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MargueritteGARCONNEcop.indd 1
victor
margueritte
La
garçonne
romanzo
Il romanzo scandalo del 1922,
un grande bestseller del xx secolo
Monique, rampolla di una buona famiglia
parigina, è felice, sta per sposare Lucien,
l’uomo che ama. Una sera, però, lo scopre
abbracciato a un’altra donna con la quale
è sicura che lui abbia una liaison. Umiliata,
Monique si vendica e invece di rimettere
la testa a posto, come le intimano i genitori,
decide di prendere in mano il proprio destino
e i propri amori. Curiosa di tutto, ingorda
di vita, Monique cercherà occasioni libertine
per emanciparsi, proverà esperienze diverse,
sia con donne sia con uomini, ridotti questi
ultimi al rango di semplici strumenti di piacere.
Se le donne hanno cominciato a portare
il taglio “à la garçonne” è grazie a questo
romanzo, uno dei più grandi successi editoriali
degli Anni ruggenti, che suscitò un tale
scandalo da valere all’autore l’onta/onore
di vedersi ritirare la Légion d’honneur.
€ 00,00
Design e illustrazione di copertina
Pescolderungg - studio tapiro.
«Monique non sentiva alcuna vergogna, alcun
rimorso. Compiva un atto logico, giusto.
Quel compagno di un’ora non le aveva promesso
nulla. Non mentiva. Doveva essere un viaggiatore
di passaggio o un ufficiale in licenza. Un anonimo
messaggero del destino»
La garçonne
La collana Bittersweet è diretta e curata da Irene Bignardi.
«Un libro di una franchezza quasi imbarazzante,
una romanzesca invettiva contro una condizione
femminile da cui la sua eroina evade (o così crede)
attraverso il vero amore» Irene Bignardi
victor margueritte
victor margueritte (1866-1942), autore francese
nato in Algeria, era figlio di un eroe della guerra
del 1870, frequentò la scuola militare, divenne
luogotenente dei Dragoni. Lasciò l’esercito
e iniziò a pubblicare romanzi, saggi, drammi
teatrali, spesso a quattro mani con il fratello Paul,
occupandosi soprattutto di temi sociali,
in particolare della condizione femminile.
La garçonne vendette solo in Francia 750.000
copie, somma esorbitante per l’epoca, e ispirò
ben quattro film, uno dei quali vide il debutto
di Édith Piaf.
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victor
margueritte
La
garçonne
romanzo
Il romanzo scandalo del 1922,
un grande bestseller del xx secolo
Monique, rampolla di una buona famiglia
parigina, è felice, sta per sposare Lucien,
l’uomo che ama. Una sera, però, lo scopre
abbracciato a un’altra donna con la quale
è sicura che lui abbia una liaison. Umiliata,
Monique si vendica e invece di rimettere
la testa a posto, come le intimano i genitori,
decide di prendere in mano il proprio destino
e i propri amori. Curiosa di tutto, ingorda
di vita, Monique cercherà occasioni libertine
per emanciparsi, proverà esperienze diverse,
sia con donne sia con uomini, ridotti questi
ultimi al rango di semplici strumenti di piacere.
Se le donne hanno cominciato a portare
il taglio “à la garçonne” è grazie a questo
romanzo, uno dei più grandi successi editoriali
degli Anni ruggenti, che suscitò un tale
scandalo da valere all’autore l’onta/onore
di vedersi ritirare la Légion d’honneur.
€ 00,00
Design e illustrazione di copertina
Pescolderungg - studio tapiro.
«Monique non sentiva alcuna vergogna, alcun
rimorso. Compiva un atto logico, giusto.
Quel compagno di un’ora non le aveva promesso
nulla. Non mentiva. Doveva essere un viaggiatore
di passaggio o un ufficiale in licenza. Un anonimo
messaggero del destino»
La garçonne
La collana Bittersweet è diretta e curata da Irene Bignardi.
«Un libro di una franchezza quasi imbarazzante,
una romanzesca invettiva contro una condizione
femminile da cui la sua eroina evade (o così crede)
attraverso il vero amore» Irene Bignardi
victor margueritte
victor margueritte (1866-1942), autore francese
nato in Algeria, era figlio di un eroe della guerra
del 1870, frequentò la scuola militare, divenne
luogotenente dei Dragoni. Lasciò l’esercito
e iniziò a pubblicare romanzi, saggi, drammi
teatrali, spesso a quattro mani con il fratello Paul,
occupandosi soprattutto di temi sociali,
in particolare della condizione femminile.
La garçonne vendette solo in Francia 750.000
copie, somma esorbitante per l’epoca, e ispirò
ben quattro film, uno dei quali vide il debutto
di Édith Piaf.
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victor
margueritte
La
garçonne
romanzo
Il romanzo scandalo del 1922,
un grande bestseller del xx secolo
Monique, rampolla di una buona famiglia
parigina, è felice, sta per sposare Lucien,
l’uomo che ama. Una sera, però, lo scopre
abbracciato a un’altra donna con la quale
è sicura che lui abbia una liaison. Umiliata,
Monique si vendica e invece di rimettere
la testa a posto, come le intimano i genitori,
decide di prendere in mano il proprio destino
e i propri amori. Curiosa di tutto, ingorda
di vita, Monique cercherà occasioni libertine
per emanciparsi, proverà esperienze diverse,
sia con donne sia con uomini, ridotti questi
ultimi al rango di semplici strumenti di piacere.
Se le donne hanno cominciato a portare
il taglio “à la garçonne” è grazie a questo
romanzo, uno dei più grandi successi editoriali
degli Anni ruggenti, che suscitò un tale
scandalo da valere all’autore l’onta/onore
di vedersi ritirare la Légion d’honneur.
€ 00,00
Design e illustrazione di copertina
Pescolderungg - studio tapiro.
«Monique non sentiva alcuna vergogna, alcun
rimorso. Compiva un atto logico, giusto.
Quel compagno di un’ora non le aveva promesso
nulla. Non mentiva. Doveva essere un viaggiatore
di passaggio o un ufficiale in licenza. Un anonimo
messaggero del destino»
La garçonne
La collana Bittersweet è diretta e curata da Irene Bignardi.
«Un libro di una franchezza quasi imbarazzante,
una romanzesca invettiva contro una condizione
femminile da cui la sua eroina evade (o così crede)
attraverso il vero amore» Irene Bignardi
victor margueritte
victor margueritte (1866-1942), autore francese
nato in Algeria, era figlio di un eroe della guerra
del 1870, frequentò la scuola militare, divenne
luogotenente dei Dragoni. Lasciò l’esercito
e iniziò a pubblicare romanzi, saggi, drammi
teatrali, spesso a quattro mani con il fratello Paul,
occupandosi soprattutto di temi sociali,
in particolare della condizione femminile.
La garçonne vendette solo in Francia 750.000
copie, somma esorbitante per l’epoca, e ispirò
ben quattro film, uno dei quali vide il debutto
di Édith Piaf.
