SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Rivista Quadrimestrale
Numero Diciassette, 2007
Focus: Kosovo
Pag. 03
Rassegna critica della letteratura serba: Kosovo e Metohija come fattori
costitutivi dell’identità e della religiosità serbe di Ana Živković
Pag. 38
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo:
dall’Albania all’Albania di Blerina Brami
Pag. 74
Rassegna critica della letteratura internazionale sul Kosovo:
lettura in chiave identitaria del contesto socio-politico kosovaro di Federica Dallan
Focus: Memorie e Kosovo
Pag. 101 “Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche di Damiano Fanni
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Gli scritti pubblicati in questo numero sono stati realizzati per il progetto MAHLDE.NET (Mare Hadriaticum
Local Democracy Agencies Network), un Interreg IIIA Transfrontaliero Adriatico, a regia regionale, con
Lead Partner la Regione Friuli Venezia Giulia e con partner la Regione Emilia Romagna, la Regione Puglia,
l’Università di Padova, l’Università di Trieste, l’Università IUAV di Venezia, il Comune di Monfalcone, il
Comune di Mogliano Veneto, l’ALDA (Associazione delle Agenzie di Democrazia Locale) e le ADL (Agenzie
di Democrazia Locale) di Verteneglio, Sisak e Osijek (in Croazia), Prijedor, Zavidovici e Mostar (in BosniaErzegovina), Subotica e Nis (in Serbia) e Niksic (in Montenegro). In effetti, il progetto MAHLDE.NET non
aveva nell’area target il Kosovo e questo non doveva essere oggetto di indagine (nessuno, quindi, dei ricercatori è andato in Kosovo per il progetto MAHLDE.NET). Tuttavia, nelle interviste realizzate in Serbia, il
Kosovo era risultato così importante per capire la situazione della Serbia (per non dire che l’ADL della
Serbia Centrale, con sede principale a Nis e sedi decentrate a Kraljevo e Kragujevac, affrontava ancora come
un’emergenza il problema dei rifugiati serbi dal Kosovo) che si è pensato di presentare la complessità del
problema del Kosovo attraverso l’analisi delle rassegne critiche degli scritti più importanti in lingua serba,
albanese e internazionale (italiano, inglese e francese).
Questo compito è stato affidato, per la lingua serba, ad Ana Živković(laureata in Scienze Politiche, indirizzo politico-internzaionale, dell’Università di Padova) che è stata anche la nostra interprete per la lingua
serbo-croato-bosniacco-montenegrina nelle missioni per il MAHLDE.NET, per la lingua albanese, a Blerina
Brami (laureata in Politica e Integrazione Europea e laureanda in Politiche dell’Unione Europea
dell’Università di Padova) che è stata anche l’interprete, per la lingua albanese, dell’ALDA e della Regione
Puglia nell’evento finale di MAHLDE.NET, e a Federica Dallan (dottore magistrale in Politiche dell’Unione
Europea dell’Università di Padova) che ha svolto questo compito come sua tesi di laurea (dopo la laurea,
è stata in Macedonia per un breve periodo).
Le tre rassegne critiche sono state discusse in occasione del Seminario di restituzione del contributo dell’unità dell’Università di Padova al progetto MAHLDE.NET tenutosi a Padova il 26 febbraio 2007. Le sintesi
di quelle relazioni sono, ora, pubblicate in questo numero.
Il quarto scritto è di Damiano Fanni, laureato in Scienze Politiche dell’Università di Padova e attualmente
candidato del dottorato di ricerca in Politiche Pubbliche del Territorio, dell’Università IUAV di Venezia.
Damiano Fanni ha collaborato al MAHLDE.NET e compiuto numerose missioni nei Balcani.
Al progetto MAHLDE.NET hanno partecipato vari componenti della redazione (Giuseppe Gangemi,
Francesca Gelli, Luigi Pellizzoni, Luca Romano e Luciano Vettoretto) e alcuni collaboratori scientifici
(Pierluigi Crosta e Liliana Padovani) della rivista Foedus.
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Ana Živković
Rassegna critica della letteratura serba:
Kosovo e Metohija come fattori costitutivi
dell’identità e della religiosità serbe
Focus: Kosovo
Per avere un quadro, il più possibile esauriente,
della complessa situazione dell’area balcanica e
della tensione politica cui è sottoposta la regione
del Kosovo e Metohija, è necessario risalire alle origini della guerra ed indagare sulle radici lontane
degli incontri e scontri di culture, lingue e religioni, che hanno attraversato questa zona della
Serbia. La crisi balcanica nel territorio dell’attuale
regione del Kosovo e Metohija è sostanzialmente
riconducibile a tre fasi storiche, ciascuna delle
quali è responsabile del groviglio di nazionalità che
caratterizza quest’area. La prima fase inizia con le
grandi migrazioni dei popoli indo-europei e l’inizio del movimento delle popolazioni slave che si
stanziarono nell’odierna area del Kosovo e
Metohija nel VI secolo, nonché con la cristianizzazione e la clericalizzazione dei serbi che entrarono
nella civiltà cristiana dell’Ortodossia bizantina, rappresentando, secondo le fonti storiche dei secoli
XIII e XIV, il 98% della popolazione della regione.
La popolazione autoctona dell’area era composta
principalmente dai dardani, greci, romani, valacchi, illiri e dai traci, ossia da quegli antenati che
successivamente formarono il popolo albanese, i
quali si ritirarono verso le parti costiere o verso le
montagne. È importante, a questo punto, precisare che prima delle migrazioni dei slavi “nei territori dell’attuale provincia del Kosovo e Metohija non
fu riscontrata nessuna formazione di tipo statale
né qualsiasi raggruppamento etnicamente significativo del popolo albanese” (Bogdanović 1985, 32)
anche se “i nazionalisti albanesi tengono molto alla
loro identificazione con gli Illiri poiché sentono
che questo garantisca loro un diritto, nell’abitare la
regione, più consistente di quello degli slavi che si
stabilirono lì come agricoltori nel VI secolo dopo
Cristo. Gli storici serbi considerano la pretesa albanese come plausibile ma irrilevante, in quanto sia i
serbi che gli albanesi hanno popolato l’area insieme per molti secoli” (Samardžić 1990, 30).
Successivamente i territori della regione diventarono, grazie alla propria fertilità, densità di popolazione e soprattutto grazie alla collocazione geografica, che permetteva lo sviluppo della communicazione sia con l’Oriente che con l’Occidente, il centro dello Stato medievale serbo. Verso la fine del
XII secolo queste terre facevano parte dello Stato
della dinastia dei Nemanjiči ed è in tale epoca che
si è sviluppato anche il centro della vita spirituale e
della cultura del popolo serbo del medioevo.
Un secondo momento nella storia del Kosovo e
Metohija è rappresentato dall’invasione ottomana
dei territori, iniziata nel XIV secolo e caratterizzata
soprattutto dal radicarsi di forti differenze culturali e religiose tra le popolazioni già insediate e quelle che arrivarono sul territorio durante l’occupazione dei turchi. Nel periodo successivo alla battaglia svoltasi a Kosovo Polje nel 1389 e prima che
nel 1459 gli ottomani cancellassero l’ultima istituzione politica serba, facendone un proprio pascialato, la continuità della nazione serba nell’assenza
di suoi organismi politici si realizzò grazie alla vita
ecclesiale, nella quale la trasmissione della fede cristiana divenne anche perpetuazione di una tradizione culturale, marcata dal ricordo dei santi
monarchi e dei grandi vescovi medievali. “Quando,
durante la dominazione ottomana, il popolo serbo
venne a trovarsi di fronte al difficile compito di
porre in salvo la propria esistenza etnica – in quanto non si poteva ancora parlare della nazione – l’u-
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nica organizzazione che riusciva a portare a termine tale compito era la Chiesa ortodossa” (Lazić
2005,142). Questo fondamentale ruolo svolto dalla
Chiesa ortodossa nei confronti del popolo serbo
non può essere dimenticato da chi voglia comprendere anche la realtà contemporanea.
Inoltre è utile comprendere che è stata la posizione geografica e strategica – “Chi detiene il Kosovo
detiene i Balcani” – che ha conferito alla regione
un posto importante nei piani dell’imperialismo
ottomano; solo così si può percepire che l’integrità del popolo serbo e delle sue terre è stata per la
prima volta messa in questione quando è stato
minacciato il carattere etnico e religioso serbo del
Kosovo e Metohija. L’islamizzazione è iniziata attraverso una colonizzazione da parte del popolo
turco e più tardi, a partire dal XVI secolo, è continuata con la colonizzazione da parte degli albanesi
islamizzati, dapprima nella Metohija e poi nel
Kosovo. Il movimento di queste correnti migratorie della colonizzazione albanese riveste un carattere di distruzione pianificata e di accerchiamento
del popolo serbo in quanto protagonista della resistenza anti-ottomana. Tuttavia, è a partire dal XVII
secolo che il rapporto demografico è iniziato a
deteriorarsi in modo minaccioso: i privilegiati albanesi da poco venuti spezzarono le compatte comunità serbe e si impadronirono passo dopo passo
dell’area, al punto che alla metà del XIX secolo, e
soprattutto dopo il Congresso di Berlino, si poteva
già parlare di una maggioranza albanese su questo
territorio. Fino al XVIII secolo nel Kosovo e
Metohija non esistevano agglomerati più consistenti di Sqipetars; essi cominciarono a situarsi in
questa regione attraverso graduali migrazioni dall’odierna Albania del Nord, accompagnate da una
profusa islamizzazione dei serbi.
Il terzo momento storico, iniziato con la crisi
dell’Impero Ottomano e con la successiva nascita
degli Stati nazionali nel XIX secolo, ha comportato
la progressiva perdita di territori a vantaggio delle
maggiori potenze europee, che ponendo le basi
per la nascita e lo sviluppo degli Stati nazionali, che
progressivamente ottenevano l’indipendenza, ha
aperto la strada ad aspri conflitti relativi ai confini;
col formarsi del concetto di nazione e d’identità
nazionale, i fattori linguistici, culturali e religiosi
acquisirono un’importanza decisiva, diventando la
fonte di ostilità e di scontri.
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Tutte le idee serbe sul Kosovo e Metohija
L’area balcanica ha vissuto la fine del XX secolo
nello stesso modo in cui lo ha iniziato – con una
guerra. La dissoluzione della Seconda Jugoslavia
iniziò con la crisi del Kosovo e Metohija, e sembra
che tale crisi comporterà la fine anche di quello
che della vecchia Jugoslavia rimane in tale regione.
Infatti, problemi simili alla prima fase della formazione dell’identità nazionale del XIX secolo si sono
ripresentati a un secolo di distanza, in conseguenza al processo di dissoluzione della Repubblica
Federale di Jugoslavia.
Il conflitto del Kosovo e Metohija si è imposto sulla
scena internazionale tra la primavera del 1998 e
quella del 1999, quando, con l’avvio di una spirale
di azioni armate da parte dell’esercito di ‘liberazione’ del Kosovo, l’UCK, seguite da reazioni a questi
atti di ostilità da parte delle forze di polizia della
Repubblica Federale di Jugoslavia, riemergono i
problemi e le tensioni legate alla questione dell’identità e dell’autonomia della provincia.
Istituita nel secondo dopoguerra, a seguito delle
modifiche costituzionali avvenute nel 1963, che
estendevano i poteri delle repubbliche e delle
regioni autonome, l’autogoverno della regione fu
notevolmente ampliato. Con la nuova Costituzione
federale del 1974 era, inoltre, stata assegnata alla
regione un’autonomia che potrebbe essere considerata da ‘quasi repubblica’, in quanto l’unico diritto di cui era privata era quello di secessione, visto
che l’etnia albanese, presente sul territorio, non
poteva essere considerata un popolo istitutivo, ma
soltanto una minoranza presente in Jugoslavia.
Nonostante questo, la popolazione albanese esercitava nella regione il proprio potere in modo
alquanto ampio e la minoranza serba che vi abitava si sentiva fortemente discriminata.
Dopo l’inizio del processo di disgregazione della
Jugoslavia, le minaccie di secessione del Kosovo e
Metohija diventarono sempre più forti e di fronte
all’incapacità del Presidente serbo Milošević di
gestire la situazione interna, nella seconda metà
del 1998 si è andati ad un crescendo di preannunci di bombardamenti contro la Jugoslavia, fino al
reale, brutale attacco del 24 marzo 1999, giustificato con la non accettazione da parte jugoslava dell’accordo-capestro di Rambouillet.
Sicuramente l’intervento della Comunità
Ana Živković
Internazionale era inevitabile, ma nell’intervenire
sono stati commessi degli errori, il principale dei
quali è stato un’insufficiente comprensione della
natura dell’evoluzione dei disordini e delle violenze che portarono al conflitto, nonché un alto livello di ignoranza mostrato dai dirigenti della NATO
riguardo alla realtà balcanica, forse un’ignoranza
voluta, nell’intento di oscurare la tendenza mondialista di allargamento nel continente euroasiatico dei propri spazi economici.
La distruzione di una nazione militarmente forte e
non allineata, quale era la Jugoslavia sostituita da
una serie di protettorati deboli della NATO e del
FMI, conviene perfettamente a chi governa il
nuovo mondo. I serbi, nei secoli scorsi sono stati
sempre un ostacolo alla realizzazione di qualsiasi
progetto imperiale, dall’Impero Ottomano al
Terzo Reich e l’unione dei popoli balcanici, prevalentemente slavi, era l’unica soluzione per evitare
la dominazione straniera. La verità è che fin quando è esistita l’Unione Sovietica, la Jugoslavia aveva
una funzione rispetto all’Occidente, ma una volta
abbattuto il muro di Berlino, essa era solo d’impaccio. Secondo l’americano Samuel Huntington,
dopo la caduta del muro di Berlino è risorto il conflitto eterno tra l’Occidente e l’Oriente, tra la
Cristianità e l’Islam, conflitto che la guerra fredda
aveva in qualche modo nascosto. Secondo
Huntington le frontiere fra questi due mondi non
possono che essere frontiere sanguinanti e la visione distorta dei Balcani come una di quelle frontiere, è stato uno degli errori più tragici della politica
occidentale nell’area.
La Jugoslavia rimane la più pratica e sensibile, la
più anti-distruttiva risposta alla questione nazionale degli slavi del Sud. Essa era, come fu affermato
all’epoca dell’attacco delle potenze dell’Asse nel
‘41, il modo migliore in cui il popolo balcanico può
garantirsi l’indipendenza e proteggersi dal dominio straniero (Jugosla vismo: un’idea fa llita ).
Anche “oggi gli interessi nazionali serbi di vitale
importanza, dimostrabili in base al diritto e difesi
con le armi, vengono percepiti nel mondo come
l’ostacolo principale alla realizzazione e all’istituzionalizzazione dell’area europea nello spirito e
secondo il progetto della ‘Santa Alleanza’, personificata nell’Unione europea, guidata dalla Potenza
americana” (Tanasković 2000, 72).
Nel 1389, nel Kosovo e Metohija, la Serbia si oppo-
Rassegna critica della letteratura serba
se alla forza dei turchi, pur con la consapevolezza
della propria inferiorità; oggi, come allora, la
Serbia si è opposta di nuovo e rappresenta il più
fermo e deciso ostacolo alle pretese dell’imperialismo atlantico (Serbia , trincea d’Europa ). “Una
delle conseguenze più significative sul piano internazionele dopo i bombardamenti della NATO e
dopo l’eroica e sacrificante resistenza jugoslava è
sicuramente un rallentamento del processo di
creazione del nuovo ordine mondiale sotto il
comando americano” (Mirković 2000, 154).
“La maggior parte degli osservatori concorda nel
dire che nei Balcani” e in particolare nella regione
del Kosovo e Metohija, “la comunità internazionale
ha mantenuto lo stesso atteggiamento estremamente cauto, per non dire apertemente filomusulmano” (Tanasković 2005, 93). L’islam balcanico
rimane, infatti, l’unico spazio islamico che ha buoni
rapporti con l’Occidente. “Non è sicuramente un
caso che alcune delle analisi più recenti sulla situazione in Bosnia ed Erzegovina, in Kosovo e
Metohija e nei Balcani in generale, facciano tornare
alla mente la ‘dorsale verde’ citata come una delle
possibili spiegazioni della strana logica che si
nasconde dietro alla politica decisamente filomusulmana che i paesi occidentali, e in primo luogo gli
Stati Uniti, hanno adottato nel periodo della crisi
jugoslava dell’ultimo decennio del XX secolo, che
sembra ancora prevalere” (Tanasković 2005, 92).
Se si prende in considerazione l’intero processo di
disintegrazione, la questione del Kosovo e
Metohija, il sostegno degli occidentali all’organizzazione dell’UCK e la demonizzazione dell’ex
Presidente Slobodan Milošević, si percepisce che
la volontà del Vaticano e della Germania e le azioni di Washington e di Londra appartengono alla
strategia mondialista di appoggiare i fenomeni
secessionisti nelle aree significative dal punto di
vista geostrategico, apparentemente in nome del
principio di autodeterminazione dei popoli o di
una specificità religiosa, cercando in tal modo di
giustificare l’ingerenza umanitaria e il loro presidio
militare nell’area. “Non dovremmo più chiederci
perché ma come è potuto succedere che gli effetti
della politica americana e di quella europea abbiano paradossalmente coinciso con le aspirazioni e
gli obiettivi che si è posto il panislamismo mondiale” (Tanasković 2005, 93).
Riguardo alla posizione che la Serbia ha avuto
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durante la storia quale ponte della penetrazione di
idee europee verso il mondo dell’Islam, o al
contrario il limite della penetrazione
dell’integralismo islamico in Europa, è opportuno
richiamare quella che viene definita la teoria della
‘dorsale verde’, il progetto di una colonizzazione
islamica in atto nei Balcani, che prevede la graduale creazione di un collegamento di territori comprensivi di quelle regioni le cui etnie sono prevalentemente di religione musulmana, per costituire
un blocco geopolitico e strategico, il cui effetto
immediato sarebbe la frantumazione dell’integrità
degli Stati ospitanti, con effetti devastanti sugli
equilibri dell’area e, in particolare, per l’impatto
sui punti forti della geopolitica balcanica, e cioè sul
controllo degli assi di comunicazione della parte
sud-occidentale della regione. Questa trasversale,
partendo dalla minoranza musulmana nella Tracia
greca, saldatura con la Turchia, dovrebbe proseguire per i territori stanziali della minoranza turca
in Bulgaria, attraversando la Macedonia nella zona
occidentale a prevalenza albanese, si allargherebbe
nello spazio etnico albanese del Kosovo e Metohija
e dell’Albania e si salderebbe alla Bosnia tramite il
Sangiaccato, per arrivare sino alle soglie di
Zagabria. In tal modo si potrebbe permettere la
costituzione di uno spazio geopolitico unitario per
i musulmani ex jugoslavi e per gli albanesi, ricongiungendo l’Albania etnica al Sangiaccato e alla
Bosnia ed Erzegovina sotto il controllo musulmano. In questo progetto la questione di Kosovo e
Metohija rappresenta il fattore che alimenta il processo di destabilizzazione dei territori in predicato
di essere annessi all’Albania etnica e velocizza l’unificazione dei territori albanesi con il resto dei territori, abitati dalla popolazione musulmana. La provincia si troverebbe, dunque, al centro di una disputa che va ben oltre la contrapposizione tra i
serbi, gli albanesi e l’Occidente e da una questione
che nasce come geopolitica divenne nel tempo
politica ed istituzionale, perché rappresenta, nei
fatti, l’anello fondamentale per la creazione del
corridoio islamico attraverso i Balcani, un corridoio che si spinge fino alle porte dell’Europa, una
enclave che costituirebbe un terminale del terrorismo islamico ed una zona di passaggio del traffico
di droga e delle condutture petrolifere.
In questa prospettiva si colloca anche il tema della
pressione demografica che, nel contesto balcani-
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co, si articola in una serie di fenomeni oggettivamente destabilizzanti dell’equilibrio micro e macro
regionale. Se si considerano i vecchi censimenti
jugoslavi, si scopre inevitabilmente l’inarrestabile
esplosione demografica della popolazione di origine albanese nella provincia e questo è sicuramente l’elemento di medio-lungo periodo che ha il
potenziale destabilizzante più notevole. È durante
la Seconda Guerra Mondiale, che si verificarono
trasformazioni più drastiche nel quadro demografico del Kosovo e Metohija, dovute anche alle azioni dei terroristi nazionalisti albanesi, sotto la pressione dei quali, la regione venne abbandonata da
circa 75.000 serbi, nelle case dei quali si situarono
gli albanesi provenienti dall’Albania del nord, cambiando definitivamente l’equilibrio demografico.
Fino al 1971, quale risultato di un’esplosione
demografica inverosimile, la popolazione albanese
radoppiò. Il censimento ufficiale jugoslavo del
1971 mostra, infatti, 916.168 albanesi presenti nella
regione, mentre la popolazione serba e quella
montenegrina raggiungevano appena 259.819.
Questa tendenza demografica serve anche a dimostrare la falsità delle teorie sulla repressione serba
nei confronti della popolazione albanese nel
secondo dopoguerra. La verità è che le autorità
comuniste della Jugoslavia favorivano gli albanesi a
spese dei serbi in quanto permettevano un incontrollato stabilirsi degli immigrati dall’Albania, tollerando anche diversi metodi di discriminazione
etnica nei confronti dei serbi e costringendoli a
lasciare la provincia in ricerca di una vita migliore
in Serbia centrale.
Secondo il censimento jugoslavo del 1981, il tasso
medio di accrescimento annuo degli albanesi del
Kosovo e Metohija era del 25,3 per mille, il più alto
in Europa, mentre quello dei musulmani di Bosnia
era del 15,4 per mille, per lo più concentrato tra le
popolazioni rurali e dei piccoli centri delle valli
della Bosnia centrale. A fronte di questi dati, i serbi
e i croati registravano una crescita annua complessiva intorno al 4 per mille, e cioè meno di un sesto
di quella degli albanesi e pari a poco meno di un
quarto di quella dei musulmani di Bosnia.
Il fatto più preoccupante e talvolta ignorato dai circoli accademici e politici è l’esistenza di un vincolo religioso oggettivo che lega questa galassia di
popolazioni diverse, fornendo un potenziale di
integrazione strategica soprattutto per quanto
Ana Živković
riguarda il ruolo geopolitico di queste popolazioni
e lo sviluppo di una potente rete del terrorismo
integralista e dei canali classici dei traffici illeciti,
che sono di fatto vere e proprie tratte ‘sacre’.
Questi fatti illustrano la possibile identificazione
della cultura albanese e della loro conversione religiosa con la fedeltà verso lo Stato ottomano, legame visto anche come il motivo dei rinnovati contrasti con il mondo slavo e con i serbi ortodossi, i
principali artefici della distruzione di quel collegamento tra gli Stati islamici.
Alla vigilia dello scoppio del conflitto in Jugoslavia,
i settori pan-albanesi, guidati da Ibrahim Rugova,
leader della Lega Democratica del Kosovo, hanno
iniziato a praticare il boicottaggio assoluto della
vita politica e sociale jugoslava, costruendo un
sistema ‘parallelo’ in tutte le attività della società,
dalla sanità all’istruzione, fatto che ha configurato
un vero e proprio separatismo etnico. Questo
sistema parallelo è stato visto con apprezzamento
in Occidente, anche per il suo carattere non-violento, in quanto si percepiva una forma di Islam,
colorata come più accettabile o comunque meno
pericolosa della forma più estrema dell’Islam, presente in altre aree di crisi nel mondo. Ma come si
spiega questo carattere non violento con 200 mila
serbi fuggiti dalla regione, con la privazione di tutti
i diritti umani a quelli pochiche erano rimasti nel
Kosovo e Metohija, con le grandi fosse comuni
serbe e con la cancellazione di 150 luoghi simbolici serbi? Alcune dichiarazioni del libro Kosovo di
Slavenko Terzić possono essere sufficienti per
smentire la non violenza dei leader albanesi, come
quella del presidente fascista dell’Albania Mustafa
Kruja che già nel 1942 ha dichiarato davanti ai suoi
seguaci kosovari: “La popolazione serba in Kosovo
dovrebbe essere cacciata il prima possibile. Tutti i
serbi indigeni dovrebbero essere qualificati come
colonizzatori, e in quanto tali, attraverso i governi
albanese e italiano, mandati in campi di concentramento in Albania. I coloni serbi vanno ammazzati”.
Sentimenti simili furono espressi dal capo albanese-kosovaro, Ferat-Bej Draga: “È arrivato il
momento di sterminare i serbi. Non rimarrà alcun
serbo sotto il sole del Kosovo”.
Nell’analisi della ‘dorsale verde’ è importante il
contributo di prof. Darko Tanasković, ambasciatore di Serbia e Montenegro presso la Santa Sede e
membro della Comissione jugoslava per la verità e
Rassegna critica della letteratura serba
la riconciliazione, nonché uno dei più noti esperti
di studi sull’Islam nei Balcani. Secondo quanto
scritto da Tanasković “Non si tratta né di un progetto né di un piano nato in qualche diabolico
laboratorio geopolitico occidentale ma, più realisticamente – e questa è la cosa più allarmante – di
uno degli effetti e dei risultati più significativi dell’azione complessiva svolta dalla cosiddetta comunità internazionale durante la crisi jugoslava”
(Tanasković 2005, 92) e cioè “la continua sottovalutazione dell’attuale impatto della sfida islamica
nei Balcani, e soprattutto, di quello che potrebbe
avere in futuro” (Tanasković 2005, 94).
La potenzialità distruttiva della ‘dorsale verde’ è
data dal fatto che la dinamica di unificazione presuppone l’abbandono, da parte delle popolazioni
musulmane, degli Stati di appartenenza, senza
peraltro rinunciare ai territori di stanziamento.
Inoltre “bisognerebbe capire in quali termini i
musulmani dell’area balcanica vorrebero veramente europeizzarsi e fino a che punto vorrebbero
rimanere musulmani pur entrando in Europa”
(Tanasković 2005, 97).
Sul mancato appoggio da parte dell’Europa ai cristiani nei Balcani, e in particolar modo al popolo
ortodosso, durante la crisi e la disintegrazione
della Jugoslavia e sul sostegno dato, inevece, al
popolo musulmano, il prof. Tanasković afferma
che “l’atteggiamento pro-musulmano della parte
più autorevole della comunità internazionale
durante la crisi jugoslava ha avuto delle conseguenze negative non solo per l’area balcanica, ma
anche per l’intera Europa” e prosegue “anche per
la soluzione finale sullo status del Kosovo e
Metohija l’Europa tende a seguire il tono stabilito
dagli Stati Uniti” (Tanasković 2006, 18).
Per gli americani i Balcani sono lontani e la loro
instabilità può rappresentare un’opportunità per
“ostacolare la trasformazione del continente europeo in un superstato forte e solido, attraverso il
rafforzamento della componente islamica europea
con tutte le sue potenzialità distruttive endemiche” (Tanasković 2005, 98) e per avvicinare ulteriormente la NATO alle frontiere russe. Agli occhi
dell’America, inoltre, la Serbia resta l’unico potenziale riferimento di una improbabile ma possibile
rivincita russa nell’area geopolitica dei Balcani. Gli
interessi globali degli Stati Uniti nella regione sono
quelli di impedire all’Unione Europea, in particola-
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re a Francia e a Germania, di realizzare la influenza
dominante sul piano politico, economico e di sicurezza e di iniziare a dirigere gli avvenimenti dei
Balcani, impedendo il ritorno russo nell’area. Per
questo gli Stati Uniti hanno iniziato a costituire una
serie di regimi vassalici e statarelli del tutto dipendenti dai loro supporti ed aiuti economici, politici
e militari. La tattica americana è allora quella di
avere sotto il proprio controllo l’insieme di questi
Stati, incapaci a condurre una politica indipendente e ad agire per la protezione degli interessi nazionali. Si tratta della costruzione di un nuovo muro
di Berlino, che dividerebbe l’Europa, tagliando in
modo netto il corridoio Parigi – Berlino – Mosca
(La leggenda di Kosovo)
In questo contesto non bisogna però tralasciare il
ruolo della Turchia all’interno della crisi jugoslava
e il suo interesse all’espansione dell’influenza economica e culturale all’interno dell’Europa. Più precisamente, le ambizioni pan-turche comprendono
tutti quei popoli convertiti al credo islamico sotto
l’Impero Ottomano, indipendentemente dalla loro
origine etnica. Perciò più che di panturchismo si
deve forse parlare di neoturchismo, una politica
che è divenuta politica ufficiale dello Stato turco da
anni ed è stata formulata in termini espliciti da alti
esponenti delle istituzioni e della cultura, a partire
dal Presidente della Repubblica Süleyman Demirel,
il quale ha affermato che “la Turchia si estende dal
mare Adriatico alla muraglia cinese” (Politika
25/2/1992).
Questa influenza potrebbe espandersi grazie alla
potenza militare americana ma anche grazie al
sostegno di Paesi islamici come l’Arabia Saudita,
che controlla fondamentali strutture finanziarie,
lobby di pressione ed agenzie di informazione e
grazie allo sviluppo di legami militari, politici ed
economici con Israele, dove gli esperti non hanno
esitato ad affermare che “i Balcani sono il terzo
importante canale di penetrazione dell’Islam
nell’Occidente europeo” (Tanasković 2005, 97).
Il fatto che il governo statunitense sia rimasto sempre molto attento a non urtare la suscettibilità
della Turchia, la pietra angolare della NATO
nell’Europa sudorientale, e dei suoi alleati nel
Golfo, Arabia Saudita in testa, da tempo impegnate a sostenere le comunità musulmane balcaniche,
confermerebbe da un lato “la tesi secondo la quale
favorendo i musulmani balcanici gli Stati Uniti stia-
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no cercando di farsi perdonare dal mondo islamico le scelte politiche fatte in altri, più importanti,
teatri d’operazione, una sorta di compensazione”
(Tanasković 2005, 98); dall’altra parte questa politica rientrerebbe nella “deliberata decisione da
parte dell’America di favorire la nascita di una serie
di Stati instabili e provvisori, mantenedo così un
caos controllato per includere la regione nel proprio progetto di predominio globale” (Tanasković
2005, 97) affidando al partner di sempre, ovvero
alla Turchia, che ha dimostrato di saper temperare
le spinte dell’islamismo più radicale, una gestione
‘neo-ottomana’ dei Balcani.
Sullo sfondo di questo scenario si profila anche l’adesione della Turchia all’UE con l’aumento ulteriore dei musulmani europei e con l’assunzione di
un ruolo di tutela delle popolazioni musulmane
dei Balcani, sul legame dei quali con la Turchia si è
espresso anche Adil Zulfikarpasić, fondatore della
Libera Organizzazione dei ‘Bošnjaki’, termine con
il quale si definiscono gli slavi di religione musulmana, ed ex-vicepresidente della SDA, partito di
Azione Democratica. Egli ha, infatti, affermato: “È
noto che fino alle guerre balcaniche su questi territori c’era lo Stato turco; era il nostro Stato, che
faceva i nostri interessi, la nostra emancipazione, la
nostra prosperità e il nostro futuro era legato a
questo Stato turco” (Stav 21/02/1992, 21).
