ANGELO PAGANO Bagattelle d’un pellegrino Roma 2009 «Non vado in cerca di cose grandi» (Sl 131(130),1) «Il cielo e la terra passeranno …» (Mc 13,31) Agli amici del Centro per gli Adulti della parrocchia Gesù Divino Lavoratore «Raccattate gli avanzi» (Gv 6,12). È la parola di Gesù che mi ronzò nella memoria, quando - constatato il decesso del foglio periodico TEMPO LIBERO, causato da ripugnanza per simile cibo che assalì taluno all’improvviso qualche amico mi chiese di poter almeno tornare a rileggere alcuni mozziconi di riflessione, pubblicati sull’ormai defunto foglio degli operatori del Centro parrocchiale per gli Adulti. Erano andate così le cose quanto all’iniziativa del foglio TEMPO LIBERO. Il nuovo parroco di Gesù Divino Lavoratore, mons. d. Luigino Pizzo, subentrato a mons. d. Francesco Rauti, diede l’incarico all’autore di questo volume, responsabile del Centro di Accoglienza, d’ideare una sorta di minuscolo statuto per offrire un’altra opportunità (non però soltanto ricreativa) d’impiego d’una parte del tempo libero, alle persone adulte che, soprattutto di pomeriggio, «parcheggiavano» sfaccendate o quasi nei pressi e negli spazi protetti e gratuiti della Parrocchia, senza voglia d’inserirsi nelle attività e nei gruppi già organizzati e tradizionali (Legio Mariae, Azione cattolica, Apostolato della Preghiera, Centro di accoglienza ecc.) o non del tutto convinte e/o «occupate» da ciò che tali gruppi offrivano alle loro aspettative. Nacque così, come propaggine del Centro di Accoglienza, il parrocchiale Centro per gli Adulti (CpA), struttura tuttora esistente. Il passare degli anni e delle persone – com’è ovvio - ha imposto o suggerito qualche modifica ed adattamento al programma fondamentale originario, che prevedeva 3 incontri settimanali di 2 ore per volta nel primo pomeriggio. Ogni incontro era (ed è) costituito dalla prima ora di accoglienza e socializzazione libera e dalla seconda ora dedicata invece a discussioni, approfondimenti ed informazioni a carattere religioso-culturale e d’attualità. Un piccolo gruppo di persone a titolo volontario, che chiamiamo operatori, curano l’accoglienza dei frequentatori e programmano col sottoscritto le iniziative che riguardano le attività proposte di anno in anno (da settembre a giugno). La partecipazione agli incontri era (ed è) gratuita e libera; l’opportunità è offerta a persone adulte (non necessariamente …anziane).Alcune iniziative originarie, come s’è detto, decaddero o si trasformarono; quelle superstiti, decise e modificate man mano, sono i pellegrinaggi mensili di domenica, i pellegrinag5 gi annuali di durata settimanale, il pellegrinaggio quaresimale a 7 chiese romane, la Cena dell’agnello pasquale ogni 2 anni, mostre varie di manufatti ecc. Una delle iniziative decise per tempo dagli operatori del CpA fu il foglio periodico TEMPO LIBERO, concepito come spazio per la condivisione di pensieri, emozioni, esperienze, interrogativi e quant’altro, a disposizione degli stessi operatori ed anche dei frequentatori ed amici del Centro. L’autore di questo volume, nel corso del circa quindicennio di vita di TEMPO LIBERO per un totale di 73 numeri, propose tra l’altro anche alcune riflessioni a carattere religioso-culturale, perlopiù firmate con le sigle api (a.p., ossia Angelo Pagano) e dia (d.A., ossia don Angelo). Si raccolgono qui le dette riflessioni (talvolta con qualche inessenziale taglio o modifica o aggiunta), non nella sequenza cronologica della pubblicazione su TEMPO LIBERO, bensì raggruppate per contenuto simile o analogo. Sono stati tuttavia registrati l’anno di pubblicazione ed il numero di serie di TEMPO LIBERO in coda ad ogni «pezzo» con la sigla # tl. Non sono inclusi in questa raccolta gli scritti del medesimo autore su argomenti storici ed artistici di santuari e località che furono meta dei numerosi diversi viaggi frattanto compiuti. S’è pensato però di fare breve eccezione esemplificativa con la sezione del volume intitolata PELLEGRINANDO. Gli spunti di riflessione divennero man mano evocazione della natura di pellegrinaggio (cf. 1Pt 1,17) delle uscite organizzate dagli operatori del CpA, nel senso di viaggio ad una meta religiosa (virtuale e fisica), per significare il cammino dell’esistenza terrena del cristiano verso la Dimora celeste, osservando e godendo anche delle cose interessanti e belle, che si mostrano lungo i sentieri della vita e del mondo, effimero assaggio della Bellezza totale. Il disegno della copertina è un’invenzione caricaturale, spiritosa ed ironica, dell’autore di questa raccolta, realizzata parecchi anni orsono dall’alunno Marco Maggi. La sezione conclusiva FOTOGRAFIE è una raccolta di immagini che furono scattate tutte dall’autore del volume e, benché non siano mai state pubblicate sul foglio TEMPO LIBERO, s’è pensato d’allegarle a queste pagine, perché si ritiene ribadiscano, in altra forma espressiva e come postfazione, alcuni pensieri del libro. Sono immagini naturali, ossia stampate così come furono inquadrate e fissate dall’obiettivo fotografico in tempi e luoghi disparati, senza ulteriori interventi artificiali e/o manipolativi, fatta eccezione – com’è ovvio – per notizie e suggerimenti simbolici sovrapposti per questa pubblicazione. 6 INDICE Consolatrix afflictorum.................................................................... pag. 9 I tre Nomi ................................................................................................. 19 Illuminazione ......................................................................................... 21 Nell’intimità del Dio .............................................................................. 22 L’Uno e l’Altro ....................................................................................... 24 Esistenza trasfigurata ............................................................................. 26 In Cristo Gesù........................................................................................ 27 Simbiosi salvifica ................................................................................... 29 Pastori di Betlemme .............................................................................. 31 Suono del Divino .................................................................................... 33 Voce del Silenzio ................................................................................... 35 Parola senza suono ................................................................................ 36 Pellegrinaggio al silenzio ....................................................................... 37 Preghiera senza parola........................................................................... 38 Provocazioni dell’ultimo piccino......................................................... 39 Dignità al diverso................................................................................... 41 Forte e debole ....................................................................................... 43 Piccolezza .............................................................................................. 45 Cadono .................................................................................................. 47 Più giusto e fraterno.............................................................................. 48 Variazioni mariane ................................................................................. 50 Arroganza dogmatica della ragione..................................................... 51 Uzzolo d’omologazione ......................................................................... 53 Grazie a Dio........................................................................................... 55 La trappola............................................................................................. 56 Tempo e profezia................................................................................... 58 La tomba svuotata.................................................................................. 60 Legge del consumismo........................................................................... 65 Roma giubilante..................................................................................... 67 Santostefano .......................................................................................... 69 Nato per morire..................................................................................... 71 Casalinga senza titoli ............................................................................. 73 Quiete di speranza................................................................................. 75 7 Moneta falsa............................................................................................. 77 Né magia né placebo............................................................................. 79 Mi sarete testimoni ................................................................................ 81 La profezia insultata............................................................................... 83 L’anno gradito........................................................................................ 85 Due pesi e due misure .......................................................................... 87 Furto di gloria ....................................................................................... 89 Giustizia che sopravanzi ........................................................................ 91 Attesa beata .............................................................................................. 93 Cielo nuovo e terra nuova..................................................................... 95 Parziale immagine.................................................................................. 97 Non occorrono titoli ............................................................................. 98 Nel cielo di Betania ............................................................................... 99 Divieto di sosta.................................................................................... 101 Benedizione spirituale ......................................................................... 102 Gioia pasquale ..................................................................................... 104 Attesa di cibo indefettibile .................................................................. 106 Trepida impazienza ............................................................................. 107 Pretesa opportuna ............................................................................... 109 Fate questo ............................................................................................. 111 Banchetto sulla riva del lago ............................................................... 113 Linfa eucaristica................................................................................... 115 Ringraziamento.................................................................................... 117 Risveglio felice da sonno mortale...................................................... 119 Non si dà primavera senz’inverno....................................................... 121 Non ama la morte................................................................................ 122 Dimenticherete l’afflizione.................................................................. 124 Voglia di festa ...................................................................................... 126 L’esplosione ......................................................................................... 128 Pellegrinando ........................................................................................ 131 Ialla ..................................................................................................... 133 Conchiglia bivalve con perla ............................................................... 139 Fotografie ............................................................................................... 143 8 CONSOLATRIX AFFLICTORUM La Croce di Gesù distende il suo mistero d’orrore anche sulle tragedie (di fantasia) degli umili credenti (cf. Co 1,24) d’un paese del mezzogiorno d’Italia nella prima metà del secolo scorso. - Madonna ... figlio mio! - urlò Concetta, nascondendo atterrita il volto con le mani tozze, mentre ‘mba Lorenzo stramazzava a terra. Maria accorse e vide il padre che si contorceva per un dolore feroce, senza lamentarsi. Intravide il volto terrorizzato della madre e trattenne i singhiozzi che le laceravano già la gola. Afferrarono ‘mba Lorenzo e lo trasportarono nell’altra stanzetta dell’umilissima casa. L’adagiarono sul monumentale letto matrimoniale che occupava quasi per intero l’ambiente. Una gran macchia rosso cupo si stava formando sulla camicia di tela rigata, all’altezza dello stomaco del ferito; strabuzzando gli occhi offuscati dalle lacrime le donne lacerarono la camicia. Maria si precipitò a prendere il fiaschetto del vino, che era in cucina, ed un catino con acqua; da un cassetto del gran comò prese un vecchio fazzolettone con arabeschi vari colorati. L’inzuppò d’acqua e vino e lo porse alla madre. Sbarrati ed arrossati aveva gli occhi ‘mba Lorenzo. Il respiro affannoso copriva di molto il lamento trattenuto delle donne. Concetta cercava d’arginare il sangue copioso che sgorgava sul petto del marito. Lo squarcio era largo 4 dita: di sicuro molto profondo, di traverso, verso il cuore. Maria serrava le palpebre da cui sfuggivano rivoli di lacrimoni. Reggeva tremante il catino, in cui Concetta strizzava frenetica lo straccio inzuppato di sangue e lo cospargeva d’abbondante vino. - Madonna del Carmine ... mamm... - ad un tratto fiatò quasi impercettibile ‘mba Lorenzo. Maria sbarrò gli occhi annegati nel pianto e notò il colore tetro quasi carbone delle labbra del padre e l’abbondante sudore. Concetta si fermò per ascoltare meglio. Il robusto petto di ‘mba Lorenzo sussultò: un profondo interminabile respiro. Respirò ancora, quasi raschiando con rumore sordo il fondo della gola. Contrasse il volto arso dal sole, che subito si di11 stese quasi nel sonno e lo reclinò sul cuscino verso la finestra illuminata dalla luce vespertina d’estate. Stava tramontando il sole di un’arroventata giornata meridionale. Le donne proruppero con acutissimi strilli che intrecciavano i nomi dialettali Larìiiii e tatàaaaa sul volto esanime. Si scambiavano a vicenda, di tanto in tanto, domande senza senso e senza risposte. S’accasciarono infine senza lacrime e senza fiato accanto alla salma dell’uomo che avevano disteso sul letto grande: esauste. Andrea lasciò intanto l’abitato con passo affrettato verso l’aperta campagna. Senza meta. Il cuore gli martellava di sangue le tempie. Indossava una camicia rosso-sangue a quadroni blu, le maniche rimboccate. Il colore dei pantaloni da lavoro era indefinibile, come quello dei pesanti scarponi di contadino. Incontrò 2 anziani giornalieri trafelati, forse gli ultimi che tornavano dalla faticosa giornata. Il passo era pesante, stanco; sul volto la consueta amara rassegnazione: non conversavano. Andrea non salutò, dimentico della consueta buona creanza tra contadini; neppure alzò gli occhi, incollati sulla strada sterrata; ma si spostò verso il centro della carreggiata inebetito. «Madonna ... figlio mio!» rintronava insistente l’urlo materno negli orecchi. E l’ubriacava. Il concerto infinito e tagliente dei grilli aveva intanto iniziato a riempire l’aria della sera incipiente. Echi di echi: risposte infinite a domande indecifrabili, mentre il crepuscolo cominciava a distendersi dolce su ogni creatura. Il fuggitivo percepiva ora il rumore cadenzato dei suoi scarponi sulla strada campestre: ne fu infastidito. La pace della notte che lo risucchiava gli risultava infida ed inquietante. Qué qué qué all’improvviso strillò una civetta nella notte.Andrea non ci badò; «di notte nei campi gli ulivi sembrano strani danzatori macabri» stava pensando. Qué-é-é-é-é-é-é di nuovo la civetta prolungò il suo grido asciutto. Seguì un pigolio strozzato e poi lamentoso della preda innocente sul sottofondo del concerto dei grilli implacabili. «È segnale d’un agguato e cattura d’una preda» commentò mentalmente il giovane. Cominciava a riaversi dall’ebbro intontimento; effetto probabile della frescura notturna. Seguitava a camminare sollecito da circa 2 ore. S’accorse di respirare quasi a fatica, a bocca spalancata e rallentò il passo. Girò il capo verso il buio del campo che gli scorreva assai lento di lato, sperando invano di scorgere il posto dell’agguato notturno, e risuonò straziata nella mente la voce nota: «Madonna ... figlio mio». Sudore abbondante gli colava dal volto per tutto il corpo. Si fermò tergendosi la fronte col dorso delle mani. Un profondo lungo respiro. Il cuore martellava ancora frenetico nel petto. Provò a respirare a bocca chiusa ed una fitta come lama lo percorse rapida dalla tempia attraverso la gola allo sterno. Riprese a camminare più lentamente senza meta nella notte. 12 - Quand’uno muore, la civetta va sul davanzale della finestra a fargli il verso - Andrea trasalì e si portò le mani callose alle orecchie.Aveva udito una voce pastosa, proprio quella del padre che tutti chiamavano con rispetto in paese ‘mba Lorenzo. Lo rivide stramazzare ai suoi piedi sul pavimento di pietra bianca senza fiatare, senza un lamento. Riudì il rumore sordo del coltello che gli era scivolato dalla mano fremente sul pavimento. Si fermò. S’abbandonò sul muretto a secco di grossi sassi che delimitava la strada polverosa.Tentò invano un respiro profondo: quasi un macigno gli bloccava la trachea. Improvvisa, inesorabile la certezza gli perforò la giovane mente analfabeta. - L’ho ucciso! - bisbigliò alla notte; poi - Ma’! - urlò disperato e l’eco notturna dilatò per qualche istante l’angoscia di quell’invocazione della mamma disperata. Rimase appoggiato al muretto per qualche tempo. Riprese a camminare per tornare in paese ed a notte fonda bussò alla caserma dei carabinieri. - Ho ucciso mio padre - disse risoluto al milite che finalmente gli aprì l’uscio.Aveva gli occhi arrossati e colmi di lacrime, la voce strozzata. Un figlio assassino di suo padre. Questo pensiero implacabile seguitava a sconvolgere di continuo la mente di Concetta: 2 disgrazie terribili nella sua casa. Le sembrava a volte un brutto sogno da cui sperava di risvegliarsi presto. Lorenzo, onest’uomo rude analfabeta, bracciante giornaliero instancabile ed esperto per i lavori rurali, non era mai riuscito a guadagnare più dello stretto necessario ad assicurare pane quotidiano o poco più a sé ed alla sua famigliola. Aveva sperato d’iniziare a mettere qualcosa da parte, da quando anche Andrea trovava qualche giornata di lavoro nei campi. Padre e figlio non erano però d’accordo quasi in nulla. Comprare qualche vigna di buon terreno era il sogno di ‘mba Lorenzo.Andrea lo derideva con spavalderia provocatoria, scansando i manrovesci rabbiosi del padre. Concetta tollerava con pazienza e buon senso sornione le illusioni del marito che invecchiava e non smetteva di sognare. Evitava d’intromettersi nei frequenti litigi furibondi del suo primogenito col padre che, da parte sua, non voleva saperne della voglia del giovane d’andare a cercare fortuna altrove. - Lorenzo, che mangiamo domani? Non c’è più un soldo. Sono 3 giorni che non porti una giornata. - Ragazza, non mi rompere la testa. Che ci posso fare? Lavoro non ce n’è. Quand’esce il sole domani ci penseremo ... Dio provvede! - Beato te! - concludeva Concetta il breve dialogo serotino col marito. Il giorno seguente intanto le riservava di nuovo la vergogna d’armarsi di faccia tosta ed andare al negoziante a chiedere ancora un po’ di pane a prestito e pregare di segnare sul quaderno l’importo con la solita promessa di saldare il debito quanto prima. - Qualcosa da masticare è necessaria ai ragazzi – si diceva per farsi coraggio. 13 Concetta s’era illusa anch’essa che almeno il solo pane quotidiano non sarebbe mancato alla sua casa, quando Andrea aveva cominciato a lavorare col padre, nonostante i litigi continui. Doleva però nel fondo del suo cuore un’altra pesante preoccupazione: dove e come trovare il danaro per preparare un minimo corredo alla ragazza, com’era usanza anche dei più poveri del paese? Maria si faceva grande e doveva pur maritarsi! Concetta aveva talvolta confidato a Lorenzo questo pensiero. Né lei né il marito avevano mai preso in considerazione che Maria dovesse andare a servizio o a qualche altro lavoro fuori casa per guadagnarsi l’occorrente per accasarsi. Metteva intollerabile vergogna persino il pensiero che la ragazza dovesse essere costretta ad una simile eventualità. - Speriamo che Cristo e la Madonna mi diano salute e vita lunga - tagliava corto ‘mba Lorenzo sull’angoscia della moglie. - Adesso che anche Andrea aiuta a tirar la barca ... Speriamo che abbassi la cresta quel ragazzo ... Chissà ... Dio provvede, Concè! -. «Dio provvede» era il ritornello magico con cui il contadino laborioso e sfortunato cambiava d’incanto lo scenario, quando il futuro della sua famiglia s’abbuiava di disperazione. Concetta, più concreta, era spesso irritata da simile religiosità tappabuchi, che non leniva in alcun modo i suoi presentimenti angosciosi. - Povero Lorenzo, marito mio ... Andrea ... un figlio assassino in galera ... Maria, povera figlia mia ... - prorompeva talvolta Concetta ad alta voce per i tristi pensieri della sua mente, rimuginando la tristissima storia della sua vita. - Come faccio? ... Come faccio, Dio mio? - si domandava sottovoce e riprendeva a piangere lacrime silenziose.Trascorrevano giorni e giorni senza cibo le 2 donne sventurate. Portava talvolta qualcosa zia Filomena, la sorella di Lorenzo. Lo stomaco di mamma e figlia rifiutava però quasi sempre ogni alimento: vivevano di lacrime e tristissimi pensieri, sottolineati con invocazioni a fil di voce di Concetta «Madonna, aiutami!». Ogni angolo, ogni oggetto della vecchia casetta a pian terreno sulla piazza del paese, con l’uscio ormai perennemente sbarrato, ricordava i tempi meno infelici della povera famigliola. Erano ricordi che affondavano sempre più la lama della tristezza nel cuore della donna. Era una mattina di maggio inoltrato quando Concetta svegliò all’alba la figlia. Indossava il solito abito nero di cotone del lutto; erano trascorsi quasi 5 anni dal giorno della disgrazia. - Maria ... Maria - la chiamò sottovoce. - Voglio andare alla Madonna -. - Sì, mama’ ... sì - rispose la figlia svegliandosi e stropicciandosi gli occhi; non riusciva più a far ragionare la mamma. Era infatti assai presto e da 5 anni Concetta non era più uscita di casa. La donna era ormai talmente deperita 14 ed invecchiata per la tristezza e l’inedia che Maria s’era convinta che la madre avrebbe lasciato il loro tugurio solo da defunta. Non immaginava certo che avrebbe desiderato uscire almeno per «andare alla Madonna». - Voglio andare alla Consolata - spiegò Concetta con voce arrochita, mentre la figlia si metteva a sedere sul giaciglio sbadigliando. - Va bene, andiamo – rispose Maria, rincuorandosi un poco. S’infilò rapidamente un vestitino senza pretese, diventato troppo abbondante, sollecitata dal timore che Concetta potesse cambiare decisione. Uscirono frettolose. Maria chiuse l’uscio con la grossa chiave e mandò un rapido sguardo agli usci vicini. La piccola piazza era deserta e gli usci serrati. Erano solite nei tempi andati, quando uscivano, salutare qualcuna delle vicine di casa, lasciando la grossa chiave ed informandola sul tempo del rientro, caso mai qualcuno tornasse prima del tempo dalla campagna. Nessuno d’altra parte sarebbe rientrato a casa durante la loro assenza questa volta. Il cielo spandeva luce assai tenue mentre s’imporporava d’aurora ad oriente. S’incamminarono assai lentamente e silenziose. Concetta, appena fuori dell’abitato, estrasse dalla capiente tasca dell’abito nero una Corona del Rosario con grossi grani ricavati da nòccioli d’oliva. Era un oggetto appartenuto a sua madre e prima ancora a sua nonna. - Dès inaiutorio - cominciò Concetta in latino tra maccheronico e dialettale, com’era usanza, segnandosi col Crocifisso del Rosario. Era devozione plurisecolare inviolabile la recita del Rosario per chi percorreva la strada che conduceva dal paese al santuario rurale della Consolata. Chiamavano in paese «La Consolata» una chiesetta dedicata alla Vergine sotto il titolo di Consolatrix afflictorum. Il piccolo santuario, situato in aperta campagna ai piedi della collinetta su cui sorgeva il paese, distava un paio di chilometri dall’abitato. Una perfetta linea retta era la strada che lo congiungeva al paese.Vi si celebravano 2 feste all’anno (a maggio e ad ottobre) ed in quelle occasioni tutta la gente del paese «andava alla Madonna». Scendeva di solito ogni domenica di buon’ora il prete a celebrarvi la Messa. La chiesetta però era accessibile tutti i giorni fin dal mattino presto per i devoti assidui e casuali, per la cura d’un vecchio custode senza famiglia che abitava in un vano addossato all’edificio, attiguo alla sagrestia. La chiesa con facciata spoglia a cuspide, preceduta da 2 piccoli filari di pini, era costruita con pietra calcarea, secondo l’uso del luogo.Aveva una sola piccola navata che terminava in un transetto senz’abside. Un altare di marmo era addossato sulla parte centrale del muro frontale del transetto; sull’altare troneggiava un affresco rurale di Madonna con Bambino. I colori dell’immagine inquadrata in una cornice semplice, anch’essa dipinta, a stento si percepivano nel biancore della parete. Era una solita Madonna popolare 15 d’anonimo artista con viso rotondo e mento appuntito; gli occhi spalancati con espressione spaurita. La Vergine sorreggeva con gesto acrobatico un goffo Bambinello che voleva essere piangente. Mamma e Figlio erano incoronati alla buona con mezze corone di metallo annerito infisso nell’intonaco dipinto. Un rozzo arnese, di norma stracolmo di candele votive era addossato di fianco all’altare e l’odore pungente della cera bruciata stazionava perenne nel piccolo santuario. Giunsero al santuario quando il sole era già sorto. Il suono argentino soavissimo dell’unica piccola campana della chiesina s’era unito, strada facendo, al gridio delle rondini nella vastità dell’aria mite primaverile e le donne avevano capito che c’era la Messa quella mattina ed avevano affrettato il passo affaticato. L’interno della piccola navata, del tutto sgombro di fedeli, appariva assai buio a chi veniva