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bittersweet
collana a cura di Irene Bignardi
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Victor Margueritte
La garçonne
traduzione di Giulio Lupieri
postfazione di Irene Bignardi
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Titolo originale: La garçonne
© 2014 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione digitale 2014
ISBN 978-88-454-9804-6
www.sonzognoeditori.it
[email protected]
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
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LA GARÇONNE
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Parte prima
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M
onique Lerbier suonò il campanello.
«Mariette» disse alla cameriera «il mio mantello...»
«Quale, signorina?»
«Quello turchese. E il cappello nuovo.»
«Vuole che glieli porti?»
«No, li prepari nella mia camera.»
Rimasta sola, Monique trasse un lungo sospiro. La vendita di beneficenza era un’autentica seccatura. Se non fosse
stato per Lucien, non sarebbe nemmeno uscita di casa. Si
stava così bene nel salottino!
Posò il capo sui cuscini del divano e sprofondò di nuovo
nelle sue fantasticherie.
Monique ha cinque anni. Sta cenando al minuscolo tavolino della sua camera, dove Mademoiselle, sorvegliante della
sua vita, la controlla e le serve i pasti. Ma questa sera Mademoiselle è in vacanza e al suo posto c’è zia Sylvestre.
Monique adora Sylvestre. Lei e la zia non sono come le
altre. Le altre sono donne. Anche Mademoiselle! Era stata la
mamma ad affibbiarle quel nome. «Perché una governante
deve sempre chiamarsi così, anche se è vedova!» le aveva
detto.
Zia Sylvestre e Monique, invece, sono ragazze. Lei, una
ragazza bambina, nonostante si consideri già grande. E la
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zia una ragazza vecchia. Così vecchia che ha la pelle tutta
rugosa e tre peli che spuntano da un’escrescenza sul
mento.
E poi, quando torna da Hyères, zia Sylvestre porta sempre
il torrone nero con le mandorle e il miele bruciato. Monique
non sa bene dove si trovi Hyères, né che aspetto abbia. Per
lei Hyères è come Ieri: qualcosa di molto lontano. Quello che
conta è soltanto l’Oggi; e oggi è festa. Papà e mamma andranno all’Opéra, e prima sono stati invitati al ristorante.
L’Opéra è un palazzo dove le fate danzano a suon di
musica, e il ristorante è un posto dove si mangiano ostriche.
«Possono andarci solo i grandi» sentenzia zia Sylvestre.
Ma ecco una fata – no, è la mamma! – che appare in veste scollata. Ha piume bianche sulla testa e sembra tutta
vestita di perle. Monique sfiora con le dita la stoffa, estasiata. Sì, sono piccole, piccolissime perle! Quanto le piacerebbe avere anche lei un collier.
Accarezza il collo della mamma, che si china e la saluta
in fretta. «No, niente baci, mi sono appena messa il rossetto!» E quando la sua manina risale sul velluto delle guance,
la voce spazientita della madre le ordina: «Lasciami stare!
Mi togli la cipria!»
Dietro di lei c’è papà, tutto vestito di nero, con la grande
V bianca della camicia che spicca sotto il panciotto. Che
buffa! Sembra fatta di cartone lucido! La mamma sta raccontando una storia alla zia, che l’ascolta sorridendo. Ma
papà pesta i piedi e grida: «Per la vostra mania di mettervi
del nero sulle ciglia e del rosa sulle unghie, rischiamo di
perdere l’ouverture!»
Quale ouverture? Quella delle ostriche? No. Appena papà e mamma se ne vanno, senza neppure darle un bacio, zia
Sylvestre le spiega che si tratta dell’ouverture della musica.
«E come si fa ad aprire la musica?» le chiede Monique,
perplessa.
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La zia la prende sulle ginocchia. «La musica è il canto
che si effonde da tutto, da noi quando siamo felici, dal vento quando soffia sul bosco e sul mare. Ed è anche il concerto degli strumenti che evocano queste cose. L’ouverture è
come una grande finestra sul cielo che si apre per far entrare la musica e permetterci di ascoltarla» le spiega, accarezzandola.
Monique la guarda con affetto e annuisce.
Monique ha otto anni. È cresciuta in altezza e tossisce
spesso. È per questo che, quando la porta al mare, Mademoiselle (che non è più la vedova, ma una lussemburghese antipatica con le guance paffute e rubizze) non deve
lasciarla diguazzare con le gambe nude nelle pozzanghere
piene di granchiolini. Mamma e papà le hanno ordinato
anche di non farla correre davanti alle onde, sulla sabbia
che s’indurisce quando è bagnata. La piccina non può così raccogliere né le alghe fresche, impregnate dell’odore
del mare, né le conchiglie, nella cui cavità madreperlacea
riecheggia il rumore dei flutti. «Che cosa vuoi farne di
quelle sudicerie? Gettale via!» aveva detto una volta per
tutte la mamma.
Monique non può nemmeno leggere come vorrebbe
(troppa concentrazione fa venire il mal di capo). Per contro,
deve fare ogni giorno un’ora di scale al pianoforte (e benché lei si lamenti, dicendo che le sembra d’impazzire, molti sostengono che quell’esercizio sia una buona disciplina
per le dita). Ma se le vacanze sono queste, a Trouville ci si
annoia più che a Parigi!
A Trouville, poi, Monique vede i genitori ancor meno
che a Parigi. La mamma è sempre in gita in automobile con
gli amici. La sera, le rare volte che torna a casa, cena in gran
fretta e poi si cambia per andare a ballare al Casino. Rientra
molto tardi e la mattina la trascorre quasi tutta a letto. Pa11
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pà, invece, viene soltanto il sabato, con il treno dei mariti, e
la domenica discute d’affari con dei signori.
Il momento peggiore è quando la mamma decide di andare alla spiaggia. Due file di gente, una che va e una che
viene, come in un grande negozio di biancheria.
Le mannequins si mettono in mostra in file serrate. I signori e le signore seduti intorno alle capannucce di vimini
e alle tende scambiano cenni di saluto con i signori e le signore che sfilano in processione.
Quando arrivano alla fine della passerella, fanno dietrofront e ripartono. Monique si chiede cosa stiano inseguendo. È un altro mistero. Il mondo ne è pieno, se deve credere alle risposte con cui mettono a tacere le sue incessanti
domande.
Per il momento si diverte, non lontano dalla cabina
materna, con la piccola Morin e un’altra compagna di cui
non conoscono il nome. L’hanno battezzata Trottola perché gira sempre su un piede, cantando. Accucciate sulla
sabbia, sotto lo sguardo distratto della Mademoiselle lussemburghese, stanno costruendo un castello dorato con
bastioni e fossati. Nel mezzo, ritto sull’attenti e con il rastrelletto sulla spalla, c’è un bimbo ricciuto soprannominato Pecora. L’hanno messo lì perché stia buono, dicendogli che lui era la guarnigione.
