade Nothing a
cui Greg Heffley somiglia molto. Peter Hatcher era un
bambino normale, i suoi problemi erano vicini ai miei
da ragazzino. E credo ci sia in Greg anche un po’ di
Holden Caulfield, il protagonista de Il giovane Holden.
Quante lettere riceve dai ragazzini suoi fan? E quante
dai grandi?
Ho ricevuto decine di migliaia di lettere da ragazzini
e genitori. È una vera impresa e sono indietro di anni
nel rispondere!.
Cosa le scrivono?
Ricevo moltissime lettere da genitori e insegnanti
che mi scrivono che i miei libri sono gli unici, che i
loro figli o alunni amano leggere. E questo è molto
gratificante. La mia speranza è che i miei libri possano avvicinare i ragazzi alla lettura, e che poi quegli
stessi ragazzi si possano spingere verso più grandi e
articolate avventure nel mondo della letteratura.
Chi è il tipico lettore della Schiappa? Come se lo immagina?
Un ragazzino comune, tra i 7 e i 12 anni. Non c’è
distinzione tra maschi e femmine.
Quali altri libri leggono i fan di Greg? Quali sono le
loro preferenze letterarie?
Penso che molti ragazzi che leggono i miei libri si
spingano poi verso letture più impegnative, come i
libri di Harry Potter o quelli mitologici di Rick Riordan. Ci sono oggi anche molti nuovi libri simili
alla serie di Diario di una Schiappa, credo che i ragazzi amino questo formato.
Che ne pensa dell’essere ragazzi oggi? È vero che sono meno
consapevoli della realtà e del mondo circostante di quanto
non fossero in passato? Sono troppo dipendenti dalla rete?
Credo che i ragazzi di oggi debbano affrontare più
sfide di quanto dovessi fare io alla loro età. Internet
e i social media presentano una serie di nuovi pericoli. Penso che i ragazzi siano molto connessi, ed è
una cosa da tenere un po’ sotto controllo. I ragazzi
hanno bisogno di fare esperienza del mondo naturale e di imparare a interagire con gli altri offline.
Cosa possiamo fare per avvicinare i ragazzi ai libri?
Se riusciamo a immaginare che cosa li interessa e
a proporre loro delle letture vicine a questi interessi,
riusciremo più facilmente ad avvicinarli alla lettura.
L’esperienza della lettura può avvenire in tanti modi…
articoli sul web, riviste, fumetti… La buona notizia è
che ognuno di essi è importante.
Come si cresce un ragazzo, oggi? Un genitore deve essere
più permissivo o più severo?
Non sono un esperto di educazione o di pedagogia, ma se ci sforziamo di comprendere quali siano
i talenti e gli interessi dei nostri figli, possiamo poi
metterli nella condizione di realizzarsi.
Nel suo ultimo libro parla molto del cibo a scuola. Pensa
che ci sia un’attenzione eccessiva verso l’alimentazione
dei ragazzi, o è davvero un problema?
Specialmente in America ci stiamo rendendo conto
che ciò che abbiamo mangiato negli ultimi 30 anni
non è vero cibo. C’è tutto un movimento che cerca di
tornare alla genuinità del cibo non trattato e non confezionato. Io sono il peggiore di tutti: mangio tanti di
quei cibi pronti che sono molto fortunato a essere vivo.
Qual è il migliore complimento che ha ricevuto per Greg?
L’ho ricevuto da un critico che ha detto che quando
si leggono i miei libri non si nota che a scrivere per
Greg sia un adulto. Mi sforzo di creare personaggi
autentici, così sono felice ogni volta che qualcuno
considera Greg un personaggio reale.
Fino a quando continuerà a scrivere di Greg?
Ho capito qualche anno fa che i miei personaggi
sono più dei fumetti che dei personaggi letterari. E
i migliori personaggi a fumetti vivono per sempre.
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Vendite volanti e testi a nolo.
I librai rispondono alla crisi
A Torino c’è chi affitta i libri, a Roma chi li vende nella propria auto.
E gli enti pubblici cercano nuove strade per sostenere la lettura
Giuseppe Culicchia, La Stampa, 15 gennaio 2013
A Torino in via Onorato Vigliani, quartiere Mirafiori, la libreria Takuma ha deciso di fronteggiare
la crisi noleggiando i libri. Un giorno, un euro; una
settimana, quattro; due settimane, sette. A Milano
invece la storica libreria Hoepli, sei piani nell’omonima via dietro il Duomo e quasi un secolo e mezzo di storia, ha appena messo in cassa integrazione
a rotazione per tre mesi i circa sessanta dipendenti. E a Roma? La libreria Bibli a Trastevere, che
nel 1995 fu tra le prime in Italia a dotarsi di una
caffetteria e che a metà 2011 ha dovuto arrendersi causa sfratto, da quasi un anno ha ottenuto un
nuovo spazio dal Comune. Tuttavia non ha ancora
riaperto: ristrutturarlo costa quasi un milione.
Stefania Monea della Takuma presidia un avamposto: «Mirafiori si sa è un quartiere di frontiera,
da sempre accanto alle novità trattiamo scolastica e usato. Tenere aperto non è mai stato facile,
ma la crisi sta picchiando duro. A natale ho visto
clienti affezionati rinunciare all’acquisto per via
del prezzo di copertina. Così, quasi per gioco, ci
è venuto in mente di noleggiare i libri». E cosa è
successo? «Beh, sono venuti a trovarci in tanti. Il
primo libro affittato è stato quello di Gramellini.
Poi i romanzi della Oggero e di Wilbur Smith.
Giusto ieri un ragazzo ci ha chiesto Se questo è un
uomo: deve leggerlo per la scuola, conta di restituirlo in due giorni». E i diritti d’autore? Stefania
mi rassicura: «Se il libro piace, poi lo comprano.
Con Gramellini e la Oggero è successo». Smith
se ne farà una ragione, gli eredi di Levi possono
ancora sperare.
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A Milano Stefano Boeri, assessore alla Cultura, è
fresco reduce dal brindisi di commiato della libreria
Utopia di via Moscova, fondata nel ’77 dagli anarchici del circolo Ponte della Ghisolfa e frequentata
tra gli altri da Consolo e De André: negli ultimi tre
anni gli incassi erano scesi del 30 percento, la prospettiva è riaprire a febbraio a Città Studi. Intanto
però hanno chiuso la Rovello, libreria antiquaria
aperta nel 1893, e la Libreria di Brera. «Non è un
fenomeno nuovo. Chi conosce Milano ricorda l’Einaudi in Galleria Manzoni e la Cortina, sparite diversi anni fa. Oggi fa riflettere il fatto che le librerie
indipendenti chiudano nella città dove si producono
e si vendono più libri in Italia, malgrado abbiano
saputo specializzarsi e curare il rapporto con i clienti». Le ragioni? «A parte la crisi, gli affitti eccessivi.
Quelli residenziali sono calati, i commerciali no.
Milano al piano terra si sta svuotando». Che può
fare l’amministrazione? «Cercare di calmierare il
mercato con bandi pubblici, affittando spazi comunali con il 40 percento di sconto. Stiamo mappando
la città, centro compreso, per individuare i luoghi
più adatti. Ma vanno affrontati anche altri temi: gli
incentivi alla lettura, la polifunzionalità delle librerie. Negli Usa si è pensato a spazi per bambini e
circoli di lettura. Bisogna offrire altri servizi, oltre
alla vendita».
Farlo intendere ai teorici della redditività a metro
quadro non sarà facile. Un tempo a Torino i librai
si lamentavano del Salone del Libro, oggi i loro
colleghi milanesi fanno lo stesso con Bookcity. «È
stato un evento popolare, ed è questa la strada per
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recuperare lettori. Proprio a Bookcity con Umberto Eco abbiamo proposto agli editori di adottare
le biblioteche civiche: per le librerie di quartiere
dovrebbero diventare punti di riferimento nei quali
organizzare incontri e coinvolgere i ragazzi delle
scuole. Per superare la crisi, editori, librerie e biblioteche devono allearsi».
Mi sono detta che se non riuscivo a pagare
affitto e bollette, potevo caricare i libri sull’auto:
oggi che la gente non va in libreria, è la libreria
che deve andare dalla gente.
A Roma Gabriella Magginelli, fondatrice di Bibli
con Agnese Andreoli, racconta: «Quando abbiamo
dovuto chiudere la sede di via dei Fienaroli, ormai
un anno e mezzo fa, abbiamo chiesto al Comune di
aiutarci a trovare un altro spazio. E alla fine ce l’hanno assegnato: 400 metri quadri in via San Francesco
di Sales, con un giardino stupendo, per un affitto
di soli 39 mila euro l’anno». Peccato per il tetto in
Eternit. «Il restauro e il rifacimento del tetto costano
circa un milione. E certo non è possibile far fronte a
una spesa simile vendendo libri o aprendo un caffè.
È un peccato: la Bibli era una casa aperta a tutti».
Sempre a Roma, Monica Maggi è diventata una libraia volante. «Per due anni e mezzo ho avuto una
libreria nel centro commerciale di Morlupo, Roma
Nord», mi spiega fuori dal Radio Wuonz Club di
via Nemorense, dove ha organizzato un reading
dedicato a Pasolini. «Per me era un sogno. Ma poi
ho dovuto fare i conti col prezzo imposto e la necessità di un magazzino. Organizzavo incontri, laboratori. Non è bastato. Per non venire travolta dai
debiti ho dovuto chiudere». Addio libreria. Anzi
no: «Mai rassegnarsi. Mi sono detta che se non riuscivo a pagare affitto e bollette, potevo caricare i
libri sull’auto: oggi che la gente non va in libreria,
è la libreria che deve andare dalla gente». Messa in
piedi un’associazione culturale, Monica ha iniziato
a girare per Roma inventandosi iniziative in posti
insoliti, dalla gelateria al Tuscolano al fioraio dei
Parioli. «Organizzo concerti con letture di poesie,
salotti letterari, proiezioni, degustazioni. La mia
formula anticrisi? Abbattere i costi. Non devo più
pagare né affitto né luce, ho un’auto a gas e un telefono che mi permette di fare l’ufficio stampa di
me stessa e dei locali a cui mi appoggio. E un blog,
Libra 2.0». Inventiva e fiducia, insomma.
Gli stessi ingredienti che a Napoli, dove pochi mesi
fa ha chiuso la storica libreria Guida Merliani (ventimila euro al mese d’affitto non trattabili, inutile
mobilitazione del quartiere del Vomero, lunghe
code di clienti al momento della vendita fallimentare dei libri), usa Raimondo Di Maio, della Dante e
Descartes. «Noi abbiamo aperto nel 1984 con l’idea
di proporre cultura anziché bestseller e di cercare
lettori anziché consumatori, specializzandoci in letteratura del Novecento e cultura meridionale, libri
esauriti e rari. Napoli è città con biblioteche private
straordinarie, solo ieri in una casa ho trovato tutte
le annate della Critica di Croce». Per il signor Di
Maio, però, non c’è solo la crisi: «È un problema
di sistema. Messaggerie ha chiuso i magazzini di
Napoli e Roma e per ricevere certi titoli da Milano
dobbiamo aspettare quindici giorni. Gli editori del
Nord usano Napoli al posto del macero, da noi si
fa remainder selvaggio. E poi l’occupazione militare
degli spazi in libreria, con titoli di personaggi televisivi che nulla hanno a che fare con la letteratura. Noi
da ragazzi per i libri rinunciavamo alle scarpe nuove,
oggi gli universitari corrono a vendersi Heidegger
non appena superato l’esame di Filosofia». Ma non ci sono solo le librerie che chiudono. Di
nuovo a Torino in via Di Nanni, Marcello Fassetta
ha inaugurato la Borgo San Paolo il primo dicembre
scorso. «È presto per fare un bilancio, però il quartiere ci ha accolti bene». Ma perché aprire in questo
momento? «Per rabbia nei confronti dell’appiattimento in cui viviamo. Ogni libreria è una voce in
più, non si può solo e sempre parlare di soldi, tasse
e crisi». Del resto, se uno non fosse un po’ idealista
non farebbe il libraio.
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Giovani, ma senza rabbia.
I fumetti di Zerocalcare
Intervista all’autore delle strisce nate sul web e diventate un caso editoriale
Luca Raffaelli, la Repubblica, 16 gennaio 2013
«Ricorda: nessuno guarisce dalla propria infanzia»:
questa la (perfetta) citazione in quarta copertina di
Polpo alla gola, primo successo del fumetto italiano
a essere nato in libreria. Più di venticinquemila copie vendute per il precedente La profezia dell’armadillo (pubblicati da Bao-Publishing). Protagonisti
di entrambi un alter ego del ventinovenne Zerocalcare, nome d’arte di Michele Rech. Le sue esilaranti difficoltà a diventare adulto sono venate di
grandi malinconie, quasi il futuro fosse solo rivolto
all’indietro, al recente e indimenticabile passato di
studente. Zerocalcare nasce realizzando fumetti
all’interno del Forte Prenestino occupato di Roma,
mentre la sua popolarità se l’è conquistata sulla
rete. Qualche settimana fa il suo libro è arrivato
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anche su uno «scudo» di uno studente che manifestava in piazza.
Zerocalcare, quello scudo significa essere diventato il
simbolo di un sentire collettivo?
In verità quello mi è sembrato un corto circuito. Io
ero a quel corteo e nel corteo c’era uno scudo con il
libro mio. Assurdo, no? Però poi ho capito che vale
più quello di mille presenze in classifica.
Però insisto: nei suoi libri c’è qualcosa in cui molti si
riconoscono. Cosa?
Non lo so. Quando non avevo ancora successo mi
dicevo che certe atmosfere che nascono all’intorno
degli spazi occupati possono uscire dal recinto ed
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essere capite anche da persone non affini a noi. Ma
forse questa risposta non basta. Che dice?
Forse c’è l’esaltazione di un sentire giovanile (e forse anche
di un’immaturità) che non si vuole perdere. Quasi l’unica
ancora di salvezza nei confronti della cattiveria del mondo
degli adulti fosse quella non diventare mai come loro. È così?
Sì, condivido: ci sono dei sentimenti legati alla mia infanzia e alla mia adolescenza che non voglio perdere.
Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia, e cioè quello
che ti hanno costruito intorno perché tu non ti senta mai
compiuto, mai maturo. Io sono uscito dalla scuola dieci
anni fa insieme ai miei compagni. Beh, dopo dieci anni
ancora non abbiamo alcuna sicurezza sulla nostra vita. I
miei amici stanno ancora a lottare con i contratti a progetto, ancora non sanno bene se si possono permettere
una casa e l’idea di una famiglia è piuttosto improbabile.
A differenza del fumetto degli anni Settanta (di Pazienza, Scòzzari, Tamburini) nelle sue storie c’è molta meno
arrabbiatura e al suo posto un atteggiamento consolatorio.
Forse è vero. Ma credo che nel nostro paese non
riusciamo a essere davvero arrabbiati. È così tanta la
disillusione che viene a mancare lo spazio per dirigere la propria rabbia.
Ma non potrebbe essere pericoloso questo coccolarsi nella
propria insoddisfazione?
Oppure potrebbe essere un atto di coerenza. In realtà non faccio fumetti politici e non vivo una situazione preinsurrezionale. Esco dal Forte Prenestino e
vado a casa a vedere le serie tv mangiando plumcake.
E di questo parlo nelle mie storie.
Si dice che il successo le sia arrivato quasi per caso. È vero?
Ho cominciato spinto da uno scetticismo assoluto. È
stato merito di Makkox (altro fumettista nato sul web,
ndr) se ho continuato. E quando ho visto che le mie
storielle raccoglievano un po’ di consenso ho avuto lo
stimolo per cominciare a farne di nuove. Poi c’è stato il
salto con la storiella di Trenitalia. Con quello storia (in
cui si critica il sito dei Frecciarossa, la mania dei treni veloci e costosi, e anche il comportamento dei passeggeri,
ndr) qualcosa è cambiato, i contatti si sono moltiplicati.
Li conta gli accessi quotidiani?
