Falastin diaries
di Simone Ogno
(Hadja, 81 anni, i suoi campi e sullo sfondo la colonia israeliana di Efrata)
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“Qui, sui pendii delle colline, dinanzi al crepuscolo e alla
legge del tempo
Vicino ai giardini dalle ombre spezzate,
Facciamo come fanno i prigionieri,
Facciamo come fanno i disoccupati:
Coltiviamo la speranza.”
da Stato d’Assedio, Mahmoud Darwish
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Partenza
12 ottobre 2011
C’ è poca fantasia nell’aria e nel titolo. E la tastiera
palestinese non mi aiuta di certo.
Cercavo un segno che potesse placare il flusso di pensieri,
e lo trovo lì dove è sempre stato, in quelle montagne che
ammiro incredulo dalla finestra di casa, ogni volta come
se fosse la prima. Sì, il cielo e’ così limpido da aprirsi sulla
Corsica.
Casa non si vede purtroppo, ma la natura oggi sa offrire
il meglio della mia terra: il Corrasi e il Mont’Albo con le
cattedrali calcaree, il bastione di Nuoro che protegge la
Barbagia, il profilo segreto di Tavolara e la frenesia di
Olbia.
Davanti a me il volto splendido di una bimba increspato
dal pianto imminente, poco più avanti due preti ortodossi
immobili nella loro solennità.
Da Roma a Tel-Aviv è tutto meno romantico, meno
evocativo.
Pochi minuti all’atterraggio per Tel Aviv e l’hostess
annuncia di rimanere seduti e tenere le cinture allacciate,
richiesta dell’autorità israeliana, non dell’Alitalia. Severo
divieto di scattare foto sul suolo israeliano: un monito
forse non recepito dalla foga fotografica di alcune donne
brasiliane. Ah il turismo di massa!
Forse le autorità israeliane covano il desiderio di
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colonizzare anche gli aerei italiani dopo la terra di
Palestina.
Il look da chierico non impedisce i controlli, non una ma
tre volte, forse insospettiti dal possesso di soli 200 euro o
forse non è riconosciuto l’utilizzo del bancomat. E no,
non conosco Hamas e non mi recherò a Gaza se fa piacere
sentirlo, cari rappresentanti dell’ “unica democrazia del
Medio-Oriente”. Il controllo del passaporto e gli
interrogatori durano due ore, ma alla fine il timbro
incontra il mio libretto e posso entrare.
Il resto è cronaca ordinaria di una cresta sul prezzo
dello sherut (taxi collettivo) e birra in buona compagnia.
Gerusalemme e la sua skyline al neon sotto una coperta
di nuvole.
In cuffia The God Machine – Scenes from the second
storey
Profumo di cumino
13 ottobre 2011
Giornata di fotografie e lunghe passeggiate tra i vicoli
della Città Vecchia.
Passi che si accalcano tra aromi di menta e cumino,
processioni che si incrociano lungo la Via Dolorosa.
E un venditore di intimo femminile mi porta alla mente
un pensiero superficiale e ombrato di malafede: quante
giovani sapranno dimostrare l’ardire dell’acquisto?
Quelle stesse ragazze che paiono preferire un trucco
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pallido, una sfumatura chiara sulla pelle bruna: che non
sia l’espansione della moda africana di utilizzare tonalità
che portino la pelle verso colorazioni maggiormente
occidentali, per favore!
Il colore olivastro raccoglie sensualità e mistero, il resto
ha la passione di una luce al neon.
La visita al Muro del Pianto colpisce la mia attenzione per
un particolare inconsueto: la discriminazione di genere.
La parte dedicata alla preghiera femminile è
notevolmente ridotta rispetto alla controparte maschile,
nonostante i numeri siano a favore delle donne. E non di
poco
L’occupazione che si fa sentire anche tra i vicoli, con la
costante presenza dei militari israeliani agli incroci,
dinanzi alle botteghe, a presidio dei bagni pubblici.
Le luci si spengono sulla giornata, passi corali tra gli
sgomberi di Sheikh Jarrah, i pensieri alla giornata di
domani, quando i muri del pianto saranno ben altri.
Quelli che separano e isolano.
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Al Ma’sara
14 ottobre 2011
La Route 60 che unisce Gerusalemme a Betlemme. Al suo
fianco il muro che divide, il muro dell’apartheid.
Sulla destra scorre la colonia che ospita l’appartamento
dell’On. Fiamma Nierenstein. Il villaggio di Al Ma’sara ci
accoglie nel paesaggio assolato, puntellato da ulivi, la
similitudine porta il ricordo al paesaggio a sud di Sassari
che degrada verso Ittiri: Sardegna e Palestina, Mahmoud
mi ricorda della similitudine e della fratellanza tra le due
terre.
Una veloce riunione per coordinare i lavori di questi
giorni, un programma intenso, la realtà dei Popular
Struggle Coordination Commitee, la scelta della nonviolenza e la raccolta delle olive come simbolo di pace, di
rivendicazione della propria terra. Un corteo pacifico per
riportarci alla realtà.
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La manifestazione si snoda tra le vie del paese, le persone
che si aggiungono alla spicciolata, c’è chi cita Gramsci e
chi snocciola rosari, le macchine che passano suonano il
clacson in segno di supporto, i passeggeri levano il pugno
e le dita che cantano vittoria.
I blindati dell’Israeli Defense Force non si fanno
attendere, ci aspettano all’uscita del paese in una curva a
sinistra, sul bordo-strada. Due camionette e dodici soldati
che si oppongono al corteo, indietreggiamo. I bambini
non percepiscono la tensione e la paura, al contrario di
me che sento i battiti accelerati e il sudore sulla schiena.
Non è colpa solo del caldo, assolutamente. Gli occhi dei
soldati tradiscono la peluria che compare sul loro volto,
diciotto anni da poco superati e un fucile automatico in
mano, alcuni di questi non puntano a terra come stabilito
dal diritto internazionale, sfiorano guance dei più giovani
che sfidano le canne delle armi con bandiere e sorrisi.
Continuiamo a indietreggiare sulla strada di ingresso per
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Al Ma’sara, il numero dei soldati aumenta, prima sedici,
poi diciannove. Il rapporto con i manifestanti è
ormai di 1:2, un rapporto comunque falsato dall’apparato
bellico israeliano.