Secondo la regola del gioco, quando il castello sarà finito la guarnigione tornerà libera e il suo posto verrà preso dalle tre bimbe che si lasceranno catturare. Ma i lavori
sembrano non finire mai, Pecora si spazientisce e tenta
una vigorosa sortita. Trottola e la piccola Morin se la danno a gambe. Monique, fiduciosa nel rispetto delle regole,
non si muove, e quando Pecora cerca di imprigionarla,
oppone resistenza. Lui la spinge. Sberle, urla. La lussemburghese si precipita a dividerli e riceve anche lei la sua
razione di botte. Le mamme accorrono. Separano i com12
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battenti e, senza dar retta alle loro confuse e contraddittorie spiegazioni, ristabiliscono l’ordine. Pecora si ribella
e si busca uno schiaffo. Nello stesso istante una mano si
abbatte sulla guancia di Monique. Clic! Clac! «Così imparerai!» le dice la mamma.
Con la faccia in fiamme, la bimba guarda incredula la
nemica che ha abusato della propria forza. La nemica
soddisfatta di aver equilibrato torti e punizioni. È la sua
mamma! Com’è possibile? Monique si sente invadere da
un misto di collera e stupore. Ha subito un’ingiustizia e
ne soffre, come una donna.
Monique ha dieci anni. Ormai è grande. O piuttosto, come dice la madre, è una bimba insopportabile, con i suoi
capricci e i suoi nervi.
Non fa mai nulla come tutti gli altri! L’altra domenica,
giocando a nascondino nel parco di Madame Jacquet con
Michelle e altri monelli, si è strappata il vestito di trine.
Un antico merletto di Malines acquistato al prezzo “d’occasione” di centosettantacinque franchi al metro! E ieri,
mentre faceva merenda dal pasticcere, ha preso dalla vetrina una grossa focaccia di quasi un chilo per portarla
fuori, sul marciapiede, a una bambina cenciosa che la stava divorando con gli occhi anziché darle un buon tozzo di
pane!
Monique ha voluto pagarla con i suoi risparmi, è vero,
ma questa non è carità, è soltanto stravaganza. E anche
falsa generosità. Non si deve dare ai disgraziati il gusto, e
quindi il rimpianto, di ciò che non possono avere.
Questi pensieri la rattristano. Monique vorrebbe che
tutti fossero felici. E soffre perché i genitori non la capiscono. Non è colpa sua se ha un carattere diverso dagli
altri. E non è nemmeno colpa sua se con quelle guance
incavate e le spalle ricurve non fa onore ai suoi genitori:
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«Sei cresciuta come un’erbaccia!» si sente ripetere senza
sosta.
«Se continui così, finirai con l’ammalarti.» Gliel’hanno
già detto tante volte! È un’idea che lei accetta con rassegnazione, quasi con piacere. Morire? Non sarebbe poi un
gran male. Tranne zia Sylvestre, nessuno le vuole bene.
A Pasqua, dopo una brutta bronchite che l’ha costretta a
letto per tre settimane, Monique è talmente debole da non
riuscire a reggersi sulle gambe.
La zia l’aiuta ad alzarsi e il medico dichiara: «Bisognerebbe farle respirare un po’ d’aria di campagna, nel Mezzogiorno, se possibile, magari in riva al mare. Il clima e la vita
di Parigi sono nocivi alla sua salute.»
«La porto con me a Hyères! È il posto ideale, non è vero,
dottore? Là si rimetterà subito in forze» dice zia Sylvestre.
La decisione è presa. Il cuore di Monique si riempie di
gioia alla prospettiva di trasferirsi al sole, dalla sua vera
mamma. L’indifferenza dei genitori non la rattrista nemmeno un po’.
Monique ha dodici anni. Ha una treccia che le pende
sulla schiena e indossa gonne a quadretti da scolara. Nel
collegio di zia Sylvestre è la prima della classe. Al posto
delle vie grigie immerse nella nebbia, qui c’è un bel giardino che si inerpica sulla collina. Il sole veste tutto d’uno
splendore leggero. Brilla sulle palme nane che sembrano
felci giganti, sulle colonne spinose dei cactus, sugli aloe azzurri o listati di giallo, come enormi mazzi di lamine di zinco. Il mare e il cielo sono dello stesso turchino intenso e
all’orizzonte si confondono.
È di nuovo Pasqua. Pasqua fiorita! Gesù avanza sul suo
asinello tra il fruscio dei rami verdi. La terra è come uno
sfavillante tappeto variopinto di rose, narcisi, garofani e
anemoni.
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Domani Monique sarà tutta vestita di bianco, come una
sposina. Celebrerà le sue Nozze spirituali. Il buon curato
Macahire (non riesce a trattenere un sorriso pronunciando
quel nome) l’accoglierà, insieme alle compagne del catechismo, alla Sacra Tavola.
Monique ha cercato di assorbire lo spirito delle belle leggende dei Testamenti; e grazie alla sua grande amica élisabeth Meere, Zabeth, che essendo protestante ha già fatto la
prima comunione quattro anni fa, non le è stato difficile. La
fervente devozione dell’amica ha rinfocolato la febbre mistica che arde in lei. Attraverso l’adorazione del Salvatore,
hanno scoperto oscuramente l’amore.
Per Monique è fiducia, abbandono e candore. Si lascia
andare, con ingenua ebbrezza, sulle ali dei suoi sogni. Ha
un unico, infantile timore: profanare, mordendo l’ostia
immacolata, il corpo invisibile e presente dello Sposo Divino.
Prima, però, come le ha raccomandato l’abate Macahire,
dovrà confessare tutti i cattivi pensieri. Monique ne ha due
che cerca invano di scacciare. Quelle brutte mosche si posano senza sosta sul suo giglio bianco. Il bel vestito! Civetteria. E le uova, le uova di Pasqua. Golosità. Anzitutto quello enorme, di cioccolato, che riceverà da Parigi, e poi quelli
medi e piccoli, di zucchero di tutti i colori, e anche le uova
vere, bollite nell’acqua colorata, così divertenti da cercare
fra le piante e le aiuole del giardino!
È da una settimana che zia Sylvestre sta preparando
sorprese e intrattenimenti per tutto il collegio. È il suo
modo di comunicarsi. Ma l’abate Macahire se ne lagna,
dicendo: «Che peccato che una così brava donna sia una
miscredente!»
Non si direbbe però un peccato tanto grave, visto che
glielo perdona. Per Monique sarebbe una bella seccatura
andare in paradiso mentre la zia sconta i suoi peccati all’in15
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ferno! Ma tutti questi pensieri le danno il mal di capo. È
felice e c’è un bel sole, tutto il resto non conta.
Monique ha quattordici anni. Non ricorda più di essere
stata una bimba malaticcia. Ora è robusta come una giovane pianta che ha trovato la sua terra e cresce rigogliosa.
È nell’età meravigliosa delle letture, quando inizia a palesarsi il mondo immaginario e la giovinezza avvolge nel
suo magico velo la vita reale. Non ha alcuna nozione del
male, che la vigile educatrice ha sradicato dalla sua anima
naturalmente sana, instillandole invece il senso e il desiderio del bene.
