CONVEGNO NAZIONALE
Gestire il declino o costruire il futuro?
La gestione unitaria della scuola autonoma alla prova del presente: nuovi bisogni formativi,
dimensionamento, miglioramento e valutazione, innovazioni organizzative e ordinamentali
Senigallia, 8 e 9 maggio 2013
Auditorium comunale "Chiesa dei cancelli"
“Gestione e rendicontazione nella valutazione del DS. I LEP come
questione dirimente.” Alcune premesse di “valore”.
Franco De Anna, Dirigente tecnico
La valutazione e la rappresentanza sindacale.
1. Il Sindacato è una grande “forza di mercato”. La “contrattazione” è, proprio per
questo, una delle sue funzioni originali ed essenziali.
Nella sua “rappresentanza” dell’offerta di lavoro, tale funzione sarà tanto più efficace,
quanto più è connessa con la promozione, il rafforzamento, la difesa della qualità
dell’offerta stessa. Durata, intensità, qualità professionale dell’offerta rappresentata
sono i contenuti fondamentali della contrattazione. E si declinano tra loro nella
“organizzazione del lavoro”.
In questo senso la “valutazione” riferita alla qualità dell’offerta di lavoro è garanzia
propria del Sindacato.
Si ricordi che, storicamente, lo svuotamento delle qualità intrinseche del lavoro,
accompagnò l’affermazione del “modo di produzione capitalistico”: il modello
tayloristico vincente della grande impresa capitalistica, trasferì competenze proprie
del lavoro in “concentrazione tecnica” del comando (la cosiddetta “organizzazione
scientifica” del lavoro che poteva fare a meno delle qualità intrinseche del lavoro
stesso).
Ma anche oggi, dal lato della “domanda di lavoro”, di fronte alle contraddizioni e alla
fine dei quel “modo di produzione”, l’esigenza di qualità intrinseca del lavoro per
alcune posizioni viene ricondotta “a sé e al proprio controllo”: indicativo il fatto che si
parli di “capitale” umano (e spesso tale linguaggio rimane privo di analisi critica
anche all’interno del movimento sindacale).
Rinunciare alla “cultura della valutazione” da parte del sindacato significa dismettere
uno strumento di affermazione della propria funzione contrattuale.
2. Proprio per la sua intrinseca “forza di mercato” l’organizzazione sindacale attinge
ad una cultura che riconosce i limiti del mercato stesso e della sua “funzionalità”. Ne
sottolineo due fondamentali.
Il primo è esplicitato fin dall’opera fondamentale di Adam Smith: il mercato
“funziona” nella regolazione dei rapporti economici (la cosiddetta “mano invisibile”) a
condizione che a monte di esso operino i “sentimenti comuni” della collettività.
Quanto a dire se la società si riconosce in un corpo di valori e regole condivise.
(Smith insegnava, non a caso, filosofia morale). In assenza di tale ingrediente il
mercato viene distorto e diviene fonte di “diseconomie” e contraddizioni rispetto al
“benessere generale” che al contrario dovrebbe contribuire a realizzare.
Il secondo è più tardo: Stiglizt, Akerloff, Spence presero il Premio Nobel per
l’economia nel 2002, per i loro studi sulle “asimmetrie informative” sul mercato. Il
rapporto domanda- offerta può assumere valore di regolazione del “bene comune” se
vi è simmetria informativa tra esse. In caso contrario, come sostenne Akerloff, sul
mercato vincono “i bidoni”. Realizzare tale simmetria informativa è compito
essenziale e impegnativo, soprattutto dal lato della domanda di prodotti. Il
“produttore” detiene “fisiologicamente” una padronanza di informazioni sui costi e
sulla loro combinazione nei prodotti offerti, che è sottratta al “consumatore” che
domanda.
Colmare tale asimmetria è essenziale soprattutto nella modernità, in un mercato che
scambia beni che vanno ben al di là dei consumi essenziali e vitali, e che fa del
“consumo” una molla sostanziale di sviluppo economico complessivo. L’obiettivo
richiede un impegno ed una iniziativa che si esprimono, attraverso una pluralità di
strumenti, sul piano della diffusione della cultura e dell’informazione:
dall’informazione economica a quella sul “consumo consapevole”; dalla valutazione
delle alternative, alla organizzazione dei consumatori, alla promozione di forme di
rendicontazione sociale. Non “contro” il mercato, ma per far funzionare correttamente
il mercato.
3. La CGIL, dalle origini, coniuga l’obiettivo della più forte rappresentanza dell’offerta
di lavoro (la contrattazione) capace di perseguire l’emancipazione economica dei
lavoratori e, insieme ad essa, la loro emancipazione culturale, sociale, civile. (si veda
il suo Statuto in particolare i primi due articoli).
Non si tratta di “funzioni” semplicemente “accostate” o abbinate. In realtà
promuovendo emancipazione culturale, sociale, civile si arricchisce la “composizione
di valore” dell’offerta di lavoro, e dunque si dà forza alla funzione essenziale della
contrattazione, anche dal punto di vista strettamente economico. Congiuntamente si
contribuisce a costruire quell’insieme di “significazioni sociali” che nello stesso
pensiero di Adam Smith costituiscono le precondizioni per la stessa funzionalità del
mercato.
4. Lo sviluppo ed il potenziamento della cultura della valutazione sono, in questo
senso, obiettivi propri dell’organizzazione sindacale, sia in riferimento all’impegno al
miglioramento progressivo e continuo del “valore” dell’offerta di lavoro della quale il
Sindacato è rappresentante, da cui dipende la stessa forza contrattuale.
Sia in riferimento ai risultati della “produzione”, alla organizzazione dei processi
produttivi, alla gestione della produzione, all’offerta dei prodotti, per combattere e
superare le asimmetrie informative che producono subalternità dal lato della
domanda (e compromettono la stessa funzione dello scambio sociale).
La cultura della valutazione e la scuola dell’autonomia
Il ruolo fondamentale della cultura della valutazione assume, nel caso della scuola (e
dunque del suo sindacalismo), connotazioni specifiche.
1. L’autonomia delle istituzioni scolastiche può essere rappresentata come il
passaggio essenziale nella produzione di un servizio nazionale (che è legato ad un
diritto di cittadinanza e dunque erogato in chiave di eguaglianza dei cittadini) dal
monopolio di una amministrazione unica e sovraordinata (il Ministero), ad una
pluralità di produttori.
Questi ultimi sono legati alla medesima “ragione sociale” (il servizio pubblico di
cittadinanza) ma sono investiti da una più o meno ampia responsabilità di autonomia
operativa (organizzazione, gestione, combinazione dei costi, flessibilità).
L’esigenza di combinare la garanzia del servizio pubblico con l’autonomia operativa
dà fondamento essenziale e specifico alla centralità della valutazione come strumento
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della unità del sistema (in caso contrario la pluralità dei produttori sconfina nella
inconsistenza del “sistema”).
D’altro canto la stessa esperienza storica ha più che dimostrato, nel caso di macro
sistemi operativi e non solo nella scuola, che l’uniformità giuridica, normativa, di
regole gestionali, non sono condizioni sufficienti a garantire l’uniformità di risultati
necessaria a rispettare promuovere il carattere di uguaglianza del servizio pubblico
alla cittadinanza.
A maggior ragione dunque nel caso in cui tale servizio sia affidato ad una pluralità di
produttori autonomi (sia pure con diverso grado di autonomia), occorre affiancare a
tale autonomia un appropriato sistema di valutazione. Sulla base delle sue risultanze
si può e deve intervenire per promuovere qualità, superare differenze e disequità,
comare ritardi e squilibri.
2.
La funzione valutativa ha due riferimenti essenziali: il decisore pubblico da un
lato, il cittadino fruitore di diritti dall’altro.
a. Per il decisore pubblico la valutazione è lo strumento per verificare, e
decidere, rispetto alla sua funzione fondamentale di interpretare e garantire
l’erogazione di servizi pubblici alla cittadinanza, e dovrebbe essere, a sua volta
valutato, sulla sua capacità di rispondere con le sue scelte e decisioni di politica
pubblica, a tale funzione fondamentale. (la responsabilità politica e
amministrativa).
Il decisore pubblico, nella veste di “finanziatore” ha in particolare la necessità di
valutare la corrispondenza, l’efficacia, la produttività e l’affidabilità dell’impegno
risultati.
b. Per il cittadino fruitore del servizio pubblico la valutazione costituisce
strumento essenziale, non solo per esprimere il suo “gradimento” da
consumatore, ma per esercitare la sua potestà deliberativa in modo
consapevole, sulla base di informazioni pertinenti, organizzate, confrontabili.
Sotto tale profilo la valutazione è strumento di appianamento delle asimmetrie
informative che producono tendenziale subalternità dal lato della domanda.