I soldati filmano e scattano le foto ai presenti, alcune con
fotocamere rosa decorate di fiori, la strategia
dell’intimidazione e l’archivio utile per i raid notturni: la
strategia della violenza.
Umm’Yad si staglia fiera dinanzi ai soldati con in mano
una fotografia del figlio, condannato a 26 anni di prigione
per attivismo politico. La sua casa distrutta dai bulldozer
israeliani e ora costretta all’affitto, senza acqua corrente
né elettricità. Una breve visita al suo appartamento è
l’occasione per un futuro invito, occhi che vogliono
parlare per mantenersi vivi. Da queste parti anche
tramandare una storia è resistenza.
Dal corteo sale “Bella Ciao”, l’inizio è solenne, il proseguo
incerto, prendiamo le redini della canzone e la guidiamo a
conclusione. Quando si inneggia alla libertà è impossibile
rimanere indifferenti, tirarsi indietro. La manifestazione
finisce sotto gli sguardi dei volontari della MezzaLuna
Rossa intorno alla loro ambulanza.
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E’ il momento del riposo, le prossime giornate andranno
in crescendo. Il sole inizia nascondersi dietro i tetti di Al
Ma’sara e le bandiere si levano al vento. Le bandiere di un
paese usurpato che vuole scrivere il proprio futuro libero
dall’occupazione.
Gli ulivi di Burin
15 ottobre 2011
Al Ma’sara alle cinque del mattino è un’oasi di silenzio
che desta le mani dal sonno, mentre l’alba dipinge in
lontananze le alture della Giordania, lì dove si nasconde il
Mar Morto. Alcune bimbe già passeggiano per le strade
del villaggio, l’aria frizzante tra i capelli e un viso già
sveglio.
Il viaggio sino a Ramallah è un’altalena lungo i profili
delle colline palestinesi, percorsi degni delle côte
belghe nelle grandi classiche ciclistiche. Biscotti al
sesamo per colazione, una breve sosta e nuovamente in
strada; Burin si presenta indifesa, stretta nella morsa di
due colonie e due out-posts, gli ulivi dei contadini
palestinesi sorvegliati da un blindato israeliano.
La pendenza severa della salita ci porta nelle immediate
vicinanze della colonia meridionale, impossibile scorgere
i volti dei coloni ma la loro presenza è comunque visibile,
schierati sull’altura come tanti indiani pronti all’attacco.
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La raccolta delle olive procede però senza alcuna
tensione, durante la mattinata i coloni si ritirano nelle
loro abitazioni illegali, e il pensiero non può non andare
ai contrasti interni all’insediamento, perché la giornata
dello shabbat è solitamente di riposo, ma questa tante
volte non ha interferito nei raid portati ai contadini
palestinesi e alle loro piantagioni.
Il sole alto nel cielo batte sopra le nostre teste inesperte
nella raccolta delle olive, ma è il clima umano quello che
più aiuta nel meticoloso lavoro manuale, ci si arrampica
sui rami più alti e si riempiono i sacchi con i frutti del
raccolto; un’instancabile donna ci suggerisce gli alberi,
guida il gruppo nella stesura dei teli sotto le fronde dove
si depositano le olive, quegli stessi teli che ci accolgono
per un pranzo corale difficile da dimenticare.
Saliamo ancora per la collina, il raccolto con una nuova
famiglia ci tiene impegnati sino ai primi sentori di
tramonto, che arriva presto qui in Palestina. Il ritorno è
un susseguirsi di famiglie che lungo la strada rientrano
dai campi con i sacchi pieni e le scale in mano, a
Ramallah le tende dei sit-in che appoggiano lo sciopero
della fame dei prigionieri politici nelle carceri israeliane,
il regalo più grande del sole che si tuffa nel Mediterraneo,
lontano tra la bruma che sale.
La luce si spegne sulle colonie di Gush Etzion ed Efrata, la
stanchezza che ofusca la vista ma non la testa, dove i
volti, i gesti, le stentate parole trovano un loro spazio
preciso, impossibili da cancellare.
Domani a Nablus sarà una giornata così: stancante,
appagante, viva.
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Il vento di Burin
16 ottobre 2011
Il rapporto che nasce dalla semplicità del lavoro di
squadra, la condivisione della fatica, mani che si
stringono imperlate di sudore, la soddisfazione sul volto,
l’ultima oliva dell’albero che cade sul telone ormai colmo.
Alla fine della giornata il numero di sacchi riempiti passa
in secondo piano, che siano cinque o sei poco importa, la
felicità risiede nei gesti umili che si trovano dietro il
raccolto: tendere una mano verso l’ulivo, accarezzarne le
foglie e raccoglierne i frutti, arrampicarsi sulle fronde più
alte a salutare il sole e rendere omaggio alla vallata di
Burin.
Gli occhi ancora assonnati del mattino si posano su di un
incidente stradale nei dintorni di Beit Sahour, solo in
serata veniamo a sapere del coinvolgimento di coloni
nell’impatto tra due auto, la giusta spiegazione allo
spiegamento di forze militari israeliani e vigili del fuoco
accorsi sul luogo.
In Palestina anche la più tranquilla delle giornate riesce a
nascondere tensioni e difficoltà, in questo caso lo
sgombero di una piantagione di ulivi da parte
dell’esercito; un ordine che pare riguardare unicamente
un lato della valle dinanzi a Burin e ci porta a filmare
l’intera scena dall’alto della nostra posizione, il pensiero
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che corre a due dei nostri compagni che si trovano sul
posto. La questione pare comunque risolversi senza
ulteriori frizioni, con l’esito comunque tragico per il
proprietario degli olivi che vede interrotta la raccolta,
necessità vitale in questo periodo dell’anno, poiché le
olive di un albero possono fruttare circa un centinaio di
dollari.
“You have not the permission to stay here”, è questo il
leitmotiv salmodiato dai militari israeliani: chiedono un
permesso ai palestinesi per risiedere sulla propria terra,
per raccogliere le olive dai propri alberi, per esistere.