Non sognatrice, ma credente. Non più in Dio, i concetti
contraddittori dell’abate Macahire e di Zabeth fanno ormai
parte del passato. Si è convertita, gradualmente e per libera
scelta, al materialismo razionale di zia Sylvestre, conservando come lei un’impronta spirituale. Una tensione all’assoluto alimentata dal fervore mistico che aveva preceduto
la conversione. Per questo Monique ha orrore della menzogna e venera religiosamente la giustizia.
La sua migliore amica è sempre Zabeth Meere, che nel
frattempo ha cambiato culto, diventando sionista dopo essere stata luterana. Da tre anni Zabeth è perdutamente innamorata di Monique. E la consapevolezza che si tratta di
un amore senza speranza non fa altro che attizzare il fuoco
della sua passione. Tra poco Zabeth lascerà il collegio e la
sua ipocrisia indietreggia dinanzi alla purezza della compagna. Vorrebbe coprirla di baci, ma non osa farlo.
Monique – che nutre una passioncella per il professore
di disegno, un ex pittore che assomiglia vagamente ad Alfred de Musset – è lungi dal sospettare sia i gusti di Zabeth
sia la salacità del professor Rabbe, il sosia di Alfred.
Un giorno di giugno, sul far della sera, Zabeth e Monique percorrono il sentiero della lavanda, che sale fino al16
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la grande roccia rossa a picco sul mare. In giardino fa ancora caldo, sotto le vesti la pelle è madida di sudore. In
lontananza, i monti Maures si stagliano azzurri contro il
cielo verde. Al largo c’è una piccola vela arancione e sopra le loro teste gonfi nuvoloni temporaleschi color rame
solcano il cielo.
«Si soffoca!» dice Zabeth. Strappa rabbiosamente una
foglia odorosa da un ramo di arancio e la mordicchia. L’odore degli eucalipti si mescola con quello delle piante aromatiche. I profumi inebrianti della terra provenzale.
Monique si slaccia il corpetto e alza le braccia nude, cercando invano un po’ di refrigerio. «Ah! Si è rotta la spallina!» La camicia scivola, scoprendo le rotondità piccole ma
perfette del seno. Sulla sua pelle bionda venata d’azzurro
spuntano due bottoncini di rosa.
«Nemmeno questa notte riusciremo a dormire» sospira
Zabeth. «Ehi, lo sai che i tuoi seni stanno diventando grossi come i miei?»
«Davvero?» chiede Monique, deliziata.
«Sì! Guarda» Zabeth scopre il suo petto dorato sul quale
si ergono, come una tacita offerta, due frutti più pesanti. Ne
confronta la forma un po’ allungata, bruna e soda, con
quella delicata e liscia di Monique. Poi Zabeth stringe nelle
mani chiuse a coppa i seni dell’amica, accarezzandoli dolcemente.
La sensazione è piacevole, e Monique sorride senza porsi troppe domande. Ma all’improvviso le dita di Zabeth si
contraggono.
«Smettila! Cosa fai?»
Zabeth arrossisce e balbetta: «Non so che mi ha preso.
Forse è il temporale!»
Per la prima volta Monique prova uno strano turbamento e si riabbottona in fretta il corpetto. In lontananza risuona una voce. È zia Sylvestre che le chiama. «Monique! Za17
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beth!» Anche Zabeth si riabbottona, stizzita. «Arriviamo!»
risponde Monique. L’eco dei passi della zia si avvicina.
Il temporale è finito.
Monique ha diciassette anni. Uno, due, tre... conta mentalmente. Sono già passati tre anni dall’inizio della guerra!
Com’è possibile? Eppure è la terza estate che trascorre a
Hyères da quando la cittadina si è trasformata in un gigantesco ospedale da campo dove i feriti rinascono.
Monique è ossessionata da quegli occhi stravolti accecati dal sole dopo la lunga notte di terrore. Non capisce come
i combattenti possano assuefarsi a una vita così spaventosa.
Né come quelli che fingono di combattere – o non combattono affatto – possano accettare le sofferenze e la carneficina degli altri.
Il pensiero che una parte dell’umanità sanguina mentre
l’altra si diverte e si arricchisce la sconvolge. Ordine, Diritto,
Giustizia! Le grandi parole sventolate sui cadaveri come
bandiere rafforzano in lei una nascente ribellione contro la
menzogna sociale.
Ha superato brillantemente l’ultimo esame, completando gli studi proseguiti senza mai smettere di dedicarsi agli
altri. Non solo ai convalescenti di Hyères, ma anche all’oscura folla che si agitava, in preda a tutti i mali, nel letto
fetido delle trincee.
Adesso inizia per lei una nuova vita: Parigi, le lezioni
della Sorbona. È ritornata in famiglia. Ha salutato zia Sylvestre, il collegio, il giardino, tutto ciò che l’ha fatta diventare una ragazza disinvolta, dallo sguardo ardito e puro e
dalle guance fresche. Ha detto addio al dolce passato che,
ridandole la salute, le ha ridato l’anima.
Nella casa di avenue Henri-Martin, quando è entrata
nella sua vecchia camera rimessa a nuovo per l’occasione,
Monique ha trattenuto a stento le lacrime. L’accoglienza
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dei genitori è stata commovente. Ha sentito che adesso
agli occhi di papà e mamma contava qualcosa, che era
all’altezza delle loro aspettative. Zia Sylvestre ha seminato, loro raccolgono. Monique è felice, non serba rancori, né
per la loro indifferenza né per il loro egoismo. Li ama per
principio.
Per la prima volta dopo il 1914 la famiglia è tornata a
Trouville. Monique trascorre tutto il mese di agosto lavorando come infermiera volontaria all’ospedale ausiliario
n. 37. È talmente impegnata, di giorno con i pazienti e di
notte con i libri, che non si cura degli altri. E quelli di cui
si cura meno sono proprio coloro che le sono più vicini: la
madre sempre in giro, il padre sempre assente. L’officina
Lerbier lavora per la guerra e guadagna milioni di franchi
fabbricando esplosivi. E intanto gli imboscati, i superstiti e
quelli che stanno a guardare si danno freneticamente alle
danze! A Deauville i gaudenti si accoppiano e ballano il
tango, ballano il tango e si accoppiano!
Monique ha diciannove anni. L’incubo è finito. In lei c’è
una tale forza espansiva, un tale bisogno di vita, che dopo
l’armistizio ha quasi dimenticato la guerra. Si lascia portare
dall’onda quotidiana.
Sempre più concentrata su se stessa, e sempre più
estranea nell’esistenza dei suoi genitori, segue corsi di letteratura e di filosofia, gioca a tennis e a golf e, nel tempo
che le resta, si diverte a modellare fiori artificiali, con un
procedimento tutto suo.
La cerchia mondana della quale, senza volerlo, fa parte
la giudica un’originale o una con la puzza sotto il naso
perché non le piacciono né i flirt né i balli. Monique, dal
canto suo, considera le amiche delle pazze più o meno
incoscienti e profondamente depravate. Frugare, come fa
Michelle Jacquet, nelle tasche dei calzoni degli amichetti?
