UNIVERSITÀ
DELLA
TERZA ETÀ
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IL GABBIANO FELICE n°67
Dicembre 2015
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A cura dei docenti, assistenti e alliev
dell’Unitre di Mestre-Venezia
08/12/15 11:40
BILANCIO SINTETICO - 2014/2015
RICAVI
QUOTE ASSOCIATIVE
59.355,00
CONTRIBUTI PER ATTIVITA'
2.440,71
ALTRE ENTRATE
187,08
61.982,79
COSTI
RIMBORSO SPESE DOCUMENTATE
12.678,57
ASSICURAZIONI
1.014,50
ACQUISTO SERVIZI
3.428,85
MATERIALE DI CONSUMO
1.770,42
UTENZE
1.602,09
GODIMENTI TERZI
21.227,99
SPESE GENERALI
2.118,03
ONERI FINANZIARI
50,40
ONERI STRAORDINARI
752,00
ATTIVITA' ISTITUZIONALI
969,40
ORGANIZZ. MANIFESTAZIONI E CERIMONIE
3.943,45
STAMPATI
5.592,47
ACQUISTO BENI DUREVOLI
819,21
AMMORTAMENTI
2.210,32
ACQUISTO BENI NON DUREVOLI
816,56
ACCANTON. ACQUISTI FUTURI
2.800,00
61.794,26
Avanzo di Gestione
188,53
Lettera inviata al Signor Presidente e, per conoscenza, alla redazione di "Il Gabbiano Felice"
Egregio Signor Presidente,
ero tra i pochi presenti all'assemblea del 14 Novembre al Pacinotti.
Mi interessava essere aggiornata e sentire i vari resoconti dalla viva voce di chi è a capo, perché i
passaparola di corridoio sono spesso inaffidabili.
Se ho capito bene, le risorse per "Il Gabbiano", se pur ridotto nel numero delle pagine per la perdita
dello sponsor, ci sono. Ne sono felice perché, data la "gioventù" dell'utenza, la versione solo on-line
mi lasciava perplessa. In primavera, dopo ciò che mi era stato detto da più parti, mi ero sentita quasi
responsabile di una possibile "bancarotta" dell'UNI 3, per i costi di stampa!
Per quanto riguarda i viaggi, nel futuro si chiederanno i preventivi a tre diverse agenzie, nell'intento
di evitare l'assegnazione "a pioggia", un po' qui e un po' lì. Molto bene, spero che programmi e costi
arriveranno contemporaneamente e in busta chiusa, per non autorizzare nessuno a pensare quello che vuole...
Con osservanza e simpatia, Le auguro buon lavoro.
Marilena Babato Grienti
della redazione del "Gabbiano"
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17 Novembre 2015
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Numero 67
Dicembre 2015
Sommario
Bollettino non
periodico a cura
dell’Unitre di MestreVenezia a diffusione
interna gratuita
II di copertina
Estratto del Bilancio 2014-2015
a cura del Comitato di Gestione
2
Le matrioske
Direttore
Gianfranco Pontini
Comitato di
Redazione
Marilena Babato Grienti
Vanda Bacci
Sandro Galante
Antonio Socal
Androniky Stavridis
Segretaria di
redazione
Carla Tozzato
Progetto grafico e
impaginazione
Sandro Galante
di Marilena Babato Grienti
4
Dolci ricordi di un tempo passato
di Anna Maria Campagnolo
6
Dammi la mano
Orario segreteria:
Lunedì, Mercoledì,
Venerdì dalle ore
9.30 alle 11,30
Stampa
Stamperia CETID
via F.Mutinelli 9
30173
Venezia - Mestre.
di SanBal
15
Fare chimigrammi
di Sandro Galante
17
Cosa hanno detto
dai partecipanti al workshop
di Annabella Giri
7
Una bella.....quarta età
di Chiara Canal
19
Viaggio in Istria (II e ultima parte)
di Gianfranco Pontini
24
Libri - a cura di Niky
9
Non solo Expo
III di copertina
Musica - a cura di Annamaria
11
La danza orientale
l’indirizzo email della redazione è:
di Caterina Seguso
di maria Grazia Carniello
Università della
Terza Età
via Cardinal Massaia
30170
Venezia - Mestre
Telefono:
041.95.08.44
www.unitre-mestre.it
[email protected]
[email protected]
[email protected]
13
Poesie
Casa Mia
Il non altro
[email protected]
EDITORIALE
L’accorcia vacanze
Riuscito! L’esperimento “accorcia vacanze”
ha funzionato ed è andato benissimo.
Per la prima volta quest’anno il corso di
fotografia del prof. Galante è iniziato un
mese prima dell’apertura ufficiale dei
corsi, l’ultima settimana di settembre per
quattro incontri, il giovedì pomeriggio, sul
tema: “Fotografia creativa. Dall’analogico
al digitale attraverso i chimigrammi,
fotogrammi e scansiogrammi”.
Tutto ha avuto inizio quando, lo scorso
anno alla fine del corso di fotografia, una
signora ha verbalizzato quello che molti, da
tanto tempo, pensavano: cinque mesi di
(continua a pagina 14)
Corsisti Unitre al lavoro durante il workshop di cui si parla
nell’editoriale e nell’articolo a pagg. 14-18
1
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narrativa
O
gni anno, nell’ultimo fine settimana di Ottobre, a Castelmura,
elegante cittadina ai piedi dei colli, si teneva un “Mercatino
europeo”.
Nell’occasione si trovavano, nei numerosi stand allineati lungo i portici
del borgo storico, i più svariati prodotti provenienti da paesi più o
meno lontani: alle birre danesi si alternavano i maglioni norvegesi,
ai formaggi francesi le ceramiche inglesi, alle nacchere e ai ventagli
spagnoli gli zoccoletti olandesi, ai dolci e salumi austriaci i leprecon,
dispettosi folletti irlandesi con la barbetta color carota, vestiti di verde …
C’era solo l’imbarazzo della scelta e il clima festoso invogliava a fare
acquisti. Roberta, a passeggio con mamma e papà, passava da un
banchetto all’altro, incuriosita.
Davanti a uno degli stand russi si fermò di colpo, colpita da quelle
strane bamboline di
legno che facevano
bella mostra di sé tra
colbacchi di pelo di
volpe e icone di santi
e madonne.
- Papà, guarda che bambole strane, si aprono e vanno una dentro
l’altra. Come sono belle!- L’uomo ne prese in mano un paio, le guardò
ben bene e si rese conto che erano prodotti abbastanza dozzinali,
dipinti in modo approssimativo.
- Ti piacciono? - Oh sì, me le comperi? - Ehi, signorina, pensi che basti chiedere per ottenere? Le matrioske
LE
MATRIOSKE
2
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di Marilena Babato Grienti
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Tra un oh e un ah di meraviglia, vera o presunta, grida
di bambini eccitati e tanta confusione la serata passò,
in un surrogato di normalità.
La mattina di Natale Roberta aiutò la mamma a
mettere ordine nella stanza. Raccattando ciò che era
stato sparpagliato la sera precedente si accorse che,
vicino all’albero, nascosto da carte e cartine natalizie
stropicciate, c’era un pacchetto non aperto.
- Mamma, c’è un altro regalo qui, ieri non ce ne siamo
accorti. - Chissà dov’era finito, guarda da chi viene e per chi è. - Non c’è biglietto. - Allora aprilo, vediamo un po’ cosa c’è. Roberta aprì il pacco e tirò fuori una grande matrioska:
l’aprì e ne fece uscire le altre, sempre più piccole.
Erano bellissime, avvolte nei loro splendidi costumi dipinti.
– Mamma, mamma, guarda cos’ho trovato! Le
matrioske! Me le manda papà, ero sicura che avrebbe
mantenuto la promessa! Rimise le bamboline una dentro l’altra e strinse la più
grande tra le braccia.
Carla, di fronte a tanta beatitudine, si sentì
ampiamente ripagata della fatica fatta, nelle
ultime settimane, per procurarle “quel regalo”. Per
condividere la gioia con sua figlia prese in mano la
bambola: allibita, si rese conto che non era quella,
coloratissima, che lei aveva scelto e poi nascosto con
cura, ma un’altra, tutta bianca, azzurra, blu e argento.
Forse la commessa aveva fatto confusione e aveva
incartato un’altra scatola, forse non si erano capite,
forse…ma cosa andava mai a pensare!
Riaprì le matrioske, le mise in fila e le guardò: sui
faccini tondi con le guance segnate da rosei pomelli, le
bocche erano atteggiate a un sorriso enigmatico.
narrativa
piacciono anche a me, ma queste non mi sembrano un
gran che. Facciamo un patto: tu continua a fare la brava e
ti prometto che per Natale arriveranno.- Me lo prometti davvero? - Promesso, parola di papà, giurin giurello!Era sempre difficile, per lui, resistere ai desideri di
quella cuccioletta che se lo “comprava” con un sorriso
e una carezza. Il papà di Roberta lavorava per l’ufficio
vendite di un’importante ditta di elettrodomestici.
Viaggiava parecchio e ciò gli piaceva, anche se, qualche
volta, dei posti dove lo mandavano non riusciva a
vedere che aeroporti, hotel e sedi estere.
A Novembre era in programma un incontro di lavoro
in Russia, ecco perché aveva fatto quella promessa a
sua figlia. Ricordava di aver visto delle matrioske molto
belle, diverse dalle solite, dipinte di bianco, azzurro,
blu e argento, a Mosca, in una delle boutique dell’hotel
dove si era fermato altre volte. Quel viaggio in Russia,
però, non ci fu, e non ce ne sarebbero stati altri
perché, in un banale incidente, l’uomo perse la vita.
Aveva macinato distanze enormi, tornando sempre
sano e salvo, ed era desolante pensare che si fosse
fermato in un modo così stupido, a due passi da casa.
Passarono le settimane e si avvicinò Natale. Nonni e
zii convinsero Carla, la mamma di Roberta, a ritrovarsi,
come avevano sempre fatto, per la vigilia: avevano tutti
il morale a terra ma lo dovevano fare soprattutto per i
numerosi bambini del parentado che a quell’incontro,
che anno dopo anno era diventato un vero rito
familiare, ci tenevano moltissimo.
Così, come negli anni precedenti, sotto l’albero
addobbato si ammucchiarono, raccolti in un cestone
laccato di rosso, pacchi e pacchettini coloratissimi e
infiocchettati: ognuno aveva un bigliettino con il nome
del destinatario e quello del donatore.
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Ricordi & riflessioni
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Oltre la cappella c’era
anche la pesa pubblica.
Il piazzale chiudeva
a forma di conchiglia
queste modeste
abitazioni e tutto intorno
era campagna.
di Anna Maria Campagnolo
L
a grande e bella casa della mia infanzia doveva essere
ristrutturata dopo il disastroso bombardamento nel giorno di
Santo Stefano del ‘44, perciò la casa di periferia acquistata dai
nonni, divenne anche la nostra. Li raggiungemmo circa due anni dopo
la fine della guerra.
L’abitazione faceva parte di un borgo di vecchie costruzioni a schiera,
la nostra finiva il complesso ed era una porzione stretta e alta;
c’erano: il piano terra, un primo piano e le soffitte. Era attorniata da
un grande spazio verde. Prima che i nonni la acquistassero, era una
locanda e la scritta sul muro s’intravvedeva, ancora, sotto la pittura
data superficialmente.
La cosa buffa era che ogni tanto, durante il mercato settimanale del
bestiame nel vicino “foro-boario”, qualcuno entrava chiedendo a
gran voce da bere.