Nuovamente riuniti proseguiamo di albero in albero,
oliva per oliva, mentre il mulo riporta a valle i sacchi già
pieni. Il sole inizia a nascondersi dietro la colonia di
Yizhar con la sua telecamera puntata sugli ulivi, quì in
Palestina, dove la fortuna di un raccolto è dettata
dall’arbitrio occupante, dove nella stessa vallata si
contrappongono felicità e disperazione.
“Refusing to die in silence”
17 ottobre 2011
Il sapore del mattino è quello dolce del the al timo,
smorzato solamente dall’asprezza delle immagini di una
demolizione avvenuta la settimana scorsa a Betlemme: la
freddezza digitale delle immagini video non riesce
comunque a placare la tragedia di una famiglia. E in
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Palestina la perdita, declinata nelle figure della casa e
della terra, è una storia che perdura dal 1948.
La raccolta delle olive ci porta nei dintorni di Al Ma’sara
dopo la parentesi di Burin, ed è un piacere poter
finalmente condividere il lavoro con i contadini del
villaggio che ci ospita, una novità attesa da quattro giorni.
L’accoglienza ha il sapore della politica grazie alla
presenza severa di un esponente di Fatah, referente per
l’area di Betlemme del Ministero dell’Agricoltura, un
incontro organizzato dal Popular Struggle Coordination
Committee per testimoniare la nostra presenza e quanto
di positivo possa portare per la comunità.
L’accoglienza palestinese che si presenta in tutta la sua
magnificenza, una colazione che ha le sembianze del
banchetto prima di iniziare il lavoro nei campi: è la
fiducia che si costruisce a tavola, una delle più forti.
Gli ulivi di Al Ma’sara non hanno però l’abbondanza
riscontrata a Burin, alcuni alberi presentano le sole foglie
polverose mentre in altri le olive si possono contare sulle
dita delle mani. E’ frustrante, difficile negarlo, ed è amaro
quando si viene a sapere dell’incendio portato il mese
scorso da parte di un gruppo di coloni israeliani. Non è
solo la terra a bruciare, ma la speranza, la fiducia nel
curare la propria terra, la cenere che si posa è paura nelle
menti dei contadini: il risultato è l’incuria, la povertà del
terreno.
Hassan è perplesso, forse il vento che penetra la valle ha
portato alla caduta delle olive, una ragazza conferma
invece gli atti di furto da parte dei coloni, forse non paghi
degli incendi e a loro agio nello sradicamento degli alberi
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poi trasportati nei dintorni dei settlements.
La presenza illegale non è però il solo deterrente alla
raccolta, alcuni terreni hanno perso fertilità per lo
sfruttamento eccessivo nella piantagione degli ulivi,
soprattutto in territori come quello di Al Ma’sara
maggiormente adatti alle piantagioni di legumi e verdure.
La tradizione dell’olio è una vicenda antica da queste
parti, già i romani notarono le potenzialità dei luoghi, ed
è sugli antichi insediamenti che il turismo potrebbe
creare una nuova base di rilancio, la storia che serve il
welfare, la storia che attesta la presenza palestinese e
affonda le radici di un popolo nella terra usurpata.
La raccolta delle olive si colora delle voci delle bambine e
dei bambini, vogliosi di cantare, di conoscere, di
imparare, di condividere, una vitalità spesso sconosciuta
agli adulti.
Il gioco della morra, le canzoni popolari e le fotografie
assumono il profumo dell’attivismo in una terra dove
tutto si tinge di resistenza, massima espressione del
motto dei Comitati Popolari: “Refusing to die in silence”.
Il silenzio che uccide, l’arrendevolezza morale. E quando
nel pomeriggio veniamo a sapere di alcune famiglie che
hanno sfidato le difficoltà ritornando nei campi a
distanza di un anno, è una vittoria che affonda la luce nel
buio dell’occupazione.
“La decrepitezza morale
L’inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
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Non osiamo eliminare la nostra urina
E’ questo
E’ questo
E’ questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione”
La Vera Prigione, Ken Saro Wiwa
Palestine
18 ottobre 2011
Riflessioni tempestose che si formano sotto un cielo
sgombro di nuvole. La giornata di oggi trascorre
nuovamente con la medesima famiglia di ieri,
sicuramente differente rispetto all’esperienza di Burin;
forse ieri la nostra presenza è stata utile ad infondere
fiducia nei contadini dell’area di Al Ma’sara, oggi invece i
dubbi sono tanti. Quale è il nostro ruolo? Il peso del
nostro contributo? Una presenza ovattata che si disperde
tra gli ulivi con passo felpato, con discrezione, senza
l’ostentata presenza della passata giornata che si è
riversata sulla strada principale.
Le parole di H. non placano il flusso confuso dei pensieri,
lo slancio politico che sfuma nell’arrendevolezza e nel
timore di pronunciare le parole “occupazione”, “protesta”,
“resistenza”. Il popolo palestinese non è sinonimo di
attivismo politico, c’è chi ha ceduto allo status quo
15
trovando una posizione armoniosa nell’occupazione, un
giaciglio di benessere familiare che sacrifica una causa
nazionale. E’ l’irruento svegliarsi dal sogno di un popolo
unito nella contrapposizione all’illegalità, non esiste una
sola Palestina, sono molte le sue declinazioni con le quali
confrontarsi.
Il blindato dei militari israeliani pare lontano anni luce da
noi, e invece è lì, poche centinaia di metri dalla nostra
raccolta. Eppure nel mezzo c’è lo spazio delle
contraddizioni, la sfiducia nei confronti dell’autorità
statale palestinese che ha fallito nella missione di
rappresentanza e tutela.
Il procedere del confronto è comunque un esercizio
necessario e ricostituente, pensare a questa terra come un
blocco unico non è solo naif ma anche frutto di
pregiudizio. Qui dove la contrapposizione tra città e
campagne vive di regole slegate dal resto del mondo, con i
casi particolari di Hebron e Jericho e la frenesia politica
di Ramallah lontano dall’occupazione, che ha sostituito la
balcanizzazione di Gerusalemme nella figura di capitale.
Quì dove le campagne sono la roccaforte dei Comitati
Popolari di Resistenza e si confrontano quotidianamente
con le colonie.
Da che parte sta l’arrendevolezza? Dove risiede la
possibilità di un cambiamento? Non è semplice puntare il
dito e rivolgere la predica. Oggi si festeggia il rilascio di
prigionieri politici nelle trattative per la controparte
israeliana Gilad Shalit, per le strade impazzano i veicoli
bardati delle bandiere palestinesi.
