digital magazine luglio/agosto 2010
N.69/70
numero
doppio
matthew
Il noise del
herbert
canalese
challenging music
Caravan
Rebel Blues
Michael Leonhart
Digi G'Alessio
Pontiak
Tame Impala // Sleigh Bells // Oriol // Electric Wire Hustle
Jimmy Edgar // Crucial Blast // We are Scientists
69/70
Sentireascoltare n.
Turn On
p. 4
Tame Impala
5
Sleigh Bells
6
Oriol
7
Electric Wire Hustle
8
Jimmy Edgar
10
Crucial Blast
12
We are scientists
Tune In
14
Michael Leonhart
16
Pontiak
19
Digi G'Alessio
Drop Out
20
Il noise del canalese
28
Matthew Herbert
38
Caravan Rebel Blues
Recensioni
42
Africa Hitech, The Books, Chemical Brothers, Laurie Anderson...
Rearview Mirror
92
Morton Subotnick, Walter Gibbons..
Rubriche
88
Gimme Some Inches
90
Re-boot
104
Giant Steps
105
Classic Album
106
La Sera della Prima
SentireAscoltare online music magazine
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Stefano Solventi, Teresa Greco.
Staff: Leonardo Amico, Marco Boscolo, Giancarlo Turra, Diego Ballani, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti,
Fabrizio Zampighi, Andrea Napoli, Marco Braggion, Filippo Bordignon
Guida
2
In
spirituale:
copertina:
Adriano Trauber (1966-2004)
matthew herbert
L
a miccia è stata innescata dal solito Pitchfork, che ha trasformato il loro nome in quanto di più cool possa trovarsi citato nell'orbita internettiana. Buffo destino per quest'oscura creatura
che pare approdare a noi dalle nebbie dei tardi 60s.
La loro è una psichedelia liquida, che si libra su paesaggi
desertici e aggrovigliate strutture arboree, ha una matrice heavy, ma si è ripulita di tutte le scorie metalliche per
innalzarsi in eteree spirali sonore.
Una storia che inizia con un ep senza titolo, uscito nel 2008 e ribattezzato Antares Mira Sun in virtù delle arcane iscrizioni inserite nel disegno di copertina. “E’ un quadro che rappresenta la nebulosa di Orione
- afferma il giovane leader, Kevin Parker - composta in
parte da gas e in parte da polvere. Non una vera e propria stella ma una stella in fieri”. Questo tanto per farsi un'idea dell'afflato elementale che anima la band.
Parker, ha scritto e suonato ogni singola nota finora incisa e ci tiene a far sapere che i Tame Impala sono la sua
creatura. "Ha funzionato così sin dall'inizio, mi piace avere
il controllo totale. Ognuno degli altri membri della band ha il
proprio progetto. Io stesso suono in un altro paio di foramzioni guidate da altri musicisti".
Nel frattempo però gli Impala hanno iniziato a decollare, grazie ad importanti apparizioni al fianco di gente
4
Turn On
Sleigh
Bells
Turn On
Tame Impala
—Lucide visioni—
—Power indie hop—
Un leader giovane dalle idee
chiare e la sua band: gli utlimi
eredi della gloriosa tradizione neo
sixties australiana.
L'ennesimo duo lui/lei, definitivo
hype annunciato. Come dei White
Stripes da un'altra dimensione,
il portato hardcore di Derek e il
teen pop di Alexis
come Kasabian e Black Keys, e al tour di supporto
ai MGMT, da cui hanno imparato a gestire lo status di
next big thing. Per il primo attesissimo album ci si sarebbe aspettati un balzo in avanti in termini di etichetta e
produzione, loro invece hanno confermato la Modular e
sono andati a registrarlo a New York, sotto la supervisione di Dave Friedman dei Flaming Lips "l'unica persona che avrei accettato di avere al mio fianco" sottolinea
Parker.
Innerspeaker è un gioiello dal suono vintage ma
estremamente pulito: non si fa rinchiudere nell'angusto
steccato del verse-chorus-verse, si arricchisce di gustosi
effetti e tastiere analogiche e lambisce architetture prog
senza mai suonare stucchevole o pretenzioso. Al contrario, brani come il singolo Solitude Id Bliss ridefiniscono
il ponte fra antico e moderno psycho pop. Quest'ultima poi è arricchita da un video al tempo stesso oscuro,
apocalittico, disperato e poetico "Più che la clip del brano
- continua Parker - è una specie di cortogmetraggio, a cui
il pezzo funge da colonna sonora" In questo senso Innerspeaker, ribadisce la sua cinematicità, candidandosi a
score ideale per pellicole impossibili.
Diego Ballani
I
l successo era più che annunciato dallo scorso autunno, l'hype caldissimo ancor prima che sul mercato
fosse uscito alcunché. E proprio come ai tempi del punk,
gli Sleigh Bells, sissignori ancora un duo XY, con l’ex
Poison the Well Derek Millere l’ex Rubyblue Alexis
Krauss, rispettivamente hardcorer l’uno e teenpopper
l’altra pareva d’esser tornati ai tempi delle Slits o meglio
ancora dei Flowers Of Romance.
L’effetto mediatico della bella e la bestia aveva scatenato le voglie del popolo indie americano, e il solito
Pitchfork ne aveva colto il potenziale per poi raccoglierne i frutti anche (e soprattutto) in forza del terreno comune tra i due che si rivelava essere, ancora una volta,
l’espediente hip hop.
Come molto dell’indie bianco doppio zero americano
(e oltre), gli Sleigh Bells condensano, grazie a drum machine e sequencer, l'intera sezione ritmica: la boomastica
la amano alla follia ma pure i tribali secchi e il pestato macho in odor di Queen o persino certo trionfalismo rock
da live show sono nel menù. La logica è quella in your face
del sound system con tanto d'euforia e inneggiamento
nello stile del Bomb Squad legato ai Public Enemy. La
coppia di amici però si gioca tutto sui contrasti tra ma-
schile e femminile: lui a propinare chitarre filtrate che
paiono synth (Major Lazer, Crookers, Bloody Beetroots
e compagnia bella), e meglio ancora, riffettoni pesantissimi tra hardcore e raw metal; lei a cantarci sopra mood
angelici dream/teen conditi da un retrogusto grime. Il
canto, infatti, ci porta diritti a M.I.A., impazzita per loro
tanto che nel suo nuovo album la ditta Sleigh pare di
sentirla ovunque (ascoltate soltanto Meds And Feds).
Treats, il debutto di Alexis e Derek è uscito negli
USA a inizio mese per un’etichettina, la NEET, in combutta con la Mom & Pop che già abbiamo incontrato con
i Tokyo Police Club, mentre in Europa, l’album se l’è
accaparrato la rapace Columbia. La Neet guardacaso è
la neonata etichetta di Maya stessa e dalle casse ghetto
blaster dell'indie hop del loro primo successo, Crown On
The Ground, c'è qualcosa della sua Paper Planes. Di ben
altra fattura le chitarracce à la Bologna Violenta di
Straight A’s; e non mancano gli indoramenti della pillola
Lali Puna (Run The Heart, Rachel). Un album corto, canzoni brevi, idee semplici e sempre over the top. C’è da
scommetterci, i White Stripes in un'altra dimensione
suonano così.
Edoardo Bridda
5
—Giorno e notte—
Un perfetto incrocio tra hip
hop, fusion e soul per il nuovo
campioncino targato Planet Mu.
Elettro senza farsi mancare la
balearica
—Soul-hop
neozelandese—
L'esordio degli all blacks del soul
L
U
no dei passaggi obbligati di questo 2010 ritmico, il
lavoro di Oriol è la smarcatura ideale dalle pose
arty di Toro Y Moi, l’off focus di Washed Out e i tagli
vintage di Hudson Mohawke. Il suo è un mix che parte
da Bibio e dalla Warp per tuffarsi in un mare di black
(funk, soul, jazz, hip-hop) mantenendosi in relax balearico. Non è hip hop, non è glo, non è Seventies ma è un
po’ di tutto questo e non c’è di che stupirsi se trascorsi
e DNA sono belli meticciati e di pronto utilizzo sonico:
un padre di Trinidad, la madre spagnola (di Barcelona),
studi a Boston e oggi una vita tra Cambridge e Londra,
un’eredità culturale che si coniuga perfettamente con
background dance made in britannia. Sonocresciuto in Inghilterra ascoltando drum’n’bass e house con mix di culture
infuso dai miei genitori mi ha sicuramente influenzato, ci confessa via mail. Poi arrivano le influnze e il gusto personale
“Mi piacciono Quincy Jones, Herbie Hancock, Joe Henderson,
Men At Work” e sono tutti grossi calibri, con l’Hancock
e l’electro jazz sicuramente ad averlo colpito con maggiore incidenza. Poi, sull’attuale panorama elettronico, il
ragazzo snocciola tutti i nomi della scena. Burial, Zomby,
Ikonika. Anche se ci confessa che secondo lui il dubstep non
se la sta passando granché bene e i nomi che ha fatto sono
oltre il genere più che nei ranghi dello stesso. Allevolte quando
6
arrivi al successo chi ti seguiva dal basso ti volta le spalle,
dice perciò è meglio seguire una propria strada, magari
traguardando il cannocchiale su lidi distanti (solo in apparenza) dalle esperienze del suono now UK.
Oriol Sindhji sforna pseudo-hit baleariche (Memories,
Flux) e dentro ci taglia e cuci big beat (The Process) restando in campana su quadrature electro-soul (5 Bars),
slap-funk dal vago sapore squarepusheriano (Spiral) o su
tastierine midi che stanno facendo la fortuna dei glofiers (Joy FM). Di nuovo un richiamo alla declinazione
soleggiata e positiva degli Ottanta mascherata con ritmi
d’ordinanza già intuiti nella produzione dei Delorean
che lo danno sicuramente favorito come next big summer thing. L’agenda, del resto non mente, piena com’è
d’impegni, mix per URB e Mary Anne Hobbs (che ha
già fiutato l’eccellenza) e un tour che partirà a breve.
Quando gli chiediamo del perché viva a Cambridge e
non a Londra, ci risponde con un motto che riassume in
poche parole il suo lavoro: “Nice to hear the birds instead
of the cars sometimes”. Keep it going.
Marco Braggion
Turn On
Turn On
Oriol
Electric
Wire
Hustle
’esordio degli Electric Wire Hustle ci ha sorpreso
per un modo di interpretare il soul cosciente della
storia e nel contempo aperto alle sonorità off-genre. Il
trio neozelandese - formato da Myele Manzanza alle percussioni, Mara TK alle chitarre e alla voce, Taay Ninh alle
tastiere e all’elettronica - approda sulla lunga distanza
dopo trascorsi underground nelle cantine di Wellington.
A seguito di una gestazione autoprodotta, il disco omonimo è pronto a navigare oltreoceano e oggi esce anche
sul nostro emisfero.
Essere isolani marchia a fuoco il desiderio di indipendenza e di DIYness caratteristici del trio che, come ci
dice Taay via e-mail, spinge a “costruire qualcosa di unico”.
Partiamo dal nome, che “viene da una canzone di Common (il famoso rapper di Like Water for Chocolate, ndSA)
sull’album Electric Circus (2002, MCA). La canzone si chiama Electric Wire Hustle Flower. Come nome è abbastanza
astratto da non risultare categorizzabile. L’album nel suo
complesso mi ha trasmesso lo stesso effetto, nel senso che
sperimenta con suoni e influenze diverse”.
La sperimentazione è comunque mediata da fonti
storiche, che sono da cercare nelle sonorità inglesi (la
Nuova Zelanda è pur sempre un ex-colonia), ma anche
nel soul americano. Ad ascoltare il disco si nota anche
l’influenza massiva del turntablizm di DJ Krush, artista nipponico con cui i tre hanno collaborato: “per noi
è come un maestro zen. Quando abbiamo suonato con lui
bastava che annuisse dall’altra parte del palco e sembrava
che tutto fosse ok con uno sguardo”. Dal Giappone del dark
bbreaking si passa poi alle più contemporanee e originali
declinazioni del suono Warp: “Ci sono molti artisti dell’eti-
chetta britannica che ci hanno ispirato e che rispettiamo,
come Mark Pritchard, Africa Hi-Tec, Flying Lotus e Hudson Mohawke”.
Nel caso in cui volessimo catalogarli come soul, non
esitiamo a riferirci alla meglio gioventù di Erykah Badu
e dei Sa-Ra Creative Partners (Longtime), all’hip-hop
illuminato di A Tribe Called Quest e J Dilla e ai synth
sbilenchi di Dam-Funk (tutti personaggi che Taay cita
come influenze pesanti). Da qui a Flying Lotus il passo è brevissimo: “lo rispettiamo molto. Ha fatto parte della
Red Bull Music Academy a Melbourne nel 2006. Abbiamo
lavorato insieme a delle tracce. Collaborando con abbiamo
imparato molto e il suo ultimo album (Cosmogramma) è
brillante”.
E le voci? La bella voce bassa di Mara (è un lui) è
attorniata da featuring importanti, come quello del padre Billy TK (una leggenda neozelandese), la losangeliana
blues lady Georgia Anne Muldrow e la giovane cantante
di soul americana Stacy Epps (collaboratrice tra gli altri
di Madlib e MF Doom). Vocals senza pretese, un flow
naturale che non ha la spocchia da Grammy americano,
ma che si insinua in un percorso blindato dalla coscienza
dell’attimo. In certi tratti viene da pensare alla concentrazione e alla dedizione ai cori a cappella dei Fleet Foxes mescolati alla realness di J Dilla. Con tutto questo
ritmo che gira sembra doveroso chiedere qualche remix.
In effetti Taay ci dice che i ragazzi stanno lavorando a
qualche remiscelamento. e ad una richiesta su suoni più
dance il ragazzo ci anticipa che “il nuovo album suonerà
molto diverso”. A presto, giovani Hustle.
Marco Braggion
7
—You Know I'm a
V.I.P.—
Il secondo album di Jimmy affonda
sempre più il coltello nel burro
electrofunk, mettendo assieme
Kraftwerk, old school Detroit e nublack
8
Turn On
Jimmy Edgar
J
immy è sfuggente esattamente come ce lo si aspetta.
Al telefono non risponde. Dorme, è fuori casa, non c'ha
voglia. L'atteggiamento completa alla perfezione il profilo del
ragazzo, detroitiano classe '83 (coetaneo di Flying Lotus),
produttore, fotografo, videomaker e fashion artist, phisique
languido e look arty da efebo indie Duemila (un po' Patrick
Wolf, un po' algido stronzo).
Jimmy comincia a fare musica all'età di dieci anni,
mettendo le mani su tutto quello che gli capita a tiro:
batteria, sassofono, tastiere, basso elettrico. E' un tirocinio precoce e importante, durante il quale si fa l'orecchio soprattutto a suon di jazz. Ben presto però il richiamo della foresta - la giungla meccanica della Motor
City - lo porta ad esplorare altri territori: già a quindici
anni lo troviamo attivo nel circuito dei rave, con produzioni techno d'assalto e sperimentazioni al confine col
rumorismo. E' l'inizio di una carriera folgorante, da vero
enfant prodige, che lo vedrà passare con disinvoltura
attraverso generi diversi, in una miriade di progetti paralleli tra pseudonimi e collaborazioni.
Jimmy fiuta la wave elettronica del momento, tiene il
piede in più scarpe e così - raffinando la propria formula
techno - nel 1998 si lancia come Michaux, progetto
di eleganti calligrafie glitch e breakbit (il moniker è un
omaggio al poeta e grafomane "surrealista") che guarda
a Alva Noto, Ryoji Ikeda ma soprattutto al guru superminimal Thomas Brinkmann. Le sue produzioni
cominciano a essere pubblicate ufficialmente dal 2001
(inventandosi il duo Kristuit Salu vs Morris Nightingale, album one shot My Mines I nel 2002; l'unico
disco realizzato come Michaux, %20, vede la luce nel
2003) e ben presto il suo diventa un nome che gli addetti ai lavori conoscono e devono conoscere, anche
in veste di dj/remixer (proprio nel 2002 lo chiama al
bancone un Will Smith già superstar; è dello scorso
anno invece la coolissima rendition di Billie Jean, splendido omaggio a Jacko).
Jimmy muta ancora, sceglie il filone giusto al momento giusto, abbandona così il focus su glitch e break (così
radicalmente contemporanei da essere invecchiati troppo presto e troppo presto essere passati di moda) e si
dedica al proprio personale - e obliquo, non revivalistico
- homecoming detroitiano. Sposta l'asse sul funk e gli
anni Ottanta, con un feel via via sempre più analogico e
"suonato", creando una electro da club cesellatissima e
dalle atmosfere mollemente sexy e ambigue. Nel 2004
lo accalappia la Warp - nel pieno di quel percorso di
de-specializzazione del suono e di talent scouting a 360
gradi che la porterà ad avere il roster eterogeneo ma
di assoluta qualità che ben conosciamo - pubblicandogli
un paio di EP di riscaldamento. L'ultimo di questi indica
oltre ogni possibile dubbio le fonti di ispirazione, l'immaginario di riferimento, il cuore pulsante che anima
adesso Jimmy e la sua musica: Inner Citee Color. Nel
2006 arriva il primo album a nome proprio, Color Strip.
E' una track in particolare, fin dal titolo, a sintetizzarne al
meglio caratteristiche e qualità: Semierotiic. Palpito techno minimale, oscillazione electro, grassume electrofunk.
Ottimo.
Jimmy sente di avere raggiunto un primo traguardo
e comincia a sfuggire a se stesso, mettendo sul piatto
uno spin-off dietro l'altro: Plus Device (2006), X District (2007), Her Bad Habit, Black Affair (progetto di Steve Mason; Jimmy si occupa principalmente
del missaggio, ma scrive anche qualche track), Creepy
Autograph (2008), Noir Friction (2009). Sono tutte palestre di disimpegno, luoghi funzionali ad affinare
la nuova formula funk oriented, esercizi di stile e variazioni sull'eterno tema erotico/clubbistico. Perso tra
side project, gig e serate in passerella, passano quattro
anni prima che venga fuori il nuovo disco di Jimmy
Edgar. Che segna il passaggio sulla più consona !k7. Il
disco è l'ennesimo lavoro condotto con classe assoluta e padronanza dei ferri del mestiere e approfondisce
ulteriormente l'ispirazione funk, rende ancora più turgide e sexy le atmosfere, sottolinea ancora di più il feel
suonato (Jimmy registra su musicassetta e riversa poi
tutto su computer). Jimmy è sempre più nero: segue la
scena (per dire, pare sia fan di Kanye West) e mima
alla perfezione Justin Timberlake, il nu-r'n'b e l'HH
commerciale (Turn You Inside Out, Push), mette il ritmo
definitivamente sul piedistallo (gli stacchi mozzafiati di
Midnite Fone Call), riuscendo a coniugare eclettismo (gli
space synth Dam-Funkiani di Rewind, Stop That Shape,
l'house di In My Colour) e cifra personale. Il tutto con
le giuste strizzate d'occhio alla uber-tradizione di riferimento: i sempreverdi Kraftwerk.
Sempre più nero Jimmy e sempre più consapevole
del proprio appeal, anche commerciale: sempre più consapevole di essere - citando un suo vecchio pezzo - un
vip della scena.
Gabriele Marino
9
Turn On
Crucial
Blast
—Nadja, Gnaw Their
Tongues, Skullflower—
Festeggiamo l'anniversario
dell'etichetta di Hagerstown, dieci
anni di meticciati sonici lungo le
più estreme propaggini della musica
dura.
10
G
naw Their Tongues, Burmese, Nadja, Skullflower sono solo alcune tra le moltissime band
che figurano nel corposo catalogo della Crucial Blast di
Hagerstown, un'etichetta senza compromessi che per
dieci anni ha portato avanti sound estremo . L'anniversario è l'occasione migliore per ascoltarci in free download sul suo sito una mega compilation che raccoglie
gran parte delle band del roster, e fare due chiacchiere
con il suo capitano, Adam Wright che per gradire ci ha
raccontato come tutto nacque due lustri fa...
Crucial Blast è e partita in solitaria nel 2000. In seguito
ho arruolato un paio di ragazzi per darmi una mano con
relazioni pubbliche e mailorder, ma resta comunque una
one-man act. Ho incominciato pubblicando un paio di 7''
Hardcore nei '90. Sono stato subito totalmente preso da
quelle prime esperienze, ma volevo espandermi a forme
di musica più estreme: Hardcore Noise, Grindcore, Weirdo
Metal... e costruire poi un mailorder specializzato per quel
genere di cose. Al tempo era difficile trovare in un solo posto
tutta la roba weird-heavy che volevo ascoltare, così ho deciso
di provare a riempire quel vuoto. Siamo partiti lentamente
con un paio di uscite in sordina tra cui Merzbow, la mia
vecchia band trash-core Strong Intentions e qualcos'altro
fino al 2004. Quando i dischi in programma cominciarono a
farsi più numerosi ed ho iniziato a lavorare più seriamente
con nuove band e ampliando il mailorder fino a quel Behemoth che è adesso.
Contro la tendenza dominante in ambito indie, che vede la gran parte delle etichette coltivare il proprio orto di sub-sub-genere, lo spettro
di interesse della Crucial Blast è decisamente
ampio. Praticamente qualsiasi cosa suoni “estremo” sembra compatibile con l'estetica della label...
È semplicemente un riflesso dei miei gusti personali.
Pubblico la musica che mi piace, dalle band con cui voglio
lavorare. Tutto si riduce alla mia volontà di condividere
l'amore per questa musica con altre persone. Amo tutta
la musica e i suoni che sovraccaricano i sensi: ho seguito
Extreme Metal, Hardcore, Industrial, Impro e altre scene
per anni e ciò che mi appassiona di più sono quelle strane aree in cui si questi generi arrivano ad intersecarsi.
Quello che faccio è cercare di documentarle. Lungo i bordi di ogni genere musicale, il raggio di azione di Crucial Blast è tantomeno limitato geograficamente. Spulciando il catalogo dell'etichetta e dei dischi in distribuzione,
si trovano produzioni di oscuri act provenienti
dai luoghi più disparati e impensabili. Adam, da
una posizione di osservatore privilegiato: che sta
succedendo nel mondo della musica estrema? E
da dove credi stiano arrivando le cose più interessanti?
Sono sempre stato affascinato dalla musica proveniente dall'estero. C'è della roba fantastica da ogni parte
come i gruppi Black Metal medio-orientali che ho scoperto di recente, o l'immensa scena Doom proveniente
dai territori ex-URSS. Con la globalizzazione e internet,
arti e musiche estreme raggiungono ogni posto. Ora
sono innamorato delle Black Metal/Psychedelic Freakerie di Sheffield, UK, della minuscola Frequancy Thirteen label e di tutto il Black Noise torcicervello che sta
uscendo per piccolissime cassette-labels tra gli USA e
l'Europa.
Le cinque pubblicazioni Crucial Blast di cui
sei più fiero in questi 10 anni...
Questa è difficile. Sono fiero di qualsiasi cosa abbiamo fatto ma tra le 5 uscite che hanno avuto più impatto includerei Genghis Tron, Dead Mountain Mouth,
che è stata la pubblicazione più grande e quella che ha
richiesto il lavoro più duro; la ristampa di Skullflower,
IIIrd Gatekeeper, uno dei miei album preferiti dei primi '90; il primo album di Gnaw Their Tongues che ha
introdotto a un intero nuovo pubblico suoni nerissimi;
il nuovo disco di Subarachnoid Space, che è stata
un'opportunità di lavorare con una band di cui ero già
un grande fan da anni; il disco di Noism, altro mio favorito, non avrei mai pensato che sarei riuscito a recuperare quella band è fargli fare un intero EP, c'è voluto
oltre un anno per riuscirci, ma il risultato è uno dei più
estremi e feroci dischi avant-grind della scorsa decade.
Peer-To-Peer, Myspace, YouTube, qual è il tuo
rapporto con le nuove tecnologie?
Sin dall'inizio ho cercato di utilizzare al meglio Internet e le tecnologie digitali per promuovere le band
e ridurre le spese per il mailorder e l'etichetta. Finché
i social networks vanno, non posso fare a meno che
partecipare al gioco, anche se personalmente non sono
un fan e lo considero principalmente una gran perdita
di tempo.
...E infine qualcosa che avresti desiderato fosse stata realizzata da Crucial Blast
Non mi viene in mente qualcosa che mi sia sfuggito
o che volevo ma non sono riuscito a produrre... Forse
l'ultimo album di Abruptum per Southern Lord. Avrei
davvero amato lavorare con quei maniaci.
Leonardo Amico
11
Turn On
We Are
Scientists
—Anthem-pop
definitivo—
Quarto disco per il duo power-pop
americano diventato adulto sul
mercato britannico: la loro migliore
raccolta di canzoni
D
opo averlo inseguito per tre dischi (e un cdr), con Barbara la band americana ha realizzato il proprio sogno:
dieci brani tutti potenziali singoli, attraversati da uno spirito pop-anthemico sopra la media. Anche Chris Cain,
il bassista dei We Are Scientists, concorda che si tratti della miglior raccolta di canzoni che abbiano mai realizzato e
alla quale ha dato un contributo decisivo il nuovo arrivato Andy Burrows (ex Razorlight), semplicemente “il miglior
batterista con cui abbiamo mai suonato. Non solo perché è dotato tecnicamente, ma anche perché è creativo nello
scrivere parti di batteria che vadano a discapito delle canzoni stesse”. Ma oltre a un batterista stabile, le canzoni di
Barbara funzionano anche perché sono state realizzate in un'atmosfera creativa rilassata: “Con Keith (Murray, NdR)
e Andy, assieme al nostro produttore storico Ariel Rechtshaid abbiamo creato un ambiente creativo davvero
12
piacevole e non ci siamo mai trovati a discutere su qualcosa: la canzoni sono arrivate in modo molto naturale
e senza sforzo”.
La serenità che ha contribuito sicuramente a migliorare le capacità espressive di tutti i membri della band e
a fondere in un suono power-pop personale le influenze
e le ascendenze del sound dei We Are Scientists: british wave, college rock ed emo rock. O come preferisce
precisare Chris, “Blur, The Lemonheads e Jimmy
Eat World”. Un'idea di musica precisa, spesso con lo
sguardo rivolto alla terra d'Albione, e perfettamente cosciente delle proprie origini, che si confermano anche
parlando degli eroi musicali di Chris e della band: “Velvet Underground, Weezer, Poison, David Bowie,
Hall & Oates e Grandaddy”, in un miscuglio di ricerca sonora ed estetica, e un sano scazzo adolescenziale,
tipico della sottocultura slaker americana.
Ma nonostante le loro radici siano almeno per
metà targate a stelle e strisce, il loro sound ha scalato principalmente la classifica UK, grazie soprattutto al
primo episodio major della loro carriera, With Love
And Squalor del 2006 (seguito due anni dopo da Brain
Thrust Mastery), agganciandosi al revival post-punk/
new wave che in quegli anni cominciava a diventare cosa
davvero seria e con il quale, a voler essere del tutto
onesti, i We Are Scientists hanno pochino da spartire.
“Credo che ci mettano con quelle band soprattutto
perché siamo molto più conosciuti in Gran Bretagna
di quanto non lo siamo negli USA. Ma siamo contenti
di avere successo lì! Grazie a Dio siamo importanti da
qualche parte, altrimenti io avrei dovuto continuare a
fare lo sci nautico per vivere, e Keith starebbe ancora
vendendo Chicklets (chewing gum, NdR) sugli autobus
e nella metropolitana!”
Successo che verrà confermato sicuramente anche
da Barbara, grazie alla serie perfetta di ritornelli da
sing-a-long che l'album contiene, ideali soprattutto se
cantati a squarciagola mentre la band si esibisce live o
mentre si balla in una delle serate indie che oramai toccano tutte le città del mondo. Si tratta, insomma, del
disco che potrebbe definitivamente consacrare la band
a un successo al piano superiore anche fuori dalla Gran
Bretagna che li ha presi sotto la propria ala protettrice. Un disco intitolato con un nome di donna qualsiasi:
“avremmo potuto intitolare il disco in un numero praticamente infinito di altri modi – 'Jenny', 'Sophia', 'Agnes'
– ma alla fine credo che siamo arrivati a 'Barbara' perché è un nome andato fuori moda (pochissime ragazze
oggi si chiamano così), ma allo stesso tempo non è così
'old school' da suonare strano o antiquato. Altrimenti
l'avremmo chiamato 'Hroswitha'! Inoltre la parola 'Bar-
bara' lancia alcuni spunti interessanti per via della sua
radice latina. La stessa di parole come 'barbarico' e 'barbarie', la cui essenza è 'outsider', nel senso di fuori dalle
mura della civilizzazione”.
Non esattamente il ritratto del rocker-tipo, ma questo conferma solamente che nelle canzoni dei WAS,
sebbene si riferiscano sempre a un universo da emo
e college rock, non ci sono solamente i luoghi comuni
del genere. “I testi sono importanti e devono costituire
un equilibrio tra l'universalità del messaggio che si vuole trasmettere e l'esperienza individuale. Devono avere
abbastanza dettaglio da farti capire che ti stanno dicendo qualcosa di reale, ma devono allo stesso tempo essere vaghi perché chiunque vi si possa immedesimare”.
C'è quindi una poetica molto precisa dietro alle scelte
di Chris e Keith, che si mostra anche attraverso il design
della copertina. “C'è quella piccola spada che in realtà è
un accessorio da cocktail, che fa pensare a incontri alimentati dall'alcohol, ma è anche – appunto – una piccola
spada. Quindi, la copertina richiama a una donna, Barbara, in un contesto che evoca il bere e la socialità, ma
a un livello meno esplicito tutte queste cose evocano
lo scontro. Non so cosa volessimo dire di preciso con
quest'immagine, ma calza a pennello all'universo che le
canzoni dei WAS tentano di costruire: conflitti d'amore,
cattiva comunicazione e desideri insoddisfatti”.
Un approccio che mescolato alla musica si traduce in
canzoni dalla melodia appiccicosa, ritornelli dal sapore
emotivo e la giusta dose di bittersweetness, un elemento
fondamentale in ogni canzone genuinamente pop. Ne è
un esempio folgorante l'uno-due iniziale di Rules Don't
Stop e I Don't Bite: “sono canzoni, come tutte quelle che
compongono l'album, dalle quali abbiamo eliminato tutto quello che non era strettamente necessario, tanto
che molti dei nuovi brani sono tra i nostri più brevi di
sempre. Le prime due, in particolare, sono ottimi esempi di questo approccio: sono brutalmente efficienti e
non perdono tempo a buttarti addosso i loro ritornelli”.
Detto fatto. Per nove volte. In un unico caso, Central AC
(a essere del tutto onesti anche nella concessione synth
pop You Should Learn), l'atmosfera è leggermente diversa, ma si tratta di uno dei migliori riff di chitarra degli
ultimi anni, “quello che i Fleetwood Mac avrebbero
fatto se avessero saputo suonare la chitarra”. E non gli
manca neppure l'ironia.
Marco Boscolo
13
Tune-In
Michael Leonhart &
The Avramina 7
—Il crossover inconscio—
Dopo l'ottimo Seahorse &
The Stor yteller, non potevamo esimerci da scambiare qualche parole con
Michael Leonhart. Tra diverse conferme e qualche
sorpresa...
Testo: Giancarlo Turra
A
volte accade che un bel disco salti fuori per una serie di circostanze fortunate, come un allineamento di pianeti che
provoca un’eclisse, ma di un’impossibile foggia
colorata e che non incute spavento. Cose che
possono darsi soltanto nel modo dei sogni, dal
quale non di rado - a dispetto di una componente
ritmica che lo rende molto concreto - pare provenire anche quel Seahorse & The Storyteller
che ci ha conquistato con la capacità di attingere
criticamente da tre decenni abbondanti di musica.
Al punto da far dire che, forse, abbiamo trovato
in Michael Leonhart un possibile erede della disinvolta sincrasi sonora di Prince. Ne abbiamo
discusso col diretto interessato, assai disponibile
nonostante la fitta agenda concertistica. 14
Michael, parlaci del tuo background. In sostanza sei un
“nome nuovo” per il pubblico d’estrazione rock, avendo sin qui pubblicato opere d’impronta jazz e lavorato
da sessionman come trombettista (la lista è lunghissima e comprende gente agli antipodi, da A Tribe Called
Quest fino a Natalie Merchant, passando per Arto Linsday, Bill Frisell, Brian Eno, Caetano Veloso, Yoko Ono
e alcune incursioni nel mainstream…)
Sono nato a New York, da un bassista/songwriter e da una cantante jazz che interruppe la carriera quando nacque mia sorella maggiore. Non così mio padre, che - quando ero bambino,
nei ’70 - era uno dei bassisti jazz più richiesti in città. Ricordo
che sedevo nel backstage ad ascoltare quella roba incredibile e
che ogni tanto mi portava con sé in tournee; non stava mai fermo, sempre a scrivere poesie o canzoni. Una cosa non comune
nei bassisti, che mi ha insegnato a seguire un precorso creativo
personale anche se insolito. I miei primi tre dischi - Aardvark
Poses, Glub Glub vol.11 e Slow - erano pressoché jazz: sono
cresciuto in quell’ambiente ed è stata la prima musica cui sono
stato esposto. A diciassette anni vinsi un Grammy e all’epoca,
grazie al successo di Wynton Marsalis, i giovani jazzisti avevano la strada spianata per suonare hard-bop, be-bop o swing.
Da parte mia volevo però esprimere qualcosa di speciale: attesi fino a venti e, da trombettista, misi su un quartetto senza
pianoforte sulla scia di Chet Baker con Gerry Mulligan e
di Ornette Coleman con Don Cherry, eseguendo soltanto brani autografi. Per quanto riguarda il lavoro con altri, ho
soltanto cercato di relazionarmi con le persone più talentuose
che conosco, a prescindere dall’ambito. Ritieni che la condizione di “session man di lusso” ti
abbia aiutato in qualche modo, per esempio nella cura
degli arrangiamenti e nell’impianto generale di Seahorse And The Storyteller?
Facendo il "sessionman" ho imparato di prima mano, da gente
ricca di talento e in circolazione da tantissimo tempo. Non
so dire quanto mi abbia ispirato per questo album, se non che
mi ha fatto sentire a casa sia sul palco che in studio, libero di
andare dove volessi dal punto di vista creativo. E come mai tutte queste influenze di sono “liberate” in questo disco, che segna un significativo salto in
avanti nella tua produzione ed è uno dei più interessati del’anno?
A dirla tutta non è stata una scelta. Tendo a considerare l’idea
di fare dischi come fossero dei film, nel senso che ognuno
dovrebbe portarti in un luogo diverso e raccontare una storia
diversa, con tecniche ogni volta differenti. Come un regista che
gira un film in estremo oriente in technicolor e quello dopo in
una prigione con una camera a mano, per dire. Nel 2007 avevo finito un CD “ambient” molto claustrofobico [Hotel Music,
su St. Ives/Secretly Canadian], registrato dentro stanze d’hotel
mentre ero in tour con gli Steely Dan. Dopo tutto ciò, ho
ritenuto che fosse ora di un LP "heavy psych-funk".
Nel quale ciò che colpisce è anche la mescolanza di
suoni: tra funkadelia, kraut e sixties rock nessuno prevale sull’altro. E i brani che sono più “espliciti” in termini di influenze, possiedono un livello compositivo
elevato. Da dove arriva questo incrocio di stili?
Sai, non ragiono granché sul “crossover”: seguo la canzone,
mentre nella mia testa c’è sempre questo piccolo DJ che ha
redatto una lista di tutte le musiche che mi hanno fatto venire
la pelle d’oca… in ogni caso, non mi metto consciamente a
progettare incroci di generi.
E il concept che attraversa il disco?
Questo è il primo pannello di una trilogia: racconta la vicenda
di due personaggi mitologici che si incontrano, e mentre affrontano delle avventure si innamorano e scoprono i misteri
del proprio passato.
Ritengo che sia una mossa coraggiosa e apprezzabile fare un disco del genere - da ascoltare come un
tutt’uno - nell’epoca della fruizione frammentata.
Come si sono svolte le registrazioni?
Ti ringrazio del complimento e concordo sul fatto che viviamo
in un’era di ascolti disorganici, ma anche qui nulla premeditato:
volevo solo che venisse fuori così! La lavorazione è avvenuta tutta nel mio studio newyorchese, ovvero il mio vecchio
appartamento sulla sedicesima strada trasformato portando
lì strumenti, microfoni, registratori e ogni genere di gingilli;
qualcosa è stato registrato negli studi della Truth And Soul, a
Brooklyn.
Dopo diversi ascolti, la sensazione è di essere di fronte
a una specie di versione moderna di Prince: comune
è l’assenza di barriere stilistiche, la fusione tra suono
bianco e nero, pur con un tocco contemporaneo… Beh, essere paragonati a lui è davvero meraviglioso. E’ un maestro nell’abbattere barriere e nel fare ciò che vuole. Io ho
provato a portare l’ascoltatore in un luogo onirico, ma nel
quale non riesci a smettere di dimenare il posteriore!
E cosa ci riserva il futuro di Michael Leonhart?
Quest’anno co-produrrò il nuovo lavoro solista di Donald
Fagen degli Steely Dan. Poi inizierò la seconda parte della
trilogia di cui sopra - dal titolo Enzo & The Magical Monofin - e dirigerò anche i video delle canzoni di Seahorse
& The Storyteller. Inoltre ho suonato in Fela!, lo show di
Broadway sulla vita di Fela Kuti. Mentre ero lì, tra l’altro, mi è
venuta voglia di scrivere e dirigere un musical psichedelico…
E anche se quest’ultima notizia ci lascia di sasso, confermando una “voglia di melodramma moderno” che di questi tempi
respiri ovunque, ci diciamo fiduciosi. Del resto, col disco ricco
e multiforme Seahorse & The Storyteller, abbiamo di che
ingannare l’attesa.
15
Tune-In
Pontiak
—A Band Of Brothers—
Prima o poi dovevamo
fare il punto su questa
formazione americana
che si diverte a prenderci in contropiede: approfittiamo del loro nuovo
(bel) disco per capirli
meglio.
Testo: Giancarlo Turra
16
C
iò che eleva un gruppo sulla massa di mestieranti
è, non di rado, la capacità di aggiungere qualcosa
a un canone prestigioso, di spostare un poco più
in là il confine di uno stile ritenuto consolidato. Regola
che vale da sempre e a maggior ragione oggi allorché
viviamo di riflussi e revival continui e confusi: quando i
più inseguono trucchi da avanspettacolo (un suono strano
e mai sentito) senza curarsi di collocare sotto alle impalcature le solide fondamenta delle canzoni. Il meglio, da
Elvis a oggi, nasce da chi ha affianca un suono innovativo
e riconoscibile a composizioni in grado di racchiuderne
l’essenza, oppure racchiude in pochi minuti di musica e
parole un universo di valenze sociali o, ancora, cattura lo
spirito - il significato - di un’intera epoca. Di conseguenza,
la regola è applicabile anche ai padri di coloro che, da un
lustro circa, trafficano con un rock dal passo pesante ma
dalle nervature lisergiche; un fiume scuro dai vapori mefitici benché inebrianti, creato alla congiunzione dell’hard
anni ’70 e della psichedelia del decennio precedente. Sai
che novità, direte: e il grunge? Bene, ma facciamo presente che anche colà, dietro un pugno di genialoidi che collegarono terre emerse cui nessuno aveva sin lì pensato
(per dire: Led Zeppelin e Black Sabbath a braccetto
con l’essenzialità dei Black Flag e le convulsioni dei Wipers) traccheggiavano orde di rimasticatori del riff greve,
che il tempo ha ricoperto di meritato oblio quando non
ridimensionato.
Neanche a farlo apposta, attualmente di gente che innesta i distorsori per perdersi dentro iterazioni chitarristiche hardelico-minimali ce n’è fin troppa, perciò sopravvive chi conosce il segreto di variare la proposta. Meglio
se applicando al sottogenere un approccio meta come i
fratelli Van, Lain e Jennings Carney, in arte Pontiak.
Quanto in loro ciò sia premeditato non è facile da stabilire, tuttavia dietro le risposte laconiche e colme di un
senso “materico” della realtà (del genere che ti aspetti
da un background da campagna americana), intravedi uno
spiritello che sfugge per riapparire chissà dove e quando.
La chiamano “ironia”, e alla scuola di post-modernismo
insegnano che è la colla utile a tenere in armonia suggestioni di diversa provenienza. Adesso questa raffinata
arma si è trasformata nel mezzo per far coabitare distanza e passione. Mantenendo il distacco, si dimostra ancor
più amore verso l’oggetto di studio ed è solo così che
- l’innocenza soppressa dai Royal Trux e dalla stagione
del dopo rock - oggi è possibile suonare certe cose con
credibilità. Un distacco oggettivo che parte per prima
cosa da un dato geografico: “Concordo sul fatto che provenire e abitare in campagna ci consenta di alzare gli ampli
al massimo e offra una libertà difficile da trovare in città.
Consente alla musica di aprirsi.” Il che equivale ad affermare
che puoi osservare le mode con serenità, senza esserne ossessionato come una band di New York o l’ultima
sensazione londinese. Puoi fermarti a riflettere quel che
occorre a manipolare elementi già sentiti e soffiarvi una
vita per quanto possibile nuova.
I fratelli Carney sono partiti nel 2005 dalla rurale Virginia
facendo tutto questo e forse senza accorgersene, almeno
all’inizio. Anzi, ripartiti: dopo la classica trafila di rudimenti tecnici appresi col pragmatismo dell’“impara facendo”
tra le mura di casa, dopo la trafila di gruppi universitari e
le esperienze lontano da casa, capiscono come le colline
e le stanze in cui hanno accatastato gli strumenti costituiscano il luogo adatto per veder germogliare i semi. Da
Baltimora (per gli Stati Uniti sostanziale provincia) tornavano alla natia Warrenton in autarchia, registrandosi i dischi in un granaio - attenzione: niente hippismo di ritorno
in stile weird america - e stampandoli da veri indipendenti.
Il mini White Buffalo e l’LP Valley Of Cats, editi tra
2005 e 2006 per il marchio Fireproof di loro proprietà,
sono acerbi e nondimeno promettenti, soprattutto genuini come formaggio casereccio: “Fare tutto da soli a volte
è pesante, porta via molto tempo come un lavoro a tempo
pieno. Ma è una fatica che ha a che vedere con amare ciò che
fai e che vale ogni secondo speso. Inoltre, abbiamo una chiara
idea di come vogliamo che siano le cose, e talvolta il modo più
veloce ed efficiente di ottenere qualcosa dalle risorse che hai
è arrangiarti. Poi, ecco, è stupendo non avere limiti di tempo
quando sei in studio.“ Praticità e passione, insomma, che
li conducevano in giro per l’America stipati dentro una
Toyota Corolla dormendo in tenda come ragazzini che in
campeggio si godono spensierati vitaccia e natura. Salvo
seppellire sotto una marea di volume ben orchestrato gli
astanti e approfittare dei concerti per dilatare le strutture, sperimentando con rumori e minimalismo, spargendo
una patina di sarcasmo che scansa la seriosità. Improbabile che li vediate su un palco incappucciati, perché posseggono l’attitudine da intellettuale sgusciante che non
sopporta gli intellettualoidi, la loro estenuata prosopopea
e la pompa magna fuori luogo. La chiarezza di intenti di
un terzetto che colloca la batteria davanti agli spettatori
parificandola agli altri strumenti, in una mossa squisitamente post-rock ben nota agli Shellac: “Cerchiamo di far
sì che ogni album sia più contemporaneo possibile e in ogni
caso un’espressione del modo in cui ci sentiamo. Non ci interessa suonare musica nostalgica o basata sul revivalismo, ma
qualcosa che sia mutevole. Allo stesso tempo, non ci sentiamo
parte di una scena in particolare, e credo che questo nei dischi
si senta: devono essere più interessanti e coinvolgenti possibile
ed è il riflesso della nostra sensibilità estetica. Concordo anche
nell’affermare che mischiare le influenze sia fondamentale,
ma questo vale per ogni forma d’arte.”
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Chiaro e tondo, nonché sciorinato con dovizia di particolari nei successivi lavori, l’autoprodotto Sun On Sun
che imponeva la loro statura di “power trip trio” e il 12”
a metà con gli Arboretum, Kale, approdo all’attenta
Thrill Jockey per via d’un pugno di scintillanti cover di
John Cale. Una scelta d’autore raffinata e non casuale,
così come non lo è l’apparentamento con la formazione
di Rites Of Uncovering: “Sono dei grandi, è splendido stare
in tour con loro: condividiamo gusti e attitudini ed è appagante essere sulla strada con persone che rispetti.” Facile, con
tale piglio da lavoratori indefessi, registrare dischi in rapida successione senza scontentare. Ben più che attestati
di futura grandezza i due editi lo scorso anno: Maker,
mirabile e rugginoso, spiazzava screziando un urticante
acid-hard di spirali paranoiche e sgambetti ai Sabbath nel
mentre porgeva disinvolte rivisitazioni della California di
fine sixties. Buttava nel calderone ricordi di Thin White
Rope ed Engine Kid, allestiva siparietti noise o straniti,
giocava di stordimenti d’echi e di ballate fumiganti. Che la
mano dei cuochi fosse ferma e abile lo ribadiva Sea Voids,
mille copie di vinile che proseguivano il cammino attraverso oasi folk e paludi miste di LSD, fango e codeina, tra
ulteriori saggi di psichedelia mai scontata e ribaltamenti
cerebrali del rock duro. In quel momento capivi di essere
al cospetto di un’ipotesi a stelle e strisce dei Motorpsycho, altro trio che grazie al decentramento, alla vita in
terre dove la natura possiede un fortissimo ascendente e
detta i rimi, ha segnato in profondità l’ultimo ventennio.
Assorbite le fonti ispirative in qualcosa di alterato e particolare, questo trio è cresciuto nella stessa maniera, con
la concretezza di un legame solido verso le proprie origini, il proprio retaggio. Inteso come punto di partenza e
limite da superare, con uno sfoggio di maturità pronto
dietro l’angolo. Living viene infatti posto su nastro con
modalità diverse che in passato: quattro mesi in studio
regalano paradigmi di un “guitar sound” a 360° gradi,
estatico e minaccioso, oppiaceo e inquietante nel volgere
di pochi minuti. E tutto ciò mentre - conoscendo la Storia - le regole di amanuensi e copisti vengono smantellate.
Lo riprovano la disinvoltura e il coraggio con cui il disco
viene offerto, la sua fruizione “in blocco” nell’epoca del
frammento: “Abbiamo usato il registratore a bobina perché
suona bene; cercavamo la dinamica e la qualità che non ottieni se usi attrezzature digitali, ma tieni conto non è una scelta
nata da un qualche desiderio di ‘autenticità’. Abbiamo pensato
l’album in modo che scorresse come un brano unico, la maggior parte del tempo è trascorsa scrivendo i pezzi. Che sia da
ascoltare come un tutt’uno, ci piace: è una decisone estetica
che lo rende diverso.”Scriviamo maturità, nondimeno un
dubbio piacevole ci assale: il sospetto che un disco dei
Pontiak, da qui in poi, potrai etichettarlo come definitivo
soltanto finché non spetterà al successivo sparigliare ancora le carte. Non vediamo l’ora.
Tune-In
Digi G'Alessio
—Love, beats & Pina Coladas—
Cristiano Crisci (si) racconta Digi G'Alessio. Tra inizi punk, Brasile, No Wave,
amore e odio nel sottobosco delle produzioni italiche. La nostra inter vista
Testo: Gabriele Marino, Marco Braggion
C
ristiano Crisci, fiorentino classe ‘81, musicista, produttore
e dj meglio noto come Digi
G’Alessio (moniker geniale) è pronto
per il salto fuori dalla cortina del culto ristretto. Quantomeno, è pronto per allargarlo questo culto, anche fuori dalla rete.
Il buzz è tanto - e giustamente - perché il
suo ultimo L’attentato ai mondiali (sedicesimo disco in ordine cronologico che
potete scaricare gratis dal suo myspace)
è davvero un ottimo lavoro. Non solo,
potrebbe anche rivelarsi un riferimento
importante per tutto un sottobosco a cavallo tra hip hop strumentale ed elettronica che in Italia non ha ancora trovato
la giusta via per emergere ed esprimersi.
Vuoi per la mancata coagulazione di uomini e forze in una scena vera e propria,
vuoi per il mancato accesso a certi canali
di comunicazione/promozione, vuoi per
la qualità di molte produzioni (troppo
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gine ci ha prodotto il Manuele Atzeni EP, con magliette e sticker
in omaggio con le stampe cd. Nel 2007, sempre per loro, abbiamo registrato Our Disco Disastro. La Kazoomzoom, etichetta di New York, colpita dal progetto, ci ha poi commissionato
un lavoro per soli bambini ed ecco che nel 2008 è venuto fuori
Our Corto Discorso. Non ti elenco tutti i remix, le compilation
eccetera per lo stesso motivo del papiro.
Nel 2008 ho avviato il mio progetto solista Digi G'Alessio.