Con le mie sorelle eravamo molto divertite da questi equivoci, ma
non solo questo ci rasserenava, eravamo tornate con i nonni in un
ambiente rurale chiassoso e movimentato. Perfino le contrattazioni
dei sensali, con il loro rituale, erano per noi fonte d’ilarità.
Le abitazioni del borgo avevano tutte uno scoperto e davanti c’era un
piazzale chiamato S. Antonio per una chiesetta in onore del Santo.
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Tina Modotti
(1896-1942)
Mani di lavandaia - 1929
Ricordi & riflessioni
Nel grande orto oltre ogni tipo di ortaggi,
c’erano diversi alberi da frutto come nocciolo, fico, melo e filari di
vite. Sul retro, diviso da un recinto c’era il pollaio
con galline, oche e tacchine; nelle gabbiette, conigli grigi e
bianchi e, chiuso da uno steccato, grugniva perfino un maiale
Oltre la cappella c’era anche la pesa pubblica.
Il piazzale chiudeva a forma di conchiglia
queste modeste abitazioni e tutto intorno era
campagna.
Dal cancello antistante, si entrava in casa
attraverso un vialetto e in primavera nei
bordi del viale fiorivano molti gigli e rose
che inebriavano l’aria con il loro profumo. La
nonna, un donnino dolce, con una crocchia di
capelli bianchi, sempre vestita di nero, gestiva
tutto. Solo in certe mansioni, più pesanti, era
aiutata da qualche operaio contadino.
Nel grande orto oltre ogni tipo di ortaggi,
c’erano diversi alberi da frutto come nocciolo,
fico, melo e filari di vite.
Sul retro, diviso da un recinto c’era il pollaio con
galline, oche e tacchine; nelle gabbiette, conigli
grigi e bianchi e, chiuso da uno steccato, grugniva perfino un maiale.
Quando il maiale o altri animali passavano, per la nostra sopravvivenza,
a miglior vita, non mancavano i pianti delle mie sorelline che li
consideravano di famiglia. Quando per casa si espandeva un buon
profumo di pollame arrosto o in umido, secondo antiche ricette della
nonna e in cantina facevano bella mostra tutte le delizie del maiale,
nessuno resisteva e non si rimpiangeva più il sacrificio degli animali.
La primavera portava nuove nascite, era una gioia veder uscire dalle
covate batuffoli gialli di pulcini, ochette o tacchinelle; anche i coniglietti
erano una delizia. Nel grande orto-giardino non c’era solo questo: la
gatta allattava i suoi piccoli e un cagnolino correva libero.
Intorno al borgo era campagna con case coloniche. Vicino a casa
c’era un grande fossato alimentato da una sorgente, dove le donne,
con grandi ceste di biancheria andavano a sciacquare i panni
precedentemente immersi e lavati.
Ogni giorno andavamo a rifornirci di latte da una famiglia di contadini
che nella stalla sotto i nostri occhi mungevano le mucche. Il latte nel
contenitore era tiepido e lo portavamo a casa per essere bollito. Una volta
raffreddato formava in superficie un grosso strato di panna che, raccolta in
una bottiglia di vetro e sbattuta a lungo, ci dava dell’ottimo burro.
Dai contadini ci fornivamo anche di farina di granoturco per la
polenta e di frumento per pane e dolci. Nella campagna c’erano molti
alberi di gelso e noi bimbi ci divertivamo ad arrampicarci per mangiare
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Ricordi & riflessioni
le gustose more bianche o nere.
I contadini invece, con il fogliame del gelso facevano una
raccolta per coprire le larve dei futuri bachi da seta.
Le larve erano depositate nelle stuoie, in un ambiente caldo, in
prossimità della stalla e deposte in grandi telai di legno accatastati.
Dopo un certo periodo si formavano i bozzoli e questi venivano
portati alla filanda per ricavarne preziosi fili di seta.
Subito dopo Natale, nelle settimane che precedevano
l’Epifania, i contadini nell’aia o in altro spazio aperto,
accumulavano fasci di legna per fare un grande falò la sera
del cinque gennaio. Verso il tramonto la gente del borgo
andava ad assistere al rogo del falò.
Cantavamo vecchi cori propiziatori di antica tradizione
“evviva il pane e vin la festa sull’ arin, la pinza sul fondal,
evviva il carneval……” Queste invocazioni servivano, perché
la direzione del fumo fosse di buon auspicio per il raccolto.
I contadini riconoscenti uscivano con grandi teglie di pinza
e profumato vin- brulè che offrivano a tutti. Avevamo
invece fretta di mangiare la pinza, per poi correre in
un’altra campagna dove cantare ancora a squarciagola
e farci offrire altra pinza. La sera del “Pan e Vin” era per
noi una delle più belle serate dell’inverno, il caldo del
fuoco, il profumo del vino e il dolce sapore della pinza
ci riempivano l’anima di una gioia che a distanza di anni
ancora mi commuove. Tutti quei fuochi di quella notte
magica, illuminavano la pianura e la collina perché in ogni
campo o casa c’era un falò. Finalmente, dopo la guerra,
questo sapore di cose semplici dava un senso alla vita.
Dammi La Mano
di Annabella Giri
U
n gruppo di giovani (giovani di circa 50 anni or sono) mi
chiese allora se volevo partecipare ad una missione di
volontariato, accettai l’invito.
Ci si doveva recare in un Istituto di bambini disabili. Dedicavamo a
essi un giorno la settimana, assai poco in confronto alla gratificazione
che questo semplice gesto ci procurava. I bimbi ci accoglievano con
grande riconoscenza; noi, con i nostri esigui risparmi, acquistavamo
per loro piccoli doni.
L’Istituto era accogliente, piacevole, circondato da un bel giardino. Tra
i piccoli disabili c’era anche una bambina del tutto particolare perché
vittima del Talidomide, al posto delle braccia aveva due piccoli
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Io, presa dall’angoscia, mi fermai all’improvviso.
La bimba disse: “Andiamo avanti”.
Mentre attraversavo la stazione per recarmi accanto al primo
binario, una miriade di pensieri si rincorrevano nella mia mente.
Pensavo: “Anch’io sono tutta sbagliata, sbagliata come questa
creatura, lei è sbagliata di fuori, io sono sbagliata di dentro”.
Ho avuto fede nei grandi ideali, ideali ai quali non credo più dal
momento in cui fui colpita da una grave ingiustizia.
La bimba disse: “Dammi la mano!!”
Un brivido di paura mi attraversò tutto il corpo, dovevo
tendere il mio braccio verso quello che per me non era un
braccio, accogliere nella mia mano quella che per me non
era una mano. Quale sarebbe stata la mia reazione? Mi
sarei messa a urlare contro le crudeli ingiustizie della vita?
Niente di tutto questo, quando accarezzai le dita di
Michela provai all’improvviso una serenità ed una pace
indescrivibili, sentii che non c’era nulla di sbagliato né
dentro di me né in lei.
Era una sensazione bellissima che riportava dentro di me
ciò che credevo d’aver perduto per sempre, sentii che la
vita poteva essere affascinante se continuava ad essere
sostenuta da grandi ideali.
Doveva essere qualcosa di bello e di grande che mi faceva
provare tutto ciò, qualcosa che regnava sopra di noi.
Passò davanti a noi il treno veloce e silenzioso, il soffio
d’aria fece tremolare una foglia verde e tre fili d’erba,
spuntati tra i bianchi sassi vetrosi e appuntiti, accanto a
una rotaia infuocata!
Ricordi & riflessioni
moncherini, da ciascuno di essi uscivano tre lunghe
sottilissime dita. Se la vedevi all’improvviso, senza che
nessuno ti preparasse a sostenerne la visione, non riuscivi
a controllare l’emozione e sbarravi gli occhi per lo stupore.
La piccola Michela si accorgeva di questo: arrossiva,
abbassava il volto, chiudeva gli occhi manifestando una
grande vergogna per ciò che lei non aveva affatto commesso.
Michela allora aveva solo sette anni, era molto intelligente,
te ne accorgevi quando la vedevi giocare a carte con i
compagni anche se, per farlo, doveva usare la bocca.
In quel lontano giorno pasquale avevo deciso di andarla
a trovare. Lei mi sorrise e mi disse: “Mi porti a vedere il
treno? Mi piacerebbe vederlo correre sulle rotaie”. Volli
accontentarla subito. La stazione non era molto lontana
dall’Istituto, si poteva raggiungere a piedi, vi arrivammo
facilmente, una ragazzina adolescente stava uscendo,
aveva il volto sereno ed era bella come un angelo, i
capelli biondi (raccolti a coda di cavallo) le oscillavano
sulle spalle seguendo il ritmo frettoloso dei suoi passi.
Volse lo sguardo verso di noi e, come vide la bimba che
avevo accanto, sbarrò all’improvviso i suoi bellissimi occhi
azzurri, manifestando timore e sconcerto. Michela arrossì
e abbassò il volto. Avanzammo ancora verso la stazione,
un giovane soldato procedeva con un’andatura rilassata,
il suo volto era sorridente e felice, probabilmente aveva
ottenuto una licenza per trascorrere la Pasqua in famiglia,
come vide Michela sbarrò lo sguardo, apri la bocca e fece
cadere la sigaretta che teneva tra le labbra.
S
Una
bella
quarta
età
di Chiara Canal
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ono passati ormai tre anni dall’incontro con un’amica di
vecchia data, ed è stato molto emozionante scambiarsi
notizie sui fatti delle nostre vite che hanno riempito lo
scorrere del tempo che ci separava da quando ci eravamo perse
di vista. E’ stato un momento di “amarcord” che ha rinfocolato,
per un po’, i sentimenti accalorati di amicizia giovanile mai
dimenticata: ricordare figli e nipoti, in particolare, conosciuti
piccoli, adulti che l’età ha portato via, com’è nell’ordine naturale
delle cose, giovani adulti con cui il destino è stato inclemente.
In questo scambio affettuoso di notizie su presente e passato,
ero molto titubante se chiedere a Daniela notizie della suocera:
sapendola molto anziana, poteva essere mancata negli ultimi
tempi. Lei ha prevenuto la mia domanda: “La nonna”, come lei
la chiama, “sta ancora benissimo compatibilmente con i suoi 98
anni!!!!!”.
Ho conosciuto la signora Lidia più di trent’anni fa: all’epoca era
molto assidua la frequentazione della mia famiglia con quelle delle
due mie amiche, Daniela e Paola, sue nuore, quindi la incontravo
spesso.
Allora aveva circa settant’anni, portati splendidamente. Era una
personcina minuta, sciolta nei movimenti, passo svelto e “vivace”
sotto gli immancabili tacchetti. Era sempre vestita con buon gusto,
molto giovanile: in particolare in primavera, i colori anche accesi
come rossi, gialli o verdi, non le conferivano mai una nota stonata.
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ricordi & riflessioni
Un giorno rimasi quanto mai
sorpresa e divertita nel vederla
indossare un giaccone a quadri
bianchi e neri che risaltavano non
poco, ma quel che più attirava in lei
era un bel paio di occhiali da sole con
vistosa montatura bianca: “faceva”
molto Lina Wertmuller e la sua
disinvoltura era disarmante.
Quando la incontravo per strada,
s’intratteneva volentieri con me
brontolando bonariamente su figli,
nuore e nipoti: la trovavo irresistibile
per la sua simpatica loquacità colorita
dal suo buffo accento marchigiano con
qualche sfumatura romanesca.