Oggi siamo semplice manodopera nei campi, e nella
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frenesia di questo microcosmo forse va bene così.
Domani l’ombra del muro coprirà altri dubbi.
*19 ottobre 2011
Una febbre intestinale mi ha costretto allettato presso la
sede centrale del Comitato a Ramallah, alcune riflessioni
però sfuman0 nella strada di ritorno a casa.
Il checkpoint di Qalandya con i suoi murales dedicati a
Yassir Arafat e Marwan Barghouti, la versione palestinese
de l’Urlo di Edvard Munch, la coda infinita all’uscita di
Ramallah è il primo sentore
della bantustanizzazione della Palestina, un paese che ha
piena autorità all’interno dei centri abitati -quelli
principali-, mentre il paesaggio non-urbano presenta
l’opprimente presenza dell’occupazione: impossibile che
passino trenta secondi di orologio senza scorgere la
presenza militare israeliana.
Come nel Sudafrica del 1951 con il Bantu Authorities
Act, l’apartheid israeliano mira alla creazione di cittàstato palestinesi ad eccezione di Al-Quds (Gerusalemme),
che verrebbe incorporata definitivamente dalla forza
occupante. Il 1994 in Palestina è ancora lontano, ma
arriverà con il suo vento di libertà.
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La grinta dietro le lenti
20 ottobre 2011
La febbre intestinale è ormai un ricordo, la raccolta delle
olive può vedermi nuovamente partecipe dopo la
frustrazione di ieri.
I campi odierni presentano una collocazione critica,
circondati dalla colonia Gush Etzion e outposts in
espansione, minacciati costantemente dalle incursioni dei
settlers; una situazione aggravata dall’aggressione di un
soldato da parte di una ragazza palestinese nella giornata
di ieri: la ritorsione è la moneta dell’oppressore. La
presenza di decine di attivisti internazionali è a
testimonianza della pericolosità.
Il terreno è di proprietà di S. e della sua numerosa
famiglia, tanto da assumere le sembianze di una
cooperativa agricola per grandezza e organizzazione;
veniamo accompagnati nel raccolto dalle sue due sorelle e
una dozzina di attivisti francesi, avanti nell’età ma
freschissimi nello spirito. Ancora una volta è la dedizione
al lavoro a stupire, l’importanza conferita a ogni singola
oliva laddove il passaggio delle mani sia stato disattento,
il linguaggio gestuale che trova la sua massima
espressione in un cenno del viso, in una movenza del
corpo, e la barriera linguistica abbattuta con la semplicità
del lavoro di gruppo.
Le piantagioni sono ricche di frutti, ciò dovuto anche
all’impianto di irrigazione che sfrutta le tubature delle
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colonie: nessuna illegalità, le falde acquifere si trovano
sul suolo palestinese, sono altri quelli che usurpano il
bene primario dell’uomo a queste latitudini. La questione
dell’acqua è uno dei temi più pressanti tra le pagine del
“conflitto”, seguendo un trend che non riguarda solo la
Palestina ma assume prospettive globali. Le pause per
lo shai (the) hanno l’importanza dei grandi momenti,
lasciando lo spazio ai ricordi, ai racconti, al passato che
riaffiora con automatica prepotenza.
La storia di M. è quella di un giovane palestinese che ha
visto il suo futuro stravolto dall’occupazione. Di strada
verso Betlemme per la consegna del progetto finale del
primo anno di Università, venne fermato dai soldati
israeliani e arrestato. Le domande sono pressanti, spesso
futili per porre in soggezione l’interlocutore. M. si mostra
paziente, risponde in maniera pacata dinanzi alla
richiesta del nome, nonostante il militare abbia in mano
la sua carta d’identità; l’interrogatorio procede all’interno
di una caserma coloniale, viene ammanettato ai polsi e
alle caviglie, un cappio stringe il suo collo. Viene colpito
numerose volte, sostiene due interrogatori e ricoperto di
insulti e illazioni: “Volevi colpire uno dei nostri?”. M.
respira profondamente e affronta il soldato con
intelligenza: “Non ho niente con me, come avrei potuto
colpirlo, e per quale motivo poi?”. Gli viene sottoposto un
documento redatto in ebraico, M. si rifiuta di firmarlo
senza conoscerne il contenuto, molti di questi fogliacci
attestano l’espropriazioni dei beni dell’arrestato,
l’occupazione che avanza con i suoi metodi subdoli. Il
militare propone la presenza di un traduttore, M. chiede
un documento scritto in arabo, non si fida. Il confronto si
protrae sino al calar del sole, M. viene infine rilasciato
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intorno alle 22, abbandonato dalle autorità all’interno
della colonia, fortunatamente è notte e per le strade non
circola nessuno. Un telefono lungo la strada per avvertire
la famiglia, il passaggio in macchina di un contadino per
raggiungere la sua casa. M. ritorna finalmente a casa, ha
perso l’anno accademico ma nella sua testa ha scelto
diversamente: i Comitati Popolari di Resistenza, la scelta
non-violenta per affrontare l’occupazione.
S. è un uomo sulla sessantina, longilineo, distinto nella
sua camicia a quadri e gli occhiali che abbracciano il
volto. Il berretto sulla testa gli conferisce un aspetto mite,
supportato da una parlata quiete e tremolante, la sua
storia è quella di un popolo costretto all’esilio sulla
propria terra.
Betlemme, aprile 2002, Seconda Intifada, Assedio alla
Basilica della Natività. S. si trova nella sua casa con la
famiglia, a un tratto una magnetic-bomb abbatte la porta
d’ingresso. Le armi dei militari israeliani fanno capolino
all’interno dell’abitazione, la pioggia di proiettili è pura
follia omicida, M. riesce a nascondere la moglie e i figli in
un angolo lontano, nel voltarsi non può fare altro che
raccogliere il corpo senza vita delle madre crivellato di
colpi, il ventre materno che si spegne tra le sue braccia;
anche il fratello viene ucciso brutalmente.