Il primo demo, 1994, ricorda le sonorità street su cui rimavo
da ragazzino, ma da lì in poi ho avuto modo di creare un mio
stile personale, producendo, tutti nel 2009: Shiny Brazils (per
Ideology), Love, Beats And Pina Coladas (Phonocake), The Rain
Book (per Pitjamajusto; questo è in assoluto il mio preferito),
E’ qui la feta (per la mitica Quantumbit) più le solite compile
e rmx. Quest'anno, con L'attentato ai mondiali ho esordito
su Signora Franca Records. E sono entrato a far parte di Bass
Squad (movimento fiorentino di dj dal suono technowonk,
jack & fidgethouse, dubstep & dnb) e della crew Overknights
(altro movimento fiorentino creato da Johnny Boy, Manuele
Atzeni, Biga, Colossius, Millelemmi, Jaja, Zac, Daretta e orientato alla black music classica).
artigianali, poco personali). Vuoi per le classiche stupide
rivalità tra "compagni di classe". I segnali di un fermento
in ogni caso ci sono, tra individualità sciolte (Ad Bourke,
Uxo), consorzi locali (Moodmorning) e reti di produttori (Avanthopperz) che comunicano tra loro e con il mondo esterno soprattutto - inutile dirlo - via web. E’ gente
come Cristiano quella che “ci prova”, forte del sudore
di anni di gavetta, di passione, di produzioni stakanoviste:
homemade, sì, realizzate magari lavorandoci sopra la notte e nei ritagli dal “lavoro serio”. Ma di qualità.
Fin dalla copertina, L’attentato si posiziona nello stesso universoimmaginario crossover di Crookers e M.I.A., ma sfoggia un
gusto melodico molto più mediterraneo e un feel decisamente
più suonato e jazzy. Soprattutto, questo Digi ci ha ricordato da
vicino le migliori cose dei fratelli Jackson (Madlib e Oh No)
quando in trip terzo-quartomondista. Abbiamo chiesto lumi a
Cristiano e lui ci ha fatto capire di essere arrivato agli stessi
risultati e partendo dagli stessi presupposti (la musica folk e
popular del mondo latino e africano) senza troppo orecchiare i superfichi produttori d’oltreoceno. Il disco è un ascolto
generoso, che riempie le orecchie, e così pure il suo creatore,
che ci risponde a notte fonda, fluviale, con una scrittura istintiva e istantanea che tradisce tutte le sue origini rappuse. E’ un
generoso Cristiano e spara una valanga di nomi tra amici e addetti ai lavori che manco sappiamo dove stanno di casa (unica
eccezione, il già citato Ad Bourke, romano, non a caso opener
per Flying Lotus nella sua unica data italiana). Ci proponiamo di approfondire la faccenda. Intanto, ecco Digi G’Alessio.
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Hai dieci anni di carriera alle spalle ormai, tra
musica suonata, djing e produzioni. Puoi spiegare
a chi non ti conosce da dove vieni e che progetti
hai messo in piedi in questi anni, dal Trio Cane in
avanti?
Sono riuscito a salvarmi dalla prima adolescenza punk (chiunque l'ha avuta questa fase verso i 14 anni, non si scappa!)
iniziando a scrivere rime per la 3CK, vecchia crew fiorentina fondata intorno al ‘96-‘97 da me, Sca (ancora attivo come
mc), Tommy e Duccio (noti come Skoolbwoy Sound, fondatori
dell’etichetta Ragnampiza), Dj Ramas e tanti tanti altri che non
ti sto qui a elencare sennò viene fuori un papiro. Nel 2002
ho iniziato a suonare il sax contralto e baritono in duo con
il contrabbassista Pierangelo Spitilli. Inizialmente suonavamo
standard jazz, quelli classici da Real Book, poi, dal 2003, con
l’arrivo del batterista Lorenzo Nardi, la situazione è cambiata
radicalmente, siamo tornati alle nostre radici punk e quello
che è venuto fuori è stato il Trio Cane. Facevamo una specie
di trash [sic] jazz punk, una roba di quelle che purtroppo non
hanno mai funzionato molto in Italia [ndr; e gli Zu?]. Il nostro
primo e unico demo EP era intitolato Era meglio se spendevi i
soldi in fumo,
Nel 2004, assieme a Simone Brillarelli e al grafico Jonathan
Calugi abbiamo messo in piedi A Smile For Timbuctu, un
progetto multimediale che mette assieme musica, grafica, installazioni e performance. Nel 2005 abbiamo prodotto il primo
album Brum e questa è stata l'occasione per farci conoscere un
po’ fuori dall'Italia: nel 2006 la netlabel londinese AudioAuber-
Rispetto ad alcune produzioni “sfuse” disponibili sul tuo myspace (ti avevamo scoperto così,
tempo fa), roba dal taglio decisamente electrodeephouse, il tuo ultimissimo L'attentato ai mondiali sembra avere sposato il mood hip hop terzoquartomondista di gente come Madlib e Oh No
(ma tu curi molto più di loro l'aspetto melodico).
Ci spieghi l'evoluzione di Digi G'Alessio come
producer? Le tue influenze più forti?
Mi ispiro molto alla musica sudamericana, dalla samba alla
cumbia. L'Orquestra Afro-Brasileira per me rappresenta molte
cose, è un’infinita fonte di stimoli: il mio più grande amore è e
rimarrà sempre Abigail Moura. I titoli dei brani fanno pensare alla colonna sonora di un film, i pezzi sono densamente atmosferici. E' una lettura corretta?
Esatto, l’idea è proprio quella. Ovviamente però è tutta una
farsa e il film non esiste.
Nel disco sono presenti anche richiami alla cheaptronica 8bit della consolle generation (vedi
Wave Ya Mitras In Da Air). Quanto sono importanti gli anni Ottanta? Conosci le produzioni di
Ikonika e di Missil, che rileggono in maniera nonrevivalistica certe tendenze di quel periodo?
Pigbag, Pop Group. Genere che è tornato molto di moda
quattro-cinque anni fa con !!!, Chicks On Speed eccetera.
Il tuo immaginario - fin dal nome - punta al Mediterraneo e al Sud Italia, con tutto il suo sincretismo. Personaggi come Almamegretta, Sud Sound
System o il dub di Madaski ti dicono qualcosa?
Massimo massimo rispetto per tutti questi nomi che hai fatto.
Il patchwork che hai composto è in qualche modo
figlio e segno del wonky (etichetta comunque
scivolosa), intenso tanto come scollamento della
base ritmica quanto come approccio scanzonato
e con fonti sonore che pescano dai videogame e
dall'esotismo da cartolina.Ti interessano gli smanettoni d’oltremanica tipo Toddla T? Per altri versi, alcune tracce (l’oscurità di L’ultimo giorno allo
stadio o The Istanbul Clan) fanno pensare invece
agli scenari urbani desolati del dubstep... Dopo
Uxo/Marco Acquaviva, e coi dovuti distinguo, con
le tue ultime produzioni si profila un possibile
mesh all'italiana. Ci sono e chi sono gli artisti nostrani che senti vicino? Esiste una scena italiana?
Stimo Millelemmi, Colossius, Costa, Ad Bourke, Johnny Boy,
Manuele Atzeni... Guarda, a me piace immergermi completamente in una cultura, mi piace sentirmi completamente coinvolto, darle il massimo, farla evolvere, farla espandere. Condividerla il più possibile. La mia idea di scena ha a che fare con
l’amore: suonare musica con altre persone che amano quella
stessa musica, che la fanno e che la ascoltano, che come te e
con te vogliono condividerla. Ma purtroppo quasi nessuno la
pensa così. Da noi scena uguale odiarsi a vicenda. Per questo,
almeno fino ad ora, sono sempre stato lontano dalla cosiddetta "scena".
Produci su computer o usi anche sampler analogici e drum machine?
Con Digi G'Alessio uso: Roland SP404, Akai S2000, rack Novation KS e plug-in VST con il computer. Con A Smile For Timbuctu: Roland SH101, Roland TR707, Juno 106, Boss DR660,
Korg SX, Korg ER1, Korg EA1, Casio VL Tone. Niente computer.
Prossimi progetti in cantiere?
E' in arrivo il secondo volume di Beats a confronto, per Ragnampiza. Ma soprattutto, tenete le orecchie puntate su Overknights. E spread love. Sempre.
Con A Smile For Timbuctu ho suonato spesso in ambiti 8bit
(molte volte assieme a Postal Market, PC=NA, LoreB, Eat
Rabbit), ma non ho mai usato vere consolle 8bit, ho sempre riprodotto i suoni tramite sintetizzatori analogici o digitali. Purtroppo, a me, degli anni ‘80 piace praticamente soltanto la No
Wave: James Chance And The Contorsions, Dna, Mars,
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Il noise del
Canalese
—Io Monade Stanca, Fuh,
Ruggine, Cani Sciorrì—
Drop Out
Provengono dalla provincia i suoni
chitarristici più rumorosi del momento.
SA va alla scoperta del noise del
Canalese.
Testo: Stefano Pifferi
22
ruggine
Q
ualche mese fa il clamore legato al comeback di un giovane gruppo italiano ha fatto
scattare il campanello d’allarme sul brulicare rumoroso del basso Piemonte. The Impossible
Story Of Bubu, secondo disco di un trio dal nome
tra il criptico e il filosofico, Io Monade Stanca, si
faceva burle del post-rock/math-rock a bastonate patafisiche, ricami da ipertrofia del tecnicismo e ironia
in quantità industriali. Il 7 pezzi è, però, la punta di un
iceberg chitarristico che si cela, come spesso accade,
nella tranquilla e sonnacchiosa provincia italiana. E' il
Canalese, provincia di Cuneo, la zona che rappresenta
la nostra nuova tappa del nostro giro dell'Italia rumorosa, dopo la prima panoramica generale sul Nuovo
noise italiano e quella sulle Marche marce. Tocca dunque al Piemonte, o meglio ad una specifica (e circoscritta) fetta di quella terra che si proietta verso il mare ligure sotto il peso della tradizione
musicale della motor city italiana, Torino, che nulla
invidia a quella americana in quanto a pesantezza di
suoni prodotti. Scendiamo un po’ a Sud, sfiorando le
langhe e le terre del tartufo doc senza però arrivare
23
in Liguria. Canale, Fossano, Narzole,
Bra. Paesotti della provincia ricca,
benpensante e molto probabilmente
noiosa. È qui che si coagula il rumore.
Un bubbone esploso negli ultimi anni
con furia e devasto in mille forme diverse e sempre disturbanti. Intrecci
e collaborazioni ne sono l’humus; rumore e distorsione i frutti. Roba che
ha da sempre visto nelle chitarre il
fertilizzante col quale crescere. E il
cuneese alla penetrazione del rumore chitarristico non è mai stato immune: qui nasceva a inizi ’90 una band
che, prima di perdersi in un eccesso
di intellettualismo, fondeva alla perfezione dissonanza e poesia (Marlene Kuntz). E sempre da qui, ma
in tempi più recenti, ha preso il via
il gruppo che idealmente inaugurava
questa nostra striscia sul nuovo noise italiano insieme a Putiferio, Hell
Demonio e Lucertulas: i Dead
Elephant. Così Enrico Tauraso, chitarra e voce del power trio, parlava
di Fossano in una intervista datata:
“Un posto completamente decentrato
dagli spazi musicali che contano in Italia e che ci ha permesso di lavorare con
molta tranquillità sul nostro suono e su
quello che volevamo ottenere”.
È in periferia che nasce Canalese Noise, un’etichetta che coagula a
mazzate noise/r’n’r l’urgenza comunicativa di una serie di gruppi della zona.
Un collettivo costituito da Andrea
Pisano, Federico Borelli (entrambi in
Fuh, appena arrivati all’esordio ufficiale) e Paolo Scalabrino (Ruggine,
idem) ne dirige le iniziative, ma è l’insieme la vera forza. Oltre ai nomi che
approfondiremo più avanti, portano il
marchio Canalese anche il noise-core
di Treehorn (l'omonimo del 2005 e
Amine del 2009), il noise’n’roll schizoide e porno di Etb (l’appena uscito
Rock Napalm & Roll) e l'elettronica
sfatta di Cop Killin’ Beat (progetto
in solo del fondatore Andrea Pisano), mentre tutto intorno si scatena
l’inferno con Hub (Cuneo, in arrivo
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l'esordio Touchdowns Are For Losers), Fagetz (Bra), Three Light Noise
(Bra) e moltissimi altri ancora.
La Canalese Noise è nata qualche anno fa da noi Fuh – ci spiega Federico
– Sulle prime non si pensava neanche a qualcosa di concreto, era semplicemente
diventato come un intercalare…qualsiasi cosa, riferimento o oggetto era canalese
noise…Si identificava con la nostra sala prove, poi si è iniziato a vedere un vero
movimento, un insieme di band di stampo rock, che facevano e fanno capo a questo
nome. Una scena rock tutta cuneese. Una intesa tra amici, dunque, prima che tra
musicisti, gente che rifugge la noia delle serate al bar e si rinchiude in vecchie
stalle riadibite a sala prove per spaccare il mondo a furia di -core. Il prefisso,
si sarà capito, è intercambiabile. È la sostanza a rimanere immutata.
La Canalese nasce quasi per scherzo, conferma Paolo, dall’incontro di alcune
band della provincia che coltivavano e coltivano tuttora la stessa voglia di fare e la
passione nel condividere le cose e nella ricerca musicale in tutti i suoi lati. Collaborazione sembra sempre più la password per comprendere questo agire glocal.
In questo senso la Canalese Noise non produce “solo” dischi, ma promuove
cultura musicale a più livelli: cartaceo, con la ‘zine Okzine, ma anche live. In
combutta con altre realtà della zona – la Grandiosa Booking e l’associazione
33 giri di Cuneo, giusto per fare due nomi – si organizzano l’immancabile
festival estivo, l’OK Fest all’aperto e in più giorni, e il corrispettivo invernale,
l’Ok Party, ovviamente al chiuso e itinerante.
Per ora continuiamo come si può a finanziare i lavori dei nostri gruppi – continua Federico – con la volontà in un futuro si spera il più prossimo possibile di
potere investire su qualche altro progetto fuori dall’ambito cuneese, anche se alcune
collaborazioni “esterne” sono già attive. Un intreccio continuo, un travaso tra
band, etichetta, pubblico. Ci sono alcune realtà, circoli Arci e alcuni locali o club,
che danno ancora la possibilità di organizzare eventi e che sono ancora motivati a
promuovere quello che il territorio crea, proponendo serate che suscitano un certo
interesse e spesso una buona partecipazione. Per quanto riguarda invece il pubblico
c'è voglia di seguire le cose che vengono proposte. La tela è questa. Passiamo ora
ai colori.
I o M onade S tanca
e la ricerca di
D io
C’è la storia – se non tutta almeno una buona parte – del rock rumoroso
italiano virato post- e math- condensata nelle note di The Impossible Story
Of Bubu. Sacha Tilotta dietro le manopole in rappresentanza del gruppo forse più internazionalmente noto a quei livelli, i Three Second Kiss (per non
parlare di mamma e papà Uzeda); lo studio Red House di Senigallia che non
stabilisce solo nessi con le Marche rumorose, ma con l’intero panorama indie
mondiale (chiedere a Steve Albini quante volte è passato da lì).
Al centro però ci sono loro tre, Edoardo Baima (voce, basso, chitarra),
Matteo Romano (batteria, voce) e Nicolas Joseph Roncea (chitarra e basso),
un po’ l’eccezione che conferma la regola di un suono di norma vitaminico e violento. Nati nel 2005 a Canale, proprio nell’epicentro della “scena”,
preferiscono un procedere cerebrale, organizzato, mathematico alle irascibili
esplosioni di rumore bianco. Penso che ogni gruppo – confida Nicolas – abbia
qualcosa che lo caratterizzi e che lo renda particolare. Io Monade Stanca è forse
il progetto più "difficile" da ascoltare fra tutti, probabilmente proprio per questa
cerebralità di cui si sta parlando spesso, per la complessità delle strutture e per la
difficoltà da parte dell'ascoltatore di riconoscere determinate linee melodiche.
L’esordio In The Thermi Table è targato Canalese Noise, 2008, ma in
Io monade stanca
realtà è localizzabile nella prima metà
dei ’90 dalle parti di Chicago e non
sfigurerebbe affatto nel catalogo
Touch’n’Go. Un disco acerbo nel mostrare la propria appartenenza, tanto
da risultare troppo derivativo; eppure
sotto sotto, in pezzi come Two Days
Without God o Oneida’s Creek l’esordio mostra slanci di tortuosa originalità che matureranno a breve nel
citato comeback. Indubbiamente c'è
stato un grosso cambiamento dal vecchio disco a questo. Con il tempo suonando insieme è nata una spontaneità
e una naturalezza che ci ha portato a
non seguire più alcun tipo di schema
ma di lasciarci andare completamente.
Credo che l'aspetto più interessante sia
l'uso della voce, il modo che ha Edoardo
di cantare.
Musica senza schemi, libera. Che
si costruisce e sviluppa seguendo
l’istintività dei tre, senza porsi limiti né barriere. È così che sulla base post- o
math- si inseriscono suggestioni prog e aperture limitrofe al jazz, senza dimenticare la potenza noise-rock e aumentando a dismisura la schizofrenia.
Come una formula matematica impazzita, quella del trio è una musica fratturata, senza capo né coda, dislessica ed epilettica; che mira, guarda caso, al
particolare più che alla regola. Proprio come la patafisica di Jarry evocata nel
titolo del comeback.
Approccio ludico, grandi dosi di follia e autoironia (Non ci sono vere motivazioni in niente di quello che facciamo…ci inventiamo cazzate anche per motivare delle scelte…non sappiamo più come fare!!), titoli spesso autoreferenziali
(Roncea, Federico Borelli) o limitrofi al nonsense patafisico che fanno il paio col
cantato a-melodico di Edoardo. È su un terreno di questo tipo che si giocano
la partita i tre. E fanno bene, perché è così che riescono ad evitare le secche
di un genere, il math, spesso accusato (a ragione, purtroppo) di concettismo
strumentale o asettica dimostrazione di perizia tecnica. Il trio è inoltre parte integrante del noise del Canalese. Collaborano (Nicolas suona anche nei
Fuh) e sostengono una scena in grande fermento: Nella nostra zona abbiamo
la fortuna di avere moltissimi gruppi validi ed interessanti di generi vari, dal noise
al cantautorato. Evidentemente la Canalese Noise ha un po' "raggruppato" quelli
che si sentono più vicini sia a livello musicale che umano. E' nata perciò una sorta
di "scena" nella quale si cerca di darsi una mano e soprattutto di partecipare, mi
riferisco sopratutto ai concerti che vengono organizzati in zona.[…] Il rapporto fra
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Ruggine
i gruppi è molto bello, ci si influenza a vicenda, ci si da pareri e si organizzano cose insieme.
Resta un ultimo enigma da sciogliere coi tre, quello del nome. Ci aiuta sempre Nicolas: “Monade” è un concetto
filosofico, religioso o ad esempio usato in programmazione informatica. Dio è la monade intesa come una sfera il cui centro
è ovunque e la cui circonferenza si estende all'infinito. "Stanchi" perché stancati dal cercare Dio (a ben vedere se è monade
lo hai già trovato), "io" perché senza di te non c'è nulla. "Io monade stanca" è sinonimo di "stai tranquillo, lo hai già trovato,
altrimenti non staresti leggendo ciò, ora”. Cercare, anzi trovare Dio attraverso math e patafisica. Bella sfida davvero.
R uggine :
quando la musica si fa materica
È concepibile una versione post-hc dei Massimo Volume? La risposta è sì e assume le forme di un quartetto dal
nome materico: Ruggine. C’è nella musica dei quattro la stessa sofferente, lancinante tensione dei primi passi della
band bolognese, quelli più crudi nelle sonorità e devastati nelle liriche. Roba semplice, si potrà obbiettare, dato che è
la tensione, quel vibrare di corde sempre pronte allo strappo, l’essenza ultima del post-hardcore. Ma qui si va oltre.
Violenza e lacerazione interiore viaggiano di pari passo. Urla e disagio esistenziale si sommano e stratificano su un
background da devastazione. Il mondo è esploso ormai e con esso tutte le certezze. Resta solo la possibilità di urlare
la propria rabbia e tentare di ricostruire un mondo che a breve ritornerà babelica torre. Esattamente come quella
che fa bella mostra di sé nella copertina dell’omonimo ep d’esordio.
Simili per immaginario e densità di suoni a Dead Elephant e Putiferio, i Ruggine sono un quartetto a doppio
basso. Indizio quest’ultimo che dovrebbe far comprendere la forza d’urto messa in campo. Immaginate una sorta di
tsunami represso, trattenuto e condensato. Roba che non si poteva trattenere a lungo e infatti esplode ad inizio millennio in una stalla di Narzole ben presto trasformata in sala prove. Ruggine nasce sotto forma di trio classico e suona
hardcore. Nel 2003 si passa ad una formazione a quattro con due bassi, chitarra e batteria e si comincia a fare qualcosa di
diverso rispetto a prima, musica più personale che non è più soltanto hardcore, ma l'insieme di tanti altri generi che ascoltiamo
e ci influenzano, ci racconta Paolo Scalabrino, uno dei bassisti.
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Il primo parto del quartetto (oltre a Paolo agli altri tre angoli del ring troviamo Simone Rossi a voce/chitarra, Davide Olivero alla batteria e Francesco
Rossi all’altro basso) è lo split coi Fuh che dà idealmente e materialmente il
via all’epopea della Canalese Noise. Fuliggine testimonia la fusione metrica
tra i due gruppi, ma è l’ep omonimo ad attirare l’attenzione sul quartetto
di Narzole al di fuori dei confini regionali. Monolitico nel suo post-hc che
a tratti flirta con pesantezze quasi metal e si inerpica su strutture math- e
post-, Ruggine è un concentrato di nervo, crampo e spasmo. Magma sonoro
quadrato e granuloso, crudo e tirato allo spasimo, insieme cerebrale e muscolare; mantiene tutta la forza d’urto dell’hardcore ma ne screzia la violenza
in strutture mobili. Su tutto, la scelta delle liriche in italiano che avvicina il
quartetto ai succitati Massimo Volume per intensità e disperazione, accostamento avvalorato ancor di più da un contesto d’estrazione irrimediabilmente
hardcore. I Massimo Volume ci hanno insegnato moltissimo e credo si intuisca
ascoltando i nostri testi…questo stile di cantare così recitativo ci ha sempre affascinato, ci conferma Paolo, in particolare nella composizione delle sensazioni
che una canzone può dare. L’intreccio voce/tensione strumentale rievoca però
anche esperienze hc italiane a cavallo tra ’80 e ’90 (Forse i Sottopressione e gli
Angeli ci hanno ci hanno dato quella voglia di fare hardcore, mentre i Massimo Volume ci hanno portato verso direzioni diverse…) mentre la strumentazione atipica
rimanda allo sperimentalismo muscolare del post-hc dei mid nineties. Quella
dei due bassi è una scelta molto particolare ed affascinante, ma anche alquanto
rischiosa… abbiamo così trovato finalmente un nostro suono che ci contraddistingue da qualsiasi altro gruppo…un basso davvero basso, l'altro sulle frequenze
medio alte e la chitarra che riempie la parte di alte mancanti…il tutto unito da un
batterista fenomenale.
È proprio questa potenza di fuoco a palesarsi in Estrazione Matematica
Di Cellule, disco in arrivo proprio in questi giorni, grazie anche ad una certa
attenzione in fase di produzione. Meno compresso rispetto all’ep, l’upcoming
album rielabora alcuni dei pezzi presenti in Ruggine e sarà una gradita sorpresa per gli amanti delle sonorità pesanti e pensanti.
C ani S ciorrì :
cani sciolti assalgono il r ’n’r
In ogni congrega che si rispetti ci sono quelli rissosi e sboccati, quelli che
arrivano per ultimi alle feste ma che si fanno notare da subito. In questo caso
tocca ai Cani Sciorrì, power-trio dissacratorio, violento e senza peli sulla
lingua come già si intuisce dal nome. Cani Sciorrì significa cani sciolti – ci suggerisce Daniel, propulsore ritmico della band – ma ne esistevano già troppi di
gruppi chiamati così…la sciorra è quando caghi molle, quando lo stomaco fa male
e l’abbiamo scelto perché i Cani ti fanno vibrare lo stomaco a suon di rock’n’roll!!!
I Cani sono tre e poco o nulla hanno a che vedere con la famosa enciclopedia: Alessandro Cerrato (voce/chitarra), Francesco Lamberti (basso) e
Daniel Daquino (batteria). Vengono da Fossano, Foss Angeles per gli amici,
e hanno dalla loro un gran tiro r’n’r garage ma anche una notevole dose di
autoironia. Ad ascoltare Parte V, il cd del 2006 che ne sancisce l’uscita dai
confini provinciali dopo il demo d’esordio Flat, ci si rende conto che quelle
di Daniel sono parole sante: autoprodotto in collaborazione con due realtà
storiche della Torino antagonista (El Paso e San Martin) l'album è un 6 pezzi
di blues’n’roll al fulmicotone che macina la furia sporca degli Unsane come
fosse fertilizzante per reietti e che fa telluricamente vibrare lo stomaco di
chi ascolta. Musica straight in your face, senza fronzoli né ghirigori, roba da
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Fuh :
Cani Sciorrì
caterpillar in calore. La copertina di Parte IV – comeback di un paio di anni
fa e ultima manifestazione del trio ad oggi – la dice lunga sul loro atteggiamento e di conseguenza, sul contenuto del fiammante vinile rosso: lerciume
finto-pugilistico con contorno di macchine scassate e depravazioni autoironiche. Un immaginario da Fight Club ma travisato dalla folle lucidità di Ciprì
e Maresco, come ha sottolineato qualcuno: il giusto ritratto per una musica
tirata allo spasimo. Il nostro rapporto con la musica pesante nasce per ovvi motivi
anagrafici dagli anni '90; tutti e tre abbiamo ascoltato in modo diverso e soprattutto
cose diverse in quegli anni, ma tutta quanta roba che si può definire pesante.
Una linea rock nemmeno tanto sottile che dall’hardcore (Refused) passa
per il metal (Pantera) fino ad arrivare al noise (Unsane), bastardizzando
il tutto (Mastodon, Tool, Converge). Influenze dalle quali però non può
mancare la vicina Torino, col suo mix di suoni stringenti e disperata urgenza
comunicativa. Per me l'hc anni 80 torinese è stato molto importante per tutto ciò
che ha rappresentato nell'hc italiano e non. Tutte le persone che suonano devono
imparare da quella scena; l'importante a quei tempi era suonare,dire le proprie
cose, esprimere la propria identità e non c'è modo migliore che farlo attraverso la
propria musica.Tutti loro ci sono riusciti davvero bene, dai Negazione agli Indigesti.
I ragazzi hanno un gran tiro garage, suonano diretti in faccia il loro bluescore’n’roll privi di ogni forma di timore reverenziale, tanto che, narra la leggenda, qualche anno addietro rubarono la scena in un live estivo torinese
della Blues Explosion. Non male vero? Per ora non ci resta che aspettare
un prossimo disco già in cantiere, come ci confida sempre Daniel, essere in
dirittura d'arrivo: I pezzi per "Cani Sciorri - Parte III" sono pronti. Bisogna solo
registrarli e tutto sarà presto nelle vostre orecchie.
canzoni e rumore
Altro nome criptico e altro assalto chitarristico. Fuh, un quadrilatero che sta alla base della formazione del noise del
Canalese: Andrea Pisano (chitarra), Federico Borelli (batteria) a gestire l’etichetta, Nicolas Joseph Roncea (voce, basso) a articolare geometrie con altre band (Io Monade Stanca oltre che in solo) e Edoardo Vogrig (chitarra, voce)
a completare la line-up.
Una serie di produzioni in proprio – God eats us in the morning (2004), int/ext (2006), lo split con i Ruggine
(2005) – e nel 2007 le registrazioni di Extinct, metà disco, metà demo che apre le porte della considerazione anche
in casa SA. Ora è la volta dell’appena uscito Dancing Judas, vero e proprio esordio potente nei volumi e screziato
nella tavolozza usata.
Un bell’ibrido, i Fuh. Di base definibili grunge, anche se il neologismo più famoso d’inizio ’90 è più una suggestione che un
vero suono. Per rimanere ai gruppi di casa, diciamo un buon punto d'incontro tra furia post-hc (Ruggine) e elaborazioni
math (Io Monade Stanca), con una certa attenzione per dissonanza strumentale e melodia vocale: Essendo strettamente in contatto con le realtà cuneesi – conferma Federico Borelli – è chiaro, naturale e bello che ci si influenzi a vicenda e
che alcuni elementi comuni vengano fuori. Fuh è un progetto meno estremo da un punto di vista puramente di genere, la furia
è contenuta e non ci sono strutture esageratamente spigolose nei brani. La differenza sta proprio nel fatto che è ben presente,
anche se magari si nasconde dietro riff irregolari o arpeggi sghembi, l'idea di "canzone".
In Extinct questa volontà è evidente, seppur allo stato embrionale. L’irruente potenza di Henry Rollins plasmata sulla
non convenzionalità di Captain Beefheart, diceva a ragione Zampighi in recensione prima di citare quella parolina magica
che quasi nessuno rievoca in questi anni ’00: grunge. L’abrasività, l’irregolarità, la deformazione del senso melodico che si
manifesta in tutta la sua maturità nel nuovo album: In Dancing Judas è evidente il tentativo di valorizzare al meglio la melodia – conferma Federico – e non mi riferisco semplicemente a quella vocale ma anche agli intrecci di chitarre, agli stacchi ecc.
Sostanzialmente i Fuh sono un gruppo che fa canzoni. E le fanno bene, non rinunciando mai alla grana grossa delle chitarre
né alle distorsioni, men che meno agli intrecci strumentali o ad una personale forma-canzone.
Quello che sorprende del quartetto è la policromia indie di base sulla quale si sviluppa un furore chitarristico memore
dei momenti più interessanti dell’hardcore made in Washington (chiedere a casa Dischord, per intendersi) o al limite
San Diego (citofonare Headhunter). Convivono nelle musiche del quartetto reminiscenze e segni, slanci e indizi di gruppi che più diversi non si può: Unwound e Motorpsycho, At The Drive In e June Of 44, Soundgarden e Nirvana.
Segno di schizofrenia o di grande capacità nel condensare un universo sonoro privo di riconoscibili punti fermi? Noi
propendiamo per la seconda ipotesi, visto soprattutto il procedere a scatti e spigoli che fa molto math senza però cadere nel tranello della noiosa cerebralità del genere. Anzi, cambi di ritmo e sterzate improvvise non nuocciono affatto alla
sensibilità “pop” dei pezzi, screziandone le potenzialità catchy. In definitiva, Fuh è un quartetto che, parole loro, nasce, vive
e molto probabilmente morirà a Canale. Dancing Judas è lì, pronto a dimostrare il contrario.
Fuh
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Matthew
Herbert
—Challenging music—
U
Drop Out
Il 2010 è l'anno di Herbert per tante ragioni e una sola evidenza: è lui
il Brian Eno della generazione X.
La nostra intervista
Testo: Edoardo Bridda
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no degli aspetti più interessanti di Mattew Herbert è il suo agire dietro le
quinte di un qualsivoglia set musicale,
quel modo di farlo con certe specifiche
angolature. Herbert è un uomo d’azione nel senso più pragmatico del termine. Non esiste musica
prodotta se non come uno degli approdi possibili. Il
vero obbiettivo del produrre musica è il processo,
il fare, perché in musica, proprio come in politica,
non c’è traguardo, ma dialettica e senza una relazione tra almeno due parti non c’è che una cieca e
noiosa dittatura, la reiterazione di un verbo al quale
sottostare. L’ordinamento dei processi del fare e
del creare e dì lì un’inevitabile serializzazione o più
volgarmente, una catena di montaggio.
La cosa più interessante che riguarda Herbert è
così la stessa che rende Brian Eno così speciale e
importante nella storia della musica del dopoguerra. Inevitabile che nella lunga intervista che segue
gli chiedessimo di St. John le Baptiste de la Salle,
perché Matthew è sicuramente un possibile Brian
Peter George, e meglio, forse l’unico Eno possibile
con lo scarto necessario che ci vuole per esserlo.
Così se ai tempi del glam-rock, Eno se n’è venuto fuori con l’ambient riprendendo Satie, in quelli
dell’house, Matthew reinventa ritmo e groove riprendendo Pierre Schaeffer e la concreta.
Entrambi sono uomini consapevoli e dotti che
amano analizzare le infinitesime implicazioni delle loro mosse, ma di più e più intimamente sono
persone legate dall’amore per ciò che sta dietro al
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disco, alla canzone o alla produzione per conto di qualcuno.
La musica non è sicuramente una scienza, eppure crearla è un lavoro da
scienziati per i quali la scoperta più importante arriva proprio nel momento
in cui si sta facendo completamente un’altra cosa. Mattew e Brian infatti, fisiologicamente non riescono a fare soltanto una cosa. Ne devono fare almeno
quattro, meglio se in parallelo, in multitasking come le macchine. E l’aspetto più
intrigante di questo stacanovismo è che sebbene i diversi ruoli sono piuttosto
chiari, l’impatto complessivo sull’opinione pubblica, e persino sugli ascoltatori
più esigenti della personalità complessiva è spiazzante. Amiamo definire le cose
tramite etichette che qualcuno s’inventa per noi, qualcuna magari ce la inventiamo, del resto mai come per questi due musicisti l’etichetta sembra qualcosa di
limitante quando non inappropriata.
All’inizio Matthew si era mosso in diversi tipi di elettronica da ballo ed era
stato facile catalogarlo a seconda del moniker utilizzato: Wishmountain faceva
techno, Doctor Rockit jazzy electro, Herbert house. Poi le cose si complicarono: un progetto di Big Band sperimentava un suono orchestrale à la George
Gershwin sempre più imponente, produzioni - ora firmate Matthew Herbert diventavano anch’esse più corali e difficilmente riconducibili alla mera house di
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Chicago o New York. Parallelamente, e da qui il fondamentale distinguo nei
confronti dell’ex Roxy Music, la consapevolezza e l’azione politica diventano per il britannico un aspetto fondante del processo compositivo. Herbert
sovrapporrà, senza sommarle in facili attivismi vecchio stile, l’azione politica
e quella musicale partendo da quello strumento rivoluzionario che è il campionatore e facendo del processo del fare musica una questione di masse
umane sempre più ingenti. Con il primo campionerà dalle basi infinitesimali
dei propri suoni al fuoco degli israeliani sui palestinesi passando trituramenti
di lattine Coca Cola, sfogliate di libri di letteratura politica e via discorrendo;
utilizzando le seconde allargherà sempre più le fila della Big Band arruolando
decine di persone.
Matthew è il classico personaggio di cui si finisce sempre per comprenderne
a fondo soltanto una parte, un uomo il cui aspetto umano non è meno interessante. A livello relazionale ama immergere l'interlocutore in un flusso di
coscienza. Non c’è un dialogo vero ma una decodifica di segnale portanto a
spasso tra pensieri e ragionamenti. A volte l'uomo parla anche parecchi minuti da solo, a ruota libera senza barriere e sotto l'unico filtro del pensiero
politico. Forse l’unico vero loop dell’intera performance verbale è qualche
dottrina marxiana applicata a questo o quel discorso. Perché tutto è politico.
Persino i rave, anzi dall’esperienza dei party illegali Matthew è diventato quello che è, e proprio su quel che resta di quell'esperienza il Nostro ha composto One Club, secondo album della trilogia One dedicato alle connessioni tra
multinazionali e divertimento. Ne parleremo più avanti con lui, prima di tutto
è doveroso fare un passo indietro
Tutti sanno tutto o quasi dei tuoi lavori, del dogma al quale sottostai e dell’impegno che lo contraddistingue, ma nei primi Novanta
quando eri all’università che facevi? Eri un clubber o un nerd da
biblioteca?
Ho frequentato l’Università nell’Ovest dell’Inghilterra, in Corgnovaglia quando Richard D. James ovvero Aphex Twin stava muovendo i primi passi nel
mondo elettronico. La cosa più importante di tutta quella scena erano i free
parties che da quelle parti erano molto sentiti. Quelli organizzati dagli Spiral
Tribe, DIY e Circus Warp. Erano molto ben organizzati e la differenza di classe era completamente annientata li. Ricordo che c’era un contadino molto
ricco che gestiva un’impresa petrolifera che ci lasciava usare i suoi terreni.
E c’erano gli hooligan del calcio, gli universitari, gente comune e fricchettoni,
tutti sotto ecstasy e ugualmente liberi. E’ stato un periodo incredibile, spontaneo. Sapevi solo due ore prima dove ti dovevi dirigere. Saltavi in macchina
e ti buttavi nel bosco e quando arrivavi poco dopo spuntavano i dj, la musica
e qualcuno che preparava qualche tazza di the. Ci passavi due giorni in quelle
case, e il lunedì io ricominciavo l’Università, altri il lavoro. Quelle feste poi
sono diventate raduni enormi. Dal Festival di Castlemorton Common in poi
erano fin troppo grandi e dunque ingestibili a quel livello. Poi è arrivata la Criminal Justice Act… La criminal, ancora in vigore tutt’ora, ha sostanzialmente
proibito gli House parties all’aperto e segnato la fine di un periodo molto importante per me. Sono stato molto fortunato ad aver vissuto quel binomio di
musica e politica. L’idea del ballo in quel contesto era intimamente politico.
Eppure la comunità house è sempre stata vista come una somma
di individui piuttosto che una comunità vera…
Ho stretto amicizie con ragazzi e ragazze d’estrazioni sociali ed economiche
completamente differenti, ballando, ho visto le loro vite dal di dentro e stret33
to amicizie profonde. Poi eravamo nell’amministrazione Thatcher e l’unità
che raggiungevamo con i rave era molto simile a quella delle marce di protesta che facevo a quell’epoca contro quelle terribili decisioni politiche. Anzi ne
era una naturale estensione.
Girava un miscuglio di Chicago house, Detroit techno e NY garage
a quei parties, cosa preferivi?
Tutte quelle distinzioni non erano ancora state codificate. Erano i primi passi del movimento. E c’era ad esempio Andy Weatherall che faceva della
strana techno, e la settimana dopo qualcuno che faceva garage e quella dopo
ancora drum’n’bass o ’ardkore. La musica era importante ma non l’aspetto
più importante della scena, non mi interessava molto da dove provenisse
all’epoca.
Quando hai iniziato con gli alias facendo con ognuno un diverso
stile è stata una scelta obbligata?
Devi considerare l’aspetto del business. Le major non sapevano cosa fare
della dance music perché non era la musica da mettere nelle radio. Così
sono proliferate moltissime indie label, proprio come un nuovo DIY punk. Se
riuscivano a piazzare un disco di successo vendevano moltissimo. Dal 1994 ci
fu una proliferazione di label come la Mille Plateau che sperimentarono nel
glitch, stile che finì come suffisso di un’etichetta che ti affibbiò Wire a fine
Novanta, glitch house. Non ero molto addentro alla dance music o straight
club music, non avevo sufficienti mezzi per produrla e non rappresentava
nemmeno quella sfida intellettuale che cercavo. Ho pure provato a fare un
paio di dischi che suonassero come qualcosa che avevo sentito ma furono un
fallimento. Non sono bravo a copiare e così, dopo un paio di anni, ho iniziato
a metter dentro nuovi suoni e idee alla musica che stavo creando: doveva
essere house music ma suonava orchestrale e persino accademica. E questo
è potuto accadere grazie alla tecnologia che nel frattempo si era resa disponibile per produrla.
Hai visto tutta l’epopea del glitch, da Oval alla folktronica. Da
quando il glitch era l’ultimate sound a quando fu considerato un cul
de sac elettronico e gli strumenti sono tornati al loro posto…
Nel 1996 c’era un apparato mediatico molto più strutturato. C’erano un
sacco di magazine, dj radiofonici e la musica si comprava. Non era una totale
democrazia. Dopo internet ognuno ha iniziato a prodursi le proprie cose.
Eppure anche con la tecnologia è successa una cosa del genere: invece di suonare una batteria si è iniziato a settare una drum machine. Come emulazione
di una batteria era un fallimento ma aveva un suono unico. Il bello dell’Aphex
sound era proprio quello e nella tecnologia che utilizzava c’erano degli errori
e da quelli si poteva creare qualcosa di nuovo. Dal 1996 in poi, sulla scorta
delle tecnologie fatte in casa di James, le aziende hanno iniziato a produrre
mezzi per produrre musica elettronica e questo ha ne reso possibile la copia.
Da li ad avere DVD pieni di sample da suonare divisi per cartelle – House,
garage, techno ecc. – e a portata di click, le cose sono progressivamente
peggiorate. Potevi suonare esattamente come i tuoi eroi senza fare nessuna
fatica.
Da qui si spiega il dogma al quale sottostai e il perché, attraverso
un microfono, vuoi costruire pezzo pezzo il tuo suono, dalle fondamenta. I Matmos sono stati influenzati sicuramente da te, che
rapporto avete?
In comune con i Matmos c'è un mix di cerebralità e sense of humour. Ci
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piace giocare con la musica non deve essere sempre seria, ma sicuramente
rispetto a loro sono molto più politico. Non che loro non lo siano, portano
avanti argomenti omosessuali, eppure il mio raggio d’azione è più ampio e
radicale. Sono più marxista, loro più intellettuali.
Ascoltando One One più di un ragionamento porta a pensare
te come un Brian Eno per la tua generazione. One One potrebbe
essere il tuo Another Day On Earth …
Un mio caro amico una volta mi ha detto “sai che sarai il prossimo Brian
Eno?”. Ho riso, al tempo e rido tutt’ora perché mi piacerebbe essere di più
Matthew Herbert, tuttavia trovo che tra me e lui ci siano delle “curiosità
intellettuali” in comune. Quel modo di trovarle ed esprimerle nella musica.
Anche Eno è molto politico e come me non ha paura di esprimerlo in contesti pop, inoltre produce lavori per conto di altri. Quest’anno usciranno tre
lavori prodotti da me. Ad ogni modo il ponte più forte tra noi è che siamo
più interessati al processo musicale più al prodotto finito. Di noi non puoi
dire che apparteniamo a un genere specifico e nessuno di noi si accontenta
di fare solo una cosa. Anzi ci piace stare impegnati in molte cose contemporaneamente.
Parlaci ancora di One One e del fatto che è il primo tassello di
una trilogia. Ha proposito hai già completato gli altri due capitoli?
Con One One non sono ancora sicuro del risultato mentre sto ancora
lavorando ai prossimi due capitoli.Ad ogni modo per quanto riguarda il primo
step la sua importanza strategica stava nel contrasto con l’ultimo lavoro della
Big Band che aveva mobilitato ben quattrocento persone. Volevo qualcosa di
più claustrofobico e ristretto: una persona in una stanza con una chitarra e
un microfono, un pianoforte e un computer. Sentire la pressione e il senso
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della cattività, come un animale. Mi è
mancata la società e la gente mentre
registravo, soprattutto quando suonavo qualcosa che solitamente facevo suonare ad altri più bravi di me
nel farlo.
One One è anche all’opposto
di un lavoro come Scale che è
anche il tuo album più di successo. E’ stato da lì in poi che hai
potuto vivere di musica?
Vivo della mia musica dal 1995 e a
dire il vero è stato Bodly Function il
lavoro che ha venduto di più. Scale è
costato molto in termini di incisione
e produzione, è stato un lavoro fatto
di corsa nell’arco di due tre settimane ma non ha reso molto in tal senso.
A dire il vero lo rifarei da capo.
Torniamo a parlare di internet. Ti senti derubato dalla
rete?
Come musicista no, posso incidere un pezzo, pubblicarlo ed essere
pronto a venderlo. Allo stesso modo
ognuno può parlare e discutere di
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musica attraverso, ad esempio, Discogs e tanti altri network. E’ il mercato
discografico ad avere sofferto di più. Si parla di una flessione del cinquanta
per cento in termini di vendite. E da un punto di vista squisitamente musicale, sicuramente internet ha tolto il contesto alla musica e così facendo l’ha
trasformata in merce. Prendi Itunes: le playlist non hanno confini né tempo,
ogni item è scambiabile al massimo livello. Il problema più grande di nostri
tempi è comunque non è tanto internet quanto la scarsità d’idee. Si è persa
un po’ la sfida nello scrivere di musica. Ed è proprio quello che gente come
me vuole recuperare.
In questi anni di mainstream di madonne e Lady Gaga’s, pornografia e puttane, balletti epilettici e latex qualcuno ha ancora il
coraggio di attaccare un tuo lavoro ancor prima della sua uscita,
non è strano?
Quando con la big band ho campionato suoni catturati in Palestina mentre civili venivano uccisi dagli israeliani ho pensato che ci sarebbe stato qualche malcontento, ma non è successo niente. Usare suoni di animali è un tema
più sensibile per la gente, forse per questo viene trasposto in un altro come
il rapporto tra questa musica e la politica o meglio tra questa musica e la sinistra. O tra la musica e il denaro… Certo. Prendi 50 Cent. La sua musica è
totalmente politica. Messaggi come: fai più soldi possibile, bevi il più possibile,
vedi le donne in un certo modo, compra macchine costose. E soprattutto
consumali tutti che è un po’ quello che ti dice di fare il governo britannico. 50
Cent e il Governo britannico dicono la stessa cosa eppure il messaggio presentandosi in maniera non chiaramente politica non viene visto come tale. La
completa sessualizzazione mediatica della donna è una mossa profondamente
politica e temi come il sesso e il denaro devono essere affrontati in modo
differente per mostrare l’ipocrisia di tutto ciò.
In campo dance si stanno muovendo cose interessanti come James
Holden, Four Tet e anche Caribou. Che ne dici di tornare a fare
qualcosa di dancey? Inoltre, che connessioni ci saranno tra One
Club e la dance?
Mi sento molto nostalgico quando si parla di argomenti come questo eppure
mi deprime il fatto che non siamo andati molto oltre. Dai free party siamo
finiti nei Club da lì il discorso non si è spostato. Anzi nei Club c’è la vita reale.
Ci sono le compagnie di tabacco, telefonia, alcol, insomma c’è la pubblicità, gli
sponsor e cose così. Invece di aprire la mente alla gente il Club gli ha fatto
accettare una realtà corporativa. Con la mia musica sto cercando rendere
chiari questi link. Un club è soltanto un’organizzazione di persone. Quando la
gente si vede in posti pubblici ha il potere di iniziare rivoluzioni, formare partiti politici e fare qualcosa invece di ubriacarsi e dimenticarsi dei problemi.
Sempre a proposito della scena, questa volta sul lato IDM. Che ne
dici dei nuovi talenti della WARP?
Non conosco molte cose ma Mark Pritchard (Harmonic 313) è un produttore conosciuto da vent’anni a questa parte e fa sempre cose interessanti.
Purtroppo le mie orecchie sono un po’ stufe di synth e drum machine.Voglio
un po’ di aria fresca e di umanità in musica…
Tipo suonare con un migliaio di persone con la Big Band?
Ho già iniziato a lavorare con un Coro dal numero variabile, si partiva dalle
trenta fino ad arrivare alle cento persone (trad. da Choir) o anche di più.
Con questi grandi numeri la forza politica è davvero grande. Sarebbe bello
poter fare un disco con 10.000 persone. Una comunità. Un sogno. Quello
che gli animalisti che mi hanno attaccato per One Pig non hanno capito è
che la musica non è soltanto intrattenimento ma può essere una sfida (trad.
da Challenge, parola che Matthew usa moltissimo), un qualcosa che muove
le cose. Gli animalisti mi hanno convinto ancora di più che la mia musica si
dovrà muovere in due direzioni: ispirare le persone e cambiare il modo in cui
la gente vede la musica.
Ma la musica d'intrattenimento ad essere pericolosa?
E’ il modo in cui la gente percepisce la musica. Il fatto che venga percepita
come innocuo divertissement. Questo non fa che confondere e aggiungere
confusione. Stiamo andando verso una catastrofe e di certo non voglio essere
una delle band che suonano sul Titanic.
A proposito della Fine, la Deutche Gammofon ti ha commissionato l'incompiuta di Malher, la decima sinfonia che ha come tema la
morte, come riarrangiamento per la serie Recomposed. L'album è
uscito da poco ce ne puoi parlare?
Devo ribadirlo, il campionatore è uno degli strumenti più rivoluzionari in musica di sempre. Se Malher voleva comporre una musica che mimasse il volo
degli uccelli l'avrebbe simulata al flauto, mentre ora posso prendere un microfono e registrare quei suoni in presa diretta. Il mondo è la tua più grande
tastiera e per esprimere la solitudine, l'orrore e la bellezza che il compositore
voleva esprimere al tempo della Decima Sinfonia ora abbiamo diverse possibilità. Da parte mia ho voluto non solo riprodurre la sinfonia simulandone
l'ascolto dall'interno di una bara, ma amplificarne i sentimenti che l'avevano
animata, la solitudine di Malher, la paura di morire, la frizione tra l'interno e
l'esterno, la distanza.
37
terakaft
Caravan Rebel
Blues
—musica e vita dei Tamashek—
L a nostra Africa ( e la loro )
Drop Out
Ribellione, catarsi, identità. Il Tishoumaren di Tinariwen e dei loro
figliastri riporta la musica ad uno
stato essenziale e liberatorio. La risposta soffia nel vento del deserto…
Testo: Luca Barachetti,
Giancarlo Turra
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Forse è soltanto una questione di radici e ritorni a casa. Come quando una mattina ti svegli e ti duole un osso che
nemmeno pensavi di avere; come quando ti trovi in un luogo e sembra di esserci già stato. Oppure è una faccenda
più complessa, una tela di rimandi storici e di influenze che attraversano i millenni, come spirali che si allontanano e
poi - quando forse nessuno se lo aspetta - tornano all’origine. In quel momento riconosci la radice, simile pur nella
diversità esteriore, ed è di questo che vogliamo parlarvi: di un blues che è per prima cosa un sentimento e poi, complice il mal d’Africa che ha colto il nord del mondo da un trentennio circa, anche un genere musicale.
Perché c’è un ponte che dalla tradizione Tamashek conduce ai Grateful Dead passando per John Lee Hooker.