Naturalmente, l’atteggiamento turco è determinato sia dalla necessità di aumentare il proprio peso
specifico in una regione di influenza elettiva della
Grecia e della Russia, sia di rispondere al ruolo di
potenza moderata dei musulmani balcanici. In
ogni caso, le dinamiche interne del sistema politico turco porteranno con ogni probabilità a mantenere, se non ad aumentare, l’impegno nella regione. “L’interesse nazionale serbo nell’ambito del
processo della disintegrazione jugoslava, risulta
per coloro che decidono in modo decisivo la direzione delle correnti politiche nel mondo, non solo
irrilevante, ma anche non compatibile con le soluzioni strategiche americane ed europee, mentre il
ruolo della Turchia diventa quello dello stabilizzatore del fattore islamico nell’area confinante con
l’Europa” (Tanasković 2000, 73).
Se il ruolo dei Paesi occidentali e della Turchia
nella disgregazione della Federazione Jugoslava è
stato sostanzialmente passato sotto silenzio, una
maggiore attenzione è stata rivolta all’importanza
Ana Živković
strategica dei Balcani nel campo delle comunicazioni e, soprattutto, nel settore del rifornimento di
materie prime all’Occidente. Questa attenzione è
rimasta però confinata all’informazione economica
più specialistica ed è perciò largamente ignorata
dal grande pubblico. Tutta le regione balcanica è
importante perché è percorsa dalle grandi vie di
comunicazione fra l’Europa centrale e la Turchia,
fra il Mar Nero, il Caucaso e l’Adriatico. Dopo la
dissoluzione dell’URSS si è scatenata la gara per il
controllo delle risorse energetiche del Mar Caspio,
in particolare del gas e petrolio, e la competizione
non riguarda solo le aree di estrazione ma anche
tutti i cosiddetti ‘corridoi’, cioè le direttrici seguite
da oleodotti e gasdotti per portare energia
all’Occidente. Due sono le direttrici principali: il
‘Corridoio 5’, che va dall’Ucraina all’Italia settentrionale, passando per l’Ungheria e la Slovenia e il
‘Corridoio 8’, che, partendo dal Mar Nero, giunge
al canale di Otranto attraverso la Bulgaria, la
Repubblica macedone e l’Albania.
Un giacimento quasi intatto di petrolio è quello
intorno al Mar Caspio, e una linea prioritaria di alimentazione per l’Europa è quella che passa per i
Balcani. Non c’è dubbio che questa circostanza sia
alla base dell’interesse occidentale per la regione.
Il petrolio dell’area caspica ammonterebbe a 5-10
miliardi di tonnellate e rappresenta l’ultima grande
riserva di idrocarburi del mondo. Già fra il 1991 e
il 1993 le grandi compagnie occidentali cercarono
di inserirsi in quello che, dopo la disintegrazione
dell’URSS, si configurava come un vuoto geopolitico e soprattutto economico; le compagnie americane e la Turchia, per sottrarre a Mosca il monopolio degli oleodotti, avviarono il progetto di un
oleodotto detto ‘occidentale’, che, contrapposto a
quello russo ‘settentrionale’, partendo da Baku,
attraverserebbe la Georgia per arrivare al porto di
Supsa nel Mar Nero georgiano; di qui, un corridoio
marittimo e poi terrestre, attraverso il Kurdistan
turco lo collegherebbe al terminale turco di
Ceyhan, sul Mediterraneo.
Inoltre, la spartizione neocoloniale delle ricchezze
e delle attività produttive della regione rimane
poco nota, nonostante l’immenso impegno delle
numerose multinazionali subito dopo l’occupazione militare del Kosovo e Metohija da parte delle
Forze dell’Occidente secondo interessi e coinvolgimenti economici in gran parte preesistenti. Nei
Rassegna critica della letteratura serba
Balcani si sta realizzando un progetto di divisione,
forse simile a quello pensato da Hitler, con una
Croazia ultracattolica indipendente, ripulita etnicamente dalla minoranza serba, che per quasi mezzo
secolo il Maresciallo Tito aveva fermato. In questa
prospettiva rientra una Serbia inoffensiva e separata
dal Montenegro, nonché privata finanche delle proprie province autonome con una Repubblica islamica filoturca in Bosnia, necessaria per realizzare la
‘dorsale verde’. In Europa, per adesso, sono i serbi
a dover pagare il prezzo più caro di una ristrutturazione geopolitica decisa a loro insaputa e contro di
loro. I serbi vengono prima diffamati e poi colpiti
perché, tra gli jugoslavi, sia per ragioni storiche sia
perché vivono in quasi tutte le repubbliche ex-federate, sono quelli che meno di tutti avevano interesse alla frantumazione del loro Paese.
È possibile, allora, che dietro i motivi dell’intervento della comunità internazionale contro ciò
che rimane della Jugoslavia, cioè contro i residui di
una costruzione statale che nacque sui tavoli dei
vincitori della Prima Guerra Mondiale - in nome
del principio di autodeterminazione dei popoli o
di una specificità religiosa, esistono motivazioni
che non riguardano la questione etnica o nazionale della regione? È possibile che lo Stato di Serbia
si trovi ancora una volta nella storia a dover prottegere la Cristianità europea dall’avanzata
dell’Islam, appoggiata dagli Stati Uniti, per gli interessi americani di carattere economico?
“In ogni caso, la guerra contro la Serbia è una guerra contro l’Europa, o meglio, è la fase più recente
di una guerra che è iniziata con lo sbarco in
Normandia, se non con l’intrusione americana nel
nostro continente fin dalla Prima Guerra Mondiale.
In questa nuova fase dell’aggressione statunitense,
mentre i dirigenti dell’Europa legale dimostrano
nella maniera più inequivocabile di essere dei fantocci collaborazionisti nelle mani del nemico, dei
veri e propri traditori della Patria europea,
l’Europa legittima è in Serbia. La Serbia è oggi la
trincea dell’Europa.« (Kalajić 1999, introduzione)
Se per certi aspetti il Kosovo è unico nella storia
del popolo serbo-ortodosso, è proprio perché è il
simbolo della sua identità e della sua continuità.
Secondo le parole di una delle più sagge donne
serbe, Isidora Sekulić, “la serbità, non è né il pane,
né la scuola, né lo Stato: è il Kosovo”.
Al fine di rendere più comprensibile questa affer-
9
n.17 / 2007
mazione diventano di particolare interesse, innanzitutto, le voci degli intellettuali serbi pubblicate
nel Memorandum, il documento diffuso in via ufficiosa in Serbia nel 1986 dall’Accademia delle scienze e delle arti di Belgrado, che rappresenta la
prima formulazione compiuta del problema del
Kosovo e Metohija, e che da parte della maggioranza venne interpretato come il tentativo di mettere la storia al servizio dei nuovi etno-nazionalismi; esso, tuttavia, offre la possibilità di spiegare
perché una nazione, nel rivendicare la propria esistenza politica ed etnica, ha cercato di dimostrare
con tanta ostinazione il possesso di un determinato territorio mediante un’associazione storica tra la
popolazione attuale e la popolazione del passato
(Memora ndum SANU. Risposte a lle critiche).
Può essere, dunque, interessante partire da alcune
pagine di La questione del Kosovo e Metohija .
Pa ssa to e presente, documento pubblicato sul sito
dell’Accademia di Belgrado che, più di altri, contiene un esplicito riferimento alla questione dell’identità nazionale e ai rapporti dei serbi con gli
albanesi della regione.
Innanzitutto, c’è una presa di posizione alquanto
forte sul significato della questione del Kosovo e
Metohija: essa non può essere ridotta al problema
dell’autonomia costituzionale della regione, né alla
condizione degli albanesi jugoslavi. Al contrario, si
tratta della sopravvivenza e della posizione dell’intera nazione serba - nel Kosovo e Metohija, nella
Jugoslavia e nei Balcani. Perciò è di importanza
fondamentale considerare l’intera questione dal
punto di vista storico, dal momento che gli eventi
di questi ultimi tempi rischiano di cancellare la
memoria di un intero popolo, insieme alle fondamenta stesse della sua coscienza nazionale. Così,
Dimitrije Bogdanović afferma che il Kosovo viene
visto come un sintomo che rivela processi molto
più profondi e larghi, mediante i quali si cerca di
risolvere il destino del popolo serbo e non della
nazionalità albanese. Senza un’attenta analisi storica la situazione politica attuale della regione non
potrebbe essere capita, come non si potrebbero
capire le reali tendenze e i significati degli intenti
albanesi. “Per il popolo serbo il Kosovo e Metohija
assume il significato del certificato e del sigillo
della sua identità; la sola chiave grazie alla quale si
può comprendere il messaggio derivante dalla sua
storia” (Bogdanović 1985, 60). L’accademico Dejan
10
Medaković segue questa linea spiegando come
segue: “È un fatto triste che gli avvenimenti storicamente importanti diventano un punto dolente per
i membri di un popolo, che il loro quadro reale e
critico viene offuscato dai conflitti contemporanei.
Non si dovrebbe confondere ciò che è storicamente chiaro e che appartiene alla storia critica con
quello che rappresenta, invece, il momento attuale.
Esistono coloro che cercano di trarre dei vantaggi,
mescolando nazionale e nazionalistico, ossia quello
che ha un valore con quello che nega i valori di un
altro popolo. Ciò non significa che il nazionalistico
non esiste; esiste soprattutto come lo sfogo, causato dalla lunga negazione o dalla lunga interruzione
con la storia del proprio popolo, dalla cancellazione sistematica delle memorie storiche. Tutto può
essere considerato come l’irruzione della rabbia,
trattenuta per molto tempo e in modo innaturale”.
“La ricostruzione realistica e completa degli eventi
del passato produce un effetto rivitalizzante per il
popolo serbo, restituendogli il senso di identità,
permettendogli di vedere le cose nella loro luce e
proporzioni più veritiere” (Medaković 1989, intervista in Duga, Belgrado, n. 400).
L’excursus del documento dell’Accademia prosegue con quella che viene definita l’etnogenesi della
nazione serba, la questione delle sue origini. I diritti dei serbi nel Kosovo e Metohija sono scritti inequivocabilmente, secondo il testo, nella storia
medievale: è in questo periodo, infatti, che i serbi
raggiunsero il massimo grado di civilizzazione ed è
allora che si posero le basi della loro ‘identità europea’, la testimonianza della quale sono i monasteri, le produzioni artistiche e letterarie di quel
periodo. E fu proprio l’omogeneità etnica di questo territorio densamente popolato che lo portò
rapidamente a divenire il centro politico, economico, culturale e religioso della nazione serba. Ai
tempi dell’invasione turco-ottomana, l’ormai nota
battaglia di Kosovo Polje del 1389, in cui i serbi,
sebbene ne siano usciti sconfitti, opposero strenua
ed eroica resistenza agli invasori, sancisce definitivamente la sacralità di quella terra, che diviene la
bandiera della libertà nazionale.
Tra i vari significati che la denominazione ‘Kosovo’
assume per il popolo serbo esiste, innanzittutto,
quello che si riferisce alla vasta pianura situata
nella parte orientale della provincia del Kosovo e
Metohija. Il suo nome deriva dalla parola serba
Ana Živković
‘kos’ che significa merlo. Più di 90% dei nomi geografici del odierno Kosovo sono di origini serbe, il
che offre prova dell’esistenza secolare del popolo
serbo e la presenza di sua cultura in quest’area.
Metohija designa, invece, la parte occidentale della
stessa provincia. Il suo nome deriva dalla parola
greca ‘metohion’, pl. ‘metohia’, con il significato di
‘proprietà del monastero’, che sottolinea quanto
stretto sia il legame tra quei territori, la Chiesa
serbo-ortodossa ed il suo popolo. Nel medioevo,
infatti, tutti i più importanti monasteri serbo-ortodossi possedevano i propri possedimenti in
Metohija.
Dal punto di vista storico i serbi ricollegano
‘Kosovo e Metohija’ alla base della loro statalità e
alla rivalità serbo-albanese, nonché alle varie interpretazioni della storia, che ha giocato un ruolo fondamentale nel determinare il destino di questa
regione, soprattutto perché si è trattato di una storia interpretata, mitizzata e utilizzata per vari fini,
soprattutto e quasi sempre politici. Il Kosovo e
Metohija, nella memoria nazionale del popolo
serbo, costituisce la culla della cultura serba e dell’ortodossia, in quanto nucleo del celebrato regno
medievale e sede di numerose chiese e monasteri.
Božidar Jakšić ritiene che oggi sono rari i cittadini
della Serbia che negli ultimi anni non hanno riflettuto più volte riguardo alla pericolosità della situazione creatasi in seguito al rapporto instaurato da
parte dello Stato serbo nei confronti della crisi del
Kosovo e Metohija. “La frustrazione e la diffidenza
diventarono una terra fertile per l’odio. I legami
precedenti di fiducia e comprensione vennero
spaccati con insistenza, quotidianamente ed in
modo sistematico. Con le divisioni nazionali vennero manipolati sia i precedenti rappresentanti del
governo comunista di Tito sia la borghesia serba di
oggi, nonché la stessa nuova élite albanese politica
e culturale” (Jakšić 1999).
Utile al fine di comprendere le diverse posizioni
del popolo serbo può essere anche l’esposizione
tematica durante l’Assemblea annuale del Forum
di Belgrado per un Mondo di Eguali di 23 tesi sulla
questione del Kosovo Metohija di Vladislav
Jovanović, secondo il quale la questione del
Kosovo e Metohija è nel mirino delle politiche
della comunità internazionale ormai per la quarta
volta negli ultimi venticinque anni, a causa del loro
obiettivo storico di separare questa zona dalla
Rassegna critica della letteratura serba
Serbia. Questo obiettivo fu dichiarato per la prima
volta dopo le dimostrazioni separatiste albanesi
nel 1981, quando alla Serbia fu ‘suggerito’ di accettare il Kosovo e Metohija come la settima repubblica nella federazione jugoslava; suggerimento
che venne ripetuto, per la seconda volta, durante il
processo di secessione di Slovenia e di Croazia,
mediante le pressioni affinché agli albanesi della
regione fosse riconosciuto il diritto di autodeterminazione che veniva concesso agli altri popoli.
Per la terza volta, prima e nel corso dell’aggressione militare nei confronti della Repubblica Federale
di Jugoslavia, con il supporto aperto al terrorismo
albanese separatista, si era svelato l’obiettivo militare principale degli Stati Uniti e degli altri Paesi
leader della NATO, nei confronti della Serbia. Tale
obiettivo non è stato abbandonato neanche dopo
la cessazione dell’aggressione ed è continuato, con
un aspetto diverso, sotto l’amministrazione internazionale provvisoria dell’ONU del Kosovo e
Metohija. Si è trattato, quindi, di una guerra di conquista, il cui scopo è stato di impadronirsi di tutta
la regione centrale dei Balcani mediante l’occupazione del Kosovo e della Metohija, poi della vallata
della Moldava, e, dall’altra parte, della vallata del
Vardar, al fine di creare uno Stato nuovo, a favore
di una grande Albania, che modificherà la carta
della penisola balcanica, proprio come si era prospettato all’epoca del congresso di Berlino e della
creazione della Lega albanese di Prizren nel 1878.
“I Paesi dell’Europa occidentale hanno, però, spesso perso di vista che non sarà facile governare su
un’entità socio-economica di questo tipo, in quanto essa non è in grado di integrarsi con i progetti
mondialistici dell’Europa. Con la formazione dell’entità islamica nell’area balcanica gli europei contribuiscono inconsapevolmente alla disunione di
identità dei propri popoli e, quindi, producono
una diretta minaccia per i valori e le istituzioni
europee” (Nišić 2004, 273).
“I serbi, come all’epoca dell’avanzata ottomana,
rimangono l’elemento più persistente nella difesa
dell’Europa cristiana nel suo conflitto con la cultura e la tradizione albanese-islamica, che sono indisolubilmente collegate con il vandalismo e con l’intolleranza ideologica e politica; un popolo che presenta la minaccia più drammatica alla civilizzazione
europea, ai suoi valori di umanità e ai conseguimenti della sua cultura. I serbi sono il popolo più
11
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esposto a tale minaccia e finora hanno sopportato
con coscienza tutte le proprie perdite e tutte le
distruzioni del proprio patrimonio storico, che
durano praticamente da sempre, ma furono intensificate a partire dell’amministrazione internazionale del Kosovo e Metohija. Per questo il popolo
serbo non ha meritato e non merita tuttora la
vistosa noncuranza e il disinteressamento
dell’Europa di fronte all’attuale anarchia nel
Kosovo e Metohija” (Lužnik 2000, 34).
Nell’ottica di un tale progetto, l’imperialismo albanese ha saputo utilizzare tutti i movimenti politici
e sociali che sono apparsi tra le due guerre mondiali, nel corso della Seconda Guerra Mondiale e
anche dopo, ivi compreso il movimento internazionale operaio, approfittando e sfruttando il loro
appoggio per la realizzazione del loro programma.
Non c’è giustificazione all’ignoranza o alle illusioni
che circolano a questo proposito. Sarebbe insensato continuare a chiudere gli occhi davanti a questa mistificazione politica che consiste nel trasformare gli strumenti dell’eguaglianza di diritti delle
nazioni in strumenti di assoggettamento nazionale
della maggioranza da parte della minoranza, del
popolo serbo da parte dell’etnia albanese.
Il rifiuto, senza nessun confronto, per le idee, proposte e progetti sulle soluzioni nella regione, contro l’autonomia territoriale dei serbi, dimostra l’importanza della secessione come l’unico obiettivo
dei leaders albanesi e degli strateghi occidentali.
Mentre gli albanesi di Kosovo e Metohija vengono
sostenuti per il diritto dell’autodeterminazione e
dell’indipendenza, ai serbi in Croazia è negato il
più minimale diritto dell’autodeterminazione
anche solo come autonomia regionale. Ai serbi e
croati in Bosnia ed Erzegovina, agli albanesi in
Macedonia, il diritto all’autodeterminazione è
addiritura proibito ed impedito. Il principio d’immutabilità delle cosiddette frontiere dai tempi di
‘AVNOJ’ – il Consiglio antifascista della liberazione
nazionale jugoslava, proclamato ed imposto dalle
forze occidentali all’inizio della crisi jugoslava nei
primi anni Novanta, è relativizzato per quanto concerne la Serbia; “questo rappresenta un’enorme ed
evidente contraddizione con le promesse di amicizia e di alleanza con le quali stanno provando a
convincerci” (23 tesi sulla questione del Kosovo
Metohija ).
Per via del loro sempre più aperto sostegno alla
12
secessione permanente della provincia dalla
Serbia, i leaders politici occidentali, nelle loro
dichiarazioni ed inviti per l’integrazione nell’UE e
Partnertariato per la Pace, evitano scrupolosamente e chiaramente di dichiararsi sull’integrità territoriale del Paese, rendendo in tal modo chiare le
loro attese che la Serbia, come risultato dello stato
finale di un Kosovo indipendente, diventi ancora
più piccola. La vicinanza della prospettiva d’integrazione con la UE è utilizzata come distrazione
dell’attenzione dell’opinione pubblica e dell’élite
politica, dal tema del sempre più veloce processo
d’indipendenza del Kosovo e Metohija, lasciando
intravedere presunti vantaggi che la Serbia, una
volta liberatasi dal peso della perenne crisi nella
regione, ne trarrebbe per il suo sviluppo futuro.
“La Serbia è l’unico Stato candidato per l’UE, da cui
è atteso e richiesto di disintegrarsi per potersi integrare nell’Unione europea”.
Il condizionamento per l’entrata nell’UE attraverso
l’accettazione della perdita del Kosovo e Metohija,
rappresenta un’ulteriore conferma del trattamento
disuguale verso la Serbia rispetto agli altri Stati dell’area balcanica e dell’ex Europa dell’Est. Alla
Serbia si vuole imprimere l’impronta del più gran
colpevole per la creazione e lo sviluppo della crisi
jugoslava, e in questo è compresa la colpa per la
‘misericordiosa’ aggressione della NATO. Viene
considerata uno Stato sconfitto che dovrebbe
adempiere a delle condizioni particolari per poter
entrare nell’Europa integrata. Inoltre, si ribadisce
continuamente che l’entrata della Serbia nell’UE
deve essere il principale interesse statale serbo,
mentre la conservazione dell’integrità territoriale
della Serbia è messa nei gradini più bassi delle
priorità. “A patto che rimaniamo pazienti, l’élite
governativa odierna tiene il pubblico nell’ipnosi
delle attese con le quali la magica entrata nell’UE ci
toglierebbe da tutti i nostri guai”.
Inoltre, l’indipendenza della provincia è soltanto
l’obiettivo negoziato pubblicamente per ottenere
un obiettivo sintonizzato agli interessi
dell’Occidente. Quest’obiettivo ideale eliminerebbe il pericolo della creazione di un precedente, a
cui le minoranze nazionali compattamente popolate in altri Stati si sarebbero potuto rifare, particolarmente nei Paesi confinanti. Siccome per la realizzazione di tale obiettivo è necessaria l’accettazione da parte della Serbia, l’intera strategia
Ana Živković
dell’Occidente è concentrata a costringerla a tale
accettazione. Sono state messe in moto tutte le
forze: la propaganda sugli effetti del libero mercato, l’esca di un’entrata più veloce di Serbia e
Montenegro, o della sola Serbia, nelle integrazioni
euroatlantiche, compensi finanziari; l’evidenziamento delle problematiche per la Serbia, nel caso
di una situazione con un eventuale reintegrazione
del Kosovo e Metohija nel suo ordine costitutivo; il
sostegno a tutti i livelli dei sostenitori e fautori di
questo obiettivo, sia nelle istituzioni pubbliche,
che per le ONG schierate su questa ipotesi. Nel
caso la Serbia non fosse cooperativa, in alternativa
sono sempre pronte le ‘solite’ misure di pressione.
La minaccia per una eventuale Serbia non-collaborativa non è prevista in questo momento, ma “è
preparata seriamente dietro le quinte”.
Il programmato disarmo morale della Serbia si
sarebbe dovuto conseguire nell’occasione della
pronuncia di condanna del Tribunale dell’Aja, prevista verso la metà del 2006, nei confronti del
defunto Presidente Slobodan Milošević e contro la
Serbia, per presunto genocidio nel corso delle
guerre in Bosnia Erzegovina e Croazia. La coincidenza di questa condanna con la scadenza di durata dell’unione statale di Serbia e Montenegro e la
risoluzione dello status definitivo del Kosovo e
Metohija, avrebbero privato ulteriormente la Serbia
di un diritto morale sulla provincia e avrebbe dato
agli albanesi un argomento ulteriore per non rimanere in uno Stato ‘criminale’ come la Serbia.
“Occorre confrontare tutte queste manovre e
mosse cospirative contro la presenza della Serbia
in Kosovo e Metohija, in maniera decisa e senza
compromessi, con la nostra carta più forte di tutte,
ma sufficiente: con il nostro certificato storico sul
Kosovo e Metohija”. Questo certificato di sovranità
si basa sul significato storico e spirituale per il
popolo serbo e per il suo Stato, e sugli inconfutabili ed incontestabili riconoscimenti internazionali
che esso è parte integrale ed inseparabile della
Serbia: l’Accordo di Londra del 1913, l’Accordo di
pace di Versailles del 1920, l’Accordo di Parigi sulla
pace del 1947, l’Atto finale di Helsinki del 1975, la
considerazione della commissione arbitrale di
Badinter e le decisioni dell’UE del 1991 e 1992,
nonché la stessa risoluzione del Consiglio di
Sicurezza 1244 (Jovanović 2005).
Un altro modo di interpretare la questione del
Rassegna critica della letteratura serba
Kosovo e Metohija è quello proposto da Dobrica
Čosić, uno dei maggiori scrittori serbi, spesso considerato il padre della rinascita nazionalista, che ha
sollevato in varie occasioni la possibilità della suddivisione del territorio della regione, considerandola un modo per risolvere il conflitto fra i serbi e
gli albanesi, senza però suscitare alcun interesse.
Egli definisce quale obiettivo principale del popolo serbo quello di “non aspirare ad una Serbia etnicamente pulita, ma liberare coloro che in compagnia del popolo serbo non si sentono liberi e che
di conseguenza limitano e inquinano la libertà
degli stessi serbi sulla loro terra” (Ćosić 1992, 176177). Già a partire da 1980, Čosić intese la questione del Kosovo e Metohija come una situazione di
conflittualità, che non riguarda solo i territori al
sud della Serbia, ma come una condizione connaturata all’essere serbo. Egli, infatti, disse: “Quasi
ogni generazione [di serbi] ha avuto il suo Kosovo.
Ci sono state le migrazioni nel Seicento e nel
Settecento, le insurrezioni e le guerre con i Turchi
nel 1804, nel 1815, nel 1876, nel 1912 e, nel 1914,
il rifiuto dell’ultimatum austroungarico; il rifiuto
della sconfitta militare nel 1915 e l’attraversamento militare serbo dell’Albania; il rifiuto del patto tripartito con la Germania il 27 marzo 1941 e l’insurrezione contro il fascismo, sempre nel 1941, e una
guerra combattuta subendo le condizioni di rappresaglia fissate dai nazisti: cento serbi per ogni
soldato tedesco; il rifiuto dell’egemonia di Stalin
nel 1948” (Ćosić 1980).
Inoltre, quando Čosić definisce il Kosovo e
Metohija quale ‘una questione europea di primo
piano’, egli mette in evidenza che il giusto modo
per tentare di risolvere la questione non può essere elaborato finché il problema delle relazioni
serbo-albanesi sarà ridotto ad una questione di
diritti umani (Ćosić 2004). “Gli albanesi in Serbia
non richiedono il riconosciemnto dei loro diritti di
minoranza, e cioè dei diritti culturali, ma al contrario vogliono ottenere dei veri e propri privilegi
politici e una serie di diritti statali particolari”
(Sekelj 1995, 88). Ciò ha significato che il ‘fattore
centrale’ è stato studiatamente trascurato; e cioè
l’aspirazione degli albanesi di Jugoslavia ad unirsi
con l’Albania per creare la ‘Grande Albania’.
Secondo Ćosić sono, dunque, le ambizioni secessioniste del movimento nazionalista albanese il
vero fondamento della loro richiesta di diritti
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umani. Da queste ambizioni discende un comportamento ostruzionistico in ogni sfera della vita
sociale: politica, culturale, dell’educazione pubblica ed economica. Ma il problema non sta nel fatto
che gli albanesi sono privati dei loro diritti culturali, politici, ecc.; il problema è semmai che a loro
questi diritti sono stati riconosciuti ma essi hanno
rifiutato di esercitarli, perché esisteva la comune
volontà di boicottare in blocco la società, senza
mai riconoscerla. La questione non fu quella di
aprire le scuole; le scuole furono già aperte; è che
hanno insistito affinché il curriculum in queste
scuole fosse uguale a quello delle scuole dello
Stato dell’Albania e che i loro diplomi fossero rilasciati in nome della ‘Repubblica del Kosovo’.
L’invocazione dei diritti umani non è nient’altro
che un’arma ideologica usata dai secessionisti e dai
loro protettori stranieri per realizzare la loro ambizione nazionale. Fino a quando non avranno ottenuto questo risultato la questione dei diritti umani
in Kosovo e Metohija continuerà ad accendersi
sempre di più e la Serbia continuerà ad essere l’unica accusata dalla comunità internazionale. “Non
ci sarà di nessun servigio far notare che gli albanesi beneficiano di diritti nazionali e umani come
nessun’altra minoranza nazionale. [...] Il Kosovo
costituirà per la Serbia un tumore maligno che la
esaurirà economicamente, bloccherà il suo sviluppo e minaccerà il suo territorio con l’espansione
demografica [degli albanesi]” (Ćosić 2004, 252).
Con un tale dilemma Čosić conclude che è necessario soddisfare le aspirazioni nazionali di entrambi i popoli, il Serbo e l’Albanese, con una divisione
territoriale pacifica ed equa.
Questa offerta non ha trovato nessun sostenitore
fra gli albanesi e non c’è al momento alcun segnale che sia attivamente perseguita neanche dai
serbi. Di per sé potrebbe essere una proposta onesta, ma essa ha comunque incontrato due tipi di
obiezioni. La comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti , ha posto il veto per ragioni di
‘analogia col passato’ e di ‘precedente’. Dividere il
Kosovo e Metohija sarebbe come andare nella
direzione opposta alla politica adottata per giustificare il riconoscimento della Slovenia e della
Croazia, considerando, quindi, i confini interni
della ex Jugoslavia come inviolabili. Quella politica
è stata il fondamento per tacciare la Serbia di
‘aggressione’ in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina
14
e pertanto non può essere facilmente abbandonata. Di più, se il Kosovo fosse diviso, perché non
anche la Macedonia, dove gli albanesi sono concentrati nelle aree occidentali e anch’essi richiedono l’unificazione in una Grande Albania? Il pericolo di stabilire un tale precedente preoccupa anche
gli stessi serbi. Supponiamo che l’etnia albanese,
grazie al suo maggior tasso di natalità, arrivi ad
ottenere la maggioranza in qualche altra parte
della Serbia; domanderanno anche lì la secessione?
(Kosovo).
Nel 1996, l’impegno dell’accademico Aleksandar
Despić e il piano di divisione più dettagliato dell’esperto per la progettazione del territorio Branislav
Krstić, che seguono le idee di Ćosić a favore della
divisione della provincia, incontrarono una forte
condanna da parte del potere di Slobodan
Milošević. Krstić fra altro, in due dei suoi libri –
Kosovo da va nti a l tribuna le della storia e Kosovo
fra il diritto storico ed etnico – con una serie di
dati, tabelle, schizzi e mappe mostra il Kosovo e
Metohija come un territorio multiculturale e multietnico importante tanto per i serbi e i montenegrini quanto per gli albanesi. La sostanza della sua
proposta è che nel Kosovo e Metohija, nella parte
del territorio in cui la Serbia non riesce ad avere un
proprio controllo diretto, si introduca un territorio
‘albanese’ con uno status particolare – ‘il territorio
della protezione di pace’, secondo il modello del
famoso piano Vance-Owen, e che le collettività storiche serbe e montenegrine si integrino con la
madrepatria. I serbi nella loro entità mantenerebbero i monumenti che sono parte indivisibile della
cultura serba e della storia nazionale quali per
esempio il Patriarcato di Peć, i monasteri di Dečani
e di Gračanica e il Kosovo Polje, compresi i relativi
territori e abitanti. Ciò non viene definito da Krstić
come una divisione ma piuttosto una riorganizzazione territoriale, e l’argomento che lo sostiene è
che in Kosovo e Metohija si debba realizzare il
diritto storico dei serbi e il diritto etnico degli albanesi. È interessante che Krstić annoti anche che,
all’inizio degli anni Novanta, questa proposta fu
consegnata ai più alti funzionari dello Stato di
Serbia e Montenegro, a Milosević e al capo di Stato
maggiore, ma senza ricevere mai alcuna risposta.