Ma tornando alle notizie di Daniela,
in quell’incontro, questa nonna
moderna aveva voluto mantenere
la sua indipendenza vivendo ancora
da sola e in buona salute. Aveva
dedicato molti anni a figli e nipoti:
le era mancato abbastanza presto il
marito che non aveva fatto a tempo a
conoscere il primo nipotino. Cercava
quindi di godersi gli ultimi anni
uscendo abbastanza spesso, lasciando
a casa i tacchetti che un tempo amava
molto, ma curando ancora molto il
suo aspetto. Ogni tanto, con amiche
di un ventennio più giovani di lei, data
la perdita di molte sue coetanee, saliva
da Feltrinelli alle Barche per gustarsi
l’aperitivo. Da considerare che per
raggiungere il suo appartamento, che
è un attico, prima e dopo l’accesso
all’ascensore ha qualche rampa di scale.
I familiari erano sempre in apprensione e, quando non la
portavano con loro, facevano turni per essere presenti in
città: le avevano anche presentato un’eventuale badante
ma lei con garbo disse alla signora: “Lei mi piace molto: la
chiamerò quando sarò più vecchia”. So comunque che non
molto tempo dopo l’ha accettata solo per la notte.
Nonostante tutto questo senso di libertà ed autonomia,
raccontava ancora Daniela, che la suocera essendo ancora
molto lucida, si rendeva pienamente conto dei limiti dovuti
alla sua età, di quello che s’inceppava nella sua mente nel
parlare o ricordare, ed alla minor capacità nell’uso di molte
cose. Allora, qualche volta, confidava alle nuore di sentirsi
sola ma era molto grata verso di loro, e figli e nipoti, per
la vicinanza e l’affetto che non le facevano mancare. Confidava anche di avere un cruccio costante: quando si prospettava una qualche novità, che si sarebbe realizzata nel
prossimo futuro, era sicura che non avrebbe fatto in tempo
a vederla. Era stato così con il tram di Mestre che poi ha
potuto vedere ed anche sperimentare. E con la promessa
dei figli di farle restaurare il suo bel terrazzo: “Non farò in
tempo a godermelo!” era il suo ritornello, ma è arrivata a
farlo rivestire di tante belle piante!
Le notizie più recenti le ho avute da una sua nipote: “La
nonna raggiungerà il traguardo dei 102 anni fra qualche
mese. Ovviamente il declino è costante e rapido ma ha ancora un po’ di lucidità e la salute, nonostante l’età, ancora
accettabile”.
Cara signora Lidia, ho ammirato molto la sua persona, la
sua indipendenza ma anche la sua grande generosità verso
la sua famiglia.
La saluto con affetto.
La signora ritratta nella fotografia non è la protagonista del racconto ma è
un ritratto generico, a fini illustrativi, di libero uso
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ricordi & riflessioni
NON SOLO EXPO
un percorso parallelo
S
Testo e
fotografie
di
Caterina Seguso
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ono nata a Milano, ma nel capoluogo
lombardo ho vissuto solo pochi anni
Qualche volta sono tornata per brevi
periodi , ma con il pretesto dell’expò non
potevo mancare. Alle emozioni più intense
nella bolgia del decumano ho alternato
tranquille passeggiate in centro, al duomo,
e la visita ad alcune gallerie.
Particolari soddisfazioni le ho provate
al museo del Novecento da pochi anni
rinnovato negli spazi dell’Arengario.
Nel 2007 furono avviati i lavori di
ristrutturazione affidati al gruppo Rota
vincitore di un concorso internazionale
e dal 2010 è stato aperto. Con un
significativo affaccio su piazza Duomo
l’edificio espone tantissime opere
selezionate dedicate all’arte italiana del
XX secolo
Nel percorrere gli spazi ho attraversato e
rigenerato alcune delle mie conoscenze
pittoriche plastiche e architettoniche.
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Arturo Martini (1889 - 1947)
Adamo ed Eva. - 1931.
Convento di Santa Caterina - Treviso
Arturo Martini (Treviso 1889 - Milano 1947).
Terzo di quattro figli di famiglia molto povera si forma prima nella sua città
natale e poi a Venezia in qualità di ceramista e orafo. Curioso per natura e
interessato all’arte si trasferisce per studiarla prima a Monaco, poi a Parigi.
Nel 1914 fa parte della Secessione Romana ed espone alla Mostra Futurista.
Nonostante le sue indubbie capacità, stentò a essere riconosciuto per il suo
valore e dovette sopportare severe difficoltà economiche. Nel 1926, partecipa
per la prima volta alla Biennale di Venezia. Nel 1929 viene chiamato a
insegnare Plastica decorativa all’Istituto d’Arte di Monza. Nel 1931riceve il
premio per la scultura alla I Quadriennale di Roma mentre, nel ’32, avrà
una sala personale alla Biennale veneziana. Dal ’37 al ’39 è impegnato in
importanti commissioni pubbliche a Milano. Infine nel 1942 è chiamato ad
insegnare all’ Accademia di Belle Arti di Venezia.
Artista poliedrico passa dalla pietra al legno, dalla creta al bronzo senza
dimenticare il gesso e la pittura. Di questi anni sono opere come Il bevitore (‘26),
La pisana (‘30), La sete (’34), Donna che nuota sott’acqua (’42).
“Se la scultura vuol vivere, deve morire nell’astrazione” Così scrisse in “Scultura
lingua morta” del 45, avvertendo il limite e la crisi della propria arte. Tra le
due guerre, diventa lo scultore ufficiale del regime fascista, era letteralmente
travolto dagli impegni: grandi opere celebrative e monumentali per palazzi
di Giustizia, chiese ed Università (La Sapienza di Roma.) Il 22 marzo del ‘47
muore a seguito di una paralisi cerebrale. Ad un anno dalla morte gli viene
tributato un omaggio postumo alla V Quadriennale. Nel 1967 la sua città,
Treviso, gli dedica una grande mostra monografica; per l’allestimento viene
chiamato l’architetto Carlo Scarpa che, nel Convento di Santa Maria, che è
parte del più grande complesso di Santa Caterina, ne realizza uno da par suo
tanto da convincere l’Amministrazione Comunale ad acquistarlo per farlo
diventare sede principale dei Musei Civici di Treviso.
(S.G)
In particolare mi sono soffermata nelle
sale dove sono esposte sculture e disegni
di Arturo Martini. La produzione di questo
artista mi aveva nel passato talmente
coinvolto da proporre con alcuni colleghi
di titolare con il nome dello scultore
l’anonimo luogo dove un tempo lavoravo.
L’obiettivo tra le varie diatribe, altre
proposte e votazioni è stato raggiunto.
Eravamo riusciti a convincere gli indifferenti
e i contrari che il nome di Arturo Martini era
il più indicato per il nostro istituto.
Il trovare a distanza di anni le opere studiate
e documentate e poterle “toccare con mano”
mi, ha reso felice. Gli incontri più belli sono
stati parecchi: Pellizza da Volpedo, Boccioni,
Basilico, Fontana, Melotti, Munari e ….
Se dovessi consigliare come spendere
tre ore piacevoli a Milano il museo del
Novecento di Milano sarebbe tra le prime
scelte da considerare.
Rientrata da poco da Milano ecco spuntare
la ciliegina nella torta.
A Treviso giovedì 29 ottobre riapre il museo
Bailo dopo quasi 12 anni di chiusura e dopo
interventi (studio Mas di Padova) architettonici
e museografici che hanno completamente
cambiato il volto dell’ex convento degli Scalzi si
ripresenta ristrutturato.
La fruizione dell’intero complesso sia con la
luce naturale che illuminato alla sera rende la
strutture e le opere esposte capaci di generare
grandi suggestioni.
Il filo conduttore che accompagna nel
percorso esalta il nostro maggior creatore
di immagini plastiche del secolo scorso: sto
parlando di quel Arturo Martini che avevo
da poco apprezzato a Milano.
Il legame tra la città e il progetto moderno
risulta evidente. Sono stati inseriti nuovi
elementi con una forte identità che
ridisegnano l’edificio e permettono un
continuo dialogo tra i vuoti delle arcate dei
chiostri e i pieni delle sculture martiniane.
Ripeto il consiglio: andateci…è qui vicino e
come dice il professor Galante: fotografate,
fotografate, fotografate (di nascosto però,
perché non è permesso).
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dai corsi
1863 La danse de l’almée.
Jean-Léon Gérôme
(1824 –1904)
I
n Europa la Danza Orientale è spesso considerata come una
forma di danza minore, artisticamente ignorata e lasciata spesso
a dubbi spettacoli. Questo modo di pensare apparentemente
superficiale denota una ignoranza del pubblico ed una forma di tabù
verso questa forma di danza.
Allora la Danza Orientale, che cos’è?
E’ una danza delle donne, una delle forme primitive e delle più
naturali.
Secondo diverse fonti, la Danza Orientale esiste già nel 5.500 a.C. in
Persia, Mesopotamia, Fenicia, Turchia e nell’Egitto Antico: potrebbe
essere la danza più antica e portarci nella preistoria, nel neolitico
(7000-3500 a.C.) e forse oltre, nel paleolitico, ancorata alle prime
immagini di potere divino esemplificate nella figura della Grande
Madre, la “Venus”, rappresentata dalle statuine dal ventre fertile e
fianchi e seno generosi, adorate dai nostri antenati, 20.000 anni fa.
Altre testimonianze di danza come rituale sacro si trovano nelle
pitture rupestri del Paleolitico, ma è probabilmente nel periodo
Neolitico e nella nascita del culto della Dea Madre, diffuso in tutto il
Medio-Oriente, che si trova la prima forma di danza con movimenti
che imitano il momento del parto. Le sacerdotesse danzavano
insieme durante le cerimonie sacre
nei templi per la Dea della Fertilità.
Le donne del villaggio danzavano in
gruppo mimando i movimenti del
ventre intorno alla loro compagna.
Il ventre della donna è all’origine della
danza orientale: esso non era solo
importante, ma determinante per la
tribù, per il suo futuro sviluppo o per la sua estinzione.
La Dea Madre prende il nome di Ishtar (o Inanna) nella civiltà assirobabilonese, si chiama Iside in Egitto.
11
LA
DANZA
ORIENTALE
Maria Grazia Carniello
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dai corsi
La Venere di Willendorf.
Naturhistorisches
Museum di Vienna.
Nota anche come
Donna di Willendorf è
una statuetta alta 11cm.
e rappresenta una
donna secondo forme
steatopigiche.
12
Pagina a fianco:
Gustave Moreau
(1826-1898)
L’Apparizione.
Opera conosciuta
anche come Salomè
Acquerello. cm 106 x 72,2
Musée d’Orsay - Parigi
La danza è presente come rituale sacro nelle cerimonie
funerarie, nei “Testi delle piramidi”, incisi in alcune
stanze sotterranee di alcune piramidi di Saqqara.
Il greco Pausania parla di una danza praticata dalle
sacerdotesse del tempio di Artemide ad Efeso, durante
le cerimonie sacre, dove si compiono rotazioni di bacino.
Tale danza era chiamata “Kordax”.
Con il sopraggiungere dell’Impero Islamico questi riti
sacerdotali scompaiono via via e la danza perde il suo
carattere sacro. Va precisato che il Corano non proibisce
musiche e danze, bensì sono state le autorità religiose che
hanno cercato e tentano ancora di eliminarle.
L’incontro con l’Europa invece risale alla fine del ‘700, quando
i legionari di Napoleone e i viaggiatori europei, di ritorno
dalla campagna d’Egitto, diffondono l’immagine di donne
che danzano lasciando scoperto il ventre. La conquista
delle colonie portava molti cittadini del vecchio continente
a frequenti spostamenti. Neanche Oscar Wilde riuscì a
resistere al fascino di questa danza e nel 1883 rappresentò
una “Salomè” che ballava una danza dei sette veli.