Perché la psichedelia classica edificava visioni sulle dodici battute e qui ci stanno entrambe, tenute assieme da uno spirito
fiero e autenticamente ribelle che aggiunge l’aspetto romantico sempre più raro per chi nella musica cerca una componente di umanità. Perché queste sono Storie e non semplici circostanze, sicché il bilancino della tecnica e dell’analisi
stilistica funziona fino a un certo punto. Ed è anche questo scardinare le teorie critiche, questo scoprire nervi e anima
con una potenza comunicativa cui non siamo più abituati a farci amare gli artisti descritti qui di seguito.
L'inizio dell'interesse occidentale per il mondo sonoro africano è dato quasi per scontato oramai, tuttavia da sempre
la via di scambio - sin dall’antenato del rapper, il griot; sin dalla tratta degli schiavi e dalla “nascita” del rhythm & blues
- è duplice. Stringendo l’obiettivo su quanto ci interessa nello specifico, concentrandoci sull’attualità del Mali rintracciamo un innamoramento (come per Paul Simon e per Eno & Byrne, generato dai musicisti: critica e pubblico
arrivano a ruota…) nei confronti dei titani Ali Farka Touré e Salif Keïta. Facile che inseguissero qualche illuminazione e tradizione annusata in quanto familiare i curiosi di rango come Ry Cooder, che nel 1994 si trova a Bamako
con Farka per il favoloso Talking Timbuctu, e con esso dimostra che tra Delta del Niger e del Mississippi non c’è
gran differenza. Otto anni più tardi Damon Albarn si reca nella capitale maliana per allestire - con un manipolo di
strumentisti locali che abbiamo imparato a conoscere (Afel Bocoum, Toumani Diabaté) - quel Mali Music che è
il biglietto da visita più in voga per una nazione dalla creatività straripante. Dove correnti e scene si scambiano facce
e influenze in una serie infinita di rimandi ed epifanie.
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Parola magica e adattissima, epifania.
Proprio in essa ti imbatti all’approccio con le sonorità dei Tuareg. Voi,
però, non chiamateli così, poiché gli
dareste dei “senza dio” come i loro
detrattori e persecutori: meglio che
ragioniate sulla condizione di queste
popolazioni berbere d'indole nomade, angariate e sfruttate dalla manciata di stati che, dopo la fine del colonialismo, si spartiscono il Sahara. Loro
preferiscono definirsi “Kel tamahaq”,
cioè coloro che parlano il Tamasheq,
la lingua originaria, anche se fino a ieri
l’altro restavano per le cartoline degli
occidentali gli “uomini blu del deserto”. Niente favole: questa è gente che
si è ingegnata a sopravvivere lottando
e spargendo sangue, altro che i “rivoluzionari” del rock & roll che girano
in Limousine.
Un popolo che, tra una fuga e un assalto per difendersi, ha sviluppato il
tishoumaren, linguaggio sonoro che
assume il ruolo di dichiarazione/dimostrazione di esistenza. A sua volta
un misurarsi sublime col passato, ovvero la musica Tamasheq, fatta di poliritmie circolari e inquiete, di canto
corale, del caratteristico urlo tremolante frutto dalla rotacizzazione della
lingua; sopra a tutto ciò, questi benedetti sacrileghi innestano chitarre
elettriche che rimandano al “nostro”
pre-war blues. Scrivi rimando, ma è
restituzione il termine che meglio fotografa la realtà: come già accennato,
dal Delta del Niger - più in generale
dall'Africa Centrale, via lo schiavismo
- giungono le note blu.
Note blu e uomini blu: a questo punto
non è un caso e le sofferenze finiscono per sovrapporsi, per incarnare
in musica l'alone scuro-diabolico di
esorcismo e catarsi dal Male, di accettazione del dolore e volontà di superamento verso un domani migliore. Serve una controprova? Nel 1999,
al Festival au Desert, il chitarrista
Justin Adams, degli Strange Sensation di Robert Plant, si prende
40
tamikrest
una sbandata per i Tinariwen - gruppo le cui vicende sono a questo punto
ben note e riassumono la storia Tishoumaren - e tutto torna. Fungeranno
da eccezionale traino “mediatico” in forza di un poker di lavori tra cui non
ha senso scegliere, tanta e tale è l’intensità che ne promana. Facile capirne le
ragioni: il leader Ibrahim Ag Alhabib è un combattente con un passato nei
campi militari di Gheddafi che ha sostituito il mitra con la chitarra (non vengono in mente anche a voi gli Area?) per cantare i patimenti e la ribellione
del suo popolo.
Da qui in poi, i Tinariwen scatenano il “fenomeno” gestendosi con infinita
classe e naturalezza. Li trovi in giro per il mondo, anche su palchi dove non
li vorresti (ma che ne sanno - e che gl’importa - del patetico Carlos Santana incrociato a Montreux nel 2006?); soprattutto portano alla luce un
sommerso che non ci siamo ancora stancati di scavare, né noi né i musicisti
occidentali in cerca di ispirazione, nonostante siano tantissimi i nomi che
spuntano in ogni momento e ti sembra di non averne mai abbastanza. Ne
citeremo alcuni, i più “interessanti” dal nostro punto d’osservazione, anche i
più facilmente rintracciabili oggi.Voi, però, non stancatevi di cercare. Rieccoci
all’inizio: a inseguire epifanie in qualcosa che cava forza da un gioco serissimo
di discendenze dirette, che - nel rivendicare l'essere al mondo di chi il vuoto
del deserto lo vive ogni giorno - riconduce l'indole blues al suo primigenio
spirito.
Corde nella sabbia
Partiamo dai Tamikrest, discendenti diretti dei Tinariwen e ultima “scoperta” nigerina il cui esordio Adagh (recensione sul n. 67) scaturisce dall’ennesima occasione instillata dal Festival au Desert. Siamo nel 2008, il gruppo
di Ousmane Ag Mossa al raduno di Essakane ha come vicini di tenda i
Dirtmusic di Chris Eckman, Hugo Race e Chris Brokaw: anche qui un
colpo di fulmine. L’anno seguente Eckman sale su un aereo per Bamako con
lo scopo di produrre l'esordio dei Tamikrest, e di lì a poco lo raggiungono i
due compagni d'avventura. Allo studio Bogolan fondato da Ali Farka Touré, i
Dirtmusic registrano il secondo album BKO (recensione sul n. 67) ospitando
alcuni membri dei Tamikrest e avvalendosi di altri pilastri locali, su tutti
il chitarrista Lobi Traoré e l’ugola
ancestrale di Fadimata Oumar dei
Tartit.
Formatisi in un campo profughi Tuareg e provenienti dalla regione di
Timbuctou, questi ultimi sono Tamashek della sponda Kel Antessar e
contraddistinti da un approccio più
ortodosso al genere. Accanto a una
sola sei corde elettrica, in line-up figurano strumenti tradizionali come il
tehardent, l’i mzad (rispettivamente
una specie di violino e di chitarra)
e il tamburo tindè; il canto è solista
e corale - sette le voci, tra maschili
e femminili - e s’innesta su strutture ritmiche fitte, circolari, spesso accompagnate dalla danza. Abacabok
(Crammed, 2006), ultima loro uscita
recuperabile da noi, è stata posta su
nastro fra Bamako e il Sahara con la
produzione di Vincent Kenis - già al
lavoro con Kokono N°1 su Congotronics - e testimonia una trance di
percussioni e battiti di mani; perfetta
base per i tipici vocalizzi tremolanti e per ancheggiamenti poliritmici/
polifonici prossimi alla psichedelia
desertica e a un senso di catarsi. I
testi variano da tematiche politiche
sull'indipendenza Tuareg a istantanee
di vita quotidiana e migrazione: in
certi momenti sembra di ascoltare
una registrazione sul campo, tanto è
verace e popolare l'indole di una formazione capace di aprirsi a influenze
disparate, come la presenza di Afel
Bocoum, chitarrista-agricoltore figliastro del solito Farka Touré.
Se di figliastri e legami di sangue si
deve parlare, ai Tinariwen guardano
anche Etran Finatawa. Conosciuti
in occidente a partire da Introducing - datato 2005, ma di un solo
anno antecedente l’ennesima genesi
benedetta dal Festival au Desert - la
compagine di Niamey unisce gli stilemi Tishoumaren con quelli Wodaabe,
sottogruppo Fulani vacante tra Niger,
Nigeria, Camerun e Repubblica Centrafricana e in rapporti non proprio pacifici con i Tamashek. Di dialogo e pacificazione trattano appunto i brani, oltre
all’usuale indipendentismo e a un quotidiano gioioso. Come gli Specials erano in parte bianchi e neri, anche qui il messaggio di pace passa attraverso una
formazione mista (tre Tamashek più due Wodaabe), dal suono groovy quanto
basta per un intento da loro stessi definito curativo, consapevolmente riallacciato allo sciamano in uno slancio che tocca il metafisico. Potete verificarne l’efficacia anche sui due lavori successivi, Desert Crossroads (Riverboat
Records/IODA, 2007) e un Tarkat Tajje/Let´s go! uscito lo scorso marzo,
sempre per Riverboat, sul quale presto torneremo più approfonditamente.
Ma, se oltre al Mal d'Africa siete interessati anche ai mali dell'Africa, non
potete tralasciare una visita ai territori dei Terakaft. Contiguo ai Tinariwen
per fraternità e campi di battaglia condivisi, il gruppo fondato da due ex come
Kedou Ag Ossad e Liya Ag Ablil (soprannominato Diara) sposa la causa
“politica” con la medesima intensità della formazione madre, restituendone
un'evoluzione più orientata verso un blues chitarristico. Non a caso Diara
incarnava la corrente per così dire rock dei Tinariwen, cosa che giustifica
l’atteggiamento “barricadiero” nei testi, accanto al fatto che l’oggi fuoriuscito
Keodu sia stato un celebre condottiero dei ribelli Tamasheq. Basti pensare
che l'unione tra i titoli del penultimo Tinariwen e dell'ultimo Terakaft (Akh
Issudar, World Village, 2008) forma uno dei più famosi proverbi di questa
cultura: “Aman Iman, akh issudar”, ovvero l'acqua è vita, il latte sopravvivenza.
Sintesi perfetta di due tra i principali ostacoli - la mancanza d’acqua e cibo del continente tutto. Difficile pertanto ignorare che la loro carica politica e
sovversiva è pari (maggiore?) a quella di qualsiasi folk singer nostrano, specialmente quando allestiscono magnifici "talkin’ blues" al curaro su un’inquieta
acustica o virano verso inattese derive panafricane iniettando il reggae su
ritmiche già assai contagiose.
Di contagio sono esperti anche i Toumast: Moussa Ag Keyna e Aminatou Goumar, voce maschile e femminile, non lesinano inserti di pop stilizzato, di funky e di rap in brani carichi di energia positiva, basilare sostentamento
al repertorio di denunce e rivendicazioni identitarie (il loro nome significa
giustappunto “identità”…). I puristi storceranno il naso dinnanzi alla facilità
con cui costoro, seppur episodicamente e senza spersonalizzazioni, piegano una tradizione viva dentro paradigmi tipici del “pop” occidentale. Eppure
anche questa è apertura mentale e i due lavori usciti fino ad oggi - l'ultimo,
Amachal (Green United Music), risale all'anno scorso - potrebbero rivelarsi
efficaci introduzioni all’universo Tamasheq. Del resto, lo dicevamo qualche
riga sopra: nel Sahara cova chissà quanto altro sand blues ancora da scoprire
e la testa, al solo pensiero, vortica inebriata. Rapita da una musica essenziale
e catartica come poche altre in circolazione, favolosa risposta alla confusione
odierna affidata al vento del deserto.
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Recensioni
!!! - Strange Weather, Isn't It?
(Warp Records, Agosto 2010)
G enere : dance funk
Non sono stati certo tranquilli i tre anni che hanno separato Myth Takes da Strange Weather, Isn't It?,
quarto album in dieci anni per la band di Sacramento.
Stravolgimenti nella formazione a go go, ma soprattutto
e purtroppo la tragica morte del batterista Jerry Fuchs.
Ripartire quindi, spostando il baricentro a Berlino.Via dal
marchio punk-funk che ti intrappola in un passato così
recente così esausto. I nuovi !!! s'incapsulano in una guaina dance elastica e brumosa, in un groove senza empatia
né guizzi, non edulcorato ma piuttosto pulito. Guardano
agli eighties con l'espressione inquieta e lo spasmo ballerino, nella nebulosa del post-punk più o meno a metà
strada tra New Order e Blow Monkeys, delineando
quindi un "post-punk-funk" che s'insinua lieve e ti cammina sulla pelle (Even Judas Gave Jesus A Kiss, The Most
Certain Sure).
La mancanza di intuizioni melodico/ritmiche intriganti
(con l'eccezione forse della sola Steady As The Sidewalk
Cracks) potrebbe essere una strategia ben precisa quindi,
il rifugiarsi in un'isola discreta e autarchica dove organizzare il proprio fortino. Senza l'ambizione di cambiare più
di tanto le cose, ma continuando a crederci. Certo che
qualche intuizione più brillante sia in fase di arrangiamento che di scrittura avrebbe reso tutto più... credibile.
(5.9/10)
Stefano Solventi
800beloved - Everything Purple
(Mood Gadget Records, Maggio
2010)
G enere : G lo - fi dark
In tre dal Michigan: Sean Lynch alla voce, Anastasiya Metesheva al basso e Scott Masson alla batteria. Sean oltre
che a cantare, scrive pure le canzoni. Durante il giorno
lavora nell'impresa di famiglia. Industriale? No. Il papi ha
un'impresa di pompe funebri. E allora quando senti le
prime note del nuovo disco capisci che qualche influenza
dark e shoegaze non è proprio così casuale, dato che
truccare i morti non è come andare a fare il cameriere
in Erasmus.
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— cd&lp
Anche se le citazioni hanno la lacrima facile, non si sfora
nel gothic. Quello che sembra invece aver catturato le
menti dei tre ragazzi è l'amore per il pop. America + Pop
+ Now = glo-fi. Il virus ormai diventato alla portata di
tutti (vedi il boom di Toro Y Moi e di Washed Out,
per citare solo due dei tanti artisti della scuola glo) si
insinua nelle chitarre dei Cure (1992), passa per gli Psychedelic Furs e taglia tutto con un po' di dark wave '80
pescando dai muri chitarristici dei My Bloody Valentine e dai colori pastello dei Pale Fountains.
Un passaggio macabro per il calderone glo, riempito da
una bella voce baritonale che in molti punti ricorda Ian
Curtis. 36 minuti che non sconvolgono, ma che si lasciano ascoltare piacevolmente.
(6.9/10)
Marco Braggion
AA. VV. - Piano Sequenza (Radiolina
Autoproduzioni, Maggio 2010)
G enere : vari
Sono gli stessi compilatori a dichiararlo, Piano Sequenza non è un manifesto né ha la pretesa di esserlo. In
pratica, tratta il meglio dell'indie partenopeo transitato
negli studi di Korovamilkbar, spazio rock all'interno della
net radio napoletana Radiolina, immortalandolo in un
cd corredato con foto di una Napoli austera, rigorosamente in bianco e nero e prossima più alla Manchester
di un tempo che non alla città del sole e del mare. Nel
segno dell'autoproduzione (l'incipit dell'intero progetto),
la raccolta regala momenti di indubbio valore: aprono
Ne Travaillez Jamais con Una Domenica In Campagna
(dallo split con i Talibam!) che farebbe la gioia dei Man
Or Astro-Man?, seguono i disciolti Mesmerico nella
tellurica Silos e procedono, sulla scia dei Jesus Lizard, i
Traders di Frogs.
Non solo volumi saturi ma anche tinte pastello, tipo Insula Dulcamara di Ruggine, l'atmosferica Set Fire To The
Feathers a firma Das Auge e il divertissement Gino Fastidio con Commodore 64 ("Intanto c'è chi continua a fare
i suoi porci commodore", recita il refrain). Seppur in modo
parziale - pesano a nostro avviso, poiché mai passati da
Korovamilkbar, le assenze di A Spirale, One Starving
Day e Weltraum - Piano Sequenza fotografa una Na-
highlight
Africa Hitech - Hitecherous (Warp Records, Giugno 2010)
G enere : spacey bas sy
Alla Redbull Music Academy edizione 2007, location Toronto, si incontrano il produttore Mark Pritchard
(Global Communication, Harmonic 33, Harmonic 313 e tanto altro ancora) e il vocalist Steve Spacek
(vero nome Steve White, "the voice of modern soul" per Gilles Peterson, solista - prodotto anche da J
Dilla - e prima ancora leader dell'omonima band). I due jammano, la cosa riesce bene, decidono di mettere in piedi un progetto vero e proprio. Nasce così Africa Hitech (la grafia della ragione sociale cambierà
sempre nel tempo - Afrika Hitek, Africa Hi-Tec, Africa Hi Tec, Africa HiTech
- fino all'attuale normalizzazione, sicuramente voluta da casa Warp).
Il frutto di quella primissima prova, di fatto la loro prima produzione, Too
Late, un funkysoul supersexy, viene pubblicato a febbraio 2008 sulla doppia
compila che raccoglie le jam di quel meeting Redbull (dentro anche Om'Mas
Keith dei Sa-Ra, Samiyam, Hudson Mohawke, Tony Allen, Marco Passarani) e ripubblicato poi come 12'' a dicembre 2009, in uno split con JWow Of Buraka Som Sistema assieme ad Aloe Blacc. Il buzz è ufficialmente
cominciato (vedi il nostro speciale 2010: Odissea nell'hip hop) e la Warp si è
mossa, assicurandosi l'esclusiva anche di questo nuovo spin off pritchardiano. Sempre a dicembre 2009
esce infatti 2010 From Warp Records, con dentro il singolo Blen, base grumosa e spezzettata di coriandoli elettronici e "rappato reggae" (il cantato di Spacek è secco e affilato, diremmo elegante, diverso dal
solito gutturalismo ragga). Il pezzo esce ad aprile 2010 come 12'', con The Sound Of Tomorrow come b-side
(ovattatissima ambientechno).
Arriviamo così ad oggi e a questo EP di sei pezzi (vinile e download) dal titolo programmatico di Hitecherous. How Does It Make U Feel, il capolavoro del mini, 8 minuti di scansione electro, atmosfera spacey,
basso con classico ottuso giro detroitiano, cheapbit sfarfallio tastierina, voce in falsetto soul primissima
house (era un indizio forte quel feel nel titolo); Said Speed, dubstep elettro-tropicalia con inserti finali di
tastiere sunset lounge; Lash Out, minacciosa orgia di synth superbassy, rullante industrial, perfetta per un
Super Mario nel castello a fine quadro; Boingy, che mantiene la promessa del titolo, scansione step, rimbalzi
come di un pingpong tastiere-basso; One Two, base asciuttissima (una tastierina, un rullante, qualche effetto
a condire), file under minimalragga (presente anche in versione strumentale).
Pritchard - come Spacek, ritiratosi in un avamposto ancora tutto da esplorare sotto il profilo delle produzioni elettroniche come l'Australia - ci presenta la sua nuova visione, la sua nuova sintesi bassy a tinte forti
dopo l'intuizione - giocosa unta volgare irresistibile - di Wind It Up (2009; assieme a Om'Mas Keith). Parte dal
dancehall e dal ragga, vi stilizza dentro minimaltechno, oldskool house e dubstep e ci presenta una sorta
di bounce spacey e minimale dai suoni golosi. Africa Hitech si candida a diventare una delle punte più
avanzate della scena elettronico-ritmica dei nostri giorni: aspettiamo Mark e Steve alla prova sulla lunga
distanza.
(7.1/10)
Gabriele Marino
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poli urgente e oltremodo
attiva, cupa (Sulfur degli
Alluro, doom nell'accezione più ampia del termine)
e ossessiva (Untitled dei
Nembrot) senza perderne
in eleganza (Errore Di Parallasse degli Slivovitz suona
come degli Hatfield And The North mediterranei) e intimismo (Esistere degli Gnut non ha nulla da invidiare ai
più introspettivi Perturbazione).
La compila è in download gratuito presso Radiolina, e
se volete, con cinque euro, vi portate a casa anche un
packaging niente male. Mai come oggi, c'è vita dopo A
Toys Orchestra.
(7/10)
Gianni Avella
AA. VV. - Sixteen F**king Years Of
G-Stone Recordings (G-stoned,
Giugno 2010)
G enere : G-S toned
Non si capisce bene perché abbiano scelto proprio il 16
come numero da anniversario, sta di fatto che i ragazzi
della G-Stone confezionano un doppio di lusso immediatamente prima di partire per le vacanze: un primo CD
di inediti e un secondo disco di classici. Il suono coniato
dai padrini Peter Kruder e Richard Dorfmeister ha
creato la scuola electro viennese, definendo uno standard per il downtempo chill che è ormai un genere a sè
stante che ingloba oggi non esclusivamente musica da
rilassamento.
Dopo più di 3 lustri (e più di 2 milioni di dischi venduti)
le sorgenti che pescavano dal calderone tardo Novanta
le camere di decompressione post-E, sono mutate in una
coolness che guarda alla tribal exotica (Makossa & Megablast) e al turntablizm (Urbs), al dub (K&D) e al jazz
techy (grande remix di Rodney Hunter per Tosca),
al drum'n'bass (D Kay) e all'ambient (Peace Orchestra)
e per finire al soul di classe (dell'eccellente Christian
Prommer).
Sarà che oggi siamo tentati di snobbare la coolness preferendo l'intrigante mondo cut and paste del wonky,
o magari ci infrattiamo in contaminazioni con i mondi
banghra-agit di M.I.A. e soci, ma richiamare per due ore
e poco più le atmosfere fumose dei caldi club viennesi
può causarci un deja vù piacevole, che non sfora mai nella deprimente elettronica finto chic dei vari Buddha Bar.
G-Stone: canone obbligatorio.
(7/10)
Marco Braggion
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AA.VV. - The Twilight Saga: Eclipse
Soundtrack (Chop Shop, Giugno
2010)
G enere : soundtrack
I vampiri siamo noi. Magari non così glamour, anzi facciamo per nulla, però duplici nella nostra natura di indie sfigati di giorno e snob dopo il crepuscolo (o era
il contrario? Ok, non importa...). Vedi il caso di questa
ennesima OST dell'ennesimo episodio - non chiedetemi
a che punto siamo, non ne ho la più pallida idea - della
saga di Twilight: un po' lusinga e un po' infastidisce scorgere nomi più che rispettabili - e che infatti rispettiamo
- coinvolti nell'operazione. Qualcosa ci dice che va bene
perché così dovrebbe essere, ben vengano playlist in grado di titillare le sinapsi dei (presumo) giovani utilizzatori
finali di siffatti prodotti.
Poi un'altra vocina ci suggerisce sdegnosa che gente
come UNKLE, Beck, Bat For Lashes e Black Keys
dovrebbe evitare di sporcarsi le dita nella marmellata
(sanguinolenta). Lasciamo perdere i Muse, che anzi ci
sguazzano come pesci con tutto il loro melodramma
ipertrofico d'accatto. E sorvoliamo pure su Mr. Jack White ed i suoi Dead Weather, specialisti emeriti in mascherate. Tuttavia, orsù, riflettiamo: non è proprio il caso
di spendere biasimo. Lo vuoi il signor Hansen in coppia
con la signora Khan? (A proposito: ma non starà esagerando con tutto questo accoppiarsi il nostro californiano preferito?) Ok, beccati senza troppe storie questa
Let's Get Lost col suo palpitare nella cuspide tra ottanta e
novanta tra penombre sfrangiate dalle bave pastello dei
neon. Pezzo discreto, non eccelso, nel rispetto di quella
dignitosa medietà cui il Beck ci sta abituando (posto che,
ad orecchio, sia quasi tutto farina del suo sacco).
Venendo alle rimanenti tracce, lo standard impera nel
bene (la premiata ditta Auerbach & Carney, Florence
+ The Machine) e nel male (la compagine di Lavelle e
soci), tutta un'apoteosi del così e così (Band Of Horses, Vampire Weekend, Eastern Conferenze Chamopions) e quanto al resto semplicemente adeguatissima fuffa per aspiranti nosferatu coi canini temprati dalle
tempeste ormonali.Vabbè, me ne torno nella bara. A fare
lo snob.
(5/10)
Stefano Solventi
AA.VV. - Horse Meat Disco II (Strut
Records, Giugno 2010)
G enere : disco fever
Ops, l'hanno fatto ancora! I dj James Hillard, Jim
Stanton, Severino e Luke Howard seguitano a deliziare il pubblico che affolla serate tenutesi non soltanto
a Londra, ma pure in acclamati locali di Lisbona, Berlino e
perfino Istanbul (senza dimenticare i tendoni a Glastonbury e al T In The Park) con un accurato e competente
assemblaggio di italo e vintage disco. Per lo più - causa lo
sdoganamento ufficiale del genere da parte della critica
"rockista" avvenuto un ventennio e rotti fa - scovando
fra rarità e piccole gemme. In modo per certi versi simile
alle raccolte di Nuggets e Pebbles dedicate al garage anni
'60, operazioni come questa indicano quanto fosse in realtà multiforme un fenomeno visto a lungo come bieca
commercializzazione o svilimento della musica soul.
Smaliziati e vaccinati, sappiamo bene che le cose stanno
diversamente, come dimostra anche il secondo volume
della serie Horse Meat Disco, mixato senza soluzione di
continuità - solo nella versione digitale - su apprezzabili
standard e con apici assoluti una Feels Good (Carrots And
Beets) di Electra prossima alla mutant più pop e la sensualità fluorescente ma cosmica della cartolina Afrodesia,
fenomenale opera di El Coco. Da portare alla prossima
festa dove i '70 trascolorano nel decennio successivo:
farete un figurone.
(7/10)
Giancarlo Turra
Autechre - Move Of Ten (Warp
Records, Luglio 2010)
G enere : aut - tronica
A pochi mesi da Oversteps - che non ha mancato di
suscitare consensi e polemiche - il percorso revisionista
del duo continua con nuovo doppio 12'' (anche in formato cd e digitale) all'insegna di una piccola svolta per la
quale possiamo azzardare il termine di comprensibilità.
In Move Of Ten, sotto basi ritmiche piuttosto "regolari",
persino più riconoscibili nei generi di appartenza (hip
hop, techno, jazz, elettro e troniche '70), troviamo degli Autechre concentrati nel manipolare (probabilmente) live i propri sample, curiosi nello sperimentare sul
terreno che dal jazz porta alla fusion già incontrata nel
Cosmogramma di Flying Lotus (nth dafuseder.b, m62,
ylm0). Ed è senz'altro questo l'aspetto più interessante di
un lavoro che cede quel poco che basta all'autistica coerenza (e concettualità), per suonare inaspettatamente di
petto tra visione (è un basso o una Roland quello che si
sente nella spendida rer(1)?) e qualche ispirato (e anche
ordinario) momento sci-fi Novanta.
Gli Autechre dimostrano prima di tutto a se stessi che
un po' d'umiltà alle volte è quello che serve. Ed è da
questi presupposti che un revisionismo serio è possibile,
il resto è audiofilia.
(6.8/10)
Beach Fossils - Beach Fossils
(Captured Tracks, Maggio 2010)
G enere : B each P op
Dopo la piacevole sorpresa dei Bitters del mese scorso, una nuova uscita azzeccata proveniente dal roster
Captured Tracks. Beach Fossils, l'ultima ragione sociale à
la page di un trend ormai sovraffollato, è un ipotetico
anfratto tra Real Estate, Ganglians e Washed Out
(quest'ultimo solo per associazione di umore, in realtà)
che si traduce in indie pop da polaroid, riverberi calibrati
stile surf, melodie catchy e soffuse che non potranno
non accompagnarci nei prossimi giri in macchina, possibilmente sul lungo mare, come fosse ancora l'estate del
1986.
(6.9/10)
Andrea Napoli
Bernhard Loibner - Unidentified
Musical Subject (Moozak, Maggio
2010)
G enere : E lettroacustica
Privo di coesione interna, Unidentified Musical
Subject dello sperimentatore viennese Bernhard Lobiner è davvero un disco difficile da maneggiare. C'è un
massiccio sfoggio di tecnica innanzitutto, perché anche
musicisti abituati a lavorare con computer, software e
marchingegni sonori vari possono lasciare, esattamente alla stregua del chitarrista rock, che il tocco emerga
prepotente sul materiale di partenza, la forma sul contenuto.
Oltre a incorporare il suono di strumenti acustici (una
novità rispetto ai precedenti lavori), le otto composizioni sono ottenute processando in real-time frequenze
generate da computer grazie all'utilizzo di un software
(_unfinished) sviluppato dall'artista stesso.
Lobiner è dunque uno smanettone, ma cerca in tutti i
modi di andare oltre quest'immagine che inevitabilmente
gli resta incollata addosso: lo fa rendendo più umana l'atmosfera complessiva con la caratteristica voce di Melita Jurisic dei metalycee ospite in due brani (poem,
con recitativo di una canzone d'amore dell'XI secolo e la
conclusiva follow) e, più in generale, mirando deciso - ma
non sempre efficace - a una forma compiuta che non
esagereremmo nel definire pop-sperimentale. Tenuto
conto di questo, Unidentified Musical Subject può
ben dirsi un disco di transizione.
(6.3/10)
Vincenzo Santarcangelo
Edoardo Bridda
45
Blitzen Trapper - Destroyer of the
Void (Sub Pop, Giugno 2010)
G enere : psych rock
Coral (The) - Butterfly House
(Deltasonic, Luglio 2010)
G enere : psych rock
Arrivato ormai al quinto album, il collettivo Blitzen
Trapper mostra dalla sua una buona tenuta musicale e
con Destroyer of the Void compie la sua quadratura
del cerchio.
Lo psych-rock sixties e seventies ricco di elementi immaginifici e colti del gruppo che nel corso della carriera
aveva più o meno centrato i suoi obiettivi, adesso si focalizza e raccoglie altri elementi nel suo percorso, quali
il folk rock e il prog dei '70, combinandoli in un disco
piuttosto cantautorale alla maniera del penultimo Furr
(2008), intriso di Beatles/Byrds/Neil Young. Qui gli
elementi aggiunti sono la coesione e i pezzi che ci sono
per l'intero disco e funzionano bene. Bentornati.
(7.1/10)
Per il loro sesto album d'inediti i The Coral si posizionano da qualche parte tra Love e CSN. In tasca gli immancabili santini beat d'Albione, in cabina di regia nientemeno
che John Leckie, e vai con dodici tracce grazie alle quali i
cinque di Liverpool confermano d'essere - dell'infornata
di band inizio anni '00 con l'articolo determinativo - tra
quelle in possesso del songwriting migliore.
Ebbene sì: le canzoni ci sono. Anche stavolta. L'acidità
progressiva della title track, la fregola caustica di She's
Coming Around, lo sfrigolante languore di 1000 Years: roba
buona, tanto di cappello. Il problema è che non sembrano preoccuparsi di costruire un proprio ambito espressivo a partire da istanze, particelle o sia pure ossessioni
sixties (come fanno, ad esempio, i Clientele), ma si accoccolano in caselle precotte e anche un po' stantie se
vogliamo. Col risultato di sembrare coinvolgenti come
un docudrama.
(6/10)
Teresa Greco
Canzoniere Grecanico Salentino Focu d'amore (Ponderosa, Giugno
2010)
G enere : folk salentino
Era il 1975 quando la giornalista e scrittrice Rina Durante, nota fino ad allora per aver contribuito alla diffusione
della cultura musicale salentina collaborando fra le altre
cose con Giovanna Marini, fondò insieme a Daniele
Durante il Canzoniere Grecanico Salentino, uno
dei più importanti e longevi gruppi di musica popolare pugliese. Passata nel corso degli anni la conduzione
dell'ensemble prima al solo Daniele e poi al figlio Mauro
Durante, il Canzoniere festeggia quest'anno trentacinque
anni di attività (e quindici dischi pubblicati) con Focu
d'amore, antologia di tradizionali amorosi risuonati per
l'occasione - undici in tutto, più due bonus track autografe (Il mito e Quistione meridionale).
Difficile prescindere da una formazione come questa se
si vuole affrontare seriamente il vasto mondo del tarantismo e in particolare della pizzica pizzica. Lontano da
ogni facile esotismo o pericoloso sfruttamento di mode,
il Canzoniere brilla al contrario per fedeltà filologica e
capacità di conservare una tradizione bisognosa proprio
di cura e della giusta dose di ossigeno. Quando il boom
della taranta sarà terminato, questo gruppo di musicisti sopravviverà comunque. D'altra parte c'erano già nei
tempi in cui le danze rituali del nostro meridione erano
un interesse di pochi studiosi e il tarantismo sopravviveva grazie proprio alla loro opera.
(7.5/10)
Luca Barachetti
46
Stefano Solventi
Crowded House - Intriguer
(Universal, Giugno 2010)
G enere : P op - rock
Sostiene un vecchio adagio del rock che per rimanere
credibili bisogna "morire prima di diventare vecchi". Questo può significare entrare nella leggenda, se la morte vi
assiste. Se così non è, a pochi è concesso non ripetersi e
imbolsirsi mano a mano che la data sul calendario si allontana da quella di nascita. Accade se si hanno sufficienti
energie e coraggio per reinventarsi continuamente. Non
è il caso di Neil Finn, deus ex machina dei Crowded
House, band australiana/neozelandese piuttosto oscura per pubblico italiano, giunta alla seconda prova dalla
reunion del 2007 (Time On Earth), avvenuta dopo un
silenzio più che decennale. Non v'è dubbio che la band di
Finn, a cavallo tra anni '80 e '90 abbia regalato al mondo
un pugno di dischi di ottima fattura pop-rock classico,
tanto da arruolare Steve Earle tra i fan, ma oggi si trova
in quella spiacevole situazione di voler essere giovanile
(o giovanilistica) fuori tempo massimo.
La barocca Archer's Arrow è uno strano miscuglio tra un
b-side dei Muse e il college rock, mentre uno dei brani
più agili (Either Side Of The World) è una tentazione lounge
senza averne lo spirito. Le cose vanno meglio quando
si mettono da parte i muscoli più rock per dare spazio alle ballate (Falling Dove, Even If, Elephants), che Finn
ha sempre saputo scrivere egregiamente. Non tutto è,
quindi, da buttare, anche se la chitarra e l'arrangiamento
highlight
Books (The) - The Way Out (Temporary Residence, Giugno 2010)
G enere : library avant folk
Cinque anni sono passati da Lost And Safe, un "lustro geologico" per i tempi del pop-rock. Per quanto
riguarda la vita vera, invece, giusto il necessario per portare a termine il tour mondiale, sposarsi, mettere
al mondo figli, riorganizzare la mitologica libreria dei sample (eterno work in
progress), cercare uno studio d'incisione che permettesse loro d'esprimersi al meglio e traslocare (discograficamente) presso Temporary Residence.
Nel frattempo, ovviamente, bisognava dare vita alle quattordici tracce che
compongono questo The Way Out, quarto opus per la premiata ditta The
Books. Rispetto ai tempi dell'esordio, è ormai tramontato tutto il contesto
post, glitch e folktronica rispetto al quale facevano la figura dei fantasisti
senza una chiara collocazione tattica ma che comunque rappresentava un
contesto nel quale muoversi.
Non per questo oggi sembrano avulsi dal gioco, anzi mettono in campo la lucida dignità di chi persegue
codici espressivi meditati a fondo, e quindi sa offrire di buon grado - senza supponenza né disarmo - il proprio punto di vista sulla contemporaneità. Che, come è tipico dell'arte di Zammuto e De Jong, prende le
mosse da frammenti di passato opportunamente ricostituiti, collocati in forme e contesti che ne esaltino
tanto la natura di reperti (lasciando cioè che significhino l'epoca da cui provengono) quanto la musicalità
intrinseca, un po' come fecero magnificamente Brian Eno e David Byrne per My Life In the Bush
Of Ghost. Capita quindi che un coro di Inuit danesi incocci una cassa in quattro con fregole caraibiche
e ne esca una sfrigolante meditazione sulla religiosità (Beautiful People), oppure che sul training autogeno
felpato down tempo di Group Autogenics I si ramifichi l'insidia matematica di un basso, o ancora che la canzoncina impertinente registrata da un ragazzino sul proprio talkboy vada a sbattere sull'up-tempo funky
come un'innocenza perduta o impossibile (A Cold Freezin' Night).
E' un formicolio antico sul corpo del presente, un moloch benigno ma attaccabrighe (vedi il funky cibernetico di I Didn't Know That, sorta di baccanale Laurie Anderson, Herbie Hancock e Art Of Noise), il
camaleonte che ti indica l'accesso all'altra dimensione, ora radiante e marziale come un incessante innesco
Waterboys (Thirty Incoming), ora tribal-industriale come un Timbaland strattonato da Trent Reznor
(I Am Who I Am), ora sobrio e attonito come una doglianza Wilco lenita dal dottor David Sylvian (We
Bought The Flood). E il folk sempre sullo sfondo, accompagnato dagli scalpiccii d'un mondo virtuale fatto
di testimonianze lo-fi, folk che comunque se vuole sa emergere e farsi ballad semplice e toccante (Free
Translator).
Liberi tutti di pescare significati, suggestioni, prospettive. Mentre tutto muore e torna solo per cambiare
in qualcosa di nuovamente vivo, come suggerisce la frase di Gandhi citata in purezza.
(7.4/10)
Stefano Solventi
di Amsterdam suonano di del lato peggiore degli eighties
e la Inside Out è semplicemente una brutta canzone, ma
l'impressione generale, che si rafforza con gli ascolti, è
di stanchezza, come se per 25 anni fossimo entrati nello
stesso bar, sedendo allo stesso posto e riordinando sempre lo stesso drink.
(5.7/10)
Marco Boscolo
Darwin Deez - Darwin Deez (Lucky
Number, Giugno 2010)
G enere : I ndie pop
Surfando per i siti musicali e non, se ne leggono di tutti i
colori su Darwin Deez (all'anagrafe Smith), menestrello "fai da te" dedito ai precetti del guru Meher Baba.Lui
fa musica dall'età di undici anni, per lo più nell'ambito
della sua cameretta,in cui ama armeggiare con chitarre,
tastierine e laptop.E' il frutto più recente della Brooklyn
bohemien delle open mic night, che in passato ha già frut47
tato artisti come Adam Green e Regina Spektor.
Fa tutto con lo stile cool di chi sembra passare per caso
sotto le luci dei riflettori e difficilmente sbaglia una melodia. Essendo poco più che ventenne le sue influenze
sono da ricercarsi più nella New York degli Strokes che
in quella dei Television. Biascica i pezzi come un Julian
Casablancas sedato, e mescola rock naif, con chitarrine
in levare, a quel funky gommoso e un pò plastificato che
a noi può ricordare derive french touch.Un'alchimia che
quando funziona produce le melodie dimesse di Radar
Detector o l'accattivante cantilena del singolo Constellation, da cui è impossibile non farsi strappare un sorriso
compiaciuto.Peccato che un ascolto filato del disco mostri tutti i limiti di songwriting, omogeneo ai limiti della
monotonia, sensazione confortata dall'incedere narcolettico del cantato.
Deez l'ha inciso in solitaria, anche se sembra che dal vivo
si esibisca con una band più simile ad una comune hippy
che ad un ensemble musicale. Si dice un gran bene dei
suoi show, autentiche esplosioni di gioia, in cui l'artista si
esibisce nella danza dinoccolata che lo ha reso famoso per il video di Radar Detector. Per il momento il suo
esordio si assesta sul livello di un'aurea mediocritas, che
non entusiasma ma lascia ben sperare per un'auspicabile
maturità.
(6/10)
Diego Ballani
Department Of Eagles - Archive
2003-2006 (Bella Union, Luglio
2010)
G enere : A vant garde folk
Alla fine hanno deciso di farne un album. Stiamo parlando di quelle tracce che il Grizzly Bear Daniel Rossen e
il suo compare Fred Nicolaus avevano registrato subito
dopo l'esordio del 2003 e prima dell'acclamato In Ear
Park.La leggenda vuole che all'epoca non fossero riusciti
a darvi forma compiuta, mentre l'attualità è costituita da
questo Archive 2003 - 2006,che ci presenta sei brani "veri", inframezzati da cinque capricci strumentali (o
Practice Room Sketch), a base di rumori d'ambiente, cut
& paste di tracce vocali, mozziconi di canzone ed elucubrazioni da studio.Il risultato? E' molto simile a quello delle demo di Smile, apparse molti anni prima che
Brian Wilson si decidesse di dare forma compiuta al
suo capolavoro.
La ciccia, lo avrete capito, sta altrove: ovvero in quei
bozzetti di folk impressionista che Rossen affresca con
ecletticità di intenzioni e mano agile, il che è sorprendente visto le sontuose orachestrazioni impiegate.
Sia che si tratti di arricchire con cori e archi la delica48
tezza acustica di Deadly Disclosure, sia che sfigurino la
cavalcata Flip con incisi rumoristi, i Department Of
Eagles sono fautori di una concezione del pop opulenta
e generosa. E obliqua, naturalmente. While We're Young e
Brightest Minds suonano come se i Fleet Foxes fossero
diretti da Van Dyke Parks: hanno una sognante coralità cinematica in cui irrompe lo scatto d'artista, l'arrangiamento inconsueto.E' sempre folk, certo, ma nella
sua variante più forbita, folle e visionaria: l'ideale colonna
sonora per fiabe d'altri tempi.
(6.9/10)
Diego Ballani
Devo - Something For Everybody
(Warner Music Group, Giugno 2010)
G enere : pop - volution
Roba nostra, sembrano dire i Devo nel 2010, riprendendo il discorso da dove l'avevano lasciato - e, c'è da dirlo,
pure da dove l'avevano iniziato. Sono loro stessi a godere
della devoluzione (lo abbiamo sempre saputo), di quella anti-meritocratica e alienata società dello spettacolo,
siglata in calce dalla scelta del combo di optare per il
marketing hard-core.
C'è da parlare di questo disco, non possiamo sottrarcene, e bisogna farlo subito, non perdere un secondo. Tempismo da agenda setting promozionale che lascia un probabile strascico, il meno peggio, se si vuol batter cassa,
ma basato sulla puntualità dell'operazione, non di certo
sulla memoria o sul medio-lungo termine.Vale a dire, ne
parliamo ora e domani ce ne saremo dimenticati.Volatili
e obsolescenti le canzoni di Mark Mothersbaugh e
soci, come ce le aspettavamo e ancora di più. Subitanea
l'impressione di risposta, l'ancheggiamento sincopato nei
momenti migliori (Please Baby Please), veloce la cancellazione dal taccuino visuospaziale dei nostri cervelli di
ascoltatori (specie in casi come Later Is Now o March On,
caricature involontarie synth-pop). Pure l'orecchiabilità
si slega dai pezzi, per andare a ricordarci i mille e non più
mille revival - fatti da altri - del gruppo, ipercelebrato (e
a ragione) nell'ultimo decennio.
Abbiamo forse centrato il punto. I Devo piombano con il
primo disco da vent'anni a questa parte (l'ultimo, Smooth Noodle Maps, era datato 1990, non a caso primo
anno del dopo Eighties), e lo fanno mettendo un punto
e a capo con la lunga ripresa degli Ottanta, cui abbiamo
assistito nell'ultimo decennio. Un full stop che evidenzia
l'artificio, il pilota automatico, sempre in fondo divertente, ma ripulito e reso innocuo da mezzi produttivi consoni. Un discorso a parte, ancora una volta confezionato
per montare il caso, quello dei produttori. Prima la band
contattata da gente come Snoop Dogg o Fatboy Slim,
highlight
Chemical Brothers - Further (EMI, Giugno 2010)
G enere : E lettrock
Dopo l'autocelebrazione Push The Button (che nel suo arco contava Galvanize), e l'inutile We Are The
Night (senza più alcuna freccia buona da tirare), dai chimici ci si aspettava l'ennesimo mix al sapor di
Novanta ad uso e consumo dei kid che vivono sulla mitologia e sui racconti dei loro cugini più vecchi.
Mai ci si sarebbe aspettati un album essenziale, senza la girandola d'ospiti, dai riferimenti colti più che
mai sostanziati, finalità revisioniste e chiavi d'umiltà ad aprire le toppe del
rinnovamento.
Impersonare l'ultimate thing è sempre stato il loro boomerang più pericoloso.
C'è sempre un punto in cui ogni generazione casca nel tranello di non accettarne un'altra, scegliendo di rappresentarsi al massimo e diventando così
simulacro e, naturalmente, zimbello. Avrebbero potuto presentarsi come gli
Orbital al Primavera Sound, i nostri chimici, scovati a compiacere le folle
barcellonesi a suon di campioni anni Ottanta totalmente incoerenti con il
loro background e invece eccoteli cogliere l'ennesimo ritorno kraut (tanto
cosmico quanto all'Ananas Symphonie) e reintrodurtelo nella scocca più performante: la progressione
techno che si fa strategia prog e quel prog lo affronta più che mai seriamente. Escape Velocity è il singolo
che non ti nasconde nemmeno l'amore per il Terry Riley più stereotipato e brandizzante: dieci minuti
di minimalismo, techno, kraut, cosmica, electro, rock, dunque sinfonia dai circuiti passionali, rush perfettamente schizzato sulla tela.
E il resto dell'album, ricco di visioni, spinte e altri folgoranti motorik, brilla come non te l'aspetti. In Horse
Power, i Chimici giocano a fare i Daft Punk, calano la carta del sarcasmo riuscendo quasi a ripetere Hey
Boy Hey Girl con una ringhiosa techno da dancefloor per faceless bollocks. Campionano il nitrito di un
cavallo ricordandoci di una generazione che si fece di un pesante anestetico per cavalli nel tentativo di
liberare il corpo dalle ossa. Un veleno potentissimo al quale non manca l'antidoto: in Swoon, dalla ketamina
si passa all'altro amore del duo, l'indietronica agrodolce d'inizio Duemila; ancora dinamiche essenziali: produzione old style, drums e synth analogici, una perfetta base per accogliere le scariche d'LSD elettroniche
che sono non di meno shoegaze. Swoon deve molto ai My Bloody Valentine, ma nel paradiso dei Chimici
non sanguinano le orecchie, si sogna ad occhi aperti come nei film di Gondry. A sanguinare sono piuttosto
i circuiti dell'attacco Snow, opener di un ritorno abilissimo nel dosare tutte le componenti dell'arte chimica: l'attacco, la progressione, la carezza.
In molti vedono Further come lo Human After All dei Chemical Brothers. Assolutamente d'accordo
ma c'è molto di più: in Dissolve ritorna l'influenza subliminale di Wayne Coyne (Flaming Lips), in K+D+B
ci sono NEU! e New Order a salutare dal finestrino. Un inaspettato ritorno. Sarebbe un peccato mortale non dare al duo gli elogi che si merita. Non aspettatevi le canzoni, gli hit, ma una revisione adulta di
un sogno eterno fatto di consapevolezza, trasporto, pensiero, gusto e ironia.
(7.5/10)
Edoardo Bridda
poi la decisione, a un passo dall'uscita, di rilanciare con
la boutade di un completo - pare - remissaggio. E, infine,
l'elenco dei produttori, con Greg Kurstin, John Hill, Santigold, John King, Mark Nishita.
Detto in tre righe: prima c'era quell'eccezionale (e davvero influente, ricco, intelligente) astigmatismo tra oggetto del discorso (devolutivo) e soggetto dell'enuncia-
zione. Ora gli occhiali (non si sa se inforcati da noi o
loro) fanno in modo che le due cose coincidano. Una
coincidenza?
(5/10)
Gaspare Caliri
49
Dipper - 10 Steps To Babel (Minus
Habens, Maggio 2010)
G enere : E lectro jazz
Ugo de Crescenzo (pianista già noto con il moniker Pilot Jazou) ed Elena Colombo (voce), compagni di avventura anche in Noiret e Black Bit, sono i Dipper,
con l'apporto di Marcello Testa al basso, Osvaldo Di Dio
alle chitarre e una manciata di ospiti internazionali (tra
cui due MC) che arricchiscono la tavolozza espressiva
del nuovo lavoro.
10 Steps To Babel alterna, in un'atmosfera di forzato
meltin-pot stilistico, livellato peralstro da una produzione molto anni '90, rivisitazioni cyber degli Asian Dub
Foundation che furono (Babo's Alphabet) a innocue
marcette nu-jazz/soul (Babele City), fascinazioni Portishead dal retrogusto mediterraneo (First Glance) a movenze dub (Monsieur Tete) o dub-bossa (Diamonds), funk
futuristici (Heads Funk) a interventi più genuinamente
pop - Rebirth: che sembra funzionare assai meglio di tutto il resto.
Dichiarano di aver percorso dieci passi alla volta di Babele: ben più lungo e tortuoso è il tragitto che conduce
al Seenar.
(5/10)
Vincenzo Santarcangelo
Electric Wire Hustle - Electric
Wire Hustle (BBE, Luglio 2010)
G enere : hip - soul
Esce anche da noi (con quasi un anno di ritardo) l'esordio del gruppo neozelandese formato dal compositore
e polistrumentista Taay Ninh, dal vocalist Mara TK e dal
percussionista Myele Manzanza. I tre ragazzi propongono un soul influenzato fruttuosamente dall'(trip)hip-hop
e dal jazz: un miscuglio che incontra i favori della cricca
dedita al mesh più cool degli ultimi tempi, siano essi i saggi Sa-Ra Creative Patterns, la battagliera Erykah Badu,
le visioni traversali di Flying Lotus o le prove acerbe di
qualche nerd londinese in salsa wonky.