3. Il Dirigente Scolastico è al centro di tale dinamica esposto su entrambi i fronti: è
un “dirigente pubblico” e come tale coinvolto nell’esercizio di quella responsabilità che
afferisce al decisore pubblico, sul complesso dell’esercizio delle sue funzioni: dalla
garanzia dell’uguaglianza dei servizi offerti ai cittadini, all’ottimizzazione della spesa
delle risorse pubbliche.
Ma è contemporaneamente il “responsabile” del “prodotto finale” che si confronta
direttamente con i cittadini, e dunque è impegnato a garantire ad essi accesso,
permeabilità e simmetrie informative, e dunque rendicontazione trasparente della sua
“produzione” sia in termini di qualità dei servizi sia in termini di uso delle risorse
economiche.
E’ questa “duplice” caratteristica che rende impropria ogni assimilazione sia del
Dirigente Scolastico ai dirigenti della Pubblica Amministrazione, sia le stesse scuole
autonome ad “apparati” della stessa (Contraddizioni reperibili sia nella normativa –
vedi il “brunetta” - , sia nella contrattazione sindacale.
La “cultura valutativa” deve, in ogni caso, fare parte integrante della sua formazione
professionale, e la disponibilità alla valutazione (ad essere valutato) è parte
fondamentale della sua deontologia.
Le precedenti “premesse di valore” hanno il senso di chiarire preliminarmente il
“punto di vista” che assumo come quadro di riferimento complessivo. Naturalmente
ciò non significa che qualunque strumento o protocollo di valutazione debba essere
assunto o accettato come pertinente. Significa invece che la formulazione di un
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progetto, la ricerca di strumenti, la definizione di protocolli devono essere considerati
“materia di interesse proprio” e devono alimentare ed essere alimentati da cultura
propria ed autonoma della organizzazione del Sindacato. Per tutte queste ragioni, in
questo campo, l’organizzazione sindacale non può limitarsi a rispondere alle proposte
della “controparte”, in una sorta di “contrappunto” che la collocherebbe comunque in
posizione subalterna (di chi “risponde” ma non di chi “domanda”).
La rendicontazione sociale: tra teoria e un poco di storia.
La problematica della social accountability si sviluppa, come è noto negli Stati Uniti,
nella fase declinante del modello fordista.
Alla base di quelle elaborazioni vi sono (almeno) due consapevolezze. La prima è la
considerazione dell’impresa (la grande impresa di eredità fordista) come
“sottosistema sociale”.
Un aggregato sociale dunque la cui finalità fondamentale (la produzione, lo sviluppo
economico, l’arricchimento, il profitto..) si coniuga con tutte le dinamiche che
percorrono la “formazione sociale”. I “diritti” innanzi tutto ( da quelli sindacali e quelli
di genere..); gli interessi complessivi della collettività entro al quale l’impresa opera
più direttamente; i problemi del “ricambio con la natura” che i processi di
trasformazione implicano: l’impresa preleva dall’ambiente risorse naturali e
restituisce all’ambiente “metaboliti” investendo in tale opera non solo gli interessi
immediatamente implicati nella sua mission, ma quelli dell’intera collettività umana e
della sostenibilità che riguarda le generazioni future.
La seconda consapevolezza che ispira il pensiero della social accountability è quella
della necessità di individuare, aggiornare, restaurare (la diversità degli accenti è
relativa alle esperienze storiche concrete diversificate e specifiche per
diversi
contesti sociali) una sintesi operativa e tradotta in strutture, strumenti, istituti di
gestione concreta, tra le dimensioni che il medesimo individuo assume, in modo
sempre più caratterizzato all’interno della modernità e/o post modernità:
produttore, cittadino, consumatore.
La “filosofia” della rendicontazione sociale ispira dunque la ricerca di strumenti e modi
attraverso i quali sia l’impresa, come sottosegmento sociale, sia ogni aggregato
organizzato che produce beni e servizi per i cittadini (tanto più se utilizza risorse
pubbliche) “dia conto” ad essi del rapporto tra le risorse utilizzate e il “valore sociale”
prodotto; delle modalità con le quali si usano, consumano e ricambiano le risorse
naturali; e di quali rapporti si realizzano entro lo stesso meccanismo produttivo,
rispettando diritti e promuovendo l’emancipazione economica e culturale dei
protagonisti di tali rapporti. Forme e strumenti di rendicontazione che comprendono,
dunque quella economica, ma la superano investendo l’intera dimensione della
“convenienza sociale e ambientale”.
In questo senso la filosofia della rendicontazione sociale si misura con la necessità di
rielaborare modelli di sintesi tra produttore, cittadino, consumatore, anche tenendo
conto della obsolesce nza storica di esperienze fondamentali legate alla pienezza delle
seconda rivoluzione industriale. Dalla fine degli anni ’70, e a partire proprio dagli
Stati Uniti, tale sintesi, che in un modello storicamente provvisorio fu propria del
fordismo da un lato e delle esperienze di costruzione del welfare state dall’altro, si è
andata progressivamente rivelando corrosa sia dall’interno che per effetto dei
processi reali economico produttivi, e tecnologico organizzativi.
Pochi esempi tra i tanti possibili delle contraddizioni che hanno determinato e/o
accompagnato la destrutturazione di quel modello storico.
• I lavoratori (i produttori) hanno visto il proprio interesse allo sviluppo
incessante e sempre più efficiente della trasformazione della natura operata
dalla grande impresa, (interessi quasi coincidenti tra salariati interessati alla
vita dell’impresa e consumatori interessati alla sua progressiva produttività e
riduzione dei costi dei prodotti) entrare in collisione con le istanze di difesa e
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protezione dell’ambiente.
I lavoratori detentori di massa di fondi pensionistici (esperienza USA) si sono
trovati “oggettivamente” cointeressati alla fase più deteriore (caratterizzata da
elevati livelli di “moral hazard”) della finanziarizzazione, con i fondi stessi
impegnati in speculazioni a breve-brevissimo termine alla ricerca della
massimizzazione del profitto con indifferenza al rischio e a scapito della
sicurezza dell’impegno. Un po’ paradossalmente si potrebbe sostenere che i
fondi pensione si sono transitoriamente alleati con il processo di
finanziarizzazione e di declino dell’economia reale, che, per altra via colpivano
radicalmente le condizioni di vita e di lavoro.
I consumatori hanno visto nella permeabilità del mercato mondializzato alle
produzioni internazionali provenienti da paesi a bassi costi, l’occasione per
praticare prezzi più bassi e maggior livelli di consumi; i medesimi, in veste di
lavoratori, hanno misurato la contraddizione che ciò inevitabilmente portava e
porta nelle loro opportunità di occupazione.
La generalizzazione di modelli affluenti di welfare state e la loro fondamentale
ispirazione universalistica (l’eguaglianza tra cittadini) si è accompagnata con
l’approfondimento (ovunque nel mondo ma con aspetti specifici Paese per
Paese) della crisi fiscale dello Stato, con esiti in qualche caso paradossali
rispetto all’impostazione originaria del welfare: le tasse versate da chi ha di
meno servono a produrre “servizi uguali” e convenienze per chi ha di più.
L’esigenza di mantenere alta la domanda di consumi e anzi di aumentarne il
livello ha prodotto il fenomeno dell’indebitamento al consumo che ha
mantenuto alti i livelli di vita, ma contemporaneamente ha fornito base
favorevole alla speculazione finanziaria. E nel caso dell’indebitamento a rischio
connesso con l’espansione della proprietà immobiliare ha dato l’innesco
clamoroso della stessa crisi finanziaria (i mutui subprime).
In sintesi, la disarticolazione di “identità” di interessi tra produttori, consumatori,
cittadini, ha avuto corrispettivo nelle progressive difficoltà a “rappresentarsi” in
termini unitari: né per appartenenza di classe, né per ipotesi di cittadinanza.
In modo assai significativo lo sviluppo della problematica della “rendicontazione
sociale”, mentre si misurava con il tentativo di riconnettere in altro e rinnovato
modello di sintesi ciò che appariva via via in obsolescenza (il modello fordista e di
welfare) nella disarticolazione delle connessioni cittadino-produttore-consumatore, si
sviluppava in parallelo con fenomeni di proposta e affermazione di
forme di
rappresentanza plurali e “particolari”, di “scopo”. Anche in alternativa con quelle
“classiche” della rappresentanza sindacale e/o politica.
A tale fenomenologia appartengono processi anche assai diversi tra loro, ma che
condividono tale base strutturale: la crescita del terzo settore (l’economia non profit),
le rappresentanze e le rivendicazioni di genere, la sensibilità e l’aggregazione a difesa
dei “diritti umani”, l’affermarsi dell’associazionismo dei consumatori, il diffondersi
della rappresentanza in chiave “locale” e “di scopo”, l’ambientalismo.
Dagli anni ‘80 del secolo scorso fu chiaro che, almeno nel mondo industriale
avanzato, il “modello” (sociale e produttivo) che aveva retto il “compromesso sociale”
costruito lungo “l’età dell’oro” (E. Hobsbawm) fosse da considerarsi in via di
decostruzione.