Le danzatrici “professionali” appartengono
principalmente a tre tribù di tendenza matriarcale: i
Ghawazee (zingari egiziani), gli Almèe in Egitto e gli
Ouled Naids in Algeria. Presso queste tribù le ragazze
sono educate per diventare danzatrici. In Turchia sono le
donne di origine zingara che si esibiscono.
Ad ogni modo la danza orientale non è appannaggio delle
“professionali”: essa è una danza profana che trova radici
molto profonde nella società, ed è tuttora praticata ed
apprezzata nelle feste popolari, ed è così che si manifesta
come espressione culturale dei singoli e non come
semplice manifestazione folkloristica.
Nel mondo arabo, in Turchia e in Grecia la danza e la musica
sono una parte importante della vita: le donne del popolo
danzano insieme quando sono tra loro, così pure gli uomini.
E’ certo comunque che questa forma di danza ha perduto
il suo primo significato, si è evoluta ed è divenuta
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più elaborata, più sofisticata e completa. Il ventre e il
bacino hanno ancora una certa importanza, ma tutte le
parti del corpo sono in movimento, una dopo l’altra o
contemporaneamente, risolvendosi in movimenti.
Questa disciplina richiede una grande concentrazione
ed allo stesso tempo una flessibilità ed una dolcezza tali
da realizzare una soluzione armonica nei movimenti.
Si pratica quasi sempre a piedi nudi per stabilire un
contatto con la terra. Si danza inoltre sulla punta dei
piedi per dare un senso di leggerezza e di eleganza.
Inoltre esige dalla danzatrice un talento nell’improvvisazione
ed una grande sensibilità. Esistono vari stili nella danza
orientale, ogni regione ha le sue caratteristiche che sono
influenzate dal folklore e dalla musica.
Perché la danza orientale in Europa?
Qual è il motivo del grande interesse per questa danza
in Europa? Sicuramente esso è dovuto al fascino per il
mistero che avvolge il mondo orientale e arabo. Attraverso
l’apprendimento di questa meravigliosa disciplina si
determina un’apertura culturale verso il mondo “chiuso”
delle donne arabe, turche e le loro tradizioni.
Un altro motivo molto valido è semplicemente il piacere
di ballare, di riscoprire tutti quei movimenti semplici
e originali del bacino e del ventre, la gioia di muovere
tutto il corpo lasciato “libero”. Tutte queste attitudini
che la civiltà moderna ci ha fatto dimenticare.
Il ventre è il “centro” del corpo, ma le nostre regole
estetiche lo nascondono, la danza orientale gli ridà la
sua naturale collocazione. Infine il motivo della salute
e della conoscenza del proprio corpo: si utilizzano con
dolcezza, mai con aggressività, dei muscoli e delle parti
del corpo che sono quasi mai in movimento.
La pratica della danza orientale conduce alla riscoperta
ed al controllo del proprio corpo (tanto è vero che viene
usata anche in kinesiterapia).
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A scuola di autostima
CASA MIA
IL NON ALTRO
Ea me Venessia splendida
cunada su una cuna
Par stramasso, l’acqua
che xe ea so laguna.
Come cussin, giardini
sconti da ‘na fodreta
par goder in tranquilità
quel’aria benedeta.
Quel’acqua verdoina
riflete i so palassi
de quei fastosi ani
ormai andai in ribassi.
Venessia, a tuti quanti,
ricordarà par sempre
queo che mai più tornarà.
Riflete tuto questo
ea me fantastica cità.
E ti penso,
ma non sei lui,
e non ti amo,
e non sei bello,
e non sei giovane,
e non sei vigoroso,
e non sei forte
e non sei attraente.
però mi son sentita
amata e pensata
forse come non mai.
SanBal
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Poesie
dai corsi
Si tratta di un’arte che permette un importante
miglioramento per il benessere psico-fisico. “L’aspetto
fisico va insieme alla dimensione psichica. Le persone
si vedono più di buon umore ed il proprio corpo viene
accettato molto di più”.
Per quanto riguarda la sfera prettamente fisica, migliora
la circolazione sanguigna, la respirazione, i dolori
relativi alla colonna vertebrale, sia a livello lombare
che cervicale, la postura ed il tono muscolare; mentre
a livello psicologico i vantaggi ottenibili sono stati
spesso indicati in termini di rilascio delle tensioni, di
acquisizione di una maggiore consapevolezza corporea,
di un senso di rinascita e di riscoperta della femminilità.
E non finisce qui: la disciplina è a 360°.
E’ facilmente intuibile come la scoperta del sapersi
muovere implica anche una liberazione delle proprie
energie, emozioni e potenzialità.
La sua pratica regolare può aiutare a modellare
l’addome, i glutei, le cosce. Un corso di danza del
ventre può essere un modo per evadere dagli impegni
quotidiani e l’occasione per ritagliare delle ore da
dedicare a noi stesse, riscoprendo il nostro essere donna
e risvegliando la “Dea” che c’è in noi.
Ed allora a questo punto non mi resta che augurarvi:
buona danza a tutte!
SanBal
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Continua l’editoriale da pag 1
sospensione dei corsi sono veramente troppi.
E’ seguita una mail per capire se il prof. Galante era
disponibile; sì, il docente era decisamente interessato
e disponibile, se fosse stato possibile usare la sede
dell’Unitre e gli iscritti al corso lo desideravano, si
poteva fare.
Un giro di telefonate ed ecco, alla data prestabilita,
22 persone fornite di grembiuli (bellissimi i signori con
grembiulini da cucina) sono sedute attorno al lungo
tavolo su cui sono disposte le vaschette con i “bagni”
per lo sviluppo e il fissaggio, la carta fotografica,
sacchetti trasparenti, foglie, carta e oggetti vari, pronti
per iniziare un laboratorio di fotografia che li introdurrà
nella magia dell’immagine realizzata dall’azione diretta
dello sviluppo e/o del fissaggio su quei foglietti sensibili
che, volutamente, erano stati esposti preventivamente
alla luce.
Molti già conoscevano la pratica dello sviluppo
tradizionale, quello che si fa in camera oscura per
capirci; quasi nessuno, però, conosceva quella faccia
della medaglia dove ogni regola veniva sovvertita,
capovolta. La camera oscura è diventata chiara e tutta
la sede Unitre, come detto, s’è trasformata in un grande
laboratorio. S’è sperimentato, verificato, “giocato” con
l’azione dello sviluppo e/o fissaggio su quella carta
sensibile che faceva emergere, magicamente, figure più
o meno astratte vuoi bianche su fondo nero, vuoi nere
su fondo bianco accompagnate sempre da una variata
quantità di zone grigie. Quelle figure che apparivano
sulla carta, sarebbero state poi modificate, dando loro
nuove forme interpretative, grazie all’intervento del
computer volontariamente pilotato a fare questa o
quella trasformazione. Tutto è stato abbondantemente
fotografato e ripreso con la videocamera per poter
restituire in immagini l’esperienza fatta.
Il fare, lo stare insieme, lo scambio di opinioni è stato il
collante che ha permesso di vivere questa esperienza con
interesse, vivacità e grande serenità.
Non è la prima volta che parliamo dell’importanza
fondamentale che la socializzazione riveste all’interno
dell’Unitre, che non può e non deve limitarsi a fornire cultura,
ma deve favorire anche i rapporti umani, la possibilità di
condividere esperienze e nuove amicizie, dialogare.
Molti sono gli anziani che vivono una situazione di
solitudine o semplicemente la perdita di un ruolo
attivo, e la possibilità di incontrare coetanei, con cui
condividere interessi e percorsi, diventa fondamentale
per dare nuovi stimoli alla vita.
Ecco perché riteniamo che accorciare le vacanze,
lunghe ben cinque mesi, sia cosa buona e auspicabile
anche per altri corsi.
Dall’alto
Chimigramma di Caterina Seguso ottenuto imbibendo con lo sviluppo un
oggetto tipo pettine e mosso sulla carta in modo tale da lasciare traccia del
percorso. Dopo questa azione il foglio fotosensibile è stato immerso nell’acqua
acidulata e poi passata per una decina di minuti in fissaggio e, infine, lavato
in acqua corrente.
Chimigramma di Luciano Bettini. Questo lavoro risulta piuttosto interessante
perchè sulla stessa superficie sono state effettuate due azioni tra loro
contrastanti; la forma bianca è stata ottenuta bagnando l’oggetto con il
fissaggio e poi con lo spruzzino (o spazzolino da denti) è stato spruzzato
dello sviluppo che ha agito solo sulle parti non precedentemente fissate. Poi
La redazione lavato, nuovamente fissato e, infine lavato in acqua corrente
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FARE CHIMIGRAMMI
Il 15 maggio scorso, poco dopo la chiusura
del corso, ho ricevuto una mail da una
corsista che, talaltro, mi scriveva: “...
Non ricordo in vita di essermi dispiaciuta
della fine di un anno scolastico mentre,
già da oggi, penso che cinque mesi prima
di ricominciare il suo corso sono tanti,
anzi tantissimi....per me è stato, ed è,
importante tornare a confrontarmi con gli
altri e ad imparare tanto anche dai miei
compagni di corso. Prof. TUTTE QUESTE
VACANZE mi “spaventano”, si fa per dire,
(anzi mi stupisco di averlo detto!!!), un
tempo le vacanze le avrei allungate di un
bel po’!!”.
Avuta la disponibilità dell’uso dei
locali della segreteria dell’Unitre,
dalla presidenza e direzione che
subito ha sposato il progetto, ho
proposto un seminario - oggi si dice
workshop - sulla “Fotografia creativa
dall’analogico al digitale: chimigrammi,
fotogrammi, scansiogrammi”. Questo
tema, (scansiogrammi a parte) mi è
particolarmente caro perchè sono almeno
44-45 anni che lo pratico e l’ho proposto
sia a bambini di prima elementare, sia a
studenti di ogni ordine e grado, universitari
pre e post laurea, adulti compresi.
Chimigrammi e Fotogrammi sono stati i
primi esercizi in assoluto che ho eseguito
da studente del C.S.D.I. di Venezia come
allievo del prof. Italo Zannier e, già da
allora ne rimasi folgorato. L’esercitazione
serviva a far prendere confidenza con i
materiali della fotografia: la carta sensisbile,
lo sviluppo, il fissaggio, l’ingranditore, ecc..
Ma il bello dei Chimigrammi (immagine
prodotta dall’azione chimica sui sali
d’argento della carta sensibile) è che si
può fare tranquillamente alla luce del sole,
non c’è bisogno di nessuna camera oscura,
nessun ingranditore, bacinelle, termometri,
timer, ecc....insomma niente di niente di ciò
che può esserci nell’immaginario collettivo
che risponde al fare in camera oscura.
Un po’ diverso, invece, il discorso sui
Fotogrammi che hanno bisogno, per essere
prodotti, almeno della camera oscura.
Tutte e due queste pratiche hanno nobili
origini visto che risalgono gli albori della
nascita della fotografia (ufficialmente 7
Pagine corrette.indd 4
gennaio 1839).
Tutti, ma proprio tutti, possono fare
esperienza di produzione di chimigrammi
e le cose che servono sono proprio
poche: quello che invece serve è voglia
di essere “cre-attivi” ovvero di giocare
creativamente senza paura di sbagliare, di
fare cose poco opportune. Possiamo dire
che sovvertire le regole potrà essere la
stella polare dell’iniziativa.
dai corsi
di Sandro Galante
Ma ‘sti Chimigrammi come si fanno?