dal chiarore roseo del sole mattutino. Concetta, varcata la soglia, s’accinse a prelevare 2 sedie dalla catasta sulla destra dell’entrata, come in ogni chiesa. Accorse la figlia che s’era segnata con l’acqua benedetta: la liberò dal peso delle sedie e seguì la madre che s’incamminò verso l’altare al cui lato ardevano già molte candele sul trespolo inzaccherato di cera. Scelse il posto a destra della navata, all’angolo formato dal piccolo transetto, dalla parte delle candele votive. Maria posò la sedia e Concetta si sedette; la figlia fece altrettanto. Rimasero in silenzio, senza biascicare preghiere. S’aprì ad un certo punto, cigolando, una porticina a fianco dell’altare dalla parte delle 2 donne e vi sbucò il vecchio custode, il quale, abbozzato un cenno di rapida buffa genuflessione, accese 2 candele sull’altare ai lati del tabernacolo ed altre 3 sul trespolo devozionale. Il vecchietto stava tornando in sacristia quando Concetta lo chiamò con un sibilo delle labbra e gli mise in mano una monetina senza nulla dire. L’ometto tornò al trespolo, accese un’altra candela e s’infilò nell’uscio della sacristia. Erano ormai una diecina le donne sparse qua e là nella navata. Concetta avvicinò a sé una sedia vuota rimasta nei pressi, piegò la spalliera verso il suo petto, v’appoggiò i polsi delle mani che nascondevano il volto reclinato in avanti. - Madonna, Madonna mia, consolami. Levami questo peso che ho qui, sullo stomaco - cominciò a supplicare ad alta voce.Alzò il viso, guardò l’immagine sacra e si portò la mano destra sul petto. - Madonna ... un figlio assassino ... una povera figlia sola ... non ce la faccio più ... voglio morire ... Madonna, aiutami ... aiutami ... consolami -.Aggiunse un rumoroso sospiro e poi di nuovo silenzio. Maria intanto si sentiva avvampare di rossore e guardava verso l’altare con occhi colmi di lacrime ed il groppo alla gola. Avvertiva addosso, come un abito d’acuminate spine pun16 gentissime, gli sguardi basiti delle persone presenti che non ignoravano di certo la tragedia della sua famiglia. Si sentì liberata dall’incubo d’una nuova preghiera pubblica della madre, quando finalmente iniziò la celebrazione della Messa, che riempì il silenzio angosciato della chiesina. - In nomine Patris ... - iniziò con voce sonora don Giovanni e proseguì in lingua latina ecclesiastica, incomprensibile con ogni probabilità a tutte le fedeli presenti al rito. C’erano soltanto donne del paese. Maria s’inginocchiò sulla pietra del pavimento, quando il custode fece tintinnare il campanellino al «Sanctus». Sua madre invece rimase seduta, appoggiata alla spalliera della sedia che aveva davanti, col volto tra le mani. Il campanellino tintinnò di nuovo mentre il celebrante sollevava l’Ostia. Concetta s’alzò d’improvviso. Si guardò intorno con occhi smarriti. - Andiamocene - disse perentoria alla figlia. Maria la guardò atterrita; due lacrimoni scivolarono dai suoi occhi desolati. - Un altro po’, mamma. È l’elevazione! - disse sottovoce, afferrando le mani gelide della madre. - No, è tardi; me ne devo andare. Se torna tuo padre ... Non ho ancora acceso il fuoco sotto il pignattino di fave ... -. Maria proruppe in singhiozzi. - Oh, piangi. Perché piangi, figlia mia? Come sei stupida! Rimani pure, tu. Io comincio ad avviarmi. Mi sento stanca e voglio tornare a casa piano piano. Non è morto nessuno, non piangere.Andrea m’aspetta fuori; m’accompagna lui -. Concetta uscì con gli occhi persi nel vuoto. Il prete stava adorando il Calice del Sangue del Signore. Maria seguì la madre, singhiozzando forte. Concetta era morta da 15 anni, quando Andrea fu scarcerato. Maria era rimasta nella vecchia casa, sola, in ostinata attesa del fratello. Nessuno aveva mai osato avvertirla che Andrea forse non sarebbe tornato più. Lei non andò mai a fargli visita in prigione. Era però rimasta nella vecchia casa, perché Andrea, tornando, non doveva trovarla vuota vuota. Andrea tornò all’improvviso un giorno d’autunno e Maria si sentì morire dalla felicità. Morire. La donna cominciò allora a pensare alla morte, a «riposare»; finalmente. Ci sono fiori che conservano intatti fino a sera colori e profumo. Reclinano le loro corolle con la luce che declina, quasi anelando a riabbracciare la terra che li genera. Una sera gelida d’inverno, terminato il Rosario, guardava, come assopita, la fiamma rossastra del lume a petrolio. Andrea sembrava smarrito, anche lui, nei suoi pensieri, mentre la sorella biascicava le preghiere. Non aveva mai molto da dire del resto. Maria, seguitando a fissare la fiamma rossastra, sussurrò: 17 - Andrea -. Silenzio. - Cosa c’è - rispose il fratello ad un certo punto. Altro silenzio. - Quant’è buona la Madonna,Andrea! - riuscì a dire Maria alla fine.Abbassò le palpebre e i due soliti lacrimoni scivolarono furtivi, come ladri senza refurtiva, dai suoi nerissimi occhi grandi ed invecchiati. - Lo so - annuì asciutto il fratello, sorprendendola. - Sto pensando a mamma. Se non perdeva la mente, quanto dolore ancora, quanta sofferenza ...Avevo paura che morisse di crepacuore ... -. - Sì, è vero … la Madonna ... non so ... - farfugliò Andrea. - Domineddio e la Madonna ascoltano sempre i poverelli, Andrea - si riprese un po’ dall’emozione Maria, serena come se raccontasse una fiaba a lieto fine. - Quel giorno che siamo andate alla Consolata, mamma pregava: «Madonna, Madonna mia, consolami tu». E la Madonna la consolò, Andrea. La Madonna le toccò il cervello per non farla soffrire ancora; quel giorno mamma morì alla sofferenza, sotto lo sguardo della Madonna Consolata -. Maria non disse altro. Non raccontò al fratello quante volte nel delirio della follia la povera donna aveva ripetuto che Andrea era fuori casa e stava per arrivare, come quel giorno lontano nel santuario della Consolata. - È vero - concluse Andrea, incapace d’aggiungere altro. La nostalgia pungente della povera madre ed il rimorso lancinante per il disastro che aveva annientato con morte e dolore i suoi umili genitori, gli strariparono dagli occhi arrossati; e chinò il capo singhiozzando. # tl 97/20.21; 98/25.27; 99/31 18 I TRE NOMI ILLUMINAZIONE Dio, luce infinita, si diffonde man mano nel nulla della tenebra e rivela se stesso creando, incarnandosi per morire e risorgere in carne d’uomo mediante il Respiro o Spirito di vita che sgomina la perpetuità della morte umana. I cristiani professano d’essere salvati dalla morte mediante la potenza (nome) del Padre e del Figlio e dello Spirito o Respiro santo, vale a dire dall’incommensurabile ed onnipotente totalità divina che soccorre l’uomo adamitico mortale, secondo l’insegnamento della Scrittura. È verosimile che non fu casuale né dettata da mere preoccupazioni teologiche l’utilizzazione per tempo dei Tre Nomi come formula sacramentale dell’illuminazione battesimale, che è il primo impatto salvifico dell’eterna Luce con la persona bisognosa di salvezza dalla tenebra della morte perenne. La salvezza non è realtà circoscritta all’evento di Gesù di Nazaret. È processo d’illuminazione divina che precede, accompagna e segue la vicenda del Nazareno. È per questo operazione trinitaria. Iddio salvatore si pone per questo come Trinità di Persone che realizzano in pienezza il progetto salvifico con intensità (eternità) e continuità (tempo); disvelano insomma in forma progressiva alla storia dell’uomo adamitico il processo vivificatore che debella per sempre il feroce potere del regno della tenebra sempiterna. È la stessa luce, il medesimo invito a salvezza, che si distende sull’umanità con sempre maggiore intensità mediante il fulgore dell’annuncio cristiano della risurrezione fino all’esplosione finale e totale del compimento escatologico. L’intensità luminosa del mistero, nel senso di realtà indicibile della divina Trinità, cresce con l’approssimarsi del compimento della piena salvezza messianica. # tl 98/27 21 NELL’INTIMITÀ DEL DIO È noto che il termine «battezzare [baptàzein]» nella lingua greca, da cui deriva, significa immergere. «Battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (cf. Mt 28,19) vale dunque immergere nel Respiro vitale (nome) della Trinità divina. Il cristiano nasce figlio di Dio con l’immersione nell’oceano dell’Energia vitale (Spirito, Respiro), unico grembo dei Tre Nomi, ossia con un procedimento per paradosso inverso a quello dell’evento natale naturale, che è emersione dal grembo materno. Il seguace di Gesù è la persona che sussiste per sempre nella condizione di immerso (battezzato), non in una divinità comunque concepita, ma proprio nel vortice d’intimità divina svelata dal Verbo. La salvezza messianica non è un riscatto soltanto formale da pregresse trasgressioni etico-giuridiche. Non è una mera illuminazione divina (gnosi) della mente dell’uomo. Non è iniziazione ad un precostituito cammino verso un’astratta perfezione psichico-comportamentale. È divina energia vitale partecipata che sussiste da sempre come Padre-Figlio-Respiro, vortice eterno d’amoroso scambio personale infinito di beatitudine (cf. Rm 8,14-17). Dio «in sé» potrebbe anche essere, al limite, qualcosa di ben diverso da ciò che alla mente dell’uomo è dato intuire attraverso le metafore di padre, figlio, respiro (spirito). La rivelazione non è di sicuro una risposta a presunte domande umane e/o un inveramento omologante ai concetti della mente speculativa dell’uomo. La rivelazione trinitaria non è insegnamento specialistico d’eccelsa teo-logia; anzi essa, in fondo, non riguarda la mente dell’uomo, che è facoltà idonea a comprendere, soltanto ciò che è ovviamente limitato e limitabile. È invece Parola della tenerezza divina che comunica al credente la beatitudine dell’eterno dinamismo sublime che lo genera a salvezza da morte perenne col suo infinito respirare. Ogni mamma comunica la tenerezza della sua identità alla propria creaturina col suono di parole misteriose per l’infante, eppure idonee e decisive. Credere nella Trinità significa perciò soprattutto dare visibilità storica al grembo, in cui si vive la condizione di figli di Dio e si esiste come salvati per sempre, se non interviene un rifiuto consapevole, personale e libero. La fede nella Trinità comporta presa d’atto della propria programmazione genetica, per 22 così dire, in quanto cristiani. Il comportamento coerente col battesimo è per questo «custodire tutti i precetti» di Gesù (cf. Mt 28,20). Non è sadica costrizione della mente umana a fare i conti coi suoi limiti creaturali di fronte al Dio «in sé»; è piuttosto gioiosa esperienza dello sterminato orizzonte di divina intimità, in cui si è stati accolti dalla Misericordia che s’autogratifica per l’eternità. # tl 00/38 23 L’UNO E L’ALTRO Gli scritti giovannei parlano d’un Paràclito (cf. 1Gv 2,1) ed anche d’un Altro con lo stesso nome (cf. Gv 14,16). Il significato etimologico della voce greca non ha nulla d’incomprensibile o d’indefinibile. «Parßklhtoj (paraclito)» è forma composta dell’aggettivo klhto\j – che significa chiamato e quindi benvenuto –, preceduto dall’avverbio e /o preposizione par™ – che significa accanto. Paraclito pertanto è un «benvenuto accanto», ossia una presenza attesa e gradita che colma qualsiasi distanza o cesura con l’ospite. La ragione, per cui l’Attesa Presenza, cui alludono i Testi neotestamentari, è gradita e quindi benvenuta, sta nella circostanza che testimonia il divino progetto di salvezza dalla morte, rivelandolo. Il «Benvenuto accanto» è insomma un Testimone-rivelatore ed un Rivelatore-testimone della Misericordia salvifica. Uno dei benvenuti accanto all’uomo peccatore, bisognoso di salvezza dalla morte, è senza dubbio l’Inviato del Padre, Gesù di Nazaret, crocifisso e risuscitato (cf. 1Gv 2,1). Un altro è lo Spirito (cf. Gv 14,16), ossia l’Alito, il Respiro divino vitale, già energia vivificante della prima sostanza umana (cf. Gn 2,7) e del peccatore figlio d’Adamo, divenuto seguace di Gesù (cf. Gv 20,22). Non si tratta d’un caso di clonazione teologica. L’alterità dei Due è perfetta ed immodificabile a livello personale, in quanto Discorso e Respiro della comunione Trinitaria. Gesù assicura del resto di non intendere lasciare nell’orfanezza i suoi amici, nonostante lo scempio della croce che l’aspetta (cf. Gv 14,18); è infatti il Primogenito sempre vivo dell’immensa famiglia dei figli della risurrezione (cf.Ap 7,9). L’Altro non ha dunque il compito di sostituire un defunto fuori causa. La missione di Gesù quale Testimone della Misericordia (cf.Ap 19,10) presso ogni e qualsiasi figlio d’Adamo, bisognoso di riscatto da morte definitiva, rimane più che mai esclusiva e pertinente da quando è nella condizione di Risorto. L’offerta e fine della Misericordia è infatti proprio la risurrezione beata. L’altro Testimone è invece presenza gradita che alita vita di risurrezione nei figli d’Adamo che hanno aderito all’offerta salvifica. Lo «Spirito della ve24 rità», ossia della Misericordia svelata, è presenza ospite dei soli discepoli; infatti «il mondo non può riceverlo, perché non lo vede né lo conosce» (Gv 14,17). L’Uno e l’Altro sono però Testimoni perenni della medesima Paternità misericorde che offre ed attua salvezza da morte perenne al figlio d’Adamo. # tl 02/48 25 ESISTENZA TRASFIGURATA «E cambiò figura davanti a loro» (cf. Mc 9,2). L’impegno a favore della vita e contro la sofferenza dev’essere concreto e diuturno. Si rischia tuttavia per paradosso di comunicare falsi messaggi. Siffatto impegno infatti è in pratica condiviso in toto da chi giudica il benessere terreno il supremo ed unico valore da perseguire ad ogni costo e con qualsiasi mezzo. L’autenticità di un’esistenza trasfigurata dalla luce taboridica di Gesù tuttavia emerge proprio nella sofferenza e dalla precarietà del vivere terrestre, finalizzate alla vittoria sulla morte. Occorre infatti leggere la vita umana alla luce della morterisurrezione del Signore, perché s’abbia cambiamento di figura. Nessuna vita d’uomo adamitico è davvero vita in pienezza, se non è attraversata dalla luce taboridica; neppure quando sembrasse e/o fosse esente da qualsiasi tribolazione. «Ascoltatelo!». Non c’è problema a prestare ascolto a Gesù quando la sua parola conferma scelte e punti di vista dell’umana ragione o del sentire o dei valori imperanti (la pace, la libertà, l’impegno sociale, la lotta alla sofferenza, l’umana solidarietà ecc.). Non s’esita invece un istante, neppure dalla gran parte dei sedicenti cristiani, a dissociarsi dal Maestro quando prospetta orizzonti che trascendono e/o ignorano il benessere terreno. Si ciancia allora sulla supposta ovvietà dell’impossibilità che il Nazareno abbia mai inteso ridimensionare l’urgenza del presente modano o delle ambizioni terrene legittime dei comuni mortali. La quaresima dovrebb’essere tempo d’approfondita riflessione sul mistero pasquale, in modo che sia luce che passo passo cambia figura al cammino terreno del battezzato. La luce dell’umana ragione illumina all’interno della coscienza e può riuscire a volte problematico percepire, lasciarsi avvolgere e conquistare dal chiarore taboridico del volto di Gesù. È luce misteriosa questa che rischiara il sentiero che porta alla risurrezione, al risveglio dopo il sopore mortale, meta inevitabile del terrestre vivere. # tl 96/13 26 IN CRISTO GESÙ La narrazione piuttosto dettagliata degli ultimi giorni della vita terrena del Signore è ritenuta la più antica delle cose scritte su di Lui, pervenuta a noi. I pochi racconti delle «apparizioni» del Risorto non facevano parte di quella narrazione. Mc limita addirittura a pochissime righe la notizia della risurrezione (cf. Mc 16, 1-8), che pure è la vera «buona notizia» di tutto l’evento messianico ed il contenuto del suo lavoro (cf. 1,1). La ragione di tale appariscente sproporzione compositiva non sta di certo nel sopravvento d’un gusto malsano per la cronaca nera o del sentimentalismo sottilmente ricattatorio di certe devozioni folcloristiche. Il racconto dell’ultima settimana terrena di Gesù, lungi dall’essere un resoconto cronachistico strappalacrime, intende piuttosto mostrare l’assoluta innocenza e l’esemplare «giustizia» del Messia di fronte all’evento drammatico della sua sofferenza e morte infame. Gesù è il «giusto» testimone della misericordia salvifica del Padre; la sua vita è dunque nelle mani di Dio e nessun tormento la può distruggere (cf. Sa 3,1). L’immane sofferenza scelta liberamente, ancorché immeritata, è insomma prova paradossale della vittoria sulla perennità della morte, sotto il profilo della divina rivelazione. Il Signore non concluse il suo percorso d’uomo nello sceòl; l’attraversò soltanto per raggiungere la dimora di Dio, vivente risuscitato. Tutto questo garantisce sull’onore di Dio salvatore che, quanti accolgono (amano) Gesù professando la fede e praticando i sacramenti della chiesa, dimorano in Lui (cf. Gv 6,56). Occorre notare che l’espressione di Gv non indica un mero stato in luogo spaziale. Non si tratta di dimora in una tenda o in una costruzione, che prescinda da qualsiasi osmosi vitale tra contenente e contenuto. È espressione idiomatica ebraica che la persona abiti in un corpo,in un sangue (cf.2Co 5,1-9).Diverso è il nostro modo d’esprimerci:diciamo infatti d’avere un corpo, un sangue. Il cristiano che dimora in Gesù è pertanto radicato in Lui, è in connessione e comunione vitale con Lui, come Gv aggiunge altrove in modo esplicito (cf. 6, 53-55). L’apostolo Paolo con la formula «in Cristo (Gesù)» che utilizza ben 73 volte, aveva proposto lo stesso insegnamento. Un fiore vivo dimora in un terreno per procurare linfa allo splendore dei suoi colori ed al27 l’effluvio del suo profumo; la persona è in un corpo ed in un sangue che gli danno sussistenza nello spazio e nel tempo; il cristiano è in Gesù Messia risuscitato che gli assicura la dimensione d’esistenza escatologica. Il cristiano è tale soltanto se vive in e per (mediante) Gesù (cf. Gv 6,57), il Vivente per sempre che ha attraversato con esito vittorioso sofferenza e morte. Vivere in e per Gesù significa dunque attraversare la sofferenza del morire per raggiungere la risurrezione. Morte e risurrezione del Signore sono il divino terreno fertile. La salvezza cristiana è il fiore che nasce e si trasforma in frutto solo in quel terreno. # tl 02/49 28 SIMBIOSI SALVIFICA Il Vangelo secondo Giovanni, per identificare l’economia cristiana, non utilizza mai le categorie «testamento», «alleanza», «patto» ecc., che sono invece di frequente uso in tutta la Scrittura. Non pare proprio che si tratti d’un caso fortuito. Gv concepisce infatti il rapporto religioso tra Gesù e i suoi seguaci come vincolo assai più intimo e radicale di quanto possa configurare un «patto testamentario» o un’«alleanza». Il testamento sancisce l’efficacia della volontà d’una persona che muore e non è più in grado di governare le sue decisioni. L’alleanza suppone di necessità più energie distinte che convergono nella realizzazione d’un unico progetto. Il Risorto è vivente che non può morire più; ciò che offre è decisione d’un Vivente presente e non già d’un defunto assente per sempre. Il progetto salvifico da realizzare coi discepoli nella storia degli uomini non s’avvale di energie autonome e diverse. Occorre l’unica Energia del Padre che è nel Figlio ed opera nel mondo per mezzo dei discepoli; non può trattarsi di mera alleanza. S’esige radicale compenetrazione simbiotica, generata da costante e felice osmosi reciproca nel Respiro (Spirito) divino. Gv sostiene che la simbiosi tra Padre e Figlio dev’essere modello e struttura tra Risorto e credenti. È quanto il Maestro vuol far comprendere a Giuda Taddeo che gli chiede: «Com’è che stai per manifestarti a noi e non al mondo» (Gv 14,22). Il Risorto, pur tornato in vita, non abiterà più (non sarà più in) le dimensioni spaziali e temporali, che sono indispensabili per la visibilità e consistenza mondana. Sussisterà invece la sua presenza esclusiva nei discepoli, perché frutto d’una simbiosi che sta a monte, quella tra Lui ed il Padre. La sequela di Gesù è pertanto comunione radicale con Lui e col Padre nella condivisione vitale del Respiro divino (cf. Gv 20,22) e del suo evento-messaggio (cf. 14,23a; cf. anche v. 24a). La salvezza messianica per Gv (e per tutto il Vangelo) non è qualcosa (di terreno) che Dio offre all’uomo (ad Adamo e ad Abramo), come narra la prima Scrittura (cf. Gn 1, 26-29; 13, 14-17). La salvezza totale e definitiva dell’uomo è invece Gesù stesso, il suo essere di nuovo vivente di vita immortale e beata. 29 Egli al «mondo», ossia ai figli d’Adamo che persistono nel loro rifiuto dell’offerta salvifica nuova e definitiva non si manifesta, perché non intende obbligarli ad aderire a ciò che dev’essere e rimanere un invito. Una «manifestazione» innegabile del divino infatti per la sua invadenza abbagliante non lascerebbe spazio alla libertà d’accettare o rifiutare. La scelta libera reciproca è indispensabile per un rapporto personale d’accoglienza amorevole autentica. Deve bastare la testimonianza di discepoli, pur non sempre autentici e coerenti. Si dice: 2 persone che s’amano, si completano reciprocamente; sono complementari. L’agape (accoglienza) sembra dover costituire per Gv molto più d’una complementarità. L’agape tra Gesù e discepoli, come tra Gesù ed il Padre, produce un’unica realtà vitale, una simbiosi, ossia accoglienza totale. «Come tu, Padre, [sei] in me ed io in te, […] anch’essi siano in noi un’unica realtà» (Gv 17,21). È proprio il Respiro (Spirito) del Padre e del Figlio, infatti, quello donato dal Risorto ai discepoli (Gv 20,22). Cristiano è chi vive per lo stesso Respiro inestinguibile, che appartiene alla Trinità beata e misericorde ed accoglie nel frattanto della sua esistenza mortale. # tl 04/59 30 PASTORI DI BETLEMME Il Vangelo secondo Luca organizza la narrazione dei primissimi giorni terreni del Signore Gesù (2, 1-39), ambientando con ordine gli eventi in 2 città della Giudea: Betlemme e Gerusalemme. Sono in effetti le 2 città entro cui si snoderà il cammino terreno di Gesù di Nazaret, come illustra anche, ad es., lo splendido mosaico absidale in s. Clemente al Laterano di Roma. Betlemme e Gerusalemme per il terzo Vangelo sono poi anche lo sfondo dei 2 quadri, in cui l’agiografo raccoglie gli episodi della natività, come una sorta di sinfonia iniziale di un’Opera lirica musicale. Il primo quadro (Betlemme) narra l’esperienza, fatta dai pastori, della fedeltà del Dio dei padri; il secondo (Gerusalemme) celebra l’accoglienza del messia fatta dai vegliardi che rappresentano il pio resto d’Israele, il figlio maggiore del Dio salvatore, ed anticipa il rapporto speciale dell’Inviato di Dio col Tempio. Notiamo intanto con stupore che l’evento storico fondamentale della nascita del Nazareno è notificato dall’evangelista in un unico denso versetto: così come saranno appena accennati gli eventi della circoncisione ed imposizione del nome. L’identità prodigiosa del Neonato di Betlemme è invece rivelata attraverso l’esperienza di fede dei pastori betlemiti, narrata con relativa dovizia. Questa scelta redazionale sembra suggerita da un messaggio teologico di capitale importanza. Gli amici del Dio scritturistico - da Abele ai Patriarchi a Mosè a David - furono pastori. I pastori di Betlemme rappresentano perciò gli amici tradizionali, convocati a verificare l’apparizione del Pastore autentico (cf. Gv 10,11) dell’umanità peccatrice da condurre al pascolo della salvezza messianica. Giuseppe, padre legale di Gesù, apparteneva al casato di David (cf. Lc 3, 23-31) che aveva esercitato la pastorizia nella regione di Betlemme. Il Nazareno nacque nella città di David, proprio a motivo di quest’esplicita ascendenza del padre putativo e sarà chiamato figlio di David. Una discendenza perpetua era stata promessa al pastore betlemita David diventato re d’Israele al posto di Saul. Il Risorto realizzerà l’antica promessa divina del Pastore perpetuo. La notizia angelica, ossia rivelata, ai pastori betlemiti è implicita «buona notizia» assai gioiosa (cf. Lc 2,10) della risurrezione e quindi notifica dovuta a chi attendeva la realizzazione dell’antica promessa 31 dell’Eterno. Essi sono per questo «gli uomini di beneplacito (divino)» (ib. v. 14) ed il Bimbo di Maria è nato per loro. È riservata ad essi quindi l’esperienza teofanica dell’apparizione messianica e non all’autorità religiosa e/o civile d’Israele. Pastori autentici (che non sono tali perché sovrani felicemente regnanti) dovranno essere anche i salariati ingaggiati per prendersi cura del gregge d’un Pastore risuscitato (cf. Gv 21, 15ss). I pastori di Betlemme sono per Lc anche il modello dei seguaci del Nazareno convocati per raccontare al mondo la meraviglia esperita e celebrare la lode del Signore fedele alle sue promesse, aldilà d’ogni aspettativa immaginabile. La «gloria» del Signore infatti li avvolse di luce in una notte primaverile non perché più «buoni», non perché più folcloristici e scenografici, non perché più poveri ecc., ma perché pastori - come da sempre i confidenti dell’infinita Misericordia - e betlemiti come il pastore David, l’eletto del Signore al posto di Saul. Rimbalza pertanto da pastori betlemiti alla storia del mondo, secondo Lc, l’iniziale «buona notizia» della risurrezione. Maria persino, la madre che s’avvia alla trafittura della spada del dolore supremo ed immagine della chiesa partecipe della croce, ascoltando l’esperienza teofanica dei pastori di Betlemme, inizia a generare anche nella fede adorante il suo Bimbo pastore eterno. La nostra superficialità incurabile, osservando un fantasioso presepe scenografico a mala pena si sofferma incuriosita a compilare catalogo emotivo di pastori, capanna o grotta, paglia o fasce del Bimbo, doglie o estasi della vergine Madre partoriente, bue ed asinello o lucertola e topolino meravigliato ecc. Betlemme ed i pastori sono in realtà per Lc l’antagonista essenziale della Natività, in quanto prova rivelata della fedeltà divina alle promesse della sua Misericordia, e non un accessorio verosimile, folcloristico e fiabesco d’un evento storico, pur importante, ma non salvifico in forza soltanto della sua storicità. # tl 95/12 32 SUONO DEL DIVINO VOCE DEL SILENZIO Il silenzio della pausa breve nello sviluppo d’un flusso musicale non è mai niente, vuoto assoluto di sonorità. È invece spazio che trascina al suono atteso della completezza incombente del senso d’un discorso. Giuseppe di Nazaret nella storia cristiana di salvezza è presenza di voce silente all’ineffabilità del mistero della Parola divina salvifica. Fu coniuge senza conoscere la sempre Vergine. Nutrì col sudore della sua fronte d’artigiano il Figlio