Ma l’arretramento del compromesso sociale caratterizzato dal welfare state, dal
keynesismo, da una politica economica guidata dalla “domanda aggregata” (consumi
e investimenti) si accompagnò non tanto alla ricerca di una “nuova sintesi”, ma alla
“egemonia” della finanza, della ricerca dei “differenziali di profitto” piuttosto che della
“curva dello sviluppo”; del primato della moneta sull’economia reale.
Per un trentennio le suggestioni dalle quali era sorta l’attenzione alla social
accountability e le proposte collegate del “Bilancio Sociale”, declinarono nell’euforia
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generale dell’arricchimento finanziario: compito dell’impresa era ricondotto
esclusivamente al produrre guadagni per gli azionisti (Friedmann e la scuola di
Chicago), il messaggio sociale era “arricchitevi” (anche con il ricorso al debito), il
welfare state andava di conseguenza “smontato” ed il massimo della preoccupazione
sociale poteva essere espresso in termini di “altruismo compassionevole” (Bush).
Stiamo oggi vivendo la conclusione drammatica di quella egemonia. E come sempre
accade nelle fasi di svolta storica, le questioni poste e irrisolte in precedenza si
ripresentano a contorni assai più netti, quasi “scarnificate” dal temporaneo
accantonamento, e con qualche “argomento veritativo” arricchito.
La ricostruzione di un sensato “compromesso sociale” appare congiuntamente come
una necessità conclamata per delineare prospettive di sviluppo successivo e come
difficoltà assolutamente specifica di questa fase, essendo venute meno
strumentazioni del passato ormai palesemente inefficaci.
• In primo luogo fondamentale è l’esaurirsi della efficacia della tradizionale
strumentazione della rappresentanza politica (i cittadini) entro la quale
ricostruire il compromesso-identità tra cittadini, produttori, consumatori.
• In secondo luogo diventa stringente affrontare e risolvere la contraddizione tra
vocazione universalista del welfare e differenziali di distribuzione del reddito e
della ricchezza e individuare una nuova e diversa mediazione tra spesa
pubblica, ricchezza privata, fiscalità generale. E ciò investe tutti i servizi alla
cittadinanza: dalla scuola alla sanità. Collaterale e decisivo il restringersi delle
possibilità di fare leva sulla “domanda pubblica” come moltiplicatore dello
sviluppo e quindi la necessità conseguente di assumere rigorosi discrimini
quantitativi e qualitativi nell’uso di tale strumento (si è dato a tale
preoccupazione il nome di spendig review, facendo non molto di diverso dai
“tagli”).
• In terzo luogo i problemi ambientali hanno assunto rilevanza e consapevolezza
via via più crescenti e in parallelo si sono accentuate le sensibilità specifiche
sui caratteri dello sviluppo economico che vanno in concorrenza e
contraddizione con quelli. Contraddizioni che attraversano non solo “gli
interessi costituiti” dei vertici dell’economia e dell’impresa, ma anche quelli
generalizzati e orizzontali dei lavoratori e dei cittadini. (Vedi gli esempi
drammatici del conflitto salute-lavoro e il suo “attraversamento” sociale).
• E infine gli effetti destrutturanti del modello storico di coerenza tra produttori,
cittadini, consumatori, si riflettono anche, e con effetti nuovi e dirompenti, su
quelle tensioni alla “disintemediazione” nella rappresentanza di interessi
parziali, locali, di scopo, che pure avevano alimentato la stagione della fine
anni ’70 (quella in cui nacque la problematica della social accontability).
Quella tensione alla disintermediazione delle rappresentanze assume oggi
connotati specifici e drammatici sostanzialmente a causa di due fattori:
a. il primo è il parallelo decadere della forma tradizionale della politica. Si
destruttura in altre parole, la possibilità di iscrivere quella “disintermediazione”
locale e di scopo (dalla rappresentanza di genere all’ambientalismo, dal
protagonismo del terzo settore all’autonomia delle piccole comunità..) entro
una “intelaiatura” comune costituita dalla “rappresentanza politica
della
cittadinanza”.
b. Il secondo è costituito dallo sviluppo delle rete e delle forme di
comunicazione
sociale.
Si
tratta
di
strumenti
“intrinsecamente”
disintermedianti, ma la loro stessa potenza non solo annulla la mediazione
della
“comunicazione
sociale
organizzata”
nelle
forme
classiche
(rappresentanze elettorali sia generali che parziali) ma semplifica
l’interrogativo sociale alla sua impropria forma binaria (si-no; mi piace- non mi
piace) e la sua velocità proietta l’illusione della sua “universalità”.
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Naturalmente tutto ciò richiederebbe ben altre dimensioni di analisi e di
argomentazione. Ma mi paiono utili questi accenni a questioni assai complesse, per
ricordare che, in modo non dissimile a quanto si proponeva alle sue origini, la
riflessione sul significato della rendicontazione sociale, la definizione e
sperimentazione di strumenti coerenti con i quali essa potesse tradursi in pratica
diffusa (il Bilancio Sociale), l’applicazione di tali strumenti almeno in tutte le situazioni
in cui si usano e distribuiscono risorse pubbliche e benefici sociali, si misurano con un
complesso di questioni che caratterizzano questa intera fase storica.
Dunque dovremmo considerare sia quella riflessione che la sperimentazione di
strumenti ad essa collegati, non tanto un “di più” da aggiungere alle nostre
incombenze di dirigenti pubblici, quanto una componente della stessa
“configurazione” delle dirigenza pubblica.
E dunque non tanto un “documento e/o questionario” in più da compilare secondo un
“modello predisposto” ma innanzi tutto una “filosofia della prassi” del dirigente
pubblico. E, sia pure sullo sfondo, una sfida della “democrazia” nella post modernità.
Rendicontazione sociale e valutazione dei Dirigenti scolastici
[Aneddotica personale. Scrissi il mio libretto sulla “Rendicontazione sociale nella
scuola” nel 2004/5.
Mi capitò di illustrarne idee e proposte in un convegno milanese alla presenza di uno
dei direttori generali più preparati, sensibili e colti che abbiano popolato il nostro
Ministero, e di una collega che allora era Sottosegretaria all’Istruzione.
Il Direttore generale, complimentandosi per le proposte mi disse tuttavia
riservatamente le sue riserve “.. non
rischiamo di aggiungere altre incombenze alle scuole? ..Il POF …la progettazione… e
poi anche il Bilancio Sociale?”. Il commento del Sottosegretario non mi fu fatto di
persona, ma ai suoi più vicini collaboratori che me lo riferirono. Ed era di “sospetto
politico” come se tutto ciò che cercavo di spiegare e proporre fosse in realtà suggerito
dal differente schieramento reciproco.
Ma pochi mesi più tardi la CGIL mi invitò a presentare la tematica del Bilancio Sociale
nella scuola in un convegno nazionale a Napoli. Il titolo della mia comunicazione era
pedissequo “Per un Bilancio Sociale nella scuola”. La Direzione del Sindacato lo
modificò in “Per un Bilancio Sociale “condiviso” nella scuola”.
Lascio all’interlocutore di queste note l’ esplorazione “clinica” della
cautela di
affiancare un aggettivo come “condiviso” all’espressione “bilancio sociale” che
contiene la condivisione come carattere intrinseco… Da quale “turbamento” nasceva
quella cautela?
Sono passati anni di sostanziale silenzio, pure animati da diverse sperimentazioni di
scuole che si sono cimentate con quella filosofia e con quello strumento. E alcuni
valorosi colleghi che hanno tentato di socializzare la problematica in convegni, scritti,
altre sperimentazioni (uno di essi, Angelo Paletta, è qui tra noi).]
Oggi il tema “rendicontazione sociale nella scuola” è diventato un “oggetto” della
valutazione del Dirigente Scolastico entro le indicazioni contenute nel nuovo
“regolamento” per il Sistema Nazionale di Valutazione.
Ciò da un lato conforta opinioni e proposte elaborate da tempo.
Ma d’altro canto preoccupa circa il fatto che gli “strumenti concreti” di attuazione
della rendicontazione sociale non possono che avere il carattere di “risultati” di un
lavoro di ricerca e sperimentazione sul campo capace di consolidare quella che dianzi
ho chiamato una “filosofia della prassi” della direzione e gestione di una scuola (come
di ogni altra” impresa pubblica”).
Temo, come sempre, la “formalizzazione” burocratico- amministrativa prodotta dalla
metabolizzazione ministeriale di tale filosofia.
Sarebbe un poco come inverare l’obiezione antica che fece quel Direttore Generale
che ricordavo:
“Diamo alle scuole (ai Presidi) una incombenza in più?”
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Si preannuncia, infatti, nella sperimentazione delle indicazioni contenute nel
regolamento del Sistema di valutazione, la predisposizione di uno strumento entro il
quale riportare esiti della rendicontazione sociale e pre-visto nella norma stessa del
regolamento.