Cosa occorre per realizzarli?
dall’alto:
Chimigrammi realizzati da:
Lucia Frasson, Magda Signorelli,
Androniky Stavridis
C’è bisogno di sviluppo e fissaggio
fotografico (si comperano dai fotografi ben
forniti o in internet) e carta fotosensibile.
I primi vengono venduti in forma
concentrata e hanno costo piuttosto
contenuto (una trentina di euro per
entrambi per avere una decina di litri di
soluzione che faranno produrre centinaia
di stampe fotografiche). Per la carta c’è
quasi l’imbarazzo della scelta e si va da
quella autocostruita (bisogna essere
abbastanza esperti per farla) a quella
industriale di varia misura e pezzatura.
Da non escludere, infine, l’utilizzo di
materiale scaduto: noi l’abbiamo fatto
ottenendo così carta fotosensibile per
qualche euro o, comperando altro,
gratuitamente. Questo è tutto perchè le
mitiche bacinelle da camera oscura sono
state sostituite da quelle teglie da forno in
alluminio, usa e getta, che tutti usiamo in
casa. Da casa, poi, è arrivato di tutto: dalle
spugnette per i piatti alla carta assorbente
da cucina, dalle mollette per la biancheria
al pluriball per l’imballaggio.
E ancora, oggetti e oggettini di ogni tipo
quali: fermagli, pennelli, foglie, fili d’erba,
colini, rocchetti, suole di scarpe, ecc.....
ma senza dimenticare le mani, le dita e,
perchè no, anche i piedi! La caratteristica
dell’oggetto deve essere quella della
permeabilità, più o meno spiccata, al
liquido di sviluppo e/o del fissaggio. Infine
disporre davanti a sè tre vaschette: nella
prima si verserà lo sviluppo; nella seconda
vaschetta verseremo 1litro di acqua
acidulata con un cucchiaio di aceto (i
puristi vorrebbero l’acido acetico) per
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dai corsi
realizzare un buon arresto. Un acido neutralizza
sempre un sale, ce lo hanno insegnato alla
scuola media. La terza vaschetta infine conterrà
il fissaggio (tiosolfato di sodio, comunemente
chiamato iposolfito di sodio).
Dopo aver organizzato la nostra postazione di
lavoro coprendone la superficie con vecchi giornali
o sacchetti di plastica aperti, aver indossato un bel
grembiule per difendere i nostri abiti dagli schizzi
dello sviluppo...e fate attenzione perchè questo
macchia in maniera piuttosto decisa.
Il grande sacrilegio.
Ed eccoci al momento clou, quel momento
che noi sacrileghi facciamo con sprezzo della
maledizione dei puristi e farà mettere le mani
nei capelli a tutti, ripeto tutti, i fotografi seri.
Aprire alla luce del giorno la busta della carta
sensibile, tirare fuori il pesante sacchetto nero
che contiene quella carta e, infine, esporre
alla luce quel prezioso foglio! Fare ciò significa
sapere che quel foglio non potrà più essere
usato per stampare alcuna fotografia perchè
in fase di sviluppo darà sempre e comunque
un’immagine nera! L’emulsionie sensibile
contiene una miscela di bromuro e cloruro
d’argento più una piccola quantità di ioduro
d’argento. Lo sviluppo, che utilizza per la sua
azione anche l’idrochinone, ha la capacità di
separare l’argento delle parti esposte alla luce
dalle parti rimaste al buio, diventando nero il
primo e trasparente - quindi bianco - il secondo.
Ecco da dove parte l’azione da farsi per ottenere
il chimigramma. Il ragionamento è semplice:
se lo sviluppo farà diventare nero quel foglio
sensibile basterà farlo agire selettivamente e
lui ci restituirà un’immagine assolutamente
unica, irripetibile e, spesso, inaspettatamente
affascinante. Dopo i primi tentativi liberi (vedi
i chimigrammi riprodotti in questa pagina
e in quella precedente) potrebbe venirvi il
desiderio di prendere un pennello e cominciare
a dipingere....che dirvi? fatelo ma fatelo, però,
usando strumenti “improbabili” come le dita,
un cotton fioc, un angolino di una spugna,
una spazzolina... Non negatevi la possibilità di
apprezzare la bellezza dell’azione dello sviluppo
che creerà sfumature, trasparenze, laddove
quella goccia ha disegnato il suo percorso. E
il bello è che tutto avverrà sotto i vostri occhi,
durante quei 30”- 40” necessari allo sviluppo
per dare il meglio di sè. Passato comunque il
tempo utile per dare un’immagine ricca di toni
(mai oltre gli 80”), bisognerà passare quel foglio,
immergendolo tutto, nella seconda vaschetta
con l’acqua e aceto. Quì resterà pochissimi
secondi poi, senza fretta, sgocciolandolo il più
possibile, verrà immerso nella terza faschetta
dall’alto:
Chimigrammi realizzati
da:
Fernando Anzani,
Gianfranco Ferla
Silvana R.
In basso, al centro.
Chimigramma realizzato da
Giorgio Bertoldi
Nella pagina accanto
Gruppo di corsisti al lavoro
16
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dove il bagno di fissaggio compirà l’azione
risolutiva rendendo quell’immagine stabile
nel tempo. E visto che in questa vaschetta
rimarrà 10’-15’ avrò tutto il tempo per fare altri
chimigrammi; unica accortezza sarà quella di
controllarlo nella sua totale immersione.
Ora, invece di immergere la mano (o la spugna,
o la molletta, o....) nello sviluppo immergiamola
nel fissaggio e appoggiamola con la stessa
metodica di prima. Quando la solleverete non
ci sarà l’immagine nera con tutti i suoi grigi ma,
altresì un’immagine bianca su fondo....bianco
(meglio giallino extrapallido). Quel foglio così
trattato dovrà essere sviluppato e, quindi, dovrà
essere immerso nella prima vaschetta che farà
diventare nera tutta quella superficie che non è
entrata in contatto con il fissaggio (meglio, molto
meglio se, prima di quell’immersione, si farà un
passaggio in acqua pulita: due tre immersioni
saranno sufficienti per eliminare l’eccesso di
fissaggio). Dopo aver passato il foglio nello
sviluppo per quei 30”-40” rifarò il passaggio
nell’acqua e aceto, nuovamente nel fissaggio
per i canonici 10’-15’ e, infine, nel lavaggio.
Un’ultima parola sul lavaggio. Questa azione di
lavaggio deve essere moderatamente energica,
in acqua corrente, mai ferma o stagnante.
In casa si ottiene un ottimo lavaggio mettendo le
fotografie in un catino o vaschetta con il “telefono”
della doccia posto sul fondo; così facendo l’acqua
dentro la vaschetta subirà un naturale e importante
movimento dal basso verso l’alto eliminando in
maniera definitiva i sali del tiosolfato di sodio. Un
buon lavaggio fatto per 15’-20’ farà sì che quelle
fotografie durino nel tempo senza creare sulla loro
superficie irrimediabili macchie o formazione di
“fiori di sali”.
E gli Scansiogrammi? Ne scriverò dettagliatamente
una delle prossime volte quando redigerò anche
la scheda sui Fotogrammi.
Cosa hanno detto alcuni dei partecipanti
ANTONIO BORDIGNON
“Carneade, chi era costui?“ disse Don Abbondio. “Chimigrammi, cosa sono costoro?”
dissi io …., ma con le esaurienti spiegazioni di Sandro Galante, nelle sue
lezioni tenute a Settembre nella sede Unitre di Mestre, sono riuscito ad entrare
in un mondo nuovo dove la macchina fotografica non viene toccata e tutto si
può fare con la chimica.
Con un semplice foglio di carta fotografica magari vecchia ed ormai inutilizzabile
per la fotografia usuale, possiamo creare delle immagini da oggetti di uso
quotidiano, come forcine, tappi, mollette ed altro, senza limite di fantasia.
Si immergono gli oggetti in un liquido, si imprimono sulla carta, si passa la carta
in bacinelle con soluzioni chimiche e….sembra una magia: improvvisamente
appaiono le immagini.
Stupefacente!
Si immergono gli oggetti in un liquido, si imprimono sulla carta, si passa la carta
in bacinelle con soluzioni chimiche e….sembra una magia: improvvisamente
appaiono le immagini. Stupefacente!
La positività di questo workshop è che tutti gli allievi hanno potuto,
praticamente ed insieme, eseguire le operazioni, meravigliandosi dei propri
chimigrammi e di quelle dei compagni; questo ha sollecitato la curiosità nella
ricerca di nuovi oggetti da impressionare sulla carta fotografica e ha dato un
impulso di creatività personale che con l’età avevamo perso.
In quei momenti siamo tutti tornati bambini, pronti a sperimentare ed a gioire
per le nostre realizzazioni e sensazioni.
Le ulteriori lezioni con scansiogrammi e fotoritocco hanno dato organicità e
completezza al corso, ci hanno coinvolto positivamente aumentando il nostro
bagaglio culturale relativo al mondo della fotografia.
LUCIANO BETTINI
Magie fotografiche.
Chimigrammi, un’altra frontiera del magico mondo della fotografia mi si è
spalancata grazie alle lezioni ed insegnamenti del nostro professore Sandro
Galante. Poche e rudimentali sono le mie conoscenze di camera oscura,
acquisite circa 40 anni fa e messe in pratica solo per pochi mesi.
Per me una cosa era certa: per fare una fotografia bisognava partire da un
negativo ottenuto con una macchina fotografica.
E invece il prof. ci viene a spiegare e dimostrare che possiamo creare immagini
senza l’ausilio di un negativo e lavorando alla luce del sole!!! Incredibile.
La mia curiosità aumenta, sono pronto a cimentarmi, assieme ad altri compagni
di corso, in questa nuova avventura “fotografica” sotto la sua guida esperta.
Tutto è stato approntato presso la sede di Unitre: cinque postazioni con tre
vaschette contenenti separatamente liquido di sviluppo, liquido di fissaggio ed
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dai corsi
acqua e aceto. Sono gli elementi indispensabili per far comparire
la magia. Galante, il grande illusionista con il suo “grembiule
magico”, si appresta a mostrarci alcuni trucchi. Prende un foglio
di carta fotografica e lo stende su un tavolo, intinge una mano in
una delle tre vaschette, la appoggia velocemente sopra il foglio ed
ecco apparire l’impronta di una mano bianca o nera.
Illusione ottica, magia o miracolo??? Con i suoi insegnamenti e
la sua pluriennale esperienza in breve tempo diventeremo anche
noi maghi ed illusionisti.
Quanta passione ed impegno vedo in tutti i partecipanti: che
gran divertimento!!!
MARIA CRISTINA IMPEROLI
Ricordi di scuola.
Riprendere ad usare sviluppo, fissaggio e carta fotografica mi
ha riportato indietro nel tempo. Come allieva iscritta al Corso
Superiore del Disegno Industriale mi divertivo, molto seriamente,
assieme ai miei compagni, a sviluppare le fotografie relative agli
esercizi che il prof. Italo Zannier mi aveva dato come esercitazione.
Ricordo che era emozionante veder apparire, poco alla volta, le
immagini catturate dalla mia macchina fotografica, allora analogica.
Ed era una grande soddisfazione se il risultato era quello che mi
aspettavo.
FERNANDO ANZANI
Chimigramma, chi era costui?
Ora lo so, dopo aver partecipato al work-shop sulla “Fotografia
creativa senza l’ausilio della fotocamera”. Un work-shop
interessantissimo e divertentissimo da cui ho ricavato
un’esperienza certamente positiva, istruttiva e affascinante. Un
grazie al prof. Galante.
SILVANA R.