Dušan Bataković, membro del team per le trattative per il Kosovo e Metohija, è invece l’autore della
proposta di cantonizzazione della provincia. A
Ana Živković
quanto è noto, tale proposta è stata respinta prima
della guerra del 1999 dai funzionari internazionali,
e poi, sempre senza successo, hanno cercato di
realizzarla i rappresentanti serbi nel Consiglio di
transizione del Kosovo e Metohija, nonché la stessa Chiesa serbo-ortodossa. Il piano di Bataković
proponeva che le città del Kosovo e Metohija fossero sotto un’amministrazione mista serbo-albanese, e che nei cantoni fossero comprese principalmente le regioni agrarie a maggioranza serba alle
quali si sarebbero aggiunti i monasteri serbi con i
poderi che possedevano fino alla guerra del 1941,
cioè fino alla espropriazione del secondo dopoguerra. Le frontiere dei comuni verrebbero modificate per creare la possibilità di formare dei comuni più piccoli che raggruppano i luoghi e i villaggi
con popolazione a maggioranza serba (La ca ntonizza zione del Kosovo e Metohija ). “Ancora nel
1998, come storico che conosce bene il passato del
Kosovo, mi sono reso conto della continuità dei
rapporti multietnici, della loro evoluzione e dei
diversi cambiamenti, e poi come qualcuno che per
forza delle circostanze è stato attirato dentro nella
soluzione dello status politico del Kosovo, io, cercando il modo di evitare una nuova forma di scontro, che nemmeno oggi è interrotta, ho ideato il
progetto della cantonizzazione del Kosovo. Si tratta di un progetto che allora in pochi avevano sostenuto, e ci sono stati alcuni momenti molto importanti per risolvere politicamente questo duro nodo
kosovaro” (Bataković 1998, 1-2). Inoltre, egli rifiuta le critiche che considerano la cantonizzazione
una divisione del Kosovo e Metohija ed afferma:
“Le forze non democratiche in Serbia e gli estremisti albanesi hanno attaccato questo progetto come
modello che mira alla divisone. Se si vede la carta
che ho proposto, essa dimostra che va incontro
alla realtà politica. A differenza della Bosnia ed
Erzegovina, dove tutti parlano una sola lingua,
dove tutti hanno più o meno una cultura simile,
dove le differenze sono generalmente di natura
religiosa, in una società, che era, come sappiamo,
decisamente atea - in Kosovo e Metohija abbiamo
una situazione completamente diversa” (Bataković
1998, 1-2).
“Per il Kosovo e Metohija, almeno in un immediato futuro, non ci sono buone soluzioni. Esistono
solo quelle più o meno cattive. Tutta l’energia e
l’intelligenza perciò deve essere usata per cercare
Rassegna critica della letteratura serba
quelle giuste, le quali faranno male a tutti, le quali
toglieranno qualcosa a tutte le parti, ma offriranno
loro anche qualche vantaggio. Se l’estremismo, l’esclusività, l’estrema intolleranza, che sempre più
compaiono sulla scena pubblica, prevarranno, allora addio Kosovo, ma addio anche alla Serbia, addio
alla civilizzazione, addio al futuro” (Danas,19
marzo 2003).
La Chiesa serbo-ortodossa: breve inquadramento storico e suo ruolo negli eventi del
Kosovo e Metohija
La storia si deve interpellare anche per mettere in
luce le radici della Chiesa serba nel Kosovo e
Metohija e conoscere certi fatti del lontano passato
che giustificano le motivazioni del suo atteggiamento di difesa del popolo serbo in questa regione.
La Chiesa serbo-ortodossa ha le sue origini nell’opera missionaria partita da Costantinopoli nella
seconda metà del IX secolo, da cui si è sviluppata
una cultura bizantino-slavica. La prima parziale
indipendenza ecclesiastica della Serbia si è avuta
sotto il primo arcivescovo del Paese, San Sava
(1176-1235), e quindi, nel 1375, il riconoscimento
come Patriarcato. Poiché è solo la memoria storica,
tra i serbi fortemente, se non esasperatamente,
impressa, a facilitare la comprensione della loro
fede religiosa e della loro nazione, conviene ricordare una data fatale, il 28 giugno 1389, per poi fare
cenno ad un periodo cruciale, il 1918-20. Senza
questi riferimenti l’Ortodossia serba contemporanea sarebbe inintelligibile. Poiché questa Chiesa ha
storicamente garantito la continuità della tradizione nazionale e culturale serba, essa si sente ancora
oggi responsabile dei suoi destini storici, particolarmente nelle aree di crisi, quale quella del
Kosovo e Metohija, dove dopo un periodo relativamente breve di libertà, 1919-1941, le espulsioni
in massa dei serbi sono state riprese sotto la bandiera dei conquistatori italiani, tedeschi e bulgari;
da allora le violenze perpetrate contro la popolazione serba di questa regione non sono più cessate, essendo applicato nel periodo storico successivo un piano di albanizzazione e islamizzazione che
presupponeva e tuttora presuppone l’annientamento dell’identità serba con l’aiuto di tutto l’arsenale del genocidio: omicidi, espulsioni ed una
costante eliminazione della coscienza storica.
15
Le disgrazie della Chiesa serba nel Kosovo e
Metohija hanno seguito le disgrazie del suo popolo in tutti i momenti fondamentali e le condizioni
di sopravvivenza per la Chiesa serbo-ortodossa,
dopo l’ondata di islamizzazione, divennero durissime, provocando il ritiro del patriarca nella Serbia
della Morava, nella Despotovine, cosicché, tra la
fine del XV secolo e l’inizio del XVI, l’organizzazione della Chiesa serba conobbe la sua più grave
crisi. Solo nel 1557, il ripristino del Patriarcato di
Peć mise la Chiesa serba di nuovo, anche se per un
periodo limitato, in grado di veicolare la spiritualità organizzata del popolo, in assenza di guide politiche - in posizione, dunque, di protezione e di
guida. Nello stesso tempo, la Chiesa venne esposta
alle pressioni, alle brutalità e al terrore cronico con
cui il potere ottomano tentava di eliminare l’emergere di aspirazioni alla libertà nella popolazione.
Nel corso di questi 200 e più anni, fino alla soppressione del Patriarcato nel 1776, la Chiesa serba
subì una serie di colpi, ma si sforzò continuamente a preservare tutti i centri e tutte le testimonianze della spiritualità, il che implicava, anche, preservare la coscienza storica del popolo serbo.
Dopo la soppressione del Patriarcato e la completa sottomissione dell’Ortodossia serba ai fanarioti,
nobili ottomani di cultura greca, la Chiesa serba
rinasce all’indomani delle lotte nazionali per scuotere il dominio turco. Quasi venticinque anni di
ribellione e di guerra consentono ai serbi di acquisire nel 1829 un’indipendenza quasi completa
dall’Impero Ottomano. Nel 1831, come conseguenza della libertà politica, la Chiesa strappò al
Patriarcato di Costantinopoli uno statuto di autonomia, ossia la libertà di scegliere i propri vescovi
d’intesa con le autorità civili della nazione.
Tuttavia, le gerarchie ecclesiastiche serbe restarono formalmente soggette al Fanar, sede della
comunità greca e del patriarca di Costantinopoli, il
quale continuava a ricevere dalla Chiesa serba
onori primaziali e tributi in denaro.
L’indipendenza piena dai sultani venne alla Serbia
con il Congresso di Berlino del 1878.
Immediatamente il metropolita della Chiesa, sostenuto dal governo di Belgrado, esige dal Fanar l’autocefalia, ovvero una condizione di indipendenza
nella parità rispetto alle altre Chiese ortodosse e
l’autocefalia venne concessa nello stesso 1878.
Durante le guerre balcaniche del 1912-1913 il ter-
16
ritorio serbo si accresce notevolmente al Sud: parti
del Sangiaccato, del Kosovo e della Macedonia, si
aggiungono alle terre su cui Belgrado già è sovrana. Gli ortodossi di queste regioni annesse, in
parte serbi o serbo-montenegrini ed in parte di
nazionalità ancora incerta, come gli slavi della
Macedonia, vengono tutti considerati sudditi spirituali della Chiesa serba. Malgrado i contrasti con le
autorità governative, di formazione talora positivistica e occidentalizzante, di cultura non affine a
quella delle gerarchie ecclesiastiche, e soprattutto
convinte della necessaria sottomissione della
Chiesa allo Stato, l’Ortodossia della Serbia fino alla
Prima Guerra Mondiale conosce una graduale
ripresa di forze e di strutture, il cuore della quale è
il monachesimo, provvisto degli antichi monasteri–fortezze, nonché del prestigioso Hilandar, l’unico cenobio serbo sull’Athos.
Nel 1918 si costituisce il Regno dei serbi, croati e
sloveni - SHS, fondendo in unità politica le distinte
monarchie di Serbia e Montenegro con Slovenia,
Croazia e Bosnia già facenti parte dell’Impero
Asburgico, dissolto dalla sconfitta bellica. Il maggiore impulso per la formazione del Regno SHS,
che dal 1929 si sarebbe chiamato Jugoslavia, viene
dai serbi, i quali nel nuovo Stato degli slavi del Sud
costituiscono la nazionalità egemone. “La Prima
Guerra Mondiale ha comportato per tutte le comunità religiose e, quindi, anche per l’autocefala
Chiesa serbo-ortodossa una situazione piena di
incertezze e difficoltà. Già durante la Conferenza di
Corfù del 1917, dedicata alla formazione del primo
Stato jugoslavo, alla quale furono presenti sia i rappresentanti del governo serbo sia quelli dell’opposizione, fu messo in luce che nel futuro Stato di
Jugoslavia sarà sancita l’eqiparazione dei diritti e
degli status tra le diverse fedi” (Mirković 1988,
355). Al sorgere del nuovo Stato, la Chiesa si presenta divisa in cinque componenti, o cinque giurisdizioni, corrispondenti alla diaspora serba nei
Balcani alla vigilia della Prima Guerra Mondiale.
Sull’onda dell’entusiasmo e della volontà unitaria
espressa con la fondazione del Regno SHS,
l’Ortodossia serba riesce in breve tempo ad unificarsi e ad ottenere dalla sede di Costantinopoli la
qualifica di ‘patriarcale’. “Fu solo con la formazione del SHS che si crearono le reali condizioni per
l’unificazione delle fino allora sparse Chiese serboortodosse autocefale ed autonome.” (Slijepčević
Ana Živković
1991,5). Le cinque componenti che confluiscono
nell’obbedienza al ripristinato Patriarcato di Peć
esprimono la complessa storia civile e religiosa dei
serbi, ed è la Chiesa che in certo senso vanta la
continuità storica con le origini del Cristianesimo
tra i serbi. Tuttavia, nonostante l’avvento della
libertà, le sciagure della Chiesa serbo-ortodossa
sono continuate. Il suo rinnovamento si scontrava
con grandi difficoltà, con i conflitti permanenti con
i vicini albanesi e con l’incomprensione e la cattiva
volontà del nuovo potere.
Durante la Seconda Guerra Mondiale l’espulsione
dei serbi e della Chiesa serba dal Kosovo e
Metohija assunse dimensioni ancora più notevoli e
anche dopo la liberazione della regione, nel 1944,
le sofferenze della Chiesa serba non sono purtroppo cessate. I proclamati principi di uguaglianza
nazionale e di libertà di confessione avrebbero
dovuto permetterle una ripresa pacifica ed uno sviluppo nella libertà: la Chiesa serba è divenuta,
invece, il bersaglio non solo dello sciovinismo albanese rinascente, ma anche di un comportamento
fazioso da parte dei politici e degli organi del potere a tutti i livelli, da quello locale fino alle istanze
superiori; lo sradicamento ‘dell’egemonia della
Grande Serbia’, proclamato come uno degli obiettivi principali della politica nazionale jugoslava
dopo la guerra, presupponeva anche numerosi
limiti alla vita e all’attività della Chiesa. Gli anni dal
1941 al 1945 sono, dunque, considerati dai serbi
tra i più tragici della loro storia. “La Seconda
Guerra Mondiale ha avuto delle conseguenze catastrofiche per la Chiesa serbo-ortodossa, non solo
per le sofferenze di un gran numero di fedeli e per
la divisione della Chiesa che seguiva alla divisione
del Paese, ma anche perché di fatto essa non è
riuscita a svolgere le proprie funzioni durante questi anni di guerra, che provocarono, quindi, un
periodo di discontinuità” (Radić 2005, 182). Nello
Stato ustascia croato di Ante Pavelić l’elemento
serbo ha subito una radicale persecuzione etnica,
e conseguentemente anche religiosa. Ma anche
nel Kosovo e Metohija, assegnato dall’Asse alla
Grande Albania si è attuata una pulizia etnica ai
danni dei serbi.
Seguì la Jugoslavia di Tito con un indirizzo anti-religioso in forza della dottrina marxista che informa
la dirigenza dello Stato. La divisione della
Jugoslavia in sei repubbliche autonome prefigura
Rassegna critica della letteratura serba
una nuova diaspora dei serbi, sparsi tra Serbia, a
sua volta frazionata in Serbia, Kosovo e Metohija e
Vojvodina, e tra Bosnia, Croazia, Montenegro e
Macedonia. La Chiesa serbo-ortodossa rimase però
indivisa, una per tutta la Jugoslavia, con il centro
nel Patriarcato belgradese. Negli anni di Tito, tuttavia, non si costruirono nuove chiese ortodosse e i
credenti furono sfavoriti dalla pubblica amministrazione e a volte apertamente discriminati. “A partire
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e più precisamente dalla fondazione dello Stato federativo
socialista di Jugoslavia le attività di tutte le comunità religiose e, dunque, anche della Chiesa serboortodossa, si svolsero nell’ombra della dottrina
dominante socialista, impregnata di ateismo, che
cercò sempre di lasciare poco spazio a tutti gli elementi religiosi” (Slijepčević 1991, 382).
Successivamente, a partire dalla metà degli anni
Cinquanta, si stabilisce un modus vivendi fra Stato e
Chiesa ortodossa. Negli anni Sessanta la Chiesa
ortodossa di Jugoslavia, se confrontata con altre
Chiese ortodosse dell’Est europeo, può considerarsi libera, avendo i contatti internazionali che desidera, mentre la rigorosa separazione fra Stato e Chiesa
favorisce una certa libertà religiosa e di culto.
La crisi della Jugoslavia, fino alla guerra interetnica
scoppiata nel 1991, vede la Chiesa ortodossa solidale con l’etnia a cui fa riferimento. Il principio dell’unità tra Chiesa ortodossa e nazione venne quindi riconfermato. Di fronte alla crisi degli anni
Novanta i serbi hanno creduto di trovarsi all’ennesima tragica svolta del loro destino. Nei croati e
musulmani avrebbero visto, per dirla con le parole
del vescovo Danilo Slavko Krstić, “la stessa
Alleanza Musulmano Cattolica del tempo dell’occupazione di Hitler”, ed avrebbero reagito con le
armi, con maggior certezza di martirio che di vittoria, come già nel 1914 e nel 1941 avevano reagito
agli ultimatum austriaci e tedeschi senza certezze
di vittoria. La guerra scoppiata nel 1991 offre, infatti, nuovi motivi all’apocalittica dei serbi.
Offuscando la vera natura delle guerre in Croazia,
Bosnia ed Erzegovina e nel Kosovo e Metohija, la
propaganda del regime ha, tra le altre cose, accentuato il carattere religioso di queste guerre, fatto
che ha ulteriormente posto la Chiesa quale una
delle colonne portanti della omogeneità nazionale.
“La guerra non fu sicuramente scoppiata a causa
della religione, ma la religione ha comunque servi-
17
n.17 / 2007
to da unica differentia specifica grazie alla quale i
popoli etnicamente affini riuscirono ad articolare i
motivi per il proprio odio” (Stojković 1994, 25-29).
I serbi considerano la dissoluzione della Jugoslavia
come il prodromo di nuove persecuzioni del loro
popolo, precipitato alla situazione antecedente il
1918 e di nuovo costretto alla diaspora, entro quattro diversi Stati ritagliati sulla base dei confini
amministrativi delle vecchie repubbliche titine,
non corrispondenti alla distribuzione etnica della
popolazione. Dunque, si torna allo spirito del
1389, inteso come la resistenza serba all’annientamento. Si tratta, dunque, ancora una volta di salvare il popolo serbo quale ‘popolo celeste’ in forza
della sua fede e della sua tragica storia di martirio.
Oggi, come in età medievale, l’Ortodossia rimane
l’elemento fondante della ‘serbitudine’, forse il più
autentico, di certo quello provvisto di maggiore
tradizione storica.
Il ruolo etnogenetico della religione serboortodossa
Di fronte a tutti i fatti della tragedia del popolo
serbo nel Kosovo e Metohija la Chiesa serbo-ortodossa ha avuto sempre un ruolo importante. Quasi
sempre essa è stata la prima a farne le spese. Le sue
chiese, i suoi monasteri e i suoi beni, e così pure i
suoi sacerdoti, i suoi monaci e i suoi vescovi, sono
sempre stati i primi a subire i maltrattamenti e l’umiliazione, ogni volta che si verificava una nuova
offensiva dell’imperialismo albanese (Il libro sul
Kosovo). Così facendo, il nemico non commetteva
errori nella scelta dei suoi obiettivi, ma dimostrava
egli stesso che la Chiesa serba fa parte in modo inalienabile, sia da un punto di vista spirituale che
morale, dell’identità nazionale del popolo serbo,
quale il pilastro ed il bastione della sua sopravvivenza. Non è mai stata intrapresa una guerra contro i Serbi senza un’aggressione contro la Chiesa
serba. Non si tratta, dunque, di un atteggiamento
della Chiesa con cui essa si imporrebbe da sé,
senza esservi chiamata, come attore politico degli
avvenimenti del Kosovo e Metohija; non si tratta
neppure di un qualunque clerical-nazionalismo
serbo. Fin dall’inizio la Chiesa serba è stata il bersaglio dell’aggressione grande-albanese, come
pure è stata il bersaglio di tutte le aggressioni contro l’integrità del popolo serbo. Il suo trionfo spiri-
18
tuale sta in quello che da serbi viene definito ‘la
scelta del Kosovo’: non si tratta di una glorificazione della morte e della disfatta; al contrario, si tratta di una superiorità dello spirito, del sacrificio,
dell’amore e della vita. È con questa eredità spirituale che la Chiesa visse ed operò nei tempi oscuri della schiavitù e delle estorsioni turche in
Kosovo e Metohija. Lo scopo principale della
Chiesa è stato sempre quello di salvaguardare l’integrità spirituale del popolo, e ciò vuol dire, prima
di tutto, la sua coscienza e la sua morale. È così che
si è formata una considerevole forza di resistenza
che, in funzione delle reali circostanze storiche, si
è manifestata in maniera tangibile ed attiva, e
anche in modo politico.
L’importanza attribuita all’appartenenza religiosa
in Serbia e nei Balcani in generale ha le proprie
ragioni storiche. Su di essa si sono però divisi molti
storici. Alcuni sostengono che, poichè l’Impero
Ottomano ‘tollerava’ la libertà di religione, la
Chiesa ha rappresentato per molti popoli l’ultimo
rifugio della libertà culturale ed il garante dell’identità etnico-culturale, in altre parole, essa era il
segno distintivo delle varie tradizioni. “La Porta è
stata tollerante dal punto di vista giuridico nei confronti della fede ortodossa e sui territori conquistati ha mantenuto le istituzioni e i rappresentanti
delle comunità religiose” (Mirković 1988, 344). I
legami etnici e religiosi in questi Paesi non avevano avuto però un equivalente territoriale, cosicché, inevitabilmente, gli individui e i gruppi di
diverse origini etniche e religiose venivano mescolati e correlati, ciascuno quale portatore di una cultura distinta.
Altri, come Slavenko Terzić, che considera il fattore religioso quale l’elemento che abbia da sempre
avuto un ruolo fondamentale, anche dal punto di
vista territoriale, nella storia del popolo serbo,
come anche nella storia dei Balcani e dell’intera
Europa, hanno, invece, ritenuto che fra i popoli
dominati, la fede dell’Islam si affermò con l’imposizione forzata e con le promesse di privilegi sociali, trovando un terreno particolarmente fertile in
Bosnia e in Erzegovina. Questi fatti sono importanti anche per capire che l’Islam nei Balcani è
ancorato ad una plurisecolare memoria di dominazioni subite, che ha giocato non poco nel definire
in seguito, e fino ai giorni nostri, i rapporti e i confini teritoriali, anche in modo drammatico.
Ana Živković
Inoltre, vale la pena ricordare che, dopo il soggiogamento della Serbia, il processo dell’etnogenesi
serba si trasformò profondamente. Da una parte la
Chiesa serbo-ortodossa diventò un surrogato per
l’indipendenza nazionale perduta, mentre dall’altra parte tutte le popolazioni di religione ortodossa in Bosnia, Croazia ed Ungheria, incominciarono
a sentirsi serbi. Così nell’etnia serba, come nel più
noto esempio degli ebrei, la religiosità acquistò un
importante ruolo etnogenetico e il territorio del
Kosovo e Metohija diventò Gerusalemme serba,
nel senso di quella parte della terra di valore simbolico a cui il popolo non può rinunciare, senza
essere prima distrutto. È possibile che l’emozione
che i serbi sentono riguardo al Kosovo e Metohija
sia paragonabile a quella che gli ebrei sentono per
Gerusalemme? Nonostante ogni cittadino serbo,
senza eccezione, parli del Kosovo e Metohija come
gli israeliani parlano di Gerusalemme – non esiste
Israele senza Gerusalemme, e non esiste Serbia
senza il Kosovo – il mondo occidentale ha spesso
cercato di minimizzare questo sentimento e le
ricerche scientifiche non hanno ancora enfatizzato
abbastanza il significato della religiosità nella formazione dell’identità nazionale serba, specialmente nel periodo di rinascimento nazionale del XIX
secolo. La stessa integrazione nazionale serba
viene considerata come un problema di rapporto
esistente tra i fattori etnici e religiosi. Infatti, è proprio in seguito alla conquista dell’Impero
Ottomano che i serbi entrarono in un’epoca multicentennale di dominazione straniera, durante la
quale le divisioni religiose divennero così profonde da non poter essere ricucite neanche durante il
processo della costituzione dello Stato serbo
moderno.
Quel connubio così stretto tra l’appartenenza religiosa e quella nazionale che appare come tratto
tipico delle questioni jugoslave non si deve considerare come un fatto ineluttabile. L’appartenenza
religiosa si è come fusa con quella nazionale, o
etnico-culturale, e ha costituito uno stile di vita
compatto in cui il singolo si trova nativamente
inserito. Comprendere questo processo, nonché il
dato attuale, per cui i due fattori, di per sè contrapposti – il sentimento nazionale particolaristico
e l’appartenenza religiosa universalistica - si sono
fusi, può forse consentire lo sviluppo di un modello di spiegazione che facilita il superamento della
Rassegna critica della letteratura serba
situazione attuale. “Il Cristianesimo e, dunque,
anche l’Ortodossia e altre religioni universalistiche
vengono rappresentati quali sistemi monoteisti
che di fronte alle determinate condizioni culturali,
economiche e sopratutto quelle politiche hanno
contribuito alla formazione dei sentimenti nazionali ed etnici; a differenza di quelle cattoliche, le
Chiese ortodosse si configurano quali chiese
nazionali e vengono quindi considerate dal popolo serbo quale una delle rappresentazioni più
importanti della loro identità etnica e nazionale,
unificando in tal modo l’appartenenza religiosa e
quella nazionale” (Bandić 1992, 63-69).
La religiosità dei serbi
I motivi di contrasto, sviluppatisi fra l’Oriente e
l’Occidente cristiani, in seguito alle diverse strade
percorse dalla grecità orientale e dalla latinità occidentale, possono offrire una spiegazione della
situazione di attrito creata nell’epoca moderna.
“Quando l’Impero serbo aprì le proprie porte
all’Impero della Cristianità, la religione ebbe un
impatto positivo sul popolo serbo, ma già a partire
dal secolo successivo iniziò ad abusarsi della stessa
per fini politici” (Deretić 2005, 56). Jovan Deretić
ritiene che sia Costantinopoli che Roma, contrassegnando un limite, culturale e psicologico oltre
che politico, fra l’Oriente e l’Occidente, cercavano
da una parte di affermare, mediante la religione, la
propria supremazia politica in quest’area, dall’altra
di soffocare, mediante la Chiesa, la coscienza e la
cultura serbe. Ed è a tal punto che i serbi cominciarono a combattere per l’equiparazione dei diritti nei confronti di questi due poli di influenza; la
situazione di ostilità è durata per più secoli e ha
avuto come conseguenza principale il rallentamento della diffusione del Cristianesimo tra i serbi del
Nord e della Serbia centrale. Solo con lo sviluppo
dello ‘Svetosavlje’ – culto di Sveti Sava, essi diventarono degli equiparati di diritto nella Chiesa cristiana e cominciarono a concepire il cristianesimo
come qualcosa di non estraneo ed ostile, ma come
un punto d’appoggio, quale opposizione contro
gli elementi di dominazione, quali diventeranno
quelli dell’Impero Ottomano (La nostra vittoria –
per il presente e il futuro della Serbia ).
Nell’analisi del cristianesimo serbo-ortodosso
risultano di particolare interesse le tesi di Veselin
19
n.17 / 2007
Čajkanović, secondo il quale la concezione attuale
della religione trova le sue origini nel passato degli
slavi del Sud, il paganesimo dei quali non si sviluppava, come quello antico, in modo ininterrotto
verso il monoteismo, ma ha subito attraverso il
processo della cristianizzazione una certa repressione, a volte adattandosi in modo forzato alle
richieste della Chiesa d’Oriente o di quella occidentale. Attraverso il metodo comparativo, utilizzando anche quello filologico e storico, Čajkanović
afferma che alcune forme religiose del popolo
serbo risultano preesistenti a quelle antiche, e considera la religione serba come prevalentemente
precristiana e quindi pagana. La constatazione che
il popolo serbo rimase fino ai tempi moderni attaccato alla fede pagana venne dimostrato anche dal
fatto che le feste più significative rimasero invariate. Seguendo questa prospettiva si giunge alla conclusione che la religione nella società serba viene
considerata più come uno fra i tanti elementi che
costituiscono la tradizione di questo popolo, che
non come l’insieme dei riti e delle cerimonie che
caratterizzano un culto religioso (Il mito e la religione dei serbi ).
Una riflessione sulle Chiese ortodosse appare
opportuna oggi anche al fine di capire il profilo
dell’esperienza religiosa, specialmente nei Paesi
post-comunisti, dove la coscienza soggettiva non è
in grado di allacciarsi alla identità collettiva della
memoria. Con l’implosione del socialismo, si
venne a formare la crisi dell’identità delle società
ex-socialiste, e non è quindi casuale il rinnovamento, o meglio la regressione alla iniziale, primordiale matrice religiosa e ai meccanismi di solidarietà tradizionale. I principi dell’ideologia comunista vennero ricambiati con quelli di etno-nazionalismo. Le ‘nuove società’ e i gruppi etnici esistenti all’interno di esse ricercarono, nelle fasi di
crisi acute, attraverso i moduli culturali antichi, le
basi per rinnovare la propria identità. Nasce così la
strumentalizzazione dei moduli religiosi ed una
riduzione tradizionalista dell’identità nazionale e
culturale, senza lo sforzo di dare una risposta più
moderna alle nuove sfide; un fenomeno non soltanto postmoderno, ma anche anti-moderno, e in
altre parole, distruttivo e retrogrado. “Il modo di
reintrodurre i moduli religiosi dell’Ortodossia con
troppo sentimentalismo non ha permesso alla
società di avere un confronto obiettivo con la real-
20
tà e di conseguenza di adattarsi in modo sistematico e razionale ai cambiamenti della stessa” (Jerotić
1995, 129).
Si deve aggiungere che la società realsocialista
jugoslava, ha sperimentato per quasi mezzo secolo, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il processo
della ‘spiritualizzazione della politica’, ossia l’iperpoliticizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale,
religione compresa. In questo contesto, in un
periodo di forte secolarizzazione della società, la
religione ha subito un’autoritaria pressione dell’ideologia, che le attribuiva un connotato quasi
negativo. Perciò, nel periodo successivo alla sua
rivitalizzazione, si ebbe inevitabilmente una controtendenza nella vita spirituale, ma la valorizzazione positiva ed insistente della tradizione e del passato religioso ha comportato in aggiunta un blocco
nel processo della modernizzazione e l’abuso del
legame esistente tra la religione e la politica. E
nelle analisi sulla religiosità dei serbi questo legame rappresenta un tema ricorrente. Specialmente
nell’ultimo decennio, la religione e la politica
hanno vissuto una particolare simbiosi, tanto evidente che alcune volte è difficile capire quale delle
due abbia predominato sulla scena pubblica. La
Serbia, infatti, non è che l’esempio più estremo di
come le società post-comuniste nei Paesi ortodossi si siano, in una certa misura, rimodellate su una
rinnovata sinergia di identità religiosa e di identità
nazionale, agevolata dalla particolare struttura
‘nazionale-autocefala’ delle Chiese cristiano-ortodosse. Se a ciò si dovesse aggiungere la caratteristica specifica della popolazione serba di vivere i
fatti politici in maniera quasi tragica, non è un caso
che siano cresciute le aspettative secondo le quali
la religione, attraverso la riaffermazione dei suoi
valori fondamentali, dovrebbe facilitare la riconciliazione del popolo e il consolidamento della pace,
soprattutto attraverso la riaffermazione di valori
indiscussi quali morale, tolleranza e convivenza.
Per parlare della religione e del suo rapporto con
la società, così come con la politica, è d’obbligo
tornare al passato remoto. L’ex Repubblica socialista di Jugoslavia era stata fondata sui principi della
Rivoluzione francese e sulla base di una netta divisione tra Stato e Chiesa. Ogni costituzione della ex
Jugoslavia ha considerato l’appartenenza religiosa
come un tratto privato e il numero dei fedeli,
come anche degli atei, non è dato conoscerlo in
Ana Živković
nessun documento scritto. Nel ‘91 le diverse identità religiose cominciano, invece, a rappresentare
l’unica differenziazione tra le singole società: le lingue avevano le stesse radici e le differenze più evidenti esistevano solo nella scrittura, ma cirillico e
latino convivevano in modo pacifico. È opportuno
specificare che le odierne lingue letterarie dei singoli Stati – Serbia, Montenegro, Croazia e BosniaErzegovina - nati dopo la dissoluzione della
Jugoslavia appartengono alle lingue slave, uno fra i
tre raggruppamenti più grandi della famiglia di lingue indo-europee, e sono fra di loro molto più
comprensibili che non quelle appartenenti al gruppo di lingue germaniche o romaniche; nel medioevo le differenze fra le lingue slave erano pressoché
irrilevanti. Il serbo o croato appartiene a questo
gruppo e nello Stato della Jugoslavia era la lingua
ufficiale, oltre alla lingua slovena e quella macedone. Dal punto di vista genetico-linguistico, la lingua
serbo-croata venne formata da singoli dialetti,
comprenisbili tra di loro senza difficoltà e parlati
nelle diverse aree dello Stato. Oltre ad essere utilizzata dai serbi, montenegrini e croati, essa è
anche la lingua dei musulmani slavi della Bosnia ed
Erzegovina. “Prima della costituzione dello Stato
jugoslavo, durante l’intero XIX secolo, i rappresentanti più stimati della cultura serba e di quella croata tendevano alla creazione di una lingua letteraria
comune e solo in un momento successivo il popolo croato ha incomincato ad apportare delle modifiche, seguendo la ‘variante occidentale’ della lingua serbo-croata e adottando appositamente un
certo numero di nuovi termini, con il preciso
scopo di ottenere lo status di una lingua letteraria
distinta da quella serba” (Piper 2000, 116). Anche
gli stili di vita nella maggior parte delle regioni
erano quasi identici, perché l’urbanizzazione e la
migrazione all’interno dello Stato di Jugoslavia avevano prodotto una sostanziale omogeneità e un
processo di assimilazione molto forte; l’identità
religiosa è diventata, dunque, ciò che ha permesso
il riconoscimento immediato dei singoli.