La sofferenza prosegue per una settimana, costretti in
casa con i cadaveri in avanzato stato di decomposizione, il
divieto al passaggio delle ambulanze, anche la Croce
Rossa Internazionale rischia di finire sotto il tiro dei
cecchini israeliani.
E’ questo è il motivo della sfumatura ballerina nella voce
di S., la calvizie e la vitiligine alle mani, i farmaci che
danno sollievo alle sue notti.
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Ciò non gli impedisce di raccontare la sua storia mentre ci
conduce alla scoperta dei suoi terreni, quella placida
volontà che non vuole cedere all’oppressione, indica le
colonie e i rispettivi nomi, il periodo della loro
formazione. Guarda con una nota di nostalgia la piccola
abitazione estiva dei suoi genitori, ora decadente e senza
il tetto.
Quello che rimane è la grinta dietro le lenti, ciò che lo
mantiene vivo, l’amore per la sua terra.
In cuffia Dead Kennedys – Bedtime for Democracy
Nonviolenza è fantasia
21 ottobre 2011
Il falò che illumina un paesaggio lunare, una tenda che si
copre di stelle, il risveglio procede sornione tra olive e
pomodori, i profumi della cucina mediterranea. Non è la
cronaca di una vacanza al mare ma i preparativi per il
quinto anniversario della resistenza nonviolenta ad Al
Ma’sara, che ogni venerdì si mobilita in marcia verso la
Junction Road 3157. Tra i punti focali nel programma del
Popular Struggle Coordination Committee si trova
la creatività della protesta, una maniera per non svilire la
resistenza, per renderla appetibile anche ai più giovani.
Le opzioni passate al vaglio del gruppo sono state
numerose in questi ultimi giorni: le bolle di sapone, una
chitarra che accompagnasse l’onnipresente Bella
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Ciao o Society di Eddie Vedder, improvvisate esibizioni
circensi. La scelta è poi ricaduta altrove, sortendo l’effetto
desiderato.
L’aria è quella delle grandi occasioni, quasi elettrica nelle
nuvole fumose che si levano all’orizzonte, una tv locale
che brancola alla ricerca di un’intervista, la presenza di
numerosi attivisti internazionali provenienti da Francia,
Spagna, Norvegia, Italia e israeliani del gruppo
Anarchists against the Wall.
La conclusione della preghiera del mezzogiorno sancisce
l’inizio del corteo che si snoda tra le vie del villaggio e dei
due adiacenti, le bandiere palestinesi che riconquistano il
loro spazio, un arcobaleno della pace che si muove
insieme a loro, i canti e le risate, le fotocamere che
fremono per cogliere l’attimo.
Il blocco effettuato dai soldati israeliani non si fa
attendere, rispetto a venerdì scorso il loro numero è
notevolmente inferiore e conquistiamo metri di asfalto, il
corteo si arresta solo quando i blindati si pongono di
traverso e impediscono il passaggio. Il nervosismo dei
militari è evidente, l’inferiorità numerica pare metterli in
difficoltà nonostante i manganelli e le armi automatiche:
la curiosa paura dell’oppressore. Uno tra i più giovani si
volta in continuazione, cerca conforto nello sguardo degli
altri commilitoni quasi fosse il suo primo giorno, un altro
porta continuamente la mano sulla bomboletta del tear
gas, ci si aggrappa come un rosario; un altro giovane
soldato si esprime con il linguaggio fisico della violenza:
spintona, digrigna i denti, sbatte i piedi.
L’ordine è quello di rimanere a bordo strada, all’interno
della linea gialla che separa la carreggiata dai campi.
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Tra i manifestanti c’è chi siede sull’asfalto, chi rimane
immobile dinanzi all’elmetto, chi si muove al ritmo dei
tamburi.
Le cariche si muovono come la marea, crescono e si
placano accompagnate dai manganelli, e quando
colpiscono allo stomaco rimane il sapore amaro della
bile; un’attivista francese sceglie di sdraiarsi e viene
sollevata con la forza. M. viene colpito con un pugno allo
stomaco, sbraita e si dimena, ci spiega in seguito che è
una strategia ben collaudata negli anni: pochi minuti di
confronto diretto che non mostrino l’inferiorità dei
manifestanti, a seguire un approccio più soft e l’ultimo
approccio affidato alla mediazione.
L’idea covata dal nostro gruppo può finalmente vedere la
luce, indietreggiamo di qualche decina di metri e
raggiungiamo la macchina di un membro dei Comitati,
solleviamo con un sorriso beffardo due pentole colme di
pasta e le portiamo dinanzi ai militari. I piatti vengono
distribuiti tra i manifestanti che ne apprezzano significato
e gusto, siamo pronti per il passo successivo: offrire il
cibo ai soldati.
Gli sguardi sono sbigottiti, c’è chi ride davanti alla nostra
mano tesa, chi rimane impassibile, si volta, rifiuta. Provo
a convincere un giovane dallo sguardo fiero; “non c’è il
veleno”, gli suggerisco portando alla bocca la
forchetta. “Non è per il veleno, non posso comunque”, è la
risposta.
Gli attivisti francesi adottano lo stesso metodo con il far
bretone, i risultati sono non cambiano ma l’atmosfera è
rilassata, i militari non sono addestrati a contrastare
queste azioni. Nel 2010 un Comandante dell’esercito
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israeliano affermò, “We don’t deal well with Gandhi”, la
giornata di oggi ne è un esempio.
La manifestazione si conclude con spirito rilassato, gli
attivisti rimasti percorrono insieme la strada di ritorno
verso Al Ma’sara.
La quotidiana illegalità dell’occupazione non spegne gli
animi dei Comitati e tracciano la via per consegnare la
Palestina ai palestinesi, e mentre in Europa c’è ancora chi
crede nell’efficacia della resistenza armata, su queste
terre cresce un germoglio di speranza: nonviolenza è
fantasia.
La fantasia al potere!