Naturalmente in un Sistema Nazionale è indispensabile dotarsi di strumenti unificati
che consentano “comparazioni” e confrontabilità, oltre che valutazioni a parità di
“misure”.
Ma è del tutto evidente che ogni “strumento” codificato e formalizzato, sconnesso
dalla pratica di quella “filosofia”, porta con sé il rischio della “conformizzazione”, fino
all’opportunismo “compilativo”.
E tale rischio, a parte ogni richiamo etico, si combatte appropriatamente solamente
se si verificano alcune condizioni.
• La prima è di considerare e praticare la dimensione di “ricerca” che hanno
intrinsecamente sia la valutazione che i suoi strumenti (e dunque tanto più le
forme di rendicontazione). Non si tratta infatti di “disposizioni normative” ma
di decisioni e proposte che, pure tradotte in “dispositivi” richiedono una
permanete interrogazione allo “stato dell’arte” della elaborazione tecnicoscientifica.
• La seconda, ad essa connessa, è di esplorare la permanente dimensione di
formazione e aggiornamento (culturale, professionale) che tale dimensione
implica. Dunque, nel nostro caso,
l’esplorazione dei “significati” e dei
fondamenti che la problematica della rendicontazione sociale implica e che ho
cercato di ri-tracciare nella riflessione precedente, che sia pure con estrema
sintesi cercava di richiamare lo spessore “politico” di quell’impegno. O è piena
tale consapevolezza, o il rischio dell’ulteriore adesione ad una ulteriore
procedura di controllo esterno diventa dominante.
• La terza, infine, sta nella ricongiunzione di principio e di prassi tra autonomia e
rendicontazione sociale. La Rendicontazione sociale rappresenta infatti il
coronamento di principio e di fatto dei processi di autovalutazione che una
organizzazione mette in campo (o lo dovrebbe fare). Lungi dal ridursi ad
“adempimento” formale, questi ultimi sono infatti da intendersi, prima di tutto,
come misure e indicatori della “propensione” di una organizzazione al
miglioramento costante delle proprie prestazioni: dunque sia rispetto ai
risultati raggiunti, sia rispetto alle risorse (materiali, umane, finanziarie) usate
nella produzione del servizio pubblico.
Ben venga dunque il richiamo a tali processi che è contenuto nel Regolamento del
Sistema di Valutazione Nazionale; ma esso sarà tanto più produttivo quanto, negli
stessi protocolli valutativi si tenga conto che non di “adempimenti” si tratta, ma di
massima espressione della interpretazione dell’autonomia.
Con tali precisazioni appare del tutto evidente che il “peso” che la realizzazione di
forme di rendicontazione sociale assume nella valutazione di un dirigente è, prima di
tutto, legato alla sua capacità di innescare un processo (la costruzione di un Bilancio
Sociale di scuola) che coinvolge l’organizzazione tutta; e non dunque di essere il
“redattore” di tale Bilancio.
Chi si è misurato sul campo con tale sperimentazione sa che si tratta di un processo
complesso e non breve. Il coinvolgimento collettivo in una comune filosofia
rendicontativa che deve entrare a far parte organica della cultura organizzativa della
scuola; la raccolta sistematica delle informazioni e dei dati necessari e la loro
rielaborazione; il rapporto finalizzato con gli interlocutori esterni ed interni; la
“produzione” di documenti e informazioni conseguenti e il miglioramento permanente
di tali strumenti; tutto ciò rappresenta impegno di ricerca e di costruzione di comune
cultura organizzativa che può occupare anni di progettazione e di sperimentazione.
Ciò che può entrare a far parte della valutazione di un dirigente è dunque intanto tale
impegno, non tanto (anzi..) il conseguente riempimento di un “documento” rilevativo
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eteroproposto. Quest’ultimo porta anzi con sé il rischio di occultare proprio un
oggetto essenziale di valutazione quale è la “propensione “ al miglioramento espressa
dalla cultura organizzativa rielaborata dalla scuola nella sa autonomia.
Ma osservare, rilevare, apprezzare la “propensione” al miglioramento di una
organizzazione richiede strumenti molto diversi da quelli di una “documentazione
rilevativa” a distanza o in autocompilazione (questionari, report, e quant’altro..).
Richiede anzi “osservazione sul campo” e interattiva. Ma questo è proprio uno dei
punti di maggiore debolezza del Regolamento del Sistema di Valutazione e della sua
implementazione. Vi si tornerà più oltre.
Rendicontazione sociale e Bilancio sociale
Riaffermato (vedi sopra) che alle condizioni indicate è comunque necessario disporre
di uno strumento relativamente codificato che costituisca almeno la traccia per la
redazione di un Bilancio Sociale, richiamo qui una proposta fatta a suo tempo: si
tratta di uno “schema” prodotto adattando alla scuola un analogo schema redatto per
l’impresa da parte del Gruppo Italiano per il Bilancio Sociale e a sua volta ricomposto
tenendo presenti i diversi standard internazionali esistenti sulla Social Accountability.
E’ riportato di seguito.
Rimando ad altri interventi e bibliografie per una analisi dettagliata dei contenuti dello
schema. Mi limito ad alcune sottolineature
1. Vi è, nel modello presentato, un riferimento esplicito all’intera
documentazione dalla quale siano desumibili i caratteri dell’organizzazione
specifica (dal POF al Piano Annuale, alla relazione di accompagnamento di esso,
ecc…). L’istanza è quella di ricondurre a “significatività” tale documentazione
“istituzionale” (spesso ridotta a rituale o riservata a una platea ristretta di
interlocutori). Dunque di contribuire a superare ogni prodotto di mera “retorica
progettuale” che oltre un decennio di pratica contraddittoria di autonomia ha in
parte alimentato, in specie nel rapporto tra “catena di comando amministrativa”
e responsabilità autonoma nella “produzione del servizio pubblico.
2.
L’elenco degli stakeholders è indicativo, certamente non esauriente da un
lato e ridondante dall’altro. Si può e deve scegliere anche in termini di gradualità
progressiva, e in relazione alla condizione operativa specifica.
3. Nel confrontare risorse in entrata e risorse distribuite sia all’organizzazione
che agli stakeholders, si tiene conto di una distinzione tra “risorse detenute in
proprio” e “risorse in governance” anche in prospettiva che il Bilancio Sociale
acquisisca dimensioni territoriali (Bilancio Sociale di Area).
Sia per le risorse in ingresso, sia per quelle distribuite, in relazione a condizioni
operative specifiche (si confronti per esempio un Istituto che opera in area
metropolitana, rispetto ad uno che opera in realtà locali ristrette.. Ma anche i
diversi riferimenti tra una scuola del ciclo dell’obbligo ed un istituto superiore) la
significatività della rendicontazione sociale varia notevolmente. In alcuni casi la
sua strutturazione territoriale appare quella ottimale.
4.
La descrizione del “valore sociale” prodotto e distribuito deve esprimersi
anche (ma non esclusivamente) in un apparato di “indicatori di risultato”, per
quanto ciò sia possibile (non tutto è direttamente quantificabile).
Per una fondamentale ragione: la necessità di sviluppare una analisi diacronica
capace di dare conto anche sinteticamente delle evoluzioni, dei cambiamenti, dei
possibili miglioramenti.
5. Una intera area di “valore prodotto e distribuito” è contrassegnata
dall’etichetta “Livelli Essenziali di Prestazione”. Entro di essa sono compresi
anche (ma come “una” delle componenti) i livelli di apprendimento rilevati
attraverso gli strumenti standard delle rilevazioni nazionali. Si rimanda più oltre
per una analisi più dettagliata della “questione LEP”.
6.
Una rilevanza fondamentale, nello schema, è dedicata alle risorse
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9
economiche di diversa provenienza, sia di fonte pubblica che privata, sia sul
fronte delle Entrate che del “valore economico” distribuito.
Rendicontare rispetto alle risorse sia di fonte pubblica che di altra fonte è
ugualmente significativo: nel primo caso proprio perché si tratta di risorse che
provengono dai cittadini stessi attraverso la fiscalità generale; nel secondo
perché i contributi provenienti dai privati, dalle famiglie, dalle imprese,
rappresentano un buon indicatore sociale di quanto la scuola venga considerata
“capitale sociale” della collettività di riferimento, e dunque occorre dare conto di
quanto, attraverso l’azione della scuola, tale capitale sociale venga alimentato e
arricchito.
Proprio per tali motivi in un Bilancio Sociale significativo devono essere
esplicitate le risorse relative ai costi del personale (stipendi) che, nella
contabilità delle scuole non compaiono. (Gli “utenti”, i “consumatori”, i genitori e
gli studenti, i cittadini spesso ignorano del tutto l’entità vera delle risorse
economiche messe in campo per produrre il servizio di cui sono fruitori e,
attraverso la gestione sociale, co-decisori).