Per alcuni di noi le lezioni di fotografia sono cominciate in
anticipo. Organizzato dal nostro insegnante abbiamo frequentato
per quattro settimane un corso su Chimigrammi e Scansiogrammi.
L’esperienza è stata senz’altro positiva e interessante.
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CATERINA SEGUSO
L’attesa e la sorpresa, ma se ti scappa….. te la tieni!
Pronti, via. Partenza anticipata. Grazie Magda, la tua petizione
ha aperto la possibilità di iniziare un mese prima il corso di
fotografia. Ci siamo inscritti a un workshop. Oggi si parla e ci
si immerge nel chimigramma. Su una superficie fotosensibile
(ma senza usare la macchina fotografica) ci divertiamo a creare
(quasi) casualmente immagini astratte.
La tecnica del chimigramma riscoperta e messa a punto nel
1956 da Pierre Cardier ci guida al gioco delle tre vaschette
che non permette errori. Sui tavolini della segreteria (allestita a
laboratorio) sono appoggiati tre contenitori rispettivamente con
sviluppo; acqua e aceto; fissaggio.
Due esperti cineasti (MaestroToni e Giorgione) riprendono
documentando ogni fase. Più di 20 allievi indossano grembiuloni
protettivi (lo sviluppo macchia) e hanno in mano curiosi materiali.
Dopo le spiegazioni e gli esempi dell’insegnante iniziano le
sperimentazioni. I tempi sono importanti.
Fra noi i fotografi più esperti, anche nella casualità, cercano di
portare a termine un percorso creativo guidati dall’esperienza,
meglio dal gusto. Ma tutto ciò, secondo il nostro prof., sarebbe
vietato. E in sottofondo, con il suo vocione, ci ripeteva: “Lasciatevi
cogliere dal caso, dall’occasionalità…non cercate di comporre il ‘quadretto’,
divertitevi a fare macchie, colature di sviluppo o fissaggio, gocce sparse,
impronte improbabili di oggetti improbabili”…. Ed ecco che compaiono
foglie, fili d’erba, spazzolini, spugne, retine, pennelli, mollette,
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timbri, impronte e, come in una magia, dopo timide immersioni
nel rivelatore o nel fissaggio, ecco l’immagine che si forma e si
trasforma.
L’ultima fase è la più concitata. Si sciacqua il tutto sotto l’acqua
corrente nell’unico bagno e vedete voi:……. se ti scappa…..te
la tieni.
Se sarete incuriositi il prodotto ottenuto dai più di 20 “novelli
bambini”sarà esposto, a breve, alle pareti dell nostra segreteria.
GIORGIO BERTOLDI
Quest’anno, per la prima volta, presso la nostra nuova sede
Unitre, s’è tenuto un “Extra Corso” di immediato successo su
“Chimigrammi e Scansiogrammi”, vocaboli forse sconosciuti
a molte persone, cui altri corsisti sapranno meglio riferire. A
me piace invece raccontare com’è nato questo corso: Magda
Signorelli sosteneva via mail che il tempo che intercorreva tra
la fine dei corsi e il loro nuovo inizio era troppo lungo e riteneva
che anche a molti altri sarebbe piaciuto fare qualcosa assieme
nell’ambito delle lezioni di fotografia.
La generosa disponibilità del paziente prof. Galante, (lo dico
con cognizione di causa) ha consentito di organizzare un breve
ma completo corso di quattro lezioni, tenute di giovedì, tra
settembre e ottobre.
La lezione secondo me più divertente (preceduta dalle chiare
spiegazioni di Sandro Galante) è stata quella della sperimentazione
con i bagni chimici dello sviluppo e del fissaggio delle immagini
“fotografiche” ottenute mediante o l’esposizione alla luce della
carta sensibile per stampa fotografica sovrapponendovi oggetti
imbevuti di sviluppo (o fissaggio) di cui sarebbe poi rimasta la
silouette in bianco e nero. Oppure l’intervento diretto, sempre
sulla carta fotografica, con spugnette, mollette, fili d’erba e altro
ancora, precedentemente intinte nello sviluppo, quindi lavate e
poi fissate con la soluzione apposita.
Quel giovedì si è subito caratterizzato per l’atmosfera tra
l’eccitazione e il fervore per questa opportunità di creare immagini
originali e la divertita partecipazione collaborativa di tutti.
Divertente infatti era vedere tutte queste persone con grandi
grembiuli a protezione dei vestiti e la eccitata velocità esecutiva
per non vanificare gli interventi fatti sulla carta fotografica.
Tutti i tavoli e le scrivanie erano occupati da vaschette con
l’acqua , lo sviluppo ed il fissaggio e si vedeva un frenetico
alternarsi di noi corsisti nell’uso dei bagni chimici.
Concludo dicendo che quel pomeriggio di creatività collettiva,
i cui prodotti saranno presto esposti in sede, si è svolto senza
“danni” chimici per tutti i partecipanti il corso.
LUCIA FRASSON
“Fotografare senza macchina fotografica” non è stata per me
una novità. Nel Lontano 1979 - se non ricordo male - presso
Palazzo Fortuny, a Venezia, partecipai a un laboratorio (allora si
chiamavano così) condotto da Ando Gilardi e sperimentai questa
tecnica. Anche ai miei alunni ho proposto questa attività e devo
dire che l’entusiasmo che loro hanno provato è stato anche il
mio. Cosa c’è stato di nuovo, di diverso questa volta?
La consapevolezza ottenuta tramite l’analisi dei chimigrammi da
noi creati. Vedere i chimigrammi proiettati e parlarne mi ha fatto
comprendere l’importanza della “semplicità”, ma anche che in
un’immagine caotica si possono celare forme impensate. E poi
la postproduzione. È stato fantastico scoprire nei chimigrammi
scansionati dei piccoli ”tesori”, è stato divertente ritagliare,
ingrandire, invertire, scoprire, cambiare i colori…
È stata un’esperienza molto bella che ripeterei subito, anche se
con una diversa consapevolezza.
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(seconda e ultima parte)
di Gianfranco Pontini
Fotografie di pubblico utilizzo tratte da internet
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(continuazione dal numero 66 di Ottobre 2015)
La leggenda narra che nella notte dei tempi i primi abitanti si resero
conto che non era consigliabile abitare nella Valle del Quieto.
L’aria era pestifera a causa degli acquitrini e delle zanzare che
diffondevano la malaria; le bestie feroci assalivano e facevano
scempio di uomini ed animali; non c’erano sentieri percorribili e
luoghi in cui ripararsi dai predoni e dal maltempo.
Allora decisero di andare a vivere sulla cima del colle dove ritirarsi la
notte e durante la cattiva stagione, per cui si dettero da fare a squadrare
dei grandi massi adatti alla costruzione delle mura del nuovo paese. In
quella valle vivevano in molte caverne dei pacifici giganti ed uno di loro,
Beppo, non dava fastidio a nessuno ed aveva una sua fissazione: non
voleva essere visto e non intendeva frequentare gli umani.
Osservò a lungo nascosto nella foresta gli sforzi disperati di quella
gente, poveri cacciatori e contadini, e quando si rese conto che stavano
per rinunciare al loro progetto uscì allo scoperto e si fece vedere. Senza
dire neanche mezza parola, cominciò a sollevare i
massi uno per uno come se fossero piume d’oca, e a
lanciarli sulla sommità della collina.
In poco tempo il gigante finì la sua buona azione,
scomparve e nessuno lo rivide mai più.
Da allora gli abitanti, grati al gigante buono, ogni
anno al tempo del raccolto, e la tradizione persiste
tutt’oggi, confezionano un grande pupazzo di paglia
che rappresenta il loro benefattore e lo espongono
su un muro della cinta muraria.
Montona sorge sul luogo in cui i primi Istri
costruirono uno dei tanti castellieri. Poi i Romani
dominarono l’Istria per sei secoli ed usarono come
base delle mura di cinta da loro edificate ciò che
restava di quelle celtiche; lo stesso fecero i Veneziani,
signori di Montona dal 1278, che a più riprese
edificarono le mura attualmente esistenti. Esse
testimoniano non solo l’antichità del luogo ma anche i
numerosi conquistatori che si sono succeduti nei secoli.
Molte lapidi romane sono emerse dagli scavi
dei due ultimi secoli e la parte murata nel
passo carraio del Torrione che porta al Castello,
testimonia la traccia profonda che i Romani
impressero qui, come in molti altri luoghi dell’Istria.
Oggi, ammirando queste poderose fortificazioni,
noi comprendiamo quale sia stata la loro
importanza per la vita della gente pensando a
quante volte hanno difeso il borgo fortificato dalle
invasioni di Avari, Germanici, Longobardi, Slavi,
Turchi ed Uscocchi.
La spinta a darsi in dedizione a Venezia parte un
po’ lontana: infatti nel 1265 Parenzo si ribellò ai
patriarchi di Aquileia per ottenere la libertà di
commercio assieme a Montona e Duecastelli.
Ma furono tante e tali le aggressioni che il borgo
fortificato subì non solo dai patriarchi di Aquileia ma anche dai
conti di Gorizia che tutti compresero che non c’era altro da fare
che mettersi sotto lo scudo forte di Venezia; la Dedizione fu firmata 19
viaggi
Viaggio
in
Istria
Montona
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viaggi
nel 1276 e portò a Montona protezione e
certezza dei suoi confini.
Da allora la città fu veneziana fino al 1797 e
l’ultimo podestà fu Francesco Maria Badoer
La Valle del Quieto era, con le sue immense
riserve di legame, la principale riserva di
provvista per la costruzione delle navi della
Serenissima e, nello stesso tempo, fonte
non piccola di guadagni per chi, sul posto ne
esercitava il controllo e la difesa.
A tal proposito una Parte (legge) del 1777
recitava così: “...le altre piante e ricavati non
buoni per i lavori dell’Arsenale e le porzioni
inutili separate dalle piante offese (dovranno)
integralmente rimaner in natura dovendo a
piacere (servire), uso, e benefizio dei Padroni
dei Boschi, e Comuni, colla libertà anco della
vendita alli Squeraroli ed a qualunque suddito...”
La Serenissima definiva il Bosco di San Marco
“la luce dei suoi occhi” e lo difendeva con leggi
severissime; a riprova di ciò sono ancora visibili,
come a Pinguente, le bocche per le denunce
segrete contro chi rubava o danneggiava i boschi
della Valle del Quieto.
La nostra visita subì un improvviso cambio di
programma perché non fu possibile visitare
Pinguente, essendo la strada interrotta da
lavori in corso. La nostra guida, il signor
Adriano, ci suggerì allora di andare a visitare
la chiesa di Santa Maria delle Lastre a Vermo,
dove giungemmo attraverso una stradina da
brivido e sotto la pioggia battente.
Vermo: Madonna delle Lastre
Pioveva che Dio la mandava quel mezzogiorno del 18
aprile, tanto che rinunciammo ad andare a Pinguente e
così, con un po’ di contarietà della guida, dopo la visita
di San Lorenzo, decidemmo di salire alla Chiesa della
Madonna delle Lastre a Vermo.
La stradina, sarebbe meglio dire il viottolo, sebbene
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asfaltato, era stettissimo e la valle del fiume Cipri lungo
la quale si snoda è pressoché disabitata. Questa strada è
chiamata Chizzer, che vuol dire pericolosa.
Trovammo un piccolo tesoro immerso in uno bosco di
pini e tigli formato da un portichetto a tre arcate ed un
campanile a vela con la bifora che ospita la campana.
Antichissimo villaggio, Vermo fu sede anche di un’antica
abbazia dei Benedettini intorno all’anno mille. Il pavimento,
la facciata e l’acquasantiera sono originali di quel periodo.