In cuffia Loop – Heaven’s End
*22 ottobre 2011
Tra i commenti al video (http://www.youtube.com/watch?
v=FW9_Xk_GYPc) si può notare un simpatico “bunch of
terrorists and hippies”. L’ambiguità del termine
“terrorista” non ha bisogno di ulteriori commenti, ho
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visto bambine e bambini sventolare le bandiere dinanzi ai
militari armati, pacifisti internazionali e anarchici
israeliani: se tutti questi vengono definiti “terroristi”
allora sono fiero di aver condiviso questa esperienza con
loro, e di conseguenza mi si consideri tale. Del resto non
sono io né queste persone ad occupare illegalmente un
altro popolo, demolire le loro case, confiscarne le terre.
al-Khalil, l’apartheid e
lo stomaco
24 ottobre 2011
Lo stomaco prima o poi viene fuori tra le righe di queste
pagine, la testa tenta di filtrarlo e renderlo presentabile,
senza la bile accumulata quotidianamente. Ci sono
momenti dove il setaccio si sfalda, quando la funzione
descrittiva passa direttamente dall’umoralità. Oggi è uno
di questi momenti.
Non voglio essere accomodante né infiocchettare le frasi,
quando la penna incespica tra i quadretti della pagina che
rimane bianca, quando le dita non scorrono sulla tastiera
in maniera ponderata, i fogli accartocciati che volano
nella spazzatura insieme ai pensieri. Non voglio
assolutamente presentare i miei sentimenti mascherati da
falsità.
al-Khalil, Hebron per altri, è una visione che fa male,
muove la vanga tra i sentimenti più torbidi, la rabbia che
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monta davanti all’oppressione. Ogni qual volta ne parli
provano a metterti in guardia, che è dura anzi durissima,
ma la realtà come sempre rifila un pugno che non vedi
arrivare, senti solo il dolore.
I passi verso i vicoli della città vecchia e l’occupazione che
non è fatta di settlements disseminati nei dintorni,
l’occupazione è all’interno della città, il militare armato
circola al tuo fianco, il checkpoint è un tornello che gira e
gira e senza rispetto si colloca anche all’ingresso della
Ibrahim Mosque sputando in faccia al religioso rispetto.
Le bandiere israeliane che svettano sopra i profumi del
suq, le reti metalliche che evitano una pioggia di piscio,
rifiuti, sputi, insulti sulle teste dei palestinesi.
Il militare israeliano che mi chiede se cammino armato e
vorresti mandarlo a fare in culo, e che forse sì, sono
armato ma con l’arma dell’intelligenza. All’interno della
moschea le bambine nell’ora di religione che ti guardano
con un sorriso di benvenuto e la curiosità della
giovinezza, i fori sul muro della colona furia omicida che
ha più di quindici anni, lo stucco sputato in maniera
indecente sulla parete come una garza sporca, l’infezione
che avanza negli animi delle persone a causa della voluta
cecità di altre.
Le strade dove i palestinesi devono camminare sulla
destra come cani rognosi senza diritto di vivere, dove al
centro della carreggiata un colono armato da la mano alle
figlie in una grottesca scena familiare. L’economia di una
città morta dentro, nei muri taggati di candelabri e stelle
a sei punte presenti anche sulle morte, un macabro
ricordo di tempi che furono e che ora sono, anche se con
ruoli diversi. L’ironia tutta sghemba di un “Free Israel”
sotto lo sguardo cretino di un soldato che chiama chissà
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chi appena scatti la foto con sorriso incredulo, la
cronostoria della “liberazione di Hebron” dopo
l’occupazione del 1967, gli insulti sui muri e i palestinesi
che resistono asserragliati in casa dietro centimetri di
grate a maglie fittissime dalle quali si scorge un “this is
apartheid” e come dar loro torto. Questo è l’apartheid
nella sua forma più pura, una cosa da far impallidire il
Sudafrica post-bellico e non sono certo io a dirlo, ultimo
degli scemi, ma l’accusa proveniva tempo addietro da chi
ha combattuto questo mostro inumano: Nelson Mandela
e Desmond Tutu per citare due nomi a caso, forse
demodè ma anche chi se ne frega.
Più di mille negozi sgomberati e le macchine dei coloni
che sfrecciano con il loro carico di bambini che serve uno
stato israeliano in crisi demografica, i cubi di cemento
armato pronti all’uso, la desolazione di un ambiente che
non so come definire se non di guerra.
La storia commovente della Kurduba School di Shuhada
Street con il suo ingresso principale sbarrato da giri di filo
spinato, costringendo i bambini un giro più lungo e
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quindi preda facile per gli assalti dei coloni che li
inseguono e li picchiano, li minacciano e aizzano contro i
cani come ci racconta un bimbo che presenta ancora i
segni della mano stritolata. Il cortile ormai spoglio dagli
alberi che sono stati sradicati, l’ingresso secondario
monitorato da volontari che accompagnano i bambini
all’ora di ingresso e quella di uscita, la volontà israeliana
di cancellare l’ultimo barlume palestinese nella via e
procedere alla totale annessione del quartiere. E poi
avanti un altro, e poi un altro ancora e così via. La casa
dei patriarchi “nuovamente” sotto il segno di Davide.
E di cose ce ne sarebbero ancora di più ma più ne scrivo
più mi chiudo in me stesso. Chiudendomi però riesco a
pensare e sono sicuro di voler tornare, di inizare qui un
nuovo percorso che ormai lo sanno anche i muri, mi
porterà in Sudafrica e poi nuovamente qui in Palestina
per quel paragone che è ormai un tarlo nella mia testa.
Occupazione è apartheid, e non c’è bisogno del pretesto
razziale, è la presunta superiorità che si fonda sulla
menzogna.
Un cielo rosato si spegne sopra al-Khalil, anche lui
sanguina.
In cuffia Litfiba – 3, Amon Düül II –Phallus Dei
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Un terzo della vita
28 ottobre 2011
Uscita meridionale di Ramallah, alle dieci del mattino il
traffico in direzione di Gerusalemme è già congestionato,
il venerdì è la giornata di preghiera più rilevante per il
mondo musulmano e Al-Quds la terza città per
importanza nella comunità islamica.
Una rotonda e si svolta a destra, il percorso è obbligatorio
per coloro che dal cuore politico della Palestina vogliano
recarsi verso la Città Santa, fact on the ground seguente
la Seconda Intifada. Ilservice-taxi si ferma dinanzi al
transit di Qualandya, meglio conosciuto
come checkpoint omonimo dell’adiacente campoprofughi. Una folla di persone che sgomitano per salire e
ritornare a Ramallah, loro hanno già affrontato la bocca
infernale.