No, ho smesso perché mi mette ansia contare tutti
i giorni. Quello che ho visto è che le condivisioni
sono 22 mila.
L’armadillo è nato prima sul web, mentre il Polpo è nato
come libro. Quanto è cambiato il suo modo di lavorare?
Quando ho cominciato a lavorare al Polpo ancora non
si era messo in moto tutto quel meccanismo che è
venuto fuori negli ultimi tempi. Quindi le decisioni le
ho prese a cuor leggero. Poi quando la cosa ha cominciato a crescere, a contratto già firmato e anticipo già
preso, mi sono reso conto che tutto quello che mi stava accadendo intorno richiedeva uno sforzo ulteriore
rispetto alla leggerezza con cui l’avevo preso.
In che senso?
Soprattutto nel dover trovare un senso complessivo al
lavoro che stavo facendo. Non solo storielle, ma qualcosa di più strutturato con una tabella di marcia precisa.
E c’è riuscito?
No. Nonostante tutti i miei buoni propositi mi sono
ritrovato a fare le cose a braccio, ho dovuto modificare alcune parti già fatte per legarle alle nuove che
stavo pensando. Ma sono soddisfatto del risultato.
E ora?
Sto cercando davvero di cambiare il mio metodo di
lavoro, di scrivere un soggetto e una sceneggiatura
dettagliati. L’obiettivo è soprattutto eliminare il panico da consegna.
Non c’è il pericolo di abbassare il livello di spontaneità?
Ma per quello non smetto di lavorare per il biog. E
siccome ho la fortuna di lavorare per Bao, che punta
a farmi fare un libro all’anno, avrei voglia di provare
a fare delle cose diverse, anche correndo il rischio
che non siano quelle che mi riescono meglio.
In che maniera il successo ha cambiato la sua vita?
Faccio molte più presentazioni e molte meno ripetizioni. Ma non so ancora se quello dei fumetti diventerà un mestiere.
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La dittatura del carino
L’interessante, il buffo, e altri esorcismi del bello:
le categorie (minori) che anestetizzano l’estetica
Guido Vitiello, La Lettura del Corriere della Sera, 19 gennaio 2012
Puoi fare il giro più largo, perderti per ore tra scaffali e biblioteche, ma alla fine la risposta che cercavi
ti attende sempre lì, nelle strisce di Charlie Brown.
La scena è questa: Schroeder, il biondino con il culto di Beethoven, è chino sul suo pianoforte a coda
giocattolo; Lucy, la tirannica sorella maggiore di
Linus che lo corteggia senza dargli pace, è appollaiata all’altro capo del piano, e legge una descrizione
del compositore da ragazzo: spalle larghe, collo corto, testa grossa, naso carnoso… «Ha l’aria carina»,
commenta. Schroeder lancia uno di quegli urli cubitali che nei fumetti di Schulz mandano i bambini a
gambe all’aria: «Beethoven non era carino!».
Saranno pure Peanuts, o noccioline, insomma le nugae dei latini; eppure ecco messo in scena, in forma
di battibecco galante, il grande conflitto estetico del
nostro tempo. Il kantiano Schroeder difende le tradizionali categorie del bello e del sublime, le sole
che gli appaiano degne di Beethoven; Lucy incarna
lo spirito dell’estetica pop, dove uno scarmigliato
musicista romantico può essere trattato come Hello
Kitty, dove la Nona è fischiettabile come un jingle,
dove insomma è il carino a regnare sul gusto. «L’amore del Bello è odio del Carino», si legge nell’Eva
futura di Villiers de l’Isle-Adam, e sarebbe il motto
ideale in calce alla vignetta di Schulz (o viceversa).
Ma il carino non regna solitario. Sianne Ngai, una
anglista dell’università di Stanford, ha appena dedicato un libro alle categorie estetiche che dominano
la sensibilità corrente, Our Aesthetic Categories: Zany,
Cute, Interesting (Harvard University Press). Accanto al carino – il cute – ci sono dunque l’interessante
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e lo zany, qualcosa che sta tra il buffo, l’istrionesco
e il bizzarro.
Sono categorie minori, ma non per questo marginali; semmai, dice Ngai, triviali, tipiche di una cultura
dove sono crollati gli argini tra arte e consumo, arte
e design, arte e vita quotidiana, tra la hegeliana «domenica della vita» e la prosa dei giorni feriali, e dove
è sempre più difficile, per l’estetica, fare provincia a
sé e rivendicare confini certi. Va detto che Ngai si
muove sul terreno un po’ nebbioso dei cultural studies statunitensi, e che le sue intuizioni risplendono
sotto incrostazioni di gerghi – dal postmodernismo
al marxismo accademico ai gender studies – che si ha
una certa pena a grattar via. Ma la materia che maneggia è così viva, le questioni a cui si accosta così
centrali, che non si rimpiange la fatica.
Il carino, l’interessante e il bizzarro sono la moneta
corrente spesa nelle conversazioni, nei giudizi informali, nelle chiacchiere del dopo mostra o del dopo
film, ma anche il puntello delle recensioni e della
critica d’occasione, che ha sempre bisogno di un
carnet di aggettivi-tappabuchi. Hanno spodestato
silenziosamente il bello e il sublime, che pure conservano, nelle loro roccaforti, il severo prestigio dei
monarchi decaduti. Ma queste creaturine dall’aria
così dimessa, così mite – e non c’è bisogno di rievocare i grandi archetipi del barboncino inferocito o
del neonato urlante – viste da vicino sono tutt’altro
che innocue. Il carino, per esempio, è letale. È la
forbice capace di spuntare le unghie al più selvatico
dei felini, lo strumento di una regressione al crepuscolarismo bamboleggiante, la trasfigurazione del
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mondo in peluche. Ngai ne parla come di una via
per spadroneggiare esteticamente sulla debolezza,
mescolanza ambivalente di tenerezza e sadismo (e
per inciso, Fruttero e Lucentini hanno scritto grandi cose sul lato oscuro del carino, categoria ignota
agli antichi, e sul nesso occulto tra Shirley Temple
e Adolf Hitler, «il mostruoso dittatore urlante» e «la
mostruosa frugoletta che canta le sue canzoncine»).
E poi, a pensarci bene, è un giudizio positivo o negativo? Siamo autorizzati a risentirci se ce lo affibbiano? È un dono avvelenato, un cavallo di Troia? Non
è chiaro, ma potete cercare una prima risposta nello
sguardo da potenziale squartatore che un giovanissimo Nanni Moretti, in un dibattito televisivo, lanciò
a Mario Monicelli che aveva appena definito Io sono
un autarchico un «film carino». Lo stesso vale per «interessante», il più anemico dei giudizi, che può essere
usato facilmente come sinonimo appena mascherato del suo contrario, e che non si sa bene se designi
una reazione assente, affievolita, tutta cerebrale o così
perplessa da restare indefinibile. Ne va che il giovane
romanziere elogiato per il suo «esordio interessante»
dovrebbe fare la stessa faccia interdetta della ragazzina che si sente etichettare come «un tipo».
Ma c’è un tratto comune alle categorie di Ngai su
cui si dovrebbe ragionare un poco: la freddezza, o
se vogliamo la coolness, che è anche padronanza di
sé. «Chi può vivere tra fiamme perenni?», chiedeva
l’antico profeta. Il carino, l’interessante, il buffo riflettono al fondo esperienze estetiche mezzo soffocate, crepitanti appena sotto uno strato di cenere. Il
Beethoven sublime di Schroeder incombe dall’alto e
ti fa tremare, il Beethoven carino di Lucy è una bestiola addomesticata in grembo. E già che le risposte, a cercarle bene, sono tutte nei Peanuts, vien voglia di rovesciare i termini di quel vecchio dibattito
sulla secolarizzazione dell’esperienza estetica e sullo
spettatore che si riscuote dalla soggezione religiosa
verso l’opera d’arte. Al contrario, c’è qui il segno di
una soggezione più grande, di un timore reverenziale che diventa timor panico e richiede in tutta fretta
uno scongiuro, una scappatoia scaramantica.
Diceva William Carlos Williams che gli uomini temono la bellezza più che la morte. Non è da
escludere che il carino, l’interessante e i loro tiepidi
parenti siano gli strumenti di un esorcismo: basta
pronunciare quelle formule di rito e il sortilegio
dell’arte non è più minaccioso. Dov’è, Bellezza, il
tuo pungiglione? Altro modo per dire che la nostra
estetica potrebbe essere, in fin dei conti, un’anestetica: una scienza non già del sentire, ma del non sentire. O del sentire il meno possibile.
Il carino, l’interessante e il bizzarro sono la moneta
corrente spesa nelle conversazioni, nei giudizi informali,
nelle chiacchiere del dopo mostra o del dopo film,
ma anche il puntello delle recensioni e della critica
d’occasione, che ha sempre bisogno di un carnet di
aggettivi-tappabuchi.
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Case, librai, promotori.
Nella giungla di carta
vale la legge del più forte
Federico di Vita illustra «usi e abusi»
del pericoloso circuito letterario
Massimiliano Parente, il Giornale, 19 gennaio 2013
In teoria non ci sarebbe nulla di più noioso che sentire la piccola editoria che si lamenta della piccola
editoria, dopo cinque minuti si finisce per rimasticare
André Schiffrin e idee da quadrivio funebre gadlerneriano tipo la «bibliodiversità». Oppure saltano fuori
Christian Raimo e Nicola Lagioia con un pistolotto
contro il berlusconismo. Tuttavia se volete lavorare in
una piccola casa editrice tutto quello che c’è da sapere
sulla piccola editoria italiana ve lo rivela un libro di
Federico di Vita dalla copertina pomo-trash che si
intitola Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria (Tic
edizioni). Perché bisogna essere proprio pazzi sia per
aprire una casa editrice che per volerci lavorare.
È anzitutto il racconto di un mondo darwiniano in
via d’estinzione, con il piccolo editore strangolato
dal promotore a sua volta strangolato dal distributore a sua volta strangolato dal libraio che è strangolato
dalle grandi catene che comunque si stanno strangolando da sole a causa della crisi. Il pesce grande
mangia il pesce piccolo e tra i grossi predatori qui
figurano le librerie Feltrinelli, per esempio. Pasquale
Colaps, che è stato per anni il direttore («ero il più
stronzo di Roma») di uno dei più grossi promotori,
la Pde, spiega che oggi gran parte dei libri dei piccoli editori acquistati dalle Feltrinelli non appaiono
mai sugli scaffali: «prendono lo stesso questi libri in
deposito ma non li tolgono nemmeno dagli scatoloni; il corriere glieli porta e loro li lasciano per mesi
in magazzino». È una specie di truffa, perché «così
facendo Feltrinelli fa bella figura nel comprare i libri
della piccola editoria pur sapendo che non li venderà: li metterà in resa e non li pagherà».
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Nel manuale comunque si lamentano tutti: in primis i librai dell’ignoranza dei promotori, che ormai si presentano in libreria con i loro copertinari
senza sapere di cosa parlano. Racconta Leonardo Giuloni, che ha una libreria Einaudi: «L’altro
giorno me ne è arrivato uno in libreria dicendomi che il giovane autore sarà lo scrittore italiano del futuro e si rifà nella sua struttura lessicale
all’Ammaniti Prima Maniera. Ho creduto che il
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promotore fosse impazzito e gli ho detto “ma che
cazzo stai a di’? Come ti è venuto in mente di dire
Ammaniti Prima Maniera?”. Lui ha risposto che
stava scritto sulla scheda». Gli agenti a loro volta si
lamentano degli editori, come Stefano Tettamanti: «A noi agenti ci cominciano a rispondere cose
come: “troppo alto”, “troppo di nicchia”, “troppo
divertente”, “troppo bello”… Ma allora pubblicate
solo quelli brutti». A vedere cosa esce ogni mese
viene da rispondere di sì.
Sappiate che Fazi ha fatto soldi ma partendo con
una società finanziaria, minimum fax si sta facendo più minimum, Castelvecchi è passata di mano in
mano e non c’è più Castelvecchi, Coniglio ha chiuso
e Fandango non si sente tanto bene. L’editoria romana è un grande tritacarne di insuccessi dove alla
lunga da cosa muore cosa, con due grandi macellerie
di successo: Fazi e Newton Compton. I quali infatti parlano di libri come macellai. È un settore in
cui non c’è mercato ma ci si butta lo stesso perché
«i piccoli editori sono montati, vivono di illusioni».
Tra le vittime designate spesso anche i tipografi, che
al limite non si pagano e si cambiano. Il piccolo editore in ogni caso è «l’ultimo dei cavalieri erranti»,
«l’ultimo degli illusi» e non ti paga o ti paga poco
e tardi, e nell’ultimo decennio la piccola editoria
ha assorbito tutta la disoccupazione dei laureati in
materie umanistiche creando un tipo di precariato
particolare: quello gratuito.
Insomma, tra concorsi letterari, corsi di editoria, di
scrittura, perfino corsi di lettura, e fiere, e feste, e
perfino sagre del libro, tutto un magnamagna molto
italiano dove perfino a pochi anni fa si vivacchiava
e oggi i nodi vengono al pettine, perché attenzione:
il manuale di Federico di Vita non è un manuale
di sopravvivenza individuale. Anzi, di Vita stesso,
che non era affatto choosy, ha gettato la spugna con
una considerazione molto pragmatica e rassegnata:
«A conti fatti penso che per quanto si possa immaginare di volersi sacrificare sull’altare di un lavoro
affascinante, non si possa mai arrivare all’idea di immolare la possibilità di pagarsi un affitto».
È anzitutto il racconto di un mondo darwiniano in via
d’estinzione, con il piccolo editore strangolato dal
promotore a sua volta strangolato dal distributore a sua
volta strangolato dal libraio che è strangolato dalle grandi
catene che comunque si stanno strangolando da sole
a causa della crisi.
L’editoria romana è un grande tritacarne di insuccessi dove
alla lunga da cosa muore cosa, con due grandi macellerie di
successo: Fazi e Newton Compton. I quali infatti parlano di
libri come macellai. È un settore in cui non c’è mercato ma
ci si butta lo stesso perché «i piccoli editori sono montati,
vivono di illusioni».
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Quando la libreria si difende con un trattore
Mario Baudino, La Stampa, 20 gennaio 2013
In Inghilterra si sono quasi dimezzate in dieci
anni. In Italia, dove sono in numero inferiore,
continuano a essere circa 1800. Oggi. Ma domani? Scommettere sul futuro delle nostre librerie
pare un azzardo, il panorama è poco promettente:
cali notevoli del mercato del libro (il 2012 finirà
intorno a meno 8 per cento), chiusure e riduzioni
di personale, come nel caso della Hoepli di Milano e della catena di librerie Coop, che hanno
fatto ricorso alla cassa integrazione. Ne parliamo
con Stefano Mauri e Romano Montroni alla vigilia dell’apertura a Venezia della «Scuola per librai
Umberto e Elisabetta Mauri», giunta al trentesimo anno.
Voluta dalla famiglia Mauri (che controlla Messaggerie, il più grande distributore indipendente
italiano, il gruppo editoriale Gems, e una catena
di librerie oltre a Ibs, online) la Scuola ha formato
generazioni di librai esperti e appassionati, fornendo loro gli strumenti tecnici di questo mestiere difficile. Montroni, che ha guidato la grande crescita
delle librerie Feltrinelli e ora ha inventato quelle
della Coop, fa parte con Mauri del comitato scientifico. Da una parte un libraio puro, «natural born
bookseller» per dirla con Oliver Stone. Dall’altra
un manager che è soprattutto editore, alla guida di
Gems, terzo gruppo italiano dopo Mondadori, vicinissimo a Rcs-libri. Guardando a questi trent’anni, ricordano come la scuola sia nata in un altro
momento particolarmente critico. Era il periodo in
cui le jeanserie scacciavano i librai dai centri storici.
Ora la crisi dei consumi sta completando il ciclo?
mauri: «Il libraio ha margini di guadagno molto ridotti. Già gli affitti sono un grave problema, anche se molti sono riusciti a ricontrattarli.