Un Bilancio Sociale redatto seguendo tale schema rappresenta in modo evidente il
superamento di una rendicontazione squisitamente contabile. Si ponga attenzione
particolare al fatto che la “contabilità pubblica” che vincola la gestione delle risorse di
una istituzione scolastica, è di carattere “finanziario” e non “economico”. Dunque
incapace di esplorare la connessione tra risorse e risultati. (E trascuro qui di
considerare l’opacità progressivamente assunta nel rapporto tra Bilancio di
competenza e cassa..)
Anche per tale ragione, entro il significato più generale e complessivo della
rendicontazione sociale, si enuclea, proprio sul piano delle gestione delle risorse
economiche una responsabilità specifica del Dirigente Scolastico.
L’approccio analitico alla spesa, l’attenzione al rapporto tra spesa e risultati sia in
termini di ricerca di efficacia ed efficienza sia in termini di ricerca di ottimizzazione di
alternative, l’attenzione alle priorità sono, nella fase attuale, tratti indispensabili
dell’esercizio di responsabilità di tutti i Dirigenti Pubblici.
In assenza di tale diffuso esercizio di responsabilità, tanto il diffuso richiamo sia alla
necessità dell’investimento in istruzione (cosa diversa dalla spesa), quanto quello
(temuto) alla razionalizzazione della spesa stessa rischiano da un lato di convalidare
antichi automatismi (l’esatto contrario delle scelte di investimento); dall’altro di
rendere inevitabile editarne di nuovi sotto la
forma di “tagli”, più o meno lineari.
La vera spending review richiede invece proprio approccio analitico e determinato, e
dunque la responsabilità decentrata sui luoghi stessi della spesa.
La dimensione “sociale” della rendicontazione, anche attraverso tale responsabilità
specifica dei
Dirigenti Scolastici (nella loro “duplice” specificità messa in rilievo più sopra) assume
dunque
anche l’aspetto di “restituzione” ai cittadini sia dell’informazione appropriata, sia delle
possibilità di deliberazione, che spesso sono occultate negli automatismi che si
esercitano a tutti i livelli. dalla determinazione dei flussi di risorse pubbliche ai
“vincoli” che si fanno risalire ad “automatismi” europei. Ma il “pilota automatico” è il
contrario della “deliberazione democratica e consapevole”.
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Schema di Bilancio Sociale
Personale
Amministrazione
scolastica
Studenti e
famiglie
Enti locali
Enti locali
Le imprese
Associazioni
di cittadini ,
terzo settore
I privati
Indicatori di
performance
Valore
prodotto
In
governance
Proprie
Contabilità sociale
Personale
Servizi
Attrezzature
e impianti
Livelli
essenziali
di
prestazione
Le famiglie
La Regione
Associazioni
Altre scuole (reti,
di imprese
consorzi ecc..)
La Regione
Servizi agli
stakeholders
Stakeh
olders
Imprese ed
enti fornitori
di beni e
servizi
Risorse distribuite
Organizzazione
POF
Piano Annuale
In
governance
Risorse in Entrata
Proprie
-Valori
-Missione
-Governance
-Organizzazione
-Obiettivi generali
-Obiettivi specifici
INDIRE
Associazioni
culturali e
professionali
della scuola
Associazioni
ed enti che
operano nella
politica
culturale
INVALSI
Studenti
Famiglie
Comunità
locale
UNIVERSITA’
Enti Locali
Università
INDIRE
Personale
(formazione)
UNIONE EUROPEA
INVALSI
Imprese
Altre scuole
MINISTERO
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Le “prestazioni” della scuola e i Livelli Essenziali di Prestazione. (LEP)
In ogni organizzazione si possono (per schematizzare) valutare tre “oggetti”: i
prodotti (gli esiti, i risultati..); l’organizzazione stessa; le persone (o meglio e per
scongiurare equivoci: “le persone nell’organizzazione”).
E’ del tutto evidente che tale declaratoria costituisca uno “schema”. Vi sono ampie
sovrapposizioni e correlazioni tra i tre “oggetti”. Ma è anche vero che la
strumentazione (osservazione e misura) e i protocolli relativi sono specifici e diversi
per ciascun oggetto.
Il Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione si esercita sull’intera
declaratoria, sia pure con delimitazioni e parzialità. (Le rilevazioni si livelli di
apprendimento, le organizzazioni scolastiche, i Dirigenti scolastici).
Ho messo in rilievo in altri contributi (vedi nota bibliografica) il rischio di un
cortocircuito concettuale o di un riduzionismo delle funzioni valutative che è connesso
a improprie correlazioni (ammantate da causalità) tra i diversi oggetti della
valutazione: in particolare assumere i dati delle rilevazioni standardizzate dei livelli di
apprendimento come indicatori fondamentali, se non
esclusivi, delle “prestazioni” delle scuole; oppure correlare causalmente la valutazione
dei Dirigenti Scolastici a queste ultime. Fino a prospettare (almeno da parte di
alcuno) una correlazione causale tra tali apprezzamenti valutativi e sistema di
1
finanziamento alle scuole stesse. ( )
Rimando a quelle pubblicazioni per opportuni approfondimenti.
Vorrei solamente qui ribadire che l’apprendimento-insegnamento è certo il “cuore”
dell’attività scolastica. Ma le “funzioni “ socialmente assegnate al sistema di istruzione
sono assai vaste e circondano tale “cuore” con il valore fondamentale nell’assegnare
“significazione “ sociale al sistema di istruzione, e dunque alla attività concreta e
complessa delle scuole.
Per esempio la funzione “immaginata” e assegnata all’istruzione nella promozione
dell’eguaglianza sociale, nelle prevenzione dell’emarginazione, nella riproduzione di
valori e comportamenti, nella rielaborazione e nella dinamica della produzione
culturale, ecc..ecc…
Ma anche come condizione per “incorporare” valore tecnico e scientifico entro lo
sviluppo economico. E finanche la “significazione” assegnata all’istruzione per la
individuazione delle migliori risorse sociali, e come “canone” e “canale”
dell’avanzamento sociale
Dunque le “prestazioni” che le scuole devono mettere in campo coprono un arco assai
vasto di attività. Con tale pluralità di compiti e di significati deve misurarsi la
valutazione delle scuole come “valutazione delle organizzazioni”. Aggiungo ancora
che solamente su tale base si potrà impostare un sensato protocollo ( e definire
strumenti) di “valutazione del personale”. Posto che non si tratta
di “valutare le persone” ma di “valutare le persone in una organizzazione”.
Nel considerare nella loro complessità le “prestazioni” richieste socialmente alla
scuola torna qui prepotentemente una questione che da circa un decennio è irrisolta
e, a parte richiami più o meno sensati e operativi, giace come una “transizione
incompiuta”, nella applicazione concreta della Costituzione, Titolo V, al sistema di
istruzione.
Per oltre un decennio abbiamo dato all’opera di traduzione operativa del nuovo Titolo
V diverse etichette: dal “federalismo” alla “devoluzione”. Dal “decentramento” alla
“sussidiarietà”. E su tali etichette si è consumato un confronto tra il politico e
l’ideologico, senza che fosse data traduzione “pratica” ad uno strumento sostanziale
(tecnico e politico congiuntamente) pure previsto dal dettato costituzionale stesso.
1
Si vedano in particolare, dell’autore, i più recenti articoli reperibili on line:
“Valutazione delle scuole e rilevazioni degli apprendimenti”; “La valutazione delle scuole e lo sterco del diavolo”;
www.flcgil.it
12
“Valutazione delle scuole e il cortocircuito risultati-apprendimenti”; “Valutazione e miglioramento”, tutti sul sito
www.pavonerisorse.it , e “La valutazione delle prestazioni della scuola”; “Dieci considerazioni sulla valutazione”
entrambi sul sito www.scuolaoggi.it.
Per altre tematiche si vedano
De Anna F.,” Scuola e Rendicontazione Sociale: dal POF al Bilancio Sociale”, Franco Angeli Editore, Milano, 2005
De Anna F., “Valutare i dirigenti della scuola” Spaggiari Casa Editrice, Parma, 2006
Si tratta della definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) per il servizio di
istruzione. Ricordo in estrema sintesi alcuni elementi fondamentali.
1. La definizione dei LEP è il compito fondamentale e esclusivo dello Stato nel
sistema di competenze concorrenti tra Stato, Regioni e Autonomie Locali, e
Autonomia scolastica (tutti riconoscimenti espliciti di valore costituzionale).
Essi corrispondono a ciò che lo Stato si impegna ad erogare come servizio a tutti
i cittadini, su tutto il territorio nazionale, in risposta e soddisfacimento di un
fondamentale diritto di cittadinanza, e dunque con valore “uguale” per tutti.
Il repertorio di LEP rappresenterebbe dunque il contenuto effettivo di diritto; è la
“piattaforma” alla quale devono attenersi tutti i protagonisti del sistema di
produzione di un servizio pubblico alla cittadinanza, come “livello zero”,
essenziale dunque, della loro attività. E’ l’ancoraggio della possibilità di
esercitare davvero “equità sociale” nella produzione del servizio pubblico.