Qualandya si staglia imponente, una vela metallica di
recinzioni e filo-spinato, telecamere e tornelli: pare di
trovarsi all’ingresso di uno stadio italiano, ma nella sua
evoluzione militarizzata. Lo sguardo viene attirato dalla
presenza di file di seggiole metalliche, l’occupazione che
offre il comfort all’occupato. Quattro file di persone in
processione verso imbuti di freddo metallo, le sbarre sui
lati, i tornelli alla fine, l’immagine dello stadio che sfuma
in quella delle grandi prigioni statunitensi, quelle dei film
ovvero quelle reali.
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La fila è lentissima, i volti impassibili, un uomo arrivato
dinanzi al tornello sceglie di tornare indietro,affida la sua
bimba tra le nostre braccia che sorvola la recinzione, lui a
seguire. I tornelli girano a singhiozzo, ogni qual volta le
luci verdi si accendono non passano più di dieci persone
per volta e il flusso viene interrotto, c’è chi rimane
intrappolato tra le sbarre senza possibilità di muoversi
sino al segnale successivo, le mani che afferrano le sbarre.
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Un ragazzo si apre alla discussione, ha 22 anni ed è la sua
prima volta a Gerusalemme, ci mostra il permesso
ricevuto dalle autorità israeliane grazie alla mediazione
della compagnia per la quale lavora: israeliana
ovviamente; il permesso è scritto in arabo ed ebraico, la
sua validità è di tre mesi. Un uomo sulla sessantina ci
parla del suo passato come lavoratore in Svizzera, ed è
grato della nostra presenza: gli internazionali hanno la
possibilità di saltare questa immonda procedura
mostrando il passaporto presso un altro ingresso, ma noi
siamo lì con loro.
Passato il tornello ci attende una nuova fila e il passaggio
sotto un apparecchio elettronico, il carcere che si tramuta
in aeroporto, gli zaini e le valigie all’interno di un
apparecchio a raggi-x. La divisa porta il sorriso di due
ragazze, il passaporto viene mostrato attraverso il vetro e
possiamo passare, non prima di aver affrontato due
ultimi tornelli. All’uscita ci attende un bus per
Gerusalemme, l’attraversamento di Qualandya è durato
1h35min.
Per tanti palestinesi questa è la prassi quotidiana, la
sveglia deve necessariamente suonare prima che il sole
sorga affinché non si arrivi in ritardo sul lavoro. Alla sera
la stanchezza di una giornata deve affrontare nuovamente
il transit, nel mezzo i controlli lungo le strade.
Si dice che una persona trascorra un terzo della sua vita
dormendo, forse un palestinese lascia un terzo della sua
vita ai checkpoint. Il rimanente lo vive sotto occupazione.
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Il cimitero dei numeri
31 ottobre 2011
Le nude colline di Ebal e Garizim accolgono Nablus in un
abbraccio mortale. Qui i segni dell’occupazione israeliana
sono visibili nei fori dei proiettili e nei tetti sventrati, nei
vuoti urbani creati dalle bombe, nelle effigi dei martiri
appese per i negozi del Suq: la Seconda Intifada è ancora
viva nella memoria della città.
Un manifesto in particolare si ripete sui muri, la stampa
di un volto solare e sornione che ricorda quello di Mino
Reitano, una data, l’effige stellata del Democratic Front
for the Liberation of Palestine; inciampiamo per caso
nella sua storia, in punta di piedi ci ritroviamo
nuovamente dinanzi alla brutalità dell’uomo.
I passi che si accalcano tra i vicoli e le scalinate, una
ragazza e un bambino ci danno il benvenuto in una casa
accogliente, nella penombra siede una vecchia, le mani
unite in grembo e lo sguardo indecifrabile.
La storia del manifesto è la storia della sua famiglia, della
sua progenie, il viso raffigurato è quello di suo
figlio, Hafez Muhammad Hussein Abu Zant, ucciso
dall’esercito israeliano nel 1976 all’età di ventuno anni. La
donna legge sui nostri volti lo stupore nel sentire la
giovane età, si affretta a precisare che “sembra molto più
vecchio”, un sorriso spento le increspa il volto. La storia
del ragazzo inizia con passi piombati e procede tra lunghe
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pause di silenzio.
Il 17 maggio 1976 scelse di partire, un saluto frettoloso
alla famiglia e la rassicurazione di un lavoro in Giordania,
la notizia della sua morte che investe la famiglia in
maniera inaspettata.
Due giorni prima, durante una manifestazione di
commemorazione della Nakba, una giovane quindicenne
fu uccisa con un proiettile alla gola, l’anonima vita di un
ragazzo si immola alla causa del suo popolo. E’ difficile
immaginare il passaggio da studente e choiffeur di taxi in
Israele a martire. Le armi provengono dalla Giordania,
l’imboscata ai militari fallisce nei pressi della Jordan
Valley, Abu Zant e i suoi compagni muoiono in
combattimento; la notizia della sua morte viene
trasmessa da una radio israeliana. La tragedia della
famiglia inizia così e proseguirà per i successivi 35 anni.
Il fratello di Abu Zant accorre per proseguire la
narrazione, il suo negozio è nei pressi della stazione dei
bus, il respiro affannoso tradisce la fretta nel
raggiungerci, il desiderio di tramandare la memoria.
Il corpo viene trattenuto dalle autorità israeliane, riposto
in una cella-frigo e in seguito sepolto sotto un masso
numerato: il cimitero dei numeri. Ubicazione e numero
sono segreti, forse tre, forse quattro, nella Jordan Valley,
tra le alture del Golan occupate, nel nord di Israele.
Supposizioni.
L’assurdità di un tribunale militare che condanna un
cadavere alla pena detentiva, quindici anni o più, lapidi
senza nome e corpi che non trovano degna sepoltura,
abbandonati alla mercé degli animali e all’incuria del
tempo.