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Oppure appartarsi negli angoli con le amiche, come Ginette Morin? No, grazie.
Se amasse, Monique amerebbe solo un grande amore,
al quale donarsi interamente. Ma non l’ha ancora incontrato. La madre si è messa in testa di maritarla al più presto e le suggerisce i candidati migliori; soltanto uno, però, le è parso degno d’attenzione: l’industriale dell’auto
Lucien Vigneret. Ma ogni volta che Monique l’ha guardato abbozzando un sorriso, lui non se n’è nemmeno accorto.
Nelle fantasticherie di Monique, stesa sul divano, la sua
vita scorre su un misterioso schermo in visioni che si sovrappongono l’una all’altra. Sogni di una precisione allucinante, dove il ricordo emerge dall’oblio e rivive. Pensa a tutte quelle altre Monique svanite nel nulla. Oggi ha vent’anni,
e ama.
Ama e sta per maritarsi. Fra quindici giorni sarà la signora Vigneret. Il sogno si è realizzato. Monique chiude
gli occhi e sorride. È molto emozionata, pensa che il municipio e la celebrazione ufficiale, le tediose smancerie del
lunch in pompa magna, la gente che si congratulerà con
lei guardandola con aria lasciva, non aggiungeranno nulla alla sua felicità.
Si è lasciata prendere ingenuamente due giorni or sono, si è data tutta a colui che è tutto per lei. Un amplesso
frettoloso, doloroso, ma che le ha lasciato dentro un’orgogliosa gioia. Il suo Lucien è la sua fede, la sua vita! Lo
rivedrà fra poco, alla vendita di beneficenza. Il suo cuore
palpita nell’attesa di quel dolce momento.
Amando, ha agito secondo il desiderio dell’amato. È felice e fiera di essere già «sua moglie», di avergli dimostrato
la sua fiducia con quella prova suprema di abbandono.
Aspettare? Negarsi fino al giorno del matrimonio? Perché?
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Ciò che dà valore alle unioni non è la sanzione legale, ma
la volontà della scelta. Quanto alle convenienze, otto giorni
prima o otto giorni dopo non fa una gran differenza!
Le convenienze! Monique sorride, un rossore malizioso
le avvampa le gote immaginando le parole perentorie della
madre. Se lei sapesse!
Monique trasale. La porta si è aperta. Appare Madame
Lerbier con il cappello in testa.
«Non sei ancora pronta? L’auto è già arrivata. Alle due e
mezza devi essere al Ministero degli Esteri.»
«Eccomi, mamma! Devo solo mettermi il mantello.»
Madame Lerbier alza gli occhi al cielo e geme: «Mancherò i miei appuntamenti!»
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«G
inette!» esclamò Monique.
«Che c’è?»
«Il tuo flirt!»
«Léo? Dov’è? Non si vede niente in questa confusione.»
«Al banco di Hélène Suze. Sta scegliendo un sigaro...»
«Sento fin da qui le loro sconcerie! Guarda come sorridono.»
«La cosa non sembra turbarti.»
«Anzi, mi diverte.»
«Non capisco!»
Ginette Morin scoppiò a ridere.
«Monique, ti adoro! Non capisci mai niente! In fondo,
malgrado le tue arie da ragazza indipendente, sei ancora
una bambina!»
Ginette le aveva già voltato le spalle e stava facendo gli
occhi dolci a un ometto grasso e capelluto, Jean Plombino,
il re dei faccendieri.
«Una cravatta, signore?» la apostrofò irriverente. «Oh!
Non per impiccarvi! No. Per aspettare quella della Legione d’Onore. Oppure questi bei fazzoletti? No? Allora che
ne dice di questa scatola di guanti?»
Sotto gli enormi lampadari scintillanti, dalla fuga di
stanze bianche e dorate saliva un sordo rumorio. I personaggi mitologici dei grandi arazzi sul damasco cremisi del22
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le pareti sembravano contemplare con sorpresa la folla che
si accalcava fra i banchi della vendita al pianterreno del Ministero, ronzando come un gigantesco sciame di api.
Jean Plombino, barone del Papa, ascoltava distrattamente Mademoiselle Morin. Si era accorto che Monique lo
stava fissando e le fece un profondo inchino, con la zazzera
che gli pendeva sulla fronte. Era vedovo di una siciliana,
venditrice di arance, e cercava per la loro unica figlioletta
un’educatrice degna della sua recente ricchezza. Fungo velenoso della guerra, ma fungo ebreo, e perciò fortemente
attaccato al suolo familiare, “il barone” teneva in alta stima,
nel suo feticismo dei valori, le virtù coniugali.
Sotto l’apparenza ardita, aveva colto la rettitudine e l’onestà di Monique. Qualità tanto più preziose per lui perché
gli erano sempre mancate, e sembrate rare, nelle ragazze
alla ricerca di un marito, o almeno di un amante, che si offrivano da tutte le parti. Bastava tendere la mano! Prezzo
segnato, a scelta.
C’era un unico inconveniente con quella piccola Lerbier
la cui radiosa bellezza lo affascinava così tanto: il suo imminente matrimonio con Lucien Vigneret, quel fabbricante di
automobili! Un buon partito, certo! Ma anche un incorreggibile donnaiolo. Bastava aspettare. Chissà! Magari un
giorno o l’altro avrebbero finito per divorziare. E poi, anche
se non poteva averla per moglie, sarebbe stata un’amante
straordinaria!
I milioni in banca sembravano autorizzare quel pachiderma dalla pelle umidiccia a dimenticare la propria bruttezza. Un uomo con una rendita di un milione e duecentomila franchi è sempre sicuro di esser ben accolto.
Contrariato dal freddo saluto con cui Monique aveva
risposto al suo inchino, Jean Plombino spostò lo sguardo
su Ginette Morin. Era una brunetta stuzzicante, a letto
doveva essere uno schianto ma la vedeva soltanto come
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un passatempo. Mentre Monique gli sembrava una compagna invidiabile, Ginette gli ispirava poca fiducia. Una
scappatella, però. Quel pensiero gli inumidì il cascante
labbro inferiore.
«Una scatola di guanti? Perché no? Soprattutto se prima
mi aiuta a provarli!» disse, tutto eccitato.
«Sei paia? Ci metterei un po’ troppo!»
«Non credo.»
Rise sguaiatamente.
Ginette lo guardò stupita.
«Che c’è da ridere? Capretto glacé, taglia sette e mezzo.»
«Non è la mia.»
«No di certo!»
La ragazza rise a sua volta, con una punta d’insolenza,
alla vista delle manacce del barone allargate sul banco.
Jean Plombino – che in altri tempi, quando faceva il facchino al porto di Genova, guadagnava tre franchi al giorno
issandosi sacchi sulle spalle – non si vergognava affatto
delle sue origini plebee. La passata umiltà lo rendeva ancora più orgoglioso della ricchezza conquistata.