dell’Onnipotente senza averne generata la carne mortale. Educò l’intelligenza mirabile del Figlio dell’uomo e nessuno celebrò i suoi meriti pedagogici. La sua figura sembra avvolta da oblioso costante silenzio persino nel quotidiano vocio orante della chiesa di Gesù. Giuseppe è nei Vangeli la voce del silenzio divino nella sublime concertazione sinfonica dell’evento salvifico messianico. Il figlio oscuro di David in ogni caso, il giusto sposo della Madre di Dio è forse la più appropriata e suggestiva icona della presenza-assenza agli occhi umani del Dio eterno che dimora nei cieli taciti e trepida per la salvezza dell’uomo. È il silenzio arcano che risucchia la chiesa ed il mondo nell’ineffabilità melodiosa della Misericordia prodiga di vita senza fine. Giuseppe, detto in maniera assai più banale, è per noi figli loquaci e logorroici d’Adamo un eloquente muto cartello stradale che, ancorché ignorato, indica il giusto percorso nell’intrico dissonante ed assordante della giungla infinita delle ciance dei giorni. # tl 95/12 35 PAROLA SENZA SUONO Il tempo trascorre ma non distrugge. Ciò che è stato, è per sempre. La stessa divina Onnipotenza non può fare che più non sia o che sia diverso ciò che è già stato. Non possono distruggere un anno trascorso i cretini «botti» più fragorosi né i lanci inconsulti di vecchi oggetti dalle finestre nella notte di s. Silvestro. Nessuno e niente può annullare le realizzazioni del tempo: per questo forse lo contiamo, come contiamo i soldi, e lo rac-contiamo, come si fa di ciò che c’è, almeno nella fantasia. Il 1995 è una somma di anni. È il risultato del conteggio del tempo trascorso dalla nascita di Gesù Cristo. Pare si tratti in verità d’un risultato erroneo, come capita – cosa non eccezionale – quando ci si mette a contare. Ciò che però non è senza importanza è che il tempo contato riguarda Gesù Cristo: la cronologia ufficiale della storia umana fa riferimento al Figlio di Maria di Nazaret, risuscitato dal Padre e perciò vivente ed ormai silente. È come dire che dal punto di vista cristiano il tempo che (si) conta è quello che distende sulla storia umana il silenzio immortale e colmo di insegnamenti infiniti della Parola (Verbo) d’Iddio, dispiegando tra gli umani il Discorso salvifico concepito dalla mente del Padre nella quiete immobile della divina beatitudine. Tutti ci esercitiamo in realtà a riempire il tempo di nostre parole, quelle che a noi risultano più importanti di tutte e decisive per la salvezza: le gridiamo forse, le urliamo persino, sovrastando e coprendo con lo strepito dell’effimera voce affabulante l’eterna verità sovrana della Parola onnipotente senza suono. La Parola seguita purtuttavia a distendersi nel tempo senza far rumore: non esige frastuono e spettacolo per farsi contabile. Invita invece all’impegno del minuscolo lotto (di tempo) di ciascuno a rendersi suono senza voce del divino Discorso a noi lasciato scritto, ossia senza voce. Ognuno pertanto, per quanto consistente possa essere il suo gruzzolo di tempo o autorevole la voce o melodioso il canto o autentica la convinzione, non è che una mediocre sillaba muta, al massimo, dell’infinita Parola eterna senza suono. Discorso del tutto detto e contato è la risurrezione ed il fluire del tempo imploderà nel silenzio della Parola divina. # tl 95/05 36 PELLEGRINAGGIO AL SILENZIO Un autore francese ha scritto press’a poco: «La verità della parola è il silenzio che l’avvolge». Non so se quest’autore sia credente. Mi pare in ogni caso che la sua sia un’intuizione sconvolgente a livello di teologia della rivelazione. La condizione di Dio, anche quando parla, è senza dubbio assenza assoluta di voce, è silenzio. La condizione normale dell’uomo, presunto civilizzato, è invece lo strepito, il chiasso, la chiacchiera - per lo più - mendace ed autogenerantesi: dal primo vagito del neonato al rantolo estremo del morente. Il silenzio della morte non è parola avvolta di silenzio, perché è vuoto di vita che è dono divino. È condanna perpetua dell’arroganza querula d’ogni vivente precario. I monaci cristiani (ad es. i certosini) cercano di recuperare la condizione divina sulla terra, praticando il silenzio volontario per posizionarsi sulla lunghezza d’onda della Parola silente. Il percorso d’ogni esistenza cristiana è forse anche pellegrinaggio al Silenzio che avvolge e testimonia la verità della Parola vivente e vivificante. #tl 94/03 37 PREGHIERA SENZA PAROLA È scritto a chiare lettere per il cristiano, che si rivolge al Padre dei cieli, di non moltiplicare il numero delle parole e delle richieste querule attinenti alle sue necessità ed interessi terreni. «Non sprecate parole come i pagani [...]. Sa infatti il Padre vostro ciò di cui necessità avete prima che voi lo chiediate» (Mt 6, 7-8). Il fatto è che assai di rado le preghiere dei cristiani sono le richieste che il Padre sa e s’aspetta. È da domandarsi allora se compilatori anche autorevoli di chilometriche orazioni e conduttori pastorali di sacre invocazioni disparate e ripetitive hanno mai letti ed insegnati questi elementari avvertimenti del Signore o se per caso hanno mai creduto e credono alle parole da Lui insegnate. Si ritengono forse al disopra del loro Maestro (cf. Mt 10,24)? Non pare si comprenda che è questione di qualità e non di loquacità stucchevole. Il cristiano non può identificarsi con un credente qualsiasi che implora soccorso al suo Dio per qualsivoglia evenienza. L’orante cristiano è Gesù che pregando dice: «Ti riconosco, Padre, signore del cielo e della terra, che nascondesti queste cose a sapienti ed intelligenti e le rivelasti a piccini» (Mt 11,25). Il Maestro – si noti - non benedice Dio. Lo riconosce e lo celebra. I piccini poi cui il Nazareno dice riservata l’attenzione divina sono i «nøpioi», ossia gli infanti, vale a dire i senza parola. Gesù quindi celebra il Padre, perché riserva l’ascolto della sua Parola ai senza parola, non a chi, essendo «sapiente ed intelligente», di parole proprie ne ha fin troppe e crede d’indurre l’Onnipotente a mettersi al suo servizio d’omuncolo sapiente. La Parola per i «senza parola» è senz’alcun dubbio il Discorso incarnato, il progetto del Dio salvatore fatto carne. Gesù pertanto celebra il Padre, perché Lo dona a chi è vuoto (ed incapace) di parole. La salvezza messianica infatti non scaturisce dalle parole d’uomo, neppure da quelle formulate come preghiera da menti eccelse e/o autorevoli e/o sante. Scaturisce solo dall’adesione senza parole alla Misericordia diventata Parola per i «senza parola». Sembra ovvio che il cristiano orante si proponga complice della Parola incarnata che celebra di continuo (cf. Lc 18,1) e testimonia la salvezza vittoriosa sulla morte: un «amen» senza fine. «Sì, o Padre, perché così beneplacito fu davanti a te» (Mt 11,26). # tl 98/25 38 PROVOCAZIONI DELL’ULTIMO PICCINO DIGNITÀ AL DIVERSO L’opera quaresimale autentica si chiama accoglienza (amore) di Dio e del prossimo, che, se è quella vera, è anche preghiera nel senso d’ascolto di Dio salvatore ed offerta sacra a lui della propria energia vitale (cf. Rm 12,1). Il verbo della Scrittura greca del cosiddetto amore per Dio e per il prossimo è sempre «¶gap≠n» e la cosiddetta carità cristiana è sempre chiamata «¶gßph» (cf. Dt 6,5; Lv 19,18; Mc 12,30-31 ecc.). Il verbo greco significa di per sé «accogliere, accordare importanza, dare dignità». L’amore o carità cristiana non è dunque un mero sentimento di tenera benevolenza, bensì attenzione all’altro in quanto altro, anche se nemico. Il nostro termine amore designa invece – come tutti sanno - innanzitutto un sentimento, una sintonia spontanea e spesso misteriosa, inconsapevole ed arazionale del sentire con l’altro, che genera impulso a stare insieme. La solidarietà è poi un volontaristico e di solito interessato e/o inconsapevole aggiogarsi temporaneo all’altro, prescindendo dalla qualità del sentire, per il raggiungimento d’un fine specifico. Il termine carità infine nel linguaggio corrente indica anche un gesto umanitario sollecitato da immedesimazione emotiva (compassione) e/o ideale con qualcosa di sgradevole presente nell’altro. È, alla radice, una forma di difesa simbolica (scaramantica?) del proprio io dal male percepito nell’altro. La solidarietà per il raggiungimento d’un fine inaccettabile in ambito etico la chiamiamo di solito complicità. Il comando o compito (ùntol¬) cristiano capitale è forse qualcosa che non coincide col sentimento dell’amore che ognuno conosce e sperimenta. Esso infatti di per sé non ha finalità ultime terrestri; non sgorga da sintonie psichiche e/o istintuali. Suppone invece alterità, diversità, estraneità da accogliere e quindi impegno d’attenzione per il non-se-stesso. Il compito cristiano consiste per questo nell’accoglienza (amore) del prossimo come se stesso, ossia in toto, senza preferenze, senza riserve, senza sospetti, senza residui d’ostilità. L’amore cristiano è di per sé dunque attenzione per l’altro, finalizzata al riconoscimento della dignità che gli compete: dignità divina se è Dio, piena dignità di persona accolta dalla divina misericordia, se è uomo. 41 L’alterità può essere costituita da fattori diversi: il carattere, l’inimicizia, le scelte culturali e/o religiose, l’ignoranza, la solitudine, la sofferenza, l’appartenenza etnica, l’età, la mentalità, la condizione sociale, l’infermità ecc. Non è quindi amore cristiano soltanto l’accoglienza del più povero o del più ignorante, ma anche quella del più ricco o più acculturato o più potente; anche il più ricco, il più erudito, il più potente ha bisogno della divina misericordia. Si pensa di solito che si deve usare amore cristiano (¶gßph) con chi ha un bisogno materiale e/o concreto (per es. l’indigente), dimenticando che «i primi saranno ultimi» (Mt 20,16) e che occorre amare anche i nemici (cf. Mt 5,44) che sono altri per eccellenza. Il precetto dell’accoglienza di Dio e del prossimo del resto è rivolto ad ogni cristiano, anche all’indigente, al sofferente ecc. Non risulta da nessuna parte che l’impegno cristiano capitale riguarda in esclusiva il discepolo ricco, felice, senza problemi. L’amore cristiano è infatti «virtù infusa», ossia una partecipazione all’Energia d’accoglienza misericordiosa infinita del Dio che conferisce dignità primo et per se ad ogni figlio d’Adamo, ossia al ribelle nemico, ricco o povero che sia. È insomma solidarietà del discepolo di Gesù con la divina misericordia salvifica e coinvolgimento con la follia di Dio per i figli d’Adamo, che nascono all’esistenza terrena destinati a rovinare nella morte perenne, trofeo beffardo dell’avversario primordiale del Creatore. L’amore cristiano pertanto non è mai, per sua natura, iniziativa orizzontale con mezzi creaturali. È sempre un afflusso verticale di misericordia che dilaga dalla Sublimità divina in ogni uomo, ostaggio della morte per condizione naturale, che decide però d’accoglierlo. # tl 01/41 42 FORTE E DEBOLE Lo strumento debole (to\ ¶sqenùj) fu prescelto dal Dio della Rivelazione (non dalla [filo]sofia dei sapienti omuncoli) per salvare gli adamiti dalla perennità della morte, vale a dire per realizzare la vincente salvezza messianica. Questo è l’insegnamento dell’Apostolo delle genti (cf. 1Co 1, 18-31). La cultura odierna globalizzata (non esclusa quella teologica) ritiene che ogni salvezza è da conseguire invece con strumenti forti. Uno di questi, il fondamentale forse, è il «mammona», il più possibile esorbitante, che naturalmente ignora, e magari anche deride, l’evangelico «beati i mendicanti» (Lc 6,20). Un altro strumento forte, persino sacralizzato, è l’odio devastante del nemico, di solito giustificato col machiavello del diritto alla difesa, magari preventiva o piuttosto presunta, del proprio benessere, anche se comporta errori (e orrori) collaterali di carneficine sterminate di innocenti. L’evangelico «amate i vostri nemici» (Mt 5,44) per i forti del mondo è ovvia facezia utopistica di incompetenti in vena di spiritosaggini cretine e vigliacche. Strumento forte per l’affermazione prepotente e sacrosanta di sé è la conquista ad ogni costo delle prime poltrone, in ogni livello della vita associata. L’evangelico «se qualcuno vuole primo essere, sarà di tutti ultimo e di tutti inserviente» (Mc 9,35) è sorpassata massima minimalista persino in ambienti sacrali, forse propinata dal Cristo soltanto per gente incapace, masochista e senza importanza. Altro strumento forte da utilizzare dalle persone che contano è l’impegno a soffiare a proprio vantaggio il mestiere al Cesare di turno o, quanto meno, a condizionarlo con mezzi astuti e ricatti sacrali (ossia elettoralistici). L’evangelico «restituite le cose di Cesare a Cesare» (Mt 22,2) è evidente roba d’altri tempi, … quando governava Cesare. Si costata, come s’è detto, che gli stessi cristiani, in particolare quelli che contano, sembrano non aver problemi ad utilizzare questi e diversi altri strumenti forti. Ci si spiega intanto che beati i mendicanti segnala la beatitudine dei «paperoni dei paperoni» interiormente distaccati dai loro miliardi. Ci s’insegna che l’amore dei nemici consiste nell’esclusione dell’uso della violenza, per cui «amore di Dio e del prossimo» significherebbe mera non violenza verso Dio (!?) e verso il prossimo. Si sostiene che l’ambizione del pri43 mo posto è lodevole voglia disperata del servizio di nettare i piedi alla gente, mediante leggi, decreti, norme, regolamenti e qualche altra legittima vessazione della libertà altrui.Apprendiamo infine che restituire a Cesare il mestiere di sua competenza consiste nella stretta tutela culturale sull’esercizio dell’autorità legislativa di qualche Cesare soltanto, a caso, facendo finta che tutti gli altri siano cristiani esemplari. S’è deciso insomma che il mandato dell’evangelizzazione salvifica deve esplicarsi come operazione politico-culturale (come accadeva nel medioevo) con l’ausilio degli strumenti forti odierni della visibilità invasiva e presenzialista e di qualche celebre «ateo devoto», a norma della sapienza mercantile imperante, quando deve piazzare con successo sul mercato, ad es., un sapone qualunque.Altro che il debole del Dio [è] più forte degli uomini (cf. 1Co 1,25): quant’eri ingenuo tu, Saulo di Tarso! Chissà se il delinquente inchiodato al palo accanto al Nazareno crocifisso, che il Morente misericorde trascinò con Sé nel giardino paradisiaco (cf. Lc 23, 39-43), era politicamente e culturalmente integrato con i «forti» del mondo. Chissà se il Nuovo Testamento non sia oggi da ritenere, proprio dai sedicenti seguaci del Crocifisso del Golgota, un libretto debole da bruciare come carta straccia pericolosa! # tl 07/70 44 PICCOLEZZA «Chi offrisse da bere ad uno di questi piccoli un bicchiere d’acqua fresca, semplicemente in quanto [è] un discepolo, v’assicuro che non rimarrà senza il suo guadagno» (Mt 10,42). Gesù si ritiene rappresentato nella storia dalla piccolezza dei discepoli; solo in essa il Maestro riconosce il marchio d’autenticità della sequela cristiana tra gli uomini. Il nesso concettuale tra piccolezza ed infamia del condannato al palo della croce è palese ed esplicito: «Chi non prende il palo suo [della croce] e viene dietro a me, non è possibile [che sia] di me degno» (Mt 10,38). La sequela veritiera è dei piccoli, perché piccolo, anzi infimo è il condannato al palo della croce per gli occhi ed i valori del mondo. Non pare vi sia possibilità d’eccezione davvero legittima o avallata dalla Parola evangelica per qualsiasi altra condizione terrena. I cristiani tuttavia fin dall’origine – in ottima compagnia con un certo Simone pescatore e compagni - hanno contestato quest’insegnamento del Signore. La grandezza è da sempre e per tutti una condizione gratificante; è anche lo strumento principe per una promozione sicura dei prodotti di mercato per gli umani. La dimensione insignificante, ossia la piccolezza prescelta e proposta dal Signore Gesù ai suoi, da secoli ormai, non è per nulla il look, col quale i cristiani si propongono alla storia ed agli uomini. La cristianità come istituzione s’omologò presto ai valori generali delle religioni naturalistiche, dalle quali la divinità è esibita forte e vincente, magnifica, imponente, intransigente, inaccessibile, sovrana, detentrice d’autorità assoluta, circondata da una corte di dignitari o sacerdoti, separata del volgo. Il mondo e la quasi totalità degli stessi cristiani sembrano proprio convinti che la credibilità anche del cristianesimo debba sostanziarsi senza scampo di successo mondano infinito, d’efficienza organizzativa impeccabile, di ambiziose programmazioni pastorali, di presenzialismo puntuale ed universale nei problemi mondani, d’autorità sacrale autoreferenziale ed inattaccabile, d’ingenti risorse e strutture terrestri. È ovvio che la piccolezza evangelica del pusillus grex debba essere declassata a minimalismo improduttivo e suicida; al più può essere appena tollerata come scelta individuale carismatica – per non dire folle - a disposizione di chi conta poco o niente nel reame, del semplice fedele insomma che 45 non è in grado di permettersi lo sfarzo principesco di chi ha dignità e responsabilità rappresentative. La scelta della piccolezza ad es. d’un Francesco d’Assisi è per la struttura ufficiale un carisma particolare: abile eufemismo forse di pauperismo, sentenziato già a livello canonico e teologico come eterodosso! Sarebbe insomma la scelta di Francesco, per la lettura più generosa, una forma quasi paradossale ed utopica della sequela del Cristo, una sorta d’ingenuità estetizzante, poetica, giullaresca e fuori della realtà concreta e seriosa. Questi Santi ... ! Nessuno tuttavia ardisce spingersi ad affermare in termini espliciti - è ovvio - che la piccolezza proposta da Gesù secondo i testi sacri è solo una bella favola patetica di altri tempi, come in effetti pensa l’uomo d’oggi positivista, scientifico, tecnologico e dominatore presunto e presuntuoso della natura. Non è forse vero che Gesù Cristo visse in altri tempi e poi salì al cielo? Ai nostri tempi ed al nostro mondo insomma ci pensiamo noi, che siamo qui ed oggi: tanto Lui séguita a tacere come iniziò a fare al cospetto dei suoi giudici paludati ed assassini. C’è da riflettere tuttavia che se è legittimo per il cristiano ritenere roba inattuale e priva di senso il valore evangelico ad es. della piccolezza, chi e come si garantisce la validità attuale e salvifica di altri insegnamenti del Signore, come ad es. il potere della chiesa di rimettere i peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna, l’autorità apostolica, l’autorità normativa della Scrittura ecc.? È forse la selezione culturale (in peggio) di stampo evoluzionista la legge suprema e divina anche per il cammino storico del cristianesimo? La croce intanto, strumento di morte violenta ed infame e dunque marchio inconfondibile di piccolezza assoluta, da sempre presente nelle nostre chiese, è diventata non solo distintivo nobile, magari assai prezioso, di grandezza gerarchica, ma ai giorni nostri è persino un gioiello alla moda di strepitoso successo ed anzi un diffuso amuleto scaramantico. Estrema metafora, di fatto sarcastica e beffarda, del citato detto del Salvatore: «Chi non prende il palo suo ... ». Un messianismo socio-politico, senza dubbio alcuno ricusato dal Maestro (cf. Gv 6,15; 18,36), sembra in realtà gratificare divinamente le ambizioni inestinguibili dei discepoli fin dall’origine e dilaga trionfale fino ai nostri tempi chiassosi. Il Figlio dell’uomo troverà la fede sulla terra, quando s’affaccerà dai cieli parusiaci (cf. Lc 18,8)? # tl 05/64 46 CADONO Ad una ad una planando cadono le minuscole candide integre corolle di gelsomino. Cadono lungo i muri sprecando olezzo flebile su marciapiedi fetidi d’un’aliena città. Cadono giorni luminosi sulla sinistra brama insaziata di futile, che attrista i volti che incrocio sulle strade affannate dell’aliena città. # tl 01/43 47 PIÙ GIUSTO E FRATERNO Tale è auspicato il mondo da non credenti, da positivisti ed anche da cristiani omologati. È una bella ipocrisia: il mondo è il soggetto dello slogan, come se l’io di ciascuno non c’entrasse per nulla col mondo. Quanti di tutti i fans di tale auspicio praticano giustizia e fraternità autentiche, ossia non aggiustate all’interesse personale? Incrocio sulla via Portuense, dall’altezza del Forlanini al ponte del treno per Fiumicino, almeno una volta al giorno (talvolta anche 2 o 3 o 4), un signore di buona altezza e corporatura robusta. Procede su e giù con 3 o 4 o 5 sacchetti di plastica per ogni mano, zeppi di non so quali cianfrusaglie. - Sarà l’intera sua proprietà, che non sa dove posare - mi dico. Procede a testa bassa, capelli brizzolati abbondanti ed arruffati, barba lunga ed incolta, caracollando l’intera persona su passo largo, lento e ritmato. Procede silenzioso; come avvolto da un imperforabile scafandro di solitudine. Qualcuno, incrociandolo, s’allarga vistosamente a destra o a sinistra, come per terrore di radiazioni pestifere. Egli sembra non notarlo neppure. Si ferma poi all’improvviso di tanto in tanto, posa per terra il suo misterioso bagaglio - improbabile compagnia unica del suo procedere senza meta -, si volge verso l’incessante fluire folle dei veicoli e, gesticolando irato, urla al vento con voce profonda e stentorea farfugli per me tuttora incomprensibili, nonostante siano ormai trascorsi diversi anni che assisto, senza darlo a vedere, agli sfoghi repentini e brevi della sua collera ciclica. Non fiata per il resto. - E se fu un valente chirurgo questo signore, un celebre matematico, un eccellente imprenditore, un meraviglioso scrittore … prima di sprofondare nella sciagura - mi chiedo con angoscia raccapricciante.Tiro dritto sul mio solito cammino col fremito d’orrore che mi percorre la schiena. Avrà notato me, come io ho notato lui? Io do a vedere d’ignorarlo, non so se per vigliaccheria o per prudenza o per quieto vivere o per resa impotente al definitivo inespugnabile. Non l’ho mai visto fermare qualcuno o chiedere qualcosa. Mi giustifico osservando che ci sarà però di sicuro chi si prende cura di lui: sono ormai diversi gli anni e le stagioni che incrocio il suo caracollante incedere ritmico e solitario. È questa marcia del resto un 48 lento vagare indefinito d’umana coscienza ottenebrata? È invece un raggio addolorante di sapienza sublime non pertinente ed ignoto a me ed a questo mondo né giusto né fraterno? «I poveri sempre li avete con voi» (Gv 12, 8). È come dire che la divina Parola prevede ingiustizie e fratricidi perenni come costitutivi indistruttibili d’un mondo destinato, proprio per questo, a non rimanere (cf. Eb 13,14). Semplicemente. Altro che più giusto e fraterno! # tl 07/73 49 VARIAZIONI MARIANE Ogni madre è l’unica effettiva ricchezza per il frutto appena colto dal suo grembo. Non serve altro alla creaturina neonata oltre al nutrimento, al cuore ed alla cura materna. Quanto più è povera la madre, tanto più è ricchezza unica ed esclusiva della sua creatura. Le regine infatti di solito demandano a nutrici ed istitutori la cura dei loro nati. Maria fu l’unica ricchezza effettiva di Colui che non possedette neppure un sasso per cuscino (cf. Mt 8,20). Il Figlio di Dio, che si fece povero per arricchirmi con la sua povertà (cf. 2Co 8,9), mi ha lasciato come doviziosa eredità la sua Madre povera (cf. Gv 19,27). La tappa finale del pellegrinaggio di Maria, la sua risurrezione, spesso illustrata e predicata in termini trionfalistici, di fatto non ebbe e non ha nulla di trionfale a livello mediatico, come la risurrezione del Signore. Nessun giornalista fu convocato per «sparare» la notizia. Nessun servizio mediatico fu invitato ad occuparsi dell’evento. Nessuna preparazione programmata per tempo con sagace sapienza mercantile lanciò la solenne celebrazione dell’evento. Fu rammentata per molti secoli dai cristiani come mera «dormitio» la risurrezione di Maria. Il linguaggio teologico ha poi trasformato la feriale «dormitio» in pomposa festiva «assunzione». L’inguaribile stupidità umana seguita ad ammantare di grandiosità e spettacolarità terrestre le opere feriali di Dio. È scritto invece che «gli esseri senza nobiltà del cosmo e disprezzati scelse il Dio, gli inesistenti» (1Co 1,28). Maria, Madre povera, fu indubitabilmente scelta. M’infastidisce il ciarliero e dilagante fasto devozionale che oltraggia l’originaria umiltà silente di Lei. Lo confesso. Maria salì pellegrina in Giudea, come la mosaica «arca» (cf. 2Sa, 1-15), segno e sacramento della misericordiosa tenda del Dio in mezzo al suo popolo. La Chiesa, che sono i battezzati, è nuova «arca» del Signore, come Maria e con Maria. Contiene, per portarlo sulle fangose strade anonime del mondo, il sacramento dell’immane misericordia divina per ogni uomo. La Chiesa, che sono i battezzati tutti, è pellegrina nel mondo per presentificare nei secoli la funzione di Maria, autentica «arca» di Colui che è invincibilmente «memore della sua misericordia» (Lc 1,54). # tl 99/31 50 ARROGANZA DOGMATICA DELLA RAGIONE UZZOLO D’OMOLOGAZIONE C’è ai nostri giorni chi abolisce dal braccio superiore della Croce il cartiglio con la sigla INRI, per attualizzare pastoralmente il messaggio del Crocifisso. La Croce di Gesù sarebbe mero simbolo e denuncia dell’arroganza del potere dell’uomo sull’uomo e non memoria messianica d’un evento di salvezza escatologica. È un emblematico esempio di come il dovere pastorale d’attualizzare affluisca oggi nella superstrada larga e rassicurante dell’omologazione del cristianesimo ai modelli contemporanei della cultura e controcultura razionalista, scientista e mercantile e delle sue forme espressive. Chissà se a qualcuno risulta tuttora che tra attualizzare ed omologare c’è di mezzo il mare. Talune celebrazioni dell’Eucaristia (altro esempio) non sembrano così estranee a grotteschi scimmiottamenti di esibizioni canore e/o cabarettistiche: purché sia spettacolo emozionante, com’è tassativo ai nostri giorni chiassosi, logorroici e canterini.Abbiamo deciso infatti che a Dio piacciono i musicals e le canzonette, per cui si suppone più disponibile ad accogliere le nostre preci, se gorgheggiate. La supposta convenienza d’animare (?!), quasi fosse un infermo in pericolo di vita, la liturgia del sacro Convito, memoriale della morte e risurrezione del Signore, non sembra trovare nulla di meglio d’una massiva omologazione alle ritualità rumorose e festaiole dei divi canzonettari o degli animatori professionisti di discoteche e villaggi turistici o dei cerretani urlatori che promuovono in TV cianfrusaglie francamente fatue. Non m’è ancora capitato, invitato