Non tutti, come ha scritto proprio La Stampa. Il
calo generale dei consumi si traduce in un calo di
acquisti anche per i libri: siamo a una flessione
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dell’8 percento, che in altri settori dove i guadagni sono molto maggiori verrebbe assorbita più
facilmente».
montroni: «La libreria soffre di più».
Più degli editori? Il 2012 ha colpito anche loro. Laterza
sta discutendo di cassa integrazione, Giunti l’ha già avviata. Senza contare che nelle aziende editoriali i contratti di lavoro precari sono molti. E quelli in scadenza
rischiano di non venir rinnovati.
mauri: «Negli anni Ottanta c’era più sicurezza, ora
le cose sono molto cambiate. Ma se guardiamo bene
ai numeri della crisi, scopriamo che non vale per
tutti i settori. Per esempio, la narrativa continua ad
andare bene, con una polarizzazione sul bestseller.
Non perde quasi nulla, o è in pareggio. Il disastro è
la saggistica».
montroni: «Il fenomeno del bestseller riguarda un
arco di mercato che va dall’edicolante al supermarket. E in questo contesto sono le librerie di catena
a soffrire di più. Quelle indipendenti non hanno
scelta: devono differenziarsi. Il cliente, loro cliente,
vuole il catalogo. E poi ci vogliono proposte originali. Conosco un libraio della Coop di Mondovì che
contro il parere di tutti ha messo in vetrina un volume sui trattori. Ne ha vendute 250 copie».
Posta in questi termini, sembra una questione di maggiore o minore bravura. Una selezione naturale. Non è
un po’ troppo semplice?
montroni: «In certi casi si chiude perché c’è tanta
passione, ma anche incapacità di gestione. È chiaro
che allora si soffre molto più degli altri».
mauri: «Però fra le librerie che chiudono ce ne
sono alcune con vent’anni di attività alle spalle.
Volumi di affari e importanza culturale non necessariamente si equivalgono. Parlavo della crisi
della saggistica: ecco, temo che abbia fatto molte
vittime».
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L’Ora di Consolo.
Cronache siciliane raccontate a sangue freddo
A un anno dalla morte dello scrittore esce un libro che ne raccoglie gli articoli
Francesco Erbani, la Repubblica, 21 gennaio 2013
«Trapani», scrive Vincenzo Consolo, «ha l’aspetto
e la fragile trasparenza di una città lagunare, allungata com’è su una lingua di terra in mezzo al mare
e con tutti gli specchi d’acqua delle saline alle sue
spalle». Era un giugno assolato del 1975 e lo scrittore di Sant’Agata di Militello, morto esattamente
un anno fa, cominciava da Trapani le sue cronache
del processo a Michele Vinci, un uomo accusato di
aver ucciso tre bambine, due delle quali sorelle e sue
nipoti. Un processo celebre e terribile che angosciò
gli italiani dalle pagine di quotidiani e rotocalchi.
Consolo scriveva per L’Ora di Palermo. Ma la sua
lingua, a dispetto di quell’attacco così musicale e degli umori morbosi che la vicenda emanava dal fondo di una Sicilia misera e cupa, prese poi a seguire
tutt’altro corso e a aderire in maniera netta, pulita,
senza scorciatoie letterarie a una storia che si voleva
costringere entro una schema rassicurante, correndo
il rischio dell’errore giudiziario: il gesto di un alieno,
di un criminale che andava bandito.
Esercizi di cronaca s’intitola il volume in cui Salvatore Grassia e Salvatore Silvano Nigro raccolgono,
per Sellerio, gli articoli che Consolo pubblicò sul
quotidiano allora diretto da Vittorio Nisticò. L’Ora
è una trincea dove si combattono la mafia e l’affarismo dei democristiani eredi di Lima e Ciancimino.
Ed è anche, segnala Nigro, un luogo di raccolta per
eccellenti cronisti-letterati: Consolo, almeno fino al
1969, prima di trasferirsi a Milano, e poi Giuliana
Saladino, Michele Perriera, Sebastiano Addamo,
Mario Farinella. Scrittori in senso pieno, che però
all’Ora non piegano la cronaca alla letteratura, usano
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la letteratura per essere cronisti migliori. Quella di
Consolo è una consapevole militanza giornalistica,
che ora viene valorizzata colmando il vuoto che in
sede critica sembrava essersi creato fra il suo esordio
narrativo nel 1963 (con La ferita dell’aprile) e 1976,
quando si afferma come scrittore di prima fila pubblicando Il sorriso dell’ignoto marinaio.
In mezzo, invece, si colloca il giornalismo a Palermo e poi, sempre per L’Ora, da Milano. Del giornalismo Consolo assume l’attrezzatura, la curiosità
intellettuale (basta leggere l’incontro-intervista con
Licia Pinelli). E soprattutto la lingua – misurata e
densa, apparentemente lontana dall’espressività che
invece tinge le pagine del Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui, come è stato segnalato, la prosa incede
allineando perfetti endecasillabi, il metro di Dante e
dei sonetti di Petrarca. L’impressione che Consolo
si muova agilmente su un doppio registro è tanto
più fondata se si bada a un particolare: negli stessi
giorni in cui segue le udienze trapanesi e compila
cronache in cui le parole seguono i fatti senza scostarsene, Consolo rivede gli ultimi capitoli del romanzo, la cui prima parte è uscita presso un piccolo
stampatore milanese suscitando in molti editori la
brama di accaparrarsi l’intera opera (alla fine il libro
sarà pubblicato da Einaudi).
Il sorriso dell’ignoto marinaio è il romanzo che impone Consolo sulla scena letteraria. Ma le distanze
con le cronache trapanesi in qualche modo si ricompongono, spiegano Nigro e Grassia. Che intanto
fanno notare un’analogia: il carcere in cui nel Sorriso vengono rinchiusi i rivoltosi di Alcara Li Fusi (il
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La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013
romanzo è ambientato nella Sicilia appena liberata
da Garibaldi) ha la forma di una chiocciola, che dal
buio va verso la luce; e un aspetto analogo ha il pozzo in cui sono state buttate due delle tre bambine,
il pozzo che la corte di Trapani un giorno va a ispezionare e che Consolo racconta nella cronaca che in
parte qui accanto riproduciamo.
Nel Sorriso, aggiunge Nigro, «il tema di fondo è
l’impostura della letteratura: la storia raccontata dalla letteratura non è la stessa cosa, per Consolo, della
storia raccontata dai vinti, che è invece quella alla
quale lui si attiene». È un’attitudine manzoniana.
Consolo, insiste Nigro, quando si accinge a compilare le cronache sul processo Vinci «cerca una lingua diversa da quella della letteratura, eversiva tanto
quanto la lingua del Sorriso con le sue impennate
barocche lo è rispetto all’idioma letterario degli anni
Settanta».
Al centro delle cronache di Consolo campeggiano
due figure. Quella di Michele Vinci, una sfinge
silenziosa che tutti vorrebbero liquidare sbattendolo all’ergastolo senza riempire i buchi di un’indagine che serve rassicurare un’opinione pubblica
trapanese timorosa che si possa scavare in complicità d’alto rango. E quella del pubblico ministero, il giovane magistrato Giangiacomo Ciaccio
Montalto, altra fisionomia manzoniana, sottolinea Nigro, per il quale la verità del processo non è
la verità della storia. Ciaccio Montalto è raccontato da Consolo nel pieno della sua «inquietudine
morale», convinto che Vinci non abbia agito da
solo perché lo dimostrano tutte le evidenze, eppure costretto a chiedere per lui, e per lui solo, un
ergastolo. Che verrà comminato, cadendo «nel silenzio sospeso dell’aula come un fiato metafisico,
fatale e terrifico». Queste parole Consolo non le
scriverà sull’Ora a margine del processo. Ma su un
altro giornale, nel gennaio del 1983, commentando la notizia dell’uccisione di Ciaccio Montalto
per mano mafiosa.
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«Dopo la fase delle promozioni, i prezzi degli ebook si assesteranno».
Intervista a Marco Ghezzi (40k)
Mentre per 40K esce (direttamente in ebook) «L’amore è strano», il paranormal romance di un autore di culto come
Bruce Sterling, Marco Ghezzi, ideatore di 40k, editore digitale del gruppo Bookrepublic, parla con affaritaliani.it del
presente e del futuro dell’universo ebook
Antonio Prudenzano, Affari italiani, 21 gennaio 2013
Brevi, low cost e in diverse lingue: sono gli ebook
del marchio 40k (racconti e saggi di circa 40 mila
battute – da qui il nome della collana − disponibili
contemporaneamente in diverse lingue: italiano, inglese, francese, portoghese e prossimamente anche
spagnolo). Marco Ghezzi è l’ideatore di quest’innovativa casa editrice digitale creata da DigitPub
(gruppo Bookrepublic). Da quasi vent’anni Ghezzi
opera all’incrocio tra editoria e tecnologia. Ha fondato Hestia Edizioni, Factory e Hops Libri. È stato
responsabile dell’area libri di Tecniche Nuove, oltre
che ad di Apogeo e di Kowalski. Affaritaliani.it lo
ha intervistato.
Da quest’anno, però, la struttura che lavora direttamente su 40k è economicamente autonoma e
questo ci sembra il segnale più importante per il
futuro.
È in uscita L’amore è strano (solo in ebook, circa 300
pagine, drm free, euro 6,90) di Bruce Sterling. Come
mai uno degli autori contemporanei di fantascienza più
apprezzati (pubblicato in Italia da Mondadori) ha scelto 40k per questo «paranormal romance», che arriva in
contemporanea in Italia e negli Usa?
Sterling è stato uno dei primi autori a voler sperimentare, già nel 2010, la strada dell’editoria puramente digitale con 40k, con la pubblicazione di due
racconti (Cigno nero e Il bisturi napoletano) in tre lingue: inglese, italiano e portoghese. Dal successo di
quell’esperienza deriva la scelta di pubblicare esclusivamente in digitale e su due mercati in contemporanea il suo ultimo romanzo.
Qual è il vostro bestseller?
Quantitativamente, il nostro titolo più venduto è Cigno nero di Bruce Sterling, che insieme alla Blackburn
è il nostro autore di punta per il mercato statunitense.
Tra i più venduti in Italia vale la pena ricordare Derrick de Kerckhove e Ken Liu, che con L’uomo che mise
fine alla storia è stato un piccolo fenomeno editoriale
prima negli Stati Uniti e poi da noi.
E veniamo al vostro marchio: qual è il fatturato di 40k?
Se guardiamo al fatturato complessivo, stiamo
parlando di cifre ancora relativamente piccole.
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40k è stata la prima casa editrice al mondo a lavorare contemporaneamente su più mercati internazionali: le vendite
all’estero che fetta del vostro fatturato rappresentano?
Oltre il 75 percento delle vendite deriva dal mercato
estero, americano prevalentemente. È una delle ragioni per cui abbiamo deciso di tradurre in inglese il
primo titolo della minisaga Mondo9, di Dario Tonani: Cardanica.
Il mercato ebook in Italia è in costante crescita, anche se
i numeri restano bassi: come immagina lo scenario nei
prossimi anni, anche alla luce del generale rallentamento delle vendite dei libri cartacei?
Ci aspettiamo una crescita sostenuta anche per i
prossimi anni, sulla falsariga di quanto già successo nei paesi di lingua anglosassone. Alla crisi delle
librerie tradizionali (negli Stati Uniti Borders ha
chiuso e b&n non naviga in buone acque), in Italia
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La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013
dobbiamo aggiungere la congiuntura economica di
certo non favorevole, che per la prima volta ha avuto
un impatto molto forte sul mercato del libro. Molti lettori forti si stanno spostando verso il digitale,
anche grazie alla politica commerciale di molte case
editrici, che stanno proponendo molti dei loro titoli
con grandi sconti. Credo che a questa fase «promozionale», utile ad allargare la base di «lettori digitali», seguirà presto una fase di assestamento con i
prezzi di copertina degli ebook che rimarranno inferiori alla loro controparte cartacea, senza gli eccessi
promozionali di oggi.
Si parla molto di selfpublishing. In Italia il fenomeno
dell’autopubblicazione a che punto è?
L’autopubblicazione è un fenomeno che è sempre esistito in Italia, alimentato da pseudoconcorsi
letterari promossi da case editrici specializzate in
quella che in altri paesi viene definita vanity press.
L’avvento del digitale e la disintermediazione nei
rapporti tra scrittore e editore hanno reso possibile
la nascita di piattaforme editoriali che in maniera
trasparente offrono all’aspirante scrittore un accesso
alla pubblicazione e al mercato più semplice. Una
di queste piattaforme è Ilmiolibro, del gruppo l’Espresso (Bookrepublic da qualche mese è il partner
distributivo de Ilmiolibro, ndr). Non siamo ancora
ai numeri del selfpublishing nel mercato anglosassone, dove la capacità di penetrazione di Amazon
e il peso dell’ebook hanno consentito l’affermarsi di
autori da milioni di copie come Amanda Hocking o
John Locke, ma è indubbio che la crisi dell’editoria,
che sta coinvolgendo tutti gli elementi della filiera,
apre nuove opportunità per gli autori.
Qualche mese fa avete lanciato 40k Unofficial, un incrocio tra editoria tradizionale e selfpublishing. Si tratta di ebook che contengono approfondimento su temi di
attualità, spesso proposti e pubblicati da giornalisti che
sulla carta non avrebbero a disposizione 40 mila battute
per i loro pezzi. Come sta andando?
Gli unofficial sono il nostro modo di approcciare il selfpublishing: una piattaforma che nasce per
offrire servizi agli autori, perché crediamo che l’editore, nel digitale, dovrà sempre più mettersi al
servizio degli autori. Siamo molto contenti della
capacità di attrazione che 40k sta esercitando sugli
autori che si affacciano al digitale e questo non
solo nel campo giornalistico. Presto cominceremo
infatti a pubblicare brevi saggi e how-to su argomenti apparentemente molto lontani tra loro. Ci
piace pensare agli unofficial come a un’enciclopedia universale.
Un tema che divide è quello della pirateria (e quindi dell’uso o meno dei drm): 40k come si difende dai
«pirati»?
Non credo che il drm sia una risposta efficace
alla pirateria, al contrario, nel rendere complicata
la vita ai lettori i drm stanno allontanando molti
potenziali lettori dagli ebook. Da sempre Bookrepublic, e quindi anche 40k, ha spinto per l’uso di
strumenti di gestione dei diritti digitali non bloccanti. Applichiamo ai nostri ebook un social drm,
che si limita a inserire un watermark nei file senza
limitarne l’uso. Crediamo che adottando una giusta politica di prezzo, coinvolgendo gli autori stessi
nei processi di comunicazione dell’opera e responsabilizzando i lettori, sia possibile vendere contenuti online remunerando tutte le parti coinvolte
nel processo.
Chiudiamo guardando al futuro: l’obiettivo di 40k per
i prossimi mesi è di trasformarsi in una piattaforma
aperta di pubblicazione per how-to e manualistica, creando una comunità di autori e professionisti dell’editoria. Perché proprio questa direzione?
Perché crediamo che l’editore debba cambiare
pelle e imparare a rivolgersi ai due estremi della
filiera editoriale, autore e lettore, in modo completamente diverso. Deve essere in grado, da un
lato, di parlare ai lettori in modo diretto e non
mediato, coinvolgendo i propri autori in questo
processo. E deve guardare ai propri autori come
a partner ai quali fornire servizi e consulenza in
cambio di contenuti.
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Speciale librerie | Torino: germogli in periferia
Daniele Martino, Doppiozero, 22 gennaio 2013
A Torino lo tsunami sulle librerie indipendenti è passato qualche anno fa. Un tessuto c’è. C’è anche un
librino, pubblicato da NdApress l’anno scorso in cui
Elena Romanello fa il censimento di chi è rimasto e
di chi è nato; nella prefazione, Boosta dei Subsonica
(all’anagrafe Davide Dileo), scrive una sua ode a questi coraggiosi marinai in picciol navelli che solcano le
onde grosse della crisi: «Che cos’è una libreria indipendente? È un posto magico in cui far tana mentre giochi
a nascondino. È il luogo in cui la testa si dissocia dalla
realtà. È il negozio in cui trovi tutte le vite del mondo… Le librerie indipendenti sono un avamposto. Le
librerie indipendenti sono esteticamente affascinanti.