«Non tutti possono avere le sue dita di fata, nemmeno
pagando!» rispose beffardo.
Ginette rimase in silenzio. Che cosa insinuava quell’individuo? A cosa alludeva parlando di un prezzo da pagare?
Aveva forse intenzione...? Baronessa Plombino? Per quanto fosse un essere ripugnante, la cosa si poteva prendere in
considerazione.
«Ah! Ecco che arriva Léo, l’arbitro d’eleganza! Buongiorno Monsieur Léonidas Mercoeur, Mademoiselle Morin
la stava aspettando» fece il barone.
«La colpa è di Hélène Suze» disse il nuovo arrivato, scusandosi con un’occhiata complice. «Le ho fatto la vostra
ambasciata, signorina.»
«E allora?»
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«Tutto a posto.»
“Fantastico!” pensò lei. Dietro il suo sguardo impenetrabile, immaginava già la serata che l’aspettava: il piacere di una fumatina d’oppio in quattro da Anika Gobrony;
la novità della cocaina e tutto quello che poteva succedere
dopo! Lo anticipava con una precisione confusa nella sua
malsana curiosità di “vergine per un quarto” in cerca di
tutti i vizi. Il barone sentì di essere di troppo. Tirò fuori
dal portafoglio una banconota azzurra e disse: «Per la vostra opera pia, signorina, con i miei rispetti a sua madre.»
«Prenda almeno qualcosa! Ecco! Questo sacchetto profumato! Garofano, il mio profumo preferito.»
«Lo accetto come ricordo. I guanti può darli al signore!»
Indicò Mercoeur e aggiunse: «Scommetto che è la sua taglia.»
Soddisfatto di sé, Plombino si dondolò sulle gambe fino
al banco vicino, dal quale Madame Bardinot e Michelle Jacquet gli rivolgevano cenni amichevoli.
«Non c’è più aristocrazia» sentenziò in tono amaro il dispensatore di verdetti mondani. «Il denaro ha livellato tutto. È il regno del cafonismo.»
Léonidas Mercoeur, più brevemente Léo, era al di sopra
di quelle miserie. Sontuosamente mantenuto dalla generosità delle sue amanti – prima che nel 1915 alcune fruttuose
speculazioni gli avessero garantito definitivamente l’agiatezza – l’ex parrucchiere promosso chroniqueur mondano
viveva delle proprie rendite: trentamila franchi in titoli di
Stato. I suoi risparmi di guerra. Da allora, dopo aver apprezzato la comodità dei servizi ausiliari, continuava a usufruirne da borghese. E così poteva destinare alle piccole
spese dell’amante Madame Bardinot (che ammontavano al
doppio delle sue rendite) una parte di quanto lei ricavava
dall’altro suo amante, il banchiere Ransom. Tutto questo
non impediva tuttavia al bel Léo, confidente delle vecchie e
precettore delle giovani, di adescare nuove vittime.
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Alcuni acquirenti interruppero il loro tête-à-tête. Fiera
di avere più clienti della sua migliore amica, la piccola Jacquet, il cui profilo da monella maliziosa intravedeva al
banco vicino, Ginette prodigava larghi sorrisi, gli occhi lucenti e il busto proteso. Con il collo nudo e i seni offerti
sotto il crespo leggero, sembrava che insieme a ogni oggetto desse un po’ di se stessa. Una soddisfazione vanitosa si mescolava all’eccitazione sensuale: quella sera sarebbe stata lei a incassare di più.
«Aspetti, Léo. Non mi ha detto niente!»
Lui vide avvicinarsi Max de Laume e Sacha Volant e
abbassò la voce, sussurrando in fretta: «Domani alle sei,
da Anika. Avremo tempo, i suoi genitori ceneranno all’Eliseo.»
«Dov’è l’appuntamento?»
« Al tè di Place Vendôme, con Hélène Suze.»
«Léo, lei è un amore!»
L’uomo si accomiatò inchinandosi cerimoniosamente,
ma poi un brusio fece volgere il capo a entrambi. Come una
nave d’alto bordo, tra le ali della folla che si scostava apparve la figura glabra di John White, il miliardario americano,
scortato da una scialuppa bassa e ondeggiante: la generalessa Merlin in persona, presidente dell’Opera dei Mutilati
francesi, che faceva gli onori di casa seguita da un’ondata
rumoreggiante di vecchi signori e belle signore.
«Ecco i veri clienti. Io me la batto!» disse scherzosamente Léo.
Monique, che aveva voltato le spalle a Ginette, fu assai
sorpresa quando vide passare la comitiva ufficiale. Dove si
stavano dirigendo? Senza dubbio dall’organizzatrice dell’iniziativa, Madame Hutier, vicepresidente dell’Opera. Ma il
corteo si fermò proprio davanti ai suoi fiori artificiali.
Ginette, pallida per la gelosia, corse alla riscossa, e Madame Hutier si profuse in smancerie.
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«Le presento» disse la generalessa rivolgendosi a John
White «la nostra cara vicepresidente Madame Hutier, moglie dell’ex ministro.»
Il viso ossuto del miliardario rimase impassibile. Null’altro che un piccolo scatto meccanico del collo a mo’ di presentazione.
«Mademoiselle Morin, figlia dell’illustre scultore» continutò Madame Merlin.
Ginette fece una graziosa riverenza, ma il suo nome fu
accolto con un cenno indifferente tanto quanto il primo.
«Mademoiselle Lerbier.»
Un’espressione d’interesse spianò i tratti spigolosi dell’americano.
«Ah! I prodotti chimici? Li conosco. E questi deliziosi
fiori?» Chinò il suo lungo corpo su quelle minuscole meraviglie: narcisi, rose, anemoni, simili a gemme fiorite in un
giardino di bambole.
«Mademoiselle Lerbier si diverte a farli con le sue mani.
Una vera artista! Così parigina!»
La generalessa, sorpresa dall’improvvisa animazione
dell’automa che stava scortando da una ventina di minuti
senza riuscire a strappargli altro che qualche «ah» o un rapido cenno del capo, colse al volo l’occasione per interessare il visitatore ai destini della sua opera caritatevole.
«È una delle nostre collaboratrici più devote. I mutilati
l’adorano.»
“Questa, poi!” pensò Monique, che aveva visitato soltanto una volta il grande ospizio di Boisfleury e ne era tornata così sconvolta da non avere più il coraggio di rimetterci piede. “Sta mentendo spudoratamente.”
La generalessa le lanciò un’occhiata militare, invitandola a sostenere la parte, mentre John White la guardava incuriosito. Aveva preso nella sua robusta zampa un fiore di
biancospino e lo esaminava con grande interesse.
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«Come sono graziosi questi piccoli petali bianchi!» disse
la generalessa, cercando di imbonirlo. «Guardi che finezza
di tono! Non si capisce se sia avorio o giada!»
«È semplicemente mollica di pane colorata» spiegò Monique.
«Ah!» fece John White. «Davvero? Lo prendo.»