Per di più, questo continuo riferirsi all’identità religiosa ortodossa si ritrova, nel periodo post-bellico
all’interno della nuova società serba, nei comportamenti delle diverse correnti politiche. Bisogna
ribadire che somiglianze molto forti si trovano nell’atteggiamento di tutte le élite politiche della ex
Jugoslavia dove immancabilmente i simboli religio-
Rassegna critica della letteratura serba
si sono diventati fondamentali per la definizione
delle identità collettive dei nuovi Stati, anche se le
questioni religiose non hanno nemmeno nominalmente rappresentato una causa di disintegrazione
della Jugoslavia e la religione ha servito piuttosto
da unica differenza evidente mediante la quale i
popoli etnicamente vicini riuscirono ad articolare
le cause molto più profonde per i propri conflitti.
Nell’analisi di Čedomir Čupić, professore di antropologia politica e sociologia dell’Università di
Belgrado, si mette bene in luce che all’inizio degli
anni ‘90 la Chiesa serba ha avuto ampio spazio sui
media e nella vita pubblica in generale, dopo i lunghi anni di marginalità. Con l’uscita dei comunisti
dal governo, nello Stato unitario si arriva in breve
tempo al risveglio della coscienza religiosa. I partiti politici, ma anche i capi religiosi, diventati velocemente protagonisti di una grande popolarità,
sfruttano la religione come ombrello sotto il quale
realizzare la propria affermazione. Quindi, in una
condizione di conflitto armato, quale uno scenario
politico particolare, la religione è andata oltre le
sue funzioni in quanto tale e ha acquisito elementi politici e viceversa. Fiancheggiando Slobodan
Milošević, una parte della gerarchia ecclesiastica ha
conquistato un ruolo centrale con la speranza di
ottenere la restituzione delle proprietà sotratte dal
aregime di Tito. Diventata, invece, uno strumento
del potere politico, verso il 1996-97 essa ha cambiato atteggiamento e si è avvicinata all’opposizione politica, seguendo così il percorso fatto dal
resto della società serba. Fu così che la religione
tornò ad essere il primo fattore di differenziazione
sociale, in alternativa alla mancata diversità nella
lingua e nelle origini. Fu così che i rappresentanti
religiosi e clericali all’improvviso riapparvero a
fianco delle élite nazionali politiche ed intellettuali, come esponenti di prima fila dei nuovi movimenti (La politica e il ma le). Seguendo questa
linea il sociologo della religione, Mirko Ðorđević
spiega che la devozione alla Chiesa ortodossa in
Serbia è stata spesso un motivo di avanzamento di
carriera politica, quasi come lo fu, a suo tempo,
l’appartenenza al Savez del partito comunista.
“Non c’è partito, dalla destra alla sinistra, che non
compete con gli altri per avere la benevolenza
della Chiesa e i politici non esitano a sottolineare
la propria fedeltà all’Ortodossia”; secondo
Ðordević “il coinvolgimento della Chiesa nella
21
n.17 / 2007
politica è evidente a partire del 1989, quando salì
sul potere Slobodan Milošević. Da allora la Chiesa
acquistò il ruolo di forza politica di primo piano,
appoggiandosi alle strutture di destra tradizionalista della società”. Inoltre, Ðorđević mette in rilievo
la clericalizzazione della società e della vita pubblica in generale. “La Chiesa serbo-ortodossa, invece
di impegnarsi di più nel processo di evangelizzazione, il quale potrebbe comportare dei benefici
sia alla Chiesa sia alla società serba, ha intrapreso
l’attività della clericalizzazione, coinvolgendo tutti
gli ambiti della vita pubblica, dalla scuola ai media”
(Ðorđević 2001, intervista a Zarez n.70-71). Contro
queste affermazioni si esprime, invece, Slobodan
G. Marković che, ponendosi di fronte la questione
della clericalizzazione della Serbia, cerca di dare
una risposta alla seguente domanda: si tratta di un
mito o della realtà? Per realizzare la clericalizzazione di una società democratica è necessario, secondo l’autore, realizzare almeno le tre seguenti condizioni basilari: il numero di credenti istituzionali
deve superare la metà della popolazione; deve esistere una tradizione storica di forte spirito clericale e la Chiesa, come istituzione, deve possedere
abbastanza forza economica e politica da imporsi
nei confronti dello Stato quale un partner eguale o
superiore. Tuttavia, nessuna di queste condizioni è
stata realizzata in Serbia; infatti, i credenti istituzionali rappresentano soltano 8,5% dell’insieme di
ortodossi; nel XIX e nel XX secolo è sempre stato
lo Stato a governare sulla Chiesa e mai viceversa; e
la Chiesa serbo-ortodossa non ha mai rappresentato un attore economico di particolare importanza.
L’autore conclude quindi che si tratta piuttosto di
un mito (Clerica lismo in Serbia : mito o rea ltà ).
Uno dei dubbi strategici del popolo serbo, manifestatosi durante il periodo del recupero degli elementi religiosi rimane allora quello di capire se il
ritorno ostinato alla tradizione storica e religiosa
avesse impedito più che aiutato la conservazione
di essi come popolo e lo sviluppo civile verso una
società moderna europea. “La Chiesa dovrebbe
diventare la colonna portante per la nazione e per
lo Stato, nonché la prima difesa dell’identità serba,
ma è anche necessario cambiare lo status di questa
istituzione. La Chiesa, infatti, non può essere una
creazione privata ed indefinibile, ma un’istituzione
statale con un ruolo ben definito, perchè fu la storia stessa a dimostrare che la separazione della
22
Chiesa dallo Stato produsse per il popolo serbo le
stragi più grandi” (Deretić 2005, 59).
I mutamenti psicologici nell’identità serba
Analizzando una serie di situazioni geopolitiche
particolarmente sfavorevoli che hanno circondato
per più secoli la storia dello Stato serbo e i limiti
causati da una formazione statale quale quella
della ex Jugoslavia, nello sviluppo dell’identità del
popolo serbo si percepisce l’intreccio delle identità nazionali e soprannazionali che ha caratterizzato
l’intera area dei Balcani. In particolare in Serbia, la
quale ha sviluppato il concetto di nazionalità in
contrapposizione alle dominazioni degli Imperi
turco ed austro-ungarico, l’identificazione del
popolo si delinea come una rivendicazione dell’autonomia nazionale, territoriale o meno. Vista la
difficoltà, in genere, di accettare come definitivi i
confini statali, e nel caso jugoslavo ancor più quelli interni, la legittimità territoriale della nazione
viene rapportata alle tradizioni del passato, invocate quali fonti determinanti per l’attribuzione di una
regione a questa o a quella comunità etnica.
Sforzandosi di definire il carattere dei serbi, gli studiosi sono riusciti ad accordarsi su un solo punto:
carattere dominante della Serbia è l’idea di eroismo, un concetto filtrato dalla storia, forse determinato dal fatto che tutto ciò che si è mai potuto
ottenere in questo Paese è stato pagato con il sangue. Ed in tale ottica viene percepito anche il territorio, che per un serbo non rappresenta una proprietà ma l’identità stessa, la vita. È il luogo di
espressione e libertà da difendere fino all’ultima
stilla di sangue.
Volendosi concentrare sul tema della ‘carattereologia nazionale’ del popolo serbo risulta utile l’analisi dettagliata del libro Ca ra ttere come destino
dell’antropologo ed etnologo Bojan Jovanović. Egli
ha cercato di analizzare il delineamento delle caratteristiche dei serbi mediante l’analisi delle concrete circostanze socio-culturali, durante il succedersi
delle quali gli elementi nascosti dell’identità collettiva venivano progressivamente riscoperti. I cambiamenti, ai quali venivano esposti i serbi durante
l’intero corso storico, mostrano, infatti, una serie
di tratti tipici del carattere nazionale serbo che si
formarono attraverso una molteplicità di periodi
storici, tra cui i più significativi vengono considera-
Ana Živković
ti i seguenti: il periodo pre-cristiano, il periodo
medievale dell’autonomia statale, quello della
dominazione ottomana, quello del rinnovamento
dello Stato nel XIX secolo e, infine, quello della
dissoluzione dello Stato di Jugoslavia; ciascuno fra
questi intervalli di tempo ha causato una forte discontinuità nelle tradizioni e nell’essere del popolo
serbo, producendo uno status colletivo caratterizzato dall’assenza di un modulo culturale preciso e
da una mentalità che viene definita dall’autore
come ‘transitiva’. Il lato positivo di tale mentalità è
l’enorme vitalità nell’auto-affermazione, mentre
quello decisamente negativo risiede nello stato di
anarchia che essa produce, dacché consegue
anche una sfera politica fortemente instabile
(Ca ra ttere come destino).
La ricerca dell’identità serba è stata sin dall’inizio
caratterizzata dal fatto che essa fu sempre fissata in
modo da contrapporsi ad un’alterità sia dal punto
di vista etnico e religioso sia dal punto di vista politico ed economico. Questa contrapposizione culturale si è formata inizialmente con il processo di
“islamizzazione di una parte della popolazione
autoctona, che condusse ad un lungo periodo di
coesistenza di due identità sociali, la differenziazione delle quali diventò attraverso i secoli alquanto relativa: si formarono, infatti, un modo di vivere
che si basava sui valori che comprendevano tratti
di entrambe le religioni – dell’Islam e
dell’Ortodossia – ed un orientamento storico
comune. Questo periodo di coesistenza diventò
ancora più complesso con l’insediamento dei serbi
nei territori di confine più vicini ai Paesi del
Cristianesimo cattolico; essi cominciarono a
costruire un rapporto ambivalente anche con questi popoli, ma al contrario della religione islamica,
il Cristianesimo d’Occidente risultava un alleato
più vicino, anche se si trattava di un’alleanza che
spesso superava il piano culturale e trasformava
l’affinità religiosa in una contrapposizione strategica che successivamente ha portato la Serbia a
coalizzarsi con i popoli slavi del Sud ed a ricercare
il patrimonio culturale comune con la Russia”
(Lazić 2005, 13-14).
Inoltre, bisogna precisare che la Russia, diventando il centro della spiritualità del mondo ortodosso,
è diventata l’alleato di base per la sopravvivenza
nazionale serba; si trattava però di un’alleanza che
cercava il volto ‘ortodosso’ della Russia, ossia quel-
Rassegna critica della letteratura serba
la parte della Russia che il successivo regime
comunista ha cercato di distruggere. Quindi, se nei
secoli precedenti l’Ortodossia russa rappresentava
una base solida di identificazione per larghi strati
della popolazione, è evidente come l’accettazione
massiccia del regime comunista comportasse la
valorizzazione dell’ideologia anti-religiosa.
Il libro del giovane giurista Dejan Mirović
L’Occidente o la Russia analizzain relazione a
quanto precedentemente detto, la questione della
scelta strategica di fronte alla quale si trova oggi il
popolo serbo, rimasto senza il proprio Stato,
anche dopo 4 anni di guerra, anche dopo 78 giorni di bombardamenti e anche dopo l’espulsione
dei suoi membri da territori, che rappresentano la
culla dello Stato serbo. L’autore di fronte a questa
scelta strategica si propone di non considerare il
rapporto tra l’Occidente e la Russia come un rapporto esclusivo e descrive lo stato della nazione
serba con termini quali l’indifferenza, la disperazione e l’autocolpevolizzazione. “Non esiste una
nazione senza le memorie storiche”, ha affermato
Max Weber, e senza, si potrebbe aggiungere, la
continuità, i cambiamenti e senza un rinnovamento di autoconsapevolezza, ma la memoria dei serbi
non ricorda neanche quello che sia accaduto ieri;
se ricordasse, come potrebbe perdonare gli umilianti bombardamenti, l’occupazione e il protettorato su una parte del suo territorio? Sicuramente
l’Occidente ha un maggiore potere, ma tale potere
non è mai così forte da distruggere la dignità nazionale e da provocare le reazioni umane quali la perdita di autostima e l’autocolpevolizzazione. E questo non è l’unico prezzo da pagare per diventare e
rimanere una parte dell’Occidente. Si dovrebbero
riformulare tutti gli aspetti della vita quotidiana, da
quella agricola a quella intelettuale e tutto ciò comporterebbe un serio pericolo per la stessa identità
nazionale (L’Occidente o la Russia ). E a questo
punto che Mirović afferma che, senza un alleato
forte, senza un’alternativa all’entrata nella società
occidentale, consegue lo status di subordinato, di
occupato e di inferiore; e tale alleato è da ricercare nella Russia, la spiritualità e la cultura della quale
sono più vicine al mondo serbo, anche se il mito
della slavofilia - una pretesa ansia di unificazione di
tutta la popolazione slava - non è una lente sempre
adeguata alla lettura dei rapporti politici tra gli
Stati, determinati piuttosto da ragioni di interesse
23
n.17 / 2007
e di opportunismo.
Il ritorno verso i valori dell’Occidente si verficò
solo dopo lo scontro con il regime di Stalin e la
necessità dello Stato serbo di ottenere dei fondi
materiali dal mondo occidentale per mantenere la
propria élite al potere; tutto ciò ha comportato la
stabilizzazione dei legami economici con i Paesi
occidentali, seguiti dall’apertura del Paese anche
alla comunicazione culturale con l’Occidente.
Questa continua contrapposizione alle altre culture è ripresa anche nello studio di Vladimir N.
Cvetković il quale sostiene che la società serba si è
trovata per 5 secoli in uno stato di ristagno a causa
di una spaccatura della civilizzazione, provocata da
una parte dall’espansione dell’Impero Ottomano,
dall’altra dal conflitto con l’Impero austro-ungarico, due fattori che hanno separato la Serbia dalla
cultura bizantina, distruggendo però anche i legami che esistevano con il mondo europeo cristiano.
Il continuo esistere sull’orlo di grandi imperi, culture e civiltà, e all’interno degli Stati con delle
impostazioni nemiche, nonché lo stato di subordinazione dei serbi nelle diverse aree politico-culturali, non solo non furono favorevoli alla produzione dinamica della loro cultura, ma fecero dei conflitti e degli esili l’unica costante storica della ‘serbitù’, inducendo gli elementi conflittuali a manifestarsi di conseguenza anche nella vita sociale, nelle
norme, nell’economia e nella spiritualità dell’intera nazione. Infine, l’inviolabilità degli ordini imperiali e il dispotismo orientale hanno causato lo sviluppo ritardato del Rinascimento e la mancata
valorizzazione dei moduli tradizionali della
Cristianità e delle istituzioni economiche e politiche, basate su di essi, contribuendo alla perdita del
collegamento tra l’ethos serbo e l’area culturale
europea (Serbia moderna : la ricerca dell’identità ). Cvetković insiste anche sul fatto che la Serbia
moderna si differenzia poco da quella del XIX
secolo, quando furono compiuti i primi sforzi
organizzativi nella costituzione e nell’emancipazione nazionale, ossia nella direzione dell’integrazione dello Stato nei processi di sviluppo moderni
europei. Il fatto è che, nella fase della propria esistenza moderna, la Serbia ha continuato ad allargarsi statualmente, ma non è mai riuscita ad inserire nelle diverse formazioni statali tutte gli elementi dell’etnicità serba, diventando alla fine uno Stato
multietnico. L’allargamento territoriale dello Stato
24
non ha mai potuto compensare le numerose debolezze interne, evidenziate soprattutto nel sistema
politico autoritario e nella corrispondente mentalità sociale. L’identità nazionale moderna si collegava, dunque, principalmente all’ideale dello Stato
indipendente. Ma si trattava sempre di un’indipendenza nei confronti all’esterno, mentre l’indipendenza interna, ossia i diritti dei cittadini e l’intera
sfera civile della società, rimase sottosviluppata,
anche e soprattutto a causa della costante dominazione del fattore esterno. Fu grazie alla nascita
dello Stato di Jugoslavia, comprendente più o
meno la gran parte dello spazio etnico serbo e realizzante il sogno secolare della maggioranza dei
serbi, che essi decisero di sostituire la propria
identità etnica con una nuova identità, non più
solo nazionale, bensì politicizzata e multietnica.
Tuttavia, fu proprio con la formazione della
Jugoslavia che “i serbi si trovarono nella situazione
di dover badare contemporaneamente agli interessi serbi ed a quelli jugoslavi, cercando di dare sempre la priorità all’insieme – alla Jugoslavia – che
non alle singole parti, ossia alla propria repubblica.
In conseguenza di ciò, si trovarono ben presto ad
avere due identità, le quali vennero spesso opposte in modo esclusivo; fatto che ha segnato il destino politico ed esistenziale di questo popolo nel XX
secolo” (Cvetković 1996, 76-80).
Cvetković ha, inoltre, messo in evidenza la ‘strumentalizzazione politica’ delle identità culturali
che ha causato risultati molto diversi nella formazione delle unità statali: da quelle immaginarie
quali “la Grande Serbia”, “l’Unione di tutti i popoli
illirici” o “la Federazione Balcanica”, a quelle realmente esistenti, quali la SHS - il Regno dei serbi,
croati e sloveni, Il Regno di Jugoslavia, la SFRJ Repubblica federale socialista di Jugoslavia -, fino
ad arrivare alle varianti riduttive di quest’ultima,
quali la SRJ – Repubblica socialista di Jugoslavia - e
all’attuale eredità statale - Repubblica di Serbia ossia a una formazione corrispondente a quella
dalla quale si è inizialmente partito (Serbia moderna : la ricerca dell’identità ).
I pensieri seguenti legati al problema dell’identità
serba richiamano quello che la prof.ssa Jelena
Ðorđević, docente alla Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Belgrado, ha definito ‘la sociologia dell’avvenimento’, in quanto i fatti di cruciale
importanza, come una forma di assalto, hanno
Ana Živković
assunto il ruolo di forti cambiamenti nella struttura dell’identità, attraverso una dialettica evolutivainvolutiva, nella quale una crisi o un fatto casuale
poteva causare uno sconvolgimento sociale e politico, e finchè poteva essere neutralizzata mediante
gli elementi interni della società e della cultura,
veniva percepita come una trasformazione drammatica dal vecchio al nuovo. Con riferimento all’identità serba tale dialettica diventa importante in
quanto l’identità si costruisce proprio attraverso
questi momenti drammatici. L’assalto dei nuovi
avvenimenti ha comportato la ricerca della mitologia o del passato mitologico, con un forte potenziamento di elementi che servivano da protezione
(Vittima o preda – a na lisi dell’identità serba ).
Di particolare interesse è anche lo studio successivo della Ðorđević riguardante il modo di interpretare la propria identità da parte del popolo serbo
sia attraverso dei valori oggettivi e scientificamente fondati sia mediante degli elementi soggettivi,
soprattutto se si considera che l’identità serba
venne costruita in un periodo storico relativamente corto, ma pieno di avvenimenti, in cui gli elementi oggettivi della sfera politica, soggetti a continue trasformazioni, non sono riusciti a modellarsi in modo compiuto, cambiando di conseguenza
continuamente anche le situazioni soggettive del
popolo. Inoltre, esistono essenzialmente due
modi principali di interpretare l’identità, attraverso
i quali viene analizzata sia la propria sia quella degli
altri: il modo primordiale o essenzialistico e il
modo strumentale o costruttivo. Il rapporto tra i
due modi nel periodo della dissoluzione della
Jugoslavia si basava su delle supposizioni radicalmente opposte: da una parte i serbi venivano percepiti come un popolo agressivo, primitivo ed
ossessionato dalle invenzioni sulla propria grandezza storica, dall’altra questi elementi primordiali
venivano assorbiti dallo schema costruttivo dell’interpretazione e spiegati quale una causa diretta
della manipolazione politica del preesistente regime autoritario. Tutto quello che in generale si
attribuiva al ‘balcanismo’, si attribuiva in modo
concentrato al popolo serbo. L’identificazione dei
serbi come degli unici colpevoli dei conflitti venne
appoggiata dall’idea essenzialistica sviluppatasi
all’Occidente e sostenuta, all’interno della stessa
società da parte delle élite intellettuali di orientamenti mondialistici, da parte di coloro che si
Rassegna critica della letteratura serba
dichiararono contro la guerra, da parte di tutte le
forze politiche che volevano contrastare il regime,
nonché da parte delle minoranze etniche e dal settore non governativo. La pressione operata dai
Paesi occidentali contro l’ideologia del regime raggiunse, attraverso una rapida escalation, l’apice
con i bombardamenti. Gli aspetti di tale ideologia
vennero allora attribuiti a tutti i serbi. Tutto quello
che ha posto in atto Slobodan Milošević ha causato la formazione di un’idea omogenea riguardo
all’agire dell’intero popolo. Inoltre vale la pena di
ricordare che, durante il periodo del regime, l’ideologia ufficiale ha cercato di rafforzare la figura
della vittima, un’idea non estranea alla nazione
serba, caratterizzata però da una forte connotazione emotiva, comprendente sia moduli pagani sia
significati cristiani dell’idea di vittima. Questa idea
venne, infine, rafforzata con il mito del Kosovo, del
Popolo celeste, fino ad arrivare alla creazione del
mito che chiede all’intera umanità di combattere
contro l’imperialismo, la figura principale del quale
è rappresentata per i serbi dagli Stati Uniti, raffigurati come un “popolo senza una vera e propria
identità nazionale, che vive nella società dei consumatori senza l’anima” (Čolović 2002, 67).
Esiste, infine, un concetto senza il quale l’identità
serba non può risultare comprensibile, e cioè l’espressione di un forte senso di appartenenza alla
comunità, impregnata della solidarietà, una comunità speciale, non tanto per la sua composizione,
quanto per il modo in cui essa viene vissuta dai
suoi membri. In questo senso, l’identità dei serbi è
un’identità antichissima e forse di recente riscoperta, sopravvissuta a cinque secoli di dominazione con molte delle sue connotazioni primigenie.
Nell’identità del serbo, concetti come quelli di
verità e di giustizia restano sempre al centro del
sistema di vita, che di conseguenza viene concepita come il succedersi di momenti vividi e, dal
punto di vista degli occidentali, sicuramente esagerati e comunque lontani dall’anestesia progressiva che sembra dominare le vite degli altri europei,
descritti come “un popolo ossessionato dal materialismo, umanismo e cosmopolitismo, che ha
perso i magnifici valori della propria cultura del
passato e ha sviluppato un’identità malatta e
appassita” (Čolović 2002, 67).
25
n.17 / 2007
Gli aspetti mitologici dell’identità serba
Uno dei modi di spiegazione dell’identità serba è
quello di seguire la linea mitologica. Tutti i popoli
hanno i loro miti, ma sembra che sui Balcani occidentali abbondino e che siano fondati su una finzione, ovviamente sbagliata, cioè: che una nazione
esistente oggi, è sempre esistita ed è sempre stata
abitata dalla stessa ‘specie’ di popolazione; che i
gruppi etnici di oggi, che appartengono alla stessa
cultura dei propri antenati, hanno, come loro, la
stessa coscienza nazionale; che la nazione attuale,
in passato è stata più grande, più importante e che
è stata danneggiata ed oppressa dai vicini.
Quando, alla fine degli anni Ottanta, la Serbia si
trovò di fronte al difficile compito della ridefinizione della propria identità colletiva, gli aspetti mitologici ottenero un significato speciale. Il crescente
bisogno di superare l’identità jugoslava e di sostituirla con un’identità nuova rimase però senza
un’articolazione ben definita fino agli anni
Novanta, quando si iniziò a modellare e ravvivare i
caratteri dimenticati dell’identità serba, in modo
da farli corispondere ai bisogni della nuova realtà
sociale. A tutto ciò appartengono i grandi miti
spesso evocati nell’ultimo ventennio, ‘la Serbia
celeste’, ‘il principe Lazar’, ‘il Kosovo e Metohija
perduti’, ‘la Serbia come martire e baluardo contro
l’invasione islamica’.
Può apparire bizzarro che un popolo costruisca la
propria identità su di una sconfitta, celebrando il
giorno di San Vito - 28 giugno, come una festa
nazionale, ma, nella mitologia, questo momento fa
per sempre dei serbi un popolo eletto. La leggenda narra, infatti, che il principe Lazar, al comando
delle truppe serbe, fu raggiunto alla vigilia della
battaglia da un falco che gli chiese di scegliere tra
la vittoria sul campo e il regno della terra o la sconfitta e il regno dei cieli. Egli scelse quest’ultimo e in
tal modo consacrò il suo popolo ad un destino
celeste. Infatti, spesso la storiografia si dimentica
di mettere in evidenza il fatto che un popolo sconfitto militarmente, dal punto di vista spirituale
ottiene la vittoria. Se i serbi non avessero opposto
resistenza all’occupazione ottomana, questa regione probabilmente sarebbe diventata una provincia
turca e l’intero popolo sarebbe caduto nella
dimenticanza, perdendo per sempre l’identità
nazionale, convertendosi all’Islam, al quale non si
26
poteva oppore militarmente, ma solo spiritualmente (Memora ndum sul Kosovo e Metohija ). È assolutamente singolare il fatto che una tragica sconfitta abbia costituito attraverso i secoli il riferimento
ideale di un’intera nazione, che in forza della trasfigurazione religiosa e letteraria di quell’evento ha
potuto sintetizzare in esso i lineamenti della propria identità e il significato della propria storia.
L’accademico Dejan Medaković spiega: “si tratta di
una battaglia che non può essere considerata come
una sconfitta definitiva della Serbia, o come una vittoria assolouta dei turchi. Le testimonianze di ciò e
il fatto che lo Stato serbo, nonostante le sue caratteristiche vassalliche, sopravisse fino al 1459 - la
data della caduta della città di Smederevo, concordano nel mostrare che tale battaglia ebbe un’importanza cruciale nella formazione della coscienza
nazionale. Se si aggiungesse il veloce sviluppo del
culto religioso del principe guerriero e martire e
tutti gli aspetti di tale culto, si potrebbero comprendere le caratteristiche formulate tramite la
cosiddetta destinazione celeste. Si è formata una
particolare forza d’animo, abbastanza forte per
sopravvivere ai cinque secoli della dominazione
ottomana. Questo culto, principalmente reliogioso,
ebbe fino ai primi decenni del XX secolo dei flussi
paralleli laici, evidenti già a partire dal XVIII secolo,
quando venne formulata la coscienza nazionale
serba moderna. Durante l’occupazione ottomana,
fu chiaro a tutte le forze sopravvissute della società
che la sopravvivenza del popolo serbo fu possibile
solo mediante un costante appoggio alle tradizioni
della propria società feudale, alla propria morale e
ai propri principi etici” (Medaković 1989, intervista
in Duga, Belgrado, n. 400).
Durante il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni – SHS
– il mito del Kosovo diventò ‘l’ideologia del
Kosovo’, presentata oggi come il tentativo supremo e simbolico di preservare la Cristianità
dall’Islam, portando con sè delle conseguenze che
si manifestarono nei successivi conflitti dell’area
balcanica, soprattutto a causa della disparità nell’interpretazione del mito, che non fu inteso dai
serbi come qualcosa che avrebbe potuto comportare dei danni alle altre popolazioni vicine, mentre
quest’ultime cominciarono a pensare che esso servisse al popolo serbo come mezzo di distruzione
degli altri popoli.
La prof.ssa Olga Popović Obradović spiega: “l’ideo-
Ana Živković
logia del Kosovo e Metohija nella funzione delle
più grandi ed importanti aspirazioni territoriali
rappresenta una costante nella politica nazionale
dello Stato serbo moderno. La sostanza dell’ideologia dello Stato serbo moderno fu sin dall’inizio
quello di unire in un unico Stato nazionale tutti i
territori definiti storicamente come serbi. Tale idea
fu per secoli chiamata ‘la vendetta del Kosovo’, che
sottointendeva la guerra per il territorio, e non
solo quello del Kosovo e Metohija, nonostante
esso fosse considerato come il simbolo e fattore
maggiormente mobilizzante dell’espansione territoriale, l’area nella quale iniziò, ma non deve terminare l’allargamento di questo Stato. Dopo una
serie di guerre, la Serbia costituì, anche grazie a
questo mito, lo Stato di Jugoslavia del 1918, nel
quale il mito perse a volte la propria funzione;
esso, tuttavia, non fu mai dimenticato, anzi venne
conservato nella memoria storica e rivitalizzato
ogniqualvolta la Serbia si sia trovata coinvolta nella
crisi dello Stato di Jugoslavia. Questo ruolo del
Kosovo e Metohija nel programma serbo nazionale, nel quale la provincia rappresentava solo un
mezzo e non il fine, deve essere evidenziato anche
nell’analisi degli avvenimenti attuali. Mettendo
oggi in discussione i confini del Kosovo e Metohija
si mettono in discussione automaticamente tutti i
confini della penisola balcanica” (Popović
Obradović 2005, 5-6).
Successivamente, durante il regime di Tito, la questione del Kosovo e Metohija è diventata un argomento intoccabile, nello spirito di ‘fratellanza e
unità’ che doveva regnare a tutti i costi fra i popoli della Federazione. Spesso si dimentica, infatti,
che il mito fu creato al tempo del cosiddetto integralismo jugoslavo, ossia quando anche i croati e
gli sloveni furono grandi supportatori della
Jugoslavia; solo successivamente esso diventò, al
posto di un punto di unione, uno dei punti più
importanti di divisione. La questione del Kosovo
venne allora collegata a quella più generale della
condizione delle minoranze serbe all’interno delle
altre Repubbliche della Jugoslavia, dove la popolazione serba venne esposta, dal processo generale
di disintegrazione che ha colpito lo Stato unitario,
alla distruzione totale della sua unità nazionale.
Il sacrificio di Lazar, il giogo turco e la nostalgia per
la terra sacra perduta dominano il folklore e la letteratura serba fino ad oggi. Il lungo dominio turco
Rassegna critica della letteratura serba
ha permeato e condizionato la cultura e la mentalità serba, fondendoli in un corpo unico, permettendo loro di realizzare un vero proprio risorgimento, il quale li ha condotti a combattere una
lunga serie di guerre balcaniche culminate con la
Prima Guerra Mondiale. Il mito del Kosovo ha animato gli ufficiali e i soldati serbi che assieme ai bulgari, greci e montenegrini, anch’essi ortodossi, lo
liberarono dai turchi nella Guerra balcanica del
1912. Questo mito viveva anche nell’immaginario
di Gavrilo Princip, irredentista serbo-bosniaco che
nel 1914, esattamente nel giorno di San Vito, uccise l’arciduca di Austria, scintilla che accese la Prima
Guerra Mondiale. Nella Seconda Guerra Mondiale
il mito si riaccese, perché sono ancora i serbi, tra
gli slavi del sud, a pagare il prezzo più alto, in vite
umane. E nel campo di sterminio di Jasenovac, in
Croazia, assieme agli ebrei e i zingari, trovarono la
morte soprattutto i serbi.
L’importanza attribuita al mito, tramutato successivamente in un’ideologia, viene spiegata, allora,
come una causa del corso della storia del popolo
serbo, che non ha mai cessato di essere tragico,
durante il quale però, i serbi preferivano essere un
popolo sempre sconfitto, ma mai sottomesso.
Tuttavia, quando una nazione si appoggia più alla
mitologia che alla realtà crea inconsciamente degli
ostacoli ai nuovi processi o ai successivi procedimenti. Il problema che si presenta in tali situazioni
è stato descritto da uno dei migliori conoscitori dei
Balcani, Jovan Cvijić, che nel suo celebre saggio La
penisola Ba lca nica , scritto all’inizio del XX secolo, ha descritto il confronto tra la mitologia e la
realtà storica nel modo seguente: “Simili al ragno,
gli uomini tessono intorno a sé una ragnatela di
pregiudizi storici, di vanaglorie nazionali, di alterati modi di vivere; e questa ragnatela può isolarli
spiritualmente dal resto del mondo e far sì che
diventino arcaici. Gli istinti nazionali ereditati dalle
precedenti epoche storiche, anche quelli più profondamente primitivi, fino a ieri addormentati,
cominciano a risvegliarsi” (Cvijić 1966).