a pranzo o a cena da parenti o amici, di dover consumare l’antipasto d’un canticello melenso, prima di passare alla refezione vera e propria, come s’usa ormai fare per il banchetto del Corpo e Sangue del Signore. Il laicamente asettico ed iperinflazionato «buona giornata» sta poi diventando il pletorico congedo dei credenti dalle celebrazioni liturgiche, proprio come usano fare coi loro clienti - fatto salvo ogni rispetto per siffatti operatori - il barista, il fruttivendolo, il macellaio, l’edicolante ecc. o 2 buoni amici dopo una bella chiacchierata su nulla. Non è però, a quanto pare, sola questione di linguaggio urbano o di forma corretta; purtroppo. Alcune omissioni e reticenze consolidate sembrano attestare che il cristianesimo ormai non possa essere altro che proposta 53 d’un certo sistema di comportamento etico-sociale, come «servizio» - s’enfatizza - all’umanità, cui interessa di certo il terreno benessere individuale e collettivo, essendo del tutto assopita ed ignara quanto a «beata speranza». Che differenza sostanziale allora fa tra l’essere o il diventare cristiano e l’essere o il diventare buon musulmano e persino onesto ateo? La figura del prete (ulteriore esempio) è oggi presente con certa assiduità e visibilità sullo schermo televisivo come persona concreta (dal vivo!) o come personaggio nelle più disparate serie di novelas, nelle promozioni commerciali ecc. Si tratta però sempre di presenza umanitaria, etica, sociologica ecc. o anche, addirittura, focosamente politica. La figura del prete offerta dall’informazione, dall’intrattenimento o dagli spots è di solito quella d’un ottimo volenteroso gratuito assistente sociale, un giudizioso psicologo improvvisato, uno scaltro poliziotto, un sagace investigatore, un acuto politologo, un mieloso concionatore di circostanza che gratifica tutti, un amante problematizzato e sfortunato e, qualche volta, un approssimativo buontempone sprovveduto e tontone, funzionario d’un generico spiritualismo deistico; insomma, alla fine, un santone o sciamano nostrano. Non è mai un banditore specializzato dell’urgente salvezza offerta da Gesù Cristo crocifisso e risuscitato, un discepolo col coraggio dirompente per gridare, ad es., che la fedeltà ai valori etici, quand’anche ci fosse, non è tutta la volontà salvifica di Dio, non è impegno sufficiente per salvare la vita dalla morte (cf. Mc 10, 17-22). Non è forse il caso di proseguire nell’esemplificazione dei vari aspetti dell’omologazione, di cui siamo vittime e promotori. L’uzzolo d’omologazione in ogni caso - ridotta la Parola di Dio a mito, genere letterario, cultura d’altri tempi e quant’altro d’inutile - pare ormai vincente alla grande. Per merito indubbio proprio dei cristiani! Dio non voglia che si tratti d’una trappola mortifera, che sarebbe forse assai più perniciosa di qualsiasi esplicito attacco violento e blasfemo di non credenti intolleranti e sanguinari fanatici. Dio non voglia che si tratti d’una sottile, inebriante bramosia di crepuscolo suicida, contro la quale, come si sa, le difese possibili ed efficaci sarebbero davvero pericolosamente inebetite. # tl 02/51 54 GRAZIE A DIO Mi stupisce siffatta caccia spasmodica al perché e percome. Soloni e «solonesse» s’avvicendano da microfoni e schermi televisivi a pontificare con sussiego autorevole, a rimorchio di giornalisti psicotici, su nebulose colpe di genitori, società, educatori, spettacoli ecc., su presunte giustificazioni di palesi imbecillità personali di adulti amorali e poveri di valori etici. Sembrano tutti ben certi che, dopo aver chiarito scientificamente cause ed effetti, magari con sofisticate strumentazioni mirabolanti, il vetusto germe del male sparirà dal cuore di ciascun uomo. L’ottimismo esasperato della ragione, della scienza e della tecnologia è forse l’illusione più inquietante e perniciosa dei tempi nostri, divinizzatori dell’effimero. Mi rifiuto ad ogni modo d’associarmi a codesto culto orgiastico della scienza e della tecnica anche sul territorio della coscienza umana che so modellata ad immagine di Dio, ossia libera. La coscienza non è una macchina inventata e costruita dalla massa cerebrale umana, destinata alla corruzione mortale: grazie a Dio! La folla loquace e verbosa dei «meccanici» adoratori della dea ragione bene farebbe forse a rispettare ciò che non è di sua competenza, ossia l’umana libertà, invece di cianciare ad es. delle motivazioni scientifiche, per cui persino Caino, in condizioni e tempi non ancora sospetti né sospettabili d’amenità come ad es. «natura umana buona, società perversa», avrebbe assassinato l’incolpevole fratello Abele, per colpa d’una società inquinata ed inquinante! # tl 01/41 55 LA TRAPPOLA I Libri Sacri contengono per il cristiano la Parola di Dio, vale a dire un messaggio divino, veritiero quindi, formulato con termini, concetti e categorie dell’uomo d’una determinata epoca storica. L’esistenza d’una Parola divina vera e propria invece è impossibile per chi ritiene degno dell’«homo sapiens» soltanto ciò che è dimostrabile con rigore razionale e verificabile con strumentazioni scientifiche. È come dire che la verità è frutto e monopolio della sola umana ragione; tutto il resto, Scritture e tradizioni religiose comprese, è opinione soggettiva o falsità ingannevole. La verità insomma o è avallata dall’umana razionalità o non è; solo la razionalità garantisce oggettività e quindi verità. Il fatto è che l’equivalenza tra verità ed oggettività sembra essere in realtà un mero postulato dogmatico, messo del resto in questione da svariate forme di scetticismo antico, moderno e contemporaneo, e tuttavia quasi da tutti adorata. La detta equivalenza è anche un’astuta trappola tesa al credente dall’ottimismo dogmatico che deifica l’umana ragione. È proprio indiscutibile che tutto quanto è soggettivo e non dimostrabile (ad es. sentimenti, intuizioni, postulati ecc.) non è veridico? Vi sono alcuni «cattolicissimi» intellettuali per i quali la veridicità della Parola (ad es. sulla risurrezione del Signore) ha bisogno dell’avallo di certezze oggettive. Sembra essere una trappola dello stesso genere la distinzione, per la verità tutt’altro che recente, tra il Gesù della storia (personaggio storico) e quello della fede (oggetto di culto). Si postula infatti in modo surrettizio una sorta d’inevitabile tutela dell’umana scienza storica sulla veridicità della Parola divina. Il Gesù della storia per definizione dovrebb’essere fondato con argomenti razionali; quello della fede sarebbe del tutto opinabile e di nessun interesse per l’autentico uomo civilizzato e scientifico. Il primo tuttavia al credente non serve, visto che la salvezza non scaturisce dalla notizia storica (come vuole il positivismo), bensì dalla sola professione: «Io credo […] in Gesù Cristo ecc.»; il secondo poi in realtà non è una semplice opinione, bensì è, secondo il magistero scritturistico, un impegno di vita assai più costoso e rischioso di qualsiasi ricerca storica o sillogismo aristotelico. 56 Sembra del resto un pregiudizio non dimostrato quello per cui gli agiografi avrebbero confezionato un Gesù della fede, a prescindere da un personaggio della storia, stando che almeno alcuni di loro l’avevano frequentato, a differenza non banale dei demitizzatori razionalisti che puntellano il loro Gesù della storia su ipotesi (erudite?) non incontestabili. Paolo, il giudeo braccato a morte per la sua adesione all’evento evangelico contemporaneo della sua epoca, afferma perentorio: «Se professerai con la tua bocca che Signore è Gesù e crederai con la tua mente che Iddio lo svegliò da condizione di morti, sarai salvato» (Rm 10,9). Le verità rivelate non sono contro la scienza; sono soltanto aldilà di essa e delle sue pretese monopolistiche di verità. # tl 07/72 57 TEMPO E PROFEZIA Si dà in genere per scontato che Dio, se vuole entrare nella storia dell’uomo, deve annunciarsi e presentarsi con «segni» adeguati (cf. Mt 12,39; 16,4; Gv 6,30); deve insomma esibire le credenziali opportune alla ragione scientifica e tecnologica. Il tempo e la storia sono in realtà proprietà originaria del Creatore che intende invitare l’uomo oltre lo spazio-tempo destinato alla consunzione (cf. Mc 13,31; 2Pt 3,10 ecc.) ad insindacabile proprio divisamento. I testi sacri infatti tacciono la data della seconda venuta del Signore, così come tacquero l’epoca dell’evento messianico.Tempo e storia non possono pertanto essere possesso esclusivo dell’uomo, visto che in sostanza ne ignora dimensioni, estensione e tappe certe, con buona pace di tutte le sue congetture. L’uomo s’inganna e si condanna, quando presume che il tempo e la storia siano del tutto nelle sue mani e possa regolarli e condurli con la sua mente autodivinizzata, con la sua scienza, la sua tecnologia, i suoi «pil» in crescita indefinita ecc. verso un progresso che invece ignora e calpesta tutte le sacche d’umanità dolente e disperata. Chi legge la Scrittura sa molto bene che quest’illusione illuministica, tra l’altro, non è nuova né caratteristica dell’uomo civilizzato, come oggi si presume definire con arroganza. È invece un bluff patetico della mente che gira su se stessa all’indefinito, vale a dire a vuoto nella sostanza. Il tempo e la storia da sempre sono in realtà profezia di Dio (cf. Mt 16, 2-4) che interpella l’umanità adamitica su scelte ultimative, soprattutto dall’avvento nel mondo del Discorso sapiente (Verbo) umanato. Nessun uomo di certo, e men che meno il credente, ha facoltà d’estraniarsi dalla storia. È al contrario esortato a non dormire e a non distrarsi. Deve, se il tempo e la storia sono profezia di Dio, averne cura ed ascoltarli con saggezza e rispetto religioso; possibilmente senza nevrotico terrore di perire avvelenato. La tensione dell’attesa del Signore, che è segno identificativo del credente impegnato a non dormire e a non distrarsi, è testimonianza della decisività della speranza cristiana, fatta ormai provocazione del tempo umano. L’assoluta nescienza della data della parusia è poi anche diuturno avverti58 mento a non sciupare l’occasione della salvezza eterna, che il figlio d’Adamo si gioca nel tempo e soltanto nel tempo. Quasi nessuno di quelli, che pur attendevano e invocavano l’intervento di Dio nella loro storia, si rese conto ed ascoltò il tempo dell’apparizione del Salvatore nel mondo, proprio perché non fu dato alcun preavviso o segnale convincente. La Sapienza del Dio entrò anzi nella storia in punta di piedi, in umiltà e povertà; in incognito. Molti perdettero l’occasione d’incontrarsi con l’Inviato, perché distratti o perché scandalizzati per l’assoluta discrezione divina.Trascurarono la veglia responsabile e l’attenzione sapiente alla profezia del loro tempo. # tl 05/65 59 LA TOMBA SVUOTATA Ragionevole non coincide con razionale. Questi aggettivi non esprimono il medesimo concetto, a meno che non si professi fede immanentistica alla maniera, ad es., cartesiano-illuministica. È razionale ciò che risulta da un esclusivo procedimento sistematico (logico) e rigoroso della mente, come ad es. l’affermazione «due più due fa quattro e non può essere altro che quattro». È razionale insomma il frutto esclusivo d’un processo di per sé soltanto mentale mediante strumenti concettuali astratti; tale è ogni operazione matematico-geometrica e tale presume d’essere ogni argomentazione filosofica (sillogistica) della cosiddetta retta ragione. Una delle accezioni più frequenti dell’aggettivo ragionevole fa riferimento invece alla qualifica di fondatezza concreta (di buon senso), per cui, ad es., è comportamento ragionevole uscire con l’ombrello, anche se non piove (e potrebbe anche non servire), quando si ha notizia che le osservazioni meteorologiche prevedono pioggia o si scorgono all’orizzonte nuvoloni minacciosi. S’usa poi dire scientifico ciò che è fondato sull’attendibilità d’un esperimento controllabile a livello sensoriale (di laboratorio), d’una testimonianza seria, d’una notizia attendibile, d’un documento, d’un accadimento ecc. La quasi totalità delle comuni decisioni umane quotidiane sono ragionevoli ed assai di rado scientifiche o razionali (sillogistiche o matematiche). La fede in generale rientra nella categoria dei comportamenti umani ragionevoli, vale a dire scaturisce da un convincimento d’attendibilità d’un messaggio recepito, a prescindere da verifiche personali d’ineccepibile razionalità o di sperimentazioni scientifiche previe. La «buona notizia», che è l’annuncio apostolico della risurrezione di Gesù (cf.At 13, 32-33), nucleo essenziale e qualificante della fede cristiana, non è, com’è ovvio, una dottrina filosofica fondata e/o giustificabile mediante concettualizzazioni astratte o teoremi mentali o sperimentazioni di laboratorio. Coloro che frequentarono Gesù, «incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui fu assunto via da noi» (At 1,22), ebbero anzi concreti problemi ricorrenti persino sull’identità messianica del Maestro storico. Prova suprema indiscutibile è la loro squallida fuga quasi corale di fronte alla tragedia del Nazareno, a cominciare proprio dal tradimento di 60 Simone, soprannominato paradossalmente Kefà, ossia roccia. La fase della loro privilegiata esperienza storica del Maestro, vale a dire verificabile da ogni persona presente nel medesimo spazio-tempo, si concluse però davanti alla tomba del Crocifisso, trovata svuotata della salma deposta in precedenza. Una tomba svuotata può essere un indizio ragionevole, magari assai fragile, di ritorno in vita del defunto lì già ospitato. Una tomba svuotata tuttavia non è per nessuno una prova scientifica o razionale (logica, rigorosa, necessitante, matematica) di risurrezione; non lo fu infatti neppure per i discepoli del Nazareno. Essi seguitarono ad essere assai perplessi sull’accaduto al loro Maestro storico (cf. Mc 16, 9-14), nonostante la notizia inattesa riferita dalle donne del gruppo (cf. Mt 28,8). Il ritorno in vita d’un defunto è una possibilità (astratta come ogni possibilità), che è cosa del tutto diversa dall’assurdità (A è non A). Gli Apostoli infatti furono indotti ad abbandonare ogni titubanza sulla verità del ritorno in vita del Maestro da esperienze «teofaniche», ossia da eventi svincolati da spazio e tempo, diventando solo a questo punto testimoni diretti della sua risurrezione (cf.At 1,22; 13,33). Ciò significa senza dubbio alcuno che neppure per gli Apostoli, come per nessun altro mortale, la risurrezione del Signore poté essere un’esperienza a rigore definibile storica e men che meno necessaria a livello logico-mentale (razionale). Il Nazareno risorto ad ogni modo, benché Vivente realissimo per il credente, ossia senz’essere mera metafora o concetto astratto, non è di certo un Essere tuttora sussistente in un luogo ed in un tempo terrestri. Nessuna persona umana vide mai il Crocifisso uscire vivo dalla sua tomba, neppure coloro che erano stati collocati a guardia sul posto (cf, Mt 28, 3-4). Il ritorno in vita di Gesù fu quindi per i primi discepoli un’esperienza rivelata, come indicano con chiarezza le narrazioni evangeliche (cf. Mc 16, 5-7; Mt 28, 5-7 ecc.). La risurrezione del Signore poi per i credenti dei tempi seguenti è una notizia apostolica che, se ritenuta attendibile, è assunta a fondamento d’una fede ragionevole. È da ricordare intanto che la salvezza messianica è legata alla sola fede in Gesù morto e risuscitato (cf. Mc 16, 15-16). Essa non è conseguibile attraverso una gnosi (conoscenza intellettuale a priori), illuminata a qualsivoglia titolo, bensì attraverso l’esclusiva adesione libera alla notizia dell’evento metastorico riguardante il Figlio di Dio morto e risuscitato, ritenuta attendibile, a prescindere, com’è ovvio, da arcane decisioni diverse ed insindacabili della divina Sapienza. La rivelazione della risurrezione di Gesù diventa tra l’altro prova decisiva e discriminante dell’esistenza d’un Dio che comunica con l’uomo: se la risurrezione di Gesù è una falsa notizia, non può esistere un Dio personale creatore, ma tutt’al più soltanto un essere supremo mentitore o un mero concetto della mente umana estrapolato come Dio. 61 La notizia della risurrezione di Gesù quindi può giungere di norma all’uomo appunto nella modalità di testimonianza apostolica diretta della vicenda di Gesù di Nazaret (cf. Ef 2,20), per volontà esplicita dello stesso Salvatore (cf. Gv 15, 26-27; At 1,21). Quest’innegabile e tutt’altro che trascurabile circostanza non è tuttavia in nessun modo un elemento a scapito della ragionevolezza della fede cristiana, nonostante quanto sembrano supporre certuni intellettuali credenti criptognostici. La salvezza cristiana scaturisce infatti in via ordinaria dalla sola adesione consapevole di fede alla veridicità della Parola di Dio (cf. Lc 24, 25-27). Non può essere verità di conoscenza (gnosi) elaborata dalla fallibile mente adamitica o basata sulle sue fragili esperienze e/o certezze storiche, anche quando si tratta di verità riguardanti il cosiddetto «Gesù storico». S’avrebbe infatti anche in questo caso, al massimo, un praeambulum fidei, forse non meno fallimentare di tutti gli altri praeambu1a. Basti pensare alla quasi totalità del Sinedrio che condannò con severo rigore il Nazareno, che conosceva a livello storico assai meglio di quanto potrà qualunque altro ricercatore dei secoli seguenti. È assai probabile d’altra parte che i Vangeli siano da ritenere un genere letterario originale che non coincide di per sé col genere storiografico, alla maniera dei lavori di Tucidide,Tacito ecc. Gesù, il divino Discorso incarnato, non a caso disse di sé infatti: «Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete mai più» (Gv 6,35). Ogni eventuale certezza storica sul Cristo non è ancora fede in lui, feconda di salvezza messianica. Non fu certo per semplici motivazioni propagandistiche l’invio degli apostoli in tutto il mondo, «come agnelli in mezzo a lupi» (Lc 10,3), ad annunciare la strabiliante «buona notizia». Né si darebbe d’altra parte alcuna necessità d’affidarsi soltanto alla veridicità dell’annuncio della «buona notizia» per conseguire la salvezza, se fosse incontrovertibile che, sempre e per sé, la verità vera della mente dell’uomo coincide con l’annuncio rivelato della predicazione. È postulato estraneo al creazionismo biblico quello che sostiene l’univocità della mente dell’uomo con quella di Dio (cf. Is 55, 8-9). Non avrebbe alcun senso del resto, se così non fosse, la vicenda d’un salvatore orribilmente assassinato, al solo scopo di fornire superflue conferme mentali o storiche alle dispute infinite d’una sparuta élite di menti raziocinanti per mestiere. Ogni esistenza individua, Dio compreso, non è e non può essere soltanto un puro oggetto mentale. La persona è tale, ossia libera ed in sé, se non è prodotto d’un meccanismo che genera soltanto se stesso di necessità e quindi fotocopie d’un unico prototipo. C’è da riflettere del resto che quand’anche si possedesse l’argomento (meccanismo) valido per costringere senza scampo filosofi e scienziati ad ammettere a livello di rigore razionale l’esistenza dell’Essere supremo, non per questo si realizzerebbe di necessità la loro salvezza messianica, in grazia d’un Ente generato a livello mentale, frut62 to del meccanismo precostituito d’un organo destinato alla consunzione in polvere del globo. Ci sono moltitudini di persone convinte dell’esistenza di Dio, come entità individua, le quali però rifiutano la «buona notizia» di Gesù. Non è di certo sufficiente per la salvezza cristiana né la mera notizia dell’Essere in sé e per sé degli gnostici né la prassi etica corretta di Pelagio, con buona pace di certe disquisizioni ed iniziative cosiddette pastorali, che sembrano indurre a giustificare proprio l’esatto contrario. Giova non dimenticare che «senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5), ovviamente nulla di vitale indefettibile. Che senso cristiano ha allora la pretesa d’imporre, ad es., un’etica razionale, ritenuta corretta, a chi, per giunta, fa senza di Cristo con scelta consapevole? L’accoglienza cristiana del nemico (cf. Mt 5,44) vuol forse dire costringere chi la pensa in modo diverso a privarsi del suo libero arbitrio? La fede cristiana insomma è e rimane soltanto una scelta ragionevole della testimonianza apostolica sul mistero di Cristo e, proprio e soltanto per questo, è feconda di vita immortale, che scaturisce dal Creatore della vita, anche per la moltitudine sterminata degli indotti che la professò, seguita a professarla e la professerà nel futuro della storia terrena. Il Figlio, nell’ora suprema della gloria, pregò il Padre «per coloro che credono attraverso il loro [degli apostoli] discorso in me» (Gv 17,20), ma escluse con intenzione esplicita il «mondo» dalla sua preghiera (ib. 17, 6-9), quelli che s’affidano soltanto alle certezze partorite dalla mente e dalle loro sperimentazioni, diligentemente storiche e/o scientifiche. Sembra tuttavia mancare in realtà a molti di noi forse il coraggio del limpido insegnamento apostolico bimillenario per affidarci davvero alla divina «buona notizia». # tl 07/71 63 LEGGE DEL CONSUMISMO ROMA GIUBILANTE C’è forse davvero tra noi più d’uno che pensa al «giubilo», ossia al grido «iù-iù» per la gioia, quando sente parlare di giubileo. Più d’uno anzi - detto tra noi -, soprattutto nella nostra città, davvero è giubbilante (proprio con 2 b all’antica) o sta per esserlo, a causa dell’abbondante mangiatoia, mercantile e non, di mondani vantaggi personali, su cui ha già messo bocca o ha ottime speranze di metterla, grazie a questo cosiddetto evento. E’ noto che l’anno giubilare romano s’ispira ad un’istituzione registrata nella Scrittura; se ne parla soprattutto nel Levitico (25, 8-55).Vi si stabilisce per Israele che ogni cinquantesimo anno nel giorno dell’Espiazione deve iniziare un periodo annuale di riposo per i campi e di riscatto della terra, delle case e delle persone. Papa Bonifacio VIII nel 1300 pensò d’offrire il riscatto totale della teologica «pena temporale» ai cristiani pentiti ed assolti sacramentalmente dai loro peccati, che nel corso di quell’anno fossero venuti a Roma pellegrini per visitare 15 volte le tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Nacque così l’anno giubilare romano da celebrarsi ogni 100 anni, secondo le disposizioni iniziali; a differenza del già esistente anno Giacobeo di Santiago de Compostela, che aveva ed ha una frequenza maggiore (tutti gli anni in cui il 25 luglio – festa liturgica di s. Giacomo apostolo - capita di domenica). Il riscatto totale della pena temporale si chiama «indulgenza plenaria» e si riferisce a tutta e soltanto alla pena temporale (ossia espiabile in un lasso di tempo virtuale), che ogni battezzato, pur pentito dei suoi peccati e riconciliato col sacramento della Riconciliazione, è tenuto a scontare come debito (giuridico) residuo prima d’essere ammesso alla beatitudine eterna, con l’accettazione rassegnata alle sofferenze dell’esistenza terrena e le opere penitenziali o nel cosiddetto purgatorio dopo morte: così decisero i teologi moralisti. Non pochi credono a torto, o sono stati indotti a credere, di far peccato se non compiono le visite giubilari. Il giubileo non è un «comandamento» e neppure un «precetto generale» della chiesa. Si deve anzi sapere, a scanso di pericolosi equivoci e fallaci enfatizzazioni promozionali mercantili, che per il cristiano più importante e decisiva del giubileo è una buona riconciliazione sacramentale; staccata dai sacramenti 67 della Riconciliazione e dell’Eucaristia non ha infatti alcun valore d’effettiva metßnoia (cambiamento di mentalità) la pratica giubilare. È il caso di ribadire poi che la medesima indulgenza plenaria era già annessa, oltre che al menzionato Giacobeo, anche ad altre pratiche e manifestazioni religiose, come al pellegrinaggio in Terra Santa, alla ricorrenza della Porziuncola (Assisi), alla celebrazione della Perdonanza (l’Aquila) ecc. Le occasioni per lucrare indulgenze parziali e/o plenarie diventeranno in seguito ben più frequenti e facilitate. È forse di qualche utilità sapere inoltre che a proposito del termine giubileo c’è un piccolo giallo filologico. Il termine ebraico a monte dell’istituzione cristiana nel testo di Levitico è [yobel] ossia ariete, che non ha proprio nulla a che vedere col giubilo, nonostante che s’invitino gli israeliti ad accogliere la notizia di yobel con grida di gioia, com’è ovvio, a motivo di ciò che comportava a livello concreto (riposo e riscatto). Gli studiosi intanto osservano che può essere letto dai rabbini in 3 maniere. Il vocabolo è intanto di per sé in lingua ebraica il nome dell’ariete, come s’è detto, il cui corno s’utilizzava per emettere il suono che notificava agli israeliti l’inizio della ricorrenza. Il vocabolo poi può essere inteso come sostantivo derivato dal verbo che significa restituire, liberare. Si può infine fare una lettura rabbinica particellata del gruppo consonantico, ossia che significa «Javè [è] signore», per cui la ricorrenza giubilare diventa riconoscimento del fatto che a Javè fanno capo (è signore) la terra e la libertà del popolo dell’elezione. S. Girolamo, traducendo la Scrittura in latino utilizzò il lemma iubilum col significato di gioia, giubilo; quando s’imbatté però nell’ebraico inventò la traslitterazione latina «iobeleus» della voce ebraica, da cui dovrebbe scaturire un eventuale nostrano «giobeleo». La lingua ecclesiastica medievale sostituì poi il neologismo iobeleus della Vulgata con iubilaeum, ovvio ricalco di iubilum, lemma che tra l’altro - tanto per colmare la misura - è senza alcun dubbio ignoto al lessico latino classico. Qualcuno infine si chiede forse quale differenza passa tra un grande ed un piccolo giubileo, a prescindere dall’ovvia opulenza della mangiatoia mercantile, di cui si diceva all’inizio, e dello spettacolo folcloristico che ha sempre accompagnato, come pare, l’anno giubilare romano. È certo che l’indulgenza offerta in ogni giubileo è sempre «plenaria»: più o meno «grande», ossia piena, sembra non possa essere. Sarebbe allora forse più evangelico spogliare (far piccola!) l’indulgenza giubilare da ogni incrostazione di «do ut des» spettacolare. La si scoprirebbe come un segno forte di speranza cristiana nella gratuita salvezza messianica, che insegna a vivere in questo mondo come effettivi ospiti e pellegrini (cf. 1Pt 1,17), in trepida attesa vigile della Misericordia radicalmente purificatrice e rigeneratrice del Padre della benevolenza. «Beati i poveri ... ». # tl 00/35 68 SANTOSTEFANO Ed alla soglia della Chiesa a Piazza della Radio ho dovuto cacciarti, nonostante