L'approccio trasversale del trio passa attraverso ricordi
dell'oscurità ritmica di DJ Krush (Waters) e delle prime compilation per turntablisti su Ninja Tune (Thank You
Steve), per incontrarsi felicemente con gli archi retrò'n'b (They Don't Want), gli
organetti e gli FX sintetici
(Experience) e le sensualità
connaturate nel soul-jazz
(il clap primigenio di This
World). Osannato dalla critica nazionale e dalle riviste
50
di settore inglesi, questo disco dimostra come l'eccentricità non sia l'unica soluzione per emergere: il lavoro
del trio (coadiuvato dal produttore Benny Tones) richiama il calore che avevamo sentito nelle prove di Kissey
Asplund (vedi il bel featuring di Stacy Epps in Walk On),
curandolo con melodie e ritmi che si intersecano alla
perfezione anche dal vivo (cercateli su youtube per la
testimonianza adrenalinica). Un disco che coniuga diversi
mondi e che piace sia all'ascoltatore casuale che il fan.
Wellington 1 - Londra 0.
(7.1/10)
Marco Braggion
Eminem - Recovery (Interscope
Records, Giugno 2010)
G enere : ( hi ) p ( h ) op cros sover
Eccolo Relapse 2. Con il titolo cambiato in corso d'opera a segnare uno stacco netto dalla cupezza musicale e
lirica del primo capitolo, a segnare una possibile riabilitazione dell'uomo Marshall Mathers e dell'artista Eminem.
Dell'uomo non possiamo dire, ma l'artista sicuramente
bene non sta. Anticipato da un singolo di rara bruttezza, Not Afraid (sintetizzabile con "poveri tredicenni del
2010"), il settimo album dell'ex ragazzo cattivo d'America scende giù in picchiata come non mai.
Se una manciata di numeri si salva, perché comunque
costruiti con cognizione di causa (le strofe di Cold Wind
Blows, la plumbea On Fire, una Won't Back Down hardblues
con la voce di Pink, l'enfatica Going Through Changes, il
cabarettistico shuffle della ghost track), il grosso della
scaletta è semplicemente pessimo. C'è meno elettronica
HH commerciale, molto più appeal pop (parla da solo il
feat di Rihanna nella ballatona trasparente Love the Way
You Lie; l'Eminem che lanciava in aria la bambola gonfiabile della Aguilera si rivolta nella tomba) e i toni sono
molto meno cupi. Ma la sostanza non cambia: il focus
resta fisso su quel crossover degenere a base di schitarrate, pianoforti e archi in crescendo epici e zuccherosi,
rappato ragga con tanto di autotune. Eminem ci pare
definitivamente involuto.
Con il senno di poi, la recensione la si sarebbe potuta
scrivere a tavolino, semplicemente sapendo che il pezzo
con quella iattura di Lil Wayne campiona nientemeno
che il classico dance90 What Is Love di Haddaway. Segnatevela tra le perle trash del 2010.
(5/10)
Gabriele Marino
Esterina - Senzacorente (Le Arti
Malandrine, Marzo 2010)
G enere : rock d ' autore
La provincia italiana è una
fucina infinita che scalda
fino all'incandescenza piccole storie pronte per l'incudine o il maglio di una
canzone, meglio se rock,
meglio se innervata di linfa popolare. Prendete gli
Esterina: come tanti prima di loro riportano tutto a
casa, e la casa questa volta le pareti ce le ha, dure come
storie di delusioni e violenze femminili, narrate in quadrature elettriche di rock novantiano e liriche pastose
con in bocca la terra di un dialetto toscano che è di tutti
ma sgomita e scava.
Diferoedibotte due anni orsono li presentava come
dei Virginiana Miller imparati dal mantice e dall'aratro,
una piccola sorpresa non sufficientemente valutata, forse
per il rigore di una scrittura che cercava tensioni chitarristiche come i primi Muse inspessiti da fisarmonica e
diamonica. Questo live ce li fa ritrovare in veste acustica,
in pratica le stesse canzoni del primo disco più l'inedito
L'attesa e la cover di Verranno a chiederti del nostro amore,
ma con fisarmonica e diamonica a prendere spazio alle
chitarre insieme a glockenspiel, vibrafono, armonium e
cianfrusaglie assortite.
La versione video del concerto scalda il cuore con il suo
denso bianco e nero attento ai dettagli e agli sguardi di
chi suona e di chi ascolta - mentre negli extra un bel
corto di Daniele Fenudi musicato dal gruppo racconta
dell'opera di recupero di donne che hanno subito violenze portata avanti dalla comunità Casa di Emma. La
parte audio lascia invece intendere come dal folk nostrano ci sia ancora tanto da ricavare, manipolare, scoprire.
Perché in fondo veniamo tutti da lì, dal Paese. Che per
non rimanere strapaese catodico dovrebbe riprendersi
l'anima e mettere a nudo ciò che di essa è buono e ciò
che di essa è marcio. "Bacio pile, lustro panche, giro assegni,
sogno mutande / Baci e abbracci, mangio l'agnello, scambio
la pace, mi piace il randello".
(7.3/10)
Luca Barachetti
Fausto Rossi - Below the line
(Interbeat, Maggio 2010)
G enere : noise concettuale
Mah. La mia stima per Fausto Rossi, soprattutto per il
Fausto Rossi degli anni Novanta, è totale e incondizionata.Tuttavia di fronte a Below the line viene difficile non
storcere il naso. Ok l'imprevedibilità del nostro, il coraggio di un'opera marcatamente concettuale da parte di
uno che ha comunque e sempre scritto "solo" canzoni
e nient'altro. Ok la filiazione cageiana di un disco che
è una riflessione sul silenzio/rumore in epoca di muzak
sparata ovunque (anche nelle librerie, ormai, anche nelle
librerie)...
Eppure un lavoro come questo lo ascolti una volta, ne
ammiri magari il vigore reazionario, e poi lo metti vita.
Un'unica traccia di venticinque minuti e quattordici secondi divisa al suo interno in sette parti che coincidono
all'incirca con sette brani. Diciamo all'incirca perché il
tutto è coperto da un feedback chitarristico che dal primo secondo all'ultimo copre i brani, anzi li sovrasta. Non
si tratta di uno scontro tra canzoni e rumore, ma della
violenza del rumore sulle canzoni.
L'annichilimento imperituro che fa desiderare il silenzio.
E forse è questo, alla fine, il senso di Below the line.
Una dichiarazione di resa, il rumore belluino di una bestia che si sta mangiando tutto. Un disco da non ascoltare
e a cui preferire il silenzio.
(6/10)
Luca Barachetti
Fortuna - Fortuna (Poor Records,
Luglio 2010)
G enere : electropop rock
Avevamo smesso di ascoltare da poco la vena darkey di
Tying Tiffany, ed ecco che oggi rispunta questo progetto vagamente ricollocabile a quegli ambiti. Kid Chocolat, The Knack e Oil si avvalgono - per metà delle 10
tracce del disco - del featuring vocale di Asia Argento,
icona pop di un certo mauditismo venato di darkness e
sensualità pseudotrasgressive. I ragazzi girano attorno a
queste coordinate e costruiscono delle tracce sognanti
(Less Is More, A Radical Bravery), che presuppongono la
scontata connessione con i Depeche Mode e il lato
oscuro del synth pop.
La proposta pendola tra il cantato della pregevole lei
(che in Touched By The Hand Of God fa pure il verso a
Madonna) e un pop in cassa dritta che viaggia senza
sbavature sui binari della belle epoque wave '90 (Black
Water, Daybreak) sporcandosi qui è là di innocente clubbismo (Santa Maria Da Feira) e deepness (Seh Seh Seh).
Looppabile.
(6.5/10)
Marco Braggion
Francesco Giampaoli - A caso
(Sidecar, Maggio 2010)
G enere : rock jazz
Venti teatrini cinematici, mini colonne sonore per cortometraggi arguti, malinconici, beffardi, insidiosi, meditabondi, guizzanti. Il folk-blues come una bussola per per51
dersi con più gusto tra lidi jazz (casomai acid) e plaghe
ambient, indugiando sulle suggestioni resinose del sirtaki
per poi scuotersi di elettricità cupa ed elettroniche asprigne. Il polistrumentista Francesco Giampaoli (svariati tipi
di chitarre e tastiere, vibrafono, contrabbasso, percussioni...), che abbiamo di recente incontrato nei Sur e già al
lavoro tra gli altri con Bob Moses e Rita Marcotulli,
si è concesso questo esordio a proprio nome con l'aiuto
di un pugno di sodali (il trombettista Maurizio Piancestelli, DJ Nada, un Roberto Rossi esperto in chincaglierie
esotiche...).
Il risultato è A caso, disco che sorprende per la generosità variegata ma sempre congrua delle trame (tutti i
pezzi sono originali), un lungo carosello romantico e sinistro, ironico e avventuroso, chill-out per chi non teme di
mettere in circolo il neurone tra una svolta e l'altra delle
umane cose (incluse quelle musicali). C'è del mistero e
c'è del sorriso. E' un labirinto nel quale potresti abitare.
(7.3/10)
Stefano Solventi
Franco Battiato/P.G.R. - ConFusione
(Universal, Giugno 2010)
G enere : rock
Riassunto per quanti si fossero persi le ultime puntate
della saga C.C.C.P-C.S.I.-P.G.R.: Battiato riceve l'ultimo
capitolo P.G.R., lo ascolta, rimane entusiasta delle canzoni ma non completamente delle scelte sonore compiute.
Dunque pensa di rimettere mano ad alcuni brani, tre in
tutto, aggiungendovene altri sei dai due precedenti dischi a nome Per Grazia Ricevuta. Nasce così ConFusione, ovvero '9 canzoni disidratate da Franco Battiato'
come recita un sottotitolo piuttosto fuorviante. Perché
se di remix propriamente detti non si tratta, le canzoni
nemmeno sono asciugate, semmai rivestite, e con esiti
alterni, da un Battiato a volte re mida altre volte mero
giocherellone.
Il nodo della questione sta nelle versioni originarie. Laddove infatti c'era una precisa idea produttiva alle spalle (i
tre brani dal disco con Hector Zazou) l'intervento di
Battiato, che riduce le tracce a versioni bigino accorciate
nei tempi - ma sarebbe più esatto dire negli spazi (Montesole, Come bambino) -, è superflua e un tantino fuorviante,
visto che pure Ah! le monde scontornata pop pare un
piatto ben servito ma in fondo di poca sostanza.
Diverso invece il discorso per le canzoni di D'anime e
d'animali, disco contraddittorio nelle scelte di produzione (ai comandi Peter Walsh) e fortemente segnato
dalla dipartita dal gruppo di Magnelli e Ginevra Di
Marco. Qui Battiato rompe il guscio e tira fuori la perla
in almeno due delle tre tracce. Cavalli e cavalle, con quegli
52
archi all'europea, l'ossatura rock robusta e un miasma di
synth sotterraneo a spargere inquietudine, ha lo stesso
spleen apocalittico di un disco come X Stratagemmi.
Orfani e vedove a fine scaletta è il colpo di coda che ti
saresti aspettato dal siciliano una decina di anni fa: via
l'atmosfera da operazione Enduring Freedom dell'originale, dentro un baluginio di synth in prestito diretto da
Fisiognomica ed ecco la figura di Ferretti a stagliarsi in
un mattino di chiara alba appenninica mentre canta al
vento la sua parabola esistenziale - provocante, contradditoria, condannata all'autoreferenzialità.
Infine i tre pezzi da Ultime notizie di cronaca, canto del
cigno di un gruppo non ancora privo di una certa chimica ma al contempo ad un passo dall'essere controfigura
di sé stesso. Se un grande difetto l'avevano quelle nove
tracce stava nell'elettronica di Maroccolo, fuori tempo
massimo quando non addirittura fuori centro. Battiato
si limita semplicemente a contenere i danni e le tre Cronache riprese (montana, del 2009 e di guerra II) lasciano
intendere cosa avrebbe potuto essere un intero lavoro
del trio Maroccolo-Canali-Ferretti prodotto da lui oppure (ipotesi ancor più suggestiva) un quarto Fleur a tema
P.G.R.. ConFusione rimane invece un lavoro esaltante
in alcuni momenti ma spesso ridondante e inutile. Anzi
InUtile.
(6/10)
highlight
Jimmy Edgar - XXX (!K7, Luglio 2010)
G enere : electro - funk
Nelle vesti UK, neo-soul, Kraftwerk like e dal lato eterodosso di Flying Lotus, poco c'importa. Già con
Dam-Funk l'avevamo capito che il funk non sarebbe più stato un ricordo passeggero e il ritorno di Jimmy
Edgar un frappé di analogiche prelibatezze.
Armato di scaramantica pacchianità Ottanta, fondamenti House, Techno, hip
hop e tanta calura, il bianco di Detroit infila un cornucopia di vocoder (New
Touch), bassi midi che ricordano Tutu di Davis (One Twenty Retail), la Sugar
Hill Gang (Function Of Your Love, New Touch), camere stroboscopiche per
droghine sintetiche (In My Color), in un discone X rated con la consapevolezza e la maturità che già fu dell'ultimo Sebastien Tellier (Turn You Inside
Out).
Come per Color Strip di ben cinque anni fa, Edgar registra in analogico con
macchine vintage (i ritmi con la TR-808 e TR-909, i funk con ARP odissey,
Yamaha DX-7 e altri cheap synth) in cassetta per poi riversare e missare il tutto come un idmmer di un
ultima generazione, in digitale, dando al sound quel tipico taglio glitchy.
Il XXX è però un passo avanti, i taglia e cuci sono circoscritti al minimo e dove l'esordio innestava la
blackness nei circuiti elettronici degli Ottanta (dai ghetti di NY a quelli di Detroit), qui si lavora di sintesi
con chiavi funk fregandosene di ciò che è up (sprazzi Justin Timberlake e Kelis in Turn You Inside Out) e ciò
che è undeground. La mentalità Kraftwerk filtrata da Detroit poi fa il resto. Edgar è pronto per spaccare.
(7.4/10)
Marco Braggion
Luca Barachetti
Futureheads (The) - The Chaos (Nul
Records, Aprile 2010)
G enere : emul - wave rock
Futureheads, o della discontinuità: quattro ormai gli LP
consegnati dai ragazzi di Sunderland e tutti più che discreti però nessuno irrinunciabile. Perché se ognuno
infila almeno un poker di perle, è altrettanto vero che
vi accosta composizioni tirate via in un misto di scazzo
e disattenzione. E se di loro attrae il profilo basso e l'assenza di quegli hype che oltremanica aiutano a "piazzare
il prodotto", resta il neo di una frammentarietà che a
questo punto riconosci come congenita. Alla quale non
si sottraggono neppure The Chaos e il suo serialismo in
stile Ramones o Motorhead, vale a dire uno/due modelli ripetuti con minime variazioni e il livello medio della
scrittura a fare la differenza.
Sempre gli XTC del 1980 suonati con la foga di Wedding Present e Soup Dragons, dunque e sempre
melodie cremose innestate su un mulinare chitarristico assiduo, la ritmica a pompare zelante e il santino dei
Buzzcocks nascosto in tasca per non scoprirsi eccessivamente. Miscela punteggiata di strutture più complesse
(Stop The Noise), benvenute raschiature (Dart At The Map,
The Connector) e convenzionalità che vorresti ignorare
con tutto il cuore; meno male che a distrarre arrivano la
rabbia trattenuta di Sun Goes Down, l'estro di This Is The
Life, una The Baron che riassume la formula al meglio. Nel
frattempo, continui a invocare una nuova Skip To The End
come una sera a cena con Zooey Deschanel.
(6.8/10)
Giancarlo Turra
Gemma Ray - It's A Shame About
Gemma Ray (Bronzerat, Giugno
2010)
G enere : F olk - pop - psych
Il fatidico terzo album? E chi se ne frega: a pochi mesi
da Lights Out Zoltar, il secondo dei due dischi di dream
pop con ascendenze Hazelwood con i quali si era fatta
apprezzare, Gemma prende il percussionista Matt VertaRay e, praticamente al volo, registra sedici cover.
Niente ansie da prestazione, soltanto il desiderio di riportarsi a casa alcune delle canzoni preferite di sempre cercando le sue classiche atmosfere da "Shirelles viste da
Lynch", stavolta però per mezzo di un suono scarnificato
ed essenziale, altrettanto efficace nel ricreare quel mood.
Se non si conoscessero gli originali il disco sembrebbe autografo, tanto è suggestivo e coerente sia internamente sia
rispetto allo stile dell'autrice: Touch Me I'm Sick, rallentata,
dimostra polso, così come il furore domato della Ghost
On The Highway dei Gun Club o i Gallon Drunk dell'iniziale Put A Bolt In The Door presi con piglio da PJ Harvey
blueswoman, per arrivare al miracolo della sonicyouthiana
Drunken Butterfly cantata sul tema di Rosemary's Baby - un
bastard pop fatto senza computer che risulta in un misto
tra Cohen e Polly Jean. Grande personalità e gusto per
un disco che, benché per la via obliqua del disco di cover,
conferma le doti dell'autrice.
(7.1/10)
Giulio Pasquali
Guignol - Una risata... ci
seppellirà (CNI, Aprile 2010)
G enere : rock d ' autore
Dei Guignol si apprezza l'indole stradaiola eppure autoriale, apparentata agli Stones quanto a Nick Cave e
attraversata al contempo da una vena sardonica, teatralizzata, che fin dal nome come in una certa confidenza
drammaturgica con Il Teatro degli Orrori trova il suo
53
compimento. Ed è soprattutto quest'ultima caratteristica a differenziale Una risata... ci seppellirà dai due
precedenti lavori: una sferzata satirica al Paese - brutto
più che reale - in episodi garage-blues sferraglianti, dove
le chitarre inselvatichite spargono tregenda con farfisa
ed armonica mentre i testi raccontano l'eccesso amorale e insensato che siamo diventati. Ma proprio qui, nel
tracciare il profilo di una realtà che ha mandato in crisi
la satira essendo essa stessa più che oscena, i Guignol
faticano a tirare le fila di una critica davvero pungente,
e lasciano nei brani liriche
forse semplificate dall'urgenza di esprimersi, sicuramente poco appuntite
tranne che in due ottimi
episodi iniziali (Cristo è annegato nel Po, La montagna)
e in una 12 marmocchi che
complice Cesare Basile
vira in folk-blues elettrificato un ritratto dai contorni effettivamente pasoliniani.
Poca roba, se non fosse l'intento iniziale piuttosto difficile, e dunque sintomo di coraggio da premiare, vedasi la
lunga cavalcata conclusiva de L'incendiario con Amaury
Cambuzat a metterci il suo fuoco.
(6.4/10)
Luca Barachetti
Horse Feathers - Thistled Spring
(Kill Rock Stars, Giugno 2010)
G enere : indie folk
Con Pete Broderick non più della partita e Justin
Ringle a ballare da solo, appare chiaro che la cifra stilistica degli Horse Feathers sia sempre stata in mano al
secondo più che all'abilità strumentistica del primo.
Thistled Spring è l'ennesimo morbido melange di
salvifiche mini torch song folk dal sapore orchestrale e
dall'impatto minimale e delicato. La title-track si fa strada
in punta di piedi e ti accoltella al cuore, mentre tra Sufjan
Stevens, Nick Drake e Okkervil River si colloca il
caracollare acustico di Belly Of June e Cascades, con This
Bed e The Drought a restituire appagamento e tensione.
Incantevole.
(7.2/10)
Giampaolo Cristofaro
How To Destroy Angels - How
To Destroy Angels (The Null
Corporation, Giugno 2010)
G enere : soft industrial
Dalle anteprime disponibili in rete, il nuovo proget54
to di Trent Reznor, assieme alla bella moglie-musa
Mariqueen Maandig, non ci aveva convinto molto.
All'ascolto dell'EP d'esordio invece il tutto acquista una
sua organicità e una sua eleganza. Trent porta avanti il
verbo NIN e non potrebbe (e perché dovrebbe?) essere
diversamente, con un industrial d'ambiente confezionato
apposta per essere gustato seduti sopra una poltrona di
pelle, venato sì di inquietudine dark (con un nome preso
dai Coil) e fremiti post-punk (il ritmo alla My Name Is
Mud di Parasite), ma generalmente avvolto in un'atmosfera così sonnolenta, avvolgente, levigata, soffice da flirtare
quasi col trip-hop (The Believers, A Drowning).
(6.8/10)
Gabriele Marino
I Am Kloot - Sky At Night
(Piccadilly, Giugno 2010)
G enere : pop rock
Un disco degli I Am Kloot è come un panino al prosciutto: sai sempre cosa trovarci, e guai se non fosse così. Ai
tempi dell'esordio sembrarono lo spuntino necessario
dopo tanta NAM ipocalorica e beveroni tardo brit. Eh,
sì: come si ascoltava bene, Natural History. E che bella
realtà sembravano gli I Am Kloot: frutto maturato sui
marciapiedi di Manchester dove per anni - leggenda vuole - John Bramwell fu un apprezzato busker.
Il qui presente quinto lavoro, prodotto da Guy Garvey
e Craig Potter degli Elbow, non aggiunge ingredienti significativi alla ricetta. Qualche ebrezza jazzy, la palpitazione/visione beatlesiana di Radiation, ok, ma il resto è
il solito songwriting abboccato e struggente dominato
dalla voce chioccia di Bramwell. Eh, sì. Sai sempre cosa
trovarci. (Che palle).
(5/10)
Stefano Solventi
Il Genio - Vivere negli anni X
(Disastro Records, Giugno 2010)
G enere : elettro - pop
Formula che vince non si cambia. E se con Pop Porno si
era arrivati a conquistare Simona Ventura (?!) e tutta la
sua corte - colonna sonora di Quelli che il calcio -, con il
Buscaglione in salsa electro di Cosa dubiti - primo singolo
tratto da Vivere negli anni X - magari si busserà alla porta
di una Mara Maionchi o di un Morgan. Anche perché nel
secondo disco de Il Genio il succo del discorso rimane
quel mix intelligente e furbissimo di Air, Serge Gainsbourg, armonie plastificate su synth anni Ottanta unito
al sensuale - e un po' forzato - gioco delle parti tra Gianluca De Rubertis e Alessandra Contini. Quest'ultimo vero e proprio valore aggiunto, capace di stimolare
un voyeurismo adatto anche agli ascoltatori più distratti
che paga e non poco in termini di diffusione.
Strategia, quindi, ma anche una buona propensione a rimescolare le carte. Da un lato affidandosi a una cura dei
suoni meticolosa e a una produzione quasi baustelliana
- a riprova ascoltatevi le parti orchestrali dell'iniziale Il
Genio o della successiva Fumo negli occhi -, dall'altra scegliendo di reinventarsi esplorando col solito pop distratto territori altri. Come accade in una Tahiti Tahiti che cita
i Kraftwerk di Trans Europe Express pur restando fedele
all'estetica del gruppo o in una Si per sempre mai in bilico
tra pop orchestrale e psichedelia. Certo l'obiettivo finale
rimane far sentire a casa anche chi nell'esordio aveva
trovato un comodo prêt-à-porter da spendere col gruppetto di amici discotecari, ma oltre al glamour c'è della
sostanza e noi non possiamo che rallegrarcene.
(7/10)
Fabrizio Zampighi
Ital Tek - Midnight Colour (Planet
Mu Records, Giugno 2010)
G enere : dub step
Figura di secondo piano del panorama dub-step, il giovane Alan Myson da Brighton ritorna, dopo un sufficiente
debutto ambient-step macchiato di 2 step, electro e un
pizzico di 8 bit (Cyclical), con un sophomore altrettanto
destinato ai palati non troppo esigenti in ambito elettronico.
L'avvicinamento al beat 4/4 del ragazzo (Strangelove), che
è poi una delle vie maestre del rinnovamento dub-step
degli ultimi mesi, non è che una scialba imitazione di quello di Scuba mentre il grosso del disco percorre un'IDM
sobria e risaputa (Aphex Twin, Black Dog e compagnia
assortita) dalla quale se non si voleva uscire, almeno si
sarebbe dovuto insistere sulla personalità.
Troppo impersonale e privo di tensione, Ital Tek rimedia soltanto a fine scaletta con una manciata di tracce
dalla buona aerodinamica e dal gusto estatico: per un
momento pare di sentirci la folktronica di Four Tet (Heliopause), o qualche tinta summery tanto di moda (Midnight Colour). (6/10)
Edoardo Bridda
James - The Night Before (Mercury,
Aprile 2010)
G enere : indie evergreen
Prima o poi si dovrà dare a questi mancuniani quel che
gli spetta. Hanno evitato soldi facili e figuracce, facendo i conti con lo scadere dell'epica U2 e degli smalti
Simple Minds per inseguire una propria raffinata via
al cuore. Dietro alla quale,
da un criptico e pregevole
folk-rock hanno attraversato venticinque (!) anni di
pop: il "Madchester", l'elettronica, il successo collegiale oltre atlantico (che ne fa
potenziali padri del grande
suono canadese: anche se casca su un brutto ritornello,
Dr. Hellier ha il passo di Arcade Fire), le collaborazioni
con Brian Eno. Tante dunque le sorprese in una carriera gestita seriamente negli alti come nei (rari) bassi.
Due anni dopo l'altalenante Hey Ma, si riaffacciano con
mezz'ora scarsa e sette brani - più una traccia reperibile
su Itunes e un'altra scaricabile se acquistate il CD - in
occasione dell'ennesimo tour. Puoi gioire della verve e
del sapiente mestiere (Porcupine il nuovo inno; Ten Below,
dal tipico incedere a strappi) che flettono i muscoli e
stratificano i suoni. Puoi gustare una ricetta tuttora interessante nelle sospensioni di Shine, nell'elaborata sensualità di Crazy e nel kraut-pop It's Hot, plausibile radice dei
Broken Social Scene. Ad agosto si replica con l'analogo The Morning After, segno che ci stanno prendendo
gusto.
(7/10)
Giancarlo Turra
Jim O'Rourke - All Kinds of People
- Love Burt Bacharach (AWDR/LR2,
Aprile 2010)
G enere : L ounge P op
Andare a mettere le mani su uno dei repertori più grandiosi di sempre del pop mondiale è un rischio che non
molti sono disposti a correre. E visto il recente The
Visitor ( un disco composto da un'unica composizione
ambient-folk di grande suggestione, ma di non facile digeribilità, soprattutto commerciale) bisogna dare atto a
Jim O'Rourke che questa caratteristica non gli manca.
In All Kinds of People - Love Burt Bacharach, pensato per
il solo mercato nipponico, non c'è lo stesso ardore avanguardista, ma la voglia di rendere omaggio a un compositore che ha gettato le basi di quello che oggi chiamiamo
pop e a cui tutti, dai Beatles a Brian Wilson, da Stan
Getz a Elton John devono qualcosa. Per interpretare queste undici perle selezionate evidentemente con
il cuore, O'Rourke ha chiamato a sé una serie di amici
del mondo della musica occidentale e del Sol Levante,
per impreziosire i suoi arrangiamenti e le sue interpretazioni.
Certo, non tutte le ciambelle escono col buco. Il problema di fondo è che da uno come O'Rourke ci si aspetta
55
highlight
Laurie Anderson - Homeland (Nonesuch, Giugno 2010)
G enere : minimalismo pop
Primo album in studio da quasi un decennio a questa parte (Life on a String risale al 2001) Homeland
vede il ritorno dell'artista visuale e performer americana; tratto dall'omonimo progetto teatrale multimediale portato in scena negli ultimi anni e realizzato con la collaborazione di numerosi ospiti (Kieran
Hebden, Eyvind Kang, John Zorn e Antony Hegarty tra gli altri), la pièce tratta essenzialmente
del senso di identità americano. Argomento da sempre a cuore a Laurie
Anderson, che negli anni si è fatta portavoce della coscienza critica del suo
paese, soprattutto nella precedente lunga performance United States I-IV
e seminalmente nel fondamentale Big Science (1982, ristampato nel 2007).
Il lavoro, nato live durante un tour durato un paio di anni circa da fine 2007,
è un compendio della musica fatta da trent'anni a questa parte dalla Anderson: minimalismo elettronico fra vocalità e performance recitate/narrate,
con lei al violino, tastiere, percussioni e voci filtrate. Si va dall'elegia recitativa
quasi funebre dell'opener Transitory Life, a poesie apocalittiche e sentori dark,
umori contemplativi e atmosferiche meditazioni su "politica estera americana, tortura, collasso economico,
erosione della libertà personale, negligenza medica, religione e cinismo", a riflessioni sul significato della guerra
come metafora di alienazione e perdita.
Il risultato a cui si arriva è quello di una mix di cultura popolare "alta" condotta tra pop e sperimentazione con
un registro volutamente apocalittico, una riflessione acuta e compiuta sull'America del dopo 11 settembre.
(7.5/10)
Teresa Greco
sempre un guizzo geniale, qualcosa in più. Qui non manca il coraggio nell'affrontare classici come Don't Make
Me Over e Raindrops Keep Fallin' On My Head, ma si poteva e doveva osare di più nel distaccarsi dalla lezione
bucharachiana (spesso insuperabile) o da altre grandi
interpretazioni che oramai sono entrate nell'orecchio
di tutti. Prendiamo ad esempio Close To You, qui girata in
Close To Me con un forte accento egocentrico da Haruomi Hosono (membro dei Yellow Magic Orchestra) e mantenuta però su corde non troppo lontane
dalle classicissime atmosfere orchestrali della canzone
d'autore americana. Stesso discorso per la celeberrima
I Say A Little Prayer, involontariamente resa ironica dalla
pronuncia maccheronica di Yoshimi (drummer dei Boredoms). Qualcosa di più esotico si avverte in Raindrops
Keep Falling On My Head con un basso quasi funk e vaghi
accenti caraibici.
Da dimenticare l'apporto del sonico Thurston Moore
che trasforma Always Something There To Remind Me in
una canzoncina power-indie-pop qualsiasi, appiattendo
l'interpretazione su un canto strascicato e privo di emozione. Forse la migliore interpretazione è quella da jazz
club affidata a Donna Taylor (Walk On By), ma allora
ci si chiede perché non andare a pescare direttamen56
te quelle di, solo per citarne qualcuna, Dionne Warwik, Dusty Springfield, The Carpenters o Aretha
Franklin? O per lo meno lasciato che fosse la sola voce
di O'Rourke a riempire tutte le tracce e non solamente
Anonymous Phone Call, Don't Make Me Over e Trains And
Boats And Planes: almeno avremmo ascoltato un omaggio
più personale.
(6/10)
Marco Boscolo
Josh Ritter - So Runs The World
Away (Pytheas, Maggio 2010)
G enere : folk rock
Già il predecessore The Historical Conquest Of...,
tre anni orsono, ci diceva di una svolta nel discorso sonoro di Josh Ritter. Se prima il suo folk rock passeggiava
tra salotto e front-porch imbattendosi nei fantasmi più
struggenti in circolazione, eccolo concedersi un giro in
moto a rombare tra sfondi ventosi e una granulosa elettricità. Per poi tornare col suo bel carico di immagini e
reperti d'altroquando. Insomma: il giro si era allargato.
Ammiratori dai nomi sempre più considerevoli. Sbaragliato il rischio d'essere solo un "big in Ireland".
Fresco sposo (con la musicista Dawn Landes, quattro
album all'attivo), Josh licenzia oggi il sesto opus titolandolo con una citazione amletica nel senso di Shakespeare, So Runs The World Away. Le cui tredici tracce
sono quanto di più variegato e vividamente infervorato Americana ci sia consentito di ricordare a firma del
buon Josh: tastiere d'ogni tipo, legni e ottoni, ukulele e
vibrafoni, delicatezze acustiche ed elettricità neanche
troppo garbata. Di contro, le melodie non sono mai state
tanto prevedibili, quasi si accontentassero di rappresentare dei caratteri in un teatrino. Uno spettacolo d'arte
varia, vaudeville serico e ruspante nel quale rimbalzano i
riflessi dell'immaginario ritteriano impegnato a meditare
fatalistico sul procedere delle cose. Ne risulta un album
generoso ma spuntato, dove i pezzi migliori sono il Leonard Cohen in vitro di Another New World, una Lantern
che è un apocrifo del tardo Springsteen e la riverenza
Paul Simon di Lark.
Del resto, realizzarsi senza smarrirsi è prerogativa di pochi. Dei grandi.
(6/10)
Stefano Solventi
Justin Currie - The Great War
(Rykodisc, Giugno 2007)
G enere : I ndie crooning
Sapersi destreggiare tra gli specchi deformanti del trasformismo è un'arte. Tirarne fuori una carriera musicale
storica anche di più (David Bowie docet). Justin Currie non è altrettanto abile e non riesce a giocarsi davvero la carta dei ribaltoni musicali. Dallo scioglimento dei
Del Amitri è alla ricerca di un veste cantautorale che
gli calzi a pennello ma lo svincolo giusto pare allontanarsi
di volta in volta.
Il precedente What Is Love For si aggirava dalle parti
di un'esilità folk scazzata dalle tinte tenui (ed indie) gironzolando dalle parti di un Elliott Smith meno emotivo. Stavolta l'abito è lustrato, le emozioni controllate e
il crooning scintillante, niente che non rientri nell'esercizio di stile, un altro tentativo d'imboccare l'uscita giusta
sulla complanare. Justin è ancora alla ricerca delle giuste
indicazioni.
(6/10)
Giampaolo Cristofaro
Kate Walsh - Light & Dark
(Blueberry Records, Novembre
2009)
G enere : I ntimistic P op
Nonostante il titolo, qui di luce ce n'è ben poca. Quelle di Kate Walsh, giovane cantautrice inglese di stanza a
Brighton, sono 12 canzoni intimiste, adatte a un discorso
puramente notturno, ma privo di qualsiasi fascino lunare.
Light & Dark è il suo terzo disco, dopo una certa fama
conquistata in patria con il precedente Tim's House
del 2007.
La formula qui prodotta è quella dalle party dell'easy
listening più commerciale, quello da radio mainstream,
che propone solamente musica che non graffia. Insomma, il sottofondo musicale per un negozio del centro,
con tanti acutini à la Turin Brake virati al femminile su
tappeti di archi ruffiani e chitarre acustiche senz'anima.
Manca la personalità persino di una Norah Jones, che
almeno qualche tentativo di non finire imbragata nelle
formule più trite l'ha tentata.
Nel profilo di Kate Walsh sul suo sito ufficiale si legge
che "parlare di lei come di una cantautrice è come definire Van Gogh un fumettista". A parte che non si capisce
perché il fare fumetti debba essere inteso come un diminutio, fa un po' impressione quest'arroganza un po' maraglia di questa (presunta) artista. Aggravata dal fatto che
delle decantate influenze di Pink Floyd e Joni Mitchell
qui non v'è nemmeno un'ombra.
(5/10)
Marco Boscolo
Knut - Wonder (Hydra Head, Giugno
2010)
G enere : P ost HC
Tra i primi movers del post- a suon di Trash Metal e tempi dispari dell'Hardcore nei primi 2000 (nella loro discografia anche una collaborazione con i seminali Botch) i
Knut tornano con il nuovo Wonder.
Svizzeri di Ginevra, ma ormai di casa nella americanissima Hydra Head, li avevamo lasciati nel lontano 2005 con
Terraformer, il picco più alto della loro produzione
ultradecennale tra hardcore fratturato, nere divagazioni
heavy ambient e una personalissima impronta stilistica
riconoscibile sin dagli esordi.
Caratteristiche che non li abbandonano neanche nel
nuovo album, salvo affiancare le usuali scariche di energia bruta a misteriose atmosfere da film thriller (Segue 1
e Segue 2). Da avere.
(7/10)
Leonardo Amico
Kode9 - Dj Kicks (!K7, Giugno 2010)
G enere : l atin - techstep
Con un solo album all'attivo a inizio epopea Hyperdub,
lo spokenragga siderale e minimalista di Memories of
the Future (2006, con il vocalist Spaceape), Kode9
conferma la tendenza di tanti label mastermind (su tutti El-P e Peanut Butter Wolf) a starsene acquattati
57
highlight
Morning Benders (The) - Big Echo (Rough Trade, Giugno 2010)
G enere : pop sincretico
La slide guitar si appoggia sul suono di una puntina che accarezza un vinile. La voce di Chris Chu emerge
tra chitarre riverberate e aerei violini: "You tried to taste me/ And I taped my tongue to the southern tip of
your body/ Our bones are too heavy to come up/ Squished into a single cell of wood" (mettendo in evidenza
anche una certa vena per i testi). Così Excuses, il primo episodio del secondo
disco dei Morning Benders dopo l'esordio piuttosto convenzionale di Talking Through Tin Cans del 2008. in mezzo c'è stato il trasferimento dalla
costa californiana a quella atlantica, destinazione Brooklyn, in una parabola
che segna anche geograficamente una tendenza dell'indie pop degli ultimi
tempi, quella di ricongiungere New York con San Francisco, Chicago con
Los Angeles. Si vedano Fleet Foxes e Local Natives per capire da che
parte tira il vento anche di questo Big Echo, che ha il merito di mantenere
le promesse: mid-tempo d'atmosfere sospese, come di una mattina luminosa
comunque spostata lateralmente dall'alcol, come di strati di chitarre e strumenti che si accumulano in
continuo rimando interno, come se davvero l'eco dell'East e della West Coast si fondessero tra le pareti
del Grand Canyon.
Piace la zigzagante Wet Cement, che rimanda a quello che succede oltre confine canadese, dalle parti di
Feist e soci; non manca lo shuffle allegrotto innervato di handclapping (Cold War (Nice Clean Fight)), la
ballata dal sapore space-country (Pleasure Sighs), oltre allo stop and go che oggi garantisce l'airing radiofonico (il singolo Promises). Sebbene forte di un suono maturo e a tratti molto stratificato e complesso, nella
seconda parte la qualità dell'album non è alta e da Hand Me Down (che sa molto del tributo alla tradizione
di Mark Lanegan) le canzoni sembrano tutte appiattirsi sugli stilemi del genere (riverberi, coretti surf,
voci e strumenti raddoppiati per dare profondità, cenni folk pastorali), lasciando solo al basso e agli arrangiamenti di All Day Daylight il compito di far alzare il sopracciglio all'ascoltatore.
Alcuni critici si sono lasciati abbindolare da una performance live di qualche tempo fa e alle ipotetiche intenzioni spectoriane di wall of sound - qui non mantenute, chissà forse per la co-produzione del Grizzly Bear
Chris Taylor - ma l'intenzione di Chu, oltre a onorare il padre della melodia pop Brian Wilson in ogni
canzone che scrive, è forse semplicemente di scrivere buon pop, fregandosene di tutto quello che gli accade
intorno, ma consapevole - questo sì - che il passato e i passatismi sono sempre un'arma a doppio taglio: da
una parte fanno poggiare su solide basi, dall'altra intrappolano la corsa come sabbie mobili. Un disco che non
poteva essere che a metà del guado tra ieri e domani: la fotografia di buona parte dell'indie di oggi.
(7.1/10)
Marco Boscolo
dietro le quinte, dirigere la baracca (e l'estetica della baracca), fare scouting e produrre a nome proprio poco ma
bene. Il 2009 è stato l'anno delle celebrazioni HD/dubstep, con una compilation ascolto obbligato per tutti e
chiave di lettura privilegiata di questi primi anni Duemila,
ma anche l'anno di uscite chirurgiche come il diamante
nero Black Sun e la maionese di gomma Wind It Up, l'anno
del lancio di Cooly G, Ikonika e King Midas Sound
e della joint venture (tra live ed EP) con la Brainfeeder
di Flying Lotus. Il Duemiladieci si è aperto in maniera programmatica, con Sonic Warfare, denso saggio - con
solide basi nell'intellighenzia marxista post-sessantottina
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- firmato proprio da mr. Steve Goodman e pubblicato
nientemeno che da MIT Press che indaga "guerriglia sonica" (la manipolazione di ambienti e persone attraverso
un uso politico delle frequenze) e afrofuturismo (in senso post-techno). Goodman/Kode9 produce poco ma si
muove molto insomma.
Questo ottimo Dj Kicks (che fa il paio con quello di
James Holden) sorprende e non poco, con una selezione che illumina un lato dell'uomo - e del dubstep
- finora abbastanza in ombra. I trentacinque frammenti
(una manciata di inediti in esclusiva, dallo stesso Kode9, a
Zomby, Digital Mystikz e Cooly G) puntano dritti alla
primissima techno e scoprono luccicanti infatuazioni latine e caraibiche. La copertina luci al neon su sfondo scuro
è il migliore dei biglietti da visita: pezzi mossi e colorati
lasciano spazio verso due terzi della scaletta a stilizzazioni dubstep più grimey, spacey, noisy e bluesy.
La palette è sorprendentemente varia e vale la pena di
osservare le tracce un po' più da vicino, per cogliere
tutte le sfumature: l'oldskool freakhouse lounge di Lone;
la tribalhouse e il mood spacey (vicino a certo FlyLo) di
Aardvarck; le acciaccature naif, il sambadub e il grime di
Kode9; una Cooly G lontana dalle sue solite cose deep e
trip-step, persa tra break scomposti ed effettaci; il calypso (con tanto di steeldrum) di Ill Blu; una Ikonika riconoscibilissima con i suoi campioni Super Mario e le sue
tastiere emotive; il cartoonprog di Scratcha; la gomma
pingpong di Mr. Mageeka; ancora samba con Grievous
Angel; la deep di DVA e Maddslinky; il Dilla soul girato
spacey di Morgan Zarate; il funkysoul di Rozzi Daime
(alla Sa-Ra) e di JDavey; i cerchi nell'acqua e gli sfarfallii di
prismo-tastiere di Zomby; il noise chitarroso e l'agguato
ninja di Terror Danjah; la space cupa e sinistra dei Digital Mysticz (davvero dei maestri); la step/HHoldskool di
Addison Groover; l'assalto breakstep di Ramadanman;
la melma di The Bug.
Due pezzi soltanto, entrambi sul versante raggagrime
della faccenda (Sticky e Mujava), abbassano una media
altrimenti superlativa.
(7.2/10)
Gabriele Marino
Kula Shaker - Pilgrim's Progress
(Cooking Vinyl UK, Giugno 2010)
G enere : psych rock
Bisogna riconoscere una certa coerenza ai Kula Shaker,
dediti all'ossessione sixties come marionette coi fili in
bella mostra. Ma anche una certa maturità nell'accettare
l'opera erosiva degli anni che sfronda l'estro sbruffone,
tanto che oggi - in occasione del quarto album Pilgrim's
Progress - la calligrafia è ridotta ai più miti consigli d'un
folk venato blues e ovviamente acidulo, il passo cadenzato di chi s'è scoperto una vena narrativa e in ragione di
ciò sposta - aggiusta - le coordinate. Pezzo emblematico
è Modern Blues: nel conseguire l'apice ruffiano della scaletta, coglie il piglio delle strofe dal Dylan giovane e la
baldanza psych dagli orticelli di Kinks e Byrds.
Siamo ben lontani cioè dal misticismo ad alta definizione e ipertrofia anfetaminica degli esordi, quando sembrarono una versione a quattro dimensioni del brit-pop
scatenando spropositati entusiasmi nei post-adolescenti,
quelli stessi che oggi s'avvitano in una maturità irreversibile che forse troverà qualche appiglio in questi pezzi, tra
rigurgiti di fittizia nostalgia ed echi d'un tempo ignoto.
Già: è curioso questo disco perché mostra le possibilità
di una robusta produzione rispetto a ciò che dei sixties
siamo ancora in grado di immaginare. Sarà interessante
verificarne l'impatto sul mercato (quello residuo).
Intanto, però, rassegnamoci: Peter Pan giace morto e sepolto, non ci resta che cullarci in un languore compiaciuto (vedi la deliziosa Ruby, la fiabesca Ophelia o l'abbandono quasi epico di Winter's Call), fingersi vivi e vivaci con
celie soul-psych quali Barbara Ella, oppure spedire saluti
saggi & sornioni con la cartolina raga di Only Love o la
missiva desert-gospel di To Wait Till I Come. Sinceramente,
è il massimo che potessi attendermi da Mills e soci.
(6.5/10)
Stefano Solventi
Kylie Minogue - Aphrodite
(Parlophone, Luglio 2010)
G enere : disco pop
E' come al solito un affaire da produttori il nuovo disco
dell'australiana icona pop. 23 anni di onorata e mutevole
carriera che stavolta si fa il lifting con la premiata produzione di Stuart Price, il mago che ha dato nuova vita a
Madonna e all'ultimo disco delle Scissor Sisters.
Si fa presto a dire pop, basta truccarsi come le ventenni
(a quarantadue anni) per diventare la nuova Dorian Gray
del genere. Il quadro - che reggerà al massimo un'estate
- è una tavolozza di ingredienti necessari, prevedibili e
derivativi: il singolo All The Lovers resuscita in pochi minuti la débacle X con quei synth à la MGMT, il cartooning
ancora una volta teen-Ciccone di Get Outta My Way e
Looking For An Angel, lo specchio dancefloor di Calvin
Harris che edita Too Much, la decenza post-Muse di Cupid Boy, la progressività dark dell'unico pezzo veramente cool (Closer) e le altre
prescindibili ma già market
hits.
Parrucche, merletti e pompaggi pronti per il passaggio radiofonico. Prima o
poi cadranno anche i lifting,
a meno che la (non più)
ragazza non sia veramente
un robot. Ottimo per i completisti estimatori del fan
club. Per gli altri un passaggio su MTV da sbadiglio, da
sostituire a scelta con Lady Gaga, Uffie, Marina & The
Diamonds e La Roux...
(5/10)
Marco Braggion
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Las Robertas - Cry Out Loud
(Autoprodotto, Maggio 2010)
G enere : lo - fi noise - pop
Doveva succedere prima o poi, e sta succedendo proprio
ora. Come un proverbiale vaso di Pandora, alcune band
come le Vivian Girls hanno ri-scoperto un noise-pop
al femminile che carsicamente riemerge nell'indie mondiale ogni due per tre. La versione 2.0 prevede meno aggressività e rivendicazione sociale rispetto alle riot grrrls
dei '90 e più volume rispetto alle delicatezze eteree delle
female vocals degli 80s, ma spesso e volentieri aggiunge
un tono di esotismo figlio ovviamente delle dispersioni
dei centri musicali post-era di internet.
Las Robertas ne sono perfetto esempio, anche se a
dirla tutta sfiorano l'emulazione delle Vivians in più
di un passaggio; a parziale scusante c'è la provenienza
estremamente periferica che ce le rende simpatiche per
quell'ingenuità di fondo mista a dosi di entusiasmo in
quantità industriali. Lola Miche (voce), Mercedes Oller
(chitarra, voce), Monserrat
Vargas (basso, voce) e Ana
M. Valenciano (batteria)
vengono infatti da San Josè,
Costa Rica e si infilano alla
grande nell'odierno filone
rumoroso al femminile che
dalle citate prime-movers
newyorchesi arriva a Dum
Dum Girls, passando per Best Coast.
Vale a dire, noise-pop all'ennesima potenza, c86 a getto continuo, indie primigenio come da manuale, voci a
rincorrersi su canovacci B52's e santini My Bloody
Valentine/Black Tambourine appesi ovunque. Tutto
ovviamente, e in questo caso clamorosamente, in lo-fi,
con florilegio di fuzz chitarristico e sbraitare di piatti
a inasprire le solari melodie vocali. Nulla di nuovo, ma
addentate l'arancia della cover per una boccata di freschezza in attesa della calura estiva.
(6.7/10)
Stefano Pifferi
Lloyd Miller & Heliocentrics Lloyd Miller & Heliocentrics
(Strut Records, Luglio 2010)
G enere : jazz etnico
Oltre alla musica, è l'attitudine degli Heliocentrics a persuadere e conquistare. La loro curiosità, quel desiderio
di incrociare gli strumenti con altri artisti di genio per
vedere cosa ne salta fuori, di osare e dialogare attraverso ciò che meglio sanno fare e cioè la musica. Dopo le
session dello scorso anno col maestro Mulatu Astatke
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eccoli oggi a collaborare con Lloyd Miller, figura meno
conosciuta di strumentista ed etnomusicologo contraddistinto tanto dalla schiettezza e saldezza delle opinioni
quanto dall'amore per il jazz. Esattamente questo il terreno sul quale avviene l'incontro, benché la parola definisca territori talmente ampi da aver smarrito i confini a
furia di fusioni non sempre felici.
Come altrove si fa con un rock altrettanto onnicomprensivo e qui stilisticamente assente, in questa cinquantina di minuti ci si volge agli anni Settanta in modo mai
calligrafico, raccogliendo l'esempio della contaminazione
senza approdare su lande free (tutt'al più cimentandosi
con la "street poetry" in Lloyd Lets Loose), mantenendo
un'umanità delle forme e una classicità di respiro possibili solo in coloro che della materia maneggiano perfettamente vicende e regole.
Spirituale e vibrante, il disco suona allora classico però
affatto ingessato, che allestisca impeccabili tappeti percussivi percorsi da un arcano senso di mistero (Charhargah, Sundra Sunset) o proponga incastri tra pianoforte e
ritmica swinganti e al contempo esotici (eloquente Spirit
Jazz, tesa Modality); che sorprenda con saggi di minimalismo colto (Salendro, il fenomenale pastiche post-gamelan
che John Fahey adorerebbe Bali Bronze) o si appropri
di un'idea autenticamente cosmopolita del folk (Latin è
quel che il titolo promette, Rain Dance si tuffa nel Gange).
Per un risultato che, pur non avvicinandosi all'irripetibile
meraviglia concepita con Astatke, possiede il non indifferente pregio di guardare da tutt'altra parte. Anzi: non
cercandone improbabili repliche, testimonia per l'ennesima volta l'onestà intellettuale degli Eliocentrici.