E dopo aver dato il delicato gioiello alla grassa Madame
Merlin, perché glielo tenesse, estrasse un libretto e la penna stilografica dalla tasca interna della giacca. Poi, sempre
con aria impassibile, firmò e staccò due assegni. Il primo,
da cinquemila franchi, lo diede a Monique dicendo: «Per il
biancospino...»; l’altro, da diecimila franchi, lo porse invece
alla presidente, la cui faccia tonda si illuminò d’un fulgore
di luna piena, aggiungendo: «Per i mutilati.»
Quindi, dopo aver sorriso a Monique, elargì ai presenti
un triplice scatto del collo e si incamminò senza manifestare il minimo desiderio di fermarsi al banco seguente, malgrado i profondi inchini di Madame Bardinot.
Ma era arrivato il momento di onorare il donatore con
una coppa di champagne. La presidente, soddisfatta, ritenne superfluo indugiare in ulteriori convenevoli e spingendo
alle spalle dell’alta alberatura americana e della rollante
scialuppa-pilota fece deviare il corteo verso il buffet.
«Non ero al corrente dei suoi rapporti con l’America,
mia cara!» la rimproverò Madame Hutier.
«È la prima volta che sento parlare di John White.»
«È vero!» confermò un nuovo arrivato.
Appena udì quella voce, che per lei copriva tutte le altre,
Monique si voltò di scatto.
«Ma John White deve aver sentito parlare dell’invenzione di Monsieur Lerbier!» aggiunse Lucien Vigneret.
Il viso di Monique si era improvvisamente illuminato.
Un fuoco roseo animava il delicato biancore della sua pelle.
Sventolò l’assegno davanti agli occhi del futuro marito.
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«La notizia si è già diffusa?» gli chiese.
«È l’avvenimento del giorno!»
«Ancora non riesco a crederci!»
«Puoi ben dirlo!» mormorò Ginette tra sé e sé, tornando
a occuparsi delle sue cose, convinta che tutto fosse stato
architettato in anticipo, mentre Madame Hutier, compiacente di fronte al successo e all’amore, si affrettava a lasciare soli gli innamorati. «Che bella coppia!»
Monique e Lucien si guardarono e fecero schioccare le
labbra, mimando un bacio. Sotto la banalità delle parole, lei
udiva solo il canto della sua felicità.
«Non cercare a tutti i costi il pelo nell’uovo» disse Vigneret. «John White non è stato così generoso soltanto per
strapparti un sorriso, anche se val bene un assegno. L’ha
fatto per ingraziarsi tuo padre. Quel furbacchione ha pensato che l’integrazione dell’azoto nei concimi chimici potrà
giovare all’agricoltura americana. E poiché John White è
francofilo, e preferisce commerciare con Aubervilliers piuttosto che con Ludwigshafen... Capisci cosa intendo dire?»
«Well! Ben vengano i dollari!»
«Certo! L’oro è sempre il benvenuto. Anche se si tratta
di oro americano!» rispose Lucien con un’amarezza che la
sorprese.
«Ci restituiscono in beneficenza quello che abbiamo
speso in armamenti. Del resto, non è stata colpa di New
York, se Parigi e Berlino erano in guerra.»
«Hai ragione, Minerva!» annuì Vigneret.
Le aveva dato quel soprannome per la sua ferrea logica
– benché le apprezzasse, le sue affermazioni categoriche gli
incutevano un certo timore – e per la sua bellezza. «Minerva!» A Monique non piaceva essere chiamata in quel modo, le sembrava che la prendesse in giro. Era l’unica cosa su
cui non andavano d’accordo, l’unica ombra nel loro amore!
Guardò Lucien, che le sorrise.
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«Non è giusto canzonarmi ogni volta che parlo seriamente! Per me tutto quello che dici tu è sacrosanto.»
Lui la guardò, lusingato.
«Sei il mio presente e il mio futuro» continuò Monique.
«Il mio corpo e la mia anima. È così bello potersi fidare ciecamente l’uno dell’altra! Non mi tradirai mai, Lucien? Due
occhi come i tuoi non potrebbero, non saprebbero mentire!
Dimmi tutto quello che pensi! Lucien? Lucien, dove sei?»
Lui le prese la mano, le baciò il polso e mormorò: «Presente!», sussurrandole poi all’orecchio: «Ti amo!» Ma dentro di sé pensava: “Questa mania della sincerità è soffocante! Non promette certo un avvenire allegro! Forse ho sbagliato, avrei dovuto essere più sincero con lei. Avrei dovuto
confessarle tutto, anche la mia relazione con Cléo. O almeno pregare suo padre di dirle una parte della verità. Ora è
troppo tardi!”
«Ti amo!» Incantata da quelle parole magiche, Monique
riviveva l’ora indimenticabile: loro due, soli per caso nell’appartamento dove presto sarebbero andati ad abitare e che
lei stava arredando con tanto gusto. Aveva un solo desiderio, ma non osava formularlo: che quell’occasione si ripresentasse! Ignara che lui stava seguendo lo stesso percorso
in senso inverso, Monique rievocò i momenti che, giorno
dopo giorno, vivevano insieme: le compere, gli appuntamenti. Quella sera, la sua visita quotidiana. E il giorno seguente alle cinque il pellicciaio, un’occhiata ai mobili Impero di cui parlava Pierre des Souzaies e poi il tè al Ritz... ma
all’improvviso fece il broncio.
«Peccato che domani sera tu non sia libero! Mi sarebbe
piaciuto cenare insieme e andare da qualche parte dopo il
teatro! Ti terrò comunque il posto. È il palco 27. Alex Marly
nella parte di Menelao.»
«Farò l’impossibile per liberarmi. Ma è un affare importante.»
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Si trattava della licenza per produrre la sua nuova automobile, stava negoziando per venderla a un gruppo di belgi venuti apposta da Anversa. Pensava che sarebbero stati
più propensi a comprarla dopo una buona cena... Le aveva
fatto credere tutto, e Monique si era convinta che fosse una
delle tante noiose incombenze del suo mestiere.
«Però l’anno prossimo» disse, alzando un dito minaccioso «non ci separeremo mai!»
Dopo l’ebbrezza dei giorni nuziali, immaginava che gli
sarebbe stata accanto anche nel lavoro quotidiano. Avrebbero condiviso tutto, le preoccupazioni e i piaceri!
«Lo giuri?» gli chiese.
«Perbacco!»
All’età di trentacinque anni Lucien Vigneret era approdato al matrimonio come una nave che entra in porto dopo
una burrascosa traversata. Con la certezza di essere amato,
pregustava la calma dello spirito nella soddisfazione dei
sensi. La prospettiva di quella stabilità lo seduceva. Pensava unicamente alla propria felicità.
E quella di Monique? Si era persuaso di potergliela assicurare con un po’ di tenerezza, circondandola di attenzioni
premurose e, presto, con l’impegnativa presenza dei figli.