Sul ruolo che i miti nazionali dei popoli, che costituivano l’ex Jugoslavia, hanno avuto nel processo
di disintegrazione di questo Paese e, dunque, sui
miti usati o abusati nella lotta politica alla ricerca
della legittimazione di ciò che è accaduto nell’ex
Jugoslavia in questi ultimi anni si è soffermato
anche il prof. Vatroslav Vekarić, analitico delle rela-
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zioni contemporanee; egli ha inteso il mito come
qualcosa che, in parte, non corrisponde ai fatti storici scientificamente determinati, ma soprattutto
come un elemento che ha ottenuto un ruolo
importante nella propaganda degli obiettivi politici delle élite nazionalistiche e soprattutto nella
propaganda bellica. In Serbia si può affermare che
questa lingua dei miti etno-nazionalistici è stata,
pressoché, l’unico elemento dell’ideologia nazionalistica miloseviciana. A prima vista si tratta di una
lingua dove non esiste niente di politico e di ideologico, un qualcosa che appare naturale, accettabile e banale, qualcosa che sia incontestabile, come
ciò che si dice sul mito del Kosovo o la tesi sulla
Serbia che esiste là dove è possibile trovare le
tombe dei serbi o, ancora, la fraseologia sui traditori, sugli scismi, sul Bizantino illustre e
sull’Europa in putrefazione. “La rinascita di tutti
questi miti proviene da una frustrazione profonda,
che porta a riferirsi, nei confronti dell’Europa,
come ad un Paese decadente, degenerato, antispirituale e malato” (Vekarić 1998, relazione
all’Università degli Studi di Firenze).
Superare l’identità jugoslava
Il processo che condusse alla nascita della
Jugoslavia, tra la fine dell’Ottocento e la Prima
Guerra Mondiale, fu un tentativo politico - nato in
base ad un modello importato, quello occidentale
- di declinare la nazionalità in termini di cittadinanza piuttosto che in termini di appartenenza,
compresa quella religiosa.
Ancora oggi, gli storici e gli esperti non sono d’accordo sulle radici elementari del complesso dei
problemi noti come: ‘la crisi jugoslava’. È alquanto
diffusa l’opinione che, per via della disintegrazione
della Jugoslavia, la guerra sia stata inevitabile e che,
in genere, le guerre nei Balcani siano storicamente
inevitabili, esistendo quasi un dovere di ripetersi
ad intervalli più o meno fissi. Un’analisi più attenta, però, rivelerebbe uno scopo assai preciso in
questa affermazione, cioè quello di sgravare di
responsabilità tutti quei circoli politici, culturali ed
intellettuali della ex Jugoslavia che hanno portato
alla guerra. Per loro, ancora oggi, torna utile la tesi
sulla ‘natura maledetta’ dei Balcani e dei loro abitanti; quanto accade oggi viene rappresentato
come un inevitabile ripetersi della storia e viene
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usato come ausilio a numerose analogie storiche.
Il 4 maggio del 1980 è una data che ha segnato inesorabilmente le sorti della Jugoslavia, considerato
che questa data, oltre ad essere il giorno della
scomparsa di un capo di Stato, coinciderà con la
‘morte di una nazione’ e con la fine delle diversità
e della convivenza dell’ideale jugoslavo che consisteva in un sistema in cui convivevano sei gruppi
nazionali, oltre ad una miriade di gruppi etnici
minori. Politicamente era uno Stato federale diviso
in sei repubbliche e due province autonome, retto
da un regime socialista, diverso però da tutti gli
altri socialismi reali. Bisogna, infatti, prendere in
considerazione l’importanza del fattore psicosociale della retorica fondativa dello Stato federale
- la guerra di Liberazione, l’orgoglio di essere l’unica capitale liberata dalla guerriglia, che ha rivendicato la propria identità rispetto alla Russia staliniana - per comprendere che la formazione politica
jugoslava non era quella degli altri Paesi
dell’Europa dell’Est e che l’identità del popolo
jugoslavo era qualcosa che non ha uguali, simili,
antecedenti o seguenti.
La necessità di legittimare i nuovi Stati nazionali
sorti dalla dissoluzione della Jugoslavia ha comportato una revisione del passato molto più rapida
e radicale che nel resto dell’Europa orientale.
Ovunque c’è stato un ridimensionamento dell’esperienza di Tito; non una negazione, ma un ridimensionamento. Negare sarebbe stato difficile:
Tito godeva di un ampio consenso e l’esperienza
jugoslava era considerata fortemente positiva, e lo
è tuttora; rimane, infatti, sostenuta dal luogo
comune che ‘sotto Tito si viveva meglio’. Allora si
cerca di mettere in luce gli elementi negativi: in
Croazia si dice che Tito ha inibito per la Croazia la
possibilità di assumere un’identità più forte, sostenendo la Serbia; in Serbia si dice, al contrario, che
Tito ha danneggiato la Serbia istituendo le due
regioni autonome del Kosovo e della Vojvodina e
che la Serbia, indirizzata più di altre repubbliche
verso la Jugoslavia, ha perso la sua natura di Stato
omogeneo.
Bojan Jovanović ha cercato di analizzare il ‘jugoslavismo’ quale una grande idea, un progetto di
emancipazzione che ha assunto diversi significati e
ha prodotto diversi fini nella storia dei popoli balcanici. Soltanto dopo la distruzione di questo progetto sono, infatti, stati scoperti alcuni dei suoi lati
Ana Živković
nascosti. Si è dimostrato che nell’ambito della
Jugoslavia, gli sloveni e i croati accettavano il progetto dello Stato unitario in quanto lo ritenevano
un fatto transitorio e temporaneo; al momento
della realizzazione delle loro tendenze separatistiche hanno invece cominciato ad incolpare i serbi
delle loro tendenze alla formazione della ‘Grande
Serbia’, connotando negativamente la formazione
federativa, quale un prodotto delle tendenze
serbe. Al contrario, la Jugoslavia veniva vista dai
serbi come la soluzione ideale della loro questione
nazionale ed è perciò che essi hanno creduto e
sostenuto la continuità di questo Stato (Jovanović
2002, intervista sul Dnevnik). Quando, infine, l’idea si è rivelata un’utopia, il ‘jugoslavismo’ diventò per i serbi la personificazione di un secolo inutilmente consumato, un’esperienza che, con maggiore saggiezza politica, poteva essere evitata, un
periodo di energie disperse, che al contrario potevano essere utilizzate per la costruzione di uno
Stato nazionale serbo.
La disintegrazione dell’identità jugoslava si deve
secondo la tesi meno semplicistica, diffusa dai
media occidentali, all’unione forzata di tutti gli elementi che hanno manifestato le storiche divisioni
etniche, religiose e culturali di cui si alimenta il
nazionalismo; in realtà questa tesi non spiega perché questi retaggi storici non hanno impedito alla
Jugoslavia di conseguire rilevanti risultati non solo
in campo internazionale, ma anche in campo interno e in particolare nel miglioramento dei rapporti
fra le varie comunità al suo interno. E non spiega,
soprattutto, perché questi vecchi conflitti si siano
riaccesi e siano diventati incontrollabili proprio a
partire dalla metà degli anni Ottanta e poi negli
anni Novanta, e cioè in relazione al processo di
progressiva restaurazione del capitalismo in
Jugoslavia, sotto la regia del Fondo Monetario
Internazionale e sotto le pressioni delle diverse
Potenze imperialiste. “Gli Stati Uniti e la Germania,
pur avendo ciascuna dei propri interessi distinti
nell’area balcanica, concordano sul fatto che la
Serbia non deve essere la potenza dominante nei
Balcani, sia perché temono la formazione di un
nuovo punto d’appoggio della Russia sia per la
necessità di demilitarizzare questo territorio, in
modo da assicurarsi un retroterra certo nella soluzione dei problemi legati al Mediterraneo e al
Vicino Oriente” (Nišić 2004, 302). La percezione
Rassegna critica della letteratura serba
che i serbi hanno del Fondo Monetario
Internazionale è sintetizzata nella seguente affermazione: “La globalizzazione è un processo che
cerca di influenzare tutti gli ambiti della vita quotidiana, dalla sfera delle idee e delle culture, a quella della politica, della scienza, dei media e dei crimini. L’aspetto politico della globalizzazione nel
quale prevale il principio di sospensione della
sovranità nazionale come una scusa per poter
imporre una serie di principi ideologici universali
ha anche il suo lato economico. Così si cerca di
imporre nel nome degli ideali di un ‘mercato libero’, tramite le instituzioni del FMI e della Banca
Mondiale, delle soluzioni che mirano ad un controllo completo del mercato nazionale da parte
delle multinazionali straniere” (Korać 1987, 21).
Vesna Pešić ha cercato di dare, mediante una ricerca, la risposta alla questione del problema della
politica nazionale serba nella formazione dello
Stato nazionale, partendo dal fatto che, negli ultimi anni, quando sul territorio della ex Jugoslavia si
sono formati degli Stati, la nazione serba non è
ancora riuscita ad entrare in equilibrio per il problema dei propri confini e nei confronti dei propri
cittadini. La causa principale di questa mancata formazione si trova nell’oscillazione storica della politica nazionale serba tra l’ideologia che sostenne la
formazione del proprio Stato nazionale - Serbia - e
quella che promosse l’unificazione etnica della diaspora serba, comportando l’abbandono dell’idea
di una statalità serba e l’accettazione di uno Stato
multinazionale, quale era la Jugoslavia. Questo ha
causato nella sua storia una forte oscillazione tra le
due identità: spesso si verificava l’insabbiamento
dell’identità nazionale serba e la sua dissoluzione
in quella jugoslava. Inoltre, assumendo il ruolo del
‘garante’ dello Stato unitario, i serbi hanno dimenticato di considerare la Serbia come il loro vero
Paese, come facevano, invece, gli altri membri
della Federazione jugoslava. I serbi vivevano nella
Jugoslavia e non nella Serbia e perciò la stessa
repubblica di Serbia non sentiva il bisogno di mantenere con i serbi che vivevano al di fuori dei sui
confini dei particolari legami culturali.
Indipendentemente da questo, rimane certo che
l’identità nazionale serba rimase divisa tra l’idea
etnica serba, di origini religiose, e l’idea borghese
jugoslava, basata sull’ateismo (I problemi della
costituzione degli Sta ti nell’a rea della ex
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Jugosla via : riduzionismo etnico nella politica
na ziona le serba ). Questa duplice visione dell’identità viene ripresa nello studio di Jelena Ðurić
che ha interpretato la crisi dell’identità serba quale
una conseguenza di una continua divergenza tra
l’ideologia e la realtà, messa in evidenza solo dopo
la dissoluzione dello Stato unitario, quando furono
smascherati i falsi valori che per così lungo furono
imposti al popolo nella forma di compensazione di
fronte alla mancanza di una reale identità della
società. Da una parte l’ideologia della fratellanza e
dell’unità tra i popoli jugoslavi ha precluso la possibilità di dominazione di un singolo gruppo etnico, ma dall’altra non ha permesso alla società serba
di sviluppare delle istituzioni di cui fidarsi e nei
confronti delle quali costruire la propria identità
collettiva. È solo durante il processo di dissoluzione della Jugoslavia che queste identità nascoste
cominciarono finalmente ad unirsi nel risentimento, nell’isteria collettiva, nella rabbia e nell’umiliazione (Il ca mbia mento dei va lori e della società
in conseguenza della tra sforma zione della società jugosla va )
Dal punto di vista dell’eredità storica, erano tre i
principali temi cui gli intellettuali serbi avevano
dato voce, in particolare: 1) l’interesse per l’unità
nazionale serba e i confini di una possibile entità
autonoma serba; 2) l’autocoscienza dei serbi come
popolo impegnato nell’edificazione di uno Stato;
3) i sacrifici dei serbi per il comune Stato jugoslavo
e la loro particolare vocazione storica per la creazione e il mantenimento di questo Stato. In altre
parole, le opinioni della élite culturale erano ben
radicate nella tradizione e possono essere considerate rappresentative del pensiero nazionalista
serbo. Fu così per gli storici Vladimir Čorović,
Slobodan Jovanović, Dragoslav Stranjaković e Vaso
Čubrilović, i quali svilupparono l’idea che lo Stato
jugoslavo fosse la migliore garanzia dell’unità
nazionale serba e che, senza di esso, i serbi avrebbero dovuto avere il diritto all’autodeterminazione
collettiva alla pari delle altre nazioni in tutti i
distretti in cui rappresentavano una maggioranza.
La Prof.ssa Jelena Ðorđević ha contribuito alla spiegazione di quella che viene definita la ‘discontinuità’ d’identità del popolo serbo. Quando si cerca di
analizzare la vita quotidiana del popolo, è chiaro
che l’immagine che si ha dei serbi è tutt’altro che
omogenea. Al contrario, quando si considera la
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loro identità nazionale, i serbi risultano radicalmente differenti tra di loro su tutti i livelli. Si parla,
infatti, di una divisione dello Stato in due Serbie: la
prima moderna, cosciente e urbanizzata e la seconda arcaica, nazionalistica e quasi tribale; tale scomposizione non è altro che una continuazione delle
suddivisioni formatesi nel periodo comunista. La
prevalenza del discorso partigiano dai tempi del
socialismo venne bloccata e i membri della società
che la sostenevano sentirono il bisogno di abbandonare il proprio passato, alcuni di propria iniziativa, altri per l’opportunità del momento politico,
cercando di dimostrare a sé stessi e agli altri di non
appartenere più a quell’ideologia, ma di voler
ritornare piuttosto alle radici della tradizione del
popolo serbo. Un secondo aspetto di questo meccanismo si lega alla negazione della propria identità da parte di coloro che si sentirono umiliati per
tutti gli avvenimenti che seguirono alla dissoluzione della Jugoslavia. Costoro decisero di emigrare
all’Occidente, conservando l’identità jugoslava, trasformandola col tempo a causa dell’influenza dei
valori occidentali ed eventualmente perdendola,
senza mai sviluppare la nuova identità serba. Il
terzo fattore è, infine, rappresentato da numerosi
rifugiati dalla Bosnia ed Erzegovina, dalla Krajina,
dalla Slavonija e dal Kosovo e Metohija, che contribuirono alla differenziazione ancora maggiore nell’ambito di quella che poteva essere definita la
‘nuova identità’. L’incontro/scontro con le persone
della stessa origine etnica e della stessa confessione religiosa, quindi identici a coloro che vivono
nella madre patria e per i quali si andava a combattere, ha risvegliato nei serbi il bisogno di rinnovare il rapporto con ‘gli altri’, che da una parte
diventarono i fratelli serbi, dall’altra distrussero,
mediante l’introduzione di nuovi moduli culturali,
la già fragile identità etnica e nazionale. I rifugiati
furono considerati i colpevoli delle guerre e nelle
città furono percepiti come l’elemento rurale,
cosicché anche quella parte dei serbi che precedentemente si dimostrava tollerante e accettava il
multiculturismo, ha cominciato a sviluppare il
cosiddetto ‘ethos urbano’ (Vittima o preda - a na lisi dell’identità serba ).
Nella ex Jugoslavia, ora che le querre sono finite,
che l’odio etnico si va sospendendo, che la situazione territoriale è temporaneamente stabilizzata,
quando neppure la Serbia e il Montenegro costi-
Ana Živković
tuiscono più la Jugoslavia, è giunto il momento del
ricordo e la stessa Jugoslavia non viene più percepita come entità politica minacciosa perché spogliata dalle sue valenze negative e diventata il contenitore di ricordi e di immagini di un passato felice. Di ‘jugonostalgia’ soffrono un po’ tutti, tra cui
anche molti di quelli appartenenti alle ultime
generazioni di questa nazione che, malgrado le
divisioni, sentono di essere un prodotto di quel
mondo.
L’identità serba di oggi
Le seguenti riflessioni si concentrano sulla storia
più moderna, precisamente sulla fase di creazione
dello Stato nazionale serbo di oggi, quando, proprio in nome dell’unità nazionale, si cerca nell’identità comune uno strumento della legittimazione politica.
La domanda cruciale che fu posta da Vladimir N.
Cvetković è se uno Stato con la composizione etnica quale quella della Serbia possa avere un’autentica identità nazionale, o con altre parole se possa
considerarsi leggittima la formazione di uno Stato
nazionale quando quasi un terzo della popolazione
sia rappresentato da cittadini di diverse origini
etnico-nazionali. Per rispondere a questa domanda
si usano solitamente due diverse tesi tra loro alternative. Secondo la prima tesi, la forte differenziazione nella composizione etnica del Paese, nella
quale possono evidenziarsi 20 diversi gruppi etnici, dovrebbe comportare la nascita di uno Stato
borghese di cittadini, senza alcuna determinazione
nazionale. La Serbia sarebbe, quindi, solo una
denominazione vuota e casuale, con la quale si
indicherebbe una determinata area geografica,
nella quale l’insieme delle singole identità etniche
viene indicato con un nome ‘transnazionale’ - ieri
Jugoslavia, domani Balcania o Euroslavia -.
Secondo l’altra tesi, la Serbia sarebbe, invece, uno
Stato multietnico, come, del resto, la maggioranza
dei Paesi europei; tuttavia, trovandosi nella situazione di dover ancora trovare ed affermare la propria identità etnica, non può considerarsi pronta
ad un immediato riconoscimento di quella degli
altri e perciò rischia di essere vista come non tollerante e fortemente nazionalista (Serbia moderna :
la ricerca dell’identità ). Vale, inoltre, la pena di
precisare che la Repubblica della Serbia si defini-
Rassegna critica della letteratura serba
sce, nell’art.1 della sua Costituzione, come: “Stato
democratico di tutti i cittadini che vivono in esso”
senza quindi fare alcun riferimento all’identità
etnica. Di fatto la Serbia è lo Stato più multietnico
dei Balcani; un terzo dei suoi abitanti è non-serbo
ma con eguali diritti. Almeno formalmente, l’etnia
albanese del Kosovo e Metohija ha più diritti di cittadinanza in Serbia di quanto ne abbiano i rifugiati
serbi che sono fuggiti dalla Croazia e dalla Bosnia
ed Erzegovina dopo il collasso della Jugoslavia.
Il post-comunismo nella ex Jugoslavia non si è rivelato un’occasione di democratizzazione in cui le
istituzioni possano finalmente riflettere la complessità e il pluralismo sociale. Al contrario, i nazionalisti hanno operato affinché fosse lo Stato a definire l’identità della sua popolazione, e l’etnicità,
invece della cittadinanza, è diventata il garante dell’unità politica dello Stato. Nel caso della Serbia
della fine degli anni Ottanta e degli anni Novanta, i
protagonisti della vita politica scelsero di enfatizzare a seconda del singolo momento politico l’eroica
eredità della rivoluzione partigiana, l’eredità
monarchico-cetnica o la tradizione liberal-parlamentare. Pertanto si verificò una forte svolta verso
il modello tradizonalista e il nazionalismo, come il
nuovo punto d’appoggio di leggittimità del gruppo dominante, diventò l’orientazione prevalente
di valori nella società.
I libri di Ivan Ćolović e Jasna Dragović-Soso cercano di analizzare la proliferazione del pensiero
nazionalistico serbo dopo la morte di Tito nel
1980. Secondo Ćolović la difficoltà principale risiede nell’incompatibilità del ‘mito nazionale serbo’
con la democrazia. Ćolović, che non si presenta
come un gran ammiratore del nazionalismo, propone la seguente sintesi del mito nazionale serbo:
“Il popolo serbo è uno fra i popoli più antichi del
mondo e tutte le lingue derivano dalla lingua
serba. I serbi risultano oggi fra i pochi ad aver mantenuto dei valori più preziosi e importanti della
civiltà, i valori dello spirito e del cuore; sono un
popolo orgoglioso, che vuole costruire il Paese su
una terra sana e naturale; un Paese, in cui potranno vivere finalmente tutti insieme su un’unica
terra serba, in cui saranno un popolo unico ed uno
Stato unico, dove si parlerà un’unica lingua e dove
predominerà un unico pensiero” (Čolović 2002, 79). L’autore dunque dimostra l’immagine distorta
che il popolo serbo ha avuto di sé stesso a causa
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del rinnovamento di questo mito, che “non gli permise di distinguere più tra il bene e il male e lo
condusse inevitabilmente al nazionalismo” (Čolović 2002, 92).
Anche il libro Sa lva tori della na zione, basato sulla
tesi di laurea di Jasna Dragović-Soso, presenta la
formazione storica di ravvivamento dell’ideologia
nazionale serba nella cornice della cosiddetta
‘intelligenza critica di Belgrado’ a partire dagli anni
Cinquanta fino al momento dello scoppio della
guerra sul territorio dello Stato di Serbia e cerca di
spiegare “perché le preoccupazioni nazionalistiche
misero in secondo piano tutti gli altri aspetti del
progetto politico dell’opposizione intellettuale
serba, in modo da portarla ad abbandonare i principi umanistici, che furono inizialmente al centro
del suo attivismo politico” (Dragović-Soso 2002,
2). Secondo Dragović-Soso esistono due fattori
che hanno premesso in Serbia la prevalenza della
ragione nazionalista rispetto a quella democratica.
Il primo è la rinascita dei nazionalismi paralleli
negli altri Stati della ex Jugoslavia, confermante la
tesi, secondo la quale i nazionalismi croato, sloveno, serbo ed albanese ebbero modo di allimentare
e rafforzare l’un l’altro; “i nazionalismi non si sviluppano in isolamento, ma influenzano l’un l’altro
provocando una spirale di radicalizzazione”
(Dragović-Soso 2002, 257); il secondo fattore è,
secondo l’autrice, la natura del regime comunista
di Tito, il quale fu, “nonostante i suoi ‘abbellimenti occidentali’ ed una tolleranza maggiore nei confronti della diversità del pensiero, un regime non
liberale, nel quale la violazione dei diritti del cittadino e dell’uomo fu quasi endemica” (DragovićSoso 2002, 256). Di conseguenza si può affermare
che la questione della nazionalità serba rimane tuttora irrisolta, perché “non fu inventata nè dagli
intelettuali nè da Milošević, ma rappresenta l’eredità strutturale dello sviluppo storico e delle divisioni interne della Jugoslavia, che fu compiuta dai
comunisti jugoslavi alla fine della Seconda Guerra
Mondiale” (Dragović-Soso 2002, 256).
L’identità nazionale moderna del popolo serbo
rivela, dunque, la necessità di trovare una soluzione alle crisi esistenziali, che appartengono ad un
periodo in cui viene chiuso il ciclo della storia
serba del XX secolo, segnata dai drammatici conflitti nazionali ed ideologici, i quali hanno distrutto
le utopie ideologiche di un’epoca, sostituendole
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con una continua ricerca sull’ethnos serbo antico,
in modo da dare al popolo il senso di un ritorno al
passato.
Il ricercatore che desidera studiare ed analizzare in
modo imparziale i cambiamenti politici, economici, sociali e culturali che si verificarono in Serbia
alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo, deve
essere pronto ad un continuo confrontarsi con le
contraddizioni. Ed è proprio attraverso le contraddizioni, che Mladen Lazić ha cercato di descrivere
la Serbia. “Si tratta di uno Stato nazionale che in
trent’anni, durante le due guerre regionali e due
guerre mondiali, ha subito un’immensa perdita di
vite umane ed altrettanti danni materiali, per poi
essere presentato, alla fine di tale processo storico,
in modo quasi unanime, come uno Stato aggressore e delittuoso; uno Stato, la cui popolazione
sosteneva le guerre civili dell’ultimo decennio, ma
in mezzo alla quale esisteva contemporaneamente
una continua, pubblica e massiccia opposizione
alle guerre; è l’unico Stato nel quale, alle prime
elezioni post-socialiste multi-partitiche, vinse un
candidato comunista, che teneva nelle proprie
mani tutti gli elementi necessari per l’introduzione
di un governo autocratico, ma che non è mai
riuscito a placare le opposizioni politiche e culturali della società. Si tratta, infine, di un Paese nel
quale si scontrano il cosmopolitismo urbano e l’autismo tradizionale del mondo contadino” (Lazić
2005, 5-6). Il fatto di concepire la dominazione
ottomana come una storia recente permette di
spiegare l’amore immenso verso le caratteristiche
della cultura orientale, ma aiuta anche a far capire
la tendenza dei giovani del Paese verso la cultura
dell’Occidente, tendenza sviluppatasi per il senso
di disgusto che molti provano verso tutto quello
che appartiene al passato. L’insieme di queste contraddizioni seguono, secondo l’autore, la relazione
Occidente–Oriente; tradizionale–moderno, progressista–regressista, una carattersistica costante
dei Paesi, quale la Serbia, che si è trovata situata,
fino alla fine del secolo scorso, in un’area di confine. Alla fine degli anni Ottanta e in particolare
durante gli anni Novanta, si sviluppò in Serbia il
dibattito riguardante la fondazione storica e culturale della nazione e dello Stato nazionale. Lazić
considera il crollo del socialismo, al contrario degli
altri autori, come un cambiamento della società
verso il modello democratico e di mercato, il che
Ana Živković
significava un automatico avvicinamento verso
l’Occidente europeo.
In tale contesto di aspettative, si ottenne presto
anche il consensus di classificare Serbia quale uno
Stato europeo, con il crescente bisogno di costruire un forte orientamento europeo della nazione
dal punto di vista politico, economico e culturale.
Dall’altra parte, le guerre civili sul territorio dell’allora esistente Federazione jugoslava, durante le
quali la Serbia entrava in contrasti sempre più forti
con le politiche dei Paesi occidentali, hanno comportato il rafforzamento dell’orientazione isolazionistica che gradualmente rese maggiormente vigoroso il regime di Slobodan Milošević
(Ca mbia menti e resistenza ). Quindi il problema
principale rimase, ancora una volta, quello della
forte dipendenza dell’identità nazionale rispetto al
processo politico. Lazić sostiene però che tale
dipendenza deve essere precisata quando si passa
ad analizzare il periodo del regime di Slobodan
Milošević. “Identificando un periodo con un uomo
politico, si crea la tendenza di interpretare e di
spiegare sia l’insieme sia i singoli settori dei processi sociali esclusivamente in base alla realtà politica, nella quale Milošević rappresenta, non solo la
figura politica reale del Paese, ma diventa l’emblema dell’intera nazione” (Lazić 2005, 24). Neanche
gli avvenimenti del 5 ottobre del 2000 sono riusciti a cambiare questo modo di pensare e di identificarsi. Sono rimasti in vita gli stessi discorsi antagonistici, che dipendono dai rapporti di potere e
secondo i quali le singole identità si relazionano
all’autorità statale, ai valori dell’Occidente e ai
gruppi alternativi di opposizione, formati dagli
intellettuali e dalle ONG. Oggi sono, infatti, la globalizzazione, la transizione e il multiculturismo le
realtà nei confronti delle quali l’identità serba si
deve porre pro o contro.
Il giornalista serbo Petar Luković ha descritto il
proprio popolo dopo la caduta di Milošević come
segue: “Armato di una grande dose di fatica, d’insonnia e di depressione, nel quale ho trovato un
insieme di abbrutimento e di confusione, come un
prigioniero liberato dopo 13 anni di prigione, è difficile spiegare il sentimento collettivo dominante
davanti alla Serbia senza Milošević; tutto quello
che era bianco è diventato nero e tutti hanno
preso posizione contro il leader. Milioni di persone hanno cambiato divisa in 24 ore, cancellando il
Rassegna critica della letteratura serba
passato in un’amnesia ipnotica, come se non fosse
mai esistito” (Luković 2000, Forum javnosti n.787).
Il monopolio nel decidere il destino storico e politico dei Paesi più piccoli che, secondo il popolo
serbo, risiede nell’Occidente ha incrementato in
modo notevole la diffidenza nei confronti dei
moduli culturali e politici provenienti dai Paesi
occidentali. Si sviluppò un atteggiamento prudente
e sospettoso nei confronti del multiculturismo,
visto come una fonte di distruzione dello Stato.
Secondo tale logica e soprattutto dopo la crisi del
Kosovo e Metohija, l’insistenza sulle particolarità
etniche e sui diritti particolari delle minoranze si
percepisce in Serbia come un minaccia alla sovranità ed all’integrità territoriale, nonché come un elemento di supporto ai diversi processi di seccessione. Inoltre, è proprio grazie a questa diffidenza che
si forma l’aggressiva difesa di tutto quello che sia
serbo e nasce la paura, non solo di non poter ritrovare la propria identità, ma anche di vedere tale
identità definita da parte del mondo occidentale
secondo moduli estranei alle proprie tradizioni.
Esiste, al contrario, l’autore Jovan I. Deretić, che
nell’analisi dell’identità nazionale dei serbi, insiste
sull’importanza del rispetto e del confronto con le
identità degli altri. Egli, infatti, afferma che la paura
di perdere l’identità e il bisogno dei serbi di rafforzare la coscienza nazionale, per rendere maggiormente vigorosa l’unione spirituale, non deve essere considerato come una conseguenza del nazionalismo esasperato e mistico o del odio verso il
mondo esterno, ma una forte necessità di sviluppare il senso di appartenenza alla nazione; e tale
tipo di necessità si mette in evidenza ogniqualvolta il popolo si trova in una situazione di crisi. “Non
possiamo essere parte della cultura europea finché
trascuriamo la nostra cultura” (Deretić 2005, 27); e
il “difetto nazionale più grande dei serbi rimane
quello di non rispettare abbastanza sé stessi. Più
diventano grandi i problemi causati dai fattori
esterni, più diminuiscono i sentimenti di stima e
reverenza fra i singoli membri, invece di essere al
contrario” (Deretić 2005, 31-32 ).
Seguendo quest’indagine si può sostenere che l’identità del popolo viene definita anche in relazione all’immagine che di esso si ha nel mondo occidentale. Si sostiene, infatti, che i serbi hanno
un’immagine cattiva nei media americani e in quelli occidentali in generale; la spiegazione si basa sul-
33
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l’insistenza con cui essi si sono rifiutati di sottomettersi a questa unica volontà; perché hanno
rifiutato di mettersi in funzione di questo interesse
unico; perché hanno un forte senso di libertà, di
indipendenza statale, di dignità nazionale. La ‘cattiva immagine’ del popolo serbo nei media occidentali, e soprattutto nei media americani, potrebbe essere considerata, oltre che una conseguenza
della propaganda durante e dopo la guerra, anche
una rappresaglia per questo modo di essere del
popolo serbo. Tuttavia, quest’immagine è dovuta
anche all’assenza di qualsiasi tentativo serio da
parte serba di renderla meno brutta e migliore. I
serbi, in modo ingenuo, troppo ingenuo, erano
convinti che la verità sarebbe venuta fuori da sola
e che alla fine la giustizia poteva prevalere. Sono
un popolo irrazionale in modo quasi infantile, un
po’ utopistico e abbastanza romantico (Notte e
giorno – Dia rio).