I monaci lasciarono l’abbazia intorno al XIII secolo, poi
tutto andò in rovina eccetto la chiesetta cimiteriale.
Al suo interno un arco a sesto acuto divide il
presbiterio dallo spazio dei fedeli e conserva
bellissimi affreschi del 1747 di Vincenzo da
Castua, coetaneo (qualcuno dice padre)
di quel Giovanni da Castua che affrescò
Cristoglie.
La mano e la scuola pittorica tirolesecarinziana è la stessa. Uguale la tematica
dell’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte
alla morte e l’ansia di giustizia che animava il
popolo contadino di quei duri tempi.
La Danza Macabra si snoda sopra la porta:
due scheletri danzanti tengono per mano
un vescovo ed un re; un terzo abbraccia una
regina e così via. Belli da non dire anche i
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Magi a cavallo con donne e cavalieri, l’Annunciazione, la
Nascita, il Battesimo e la Passione nelle altre pareti.
C’è un però: la trascuratezza dell’interno della chiesetta
priva d’illuminazione, priva di qualunque cartolina o
piccolo foglietto illustrativo del tesoro di Santa Maria
delle Lastre.
Sarebbe da segnalare, se esiste in Istria, a qualche
sovrintendenza artistica, questa grave trascuratezza!
viaggi
SECONDO VIAGGIO
23-25 Ottobre 2015
Rovigno
Santa Eufemia (Calcedonia 289-303 d. C.),
arrestata durante le persecuzioni di
Diocleziano il 16 settembre 303 fu data
in pasto ai leoni che, mangiatale solo
una mano, si fermarono percependo
la sua santità. Nel’800 il suo corpo
sparì da Costantinopoli ed apparve
miracolosamente sulle spiagge di
Rovigno. Invano i pescatori del luogo
cercarono di sollevare il sarcofago e ci
riuscì soltanto un giovinetto con l’aiuto
di due paia di buoi.
Da allora S. Eufemia è stata proclamata
patrona di Rovigno ed il sarcofago è custodito nel duomo
che svetta sulla cima del paese.
In quei secoli i pirati narentani e saraceni tormentavano
l’Istria orientale ed erano per Rovigno una vera Via Crucis
ma anche i pirati croati di Demagoi almeno due volte,
nel’880 e nel’887, saccheggiarono la città.
Dopo il X secolo conobbe periodi meno duri, come
testimonia il fatto che riprese a pagare le decime agli
ingordi suoi canonici: 1/15 di biade, uve e legumi; 1/10 di
agnelli e capretti; 1⁄2 staio di frumento per ogni capo di
buoi; 1 capo di animale per ogni mandria.
La relativa tregua alle scorrerie si deve alla Serenissima che
protesse Rovigno dalla pirateria che vendeva come schiavi i
suoi marinai, ma la città dovette subito rendersi conto che il
Communis Venetiarum non faceva niente per niente.
Temendo di essere caduti dalla padella alla brace i
Rovignesi cercarono più volte ma invano di togliersi di
dosso il giogo della città lagunare. Poi si rassegnarono.
Da allora le navi e la città furono più al sicuro in cambio di un
contributo annuo per la costruzione della basilica di San Marco
e l’esenzione dai dazi nel suo porto per le navi veneziane.
Non era finalmente pace ma non era nemmeno guerra
permanente. E’ da credere che i Rovignesi fossero
abbastanza stanchi dell’insicurezza della loro città e della
loro vita, così Venezia ottenne, anche se non proprio
spontaneamente, l’Atto di dedizione nel 1283.
Venne nominato un podestà al quale i cittadini dovevano
procurare un alloggio condecente e corrispondere un
compenso di 400 marche d’argento all’anno.
Da allora Rovigno stette stabilmente sotto il vessillo di
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San Marco fino al 1797.
Per contrastare la crisi dell’agricoltura, dovuta alla scarsità
di braccia ed alla poca attitudine al lavoro dei campi
dei locali, Venezia provò ad aumentare la popolazione
attirando molti immigrati dal Friuli e dalla Dalmazia.
Le città cercava di uscire dalla miseria ricorrendo alle più
variate ed illegali attività quali il commercio degli schiavi,
vietato da Venezia da almeno quattrocento anni.
Venezia voleva dall’Istria solo marinai per le sue navi, e
schiavoni per il suo esercito; il suo olio, il vino, le biave e
l’uso degli scali marittimi. Per questo i loro rapporti non
sono sempre stati tranquilli!
Un grande subbuglio si ebbe, ad esempio, nel 1695 e negli
anni seguenti. Un certo Biasio Caenazzo, detto Toto, di
Chioggia ebbe l’idea di allargare la pesca del pesce azzurro,
sardine, acciughe, tonni, in alto mare verso l’Istria.
Da questa grande abbondanza prese avvio un redditizio
commercio di sardelle salate ma anche la guerra delle
sardelle con Chioggia.
Si pensi che la faccenda era così acutamente percepita
dai rovignesi, ne andava infatti della loro sopravvivenza
economica, che dal 1776 al 1778 ci furono ben quattro
interventi del governo veneziano per arginare la
pesca illegale, la vendita delle sardelle salate, ed il
contrabbando di sale.
Nell’agosto del 1767 per arginare il fenomeno del
contrabbando del sale e delle sardelle il governo veneto aveva
mandato altri cinque dazieri di rinforzo alla guarnigione locale.
Ma quando cercarono d’indagare sul contrabbando
furono circondati da un’accozzaglia di popolani, per
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viaggi
lo più donne, in atteggiamento minaccioso e dovettero
sparare per disperdere la folla, ferendo uno degli
assalitori. In definitiva nessuno risolse mai il problema del
contrabbando di Rovigno, né Venezia né Napoleone né gli
Austriaci nel XIX secolo.
Un grande sole graziò la nostra seconda visita in Istria
che ci ripagò dell’acqua che ci aveva afflitto durante la
prima. Passeggiare per le vecchie calli veneziane che
ricordano scorci di Chioggia, di Murano e certe calli
di Castello attorno all’Arsenale, ahimè desolatamente
disabitate, è stato un grandissimo piacere.
Altrettanto emozionante è ammirare il mare di Rovigno
dal piazzale della basilica di Sant’Eufemia ed è anche
divertente farsi fotografare con i padroni di casa, enormi
uccelli (cocai, cormorani?), impertinenti ed esibizionisti
che, in cambio di un biscotto, si lasciano fotografare con i
turisti dritti sulla spalletta del piazzale.
Colmo
Recandosi a Colmo, la più piccola città del mondo
entrata nel Guisness dei primati, si è accolti dal viale dei
Glagoliti, dieci monumenti che ricordano gli intellettuali
ed i preti che hanno fatto rinascere la loro antica lingua
protoslava: il glagolitico.
Colmo ha una piazzetta con chiesa e campanile che
sembrano una miniatura e non potrebbe essere altrimenti,
visto che la città è lunga cento metri e larga trenta!
Fu abitata dagli antichi Istri e dai Romani, poi dal 1202 al
1405 fu feudo dei
patriarchi.
Le stradine in
sassi di fiume,
le piccole scale,
le tettoie fiorite,
tutto fa pensare
ad un mondo
di marzapane o
alla quinta di uno
spettacolo per
bambini della
scenografia di uno scorcio di architettura urbana minore
veneziana. Anche la storia di Colmo è però fatta di lacrime
e sangue: i suoi abitanti erano i discendenti degli antichi
Celti e Venezia ci impiegò un bel po’ per domarli (dal 1420
al 1523). Al loro primo apparire, i Veneziani furono accolti
male e loro, tanto per chiarire, abbatterono le antiche
mura della città, costruite sui resti di quelle celtiche.
Poi, dopo il 1523, a possesso definitivo della città, le
ricostruirono e sono quelle che ammiriamo ancora oggi.
Prima la città aveva conosciuto una grande peste nel 1423
e tre devastanti incursioni turche tra il 1471 ed il 1511.
Colmo fu un importante presidio militare di confine e fece
parte di cinque castelli alle dipendenze del capitano militare
di Pinguente. Le due grandi pestilenze, quella citata e quella
del 1630, la spopolarono quasi completamente e Venezia
la ripopolò trasferendovi friulani e veneti, oltre a croati e
bosniaci, dando vita ad una commistione di razze e lingue
poco gradita dagli Istriani.
La chiesa di San Girolamo, di stile romanico con pregevoli
affreschi del XIII secolo ed il bel cimitero della stessa epoca
sono state le due sole cose che abbiamo potuto visitare.
Duecastelli
Il cambio di programma del primo giorno ci costrinse ad
una visita un po’ frettolosa di Colmo perché ci aspettava
il Canal di Leme e le rovine di Duecastelli.
Si tratta delle imponenti rovine nel Vallone della Draga di un
castello fortificato formato in origine da due fortificazioni
poi riunite in una:
Moncastello e Castel
Parentino.
Nei tempi migliori aveva
anche mille abitanti ed
era a guardia della Valle
della Draga che portava
a sua volta in quella del
fiume Quieto e dunque
proteggeva il Bosco di
San Marco, Pinguente,
Canfanaro e Montona.
Fu la grande peste del
1630 a dargli il colpo di
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Pinguente
Ormai i nostri lettori hanno capito che l’Istria veneziana
è tutta figlia della stessa storia: le mura delle città
poggiano su antiche mura celtiche, poi modificate
dagli Istri, poi dai Romani e nell’età feudale, poi spesso
abbattute e rifatte da Venezia, come avvenne a Colmo.
Quando la visita di Pinguente sembrava allontanarsi
per la seconda volta come quella di Montona nel
pomeriggio, dopo il pranzo a Pisino, decidemmo di
modificare il programma sacrificando Sanvincenti (un
gran peccato perché ha la piazza veneziana più grande
dell’Istria) pur di raggiungere Pinguente, sebbene nel
pomeriggio un po’ inoltrato.
La nostra soddisfazione fu grande quando percorremmo il
lungo viale in salita che termina con un bellissimo portale
veneziano del XVI secolo che ci portò in città.
Pinguente è un dei luoghi più antichi dell’Istria e sarebbe
interessante ripercorrerne la storia dai tempi dei Celti,
fu infatti un antico castelliere, in poi. Ma le pagine del
Gabbiano non sono molte e dobbiamo limitarci a qualche
breve cenno del periodo veneziano.
Pinguente con Montona era il nume tutelare della Valle del
Quieto e del Bosco di San Marco, oltre che dei confini con i
territori imperiali. La Bocca per le denunce segrete contro
chi danneggiava il bosco, murata sul palazzo di quella che fu
la sede del Capitano di Raspo, è ancora là a testimoniarlo.
Era per questo curatissima da Venezia che la possedette
ininterrottamente dal 1421 per 286 anni e la città è tutta
veneziana e si vede benissimo.
Dopo la caduta del Castello di Raspo, Pinguente nel 1511
divenne la magistratura del Pasenatico con 40 cavalieri ed un
comandante militare che continuò a chiamarsi Capitano di
Raspo, ed aveva giurisdizione su ben dodici villaggi, oltre che
il controllo dell’integrità del Bosco di San Marco.
Pinguente passò un brutto momento nel 1614 quando
gli Uscocchi l’assalirono, la distrussero, incendiarono,
massacrarono gli abitanti, la guardia veneziana e rubarono
ottomila pecore. Venezia provvide subito a rinforzarne le
difese distruggendo orti e camminamenti fuori le mura e
di Uscocchi non se ne videro più.