gli occhi imploranti e la coda ammainata. Capirai: in Chiesa un cane s’ammazza di pedate. Grazie comunque, adespoto cane di Santostefano. Grazie per le tue feste, pur non richieste, lungo il tratto della Portuense. Temo che i tuoi padroni t’abbiano abbandonato, come tutti i veri padroni puntualmente fanno con tutti i cani di questo mondo. O forse t’avranno rinchiuso da qualche parte prima d’andarsene. E sei fuggito. Bravo! La gente ha corso questi giorni al costoso guinzaglio del cibo, dei regali, delle visite e delle ferie (magari esotiche); a quest’ora dorme stordita sulla sua libertà oltraggiata. E noi godiamoci questa mite mattina 69 di Santostefano, trotterellando nella nostra breve franchigia fatta di niente, per cani sciolti, appunto, senza padrone e senza nome. Sei stato davvero simpatico. Correvi innanzi, scodinzolavi indietro a farmi festa; attraversavi e riattraversavi la strada spaziosa e solitaria di ‘sta mattina; accennavi a rincorrere qualche rara auto che infastidiva il nostro gioco e poi saltellavi giulivo accanto al mio passo goffo e sollecito. Tu forse immagini d’aver trovato un nuovo padrone alla tua libertà. No, cane.Vai, cane, felice sia pure per pochi minuti soltanto. Sai, non amo fare da padrone neppure a un cane in cerca di guinzaglio. # tl 94/04 70 NATO PER MORIRE Si deve forse pensare che il Discorso (o Verbo) di Dio nacque uomo con lo scopo prioritario d’affrontare l’evento mortale. «C’è un battesimo che devo ricevere e come sono impaziente finché non si realizzi!» (Lc 12,50). Nulla di patologico nella mente del Salvatore: non si trattò di voglia suicida, com’è del tutto ovvio. Il battesimo per Lui è metafora dell’immersione nell’oceano inferiore che avvolge la casa dei morti, lo sceòl, da cui sarebbe uscito liberato (purificato) dal mortifero potere tenebroso e definitivo. Gesù sapeva benissimo che il Padre non poteva abbandonarlo per sempre nella dimora dei morti. Consumò intanto la sua esistenza terrena nel compimento d’ogni giustizia, ossia realizzando tutto quanto è scritto nella Legge (cf. Mt 3,15). La Scrittura sentenzia per l’Adamo che osò toccare l’albero della conoscenza del bene e del male: «Di morte morirai!» (Gn 2,17). Il Figlio di Dio pertanto si prefisse, incarnandosi, di portare a compimento volontario e non dovuto questa severa Parola del Padre, perché l’uomo adamitico avesse un’altra possibilità di recuperare la divina offerta originaria di vita imperitura (cf. Sa 2, 23-24). «Cristo [infatti] pagò per liberarci dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione a nostro vantaggio» (Ga 3,13). È forse il caso di rammentare che benedizione nella Scrittura significa dono di vita (cf. Gn 1,28) e pertanto maledizione è privazione di vita, ossia morte. Il Discorso di Dio davvero nacque uomo per poter scegliere con assoluta libertà di morire: il battesimo che voleva ricevere. La liturgia natalizia – com’è noto – è modellata su quella pasquale; non a caso. Un percorso penitenziale (avvento) fiorisce nel rito notturno (la vigilia solenne), che prelude il frutto della celebrazione della vita nuova (solennità della Natività). La scelta poi del 25 dicembre per la celebrazione della solennità, che – come si sa – non è confortata da nessun fondato indizio storico, è ispirata dal simbolismo della morte-rinascita dell’astro essenziale per la terra (solstizio d’inverno). La ricorrenza natalizia nel nostro ambiente geografico e sociale è ridotta tuttavia ad un appuntamento di sontuoso materialismo. È ormai periodo dell’anno consacrato ad un’orgia collettiva di godimento terrestre, con qualche innocua attenzione catartica ai poveri, qualche effimera proclamazione di 71 pacifismo velleitario e scontati ammiccamenti beceri ai bimbi, strumentalizzati al protagonismo inconsapevole della promozione di dolciumi vari, giocattoli tecnologici, fatue lucette multicolori ed altre cianfrusaglie mendaci. Qualcuno agguanta uno scampolo di vacanza su spiagge esotiche. La solennità della Natività del Signore è ormai lautamente paganizzata anche presso i cristiani. Natale per la nostra società è in sostanza tempo d’olocausto frenetico della tredicesima al delirio collettivo dello scambio di regali, spesso inutili, di solito futili, talvolta decisamente diseducativi. La scelta pastorale del 25 dicembre si proponeva di sostituire la celebrazione del divino mistero d’amore di Colui che nacque per scegliere di morire, alle manifestazioni goderecce e superstiziose del solstizio d’inverno nella Roma imperiale del IV secolo. Ci ritroviamo invece perlopiù travolti dall’ipocrisia predicatoria di qualche buon sentimento umanitario a fior di pelle, asserviti in ogni caso al trionfo del piatto consumismo festaiolo e globalizzato. # tl 03/56 72 CASALINGA SENZA TITOLI La Statua non ha nulla d’imponente. La sua piccolezza fa clamorosa mostra di sé, soprattutto quando galleggia danzando sulla marea di fiaccole nell’immenso piazzale di Cova da Iria a sera. È poi francamente sproporzionata ed incongrua per i miei occhi quella corona luccicante, che sovrasta in bilico e sussiegosa il minuscolo viso leggermente reclinato della Vergine. Non riesco a vedere cosa c’entri la corona, e quella corona, in testa a quest’Icona povera e casalinga. La Signora di luce mi pare si sia mostrata a 3 pastorelli analfabeti e non a qualche sovrano felicemente regnante; si mostrò senza insegne e senza corone, tranne quella del rosario, a 3 fanciulli portoghesi, neppure tanto provetti in dottrina cristiana. Il bello è che tentarono di terrorizzare i 3 piccoli, suggerendo loro sapientemente che quell’affabile Signora luminosa poteva essere il demonio in persona, il demonio col ... rosario. Non sarebbe forse venuto in mente il demonio ai «sapienti ed intelligenti», se l’apparizione si fosse mostrata appunto con una ricca corona aurea in testa a qualche notabile o notabilissimo. Chissà se i 3 ragazzini d’Aljustrel avevano mai visto qualche testa coronata, sia pure soltanto disegnata o fotografata. La Madonnina bianca senza corona in testa in realtà s’era adeguata alla loro indiscutibile povertà per denunciare l’indigenza drammatica di salvezza dal dolore, dal male, dalla morte eterna. Non regalò loro potere (corone) e ricchezza; neppure salute e lunga vita terrena a 2 di loro. A me pare che questo sia il messaggio forte della Madonnina minuscola e povera di Fatima.Temo però che la bella corona d’oro, che le hanno issato in testa, faccia pensare ai «semplici» che Ella possa essere ricca e munifica, come qualsiasi potente di questo mondo. M’accora il sospetto che quella traballante corona d’oro voglia alla lunga giustificare e battezzare la voglia mercantile di trasformare in gigantesco emporio di cianfrusaglie futili ed amuleti assurdi questa terra, di certo benedetta quand’era povera e severa. Non è difficile pensare che la smania di consumismo, come altrove, purtroppo potrebbe colonizzare anche Fatima. La Madre dei poveri però si mostrerà forse di nuovo; non ai «sapienti ed intelligenti», ma ai «senza parola», come diceva Gesù. Essi, i sapienti ed intel73 ligenti, seguiteranno naturalmente a tacitare i profeti dal nostro mondo e ad incoronare d’oro le loro teste. Non potranno tuttavia impedire mai alla Madre di Gesù di profetare ancora, senza corona posticcia sul capo, attraverso i «senza parola» ed i poveri. La Madre di Dio infatti fu e rimane in eterno la casalinga senza titoli nobiliari ed onorifici, madre dei figli autentici di Dio. # tl 99/34 74 QUIETE DI SPERANZA Glissa morbida molto su nel cilestrino del freddo mattino una lunghissima linea nera ed ordinata di cormorani verso la foce del Tevere. E giù groviglio e gazzarra di motori a Piazza della Radio; acre puzzo d’irose gasate frettolose e tanti volti già inveleniti a quest’ora acerba, rassegnati. Paurosa voragine rigurgita questo spazio marame di consumismo. E mentre annaspo in questa palude d’acciaio e di plastica, inghebbio involontario veleno e mi dico: - ma lassù c’è quiete di Speranza … # tl 99/30 75 MONETA FALSA NÉ MAGIA NÉ PLACEBO La preghiera non è per il cristiano uno strumento magico, fatto di formule verbali e gestuali, per ottenere in modo meccanico gli esiti desiderati. Parecchi pensano che le loro preghiere non sono esaudite, solo perché non si conoscono, e quindi non s’adoperano, le parole giuste per raggiungere lo scopo. L’effetto dipende insomma dalla qualità delle parole: da quelle ad es. d’un santo taumaturgo e/o persona autorevole, forse da quelle mielose, lacrimogene, stampate dietro qualche bel santino ecc. Dipende anche – si ritiene - dal numero delle parole, magari replicate sonnacchiosamente all’infinito, e dal volume della petulanza. Non manca il pretesto in apparenza giustificativo: il Signore non ha forse invitato a pregare sempre (cf. Lc 18,1), a bussare finché la porta non s’apra (cf. Mt 7, 7-8) ecc.? Nessuno però si chiede, ad es., a quale porta si deve bussare e per che cosa ed in che modo «sempre». Gesù ai discepoli, che gli chiedevano le parole giuste per pregare in modo efficace, non comandò di recitare l’intero Salterio o 25 poste di Rosario né di fare pie novene o pubblici spettacoli di petizione o altro del genere. Propose solo una breve formula, farcita di citazioni dalla Scrittura, raccomandando di non essere prolissi e ripetitivi, perché il Vecchio di giorni (Cf. Dn 7,9) ha un udito perfetto e, per di più, non ha bisogno d’essere informato con petulanza sui veri bisogni di ciascuno e di tutti (cf. Mt 6, 7-13), onde spalancare la porta giusta. Non dice proprio nulla la differenza tra la disattesa litania diligente di voci del «tesoro spirituale» del fariseo e la stupefacente e consapevole indigenza, persino verbale, del pubblicano (cf. Lc 18, 9-14)? La maggior parte di noi prega, decisa a farsi ascoltare da Dio, per la presunzione di chiedere cose davvero importanti e valide. Si crede in certo modo più alla magia delle nostre parole e delle nostre cause giuste, che non alla divina premura sapiente del Padre benevolente. Altri non pochi si chiedono invece a che serva essere religiosi e pregare, se Dio non ascolta o ascolta a casaccio. È forse la preghiera un placebo spirituale? Hai visto mai i miracoli dell’autosuggestione, anche se Dio, supposto che esista, in realtà non dà retta a nessuno! Si deve dunque seguitare a far finta d’ignorare che la quasi totalità dei guai che affliggono l’esistenza (la fa79 me, le guerre, i disastri naturali ed ambientali, la corruzione, la disoccupazione, le divisioni religiose ed etniche, il terrorismo ecc.) sono da addebitare alle umane scelte egocentriche e/o più o meno criminali? Noi cristiani in effetti dovremmo non ignorare che l ‘Onnipotente ha deciso d’essere impotente di fronte alla libertà umana (cf. Gn 2, 15-17). È del tutto impossibile che Egli decida di contraddirsi, cassando la libertà dell’uomo, dopo averla Lui stesso inventata. Può allora il cristiano ricorrere ad un pio placebo universale che in sostanza offende la sapienza del Creatore? Non s’è forse compresa ancora, neppure da noi cristiani, una verità paurosamente semplice: la preghiera insegnataci da Gesù è disponibilità ad ascoltare (e non grimaldello per farsi ascoltare): «elevatio mentis in Deum» disse qualcuno. È infatti ricerca di confronto costante con i divini progetti d’un Padre impegnato ad offrire Spirito Santo, ossia Respiro di vita senza fine (cf. Lc 11,13). Non a caso la concisa preghiera insegnata a noi dal Signore è farcita di Parola di Dio. # tl 03/52 80 MI SARETE TESTIMONI C’è forse tra noi parecchia confusione anche a livello responsabile e direttivo. L’imbonitore è un venditore ambulante porta a porta, che magari bussa alla tua abitazione – senza che l’abbia interpellato – per esporti l’eccellenza suprema della sua mercanzia e la convenienza strabiliante del suo prezzo, onde indurti ad acquistare il prodotto, anche se non ne percepisci una reale utilità. I mezzi della comunicazione sono stati strumentalizzati ormai con stucchevole abbondanza pervasiva a funzione di virtuali imbonitori casa per casa, ambiente per ambiente, persona per persona, ad ogni istante del giorno e della notte, abilitati ad intromettersi con prepotenza casuale e villana nello sviluppo di qualsiasi discorso, fatuo o serio che sia, per consigliare quasi sempre cianfrusaglie anche risibili. Gesù Cristo non è mai stato un imbonitore, a quanto risulta: non aveva mercanzie da piazzare. Fu di certo un predicatore ambulante che illustrava con discorsi e con «segni» sulle strade e negli spazi pubblici l’avvento della sovranità salvifica (e non mercantile) del Dio dei padri. Il predicatore è in ogni caso un banditore di messaggi a moltitudini, che possono essere recepiti o ignorati con totale libertà di ciascuno (cf. Gv 6, 60-67). Gesù pertanto non ha mai preteso né voluto impicciarsi di particolarismi socio-politici, perché il suo messaggio è invito per ogni uomo, anche per chi gli si pone contro (cf. Mt 5, 44-45; 13, 24-30; Gv 3, 17-18). Gesù fu soprattutto un testimone (cf. Gv 3,11). La voce greca corrispondente, com’è noto, è mßrtur, da cui martire. Il testimone è la persona che attesta, con impegno d’essere veritiero, qualcosa che è a sua conoscenza per esperienza diretta o indiretta (cf. Gv 15,27). Non è di per sé un notificatore di sentenza di condanna o d’un punto di vista particolaristico né un dovizioso benefattore prodigo; tanto meno è un piazzista di mercanzia sia pure obbligatoria (ad es. etica). Impegna soltanto la sua persona, ossia la sua veridicità; non l’eccellenza d’una mercanzia, come l’imbonitore. Il ruolo del testimone è pertanto soltanto probatorio a vantaggio o svantaggio d’un imputato. «Io a questo scopo sono nato ed a questo scopo sono venuto nel mondo, affinché dia testimonianza alla verità» (Gv 18,37). L’imputato nel caso di Gesù fu dunque la «Verità», ossia la buona notizia misericordiosa della sal81 vezza da morte, contestata dai responsabili d’Israele (cf. Gv 8, 21-22). La sua vita terrena assassinata adempì l’impegno di prova della veridicità con la nudità più totale, sia materiale sia morale: rinnegato persino dai suoi amici. Pare si chieda oggi da alcuni anche ai cristiani, in una società assalita da una moltitudine feroce ed aggressiva di imbonitori d’ogni tipo, l’impegno ad essere imbonitori d’un mondiale cripto-imperialismo teocratico che confonde bellamente la carità (accoglienza) evangelica con la pur nobile prassi filantropica dell’elemosina (cf. 1Co 13,3). Quest’equivoco lo s’inculca proprio come testimonianza cristiana. Sembra invece, non poche volte, soltanto uno strumento di bieca ed inopportuna visibilità mercantile. Chi ha detto mai che l’indigenza non possa essere autentica testimonianza a favore del Cristo? Colui forse, di cui si beffavano i pii farisei (cf. Lc 16,14), perché ammoniva: «Chiunque tra voi non rinunzi ai suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33)? Dove sta scritto che l’uomo per essere salvato dev’essere privato (dall’uomo) della libertà (donata dal Creatore) di scegliere tra bene e male? Gesù non pare proprio abbia inviato i suoi come imbonitori di checchessia, bensì come testimoni inermi (pecore in mezzo a lupi e non lupi in mezzo a pecore) della «buona notizia» della sua risurrezione e della Misericordia salvifica escatologica (cf. Lc 24,48), che è appunto la Verità da attestare con scelte coerenti di vita. # tl 06/69 82 LA PROFEZIA INSULTATA La profezia, ossia l’autentico pensiero di Dio manifestato con parola d’uomo, in questi tempi è insultata da clamore mediatico che amplifica ogni giorno ed in modo quasi esclusivo gli oracoli salvifici dettati da sapienza ansiogena di «bombaroli» miliardari petrolieri d’oltreoceano. Gli occupanti nostrani delle poltrone parlamentari, paladini purissimi della fede cristiana contro la barbarie rossa di qualche mese fa per l’ovvia circostanza (elettorale), rivelano oggi d’essere affidabilissimi imbonitori di messianica salvezza oltroceanica, con tanti saluti all’unico Messia, il crocifisso Gesù di Nazaret. È convinzione comune che il terrorista vada annientato con le bombe, non importa se travolgendo anche la carne di innocenti, che non sono per nulla talebani. La pensa in tal modo persino più d’uno di quelli che dovrebbero dedicarsi a predicare la «buona notizia» della misericorde salvezza di Gesù Cristo. Sono per tutti costoro evidenti decrepite esimie sciocchezze da bigotti le parole profetiche: porgere l’altra guancia (cf. Mt 5,39), beati i non violenti (cf. Mt 5,5), perdonare per essere perdonati (cf. Lc 6,37), pregare per i nemici ed anzi accoglierli (cf. Lc 6,35), benedire quelli che perseguitano (cf. Rm 12,14), non tener conto del male ricevuto (1Co 13,5), perdonare 70 volte 7 (cf. Mt 18,22) e tantissime altre. Ci hanno riferito, in maniera del tutto casuale e …per errore, che un ignoto tale ha ricordato la (scandalosa!) parola del Signore: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettemmo ai nostri debitori» (cf. Mt 6,12) a coloro che piangevano i 15 o 16 cristiani pachistani (non ci dicono neppure quanti sono stati esattamente), in maniera vigliacca abbattuti come miti cani innocui, mentre erano riuniti a glorificare il Dio dei buoni e dei cattivi, dei miliardari e dei miserabili, degli islamici e dei cristiani, degli atei e dei credenti. La profezia per una volta e per sbaglio risuonata attraverso i mezzi della comunicazione è stata però subito azzittita per fare spazio all’interminabile santificazione giornalistica («Dio lo vuole!») delle quotidiane bombe intelligenti sugli infelici che senza colpa alcuna si trovano sul bersaglio della vendetta stramiliardaria, scatenata per la maledetta violazione criminale dei simboli babelici del divino e rapinoso «commercio mondiale», idolo aureo di pochi cinici adoratori e non già del mondo intero, come seguitano a mentirci. 83 Sono ben 2 millenni che i padroni abusivi di questo mondo (cf. Mt 4, 810), che si fanno chiamare benefattori dell’umanità (cf. Lc 22,25), stanno sghignazzando con lazzi sardonici al Crocifisso che prega per i suoi assassini: «Perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Rivendicano anzi persino benedizioni, ultimo supremo insulto alla profezia, sulle loro imprese criminali da quel Dio che non gode neppure della morte dell’empio, perché possa desistere dalla sua condotta e viva (cf. Ez 33,11). Urlano quindi con pervicace arroganza blasfema d’essere terrorista o pericoloso complice a chiunque rifiuti di schierarsi con le loro bombe dotate di prodigiosa intelligenza. Giurano di perseguire «libertà duratura» e «democrazia» (che è poi effettiva plutocrazia) con sofisticatissimi strumenti di morte, guardandosi bene intanto di chiarirci di quale libertà e democrazia si tratta. Potremmo forse già capire quale possa essere la libertà degli opulenti fabbricanti e mercanti di micidiali ordigni intelligenti. Ci lascino però frattanto la follia d’astenerci da tanta foia bellicosa, da siffatto cinismo barbarico che fa passare per semplice (deprecabile!?) «errore» una rinnovata giornaliera strage di innocenti, rigorosamente occultata. Ci facciano la cortesia di non farsi venire in mente d’imporci d’appiccare falò antiterroristici davanti alle nostre case, sterminatori delle copie del Nuovo Testamento sparse per il mondo. Ci concedano lo sfizio di non scambiare per «lotta o battaglia o guerra di civiltà» l’atavica barbarie dell’«occhio per occhio, dente per dente» e per «amore della pace» lo scatenamento d’una guerra sanguinosa sulla pelle miserabile d’un popolo ignaro, imbelle e già a lungo martoriato. Sono forse scarafaggi – pardon! -, innocenti di serie B? È proprio sicuro che le ragioni vere di siffatta vendetta pachidermica sono così ideali e disinteressate come i suoi mendaci promotori petrolieri ed accoliti miliardari s’affannano a propinarci? Credono che siamo tutti proprio scemi, se non bruciamo incenso al loro dio profitto invece che a Gesù Signore, sbeffeggiato e povero? # tl 01/45 84 L’ANNO GRADITO L’«oggi» di Gesù, secondo Lc, è l’«anno gradito a Javè» (4, 16-21). L’espressione «anno gradito a Javè» è del libro di Isaia (61,2) e pare proprio che alluda all’istituzione ebraica del giubileo. Era tempo «gradito a Javè», perché nella primitiva società israelitica il giubileo, che non prevedeva iniziative turistiche, comportava tra l’altro liberazione degli schiavi, recupero degli emarginati, restituzione della dignità agli esclusi (cf. Lv 25, 8-19). Era dunque una festa, se così si può dire, per quanti non avevano alcuna possibilità di celebrare festeggiamenti nella loro vita, data la condizione d’oppressione ed emarginazione. Lc sembra assumere l’istituzione giubilare come perspicua metafora delle coordinate teologiche del tempo cristiano. Esso è occasione gratuita di liberazione dai ceppi della sofferenza e della morte per chi si rende conto di non avere altro cui aggrapparsi, fuori della misericordia divina. Tutto il tempo cristiano è dunque «anno gradito a Javè». Ci è stata annunciata e mostrata coi fatti la metamorfosi del giubileo cristiano da evento liberatorio a megafesta planetaria e scorpacciata di visibilità mercantile, che forse non ha proprio nulla da spartire con la predicazione del Crocifisso, la quale propone radicale metßnoia (cf. 1Co 1,23; 2,2). L’«anno gradito» ad ogni modo, cui pensava il Signore quel giorno nella sinagoga di Nazaret, non è composto da 12 mesi giubilanti un po’ dilatati, ma da tutti i millenni probabili che congiungeranno la sua prima apparizione alla seconda, foriera di liberazione definitiva per i figli di Dio dispersi nel tempo e nello spazio. Ogni persona in realtà, benché convinta d’avere pieno possesso delle sue libertà ed attentissima a difenderle da qualsiasi assalto vero o presunto, ha forse oggi bisogno della liberazione dell’«anno gradito». C’è, per es., ai giorni nostri chi si compiace della sua ignoranza in fatto di religione e s’accontenta di emozioni a fior di pelle. Abbiamo forse tutti esperienza di gente che, quanto più si scopre ignorante in campo religioso, tanto più si compiace di qualificarsi «moderna». È una probabile forma sottilissima ed assai perniciosa di schiavitù antica con maschera recente, ancorché gradita ed ostentata con maggiore o minore scipitezza. 85 L’ignoranza, anche quella religiosa, è infatti sempre e soltanto una schiavitù, almeno incombente. La libertà poi dei figli di Dio (cf. Ga 4, 7.31) non si consegue certo crogiolandosi nelle emozioni dei festeggiamenti e dei cosiddetti eventi, ma inchiodandosi ai piedi del Maestro crocifisso con l’umiltà e la costanza del discepolo assetato di «verità e vita», ogni giorno dell’«anno gradito». # tl 01/40 86 DUE PESI E DUE MISURE Possono essere un brillante strumento promozionale anche i tempi, i riti e le pratiche penitenziali. Mi chiedo: sarà stato un inguaribile sprovveduto simpatico personaggio Gesù Cristo, quand’esortava a tapparsi in casa invece di scegliere gli spazi (ed i paludamenti) ben visibili, per dedicarsi alla lode di Dio e di far uso di profumi invece che di cenere, quando si decide di far digiuno per affliggersi d’aver offeso la divina misericordia (cf Mt 6, 57.16-16)? Sono cambiati i tempi oppure è solo un vetusto retaggio della mentalità dell’uomo adamitico ancora ben lontana dal recepire l’invito evangelico alla «metßnoia» autentica? Il fariseo penitente non era di certo un bugiardo; era soltanto anche lui un accorto utilizzatore dei mezzi mediatici del suo tempo, quando pubblicizzava le sue imprese devozionali e penitenziali. Gesù però non era affatto d’accordo sull’utilità salvifica di siffatti strumenti millantati a vantaggio individuale (cf Lc 18, 9-14). La prassi autentica e trasparente della «metßnoia» evangelica riguarda infatti di per sé anche (e soprattutto) il livello comunitario. Predicatori, padri spirituali e confessori di solito sembrano convinti o, in ogni caso, si sforzano d’assicurarci che quando Gesù predicava la «conversione» - così s’usa tradurre il sostantivo greco metßnoia - proponeva il pentimento dei peccati individuali, magari di pura fantasia e nascosti, o addirittura invitava a compiere qualche gesto autopunitivo, sempre a dimensione privata, che si suole chiamare penitenza. Predicatori, padri spirituali e confessori forse sanno bene (si spera) che Gesù predicò in realtà la metßnoia, ossia il «cambiamento di mentalità» e non il mero pentimento per eventuali trasgressioni a livello individuale. Si sa benissimo che la mentalità è il pensare comune, e quindi il comportamento della comunità, che non è governata di sicuro da chi conta poco o niente ed è magari preoccupato davvero di rispettare il divino volere. Questo significa che Gesù ha invitato alla conversione innanzitutto i comportamenti comunitari e chi li progetta, li condiziona, li governa e li giustifica d’autorità (cf Mt 23, 13-33). Le comunità umane di qualunque tipo seguitano però a ritenersi esenti (e al di sopra) dall’urgenza di convertirsi. Un esempio tra mille potrebbe essere la seguente constatazione. Non pare che esista al mondo una normati87 va pubblica basata di fatto sulla misericordia per chi sbaglia; se tutto va per il meglio ogni società per definizione si basa, almeno a parole, sul diritto che dà a ciascuno ciò che gli spetta secondo il bilancino di precisione (teorica) della giustizia etica e nulla più. Noi cristiani da sempre preghiamo: «rimetti a noi […], dato che anche noi rimettemmo», ossia donaci quella misericordia che «noi» abbiamo imparato da te a donare di fatto agli altri uomini in anticipo. La citata espressione evangelica basilare è praticata in qualche caso da qualche singola persona (sciocca, a giudizio unanime). Nessun codice legislativo al mondo prevede lontanamente la misericordia come principio giuridico fondamentale dei suoi ordinamenti. Gesù Cristo sembra risultare del tutto ignoto alle sacralizzate strutture comunitarie (persino religiose) da sempre, almeno sotto questo aspetto; ma non solo. Le istituzioni, le strutture, le prescrizioni giuridiche, le scelte che contano sono davvero esenti da qualsiasi bisogno d’adeguamento alla metßnoia evangelica? # tl 00/36 88 FURTO DI GLORIA La carità per il Vangelo è innanzitutto accoglienza di Dio ed insieme accoglienza del prossimo (cf. Mc 12, 28-34). Non sono 2 generi diversi d’accoglienza. Si tratta d’un unico compito che di per sé rende a Dio, in quanto salvatore mio e del prossimo, la giusta somma «gloria» che gli compete. L’«¶gßph» (carità, amore) è dunque per il cristiano un atto di religione, anzi è la pratica cristiana della «religione pura» (Gc 1,27), che «val più di tutti gli olocausti e