Un’immagine curiosa del popolo serbo si trova
nelle pagine del diario di guerra della drammaturga serba, Biljana Srbljanović, da sempre molto critica con il regime. Le pagine sono state pubblicate
sul quotidiano la Repubblica dove si legge: “Come
riconoscere i serbi all’estero? Ci sono due modi. Se
vedete un gruppo di persone che parlano tanto a
bassa voce che neanche possono sentirsi, e che
sono costretti a leggere le parole gli uni sulle labbra degli altri, allora c’è grande probabilità che
siano serbi. La gente messa in condizione di dover
nascondere la propria origine, la propria identità
nazionale, la gente che si vergogna per quello che
il loro Paese sta facendo in suo nome: sono queste
le caratteristiche dei ‘nostri’ all’estero. Allo stesso
modo, se sentite un gruppo urlare canzoni nazionaliste ed espressioni di sostegno al regime serbo
che risuonano nelle strade, se per caso vedete la
gente in corteo che urla slogan in onore della gloria serba, con gli errori di grammatica obbligatori,
non abbiate dubbi: anche quelli sono serbi. Il
primo gruppo si distingue perché ogni volta che
sente un rumore più forte ha un sussulto, sobbalza ad ogni decollo degli aerei civili, e a ogni ‘scoppio’ di tubo di scappamento si copre la testa con le
mani. Sono serbi appena arrivati all’estero, alcuni
solo di passaggio, come me, e si portano dietro le
conseguenze dei giorni passati sotto le bombe, e
dalle quali non si possono liberare tanto facilmente. Gli altri, che si sono invece sistemati qui da
34
tanto tempo, hanno leggermente dimenticato la
loro lingua materna, contaminandola con parole
straniere. Credono di ‘serbizzare’ l’Occidente,
senza accorgersi che si stanno invece allontanando
dalle proprie origini. A dividere queste due Serbie
all’estero è la stessa cosa che le divideva a casa: una
terribile spaccatura dei cittadini di uno stesso
Paese in due gruppi irriconciliabili. I primi, quelli
‘tranquilli’ sono al limite della sopportazione della
guerra, delle insegne nazionaliste, della povertà
economica e umana. Gli altri, anche se sembrano
ancora affamati di nuove battaglie, che bramano
ardentemente di perdere, come la famosa antica
battaglia del Kosovo, non hanno un vero interesse
per la morte e la miseria, perché hanno già deciso
di abitare qui. Il normale istinto umano di fuggire
il pericolo, ha portato quelli che urlano qui, nel
mondo occidentale. E qui nella comodità dei loro
appartamenti, della previdenza sociale e dei conti
in banca, parlano nel nome di quelli come noi che
soffrono le vere conseguenze della guerra. E urlano: ‘Chi può dire, Chi può mentire, che la Serbia è
piccola? Non è piccola, Non è piccola, Perché ha
combattuto per tre volte...!’. Questa canzone che
cantano, non è solo brutta ma è anche falsa: la
Serbia, purtroppo, è piccola, più piccola che mai, e
ha guerreggiato più di tre volte. Già quattro, solo
nell’ultimo decennio. Nonostante, possa sembrare
che queste due categorie di persone siano diverse,
irriconciliabili, quasi in guerra tra di loro, c’è tra
loro un forte legame. È quella stessa sensazione di
essere derubati della vita, usurpati della gioventù e
di aver perduto per sempre il tempo in cui potevamo dedicarci a costruire il nostro Paese al quale
rimaniamo tutti, nonostante le differenze, molto
legati” (La Serbia che urla e quella che pensa ).
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37
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul
Kosovo: Dall’Albania all’Albania
Focus: Kosovo
Introduzione
Il Kosovo è diventato sinonimo del disordine e della difficile convivenza, fattori
questi che influenzano tutt’ora il suo sviluppo politico, sociale ed economico. Al
Kosovo, oggi si chiede di superare questi limiti ereditati dal passato. Eppure
dimenticare non è la soluzione giusta perché per voltare pagina serve una corretta riflessione sui fatti del passato, per non incorrere negli stessi errori.
Solo guardando al passato possiamo rintracciare le ragioni di quello che è successo in quella regione dove la violenza ha riacceso uno sfrenato nazionalismo.
E come disse Hannah Arendt “la violenza tra sforma il pa triottismo in na ziona lismo” (Arendt 1989, p. 316), e genera nuova violenza. Risultato di una visione del mondo basata sul criterio della superiorità e inferiorità della razza che rafforza l’etnocentrismo e determina un nuovo sistema sociale e politico dove l’altro viene percepito come nemico.
Questo nazionalismo trae origine dall’espansione dei movimenti panslavisti che
hanno avuto origine nell’Europa centro-orientale nel 1880 e che ponevano come
obiettivo la conquista sul continente con la pretesa di avere lo stesso diritto degli
altri popoli occidentali ad occupare altri territori. Caratteristiche di questo movimento erano il disprezzo alla limitatezza dello stato nazione e il richiamo ad un
ampliata coscienza etnica. Questa ultima “si supponeva unisse tutte le popolazioni della stessa origine etnica indipendentemente dalla loro storia, lingua e
luogo di residenza”. Inoltre questi movimenti avevano molte affinità con le concezioni razziali dove le idee sulla razza divennero la base ideologica che si trasformò in seguito in arma politica. Si espansero nella massa e “quel che li tenne
uniti fu lo stato d’animo” costruito attorno ad un centro di potenza all’interno
della madrepatria: la Russia. “I fra telli minori fuori da lla Russia – secondo la
Arendt – forma va no un comodo pa ra vento di a utodetermina zione na ziona le ovvero la pia tta forma per un’ulteriore espa nsione” (Arendt 1989, p. 315).
E così fu! Il nazionalismo tribale si espanse nei paesi slavi della penisola balcanica,
ponendo lo stesso obbiettivo, espandersi alle spalle degli altri. Costituito da elementi inesistenti pseudomistici come l’invenzione di un passato glorioso che fa di
loro il popolo eletto ha contribuito alla legittimazione della causa nazionalistica. Il
mito della razza origina il razzismo facendo dividere tra razza superiore e inferiore
dove i “superiori” devono compiere il loro destino di popolo eletto e gli “inferiori” devono essere eliminati per poter portare a termine questa missione divina.
38
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
Il nazionalismo non si sviluppò allo stesso modo in tutti gli stati balcanici. Nei territori albanesi mancò l’elemento religioso servito agli altri Stati per creare quell’unità che diede la forza alla creazione di uno Stato indipendente. La religione
non riuscì mai a radicarsi nella vita della popolazione albanese perché i suoi territori sono stati sempre un crocevia di imperi, culture e religioni. Questa alternanza di dominazioni straniere vide inizialmente i territori albanesi abbracciare
la fede cristiana sotto l’impero romano. Con il Grande Scisma nei territori albanesi iniziano a convivere la chiesa d’oriente e quella d’occidente. Appartenere al
cattolicesimo o all’ortodossia assumeva lo stesso valore per la popolazione.
L’arrivo degli slavi ruppe l’armonia tra le due religioni imponendo la scelta dell’ortodossia. Trovandosi in mezzo al scontro tra le due chiese la popolazione non
si schierò a nessuna delle religioni facendo si che la religione perdesse il carattere identificativo.
L’impero che dominò più a lungo i territori albanesi fu l’impero ottomano che
portò con sé una nuova religione l’Islam. L’Islam trovò un terreno “fertile” per
espandersi, a causa dell’indebolimento delle chiese e a causa del rifiuto da parte
del popolo albanese di aderire al processo di slavizzazione e grecizzazione degli
albanesi che da tempo era in atto. Nei suoi cinquecento anni di dominio i turchi
si dimostrarono tolleranti nei confronti della religione creando l’istituzione di
millet che permetteva il mantenimento della propria identità religiosa, della propria storia e della propria lingua.
Ed è stato questo processo a far sì che il popolo albanese non basasse la formazione del loro stato sull’elemento religioso. L’origine comune, la lingua e la storia furono gli elementi che unirono il popolo albanese e lo hanno condotto a
volere l’indipendenza. Ed è da questa origine comune che si fa riferimento agli
illiri. Molti autori Serbi, partendo dal presupposto che gli Illiri sono un mito e
non un popolo realmente esistito, accusano gli studiosi albanesi che parlano
degli Illiri di usare quessto mito per una “pretesa di territorio”. Il vero mito è,
invece, quello della “serbità” del Kosovo ed è stato questo mito che, nel 1989, nel
centenario dalla Battaglia del Kosovo venne riproposto da Miloscevic.
Riaccendendo l’orgoglio nazionalista e il desiderio di riconquista della “terra
santa” ovvero la memoria comune, tolse così al Kosovo ogni autonomia. La
“riconquista” diventò l’elemento centrale del nazionalismo serbo. Promettendo
un futuro utopico è riuscito ad avere il consenso del popolo. Rovesciò la verità,
riscrivendo la storia che a sua volta spinse all’odio e alla violenza davanti agli
occhi di tutto il mondo e nel secolo dei diritti umani. Per questo il Kosovo non
deve dimenticare ma riflettere in modo corretto per quanto riguarda il passato.
E come dice lo scrittore albanese Ismail Kadare: “Qua ndo i popoli dei Ba lca ni
a rrivera nno a conoscere se stessi, qua ndo riuscira nno a scrolla rsi di dosso,
come fa nno gli a lberi con le fogli secche, le fa vole con le qua li si sono a limenta ti, i miti inga nnevoli, le gonfia ture grottesche, il pia gnucola re pietoso, requisiti che odora no di muffa e odio, insomma qua ndo i Ba lca ni comincera nno
a d a vvia re questo processo, a llora si può dire che l’epoca dell’ema ncipa zione
è inizia ta a nche per loro”(Kadare 2004, p. 17).
Gli Illiri: predecessori degli albanesi
“Illiria”e “Illiri”: due nozioni che consapevolmente associamo agli albanesi.
Questo non sempre per dimostrare le origini di questa popolazione, ma anche
39
n.17 / 2007
1
Il significato più vasto
della nozione “Illiri” e del
loro territorio è dimostrato dallo storico Appiano
di Alesssandria il quale
afferma: “i greci chiamavano illiri quelli che abitavano sopra la Macedonia
e la Tracia, a partire dai
Caoni e Thesproti, fin
dove sorge il fiume Ister.
Questa è la lunghezza del
territorio, invece la larghezza va dai Macedoni,
Traci e Paioni fino allo
Ionio e fino alle alpi” (AA.
VV. 2003).
40
per negare tale discendenza. È diventata ormai una consuetudine polemizzare su
questo tema creando a volte dei dibattiti dai quali non riusciamo a uscirne fuori.
Anche al di fuori del mondo accademico, molti hanno una loro tesi da esibire
basata a volte su poca o cattiva informazione, altre volte queste vengono strumentalizzate per ragioni che, per il contesto del quale parliamo, variano. Come
dice Raymond Detrez: “Nei Ba lca ni, l’uomo na sce storico” (Detrez 2004, p. 8).
La questione dell’origine e della formazione dell’etnogenesi degli Illiri è stato al
centro di molti studi archeologici che hanno prodotto una molteplicità di tesi.
Due di queste sono le più discusse dai ricercatori: la prima considera gli Illiri
come provenienti da fuori e insediatisi nella penisola balcanica e la seconda li
valuta come una popolazione autoctona venutasi a formare nel tempo in questo
territorio. Tuttavia, nessuna di esse mette in dubbio che gli Illiri fossero una delle
popolazioni più numerose dell’Europa nell’epoca del Ferro e che il loro territorio coprisse tutta la parte sud-occidentale della penisola balcanica (Jr. Fine, V.A.
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Gli archeologi albanesi rifiutano la prima tesi ritenendola contraddittoria, sia per
quanto riguarda il paese di origine, sia il periodo del loro arrivo. Questo perché
alcuni sostenitori di questa tesi associano la loro espansione con la nascita della
cultura Ha llsta tt, una delle prime culture dell’età del Ferro, sviluppatasi tra l’850
e il 450 a.C. nell’Europa centrale e occidentale e nei Balcani. Altri invece, la collegano con la cultura dei Campi di Urne dell’età del Bronzo europeo il cui nome
deriva dalle necropoli a cremazione, con tombe a fossa contenenti urne o vasi
con le ceneri, ampiamente diffuse nel II millennio a.C. nell’Europa centrale e
centro-occidentale. Sempre secondo quest’ultima tesi, verso la fine del secondo
millennio a.C., gli Illiri parteciparono allo spostamento delle popolazioni che noi
conosciamo come le invasioni doriche, che si stabilirono nel continente e nelle
isole dell’Egeo. Entrambi i popoli invasori discesero dal nord (Europa centrale)
agli inizi dell’epoca del Ferro e si stabilirono nella penisola balcanica.
La seconda tesi è quella sostenuta dagli archeologi albanesi che considerano la
cultura degli Illiri come un fenomeno sviluppatosi nel tempo durante un lungo
processo storico iniziato verso la fine dell’epoca del Bronzo e che è proseguito
nell’epoca del Ferro (Ceka, Korkuti 1998, pp. 61-66). Grazie alle numerose prove
rinvenute nel territorio degli Illiri soprattutto con le scoperte archeologiche
compiute nel territorio dell’Albania (necropoli di Koman) e della Bosnia
Erzegovina (necropoli di Glasinac), dove come rito funerario veniva usata la
tumulazione, possiamo affermare che questa civiltà abbia conosciuto uno sviluppo etnico ininterrotto. Le scoperte di tali necropoli hanno fatto crollare le tesi
che collegano l’origine degli Illiri con le culture di Halstatt o con la cultura dei
Campi di Urne.
Inoltre, queste scoperte archeologiche confermano quale fosse il territorio abitato dagli Illiri come sostenuto dagli storici antichi quali Erodoto, vissuto nel
secolo V a.C., secondo il quale “il nome Illiri comprendeva un territorio molto
va sto, che a suo pa rere a rriva va a d est fino dove sorgeva il fiume Mora va ” 1..
Il territorio illirico comprendeva, quindi, tutta la parte occidentale della penisola balcanica, a partire dai fiumi Morava e Vardar ad est fino alle coste
dell’Adriatico e dello Ionio ad ovest, dal fiume Sava al nord fino al golfo di Arta
al sud (Ceka, Korkuti 1998, p. 62).
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
Figura 1: Il territorio degli Illiri
41
n.17 / 2007
2
Tra le tribù più antiche
c’erano i Thesproti, i
Caoni, i Molossi, gli
Amanti, i Paruej, i Bylini,
gli Antintani, i Taulanti,
gli Ardiani, i Paioni, i
Dardani, i Liburni, i
Dalmati e gli Autariati.
3
Per cultura intendo
“quel complesso di elementi che comprende
conoscenze, credenze,
arte, morale, leggi, usi e
ogni altra capacità e usanze acquisite dall’uomo in
quanto membro di una
società” (Tylor 1985-88).
4
Nel secolo XIII, con
Albania e Albanenses
venivano nominati tutti i
territori e le popolazioni a
partire dai confini di
Dioclea fino al golfo di
Arta. I viaggiatori stranieri
testimoniavano come in
tutto questo territorio la
popolazione avesse le
stesse caratteristiche
comuni etno-culturali.
Anche le cronache serbe,
quando descrivono l’espansione dello stato di
Rascia verso il Kosovo e
verso la Dioclea nel secolo XII, danno notizia di
come i serbi avvessero
trovato nei territori una
popolazione che venisse
chiamata gli Arbanasi,
Arbanenses (AA.VV.
2003).
5
L’apostolo Paolo attorno
al anno 57 scrisse: “Allora,
da Gerusalemme e dintorni e fino all’Illiria ho
svolto la missione della
rinascita del Cristo, tentando di evangelizzare
anche lì, dove non era
conosciuto il nome del
Cristo” (AA. VV. 2003).
42
Altre informazioni hanno dimostrato la presenza degli Illiri anche al di fuori del
loro territorio storico. Vari gruppi, tra i quali i Messapi e i Iapigi si stabilirono nel
sud della odierna Italia; invece, in Asia minore si spostò una parte della popolazione delle tribù della Dardania e della Paionia le quali vennero citate nell’epos
Omerico come partecipanti accanto ai Troiani alla guerra contro i greci.
Nei primi secoli dell’ultimo millennio a.C. le tribù illiriche si erano stanziate in
modo stabile nella penisola balcanica2 e da allora ebbe inizio un processo di
costruzione di un etnos comune che lo differenziava dalle culture3 degli altri
popoli vicini. La cultura illirica si presentava come una cultura autoctona, espressione delle conquiste illiriche più importanti nel campo economico e sociale, del
modo di vivere, della percezione del mondo che li circondava e del modo in cui
rappresentavano in arte questa percezione del mondo.
Sarà questa cultura comune con i suoi elementi linguistici e religiosi a dimostrare come l’evoluzione dell’etnos illirico abbia portato alla formazione della cultura albanese di oggi. Un momento cruciale a conferma di tutto ciò fu la scoperta
nell’anno 1898 di una grande necropoli nelle vicinanze del castello di Dalmata
nel villaggio Koman di Puka (città situata nella parte meridionale dell’Albania).
Questa necropoli dimostrò per la prima volta come gli Illiri, abitanti di quel territorio, non furono mai sostituiti dall’arrivo di una nuova popolazione ma continuarono ad esistere sotto il nuovo nome di Alban, (Albanoi o Arben), dal nome
della tribù illirica stanziata al centro dei territori illirici, dove già passava la famosa via Egnatia. Infatti, nel II secolo d.C., il geografo alessandrino Ptolemeo avvisava la presenza in questi territori della tribù con il nome Albanoi e del loro centro, Albanopolis4.
Successivamente, furono ritrovate simili necropoli, circa 30, sparse principalmente nella parte settentrionale e centrale dell’Albania, in Montenegro, in
Kosovo e nella Grecia settentrionale. La diffusione geografica, la tipologia, l’inventario e la cronologia comune di queste necropoli hanno spinto molti studiosi ad identificare in esse, l’antica cultura medievale albanese o la “Cultura di
Koman” comparsa nei secoli VI-VIII. La “Cultura di Koman” testimonia l’esistenza della cultura di un popolo che nei secoli VI-VII visse in questa regione nella
fase di passaggio tra le due epoche, da quella tarda antica a quella antica medioevale. Nelle tombe furono ritrovati: armamenti, attrezzi lavorativi e decorazioni
raffiguranti elementi pagani illirici, i quali confermarono la presenza degli antichi
abitanti di questi territori, gli Illiri. Oltre a questi elementi, nelle necropoli furono rinvenuti ulteriori elementi artistici e religiosi che si collegavano alla cultura
antica di Bisanzio. La presenza degli elementi religiosi testimonia come i rappresentanti di questa cultura avessero aderito alla fede cristiana. Infatti, il territorio
albanese è considerato dagli studiosi come una delle regioni del mediterraneo
dove il cristianesimo penetrò sin dal I secolo – come religione illegale – ma la
cui affermazione avvenne attraverso lotte contro una molteplicità di elementi
pagani5, che diedero delle connotazioni specifiche alla religione del popolo albanese e fecero sì che non si generasse quel fanatismo religioso sviluppatosi in altri
paesi che nei secoli avrebbe dato origine all’intolleranza religiosa. Gli albanesi
credevano in Dio ma allo stesso tempo adoravano gli dei e temevano i demoni,
le anime cattive, za na (elemento tipico illirico che è stato ereditato anche dagli
albanesi). Questa eredità pagana diventò uno dei principali problemi della popolazione albanese perché ciò era considerato un’eresia da parte del clero quando
il culto della religione cristiana iniziò a non essere più illegale. Il clero valutava la
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
cristianità albanese come popolare e non come dottrinale.
Tuttora, in Albania, si trovano edifici come monasteri, battisteri e basiliche del
secolo IV-VI e nei loro mosaici troviamo ancora elementi paleocristiani come
fogli di piante a forma di cuore, la figura del pesce o della croce che identificano
il Cristo. Elementi che dimostrano come il cristianesimo fosse presente in questi
territori prima della sua formalizzazione. Il riconoscimento della religione cristiana avviene nei secoli successivi (V-VI) con l’ampliamento delle comunità cristiane, delle pratiche e degli edifici del culto. Durazzo e Nikopolis furono i centri lungo il mare da dove poi il cristianesimo si espanse nelle quattro province illiriche.
La lingua è un altro elemento importante che dimostra la continua evoluzione
dell’etnos illirico fino alla formazione della comunità degli odierni albanesi. Gli
Illiri parlavano una lingua di origine indoeuropea che presentava alcune caratteristiche comuni con la lingua dei Traci. Anche se si crede che gli Illiri non abbiano mai avuto una lingua scritta, perché si usava come lingua ufficiale e commerciale la lingua greca e successivamente la lingua latina sotto il dominio dell’impero romano, la lingua illirica è rimasta viva nel tempo6. Lo dimostrano alcuni
documenti, che ci offrono circa 1000 parole, scritte sia nell’alfabeto greco che in
quello latino. Una ulteriore testimonianza è fornita dallo storico Polibio, il quale
racconta delle conversazioni tra il re Gentius e i delegati macedoni, che venivano tradotte da interpreti che conoscevano la lingua illirica (AA. VV. 2003).
Molti studiosi, archeologi, storici, antropologi e linguisti, hanno portato una
serie di argomentazioni che riguardano la lingua illirica e l’origine della lingua
albanese. Tra queste troviamo l’argomentazione del noto linguista Eqerem
Cabej, il quale parte dal fatto che l’attuale popolo albanese vive oggi nel territorio dove anticamente vivevano le popolazioni illiriche. Le fonti storiche non ci
dimostrano la presenza di migrazioni degli albanesi da altre regioni in quella
attuale (cosa che dimostra come la popolazione che abita oggi questo territorio
discenda da quella precedente e che la lingua parlata da questa popolazione
fosse quella del popolo stanziato anticamente in quella regione). Inoltre, gli elementi linguistici delle tribù antiche come ad esempio nomi di paesi, tribù, persone, glosse ecc…, che sono stati identificati come illirici, trovano significato
nella lingua albanese7. I toponimi antichi dei territori illirici comparati con quelli
attuali - Drisht (Drivastum), Shar (Scardus), Shkodra (Scodra), Mati (Amatia) testimoniano che sono stati coniati secondo le regole fonetiche della lingua albanese, ovvero sono state trasmesse oralmente da popolazioni che hanno continuato a parlare la stessa lingua. Egli prosegue il suo discorso affermando che il
legame con la lingua greca e latina mostra come la lingua albanese si sia sviluppata contemporaneamente a queste due. Oltre a ciò, altri studiosi spiegano la
presenza di numerose parole latine e greche antiche nella lingua albanese, grazie alle relazioni strette create dai romani e gli antichi greci con i predecessori
degli albanesi.
Possiamo concludere affermando che la “Cultura di Koman”, sia nella sua eredità della tarda cultura illirica sia nei nuovi elementi del periodo antico medioevale bizantino, insieme ai segni chiari della fede cristiana, caratterizzò nel medioevo lo spazio nel quale vissero gli albanesi. Essa, assieme agli elementi linguistici
oltre a svelare una continuità dell’etnos, distinse gli Arber dalle altre popolazioni vicine, antiche e nuove, greche e slave.
6
Un ramo della lingua illirica conosciuta è la lingua
dei Messapi nel sud
dell’Italia. Sono stati trovati più di 2000 documenti scritti con un particolare tipo di alfabeto, un
miscuglio tra il dorico e
alcune lettere particolari
che servivano a produrre
suoni tipici della loro lingua.
7
Altri studiosi aggiungono che non solo trovano
significato tramite la lingua albanese ma continuano a essere usati nella
odierna lingua albanese
come per esempio:
Dassios = Dash, Dida =
Dede, Bardhylis = Bardhe
ecc…
43
n.17 / 2007
Arrivano gli Slavi
8
Secondo Procopio di
Cesarea, storico nella
corte di Giustiniano:
“solo nella sua terra d’origine, Dardania, lui ha
ristrutturato 61 castelli e
ne ha costruiti altri 8
dando a uno di questi
castelli il suo nome,
(Justiniana Prima)” (AA.
VV. 2003).
9
L’odierna città di Spalato
(Croazia)
44
I primi Slavi vivevano nelle zone paludose e boschive dell’odierna Polonia, Russia
occidentale, Bielorussia e Ucraina. A partire dal 150 d.C. queste popolazioni
cominciarono a espandersi verso nord assorbendo gran parte delle popolazioni
che occupavano i territori finlandesi e baltici e poi verso ovest, dove si scontrarono con le popolazioni germaniche e celtiche. Mentre, nel VII secolo avevano
già raggiunto, a sud, i mari Egeo e Adriatico, invadendo una parte dei territori
Balcanici, facenti parte dell’impero bizantino, nato dalla scissione dell’impero
romano che alla morte dell’imperatore Teodosio venne diviso in due parti, affidate allora ai suoi due figli, Arcadio, imperatore d’Oriente (395-408), e Onorio,
imperatore d’Occidente, che governò dal 395 al 423 e che nel 402 trasferì la capitale a Ravenna. Il desiderio d’espansione dell’impero verso Oriente spinse i
romani a dirigersi verso i Balcani. Desiderio che veniva ostacolato dalle tribù illiriche, che vantavano una potenza navale e terrestre notevole, infatti il potenziamento dello Stato illirico rappresentava un potenziale pericolo per gli interessi
dei romani, ovvero, il controllo dell’Adriatico. Utilizzando il pretesto della pirateria, Roma nel 229 a.C., mosse guerra contro l’Illiria. Inizialmente i romani
riuscirono ad occupare solo una parte del territorio illirico ragione per cui seguirono altre due guerre, sempre vinte dai romani. A seguito della terza guerra
romana-illirica l’intera Illiria venne conquistata e smembrata in distretti. Infatti,
sotto Diocleziano e dopo Costantino, l’unità amministrativa più importante
divenne la prefettura, la quale comprendeva alcune diocesi, le quali a loro volta
erano divise in un numero più grande di province. La prefettura di Illyricum
(praefectura praetorio per Illyricum) comprendeva le diocesi di Dacia e
Macedonia. Dentro quest’ultima facevano parte le 4 province di Preval, Dardania,
Nuovo Epiro e Vecchio Epiro, che rappresentavano lo spazio geografico abitato
dagli illiri. Il nuovo Regnum Illyricum divenne così vassallo di Roma. Tuttavia, la
successiva divisione dell’impero portò il Regnum Illyricum sotto l’influenza dell’impero d’Oriente.
Continuando con l’arrivo degli Slavi nei Balcani, possiamo sostenere che essi si
trovarono di fronte ad un impero fragile, indebolito a causa delle invasioni dei
Goti, Ostrogoti e Visigoti cominciate già nel secolo IV. Attorno all’anno 548 un
numeroso gruppo di Slavi irruppe in alcune delle province, giungendo fino alle
vicinanze di Durrazzo. Per frenare queste incursioni, l’imperatore Giustiniano,
nato a Taurisium (Dardania), si dedicò alla costruzione di un sistema di fortificazioni, che cominciava da nord vicino al Danubio continuando verso sud8. Il
numero dei castelli costruiti nelle quattro province dell’Illiria meridionale arrivò
fino a 168. Tuttavia queste misure riuscirono a frenare solo provvisoriamente le
incursioni dei popoli “barbari” che divennero ancora più violente quando gli
Slavi si unirono con gli Avari, una popolazione nomade. L’attacco più potente
che gli Slavo-Avari inflissero all’Illyricum fu quello dell’anno 609 dove devastarono intere regioni come Macedonia, Tessaglia, Beotia e fino al Peloponneso, da
cui partivano le navi slave verso le isole dell’Egeo e dell’Asia Minore. I territori
dei Dalmati furono quelli più colpiti dalla avanzata Avaro-Slava che portò all’occupazione e alla distruzione definitiva della città di Salona9. Invece, le altre città
vicine come Budva, Ulqini, Scuttari, Lezha riuscirono a resistere ai loro attacchi.
Diversamente dagli altri popoli, l’invasione slava nei Balcani venne accompagna-
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
ta da un nuovo fenomeno, quello dello stanziamento. Nei territori da loro occupati essi cominciarono a formare gli “Skla vini ” o territorio slavo. Verso la fine del
secolo VI e l’inizio del secolo VII, skla vini simili si erano già formati in
Macedonia, Tracia, Tessaglia, Beotia e Peloponneso. Dalla Macedonia, gli Slavi
riuscirono a penetrare nel territorio dell’odierna Albania senza giungere a formare delle comunità compatte. Lungo la costa dalmata, dalle Bocche di Cattaro
in su, si stanziarono le tribù slave di trebinji , ka na vliti , za klumi , na renta ni (AA.
VV. 2003). Costantino VII (905-959), imperatore e storico detto Porfirogenito, nel
X secolo definì queste comunità come tribù slave, invece, per gli abitanti della
Dioclea che abitavano sotto le Bocche di Cattaro egli non le classificò in questo
modo, ma le chiamò tribù illiriche.
All’inizio del secolo VII, l’imperatore Eraclio, permise la stabilizzazione di due
tribù slave, i Croati e i Serbi. La linea che divideva gli insediamenti di queste due
tribù coincideva con la linea della divisione dell’impero romano in quello occidentale e quello orientale. “I Croa ti si era no sta biliti a l nord e a ll’ovest della
linea , mentre, i Serbi si sta nzia rono a l sud-est” (AA.VV 2003). Questi ultimi
occuparono il bacino dei fiumi Lim e Drina superiore assieme a Piva e Tara, il
bacino del Ibar e la parte superiore del versante occidentale del fiume Morava.
Al sud e all’ovest i Serbi confinavano con la Dioclea e con altre tribù slave arrivando fino al fiume Lim, con al centro la regione di Rascia, al nord dell’odierna
Novi-Pazar. L’arrivo delle tribù slave portò una ulteriore modifica molto significativa alla composizione etnica dei territori balcanici. Ciò contribuì a trasformare in profondità le strutture culturali e istituzionali del sistema imperiale che
andava sempre più indebolendosi. Trasformazione che proseguì con il rafforzamento dello Stato Bulgaro, soprattutto durante la supremazia degli Zar Simeone
e Samuele. Nei secoli IX-X, ci furono molte incursioni di Slavi-Bulgari nei territori precedentemente occupati dagli Slavi delle altre tribù. Questo dominio finì
con la riconquista del potere da parte dell’impero bizantino che venne organizzato in signorie governate dalla popolazione locale. A difesa dell’impero vennero spostate intere comunità di Slavi in Tracia e in Asia Minore con l’obiettivo di
proteggere i legami con la costa Adriatica, raggiungibile tramite la Via Egnatia.
Tuttavia, rimane il fatto che nelle zone periferiche dell’impero una parte della
popolazione autoctona subì spesso l’assimilazione o, a volte, il completo annientamento.
Tra il VII e il XII secolo, anche i Serbi, come le altre popolazioni della penisola
subirono il dominio dei grandi imperi: prima quello bizantino, poi quello bulgaro di Simeone, poi nuovamente quello bizantino. Solo verso l’inizio del XII secolo i Serbi riuscirono a formare dei piccoli principati guidati da uno zupa n . Il
primo di cui abbiamo conoscenza è Tihomir, un pastore che nel 1136 divenne
Grande Zupan. Durante i secoli la situazione cambiò e iniziarono a emergere due
entità nazionali: la Zeta, che darà origine al Montenegro (la vecchia Dioclea), e la
Rascia (o Raska), dalla quale nascerà la Serbia. Entrambe subirono l’influenza
politica, culturale e religiosa dell’impero bizantino e, grazie all’attività missionaria di Cirillo e Metodio, videro la diffusione del cristianesimo e dell’alfabeto cirillico10. I Serbi furono unificati per la prima volta ad opera di Stefan Simon
Nemanjic – già zupan – il quale intorno al 1168 fondò nel territorio della Rascia
il regno della Serbia. A Stefano Nemanja succedette il figlio secondogenito
Stefano I. Durante il regno di quest’ultimo (1196-1127) venne creata una Chiesa
10
Cirillo e Metodio
sono"apostoli degli slavi".