(7.2/10)
Giancarlo Turra
M.I.A. - Maya (XL, Luglio 2010)
G enere : cros sglobal pop
Una M.I.A. dagli occhi pensosi si nasconde dietro un
muro di barre di scorrimento Youtube (che ha bandito il
video splatter di Born Free). Il suo nome in primo piano
è scritto con dei lingotti d'oro. M.I.A. corteggia e molto
bene il ruolo di superstar. Se c'è una che ha le carte per
farlo, è lei, con un pedigree intrigante e contraddittorio
come richiedono i tempi, tra randagio e bambagia: sveglia, figa il giusto, meticcia suo malgrado (a Londa perché profuga dallo Sri Lanka), padre attivista politico e
fidanzato ambientalista (figlio di un boss della Warner),
contatti con i grandi nomi della scena (non solo musicale), trascorsi discografici esaltati dalla critica indie, piglio incazzato da icona alternativa che sa come fottere
il sistema (dall'interno). M.I.A. è l'alfiere di un crossover
totale - dance, terzomondo & HHderivati - ancora po-
tenzialmente capace di mettere assieme qualità e quantità. Che ci riesca davvero però è tutt'altro discorso. Era
chiaro per tutti che questo terzo album sarebbe stato
quello del definitivo assalto al mainstream e non è certo
per questo che Maya (// / Y /) ci delude: perché il mainstream, come tutto, lo si può fare bene oppure male.
Registrato nelle cornici dorate della sua villa di L.A. e
di uno studio alle Hawaii, con la supervisione della solita cricca Switch, Blaqstarr e Diplo più la new entry
Rusko, frutto della scrematura di ore e ore di "jam"
(con esperimenti alla John & Yoko tipo registrare voce
e battito cardiaco del figlio), il disco sposta l'asse del discorso sulle produzioni. Produzioni che, per quanto stratificate, in realtà semplificano e irrigidiscono la musica
di M.I.A., sottolineando ulteriormente la sterzata verso
il pop, entrato prepotentemente nei cantati affianco al
solito bhangraragga e rappato. In soldoni, tra autotune
maledetto (Steppin' Up, la title track), pop - non a caso alla Christina Aguilera (il singolo XXXO, ne gira un rmx
con un ottimo Jay-Z), reggae da sottofondo (It Takes a
Muscle), derive soft trip-hop (It Iz What It Iz), schitarrate dance-rave (Meds and Feds) e nenie inconsistenti
(Space), resta davvero poco da salvare. Giusto il raggagrime costruito su un'orgia di citofoni e sirene di Teqkilla,
quello pauperistico di Lovalot, quello in salsa esotica più
effettacci di Story Told. E ovviamente Born Free, brano che
spazza via ogni possibile dubbio sulla politicità (spontanea o di posa non importa) dell'azione di M.I.A. e che
porta all'apoteosi una delle caratteristiche vincenti del
(non solo) suo suono: il tribal bass (qui preso di peso dai
Suicide, idea tanto semplice quanto vincente).
Maya ci sembra un album che vive troppo di contesto
e di intenzioni e poco di testo e di senso autonomo, un
disco disomogeneo e confuso, che sa benissimo dove
puntare ma sceglie il modo più facile e meno efficace
per raggiungere lo scopo, col risultato di spersonalizzare
e depotenziare quella che poteva e doveva essere una
bomba global pop. Forse è ora per M.I.A. di guardarsi
attorno in cerca di altri produttori.
(6/10)
Gabriele Marino
Mahjongg - The Long Shadow Of
The Paper Tiger (K Records, Luglio
2010)
G enere : electropoliritmi
Si sente quasi la fatica delle meningi in The Long Shadow
Of The Paper Tiger. Già Gooble, la prima traccia, è un manifesto di frastagliatura di stili, di tecniche che sempre
e comunque rimandano alla percussività, ma anche alle
connotazioni della percussività, cioè agli accompagna-
menti a cui, di volta in volta, i tamburi complessi hanno rimandato. Se Kontpab era immediato, rapiva subito
per rapida comprensione, in questo caso si manifesta il
loro impegno nella composizione e richiede il nostro
nell'ascolto.
Per certi versi, ciò che emerge è un aspetto "figurativo"
della sound. Nel discorso complesso che i nuovi
Mahjongg provano ad
articolare, ciò che emerge
è comunque una figura sullo sfondo, figure che sono
retaggi che finiscono per
rubare la scena. Se sentiamo un vocoder o quelle
drum machine, ci viene in mente un certo milieu anni
Ottanta zona Kraftwerk (Miani Knights), il che rischia poi
di narcotizzare il potenziale scatenante del loro suono.
Bisogna allora riascoltare il disco perché quella o quelle
figure rientrino nei ranghi, e perché la figuratività appaia
tutta intera, per quell'insieme frastagliato con cui l'album
n° 3 del combo è stato pensato.
Precedentemente, nei Mahjongg, forse anche alla luce
corroborante del loro live, percepivamo uno spazio "fisico" dei tamburi, distribuiti, molteplici, ma "presenti", non
solo in termini di fedeltà del suono e di produzione. Ora
il sound comunica una complessità di studio, e se questo
vuol dire una svolta prettamente elettronica (ma vintage), benché Kontpab stesso si basasse sulle macchine, allora stiamo parlando di quello.
Si sente Moroder nella prima parte di Grooverider Free,
che poi si trasforma in un multistrato di ritmo (come sei
Super 16 dei Neu! sovrapposte) ci fa capire come l'inizio del pezzo fosse ironico. Per riassumere, i Mahjongg
di The Long Shadow… possono a seconda di un pezzo o
l'altro essere chiamati "la versione poliritmica di xy". Riassumendo il riassunto: più arguti, meno sintetici (a parte
per il semicapolavoro mutant di LA Beat), meno appassionanti.(7/10)
Gaspare Caliri
Massimo Zamboni - L'estinzione
di un colloquio amoroso
(Interno4records, Aprile 2010)
G enere : cantautorato
Confesso un certo imbarazzo dinanzi a questo terzo lavoro di Massimo Zamboni, il primo senza l'intervento
di nessun'altra voce all'infuori di quella del titolare. Già
L'inerme è l'imbattibile, disco-libro-documentario di
due anni fa, lasciava il sottoscritto parecchio perplesso
sulla resa vocale dell'ex CSI, che a fronte di un'autoriali61
tà sempre piuttosto derivativa dal passato, ma vitale nel
suo (umano) riflettere, trovava nell'interpretazione una
zavorra di non poco conto. D'altra parte Zamboni non
sa cantare, ma questo non sarebbe un male se allo stesso
modo non riuscisse nemmeno ad "usare" la voce. Così
il mio imbarazzo per L'estinzione di un colloquio
amoroso (disco abbinato ad un libro-complemento di
trentasei pagine) è l'imbarazzo di chi vede uscire letteralmente distrutte cinque canzoni che, seppur sofferte e
quantomai sincere, già di loro non lasciano molto.
Nel narrare l'amore e soprattutto la fine di un amore
- ma sarebbe meglio dire nel riflettersi sulla fine di un
amore, si legga la dichiarazione quasi ungarettiana del
booklet: "Non sono che un animale poetico. Un organismo costretto all'amore" - Zamboni sceglie di semplificare l'impianto lirico indirizzandolo verso strutture
reiterate, a volte circolari, cariche di tensione sacrale e
nudità dell'anima. Il canto è trattenuto in implosioni interiori a volte sussurrate alla Bachi da Pietra (Casco in
volo) o disteso su litanie scarnificate debitrici quanto dei
Massimo Volume che dei CSI; ma la voce - incerta,
zoppa - se da un lato rispecchia fedelmente quella precarietà dell'abbandono che è la linfa principale di queste
cinque tracce, dall'altro rende ancora più difficile la fruizione di brani come soffocati dalle stesse ferite che li
hanno generati. E alla fine L'estizione di un colloquio
amoroso trova un suo senso proprio nella prima parola
del titolo. Estinzione come fine di un amore ma anche, e
purtroppo, come castrazione chissà quanto recuperabile
di un percorso artistico.
(5/10)
Luca Barachetti
Mathew Jonson - Agents Of Time
(Wagon Repair, Aprile 2010)
G enere : A mbient , techno
Messa su un'etichetta (la Wagon Repair) e dismessi i
side project (Midnight Operator con il fratello Nathan, Hrdvsion, Daniel & Dhula e il Modern Deep Left
Quartet), per dedicarsi più seriamente agli oramai famosi Cobblestone Jazz, Mathew Jonson è anche music
maker in proprio sin dal 2001. Si è fatto le ossa sotto
varie label tra le quali la M_nus di Richie Hawtin e la Sub
Static di M.I.A. e Falko Brocksieper, ma è soltanto oggi,
a un lustro dalla fondazione della label, che ha deciso di
sfornare un album lungo.
Nel crocevia di deep, techno, electro e ambient, e non
troppo distante dai Cobblestone per quanto riguarda
le tracce in cassa, Agents Of Time è tuttavia da intendersi più propriamente come il terreno nel quale il
producer ha approfondito la lezione IDM, magari ricol62
locandola nell'alveo serio
di Detroit via Autechre
(Night Vision), piuttosto che
un lavoro sui formati funk
e 4/4 dei vari padri fondatori (Theives in Digital Land).
Nell'album, anche se nella
sola titletrack, c'è persino
spazio per l'umbratilità dub step, ma è soprattutto nella
synth-etica analogica (l'Apparat di When Love Feels Like
Crying) che Jonson trova una sua via; o perlomeno, ha
iniziato a vederla dopo una decade d'attività ed è lecito
obbiettargli che sia un po' poco. Il producer del resto è
impeccabile per rigore, proprietà sottrattive, varianti sul
testo e resa sonica: le stesse proprietà che rendono i
Cobblestone Jazz indispensabili, e lui dispensabile ai non
addetti.
(6/10)
Edoardo Bridda
Matthew Herbert - ReComposed:
Mahler's 10th Symphony (Deutsche
Grammophon, Giugno 2010)
G enere : C ontemporanea
Dopo i primi due capitoli che hanno visto protagonisti
Armann Matthias e Jimi Tenor, e l'ultimo applauditissimo terzo episodio con la commissione del Bolero di
Ravel, rivisto da Moritz Von Oswald e Carl Craig, che
ha portato all'attenzione mondiale l'originalità e l'audacia
della prestigiosa Deutsche Grammophon, la serie recomposed dell'etichetta continua con il quarto capitolo
della serie, dedicato alla rilettura della decima sinfonia di
Mahler (composizione particolare e incompiuta alla quale il musicista lavorò, in uno stato di dolorosa solitudine,
fino alla morte).
Il tema della morte sotteso all'opera s'interseca egregiamente nel percorso artistico di Matthew Herbert che
quest'anno si è trovato a riflettere: sull'essenza del suonare in proprio e con propri mezzi (One One), sul falso
divertimento escapista controllato dalle multinazionali
(One Club, in uscita a settembre) e sull'industria alimentare simboleggiata dal percorso di vita (e morte) di
un maiale (One Pig, in uscita in autunno).
Compiendo un percorso inverso rispetto alle vicessitudini artistiche di Mahler, l'eclettico britannico è partito
della morte stessa per calarsi nell'opera cercando di trovarne una chiave interpretativa il più possibile aderente
ai tempi. Riproducendo la sinfonia dentro una bara, e
aggirandosi per un crematorio, Matthew comprende, ancora una volta, il valore della tecnica di riproduzione e
del field recording per esaltare i sentimenti del Mahler
uomo durante la scrittura, adattandoli nel contempo
all'ascolto più "diretto" dell'ascoltatore dei giorni nostri.
La bellezza della composizione originale risiedeva nella
frizione tra la paura di morire e la gloria che ne sarebbe
conseguita, Herbert ne esagera il contrasto, esaltando
luce e tenebra dello spartito ma anche dilatando i momenti di solitudine (I, II) e quelli di progressiva distanza
dal mondo (XIX). In pratica, l'esecuzione viene sporcata
ad hoc lavorando su pitch, volumi, silenzi e oculati campionamenti (il fuoco ardente e gli uccelli in III, l'arcigno
effetto elettronico che sega letteralmente in due la partitura in VII)
Una ricomposizione a sua volta incompiuta, carica di un
fascino particolare: tenersi in punta di catastrofe con arguti - ma determinanti - sabotaggi dell'esecuzione originale.
(7/10)
Procession dietro l'angolo), le Stuck On The Job (se ne
innamoreranno i fan dei Willard Grant Conspiracy)
e The Letter At Train Wrecks qui racchiuse domandano una
frequentazione più del solito prolungata per ricambiarvi.
Oltre la sorpresa, la mossa convince sia nel presente che
in prospettiva, distraendo da un paio di brani a tratti
confusi e da sporadiche lungaggini, peraltro necessarie
a trovare la nuova via. Ma volete metterle a confronto
con l'onestà e il coraggio che, come sangue nelle vene,
scorrono dentro quest'uomo?
(7.3/10)
Edoardo Bridda
Prima di dedicarsi alla scrittura in proprio Michele Gazich ha collaborato con alcuni dei nomi più importanti del cantautorato folk-blues d'oltreoceano, da Mark
Olson ad Eric Andersen passando per Victoria Williams e Michelle Shocked - e prima di essi coi relativi
epigoni nostrani: Massimo Bubola e Massimo Priviero.
Facile immaginare allora cosa contenga Dieci esercizi
per volare, seconda uscita a nome La Nave dei Folli
nella quale Gazich lascia le sue composizioni alla voce
cristallina di Luciana Vaone: bozzetti di cantautorato che
si abbeverano alle rive del folk, quello americano come
quello inglese e irlandese; ma anche deviazioni verso il
centroeuropa, fra echi transalpini e lasciti classicheggianti. Nei quali al violino e alla viola suonati dal titolare si affiancano di volta in volta chitarre acustiche ed elettriche,
mandolini, wurlitzer, basso e mai la batteria.
Insomma un qualcosa di estremamente tradizionale,
quasi al limite dell'archetipo, che solo nella qualità di
scrittura trova una propria ragion d'essere. E difatti le
canzoni di Gazich brillano proprio per la loro bellezza
inscalfibile. Soppesate nei versi e nelle finiture, sono gravide di riferimenti al cinema, alla letteratura, alla Bibbia,
e capaci di cromatismi assai differenti nel ricorrere di
pochi timbri selezionati.Talvolta s'inebriano di gighe esuberanti (Canzone della pietra che rotola, da uno spunto
di Joe Hill), o assumono
tutta l'alterità dolente di un
Leonard Cohen (una meravigliosa Sanguedolce). Ma
sanno prendere a prestito
dai tempi più remoti anche
tonalità elegiache (L'angelo
ucciso, dedicata a Pasolini,
starebbe bene addosso a
Micah P. Hinson - And The Pioneer
Saboteurs (Full Time Hobby,
Maggio 2010)
G enere : americana
Tempo di fare i conti con la maturità autoriale, per Hinson: un esordio memorabile e, nel giro di un abbondante
lustro, due risposte autografe che dall'albero cadevano
poco lontane e un doppio di composizioni altrui affrontate a testa alta. Che fare, adesso? Uscire dal culto o
sparigliare le carte? Nello specifico, accettare la seconda
opzione significa tuffarsi nell'essenza del proprio genio una canzone d'autore americana capace di condensare
cinque decenni, intessuta di romanticismo virile e malinconia ammodernati con mano lieve - fino al fondo e poi
risalirne, diversi però uguali.
Cosa allora saggia accostare And The Pioneer Saboteurs
tenendo in mente esempi che, in modo analogo, scuotevano la tradizione con lo scopo di rinnovarla; nel frattempo, a spiegare quanto Micah abbia investito nel passo ci sono la durata delle registrazioni (dall'estate 2007
all'inverno 2009) e la serietà dell'approccio, una lunga
citazione da Walt Whitman nel libretto e l'appropriato
"good listening for the brave" sul retrocopertina. Segnali di
intellettualismo scevro da pomposità come il contenuto,
raccolta di ballate solenni accese da impennate e percorse da una voce profonda che pare il grembo di una
miniera, turbinare polveroso - e seppiato come una cartolina fifties - d'organi, rumori e innanzitutto archi, mai
invadenti e in transito dal minaccioso al carezzevole.
Come se The Day Texas Sank To The Bottom Of The Sea
giungesse a estreme conseguenze, le Seven Horses Seen e
The Cross That Stole This Heart Away (i Black Heart
Giancarlo Turra
Michele Gazich e La Nave dei
Folli - Dieci esercizi per volare
(FonoBisanzio, Marzo 2010)
G enere : folk - rock
63
highlight
Mount Kimbie - Crooks & Lovers (Hotflush Recordings, Giugno
2010)
G enere : glitch , tech - step
Dopo due EP (Maybes, Skecth On Glass) taggati hot dai più influenti magazine di musica elettronica internazionali, Dominic Maker e Kai Campos tornano con un full lenght che taglia in due il mondo ingessato del
dubstep con una carica di trip-hop e folktronica.
Partendo da una base che riecheggia le visioni di King Midas Sound, i due propongono delle atmosfere
cupe (registrate con l'ausilio di field recordings a Brighton) ma nel contempo calde e riassumono le principali esperienze ritmiche del suono now on predetto tra gli altri da Martyn:
un downtempo cullante (Ruby), un savoir faire con chitarre acustiche in cut
dei migliori tempi della folktronica (Adriatic), la techno cha fa l'occhiolino
all'eccellenza di Berlino, città in cui hanno suonato e da cui sono stati influenzati (Hard Wax e il capocchia Hotflush Scuba i mentori di Carbonated), i
pianoforti scordati dell'ambient di Aphex Twin (Before I Move Off), il wonky di
casa Warp che si fonde con l'ossessione Burial (Would Know), la fascinazione
per il macchinismo mescolato al rock (Field) e la chiusa post- che guarda ai
Portishead 2.0 (Between Time).
Londra ancora una volta ha in sè tutto e il contrario di tutto. Se l'eterogeneità poteva sembrare l'ingrediente mancante del dubstep, Crooks & Lovers mette il segno opposto all'elettronica riscoprendo
laptop e glitcherie assortite. Dom e Kai: escatologi dubstep per il 2010.
(7.5/10)
Marco Braggion
Josephine Foster) e mordono la contemporaneità con
manrovesci folk-rock che guardano a certo prog inglese
di fine sessanta e pure, perché no, a degli Afterhours in
deriva CSNY (Hai mai sentito ardere il tuo cuore?).
Certo viene difficile immaginare quanto spazio possano trovare oggi una musica così densa e lavorata. Ma
Michele Gazich è uno che sa aspettare, perché ha il piglio dell'artigiano, conosce la pazienza e la stagionatura.
E canzoni come queste prendono a legnate ogni next big
thing, rimangono nei mesi, e oltre.
(7.6/10)
Luca Barachetti
Monarch - Mer Morte (Crucial
Blast, Maggio 2010)
G enere : U ltradoom
Band sui generis, quella dei Monarch. Ultradoom made
in France, con una vocalist al femminile e un immaginario grafico fortemente ispirato dal Sanrio di Hello Kitty
(con opportune varianti in nero). Forse poco credibili da
questi primi indizi, sopiscono ogni scetticismo con una
solidissima sostanza musicale.
Il nuovo album per Crucial Blast raccoglie in una traccia
unica (oltre 30 minuti) due brani pubblicati in vinile nel
64
2008 costruiti su chitarre lasciate marcire in risonanze,
rombi e cupi ronzii; melma sonica in cui la voce di Emile
resta sommersa a salmodiare nenie fragili quanto terrificanti.
Tra tensioni tenute sospese fino a sfiancare o suoni che
sfumano diventando quasi impercettibili, la loro musica
suona come una creatura informe nero pece. Lo stesso
approccio free al Doom dei Khlyst o Eagle Twin in una
forma ultradilatata.
(7.1/10)
Leonardo Amico
Mystery Jets - Serotonin (Rough
Trade, Luglio 2010)
G enere : I ndie pop
A due anni dal fortunato Twenty One, prodotto dal dj e
producer Erol Alkan (Long Blondes, Klaxons) e curato
in studio dal mitologico Nick Launay (dai P.i.L. agli INXS
passando per Supergrass e Gang Of Four), i lanciatissimi
Mystery Jets hanno fatto le mosse di rito.
Dalla indie di culto 679 Recordings che ha dato casa ai
Futureheads, Streets, Annie e Plan B, si sono accasati
presso la storica Rough Trade, etichetta che garantirà di
certo ai ragazzi una distribuzione e booking più capilla-
re nonché il pass obbligatorio ai più prestigiosi festival
inglesi, mentre il loro terzo parto, Serotonin, uscirà sul
mercato prodotto da uno dei più prestigiosi e longevi
produttori inglesi, Chris Thomas (Sex Pistols, Beatles,
Pink Floyd giusto per dirne tre).
L'antefatto di un paio d'anni fa, sono alcune dichiarazioni
del quartetto (con membro aggiunto in studio) che non
nascondeva alla stampa desideri di conquistare il mondo. Per farlo avevano capito che a Twenty One mancava
la capacità di catturare l'attenzione della folla. Anzi, per
dirla tutta, i Mystery Jets si rendevano conto di quanto
l'Inghilterra li aveva messi lì proprio perché non stava
capendo, e soprattutto, non stava vedendo una nuova
generazione creare qualcosa di nuovo (ma avrebbe fatto
di tutto pur di sentire qualcosa di familiarmente brit-pop
post-Beatles, Blur e Radiohead).
Serotonin è innanzitutto il disco di grande pop che al
rock (Police, U2) chiede aiuto per reggere l'infrastruttura live. Due track come Show Me The Light e Lady Grey,
le più dinamiche e variegate del lotto, sono già pronte
per il sing-a-long a Reading, mentre una Lorna Doone in
coda è già la ballad da accendino da mettere alla fine dei
concerti.
Concepita come album, la prova vive anche come lavoro
in studio autonomo, e oltre le mode di quartiere (nu
rave, angular), l'ambiziosa band ha guardato al wave folk
amplificato e chiesarolo Canadese (Alice Springs) senza
dimenticare il glorioso passato UK (Flash A Hungry Smile
è una filastrocca glam al sapor di Beatles), non scontentando gli indie fan della prima ora (The Girl Is Gone e
Serotonin, tra pop eighties e ritornelli dandy malinconici,
parlano dell'indie folk con il quale sono cresciuti) e contenendo il lato radiofonico (Dreaming Of Another World)
per una quasi - o troppo - ovvia quadratura del cerchio.
A mancare quaddentro è forse l'effetto magia che il pop
genuino necessariamente innesca (e senza troppi addittivi). Altrimenti perché oggigiorno sarebbero tutti così
fissati per l'imperfetto pop degli Ottanta?
(7/10)
Edoardo Bridda
Nastro - Nastro (To Lose La Track,
Maggio 2010)
G enere : electro - wave p - funk
Poliritmi alla Talking Heads piegati ad una testualità
nonsense (IMQ), trattamenti analogici da vocoder meets
synth anni '70 (Autobus), glitch-pop deumanizzato e pfunk chkchkchkiano portato al livello dello strappo (Sul
Parafulmine), electro-rock deformato in liquidi panorami
alla LCD Soundsystem in acido (Cestino Di Frutta). Su
tutto un senso di robotico incedere kraftwerkiano reite-
rato allo spasimo su plumbee atmosfere wave-industriali
e un continuo spasmo Mutant Disco a battere sottotraccia nelle vene.
Si presenta così, con una caleidoscopica esplosione di
suoni elettrici ed elettronici, l'esordio di Nastro: copertina e moniker programmatici dietro cui si nascondono
i romani Flavio Scutti, Pierluca Zanda, Manuel Cascone
e Francesco Petricca e che inaugura l'offensiva di primavera di To Lose La Track. Etichetta minore, che spesso
naviga per scelta a fari spenti ma che si sta creando un
piccolo patrimonio di gemme al limitare tra p-funk ritmico, indie sbilenco e wave in ogni salsa. Non si smentisce
nemmeno quest'omonimo che nulla di nuovo aggiunge
ai generi di riferimento, ma mostra freschezza interpretativa, inventiva catchy medio-alta e soprattutto polso
della situazione nel gestire e amalgamare le varie sonorità. Electro-pop, kraut-rock, disco-funk bianco, no-wave
schizoide fusi insieme senza soluzione di continuità o
barriere architettoniche, a costruire un tappeto eterogeneo e disarticolato su cui scorrono via come schegge
impazzite i testi naif in italiano, spesso cantati da Cascone su modalità alla Amanda Lear periodo CCCP.
Bell'esordio.
(7/10)
Stefano Pifferi
Natureboy - Natureboy (Own
Records, Giugno 2010)
G enere : alt folk
Immaginatevi una riot grrrl con quasi tutte le spine staccate e la furia ridotta ad una fiera, suadente inquietudine. In più, l'aura evocativa come potrebbe una nipotina
stranita di Nico e Siouxsie Sioux, ma anche il sentore
sciropposo di chi ha appena finito di rotolarsi nella collezione di vinili dei Mazzy Star. Lei è Sara Kermanshahi,
genitori iraniani, cresciuta dalle parti di Seattle ma ormai
di casa a NY dove si è trasferita a cercar fortuna assieme a quel Cedar Apffel col quale ha diviso i palcoscenici
prima d'impegnarsi nei rispettivi progetti, Apffel nel duo
Masterface e Sara invece unica titolare dell'egida Natureboy.
Debutta oggi per Own Records con un lavoro omonimo e conciso, nove tracce
per meno di mezz'ora, quel
che basta però a lasciare
un'impronta di quelle che
restano. Le sue canzoni
sono litanie dolci e spigolose, possiedono lo sguardo
tenero ma inesorabile e la
densità espansa di una Mi65
rah, ma anche un pizzico di malinconia Elliott Smith
opportunamente disidratata (prendete la stupenda Famous Sons). Altri segnali degni di nota arrivano da Bad
Dream - satura di nuances Mark Lanegan - e da quella
Pariah che manda in circolo particelle Smiths e Grant
Lee Buffalo. Un biglietto da visita intrigante.
(7.3/10)
Stefano Solventi
Nevica su quattropuntozero Lineare (Disco Dada Records,
Maggio 2010)
G enere : elettro - pop
Più di tutto, da questo secondo disco di Gianluca Lo
Presti a nome Nevica su quattropuntozero, emerge la
passione viscerale per lo studio di registrazione e i suoi
marchingegni. Quella che indirizza il suo lavoro quando
si tratta di dare continuità e visibilità a quel Lotostudio
di cui lo stesso Lo Presti cura la direzione artistica; la
stessa che lo ha portato a mettere mano a progetti a
prima vista distanti dal suo background musicale come il
chiacchieratissimo esordio di Simona Gretchen.
Il background, appunto: nel caso dell'artista, una misticanza di anni Novanta (la
1979 degli Smashing
Pumpkins che qui diventa
Billy Corgan), wave ed elettronica di chiara matrice
Eightes. Col fine di ricavare una formula avvolgente,
evocativa, perfezionata nei
suoni, tra drum machine e
synth che ricordano certe cadenze à la Battiato (Le ragioni che non ho), i Bluvertigo de La Crisi (Succede a Martino), scampoli di canzone d'autore (Mario non ha paura)
o un elettropop potenzialmente di consumo (Stanotte ho
ucciso Lola).
Il pericolo - non del tutto scampato - è quello di un
invecchiamento precoce del materiale dovuto a scelte
estetiche catalogate con cura da entomologo, anche se la
classe e l'esperienza del titolare del progetto innalzano
di molto la soglia del déjà vu.
(6.6/10)
Fabrizio Zampighi
Oriol - Night And Day (Planet Mu
Records, Luglio 2010)
G enere : electro , soul , jazz
Ad un ascolto distratto suona meravigliosamente odioso
come certi Ottanta da sigla televisiva, eppure questa è
la formula che ti crea la magia. Non è glo, non è IDM, né
66
hip hop e può tranquillamente rientrare in tutte e tre le
etichette senza problemi. C'è della blackness diffusa e
soffusa che ci soffia dentro, il gusto per stiparci stili neri
Settanta e mode bianche Ottanta, Herbie Hancock e
new age, House lussuriosa à la Theo Parrish e gusto
vintage firmato Hudson Mohawke. In pratica, quello di
Oriol Singhji è un esordio coi baffi.
Con il gusto e il fare del producer, il ragazzo fresco
d'esordio - e contratto - con Planet Mu distilla una provetta tra le varie istanze elettroniche now on. Non si
registrano numeri killer ma il taglio è veramente buono. (7/10)
Edoardo Bridda
Pan Sonic - Gravitoni (Blast First
Petite, Giugno 2010)
G enere : industrial , electro
Alle abrasioni industrial contrappuntate dai sub bassi
dell'iniziale Voltos Bolt e ai codici morse della successiva
Wanyguo, oppure ai vuoti cosmici della seconda parte
dell'album, il duo ci ha da sempre abituato (viziandoci) fin
dai primi vagiti. L'esordio dell'annunciato ultimo atto firmato Pan Sonic segue dunque il formato del precedente
Katodivaihe / Cathodephase e della scorsa tournée,
annunciata anch'essa come definitiva e dunque caratterizzata da una successione di singole tracce piuttosto del
consueto streaming.
Un po' summa e un po' celebrazione, Gravitoni è tuttavia un lavoro a suo modo sorprendente, suonato con
inedita passione e potenza espressiva. Lasciati andare
freni inibitori, il duo si dà a un approccio rock'n'roll e
liberatorio e suona con amore per la materia come se
l'addio fosse l'unico modo per sentirsi amplificati davvero.
Differentemente soprattutto da KESTO (234:48:4), i
momenti più industrial sembrano un manifesto di sonorità pansoniche espettorate d'istinto, senza omaggi
scientificamente studiati ai padri. Forse Mika avrà approvato dall'ex amico Ilpo qualche inedito utilizzo di found
recording; di certo tutti i conflitti tra i due sono stati
trasposti in musica e sono loro le variabili impazzite di
un lavoro che emoziona come Mika e Ilpo, su disco, raramente hanno fatto.
Corona, Radio Qurghonteppa e Trepanointi / Trepanation
sono deliri eroinomani tra i più intensi di sempre, tutti
spasmi di muscoli e frittura di nervi, tensione e rilascio
prima del gran finale, Pan Finale appunto, una traccia che
non vuole finire e non vuol bastarsi, tenuta con sobrio
trionfalismo e scaricata in un taglio noise - perché se fine
dev'essere l'unico modo è chiudere di netto.
Il cuore è l'ultimo regalo degli artici Pan Sonic, ma c'è
highlight
Tobacco - Maniac Meat (Anticon, Maggio 2010)
G enere : hardgl amhop
Fucked Up Friends (2008), il primo album di Tom Fec a nome Tobacco, era figo. Ma gli mancava qualcosa: quella giusta dose di cattiveria che riesce a trasformarti l'esercizio di
stile (l'omaggio b-music, l'ossessione synth-analogica eccetera) in un lavoro
d'impatto o - meglio ancora - in un'opera realmente out e visionaria. Per
quanto interessante insomma (uno dei segnali che avevano fatto sperare in
una rinascita Anticon post-Duemila), era sostanzialmente incompiuto.
L'operazione si compie adesso con questo Maniac Meat. Gli elementi sono
gli stessi dell'esordio, ma portati all'esasperazione: vocoder, voci comunque
effettate quando non orrorifiche, riffazzi grumosi di tastiere e controtastiere
grasse, sature, perverse (tra b-movie, inserti gotici e sfarfallii da New Wave
in decomposizione). Fec si fa un heavy makeup e trova il giusto dosaggio - e cioè quello esagerato - per il
suo hardglamhop a tinte forti, un po' Marilyn Manson, un po' El Guapo. Due pezzi di troppo (Overheater, Creepy Phone Calls) tolgono un pizzico di incisività al finale, ma vengono bilanciati perfettamente da
quelli in cui canta Beck (Fresh Hex, Grape Aerosmith), a suo agio in contesto del genere come forse non ci
si aspettava. Da suonare a palla in una disco stile Non Aprite Quella Porta.
(7.4/10)
Gabriele Marino
ancora un album in contratto prima di concludere con
la Blast First Petite...
(7/10)
Edoardo Bridda
Paolo Benvegnù - Dissolution (La
Pioggia / Venus, Giugno 2010)
G enere : cantautorale
Giro di boa per Paolo Benvegnù con questo live che
tira le somme e rilancia verso nuovi scenari. Dissolution, registrato lo scorso dicembre a Roma, ripropone
quattordici tracce dai due dischi in solitario e qualcosa
dal repertorio Scisma, il tutto riarrangiato dall'ottimo
combo di musicisti che lo ha seguito in questi ultimi anni
per l'occasione in compagnia di un terzetto d'archi e di
uno di fiati. Ad aprire e chiudere la tracklist anche due
(semi)inediti: Io e il mio amore, con un nuovo vestito rispetto alla versione de Il paese è reale, e la riuscita
cover di Who by fire di Leonard Cohen.
Essendo uno dei migliori performer italiani, in zona cantautorale ma non solo, risulta difficile che un disco dal
vivo di Benvegnù manchi di mordente. E difatti Dissolution, sudorifero e palpitante come da aspettative, fotografa al meglio l'agonismo da palco dell'ex Scisma. Una
dietro l'altra partendo dai brani di Le labbra e indietro
fino a quelli della band d'origine (Rosemary Plexiglas trova Manuel Agnelli al pianoforte), le canzoni marchia-
no l'ascolto con la loro poetica ipersensibilista che si fa
indole bruciante e catartica. Imprevedibili quanto basta
eppure calibrate certe versioni da Piccoli Fragilissimi
Film (Il sentimento delle cose su organo tachicardico e
coda quasi funk; Suggestionabili in risurrezione monolitica
da una nebbia di noise chitarristico, battiti elettronici e
tanto altro). In parte dedite allo stravolgimento quelle
dai dischi Scisma (vedasi il collage citazionista a cui viene
sottoposta Troppo poco intelligente).
Benvegnù chiude così quella che lui stesso ha definito la
sua educazione sentimentale. Il futuro dovrebbe prevedere canzoni dedicate agli ultimi quarant'anni di storia
italiana e, azzardiamo, l'ombra lunga di Gaber a fare da
mentore. Ora che anche Mina lo canta (nell'ultimo disco
una sua versione di Io e te) è tempo di superare quella
mezza visibilità mediatica che fino ad oggi non gli ha reso
il giusto merito.
(7.5/10)
Luca Barachetti
People Like Us/Wobbly - Music For
The Fire (Illegal Art, Giugno 2010)
G enere : coll age
Se diciamo cut-up, montaggio di found recording, musica
"intellettuale" basata sul "popolare", ci riferiamo a una
precisa tradizione. Tanto più se il gusto del taglia e cuci
non parla di stralci di una cultura a noi prossima, ma lon67
highlight
We Are Scientists - Barbara (Masterswan, Giugno 2010)
G enere : power - pop
Lo snobismo che colpisce molti all'interno dell'indie-mondo contemporaneo, sia che lo frequentino da
semplice appassionati o da "addetti ai lavori", spinge sempre a guardare con sospetto chiunque scriva
canzoni semplicemente pop e con esse voglia guadagnarsi un proprio spazio di visibilità, chissà magari
approdando anche all'heavy rotation di MTV o di Radio Capital. Eppure genuinamente pop sono Beatles, Beach Boys, Kinks e perfino quel genietto
di Randy Newman. E se vogliamo guardare al nostro paese, moltissimi
cantautori - anche quelli impegnati - erano (o sono) squisitamente pop. Nel
piccolo indie-mondo, invece, quando qualcuno è troppo apertamente pop,
agli occhi di chi sostiene che la "vera musica" non è "commerciale" e non
deve mai fare l'occhiolino al mercato, sembra quasi dover scontare una colpa
primigenia, come di aver infranto un tabù. Poi si dovrebbe discutere di quante copie vende un disco dei Broken Social Scene o degli Arcare Fire,
specialmente in tempi di vacche magre per le major discografiche come quelli che stiamo vivendo. Certo,
si risponderà che la qualità di Arcade Fire e BSS è altra rispetto al pop da classifica. Mah...
Questo paradosso tocca anche i We Are Scientists, il duo composto da Keith Murray e Chris Cain
e allargato da qualche tempo con l'arrivo dell'ex Razorlight Andy Burrows, che dopo essere diventati
un piccolo caso, soprattutto in Gran Bretagna, con With Love And Squalor (2006), aver proseguito
su gli stessi livelli di orecchiabilità e ricerca del singolo spacca-radio con il successivo Brain Thrust Mastery
(2008), ora ci provano con Barbara, il loro album più convincente e consistente (il loro quarto se si considera anche un primo album autoprodotto). Il loro problema, per i detrattori e per gli integralisti, è che
non fanno altro che spingere il proprio pubblico a cantare a squarciagola tutti i loro ritornelli, senza che ci
siano ricerche musicali chissà quanto artistiche (l'unica concessione al power-trio chitarra-basso-batteria
è il synth pop di You Should Learn). Sarà anche vero, ma per quale motivo bisogni per forza ritenerlo un
fattore negativo rimane un mistero. In effetti lo fanno così dannatamente bene, che ci immaginiamo la
difficoltà di scegliere il primo singolo promozionale (scelta poi ricaduta sulla marcetta Franz Ferdinand
di Nice Guys).
Il singolo, assieme all'opener Rules Don't Stop e a I Don't Bite, sono forse gli esempi migliori della loro
ricerca del singolo perfetto, ma anche il resto dell'album scorre piuttosto bene, tra la ballatona da accendino (Pittsburgh), il basso pulsante di Cain che sostiene scarne tastiere e coretti un po' tamarri ma
efficacissimi (Break It Up) e uno dei riff di chitarra più azzeccati degli ultimi anni (Central AC). Potremmo,
quindi, continuare all'infinito a fare processi alle intenzioni, a chiederci quando poco siano nello spirito
indie dei musicisti che non nascondono di voler semplicemente divertire il proprio pubblico, specialmente
live, quando i ritornelli delle canzoni trovano la loro dimensione naturale nel canto corale, ma qui siamo
di fronte a uno dei migliori esempi di stadium-indie-pop moderno: quello che gli U2 non riescono più a
fare con divertimento.
(7.21/10)
Marco Boscolo
tana nei decenni e in qualche modo vintagista.
People Like Us & Wobbly si prendono la responsabilità
di mettersi nel solco (pregiudizievole) di The Books e
Matmos - atto rischioso, gioco che può condurre a noia
e a storture di naso. A ciò si aggiunga il fatto che Music
For The Fire è pure un po' accademico, con quell'umore
68
- nel senso di liquame nato dalla giustapposizione - che
diventa automatismo di sense of humour. Ma va fatta una
dovuta precisazione. I riferimenti convocati sopra facevano (e fanno) emergere, dietro ai suoni trovati, la propria
estetica, il proprio gusto, svolti in un senso attivo (etico),
in sede di produzione per così dire. L'artista britannica
del collage Vicki Bennett (a.k.a. People Like Us, già collaboratrice dei suddetti Schmidt e Daniel) e Jon Leidecker
(a.k.a. Wobbly) lasciano invece che il proprio punto di
vista emerga, col senno di poi (e mentre l'ascolto avanza), dal brodo di cultura che ci sottopongono. Non c'è
autore, ma un lavoro di curatela, una delega stratificata
di presa di parola, a tutti i livelli.
Non ci resta una firma, ma un sentore performativo, di act
da galleria d'arte semiseria. E in realtà l'album è la riproposta di un set collagista del duo, senz'altro un po' kitch,
ma col sorriso, dicevamo - quindi non sottende un'idea di
band (semmai di un continuo omaggio Residents-iano,
condotto con inequivocabili spruzzi di tastiere alla Not
Available). Ci sono tutte le credenziali perché PLU&W
resti un progetto, o meglio, una pubblicazione che faccia
semplicemente il report (per i posteri e gli assenti) delle
performance di Bennet & Leidecker. E, fin qui, l'interesse
dell'operazione è indubbio.
(7/10)
Gaspare Caliri
Perfume Genius - Learning
(Turnstile, Giugno 2010)
G enere : C hamber pop
Qulle di Mike Hadreas, l'artista che si nasconde dietro
al moniker Perfume Genius, sembrano canzoni fatte
di poco o niente: una melodia di pianoforte, la voce dolente e a tratti spettrale, poco altro. Ma sono canzoni che
colpiscono in profondità, forse proprio grazie alla nudità
che le contraddistingue: in fondo, sembra dirci questo
esordiente ventiseienne di Seattle, perché impantanare
le proprie buone idee musicali in arrangiamenti sovraccarichi e complessi? Se la musica è buona, basterà una
melodia per colpire al cuore. Al massimo la vestiamo di
un tappeto di effetti e qualche rumorismo, ma lasciamola
a sedurre nel suo negligé. E i dieci episodi di Learning lo
fanno più che bene, nella mezz'ora scarsa in cui si esauriscono. Le coordinate musicali sono altrettanto semplici
e dirette, così che non vi si possa perdere alcuno, su
questi sentieri: la Feist meno movimentata, la voce di
Sufjan Stevens e su tutto aleggia lo spettro dei Sigur
Rós, non tanto come esplicito riferimento musicale, ma
per la stessa ricerca dell'immobilità in musica, come di
un film composto solo da scene madri.
Look Out, Look Out tocca il corde profonde, ma è con
il canto da sirena di Ulisse su Gay Angels che le lacrime
potrebbero sgorgare senza che ce ne rendiamo conto,
soprattutto quando il coro a bocca chiusa, tra sospiri
come trattenuti, si apre su un fortunale in mare (o in
cielo?) tra spiriti che volteggiano e un pianoforte che
viene da di là. Più pastorale e mossa You Won't B Here
che però fin dal titolo lascia intendere che non si tratta
di pensieri positivi. No Problem si apre su un paesaggio
sonoro quasi ambient, con la voce di Hadreas sommersa da tastiere solenni, come a perdersi nel coro di un
rito. Con caratteristiche diverse ci potremmo trovare di
fronte a un musicista che potrebbe ripercorrere i sentieri tracciati da Antony e, perché no, da lì partire per
territori inesplorati.
(7.3/10)
Marco Boscolo
Peter Case - Wig! (Yep Roc, Giugno
2010)
G enere : blues rock
Se l'è vista brutta lo scorso anno, Mr. Case. Chiuso in
casa per riprendersi da un'operazione al cuore che, partita come normale controllo di routine, gli ha salvato la
vita, si è rilassato guardando vecchi film e sedendosi al
piano. Non sarà allora per caso che, essendo l'esistenza stessa un blues, la risposta sonora dell'ex Plimsouls
si affidi alle dodici battute. Ne è del resto appassionato e conoscitore, annoverando tra i suoi preferiti quel
Mississippi John Hurt sul quale allestì nel 2001Avalon Blues, bel tributo in compagnia di gente come Steve
Earle, Beck e Lucinda Williams.
Registrato in pochissimi giorni - tranne Somebody Told
The Truth, ottimo John Fogerty apocrifo risalente a cinque anni fa - Wig! cammina giocoforza dentro scenari
già noti epperò mostrando un legame alla materia affatto comune. Dal John Lennon negroide di Banks Of The
River alla grana fremente dell'acustica House Rent Party,
maneggia trottate alla Blasters (Look Out!, House Rent
Jump) e Gun Club sotto sedativi (Dig What You're Puttin'
Down; una 'New' Old Blue Car che cita l'esordio omonimo
di Peter…), omaggi ai Byrds (Words In Red) e voodoo
di marca Creedence Clearwater Revival (Colors Of
Night), finendo spesso per consegnare un plausibile Robyn Hitchcock dai natali statunitensi. Bello averlo tra i
vivi, quest'uomo.
(7/10)
Giancarlo Turra
Peter Wolf Crier - Inter-Be
(Jagjaguwar, Maggio 2010)
G enere : alt . country / folk
Minneapolis, notte fonda: Peter Pisano (ex Wars of
1812) scrive in preda a una furia compositiva irrefrenabile. Il risultato è un rosario indie in piccole canzoni elettroacustiche. Ma è solo con la luce del giorno, la calma della
riflessione e - soprattutto - l'incontro con il percussionista Brian Moen che gli undici brani arrivano a una forma
69
sufficientemente
matura
per essere colti. Raccontano così la nascita di questo
esordio gli stessi protagonisti, figli di quel Midwest che
ha così tanto dato al folk e
al country statunitensi per
quel suo essere crocevia tra
le due coste, tra la frontiera e l'Occidente.
La musica dei Peter Wolf Crier è un altro crocevia, questa volta tra la tradizione che ha portato al successo i
Wilco, paladini di quel modo di trattare rock e tradizione rurale che per un po' si è chiamato alt.country.
Ma i Peter Wolf Crier pescano anche in territori attigui,
seppur differenti e identitari, che sono emersi in ambito indie nel tentativo di fondere East e West Coast: si
pensi ai Local Natives e si ascolti lo slow sofferto di
Down Down Down. Seppure sfoggino apici di grande dinamismo come l'iniziale shuffle di Cruth & Cane che è
un treno di hobos diretto in California, e altrove sembrino cercare la staticità bucolica dei Sigur Ros (You're So
High), l'impressione generale è di trovarci di fronte a un
disco monocorde, basato quasi esclusivamente sul raddoppio leggermente sfasato delle linee vocali e il solido
drumming. Come autore Pisano ha stoffa e l'apporto agli
arrangiamenti di Moen è determinante. Pare solo che
manchino un po' di chilometri nelle gambe.
(6.8/10)
Marco Boscolo
Pipettes (The) - Earth vs. The
Pipettes (Fortuna Pop!, Luglio
2010)
G enere : eighties , girl group
Dopo che nessuna delle ragazze originali è rimasto in
formazione, tra i numerosi rimpasti e defezioni, dietro
al marchio Pipettes sono rimaste due sorelle, Gwenno e
Ani Saunders. Il sophomore Earth Vs. The Pipettes è
il loro disperato tentativo d'adattare agli eighties lo schemino da party girl group '50 e '60 del fortunato esordio
di quasi un lustro fa.
Ascoltando i synth e il mix tra Abba, glam e ritornelli
radiofonici del singolo Our Love Was Saved By Spacemen
le speranze che possano interessare un pubblico diverso da quello più generalista sono praticamente nulle,
mentre dal singolo ufficiale Stop The Music, tra Wham
e ritmi latini, apprendiamo che pure le charts non ne
noteranno la presenza. Appena passabile la melodia di I
Always Planned 2 Stay, il resto alle ortiche.
(5/10)
Edoardo Bridda
70
Portland Souvenir - EP (|||
Records!?, Giugno 2010)
G enere : psych folk
Frutti strani in uscita dall'onda lunga del post-rock e
dello psychofolk. Polpa dolce sotto la scorza cedevole.
Qualche insidia aprigna. Tra il misticismo etereo degli
ultimi Sigur Ros e l'emulsione stordente dei sempre
cari Slowdive, con qualche rigurgito folk-pop e nuances da camera a rendere il tutto soavemente terrigno:
tra queste coordinate si colloca la proposta di due ragazzi from Cosenza, Ignazio Nisticò (meglio noto come
Ignoop, già nei Camera 237) ed Ermanno Valeriano
(aka I Am E).
Si fanno chiamare Portland Souvenir come uno strano
libro di Chuck Palahniuk, e sono al debutto con questo
EP omonimo. Visionari e romantici, ipnotici e struggenti,
amabilmente malsani, intrecciano mini soundtrack per
situazioni sospese. Spacciandole per canzoni.
(7/10)
Stefano Solventi
Quadron - Quadron (Plug
Research, Marzo 2010)
G enere : nu - white soul
La questione è la solita: possono i bianchi cantare il blues
e, per traslato, il soul? Verrebbe da rispondere che si può,
ma che per davvero afferrarne lo spirito bisogna avere
alle spalle una storia di sofferenza, altrimenti si allestiscono sceneggiate che funzionano a teatro o nel pop, e
nemmeno sempre.
Caso da portare a esempio i Quadron, duo danese che
diremmo destinato a futuri successi alle prese con un errebì candeggiato, modernizzato tramite elettronica lieve,
arrangiamenti elaborati e fugaci reminiscenze di "cool
generation" anni '80. In parecchi già ne vanno tessendo
le lodi e tra questi Pharrell Williams, James Murphy
e Gilles Peterson ma, poiché le referenze oggi valgono
quel che valgono, conta sapere che la formazione è nata
dall'incontro tra il polistrumentista Robin Hannibal e
Coco, adolescente appassionata di Jill Scott, Erykah
Badu e Lauryn Hill.
Si sente, infatti, benché di costoro venga percepita la
mera apparenza in una sfilata di distacco intellettuale,
eccessi di autocompiacimento e fedeltà alle formule.
Spiace, perché quando si sciolgono le briglie - e, con esse,
freddezza e distacco da nordici… - apprezzi la Rickie Lee
Jones in arrampicata vocale di Buster Keaton, l'urbano
acume di Jeans e la bristoliana Average Fruit. Buone, ma
spariscono davanti alla dolente e felpata gemma Herfra
Hvor Vi Star e al ghiacciaio emotivo - ugola tremolante e
levità sonore che graffiano - di Tone.
A quel punto ti domandi se ci siano o ci facciano e, a prescindere da qualsiasi gloria futura possa benedirli, devi
tenerne conto.
(6.6/10)
Giancarlo Turra
Quentin Harris - Sacrifice
(Strictly Rhythm, Giugno 2010)
G enere : soul house
Il ritorno di Quentin sulla lunga distanza lo fa balzare su
un tappeto volante di anima e cuore che sorvola le acque del soul newyorchese tutto. E' il viaggio di chi sa già
d'aver fatto qualcosa di buono (con l'esordio No Politics)
e di potersi consegnare alla storia indagando ancora più
in profondità l'anima del clubbing.