2. Poiché si tratta di “prestazioni” nella “produzione” di un servizio ai cittadini, il
repertorio non è una mera “definizione legislativa” ma ha un elevato contenuto
tecnico scientifico.
Il legislatore, nel definire tale repertorio deve cioè interrogare il mondo della
ricerca tecnico scientifica (Così si è espressa la Corte Costituzionale in una
sentenza del 2002 che riguardava il sistema sanitario).
Inoltre, come tutti i dispositivi di contenuto tecnico scientifico, non può essere
definito semplicemente una volta per tutte: o meglio la “nomenclatura” dei LEP
deve misurarsi costantemente con la “manutenzione” del contenuto reale delle
prestazioni che può variare, appunto, in relazione allo sviluppo dell’innovazione
scientifica e tecnologica (p. es. la “scuola digitale” sviluppa modalità di
erogazione dei LEP assai diverse dalla scuola “tradizionale”, esattamente come
nuove tecnologie diagnostiche o nuovi farmaci modificano il contenuto dei LEP
nella sanità).
Tutto ciò interroga dunque non solo l’attività del legislatore (clamorosamente in
ritardo nel dare corso al dettato costituzionale per la scuola: vedi attività più che
decennale della Conferenza Unificata) ma anche il mondo della Ricerca Educativa
(altrettanto in ritardo).
3. La questione LEP ha un
versante “economico” che emerge oggi
prepotentemente in primo piano, a fronte della necessità di rigore nella spesa
pubblica.
Accanto ad ogni prestazione corrispondente ad un LEP infatti si può (e si deve)
individuare un “costo”. E nel confronto “sistemico” è possibile configurare tale
costo in termini di ipotesi “standard”. (Anche tutto ciò richiede una
manutenzione ed un controllo permanente: le esperienze del Sistema Sanitario
Nazionale ce lo insegnano, nel bene –e ve ne è sotto il profilo tecnico e
scientifico, e nel male – e ve ne è sotto il profilo della gestione politica).
Il sistema della individuazione dei costi standard (non i costi “medi” della spesa
storica: si tratta di ben altro…) per i LEP è la “spina dorsale” di una sensata
politica di spesa che sappia davvero misurare convenienze, misure, risultati,
equità e recupero dei ritardi e delle inefficienze.
Dunque rispondere ai cittadini dal cui prelievo fiscale provengono le risorse. (gli
“investimenti in istruzione” da tanti invocati..). Senza tale “ancoraggio” ogni
ragionamento sul ”federalismo” o sulla “devoluzione”, ma anche sulle diverse
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tipologie di sussidiarietà o sulla “privatizzazione”, rischia di essere pura “disputa
ideologica” (per tacere di peggio), quale che sia la posizione che si assume.
La differenza fondamentale tra “razionalizzazione” (!?) della spesa, realizzata
attraverso “tagli lineari” e l’invocata “spending review” (l’intervento mirato e
chirurgico sugli sprechi) si basa esattamente su tale spina dorsale.
Si individua così, come più sopra già indicato, una “responsabilità di gestione”
che non può
essere messa in capo solamente all’autorità politico-amministrativa, ma
coinvolge l’intera filiera dei “dirigenti pubblici” (quelli scolastici compresi).
La prima opererà sempre (quasi inevitabilmente) per “tagli lineari”, agendo su
aggregati macro. La discriminazione di efficacia e produttività può essere
esercitata solo sulla composizione micro dei costi e dunque della spesa, a livello
della “attività produttiva”. Gran parte della inefficienza amministrativa non è
causata da difetti della normazione generale. Ma proprio dalla applicazione di
essa in automatismo di apparente uniformità (e neutralità), a prescindere dalla
capacità (e responsabilità) di misurarsi con la variabilità locale e settoriale della
realtà.
La possibilità di dare alle spesa pubblica efficacia ed efficienza generale e
contemporaneamente equità sociale è basata sul riferimento a Livelli Essenziali
di Prestazione garantiti ai cittadini, al livello della loro concreta produzione ed
erogazione.
4. Ma la disponibilità di un repertorio consolidato di LEP per l’istruzione avrebbe
anche un grande valore sul piano macroeconomico dei meccanismi di
finanziamento pubblico alle scuole. Consentirebbe cioè di superare l’uso di
parametri statistici (alunni, classi, docenti, ecc…) relativi certamente ai “costi
fissi” ma completamente opachi rispetto ai risultati richiesti (almeno l’erogazione
dei LEP).
La conseguenza più evidente è quella che, quando sia necessario, si operano i
“tagli” con la medesima cecità con la quale si è operata la distribuzione di
risorse.
Il finanziamento per LEP (o vincolare almeno una parte del finanziamento
pubblico ai LEP) consentirebbe anche di innescare un circolo virtuoso tra
finanziatore pubblico e produttore. Il primo sarebbe “oggettivamente”
interessato (esigenze di risparmio e di miglioramento dei criteri di
finanziamento) a sviluppare ricerca e “controllo di qualità” (valutazione…) per
dare maggiore efficacia ai meccanismi di finanziamento.
Il secondo, finanziato “a LEP” e non a parametri statistici indipendenti dal
risultato, sarebbe oggettivamente interessato a migliorare l’efficacia e l’efficienza
nella produzione di prestazioni essenziali. La maggiore efficienza ed efficacia
nella produzione delle prestazioni standard, e dunque il risparmio relativo a
parità di finanziamento, consentirebbe infatti di detenere in proprio risorse
ulteriori per il miglioramento, per l’investimento strutturale, o addirittura per la
premialità del lavoro. Un potenziamento (tra l’altro) del significato
dell’autonomia e delle responsabilità pubbliche connesse ad essa.
5. La questione LEP non può che rappresentare anche il riferimento
fondamentale (appunto il “livello zero”, essenziale) della valutazione delle
organizzazioni scolastiche.
Non c’è effettiva valorizzazione dell’autonomia scolastica, dopo oltre un decennio
di dinamica regressiva che, dopo i primi anni di entusiasmo e impegno, ne ha
corroso i significati lasciando operare le più tradizionali dinamiche accentratrici
del gestore ministeriale, se il “significato sociale” della scuola autonoma non si
radica nella sua capacità (dimostrata) di erogare “almeno” i Livelli Essenziali di
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14
Prestazione corrispondenti al contenuto reale del diritto di cittadinanza
assicurato in modo eguale dallo Stato.
Altrimenti quella della difesa della “scuola pubblica” è solo una “invocazione” o si
limita a fare riferimento ad una “garanzia di proprietà” (E’ “pubblico” solo ciò che
è proprietà dello Stato?). La “superiorità” della dimensione “pubblica” non ha
carattere “ontologico”. Ma va affermate nella realtà attraverso il concreto
operare.
Dunque il repertorio dei LEP è la base stessa di ogni protocollo valutativo delle
organizzazioni scolastiche.
Il repertorio di LEP (con la sua composizione tecnica e la sua manutenzione che
sono oggetti di ricerca costante ) è ciò che può definire un “oggetto standard” di
valutazione; il focus delle misure di adeguatezza e appropriatezza del
funzionamento e del prodotto dell’organizzazione scolastica.
6. Ma la definizione di un sensato repertorio di Prestazioni Essenziali che le
scuole, nella progettazione della loro attività e nella operatività concreta, devono
tenere come “bussola” fondamentale, è una “impresa tecnico scientifica” e non
solo politico legislativa (come ricordato).
Quella definizione dovrebbe vincolare l’opera e l’impegno di tutti i protagonisti
della governance del sistema di istruzione prevista dal Titolo V: lo Stato, le
Regioni e le autonomie territoriali, le Istituzioni Scolastiche autonome.
E’ dunque una “impresa tecnico scientifica” che coinvolge, sia pure con ruoli
diversi i protagonisti stessi: dagli Istituti della Ricerca Educativa (INVALSI e
INDIRE) che dovrebbero operare come “tecnostrutture” al servizio dell’intero
sistema di governance e non come “enti funzionali” del Ministero, alle scuole
stesse che sono il soggetto che consente la “ricerca sul campo” e che la
alimenta.
(Chi voglia approfondire, guardi come esempio il Sistema Sanitario e il ruolo che
nella sua governance ricoprono gli istituti come l’agenzia nazionale per i sistemi
sanitari regionali, l’agenzia nazionale del farmaco, l’Istituto Superiore di Sanità,
ed il collegamento con quanto avviene sul campo nelle Aziende sanitarie e negli
ospedali)
Ricordo, sempre in riferimento analogico al sistema sanitario, che in esso il
repertorio dei Livelli Essenziali di Assistenza si alimenta continuativamente dalle
rilevazioni che partono dalle stesse cartelle sanitarie dei pazienti, oltre che da
esiti validati della ricerca scientifica nazionale e internazionale.