E nelle librerie indipendenti trovi delle risposte».
Il problema condiviso con Milano e Roma è il centro storico: l’escalation degli affitti ha mietuto vittime
illustri: la libreria Druetto ha chiuso, e ora nei suoi
vani c’è un negozio Stefanel. Feltrinelli ha acquisito
la Ricordi e ha aperto alla stazione di Porta Nuova,
rimanendo in piazza Castello. Fnac rischia la chiusura in tutta Italia. Non si può dire quindi che soltanto
le piccole librerie rischino grosso: Fnac ha un significativo spazio dedicato ai libri. La storica libreria Paravia, una delle più antiche d’Italia, non ha firmato il
rinnovo del contratto: Pirelli Re ha comprato, e vuole
ristrutturare per rimettere il pezzo sul mercato con
locazioni inaccessibili per uno che venda libri.
Nel cuore di questa città-laboratorio (ci diciamo
sempre così, qui, che siamo il laboratorio, perché
quando vivi in costante trincea deprimente ti conforti pensando che sei solo il primo a doverti inventare soluzioni inedite) resistono solo la Comunardi (del resistente Paolo Barsi, da sempre isola per
i fumetti, per la poesia, per cinema e teatro, per i
ragionamenti politici), e Luxemburg (fondata da
Angelo Pezzana, l’ideatore del Salone del Libro con
Accornero, “il” posto che ha libri in lingua inglese);
in insolita e confortante apertura dopo cena trovi
buoni remainders dalla Bussola, con il pittore, poeta
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e maestro zen Ezio Zanin a fare il commesso; di
giorno tascabili e fotografici da Mercurio. Resiste
Arethusa (per decenni perla nera dell’occulto, dello
spirituale, dell’orientale). La Legolibri di Corrado
Ganasti e Massimo Minuti, specializzata in psicologia, ha tentato di allargarsi alla varia ma poi è rifluita
sulla sua specializzazione. La Libreria dei Ragazzi,
antesignana nella esclusiva per i piccoli lettori, è ancora lì. La Campus del «mitico» Femore prediletto
dalla «mitica» Einaudi chiuse anni fa. Fine.
Chi promuove i libri in libreria (la mia gola profonda) dice che di ricavi significativi dalle librerie
indipendenti non ne arrivano. Che in Italia manca
una vera intelligente legge sul tetto agli sconti quali
quelle efficaci vigenti in Germania e Francia: si fanno tante chiacchiere, ma a memoria di operatore del
settore l’unica città che fece qualcosa per i libri fu
Roma con la giunta Veltroni, sostenendo l’apertura
di librerie nei quartieri.
Quartieri. Appunto. Qui Torino ha preso mosse
creative per prima, sì. Quattro nuove librerie hanno
piantato in quartieri non centrali nuove bandierine di
coraggio e di innovazione: piccoli spazi, molte presentazioni, idee particolari. A Vanchiglia ci sono i
due trentottenni Davide, Ferraris e Ruffinengo, che
con la Libreria Therese in corso Belgio combattono
dal 2010; sono a fianco di un cinema d’essai, i Fratelli Marx, quindi qualcuno lì ci arriva anche da fuori quartiere; e questo destino cinematografico i due
l’hanno appena esteso all’anticamera di un altro d’essai, il Centrale, che è l’unica sala in città a proiettare film in versione originale; spazio ai piccoli editori
indipendenti: Marcos y Marcos, Sellerio, minimux
fax e Sur. Per proiettarsi fuori dal quartierino si sono
inventati “Profumi per la mente”; vanno in giro casa
per casa a proporre libri da leggere, e recentemente
hanno anche trovato uno sponsor, la BookCar della
edt che ha personalizzato una Dacia Duster bianca per promuovere soprattutto i suoi marchi Lonely
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La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013
Planet e Marco Polo (guide di viaggio) e Giralangolo (ragazzi): itinerando; «il libraio suona sempre
due volte», è il motto dei Davidi; hanno già fatto un
centinaio di incontri in cui raccontano i titoli che
amano; vogliono togliere la polvere dai libri, quella
che si deposita sugli scaffali dimenticati.
In San Salvario c’è la libreria Trebisonda di Malvina
Cagna, dal 2011: la sera spesso aperta per acchiappare giovanotti dalla movida del quartiere, in continua, delirante proliferazione di localini semivuoti;
San Salvario era il fronte multiculturale della città,
con continue risse di strada tra bande di immigrati
africani, e spaccio pesante di droga; ora il quartiere
cambia, schizofrenicamente rimescolato di drappelli
ambulanti di immigrati o di choosy di centrosinistra. Nel quartiere un tempo operaio di San Paolo
(quello da cui veniva il «mitico» sindaco comunista
Diego Novelli) c’è dal 2010 Belgravia di Maria Caldarone e Luca Nicolotti: un sacco di spazio (qui il
metro quadro non costa come in centro, ovvio), un
sacco di presentazioni, un sacco di viavai, e un angolo per il bookcrossing.
Infine c’è Rocco Pinto, oggi il più noto libraio di
Torino fuori Torino, anche scrittore, perché da Voland ha da poco pubblicato i racconti Fuori catalogo:
storie di libri e librerie; dirigeva in centro la libreria
Torre di Abele, del Gruppo Abele, che è stata appe-
na comprata dalla catena Giunti; ha resistito un po’,
e poi si è buttato; nel quartiere Aurora Rossini Regio Parco, appena oltre l’Auditorium della Rai, sulla
sponda del fiume su cui si affaccia il nuovo bellissimo polo universitario delle facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche, prima del cimitero centrale, una piccola, polverosa, grigia cartoleria con due
vecchietti agonizzava: Rocco ha comprato anche i
muri, ha ristrutturato, ed è partito a novembre; ha
una prima sala sulla piazzetta, e una seconda saletta
tutta dedicata a bambini e ragazzi, e una più segreta
terza stanza in cui periodicamente allestisce tutto il
catalogo di un editore indipendente; ha cominciato
con Sellerio; si dice contento della start up.
Io abito in quel quartiere, e avere una libreria indipendente con un libraio intelligente dentro ha cambiato la mia vita quotidiana: qualche volta, tornando
a casa dalla casa editrice dove lavoro, passo di lì, alla
libreria Il ponte sulla Dora; entro, e costringo l’orso
Pinto a spiccicare qualche parola con me; prendo
un libro che non stavo cercando. Ci presento il mio
nuovo libro pubblicato da marcos y marcos, editore
indipendente. Aderisco, insomma, al suo coraggio.
E quando da casa compro online da Amazon qualche libro in inglese o francese, che mai una libreria
indipendente mi farebbe arrivare, mi vergogno un
po’. Non ce lo dico, a Rocco.
Che cos’è una libreria indipendente?
È un posto magico in cui far tana mentre giochi
a nascondino. È il luogo in cui la testa si dissocia dalla
realtà. È il negozio in cui trovi tutte le vite del mondo.
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Perché anche i nativi digitali preferiscono il libro di carta
Alessandra Arachi, Corriere della Sera, 22 gennaio 2013
Il libro di carta è morto. Viva il libro di carta. Che,
in tutta franchezza, è vivo, vegeto e destinato a un
grande futuro. Perlomeno a giudicare dai dati freschi di una ricerca che il Censis ha realizzato insieme alla Fondazione Marilena Ferrari. Il dato più
incredibile? Sono i giovani fra i 18 e i 24 anni quelli
che più desiderano avere in casa un libro, preferibilmente bello. Già. Proprio così, sono i cosiddetti
nativi digitali che, a dispetto degli stereotipi, più di
tutti amano l’idea di possedere in casa un libro bello:
il 65,1 percento, contro una media del 52 percento e
un picco in basso del 48 percento per le persone fra i
55 e i 64 anni. Una cifra da ricordare: forse sarebbe
il caso di non assecondare troppo i luoghi comuni.
Perché sì, è vero, il Censis certifica che gli italiani
che leggono almeno un libro l’anno sono diminuiti
del 6,5 percento negli ultimi cinque anni (nel 2012
sono il 49,7 percento della popolazione). Ma è altrettanto vero che sono aumentati, e di parecchio, gli
italiani che leggono un paio di libri l’anno (passati in
cinque anni dall’11,2 percento al 41,1 percento). E
di più: il libro digitale, l’ebook, non decolla, arrivato
nel 2012 ad appena un 2,7 percento. Agli italiani,
ci svela il Censis, piace toccarli i libri. Conservarli.
Tramandarli. Ben l’82 percento dei nostri concittadini è preoccupato del futuro dei libri della propria
biblioteca e vorrebbero che sopravvivessero a loro
stessi, curati dalle mani delle persone care. Di più:
oltre un italiano su due (il 53 percento per la precisione) conserva gelosamente in casa i libri ereditati,
dai nonni, dai bisnonni, persino dagli amici. E se
il picco della percentuale, il 64,5 percento, si raggiunge fra le persone laureate o diplomate, si scopre
anche che ben il 38,5 percento di chi non ha alcun
titolo di studio ama conservare i libri. Perché i libri
sono considerati veri e propri oggetti del desiderio.
«È stato un vero piacere scoprirlo con questa ricerca
in questo momento storico in cui è molto acceso
il dibattito culturale sulla smaterializzazione del libro», commenta Fabio Lazzari, vicepresidente della
Fondazione Marilena Ferrari. Che continuando a
scorrere i dati della ricerca realizzata con il Censis
accende la luce su un’altra curiosa realtà: oltre il 50
percento degli italiani considera molto importante
per un libro la bella stampa. Non soltanto: ben il
47,4 percento si concentra sulle illustrazioni di un
volume, mentre il 40,2 percento considera anche la
consistenza e la bellezza della carta e, addirittura, il
29,5 percento si preoccupa anche della rilegatura.
Il libro di carta non è morto. Non può morire fino
a quando il 70 percento degli italiani continuerà a
considerare un bel libro alla stessa stregua di una
vera e propria opera d’arte. E soltanto il 30 percento ribadisce che il libro conta esclusivamente per
quello che c’è scritto. Lunga vita al libro bello e di
carta. Sette italiani su dieci lo considerano un’opera d’arte, ma a differenza di un’opera d’arte non ne
percepiscono la distanza, non ne sono intimoriti e,
anzi, ben il 46 percento è invogliato a sfogliarlo. A
toccarlo. A sentire vive quelle pagine di carta che,
forse, nessuna rivoluzione digitale potrà davvero
mai sottrarci.
40 percento. La percentuale di italiani che dichiarano
di apprezzare molto di un libro la «bella carta», il 52
percento indica come requisito la «bella stampa».
53 percento. Gli italiani che conservano in casa i libri
ereditati, la percentuale sale al 64 tra i laureati, si
attesta al 38 tra chi non ha titoli di studio.
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Bestseller fatto in casa.
Così gli editori vanno a caccia di scrittori digitali fai-da-te
Dalla Spagna all’Italia ormai è il selfpublishing la vera occasione di lancio per gli esordienti
Stefania Parmeggiani, la Repubblica, 22 gennaio 2013
In un ambulatorio pubblico dell’Andalusia il pediatra Bruno Nievas si sfila il camice. Finite le visite,
può immergersi in quei mondi paralleli che negli
ultimi dodici mesi hanno cambiato la sua vita. Nievas è un medico, ma è anche uno scrittore, uno dei
cinque sconosciuti che dopo avere venduto i loro
romanzi fai-da-te sugli scaffali virtuali di Amazon
sono finiti in blocco nelle scuderie di Ediciones B,
società dello spagnolo Grupo Zeta. Il suo libro (un
romanzo di fantascienza intitolato Realidad aumentada) è stato rivisto da un editor e pubblicato dopo
che 42 mila persone lo avevano scaricato e commentato. Anche sei numeri non sono quelli della star
del selfpublishing Amanda Hocking, il suo caso, e
quello dei suoi quattro colleghi, dimostra come in
Europa stia crescendo una nuova generazione di
scrittori che debutta in solitudine e si affida alla rete
per emergere dall’anonimato.
Accade in Inghilterra, dove la Penguin ha investito
90 milioni di euro per acquistare una piattaforma
canadese di selfpublishing, ma anche in Italia dove
le case editrici cominciano a considerare i libri autopubblicati non solo come il trionfo della vanità, come
una minaccia al ruolo degli editorie alla qualità, ma
come un bacino in cui fare scouting. E questo nonostante le cifre siano ancora basse: nel nostro paese
le opere andate in stampa senza editore sono circa
40 mila, neanche il 6 percento dei titoli in commercio e quelle digitali ancora meno, appena 6.500. Gli
autori? Un agguerrito esercito di scrittori di thriller,
gialli, fantasy, romanzi sentimentali o manuali d’uso pratico, che nella maggioranza dei casi arrivano
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dalla Lombardia (19 percento), dal Lazio (17,4) e
dalla Campania (9,6). Scelgono ilmiolibro.it, ma
anche Lulu, Lampidistampa, Youcanprint e nuove
piattaforme come Narcissus, dove Newton Compton ha scoperto Ti prego lasciati odiare, romanzo
rosa di Anna Premoli, domenica scorsa entrato nella
top ten dei libri più venduti, prima della Rowling e
subito dopo E.L. James.
Anche editori tradizionali, come il gruppo Gems,
hanno deciso di investire sul selfpublishing attraverso il concorso Io scrittore (1.109 partecipanti all’ultima edizione) nel quale autori esordienti si sottopongono alla valutazione tra pari. O Atlantica e
Piemme che da maggio chiedono ai lettori di Geronimo Stilton di mettersi alla prova con la fan fiction.
Infine la Mondadori, che da tempo sta lavorando
a una sua piattaforma. «Il problema principale»
spiega Giovanni Peresson, responsabile dell’ufficio
statistiche dell’Associazione italiana editori «è che
nei libri fai-da-te non c’è alcuna garanzia di qualità:
prendiamo i saggi, può essere pubblicata qualsiasi
cosa senza che a monte vi sia stato un controllo sulle
fonti, sui fatti o sulle note». Una volta il lettore faceva affidamento su un libraio e un paio di giornali,
ma oggi come può scoprire un buon libro sepolto
sotto migliaia di titoli? Come può evitare di soccombere al rumore bianco, a quel fruscio indistinto
di pagine che rischia di soffocare anche ciò che vale
la pena conoscere? «Grazie alle recensioni e alle segnalazioni dei lettori», risponde Alessio Santarelli,
responsabile del servizio Kindle Direct Publishing,
lanciato da Amazon in Italia un anno fa. E le false
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recensioni? «Più la community è grande e più ha gli
anticorpi per isolare gli impostori».
In Italia è ancora presto per gli scrittori famosi che
abbandonano i loro editori attirati da royalty del
70 percento. «I nostri numeri» continua Santarelli «rispecchiano quelli del mercato degli ebook, il
fenomeno è agli inizi ma capita che ci sia chi entra
nella top ten dei libri più scaricati». Max Dezzi con
Amazzone di San Giorgio, Alessandro Venturini con
Amabilmente condannato a moglie, Laura Bondi con
Il diario di una cameriera, Vera Q con La scatola di
cioccolatini di Silvia e Eleanor LeJune, pseudonimo
dietro cui si cela la misteriosa autrice di Racconti
erotici per una sera d’inverno. Un genere non casuale:
l’erotismo sembra avere conosciuto, proprio grazie
al digitale, una nuova fortunata stagione. Basti pensare al successo della signora E.L. James che con
le sue sfumature, prima di trovare un editore, ha
venduto dieci milioni di ebook. In pratica da sola
ha coperto un terzo delle vendite di libri autopubblicati in America. Lei e pochi altri sono diventati
ricchissimi senza editore. In America l’84 percento
degli autori si divide il 28 percento dei download,
il che significa che se un esordiente scendesse in
strada cercando di vendere il libro fotocopiato ai
passanti (più o meno quello che Moccia sostiene
di avere fatto ai suoi esordi) guadagnerebbe di più.