Un disco che ricorda la storia dell'House e, come ogni
classico di genere, afrofuturista: Detroit (la sua città d'origine), Chicago e New York i tre vertici del triangolo richiamati in Paradise - miraggio del club primigenio - con
un mezzo spoken word di Koffee. In più la bomba di Wait
con Denise Henderson in orgasmo e acuti divini che si
rifà (come ha dichiarato lo stesso QH) a Prince Murk;
l'interludio con un David Morales che fa atmosfera e
scuola jazzy (The Sacrifical Lamb), Ultra Naté (di cui Harris
produrrà il prossimo disco) è puro distillato disco con archi e paraphernalia stellari in Give It To U, Don't U Worry ha
la nostra Georgia Cee che fa rabbrividire in un ricordo da
club Novanta intriso di UKness, la traccia che dà il nome
all'album è il combo con la Drew Vision e le tastiere in
stop-motion-midi, e poi ancora un suono che è caldo, caldissimo, superprodotto ma non ingombrante (stupendo a
questo proposito il singolo ubercommerciale da passaggio
immediato in radio Why Me con Cordell).
Quattordici tracce che proiettano QH nell'olimpo del
ritmo. Se non fosse per un inevitabile cristallizzazione
sul genere, potremmo obbligarvi ad ascoltarlo. Anche
se non bazzicate i territori house, provate a sacrificarvi
sull'altare del soul. Elevatevi con Quentin. Un tatuaggio
indelebile sul corpo.
(7.2/10)
Marco Braggion
Richy Pitch - Ye Free Mi (BBE,
Giugno 2010)
G enere : A frican sounds
Un bel tipo, Richy Pitch. Da metà dei Novanta in giro a
farsi una solida reputazione da DJ in club londinesi d'ambito hip-hop, ha inciso dischi oltreoceano con calibri di
rispetto e su tutti J-Live. Intanto trovava forze e tempo
per remixare pressoché ovunque, produrre tracce per
spettacoli televisivi e, nel 2006, assemblare l'apprezzabile
compilation East Coast Hip
Hop-The Soulside. Risale ad
allora la causa scatenante
questo disco: un viaggio in
Ghana in parte esplorativo
e in parte "della memoria",
in testa l'idea di registrare
un disco con i talenti locali
che più lo avrebbero impressionato. Senza recitare da
Alan Lomax del terzo millennio, però, buttando sul piatto la propria abilità ed esperienza tecnica.
Questa esattamente la forza di Ye Fre Mi, raccolta dagli
intenti mai catalogativi e semmai finestra sull'ennesimo
inebriante mondo sonoro africano. Della quale apprezzi la varietà dell'insieme, il gusto col quale i brani sono
proposti all'orecchio occidentale e il livello medio, assai
elevato e addirittura stratosferico nella chitarristica sensualità di Abanaba (con Kewsi Dankwa) e nell'ubriacante Blackstar (Manifest a sciogliere un tiramolla ritmico in apnea verbale), nella snodata Only Your Walkings
(responsabili Wanlov The Kubolor e M3nsa) e nelle
ancestrali trame percussive e fiatistiche di Dey Suffer, accusa di Yasmeen con ugola di seta. Materia pulsante
sulla quale torni spesso, volentieri.
(7.2/10)
Giancarlo Turra
Roggiu de Mussa Pin-a - Slow
Migration (UPR, Marzo 2010)
G enere : post - folk
Fanno una cosa che a raccontarla penseresti non ti piaccia i Roggiu De Mussa Pin-a. E invece. Ragione sociale dal De André di mulattiera a suggerire prontamente
una vocazione popolare ("getto di fica sazia" in dialetto
genovese da Jamin-a), Davide Bonfanti, Samuel Collette,
Felice Cosmo, Giampiero Sicurella e Gabriele Zamboni
hanno spirito contaminatorio ma anche voglia di non mischiare qualsiasi cosa.
E allora focus sull'etno-folk del centro-nord europa (ghironda, fisarmonica e violino i protagonisti; Riccardo
Tesi, Kepa Junkera e Ambrogio Sparagna alcune
delle referenze) per brani strumentali su cui incombe un
salutare imprinting cinematico.
E se il richiamo al post-rock più canonico non stona
nella title-track allo stesso modo lo Yann Tiersen di
Valtz n.1 e il Nino Rota circense di Opera galleggiante
testimoniano una personalità a suo agio nei balli di piazza
di un paese come nei sogni su un seggiolino da proiezionista. Ecco perché ascoltando Slow Migration non
si immaginano albe impregnate di nebbia o pomeriggi di
granoturco illuminato dal sole ma ce li si sente proprio
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raccontare. Registi e videomakers li portino sulla pellicola, se lo meritano.
(7/10)
Luca Barachetti
Roots (The) - How I Got Over (Def
Jam Recordings, Giugno 2010)
G enere : funksoul HH
Mentre ad Eminem proprio non riesce, sono i Roots
a rimettersi alla grande, dopo l'abbuffata di pessimismo
degli ultimi dischi. Rising Down doveva essere l'ultima
prova del combo di Philadelphia, ma evidentemente non
tutto quello che era necessario dire era stato detto.
How I Got Over ci dice che si può dirlo senza dirlo e
ci pare questo il migliore dei modi per chiudere - ma
staremo a vedere - un'esperienza storica (e storicizzata)
che lascia in eredità al mondo post-Roots almeno due
grandi valori: l'idea di un hip hop suonato e legatissimo
alle proprie radici funk e la capacità di mantenere un
profilo etico-estetico esplicito, coerente, testardo, ma
mai inutilmente sbandierato.
Registrato a partire dal 2008 e lavorato con la massima
rilassatezza mentre i Roots erano resident band dello
show notturno di Jimmy Fallon, pronto almeno già a
febbraio e rimandato fino ad oggi, l'album ha alimentato
un buzz sul suo possibile contenuto come non se ne
sentivano da tempo, disattendendo clamorosamente in tal senso le anticipazioni date da Questlove e
compagni. Niente cover di
Peaches En Regalia di Zappa, tanto per dire, e siamo
sicuri sia stato meglio così.
Il disco ne ha sicuramente
guadagnato in omogeneità. Produzione asciugata al massimo (oltre alla sezione ritmica, soprattutto un piano e
un'affusolata chitarra elettrica), il disco è il lavoro più
esplicitamente soulful (si apre con un doo-wop alla Mr.
Sandman con ospiti i Dirty Projectors, mette in scaletta l'ormai canonico omaggio al maestro HHsoul J Dilla),
il più suonato e smooth del catalogo rootsiano, sempre e
comunque tra funk croccante (mai così secca e crepitante la batteria di Quest) e pezzi rappusi costruiti giusto
con due tocchi e che - molto semplicemente - spaccano.
Gli altri ospiti buzzy: John Legend (il suo disco di cover,
prodotto proprio dalla cricca Roots, uscirà a settembre)
e Joanna Newsom (in un campionamento dal suo brano Book of Right-On).
Alcuni critici USA hanno definito How I Got Over "lyrically inconsistent". Peccato che qui non siano i testi il focus
72
della faccenda. Questo è il disco post-Obama dei Roots,
il gemello della Nuova America parte seconda di Erykah
Badu. I Roots hanno bacchettato il tiranno e hanno
adesso il buon gusto di non tessere le lodi dell'eroe. Elegante, quasi austero, ma generoso all'ascolto, How I Got
Over è una dichiarazione d'amore per quella tradizione
negra di cui i ragazzi si sono nutriti per decenni e che in
più di vent'anni di carriera hanno contribuito a rinnovare.
(7.3/10)
Gabriele Marino
Rusko - O.M.G.! (Mad Decent, Giugno
2010)
G enere : dub step , ragga
Rusko, ovvero Christopher Mercer è un vecchio marpione cresciuto tra i sound system dell'underground di
Leeds; il debutto O.M.G.! è una marpionata bella e buona di un personaggio che ha capito benissimo quanto il
dub step sia il nuovo zafferano per l'audience da floor,
specie se condito da una buona varietà d'elementi noti e
qualche piccolo aiuto dagli amici.
Se possiamo ancora giocarci la parola "commerciale" nel
2010, questo è il termine più appropriato per descrivere
quel che il dj britannico ci propina a prescindere dal mix
sul piatto: pillole indorate per il pubblico dance generalista britannico (Dial My Number), hard steps che tanto
sono piaciuti a M.I.A. (Woo Boost è uno scopiazzo del
suo quasi omonimo Roska), per non parlare di ragga
facili facili (District Line), house sputtanata (Feels So Real)
o ruffianissimi remember 'ardkore '92 (Kumon Kumon,
ovvero i primi Prodigy).
Specialità dell'uomo è chiaramente una balistica di suoni
off-scene come l'uso del vocoder à la Kayne West con
un basso wobbly ereditato da Mr. Oizo, nonché ottime
amicizie come l'insospettabile Amber Coffman dei Dirty Projectors (Hold On), le chitarre filtrate dei nostrani
Crookers (Oy) e Gucci Soundsystem (Got Da Groove). Soprassedendo sulla parte radiofonica, è proprio
sull'aiuto quest'ultimi, e sulle commistioni più hiphoppettare, che il classe '85 si gioca le zampate migliori, mentre
la specialità rimane un ragga step che, se performato a
dovere, dà discrete soddisfazioni (tutte peraltro da verificare come farina del suo sacco).
Grazie a M.I.A. - di cui è produttore del nuovo album
///Y/ - Mercer ha agganciato lo stesso Diplo (ex della
starlette banghra), naturalmente Switch (i Major Lazer sono loro due) e Santigold per future collaborazioni. In lista poi troviamo remix per Hot Chip, The
Prodigy, Basement Jaxx e Little Boots. Evidentemente, oltre al disco (e le sue finalità di autopromozione), il
ragazzo deve aver convito per qualcosa di concreto. Sarà
la versatilità?
(6/10)
Edoardo Bridda
School Of Seven Bells - Disconnect
From Desire (Full Time Hobby,
Luglio 2010)
G enere : elettropop
Decisamente più synth pop - quasi dreamy - e meno elettronica per Disconnect From Desire, nuovo lavoro
per School Of Seven Bells, a due anni dall'esordio sulla
lunga durata Alpinisms (in ristampa a ottobre). O meglio, un ibrido irrisolto tra synth pop e elettropop, con
pose da metà Ottanta onestamente un po' stanche (i
Cure dilaganti, tra chitarre alla Robert Smith e umori
grigiocolor, in Heart Is Strange e in I L U) che si mescolano
a spunti articolatorii che destano curiosità, ma poco più
- vedi la costruzione di Dust Devil.
Sembrerebbe che negli ascolti di Benjamin Curtis (dei
Secret Machines) e socie (provenienti da On! Air! Library!), ultimamente, siano stati rimossi i Novanta, che
nell'EP di esordio avevamo segnalato come buon punto
di vista sugli Eighties pop. Il calore vero, nell'etereo incalzare di drum machine su cui si basa l'album, emerge nelle
lievi scordature che in pochi momenti assumono le chitarre, capaci repentinamente (Bye Bye Bye) di trasportarci
in atmosfere My Bloody Valentine (senza rumore di
reattore di fondo), ma vittime poi del canto all'unisono
delle gemelle Deheza, che riporta tutto alla normalità, e
agli echi Blow-iani.
Manifesto del futuro di School Of Seven Bells potrebbe essere basato su un'asciuttezza più determinata (la
Ultravox-iana Camarilla), meno languida - più personale,
semplicemente. Ci aspettiamo, per lo meno, un lavoro più
di cesello sulle voci delle Deheza, troppo uguali - e troppo monolitico, come tratto distintivo - per non cercare
di differenziarle, per vedere l'effetto che fa. Ma a ognuno
il suo ruolo.
(5.9/10)
Gaspare Caliri
Scissor Sisters - Night Work
(Polydor, Giugno 2010)
G enere : dance pop
Scrollarsi di dosso i fasti di I Don't Feel Like Dancing (singolo nato in combutta con quel mago di Elton John) non
è semplice. Al terzo album le sorelle tornano sui lidi dance con l'aiuto in produzione di Stuart Price (collaboratore tra gli altri di Madonna, Kylie Minogue e Killers)
e provano a costruire un full length che sia all'altezza del
pubblico radiofonico e da
dancefloor.
Già dalla copertina (che
è il retro now del famoso
lato A degli Stones di Sticky
Fingers), i ragazzi ci buttano
dentro una pletora di suoni
e sensazioni che più omo
non si può. La loro è la descrizione di un lunghissimo
attimo che va da David Bowie a Lady Gaga, ovvero la
costruzione di un'estetica dell'ammiccamento sexy per i
tardi anni 00.
E se i teens si dichiarano sempre più indecisi sulle loro
tendenze sessuali, il ritorno dei Queen tramite il folletto
Mika non è stato un abbaglio, e inevitabilmente ancora
gli Ottanta ci pungono qui e là, le sorelle sono uno dei
pochi gruppi deputati a testimoniare una devozione per
Bronski Beat e Soft Cell (Sex And Violence), Duran
Duran (Night Work), Bee Gees (Any Which Way), Iggy
Pop (Harder You Get) e altri indizi che ogni ex-adolescente
degli Ottanta saprà scovare dal cassetto della memoria.
Jake Shears sa come farci ballare: "Ora siamo liberi di essere
i numeri uno".Vedremo per quanto ancora.
(6.9/10)
Marco Braggion
Secret Cities - Pink Graffiti
(Western Vinyl, Maggio 2010)
G enere : P sych - pop L e tempeste dell a gioventù
sono circondate di giorni splendenti L uc de
C l apiers de V auvenargues
E in questo debutto dei Secret Cities dal North Dakota le tempeste sono le armonie visionarie di Brian
Wilson, quel che a sentire loro è il "prisma" che ci mette
in contatto con tutte le declinazioni della gioventù e si
manifestano in un profluvio di colori tutto west coast.
È una condizione privilegiata, qui declinata attraverso un
mondo di riverberi, fuzz e distorsioni, che davvero dà
l'impressione di un caleidoscopio praticamente infinito
di colori e sfumature, a connettere psichedelia, rock ed
elettronica, con divagazioni acustiche, sottolineate anche
dall'impiego di strumenti-giocattolo e un rosario di effetti
ed effettini. Il collante unico di tutto questo, il midollo
vitale attraverso cui tutto si risolve è la melodia, che sebbene sia quasi sempre distorta e annegata in un flusso
quasi concreto di suoni e rumori. La melodia perfetta
come ricerca infinita di tutto il pop: qusto è il vero scopo
ultimo dei Secret Cities e - ovviamente - di tutta l'opera
di Brian Wilson.
Boyfriend è la summa perfetta della gioventù come mito
dei Secret Cities: un brano delicato in cui le cicale ci ac73
compagnano in una parata di artisti circensi e saltimbanco. Non mancano la bittersweetness adolescenziale tirata
su un'eterea voce femminile e un giro di pianoforte rutilante (Slacker), la filastrocca noir (Aw Rats), il sentimento
di spleen celebrato in qualsiasi atto del vagabondare e in
particolare nella cultura beat americana (Wander). Della
musica dei Secret Cities non bisogna cercare un centro,
perché si costituisce come costellazione per accumuli
successivi, in cui trovano posto anche citazioni euro-pop
(Pink Graffiti pt. 1), meditazioni soffuse (The End) e la perfetta colonna sonora per qualsiasi road movie (Color). Un
gruppo giovane che fa un disco sull'essere giovani: non
tutto è a fuoco, ma c'è da ben sperare che non vogliano
invecchiare e i giorni conitnuino a essere splendenti.
(6.9/10)
Marco Boscolo
Shapes And Sizes - A Candle
To Your Eyes (Asthmatic Kitty
Records, Agosto 2010)
G enere : neo - wave
Shapes And Sizes fanno base a Montreal ma le loro teste stanno altrove. Nessuna stratificazione strumentale
o panorami cinemascope da grande suono canadese, qui:
al loro posto, un'economia di mezzi pur nella raffinatezza
strutturale, una new-wave
al femminile poggiata su
strutture sbilenche e accuratezza produttiva. Come
se Raincoats, Siouxsie &
The Banshees e Slits ci
avessero messo trent'anni
a farsi accettare e - arrotondati gli spigoli - a divenire lessico comune, grazie ai
parametri del gusto che si evolvono e ai ricorsi storici e
nel frattempo facendosi dare una mano dallo stile cubista di Pixies e Throwing Muses.
Trascorsi due anni a sgobbare sulla scrittura e dodici
mesi a registrare presso l'Hotel 2 Tango, ne esce una
sorta di microcosmo falsamente retro dove occasionali
indecisioni (certe eccessivi ricalchi di Frank Black e
soci; una I Need An Outlet che meritava più della timbrica
vocale "emo"; la Tell Your Mum cui gioverebbe un diverso ambiente sonoro) cedono il passo ad attraenti colpi
d'ala, ad esempio il basso alla Kim Deal e il ritornello
cantilenante d Sing Them Songs e Time Has Practically Stopped, cartolina un po' western e un po' '50 che ancheggia
sinuosa e derapa sul finale.
Convince affidandosi alle squadrature e ai grattugiamenti
che amammo nelle Breeders, a una svagatezza sorniona
74
che piazza queste ultime in contesti wave-funk. Raggiungendo il vertice con The Hit Parade (disturbi d'elettronica
Sheffield più cuore romantico) e Old Worlds, pop-wave
intinto nel suol che transita dal pastello al grigio. A Candle
To Your Eyes è materia avara di lustrini buoni per gli indienerd: riuscisse a liberarsi di certe zavorre, piacerebbe ancor più a dei pignoli smaliziati come noi.
(7/10)
Giancarlo Turra
Sleigh Bells - Treats (Columbia
Records, Giugno 2010)
G enere : I ndie soundsystem
Metti una chitarra con qualche muretto noise, le angeliche female vocals, lo zampino di M.I.A. e hai detto
già cosa fanno queste campanelle da slitta. Un miscuglio
blando di cattiveria subito disconosciuta e mascherata
nel pop ereditato dalla mistress banghra per eccellenza
(il disco è infatti uscito sulla sua etichetta) ma anche dagli
act più commerciali di Lady Sovereign (Kids) e altre
pseudoincazzate teen londinesi (Rill Rill).
Poco più di mezz'ora per dire che la tendenza a rifare
le Elastica o le pseudo rrriot girls sta tornando e si sta
incubando nel magma dell'hip-hop sghembo targato UK.
Due mondi che collidono e che si corteggiano da più di
vent'anni. Che poi ci si voglia buttare dentro gli stop e gli
effetti in distorsione già sentiti con il noise dei Crystal
Castles (Run The Heart), le vocals che suonano come
l'acappella delle Bananarama (Crown On The Ground) o i
sempreverdi White Stripes (Infinity Guitars, Straight A's)
è un po' esagerato. Ma si sa, per fare tendenza si può
osare, e perlopiù strafare. 

L'ingrediente che però non sembra essere improvvisato
e che fa collante al tutto, sono le chitarre. Ancora una
volta lo strumento principe del planet rock ci dice che
l'infinita variazione sul tema non ha ancora smesso di
narrare infiniti mondi sonori. Il tempo di qualche singolo e ci saremo già stancati, ma la lunghissima epifania
di quest'attimo di finto punk (mescolato a dovere con i
synth di scuola fidget) ci allieta. Sleigh Bells: l'insostenibile
leggerezza del pop.
(6.9/10)
Marco Braggion
Stars - The Five Ghosts (Vagrant,
Giugno 2010)
G enere : indie pop
La parabola artistico creativa degli indiepoppers Stars
sembra essere approdata a un punto critico. I canadesi
erano esplosi internazionalmente nel 2004 con il compiuto Set Yourself On Fire e avevano proseguito tre
anni dopo con il discusso In Our Bedroom After The
War, album che non ci era dispiaciuto, teso com'era tra
l'antico pop orchestrale e le nuove tentazioni sempre
più danzerecce.
Il quinto disco The Five Ghosts vede il ritorno del produttore Tom McFall, già in console in Set Yourself On
Fire, e porta all'estremo il conflitto sopra evidenziato.
Soliti duetti Amy Millan - Torquil Campbell, consueto indie pop molto melodico, qui con il quasi costante
sacrificio dell'orchestrazione, a favore di tappeti di synth
ormai onnipresenti.
Si perde allora inevitabilmente il loro carattere malinconico, punto di forza della band, e la tensione emotiva che
sapevano così bene suscitare. In più pezzi non memorabili sia pur ben prodotti, richiami ai Metric e sempre
più deboli echi di Broken Social Scene, loro gruppo
gemello, ne fanno un debole epigono dei loro momenti
migliori. Come se si fossero trasformati nei cinque fantasmi del titolo. Peccato.
(6/10)
Teresa Greco
Stefano Giaccone - Il giardino
dell'ossigeno (Stella*nera,
Maggio 2010)
G enere : folksinger
Stefano Giaccone è un uomo tenace e irrequieto. Ha
una media di quasi un disco all'anno, tra raccolte di canzoni (tre nell'ultimo quinquennio, tutte da avere) e di cover, radiodrammi (il recente Viper Songs realizzato con il
commediografo inglese Peter Brett) e spettacoli teatrali
fissati su supporto fisico, ma scrive anche libri e colonne
sonore. Seguirlo non è sempre facile, se non altro perché
alcune sue uscite vedono la luce grazie al lavoro di piccolissime etichette a volte nemmeno distribuite, come
nel caso di questo Il giardino dell'ossigeno pubblicato da
Stella*nera, marchio legato ad A/Rivista Anarchica con
un catalogo variegato e prezioso - per consultarlo e acquistare (è tutto ad offerta libera) andate sul sito www.
anarca-bolo.ch.
L'ex Franti vi inserisce pezzi autografi ed alcune cover,
registrando il tutto «con due programmi craccati sul
pc, senza microfoni né niente», confermando più che
un'intenzione lo-fi la vivida ostinazione di una voce che
non smette di cantare della propria vita e delle cose
del mondo, sulla scia dei grandi folk-singer a cui si ispira
(Seeger, Ochs, Dylan). Proprio di Dylan è una delle riletture (Not dark yet), insieme a Eddie Vedder (No
ceiling, dalla soundtrack di Into the Wild), Silvio Rodriguz (Sueňo con serpientes) e addirittura Ligabue
(un'accorata L'amore conta), oltre al tradizionale Bella
ciao ottimamente rivisitato come lo farebbe Springsteen in Nebraska. E da Springsteen, così come da Dylan e
Vedder, sembrano discendere gli inediti, purissime ballad
folk-rock ridotte per sola acustica ed elettrica saltuaria.
Andata via per davvero è la migliore fra le sette, ma anche le altre si lasciano ascoltare con piacere. Tuttavia Il
giardino dell'ossigeno rimane un'opera minoritaria di
Giaccone, al quale spetterebbe comunque un maggior
riconoscimento per quanto fatto nel passato più o meno
recente.
(6.5/10)
Luca Barachetti
Street Drinkers/Skeppet - Split LP
(Release The Bats, Giugno 2010)
G enere : R ituale / K raut
A distanza ravvicinata dal secondo album del main
project (Begraven Mot Norr) ecco giungere una nuova
uscita con cui Release the Bats continua l'opera di testimonianza del più sotterraneo panorama noise svedese.
Street Drinkers è il moniker sotto le cui mentite spoglie agisce in solo Viktor
degli Ättestupa e con cui
ha rilasciato diversi nastri
partecipato a diverse compilation. Per la prima uscita
su vinile lungo il ragazzo di
Goteborg licenzia quattro
brani focalizzando i malsani umori precedentemente
abbozzati in melanconici giri di tastiera, voci lamentose,
timpani solenni e il consueto strato di sudiciume sonoro.
Il lato B è appannaggio di Skeppet, progetto parallelo di due membri dei Fria Konstellationen di Malmo che propongono un'accoppiata di lunghi pezzi dalle
reminiscenze kraut più fine Settanta (La Düsseldorf)
con umori chill-wave (Washed Out e compagnia fuori
fuoco). Due facce speculari (e per molti versi diametralmente opposte) in cui intimità e raccoglimento sono la
comune chiave di volta.
(7/10)
Andrea Napoli
Stuart Moxham - Personal Best
(Habit, Giugno 2010)
G enere : wave - folk master
Poco da fare e non ce ne voglia il diretto interessato se
lo ribadiamo: Stuart Moxham è nei cuori e nella storia
per Colossal Youth, gioiello come non se n'erano mai sentiti prima (e, così bene, neppure dopo…) di minimalismo
75
poetico in chiave dopo-rock,
giocato tra tastierine giocose e disossamenti ritmici inseguendo una piovosa
malinconia britannica che
scalda l'anima in luogo di
opprimerla. Del resto, se
inizi un romanzo artistico con un capolavoro di tale lignaggio, è naturale che
quanto arriverà dopo non potrà essere all'altezza. Poco
male, in fondo, considerando come, ciò nonostante, le
avventure successive del Nostro (i G!st più alcuni dischi
solisti, apice Cars In The Grass risalente al 1993) abbiano
parecchio da offrire se il pop acuto e coraggioso e/o un
cantautorato all'inglese, introspettivo e in bilico tra folk
e latin-jazz, sono la vostra tazza di tè.
Specie valutandone la rilevanza e il peso esercitato sulle
generazioni più giovani, che da tanta economia di mezzi e profondità di sentimento hanno tratto ispirazione
ed esempio; quale occasione migliore, allora, di questo
tautologico ed eloquente sin dal titolo Personal Best,
venti tracce per un'ora scarsa di durata che invogliano
ad approfondire mentre offrono qualche considerevole
scampolo di futuro. Scaletta - scelta da Stuart in persona,
a sfatare la credenza che l'artista sia di norma il peggior
giudice di se stesso - nella quale prevalgono ovviamente
toni seppiati, che si allestiscano giostrine filmiche (Pram,
Stereolab e High Llamas hanno preso appunti), si
prosciughi del funk fino all'irriconoscibile e si spediscano
toccanti cartoline elettroacustiche in compagnia di sodali come Barbara Manning e Louis Philippe. Sapienza
di geniale artigiano come non ne nascono praticamente
più.
(7.4/10)
Giancarlo Turra
Succede una sega - Il cavallo di
Troia (A Buzz Supreme, Giugno
2010)
G enere : post punk - funk
Il m'importa 'na sega di ferrettiana memoria si trasforma
in una ragione sociale da generazione zero, per poi riemergere nell'omonimo brano d'apertura come un divano
finta pelle scorticato da un pugno di chitarre elettriche
à la Sui giovani d'oggi ci scatarro su. Il resto della scaletta
ci vede assorbiti in un vortice di post-punk strumentale
in levare (Digging For Birds) e hard-pop che sa di Blur
periodo Beetlebum (Ubriaco), certi Jesus Lizard addomesticati (La cura) e parti recitate su aperture crimsoniane di sax e sei corde (Esplosione di una raffineria). Nel
tentativo di capire quale sia la reale natura dei Succede
76
una sega e comprenderne le intenzioni.
La voce di Alessio Chiappelli tradisce nei momenti di
maggiore tensione una gioventù spesa ad imparare da
Justin Hawkins dei Darkness, l'estetica della formazione rimanda ai bolognesi The Crazy Crazy World Of
Mr. Rubik, l'impianto strumentale alterna con la giusta
convinzione asperità e momenti di quiete. Eppure l'impressione è che molto si faccia per cercare di acchiappare con la solita versatilità stilistica e il cut-up di rigore
il treno del "fighi e inclassificabili". Non siamo sicuri che
sia una buona idea
(6.3/10)
Fabrizio Zampighi
Suzanne Vega - Close-Up, Vol. 1:
Love Songs (Razor & Tie, Giugno
2010)
G enere : F olk
La legge dell'anno in più d'attesa ad ogni disco per ora
non vede un'altra eccezione (l'unica a inizio 90s): Close
Up è una raccolta di vecchie canzoni risuonate in versione "intimista".
In teoria il disco più inutile possibile (e i volumi, tematici,
saranno 4), visti gli scarsi risultati - artistici e di gradimento - ottenuti di solito dal materiale risuonato in studio e l'ovvia considerazione che Suzanne Vega intimista e
sommessa lo è stata sempre.
Il discorso in realtà è quello annoso del rapporto tra
scrittura e produzione, centrale nella carriera della cantante, come lei stessa evidentemente sa se fa un disco
come questo. La nomea di essenzialità sincera, infatti, le
viene da quei primi dischi che, a guardare bene, erano
affetti da una produzione datatissima, ben più di quella dell'ex-marito Mitchell Froom, ingiustamente vituperata da una parte della critica e caratterizzata invece
da gusto e misura nel "servire" le canzoni. Così, se scartiamo l'ipotesi commerciale, l'operazione avrebbe il senso di rimettere al centro la raffinata scrittura: un "close
up" sulle canzoni oltre l'invadenza, buona o meno, di chi
le vestì ai tempi.
All'ascolto, però, le sensazioni risultano contrastanti:
qualche esecuzione con poco mordente (Marlene On The
Wall), qualche arrangiamento sanamente svecchiato ma
tutto sommato non molto diverso dall'originale (Small
Blue Thing), qualcuna che risulta bene anche se la produzione originale era riuscita (Songs In Red And Gray, Harbor
Song) e altre (Caramel e Stockings) cui invece la produzione originale dava un qualcosa che qui si perde.
Un disco con queste canzoni e la voce e la chitarra della
cantante al centro brutto non può esserlo mai, a meno di
disastri esecutivi qui ampiamente evitati; resta però qual-
che dubbio sull'utilità di un'operazione che una buona
fetta di pubblico si era fatto già in mente, accogliendo le
canzoni senza badare più di tanto al contorno.
In linea col resto le quattro tracce bonus dell'edizione
Deluxe.
(6.7/10)
Giulio Pasquali
Talibam!/Alan Wilkinson - Dem
Ol' Apple Pie Melodies (Bo' Weavil
Recordings, Maggio 2010)
G enere : free - jazz
Non passa mese ormai, senza che la premiata ditta
Mottel&Shea metta la sua firma su un disco targato Talibam. Stavolta tocca alla joint-venture con Alan Wilkinson, sassofonista inglese con cui l'etichetta inglese Bo'
Weavil Recs aveva organizzato un appuntamento al buio
per uno show londinese e col quale i due newyorchesi si
sono subito trovati a loro agio.
Dem Ol' Apple Pie Melodies appartiene di diritto alla linea
discografica che i due portano avanti parallelamente a
quella "ufficiale". Duettando con personaggi del calibro
di Daniel Carter o collaborando con band del sottobosco noise-avant-rock (dai Peeesseye del recente
omonimo doppio a misconosciute formazioni anche italiane come Ne Travaillez Jamais, prossimi allo split 7"),
lo scopo non cambia: rivoluzionare a botte di energiche
improvvisazioni i canoni di base del jazz più libero e non
canonico, nella prima circostanza, o dell'avant-rock più
sfatto e incompromissorio, nella seconda. Il crescendo
dell'iniziale Let's Go Hang Out In Tesco mette i puntini sulle
i - tappeto di synth mobile, batteria tentacolare e epilettica, sax libero nella miglior tradizione ayleriana - introducendo gli spasmi e i singhiozzi strumentali degli altri 3
pezzi del lato A: Sound Is A Pound, uno sputo di free-jazz
sconquassato da 2 minuti; Do You Eat Roadkill, presenze/
assenze come un Coltrane stitico; Four Circumcised Blokes
In A Car/Space Tits, la tradizione del free-jazz meets l'avanguardia incolta newyorchese condensata in un cut-up di
5 minuti.
È però nella mastodontica Obamalamdingdong, che coi
suoi 20 minuti scarsi occupa tutto il lato B del vinile,
che l'estemporaneo trio ha
modo di dare sfogo a tutto
il proprio potenziale strumentale e alla propria carica delirante, tra stasi ossianiche e svisate pazzesche.
Edizione only-vinyl limitata
a 350 pezzi, perciò consigliamo a chi ha a cuore le
gesta dei newyorchesi di sbrigarsi e assaggiare queste
melodie zuccherose.
(7/10)
Stefano Pifferi
Television Personalities - A
Memory Is Better Than Nothing
(Rocket Girl, Giugno 2010)
G enere : I ndie P op
Ribadisce che l'indie pop può anche significare prendere
il pop come elemento stilistico e trattarlo con mano e
atteggiamento indie (e non, come più spesso accade, il
contrario), Dan Treacy, pilastro nascosto degli ultimi 30
anni di underground, che recentemente ha annunciato
(e non è la prima volta) di lasciare la musica e invece
si presenta a 3 anni da Are We Nearly There Yet?
all'appuntamento discografico con un terzo album postcarcere tutt'altro che passeggero.
La title-track, frizzante come una descrizione di Roma
a primavera scritta da Piero Piccioni e suonata dai
Felt, ne è un'ottimo esempio, arrangiamenti e immancabile malinconia serena compresi nella classica confezione
diy. E' il solito Dan, capace di infondere vita a uno dei giri
armonici più banali del mondo (She's My Yoko) salvo poi
sabotarlo con una tastiera di inquietante dissonanza sul
prechorus, o di accennare Fly Me To The Moon all'inizio di
People Think That We're Strange (divagazioni VU su una
drum machine da Suicide) facendola sembrare Like A
Hurricane, o che per secondo singolo sceglie gli Husker
Du velvettiani in vena di jam Thin White Rope della
notevole My New Tattoo, rilassandosi poi su delicatezze
sommesse come il falsetto di Funny He Never Married, il
dream-valzer di Except For Jennifer, la versione essenziale
di The Good Anarchist con la voce di Johanna Lundström (e
in generale tutta la seconda parte del programma), con
l'atteggiamento di chi è arrivato a vivere in pace con inquietudini, dark places, e con la propria estraneità.
Un gran finale, che confidiamo non sarà l'ultimo...
(7.1/10)
Giulio Pasquali
Tiefschwarz - Chocolate
(Souvenir, Giugno 2010)
G enere : deep house
I fratelli Schwarz da Stuttgart hanno temporeggiato per
scrivere un nuovo lavoro. Un lustro è un'eternità e molti
fan li avevano relegati nel boom minimal, quasi storicizzandoli. Per Ali e Basti è stato doveroso attendere per
non sputtanarsi: troppi gli act, ammaliati dai fumi d'electro house, che combinano pasticci non rattoppabili (vedi
le scalette dell'ultima Kittin o dei figliocci dei sogni pro77
fessati da Felix), dunque il passaggio alla deep è una scelta, ma non proprio indolore.
Che siano krauti, l'abbiamo capito; ma l'appartenenza al
motorik non consegna di diritto le chiavi per il prodotto d'eccellenza. Santé, un loro giovane figlioccio e coproduttore di casa Souvenir ha tentato di svecchiarli con
momenti di stupore (Home) e di carica magnetica (Legends) ma nella tracklist troviamo anche scivoloni (il jazz
ubriaco di Trust) e vischiosità evitabili (12am, Stones).
Ciò che più ricorderemo di Chocolate sarà lo sforzo
di cambiamento. La tecnica rimane solida ma il convincimento che sia buona è un'altra cosa.
(6.5/10)
Marco Braggion
Trans Vz - Progress/Regress (To
Lose La Track, Giugno 2010)
G enere : post - punk - folk
Spetta a questo trio umbro proseguire l'ottima offensiva
di primavera targata To Lose La Track. A differenza dei
Nastro, Ric (chitarra/voce/testi), Logan (basso/voce) e
Aziz (batteria) vanno di memoria tattile. Rievocano cioè
i tempi in cui, in duo, svoltavano sul limitare dell'indiefolk ma vi innestano una bella dose di post-punk, di quello meno abrasivo e ostico però, e non per questo meno
arzigogolato in screziature e curve a gomito.
Unite i puntini e in dissolvenza vedrete apparire i Violent Femmes: stessa dimensione ariosa, medesimi bislacchi turning-point all'interno dei pezzi, stessa carica irridente nel rivoltare canoni
e dimensioni; ma soprattutto la stessa capacità di mischiare elettrico e acustico
senza che se ne avverta la
differenza. I tre, però, sono
giovani e irrequieti e vanno
di furia controllata messa
al servizio di una formacanzone eterogenea e varia: abiti wave-rock disturbanti
(l'omonima Trans Vz) o ritmicamente accesi in modalità
post p-funk campagnolo (Headache For Dinner, Regress),
folkabbestia da sagra di paese (Old Mountain Man) o
cow-punk a corrente alternata (Transavanguardia). Sempre buona la fattura con l'aggro-punk-folk di fine corsa,
I've Lost My Horse In Ohio, a meritare tutta l'attenzione
del mondo. Resta un po' di amaro in bocca perchè sembra mancare la voglia di spingere sull'acceleratore del
coraggio. Se solo ci si lasciasse andare un po' di più...
(6.8/10)
Stefano Pifferi
TREES (USA) - Freed Of This Flesh
(Crucial Blast, Giugno 2010)
G enere : D oom
Vengono da Portland, si chiamano TREES (USA) (la
provenienza è per distinguerli da non poche altre band
omonime) e Freed Of This Flesh è il loro secondo lavoro
per Crucial Blast tra ultradoom Khanate (accordi lasciati
vibrare e risonare in eterno bilico) e crolli rovinosi (chitarre e batteria come a scatenare valanghe). La lezione di
Plotkin e O'Malley si sente forte e chiara, le varianti sono
un affare di cupe ambientazioni, canti lugubri e ampi reverberi. Sicuramente troppo poco per guadagnarsi i nostri
plausi. Abbastanza per dar loro una più che sufficienza.
(6.7/10)
Leonardo Amico
Trentemøller - Into the Great
Wide Yonder
 (In My Room ,
Giugno 2010)
G enere : oniric rock
Sophomore album per il giovane produttore danese.
Stampato sulla sua etichetta, il nuovo disco esce dal digitalismo dell'esordio (The Last Resort) ed entra nell'analogico degli equalizzatori vintage, contemplando una forma
di rock-drone che nella Danimarca malinco-dark trova il
suo sostrato fondante.
Quattro anni per scrollarsi di dosso la catalogazione
dancefloor ed entrare nel mondo delle chitarre allungate dei My Bloody Valentine/Dead Can Dance, tagliando con un po' di elettronica in odore di Depeche
Mode (The Mash And The Fury, Shades Of Marble) e con
qualche effetto psicotropo (Haexan) con aggiunte oniricfolk (Neverglade).
Ispirato da un feeling intimista (è stato infatti registrato
interamente in casa a Copenhagen), il disco riflette le
innumerevoli passeggiate in mezzo a boschi nordici e le
lunghe nottate invernali in compagnia degli amici Solveig
Sandnes, Josephine Philip e Fyfe Dangerfield dei Guillemots (tutti in featuring come vocalist). Il risultato è
un album più caldo e meno squadrato dell'electro cui
siamo abituati ad associare Anders, che si lascia ascoltare ma che non sconvolge, pur mantenendo una buona
produzione e qualche picco. Per i fan di Mazzy Star e
Jaga Jazzist.
(6.4/10)
Marco Braggion
Uffie - Sex Dreams and Denim
Jeans (Elektra, Giugno 2010)
G enere : E lectro , rap , pop
Grazie a uno stuolo di amici, ex, protettori e collabo-
78
ratori (Mr. Oizo, Pharrell Williams, Feadz, SebastiAn,
Justice, Crystal Castles, Steve Aoki...) Uffie pare una
di quelle starlette che sulla scena ci stanno da sempre.
Ci ha fatto innamorare e incazzare tutti. Il suo primo
singolo, Pop the Glock, ben quattro anni fa, è stato un
caso discografico e quella canzone, incisa assieme all'ex
dj Feadz era un trionfo d'erotismo digitale distillato da
rap e cadenze hip hop sotto una glassa pop che di fatto anticipava l'ennesima generazione di bionde rampanti
come Ke$ha.
Poi tre turbolenti anni passati a fare quello che ogni star
stelletrisce fa: sposarsi, divorziare, partorire; e il tam tam
mediatico faceva il suo, Guardian la etichettava come The
New Band of the Day, mentre lei, piena di casini, rimaneva
un culto da addetti ai lavori
(o alla meglio un caso francese), da singoli botta e via
come Mc Can Kiss (eppì datato gennaio 2010 con remix di Zomby e Starkey)
che però ti comprimevano
un sample di Giorgio Moroder in una compressa di
funk, disco e punk. Infine, ed è l'altro ieri, arriva il colpaccio che può svoltare con Pharrell Williams prodotto dal
fido Mirwais, una Add Suv sferrata sullo stesso terreno della rivale (e coetanea) di Right Round, che splama il
mood scazzandoti l'hook melodico che tutti s'aspettano
da lei. E' lo stesso problema che la mezzosangue francese
si porta qui, nell'album lungo, spostato per l'ennesima
volta perché pubblicato per la parigina Because Music (e
per la major Elektra in USA) e non più per la Ed Banger,
ed ora finalmente realtà dopo il lunghissimo iato.
Un disco che innanzitutto viaggia sul fascino della sua
immagine, sul vintage uber sexy del recente video Pop
The Glock, ma che in sostanza se la litiga sulla direzione migliore da prendere lasciando che i fidati producer
facciano il loro. C'è da ammettere che le nuove Brand
New Car, un funk electro, o il tocco soul Ricky hanno
il tiro perfetto per lei: non melodie ma slogan, rapping
confidenziale rivolto ai sedicenni e un buon ping pong
d'effetti sottobraccio, ma che dire quando le cose si fanno contaminate e ci vuole la vera performer? First Love
con i campioni Ottanta, il glam psych à la MGMT di Sex
Dreams and Denim Jeans e il duetto con con Mattie Safer
di Illusion Of Love (con rimandi AIR e Harzlehood), sono
tutti colpi non proprio a segno, quando l'indietronica di
Give It Away o il grime/speudo ragga di Difficult le calzano
invero a pennello. Facendo il bilancio viene...
(6.7/10)
Edoardo Bridda
Ventura - We Recruit (Africantape,
Giugno 2010)
G enere : noise - rock
C'è qualcosa di irrimediabilmente datato nelle musiche
dei Ventura, trio svizzero che rivendica orgogliosamente l'autodefinizione "indie-rock". Noi diciamo che promulgano un noise- nell'accezione primigenia dei nineties,
musica in grado d'unire mirabilmente tensione rumorosa tutta asperità e melodiche stranite.
Il taglio è grossomodo quello di NY e la formula powertrio (Philippe a chitarra e voce, Mike alla batteria, Diego
al basso) restringe il campo d'azione evitando secche o
sperimentalismi eccessivi. Compatti, corposi, ripetitivi e
spesso chirurgici (à la Helmet, tanto per rimandare alla
storia del rumore newyorchese) per ciò che riguarda
la struttura strumentale dei pezzi, i Ventura si lasciano
completamente andare su quello prettamente vocale.
La mobilità low-key della voce del chitarrista, tutt'altro
che originale ma in grado di incastonare alla grande melodie nel rifferama della casa-madre, risulta spiazzante
per rimandi inusitati (il cantato post-prog di Brace For
Impact?) e atteggiamento disinvolto nel recuperare vocalità dimesse grunge-style (I Always Said He Was Weird,
la sospesa Will Kill For Love, la rabbiosamente compressa
Demons).
Una catapulta all'indietro, un tuffo carpiato in quel noiserock che è forse l'ennesimo (annunciatissimo) revival.
Oltre all'album, un 7" con David Yow (Jesus Lizard,
Qui) è il secondo indizio che ne fa la prova.
(6.8/10)
Stefano Pifferi
Vermillion Sands - Vermillion
Sands (Alien Snatch, Maggio 2010)
G enere : folk - garage pop
Rubano il nome (sbagliandolo!) ad un racconto breve di
J. G. Ballard, condividono vinili piccoli e qualche membro
con i Movie Star Junkies, devastano palchi e cuori ad
ogni latitudine e longitudine attirando le attenzioni delle
etichette più cool del momento (Sacred Bones, su tutte).
Niente male per una band che, partita per caso dalla
provincia trevigiana, arriva ora alla pubblicazione del primo full length omonimo.
In The Wood, già singolo targato Fat Possum, inaugura il
disco ed è subito sarabanda ubriaca di suoni e colori,
tradizione e slanci in avanti. Nelle musiche del quartetto
organi vintage, synth sconnessi, chitarre elettriche/acustiche in americana style, bassi circolari e batteria dall'incedere forsennato formano un tappeto sonoro (s)fatto
di noise-blues e folk-punk, r'n'r tradizionale e murder
ballads chiaroscurali, country sabbioso e desertiche bal79
lads. Su un tale terreno si muove libera la voce di Anna
Barattin che ci mette pure la chitarra acustica mentre è
lì intenta a ricoprire il blues catramoso o il folk catacombale dei compari con una voce dai sapori mitteleuropei (alla Bad Seeds, per capirsi) e da crooner sensuale,
insieme fascinosa e profondamente conturbante come
una femme fatale o ingenuamente bambinesca come una
bambola. Anna, Nene (basso), Caio (batteria) e Krano
(chitarra) dimostrano di sapersi ben muovere all'interno
della scena garage di riferimento ma anche di fregarsene
assai di legarsi a questo o a quello, mentre vanno giù di
folk r'n'r (Wake Me When I Die spacca letteralmente il
culo agli White Stripes) dall'appeal ricercato e insieme
accessibile.
In un mondo migliore li vedremmo (li vedremo?) calcare
palchi importantissimi; per ora accontentiamoci di un segreto per pochi destinato a non rimanere tale a lungo.
(7.1/10)
Stefano Pifferi
Vessel - Melodies Of Cupido Island
(42, Giugno 2010)
G enere : elettro - wave
Tutto si potrà dire dei Vessel tranne che non sappiano
come attrarre l'attenzione dell'italico guardone - diffuso
a tutte le latitudini e quindi anche nell'indie autoctono
- con una copertina. Se nel
primo Ep della trilogia - Tales Of A Memento Island - si
intravedevano le sinuose
fattezze della sempreverde
Alessandra Gismondi
su uno sfondo bucolico, in
Melodies Of Cupido Island si
arriva a parafrasare la cover
dell'Electric Ladyland di Jimi
Hendrix (quella censurata). Fissando l'obiettivo su uno
stuolo di giovani, carine e senza veli - Gismondi compresa - ritratte in pose più o meno ammiccanti ed evidentemente domiciliate nell'isola di Cupido del titolo.
Viste le premesse ci accomodiamo volentieri sul Vascello, per un viaggio di una ventina di minuti che in teoria
dovrebbe unire new wave, psichedelia e musica d'autore
a un impianto ritmico sospeso tra funky, reggae, blues e
musica mariachi. Nella pratica le cose non vanno esattamente come dovrebbero, dal momento che se è vero
che in qualche maniera si porta a casa il risultato, è vero
anche che lo si fa con tanto mestiere e poca ispirazione.
Sfornando un prodotto equilibrato, elegante, ricercato
ma che fatica a lasciare il segno, nonostante i Calexico
in salsa Eightes di Sexchicsixtynine, le ritmiche in levare
80
della conclusiva Summer Of Love o i sussurri francofoni
del buon Gainsbourg di Un Jour Comme Un Autre.
Manca l'immediatezza. Quella che aveva reso Tales Of A
Memento Island un atto di passione e non una forzatura per quanto gradevole e raffinata - da artisti navigati.
(6.5/10)
Fabrizio Zampighi
Wavves - King Of The Beach (Fat
Possum, Luglio 2010)
G enere : hardcore melodico
Tempo d'uscire allo scoperto per gli shit-glo-dreamwaver
(chiamateli come volete) rivelazione dello scorso anno. Il
primo a fare outing è stato Neon Indian lo scorso maggio con Sleep Paralysts, e ora tocca a Wavves che prima
con Post Acid (giugno) e poi con l'album lungo King Of The
Beach, ha deciso di dare una sferzata professionale a una
carriera altrimenti in declino.
Il terzo album del -gazer più odiato degli ultimi tempi
segue le coordinate del singolo piazzando il nuovo corso sui binari dell'hardcore melodico e copia incollandoci
un pizzico di kitcherie Beatles periodo Mersey beat (nel
singolo e in Baseball Cards) e degli Animal Collective
ululanti (Mickey Mouse), il disco è comunque un trionfo di sonorità fine Ottanta inizio Novanta con il bravo
Dennis Herring (Modest Mouse, The Hives, Ben Folds,
Mutemath) a settare le chitarre potenti e vintage quanto
quelle del gruppo di Isaac Brock (Modest Mouse), e il
nuovo Wavves a plettrare, con il culo parato, un misto
tra i Nirvana più vicini agli Hüsker Dü (Super Soaker),
Dinosaur Jr (Take On The World) e, naturalmente, Pixies (Linus Spacehead).
E chiaro come il sole che Nathan Williams voglia riportare l'oltre punk rock all'interesse dei coetanei imbottiti
di sintetiche, i re però rimangono gli zii, e finché ci sono
loro, non può che ciucciarsi il calzino.
(6/10)
Edoardo Bridda
Wildbirds & Peacedrums - Rivers
(Leaf, Agosto 2010)
G enere : G oth , chamber
Rivers non è stato propriamente concepito come un
album. Raccoglie Iris e Retina, due nuovi eppì usciti in edizione limitata tra maggio e giugno, diversi per arrangiamento ma accomunati, come li descrive la stessa Miriam,
dal medesimo mood scuro.
Finita una spossante tournée durata due anni, la coppia voleva imprimere (e ricordare) le emozioni che ne
erano scaturite, riassumendone così il particolare spirito meditativo, delicato e dark: l'approccio è essenziale, il
rivestimento dei brani affidato a due nuovi e suggestivi
scenari come la chiesa e il coro di Reykjavík (per Retina),
e il missaggio e produzione del "nuovo Fennesz" Ben
Frost assieme a Valgeir Sigurðsson (per Iris).