sacrifici» (Mc 12,33), perché ha Dio come oggetto esclusivo dell’offerta sacra. Questo significa in altri termini che l’accoglienza cristiana del prossimo è, a monte, accoglienza di Dio salvatore e pertanto adempimento genuinamente cultuale vero e proprio: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, in modo che, vedendo le vostre opere buone,rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,16). La risposta di Gesù all’Iscariota, che protestava per un supposto oblio umanitario dei bisogni dei poveri (cf. Gv 12, 4-8), ribadisce la medesima verità teologica cristiana. L’adorazione e «glorificazione» del progetto salvifico di Dio ha priorità assoluta, persino sull’umana sofferenza terrena, perché è strumento che decide il suo destino eterno e non quello soltanto temporale.Apparirà forse cinica alle eccelse menti laiche (e non) questa scelta evangelica della priorità del divino sull’umanitario solidarismo terreno a piatto orizzonte materialistico, strombazzato ai nostri tempi anche da ambienti ed iniziative insospettabili. Assumere però la sofferenza dell’uomo come strumento ipocrita d’aprioristica rimozione (o superamento) d’ogni ipotesi trascendente, e quindi prioritaria, è furto meschino della «gloria» di Dio e del Crocifisso: forma strisciante d’ateismo pratico, seppure inconsapevole per molti, persino sedicenti cristiani ed addirittura pastori. L’unicità dell’oggetto della carità è del resto il motivo, per cui l’accoglienza cristiana del prossimo, che è alla radice accoglienza di Dio salvatore, è di per sé accoglienza anche e sempre del nemico (cf. Mt 5, 43-48). I mefistofelici distinguo dei minuscoli «grandi» che si propongono di ripulire il nostro pianeta da mali e malandrini con iniziative di violenza criminale, vogliono convincerci – ultimo furto della «gloria» - d’essere più solerti ed onnipotenti del Padre che sta nei cieli, al quale s’addebita in maniera fa89 cile e puerile di non essersi ancora accinto a fare pulizia sulla terra, da che mondo è mondo, per compiacere i signori omuncoli. I veri cattivi maestri non sono forse i criminali acclarati o i pensatori d’avanguardia e rottura, per i quali «Dio è morto», bensì questi nostrani sedicenti salvatori del mondo, che seguitano intanto a sterminare innocenti a iosa e ad affamare sfortunate moltitudini di incolpevoli e sfruttati. # tl 02/47 90 GIUSTIZIA CHE SOPRAVANZI La preghiera, il digiuno e l’elemosina erano le 3 pratiche ritenute meritorie, con le quali il pio giudeo professava la sua «giustizia», l’osservanza della Legge divina rivelata. La preghiera era concepita come offerta religiosa d’una porzione del proprio tempo al Creatore che assegna a ciascuno un certo numero di giorni, prima d’andare a dimorare per sempre nel tenebroso sceòl. Il digiuno era praticato come manifestazione di lutto e cordoglio per le tante trasgressioni, anche ignote ed involontarie, alla Legge di Colui che è fonte d’ogni gioia di vivere (cf. Lc 12,19). L’elemosina era ritenuta una sorta di restituzione ad un altro israelita d’una porzione della ricchezza prodotta dalla «terra» che Javè donò all’intera stirpe prescelta d’Abramo. Tempo, gioia di vivere e benessere materiale sono anche per il cristiano doni del Creatore, ma non ultimativi né prioritari. La specificità dell’esistere cristiano infatti non è il possesso di benessere terreno, bensì attesa di ben altro dono, vale a dire speranza d’impadronirsi della «perla preziosa», per la quale vale la pena persino di liberarsi d’ogni sicurezza e ricchezza terrene (cf. Mt 13, 45-46). Non basta dunque al Salvatore una porzione del tempo d’esistenza; esige dal cristiano tutta la persona (cf. Rm 12,1), ossia l’impegno dell’intera esistenza per conseguire la salvezza escatologica. La manifestazione autopunitiva di lutto (il digiuno) rischia di porsi come sceneggiata promozionale (cf. Mt 6, 16-18) o persino oblio della gioia (cf. Mc 2,19) per la presenza viva e gloriosa del Salvatore presso il Padre (cf. Gv 14,28; 16,20; Eb 1,3), che non abbandona mai più i suoi quanto a salvezza eterna (cf. Mt 28,20). Il digiuno cristiano dunque ha da essere piuttosto un segno ed una testimonianza gioiosa d’attesa del cibo di vita eterna. Non ha infine specifica valenza cristiana la commiserazione dell’indigente - questo significa elemosina -; il discepolo infatti deve impegnarsi ad accogliere e vivere la parola della beatitudine per chi si fa povero al seguito del Salvatore (cf. Mc 10,21; Lc 21, 1-4). «Qualora abbia ridotto a bocconcini tutte le mie sostanze ed abbia consegnato la mia persona, affinché io sia consumato dal fuoco, ma non abbia ¶gßph (carità-accoglienza), non ricavo nessun utile [per la salvezza]» (1Co 13,3). 91 L’autentica «giustizia» cristiana si consegue in realtà con l’impegno dell’¶gßph nel senso d’accoglienza (cf. Mc 12, 28-31), che è coinvolgimento nel lavoro salvifico del Padre, del Figlio unigenito Gesù e del Respiro vitale sempiterno. Dio è infatti ¶gßph (cf. 1Gv 4,8), accoglienza e promozione gratuita d’ogni uomo all’ineffabile ricchezza della vita eterna. Non sembra pertanto possibile che all’uomo sia delegato il compito di realizzare nel mondo ciò che l’Onnipotenza non fa, chissà se per pigrizia o cinismo. Il cinismo di certo non può albergare nella Bontà per definizione. Opera buona di sicuro autentica è, in ogni caso, il lavoro che Dio stesso svolge e propone all’uomo come compito capitale (cf. Mt 22, 34-40). Il cristiano insomma quando prega, digiuna o soccorre i bisognosi, pone gesti di speranza e non d’angoscia, di gioia e non di lutto, di liberazione dai ceppi terreni e non di commiserazione umanitaria e catartica. È scritto infatti: «Qualora la vostra giustizia non sopravanzi quella degli scribi e farisei, non entrate nel regno dei cieli» (Mt 5,20). # tl 02/46 92 ATTESA BEATA CIELO NUOVO E TERRA NUOVA «Non prego per il mondo» (Gv 17,9). È parola perentoria ed inequivocabile del Figlio di Dio, disattesa del tutto ed oscurata (censurata?) da cavilli teologici omologanti che fanno tendenza. «L’amicizia del mondo inimicizia del Dio è» (Gc 4,4). La liturgia pasquale aggiunge: «Le cose di lassù cercate, dove Cristo è a destra del Dio seduto, le cose di lassù pensate, non quelle [che sono] sulla terra» (Co 3, 1-2). Non pare insomma che la predicazione di Gesù abbia previsto il compito della sacralizzazione della storia dell’uomo; ha di certo indicato invece il suo superamento nell’escatologia. Non previde anche per questo né, tanto meno, impose il Maestro ai suoi discepoli divise, paludamenti, distintivi speciali mondani. Gli orizzontalisti che dettano legge ai nostri giorni si stracciano invece le vesti per codesto vecchiume blasfemo ed insegnano che si deve pregare per il mondo, essere amici del mondo. Ci s’ammonisce anzi che un «mondo più giusto» è l’impegno cristiano corretto ed imprescindibile per i nostri tempi. Ci s’argomenta che, con buona pace del Maestro, l’interesse per il mondo è una teologica scoperta recentissima, come quella dell’acqua calda. D’accordo. Non ci tranquillizza però l’ipotesi bislacca che il Risorto, qualora decidesse di tornare nel nostro adorato mondo per farsi un giretto di ricognizione, avrebbe di sicuro da guardarsi con cautela dai roghi teologici, cui senza dubbio s’appiccherebbe di nuovo il fuoco, a salvaguardia - è naturale - dell’Onor divino. Tocca intanto far finta di sapere e d’essere d’accordo su cosa sia «più giusto», visto che nei fatti ciascuno lo decide per conto proprio e dal punto di vista del proprio interesse. Si sente dire dal gran mercante che è più giusto che siano eliminati «lacci e lacciuoli» dai suoi traffici ed il bimbo africano, stremato dalla fame, abbia frattanto pazienza e non si lagni, perché arriverà il giorno nel quale gli sarà accordato il diritto fondamentale ai beni della terra per vivere con dignità. Basta insomma l’ottimismo! Il dirigente della multinazionale argomenta con acume oggettivo che è più giusto il consumo massivo dei prodotti transgenici e d’ogni nuova versione di computer più potente e versatile che irrompe senza sosta sui mercati. Il politico machiavellico sostiene che è più giusto sterminare l’avversario, perché criminale, 95 senza preoccuparsi dei cosiddetti effetti collaterali, ossia della strage di incolpevoli sacrificati gratis nello sterminio. Il cristiano à la page sostiene l’ovvietà che più giusto è il mondo più solidale, visto che la caritas cristiana sarebbe l’elemosina dell’opulento elargita a barboni e clandestini extracomunitari. Un piccolissimo dubbio però non si riesce a zittire: il «mondo più giusto» non sarà per caso una fola colossale, un banale luogo comune fallace oppure, per dirla con filosofia, la decrepita ben nota utopia della Ragion Positiva che – com’è ovvio – ignora con sussiego divino il biblico mito pessimistico del peccato umano d’origine? «Cielo nuovo e terra nuova» (Ap 21, l) è ad ogni modo l’offerta della parola di Dio ai piccoli credenti del giorno ottavo, ossia un mondo davvero nuovo e non soltanto rinnovato (cf. 2Co 5, 16-17), il cui germe e matrice è l’umanità del Risorto, che non appartiene più alla carne dell’uomo adamitico, se è vero che è a destra del Dio seduta (cf. Eb 1,3). Dio s’è incarnato per appendere al palo l’umanità adamitica (cf. Ga 3,13), non per far restauri o riscaldar minestre non consumate ed inacidite. Non serve il «più giusto» per fare il «nuovo» autentico; nessuno compra come nuovo un vetusto appartamento ripulito e ristrutturato, ossia più giusto. Non ci sarebbe nessuna ragione seria per morire massacrati appesi ad un palo, piuttosto che, con opportunismo astuto, mettersi d’accordo col signore di questo mondo (cf. Mt 4, 89), se la risurrezione fosse una mera operazione di chirurgia plastica su un recidivo mondo malconcio (cf. l Gv 5,19) o una mera metafora banale dell’anima spirituale per inculcare la voglia sempre latitante d’essere più buoni, ossia spirituali. Si sa che per la coscienza atea (e quella laica) la fola d’un mondo futuro più giusto è obbligatoria, pena la sconfessione delle sue certezze (?) evoluzionistiche e la disperazione più drammatica per il sospetto di involuzione, forse più evidente, dell’homo sapiens a lupo incipriato e tecnicizzato (homo homini lupus). L’aspirazione ad un mondo futuro più giusto è ovvia per chi non riconosce altra patria certa che questo sempre più traballante mondo. È forse assai inquietante invece che la stessa fola sia miraggio inseguito con passione pastorale anche da cristiani in questi nostri tempi drogati da ecumenismo globalizzante, visto che si dovrebbe essere consapevoli per divino insegnamento di non appartenere al mondo e d’essere chiamati a popolare un ottavo giorno della divina creazione (cf. Gv 17, 14.16; Eb 13, 1314). # tl 00/37 96 PARZIALE IMMAGINE Dio non impone la salvezza dalla perennità della morte a chi sceglie di non accettare la sua offerta misericordiosa: neppure l’Onnipotenza divina è in grado di salvare chi rifiuta con consapevolezza libera la sua Misericordia. Nessuno e nessuna preghiera d’altra parte può presumere di modificare le scelte infallibili della divina Sapienza. È pertanto essenziale per il cristiano non dimenticare che i santi non sono una casta nobile di benefattori [onni]potenti a disposizione di chi li scongiura come cliente accorto, premuroso ed insistente.Tutti i «morti nel Signore» sono per chi è in viaggio nell’esistenza mortale una parziale - forse soltanto minuscola - immagine di Lui, una tessera dell’infinito mosaico in fieri dell’immagine somigliante del Creatore (cf. Gn 1,26).Tutti quelli che ci hanno preceduto nella sequela cristiana, che siano stati o no dichiarati santi con titolo ufficiale, sono di per sé luce riflessa del «Sole di giustizia» che rischiara i sentieri di vita nella notte terrena (cf. Rm 13,12). Sono insomma riferimenti preziosi per il libero coinvolgimento di ciascuno nel divino progetto soteriologico, predicato ed avviato dal Nazareno, morto e risuscitato. Essi seguitano ad orientare al pieno giorno ottavo della luce totale senza tramonto, quando sarà completo il numero dei candidati alla risurrezione. La «via» unica ed indiscutibile in ogni caso è il Signore Gesù (cf. Gv 14,9). # tl 96/16 97 NON OCCORRONO TITOLI Ogni battezzato è abilitato a fare spazio in questo mondo alla sovranità divina che è accoglienza incondizionata nella misericordia del Padre universale che sta nei cieli. Chi aderisce con libertà e permane in quest’impegno consegue la salvezza messianica, ossia è santo, perché sussiste in comunione di vita col Santo per definizione. La santità cristiana è flusso di vita che scaturisce dal Vivente che risuscitò Gesù di Nazaret, vincola in profondità i rinati dall’acqua e dal Respiro santo (cf. Gv 20, 22-23) e produce frutti buoni indefettibili in coloro che ascoltarono, ascoltano ed ascolteranno la Parola della fede salvifica. Essa è pertanto salvezza non solo in quanto vita eterna, ma anche in quanto liberazione dalla trappola dell’egoismo individualistico e terrestre che, isolando la persona, la porta all’annientamento d’esistenza. Non occorrono titoli d’alcun genere per essere santi; nessuna raccomandazione di ferro è efficace. Necessaria e sufficiente è l’adesione libera di ciascuno alla chiamata del nome personale (cf. Gv 10, 3-4), risuonato in terra e nella celeste Dimora durante il rito battesimale. # tl 95/11 98 NEL CIELO DI BETANIA «Alzate le sue mani, li benedisse e s’allontanò da loro, mentre li benediceva» (Lc 24, 50-51). L’agiografo con molta probabilità voleva richiamare l’originaria promessa di vita a tutti i popoli (cf. Gn 12,3), che l’ingresso del Risorto nella dimora celeste del Padre inaugura. L’Eucaristia, ossia il ringraziamento comunitario dei discepoli al Padre misericordioso di Gesù (cf. v. 30), è memoria e speranza di quella benedizione. Il Risorto, per staccarsi per sempre dal mondo, condusse i discepoli nei pressi di Betania (v. 50), che significa «casa dell’afflizione». Betania fu il villaggio dell’amico Lazzaro, richiamato dal cammino verso lo sceòl; fu orizzonte e palcoscenico delle lacrime di Gesù (Gv 11, 33-35). Il Risorto, secondo Lc, scomparve dalla vista dei discepoli proprio nel cielo di Betania, «casa dell’afflizione», incamminato sul sentiero che porta agli antipodi della casa dei morti, dello sceòl. Il Risorto non partì, ad esempio, dal Calvario, luogo della sua sofferenza suprema e dell’odio omicida di chi non gli credette. S’ec1issò nel cielo di Betania, santuario della sofferenza degli amici che lasciò nella condizione d’«afflizione», ma onusti della sua benedizione. Il tempo cristiano è infatti pellegrinaggio che parte senza eccezioni dalla terra di Betania ed ha per meta il cielo di Betania. La speranza cristiana non è un terrestre miraggio consolatorio; è un progressivo allontanarsi felice dalla «casa dell’afflizione» con destinazione alla Dimora della beatitudine. «Tornarono poi a Gerusalemme con gioia grande ed occuparono il tempio con la loro lode e benedizione a Dio» (Lc 24, 52-53). La casa di Javè in terra è infatti ormai svuotata (cf. Gv 4,21), come il sepolcro del Crocifisso (cf. Mc 16,6). Il Risorto, uscendo dalla storia, non aveva affidato ai suoi che vi rimangono, feticci terrestri da custodire con relativo potere ed autorità per la gestione. Lasciò la benedizione, perché fiorisse e fruttificasse come lode e glorificazione di Dio. Non il potere di Dio, ma la lode e glorificazione di Dio ospita ormai di per sé la storia, secondo la divina testimonianza della Parola. La sequela di Gesù pertanto non pare autorizzi qualcuno a regnare sulla storia e nella storia in nome magari di Chi ha abbandonato la storia nel cie99 lo di Betania, senza abbandonare gli uomini alla perpetuità della morte. «S’allontanò mentre li benediceva», come aveva benedetto infelici e piccoli, senza renderli signori e sovrani benedicenti di uomini né, tanto meno, di altri discepoli. È per questo forse che il Signore non fece mai promesse e/o previsioni paradisiache terrestri alla storia dei figli d’Adamo (cf. Gv 16,33). Lo scenario fantasioso d’un mondo futuro quasi paradisiaco sta a cuore a chi, a differenza del Maestro (cf. Gv 17,14), è del mondo ed ha interessi di potere, privilegi, benedizioni e benessere terrestri da salvaguardare e difendere. La sequela autentica di Gesù non sembra poter essere altro che esodo, uscita, dal mondo benedicendo Dio, ossia predicando le promesse veritiere del Dio della vita escatologica senza termine. Il discepolo autentico testimonia la sua appartenenza effettiva ad altra cittadinanza (cf. Eb 13, 13-14) coi fatti del suo viaggiare pellegrino sui sentieri della storia degli uomini, segno autentico di «benedizione a Dio». # tl 01/43 100 DIVIETO DI SOSTA Emergi piano piano. E solo. Di dove non sa la tua mente d’uomo. Ti scopri poi inceppato con catene di spazio prestrutturato a viaggiare con passo costante tra sgomitate e sogni e delusioni a bordo del tempo nel becero paesaggio di risse e misfatti. Divieto assoluto di sosta. E torni sommerso. Da solo. Con le luci malconce o digià forse spente. E chissà con quant’altro sfascio di carne e mente. Dove, quando non sai, effimera eccezione dell’essere, parentesi precaria fugace nella quiete del tutto silente. Eppur favilla magica d’Iddio. # tl 96/17 101 BENEDIZIONE SPIRITUALE «Benedetto il Dio e padre del signore nostro Gesù Cristo, che benedisse noi con ogni benedizione spirituale nei [luoghi] sovracelesti in Cristo» (Ef 1,3). La benedizione per la Scrittura, com’è noto, non è un mero buon augurio, una sorta di gesto scaramantico, fatto da una persona autorevole o degna di venerazione. È invece in origine potere di vita feconda e di dominio sulla natura. Il Creatore infatti benedisse la coppia originaria con questa inequivocabile spiegazione: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su tutti gli animali che si trascinano sulla terra» (Gn 1,28). Il patriarca Isacco illustrò col medesimo significato la benedizione esclusiva che gli carpì Giacobbe: «Dia a te il Dio [abbondanza] dalla rugiada del cielo e dalla grassezza della terra ed abbondanza di frumento e di vino; e servano a te [altre] etnie, e adorino te principi: e sii signore di tuo fratello e adorino te i figli di tuo padre» (Gn 27,28). Il testo paolino citato all’inizio parla in realtà della benedizione della pienezza dei tempi messianici, della benedizione non terrena, spirituale appunto, che rimanda ai luoghi sovracelesti dov’è il Risorto. La benedizione terrestre del Creatore permane e manifesta i suoi frutti in modo incessante nell’umanità che seguita non solo a moltiplicarsi, ma anche ad esercitare dominio prepotente sul mondo e sull’uomo debole. La benedizione di Dio misericorde e salvatore è invece spirituale, vale a dire è offerta di vita piena e totale, perché è nuova partecipazione al Respiro (Spirito) dell’Onnipotente, offerta a chi aderisce alla sequela della Parola incarnata, crocifissa, risuscitata e seduta alla divina Destra. È benedizione spirituale, perché è altra e diversa dalla benedizione terrestre offerta alla prima coppia umana. La benedizione terrestre del Creatore consistette nel dono della fecondità e fu offerta alla coppia umana; la benedizione spirituale del Dio che salva è dono offerto alla singola persona, perché non dà fecondità terrena, bensì pienezza di vita senza fine. Possiamo immaginare, assumendo una metafora, che benedizione spirituale è una sorta di nuovo programma genetico innestato nel battezzato. La 102 caparra che certifica ed assicura la realtà di tale programma è il Risorto. I frutti della benedizione spirituale si vedranno nel mondo futuro; frattanto è Respiro santo per dar vita a frutti terreni caratteristici che si chiamano fede, accoglienza e speranza cristiane. Sono le 3 dimensioni di senso del vivere cristiano. # tl 98/24 103 GIOIA PASQUALE L’agápe (¶gßph) di Gesù è l’accoglienza somma del Padre misericordioso per il figlio d’Adamo peccatore, che pervade il divino Discorso incarnato ed assassinato, recuperandolo da morte atroce ad un’esistenza immortale, e dilaga nei discepoli d’ogni tempo e d’ogni razza (cf. Gv 15, 9ab). L’imperativo di Gesù è di restare nella sua agápe (cf. Gv 15,9c) con l’impegno indefettibile a realizzare i «compiti (ùntolai\)» dei figli di Dio, da Lui redenti (cf. Gv 15,10a). Il Signore stesso, risorgendo, resta nell’agápe del Padre (dov’era in ogni caso restato durante la missione terrena), perché ha condotto a termine i compiti messianici assegnatigli (cf. Gv 15, 10b; Eb 5, 7-8). La permanenza nell’agápe del Padre è anche chiamata patto dalla Scrittura. Il patto del Padre con Gesù celebra il suo compimento con la risurrezione del Crocifisso, mettendo in moto l’universale salvezza dell’umanità dalla morte perenne (cf. Gv 15,9ab). L’adesione a Gesù (cf. Gv 15,9c) fonda poi il patto dei discepoli col Maestro (cf. Gv 15,10ab). Il Risorto si costituisce pertanto anello che congiunge i salvati nel nuovo patto con Dio salvatore. Gesù è l’unico mediatore, l’anello d’oro, del nuovo patto (cf. Eb 8,6; 9,15; 12,24; 1Tm 2, 5). S’è messo in movimento intanto per Lui e con Lui un fiume vitale circolare: dall’agápe del Padre ai discepoli attraverso l’accoglienza del Crocifisso nell’esistenza immortale e dai discepoli all’agápe del Padre attraverso l’accoglienza nella gloria del Risorto. È di certo movimento circolare divinamente gioioso, questo (cf. Gv 15,11). Il salmista dice di provare gioia al pensiero che sta andando nella casa (tempio-dimora) di Javè (cf. Sl 122(121),1; Sl 42,5). La gioia di Gesù (cf. Gv 15,11b) è il fatto prodigioso d’essere accolto, risorto, nella Dimora sovraceleste (cf. Eb 1, 3-4), ospite di Colui che gli è ormai 3 volte padre, in quanto Principio sostanziale del Discorso-Verbo, del figlio di Maria e del Crocifisso risuscitato. Il Signore promette di contagiare con siffatta gioia i discepoli (cf. Gv 15,11b), che infatti si rallegrano la sera di pasqua, quando approdano alla certezza di fede nella risurrezione del Crocifisso (cf. 20,20b; 16, 20-21) e quindi alla speranza, che non può deludere, di risorgere.Tanta gioiosa certezza, che diffondono come buona notizia (vangelo), è infatti principio e ca104 parra della gioia piena (cf. Gv 15,11c), ossia della risurrezione, con la quale il Padre accoglierà nella sua Dimora i discepoli, come fece col Nazareno assassinato (cf. Eb 4,16). «Restare nell’agápe» è insomma per i discepoli inizio e segno della gioia piena, dell’esistenza immortale promessa. Restare nella gioia piena significa sussistere nello Respiro divino, nel Messia Gesù, nel Dio Padre misericordioso. Il probabile contesto eucaristico, nel quale, secondo Gv, emerse quest’invito del Signore, regala suggestive risonanze. «Restare nell’agápe», ad es., allude forse alla felicità della fractio panis assidua (cf. At 2,42), segno sacramentale dell’accogliente (agápica) misericordia del Padre, donata mediante Gesù, quale germe della risurrezione (cf. Gv 6,50) e fonte della fraterna gioia specifica e speciale dei cristiani (cf.At 2, 46). Questa suggestione sembra ribadita dal significato allegorico dell’immanenza reciproca simbiotica di ceppo e tralci (cf. Gv 15, 4-5), col quale condivide il richiamo guida, ossia l’espressione restare in. «Restare nell’agápe» è invito alla partecipazione ininterrotta all’Eucaristia; è promessa di simbiosi fruttifera del tralcio col Ceppo vivo per sempre e vivificante. # tl 03/54 105 ATTESA DI CIBO INDEFETTIBILE Il digiuno era nei tempi antichi, anche per la Scrittura, espressione forte di lutto: chi digiunava voleva esprimere la sua protesta contro una disgrazia, un disastro, una morte sgradita. Si sperava, a motivo di questa protesta, d’avere ascolto clemente (propiziazione) della divinità irata, ritenuta causa effettiva del male lamentato (cf. Gl 2, 12-14). Siffatta protesta in realtà non ha alcun senso accettabile per un attento ascoltatore della Parola (cf. Mc 2,19): disastri e morte sono le conseguenze annesse con avvertimento esplicito all’originaria scelta adamitica (cf. Gn 3, 17-19). Un’umanità saggia non protesta contro Dio per i mali che s’è scelti, utilizzando da sempre con insipienza la sua libertà. Qualsiasi forma d’autopunizione poi, suggerita magari da un naturalissimo senso di colpa, è anch’essa priva di qualsiasi efficacia salvifica cristiana. L’uomo non ha nelle sue mani, né può averlo, alcunché di equivalente all’onore divino da risarcire (cf. Sl 49(48), 8-10). È stato suggerito di pregare: «Rimetti a noi i nostri debiti», suggerendo in modo implicito che la sola misericordia piega il Padre di Gesù, non la protesta, non l’autafflizione, non la prolissità verbosa dell’orante, non la vita stessa dell’uomo. Lutto e tristezza del digiuno non riscattano l’uomo peccatore; non possono essere arma vincente (meritoria) sul cuore di Dio. Il digiuno del cristiano può invece testimoniare attesa di gioia infinita. Il cibo materiale è fonte insostituibile e sostegno della vita terrena. La vita di risurrezione s’alimenta solo del Respiro misericordioso ed immortale del Padre che sta nei cieli. La limitazione volontaria del cibo terrestre (il digiuno) può essere pertanto segno cristiano volontario della speranza nell’alimento di vita indefettibile che scaturisce dal divino Respiro salvifico. Può essere insomma segno d’attesa gioiosa della risurrezione, per cui è indicato ai fedeli come prassi opportuna per il cammino quaresimale verso la meta della celebrazione liturgica della «buona notizia» pasquale. # tl 97/19 106 TREPIDA IMPAZIENZA I primissimi cristiani, soprattutto palestinesi, vivevano nell’attesa spasmodica della nuova comparsa (parusia) del Signore vittorioso sulla morte, che esprimevano con l’invocazione liturgica: «Marana tha» (1Co 16,22). L’invocazione ci è stata conservata in aramaico, linguaggio nativo e - si pensa - consueto di Gesù, e vale «Signore nostro, vieni!». Piace ipotizzare che gli originari fratelli della fede usassero la lingua di Gesù per timore di non essere altrimenti compresi. Fu del resto il Maestro ad insegnare l’invocazione: «Venga il tuo regno» e Paolo incoraggiava i cristiani della comunità di Salonicco scrivendo: « Noi i vivi, i rimasti, con loro saremo rapiti tra nuvole ad un incontro del Signore in aria e così sempre con Signore saremo» (1Ts 4,17). Erano tempi in cui essere cristiani significava pericolo costante di vessazioni e sofferenze d’ogni genere. Chi sceglieva la sequela di Gesù, era ben consapevole delle difficoltà paurose cui s’esponeva. Non sognava lontanamente di potersi nascondere nell’anonimato. S’investiva davvero l’intera esistenza nella sola speranza cristiana, che