Cirillo (Tessalonica 827 869) e Metodio
(Tessalonica 815 ca. 885) fecero parte di una
missione inviata nel 860
dall'imperatore Michele
III presso i càzari, una
popolazione tartara il cui
capo praticava l'ebraismo.
Nell'862-863, preparandosi a intraprendere una
missione nella Grande
Moravia per evangelizzare
gli slavi, Cirillo creò il
primo alfabeto slavo,
detto glagolitico, il cui
uso è oggi quasi del tutto
scomparso. Essi hanno
tradotto alcuni libri del
Nuovo Testamento in
paleoslavo e fecero di
queste traduzioni la base
della liturgia in lingua
slava. Osteggiati dal clero
germanico, vennero convocati a Roma da papa
Niccolò I per spiegare i
motivi del mancato utilizzo del latino nelle cerimonie religiose; tuttavia, il
papa Niccolò morì prima
che raggiungessero
Roma, e Adriano II, suo
successore, approvò la
liturgia slava. Cirillo morì
a Roma, mentre Metodio
tornò in Moravia, dove
proseguì la sua opera
missionaria e divenne
arcivescovo nell'869.
Cirillo e Metodio vennero
canonizzati nel 1881 da
papa Leone XIII.
45
n.17 / 2007
11
According to Law no. 6,
"The ecclesiastical authority must strive to convert
such (i.e., Catholics) to
the true faith. If such a
one will not be converted..., he shall be punished by death. The
Orthodox Tsar must eradicate all heresy from his
state. The property of all
such as refuse conversions shall be confiscated... Heretical churches
will be consecrated and
open to priests of
Orthodox faith".
According to Law no. 8,
"If a Latin priest be found
trying to convert a
Christian to the Latin
faith, he shall be punished by death".
According to Law no. 10,
"If a heretic be found
dwelling with the
Christian he shall be marked on the face and
expelled. Any sheltering
him be treated the same
way".
46
ortodossa serba autocefala – nel 1217 essi conquistarono Peja (Pec) che divenne
nel 1346 la sede del Patriarcato Serbo – e la religione ortodossa diventò così religione di stato. Essa venne utilizzata dai diversi sovrani per giustificare l’espansione territoriale nella penisola balcanica che serviva a realizzare un obiettivo: la
sostituzione di Costantinopoli diventando così il nuovo centro del mondo ortodosso-bizantino.
L’espansione verso sud e soprattutto verso i territori del Kosovo venne accompagnata da nuove trasformazioni etnico e sociali. La maggior parte dell’aristocrazia del posto fu privata della terra e della ricchezza e fu sostituita dai nuovi aristocratici serbi sia essi laici sia appartenenti al clero. A partire dalla metà del secolo XIII furono “serbizzate” le chiese e i monasteri del Kosovo, inoltre, vennero
costruiti nuovi edifici di culto ortodossi ai quali venivano messi a disposizione
vasti territori. Durante il regno di Stefan Dushan, verso la metà del secolo XIV, la
maggior parte dei monasteri furono “convertiti al rito serbo”, come per esempio
i monasteri di Decani, Gracanica, Banjska, ecc…, che assieme al monastero di
Pec e Prizren occupavano numerosi villaggi del Kosovo.
Tuttavia, il re e la chiesa serba, trovatasi sotto la pressione e le minacce del
Papato e delle grandi potenze cattoliche dell’Europa, furono obbligati inizialmente a tollerare la presenza della chiesa cattolica nei territori occupati da poco.
Dobbiamo ricordare che una parte della popolazione albanese in questo periodo aveva già aderito al credo cattolico sotto l’influenza di Venezia. Questa pressione politica del papato valse soprattutto per i territori della Dioclea tradizionalmente legati a Roma. Per evitare il confronto con le popolazioni locali e con
il mondo cattolico occidentale, i primi re della dinastia di Nemanja riconobbero
provvisoriamente l’autonomia della chiesa cattolica come al tempo dell’impero
bizantino.
La politica persecutrice dello Stato serbo nei confronti delle popolazioni cattoliche dei territori albanesi occupati toccò il suo apice durante il regno dei re Stefan
Uroshi II (1282-1321), Stefan Uroshi III (1322-1331) e Stefan Dusan (1331-1355).
I loro regni furono anche il momento di maggior concentrazione e consolidazione del regno dei Serbi. La Serbia si espanse gradualmente fino a comprendere gran parte dell’odierno territorio di Serbia, Montenegro, Albania e Grecia.
Questo periodo coincise anche con la rottura definitiva delle relazioni con il
Papato e con gli imperi cattolici.
Considerando gli albanesi cattolici come elementi destabilizzanti e alleati naturali
di queste potenze, i re serbi adottarono nei loro confronti una politica specifica
a questo problema che culminò con il “Codice di Stefan Dusan, 1349” (AA.VV
2003). Alcuni degli articoli più importanti di questo codice erano indirizzati alla
“estinzione dell’eresia cattolica” e all’atteggiamento contro i credenti e il clero
cattolico che non volevano convertirsi all’ortodossia serba. Per questi si enunciava apertamente: l’imposizione e la distruzione delle chiese, il sequestro della
ricchezza, la marcatura con il ferro caldo, l’espulsione e anche la pena di morte11.
Numerosi documenti di quell’epoca testimoniano come queste misure definite
nel codice del diritto medioevale serbo siano state applicate con molta brutalità;
cosa che causò rivolte da parte della popolazione albanese e dure proteste da
parte del Papato.
Durante la sua esistenza, il regno dei Serbi fu accompagnato da una grande instabilità dimostrata dal cambiamento continuo del suo centro o capitale. Agli inizi
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
della vita del regno, era Raska il centro del regno che con il succedersi degli anni
venne spostato a Pristina, Belgrado, Krusevac, Smederevo, ancora Belgrado,
Prizren, Banjska, Scopje, Prilep, Smederovo, Krusevac e Kragujevac. Alla morte di
Stefano Dušan, nel 1355, scoppiò la lotta tra i nobili, che portò a una veloce disgregazione dello stato, cosa che determinò la formazione dei piccoli principati.
Questi principati tornarono ad essere governati dalle famiglie aristocratiche
autoctone.
Nei territori albanesi i numerosi principati – come vedremo nella Battaglia del
Kosovo dove la popolazione albanese partecipante era rappresentata da diversi
sovrani – erano appartenenti a entrambe le religioni. In questi territori si arrivò
ad una simbiosi ed a volte anche ad una mescolanza dei due riti, per i quali il
Papa si lamentò più di una volta. Questa simbiosi e mescolanza era rappresentata dall’esistenza materiale e dalla conduzione contemporanea delle chiese e dei
monasteri cattolici e ortodossi in tutti i territori albanesi. Non furono pochi i casi
in cui dentro lo stesso tempio convivevano insieme elementi comuni, simbolici,
iconografici, rituali e culturali appartenenti sia all’una che all’altra fede. Un esempio tipico di questa situazione è la chiesa di Santa Maria a Brrar presso Tirana,
dove le scene bibliche negli affreschi delle mura o le scritte latine e greche, testimoniano una combinazione in tutta l’area di elementi cattolici ed ortodossi e da
un punto di vista più ampio, tra la civiltà occidentale e quella bizantina. Infatti,
per questa ragione, un missionario cattolico che visitò questi territori nel 1308,
constatò come gli abitanti di questo paese si considerassero, secondo le circostanze, cattolici o ortodossi. In sostanza questo era il clima che trovarono gli
ottomani quando penetrarono nella penisola Balcanica.
I turchi e la Coalizione Balcanica
Dopo la conquista della città di Sofia nel 1385, i turchi ottomani si diressero
verso le città di Shtip, Perlep, Manastir e Kostur nei territori albanesi12. I sovrani
dei vari principati albanesi risposero agli attacchi ma non riuscirono a fermare l’avanzata dei turchi. Le sconfitte assunsero un significato importante perchè rappresentavano agli occhi degli albanesi una ulteriore sottomissione ad un nuovo
impero. Questo sentimento spinse la creazione di alleanze tra i principi e i sovrani e di conseguenza accrebbe la capacità di difesa a questi attacchi. Una di queste alleanze vide schierati dalla stessa parte il principe albanese Gjergji II Balsha13
che assieme ai sovrani di Raska e Bosnia sconfissero l’esercito ottomano. Questa
vittoria influenzò molto i rapporti di vicinato tra i vari principati albanesi e balcanici tanto da far dimenticare le liti tra i paesi confinanti, ponendo così l’avvio ad
una stagione di progetti e azioni militari comuni.
Così nell’anno 1387 venne creata la più ampia coalizione Balcanica contro i turchi che riuscì a radunare il principe serbo Lazzaro Hrebeljanovič, il principe albanese Gjergj II Balsha, il principe valaccho Mircea il Vecchio, il principe albanese
Teodor II Muzaka, Dhimiter Jonima (albanese), sovrano delle terre lungo la
Strada Lezhe-Prizren, Andrea Gropa, principe dell’Ohrid, il signore di Krusĕvac
Vuk Brankovich; il re di Bosnia, Tverko I; il ban croato Ivan Horvat, ecc…(AA.VV
2003). Le forze albanesi avevano un peso militarmente rilevante nella formazione della coalizione. Per loro la questione si poneva in questi termini: la cristianità contro l’islamizzazione, non l’ortodossia o il cattolicesimo contro l’Islam. Altri
12
In alcuni documenti
turchi dell’epoca
dell’Impero ottomano
troviamo le espressioni
“città dell’Albania” o “territori albanesi”.
13
Principe albanese dello
Stato dei Balsha, il quale
conobbe una forte espansione durante il secolo
XIV e comprendeva i territori settentrionali
dell’Albania e della
Vecchia Dioclea (oggi
Montenegro).
47
n.17 / 2007
14
Un atro elemento storico particolare fu il tradimento da parte del principe serbo Vuk Brankovic
il quale abbandonò la battaglia con un numero elevato di soldati serbi.
48
autori – come Fischer (1973) – descrivono l’organizzazione della coalizione in
questo modo: “Mentre il sulta no era occupa to in Asia in una vittoriosa ca mpa gna contro gli a vversa ri turchi, una gra nde confedera zione di popoli cristia ni si orga nizzò nell’Europa sud-orienta le (1387), sotto la guida del re
serbo, per distruggere la potenza mussulma na . A difesa della ca usa cristia na
si unirono serbi e bulga ri, bosnia ci e a lba nesi, pola cchi, ungheresi e persino
mongoli della Dobrugia , ma nessuna delle più a ntiche na zioni europee, la tine o greche”.
In questo modo, nel giugno 1389 gli eserciti della coalizione Balcanica si radunarono presso la Piana del Kosovo, dove misero in atto i progetti militari preparati durante un intero anno.
Perché si era deciso di svolgere la battaglia nella piana del Kosovo? Prima di tutto
sono state le circostanze, vale a dire, il fatto che il pericolo ottomano era molto
vicino – una parte dei territori albanesi (nell’attuale Macedonia) era già sotto il
regime ottomano insieme alla Bulgaria – e minacciava direttamente le regioni
dei Balcani. Poiché la Piana del Kosovo sarebbe stato il passo successivo dell’esercito turco, questa divenne il campo di battaglia ideale per fermarli. Per di più,
la Piana si trovava in una posizione facilmente accessibile a tutti, in pratica era
una zona dove era più semplice muovere gli eserciti provenienti da tutte le parti
dei Balcani e inoltre era anche un punto d’incrocio tra le vie di comunicazione
da dove potevano infiltrarsi gli ottomani.
In queste circostanze gli eserciti della coalizione, guidati dai loro principi, la mattina del 15 giugno 1389, si riunirono e si posizionarono secondo la strategia concordata, nella piana del Kosovo. Ebbe così inizio la battaglia contro le forze ottomane comandate dal sultano Murad I. All’inizio, le forze della coalizione, vinsero
alcuni scontri ma il resto della battaglia finì con la vittoria ottomana. Lo scontro
di 15 giugno fu violentissimo con un numero elevato di vittime da entrambi le
parti. Durante i combattimenti, venne ucciso il sultano Murad I e di conseguenza gli ottomani si vendicarono ammazzando tutti gli ostaggi della guerra e tra
questi lo stesso principe Lazzar e il principe albanese Teodori I Muzaka insieme
ai suoi soldati14.
La disfatta della coalizione contro i turchi ebbe tristi conseguenze per i popoli
della penisola Balcanica perché chiuse la strada alla formazione di altre coalizioni di tali dimensioni schierate contro i turchi facilitando così la strada all’ascesa
di Bayazid I, sultano dell’impero ottomano (1389-1402) che succedette al padre
Murad I. Ma allo stesso tempo portò l’apertura di un importante periodo per i
territori albanesi. Caratterizzato da rivolte continue contro i nuovi occupatori,
venne riconosciuto da tutti come la gloriosa resistenza di Scanderbeg che per 25
anni respinse l’avanzata dei turchi.
Nato nel 1403 a Kruja, dopo la sottomissione della famiglia ai turchi venne portato alla corte ottomana di Adrianopoli. Fu educato alla religione musulmana alla
corte del sultano Murad II, e si arruolò nell’esercito turco. Le sue doti militari gli
fecero guadagnare il favore del sultano: venne insignito del titolo onorifico di
Iskander Beg (“principe Alessandro”) e ottenne il comando di una divisione.
Dopo la conquista di Giannina, nel nord della Grecia nel 1431, i turchi sottomisero buona parte dell’attuale Albania scatenando ben presto le rivolte in tutto il
paese. All’insorgere dei suoi connazionali contro l’ennesimo occupatore, Gjergj
Kastrioti nel 1442 disertò l’esercito ottomano, tornò a Kruja (nel nord
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
dell’Albania) con trecento uomini e si convertì al cristianesimo15. fondando il
principato indipendente di Kastriot16. In poco tempo riuscì a unire tutti i principati albanesi che crearono la Lega di Lezha, con la quale essi decisero che al
comando delle loro forze armate ci sarebbe stato Skanderbeg. Così iniziò una
guerra durata venticinque anni (AA.VV. 2003).
Dopo numerosi scontri tra gli eserciti nel 1461, con l’aiuto di papa Pio II, dei
governi di Napoli, di Venezia e dell’Ungheria, Scanderbeg costrinse i turchi ad
accettare un armistizio di dieci anni. La ferrea resistenza del condottiero albanese riscosse molte simpatie anche in Europa occidentale, preoccupata dall’avanzata turca, dove ormai egli era conosciuto con il nome di “Capitano d’Albania”.
Nel 1463, quando Scanderbeg infranse l’armistizio, fu però costretto a combattere senza l’aiuto dei precedenti alleati e, poco dopo la sua morte (1468),
l’Albania fu sconfitta, quando il resto dell’area balcanica era ormai già stata conquistata da anni. Con la morte di Scanderbeg, si esaurì la resistenza contro i turchi e allo stesso tempo si concluse quel processo di unione e formazione di una
coscienza e identità – basata su una storia e una lingua comune – creatasi durante questi anni che come vedremo, risorgerà verso la fine dell’Ottocento, quando
i territori albanesi diventeranno per la millesima volta preda dei paesi confinanti. Cominciò per l’Albania un lungo dominio ottomano che si concluderà solo
con le guerre balcaniche. Il loro arrivo portò con sé una nuova religione – l’Islam
– aggiungendosi così al già articolato mosaico socio-religioso dell’area.
Cinque secoli di dominio turco
L’Islam trovò un terreno “fertile” per espandersi a causa dell’indebolimento delle
chiese (cattolica e ortodossa) come conseguenza dello scontro fra le due. Infatti,
fu l’assenza di una chiesa nazionale che avrebbe potuto influire considerevolmente nel mantenimento dell’unità religiosa, ciò che spinse gran parte degli aristocratici a convertirsi all’islam durante il regime ottomano. Verso la fine degli
anni 60 del XV secolo, quasi il 60% degli abitanti di queste zone si erano già convertiti all’islam17. L’islamizzazione diede la possibilità ad alcuni di essi di integrarsi nella vita politica dell’impero ottomano consentendo l’esercizio della professione pubblica e l’accesso alla carriera militare nell’esercito del sultano. Inoltre
una parte della popolazione cristiana, aderì alla fede islamica per ragioni di interesse economico. Per evitare il pagamento delle tasse, aderivano formalmente
all’Islam mentre di nascosto praticavano il rito cattolico o ortodosso. In alcuni
casi accadeva che il capo della casa, essendo il rappresentante della famiglia nelle
relazioni con il potere ottomano, aderisse alla religione mussulmana mentre gli
altri membri continuavano a professare la religione cristiana.
Tuttavia, la ragione principale della conversione o islamizzazione divenne la possibilità di proteggere la loro identità nazionale, la loro cultura e la loro lingua.
Appartenere ad una religione diversa poteva distinguere gli albanesi dagli slavi o
greci favorendo il deterioramento delle relazioni con la Chiesa slava e greca e
contribuendo alla sospensione del processo di slavizzazione e grecizzazione
degli albanesi che da tempo era in atto. Come affermava F. Konica (1897): “Gli
a lba nesi a veva no due a lterna tive ma nessuna soluzione”.
Il consolidamento del regime ottomano portò un elemento nuovo nella vita
degli albanesi, quello dell’emigrazione. La maggior parte della popolazione cat-
15
Il condottiere albanese,
quando abiurò l’islam si
convertì al cattolicesimo,
invece, suo fratello era
monaco in un monastero
ortodosso. Questo fatto
dimostra la tolleranza religiosa che esisteva ed esiste ancora in Albania.
16
A questo principato ha
dato i simboli che sono
tutt’ora i simboli nazionali
Albanesi. Una bandiera
rossa con al centro l’aquila nera a due teste.
17
La nuova religione
occupava percentuali alte
nelle città dell’Albania e
Kosovo come: Peja o Pec
(90%), Vuçiterna (80%),
Elbasani (79%), Tetovo
(71%), Kërçova (65,5%),
Kruja (63%), Berat e
Pristina (60%), Prizreni
(55,9%), Dibra (51%),
Tepelena (50%), Përmeti
(41%), Novo-brda (37%),
Struga (24%), Valona
(23%), Korça e Trepça
(21%), Janieva (14%),
Delvina (4%) ecc. Come
vediamo le città del
Kosovo e della Macedonia
sono quelle che presentano il tasso di conversione
più elevato. Questo per
ragioni politiche particolari, i kosovari avevano
intuito il pericolo proveniente dai vicini slavi e
sfruttarono la religione
islamica come elemento
differenziale, preservando
cosi le loro specifiche
caratteristiche etniche e
culturali (AA. VV. 2003).
49
n.17 / 2007
tolica che non voleva convertirsi ed evitare il pagamento delle tasse insostenibili,
soprattutto nella parte settentrionale del paese, cominciò a spostarsi verso le
coste dell’Italia meridionale creando così delle comunità stabili tutt’ora esistenti.
Subito dopo le nuove conquiste i turchi ritennero necessaria la riorganizzazione
statale intraprendendo una serie di riforme amministrative e militari.
Inizialmente divisero il territorio dell’impero in diverse unità amministrative, formando 32 ela jet. Nella penisola Balcanica si trovavano tre ela jet: Bosnia, Rumelia
e del Mare che comprendeva le isole dell’Egeo. I territori albanesi facevano parte
dell’ela jet di Rumelia ed erano divisi in 4 villa jet.
Fig 3: I territori albanesi divisi in quattro vila jet
50
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
Ognuno di essi era diviso in unità ancora più piccole che si chiamavano sa nxha k.
In Albania i sa nxha k più importanti erano: quello di Scuttari, Dukagjin, Valona,
Elbasan, Oher, Prizren, Scup, Vucitern, Janine, Manastir. Quest’ultimo divenne il
pa nsa nxha k, dopo lo spostamento della sede da Scopje a Manastir. Esistevano
anche delle divisioni amministrative ancora più piccole come i ka za e i na hije
che spesso erano dirette da persone del posto volute dai turchi.
L’amministrazione di queste unità avveniva tramite il ka nuna me, una raccolta di
leggi basate sul Libro Santo (Korano) che era considerato dai turchi come “costituzione eterna”. Il ka nuna me controllava la vita economica, politica e sociale di
tutti gli ela jet e della loro popolazione. Per quanto riguarda la gestione amministrativa, essa si basava sull’istituto dei millet cioè delle vere e proprie comunità
religiose attorno alle quali vennero create delle strutture amministrative dipendenti dal governo centrale. Così c’erano i millet cattolici, i millet ortodossi, i millet ebraici ecc...
Nell’anno 1506, i turchi per la prima volta registrarono le terre albanesi dividendole in due zone. Una dove si stabilì il sistema del tima r 18, la terra veniva data in
uso a persone che dovevano dare in cambio la partecipazione nell’esercito turco
o pagare la tassa yshyr 19 che comprendeva la maggior parte dei territori e la
seconda era la zona dell’autogoverno, al nord dei territori albanesi, dove la popolazione fece resistenza al sistema di tima r , rifiutandosi di pagare le tasse20. Tutta
la terra di questi territori era di proprietà dello Stato, il quale la cedeva a varie
categorie di persone a seconda dell’imposizione di tasse specifiche o obblighi. La
terra veniva regalata solo alle istituzioni religiose che conobbero una grande
espansione durante questo regime. Secondo questa nuova organizzazione la
popolazione venne divisa in due classi: i ra ja e i soldati. I ra ja erano la popolazione che abitava nei villaggi e che lavorava la terra data in uso, guadagnando
solo quanto bastava per l’alimentazione della sua famiglia, cioè erano coloro che
producevano.
I soldati invece si dividevano in intellettuali e combattenti. Nella prima categoria
entravano i turchi e gli aristocratici del posto che si erano convertiti per proteggere la loro ricchezza e la loro posizione sociale. A questa classe facevano parte
una fascia considerevole della popolazione albanese. Rari erano i serbi che rivestivano questa posizione, perché venivano considerati stranieri in quelle terre e
non garantivano quella sicurezza che potevano dare le persone del posto per
sedare le rivolte nella massa dei ra ja .
Ritornando alla zona dell’autogoverno, la popolazione era molto povera e si
occupava principalmente dell’allevamento del bestiame anche se esisteva una
piccola classe aristocratica. In queste regioni la terra era proprietà privata e veniva ereditata dai componenti della famiglia che era l’unità amministrativa base. Il
capo della famiglia gestiva l’economia famigliare ed era il rappresentante nelle
riunioni che venivano organizzate tra i fis (clan) e nelle riunioni del villaggio. I
diversi settori della vita venivano disciplinati in base alle norme di Ka nun , un
codice consuetudinario tramandato oralmente di padre in figlio, che da secoli
regolamentava la società tribale albanese in diversi settori, dai commerci alla
pastorizia, dalle guerre alle pacificazioni, dai matrimoni ai rapporti familiari e fino
alle alleanze. Infatti, in base a questo codice, nelle riunioni tra i fis o quelle tra i
villaggi si decideva anche quando e come attaccare l’esercito turco che cercava
di applicare anche in queste zone il sistema del tima r . I primi attacchi organiz-
18
Il sistema del timar era
creato dal sultano in
modo da poter creare un
esercito sicuro per le
nuove conquiste.
19
Era una tassa che il produttore o coltivatore della
terra doveva pagare al sultano cioè 1/10 della sua
produzione.
20
Tuttavia durante i cinque secoli di dominazione ottomana in Albania, i
turchi non hanno mai
goduto un totale controllo della regione.
51
n.17 / 2007
zati contro l’esercito turco ebbero esito positivo, fattore che accrebbe il loro
numero, fin quando il sultano mandò un esercito più forte e numeroso che li
piegò senza riuscire a penetrare nelle zone più montuose. Una parte della popolazione sottomossa venne trasformata in guardie e protettori delle strade principali che percorrevano il nord dei territori albanesi. Inoltre, essi furono obbligati
a pagare una tassa annuale, che non venne mai versata. Il mancato pagamento
della tassa comportò l’avvio di altri conflitti tra i clan e l’esercito ottomano.
Praticamente, questo risultò il modo migliore per poter autogovernarsi e mantenere le loro terre. La resistenza al regime fu possibile grazie all’unità creatasi
tra questi clan. Unità che con il passare del tempo si rafforzava ancora di più e
aumentava la voglia di libertà e indipendenza.
Di conseguenza il sultano cambiò strategia e pensò che reclutandoli avrebbe
avuto il loro appoggio. Questa mossa ebbe inizialmente conseguenze positive
perché la loro povertà li spinse ad accettare subito l’arruolamento nell’esercito
turco. In questo modo nacque una nuova classe, quella di ba jra kta r , che ebbe
subito l’appoggio dell’aristocrazia e del sultano, il quale regalò una parte delle
terre. Regalare le terre significava: proprietà privata. In questo modo il sistema
perse il carattere militare mettendo in crisi l’organizzazione dell’impero, cioè il
sistema del tima r che in poco tempo fu sostituito da quello di ta nzima t. Infatti,
Mahmud II cercò di abolire il vecchio esercito e di costituire una nuova milizia
con truppe retribuite e soggette a una rigida disciplina, che divennero il principale strumento della centralizzazione politica dell’impero, nonché la fonte di
ispirazione per riforme in altri settori. Un esercito moderno diventava costoso e
fu necessario istituire una burocrazia efficiente, al fine di riscuotere i tributi
necessari per pagare le truppe, e un sistema scolastico moderno per preparare
gli ufficiali dell’esercito e i funzionari dello stato.
Il sultano si appoggiò alle famiglie ricche lasciando a loro la maggior parte delle
funzioni, in cambio di una quota maggiore di tasse. Queste famiglie accettarono
volentieri le proposte del sultano, perché era il modo migliore per rafforzare la
loro posizione nei confronti di altre famiglie aristocratiche rafforzatesi in questo
periodo. A secondo delle loro posizioni sociali, esse ottennero vari titoli come
Pa sha e Vezir . Esse divennero nucleo non solo del potere locale ma anche di
quello centrale a cui non riuscì più farne a meno, sia per quanto riguarda il denaro offerto che per la punizione dei disobbedienti.
Molti contadini non potendo più usufruire dell’uso delle terre e pagare le tasse,
si diressero verso i grandi centri. Invece, nelle zone del nord la reazione fu opposta. Essi cominciarono ad organizzare delle rivolte che toccarono tutta la parte
settentrionale dei territori albanesi. Inizialmente, alcune regioni cominciarono
ad unirsi con altre, ponendosi come obiettivo la liberazione delle terre albanesi
dal regime ottomano. La realizzazione di alcuni accordi tra queste regioni riuscì
ad unire i cattolici ed ortodossi nonché le persone convertite che non accettavano più la situazione, divenuta insostenibile. Gli organizzatori di questi accordi
chiesero l’aiuto e l’appoggio dell’Europa soprattutto del Papato. Aiuto che non
arrivò mai perché essi non volevano deteriorare le relazioni create con Istanbul.
Le regioni del nord divennero così la base delle rivolte contro i turchi e del desiderio di liberazione. Vennero creati nuovi movimenti di liberazione come “La
lega degli Arber” e “Le montagne Albanesi”, le quali ebbero un ruolo importante
nella creazione di una coscienza comune nazionale come espressione dalla con-
52
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
sapevolezza di appartenere alla stessa etnia, allo stesso territorio comune. Il fatto
di possedere una origine, una lingua, una tradizione e una storia comune li
distingueva dalle altre etnie. Inizialmente sorto in alcune regioni, il movimento
per la liberazione nazionale riuscì a comprendere tutti i territori albanesi. Il suo
fondamento era la lotta nazionale non solo armata ma anche intellettuale la
quale portò nuove idee che argomentavano il diritto naturale e umano del popolo albanese di essere libero e indipendente. Libertà e indipendenza che potevano essere raggiunte solo con la creazione di uno stato nazionale indipendente.
La Rinascita Albanese
I movimenti per la liberazione albanese sorti nei secoli XVII-XVIII, posero le basi
per la creazione della nuova ideologia che nacque quasi contemporaneamente
in tutta la penisola Balcanica: il nazionalismo. Teoria che esaltava lo stato nazionale, considerandolo come ente indispensabile per la realizzazione delle aspirazioni sociali, economiche e culturali di un popolo. Diversamente da ciò che successe in altri paesi balcanici che elaborarono la proprie identità culturali fondandole sull’appartenenza religiosa e sull’avversione verso un dominatore straniero
che personificava la prepotenza di un’altra religione sulla propria, il popolo albanese basò la propria identità sull’appartenenza alla stessa etnia, stessa lingua e
storia comune. Con gli slogan per l’unificazione nazionale e per l’emancipazione, essa riunì diversi comitati organizzazioni albanesi ponendo come scopo principale la difesa dei diritti nazionali albanesi. “La religione degli a lba nesi è l’essere a lba nesi ” (Vasa 1989, p. 77).questo è stato uno degli slogan che unì il popolo. Questa era una affermazione laica, che non esprimeva nessuna sentimento
anti-religioso, semplicemente era una nozione politica che mirava l’unione degli
albanesi di qualsiasi religione loro appartenenti e dar vita ad un vero e proprio
spirito albanese.
La rinascita Albanese, con la nuova composizione ideologica, politica, culturale
economica, sociale e organizzativa, passò attraverso la liberazione del paese dagli
occupatori, la riunificazione dei territori albanesi in uno Stato unico e indipendente, in modo da poter aprire la strada, allo sviluppo economico politico e
socio-culturale del Paese.
Il trattato di Santo Stefano del 3 Marzo 1878, pose fine alle guerre Russo-Turche
avviando il riconoscimento ottomano dell’indipendenza di Serbia, Montenegro e
Romania. La Bulgaria, che ottenne la Macedonia, divenne un principato autonomo sotto la tutela russa. Inoltre, il trattato sancì che una parte dei territori albanesi sarebbe stata ceduta alla Bulgaria, Serbia e Montenegro. Si vide chiaramente come le Grandi Potenze non avessero intenzione di aiutare la popolazione
albanese bensì di usarla per difendere le pretese dei loro alleati. Di conseguenza
gli albanesi decisero di cambiare le loro priorità contrastando in ogni modo le
decisioni che le Grandi Potenze avessero voluto prendere in nome degli albanesi senza il loro consenso e a loro sfavorevoli con la lotta armata e con l’obiettivo
di riunire tutti i territori albanesi in un unico vila jet autonomo sotto la giurisdizione ottomana. Quindi si avviò la formazione di organizzazioni sul piano nazionale come: la Lega Albanese di Prizren creata il 10 Giugno 1878 in Kosovo.
La creazione della Lega Albanese di Prizren e la pubblicazione del suo
Programma rappresentò l’evento più importante nel XIX secolo per il movimen-
53
n.17 / 2007
to nazionale albanese. Ponendosi come obiettivi l’unificazione nazionale e l’emancipazione, essa riuniva diversi comitati albanesi con lo scopo principale di
difendere i diritti nazionali albanesi dalle aspirazioni territoriali dei paesi vicini. Il
Programma del 1878, espressione delle richieste del popolo albanese rivolte al
Congresso di Berlino, prevedeva la formazione di un vila jet autonomo albanese
(comprendenti i vilajet del Kosovo, Scutari, Manastir e Giannina) sotto la sovranità dell’impero ottomano. Questa nuova formazione era considerata dagli intellettuali albanesi come una organizzazione temporanea e di passaggio, nella prospettiva di ottenere condizioni più favorevoli dalle Potenze europee, per la nascita di uno Stato indipendente. L’autonomia territoriale e amministrativa dava la
possibilità di creare delle istituzioni giuridiche e politiche e una struttura economica e sociale, che sarebbe servita come appoggio per la creazione del nuovo
Stato indipendente. Una amministrazione autonoma dei territori albanesi avrebbe bloccato la strada alle intenzioni espansionistiche dei nuovi stati creati agli
inizi del secolo XIX. Assicurandosi il riconoscimento ufficiale del Sublime Porta
e delle Grandi Potenze del diritto sul loro territorio e della loro appartenenza
etnica sotto la sovranità dell’impero ottomano si sarebbe evitato il pericolo della
divisione e dell’annessione da parte degli stati vicini, cioè l’identificazione con
l’impero.