Il risultato è una scrittura che rimane sempre un po'
improvvisata. In Iris, accompagnata dal suono acquatico
della steel pan, la voce della - persiana d'origine - Wallentin oscilla tra tradizioni black (The Wave) e lievità folk
(The Drop), ricordando dei Beach House più arty e teatrali senza però eguagliarne vena e ispirazione. Dove
manca quest'ultima, come ad esempio in The Course, i
Wildbirds and Peacedrums rimediano egregiamente in
duttilità, gusto arrangiativo e spettro di pose canore, affidandosi magari al produttore che aggiunge, in questo
caso, un po' di magia Múm nel canovaccio. Discutibili
invece le scelte arrangiative di Retina, eppì dedicato alla
rifrazione della luce, dove il binomio siderale/gotico tra
Miriam e il coro funziona soltanto quando quest'ultimo
rimane sullo sfondo (forzato pertanto il call and response di Fight For Me).
Critiche di contorno a parte, sono due prove di transizione e la media generale le promuove senz'altro.
(7/10)
Edoardo Bridda
Wolf Parade - Expo 86 (Sub Pop,
Maggio 2010)
G enere : I ndie big sound
Se in questi anni vuoi suonare indie rock ricavando qualche soddisfazione non soltanto morale, le alternative a
disposizione sono poche e certe. Alcuni suggerimenti:
1) scopiazzare classici del post-punk approfittando della
gioventù senza memoria; 2) stupire quegli stessi giovanetti costruendo brani "combinatori" dove mescoli di
tutto e di più; 3) darti al suono denso e imponente, per il
quale essere canadese non è necessario ma aiuta.
Per la formazione guidata da Dan Boeckner e Spencer Krug è valsa nei primi due album la terza opzione,
mentre ora, giunti al terzo disco dopo una serie interminabile di progetti paralleli, la questione si ingarbuglia. Perché se la durata dei brani - in media sui cinque giri d'orologio - e l'incedere a cuore spalancato (gli U2 dell'era
War aggiornati con la straziata cupezza degli inarrivabili
Arcade Fire, peraltro di costoro amici e collaboratori:
si vedano le vigorose Yulia, Little Golden Age e Palm Road)
fanno sovente mostra di sé, altrove i brani si contorcono
in passi teatrali (In The Direction Of The Moon), producono
dei Gun Club strafatti di estrogeni che corrono spediti
(Cloud Shadow On The Mountain), scivolano su una pompa da underground rovinato all'arrivo in alta società (le
orrende tastiere che sbucano da ogni dove e affossano
Ghost Pressure).
Il risultato di sparare in troppe direzioni, di solito, è che
alcuni proiettili possono finire per piantarsi nei piedi del
tiratore. Così ti spieghi mosse encomiabili benché irrisolte (Pobody's Nerfect oscilla tra epica e graffi da rock
urbano a stelle e strisce), oppure altre che puntano in
alto e svengono dalla vertigine (Two Men In New Tuxedos
degli Sparks possiede soltanto la buccia: assai più a fuoco la conclusiva Cave-o-sapien; lo stesso dicasi di Oh You,
Old Thing con Gary Numan…). Expo 86 lascia in dote
domande e dubbi, mentre i suoi artefici pagaiano per
giungere a riva. Da dove li osserviamo con un misto di
affaticamento, perplessità e frenato piacere.
(6.6/10)
Giancarlo Turra
Zs - New Slaves (Social Registry
(The), Maggio 2010)
G enere : M inimal P unk
I sentori di una metamorfosi c'erano già stati nello scorso Music Of The Modern White, quando nella musica degli
Zs si era instillato violentemente un morbo elettronico
frutto di nuovi strumenti, massicce rielaborazioni in studio e un inedita attitudine free-form che poco aveva a
che fare con la reputazione di minuziosi calcolatori che
la band aveva sino allora.
In seguito alla dipartita di
Charlie Looker - che se n'è
andato per curare i suoi
Extra Life - e cambiata
l'etichetta, New Slaves continua per quella strada con
quasi 70 minuti di microvariazioni punk e manipolazioni elettroniche alternando brani scritti individualmente da ogni componente della band a due lunghe tracce,
Acres of Skin e New Slaves .
Introdotta dal carillon ipnotico di Black Concert, la prima è una sorta di gamelan: primitivi ritmi di mani che
si mescolano ai suoni metallici delle chitarre elettriche
trasformate in percussioni. La seconda fa anche meglio,
rappresentando in pieno i nuovi Zs, venti intensissimi
minuti lungo un un labirinto psichedelico fatto di cambi
repentini, finte ritmiche, fraseggi interrotti (e richiamati
inaspettatamente).
Ecco gli Zs potenziati al loro massimo: Master Musicians Of Joujouka di loft elettrificati.
(7.3/10)
Leonardo Amico
81
— live report
Primavera Sound Festival
B arcelona (29 M aggio )
Come dicevamo nel live report di Dissonanze, anche il
Primavera Sound arriva trionfalmente alla decima edizione, e lo fa con ben altri numeri e sorprendentemente
ancora senza l’aiuto di facili marchette. Quelle che invece sono da sempre il pane quotidiano di gran parte della
concorrenza, a partire dai grandi Festival inglesi per arrivare al nostrano Heineken Jamming. Il popolo dei jeans
e delle sneakers che il mercato manco considera (e che
in Italia si ritrova ancora in qualche club illuminato semplicemente perché esistono ancora impresari disposti ad
andare in perdita) totalizza in un posto come il Forum di
Barcellona una massa impressionante di presenze, tanto
che viene da chiedersi come avranno fatto gli organizzatori ad aggregare più di centomila persone sublimando
un trend crescente e senza i soliti Muse, Black Eyed Peas
e Green Day.
Il segreto è stato, ancora una volta, intersecare lo spirito
dei tempi (il mood dell’attuale generazione) con il marketing, capendo in primo luogo che nell’era di internet,
diversamente da quanto accadeva ai tempi dei Nirvana, il
mercato discografico è composto da un’innocua miriade
di pescetti alienati che sommati possono spostare grossi numeri, magari sotto il vessillo intergenerazionale del
post-punk. Il resto poi, è tutt’uno con il contesto: un auditorium all'altezza, una location adatta ai grossi numeri
e una città come Barcellona che t’accoglie come nessuna
città Italiana potrebbe fare.
Dunque una decima stagione trionfale in termini d’incassi e forza innovatrice ma anche un’edizione che ine82
vitabilmente paga pegno da certi punti di vista: le lamentele dei frequentatori storici per la mancata possibilità
di tracciare la solita maglia di frecce e freccette tra un
concerto e l’altro (meglio decidere di volta in volta quale live-set abbandonare a metà per non perdere l’altro
in contemporanea); un po' di nostalgia per le vecchie
edizioni, in cui un concerto nel palco dell'ATP - da circa
cinquecento persone - non era una calca assurda; la perdita di lungimiranza nello scouting di nuove leve a cui si
è preferita una consolidata politica di riconferme (vedi
Shellac, Polvo, cricca Animal Collective, Wilco, Built
To Spill ecc.); l’assenza della più attesa reunion dell’anno,
i Roxy Music, finiti invece al Sonar (risorto quest’anno
nella doppia veste catalana/galiziana); la cancellazione degli altrettanto mitologici - per i cultori dell'elettronica
- Seefeel.
La manifestazione non ha comunque mancato di sfoderare i contatti più influenti, mettendo nello stesso cartellone due pezzi da novanta di diversissima estrazione.
Da un lato i riformati - dal 2008 - Liquid Liquid, la
cui performance ha ricordato a tutti – e non ce n’era
bisogno – di quanta farina del loro sacco ci fosse dietro
alle produzione funk/dub di DFA / Lcd Soundsystem
e !!!, quanto il basso slappato di Richard McGuire anticipasse di fatto il crossover tutto (Red Hot Chili Peppers,
Primus, Living Colour, Rollings Band…) e come si possa
passare agilmente da un canto No Wave a una festa irresistibile di percussività secchissima. Dall'altro la cara
e vecchia America di una volta tra Gershwin e ragtime
di Van Dyke Parks (l’uomo dietro al mito dei Beach
Boys) accompagnato da tre membri dei deliziosi - e un
pixies al Primavera
tantino troppo canonici - Clare And The Reasons. In
pratica, l’arrangiatore ideale per tanti contemporanei, tra
cui i qui presenti Grizzly Bear la cui performance ha
avuto qualche problema per via della dimensione lirica
del quartetto non proprio compatibile con la fame di ritmo del pubblico dell’anfiteatro.
Pollice verso inoltre per le Cocorosie, inadeguate quanto i citati newyorchesi e per gli stessi motivi; fastidiose
le Slits, con Ari Up convinta di aver davanti i rasta del
Rototom Sunsplash in un deludente set reggae dub con
tanta retorica e bassissimo tasso punk; pessimi gli Orbital, partiti bene con Satan e finiti a scimmiottare gli
anni Ottanta (!); antipatico l’egocentrismo e l’eccesivo
struggimento magic folk di Florence, a piedi nudi con la
The Machine a pomparle dietro; inutili gli autocelebrativi Major Lazer; impiegatizi i Pixies dopo cinque anni
di reunion; un po’ tronfio il crooning di un emozionato
Marc Almond; pretenziosa la posa avant, con il classico
abbinamento laptop+chiarra, di Panda Bear.
Promosso invece Owen Pallet, con il suo violino pizzicato, i campionamenti live assortiti, la cover di Caribou
(Odessa); semplici ed efficaci gli XX che a Barcellona trovano la giusta via espressiva tra le proverbiali insicurezze; spassoso il glo e surf rispettivamente di Delorean
e Drums (trionfo per Let’s Go Surfing; divertentissimi
balletti onstage); ottimi gli inserti suonati da in The Field;
ritrovati i Superchunk; attesissimi e inevitabilmenti classici i Pavement, in un best of tra i più applauditi (e cantati) dell’intero festival.
Spassoso, inoltre, il concerto/spettacolo dei Pet Shop
Boys con scenografie coordinate tra ballo, video e abbigliamento unito dal doppio tema eighties e pixel, in un
83
wilco al Primavera
unicamente artisti che su queste pagine sono stati destinatari di spot e approfondimenti, gente che rappresenta il melieu e la crème internazionale dei generi di
riferimento per tutta la stampa di settore, da Pitchfork a
Wire, passando per Resident Advisor. Parliamo di Gonjasufi naturalmente, ma anche del talking blues di Gil
Scott Heron, del soul e dell’r’n’b appena elettrificato in
bianco di Jamie Lidell, il funk targato DFA del buon
Tim Sweeney, il chiacchieratissimo e hypatissimo messicano Neon Indian - per non parlare di tre dei più inteEdoardo Bridda ressanti emergenti già oltre il dub step, ovvero Martyn,
Shackleton e un fuoriclasse della battuta creativa che
risponde al nome di Kevin Martin. Il festival capitalizza e
Dissonanze
monta capitali soprattutto con act da ballo veri e propri,
P al azzo dei C ongres si , R oma (21-23
quelli che ti riempiono la sala principale del fedele PalazM aggio )
Dissonanze numero 10. Guarda caso lo stesso numero zo dei Congressi - ormai sede fissa, marchio di fabbrica e
di edizioni raggiunto dal Primaverasound 2010. Non è a quadrifoglio di Dissonanze, da qualche edizione a questa
caso che citiamo l’happening indie più famoso d’Europa, parte. E, anche qui, non ci si è limitati a dare in pasto il dj
perché, se in dieci anni di chitarre il festival barcellonese alla massa: sotto due casse che fedeli e potenti che non
ha plasmato l’audience indie dei ’00, lo stesso si potrebbe hanno equivalenti in tutto lo stivale, si sono esibiti prima,
dire di quello italiano per le elettroniche. Una sorta di in riscaldamento pre-techno, il trio di Moritz Von Oswald
Sonar de no’ artri, che, come tutti i festival nostrani, ha (tre che se li chiami vengono e sono sempre un piacere
una connotazione e un target tutt’al più nazionale. Eppu- averceli attorno) e l’elettro artica di Pantha Du Prince
(quello che con Black Noise ha portato al Polo Nord le
re, che festival, e che cartellone.
Quest’anno gli organizzatori ci hanno presentato quasi intuizioni di Apparat, senza per questo suonare meno
gioco di specchi d’ironia queerness. Cool – è il caso di
dirlo - il set di Cold Cave con i loro synth revival del
suono di Sheffield e Manchester e coriacei pure i nuggettari Thee Oh Sees.
Pochissime le performance veramente memorabili, che
comunque non sono mancate: Mission Of Burma,
Shellac - ma di loro vi dicemmo già gli scorsi anni - e
soprattutto Beach House, decisamente al massimo della forma e ispirazione. Quest'ultimo, a pensarci bene, il
concerto da annali del Primavera.
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ibizenco); poi, in direzione djing puro di marca minimal
berlinese, una schiera di androidi cresciuti a pane e Richie
Hawtin, ovvero Troy Pierce, il giovanissimo Barem e il
filologico Seth Troxler.
Naturalmente al festival c’è Re Hawtin in esclusiva con
il mastodontico show Plastikman, quello fischiato al
Time Warp - altro festival europeo capitale per il ballo.
Una torre di led attorno alla quale l’uomo, dietro alle
sembianze del suo moniker detroitiano, sprigiona tutta la dark side che sapientemente ha forgiato durante i
Novanta, spremendola tra l’altro da un altro grande che
proprio il giorno dopo fa da headliner del Festival, il Sig.
Jeff Mills, il coloured dietro agli anelli di saturno, l’afrofuturista chiave del mitologico collettivo Underground
Resistance, in pratica l’essenza Techno in persona. Poi,
non tralasciamo Marco Passarani, che per l’italia è il
dj house (ma anche techno) di nuova generazione più
capace e intelligente della scena e, last but not Least, per
la curatela delle cosiddette avanguardie, c’è il Bramante,
anche quest’anno luogo di sperimentazioni e riverberi
tosti con nomi eccellenti come Ben Frost a riprendere
le fila del discorso Pan Sonic, Sunn O))) e Fennesz e
prezzemolo Nico Vascellari con Niños Du Brasil, nuova
trovata che riecheggia pratiche tropico-tribaliste tanto in
auge.
Dissonanze 2010 ci ha regalato dunque la sua lineup migliore, mostrando senz’altro (e ancora una volta) la funzionalità del Palazzo per le esibizioni rave e mettendo,
al solito, un po’ più in difficoltà gli artisti dell’ala più oltre cassa, confinati parte nel tetto dell’edificio e parte
nell’infausta (per acustica e volumi) Foyer Aula Magna. La
forza del Sonar, fin quando si teneva solo a Barcellona
(quest’anno anche A Coruña in Galizia) era nella varietà
di location tutte piazzate dentro la città vecchia, il principale difetto di Dissonanze sempre il medesimo: sole e
terrazze di marmo potrebbero non essere il massimo
per lupi notturni come Kevin Martin e i suoi King Midas Sound, un progetto in partenza non proprio da live
e qui risoltosi in loffio karaoke dei due singer sopra le
basi sparate e portentose della mente dietro a The Bug.
Niente a che fare con un disco che si basava proprio sullo
smoothing rarefatto, più che sull’attacco sonico.
Sempre nel terrazzo, Gonjasufi e Gaslamp Killer non
hanno questi patemi d’ambiente, piazzano uno di quegli
show auotoparodistici per il puro gusto di sabotarsi. In
sala gli addetti parlano di un’idea di quintetto per il buon
maestro yoga prevista per quest’autunno (al rampante
festival Robot di Bologna? Vedremo…), ma con il compagno di merende la storia è tutta un’altra e suona come
guardare il telefilm Novanta Wayne’s World: Gaslamp tritura basi trash di Queen, Black Sabbath e co., sulle quali
Gonja mastica il tipico anti-rap che solo lui sa. Calato il
sole e abbandonata l’idea del set elettronico, ecco che a
Dissonanze si apre un sipario tutto suonato e tutto black:
dal blues senile (ma fascinossimo) di Gil Scott-Heron
(in elegante quintetto) si arriverà alla parodia involontaria della The Phenomenal Handclap Band, gente
che suona esattamente seguendo alcune coordinate di
moda ora: imitare pedissequamente un suono andato e
goderne morbosamente gli aspetti kitch (vedi anche alla
voce Ariel Pink). Per loro c’è disco music come per gli
Yeasayer c’era il synth pop; poco prima, e per chi piace,
Jamie Lidell, altro esperto – ma più raffinato - di ballo e
black, si è dimostrato una volta di più quel bianco dagli
occhi blu che canta come un nero, Sessanta e Settanta,
Aretha e James compresi.
Tornando al cuore della proposta elettronica del festival, due risultati opposti per Shackleton e Martyn,
entrambi nel Foyer. Il primo coinvolge e convince la sessantina di astanti con un mix tra layer lisergici e battuta
frastagliata, memore degli scrosci e degli aspetti urbani
del dubstep, ma ben oltre i cliché. Lontano dai Three
Eps, il ragazzo, un bel po’ nerd con quei baffetti, è tutto
per una trance acida e perciò abrasiva, tenuta con buona mano e coraggio fino alla fine. Martyn invece, basetta,
capello moro laccato e orecchino, rischia ancora di più e
fallisce, proponendo ai perplessi eterosessuali presenti in
sala un mix tra battuta spezzata e una girandola di Ottanta trash, da Belinda Carlise a Madonna passando per
certe cose veramente off che non stiamo a ricordarvi. La
pista di svuota e il nostro s’incazza finendo per sbraitare
ultrasuoni ai pochi rimasti. Bastava forse suonare come
faceva nel Fabric 50, no?
E veniamo al Palomo più chiacchierato del momento: i
Neon Indian dal vivo sono quattro che, se da una parte ci fanno parlare ancora di Ariel Pink (la chitarra live
è esattamente presa dai suoi album di inizio Duemila),
convincono con armi inattese e curiose: sotto il pestare
della batteria rockish e delle tastiere invisibili della ragazzetta, Palomo sfasa il canto campionandosi dal vivo e
cantandoci, facendo un playback di sé stesso. La band è
spassosa, tutti vestiti in quel misto di Ottanta e stranezza
a tutti i costi a seguire i ricordi di clip fagocitati da YouTube (qualcuno parla dei Tears For Fears e sarà, sì…). Il
concerto è sia una perdita di tempo, sia uno show dal
discreto fascino.
Toni in sfumatura di grigio che sono banditi nella pista
principale, il Salone della Cultura, dove tutto è stato
trascurabile (compresa forse la performance del Von
Oswald Trio, trattato a inizio serata a mo’ di tappezzeria)
tranne Plastikman. Richie Hawtin ha senz’altro superato
se stesso con quest’idea di dj superstar girata al negativo.
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Gli occhi degli astanti sono storditi dal light show che
forma un cilindro di luci attorno al dj completamente occultato. Dj che è presenza oscura, deus ex machina di un
piano malvagio che soltanto chi gode del proprio bad trip
può veramente apprezzare. Le critiche però non mancano: trenta e passa mila euro di cachet non giustificano
un mix poco armonizzato nelle parti in decompressione,
ma, a parte questo, sentire chicche come Spastik, Kriket,
oppure una Krakpot in quel bombardamento sensoriale è
veramente l’esperienza euro techno definitiva, specie se
vissuta nella Roma post-moderna con i figli dei gladiatori,
le loro sigarette al posto delle spade, la stanza a riempirsi
di gas fumogeni con ricordi ancora più terribili. E’ così
che l’utopia del futuro apostolata da Detroit si è scontrata con la realtà: è successo nei Novanta e riaccade nel
2010 con la stessa paradossale forza.
Esperienza sociologica per Plastikman oltre che sensitiva,
spettacolo per osservatori partecipanti, setting che il set
di Jeff Mills non godrà né per pubblico né sonicamente.
Sarà che il venerdì è sempre stato il giorno più gettonato
di Dissonanze, che i ragazzi si sono spesi tutto, che alle
cinque quando gli hanno spento la musica erano ancora
al massimo dell’adrenalina, eppure il set di sabato, troppo
perfetto, troppo cristallizzato nel suo tempo non regala
gli stessi scossoni di un imperfetto Hawtin – che sul rovescio della medaglia è un pur sempre un grande Plastikman.
Edoardo Bridda, Gaspare Caliri
Pavement
E stragon , B ologna (25 M aggio )
E' un pò come in quelle riunioni con vecchi compagni di
scuola. Ci incontra dopo anni, si ride, si scherza, si scopre
che si è tutti ancora fantastici come quando ci si frequentava. Poi però la vita chiama e nessuno rinuncerebbe a un
pezzetto della propria in nome dei vecchi tempi.
Ecco come la vedo io la reunion dei Pavement. Al di
là dei risvolti economici, che ci saranno pure, ma non
stiamo certo parlando di un gruppo di multimilionari in coda ad incassare royalties. L'Estragon stasera è pieno, non esaurito, ma il calore con cui il pubblico riscalda Malkmus e soci parla più dei numeri.
L'ultima volta li vidi circa undici anni fa, a Modena, pochi giorni prima che l'irrequieto Stephen esibisse un paio
di manette di fronte ad una Brixton Academy sbigottita, decretando di fatto la fine della band. Credetemi se
vi dico che quasi nulla è cambiato. Siamo cambiati noi
magari, il mondo sicuramente. La magia che si respira
questa sera, invece, è proprio quella di allora, con Stephen Malkmus svogliato slacker ultraquarantenne e gli
altri che cercano di interpretarne ogni bizza: Nostanovich carica il pubblico a dovere lasciandosi andare a spasmi e grida su Conduit For Sale, West è attento e preciso
come un ragioniere alternative, Ibold sorride beato con
l'eterna faccia da adolescente che lo contraddistingue.
La coppola che Kannenberg porta in testa è l'unico segno
evidente del tempo trascorso. E' lui che tiene più di tutti
a questa reunion e si vede, la sua emozione traspare sin
dalle prime battute. Sulla coda strumentale di Stop Breathing riesce perfino a strappare la scena, ritirandosi in un
angolo, togliendosi le scarpe e lanciando i calzini al pubblico. E' il massimo della ritualistica rock'n'roll che ci si
può attendere dal lui. L'Estragon comprende e gradisce.
I Pavement hanno sempre saputo suonare meglio di
quanto abbiano mai desiderato dar a vedere e oggi la
cosa è ancora più evidente. Improvvisano, vagheggiano, partono per la tangente, ma al momento opportuno (sui cori di Debris Slide, ad esempio, o nella catarsi rumorista di Summer babe) colpiscono compatti.
Un'esibizione generosa la loro: 27 brani che pescano da
tutti gli album e fanno fare la parte del leone a Slanted And Enchanted e Crooked Rain. Al termine dei bis,
alla fine di una bella versione di A Date With Ikea, Malkmus si lancia a peso morto su Steve West, franando sul
drum kit. Pare che tutto sia finito e invece c'è ancora
tempo per un rientro sollecitato a gran voce (con Kannenberg che si lascia scappare un "...so much better than
Rome...") e una Range Life che manda via tutti a pancia piena. Compreso il sottoscritto, che non chiedeva molto al
suo gruppo preferito e, a conti fatti, può dirsi soddisfatto. I ragazzi hanno mostrato ancora di divertirsi a saper divertire, facendo passare in secondo piano la malinconia
connaturata a questo tipo di evento. Ora però ognuno
per la sua strada, per favore, ché di patetiche reunion
permanenti in stile Pixies non ne abbiamo davvero bisogno.
Diego Ballani
Wu Ming 2
C inema T rieste , V iterbo (5 M aggio )
pavement
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pelle la doppia identità di figlio mezzosangue e strenuo
oppositore del regime nazi-fascista fino alla morte appena ventiduenne, avvenuta per mano nazista a guerra
praticamente finita.
Figura complessa e sofferta, tanto quanto di rara bellezza e di impegno civile in prima persona che non poteva
non appassionare chi del disseppellire storie come asce
di guerra ha fatto un impegno oltre che uno stile di vita.
Nasce così, da una comunanza di vedute e interessi, oltre che da un feeling “d’opposizione” al pensiero unico
dominante, questo reading intenso tanto narrativamente,
quanto eccitante da quello squisitamente musicale. Se la
voce di Wu Ming 2, allenato ormai da anni di reading militanti (tra tutti Pontiac. Storia di una rivolta e Anni di merda),
risuona stentorea e coinvolgente con quella influenza bolognese che crea da subito empatia e partecipazione, è la
band che lo accompagna a sorprenderci. Un vero e proprio parterre de roi dell’indie italiano: la sezione ritmica
dei Settlefish (ovvero Paul Pieretto al basso e Federico
Oppi alla batteria) metronomica e mobile, ora rock, ora
jazzata nel contrappuntare il lavorio delle due chitarre
dei Massimo Volume: un Egle Sommacal padrone
dello strumento e perno delle musiche, e uno Stefano
Pilia più che mai attento e sicuro scultore di suoni.
Stupisce l’affiatamento tra i quattro, considerando anche
che lo spettacolo è alle prime uscite: se l’influenza, o meglio l’ascendenza, è ovviamente quella delle band di origine,
complice il contesto altro rispetto al canone del concertorock e la voce di Wu Ming – mai relegata a mera voce narrante, ma piuttosto vero e proprio “cantato” in modalità
declamatoria – l’estemporaneo quintetto si muove sul crinale di certo post-rock evocativo e cinematico per poi deflagrare in movimenti più propriamente rock. Background
invidiabile e curriculum a dir poco illustre, messi al servizio
di una sentita vicinanza con il cuore della vicenda narrata,
ci hanno regalato una memorabile serata. Per chi se la fosse persa, il cd di Razza partigiana sarà allegato al numero di
mag-giu della rivista Loop. Consigliatissima l’esperienza dal
vivo, ma anche l’ascolto della versione digitale o la visione
dell'intero spettacolo su ArcoIris, siamo sicuri ci regalerà
le doverose emozioni.
Stefano Pifferi
Momento centrale dell’intero programma del Festival
Resist, Razza Partigiana. Storia di Giorgio Marincola è il reading-concerto di Wu Ming 2 che prende le mosse oltre
che il titolo da un bellissimo libro di due giovani autori,
Carlo Costa e Lorenzo Teodonio sulla figura del partigiano di origine somala Giorgio Marincola. Eroe paradossale
della resistenza italiana, costretto a vivere sulla propria
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Gimme Some
Inches #7
Solchi di vinile e cassette questo mese
per Oneida, Pains Of Being Pure At Heart, U.S. Girls, Squadra Omega, Pterodactyl.
Scorpacciata di uscite electropunk questo mese, a partire da un 12”
pubblicato dalla romana Mannequin in
cui si incontrano due gruppi apparentemente lontani ma, allo stato dei fatti,
con più di un tratto in comune. Parliamo della collaborazione tra i newyorchesi Led Er Est, del cui album Dust
On Common abbiamo già parlato, e
dei capitolini Ancien Régime. I primi li conosciamo e qui confermano la
loro padronanza del verbo dark-wave
in chiave elettronica (con tanto di cover di Darkness In My Soul dei Solid
Space); i secondi propongo un indierock dai toni dark riarrangiato in chiave cold-wave. La batteria viene sostituita da robotiche drum machine e il
basso acquisisce i necessari riverberi
per poter duettare coi i paladini su
Wierd. La lussuosa edizione in vinile
con serigrafie su carta lucida aggiunge
un tocco di classe all’uscita che potrà
solo fare la gioia dei fanatici di questi
algidi suoni.
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Sempre a NY nasce una nuova etichetta, la Blind Prophet di Sean Ragon,
main man del progetto neo-folk Cult
Of Youth. Come prima uscita la label
sceglie i Void Vision da Philadelphia,
duo minimal-synth con voce femminile che rilascia un singolo con due pezzi
da manuale; per chi ama gli ’80 e non
solo. Salendo a Nord, in territorio canadese, troviamo la seconda uscita di
un’ulteriore neonata etichetta, la No
Vacation di Brett dei Pink Noise,
sister-label di quella Campaign For Infinity di cui accennammo il mese scorso parlando della tape degli Horrid
Red. Così, dopo il side project, anche
il gruppo principale beneficia di una
nuova uscita. Here Come The Warm
Tanks è un 7” di quattro pezzi in cui
i Teenage Panzerkorps ribadiscono
la loro semplice quanto efficace ricetta di post-punk teutonico in salsa lo-fi;
menzione d’onore per Christian Homes, il pezzo più riuscito del lotto.
Tornando nel Vecchio Continente troviamo ad accoglierci un paio di
piacevoli sorprese. Dopo lo split con i
fratellini The Dreams, i francesi Scorpion Violente arrivano alla prima
uscita su 12''. Rome Violente, pubbli-
cato dalla parigina Bruit-Direct, è un
EP di tre tracce per tre diverse facce
del duo di Metz. La title-track è una colonna sonora da film horror anni '70
di serie Z; Mi Pute Mi Soumise un'ossessione simil-industriale; Ich Kann
Nicht una marcetta per un'apocalisse
non seria. Se questo non bastasse, la
copertina con Maurizio Merli vi toglierà qualsiasi dubbio. Gli stessi Dreams del resto sono da poco tornati
dal primo tour americano per il quale
hanno dato alle stampe un nuovo 7”
su Rococo: tre pezzi in cui il duo si
gioca le carte migliori, ossia post-punk
minimalista dagli umori etno-tropicali,
con batterie loopate, synth-giocattolo
e percussioni tribali.
In estate pare debba uscire il primo
full-lenght su Kill Shaman, ma per ora
ci pensa la paranoia di Afrikaner Dub a
tenerci compagnia. Sempre in Francia,
la neo label Atelier Ciseaux rilascia un
nuovo singolo per U.S. Girls in cui la
ragazza americana, ormai nota al pubblico out, confeziona due pezzi come
solo lei sa fare. Da segnalare la chiave
melodica (pur nella cifra stilistica) che
li contraddistingue e che ne sancisce la
buona riuscita; la copertina serigrafata
su carta riciclata, poi, ne impreziosisce
la tiratura di trecento copie.
Rientriamo nella penisola per un
paio di pubblicazioni tutte italiane. La
Ni**aville di Bologna, da poco ribattezzatasi Xhol Recordings, rilascia una
nuovo lavoro dei free rockers Squadra Omega, sorta di collettivo in cui
suonano, a seconda delle volte, membri di Mojomatics, Movie Star Junkies,
With Love e altri. Dopo Tenebroso, il
combo veneto torna con un ulteriore
12” inciso solo su un lato contenente una lunga jam improvvisata Live At
Outside Inside, l’ormai celebre studio
da cui prende il disco prende il nome.
Rispetto alla release su Holidays i toni
sono meno jazzati e più kraut, in continua alternanza tra estensioni dilatate
e cavalcate mid-tempo. La tiratura in
sole cento copie e l’artwork serigrafato invitano i fan della Squadra a correre all’acquisto. La seconda è Whispers,
comeback multi-supporto dei Tiger!
Shit! Tiger! Tiger! Previsto in cd,
cassetta e dwld, non solo è stato presentato al prestigioso SXSW di Austin
dove pare che i tre abbiano fatto fuoco e fiamme, ma mostra una notevole
maturazione nei quattro brevi pezzi
ben più articolati rispetto agli spasmi
no-wave che segnavano l’esordio. Qua
(Vv Fake) e là (Wheelers) riecheggia
un mood quasi dark, come dei Sonic
Youth cresciuti al Batcave. L’artwork
d’autore firmato Baronciani è una ulteriore chicca, perciò fate in fretta.
Riemergiamo
dall’underground
per segnalare due uscite di gruppi ormai stranoti: i Pains Of Being Pure
At Heart introducono l’upcoming
col 7” Say No To Love su Slumberland che gioca di classico: la title-track
e la b-side Lost Saint vanno di tweepop zuccheroso e iridescente come
degli Smiths calati in un immaginario
adolescenziale, tutto lirismo e melodia solare. Con queste premesse l’album previsto per agosto rapirà molti
cuori. Infine massimo rispetto per gli
Oneida. Amanti di collaborazioni e
formati minori, inaugurano la split series in 12” The Green Corridor della Altin Village dividendo i solchi con
i concittadini Pterodactyl. Prima di
gustarci i restanti piatti ricchi (previsti Xiu Xiu, Pit Er Pat, Women tra gli
altri), accontentiamoci della mezzora
equamente divisa tra gli ossianici miasmi ambientali (T.S.M.T.J.) e l’inusuale
drone-rock in overdrive (G.T.G.W.) dei
primi e le armonie tra lo-fi indie (I See
You), experimental-rock (The Neverenders) e weirdità assortite dei secondi.
Per gli Oneida in previsione un 12”
single-side per la citata Xhol. Come a
dire, tutto torna. Come la puntina del
giradischi a fine corsa.
Stefano Pifferi, Andrea Napoli
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Re-Boot
#6
Pout - pourri d 'I talie
Un rock cantautorale tinto di
wave e cantato in italiano propongono i lombardi Arancioni Meccanici (Autoproduzione, 7.1/10) nel
loro omonimo esordio, registrato
da Giulio Favero (One Dimensional Man, Teatro degli Orrori),
prima del quale c’era stato un demo
di 4 tracce nel 2005 i cui pezzi sono
qui contenuti. Il gruppo ha dalla sua una forte componente affabulatoria
che li avvicina ai CCCP anche per
una certa visione critico-sociale, e in
generale una base rock (punk new
wave 80) con influenze variegate che
vanno dai Doors ai Primal Scream, dai Litfiba ai Diaframma ai
Rolling Stones fino a un’attitudine
ironica che ci ricordato gli Skiantos. Una produzione eccellente e
molto molto promettenti davvero.
Ci spostiamo a Catania con i Wot
e il loro Handyman (Autoproduzione, 6.8/10), cantato in inglese e di
matrice essenzialmente indie rock
british (Blur, Franz Ferdinand)
mixato con gli ovvi Beatles e Rolling Stone, Kinks e il beat sixties).
Un range abbastanza variegato il
90
Un mese di ascolti
emergenti italiani
loro, reso con buona personalità e
un’impronta melodico ritmica che li
caratterizza fortemente, insieme a
una matrice prettamente live come
confermano: “Siamo entrati in studio
con l’intento di trasferire nel disco la
stessa energia e la stessa grinta che
mettiamo nei nostri live, volevamo che
il disco rispecchiasse la botta caciarona
che ci portiamo dietro nei nostri concerti”. Convincono.
Disciplinati e col freno tirato, ma
abbastanza evocativi da meritare
una citazione, i Miavagadilania li
avevamo incontrati qualche tempo
fa in una compilation della Canebagnato Records e li ritroviamo ora
al disco d'esordio a trafficare con
un post-rock/wave malinconico che
vive di crescendo e intrecci di chitarra.Tolta la didascalia formale della
parte musicale – realtà come i Flap
fanno di meglio pur citando la stessa
scuola di pensiero -, rimangono testi in italiano che sono tagliaecuci su
cadenze quasi prog (Scintille) nobilitati da uno stile vocale che potrebbe ricordare il Manuel Agnelli più
etereo. Il disco si chiama Il mare ci
salirà negli occhi (Autoproduzione,
6.0/10) e lo trovate parzialmente in
free download – solo i primi cinque
brani - al loro indirizzo web. La sigla
Hellzapop nasconde invece il progetto solista di Davide Cappelletti,
autarchico folgorato sulla via di un
elettro-pop che ha più di un punto
di contatto con le recenti derive tedesche, Notwist in testa. Due EP
alle spalle e questo Finchè la luce è
accesa (Discipline, 6.5/10) a definire
i confini di un immaginario da laptop
pulito e sognante a cui danno forma
anche alcuni special guests. Tra loro,
il Garbo di Amore su strade, il Mao
de La notte delle stelle di plastica, il
Lele Battista di Trasparente e il
Luca Urbani di Non c'è odio, tutti
chiamati a contribuire anche in fase
di scrittura, oltre che di esecuzione.
Il risultato è una musica che unisce
creatività e stile, equilibrio e personalità, evitando nel contempo di
suonare troppo artificiosa.
Il marchio di ennesimo epigono
di Tom Waits se lo meriterebbe
tutto Riccardo Ceres, secondo
classificato al Rock Contest 2009 di
Firenze che allo scartavetrato si vota
e rivota a volte finendo per farne il
calco. Eppure James Cunisada Carpante (Il Popolo del Blues, 6.8/10),
“Ronin del sud Italia” come lo definisce il suo autore, morde d'ironia e
aria malsana, con le sue storie da bar
metropolitano sciacquate nel whisky
di Fred Buscaglione. Decisamente
meno letterario del primo Vinicio
Capossela, sa però dire cose come
“...se potessi essere un oggetto vorrei
essere una tazza da gabinetto incastonata in un collegio femminile svizzero”.
Se ne andasse un po' da Pomona
tenendo anche a freno la vena grafomane – troppe quindici canzoni
– lo potremmo eleggere a nuovo
vate dello sbraco e del cappuccino
alle quattro di mattina. Ai Requiem
For Paola P. invece il merito di
un'autorialità rock mondata da ogni
ruffianeria e semplicismo. In Tutti
appesi (Autoprodotto, 7.2/10), la
tensione classica ma senza sbavature
dell'impianto chitarra-basso-batteria
viene messa al servizio di testi innervati da livide immagini metropolitane e lirismo rabbioso. Così certi
vigori corali e rotondità melodiche
suggeriscono una parentela con il
punk'n'roll di fine novanta, che fa di
Marghera e Mecanish due anthem da
commozione catartica e ribellione
sudata. Essendo al secondo lavoro
ma alla loro prima volta in italiano,
c'è da scommettere su di loro con
convinzione.
Le quattro tracce di Anima
Nera EP (Autoproduzione, 6.8/10)
ci raccontano che M'ors - al secolo
Marco Orsini - ha mezzi e argomenti
per poter dire la sua. Rock autorale
con l'anima blues, lo sguardo denso
e intenso di Cesare Basile, una
certa frenesia estatica Jeff Buckley,
l'impasto assieme claustrofobico e
liberatorio che deve qualcosa agli
Alice In Chains, memorie sparse
Bennato e persino - nel finale - una
scossa power pop come l'avrebbe
sfornata Battisti assieme agli Afterhours. Quanto a Dani Male da
Modena, è uno che s'è inventato un
mestiere: "cantautore traumaturgido".Vi risulta che ce ne siano altri in
giro? In compenso lui gira mietendo
concerti in trio o in solitario, elargendo recite psichedeliche da camera con la formula del "one man bed".
Ok, abbiamo capito che tipo sia il
tipo. Il suo album d'esordio Trauma
Turgido (Autoproduzione, 6.8/10),
raccoglie dieci quadretti squinternati in senso barrettiano, quindi annegati in una gelatina psych e farcito
di vaghe amenità demenziali come
degli Skiantos in overdose di benzodiazepina, oppure colti da estro sintetico canzonettaro come un nipotino lo-fi-pop e persino post-wave di
Zappa. Malinconia dissacrata, scazzo
esistenziale, insidiosa lucidità.
Ok, anche per questo mese è
tutto. Ci rimettiamo in ascolto.
Fabrizio Zampighi, Teresa Greco,
Stefano Solventi, Luca Barachetti
91
Rearview Mirror
—ristampe
highlight
Walter Gibbons - Jungle Music (Strut Records, Luglio 2010)
G enere : hyper - tribal disco
AA.VV. - Horo - A Jazz Portrait
Compiled By Gilles Peterson
(Dejavu, Giugno 2010)
G enere : jazz
Commissionate ad un DJ e collezionista jazz come Gilles
Peterson il ritratto di una label come la Horo, e può
uscirne un disco così. Eterogeneo e brillante, setoso
e sincopato, morbido e teso,
un po' come il catalogo della stessa Horo che - dal '72
al '79 - vide il proprio roster fregiarsi di calibri - solo
per dirne alcuni - quali Lee
Konitz e Johnny Griffin,
Sun Ra e Archie Shepp, nonché italiani del calibro di
Renato Sellani, Gianni Basso, Enrico Rava e Piero
Umiliani. Del resto, di etichetta italiana si trattava. Fondata a Roma da un regista cinematografico siciliano, Aldo
Sinesio, per il quale il jazz divenne una questione di stile
e rivoluzione. Rivoluzione del sentire, del vivere, del proporre al pubblico inediti che tenevano la barra sulla sperimentazione senza rinunciare al fascino e all'ebbrezza di
chi comunque voleva cambiare le cose.
Peterson è bravo a pescare nel repertorio tracciando
una traiettoria nella quale il suo gusto personale gioca a
rimpiattino con lo spirito della label. Spiccano una febbrile Moon Dance di Steve Grossman, la fascinosa pensosità di Enrico Pierannunzi con Polychrome e ovviamente il bailamme spacey di Sun Ra con The Satellites. Ma
92
nessuna traccia - a partire dalle sterzate latin/lounge di
Irio De Paula (Tropical) e Umiliani (Caravan) - è meno
che ottima.
(7.5/10)
Stefano Solventi
AA. VV. - Danza Meccanica
(Mannequin Records, Maggio 2010)
G enere : synth wave
Negli anni Ottanta, la produzione di musica italiana di qualità che rimaneva nascosta nell'autoproduzione o in circoli molto stretti sembra essere stata vastissima, almeno a
giudicare dalla quantità di ristampe più o meno furbe che
etichette specializzate e non stanno facendo saltare fuori
dagli archivi. Se la riscoperta di questo materiale è facilitata anche da una certa moda e dalla cosiddetta "coda lunga" della Rete, non bisogna però storcere il naso. Anzi, nel
caso di questa compilation di "italian synth wave", come
recita il sottotitolo, la qualità è alta e bisogna ringraziare
chi - in questo caso la Mannequin Records e la In The
Night Time - per aver riportato alla luce questi brani
di minimal wave, post-punk sintetico che il compilatore
Alessandro Adriani ha ripescato, con fare archeologico,
dagli scantinati italiani del periodo '82 - '87. Per intenderci:
i protagonisti della raccolta sono piuttosto oscuri e quando va bene avevano pubblicato un solo EP.
Tra le gemme troviamo l'incedere gotico di A Mortal
Song In A Beautiful Sunday dei Vena, l'avvolgente e krauta The Mutant Glow dei Victrola (entrambe inedite), la
struggente e solenne Flower Into The Factory di Tommy
Non di solo Studio 54 si viveva nella New York discotecara dei "70. Per assaggiare il futuro potevi recarti
al Galaxy 21 e sollazzarti con i set di Walter Gibbons. Non soltanto un maestro del giradischi (tra i primi
con Kool Herc a far girare due copie dello stesso vinile senza soluzione di continuità) ma pure un pioniere
dell'edit, ovvero del remix creato appositamente per la pista da ballo. Pratica oggi scontata ma al tempo no,
ottenuta guardando al dub e passando dall'espansione della mente a quella - più corporea e materica - del
ritmo: impiegando allo scopo bobine suonate durante le serate, così garantendosi (unico all'epoca tra i DJ)
l'accesso a registratori multitraccia. Nello specifico quelli appartenenti a Ken Cayre della Salsoul Records, per
la quale farà meraviglie inventandosi uno stile che, facendo leva sulle trame percussive, si guadagnerà il nome
di - ohibò - "jungle music'.
Dilatando il minutaggio alla decina di minuti e oltre, raggiungerà un'ipnosi tribale che lo rende pressoché unico
nel panorama contemporaneo. Ragion per cui la raccolta (che pesca tra classici e rarità con ottima mano) è
databile eppure mai datata per via dei dettagli subliminali di post-produzione, degli orgiastici gorghi di conga
e delle sincopi di cassa che aprono il fronte sonoro, di certi giochi
d'effettistica che risucchiano fino a far sprofondare dentro il magma
fisico del suono mantenendo un non so che di straniante. Modalità
che in seguito riprenderanno a decine e recentemente !!! (ascoltare
per credere Get Up On Your Feet di Tc James & The Fist O'funk
Orchestra) e LCD Soundsytem (la mostruosa Magic Bird Of Fire
intestata alla Salsoul Orchestra) e che indicano un produttore geniale nel piegare gli stereotip proprie esigenze (Bettye Lavette non ancora uscita dal giro dei club - in Doin' The Best That I Can è pura
metafisica iper-funk…), a trasfigurarli per lanciarsi nel vuoto.
Accadrà anche nel decennio successivo, allorché Walter incrocia sul
suo percorso Arthur Russell (qui presente con la favolosa danza
tra specchi e malinconico stordimento See Through, più il travestimento Dinosaur L del fluviale cosmic-funk jazzato Go Bang) e frequenta il Paradise Garage, seguitando a immaginare il domani. Ad esempio in una Set It Off di Strafe tutt'uno
di febbri electro, memorie disco e carne viva post-punk che accennano la house. Walter avrà ancora tempo
di far breccia, non senza difficoltà, nella fiducia del ritroso Russell per supervisionargli tra il resto Let's Go
Swimming e benedire gli Stetsasonic (chiamati a testimoniare con 4 Ever My Beat), prima di abbracciare la religione a metà decennio. Non smetterà di frequentare la consolle, svoltando però logicamente verso il gospel.
Operazione sensazionale e al solito curatissima della Strut, questa, che fa luce su un visionario da (ri)scoprire,
purtroppo strappatoci nel '94 da una malattia. Da mandare a memoria, per capire da dove arriva l'oggi.
(7.8/10)
Giancarlo Turra
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De Chirico. È però solo
con il riferimento esplicito fin dal titolo di On The
Dancefloor dei Janitor Of
Lunacy che si aprono vagamente le danze, perché si
citano esplicitamente i Public Image Ltd. di Albatross: basso dub pastoso per un ritmo dilatato e ipnotico.
Modernissima Loneliness degli Intelligent Dept. (di cui
la Mannequin Records, si legge nel booklet, si impegna
a pubblicare la collezione completa delle loro canzoni)
in cui sono la voce femminile e il sassofono a dettare le
ariose aperture melodiche. Rispetto all'iniziale edizione
in 500 copie su vinile del 2009, questa riedizione in cd
(comunque in mille copie) si arricchisce di ulteriori tre
brani (di Victrola,Tommy De Chirico e Janitor Of Lunacy)
che non fanno che ampliare il piacere della scoperta.
(7.5/10)
Marco Boscolo
Kleenex/LiLiPUT - Live Recordings,
TV-Clips & Roadmovie (Kill Rock
Stars, Maggio 2010)
G enere : post - punk
Continuano a riemergere senza sosta pezzi di underground storico che ci permettono di ricomporre il mosaico delle origini dei suoni wave e post-punk. Stavolta è
il turno di Live Recordings,TV-Clips & Roadmovie,
titolo più che esplicativo per questa compilation dedicata all'ennesima misconosciuta gemma del sottosuolo
wave: la female-band svizzera LiLiPUT, fino all'uscita dei
primi 7" nota come Kleenex. Doppio nome che non è un
vezzo, bensì una necessità imposta dalla nota multinazionale, forse preoccupata di veder offuscato il proprio importante brand dalle evoluzioni musicali dello scatenato
quartetto svizzero.
Questa compilation si aggiunge a quella edita quasi un
decennio fa sempre dalla KRS e che raggruppava praticamente quasi tutto ciò che l'instabile band zurighese
- cambi di formazione all'ordine del giorno, col punto
fisso di Klaudia Schiff (basso) e Marlene Marder (chitarra), coadiuvate da Regula Sing (voce) e Lislot Ha (batteria) - pubblicò in vita:
qualche singolo in vinile e
un paio di album per Rough Trade. Invece, il perno di
questo Live Recordings,
TV-Clips & Roadmovie
è come da titolo l'aspetto
live della female-band: nel
cd sono riportati ben due
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set interi - quello del 1979 al Gaskessel di Biel, ancora
a nome Kleenex, e quello del 1983 a Zurigo, con tanto
di brani inediti in programma - mentre nel dvd c'è la
registrazione invero vintage (a base cioè di super8) di
una sorta di roadmovie del tour europeo del 1983 e una
tripletta di video per ciascuna sigla.
La musica non si discosta dal milieu di riferimento
dell'epoca: post-punk scarno e minimale, tutto basso e
due accordi di chitarra, asperità e lo-fi attitude per quel
che riguarda il periodo Kleenex; dalle trame più corpose
e elaborate, quasi melodiche (emergono i B52's qua e
là, ma la base è tutto un Gang Of Four meets Raincoats) in quello successivo. Non un disco fondamentale,
ma un ottimo documento per comprendere il fermento
che montava anche nella periferia musicale europea tra
i '70 e gli '80.
(6.8/10)
Stefano Pifferi
Rearview Mirror
—speciale
Morton Subotnick
Non puoi rivivere il futuro
Primo uomo a registrare un album di sola elettronica, nel 1967. Da allora, la carriera di Subotnick è proseguita nella conferma di un ingegno multimediale,
consegnato alla Storia e a essa destinato.
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Testo: Filippo Bordignon
Vi sono artisti strettamente associati con gli strumenti musicali che ne caratterizzano la produzione discografica: per il losangelino Morton Subotnick (classe
1933) il sintetizzatore Buchla ha accompagnato gli
episodi più celebrati della sua intensa attività compositiva, elevandolo al Parnaso degli ‘electronic pioneers’ ma
oscurandone magari, alle orecchie degli appassionati di
elettronica vintage, il prosieguo di una carriera lunga e
tutt’oggi prolifica (basti pensare alla brano The Other
Piano, presentato con successo un anno fa all'Other
Minds Festival di San Francisco).