non è attesa di benessere e prosperità terrestre, né prospettiva d’un mondo più giusto e fraterno. Che senso avrebbe altrimenti l’invito a prendere la croce per la sequela autentica (cf. Mc 8,34)? L’invocazione «Marana tha» non esternava disperazione per stanchezza, bensì trepida impazienza d’essere finalmente col Signore, amato più della vita mortale mondana. La cristianità però, quand’ottenne in seguito libera cittadinanza tra la gente del mondo, iniziò ad omologarsi ai valori secolari e quindi a temere in qualche modo un evento parusiaco precoce. Il Signore non pare abbia mai insegnato ai cristiani d’impetrare una partenza differita il più possibile da questa accarezzata ed adorata condizione terrena. Ci si convinse nondimeno che il ritorno glorioso di Gesù, che pure è un articolo della professione di fede ortodossa, sia in definitiva una pura eventualità molto teorica ed una specie di deterrente virtuale per la voglia umana incoercibile di trasgressione etica. Il desiderio d’incontrare il Signore glorioso delle comunità primitive man mano sembra essersi riversato invece nella celebrazione folcloristica dell’arrivo annuale dell’inoffensivo e rassicurante «Bambinello» tra un bue 107 ed un asinello in una capanna «al freddo ed al gelo». L’attesa dell’eone glorioso del misericorde Dio salvatore s’è disciolta e rarefatta nella memoria festaiola d’un evento-segno del passato della storia del mondo. Non pochi cristiani oggi dicono d’essere credenti, perché ci tengono magari a non mancare d’assistere alla Messa notturna di Natale, dopo aver scartato i reciproci doni dovuti, e s’emozionano a vezzeggiare la statuina del «Bambinello» di Betlemme, rimemorando magari felicità d’infanzia, fatta di lucette e statuine e regali e nenie tradizionali. Non è forse vera saggezza darsi a spengere lucignoli fumiganti di passato. Sembra inevitabile però chiedersi quale notizia della speranza evangelica ha la maggior parte dei cristiani oggi e cosa pensa - se pure è consapevole delle parole che pronuncia - invocando «Venga il tuo regno» della preghiera di Gesù. È infatti in ogni caso certo per il vero credente che «Maràn atha», il Signore viene! Quando e come gli pare … # tl 97/23 108 PRETESA OPPORTUNA Tommaso è l’apostolo che ha un ruolo notevole nel libro del «discepolo che Gesù amava». L’episodio della cosiddetta incredulità di Tommaso (cf. Gv 20, 24-29) chiude di sicuro non a caso il lavoro evangelico giovanneo. L’apostolo pescatore (cf. Gv 21,2), assente la sera della risurrezione alla costituzione dei capostipiti dei salvati da parte del Signore (cf. Gv 20, 20-23), pretende di vedere e toccare di persona per credere a ciò che riferiscono i suoi compagni. La sua pretesa appare paradossale e dettata da caparbia incredulità. Chi vede e tocca sperimenta di persona e quindi sa per conoscenza diretta. Chi crede invece s’affida all’esperienza e conoscenza altrui. Questo pensiamo noi con le nostre categorie.Tommaso dice invece di voler credere, ma non s’affida alla testimonianza dei suoi compagni.Vuol credere direttamente alla presenza viva del Maestro e non alla testimonianza dei suoi compagni, che Lo dà per vivo. Considera forse prova seria d’inconsistente credibilità la fuga dei colleghi (e sua!) al momento della cattura e sofferenza del Maestro (cf. Gv 11,16)? Rivendica ad ogni modo il diritto apostolico di testimone diretto della risurrezione e d’inviato (apostolo) del Risorto come capostipite del nuovo popolo di Dio. La sua pretesa è quindi opportuna a tal punto che il Risorto si sottopone con condiscendenza a tutto il programma di verifica del suo apostolo. Tommaso, per il suo ruolo apostolico, vale a dire in quanto testimone diretto, deve poter attestare con fede personale che il Maestro catturato ed inchiodato al patibolo è lo stesso Signore di nuovo vivente nel «suo vero corpo» (cf. Lc 24, 39-43). Egli è un giudeo, per il quale - secondo l’insegnamento scritturistico - si vive soltanto in un corpo e non si dà possibilità d’uomo vivente fuori d’un corpo. La sua richiesta di vedere e toccare è pertanto corretta e legittima dal suo punto di vista culturale ed il Risorto intende soddisfarla. L’apostolo sa molto bene tuttavia di trovarsi in una situazione teofanica: il Risorto già apparso e poi scomparso, ora di nuovo presente in maniera prodigiosa e consapevole dei suoi pensieri non può essere un evento naturale.Tommaso pertanto, dopo la verifica di diretto testimone prescelto, accoglie nella fede (e non certo per processi razionali) l’opera del Dio della vita in Gesù di Nazaret crocifisso dagli uomini.Assume così in piena certezza 109 il ruolo d’originario testimone credibile della «buona notizia» della risurrezione e di legittimato capostipite dei viventi di santo Respiro. Non sono previste, com’è ovvio, prove teofaniche per tutti gli altri credenti non apostoli. Il Risorto avverte che essi dovranno affidarsi alla predicazione della chiesa apostolica, per essere «beati», ossia riscattati dalla morte perpetua in virtù della vita del Risorto (v. 29). Il rifiuto di Tommaso d’affidarsi alla notizia comunicata dai suoi compagni serve frattanto all’agiografo per ribadire e precisare il ruolo vitale decisivo del suo libro per chi accoglie nella fede Colui che è fonte di salvezza dalla morte perenne (v. 31). La chiesa infatti non è un’associazione di persone che in modo autonomo acquisiscono un certo tipo di fede, magari in virtù di eventi teofanici o d’una letteratura religiosa previa sul personaggio storico Gesù di Nazaret o di ideali, convinzioni etiche e tradizioni ancestrali ecc. La comunità credente alla Parola rivelata e trasmessa dagli apostoli è il grembo, dal quale nascono alla vita indefettibile i seguaci del Risorto. Ciò significa in definitiva che compito specifico e vitale della comunità messianica, per volere del Risorto in dialogo con Tommaso, è di per sé il solo annuncio agli uomini della «buona notizia» della risurrezione del Nazareno (cf. Lc 24, 46-48). Tutto il resto è patrimonio e compito dell’intera umanità. # tl 06/67 110 FATE QUESTO BANCHETTO SULLA RIVA DEL LAGO Il pescatore-pastore Simon Pietro, secondo il conclusivo racconto giovanneo (Gv 21), guidò i suoi compagni ad un fiasco clamoroso (v. 3b). Lo scacco mostra che non è sufficiente l’iniziativa personale di Simon Pietro né la disponibilità del lavoro e della competenza dei suoi compagni condiscepoli del Nazareno. La fatica apostolica per essere efficace di salvezza messianica dev’essere complicità con Gesù e con la sua parola (v. 6; cf. 1Co 3, 5-9). Egli è l’unico pastore e pescatore di uomini, tutt’altro che ormai assente ed inoperoso. «Senza di me non potete far nulla [d’utile alla salvezza]» (Gv 15,5). La cattura eseguita secondo le Sue istruzioni è infatti strabiliante. Il numero 153 (v. 11a) dei pesci catturati allude forse alla totalità delle specie di pesci conosciute dall’autore di Gv 21. Si vuol così mettere in evidenza la destinazione universale del lavoro solidale con Gesù. Questa solidarietà in ogni caso non è surrogabile con la competenza professionale né con l’autorevolezza d’un potere legittimo. I pescatori scoprono inoltre che il frutto del loro lavoro (vv. 6b.8), anche se richiesto (v. 10), in realtà non è indispensabile per il banchetto (v. 9): il pane ed il pesce, è già stato imbandito da Gesù (v. 13). Giovanni è il primo ad intuire l’identità dello Sconosciuto che parla dalla riva. Il primo a raggiungerlo è però Pietro (v. 7); forse perché necessita di più ampia ed essenziale misericordia. Il banchetto non è imbandito per Pietro soltanto; il Risorto invita tutti a prendere cibo (v. 12), perché quest’ultima apparizione è finalizzata al banchetto da Lui preparato (v. 9) e ratifica nella misericordia il precedente patto del Crocifisso risuscitato (cf. 1Co 11,25). Pietro infranse con recidivo scandalo (cf. 18, 17.25.27) la complicità con Gesù, pur millantata con gli altri discepoli, prima che Egli morisse (cf. 13, 89). Gv, a differenza dei Sinottici (cf. Mt 26,75; Mc 14,72; Lc 22,62), non menziona alcun episodio di pentimento di Pietro per l’apostasia dal Maestro catturato ed umiliato. Registra invece questo banchetto eucaristico sulla riva del lago. Il Risorto, in occasione di questo singolare banchetto all’alba, con i termini tecnici usati dal signore per ottenere l’impegno del vassallo a servirlo (cf. Gn 27, 25-27), fa rinnegare a Pietro al cospetto di cielo, terra e mare il pubblico triplice rinnegamento d’essere suo discepolo (18, 17.25.27). La 113 richiesta poi d’agápe (accoglienza) maggiore del Maestro rinnegato (v. 15a) allude con evidenza al ripristino d’una fedeltà che gli altri discepoli hanno infranto di certo, ma non col comportamento plateale di Pietro. Mani tese (aperte) sono quelle di chi è inchiodato ad una croce e di chi prega, secondo il costume d’Israele. Tese ed aperte (v. 18) vede Gesù nel futuro le mani di Pietro, nella sofferenza e nella preghiera.Tutti i discepoli nella persona di Pietro rinnovano e vivono così il patto di complicità col Risorto al banchetto della misericordia. «Questo è il mio sangue del patto, versato su molti» (Mc 14,24). # tl 04/58 114 LINFA EUCARISTICA Lo sviluppo conclusivo del discorso giovanneo sulla vite e i tralci si riassume col precetto (ùntol¬) dell’accoglienza reciproca, proposto ai discepoli, ossia ai tralci, da parte del Signore che è il ceppo dell’allegoria (cf. Gv 15, 9-12). È in sostanza evocata la naturale necessità della compattezza dinamica delle diverse parti d’una pianta per poter ben fruttificare, applicata alla comunità credente. È la preoccupazione accorata che emerge dal celebre colloquio testamentario di Gesù col Padre, che segue nel testo giovanneo all’allegoria della vite (cf. Gv 17). È molto probabile che la detta allegoria sia in realtà, nel progetto giovanneo, un’istruzione sul dinamismo e sulle finalità essenziali ed autentiche del Dono Eucaristico, che non è di certo un arcano Feticcio devozionale, bensì lo strumento (sacramento) del flusso linfatico donato che esige di trasformarsi in fragranti fiori di testimonianza e frutti pasquali sostanziosi di vita senza fine. L’insegnamento infatti, oltre alla chiara allusione al simbolismo eucaristico del vino che è il «succo» della vite, è anche inserito dall’agiografo, di sicuro non a caso, nel dovizioso insegnamento del Signore pronunciato durante la sua ultima cena pasquale, circostanza appunto dell’istituzione eucaristica. La linfa allora, che fa crescere, fiorire e fruttificare i diversi tralci, è proprio il Corpo-Sangue sacramentale, dispensato dal Maestro che s’accomiata. La compattezza della vite eucaristica è assicurata dall’interno, dalla linfa; non da realtà esterne, come ad es. da norme giuridico-disciplinari o da figure istituzionali. Questo sembra voler dire Gesù quando confessa di non considerare schiavi i suoi discepoli, bensì amici. L’amicizia è rispettosa benevolenza reciproca per natura sua. La norma disciplinare è obbligatorio volere esterno alle singole libertà che esige l’appiattimento nell’uniformità d’un solo volere imperativo e mortifica, quanto meno, la ricchezza del multiforme crescere della vita. I tralci non sono uniformi, benché uniti tra loro dal vincolo che è l’unicità del flusso linfatico. I tralci sono anzi notoriamente difformi tra loro, pur producendo lo stesso frutto: l’uva. La loro difformità può arrivare persino alla produzione di tipi diversi d’uva, grazie a sapienti e molteplici operazioni d’innesto, realizzate sulla medesima pianta 115 dall’Agricoltore che è il Padre di Gesù. La difformità non è né può essere tuttavia effetto di mera e neghittosa sterilità. Il tralcio ignavo si condanna a farsi tranciare, per non danneggiare la solerzia fruttifera degli altri. L’accoglienza reciproca dei discepoli è in ultima analisi il canale del flusso linfatico vitale del Padre, che unifica i tralci nel Risorto. La vite eucaristica esclude per questo qualsiasi tipo di stagnante sclerosi gerarchica di padroni-impresari e schiavi-esecutori. Tutti i battezzati allo stesso titolo gratuito siedono alla medesima mensa del Signore, condividono l’identica accoglienza ed il medesimo cibo, vivono e crescono per la stessa linfa divina e ringraziano unanimi (cf.At 1,14; 2,42 ecc.) la misericordia per il Dono vitale ricevuto. Sono del resto istruiti ad invocare univocamente «Padre nostro»; dall’ultimo al primo ramo del Vitigno fruttifero. # tl 06/68 116 RINGRAZIAMENTO Fu inventata perché fosse consumata. Disse e séguita a dire: «Prendete e mangiate. Prendete e bevete. Fate questa cosa per ricordarmi». Soltanto. Sembra invito inequivocabile, scevro di qualsiasi sottinteso trionfalistico. La Sua intenzione è chiara, esplicita, perentoria. «Se non mangiate […] e non bevete, non avete Vita [eterna] in voi» (Gv 6,53). La Vita non scaturisce da altro. La manna non piovve dal cielo, perché fosse contemplata, spettacolarizzata nel deserto, portata in processione come un’icona per polemica contro virtuali Evangelici ante litteram. Fu invece commisurata con rigore al tassativo consumo quotidiano. Ogni tentativo di capitalizzarla e cosificarla era vanificato con repentino intervento della Paternità provvida. Il Maestro spiegò: «Questo [vale a dire Se stesso] è il pane [il cibo], quello caduto da cielo» (Gv 6,50). Questo Pane dev’essere consumato, perché è ordinato a produrre Vita e non spettacolo; com’è naturale per ogni alimento. «Chi mastica la mia carne ed ingoia il mio sangue ha Vita interminabile» (Gv 6,54). Sono i verbi usati dal discepolo Teologo per riferire il pensiero del Maestro. Sono le 2 operazioni essenziali, masticare ed ingoiare, per alimentarsi bene con profitto escatologico. Nasce di qui il ringraziamento (eu>caristi\a). L’Eucaristia è infatti il Progetto, il Discorso (” l’goj) salvifico fatto uomo mortale ed a noi offerto in cibo necessario e specifico per vivere senza termine: «Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue». La Parola di Dio esige allora d’essere masticata ed ingoiata per produrre Vita: se il granello di frumento non è macerato – masticato ed ingoiato - dalla terra, non dà vita alla spiga. Il Discorso divino piantò la sua tenda tra noi (cf. Gv 1,14) per essere macerato dalla nostra terrestrità, per trasformare in spiga turgida di Vita la speranza cristiana. L’Alimento della Vita beata discende sui nostri altari dalla Mensa del Signore, imbandita nel suo regno senza tramonto: è il Cibo del giorno ottavo. La sua consumazione dà motivo e sostanza al ringraziamento adeguato in sommo grado per la Munificenza misericordiosa. Chiamiamo per questo eucaristia (ringraziamento) il divino Alimento. 117 Paolo inoltre ci avverte: «Tutte le volte che mangiate questo pane ed il bicchiere [di vino consacrato] beviate, la morte del Signore dichiarate, finché venga» (1Co 11,26). Ci rammenta insomma che l’alimentarsi di Discorso divino configura e perpetua nel tempo una splendida allegoria della morte vittoriosa del Risorto. Il Discorso divino infatti si fa Presenza Reale non per essere servito, come si converrebbe a Commensale Augusto, bensì per servire da Cibo di Vita agli amici. Si dilata così la testimonianza nel tempo che precede la parusia (finché venga) attraverso il Cibo eccelso donato ed assunto finché ne vogliamo. La Parola proclamata-ascoltata-pregata esige d’essere perfezionata ed attualizzata con la consumazione dei segni sacri del Pane e Vino consacrati. Parola e Sacramento sono infatti l’Alimento integro di Vita. La celebrazione della Cena del Signore è l’evento specifico della consumazione integrale della Parola donata. Non è pertanto l’Eucaristia un’icona da ammirare e da cosificare per trionfalistici spettacoli devozionali pletorici. È Presenza Sublime destinata al consumo alimentare del divino Respiro. Il testimone, il martire – con voce greca – è ben altro che un attore, una maschera che mostra e nasconde, enfatizzando altro da sé. La Parola esige «divoratori» e non passivi spettatori vibranti di emozioni effimere, camuffate da religiosità cristiana. È testimone di Gesù colui che assume e consuma come alimento sacro quotidiano il Discorso uscito dalla bocca di Dio, almeno in porzione monca di Parola letta-condivisa-pregata a livello individuale. «Se perseverate nel mio discorso […], conoscerete la verità e la verità vi libererà [dalla morte perpetua]» (Gv 8, 31-32). # tl 05/62 118 RISVEGLIO FELICE DA SONNO MORTALE NON SI DÀ PRIMAVERA SENZ’INVERNO La quaresima oggi, per quei pochi cristiani che ne sentono parlare, è come una lezione imparata a memoria: non impegna ad altro. Preghiera, gesti d’accoglienza cristiana, ascolto della Parola, iniziative penitenziali sono impegni cristiani d’ogni giorno. Qualcuno tenta di coprire la banalità sostenendo: - in quaresima però di più! -. Nessuno tuttavia può distinguere a rigore di precetto evangelico il di più dal normale, quanto a preghiera, accoglienza del prossimo, ascolto della Parola e correttezza di vita, che sono appunto la normalità specifica della condizione cristiana. Non esiste una linea gaussiana del comportamento cristiano nel calendario, simile l’andamento grafico delle fasi lunari. Si commemora da altri con masochistica nostalgia la serietà del tempo andato: non si ballava in quaresima, non si celebravano feste d’alcun genere, si mangiava pochissimo, erano vietati i dolciumi; in certe famiglie s’osservava addirittura il silenzio rigoroso, come nei conventi. Si fa poi memoria di celebri quaresimali. Gli oratori di grido s’impegnavano in battaglie di concorrenza d’ascolto: si sussurravano persino indici d’ascolto tra i fedeli più assidui! Il fatto è che, ciaccolato sul rituale elogio funebre dei tempi andati, si depone il lutto all’istante e ci si rituffa nella beatitudine agnostica del tempo presente. L’autorità ecclesiastica seguita intanto a proporre ai cristiani un tempo liturgico (forte!) quaresimale. È ingenuo pensare che tanta ostinazione sia frutto di lentezza di riflessi nell’adeguarsi ai tempi nostri laici e svagati. Non c’è alcun dubbio che ancora il sole sorge dopo la notte e solo dopo l’inverno irrompe la primavera, così come dopo la battaglia della croce esplose la risurrezione. La suddetta autorità sa bene che nel fondo del cuore umano anche oggi brucia la sofferenza e morde la morte. Sofferenza e morte, almeno il cristiano, non deve narcotizzarle col diuturno carnevale globale consumistico. Ha il compito battesimale di fissarle negli occhi, sofferenza e morte, per tramutarle in invocazione di Pasqua, perché la quaresima esprime tensione ineluttabile alla liberazione salvifica.Anche oggi, forse più che mai. # tl 95/07 121 NON AMA LA MORTE Il Padre di Gesù non è un dio dei morti (cf. Lc 20,38), perché è Vita ed «Amante della vita» (Sa 11,26); tanto meno può amare gli strumenti di morte e di sofferenza. Non c’è allora alcuna ragione per cui l’uomo debba amare ciò che Dio non ama. Non ha alcun senso cristiano esaltare la croce, qualunque croce, per la propria carne o per quella altrui. C’è nondimeno una misteriosa necessità inderogabile. «Bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato [sul palo della croce], affinché chiunque creda in lui, abbia la vita eterna» (Gv 3, 14-15). Il Padre non si concesse privilegi, non fece sconti interessati a se stesso, come non li fece neppure all’amatissimo Figlio. Il nemico della vita infatti non poteva essere sgominato che sul suo stesso territorio aspro, frantumando la sua arma maligna, la morte perenne. La croce di Gesù è pertanto strumento d’innalzamento vittorioso, d’accesso all’ambito superiore o «vita eterna», percorrendo tuttavia lo stretto e ripido sentiero d’abbandono, voluto e perseguito con decisione, dell’esistenza terrena col suo benessere ed ambizioni (cf. Mt 7,14). L’uomo peccatore consegue la salvezza dalla morte, se s’affida, crede, alla potenza vittoriosa e salvifica di quell’innalzamento. Non si realizza salvezza soggiornando in perpetuo su una terra dominata da sofferenza e morte. Neppure il tanto amato privilegio dell’esercizio del potere sul mondo adamitico salva dalla morte. La salvezza s’ottiene solo guardando e puntando in alto, a Gesù innalzato da questa terra, crocifisso e quindi risuscitato. Il significato tipologico dell’episodio scritturistico del serpente di bronzo (cf. Nm 21, 4-9) s’inserisce in questo contesto. Gli intossicati dal serpente originario e destinati a morire (cf. Gn 2,17), recuperano la destinazione perduta dell’immortalità, guardando il Figlio di Dio innalzato da questa terra devastata da morte. Guardare il Figlio di Dio crocifisso, innalzato, significa credere alla vincente potenza misericordiosa di Dio salvatore che vanifica il potere venefico del serpente e non abbandona l’uomo, neppure quand’è al confine estremo dell’esistenza terrena, se guarda il Figlio innalzato. 122 La croce di Gesù, affrontata liberamente, è segno e strumento dello svuotamento d’ogni potenza e gloria terrena (cf. Fi 2,8). La croce era strumento per annientare la vita dei peggiori delinquenti. La croce di Gesù annientò il potere del padre e consigliere di tutti i delinquenti. L’onnipotenza divina infatti trasformò la croce del Figlio in strumento d’annientamento d’ogni potenza effimera dell’uomo, corrosa e schiavizzata dal male. La croce permise al Salvatore d’entrare in un’esperienza mortale a livello supremo di raccapriccio, per spogliare con certezza lo sceòl dell’orrenda arma d’irrevocabilità e trasformarlo in soggiorno breve dei chiamati alla risurrezione (cf. Mt 25,5). Il profeta assicura che Dio non gode per la morte dell’empio (cf. Ez 33,11) e quindi non gode per la morte di nessuna persona umana, visto che tutti sono figli d’Adamo. Il Dio della rivelazione è infatti buono per definizione (cf. Mc 10,18). Ciò significa che il male (ed in primo luogo la morte) non solo non può procurarlo ad altri, non solo non è in grado di farlo (altrimenti non sarebbe diverso dal suo avversario di sempre), ma neppure è capace di pensarlo (altrimenti non potrebbe essere la bontà per definizione). È per questo Dio dei viventi il nostro Dio e non dio dei morti. Egli non ama la morte, perché non può neppure pensarla. È anzi lo sterminatore della morte per ogni figlio d’Adamo che s’affida alla sua onnipotenza. # tl 02/51 123 DIMENTICHERETE L’AFFLIZIONE Non è dato scegliere a nessun figlio d’Adamo se morire o non morire, quando e come. Si giunge all’esistenza schiavi della morte scelta dal Progenitore ed è schiavitù che angoscia e terrorizza il vivere più d’ogni altra; finché non intrappola in maniera definitiva per l’esperienza terrena. Ogni morte poi di solito fa esplodere altro morire. Chi rimane infatti, spesso sopravvive nel morso del vuoto di ciò che di suo ha cessato d’esistere alla luce del sole. S’aggiunge così ai ceppi angosciosi della schiavitù anche una triste compagnia diuturna, disperata e conflittuale, che provoca quasi sempre un quesito ossessivo della mente: - perché? Questa domanda in fondo dà per scontato che vivere sotto il sole sia una proprietà intoccabile, suprema, indiscutibile per ognuno e pertanto ci si deve una spiegazione convincente, quando morte inesorabile consuma le sue rapine. Il progetto originario del Creatore sembra registrato in qualche piega della mente che prescinde dalla condizione adamitica di schiavitù originaria ed esige la giustificazione che permane nel mistero. Gli amici non sanno cosa dire; non possono dir nulla che risulti sensato. La morte non parla. Parlasse almeno il Creatore, cui s’addebitano persino dai credenti i mali dell’esistere terreno, nonostante stia scritto: «O uomo, orsù tu chi sei per discutere col Dio?» (Rm 9,20). È forse l’esistenza un prodotto, un’invenzione dell’uomo, un articolo acquistato all’ipermercato del mondo? Non porta insomma da nessuna parte il sentiero inquisitorio. È infatti la trappola beffarda dell’avversario di Dio e dell’umana felicità (cf. Sa 2,24). L’annuncio cristiano offre invece al credente una pista di fede per non cadere o rimanere in trappola. Sta scritto che siamo stati battezzati nella morte di Gesù (cf. Rm 6,3). Il mistero della morte di Gesù è forse la via giusta per uscire dal buio della mente dolorante e delirante. Si nasce da cristiani mediante il Respiro divino e l’acqua battesimale con l’impegno d’essere al mondo epifania (manifestazione) della morte vittoriosa del Signore. Si viaggia nel tempo da cristiani in compagnia di «sora morte corporale», per incarnare fino alla consumazione dei secoli il mistero totale del Figlio di Dio, mistero di lotta e vittoria su morte perpetua. Il vuoto che ci strazia dovrebbe forse essere epifania della morte vincente del Salvatore in mezzo agli uo124 mini in attesa della propria vittoria che incombe. Il Maestro infatti rassicura anche noi: dimenticheremo l’afflizione, come la partoriente; il nostro cuore si rallegrerà ripieno di vita e nessuno potrà toglierci il gaudio senza fine (cf. Gv 16, 20-22). La gioia indicibile di vedere anche rinati per sempre nella libertà dell’innocenza indefettibile di Dio coloro, la cui assenza ora e qui è causa d’indicibile afflizione. # tl 99/30 125 VOGLIA DI FESTA «Non perdiamo tempo, […] banchettiamo allegramente!» (Lc 15, 22.23). Il Padre della parabola, è chiaro, ignora i nostri buoni principi etici di prudenza, di giustizia, di dignità ed ogni esigenza di equa riparazione. Sta il fatto che non richiede scuse riparatrici, abiure ufficiali, sottomissioni esemplari, penitenze canoniche. Non solo [su]perdona senza condizioni e/o paternali, ma addirittura sembra premiare con una festa fastosa le malefatte del suo giovanotto recuperato. Il fedelissimo primogenito rampollo, che rappresenta in modo egregio la nostra sacrale giustizia, ne è indignato e sconvolto (cf. vv. 29-30). È però questione di vita o di morte. Non è un caso che la parabola sia impiantata sul bisogno impellente di cibo, ossia sull’urgenza di sconfiggere la morte. Si supera insomma alla grande ogni esigenza di giustizia (unicuique suum) e di ripristino dell’ordine violato (cf. vv. 14-19). Sono questi del resto meccanismi della nostra mente caduca e ferita alla radice. Chi assicura che la mente infinita e santa dell’Altro funziona con i medesimi nostri meccanismi? Il peccato teologico è abbandono della Fonte della vita (cf. Gn 3,9): non è per sé pura incoerenza esistenziale col principio astratto d’ordine etico. Il testo lucano (e tutto il NT) prescinde forse per questo anche dall’obbligo giuridico della riparazione. Il mestiere del giudice è quello di stabilire con rigore oggettivo (secondo giustizia) la pena o castigo da infliggere al colpevole, allo scopo di ripristinare (riparare) l’ordine violato. Si guardano bene per questo coloro che si fanno chiamare padri e maestri legittimi ed amano le ovazioni delle piazze affollate (cf. Mt 23, 2-12), dall’imitare l’insensatezza di questo Padre misericordioso ed il suo strano oblio del proprio onore, per rincorrere la voglia di far festa ad un suo figlio tornato a casa. Può d’altra parte la Misericordia esigere riparazioni? Che misericordia sarebbe? Nulla quindi autorizza a ritenere casuale che il protagonista della parabola sia il Padre e non un giudice, la misericordia e non la giustizia etica della nostra mente. È la Fonte della vita insomma a rivendicare diritti esclusivi sul peccatore; non un tutore neutro d’un meccanismo aprioristico di coerenze giuridiche. Il Padre da sempre è in attesa della festa della gratitudine 126 per la vita; non sa gioire forse di null’altro, neppure delle lacrime riparatrici d’un reo confesso. Questa sovrana paternità proprio non «fa preferenze di persone» (cf. 2Cr 19,7; Rm 2,11 ecc.); rifugge anzi dall’arroccarsi dietro prestigiose anticamere e sussiegose udienze. Dà al contrario persino spettacolo sconveniente con l’iniziativa d’andare incontro lui stesso, pur schiacciato dal peso degli anni d’eternità e di offese senza fine, al peccatore in cammino, affamato di vita, per la fretta d’abbracciare la famelica giovinezza di lui (cf. Lc 15, 20.28b). Nessun bilancio previo di meriti e demeriti, di dare ed avere, di fedeltà ed affronto alla paterna autorità sacrale (v. 29). La sofferenza d’un figlio mascalzone pentito soddisfa ed esaurisce ogni interesse eticamente corretto del Padre. Egli non è allettato dai doni del giusto (cf. 2Cr 19,7) né indurito dalla protervia del peccatore; non si lascia abbindolare da sedicenti sagge discettazioni su equità e riparazione. Una sapienza eccelsa s’impone su tutto: sanare con un’infinita festa regale la fame di vita d’un figlio che ha patito con vergogna l’inedia della lontananza dal Padre (cf. Lc 15,32). # tl 04/57 127 L’ESPLOSIONE Le donne del gruppo dei discepoli, secondo Mc (16, 5-8), dopo aver costatato la sparizione della salma del Maestro assassinato ed aver appreso un messaggio misterioso di spiegazione, non s’allontanano soltanto, magari ancor più afflitte e deluse per l’inattesa scoperta del sepolcro svuotato. Esse «fuggono». Diventano schegge di un’esplosione silente di Vitasenzamorte. L’Energia Onnipotente le scaraventa dal sepolcro svuotato oltre i confini della storia, nell’ottavo giorno della divina creazione, come accadrà ad ogni figlio d’Adamo vissuto nella fedeltà al Crocifisso di nuovo vivo e seduto alla destra del Padre (cf. Eb 1,3). Fuggono le donne ricolme di «paura», dice Mc. L’agiografo vuol dire che il sepolcro svuotato è causa d’indicibile stupore tremebondo, simile a paura, perché materializza - per così dire - una Presenza strapotente ed invisibile (cf. Gn 3, 10-11) che è sentenza implicita e terribile di condanna per fabbricanti e mercanti di croci destinate ai figli di Dio. Il sepolcro svuotato è l’evento stupefacente della divina misericordia, folle ed invincibile, che rincuora l’uomo atterrito dall’aspettativa d’una morte senza risveglio. Non fu casuale forse che, per prime, le donne del gruppo scoprissero aperto e svuotato il sepolcro di Gesù. La prima donna, dopo il peccato, fu chiamata « - Eva», vale a dire vita (cf. Gn 3,20). Fu nome che conteneva la promessa del riscatto, dopo la ribellione. Ogni persona femminile, dopo la risurrezione di Gesù, può essere infatti realmente Eva, perché alla vita che s’accende nel suo grembo di terra è promessa dal Risorto, gustata la morte, il trapianto nella Vita senza lutti e senza lacrime dell’ottavo giorno (cf. Ap 21,4). La maternità naturale è arricchita, ed anzi perpetuata, aldilà dei 7 giorni del tempo. Il Crocifisso assegnò infatti al discepolo la madre nuova, Maria, colei che stava diventando ormai madre risuscitata del Risorto (cf. Gv 19,27). C’è forse troppa gente, come clero e teologi d’Israele (cf. Mc 15, 31-32) e non solo – che confonde il silenzio di Dio con un assenso certo al proprio protagonismo efficientistico, consumistico e temporalistico. I figli d’Adamo peccatore, a dispetto del Risorto espatriato dal sepolcro di questo mondo nell’ottavo giorno, seguitano a blaterare petulanti fole utopiche di un’uma128 nità più giusta e fraterna, magari crocifiggendo e massacrando frattanto, con strafottenza mefistofelica, moltitudini di ignoti innocenti. Le donne, schizzate via dal sepolcro svuotato di Gerusalemme, seguitano a viaggiare – grazie a Dio - come luminose schegge di Vitasenzamorte attraverso i 7 giorni della prima creazione. Catturano gli sguardi dei figli di Dio, velati spesso di pianto inconsolabile, per inabissarli nel gaudio pasquale promesso del cielo nuovo e terra nuova (cf. Ap 21, 1-7), fondati ed inaugurati ormai per sempre nel giorno unico, l’ottavo, dopo quel sabato speciale (cf. Mc 16,2). # tl 03/53 129 PELLEGRINANDO IALLA Ialla, andiamo: nonostante l’orrenda carneficina scempia dell’11 settembre u. s. [ossia 200l], ribadita dalle trasmittenti televisive con perversa iperamplificazione del terrore per giorni e giorni a tutte le ore. Noi andiamo pellegrini, in apparenza temerari, a ripercorrere la strada dei «fratelli maggiori» fuggitivi verso la vera liberazione, quella che solo l’inerme Iddio può offrire. Ialla, andiamo: nonostante la tremebonda trepidazione dei nostri cari, dei nostri amici e conoscenti, terrorizzati dalle valanghe di mediatici allarmismi più o meno perfidi (o nevrotici?) e mai ritrattati e/o ridimensionati, neppure in seguito alle più clamorose smentite, grazie al cosiddetto diritto d’informazione, che in questi casi è di fatto licenza illimitata di terrorismo bianco. Noi andiamo pellegrini sereni a sufficienza in nomine Domini «sulle orme di Mosè», inviato della Misericordia, senza aspirare ad essere celebrati eroi estemporanei ed incoscienti. Ialla, andiamo: nonostante le pavide defezioni dell’ultimissima ora dal nostro gruppo, motivate in forma ufficiale da incombenti pericoli immaginari e/o irrazionali. Noi andiamo pellegrini abbastanza tranquilli sul cammino, indicato da Dio nella Scrittura a Mosè, verso la terra promessa della risurrezione, scegliendo di mettere all’apice di tutti i valori la totale fiducia nella paternità protettrice di Dio Salvatore onnipotente. I voli delle Linee Giordane da Roma ad Amman e da Amman al Cairo ci portano a notte fonda tra il 26 e 27 settembre nella terra che grosso modo ospitava i figli di Giacobbe, quando decisero di seguire Mosè. Soggiorniamo un’intera giornata al Cairo per una visita antologica al doviziosissimo Museo Egizio ed alle spettacolari Piramidi di Cheope, Chefren e Micerino con la celeberrima Sfinge: monumenti che forse almeno alcuni degli israeliti fuggitivi del tempo mosaico avevano avuto modo d’ammirare in condizioni, com’è ovvio, più splendide delle attuali, pur tanto ancora stupefacenti. Intraprendiamo poi a bordo del pullman la strada percorsa forse da Mosè con almeno un gruppo di credenti della prima pasqua, secondo una delle 133 ipotesi sui presumibili itinerari dell’esodo. Passiamo sotto il canale, poco a nord di Suez, e scendiamo verso sud, lungo la spiaggia del golfo, nella vastità di sabbia desertica e cielo tersissimo con sole cocente. La prima tappa è ad Ayun Musa, all’oasi Mara, alla fonte dell’acqua amara (secondo la tradizione), che Mosè rese «dolce» con un pezzo di legno (cf, Es 15, 22ss). Facciamo sosta per il pranzo, dopo aver ripreso il deserto, in un bel ristorante del villaggio turistico di Ras Sudr. Ci sono quindi concessi alcuni minuti per raggiungere la spiaggia ed immergerci solo con gli occhi nell’azzurro denso del Mar Rosso. Risaliamo sul pullman refrigerato con aria condizionata e buona scorta d’acqua fresca per la nostra sete. Ialla, ialla. Cominciano ad apparire nebbiose alture all’orizzonte: ci avviciniamo al Wadi Feiran ed al Sinai. È pieno pomeriggio quando facciamo un’ulteriore sosta presso un suggestivo convento di monache ortodosse. La cena ed il pernottamento saranno al New Morgenland Village; lo raggiungiamo quando il sole s’è appena celato dietro un maestoso scenario di montagne. Celebriamo l’Eucaristia prima della cena al riparo d’una capanna assolutamente povera e spoglia nella frescura della sera sinaitica. La sveglia è alle ore 1:30 per chi ha deciso d’aspettare il sole sulla cima della Montagna di Dio, malgrado le perentorie esortazioni dissuasive della guida che ci accompagna dal Cairo, persona squisita di fede musulmana, il sig. Fawzi, preoccupato per eventuali gravi malori dovuti ad imprudenza. Il pullman ci accompagna alle ore 2:00 nei pressi del Monastero di s. Caterina a quota 1500 m. e poi di lena nel buio denso, appena scalfito dal lumicino incerto ed intermittente di alcune torce a pile, verso la cima del monte di Mosè ed Elia. Ci fa strada un agile ventunenne del luogo tra le fastidiose offerte persistenti dei cammellieri e l’ingombro olezzante degli animali. È l’alba del 29 settembre [2001] quando raggiungiamo finalmente i circa 750 gradoni che portano in vetta a 2285 m. Cammellieri e cammelli a questo punto s’arrendono; possiamo riporre le torce ed accingerci all’ultima severa fatica. Lo spettacolo della vetta su un orizzonte fatto di cime glabre di granito, adagiate nel soffice sterminato letto grigio della foschia mattutina, è semplicemente divino e blocca l’ultimo filo di fiato nei polmoni ansanti. Attendiamo per qualche minuto sulla vetta del Santo Monte, tra il vocio irreale rarefatto d’un piccolo stuolo ardimentoso di persone, che il sole cominci a levarsi con discrezione, insensibilmente, dalla foschia affollata di cime, risvegliando pian piano con luce gioiosa le infinite tonalità della grigia cupola del cielo e quasi ammiccando tacito al nostro saluto corale stupefatto. Prendiamo quindi a precipitarci senz’indugio a valle, secondo le istruzioni del simpatico sig. Fawzi, dove ci attende il pullman. 134 Il sole intanto, memoria perenne della suprema Teofania scritturistica, scalando insensibilmente l’immensità del cielo ormai sbiancata, ha cominciato ad infuocare il granito delle vette; ma ci tocca seguitare a scendere lanciando sguardi fugaci ed insaziati allo spettacolo sconfinato. La meta più elevata ed ardua del nostro pellegrinaggio esodico deve rimanere alle spalle. Ci riprende infatti il pullman alle 8, dopo 6 ore di cammino quasi ininterrotto, al parcheggio del Monastero; qui torneremo tra poco, dopo aver recuperato i bagagli dal Village. La visita all’affollatissimo Monastero è piuttosto breve. Il sig. Fawzi ci indica il pozzo delle 7 figlie di Jetro (cf. Es 2, 16-21); ci riassume le principali informazioni nella venerabile Basilica della trasfigurazione (poi dedicata alla martire alessandrina Caterina); ci conduce sotto il misterioso roveto mosaico (cf. Es 3, 1-6). Ora è in discesa il viaggio tra montagne, talvolta fatte di fantastici strati multicolori, alla volta di Nueibaa per il pranzo in un ristorante che affaccia sul golfo di Aqaba e quindi l’imbarco. La traversata del golfo ci porta ad Aqaba, in Giordania, dove è una nuova guida ad accoglierci, il sig. Sufian, per condurci all’Hotel Aquamarina 2. Concludiamo sul terrazzo dell’hotel che ci ospita questa giornata iniziata al Sinai, celebrando l’Eucaristia, immersi in un cielo di luci della città e della costa vicina e lontana del golfo. Siamo di nuovo sul pullman verso le ore 9 di domenica 30 settembre. Ialla. Prima tappa è il deserto di Wadi Rum, reso famoso dalle imprese di Lawrence d’Arabia. La mattinata è davvero memorabile per una divertentissima escursione, alloggiati su alcune jeeps scoperte, tra dune di sabbia, rupi fantasiose e gole spettacolari, cammelli, beduini e risate chiassose di scolaresca in gita. Condividiamo l’Eucaristia verso mezzogiorno sullo spiazzo sabbioso del Capitains Desert Camp tra pareti maestose d’arenaria modellata con genio naturale da vento e tempeste di sabbia; il tetto è naturalmente il trasparentissimo cielo sterminato. Lo stesso luogo ci ospita per il cibo e qualche passo di danza ... beduina, dopo la refezione abbondante e ruspante, in cui s’esibiscono gratis alcune signore del gruppo, al ritmo, ovattato dall’immensità, prodotto da 2 musicisti giordani in costume. Occorre chiudere le danze a malincuore e ripartire. La prossima meta è Petra dei Nabatei a nord, che il grande profeta e pellegrino Mosè non poté vedere: la città non esisteva ancora. Egli però attraversò queste contrade desertiche e montagnose. Ne conserva testimonianza la locale «sorgente di Mosè», identificata da qualche tradizione, ma senza grande probabilità, con 135 quella che scaturì dalla roccia in virtù del famoso duplice colpo di bastone (cf. Nm 20, 2-13). Giungiamo al Panorama Hotel quando il sole sta ormai sottraendo il suo caldo fulgore a questi luoghi assai suggestivi. La visita di Petra al mattino seguente 1 ottobre è di necessità incompleta ed in certo senso affrettata: occorrerebbe ben più del paio d’ore a nostra disposizione per saziarsi di stupore inebriante in questo sito unico al mondo. È ciononostante un’esperienza strabiliante in assoluto. Proseguiamo quindi verso nord per Amman dopo un pranzo abbondante, come al solito; c’è tempo per una brevissima sosta ai piedi di Sciobak, una delle fortezze costruite dai crociati lungo la Via Regia che congiunge la Siria ad Aqaba. Entriamo nell’immensamente estesa Amman, alla cui periferia occidentale è l’Hotel San Rock che ci ospita. Non è prevista dal nostro itinerario una visita ai monumenti ed alla città (Rabbat) degli antichi Ammoniti, assediata 3 mila anni or sono dalle truppe del re David che frattanto a Gerusalemme si distraeva con l’avvenente Bersabea, moglie dell’assente milite Uria (cf. 2Sa 11), Uno straordinario 2 ottobre, memoria degli Angeli custodi, conclude il nostro pellegrinaggio esodico.Attraversiamo di buon mattino a nord di Amman il torrente Jabbok, ricordando la lotta di Giacohbe con l’Angelo (cf. Gn 32, 23-32), per raggiungere Jerash, maestosa imperiale città della Decapoli evangelica, assopita per sempre sulle sue abbondanti e ben conservate rovine. Questa visita è, in questa contrada, previo alito che risucchia ormai la nostra mente nella città e nell’ingranaggio degli impegni quotidiani che ci attendono all’imminente rientro. Torniamo intanto verso sud dopo il pranzo per concludere il nostro itinerario spirituale sul Nebo, altura (802 m.) affacciata sulla terra della promessa ad Abramo (cf. Gn 12, 1-5), capostipite dei pellegrini per volontà divina. Celebriamo l’Eucaristia nell’antichissimo Memoriale di Mosè, cui Javè aveva parlato «faccia a faccia» (Dt 34,10). Ci piace riflettere che la scomparsa del supremo Profeta di Dio in questo luogo, a pochi passi dalla meta perseguita con tanta sofferenza e dedizione al divino volere, non possa essere stata un atroce castigo di Colui «che è buono, poiché per sempre è la sua misericordia» (Sl 136,1). Fu piuttosto un segno misterioso delle divine intenzioni per i credenti pellegrini del futuro, come noi che qui concludiamo questo cammino decisamente voluto. La meta vera infatti di quanti camminano nel deserto e nelle bellezze del mondo per invito del Signore non è una patria terrena aldilà del Giordano e del Mar Morto, ma la Gerusalemme sovraceleste (cf. Eb 12, 21-22). Una visita al famoso mosaico geografico della chiesa di s. Giorgio 136 a Madaba precede il rapido tour per qualche strada di Amman ed il rientro in hotel. Manca qualche minuto alle ore 9 del 3 ottobre quando, preso posto da ognuno di noi sul pullman, il sig. Sufian per l’ultima volta - per quanto riguarda il nostro viaggio - rivolge il fatidico ialla (andiamo!) al collega autista e l’automezzo si muove.Andiamo all’aeroporto Queen Alia. «Deo gratias» per quest’esperienza vissuta con gioia intensa e conclusa felicemente. Sciucran, grazie anche a te, da tutti noi sinceramente, sig. Sufian, corretto e cordiale figlio dell’Islam. # tl 01/44 137 CONCHIGLIA BIVALVE CON PERLA Abbiamo visitato i luoghi di s. Pio da Pietrelcina a s. Giovanni Rotondo nel pomeriggio del nostro primo giorno [04.10.04] di pellegrinaggio lungo in Puglia, a poche ore dallo stupore eccelso per la facciata romanica della Cattedrale di Troia. C’è calca di gente che intende raggiungere la tomba del Frate canonizzato: decido quindi d’avviarmi tutto solo a visitare il lavoro recente di Renzo Piano, la chiesa nuova di s. Pio di Pietrelcina. Lo sconcerto è la reazione più benevola che mi pare d’indovinare sul volto dei non molti che comincio ad incrociare mentre entro nel vasto piazzale trapezoidale, quasi triangolare (c’entra la ss. Trinità?). Decido di tacitare ogni preconcetto, se mi riuscirà. Il piazzale degrada dolcemente verso 2 archi diseguali, non sorretti da colonne, intrecciati in un duplice abbraccio di cielo e terra, divino ed umano; un segno di perfetto compimento, per me segno, ad es., del mistero dell’Incarnazione. Verificherò che l’intreccio in apparenza casuale di archi senza colonne nella chiesa superiore è motivo architettonico costante, come selva di croci con bracci distorti da immani pesi di sofferenza invisibile. Quei 2 archi, di cui il maggiore incornicia un’immensa vetrata con simboli e figure dell’Apocalisse, non sono di certo la tradizionale facciata d’una chiesa. Sono anzi la chiusura posteriore di un’ala della chiesa superiore. L’altra ala è chiusa all’interno da un organo davvero monumentale. Il lato frontale del piazzale triangolare non mostra dunque alcun portale maestoso che simboleggi l’evangelico «Io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7) né, tanto meno, un tradizionale elegante nartece. Il lato destro del piazzale intanto è una specie di boschetto con 24 scarni ulivi contorti, aldilà del quale saltella di vasca in vasca (12 in tutto) un ruscello artificiale. I numeri 24 e 12 non penso siano qui casuali: sono numeri senz’alcun dubbio scritturistici (cf. ad es.Ap 4,4; Mc 3,14). Gli ulivi del resto rimandano ad un orto o giardino celebre (cf. Lc 22,39); alludono forse ad una tappa decisiva della vita di Gesù, da lui chiamata battesimo (cf. Lc 12,50). C’è acqua viva qui, cosa invero del tutto poco credibile in questo lembo della Puglia,a differenza della presenza degli ulivi. Si potrebbe voler richiamare il sacro Giordano ed il Getsemani, terreno scenario iniziale e finale per l’impegno messianico del 139 Nazareno. Mi domando anche se questo spazio non possa far pensare ad un’originalissima forma simbolica di battistero cristiano sine tecto, come quello in cui fu battezzato Gesù all’inizio ed alla fine del suo evento terreno. Osservo poi che al lato opposto del piazzale s’affacciano, da un muretto sulla valle, 8 campane allineate, che tradizionalmente alloggiano in una svettante imperiosa torre. Hanno forse da comunicare qualcosa per tutti in mezzo a tutti con la voce di tutti. È intanto il primo incontro col fascinoso simbolismo del numero 8 che domina le imperiali strutture del misterioso Castel del Monte. Sono 7 i suoni della scala diatonica, 7 i giorni della settimana, 7 i sacramenti della chiesa pellegrina ecc. L’ottava nota apre però la scala superiore senza percorrerla. È forse indizio del suono eterno dell’ottavo giorno senza tramonto (quello dopo il sabato, cf. Mc 16,2), quello della risurrezione. Otto schiere di beati annunciò poi dal monte il Signore tra coloro che saranno raccolti dal Padre nel suo regno (cf. Mt 5, 1-11). Svetta snella e più alta della copertura della chiesa, invece d’un campanile, dopo l’ottavario di campane, qualcosa che tutti di sicuro giudicano essere una croce. Osservo la sua struttura vertebrata che s’assottiglia man mano che sale verso l’azzurro e mi dico che è riproduzione assai improbabile d’un palo patibolare atto a sorreggere e straziare un corpo d’uomo con braccia spalancate. Mi sovviene una strofa del venerando inno Vexilla: «Beata stadera dai cui bracci pendette il prezzo del mondo [peccatore]». Quest’oggetto pare a me, in effetti, l’immagine più credibile d’una stadera: certo di quella stadera. M’accingo ad entrare nella struttura coperta, la cui volta potrebbe essere letta come calotta d’una sfera irregolare, riempita per metà di cielo e per l’altra metà di terra. Cerco ancora sulla mia sinistra un ingresso paragonabile al portale tradizionale d’una chiesa. Vedo invece pertugi che, come qualcuno dice, assomigliano piuttosto a saracinesche di garages. Una sorta d’atrio (è il nartece?) scopro alla fine sul lato opposto ai 2 grandi archi del piazzale. È occupato a sinistra da una bassa piattaforma marmorea rettangolare, entro cui s’apre una vasca ottagonale con acqua; di fronte una porta bassa con battenti bronzei immette nell’aula liturgica. Rifletto di nuovo sull’allusione ottonaria del numero dei lati della vasca. Rappresenta forse questa cornice marmorea la Quaterna divina (Unico Dio in Tre Persone) e quella mondana (terra, acqua, aria, fuoco)? Mi chiedo anche la ragione simbolica delle evidenti dimensioni modeste della porta che fronteggia la vasca e mi sovviene che nel regno di Dio s’entra per la porta stretta, né appariscente né spaziosa (cf. Mt 7,14). L’acqua della vasca è forse quella del rivolo che saltella lungo il lato del piazzale: legame liquido tra il battistero sine tecto del Giordano, l’area battesimale cristiana e l’ingresso dei figli di Dio nell’aula liturgica, immagine della divina Dimora. 140 Entro dunque nella chiesa superiore che m’appare come una gigantesca conchiglia bivalve. Il pavimento degrada come anfiteatro verso il pilastro su cui confluiscono le grandi arcate della valva superiore. Alzo lo sguardo (frastornato dall’avvicendarsi di luce ed ombra, volumi solidi e vuoti, dal susseguirsi quasi pirotecnico di aeree vertebre ricurve verso il suolo che s’intersecano come bracci distorti di croci) e m’accingo a cercare lo schema di bilanciamento simmetrico della struttura: non ce n’è forse alcuno del tutto evidente. L’assialità dell’edificio è forse costituita solo dal grande arco che abbraccia in modo ideale e significativo la vasca battesimale e l’altare, che sembra voglia rappresentare una pietra angolare (cf. Ef 2,20; Mc 12,10;At 4,11) infissa su piedistallo di pochi bassi gradini marmorei. La sua forma, con mensa perfettamente quadrata, funge fors’anche nella grandiosa conchiglia da piccola perla preziosa del Regno (cf. Mt 13,46). Incombe su di essa un poderoso e ponderoso groviglio bronzeo di chiodi, spine ecc. giganteschi, che abbozzano un oggetto simile ad un mastodontico gioiello cruciforme. Le prime 3 file dei banchi, che occupano l’intera superficie del piano della chiesa, fungono da presbiterio, quasi a rendere visiva la parola del Signore: «Siete tutti fratelli» (cf. Mt 23,8). Incombe ormai nella mia mente il sospetto che l’assemblea liturgica sia stata concepita qui come folla che assiste ad uno spettacolo tragico, piuttosto che come accolta di invitati che partecipano alla tavolata festosa del banchetto escatologico (cf. Mt 22,2). L’intero complesso insomma sembra pensato e realizzato essenzialmente come monumento alla sofferenza del Dio umanato, di cui il boschetto esterno del Getsemani propone la sinfonia introduttiva ed il Leitmotiv teologico. La medievale theologia crucis occidentale del resto è nella tradizione e spiritualità francescana, dallo stigmatizzato Francesco d’Assisi fino all’altrettanto stigmatizzato Frate di Pietrelcina. Fa eco probabile a questa concezione il quasi veristico Cristo morto che introduce la sequenza figurativa dello smagliante ambone. Si sa che per simbolismo tradizionale l’ambone rimemora e celebra piuttosto l’annuncio della risurrezione del Signore. Lo vogliono – sembra ovvio - esprimere le forme plastiche ben levigate ed eteree di quest’opera di G. Vangi, che sembrano contrastare alquanto la rudezza degli archi vertebrati, della tozza croce che incombe sulla pietra angolare ecc. Rifletto intanto che per il cristiano la risurrezione non è soltanto un semplice annuncio a sé stante; è soprattutto la certezza ed anzi la meta del suo pellegrinaggio. Dev’essere pertanto segno liturgico pervasivo e speranza celebrata senza interruzione. Non appartiene quindi, a me sembra, all’identità cristiana il segno, ancorché assai impreziosito, d’uno strumento terrificante di sofferenza mortale: una nuda croce, come appunto il gravoso gioiello in141 combente del Pomodoro. È invece il Crocifisso, vincitore della morte e quindi innalzato alla risurrezione, l’oggetto dell’amore adorante e celebrante della fede cristiana. Cerco ora la cappella della Presenza eucaristica del Cristo risuscitato ed apro un’anonima porta che immagino immetta in un corridoio, in un ambiente di disimpegno, magari fuori dell’edificio sacro. Mi ritrovo invece in una non vasta sala rettangolare, spoglia e quasi tutta in penombra. È vivamente illuminato solo uno dei lati piccoli, al cui centro s’erge un alto cippo nero, schiettamente funereo, che custodisce con tutta evidenza il Pane consacrato. Il raccoglimento silenziosissimo dei pochissimi presenti, l’assenza assoluta di qualsiasi segno festoso mi comunica un violento incubo di camera mortuaria, nonostante - meno male - l’assenza di ceri accesi. È lava dell’Etna, vengo a sapere, quel pilastro un po’ inquietante e la mente va all’angoscia inarrestabile per un’altra eventualità naturale di morte atroce. Rifletto che l’Eucaristia non è cibo per il pasto in gramaglie offerto ai parenti che hanno vegliato la salma del caro estinto fino alle esequie; è alimento gioioso e festoso del gran banchetto imbandito dal Re per le nozze del Figlio (cf. Mt 22,2). Si placa un poco la mia inquietudine, quando percepisco che questo lugubre cippo eucaristico cangia la forma quadrangolare della sua base nella parte superiore ottagonale. È per me un rimando, non so quanto voluto e quanto percettibile, alla gioia della risurrezione: 7 giorni della creazione del mondo cui s’aggiunge il giorno dopo il sabato, quello della creazione nuova o risurrezione, ottavario che chiude il cerchio della divina opera creatrice dell’Onnipotenza, celebrato dalle ribadite arcate dell’aula liturgica. Torno sui miei passi ruminando stupore e riserve, numeri e figure geometriche, simboli terreni e verità celesti. Stretto compagno irridente è il dubbio che tutte queste mie solitarie elucubrazioni possano essere soltanto fantasie strampalate, ciarpame magari di digestione faticosa, esito inevitabile del primo della lunga serie di pasti succulenti che l’Agenzia Maggialetti s’è preoccupata di disseminare sul nostro percorso pugliese. # tl 04/61 142