Ma non c’era muro che potesse fermare la peste e così poco
dopo, nel 1630, anche Pinguente conobbe una seconda tragedia
ma non fece la fine di Duecastelli perché era strategicamente e
militarmente troppo importante per Venezia.
Gli Uscocchi furono allontanati dall’Istria dopo la Pace
di Madrid del 1617 e, passata la buriana della peste del
1630, queste tormentate terre poterono finalmente
godere di un po’ di benessere, sempre relativo a quei
tempi difficili, beninteso. Grazie anche ai nuovi coloni
non istriani che Venezia aveva trasferito nelle campagne
incolte dando loro in uso terreni da coltivare, case
coloniche abbandonate e stanzie isolate.
Il Magistero dei Beni Inculti dal Palazzo Ducale vigilava
e governava la rinascita di Pinguente con la protezione
dell’agricoltura, l’invio di torchi ed il potenziamento della
coltura degli ulivi e delle vigne, così da poter trarre da
questi miglioramenti ogni vantaggio possibile.
Venezia, non va dimenticato, chiedeva ai suoi territori
d’oltremare solo ciò che le serviva (l’ulivo ed il grano da
Pinguente, gli schiavi ed i galeotti per le sua navi da Rovigno
e così via) e non si è mai preoccupata del benessere dei suoi
sudditi non veneziani di nascita.
Ma qualche volta anche per loro faceva qualcosa di positivo,
come a Pinguente dopo il 1630 mentre lasciò morire
Duecastelli perché il suo interesse preminente guardava a
Canfanaro.
viaggi
grazia: il castello venne abbandonato, la malaria riprese il
sopravvento nella valle, e le opere d’arte della chiesa di
Santa Sofia e del Battistero furono trasferite a Canfanaro
dove si trovano tuttora.
Si narra che in una tomba del cimitero del castello sia
stato ritrovato un documento che descrive il disastro
della peste del 1630. Solo per rendere un’idea e dar
conto della decadenza: nove paesi del circondario
completamente privati di abitanti; i superstiti di
Duecastelli furono 121; dal 1630 al 1635 i matrimoni
furono in tutto diciotto ed i nati trentasette.
Le rovine di Duecastelli sono imponenti ed in parte
ben tenute; il luogo fu abitato fin dalla preistoria,
come dimostrano i reperti rinvenuti nella grotta di San
Romualdo nel Canal di Leme, e poi da Celti, Romani,
feudatari Bizantini e Franchi, Patriarchini e Veneziani.
Il percorso della visita si snoda tra imponenti ruderi di
case e stalle; s’intuiscono resti di fornaci, di camini e di
cucine finché si giunge all’antico complesso romanico
della chiesa di Santa Sofia.
Nonostante l’abbandono plurisecolare le sue possenti
fortificazioni resistono ancora in gran parte e risalgono
al restauro fatto da Marco Loredan nel XVII secolo.
Il luogo è di una bellezza intrigante e quando si lascia si
desidera già di tornarci, magari con più calma.
La grande assente delle nostre passeggiate istriane è
stata Montona: non siamo riusciti a trovare il tempo di
arrivarci, la pioggia ed i disguidi ci sono stati avversi!
Ecco il motivo per cui l’ho voluta inserire, comunque,
come se ci fossimo andati, all’inizio questo testo.
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Libri - a cura di niky
LA CONGIURA
BEDMAR
CONTRO
VENEZIA DEL
1618
di
Gianfranco Pontini
Edizioni Alcione
In questo libro
Gianfranco Pontini
traduce dal francese
La congiura Bedmar
del 1618 secondo la
narrazione di César
Vichard Abbé de Saint-Réal, che indaga sul delirio di
onnipotenza dell’ambasciatore spagnolo e del vicerè di
Napoli duca d’Ossuna.”
Il testo, pressoché inedito in Italia, consiste in una
documentata analisi dell’ideazione del complotto, dei
personaggi che ne furono protagonisti, dello svolgersi
della vicenda e dell’imprevedibile fallimento della
congiura stessa dovuta al repentino pentimento di un
congiurato. Intorno al fatto si sono sviluppate nel XIX
secolo le più fantasiose ipotesi circa la sua reale esistenza
e la tesi, soprattutto francese, di un grande inganno
messo in atto dalla Repubblica di Venezia per farla
credere tale, giustificando così l’incredibile massacro
di alcune centinaia di presunti congiurati, in realtà
incolpevoli.Saint-Réal costituisce un caso: sembra infatti
esistere una sola traduzione in italiano del romanzosaggio di Saint-Réal che risale al XIX secolo, peraltro di
difficile lettura.In quegli anni, 1617 e 1618, Venezia corse
il più grande rischio della sua storia di venire cancellata
dalla carta politica dell’Italia e dell’Europa.
Mai la Spagna fu più vicina ad ottenere l’egemonia
completa sull’Italia e sui mari, dove Venezia esercitava il
suo dominio del Golfo. In ogni caso la congiura Bedmar
fu senza dubbio uno degli episodi più disonorevoli
dell’intera storia
della Spagna dell’età
moderna.
OGNUNO
POTREBBE
di Michele Serra
Edizioni Feltrinelli
“Perché la parola
“io” è diventata
un’ossessione?Perché
fare spettacolo di ogni
istante del proprio
vivacchiare? Giulio non lo sopporta, e soprattutto non
lo capisce. Si sente fuori posto e fuori tempo.”
Ognuno potrebbe è la riflessione tragicomica di un
individuo, intensamente insofferente al mondo che lo
circonda, che denuncia la profonda crisi di una società
che il narcisismo digitale non basta a mitigare. Una
società in cui tutti parlano nell’egofono (altrimenti noto
come smartphone), tutti fotografano, tutti sembrano più
piccoli degli avvenimenti che li coinvolgono.
Il protagonista, Giulio Maria, sociologo ricercatore
impegnato a interpretare i gesti di esultanza dei
calciatori, vive in un paese del nord Italia, regno delle
rotonde, degli ipermercati, dei Suv e dell’anonimato
sociale; ha un amico, grande ottimista che, come molti,
considera il “piuttosto bene” alternativa realistica al
“piuttosto male”.
Il mondo che Michele Serra racconta in “Ognuno
potrebbe” non è altro che il nostro. Serra ne analizza i
piccoli gesti, i comportamenti comuni, l’uso esagerato
del telefonino, il chiacchiericcio inconcludente,
raccontando una umanità sempre più demotivata e
narcisista.
YOSHE KALB.
Edizizione integrale
di Israel Joshua
Singer
Newton Compton Ed.
“Nel romanzo del
fratello maggiore di
Isaac Singer, Nobel
per la letteratura,
una ironica e precisa
parabola sulla crisi
d’identità del 900.”
Ambientato nel XIX sec.,
nella Galizia austriaca e
ispirato a una leggenda popolare polacca, questo romanzo
è la storia di un ebreo, diviso tra una profonda spiritualità
e una morbosa passione erotica, e costantemente in fuga
alla ricerca di sé stesso. Tra il misticismo e la carnalità,
il lusso e la miseria, l’ignoranza e la conoscenza, il suo
destino è quello dell’Ebreo errante.
Chi è l’uomo, assente e impenetrabile, che alla domanda
«Chi sei?» dei settanta rabbini appositamente convenuti
dalle grandi città della Polonia russa e della Galizia
risponde solo, con flebile voce: «Non lo so»?. Nahum,
il fragile e giovane marito della figlia del Rabbi , e Yoshe
Kalb, il tonto, il più miserabile dei mendicanti, sono
davvero la stessa persona? È un asceta, un santo o un
peccatore, uno spergiuro? L’impossibilità di decidere
del proprio destino, l’esilio da se stessi, l’angosciosa
ricerca di una patria, trovano in questo personaggio una
struggente, indimenticabile incarnazione.
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FONDAZIONE TEATRO LA FENICE DI VENEZIA
a cura di Anna Maria
STAGIONE LIRICA e BALLETTO 2015 - 2016
TEATRO LA FENICE
gennaio 22-24-28-30 / 3 febbraio 2016
Stiffelio
Melodramma in tre atti.
musica di: Giuseppe Verdi
libretto di: Francesco Maria Piave
maestro concertatore e direttore: Daniele Rustioni
regia di: Johannes Weigand
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Personaggi e interpreti principali
Siffelio: Stefano Secco – Lina: Julianna Di Giacomo
Stiffelio è un pastore protestante, uomo di chiesa che,
scoperto il tradimento della moglie Lina, contro ogni
convenzione sceglie di perdonare l’adultera durante un
sermone domenicale.
TEATRO MALIBRAN
gennaio 23-26-31 / febbraio 2,4 - 2016
Dittico
Agenzia matrimoniale
Opera buffa in un atto
musica e libretto di: Roberto Hazon
Il segreto di Susanna
Intermezzo in un atto
musica di: Ermanno Wolf Ferrari
libretto di: Enrico Golisciani
maestro concertatore e direttore: Enrico Calesso
regia di: Bepi Morassi
scene e costumi Accademia Belle Arti di Venezia
Orchestra del Teatro La Fenice
Due piccole opere che tratteggiano con intelligente leggerezza
i rapporti di coppia.
TEATRO MALIBRAN
febbraio 7-9-11-12-13, 2016
Les Chevaliers de la Table ronde (I cavalieri della tavola rotonda)
Opéra bouffe in tre atti
musica di: Hervé
libretto di: Henri Chivot e Alfred Duru
trascrizione per tredici cantanti e dodici strumentisti di: Thibault Perrine
maestro concertatore e direttore: Christophe Grapperon
regia, scene e costumi di: Pierre-André Weitz
strumentisti della compagnia Les Brigantes
Andata in scena per la prima volta nel 1866 al Théâtre des
Bouffes-Parisiens. Cavalieri e dame, eroi del ciclo bretone,
vengono messi in ridicolo con perizia e maestria.
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TEATRO LA FENICE
marzo 18-20-22-24-26, 2016
Madama Butterfly
tragedia giapponese in due atti
musica di: Giacomo Puccini
libretto di: Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
maestro concertatore e direttore: Myung-Whun Chung
regia di: Àlex Rigola
scene e costumi di: Mariko Mori
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Progetto speciale nel 2013 della 55. Esposizione internazionale
d’Arte della Biennale di Venezia.
STAGIONE SINFONICA 2014 - 2015
TEATRO LA FENICE
venerdì 26 febbraio 2016 ore 20.00 turno S
sabato 27 febbraio 2016 ore 17.00 turno U
direttore Eliahu Inbal
Orchestra del Teatro La Fenice
Anton Bruckner / Sinfonia n.8 in do minore WAB 108
TEATRO LA FENICE
venerdì 4 marzo 2016 ore 20.00 turno S
sabato 5 marzo 2016 ore 17.00 turno U
direttore Omer Meir Wellber
pianoforte: Alessandro Marchetti (vincitore del Premio
Venezia 2014)
Orchestra del Teatro La Fenice
Zeno Baldi / Lo sciame all’interno / nuova commissione
nell’ambito del progetto “Nuova musica alla Fenice” con
il sostegno della Fondazione Amici della Fenice / prima
esecuzione assoluta.
Wolfgang Amedeus Mozart / concerto per pianoforte e
orchestra n.23 in la maggiore KV 488
Anton Bruckner / Sinfonia n.6 in la maggiore WAB 106
TEATRO LA FENICE
venerdì 25 marzo 2016 ore 20.00 turno S
direttore: Myung-Whun Chung
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro: Claudio Marino Moretti
Gioachino Rossini / Stabat Mater per soli, coro e orchestra
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UNIVERSITÀ
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IL GABBIANO FELICE n°6
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Con i nostri più cari auguri agli iscritti dell`Unitre e ai lettori del