Impegnativa per la madre, perché lui non se ne preoccupava. Aveva già, da qualche parte, una figlia che aveva abbandonato. Una responsabilità che non sembrava gravargli
sulla coscienza più dell’ultimo cane che aveva schiacciato
con la macchina. Il suo grande tormento, dopo il matrimonio, sarebbe stato il pensiero dell’inevitabile rottura, almeno in apparenza, con la sua amante, la modista Cléo. Una
giovane donna che aveva sedotto e poi mantenuto, illudendola che un giorno l’avrebbe sposata. Passionale e gelosa, Cléo aveva lo stesso carattere di Monique. Ma più che
la franchezza e la spontaneità di quest’ultima, che era convinto di poter controllare, soprattutto da quando l’aveva
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completamente conquistata, temeva che l’altra avrebbe scoperto che si era già sposato e facesse scoppiare uno scandalo. Come poteva evitarlo? Continuando a placare i suoi sospetti, fino alla fine. Nel frattempo sarebbe diventato padrone, con il brevetto in tasca, dell’affare Lerbier. Poi avrebbe
deciso! Se fosse stato possibile, avrebbe continuato a tenere, con discrezione, la moglie e l’amante.
Accorto calcolatore, Lucien Vigneret contava di mettersi
al sicuro entrando in società con il futuro suocero. Il patto
sarebbe stato presto sancito e Monique, senza saperlo, era
la posta in gioco.
Colpita dalla crisi generale degli affari, l’officina Lerbier
vacillava, per quanto sembrasse in ottime condizioni. Quello che era rimasto dei profitti di guerra era stato assorbito
dalle ricerche per la nuova invenzione. Lucien pensava tuttavia di vincere una magnifica partita dando quietanza, nel
contratto di matrimonio, dei cinquecentomila franchi non
versati della dote di Monique, e portando nella Società Lerbier-Vigneret soltanto cinquecentomila franchi in denaro
liquido. La trasformazione dell’azoto, abilmente sfruttata,
valeva come l’oro.
Erano questi pensieri a generare il suo disappunto mal
dissimulato di fronte all’inquietante generosità di John
White, possibile accomandatario. Dopo il matrimonio, facesse pure quello che gli pareva! Ma fino ad allora, per lui il
valore della ragazza corrispondeva a quello del brevetto. E
ragionando così, Vigneret non era né migliore né peggiore
della maggior parte degli uomini.
Mentre stava per lasciarla, Monique lo supplicò di rimanere.
«Tra poco arriverà la mamma. Non andare via! Ci accompagnerai.»
Nel suo ingenuo fervore, godeva di quell’istante fuggente
come una suora gode al pensiero dell’eternità. Lucien, con il
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suo fare risoluto, con la sua muscolosa magrezza, con i suoi
occhi nerissimi, era superiore a tutti. I giovani più belli, accanto a lui non reggevano il confronto. Nemmeno Sacha
Volant, l’ex aviatore divenuto campione di automobilismo, e
Antinoo, alias Max de Laume, il critico letterario della Nuova
antologia francese avevano un fascino come il suo.
Proprio in quel momento Monique li aveva visti conversare con Ginette. Mademoiselle Morin lanciò un’occhiata
sprezzante al banco dell’amica, sul quale erano ancora allineati molti oggetti nonostante la vendita fosse quasi finita,
e indicando il suo, quasi vuoto, disse: «Che ne dici? Io non
ho più niente da vendere!»
«Sì, hai ancora una cosa!» la contraddisse Sacha Volant.
«Davvero? Cosa?»
«Questo!»
E il giovane indicò una rosa che avvizziva alla cintura di lei.
«Il suo fiore» disse Max de Laume con un sorriso ambiguo.
«Troppo caro per voi, amici miei!» ribatté Ginette.
«Oh!» esclamarono loro. «Quanto? Fissa un prezzo!»
«Non saprei. Venticinque luigi? È troppo?»
«Troppo poco!» affermò galantemente Sacha Volant.
«Io dico trenta. E ne vale di più!»
«Quaranta!» rilanciò Max de Laume.
«Cinquanta!»
Mademoiselle Morin giudicò che l’equivoco, se non l’asta, fosse durato abbastanza. Prese la rosa, che Sacha Volant stava già per afferrare, e la porse a Mercoeur, ricomparso in quel momento.
«Aggiudicato, signori!» esclamò, con una smorfia beffarda. «La mia rosa, non la vendo; la regalo!»
Nei vasti saloni dove la folla si era diradata e il rumore
attenuato, la vendita di beneficenza si stava concludendo.
Sul palco, la banda della Guardia Repubblicana aveva ceduto il posto alla famosa jazz-band di Tom Frick. Tra i
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tavolini del salone del buffet gli invitati ballavano il foxtrot e lo shimmy, mentre dai banchi si levavano risate e
voci più alte.
Sembrava una grande festa mondana, e nonostante il
luogo inconsueto, quelle cinque o seicento persone presenti
a tutte le cerimonie e le serate più esclusive si sentivano come a casa loro.
«Tua madre non viene» disse Vigneret. «Sono le sei! Devo scappare! Un affare improrogabile.»
Lucien aveva appuntamento con Cléo alle sei e un quarto! Non poteva perdere tempo.
«Allora ci vediamo questa sera» disse Monique, sospirando. «Non venire troppo tardi!»
«Alle nove e mezza, come al solito.»
Lucien si allontanò sotto il tenero sguardo di lei. Quando
scomparve, Monique si sentì improvvisamente isolata. Che
cosa ci faceva in quella fiera di tutte le vanità e di tutte le
corruzioni?
Il lusso e la stupidità che si pavoneggiavano nelle sale del
Ministero – mentre le venditrici proclamavano a voce alta i
loro incassi – le davano la nausea. Il cartellone dorato con la
scritta A beneficio dei Mutilati francesi non riusciva a cancellare, nella sua memoria e nella sua sensibilità, l’atroce visione
del grande ospizio di Boisfleury.
Benché durante la guerra avesse familiarizzato con le sofferenze e gli ospedali, quei millepiedi umani che si trascinavano o saltellavano sulle grucce, i tronchi che avanzavano
sulle rotelle, i volti sfigurati dagli shrapnel – tutti quei rottami di uomini che un tempo avevano nutrito speranze e amori e ora erano soltanto corpi informi con gli occhi bianchi e le
bocche torte – la turbavano ancora. La guerra era un crimine, un’onta che tutto l’oro del mondo, tutta la pietà della
terra non avrebbero mai cancellato dalla fronte insanguinata
dell’umanità!
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La risata acuta di Ginette Morin riecheggiò nella sala.
Monique vide arrivare la madre e si affrettò ad andarle incontro. Madame Lerbier, sorridente nelle sue pellicce, avanzò verso di lei con nonchalance.
«Andiamocene subito!» le disse Monique.
«Che ti prende?»
«La nausea!»
Madame Lerbier s’impietosì.
«Non c’è da stupirsene, con questo caldo! Ma prima fammi fare un giretto.»
E poiché le sembrava di soffocare, si liberò della stola di
zibellino e Monique vide il collier di perle brillare sul suo
grasso collo.
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La garçonne - 10 righe dai libri