Lo scrittore Ewan Morrison, che in Inghilterra ha
aperto la polemica sul Guardian, sostiene che la
self-editoria non fa altro che riproporre lo stesso
meccanismo di quella tradizionale: pochi che vendono molto, molti che vendono pochissimo. Possibile che non ci sia una terza possibilità? Marco
Ferrario, uno dei fondatori della piattaforma di distribuzione Bookrepublic, è convinto di sì: «Bisogna solo imboccare la strada giusta». Con la collana
Unofficial di 40k lui sta sperimentando un ibrido
tra blog e libro, tra editoria tradizionale e selfpublishing: «Pubblichiamo autori selezionati in base alla
loro reputazione in rete, ma non ci occupiamo dei
testi, questi sono completa responsabilità dell’autore». Che nel futuro, nell’anno zero dell’editoria,
dovrà padroneggiare molto più di una penna. Ed
è per questo che stanno nascendo corsi gratuiti,
organizzati da chi crede nel libro democratico. Il
primo febbraio cominceranno le lezioni della Bye
bye book Academy per imparare a pubblicare, promuovere, distribuire e vendere in modo autonomo
un’opera letteraria. Lo organizza a Empoli il Self
Publishing Lab, una comunità di scrittori e lettori
che non è contraria all’editoria tradizionale, ma che
aderisce al movimento internazionale in difesa del
libro democratico: «L’autopubblicazione è oggi alla
portata di tutti. Non è un gioco però». Non basta
un clic sullo schermo del proprio computer, in quel
caso sarebbe meglio parlare di selfprinting. «Bisogna saper fare quello che dovrebbe fare un editore
e, anzi, provare a farlo meglio».
[…] nei libri fai-da-te non c’è alcuna garanzia di qualità:
prendiamo i saggi, può essere pubblicata qualsiasi cosa
senza che a monte vi sia stato un controllo sulle fonti, sui
fatti o sulle note.
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Updike, il coniglio ha fatto blurb
Raccolte in volume le fascette editoriali scritte
dal grande romanziere americano: ne esce la mappa
di un lettore onnivoro
Jacopo Iacoboni, La Stampa, 24 gennaio 2013
Pochissimi giorni fa, partecipando alla presentazione di un documentario sulla sua carriera, Philip Roth
ha attaccato «quei provinciali» della giuria del Nobel,
che non hanno mai dato il premio allo scrittore fenomenale del Teatro di Sabbath e di Pastorale americana.
Sono in buona compagnia, ha detto Roth, e per
consolarsi ha citato solo altri quattro grandi esclusi.
«Ho corso con cavalli molto veloci», ha detto, e ha
fatto questo elenco di nomi: William Styron, E.L.
Doctorow, John Updike e Joyce Carol Oates. «Ma
il comitato del Nobel non è d’accordo con me. Ci
giudicano provinciali. Provinciali saranno loro».
Updike, suo collega di Pulitzer, non ha più tempo per prenderlo in vita, il Nobel, ma sicuramente
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quest’elenco di Roth descriverebbe abbastanza bene
le predilezioni di Updike lettore, gli scrittori che
ha amato, citato, elogiato, e quelli su cui ha fatto
scendere un silenzio che può essere legittimamente interpretato come un giudizio, perlomeno una
mancanza di interesse, se non una stroncatura. Esce
in America un libro che aiuta in questo gioco, con
quel tanto di arbitrarietà che tutti i giochi hanno:
The Collected Blurbs of John Updike, giudizi e fascette
scritte dal grande autore di Corri, coniglio ma anche
grande recensore del New Yorker.
E il libro – di cui ha scritto The American Reader – diventa una specie di passaggio attraverso cui guardare l’America letteraria, contemporanea ma non solo,
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e il resto del mondo. È un po’ come se si entrasse
nell’officina di un grande consulente editoriale, un
Calvino, per dire. E infatti Calvino è l’unico autore
italiano di cui Updike si occupa, in particolare scrivendo, a proposito di Se una notte d’inverno un viaggiatore, che «Calvino seduce e intrattiene il lettore
tra le maglie di uno schema puntato a frustrare ogni
ragionevole aspettativa».
Intendiamoci: nei blurb non possono apparire stroncature, ma elogi, o come minimo pure descrizioni del
lavoro di un autore. Ma è chiaro che Updike si occupa di ciò che gli piace o almeno gli interessa. Dunque,
conviene enunciare a naso qualche escluso, così, per
capirci: Updike non parla della generazione dei Foster Wallace, dei Franzen, degli Eugenides. Glissa su
mostri sacri come Don DeLillo e Thomas Pynchon,
in definitiva la narrativa spezzata del postmoderno
non sembra interessarlo poi più di tanto. C’è invece
un filo di augusta classicità che tiene insieme le sue
scelte – americane, sudamericane o anche europee.
Per dire, vi si ritrovano Vargas Llosa e García Márquez. Con evoluzioni significative. Del primo si dice
inizialmente «il più grande scrittore peruviano – e
uno dei migliori al mondo» (per Il caporale Lituma
sulle Ande); ma poi addirittura «con Storia di Mayta
Vargas Llosa ha rimpiazzato García Márquez come
narratore sudamericano con cui gli americani devono fare i conti».
Un capitolo a sé meritano i nordamericani, contemporanei o no dello stesso Updike. Il quale ha amato
tantissimo – e si vede, è una sua palese fonte di ispirazione anche dal punto di vista tecnico, nella scrittura
– uno come John Cheever: dei suoi Racconti osserva
che «molte persone hanno scritto dei sobborghi, ma
solo Cheever è stato capace di farne un archetipo». Lo
entusiasma, dal punto di vista della prosa, E.L. Doctorow, nella Marcia è «splendido… ci guida attraverso una moltitudine di momenti di meraviglia e pietà,
terrore e commedia… con una compassione elegiaca e
una prosa di un’economia e una rapidità scintillante».
Di Norman Mailer sostiene che è «penetrante, fresco, fervido… Il suo gospel è scritto in un inglese
fresco, rilassato, eppure ha una inquietante dignità
biblica». L’apprezzamento per il suo amico Roth è
probabilmente il più alto; parlando della Controvita, Updike spiega che «nessun altro scrittore combina una superficie di tale rilassatezza colloquiale col
disvelamento di un carico così denso di intelligenza
mediatrice… Roth non ha mai scritto più scrupolosamente o, per dirla in breve, con più amore». Giudizio
che forse solo per l’Hemingway del Giardino dell’Eden è altrettanto secco e entusiastico: «Un miracolo,
pura, fresca inclinazione verso l’antica magia».
Updike ha una passione per certa letteratura femminile, di Margaret Atwood e del suo L’assassino cieco
scrive che è «opulento… brillante… La Atwood è una
poetessa e allo stesso tempo un’inventrice di fiction, e
raramente una frase della sua prosa, veloce, asciutta eppure avida, fallisce nel suo scopo». Di Anne Tyler, Una
donna diversa, assicura che «non è solamente buona, è
estremamente buona». Ama Muriel Sparks. Ma non si
lascia sfuggire i classici contemporanei.
Il Borges di Sette notti fa dire a Updike che «ascoltando i suoi discorsi rilassati ma così espliciti, realizzi che
non ci sarà mai più una mente e una memoria così
saldamente fissate». Non gli sfugge il genio di Thomas Bernhard. Su Nabokov è illuminante, e in parte
sta quasi parlando di sé, del suo modo di concepire la
scrittura: se l’autore di Lolita «scrive prosa nell’unico
modo in cui bisognerebbe scrivere, estaticamente», è
anche quello che tentò di fare l’autore di Coniglio, riposa, il libro che valse il Pulitzer a Updike.
Non c’è puzza sotto al naso, in questo divoratore di
libri. Di Paura di volare (di Erica Jong) scrive che è
«senza paura e fresco», di Graham Greene che «il
suo capolavoro è Il potere e la gloria», si occupa di
Arundhati Roy (Il dio delle piccole cose – «un libro di
vera ambizione deve inventare un suo linguaggio, e
questo ci riesce»), non si sottrae a un elogio di Mordecai Richler e della Versione di Barney, libro privo
in America del risvolto modaiolo italiano. Cita e
ama Alvaro Mutis (le avventure di Maqroll il gabbiere), cita Mo Yan, o Pamuk («Con Neve è il probabile
candidato turco al Nobel»).
L’elenco potrebbe continuare, come le assenze illustri
di cui dicevamo. In definitiva, due aggettivi ricorrono
per descrivere la scrittura che Updike ha amato: una
strana combinazione di «relaxed» e «flamboyant».
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Lo scrittore riluttante.
Permunian: «I libri sono il manicomio in cui vivo solo»
Incontro con l’autore da anni ai margini della società letteraria di cui ora esce «Il gabinetto del dottor Kafka»
Antonio Gnoli, la Repubblica, 24 gennaio 2013
Non so cosa ancora stia cercando. Ma qualunque
cosa sia merita attenzione. È una considerazione
istintiva che mi nasce mentre sono in macchina con
Mario Dondero in direzione Desenzano dove ci
aspetta lo scrittore Francesco Permunian di cui fino
alla lettura, a tratti folgorante, del suo Il gabinetto
del dottor Kafka, sapevo pochissimo. Con Mario —
che è uno dei grandi fotografi italiani – c’eravamo
visti a Bergamo la sera prima e davanti a un piatto
di casoncelli gli ho parlato di una figura irregolare
che per 35 anni è stata bibliotecario a Desenzano sul
Garda, ha scritto vari romanzi e un paio di raccolte
di poesie, una dedicata a Mario Giacomelli (altro
grandissimo della fotografia).
Un’immagine, esibita nel Gabinetto del dottor Kafka, ritrae Permunian accanto a Giacomelli. La foto
fu scattata da Gianni Berengo Gardin nel 1995. A
quel tempo, come si intuisce dalla foggia del gilet di
pelle, Giacomelli amava girare ancora con l’Harley
Davidson. E una sera, in sella alla moto cosparsa di
borchie e frange, portò Permunian a vedere la sua
morosa: una giovane e avvenente parrucchiera, con
la quale, nella stanza di un albergo, consumava le
sue furenti passioni.
In quel vasto magma di storie in cui ribolle la provincia veneta, Permunian aveva stretto amicizia con Andrea Zanzotto: venerava il poeta, soccorrendo a volte
l’uomo esposto come pochi alle malattie immaginarie. Poi ci fu lo scambio epistolare con António Lobo
Antunes. Lo scrittore lusitano era stato per anni –
come da noi Mario Tobino – primario in un ospedale
psichiatrico. E Permunian – che al manicomio aveva
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dedicato una parte cospicua dei suoi interessi giovanili e, aggiungo, del suo dolore – si era trovato più volte
nei suoi libri a riflettere sulla follia.
A Dondero – sempre così affascinato dal grande circo
umano – il racconto su quest’uomo di 62 anni prigioniero delle proprie nevrosi (e per questo mi sentirei di
aggiungere tra i più liberi) era sembrato una piccola
rappresentazione del teatro della crudeltà. Che è la
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stessa che ritroviamo nei suoi romanzi. E quando
finalmente lo scrittore ci accoglie nella biblioteca
civica di Desenzano, vediamo un signore alto, magro, con occhi piccoli. Due fessure intermittenti
che sprizzano curiosità e a tratti sofferenza. Gli
chiedo del suo lavoro di scrittore: «Il mio primo
romanzo, Cronaca di un servo felice, uscì che ave-
Essendo dunque la letteratura ridotta oggidì a
un cesso a cielo aperto, mi sono detto, perché
non dovrei costruirmi anch’io il mio personale
cesso d’autore in cui coltivare in solitudine le
mie nevrosi, i miei fantasmi?
vo 48 anni. Ebbe ben 32 rifiuti editoriali, prima di
trovare un piccolo editore che lo travestì da raccontino noir. Lo lesse Maria Corti che se ne entusiasmò. Lo lesse l’editor Benedetta Centovalli che mi
propose di pubblicare per Rizzoli. E furono altri
due libri. Ma il grande editore ti chiede l’ovetto
letterario e io non riesco a scodellarlo a comando. Il grande editore vuole la storia forte, la trama
avvincente: un inizio e una fine. I miei libri sono
più degli zibaldoni. C’è dentro tutto: l’invettiva, il
sogno, la vita e le immagini».
Permunian è veneto. «Sono nato nel Polesine, in
una zona poverissima, da genitori analfabeti e fin
dall’inizio ho portato con me le stigma dell’esclusione sociale e intellettuale». Parla con cadenza veneta.
E scrive da veneto. Scrive, come avrebbe detto Guido Piovene, con quegli affanni psichici che oscillano
tra narcisismo e masochismo. È un affascinante animale di provincia. Mentre ci conduce al ristorante,
Dondero – con i suoi 83 anni – gli saltella intorno
agile e felice. In questa giornata fredda, piovosa e
triste con quel lago che, a pochi metri, incombe
come un enorme psicofarmaco – Mario gli scarica il
rullino della sua vecchia Leica.
«Qui agli inizi del Novecento», dice Permunian
indicando il Garda, «arrivavano gli scrittori della
Mitteleuropa. Venivano per curarsi. Vi giunse anche Franz Kafka. Scese alla stazione di Desenzano,
come racconta W.G. Sebald in Vertigine ». E Il gabinetto del dottor Kafka più che alludere alle laboriose
occupazioni letterarie di Kafka, in realtà designa l’orinatoio alla turca della stazione di Desenzano, dove
lo scrittore praghese fece una rapida sosta. Lasciando sulla parete, così immagina Sebald, un piccolo
graffito. Forse il titolo di un racconto incompiuto:
che nacque lì, tra le anonime pareti di un cesso. Ed
è questa la ragione che ha spinto Permunian a eleggere il gabinetto della stazione di Desenzano – sulle
cui panchine in alcune notti di insonnia ancora va
a dormire – a simbolo della nostra attuale cultura:
«Essendo dunque la letteratura ridotta oggidì a un
cesso a cielo aperto, mi sono detto, perché non dovrei costruirmi anch’io il mio personale cesso d’autore in cui coltivare in solitudine le mie nevrosi, i
miei fantasmi?».
Dondero è strabiliato da tanta candida avversione al
mondo e dall’archivio della sua memoria prodigiosa
tira fuori un incontro avvenuto al bar Giamaica nei
primi anni Cinquanta con Bianciardi e di quella volta
che Luciano gli parlò delle prime scritte sulle pareti
delle latrine: frasi di un’oscena e clandestina letteratura minore che avrebbero potuto gareggiare, senza
sfigurare, con il neorealismo allora incombente.
Un libro dovrebbe bastare a sé stesso. Ma non succede quasi mai. Non succede soprattutto quando
l’autore continua a tormentarsi con il proprio passato, ad ascoltarne le voci: «A volte penso che tutte
le figure di bambole che creo, quegli automi che ci
sono soprattutto in La casa del sollievo mentale, che
è poi il manicomio di Brusegana, surrogano un’assenza. Sono i morti, i revenant con i quali convivo»,
mi dice quasi sussurrando le parole. E non c’è niente
di patetico in questa confessione che per un attimo
sospende i discorsi a mezz’aria. E mi fa pensare che
uno scrittore ha sempre una patria e che proprio il
manicomio sia il luogo segreto da cui Permunian è
partito: «Per quasi dieci anni sono rimasto ospedalizzato in quel luogo, redigendo e catalogando le schede degli altri pazienti. E non riuscivo a fare a meno
di quel posto che mi proteggeva. Fu mia moglie a
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La rassegna stampa di Oblique | gennaio 2013
tirarmi fuori e a dirmi: Francesco, stai buttando la
tua vita o quello che ne resta».