Dunque la determinazione della declaratoria, del repertorio, e sopratutto dei
contenti operativi dei LEP costituisce sia una filiera di ricerca che parte sul
campo, nelle scuole stesse, sia una filiera decisionale che certamente fa
riferimento allo Stato (sono sua competenza normativa) ma coinvolge l’intero
sistema di Governance.
Poiché si tratta (anche) di un “oggetto” di ricerca, l’importante è darvi concreto avvio
e sperimentare. Non si può attendere che “tutto sia perfetto” prima di cominciare
(Nella ricerca non è mai così).
Di seguito propongo una ipotesi di “matrice” dei LEP per l’istruzione. Con le seguenti
avvertenze di lettura.
• Si tratta di una ipotesi e dunque è largamente falsificabile per quanto attiene ai
suoi contenuti.
• E’ costruita disaggregando l’attività della scuola in “macroaree” nelle quali sono
raggruppati i “servizi” che una scuola rende (o dovrebbe rendere ) ai suoi
utenti-cittadini.
• Per ogni macroarea si esplicitano tali servizi e, nella matrice, se ne indicano
per il possibile sia i titolari (non di tutti i servizi, pure erogati all’interno della
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15
•
•
•
scuola, è diretta responsabile la scuola), sia le misure di apprezzamento.
Viene infine indicata, come ultima colonna della matrice quella della definizione
(oggetto di sperimentazione sul campo) del “costo” per prestazione.
Si tratta di uno schema che vuole avere soprattutto valore esemplificativo. La
sfida è quella di completare la matrice definendo in modo sempre più
esauriente ed appropriato il contenuto di ciascuna cella.
Come già indicato più sopra, alcune celle, e in particolare quelle riferite alle
due ultime colonne, possono essere riempite di contenuto solamente sulla base
di una attenta, diffusa e ripetuta “analisi sul campo” (ricerca).
Ipotesi di matrice dei LEP nella Scuola
Macroaree di
servizio
Nomenclatura
singole
prestazioni
Titolari
Attività per
prestazione
Misura delle
prestazioni
Protocolli
Standard
Impianti fissi
Spazi adeguati e
conformi
all’attività di
istruzione
Enti
territoriali
Adeguatezza spazi
pro capite
Superficie e
volumetria
Certificazione
Agibilità
Certificazione
Sicurezza
Certificazione
Spazi attività
ordinaria
Superficie e
volumetria
Spazi attrezzati
sportivi
Superficie e
volumetria
Costi
standard
per LEP
Attrezzature
Laboratori
Superficie e
volumetria
Attrezzature
Spazi collettivi
Istituzioni
scolastiche
Tipologia
Cablatura
informatica
Accesso
al servizio
Accoglienza e
inserimento
Informazione
preventiva e
promozionale
delle scelte dei
cittadini
Istituzioni
scolastiche
Fruibilità del
servizio
Enti
territoriali
Valutazione di
ingresso
Informazione
diagnostica
individuale
Comuni
Istituzioni
scolastiche
Istituzioni
scolastiche
Superficie e
volumetria
Edificio
Certificazione
Spazi dedicati
Certificazione
Manutenzione
ordinaria
Ore lavorate
Documentazione
Completezza,
significatività
Sportello pubblico
Tempi di
apertura
Trasporto Pubblico
Tariffe
Trasporto
Dedicato
Tariffe
Valutazione
conoscenze
Ore di lavoro
dedicato
Test
apprendimento
Valutazione
capacità, attitudini,
competenze
Ore di lavoro
dedicato
Test
psicodiagnostica
Profilo individuale
Ore di lavoro
dedicate
Test di
personalità
Documentazione
individuale
Ore di lavoro
dedicate
Scheda
diagnostica
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16
Organizzazione
dei servizi
all’utenza
Progettazione
formativa
offerta agli
utenti
Rendicontazione
pubblica delle
risorse utilizzate
Assistenza e
consulenza agli
utenti
Istituzioni
scolastiche
Istituzioni
scolastiche
Istituzioni
scolastiche
Stesura del POF
Ore di lavoro
dedicate
Documentazione
interna del piano
Completezza,
coerenza,
significatività
Documentazione
esterna del piano
Format
dedicati per
interlocutori
Rendicontazione
sociale
Documentazione
interna del piano
Completezza,
coerenza,
significatività
Rendicontazione
sociale
Documentazione
esterna del piano
Format
dedicati per
interlocutori
URP
Ore dedicate
Sportelli dedicati
Ore dedicate
Tutoring
individuale
Ore dedicate
Macroaree di
servizio
Nomenclatura
singole
prestazion
Titolari
Attività per
prestazione
(continua)
Misure di diritto
allo studio
Enti
territoriali
Erogazioni
economiche
Misura delle
prestazioni
Protocolli
Standard
Costi
standard
per LEP
Erogazione servizi
Esenzione spese
Insegnamento e
apprendimento
Erogazione
Insegnamenti
comuni
N.B la matrice va
espansa per ogni
area/disciplina
Istituzioni
scolastiche
Erogazione
Insegnamenti
complementari
Istituzioni
scolastiche
Attività di aula
Esercitazione
laboratorio
Insegnamento
invidualizzato
Attività di aula
Esercitazione
laboratorio
Insegnamento
invidualizzato
Erogazione
insegnamenti
opzionali
Istituzioni
scolastiche
Attività di aula
Erogazione
attività formative
integrate
Istituzioni
scolastiche
Orientamento
professionale
Sistema FP
Percorsi formativi
integrati
Esercitazione
laboratorio
Stage lavoro
Erogazione
insegnamenti ad
esito certificabile
“esterno”
Istituzioni
scolastiche
Servizi offerti
all’apprendimento
Istituzioni
scolastiche
Certificazioni
Attività di aula
Esercitazione
laboratorio
Biblioteca
Consistenza
giacimenti
Ore uso pro
capite
Spazi
multimediali
Consistenza
giacimenti
Ore uso pro
capite
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Documentazione
esiti formativi
Raccordo
intersistemico
Aule studio
Ore uso pro
capite
Agibilità e
appropriatezza
spazi
Documentazione
esiti
apprendimento
Istituzioni
scolastiche
Misura delle
conoscenze
acquisite
Uso
strumentazione
valutativa
“oggettiva”
Schede
valutazione
Documentazione
competenze
Istituzioni
scolastiche
Descrizione
capacità, attitudini
competenze
Uso
strumentazione
psicodianostica
Portfolio
competenze
Orientamento
formativo
Istituzioni
scolastiche
Università
Sistema FP
Informazione
Istituzioni
scolastiche
Sistema FP
Informazione
Orientamento
professionale
Documentazione
Documentazione
Esperienza stage
Sul Regolamento del Sistema di Valutazione Nazionale: INDIRE,
INVALSI ed altro
Il Regolamento del Sistema di Valutazione Nazionale e i processi di sua
sperimentazione in corso, sono oggetto di prese di posizione, di critiche, di giudizi
ormai consolidati e non mi appassiona affatto tornare analiticamente su di essi.
Ma soprattutto (vedi le “premesse di valore”) ritengo occorra essere consapevoli che
su ogni sensato rilievo critico pesi come un “carico improprio” l’effetto di schieramenti
pregiudiziali che poco hanno a che fare con l’analisi determinata e molto invece con i
fantasmi che la valutazione sempre evoca: la paura, la fuga, l’ansia, la negazione da
un lato, e la ricerca di affermazione, vantaggi lucrativi, opportunismi dall’altro.
Ritengo che il decreto relativo sia sufficientemente “a maglie larghe (avrebbe potuto
esserlo di più e più appropriatamente: in realtà mescola maglie larghe con alcune
puntualizzazioni francamente inutili) da consentire potenziali di traduzione operativa
interessanti.
Ad alcune condizioni però.
1. Quelle (supposte) maglie larghe e il loro potenziale operativo vanno riempite
di contenuti culturali, scientifici, tecnici appropriati. Certo ciò investe il ruolo
dell’INVALSI e il suo “consistere” tecnico.
Ma io credo sia necessaria una vera e propria “operazione culturale” che coinvolga
il “popolo della scuola”, sia in termini di condivisione culturale, sia in termini di
vera e propria elaborazione, sperimentazione (penso per esempio alle diverse
esperienze di autovalutazione rielaborate da anni nelle scuole).
Ma quale “organizzazione della cultura” (Gramsci) può presiedere a tale
mobilitazione di risorse culturali, professionali, scientifiche? A me pare questo il
punto di maggiore preoccupazione: quando osservo le aggregazioni della
“organizzazione della cultura” nella scuola (dall’associazionismo, al sindacato
stesso, agli stessi punti di aggregazione web) e le posizioni che elaborano (le
“proposte” sono di fatto inesistenti, e le pregiudiziali molte) devo resistere alla
tentazione di considerare la partita come irrealizzabile.
2.
La questione dell’assetto istituzionale dell’INVALSI va risolta una volta per
tutte. E similmente quella dell’INDIRE.
Da oltre un decennio siamo in sostanza in una permanente fase di transizione
istituzionale, di “gestioni provvisorie”, di soluzioni parziali.