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Quarantaquattro anni di occupazione hanno restituito un
solo corpo nel 2009, l’esistenza ufficiale dei cimiteri dei
numeri resa nota da Hezbollah tre anni fa, durante un
macabro scambio di corpi risalenti alla Guerra del Libano
nel 2006: militari israeliani per esponenti del Partito di
Dio; le cifre vorrebbero nelle mani delle autorità
israeliane 338 corpi palestinesi e 195 di altri paesi (Siria,
Egitto, Libano). Non solo persone morte in
combattimento ma anche prigionieri politici, come il
giovane deceduto in carcere nel 1998 dopo un lungo
sciopero della fame, il corpo senza vita costretto a
scontare il rimanente periodo di detenzione. Il 9 ottobre
la salma di Abu Zant, ciò che ne rimane, ritorna tra le
braccia materne, la dignità di una cerimonia funebre a
distanza di anni.
Verso la fine della narrazione il viso dell’anziana pare
acquistare una tranquillità tradita dalle labbra
tremolanti, l’orgoglio che costruisce una diga alle lacrime,
“non ho mai pianto, né alla morte né alla restituzione del
corpo di mio figlio” ci dice “e non ho paura, convivo con
arresti e prigionia da decine di anni ormai, sono fiera dei
miei figli”.
E’ inutile cercare umanità in questo racconto, difficile
ascoltare le parole ufficiali di giustificazione, discorsi
infarciti dei termini “sicurezza” e “terrorismo”. E’ la
tortura psicologica inflitta ai familiari delle vittime,
colpevoli o innocenti che siano poco importa, la dignità
umana è comunque calpestata. E’ l’occupazione degli
animi dei palestinesi, della loro memoria, dei loro affetti.
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Ma’aa salamah Falastin
01.11.2011
L’alba di Al-Quds che penetra i vicoli del quartiere
cristiano, le prime luci della giornata inforcano le ultime
ombre di una notte insonne. Lo scalpiccio che porta alla
Zion Gate, un’ultima foto e l’obbiettivo che si posa sulle
propaggini settentrionali di Betlemme imprigionate dal
muro dell’apartheid, è il panorama a interrompere
l’idillio del momento e rammentarmi dove mi trovo.
Lo sherut accompagna i pendii delle colline che si
affacciano sul Mediterraneo, la discesa scorre sopra la
terra che si risveglia nello shabbat, giornata di festa, la
vita prosegue a rilento.
Il casello dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv è davanti
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a noi, prima esibizione dei passaporti con annesse
domande di routine: “chi siete?”, “cosa fate?”, “da quanto
tempo?”. Al termine della mattinata il pollice e l’indice
incontreranno sette volte il libretto granata, una relazione
indissolubile nelle ultime tre settimane, come la sera
precedente quando la polizia ci ferma chiedendo se
avessimo della marijuana, un controllo minuzioso che
invade la privacy del mio portafoglio. Per le autorità
israeliane la privacy è questione di poco conto, gli stessi
funzionari amano ripeterlo.
All’ingresso del check-in l’interrogatorio procede senza
eccessive pressioni, lo sguardo allarmato del giovane
funzionario aeroportuale ci mette in guardia sui nostri
zaini: “sono stati sempre sotto il vostro sguardo?
qualcuno potrebbe averci riposto una bomba!”. Mi mordo
la lingua, la risata viene soffocata con destrezza.
Il controllo del mio bagaglio è affidato a una giovane
ragazza dal sorriso radioso, mi confessa di essere stata a
Roma il weekend precedente, la Città Eterna la ha
ammaliata nonostante i prezzi proibitivi. La discussione
procede su binari congeniali al sottoscritto, le parlo di
vacanze e Sardegna, la invito per un soggiorno, ci
penserà. Gran sorriso di entrambi.
Il pensiero non può non andare a tutte le ragazze e
ragazzi che si prestano al servizio militare o qualsiasi
pratica connessa all’occupazione della Palestina, il rifiuto
della leva corrisponde all’emarginazione sociale e la
negazione di numerosi diritti civili e politici. Le vie di
fuga però esistono, come gli Shministim, i giovani
obiettori di coscienza imprigionati per aver rifiutato la
leva nei territori palestinesi occupati; il mio
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ragionamento pecca di ignoranza e lo ammetto, avrei
bisogno di conoscere più a fondo la società israeliana, ma
le domande sono incastonate come pepite nella testa:
perché non rifiutate la leva in massa? Perché servite
autorità tiranne? Perché gliindignados israeliani glissano
il tema dell’occupazione?
Forse sono domande premature, la speranza è questa. Il
Nord-Africa e il Vicino-Oriente stanno cambiando,
Israele ha tutto il tempo per entrare nella sua Primavera.
Una volta per tutte, e per tutti.
Ai controlli successivi la mia barba incolta è motivo di
ilarità tra i funzionari, il passaporto risale a cinque anni
fa, il volto di un ragazzino senza un pelo. Adduco l’incuria
alla pelle sensibile, prontamente mi sento rispondere
“perché cinque anni fa non era sensibile?”. “Lo era di
meno”, rispondo io.
Il viaggio verso Roma prosegue insonne, l’aereo non fa
altro che scatenare un turbinio di pensieri che continua
ancora. Troppi volti, troppe storie, troppe persone,
troppa rabbia, troppi sorrisi, troppa volontà, troppo
stupore, troppe lacrime, impossibile dare una
collocazione precisa a tutto questo, ancora di più se
concentrato in sole tre settimane.
Vorrei scendere più a fondo, vorrei capire, vorrei
conoscere nuove persone: ognuna di queste è una storia
che merita di essere raccontata, dalla quale imparare.
Il mio è un arrivederci, non so ancora quanto durerà
l’attesa ma tornerò, è un legame che si fonda sulla
sofferenza e sulla speranza, un amore incontrollato che si
trova ancora nelle mani rugose e nei rimproveri di Hadja,
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dietro le lenti di Sami, tra gli ulivi di Al Ma’sara, nella
pietà che non cede al rancore.
Ma’aa salamah Falastin.
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Link utili:
Assopace http://www.assopace.org/
Servizio Civile Internazionale – Italia http://www.sciitalia.it/news.php
Un ponte per… http://www.unponteper.it/
Alternative Information Center
http://www.alternativenews.org/english/
Anarchists Against the Wall http://www.awalls.org/
Popular Struggle Coordination Committee
http://www.popularstruggle.org/
Russell Tribunal on Palestine
http://www.russelltribunalonpalestine.com/en/
Stop the Wall http://www.stopthewall.org/
The Electronic Intifada http://electronicintifada.net/
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Falastin diaries