Poi la moglie morì per un attacco di cuore e Permunian restò solo a badare a una figlia piccola, al suo
lavoro di bibliotecario e ai suoi sogni di scrittore. E
a distanza di trent’anni pensa ancora a quella donna nella glaciale immortalità che hanno certi ricordi
che continuano a far male. La sofferenza psichica
è una bestia ormai addomesticata: «Passo parte dei
miei giorni e delle mie notti a scrivere. Sono diventato uno scrivano della follia. Roberto Roversi mi
avvertì: la follia va costeggiata, ma attento a non
finirci dentro. E ho imparato a non esserne risucchiato. Anche se l’immagine del manicomio è in
me sempre presente: come una falla nella stiva della normalità; come un dolore antico che si presenta
sotto forma di voragine. A volte la chiamano pazzia,
a volte fuga dalla realtà. Però il mio terrore è farne
una macchietta, passare per lo strambo di provincia.
In letteratura non serve il pittoresco. Servono lucidità e rigore».
Ho trascorso alcune ore ad ascoltare il resoconto di
un’esistenza volatile e drammatica. Che possiede
la dignità del rischio. E nell’edificio mentale dello
scrittore si sono alternate le figure della sua vita:
quelle che conobbero bene il luogo di contenzione,
come Amelia Rosselli e Alda Merini che furono sue
grandi amiche. O Zanzotto al quale inviava le sue
poesie: «Questa non chiude, quest’altra ha troppa
fuffa e balla. Non puoi scrivere con le lacrime, mi
diceva». O Sergio Quinzio, il grande ed eretico biblista, che morì «quando il cuore gli si ingrossò fino
a diventare quello di un bue».
Permunian ha in programma di tornare a visitare il
Sanatorium von Hartungen, in quella casa di cura
«dove Kafka si illuse di trovare quella salute che
non ebbe mai». E l’illusione governa i nostri sogni
di guarigione e il difficile confronto con la malattia. Dice di essere passato direttamente dall’infanzia alla vecchiaia e di avere per lo più ignorato,
nei suoi libri almeno, l’età della ragione. Dice che
il lirico si è accartocciato nel grottesco. E rivela
di avere ancora un romanzo da scrivere. Sono 13
anni che vi lavora e si chiamerà: L’ultima favola.
Ultima anche perché, confessa, non avrà più nulla
da aggiungere.
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Come reinventare il libraio
Trasversale, interattivo, un po’ tecnologico e intrattenitore | Emilia Costantini, Corriere della Sera, 25 gennaio 2013
Librerie che chiudono? Librai disoccupati? Al
contrario di quanto si pensa, la buona notizia è
che, grazie a un’efficace e profonda trasformazione,
alla diversificazione nei prodotti da vendere, all’integrazione con gli strumenti delle nuove tecnologie, le librerie non sono destinate a morire ma, in
buona parte, tendono a modificarsi, adeguandosi ai
nuovi linguaggi. La cattiva notizia è che non si conoscono ancora i tempi di tale trasformazione che,
a causa della grave crisi economica, si potrebbero
allungare.
I trent’anni della Scuola per librai di Venezia, intitolata a Umberto e Elisabetta Mauri, si festeggiano all’insegna di un prudente ottimismo che ha
permeato i sei giorni di seminario alla Fondazione
Cirri, conclusi dagli interventi di Umberto Eco e
della scrittrice spagnola Clara Sanchez.
Cinque i temi posti sul tavolo del confronto per
quanto riguarda il mestiere del libraio oggi: l’assortimento dell’offerta nelle librerie; il valore del
servizio, dunque la competenza specifica degli
operatori; l’importanza del marketing e cioè gli
strumenti per attirare il pubblico; le risorse umane
nella gestione delle librerie; e la distribuzione del
prodotto librario, anche digitale.
La parola d’ordine trasversale a quasi tutti gli interventi è stata «reinvenzione». Nelle analisi di
Gian Arturo Ferrari (presidente del Centro per il
libro e la lettura) e di Edoardo Scioscia (amministratore del gruppo Libraccio) si è più volte sottolineato che non si può continuare a pensare allo
spazio delle librerie in senso tradizionale, ma occorre reinventare la professionalità dei librai. Le
librerie che non vogliono chiudere, ma anzi addirittura ingrandirsi, non possono vendere solo libri, ma tutte le novità interattive e tecnologiche,
dai tablet agli ereader. Devono proporsi come
luoghi di incontro conviviale, dove consumare
anche inedite proposte alimentari, fa osservare
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Oscar Farinetti, fondatore di Eataly. Insomma,
luoghi dove il lettore-consumatore può trascorrere del tempo di «qualità superiore».
La reinvenzione degli spazi, però, deve fare comunque i conti con la contrazione dei consumi
e l’impoverimento delle risorse. E se da un lato
l’ebook non viene più considerato lo spauracchio
di scrittori e librai, è pure vero che la gente in
Italia continua a leggere troppo poco. È categorico Achille Mauri presidente della Scuola omonima e di Messaggerie italiane: «La vera crisi sta
nell’ignoranza degli italiani, che non leggono più
neanche i bugiardini delle medicine! Peggio per
loro, perché leggere allena il cervello e ritarda
l’invecchiamento».
Si comprano meno libri (la flessione è dell’8 percento circa), ma paradossalmente Stefano Mauri
(amministratore delegato Gems) sostiene che i
frequentatori dei book-store acquistano un maggior numero di strumenti che servono anche, ma
non solo, alla lettura. «In ogni caso» commenta
ancora Achille Mauri «sfido chiunque a entrare in
una libreria e a non acquistare neanche un libro
cartaceo! L’avvento del digitale poi è un’opportunità di forte crescita. Non va visto come un concorrente, ma sfruttato come valido alleato anche
per la pubblicizzazione e la promozione del libro.
Un po’ come sono state le rotelle messe alle valigie: sarà pure sparita la figura del facchino, ma
non sono sparite le valigie, solo che adesso ce le
portiamo da soli».
Quale orizzonte dunque si profila? «Non bisogna
avere paura» è fiducioso il presidente della Scuola di Venezia «bisogna guardare con ottimismo ai
cambiamenti per uscire dal tunnel». Ma Rodrigo
Dias, presidente della Scuola di formazione librai di
Roma, conclude: «Di fronte a un pessimismo della
realtà che è innegabile, ci vuole un forte ottimismo
della volontà».
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Sellerio dopo Sellerio
Tre romanzi in classifica, il boom degli eredi
Eleonora Lombardo, la Repubblica Palermo, 26 gennaio 2013
Un’investigazione all’inglese da risolvere con attenta deduzione ambientata a Montesodi Marittimo,
paesino della Toscana. Il commissario Montalbano
festeggia il cinquantottesimo compleanno con una
serie di crimini uno più efferato dell’altro. Petra
Delicado si trova a investigare in Italia, nella città
eterna. Questa la sintesi minima rispettivamente del
romanzo Milioni di milioni di Marco Malvaldi, Una
voce di notte di Andrea Camilleri e Gli onori di casa
di Alicia Gimènez-Bartlett. Tre gialli, tre edizioni
Sellerio, tre titoli nella classifica dei più venduti,
Malvaldi e Camilleri da ottobre e la Bartlett subito,
non appena uscita è già alla terza settimana assestata
al secondo posto per la narrativa straniera.
Non si tratta di coincidenze, ma del lavoro scrupoloso e sentito della casa editrice palermitana, affermazione di una genealogia di razza che testimonia
come per i libri di qualità i lettori non mancano,
senza bisogno di ebook e di app.
A due anni dalla scomparsa di Elvira, a uno da quella di Enzo, fondatori della Sellerio, la tradizione
continua, ma il successo non è più solo Camilleri
quanto una serie di scelte azzeccate.
«Il nostro lavoro è quello di cercare dei libri curati e
non pensati in base a quello che possa o non possa
andare» dice Antonio Sellerio commentando il successo consolidato di Camilleri e quello più recente
di Malvaldi «i lettori ci danno numerosi feedback. È
stato accolto bene Malvaldi perché scrive in modo
molto coinvolgente, intelligente e allo stesso tempo
semplice. Le sue doti sono state individuate e riconosciute in casa editrice, i commenti dei lettori che
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arrivano da più parti sono una conferma», continua
Sellerio.
Se da un lato le nuove tecnologie insidiano il libro di
carta, consentono circuiti paralleli che affiancano e
supportano l’editoria tradizionale. Non ci si accontenta più di andare fisicamente alle presentazioni
dei libri per esprimere la propria opinione sulla storia e sull’autore: il lettore contemporaneo usa i social
network o i blog per esprimere le sue preferenze.
«Difficile fare il ritratto del lettore oggi, ciò che prima era un parametro fondamentale non conta più
perché la tecnologia ormai è alla portata di tutti»,
spiega Sellerio.
Tre titoli in classifica vuol dire sicuramente vendere
di più, segnare una piccola risalita in un momento
in cui non si può dire che il mercato del libro goda
di ottima salute, anzi «il momento è durissimo, nel
2012 si è registrato un calo del 15 percento rispetto
a una situazione sicuramente non ricca», ammette
l’editore.
Ma una casa editrice indipendente, da situazioni
come questa, in cui alla verifica del lettore si registrano conferme solide e prolungate nel tempo,
trae la possibilità di andare avanti, ovvero cercare e scommettere su nuovi autori, in un momento
in cui il terrore di sbagliare, di uscire dal seminato
di nomi sicuri, rappresenta davvero un azzardo. «I
nomi nuovi» dice Sellerio «li cerchiamo. È questo il
nostro lavoro e cerchiamo di farlo nel modo migliore. Cerchiamo anche esordienti siciliani, ma se poi
un buon manoscritto mi arriva dal Trentino tanto
meglio. La ricerca di un nuovo autore non segue
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criteri scientifici, e cerchiamo davvero di preservare
una linea editoriale indipendente che non si lasci influenzare dalle tendenze. Per esempio, per ora tutti
cavalcano l’onda del libro erotico, noi no».
E i gialli, cavalli di battaglia della casa editrice?
«Ecco, se dovessi pensare al romanzo che vorrei sulla scrivania domani, forse preferirei che non fosse
un giallo, ma, anche qui, se si trattasse di un buon
giallo con la sua precisa identità e scritto bene, non
mi tirerei indietro».
Lo prova il successo a natale della raccolta di racconti Capodanno in giallo nella quale sono stati riuniti i più famosi giallisti della casa editrice, oltre a
Camilleri e Malvaldi, Esmahan Aykol, Gian Mauro
Costa, Antonio Manzini e Francesco Recami.
Ma la presenza costante nelle classifiche dei libri
se da un lato pone in una condizione di maggiore
comfort, dall’altro implica la responsabilità di avere gli occhi dell’intera filiera puntati addosso. «Non
vuol dire solo vendere di più, ma anche avere più
attenzione. Da parte dei librai, per esempio, che ti
guardano più favorevolmente e che magari ti accordano maggiore fiducia se gli proponi delle novità.
Le piccole librerie, in questo clima di terrore economico, sono paralizzate dal timore di fare nuovi investimenti e cercano un minimo di garanzia.
Ecco, la classifica, la solidità delle vendite ci consente, in questo momento difficile, di avere energia
per lanciare cose nuove e di dare fiducia a chi decide
di sceglierci».
Anche se Antonio Sellerio ci tiene a precisare che
la sua casa editrice mantiene strenuamente l’identità costruita nel tempo dalla storia della sua famiglia, anche se Camilleri è un cavallo di battaglia
da circa quindici anni, è innegabile che il successo
recente è anche il successo della sua generazione,
delle sue scelte prese in condivisione con la sorella
Olivia, presidente della casa editrice: «Continuiamo a fare libri e a farli bene, cercando di seguirli
con cura. Consapevoli che non se ne possono dare
alla luce tanti, altrimenti non riusciremmo ad accompagnarli nelle vane fasi con l’attenzione e il lavoro che meritano. Diciamo che ci sottraiamo alla
“tecnica dei girini” a cui tanti si affidano: lanciarne
sul mercato tanti, quelli che sopravvivono bene e
per gli altri amen».
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Chi ha paura di un capolavoro
Perché è giusto difendere il «salto Fosbury verso l’inaudito»
Stefano Montefiori, La Lettura del Corriere della Sera, 27 gennaio 2013
Charles Dantzig è un affermato scrittore e editore francese che a 51 anni ha deciso di dedicare un
erudito saggio all’idea di capolavoro. Per difenderlo,
innanzitutto. «Viviamo nella società dello sforzo che
ci chiede di eccellere in ogni occasione. Dobbiamo
sforzarci di essere sempre competitivi sul lavoro,
diventare imprenditori, fondare una famiglia, comprare una seconda casa, fare bungee jumping durante
le vacanze e venerare i campioni dello sport che visibilmente si sforzano tantissimo. Solo in letteratura
lo sforzo è visto con sospetto: la mancanza di stile
è rivendicata, invece che giudicata per quel che è,
cioè pigrizia o assenza di talento». In omaggio alla
nozione di capolavoro, di quel «Fosbury verso l’inesplorato quando per anni si era saltato a forbice»,
Dantzig si è messo a studiarlo per scoprire che nessuno, o quasi, lo aveva fatto prima.
«Immaginavo esistesse una bibliografia sterminata
sul concetto di capolavoro, invece niente. Neanche
un titolo in lingua francese né in inglese, e credo lo
stesso nel resto d’Europa. Si rende conto?». Dantzig è
ancora stupito, mentre ne parla davanti a un succo di
pompelmo in un caffè parigino. Eppure «capolavoro»
esiste in tutti gli idiomi. Chef-d’oeuvre, obra maestra,
obra prima, masterpiece, Meisterwerk, aristouryima o
shedevr («importato nel russo dal francese, come un
vestito da Parigi nel Settecento»), e così via.
Come si spiega, prima di A propos des chefs-d’oeuvre
(Grasset, pp. 276, euro 19,80), questa riluttanza a
indagare su che cosa sia un capolavoro? «Perché viene trattato come un mistero della fede, e le persone
hanno bisogno di sacro. La parola nasce intorno al
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1200 tra gli artigiani, e il primo a usarla in letteratura, che io sappia, è Voltaire in Il secolo di Luigi XIV
(1752): “Si giudica un grand’uomo dai suoi capolavori, non dagli sbagli”. Ma dopo 250 anni, ancora non osiamo dare una definizione di che cos’è un
capolavoro».
Dantzig ci prova, alla fine di un libro che è un viaggio divertito tra secoli di libri e scrittori: «Il capolavoro letterario è un libro eccezionale che crea il suo
proprio criterio e che non si può giudicare se non
tramite sé stesso. Espressione la più audace possibile
di una personalità, ogni capolavoro è unico. Niente attiene al capolavoro se non la forma di quel capolavoro. Il capolavoro è la creazione più esaltante
dell’umanità».
«È solo una proposta, un punto di partenza», dice
Dantzig, che per 270 pagine cerca di illustrare il capolavoro partendo da esempi concreti. Come Teorema di Pier Paolo Pasolini. «Un capolavoro in molti
casi non è perfetto. Pasolini ha avuto l’idea di scrivere una specie di romanzo muto in cui nessuno parla,
non ci sono dialoghi, dà questa sensazione di affresco rinascimentale. Ma in due occasioni dimentica il
progetto e fa parlare i suoi personaggi, due sbavature
che tolgono il capolavoro da quel sacro piedistallo
su cui viene a torto innalzato e lo rendono umano,
accessibile, meraviglioso».
Poi ci sono i capolavori presunti, come Don Chisciotte di Cervantes, «che nessuno legge», e che è
considerato un capolavoro spesso per le ragioni sbagliate: «Non è un romanzo picaresco, ma una critica
dei romanzi cavallereschi e un’analisi dei pericoli
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della lettura sulle menti fragili, intuizione che influenzerà Flaubert nella scrittura di Madame Bovary, sorta di Doña Quichotte». E i capolavori negati
«soprattutto in ambito accademico, perché tanti
studiosi e docenti, soprattutto in Francia, Germania
e Italia, meno in Inghilterra, guardano ai capolavori
con sufficienza, non amano appassionarsi all’opera
La contestazione della nozione stessa
di capolavoro fa molto Europa occidentale,
e va di pari passo con l’idea che la nostra civiltà
sia al crepuscolo. Tutti pronti a dire
che il romanzo è morto, la letteratura è morta,
eccetera. Sciocchezze.
di un ingegno che non sia il loro. La contestazione
della nozione stessa di capolavoro fa molto Europa
occidentale, e va di pari passo con l’idea che la nostra civiltà sia al crepuscolo. Tutti pronti a dire che
il romanzo è morto, la letteratura è morta, eccetera.