Figlio di un’epoca in cui la sperimentazione andava
di pari passo col superamento della propria istruzione
accademica, Subotnick si è distinto non solo nelle vesti di massimo rappresentante del così detto Modular
Voltage-Controlled Synthesizer progettato dall’inventore Donald Buchla, ma come uno dei principali
esponenti della Musica Contemponea di matrice ‘colta’,
negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Compiuti gli studi musicali e affinata la tecnica come
concertista in trascurabili ambiti orchestrali durante gli
Anni ’50, agli inizi dei ’60 troviamo Subotnick insegnante
presso il Mills College di San Francisco. La passione per
la sperimentazione multimediale lo spinge ad associarsi con l'amico e musicista Ramon Sender oltre a una
manciata di poeti beatnik, colleghi (tra tutti nomineremo
la geniale fisarmonicista Pauline Oliveros) e personaggi attivi nel tessuto artistico westcoastiano, per fondare il
San Francisco Tape Music Center. Il Centro diviene
in breve crocevia per le fantasie artistiche dei suoi componenti, i quali vi tengono seminari e organizzano eventi
e happening, ricevendo grande risposta di pubblico e sospettosità dalle Forze dell'ordine. Le prime registrazioni
sonore del nostro risalgono a questo periodo: i 14 minuti di Mandolin (rintracciabile nell’Anthology of Noise
& Electronic vol.2, Sub Rosa) parlano il linguaggio di un
sound rumoroso e distorto, il risultato delle deviazioni
di una viola ‘acidizzata’ su nastro elettronico e ridotta a
un magma pulsante. Esaurita l'esperienza col Centro (’66
circa) Subotnick si sposta a New York, per diventare il
primo direttore musicale della Compagnia Lincoln Center Rep, associata allo storico teatro Vivian Beaumont
presso il Lincoln Center. La prima metà dei ’60 lo consacra figura di spicco in ambienti quali la Tisch School
of the Arts (sorta di Dams newyorkese) così come nel
leggendario 'nightclub hippie' Electric Circus.
A consacrarne definitivamente lo status è però la
collaborazione con Buchla, il quale proprio nello stesso
periodo sta ultimando un sintetizzatore assai diverso rispetto a quello costruito dall’ingegnere Robert Moog
e portato al successo dall’allora Walter Carlos (‘Wen-
dy’, a partire dal ‘72) con le sue riletture della tradizione
a titolo Switched-On Bach. L’Electric Music Boxes
(come soleva chiamarlo ironicamente il suo inventore),
più che per le composizioni, si rivela strumento ideale nell’ambito della generazione di segnali acustici controllabili. Fino ad allora il controllo sul materiale sonoro
(dinamiche, timbriche, orientamento spaziale) si trovava a uno stadio larvale; furono svariati i musicisti che,
approcciatisi con entusiasmo al mondo dell’elettronica
l'abbandonarono repentinamente, a causa dei tanti limiti
di una tecnologia troppo difficile da gestire.
Dalla collaborazione tra Buchla, Subotnick e Sender
scaturì una nuova concezione dell’apparecchio elettronico, in grado di generare suoni non solo inesistenti ma
addirittura inimmaginabili. Senza troppo addentrarsi nei
dettagli tecnici diremo che i Synth Buchla funzionano
principalmente mediante tastiere metalliche sensibili al
tocco le quali, rilevando la variazione di capacità del tasto schiacciato, forniscono una misura riproducibile della pressione (trasformata in tensione), utilizzabile in vari
modi per controllare il suono. Le interconnessioni fra
i moduli del synth avvengono attraverso cavi colorati,
utilizzando inoltre due tipi di connettori per distinguere
i segnali audio da quelli di controllo.
Lo studio di Subotnick sulle possibilità della nuova
macchina incuriosisce i vertici dell’etichetta Nonesuch i
quali gli propongono la registrazione di un album di sola
musica elettronica; inizialmente Subotnick lo crede uno
scherzo ma, visionato il contratto propostogli accetta
con evidente entusiasmo, firmando così il suo primo e
più noto capolavoro.
Silver Apples Of The Moon (Nonesuch, ‘67) testimonia una piccola grande rivoluzione nel mondo della
musica contemporanea: primo album di sola elettronica commissionato da un’etichetta discografica, esso
sottolinea con la sua esistenza l’ufficiale consacrazione
di un genere pronto per lo sdoganamento alle masse e
trovare così, negli anni a venire, un numero in crescita
costante di estimatori e continuatori. Ispirato alla poesia di Yeats The song of wandering aengus (la stessa che,
guarda caso, suggerì nello stesso anno a Simeon Coxe e
Danny Taylor il nome per il loro duo di elettropop antelitteram, ‘Silver Apples’, appunto) l’album consta di due
soli brani, divisi dal vincolo del formato Lp ma che in teoria potrebbero sancire un unico segmento in costante
divenire. A stupire non è solamente la timbrica nitida e
originalissima, ma l’assoluta felicità compositiva; ciò che
a un orecchio non allenato può risultare figlio del caso
si rivela, a un ascolto consapevole, frutto di un disegno
strutturato ingegnosamente; Silver Apples... è manifesto
astratto di una fluidità in netto contrasto con le durezze
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dell’elettronica conosciuta fino ad allora: in un andirivieni
di immagini scoppiettanti fanno bella mostra ghirigori di
adrenalina artificiale, esibendo fin dai primi secondi un
gusto tutto ironico e lontano da certa musica ‘seria’ (responsabile di guardare ancor oggi all’elettronica pura con
sospettoso snobismo). Il lato B parte investigando le possibilità dei loop, potendo vantare un modulo sequencer
che permette un controllo dell’elemento sonoro davvero
pionieristico. Colpisce inoltre il godibile feeling ritmico, in
contrasto con le architetture taglienti delle esperienze
‘concrete’ e l’astrusità dello Stockhausen elettronico
di Gesang Der Jünglinge (che comunque si avvale di
voci umane).
L’oltranzismo strumentale di Subotnick ha però nel
successivo The Wild Bull (Nonesuch, ‘68) un esempio
maggiormente estremo. Rifacendosi a una poesia sumera
del 1700 a.C. egli consegna alle stampe un lavoro enigmatico e più oscuro del precedente. È questa (o almeno
sembrò al tempo) la perfetta fusione tra compositore
ed esecutore riuniti per dar forma, in presa diretta, a
un’opera di cui si conoscono i parametri ma non esattamente il risultato finale. Più che i glissando – forse un
rimando ai muggito del toro – va evidenziato il controllo
sul materiale sonoro, unitamente a una precisione metrica e a una comprensione contrappuntistica ben superiori
al semplice mestiere.
Per Touch (’69) si decide per un cambio di etichetta:
la Columbia/Cbs investe sul mercato degli hippie, musicando così le allucinazioni della ‘nazione underground’
con ben 40.000 copie vendute di un album che, per stessa ammissione del suo ideatore, si rivolge più ai sensi che
all’intelletto. Sfruttando la possibilità del surround quadrofonico (ma l’edizione su disco, ovviamente, si limita
alla semplice stereofonia), Touch è sviluppato a partire
dalle sillabe del suo stesso nome (t-ou-ch), pronunciato
da una voce femminile e smontato in decine di varianti
secondo cipigli ritmici spezzati e riassemblati, in un ciclone di ‘tocchi’ stordenti. La seconda parte in particolare,
concede momenti di tale estro ritmico da poter gareggiare in quanto a complessità e pulizia sonora persino con
la storica drum machine Roland Tr-808 (la quale non
vedrà il suo primo natale che dieci anni più tardi).
Il nuovo decennio è inaugurato dall’esasperazione
quadrofonica Sidewinter (Columbia, ‘70), fedele a un
vorticare di friniti cyborg distribuiti intorno al disorientamento centrifugo su orbite impazzite: la familiarizzazione con l’Electric Music Boxes è finalmente compiuta.
Con Until Spring (Columbia, ’76) si verifica un’ulteriore
passo in avanti nell’elaborazione di parametri prestabiliti:
il suono, scolpito ‘nello spazio e nel tempo’ viene dissezionato in parti con le quali poter interagire (anche
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se non in simultanea totale). Il coronamento massimo di
questa tendenza è presentato con la teorizzazione del
Ghost Box, sorta di sistema d’immagazzinamento dati,
il quale permetteva di comporre in presa diretta modificando qualsiasi segnale d’ingresso; la prima testimonianza
di questa ennesima conquista è udibile in Two Life Histories (’77) e sarà alla base dello studio di Subotnick per
i sei anni successivi, caratterizzati da opere di spregiudicata destrutturazione come The Wild Beasts (per piano
e trombone, ‘78) o The Last Dream of the Beast (per
voce solista – quella della moglie, cantante e compositrice Joan La Barbara, attiva tra gli altri per John Cage,
Steve Reich e Morton Feldman – del ‘79).
Gli Anni ’80 vedono il compositore americano fare il
suo ingresso nell’era digitale, testimoniando attraverso
le proprie registrazioni il lento ma inesorabile processo
di miniaturizzazione delle tecnologie elettroniche. Il controllo sul materiale sonoro e su ogni sua possibilità raggiunge un nuovo vertice con Ascent Into Air (’81), brano
concepito appositamente per il formato live. La musica
per lo spettacolo multimediale The Double Life Of Amphibians (‘84) raccoglie composizioni che utilizzano il
sistema Ghost Box ma, privata della controparte visiva,
porge il fianco a un tedio protratto per 90 minuti.
Vi sono poi le opere che omaggiano i tre romanzi-collage del surrealista Max Ernst (si tratta in realtà di raccolte di collage cui venivano affiancate frasi non-sense):
The Key To Songs (’85), And The Butterflies Begin To
Sing (‘88) e All My Hummingbirds Have Alibis (‘91). La
prima trae spunto da Una settimana di bontà ed è suddivisa nei sette giorni della settimana: si parte dalla domenica
per terminare col sabato successivo, apostrofato oscuramente da Ernst col verso ‘La tonalità per le canzoni’ (da
cui il titolo del lavoro). Due pianoforti, tre idiofoni, viola,
violoncello e Yamaha Computer-Assisted Music System: a
farla da padrone, naturalmente, il computer, responsabile
della suggestiva fusione tra tutti gli strumenti che vengono qui modificati, filtrati e spersonalizzati alterandone le
estensioni a piacimento. Come per la tecnica del collage,
anche Subotnick sceglie di utilizzare materiale preesistente, citando lo Schubert dei lieder Wohin? ed Erlkonig. And the butterflies... (qui il ‘romanzo’ è La donna
con cento teste) prosegue sulla stessa riga, col computer a
deformare un quartetto d’archi. Si chiude la trilogia con
All my hummingbirds... (l’Ernst di Una ragazzina sogna di
prendere i Voti), musica per balletto, notturna e dolente.
Return (’86) viene commissionata per il ritorno della
cometa di Halley ed è divisa in due parti: dalla nascita
dell’universo al primo avvistamento annunciato nel 1758
(con conseguente stilizzazione di polifonie vocali di matrice medievale e tributo alle sonate di Scarlatti), per
ripartire nel diciottesimo secolo e terminare nel futuro
inoltrato (snaturando crudelmente Mozart e Liszt per
poi produrre un artificiale ragtime e terminare nell’oblio
di ciò che non possiamo divinare). Il pretenzioso monodramma Jacob’s Room (‘87) prosegue The Double
Life..., impastando voce e violoncello secondo le bizze
dell’estroso compositore, artefice di un cerebrale tagliae-cuci di estratti da La stanza di Jacob di Virginia Woolf,
Eleni del greco-americano Nicholas Gage e il Fedro di
Platone. Nonostante le premesse il lavoro avanza lentamente, pur riconoscendo le sempre impeccabili prestazioni della La Barbara.
Gli ultimi guizzi di autentica genialità provengono dal
figlio maggiore, Steven, il quale progetta un interfaccia
grafica per il notebook del padre per Gestures (’99): qui
il suono può venir modificato da un semplice spostamento del mouse. La voce della La Barbara è suddivisa
in varie tracce che si susseguono l’una all’altra nel caso
non accadano particolari variazioni sonore entro un certo periodo. Siamo dunque a un nuovo insperato vertice
nell’elaborazione di strutture su cui far valere la propria
creatività compositivo/esecutiva (i due termini sono ormai fusi in una sola figura).
A corollario di tal produzione (ben più nutrita di
quanto segnalato) ricorderemo una serie di cd-rom dedicati al mondo dell’infanzia; i programmi divisi per età
World of Music Beginner, World of Music Intermediate, Making Music, Hearing Music, Playing Music,
e Making More Music intendono avvicinare i più piccoli all’atto sonoro, sviluppandone con esercizi divertenti e
originali, la creatività e il gusto compositivo.
Un suggerimento: visto il lavoro di remastering compiuto sul grosso della mole discografica e in virtù della sua predisposizione al controllo spaziale, si consiglia
l'ascolto attraverso un buon impianto Dolby Surround.
Guru dell’elettronica sperimentale osannato da pubblico e critica (la quale non ha mancato, nel corso degli
anni, di tributargli premi e onorificenze a profusione),
Subotnick spicca ancor oggi nel sovraffollato panorama
della musica contemporanea, come compositore apripista di qualche realtà che probabilmente non ci è ancora
dato percepire.
99
L' intervista
Morton, qual è il tuo primo ricordo musicale?
La prima cosa che mi viene in mente è la sigla dello show
radiofonico Il ranger mascherato, sarà stato il 1936. Amavo
quella musica: era niente meno che l’ouverture del Guillaume Tell di Gioachino Rossini.
Come descriveresti a un neofita il tuo apporto
nella scena dell’elettronica durante gli Anni ’60 e
’70?
Sin dal mio esordio, ho cercato di contribuire a far sì che
si potesse generare qualcosa di espressivo e innovativo
al di là di una conoscenza tecnica o di una preparazione
accademica estenuante; aggiungerei, anche al di là di specifiche abilità.
Cosa puoi ricordare del periodo in cui fondasti il
San Francisco Tape Music Center?
Difficile sintetizzare quegli anni, quelle esperienze. L’intero periodo è zeppo di giorni e avvenimenti memorabili.
L’eccitazione aleggiava su ogni concerto, ogni performance. I miei ricordi sono sovraccarichi di così tante esperienze che menzionarne una in particolare sembrerebbe comunque riduttivo. Per il suo senso dell’umorismo
nominerei forse un lavoro multimediale che intitolammo
Smell Opera With Found Tape, il quale coinvolse anche la
compagnia di danza di Anna Halprin, per la quale stavo lavorando al tempo (lo spettacolo era, se non erro,
Parades And Changes). In sostanza i ballerini si misero a
intervistare alcune persone prese a caso tra il pubblico
e, in base alle risposte ricevute, spruzzavano addosso agli
intervistati un profumo diverso per ognuno che doveva
sintetizzarne la personalità. Qualcuno aveva trovato inoltre un nastro che non abbiamo mai saputo a chi appartenesse e quella sera improvvisammo su quello: si trattava della registrazione di una specie di psicodramma che
aveva per protagonista una ragazza rimasta incinta senza
essere sposata. Un affare molto cattolico.
Terry Riley con John Cale, Pierre Henry con gli
Spooky Tooth: mai pensato a una collaborazione
con musicisti pop o rock?
Naaa… non mi solletica troppo l’idea di collaborare con
altri compositori o gruppi pop; preferisco contaminarmi
con artisti operativi in media diversi dal mio.
Tendevi l’orecchio alla scena pop-rock nei sixities?
Ma certo, m’incuriosiva parecchio. Sono stato direttore
artistico (mi pare che l’anno fosse il 1968) dell’Electric
Circus, nel’East Village, un’istituzione nell’ambito sperimentale. Aiutai ad aprire il locale e in quell’anno fui
ovviamente coinvolto in maniera significativa nella sua
programmazione, organizzando le serate 'Electric Ear'. Lì
suonarono gruppi come, per fare due nomi, Velvet Un100
derground e Grateful Dead.
Qual era il tuo livello di coinvolgimento coi minimalisti nella New York degli Anni ’60?
Beh diciamo che ho dato il mio contributo commissionando, a esempio, la composizione In C a Terry Riley,
anche se rammento che nessuno di noi al tempo aveva la
più pallida idea di ciò che avrebbe finito per rappresentare. Sia con Terry che con Steve Reich posso vantare una
profonda amicizia, giunta fino ai giorni nostri.
Quali sono le prossime barriere da infrangere?
Brian Eno punta sul concetto di musica ‘generativa’…
Il lavoro più complesso è abbattere le proprie barriere
mentali. Per rendere possibile il conio di musiche veramente originali dobbiamo riformulare la nostra concezione di musica, analizzare il significato che le attribuiamo
e lavorare a partire da quelle considerazioni per andare
oltre. Le nuove tecnologie possono favorire questo processo ma sono infinite le vie per pervenire a qualcosa di
inedito. Quando creai Silver Apples Of The Moon stavo
ragionando in merito a una maniera alternativa di concepire la musica da camera. Nello stesso periodo, Walter
Carlos elaborava un nuovo approccio per suonare le
composizioni di Bach.
Sarebbe un peccato sorvolare sull’ormai monumentale Silver Apples Of The Moon…
Sai cosa fu fantastico? Lavorare con gioia assoluta al progetto, ogni giorno, per ben 13 mesi. Si trattò decisamente
della prima volta in cui potei vantare un controllo totale
sul materiale sonoro. La prima volta in cui riuscii a trasferire su un album la mia volontà di comporre attraverso
le possibilità artistiche offerte dalle mie teorie. E pensa:
adesso posso creare in piena libertà un brano dal mio
studio e chiunque, con un paio di dollari (credo sia questo il costo previsto dalla Nonesuch), può scaricarlo e
sentirselo da casa propria. Era esattamente questa la mia
ridefinizione di ‘musica da camera’.
Un artista di larghe vedute è necessariamente
una persona di larghe vedute?
Eh, mi sa di no.
Sei ancora attivo nelle vesti di professore?
Prevalentemente a livello privato. Di tanto in tanto poi
tengo qualche lezione di lettura musicale presso la New
York University.
Insegnare t’ha insegnato qualcosa?
Ostinarmi nell’insegnamento è una maniera per mantenermi concentrato su certe questioni riguardanti l’ascolto e la composizione.
C’è poi la tua relazione artistica e umana con
Joan La Barbara.
Joan e io siamo stati insieme per oltre trent'anni e posso
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dirti che ancora oggi è la stessa adorabile persona di trent'anni fa. È una donna amabile, di spiccata sensibilità, è stata
una moglie meravigliosa e un’ottima madre per nostro figlio Jacob. Sotto un profilo artistico è dotata di un talento
e un'inventiva enormi. La sua voce permane uno strumento assolutamente unico, capace della purezza di un angelo
come della rozzezza di una bestia infernale (nel film Alien: la clonazione, la voce mostruosa del figlio di Ellen Ripley è
sua!) Come artista insomma, il suo coraggio è indubbio.
Alcuni tuoi recenti lavori sono connessi con l’infanzia…
I programmi su cd-rom a cui fai riferimento rispecchiano la mia intenzione di implementare lo sviluppo di un’intelligenza creativa a partire dalla tenera età.
A che stai lavorando ora?
Sto terminando un’opera che esordirà a Berlino e, unitamente a ciò, sto scrivendo una serie di brani per una strumentazione assai complessa, concepiti in parte per essere processati mediante elettronica e in parte no. Aggiungici
anche il mio progetto per un nuovo brano realizzato interamente con un semplice notebook e ideato per esecuzioni
live in surround.
Da macchinari mastodontici come il synth Tonto fino all’applicazione musicale Reason: oggi chiunque
può comporre e registrare da casa propria. Nessuna perplessità?
È senz’ombra di dubbio una buona cosa. Ma di sicuro non vale per chiunque e in qualsiasi situazione.
Di generi relativamente recenti come la techno hai un’opinione specifica?
Attualmente non mi va di ragionare in termini di ‘generi’. Comunque non credo di avere un’opinione illuminante in
merito alla techno.
Quali furono i musicisti che ti influenzarono nei tuoi anni di formazione?
Da ragazzino iniziai col clarinetto… di lì capisci la mia affezione per un jazzista come Bennie Goodman. Durante
le scuole superiori (diciamo intorno al 1949-‘50) quando mi interessai alla composizione, la mia attenzione si spostò
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prima su Charles Ives e poi
su Arnold Schoenberg.
È opinione di certa critica
che fu proprio a partire
da Schoenberg e dall’applicazione della dodecafonia che il grande pubblico
si allontanò dalla musica
classica.
Può darsi. Ma non credo che
la causa sia imputabile propriamente alla dodecafonia; si trattò più probabilmente di una
serie di mutamenti di natura
culturale e sociale. Una separazione di grande rilievo ebbe a
riguardare la confusione che si
creò tra arte e intrattenimento. Il più delle volte, nel passato,
era netta la separazione tra secolare e sacro, profondo e profano. Ma il fattore sostanziale
nella tua domanda è invece il
termine ‘grande pubblico’ e qui
l’ambiguità aumenta: è un bene
che il grande pubblico si sia allontanato da certa musica? Un
male? Solo il tempo potrà dircelo.
Vista la tua passione per
la letteratura ci si chiede
quali siano state le tue letture formative.
Ai tempi in cui suonavo nella
Denver Symphony Orchestra
mi stavo laureando in letteratura inglese; avevo già terminato i miei studi musicali quando decisi di iniziare l’università:
arrivato a Denver infatti, venni fatto abile e mi sarebbe toccato partire per la Guerra in Corea. Per evitarla scelsi di
iscrivermi a Lettere e poco dopo fui esonerato. Le mie letture formative? Il primo libro che ebbe un forte impatto su
di me lo trovai nel garage di casa, avevo 9 anni, e trattava lo stoicismo Greco. Più tardi mi innamorai de La montagna
incantata di Thomas Mann e poi, sempre di Mann, del Doctor Faustus.
Riesci a ipotizzare le prossime evoluzioni nell’ambito dell’elettronica?
La mia sensazione è che percepiamo passato, presente e futuro in maniera imprecisa, alterata. Il passato ci accompagna per sempre; in breve, diciamo che esso non ci abbandona mai, viene assorbito dalla nostra consapevolezza e
integrato nel presente. Il futuro invece altro non è che una graduale addizione a ciò che stiamo già vivendo. Perciò
se ci saranno rivoluzioni o evoluzioni sostanziali dell’elettronica è nel presente che dobbiamo cercarle. Il futuro non
rimpiazza mai il presente.
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Vivere ogni giorno della propria vita facendo quasi sempre quello che ami fare e, di tanto in tanto, sentire di aver
creato qualcosa di veramente valido.
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(GI)Ant Steps #40
classic album rev
Bill Evans
Pink Floyd
Waltz For Debby (Riverside, Giugno 1961)
The Wall (EMI, Novembre 1979)
Pare che la Debby del titolo fosse la figlia del fratello di
Bill Evans. Una curiosità che potrebbe spiegare più di
mille parole quelle mezze luci toccanti e lineari che si
ascoltano nella title-track. Anche se poi si tratta di estetica generale più che di un episodio isolato, dal momento
che tutto il jazz di Evans - e soprattutto quello del trio
formato dal padrone di casa, Scott La Faro e Paul
Motian - rimarrà quasi sempre affezionato a quella riflessività colta e terribilmente bianca che si ascolta in
Waltz For Debby. Merito di Lennie Tristano ma anche
di Horace Silver, autori che il Nostro studia a fondo
e con costanza. Ma merito anche di una preparazione
accademica stimolata da un ambiente fondamentalmente
borghese - il padre del pianista gestisce un golf club equamente suddivisa tra flauto, violino e pianoforte.
Raffinatezza e aristocrazia: sei brani nella tracklist originale dell'LP, dieci nell'edizione in CD. Tutti tratti dalle
sessions registrate dal vivo il 25 giugno 1961 al Village
Vanguard di New York e raccolte, oltre che nel qui presente disco, anche sul precedente e omonimo live. Come
dire che il momento è propizio e la casualità non c'entra
nulla, in un mood che vive di interplay impeccabile tra gli
strumenti, forti analogie caratteriali, misura e ruoli paritari. In primis tra il contrabbasso à la Mingus di Scott La
Faro e il pianoforte di Evans, persi in un rimpiattino che
vive di ampie armonie e crescendo, assoli e momenti di
quiete. Come dimostra anche un'introduttiva My Foolish
Heart da cui non ti stupiresti di veder uscire un Humphrey Bogart nei panni di Sam Spade. Tanto che sulle note
di copertina spunta - non a torto - il paragone con il
Modern Jazz Quartet, altra formazione che come il trio
104
di Evans "avrebbe potuto suonare tutta la notte senza che
un avventore ubriaco si accorgesse di aver ascoltato niente di
più di certa tranquilla e piacevole cocktail music"
Gli unici due brani scritti dal titolare sono la title
track e Detour Ahead - due versioni di ognuno sul CD -,
episodi da cui emergono i caratteri fondanti della poetica
di Evans: pulizia formale, cascate di note, alternanze puntuali, chiuse di classe. In un jazz che abbraccia la musica
colta - Chopin (?) - prima del be bop e che nel medesimo
istante mostra un'indipendenza notevole dagli stili più in
voga all'epoca. A dare spazio all'Evans meno sentimentale e più irrequieto pensa la Milestones del Davis con cui il
nostro aveva già collaborato per il fondamentale Kind Of
Blue, mentre Some Other Time e My Romance ribadiscono
in un tripudio di spazzole la statura del pianista quando
si tratta di scattare soggettive sfocate e creare conturbanti immaginari.
A riprova che la vita reale è spesso ben più cinica e
turbolenta dell'arte, Scott La Faro morirà l'anno di pubblicazione di Waltz For Debby, la musa ispiratrice omaggiata dalla title-track si toglierà la vita nel 1979 e Bill
Evans lascerà questo mondo nel 1980, dopo un'esistenza
costellata da numerosi problemi familiari e personali.
Fabrizio Zampighi
The Wall nacque da un'intuizione di Roger Waters e fu
sviluppato dalla band assieme al producer Bob Ezrin.
Malgrado gli screzi e le defezioni - Wright fu praticamente messo alla porta durante le session - ne uscì un suono
molto potente, evocativo, persino accattivante (per lo
scorno di alcuni fan). Un sound adatto anzi funzionale
alla "fruibile osticità" dei livelli interpretativi escogitati
dal bassista-leader. Le quattro facciate narrano la vicenda
di Pink, alter-ego di Waters, una rockstar alle prese con
devastanti problemi di alienazione, efficacemente simboleggiata da un muro edificato mattone su mattone: la
morte del padre in guerra, la presenza asfissiante della
madre, l'atteggiamento oppressivo degli insegnanti, il dissolversi del matrimonio...Infine, sorta di chiave di volta,
il rapporto col pubblico, quell'adorazione dissennata che
elegge a tiranno la rockstar.
All'acme fascista di Pink segue il crollo del muro con
le sue schegge di significati potenti e controversi: se dal
punto di vista biografico/psicologico accenna ad una "falsa liberazione" che non può non riecheggiare l'implosione psichica del "diamante pazzo" Syd Barrett, ad un più
vasto livello interpretativo c'è il tema non nuovo però
a suo modo definitivo del crollo delle ultime utopie, da
cui il sovrapporsi col simbolo assoluto della guerra fredda nel cuore d'Europa, il tristemente celebre muro di
Berlino (col quale concettualmente non aveva molto a
che vedere ma la cui aura oppressiva riecheggiò fin da
subito).
Detto questo, se The Wall divenne un'autentica leggenda pop fu anche per la congiuntura storica in cui vide
la luce: i settanta agli sgoccioli sbilanciati sugli ottanta del
cd, della videomusica, del post-punk con le sue pervasive
propaggini ludiche.Nell'immaginario collettivo The Wall
si affermò come uno degli ultimi grandi sforzi del rock
"classico", ideale suggello dell'era vinilica, ultima operarock (e per qualcuno ultimo concept degno di questo
nome), romanticamente votato alla celluloide che infatti
ne sancirà il trionfo definitivo. Il film di Alan Parker
si dimostrò particolarmente adatto a rappresentare la
discesa agli inferi mentali di Pink (un Bob Geldof nella
performance di tutta una vita), allestendo tutto un campionario iconografico vastamente interpretabile come
anti-autoritario.
Il 21 luglio del 1990, nella berlinese Postdamer Platz,
fu celebrato l'anniversario della caduta del muro con un
mega allestimento di The Wall. Sul palco Waters non era
accompagnato dai Floyd ma da una pletora di ospiti internazionali: se gli esiti artistici rasentarono la pacchianeria, quel concerto rappresentò un passaggio fondamentale giacché confermò la capacità dell'opera di farsi
evento/rituale pop con tanto di liturgia (edificazione del
muro, crollo del muro) e vittima/salvatore. Nulla di contemporaneo potrebbe altrettanto: il rock attuale, col suo
fronte estremamente parcellizzato, non può e forse non
sa più costituirsi come gesto totalizzante sulla scena socioculturale (e mediatica). E' perciò perfettamente comprensibile il febbrile entusiasmo per il nuovo tour di The
Wall (praticamente sold out il tour statunitense, mentre
le date europee del 2011 sono state letteralmente prese
d'assalto): è uno degli ultimi eventi rock possibili, o - se
preferite - residui. Un rituale di speranza per il rockofilo
spaesato.
E qui sta l'ironia: perché come abbiamo visto The Wall
nacque come un'opera anti-rock, o più precisamente
come una critica aspra al concerto con le sue perverse
dinamiche. Oggi quel muro è diventato un'attrazione da
casinò di Las Vegas ad uso e consumo dei gitanti rock.
Non mancano i motivi per meditare. E questo, volendo,
è un ulteriore merito ascrivibile a Waters e (ex) compagni. Stefano Solventi
105
la sera della prima
September Songs: The Music of
Kurt Weill
L arry W einstein (C anada - G ermania , 1996)
Non per colpa sua, s'intende, ma forse Robbie Williams non
sapeva chi aveva composto il brano che lui cantava in quella
serie di concerti tenuti alla Royal Albert Hall di Londra, nel lontano 2001. Lui era lì per il suo Swing When You're Winning (EMI,
2001) e lo faceva gran bene, in quei tempi. Tra tutti i miti da lui
citati, tra tutti gli omaggi da lui tributati non poteva mancL.A. Is
My Ladyare quello a Frank Sinatra e alla "sua" Mack The Knife
(L.A. Is My Lady, Qwest-Warner Bros,1984). Successo strabiliante, applausi e gigionerie tipiche.
Quella canzone l'hanno cantata in molti tra Stati Uniti ed Europa prima di The Voice e di Robbie: Louis Armstrong, Ella
Fitzgerald, The Doors (!) e molti altri ancora.Tanto è diffusa
da essere divenuta quasi uno standard, un topos musicale condiviso e tramandato tra le generazioni di autori ed esecutori. Ma
come capita in questi casi di eredità artistica si fa importante
risalire, recuperare la versione primigenia, lo start up del mito.
C'è un regista di documentari musicali sconosciuto ai più e,
al massimo, per i più avvezzi, con un cognome altisonante dal
rimando hollywoodiano. Larry Weinstein non è legato alla
mafia ebraico-tarantiniana della Miramax Films, né alla Weinstein Company. E' un regista canadese simpatico e dal tratto
delicato, sulla cinquantina e con il capello brizzolato. Lavora
dagli anni '80 sul metodo con cui narrare la musica al cinema,
cercando di far incontrare due discipline da sempre in contatto
ma solo monodirezionalmente: musica come colonna sonora
o cinema come videoclip. Inutile dire che c'è un mondo molto
più vasto da esplorare, tutto disteso ai confini tra le due arti.
Weinstein questo lo sa, lo ripete sempre nei suoi film, che trattino di Maurice Ravel (Ravel, 1988 e Ravel's Brain, 2000), di W.A.
Mozart (Mozartballs, 2006), di Manuel De Falla (When The Fire
Burns: The Life And Music of Manuel De Falla, 1993) o di Dmitri
Shostakovich (The War Simphonies: Shostakovich Against Stalin,
1997). Weinstein sa, ovviamente, anche chi sta all'origine della
ballata di Mack, di quello standard postmoderno tanto condiviso e canticchiato che Robbie Williams scimmiottava sorridente
a Londra, nel 2001.
Nel 1996 Weinstein gira September Songs: The Music of Kurt
Weill, uno straordinario film musicale a episodi, nei quali tutto il
fiore della produzione dell'autore tedesco (1900-1950) è riarrangiato da Hal Willner e cantato da artisti di fama mondiale
e dal carisma abbastanza forte da caricarsi sulle spalle il décor
106
—cult
della Berlino sporca e vitale del primo dopoguerra e della New
York frenetica e ambiziosa della Seconda Guerra mondiale. Gli
interpreti d'eccezione sono, tra gli altri, Nick Cave, Elvis Costello, PJ Harvey, Lou Reed, per menzionare gli interventi più
folgoranti e memorabili. Alla base di questo film c'è un album
di più di dieci anni prima, Lost in the Stars - The Music of
Kurt Weill (V.A., A&M Records, 1985) per opera di Willner e
tanto corteggiato da Weinstein ma senza i risultati sperati. Dice
il regista, infatti, con soffusa piaggeria, che il progetto fu offerto a Federico Fellini e a Orson Welles ma che entrambi
non riuscirono a dedicarcisi prima di morire. Rimasto l'unico in
gara, dieci anni dopo, quasi protagonista della più banale metafora zen sull'attesa ripagata, Weinstein ebbe il suo film.
Tutto succede in un capannone industriale dismesso della periferia di Toronto. L'inverno è quello del 1996 che, dice il regista, è stato storicamente tra i più freddi nella città canadese.
La produzione, non a basso costo ma neppure colossale, un
milione e trecentomila dollari il budget, richiede di lavorare
sfruttando il buio della notte, isolando dalla metropoli l'enorme warehouse e costringendo troupe e musicisti a logoranti
prestazioni ai limiti dei quaranta gradi sotto zero.
L'intento del regista è evidente sin dall'inizio. In quegli anni, dice,
l'estetica del videoclip si andava affermando e, presto, cristallizzando nell'immaginario televisivo occidentale ed è proprio da
questo che Weinstein vuole divergere, quanto vuole sfuggire,
prendendosi tutto il tempo necessario, utilizzando soluzioni
sceniche e narrative distanti dalla televisione e dal gusto pop
annesso. Carrelli, gru e pianisequenza sono scelti come distinzione,
opposizione a una riduzione non voluta né concessa all'usum delphini, alla diffusione spicciola e frivola dell'opera del compositore
tedesco, dell'interpretazione degli esecutori scelti e del mezzo cinematografico che viene qui elevato e adoperato con maestria. La
scelta narrativa di Weinstein è quella del "tutto in una notte",
del racconto concentrato in un'unità temporale ridotta e, per
di più, notturna. Il collegamento con il sogno è evidente, la soglia liminare dell'incubo è, in alcuni tratti, manifesta. Lo spettatore è preso per mano nel suo vagare e portato di canzone in
canzone attraverso l'opera dell'autore tedesco e confermato
dai dati storici, forniti attraverso geniali citazioni, che dicono
che tutto è realmente accaduto.
La macchina da presa racconta lo spazio antistante al magazzino, poi quello interno, quando una melodia arcinota che sin
dall'inizio, dalla ripresa della notte industriale di Toronto, era
stata offerta allo spettatore è amplificata e riprodotta ad alto
volume. D'un tratto il vagare incontra una figura umana sola,
danzante nell'enorme spazio vuoto e buio. Alla luce di un bidone nel quale è acceso un fuoco, Nick Cave ci invita, luciferino
come mai, a seguirlo nell'ascolto della storia di Mackie Messer,
Mack The Knife (Die Moritat von Mackie Messer, Weill-Brecht,
1928). Il geniale australiano pare uscito dal migliore David
Lynch e danza leggero con la sua mise scura e la sua sigaretta
tra le dita davanti alla macchina da presa che lo segue senza fermarsi, in un pianosequenza preciso e meraviglioso che rapisce
lo sguardo dello spettatore. A catturare il suo udito ci pensa
la storia tratta da L'opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper, Bertolt Brecht, 1928) e la voce di Cave che sarebbe, di
questo dramma, un ottimo interprete. Coltelli, rasoi, ingiustizie
e furberie fainesche, donne facili e alcool, corruzione e sadismo, questo canta l'anfitrione che guarda in macchina e sembra
chiedere: "Vuoi venire con me?" allo spettatore spaventato e, allo
stesso tempo, attratto da questa vicenda.
Sparisce il cantante e, da quello che pare il fondo del magazzino, giunge un ritratto enorme di Kurt Weill. Il dubbio è lecito perché malgrado sia iniziata da pochi minuti la visione si
fa manifesta la natura labirintica dello spazio, lo smarrimento
che allo spettatore sarà comminato. Una voce over racconta la
biografia dell'autore e poi prelievi cinematografici e interazioni
tra i livelli del vedere, sono messi in scena. Citazioni critiche,
ricostruzioni storiche sono compiute nei più svariati modi e
contestualizzano il vivere e l'agire del protagonista contumace
del film. L'odore delle strade della Berlino post Weimar, l'ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale così come gli anni
d'oro del sodalizio con Brecht, la messa al bando e l'esilio a
New York sono i tratti storici maggiori e personali, di Weill, che
Weinstein racconta, sul limine con l'incubo del quale si diceva.
Un giro, un capogiro meglio, tra gli spazi tutti uguali ed ecco
spuntare seminuda P.J. Harvey, su un palcoscenico deserto.
Canta la devastante Ballad of The Soldier's Wife (Und was Bekam
des Soldaten Weib? Weill-Brecht, 1943) - questa cantata persino
dai Coldplay! - e diventa lei stessa la vedova protagonista della canzone, senza una provenienza, senza una lingua e una storia proprie perché, da Oslo a Mosca, da Praga a Parigi, tutte le
vedove di guerra sono uguali, tutte le giovani donne si trovano
sole senza una spiegazione, con due abiti nell'armadio: quello
bianco, da sposa e quello nero del lutto che mal si addice alla
loro giovane età. Harvey scavata nel suo volto deciso e pallido
riempie questo ruolo d'infinito dolore e nascente follia da esso
conseguente.
Continuando a vagare tra le nebbie della Storia, la macchina da
presa di Larry Weinstein alterna momenti di maggiore drammatica intensità a istanti di minore impegno per lo spettatore.
Così s'incontrano, nel magazzino-mondo, molti interpreti, delle
provenienze artistiche più varie e divergenti,The Persuasions e
i Ghettoriginal Dance Company, Teresa Stratos e Betty Carter,
tra gli altri, in un ondivago periplo tra i generi che l'universale
opera di Weill ha influenzato.
Un inserto della moglie di Weill, Lotte Lenya, reperito chissà dove dall'estenuante operazione di found footage svolta da
Weinstein, dice della timidezza del marito, della sua riservatezza che tutti scambiavano per arroganza. Come un muro,
lo descrive la moglie, dal quale tutti erano allontanati, tanto
che lei stessa si domanda se lo abbia mai conosciuto davvero.
Su queste parole si apre l'esecuzione di September Song (id.,
1938), altro standard americano, cantato da Lou Reed. Dice
ironicamente il regista che tutto il film è stato ideato e realizzato per celebrare due suoi miti: Kurt Weill e Lou Reed. Si percepisce, ben oltre la battuta, la venerazione del regista per l'ex
Velvet Underground che, nelle foglie di settembre, suona
mentre la macchina da presa gli gira vorticosamente attorno
quasi mossa a cercare di capire se si tratta realmente di lui o
di un'immagine irreale. L'uomo in nero è distaccato, altrove,
suona concentrato e la cifra unica della sua voce fa il resto.
Pare una versione ripresa di Coney Island Baby (Coney Island
Baby, RCA Records, 1976). Tutto dura fino a quando Reed si
accorge di tanta voyeuristica attenzione e interrompe la richiesta di finzione guardando furtivamente in macchina. L'occhio
della macchina da presa è destata da quel paio d'occhi e così lo
spettatore sognante.
Tutti gli artisti qui coinvolti riprendono Weill e da esso sono
catturati, dalla magia e dallo spirito della messinscena delle sue
canzoni muovono. Non conta il genere scelto, dal jazz al tango,
dall'hip hop al blues, tutte le voci si fanno quella di Kurt Weill,
rendendo il più che meritato tributo alla storia della musica
che egli rappresenta. Tutto, infatti, si adagia nelle parole di Weill
che divide la musica in buona e cattiva e mai non in alta e
bassa.
Da parte sua Larry Weinstein ha il merito di dare una giusta
collocazione a ogni momento, a ogni esibizione e a ogni inserto
storico, tanto da creare un unicum, un'ottima amalgama densa.
Per far ciò estrapola dalla realtà lo scorrimento dei fatti e crea
"una notte di Weill", un limbo dal quale riemergere alla conclusione del film dopo un lungo e intenso viaggio che si conclude
così come era iniziato, con lo stesso ritratto in primo piano
del volto dell'autore tedesco. L'immagine ora è vicina, nostra,
amica ed è la storia che si sedimenta e si fa memoria.
Aldo Romanelli
107
—recensioni
The Road
J ohn H illcoat (USA, 2010)
Rivederlo è stato un piacere, anche perché si era vociferato a lungo che in Italia, forse, non sarebbe mai uscito.
Qualcuno diceva che questo film fosse troppo angusto
e scuro, eccessivamente desolante e poco speranzoso.
Che il nome di Cormac McCarty non fosse sufficientemente spendibile come selling element. Per questo la
distribuzione del film è stata rallentata e quasi fermata
fino al 28 maggio scorso.
Arriva quindi finalmente nelle sale italiane The Road, di
John Hillcoat, basato sul romanzo premio Pulitzer (The
Road, 2007) di Cormac McCarthy, dopo essere passato
per Venezia a settembre scorso.
Viggo Mortensen è un padre che attraversa a piedi gli
Stati Uniti in cerca di cibo e riparo, di calore e ristoro in
compagnia di suo figlio piccolo. Sono entrambi senza nome
e a lungo sembrano
gli unici due esseri
umani rimasti sulla
Terra. In realtà, ben
presto incrociano altre smunte figure ma
la condizione non
è più umana bensì
animale. Il mondo è
finito e il cannibalismo è una via per la
sopravvivenza diffusa
per quelle lande. Al
padre il compito più
duro: nutrire il figlio e la sua anima curiosa e delicata, in
modo che non perda mai la distinzione tra buoni e cattivi, tra bene e male.
Il film ha un ritmo eccelso e un'ambientazione perfetta
dall'inizio alla fine. Le musiche dolorose ed elegiache di
Nick Cave arricchiscono il tragitto dei due viandanti.
Tutto si svolge nel loop di un terribile day after misterioso e privo di risposte come il motivo del day before e gli
eventi del day itself. Nulla è lasciato intendere da McCarty, dal quale John Hillcoat trae la voce narrante dell'innominato padre, nulla sa di quanto è accaduto l'uomo che,
giorno dopo giorno, cammina per le strade cogliendo i
particolari nuovi e dolorosi della catastrofe abbattutasi
sulla Terra.
108
Hillcoat prende il romanzo di McCarty e gli rende un
tributo di fedele omaggio, sfruttando anche un ottimo
e ispirato Mortensen, sempre più spesso calato in ruoli
accuratamente scelti e poco commerciali. Qui l'attore è
anche produttore, con Charlize Theron che interpreta
sua moglie. La diva hollywoodiana recita senza trucco e
il suo cammeo brilla per impegno tanto da suggerire il
ricordo di Ingrid Bergman antidiva per eccellenza in
quei film interpretati per Roberto Rossellini. Il bambino è il tredicenne Kodi Smith-McPhee sul quale non
si può che dire bene.
I am Legend (id., 1954) di Richard Matheson ispira la
vicenda e molto delle vicissitudini dell'ultimo uomo sulla
Terra e qui è attualizzato al tempo delle tematiche ambientali e della lotta per il cibo e per il petrolio. Straordinaria metafora dell'oggi, il film racconta il grigio cinereo
del piombo verso il quale stiamo correndo ciecamente,
la caduta degli alberi suicidi e le scosse che sconvolgono
la Terra stuprata e deturpata che si vergogna di essere
calpestata da noi colpevoli di matricidio. La lotta di un
uomo senza nome per salvare l'anima di suo figlio è il
tentativo di chiudere, nelle profondità delle acque della
Louisiana, la falla dalla quale il petrolio si sta riversando,
uccidendo tutto ciò che incontra, in quei luoghi di paradiso tra Florida e Messico, oggi.
Forse più dei documentari di Al Gore e dell'impegno di
Leonardo Di Caprio, più della favola della Pandora di
Avatar (id., 2009) di James Cameron e delle parole di
Barack Obama, il film di Hillcoat può muovere l'attenzione al tema dell'ambiente e del futuro del pianeta in un
modo più diretto, più doloroso ma, si spera, per questo
privo di ogni possibile ridondanza che porti a un ascolto
superficiale o a un disinteresse totale per questo tema
fondamentale.
Aldo Romanelli
Il padre dei miei figli
M ia H ansen -L ove (F rancia , 2010)
Parigi. Oggi. Grégoire Canvel, Louis Do de Lencquesaing, è un produttore cinematografico vicino ai cinquanta anni e ai venti di carriera. Il suo è un lavoro molto
impegnativo e la veloce sequenza iniziale lo racconta impegnato in una telefonata, sono varie in realtà, che dura
tutto il giorno. Ciò nonostante Canvel è un buon padre,
specie per le sue due figlie più piccole Valentine e Billie,
Alice Gautier e Manelle Driss mentre i rapporti con la fi-
glia più grande Clémence, Alice De Lencquesaing, si fanno
più complicati. La moglie Silvia, Chiara Caselli, lo ama e
lo stima molto ma è vittima innocente del rapporto conflittuale che si crea tra gli impegni del marito e l'affetto
che egli non può dedicare alle sue care. Il lavoro dell'uomo è, oltre che impegnativo, anche molto rischioso e una
convergenza negativa lo spinge verso il dissesto finanziario, allo scoramento e a un gesto estremo e folle. Le sue
donne ne ereditano il nome e i segreti, ricominciando a
vivere in un altrove nuovo e pieno di possibilità.
Il film è delicato e sapientemente organizzato dalla regista - evidente il suo ruolo qui anche di sceneggiatrice
- e si arricchisce ogni istante di particolari non necessariamente utili alla vicenda principale ma carichi di un
valore che lascia percepire allo spettatore come, sotto il
livello più semplice e limpido, tutto sia più profondo narrativamente e diegeticamente. Il
montaggio delle sequenze, il gioco dei campi spesso alternati per
lunghezza o per posizione fanno
trasparire tutta l'ambizione di chi
mette in scena, la sua volontà, la
sua emergenza espressiva sincera e già matura. Il film racconta
tante storie che confluiscono per
caduta nella vicenda prima, dissemina molti dubbi e ne chiarifica
altri, dice senza che sia chiesto e
non dice quanto è necessario alla
curiosità dello spettatore.
Presto, le donne sono protagoniste assolute. Caselli è perfettamente calata nel suo ruolo e i
riferimenti al cinema dei Maestri
per la costruzione del personaggio principale femminile - indubbiamente più che cinefila è la regista - sono ampi e facilmente rinvenibili. Un viaggio in Italia per la famiglia è
alle porte e proprio durante questo l'esito drammatico
inizia a manifestarsi con le prime avvisaglie di cambiamento. La suggestione inevitabile è quella per Viaggio in Italia
di Roberto Rossellini del 1953 e con l'interpretazione
superlativa di Ingrid Bergman nei panni della Signora
Joyce. Il tempo delle rovine, ampiamente mostrate, occupa il tempo del racconto impossessandosene e Ravenna
e i suoi affreschi qui, così come Pompei e le sue figure
nella lava per Rossellini, segnano le vicende del presente
dei protagonisti incontrovertibilmente e si ricongiungono al senso dell'esperienza temporale "pura" della quale
parla Georg Simmel.
La figlia maggiore è quella che soffre maggiormente quan-
to accade ma riesce a superare il dramma aprendosi alla
vita e all'accettazione coraggiosa dei segreti del padre,
alla scoperta dell'amore che la rende donna e la priva,
finalmente, del ruolo liminare al quale l'età l'aveva obbligata. Su di lei lo sguardo della macchina da presa, di una
regista di poco più anziana, si posa lieve e delicato, quasi
a raccontare le vicende con il piglio innocente del girovagare dei protagonisti della Nouvelle Vague, del loro essere
inseriti in uno spazio privo di raccordi o conseguenze. Le
passeggiate per Parigi si riempiono di poesia del quotidiano e la giovane scopre così verità assolute in un tempo
relativo e suo.
In Italia non si è parlato molto della morte per suicidio di
Humbert Balsan, prima attore e poi produttore cinematografico molto noto in Francia. Questo è il segreto
del film: racconta questa vicenda umana e professionale.
Hansen-Love doveva affidare a
lui il suo primo lungometraggio
Tout est pardoneè (id., 2007)
ma il destino del film e dei suoi
responsabili fu un altro. La giovane regista si affida alla sua conoscenza limitata ma importante di
Balsan per omaggiare il produttore raccontando un cinefilo che
vive quanto tristemente vaticinato da Federico Fellini nei tristi
anni '90 della crisi del cinema: il
film finisce quando finiscono i soldi.
La conclusione, con l'addio a Parigi raccontato per le strade, ancora una volta secondo i dettami
magnifici della Nouvelle Vague,
con il sottofondo musicale di Doris Day che canta Que sera sera
è il meraviglioso invito, augurio e
desiderio di credere che comunque tutto andrà bene e
che il cinema non morirà mai. Il gesto d'amore di Hansen-Love è squisito ed è un postumo grazie a chi come
Balsan/Canvel ha dato tutto per scrivere sulla carta che
brucia. L'amore per il cinema va oltre la morte dei suoi
protagonisti. L'opera che essi hanno creato, produttori
come registi, attori come "trovarobe", assistenti di scena
come montatori - tutti ampiamente mostrati nel film - li
fa sopravvivere alla morte e li salva dalle miserie umane.
Questo film è per tutti loro, per tutti i padri dei figli della
regista, per tutti coloro che hanno dedicato la loro vita al
cinema e, quindi, seppur in ultima e piccola parte, anche a
noi che di esso parliamo e ci nutriamo.
Aldo Romanelli
109
Simple Minds
Zu | A Hawk and A Hacksaw | The Wave Pictures | Virginiana Miller | Sleepy Sun
Dum Dum Girls | Wild Nothing | Brunori SaS | Mujeres | Air Waves | Matinée
Roseto degli Abruzzi . Stadio . 1-2 Agosto
su 2 Palchi . dalle 18:00 alle 02:00
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Photo: Deborah Anne Bowen
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