Non si tratta solamente di garanzie di terzietà del valutatore. Si tratta di
riconfigurare l’intero assetto della Ricerca Educativa e di affermarne l’autonomia
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18
rispetto al decisore amministrativo e politico.
Il piccolo pasticcio contenuto nel Decreto sul Sistema di Valutazione sulle funzioni
esercitate dal Ministero e quelle dell’INVALSI non si risolve infatti attraverso una
correzione di avverbi o di affermazioni sovrapposte.
Torno a sottolineare che la Ricerca Educativa (quella valutativa compresa) va
configurata come “tecnostruttura” al servizio dell’intera governance. (Si potrebbe
copiare assennatamente dal sistema sanitario nazionale? Vedi funzioni
dell’AGENAS, della agenzia del farmaco, dell’Istituto superiore di Sanità…ci sono
ispirazioni abbondanti, non tanto per scimmiottare, ma almeno per trarre
ispirazione per criteri di fondazione sistemica della Ricerca Educativa). Tra l’altro
la stessa pluralità dei referenti della tecnostruttura rappresenterebbe una
ulteriore garanzia operativa della terzietà reclamata, superando la “strumentalità”
del rapporto tra Istituti della Ricerca Educativa e Ministero (non il solo
committente..)
3. Nella fase di “sperimentazione” del Sistema Nazionale di Valutazione (VALES
ed altro) si stanno sovrapponendo come già sottolineato diversi protocolli che si
riferiscono a diversi “oggetti” di valutazione. In particolare un segmento di
valutazione delle persone (i dirigenti) con gli altri segmenti (valutazione delle
organizzazioni, valutazione dei livelli di apprendimento). Nulla a cui non si possa
ovviare, sia in corso d’opera di sperimentazione,sia attraverso la “valutazione
della strategia pubblica” interpretata nelle sperimentazione. Ma ciò richiede
attenzione tecnico-politica ravvicinata e disponibilità scientifica alla falsificazione
dei risultati stessi della sperimentazione. Il “decisore politico” farebbe bene a
stare lontano da tale dimensione, nei suo stesso interesse; così come il
protagonista “tecnico” deve disporsi a diagnosticare anche in termini “politici”
(policy, non politcs)
Ai “tecnici” dico solo: attenzione a prendere contraffazioni del passato,
ribattezzarle con nomi nuovi e chiamare tutto ciò “innovazione”. Sono più di dieci
anni che si sperimentano protocolli di valutazione dei dirigenti scolastici mai
andati a regime; e più ancora sono gli anni passati dalle sperimentazioni
autonome di autovalutazione delle scuole.
4.
Il rilievo critico qui appena accennato ai rischi di impropria mescolanza di
protocolli e strumenti e di “riduzionismo” che possono caratterizzare alcune
sperimentazioni del Regolamento (per analisi più estese rimando alla bibliografia
ricordata) acquista particolar e pienezza rispetto al segmento mancante del
mosaico valutativo: quella che viene indicata come “terza gamba” del sistema e
cioè gli osservatori sul campo.
Non li indico come “ispettori” anche se tale è espressamente la “prima scelta”
operata dal Regolamento, perché sono intimamente convinto che una “qualifica di
ruolo” non possa sostituire una reale competenza operativa. E quella del
“valutatore” è una competenza professionale vera e propria.
Né la valutazione delle organizzazioni, né tanto meno la valutazione delle persone
nell’organizzazione sono esauribili attraverso strumenti “a distanza” come
questionari o report di “autocompilazione”. Neppure in presenza di flussi di dati
“oggettivi”, per altro prodotti da un singolare circuito: le scuole forniscono dati
(contabili, popolazione, classi, ecc) al “sistema informativo” e quest’ultimo li
“restituisce” alle scuole stesse come “piattaforma” per una autovalutazione che
viene
così
esentata
dall’impegno
qualificante
(chi
ha
sperimentato
l’autovalutazione lo sa bene) di raccoglierli e “ragionarli” commisurandoli alla
propria realtà effettuale.
Sia detto per inciso: proprio quell’impegno rappresenta invece uno degli elementi
che fa dell’autovalutazione non un adempimento ma un indicatore della
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“propensione” al miglioramento, come ho ricordato in precedenza.
Ma sia la valutazione delle organizzazioni sia quella delle persone si esercitano su
fattori che non possono che essere osservati ed apprezzati nel rapporto
ravvicinato e sul campo. Per esempio la “cultura organizzativa” che, in una scuola
come in ogni organizzazione rappresenta la mediazione fondamentale (anzi la
serie di mediazioni) tra l’operare dei singoli e i significati complessivi elaborati
collettivamente, e dunque “media” e costruisce le “ragioni” profonde delle scelte
di strategia, dell’operatività concreta, dei risultati.
Oppure, nel caso delle persone, i tratti specifici di competenza (abilità,
conoscenze, attitudini, esperienze personali, interpretazioni di ruolo..), che
costituiscono l’insieme delle condizioni per le quali una persona è quella “giusta al
posto giusto”.
Compresa l’attenzione alla variabile “tempo” che sia per le organizzazioni che per
le persone, rappresenta la dimensione operativa essenziale, dalla quale
dipendono grandemente i risultati, e che, ogni strumento di rilevazione a distanza
rischia di appiattire.
Questo (l’assenza della “terza gamba” e di assennati protocolli osservativi sul
campo) mi pare un elemento di debolezza fondamentale in questa fase anche
nella sperimentazione del Regolamento.
Non è impresa di poco conto definire, scegliere, formare un numero congruo di
“osservatori- valutatori”; né tanto meno si può esaurire nell’individuare un
“ruolo”, quello degli ispettori, per altro più che sguarnito.
Individuare, formare questi osservatori e definire strumenti e protocolli di
osservazione sul campo rappresenta probabilmente l’impresa di maggiore
rilevanza per costruire il Sistema di Valutazione. Si aggiunga inoltre che
formazione e selezione degli osservatori devono accedere ad una dimensione di
“certificazione professionale”, come è indispensabile che sia per il lavoro che sono
chiamati a svolgere (Un valutatore non certificato non è in grado di attenuare
alcuna delle tensioni inevitabili che la valutazione innesca e dunque promuoverne
l’accettabilità sociale).
5. Non mi preoccupano però gli eventuali “difetti” tecnico scientifici dell’INVALSI.
Metodologie, strumenti, protocolli possono e devono essere sempre migliorati. Di
ricerca si tratta. E, d’altra parte, sono convinto che l’atteggiamento di reclamare
che gli strumenti siano i “migliori possibili” prima di applicarli sia semplicemente
strumentale al rinvio di un impegno scomodo e faticoso come la valutazione.
Quello che preoccupa (oltre alla vastità del lavoro e dell’impegno che tutto ciò
richiede) è il possibile isolamento “tecnico” del problema.
Si potrebbero infatti elaborare gli strumenti tecnici migliori possibili, ma essi
sarebbero semplicemente mandati fuori bersaglio (opposizione pregiudiziale e/o
conformizzazione opportunistica, l’esito sarebbe il medesimo) se gli Istituti della
Ricerca Educativa configurassero il rapporto con le scuole (e con gli operatori
della scuola) interpretando un soggetto, centrale e lontano, che “distribuisce”
adempimenti all’intero sistema .
Ciò vale per il “valutatore” (INVALSI), ma anche per il “consulente” (INDIRE). Si
tenga conto che la “consulenza” è, per antonomasia, una attività “on demand”, e
mai può essere intesa, pena la sua inefficacia, come “imposta”.
Si tratta di una questione di “politica”, ma non voglio porla in questi termini a
interlocutori che si configurano come “tecnici”. Mettiamola così: la Ricerca
Educativa (INVALSI e INDIRE)
e massimamanete quella valutativa devono
investire in marketing e in fidelizzazione verso i propri “clienti”.
Se al contrario si configura come un “monopolista” che detiene potere e controllo
sui costi e sui prezzi, lucrando sulla sua posizione di monopolio, non mette in
discussione semplicemente il consenso sulla sua attività (potrebbe non essere
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una preoccupazione, anche se sarebbe segno di miopia), ma compromette le
condizioni per il successo della sua stessa mission.
Per ora per esempio, l’INVALSI gioca il suo ruolo nella dialettica tra due
interlocutori: il Ministero da un lato, le scuole dall’altro.
Deve (almeno) “bilanciare” tale dialettica, in attesa che anche istituzionalmente si
costruisca il completo riferimento con il complesso del Sistema di Istruzione e la
sua governance. (Vedi sopra).
Se, nella gestione di tale dialettica, non “conquista” le scuole e il popolo della
scuola, gli rimane un unico interlocutore che, oggi, si configura come il “padrone”.
E non è certo una condizione ottimale per un ricercatore che tiene alla sua
autonomia scientifica.
Ma è anche un interrogativo cruciale per il Sindacato come un essenziale
“organizzatore della cultura” del popolo della scuola.
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