Sciocchezze».
Tra le parti più interessanti del lavoro di Dantzig
c’è la tirata contro la «moda Céline» e i suoi appassionati difensori. «I lettori incolti si inventano dei
capolavori inesistenti. A 40, 50 anni, dopo terribili
studi di commercio e vent’anni di schiavitù e schiavismo in un’azienda, si lasciano affascinare durante
i 15 giorni di vacanza da un libro celebre, chiassoso
e impertinente. Tornano a Parigi e durante un consiglio di amministrazione buttano lì: “In Viaggio al
termine della notte, Louis-Ferdinand Céline… Conoscete Céline?”. La gloria esclusivamente francese di questo romanzo è l’impostura letteraria di un
paese provinciale e politicamente malato, che non
si rassegna di avere perduto la guerra dopo che De
Gaulle gli ha fatto credere di averla vinta. Céline è la passione di chi ha letto molto poco. Non
per niente è adorato dal nostro ex presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy». E da uno dei più
celebri e amati attori teatrali e di cinema francesi,
Fabrice Luchini. «Ma il danno che Fabrice Luchini
ha fatto alla letteratura francese negli ultimi 15 anni
è considerevole. Luchini è un istrione, un Alberto
Sordi senza il genio di Alberto Sordi. Luchini ha
accreditato la tesi che Céline, come dice lui stesso,
abbia inventato uno stile, quei punti di sospensione
con il punto esclamativo, ma è falso: Céline li ha
copiati dal poeta Jules Laforgue, lui sì autore del
capolavoro Les moralités legendaires».
Il viaggio di Charles Dantzig tra i capolavori prevede innamoramenti e stroncature ma – come è
evidente dalla sua definizione – è impossibile stabilire un parametro univoco e oggettivo. Esiste un
canone del capolavoro letterario e – tranne Viaggio
al termine della notte – le opere che ne fanno parte
generalmente non sono abusive, concede lo scrittore. L’Edipo a Colono di Sofocle, il Decameron di
Boccaccio, il Riccardo III di Shakespeare, Alla ricerca
del tempo perduto di Marcel Proust sono difficili da
contestare, e si potrebbe dire che il capolavoro letterario «è un grande libro verso il quale non esistono
più obiezioni».
Ma non basta, anzi, il consenso è un rischio. Il
capolavoro rischia di diventare un anziano che si
assopisce nella venerazione che si ha di lui. Preso
nella ragnatela di note a piè di pagina e impiombato dalle citazioni, sempre le stesse, fatte da persone
«che non l’hanno letto ma citano persone che citavano prima di loro», il capolavoro si annoia a morte, piazzato negli scaffali delle «biblioteche ideali».
Finché un insolente ragazzino rompe la ragnatela,
libera l’anziano e lo porta a giocare con sé mentre i
vecchi continuano a guardare gli scaffali. Il libro di
Dantzig, alla fine, è soprattutto un invito alla lettura
indipendente, perché «il buon lettore è l’essere meno
religioso del mondo», ed è solo tramite una lettura
vera e sana e perennemente critica che i capolavori
possono essere salvati. «La nozione di capolavoro è
fondamentale, è necessaria alla sopravvivenza stessa
della letteratura», dice Dantzig. I capolavori, male
che vada, corrono il rischio di impolverarsi nelle librerie e di rappresentare la Porsche del ceto medio
riflessivo, il santino da esibire o da riguardare ogni
tanto per sentirsi a posto, rassicurati. Ma allo stesso
tempo sono un baluardo contro la volgarità, «perché
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quelli che pensano solo ai soldi, quelli che osservano
con sguardo di sufficienza chi legge un libro sul bus
o in metro, sono intimiditi dal concetto di capolavoro. Non sanno bene che cosa sia ma sono restii
ad attaccarlo. Le persone volgari sono intimidite dal
capolavoro e questo è un bene».
Dantzig esita a citare autori contemporanei, «per
non sfavorirli. Se avessi scritto questo libro all’epoca di Chateaubriand, lo avrei probabilmente
giudicato un autoremedio, prima del grandissimo
e finale Le memorie dell’oltretomba». Tra i libri di
solito non presenti nel canone dei capolavori, ma
che invece Dantzig tiene a ricordare come tra i suoi
preferiti, c’è De reditu suo di Rutilius Namatianus,
«un funzionario dell’impero romano che viveva in
Gallia, e che un giorno va nella capitale. Il libro
è il racconto, scritto benissimo, del suo ritorno in
Gallia. Rutilius Namatianus vede le prime devastazioni dei barbari, ma le scambia per l’opera casuale
di banditi. Lui non lo sa, ma ci racconta il crollo dell’impero romano». Sempre fuori dal canone
c’è poi il misconosciuto Horn di Louis Lerne, raro
caso di autore contemporaneo. «Ma vorrei citare
anche Caos Calmo di Sandro Veronesi» aggiunge
Dantzig. «In particolare le prime 40 pagine, quelle
che raccontano lo sventato annegamento, sono eccezionali. Il resto è discontinuo, ma come dicevo
prima la perfezione non è necessaria». Nella lista
dei «capolavori veri» c’è soprattutto, inevitabile,
Alla ricerca del tempo perduto, opera anche questa
baciata da un’imperfezione. «È la celebre frase,
verso la fine, in cui Proust sostiene che la letteratura è l’unica vita che valga la pena di essere vissuta.
Io non sono d’accordo, la letteratura per me è il
migliore strumento per vivere bene, è un’arma al
servizio della vita vera».
Poco spazio è dato a Philip Roth, il re degli scrittori contemporanei. «Tra i capolavori metterei solo il
Lamento di Portnoy, gli altri suoi libri li trovo troppo altalenanti». Il capolavoro secondo Dantzig non
prevede l’uso di troppi dialoghi, «come per esempio
in Libertà di Jonathan Franzen, con quelle centinaia
di pagine di botta e risposta irritanti. Trovo che i
dialoghi non andrebbero usati per fare avanzare la
storia, per dare informazioni, ma per suggerire al
lettore la psicologia del personaggio. In questa abitudine di oggi vedo l’insidiosa influenza delle serie
tv». Abbiamo a che fare con un pericoloso letterato che non apprezza la grandezza di West Wing o
Homeland o Borgen? «Al contrario, sono un grande
fan delle serie tv. Non sono sicuro però che la trasposizione di quel procedimento in letteratura possa
funzionare».
Il libretto di istruzioni per scrivere un capolavoro, naturalmente, non esiste. Ci sono però atteggiamenti che, secondo Dantzig, ne allontanano la
possibilità. Il compiacimento un po’ alla Marguerite Duras di Elsa Morante nell’Isola di Arturo. La
pretesa di rappresentare un’epoca, «quando invece il
capolavoro non è rappresentativo che di sé stesso».
E poi, la minaccia suprema, il realismo. Lo praticano certi scrittori lasciando intendere che solo loro
sono esatti e seri, «ma è una forma di ricatto, un
tirare arbitrariamente dalla propria parte la realtà:
non esistono capolavori impersonali». Una cosa, soprattutto, Dantzig si aspetta da un capolavoro: che
trasformi il lettore stesso in capolavoro. Un buon
romanzo siamo in grado di domarlo. Un capolavoro
si impadronisce di noi. «Quando leggo Proust, io
sono Proust».
Le persone volgari sono intimidite dal
capolavoro e questo è un bene.
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Gatti, operai e De Filippi.
Così nasce un romanzo
Emozioni, immagini, nevrosi. Dubbi e difficolta. Poi il risultato finale.
Come gli scrittori trovano le idee per le loro opere.
Obiettivo: dare un contorno preciso a qualcosa che, prima delle loro parole, non ce l’ha
Caterina Bonvicini, il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2013
Quando studiavo storia dell’arte e frequentavo pittori, ho imparato una cosa: che l’opera di un artista
si capisce fino in fondo quando si visita il suo studio. Solo lì, in mezzo a tele buttate per terra, disegni
sparsi su un tavolo, colori e materiali che hanno una
loro fisicità, e perfino un odore, puoi dire di conoscere il lavoro di qualcuno. Lo studio di uno scrittore è nella sua testa. L’impatto con il luogo è meno
immediato, ma la sua officina è più accessibile: basta farsela raccontare. E se raccogli alcune voci, ti
accorgi che i romanzi nascono e crescono in modi
molto diversi.
C’è chi parte dal titolo, come Marcello Fois. «Il titolo è una specie di bacchetta del rabdomante, capisco
che sotto c’è l’acqua», dice. «Io scrivo mentalmente
e archivio tutto in testa, per me non esistono appunti. Quando ho il titolo giusto, mi siedo e scrivo.
Questo è il motivo per cui scrivo un sacco di cose
contemporaneamente. A volte ho due titoli giusti,
quindi due romanzi. Quando cambio titolo, cambio
anche romanzo. È successo per Memoria del vuoto,
che prima si chiamava Simile a un dolore». Chi parte
da un’idea narrativa, come Alberto Garlini, che ha
una visione aristotelica del processo creativo e fa iniziare tutto da «un’azione da cui nasce un conflitto. I
romanzi sono come delle macchine. La carrozzeria è
fatta dai personaggi e dall’azione, il motore è il nodo
narrativo, cioè una situazione conflittuale di cui
dobbiamo seguire gli esiti». E chi da una fissazione, da un inspiegabile interesse per qualcosa, come
Mauro Covacich, che racconta: «Avevo una passione per i maghi, li guardavo per ore in tv (ho ancora
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quattro vhs da 240) e poi li sbobinavo provandone
le voci, riversando tutto quel materiale in tre potenziali personaggi. Sono andato avanti così per circa
un anno, annaspando nella frustrazione più totale.
Poi un giorno ho alzato la testa dal computer e ho
visto sotto casa un tizio alto due metri che svuotava i pozzetti per conto di una ditta di autospurgo.
Era il protagonista della mia storia (L’esperimento, in
uscita a marzo per Einaudi), l’ho capito subito: un
operaio solitario, gigantesco, risucchiato nelle trasmissioni di astrologia».
Prime righe da un’immagine
E chi invece comincia da un’immagine, come Simona Vinci: «Ogni romanzo che ho scritto, ogni storia
che ho raccontato, ha una genesi diversa però forse,
la cosa che mi è capitata più spesso è la persistenza
di un’immagine attorno alla quale, come un minuscolo granello di sabbia, si è generata la conchiglia».
Idem per Sandra Petrignani: «Anch’io parto da
un’immagine, sempre. Per esempio in Poche storie,
lessi la notizia di una madre che aveva investito il
figlio per sbaglio. Quello che mi scatta nella testa è
l’immagine: una madre che sta facendo retromarcia
e il bambino che aspetta di salire, dietro la macchina. Persino quando mi occupo delle vite degli altri,
parto da lì. Adesso sto scrivendo sulla Duras e tutto nasce dall’immagine di un rapporto violento fra
madre e figlia». Lo stesso vale per Teresa Ciabatti,
anche se l’immagine si riduce a un particolare: «In
genere parto da un personaggio, da una sua ossessione o caratteristica, da un piccolo dettaglio. Per
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questo romanzo (Il mio paradiso è deserto, in uscita a
marzo per Rizzoli) sono partita da un’ombra: dopo
la gravidanza ero molto ingrassata, non mi guardavo
più allo specchio da un anno. Un giorno camminando per strada è comparsa sotto i miei piedi un’ombra immensa. Ci ho messo un po’ a capire che ero
io. Da qui è nata Marta Bonifazi, un’obesa che non
esce di casa da anni e che non si guarda allo specchio». O per Evelina Santangelo: «Le mie storie nascono spesso da un’immagine o una circostanza che
mi colpiscono perché mi suscitano idee, intuizioni,
altre circostanze o altre immagini particolarmente
significative al punto che, lavorando di immaginazione, a poco a poco, ci scorgo un pezzo d’umanità,
di società o di vita».
Le donne sono più visive? Chissà. In ogni caso questo non è un sondaggio. Si parla di cose non misurabili, per fortuna. Come i sentimenti.
Molti scrittori partono proprio da lì: da un’emozione, da un turbamento, da un ossessione, da qualcosa
che non ha contorni precisi. E scrivono proprio per
questo: per dare un contorno preciso a qualcosa che,
prima delle loro parole, non ce l’ha.
Lo spiega bene Nicola Lagioia: «Per quanto sia uno
scrittore abbastanza metodico (scrivo ogni giorno,
per almeno 5 o 6 ore) mi rendo conto che ogni mio
libro nasce da momenti di forte irrazionalità. Iniziai
a scrivere Occidente per principianti dopo un lungo
viaggio a base di psilocibina, Riportando tutto a casa
dopo un litigio violento con una cara amica. Il romanzo con cui sono alle prese da un anno e mezzo
l’ho cominciato dopo un incubo avuto dormendo
con mia moglie, in una casa al mare, una notte d’estate di qualche anno fa. Era uno di quei sogni che
spalancano porte». Così a Valeria Parrella, per lei
le storie nascono «dal dispiacere, dalla disillusione,
dalla rabbia, dal rancore, dalla pietà, dalla commozione. Da un sentimento forte e doloroso che mi
muove: questo movimento diventa la scrittura». E
a Lidia Ravera, che però lega questi sentimenti al
senso del tempo che li percorre: «I miei romanzi nascono da un’ossessione, dagli urti della vita, da un
disagio profondo. Ogni stagione della vita è come
un paese che cambi, il paese che vai ad abitare è l’età
che attraversi. Questa stagionalità è un tempo non
reversibile, da lì il dramma. Quando trovo la metafora attraverso cui riesco a centrare il bersaglio della
mia angoscia, mi nasce in testa il personaggio che
se ne farà carico. Il personaggio mi consente la distanza. La genesi nasce dal coinvolgimento e i personaggi sono la garanzia del distacco. Il romanzo,
nel suo farsi, è un percorso di allontanamento da
quell’angoscia».
Esigenza di capire
Molto diverso è il modo di procedere di autori come
Siti o Starnone o Vasta. Per loro la letteratura nasce da una domanda, da un dubbio, dal bisogno di
capire. Ha un carattere interrogativo. «In genere
parto dal bisogno di chiarire a me stesso qualcosa
(un odio, un’attrazione, la fascinazione per la merce, il finto che sembra vero)», racconta Walter Siti,
«su quel bisogno di capire fabbrico un canovaccio, i
personaggi vengono dopo. Ma prima ancora di partire riempio qualche quaderno di frasi che mi sono
venute incontro in sogno o per strada; sono l’aria del
tempo, da cui non posso prescindere».
«A pensarci non ho mai scritto niente che non
muova da un piccolo evento grezzo», dice Domenico Starnone, che ha affrontato il tema della genesi anche nel suo ultimo romanzo, Autobiografia
Un giorno camminando per strada è comparsa
sotto i miei piedi un’ombra immensa. Ci ho
messo un po’ a capire che ero io. Da qui è nata
Marta Bonifazi, un’obesa che non esce di casa da
anni e che non si guarda allo specchio.
erotica di Aristide Gambia. «Non un sentimento, non
un’immagine, non una parola emozionata, ma un
accadimento. Non è successo mai che mi sia accorto subito delle sue potenzialità. C’è voluto tempo,
quasi sempre anni. Funziona così: il piccolo fatto
resta lì nella memoria, di tanto in tanto si ripresenta
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ma non lo stesso: si modifica, si dilata, attrae altri
materiali sparsi, mostra una sua forza catalizzatrice.
Finché si presenta in una forma straordinariamente
sintetica, una frase attraente, un incipit. Comincio
da lì, poi ci ripenso, poi ci ritorno su. A volte lascio
perdere, cerco altre vie di accesso. È la fase difficile
dello scrivere, può durare un mucchio di tempo e
non portare da nessuna parte. Poi, se va bene, succede che tutto comincia a funzionare. La scrittura
che pareva un inutile e faticoso esercizio comincia
a quadrare. I materiali che hai accumulato mostrano connessioni inevitabili. La scrittura comincia a
correre, le giornate volano con piacere». In questa
linea, può inserirsi anche Giorgio Vasta che considera «l’immaginazione narrativa uno strumento di
ricapitolazione di una tranche della propria vita».
«Si tratta di prendere atto di quelle che sono le proprie fissazioni», spiega. «All’inizio queste ossessioni
possono apparire diverse fra loro, poi ti accorgi che
c’è un denominatore comune e trovi un angolo visuale che mette in prospettiva questi pezzi eterogenei, e dà una possibilità di significazione. I discorsi
sul tema intervengono dopo, a posteriori, ma è solo
un problema di comunicazione del libro, quindi
dell’ufficio stampa, non mio».
In tutto questo, nell’officina dello scrittore che succede? Quali piccole nevrosi rendono grandi i romanzi che leggiamo? Quali sono i tormenti che un
elegante libro stampato nasconde? Quanta energia
quotidiana, quanta ostinazione, quanta fatica servono per non farci capire che dietro alla scrittura
c’è energia, ostinazione e fatica? Guardiamoli un
po’ così, mentre lavorano. Chiamiamoli per nome,
adesso. Come amici di cui si conoscono i tic, le abitudini, le manie.
Marcello che non riesce a scrivere nel silenzio e deve
sempre avere intorno qualcuno, tanto che, quando è
solo, accende la televisione su programmi di cucina,
così sente «spentolare» nella stanza accanto. Nicola
che lavora con il gatto addormentato sulla spalliera
della poltrona («È incredibile come il gatto non abbia saltato mai un giorno di questo rituale»). Lidia
che è capace di scrivere in mezzo a dieci persone che
chiacchierano, ma solo sul suo Mac («E quando ne
devo comprare uno nuovo, lo cerco il più possibile
uguale al precedente»). Sandra che litiga con gli aggettivi. Alberto che inventa solo di mattina («Partire la mattina vuol dire partire senza pensieri, dopo
le due non riesco»). Teresa che si concentra solo
mentre ascolta programmi trash in tivù («De Filippi
e D’Urso: d’estate, a fine palinsesto, è un problema»). Evelina che scarabocchia foglietti. Simona
che pulisce la stanza in cui lavora («Il disordine mi
distrae e fa uscire la mia ombra massaia»). Valeria
che compone la sua Antigone in cucina, mentre un
operaio usa il martello pneumatico tre metri più in
là. Mauro che si sente in vena e lavora anche sulle
mensole dell’ufficio postale, in mezzo ai formulari.
Walter che scrive su un quaderno con un pennarello
(nero TrattoPen a punta fine), disteso a pancia in
giù. Domenico che si alza, mangiucchia, guarda la
tivù, legge qualcosa, poi torna a sedersi e a scrivere,
ascoltando lo stesso disco per ore. E Giorgio che si
ritira in Finlandia, Svezia o Islanda («Ma il prossimo paese scandinavo sarà Roma»). Eccoli. Non
aggiungo altro.
All’inizio queste ossessioni possono apparire diverse
fra loro, poi ti accorgi che c’è un denominatore comune
e trovi un angolo visuale che mette in prospettiva questi
pezzi eterogenei, e dà una possibilità di significazione.
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Galeotto fu il libro…
C’è un mondo di lettori, dietro le sbarre; e chiede professionisti disposti ad aiutarlo.
Domani alla Statale a confronto le biblioteche carcerarie italiane
Lorenzo Rosoli, Avvenire, 30 gennaio 2013
C’è un’Italia «normale» che vive prigioniera della
tivù, alla quale s’è consegnata, e che non ama la lettura né i libri, se non come complemento d’arredo o
come oggetto di consumo (i cosiddetti «libroidi» da
botto in classifica), pur avendo libero accesso ai libri, alle librerie e alle biblioteche. E c’è un’Italia che
quella libertà d’accesso non l’ha, e dietro le sbarre ci
sta davvero, e non solo è assetata di speranza, futuro, dignità, ma è anche affamata di libri e lettura. E
chiede un’alternativa alla tivù in cella.
È l’Italia delle carceri, vergogna d’Europa. È l’Italia
delle biblioteche carcerarie: fatta di educatori, volontari, cappellani, detenuti appassionati, ma anche
di bibliotecari professionisti. Che cerca, tra mille difficoltà, di dare attuazione all’articolo 12 della
legge 354 del 26 luglio 1975 di riforma dell’ordinamento penitenziario, dove si stabilisce che ogni
prigione debba avere una biblioteca. Lettera morta,
o quasi, fino a una ventina d’anni fa. Oggi un po’
meno. Domani?
Perché i libri abbiano sempre più cittadinanza anche
dietro le sbarre, quell’Italia domani si dà appuntamento alla Statale di Milano per il quarto convegno nazionale delle biblioteche carcerarie. «Daremo
voce a esperienze locali significative e spazio al confronto fra le istituzioni – dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) alla magistratura
all’Associazione italiana biblioteche, l’Aib. E presenteremo la bozza di un protocollo d’intesa che definisca finalmente le relazioni tra carcere e territorio,
fra biblioteca carceraria e biblioteche esterne» anticipa Giorgio Montecchi, ordinario di Bibliografia e
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Biblioteconomia alla Statale e presidente dell’ Associazione biblioteche carcerarie. «Un’intesa fra Dap,
Associazione dei Comuni, Unione delle Province,
Conferenza delle Regioni e Abi che potrebbe essere
firmata già a settimane. Sarà lo strumento per estendere davvero anche ai carcerati il diritto di ogni persona al libro e alla lettura, contribuendo ad attuare
il dettato costituzionale sul valore rieducativo della
pena. Non basta una stanza con dentro qualche libro
per dire: ecco una biblioteca».
«E, non basta la buona volontà dell’educatore, del
volontario o del carcerato colto per avere un buon
bibliotecario» incalza Emanuela Costanzo, segretaria Associazione biblioteche carcerarie. «Serve un
professionista competente nella catalogazione,
nell’analisi dell’utenza, nella gestione di acquisti e
scarti, nell’organizzazione dei servizi e degli eventi
culturali e di tutto quel che fa, di una raccolta di
libri, una vera biblioteca. Ecco allora il titolo del
convegno: Il bibliotecario carcerario: una nuova professione? Speriamo di poter togliere il punto di domanda. La legge non prevede tale figura, affidando
all’educatore la gestione della biblioteca».
Quando la cattedra di Biblioteconomia della Statale
iniziò a occuparsi del tema, mandò alle 250 carceri
italiane un questionario. «Era il 1996. Risposero in
79. E solo una decina aveva la biblioteca: Torino,
Roma, Padova, Ravenna, Treviso, Milano e alcuni
istituti in Sardegna» racconta Costanzo. «Nell’ultimo decennio sono sorte nuove realtà, in genere gestite da volontari, che spesso sono bibliotecari. Così
è a Como, ad esempio».
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Altre esperienze emblematiche? «Reggio Emilia,
dove la bibliotecaria dell’Azienda ospedaliera è stata
distaccata presso l’Ospedale psichiatrico giudiziario.
A Monza, grazie alla collaborazione col sistema bibliotecario locale, è stato possibile distaccare una bibliotecaria: la novità di quel carcere è che i detenuti
possono recarsi in biblioteca, mentre in genere sono
i carcerati col ruolo di ‘‘scrivano” a portare nelle celle
i libri richiesti dai compagni. Volterra dal 2009 è
coinvolta in un progetto dell’Università di Pisa per
raggiungere tutti gli studenti dell’ateneo: anche chi
sta in carcere. Nelle Marche un’intesa fra Regione
e sistemi bibliotecari ha aperto a tutti gli istituti di
pena l’accesso al patrimonio librario pubblico».
Il legame fra carcere e territorio è decisivo. Sempre. Come dimostrano le prime esperienze italiane. «Quella di Torino» prosegue Costanzo «dove
il Comune fin dal 1988 ha aperto una biblioteca
all’interno delle Vallette. A Roma dal ’99 una convenzione fra Comune e Dap ha permesso di avviare un sistema bibliotecario integrato tra le biblioteche comunali e tutte le carceri della città». Ci
sono territori che «mandano» bibliotecari dietro le
sbarre. «E carceri che li formano “in casa”, come
Opera, alle porte di Milano, dove dal ’99 al 2004
si sono organizzati corsi di biblioteconomia per i
detenuti. Questi, con alcuni bibliotecari esterni,
hanno avviato una biblioteca interna sul modello
di quelle del territorio, inserendosi nella rete del
prestito interbibliotecario. Quel cammino di formazione, intanto, ha aperto ai detenuti chances di
lavoro all’esterno del carcere».
Ma cosa leggono i detenuti? «Chi sta fuori fatica a
immaginarlo, ma in carcere è vivissima l’attenzione verso le “cose ultime”. E fra i libri più richiesti
vi sono quelli di filosofia e di religione» risponde
Costanzo attingendo alla propria esperienza Molti
carcerati sono genitori e chiedono testi sull’infanzia e l’adolescenza. Richiestissimi i libri e le riviste
di diritto, anche per collaborare con l’avvocato che
prepara la difesa; i codici, ovviamente, devono essere aggiornati. Per i detenuti stranieri, libri in lingua
madre. E spazio alla narrativa. Con le nuove uscite
prendi l’occasione per portare in carcere gli autori, com’è stato con Moni Ovadia a Opera o Fleur
Jaeggy a Como. Così rispondi anche al desiderio
dei detenuti, sempre fortissimo, di dialogare con chi
vive fuori».
Il bibliotecario carcerario: una nuova professione?
Speriamo di poter togliere il punto di domanda.
La legge non prevede tale figura, affidando all’educatore
la gestione della biblioteca.
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L’antologia di Don DeLillo: nove pezzi contro il conformismo
Gian Paolo Serino, Libero, 31 gennaio 2013
Il vero dramma di un libro come L’Angelo di Esmeralda, nove racconti firmati da Don DeLillo, è che
sia più commentato che letto. Uscito nelle librerie
per Einaudi (pp. 208, euro 19) negli Stati Uniti è
stato pubblicato lo scorso anno (con una copertina
geniale: le ali di un angelo color giallo shocking su
sfondo nero) e incoronato dal New York Times al primo posto dei cento migliori libri al mondo del 2011.
Un riconoscimento forse esagerato per un libro che
merita indubbiamente la lettura, ma che non è certo
di facile comprensione per chi affronta lo scrittore
italo-americano per la prima volta.
Sia chiaro: sono racconti grandiosi, sospesi tra la sideralità dello sguardo narrativo e un linguaggio molto vicino al parlato newyorkese (ottimo lavorio e salti
mortali, non sempre riusciti, per la traduttrice italiana
Federica Aceto). Più che racconti, sono un laborato-
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rio di scrittura, il prequel a livello di concepimento
dei suoi romanzi più riusciti. Non tanto Underworld,
quello che da tanti è riconosciuto come il suo capolavoro, ma che in realtà è l’opera più noiosa e meno
comprensibile al lettore italiano, che lo scrittore abbia
pubblicato: un romanzo diventato di culto, come il
pluriosannato David Foster Wallace, ma il cui demerito è di aver creato più che lettori innumerevoli
scrittori epigoni in ogni parte del mondo.
Rockstar e assassini
Il vero DeLillo è quello di Great Jones Street (l’inferno
di una rockstar smarrita raccontata in prima persona attraverso la macchina devasta sogni dello showbiz), di Libra (l’assassinio di Kennedy attraverso lo
sguardo narrativo di Lee Oswald), di Rumore bianco
(riuscitissima parodia degli intellettuali postmoderni,
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impegnati spesso a disquisire su argomenti come la
«semiotica delle etichette alimentari»).
I racconti, scritti tra il 1979 e il 2011, dimostrano
come DeLillo sia l’unico scrittore capace di raccontare il nostro «trapassato presente». DeLillo è
il più grande degli scrittori nostalgici: nostalgia
di un universo, anche narrativo e di scrittura, ormai perso molto spesso nella commercialità della
lettura. Qui non troverete nove «pezzi facili», ma
letture una soglia di attenzione non da poco. Abbastanza facile perdersi nei labirinti narrativi se
non ci si sintonizza con un DeLillo che spinge al
massimo l’acceleratore sul vero problema del nostro mondo: proprio la mancanza di attenzione e
la ricerca, in ogni libro, di uno specchio narrativo
ci conforti e ci faccia rientrare in quell’unità di
pensiero che è il nuovo grande utero materno della nostra società.
Nessuno sconto al lettore, ma al contempo nessun
rischio di noia. Lo sguardo di ogni racconto è quasi
uno sguardo assente: come se lo scrittore scrivesse
da un altro pianeta. Ed è la metafora costante che
accomuna tutti e nove i racconti.
Come fa dire a uno dei due astronauti dimenticati
in orbita durante la Terza guerra mondiale nel racconto Momenti di umanità (non a caso scritto nel
1983, l’anno apocalittico immaginato da George
Orwell ne Il Grande Fratello): «A me piace che le
parole abbiano una certa reticenza, che rimangano aggrappate ad un punto scuro nel più profondo
dell’interiorità».
Il punto di vista del DeLillo formato racconto è
in L’Acrobata d’avorio (1988) quando la protagonista sottolinea che «si sentiva svuotata di qualsiasi supposizione, persuasione, complicazione,
bugia, di qualsivoglia intreccio di combinazioni
che rende possibile vivere». DeLillo ha compreso
che siamo soltanto «campioni biologici alla deriva» e per rifuggire all’idea dell’inutilità della vita,
per rifuggire all’idea della morte come se la vita
fosse qualcosa di garantito, cerchiamo di mettere
a tacere l’idea della morte con ansiolitici, droghe,
tv, religioni, lavoro che diventano oasi di sicurezza congelata.
Ferocia totale
Il DeLillo più feroce lo troviamo nel racconto che
dà il titolo alla raccolta e che ne rappresenta il fulcro
centrale del libro: L’Angelo Esmeralda (1994) in cui le
protagoniste sono due suore che si muovono in una
New York periferica, degradata e senza speranze (lo
stesso Bronx nel quale DeLillo, di origini abruzzesi, è
nato e cresciuto). Un luogo dove i bambini più che diventare adulti diventano adulterati, dove sopravvivere
è il maggiore dei lussi: un luogo dove si incrociano le
vite parallele di marginali e di pendolari dell’esistenza
in fuga verso sogni alla deriva. Alla ricerca di un miracolo che non c’è: in questo caso
l’apparizione di un murales che ritrae Esmeralda,
bimba uccisa e violentata. Ed è in questo racconto
che troviamo il miglior DeLillo, quello più combattivo, incapace, come tutti i protagonisti dei suoi quindici romanzi, di piegarsi alle regole delle convenzioni
e convinzioni sociali. Quando prende posizione nei
confronti della religione («La preghiera è una strategia pratica, l’acquisizione di un vantaggio temporale
nei mercati dei capitali del Peccato e dell’Assoluzione») oppure della Legge non divina ma umana che
pretende di condannare più che di giudicare, tanto da
richiedere «le forbite locuzioni vittoriane che i moderni tribunali hanno adottato per fare pendant con
i pannelli di legno»; della fuga nella droga («Quando
sai in fondo di non valere nulla, solo un gioco d’azzardo con la morte riesce a soddisfare la tua vanità»).
E poi ancora sulle regole della comunicazione: la
condanna sociale al «disgustoso sciacallaggio sulla
morte di una bambina al telegiornale della sera»: ma
lo sciacallaggio non parte dalla televisione o dai giornali, bensì dal nostro essere spettatori.
Quelli che descrive DeLillo siamo noi: persone oltraggiate, ferite, vulnerabili, perennemente alla deriva, perennemente in fuga da noi stessi oppure talmente intimisti da allontanarci dal mondo, ma non
dal suo sguardo.
Ed è questa la vera bravura e unicità di DeLillo.
Perché, come scrive Martin Amis, i grandi scrittori
come DeLillo possono portarci dove vogliono, ma
la metà delle volte ci portano dove non vogliamo
andare.
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