La Lega di Prizren divenne l’attore principale che rappresentò la nazione albanese al Congresso di Berlino che non apportò nessuna modifica a favore della
popolazione albanese. Il Cancelliere Bismark, affermando che: “non esiste una
na zione a lba nese” stabilì che non si dovevano ascoltare le richieste presentate
da parte della Lega di Prizren. L’Albania non riuscì a trarre alcun vantaggio dalle
decisioni prese dalle grandi potenze. Fu confermata invece, l’indipendenza della
Serbia e del Montenegro, i quali approfittarono delle grandi fette dei vila yet di
Scutari, Kosovo e Manastir. Con l’intervento dell’impero austroungarico si decise che la Serbia non si sarebbe allargata verso sud cioè dove si trovavano le città
di Novi-Pazar, Mitrovica e Pristina, le quali erano preferite dalla austroungheria
ma si sarebbe espansa vero il sud-est, occupando le regioni di Pirot, Tren, Vranje
e Nish, le quali con il trattato di Santo Stefano furono date alla Bulgaria. Invece
Montenegro approfittò annettendo le regioni albanesi di Antivar, Podgorica,
Plava, Gucia, Rugova e Kolashin. L’annessione della regione di Ulqinj non fu riconosciuta dal Congresso ma le autorità di Cettigne ebbero la possibilità di navigare liberamente nel lago di Scuttari.
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Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
Figura 4: Il territorio dell’impero ottomano dal 1815-1878
55
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Nonostante i risultati del Congresso di Berlino gli albanesi contiuarono la lotta
per la creazione di uno stato indipendente albanese. Con le sue azioni, la Lega
Albanese riuscì a togliere il diritto di parola a nome degli albanesi alla Sublime
Porta. Inoltre riuscì a far respingere l’applicazione di alcuni delle decisioni del
congresso di Berlino che avrebbero spartito i territori albanesi, a favore del
Montenegro e della Grecia. Organizzando varie battaglie e rivolte contro il
Montenegro per la protezione della regione di Plava, Gucia, Hot e Gruda e contro la Grecia per la regione di Cameria fece sì che, due anni dopo il congresso,
le Grandi Potenze si riunissero per decidere sugli argomenti rimasti ancora
sospesi. Le grandi potenze minacciarono la Sublime Porta che non stava rispettando le condizione del congresso, atto che spinse i turchi a intraprendere una
nuova riforma che venne avviata senza il parere di una commissione locale come
previsto dal Trattato di Berlino e senza tener conto delle richieste della Lega
Albanese. In base alla riforma nei territori albanesi (i quattro vila jet) si sarebbe
rafforzato il potere centrale eliminando così il diritto di crearsi una nazione, il
diritto all’educazione nella loro lingua anzi, anche il diritto di chiamarsi albanesi.
Questi cambiamenti accrebbero le rivolte degli albanesi che dopo alcune vittorie
sugli eserciti del sultano formarono un governo autonomo. La formazione del
governo allarmò sia le Grandi Potenze che l’impero che non riuscivano ad avere
sotto controllo la situazione. Il sultano, allora, decise di organizzare un esercito
forte e attaccare il cuore della nazione, il Kosovo. Nonostante le resistenze da
parte della Lega, l’esercito ottomano riuscì a sconfiggerli. Da quel momento tutti
gli albanesi vennero considerati nemici dell’impero e la politica seguita dall’impero nei loro confronti cambiò completamente portando allo scioglimento forzato della Lega di Prizren (1881). Diversamente dai loro vicini, gli albanesi sacrificarono quasi la metà dei loro territori e un numero elevato di persone per creare il loro Stato indipendente. Tutto questo perché “gli a lba nesi non a veva no
lega mi etnici o religiosi con nessuna delle Gra ndi Potenze” (Biberaj 2001, p. 40).
Nella primavera del 1912 Serbia, Grecia, Bulgaria e Montenegro si unirono nella
Lega balcanica e prendendo a pretesto il rifiuto del governo turco a concedere
l’autonomia alla Macedonia, dichiararono guerra alla Turchia, indebolita dalle
rivolte albanesi, il 18 ottobre successivo. La dichiarazione di guerra venne fatta
dal Re Pietro che annunciò l’inizio di una guerra Santa con lo scopo di portare la
pace nei Balcani. Sotto questo slogan si nascondevano in realtà le intenzioni
espansionistiche della Serbia che subito dopo occuperà il Kosovo per proseguire la sua marcia verso le coste Adriatiche. Durante la loro marcia i serbi distrussero molte città e uccisero migliaia di persone con una crudeltà mai vista prima.
“Solo dentro la regione di Prizren sono sta ti uccisi cinquemila a lba nesi,
dura nte il periodo della guerra il numero è a rriva to a quindicimila , di conseguenza miglia ia di a lba nesi inizia rono a emigra re in Turchia ” (Udovicki,
Ridgeway 1998, pp. 29-30).
Le atrocità commesse nei territori albanesi sono state così descritte dallo scrittore austriaco Freundlich nel 1913: “Un popolo cora ggioso e nobile si sta ma ssa cra ndo da va nti a gli occhi di un intero mondo e l’Europa , l’Europa cristia na ,
l’Europa civilizza ta non sta pronuncia ndo una pa rola di fronte a tutto questo. Dieci mila persone indifese sono sta te trucida ti, le donne sono sta te stupra te, giova ni e ba mbini stra ngola ti, centina ia di villa ggi sono distrutti da l
fuoco e molti sono i sa cerdoti uccisi. Eppure l’Europa rima ne in silenzio!
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Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
Serbia e Montenegro ha nno deciso di conquista re terra stra niera . Ma quella
terra è a bita ta da gente cora ggiosa che a ma la libertà e ma lgra do secoli di sottomissione non è ma i sta ta a bitua ta a tollera re la domina zione stra niera . A
ca usa di tutto ciò la soluzione è sta ta : “Gli Alba nesi devono essere stermina ti”!
Un bruta le e disuma no esercito ci ha mostra to tra mite procedure terribili
come questa decisone poteva essere messa in pra tica . Numerosi villa ggi sono
sta ti ra si a l suolo e innumerevole le persone ma cella te in ma niera crudele.
Dove una volta era no erette ca se modeste che genera zioni di poveri a lba nesi
ha nno costruito con dignità , a desso rima ne solo il fumo delle rovine.
Un’intera na zione sa nguina ingiusta mente – e l’Europa non dice una pa rola !” 21.
Per fermare le mire espansionistiche gli intellettuali albanesi organizzarono la
Conferenza Nazionale di Valona, nella quale il 28 Novembre 1912 venne ufficialmente proclamata l’indipendenza dell’Albania. I rappresentanti di tutte le regioni albanesi, Kosovo, Macedonia e Çameria incluse, dichiararono l’unione di tutte
le regioni etnicamente albanesi nei confini del nuovo Stato. In base al loro impegno nella lotta contro il dominio ottomano e il loro legittimo diritto ai territori
etnicamente albanesi, essi chiesero l’indipendenza del loro Stato, sulla base dei
confini stabiliti dal Congresso di Valona. I serbi si mostrarono indifferenti a tali
decisioni continuando la loro marcia verso l’Adriatico. Il cessate il fuoco da parte
delle Grandi Potenze arrivò solo l’anno successivo e rallentò l’onda distruttrice
dei serbi. La situazione era talmente degradata che per la prima volta la questione albanese fu messa sul tavolo delle super potenze, anche se assieme a essa
venivano spartiti i suoi territori.
21
Citato in Juka (1992)
dove viene riportata la
traduzione del libro
“Albania's Golgotha” dello
scrittore austriaco Leo
Freundlich pubblicato nel
1913 a Vienna.
Addio Kosovo
La Conferenza di Londra nel 1913, contrariamente agli interessi del popolo albanese, riconobbe la creazione dello Stato indipendente di Albania senza accettare
l’unione di tutti i territori etnici albanesi in questa nuova entità. Di conseguenza,
il nuovo Stato corrispose alla metà del territorio albanese, l’altra metà fu divisa
tra le tre monarchie balcaniche. Alla Serbia andò tutto il territorio del Kosovo,
mentre alla Grecia e al Montenegro andarono il resto dei territori che non gli
erano stati concessi dal Trattato di Berlino. Per gli Albanesi, i nuovi confini delimitati dalla Conferenza di Londra furono considerati una grande violazione dei
diritti nazionali e degli interessi vitali del popolo albanese. Quasi la metà del territorio e della popolazione albanese rimase al di fuori dei confini nazionali.
La Grande Serbia cominciò la sua esistenza.
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Figura 5: L’espansione territoriale della Iugoslavia.
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Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
“Il terrore non può domina re un popolo che comba tte per la libertà e l’unità
na ziona le” (Verli 2006, p. 83). Fu così che gli albanesi risposero alla decisione
presa dalla Conferenza di Londra. Subito dopo venne creato l’Esercito Nazionale
Albanese che in questi momenti difficile si pose come obbiettivo la protezione
del Kosovo dalla pulizia etnica che i serbi stavano portando avanti. Questo politica seguita dagli albanesi provocò una reazione violenta da parte dei serbi, i quali
inviarono alcune truppe nel nord albanese seminando per la millesima volta il
terrore, le vittime furono numerose e la situazione divenne estremamente difficile. Di conseguenza nel 1914 il governo di Ismail Qemali dovette lasciare il posto
ad una commissione internazionale di controllo. Molto importante per mantenere la Serbia in una posizione confinata nei suoi territori, le sorti dell’Albania
vennero prese in mano dalle potenze europee che misero sul trono del paese il
principe tedesco Wilhelm von Wied. Essendo un ufficiale straniero, egli non fu
mai accettato dal popolo e subito ebbero inizio le rivolte che lo portarono alla
fuga. A questo punto il paese rimase preda di bande armate locali e divenne terra
di passaggio per gli eserciti montenegrino, austriaco, italiano, francese, greco,
bulgaro e serbo, impegnati nella Prima Guerra Mondiale. Da questa situazione di
caos ne approfittarono i greci, che nel 1916 annetterono a tutti gli effetti la regione albanese dell’Epiro settentrionale. Anche le altre potenze occuparono parte
del territorio albanese con l’intenzione di dividerlo tra loro. In questo contesto
si crearono vari comitati che chiesero la protezione dei confini dell’Albania da
un’ulteriore spartizione di queste potenze. Il Comitato albanese per la protezione del Kosovo, venuto a crearsi nell’anno 1915 chiese alle grandi potenze non
solo la protezione dei confini ma anche la restituzione del Kosovo. In seguito alla
conclusione dei trattati del dopoguerra all’Albania vennero riaffermati i confini
del 1913.
Tuttavia continuavano a persistere le insistenti brame annessionistiche dirette
contro l’Albania da più parti, il Regno dei serbi, croati e sloveni creato nel 1918
e la Grecia, che non volevano riconoscere l’autonomia del paese. La risposta ad
esse fu come sempre le rivolte che continuarono con intensità fino al 1924 poi
divennero sporadiche a causa della politica seguita dal Re dell’Albania. Nel 1924
Ahmed Zog entrò in scena, prendendo la direzione del potere e diventando in
un primo momento Presidente e in seguito Re dell’Albania, strappando la guida
del governo a Fan Stilian Noli (vescovo che studiò a Harward e nel 1920 formò il
Partito Popolare). Egli seguì una politica democratica non solo nei confronti dei
cittadini albanesi, ma anche nei confronti degli immigranti kosovari, ai quali concedette l’asilo politico. Questa politica tuttavia rappresentava un problema per il
governo slavo, il quale temeva l’organizzazione di un ulteriore rivolta da parte del
popolo albanese che viveva nel Regno. In virtù di queste considerazioni la prima
mossa adottata dal governo slavo fu rovesciare il governo di Fan Stilian Noli insediando Ahmed Zog. Il re, riconoscente al governo slavo per l’aiuto ricevuto nella
sua ascesa al trono, regalò a loro i villaggi di San Naum e di Vermosh, lasciando
alle spalle la questione del Kosovo definitivamente annesso al Regno della
Iugoslavia.
Con la creazione del Regno ebbe inizio il cambiamento della composizione etnica del Kosovo abitato per il 90% da popolazione albanese. Vari metodi vennero
usati dai serbi per portare a buon fine la loro missione. Uno dei metodi usati fu
l’assimilazione o meglio la serbizzazione della popolazione albanese che assieme
59
n.17 / 2007
22
Citato in Juka (1984)
dove vengono riportati
pezzi molto ampi dell’articolo (The expulsion of
the Albanians) dello storico serbo Vaso Cubrilovic
pubblicato nel marzo
1937 e Detrez 2004, p. 37.
23
Citato in Detrez 2004,
p. 43.
60
alla colonizzazione formarono gli strumenti più efficaci per la repressione della
popolazione. Nuovi arrivati non albanesi si stabilirono nella regione e per loro
furono costruite case e chiese. Sotto quella che veniva chiamata Riforma Agraria,
gli albanesi furono privati delle loro terre e furono costretti a cederle ai SerboMontenegrini i quali lentamente colonizzarono tutta l’area. Il responsabile di
questa colonizzazione fu Djordje Kristic il capo della Commissione Agraria. Nel
suo libro “La colonizza zione della Serbia meridiona le”, pubblicato in Sarajevo
nel 1928 egli dimostrò quanto rapidamente fosse cambiata la composizione etnica in una regione che prima del 1913 non aveva neanche un singolo abitante
Serbo. Il terzo metodo e quello più radicale fu l’estinzione della popolazione che
si praticava principalmente in tempi di guerra. Il quarto metodo seguito fu l’espulsione verso terre lontane. Tuttavia, il sistema migliore risultò l’eliminazione
dell’educazione nella lingua albanese. Il progresso fu in questo modo completamente proibito ai kosovari, anche quelle poche scuole che erano state con difficoltà aperte durante il regime turco prima che scoppiassero le guerre balcaniche
furono chiuse dal governo serbo e nessun insegnamento nella lingua albanese
venne permesso. All’inizio i bambini kosovari potevano frequentare le poche
scuole serbe del Kosovo, ma dopo l’anno 1925 venne proibita loro l’acceso, evitando così la creazione di una classe intellettuale che potesse opporsi alla politica serba. L’unica scuola aperta dove gli albanesi potevano andare era la scuola
coranica a Scopje. Il governo serbo era convinto che l’educazione religiosa avrebbe aiutato nella distinzione tra loro e i cristiani e per cristiani intendevano gli
europei. In questo modo l’Europa poteva stare sempre dalla parte dei Serbi.
Lo storico serbo Vaso Cubrilovic ha dato una delle migliori proposte per risolvere la questione degli albanesi: “Il governo deve a pplica re a l ma ssime le sue leggi
in modo da rendere la vita a gli a lba nesi insopporta bile: multe, a rresti, l’a pplica zione senza pietà dei metodi polizieschi, inoltre dobbia mo: a ccusa rli di
contra bba ndo, ta glia no illega lmente la legna , la scia no i ca ni liberi, infliggendo loro la conda nna a la vori a vita (…). Sul pia no economico non si devono
riconoscere i vecchi diplomi (….), chiedere le ta sse con la forza sia priva te che
pubbliche, niente posizioni a mministra tive, a nnulla mento dei privilegi, nessun permesso per a prire ba r e negozi, non devono essere a ccetta ti nei servizi
sta ta li ecc. Spingerli a la scia re le loro dimore. (….). distruggere gli oggetti di
culto, chiese, moschee, cimiteri, (….). Dobbia mo a rma re i nostri colonizza tori. Nelle zone monta ne dobbia mo sta bilire dei montenegrini in modo da provoca re un conflitto che sembrerà un conflitto tra a gricoltori e va rie tribù.(….)
In ultimo possia mo provoca re una rivolta loca le, che possa essere a bba ttuta in
modo crudele non solo da ll’esercito ma a nche da i colonizza tori, da i cla n
montenegrini e da gli eserciti guerriglieri. La Serbia ha utilizza to questo mezzo
a nche prima nel 1878 qua ndo metteva a fuoco i villa ggi a lba nesi e i suoi qua rtieri” (Cubrilovic 1937)22.
Non molto più tardi gli Iugoslavi decisero di sradicare completamente l’elemento albanese, trovando il modo più semplice e efficiente: spostare duecentomila
albanesi in Turchia o altrove. “In un momento dove la Germa nia può espellere
centomila ebrei e la Russia può sposta re dieci milioni di persone da una pa rte
del continente a d un’a ltra , lo sposta mento di centomila a lba nesi non dovrà
sca tena re lo scoppio di una Guerra Mondia le” (Cubrilovic 1937)23.
Malgrado la forte opposizione dei Kosovari al piano per il loro trasferimento in
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
Turchia, l’accordo con il governo turco venne fatto. Ma, lo scoppio della Seconda
Guerra Mondiale interruppe l’applicazione di questo accordo ed il trasferimento
non iniziò mai.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il governo iugoslavo accettò di aderire al patto tripartito tra Germania, Italia e Giappone. La reazione degli iugoslavi culminò in un colpo di stato (26-27 marzo 1941), appoggiato dal re Pietro II
costituendo un governo il cui principale obiettivo era il mantenimento della neutralità. La reazione da parte delle potenze dell’Asse fu immediata, le truppe italiane, ungheresi e bulgare, assieme all’esercito tedesco invasero la Iugoslavia,
provocando la fuga del sovrano e dei membri del governo. Il regno conquistato
fu velocemente smembrato: l’Italia occupò la Dalmazia, parte della Slovenia e il
Montenegro, mentre la Germania ottenne il resto della Slovenia e la Serbia,
l’Ungheria occupò la parte occidentale della provincia serba della Vojvodina e la
Bulgaria ebbe gran parte della Macedonia iugoslava.
All’Albania, toccò la stessa sorte, il monarca abbandonò il trono fuggendo all’estero, e lasciando il paese agli invasori italiani che promisero agli albanesi di restituire all’Albania i territori dei quali era stata ingiustamente privata. Il governo
fascista italiano riuscì così a sfruttare la situazione a proprio vantaggio usando le
guerriglie albanesi come alleati per l’occupazione della Iugoslavia. Una volta
occupata la Iugoslavia l’Albania ottenne solo una parte del Kosovo. Così gli abitanti del Kosovo ebbero la nazionalità albanese e il governo aprì 173 scuole elementari e la lingua albanese divenne lingua ufficiale. Questo sogno degli albanesi non durò a lungo, la capitolazione dell’Italia nell’anno 1943 aprì la strada ad
una grande confusione e all’avvento del regime nazista. Il territorio stabilito dagli
italiani venne mantenuto anche dai tedeschi ma cambiò la sua giurisdizione.
Comunismi
Nel contempo, erano comparse nei balcani le prime resistenze armate contro gli
occupatori nazisti. Nel 1942 i partigiani comunisti di Tito, avendo ottenuto de
fa cto il controllo di parte della Bosnia, istituirono un governo provvisorio, il
Comitato di liberazione nazionale. Il Comitato continuò le operazioni militari per
tutto il 1943, costituendo un esercito di oltre 100.000 soldati e conquistando più
di 100.000 km2 di territorio iugoslavo. Al termine della Seconda Guerra Mondiale
il 29 Novembre 1943, a Jajce, il governo provvisorio della Iugoslavia, guidato da
Tito, pose le basi per l’organizzazione del futuro stato che sarebbe diventato una
federazione secondo il modello Sovietico. In questo Congresso fu deciso che in
caso di vittoria dei comunisti, la Jugoslavia sarebbe diventata una federazione
composta dalla Serbia, dalla Croazia, dalla Macedonia, dalla Slovenia, dal
Montenegro e dalla Bosnia – Erzegovina. Fu inoltre deciso che il popolo jugoslavo sarebbe stato diviso in nazioni e nazionalità, in quanto solo le nazioni avevano il diritto di creare la propria Repubblica in base al principio di autodeterminazione dei popoli. La parte kosovara non fu convocata a partecipare a questo
Congresso. In risposta a ciò i Kosovari organizzarono una conferenza a Bujan il
1 Gennaio 1944 dove decisero di unirsi e combattere l’occupatore straniero poiché questo era l’unico modo per avere la libertà, la quale avrebbe assicurato a
tutti i popoli di applicare il principio di autodeterminazione che avrebbe portato ad ottenere lo status di Repubblica anche per i kosovari. Seguirono molte cri-
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n.17 / 2007
tiche in seguito a tale decisone del Comitato Kosovaro, da parte del partito
comunista iugoslavo, il quale insisté sul fatto che i confini sarebbero stati decisi
una volta finita la guerra a seconda della situazione politica che si sarebbe venuta a creare in Iugoslavia e Albania. È stata una politica astuta quella del partito
comunista iugoslavo che riuscì a nascondere le sue vere aspirazioni. Prima di
tutto, il partito non voleva la divisione dell’esercito in questa fase importante
della guerra. Un’altra ragione del loro silenzio fu il fatto che gli jugoslavi volevano annettere l’intera Albania, poi in un secondo momento unire il Kosovo ad
essa e ciò poteva sembrare positivo agli occhi dei kosovari. La verità stava invece
nel fatto che essi non avrebbero mai lasciato il Kosovo e soprattutto non le avrebbero mai dato lo status di repubblica autonoma.
Anche in Albania nel 1941, venne fondato il Partito comunista, guidato da Enver
Hoxha. Egli ebbe un ruolo molto importante nel coordinamento della resistenza
comunista albanese sia contro gli italiani ma soprattutto contro i tedeschi. Grazie
a ciò gli venne affidato il comando dell’Esercito di liberazione nazionale. Con
l’aiuto materiale dell’Europa e sotto la giuda del partito comunista iugoslavo, il
partito comunista albanese consolidò la sua posizione. Con la fine della guerra e
la vittoria dell’esercito di liberazione nazionale nel 1945 vennero indette le elezioni e Hoxha, già segretario del Partito comunista, fu eletto capo del governo
della nuova Repubblica Albanese. Nel programma del partito i confini
dell’Albania rimasero quelli stabiliti nel 1913 senza pronunciarsi su quelli nati
durante l’occupazione italiana e la questione del Kosovo venne lasciata nell’ombra. Questi erano segni chiari della politica che avrebbe seguito il partito comunista albanese sotto l’influenza del partito comunista iugoslavo. L’influenza di
tale partito convinse, Enver Hoxha che lo spirito indipendentista dei kosovari
costituiva un pericoloso ostacolo per l’espansione del comunismo e indebolendo in questo modo il suo potere e la sua popolarità (Dode 2006, pp. 251-253).
Nei documenti comunisti non furono mai trovate le parole “strategia nazionale”
che comprendesse anche il Kosovo e il principio di autodeterminazione (Detrez
2004, p. 42).
Come previsto il 31 Gennaio 1946 fu approvata la Costituzione jugoslava dove
veniva confermata la struttura federale proposta a Jajce. Essa era formata dalle sei
Repubbliche paritarie e in più dalla Provincia autonoma della Vojvodina e dalla
Regione autonoma del Kosovo all’interno della Repubblica di Serbia. Solo Serbia,
Macedonia, Croazia e Slovenia furono riconosciute come nazioni costituenti
della Jugoslavia, mentre gli Slavi musulmani ottennero questo status solo negli
anni Settanta. Gli Albanesi, gli Ungheresi e gli altri popoli che vivevano all’interno dei confini jugoslavi vennero riconosciuti come nazionalità, fatto che gli proibiva la costituzione della propria Repubblica.
È importante a questo punto chiarire qual fosse la differenza tra nazione o na cije/na rodi e nazionalità o na ciona lsnoti/na rodnosti . Con il termine nazione si
riconoscevano quelle popolazioni dove la loro patria era all’interno dei confini
della Iugoslavia come i bosniaci, croati, sloveni, serbi, macedoni e montenegrini.
Essi potevano avere lo status di Repubblica e venivano considerate come nazioni costituenti. Invece, con il termine nazionalità venivano considerate le popolazioni la cui patria si trovava all’esterno dei confini della federazione, come gli
albanesi e gli ungheresi. Esse non avevano il diritto di avere la propria repubblica ma dovevano accettare lo status di provincia sotto il potere della Repubblica
62
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
della Serbia (Detrez 2004, p. 45).
Questa decisione svelò da subito le intenzioni della politica iugoslava, essa non
solo non mantenne le promesse fatte agli Albanesi del Kosovo durante la guerra
antifascista, ma gli lasciò in una situazione che somigliava alle decisioni del 1878
e 1913. Il territorio kosovaro subì presto una ulteriore spartizione tra Macedonia,
Serbia e Montenegro. La città di Scopje capitale del vila jet di Kosovo venne data
alla Macedonia. Questa spartizione fu fatta in modo da poter diminuire il numero degli albanesi aventi diritti perché solo gli albanesi che rimasero sotto la provincia autonoma del Kosovo venivano applicati i diritti dettati dalla costituzione
del 1946. Invece, la popolazione albanese divisa tra le diverse repubbliche fu
ridotta a minoranza ed in questo modo era soggetta alla legislazione di quest’ultime. Così, si poteva evitare la loro unione e di conseguenza diminuiva la probabilità di rivolte. Tutto questo venne fatto senza consultare la parte albanese.
Il dopoguerra non migliorò la situazione per il Kosovo. L’educazione, le scuole
costruite durante la seconda guerra mondiale non furono chiuse ma il governo
diminuì i fondi per mantenerle. In questo modo l’insegnamento della lingua
albanese venne eliminato lentamente e la stessa cosa successe anche per le altre
materia e tra esse la storia. Milan Kundera (1981), scrisse: “il primo passo per
liquidare un popolo è cancellare la sua memoria. Distruggerne i libri, la cultura,
la storia”. Possiamo ammettere che i serbi erano sulla buona strada non riconoscendo nessuno status alla lingua albanese.
La popolazione albanese cominciò a essere maltrattata dalla polizia e divenne
soggetto di discriminazione in tutti gli aspetti della vita. Molte persone furono
imprigionate, specialmente gli intellettuali. Quelli che venivano arrestati non
potevano avere un avvocato e venivano giudicati a vari anni di prigione, divenendo soggetti a varie umiliazioni e numerose torture. Per non parlare dell’emigrazione forzata di duecentomila persone che dovettero spostarsi in Turchia. In
questo contesto i giornali non facevano che parlare della numerosa crescita degli
albanesi del Kosovo. La loro propaganda dimenticava che in quella zona la presenza degli slavi non superava il 15% della popolazione nel 1913, invece nel 1950
questa era triplicata. Dopo la prima guerra mondiale il numero dei kosovari era
quasi uguale al numero degli albanesi rimasti nei territori dell’Albania, invece nel
1960, a causa della politica sciovinista e del vecchio fenomeno dell’immigrazione venne diminuito drasticamente.
Nell’anno 1966, il partito comunista serbo si trovò diviso al suo interno. Questa
circostanza portò delle novità per quanto riguarda le condizioni dei kosovari.
Tito ammise che i diritti dei kosovari erano stati violati in modo arbitrario e che
il responsabile di questa infrazione e dei crimini che ebbero seguito fu
Aleksander Rankovic, ministro degli interni insieme ai suoi agenti (Detrez 2004,
p. 43). Con il suo allontanamento ebbe seguito l’adozione di nuove misure più
liberali per i kosovari. La revisione della costituzione nell’anno 1969, portò diritti eguali per i kosovari come per gli altri gruppi etnici, ma escluse per la millesima volta la possibilità di formare una repubblica autonoma. Il Kosovo e la
Vojvodina vennero identificate come “comunità sociali e politiche”. Ciò significava che il Kosovo era ormai un’entità federativa legittima e poteva esercitare le
proprie competenze come le altre repubbliche. Il fatto che si potesse mostrare
la propria bandiera e che nella nuova Università di Pristina le lezioni si tenessero in entrambe le lingue (serbo-croato e albanese) testimoniò l’importanza dei
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n.17 / 2007
diritti che questa nuova costituzione aveva portato.
Gli albanesi dimostrarono grande fermento nel produrre nuovi giornali e riviste
e intrapresero varie ricerche nella lingua albanese. Malgrado il fatto che i professori fossero sottopagati l’università di Pristina crebbe rapidamente diventando la
terza università della Iugoslavia. Apparentemente questa situazione sembrava
perfetta, ma nella realtà i circoli conservatori serbi continuavano la repressione
del progresso dell’educazione e della cultura creata in Kosovo. La polizia iugoslava continuava ad arrestare kosovari e nelle prigioni iugoslave trovavi più kosovari che iugoslavi e tra questi molti scrittori e poeti.
La costituzione del 1974, rimasta in vigore fino alla disgregazione della federazione della Jugoslavia nel 1991, cambiò la situazione ampliando ulteriormente i
diritti della popolazione in Kosovo. Il primo articolo di questo documento affermava che le province, anche se facenti parte della Repubblica Serba, erano rappresentate ai livelli federativi. Di conseguenza il Kosovo ottenne i diritti, quasi, di
uno Stato: si fondò la banca nazionale e ottenne il diritto di intrattenere relazioni a livello internazionale anche se solo entro i confini delle leggi predisposte
dalla federazione. Il Kosovo aveva i propri rappresentanti in parlamento, nel
governo presidenziale e anche nei tribunali, come le altre repubbliche. Questa
costituzione segnò la storia del Kosovo nonostante non possedesse il diritto di
staccarsi dalla Repubblica serba, diritto che valeva solo per le repubbliche e non
per le province, le quali non potevano scegliere il proprio status.
Ma non mancarono le reazioni dei nazionalisti serbi che consideravano tale costituzione come discriminante nei loro confronti, reazione che alterò i rapporti
interetnici tra i Serbi e gli Albanesi della Regione. Gli intellettuali albanesi non
venivano rispettati dalla classe politica serba, anzi, nella maggior parte delle volte
quelli che offendevano gli albanesi, lontani dall’essere criticati venivano lodati e
esaltati dall’opinione pubblica dando in questo modo, luogo alla creazione di
forti nazionalismi, che ponevano come obiettivo l’umiliazione degli albanesi in
modo da proibirli di essere orgogliosi della loro identità. La conseguenza fu una
proposta di revisione che riguardava specificamente il potere delle province
autonome. Tito non accettò tale proposta e riuscì a mantenere unito il paese
anche se all’interno fervevano molti sentimenti nazionalisti che furono soppressi con la forza. Tuttavia, la situazione iniziò a cambiare dopo la sua morte nel
1980, quando apparve chiara sia la crisi del modello politico, sia il fallimento del
progetto nazionale. Il nazionalismo, ricomparso già in Slovenia e Croazia, si diffuse in tutte le regioni della Federazione, portando in poco tempo ad una crisi
irreversibile.
Quando le guerre non finiscono più
L’11 Marzo del 1981, gli studenti dell’Università di Pristina invasero le strade della
capitale kosovara, denunciando le loro condizioni di vita e la qualità delle mense
universitarie. L’arresto da parte della polizia serba di alcuni studenti comportò
nuove manifestazioni dove si chiedeva la liberazione dei colleghi incarcerati. In
poco tempo la dimostrazione si espanse velocemente investendo altri temi politici e coinvolgendo la massa della popolazione. Per la prima volta i manifestanti
chiesero lo status di piena repubblica per il Kosovo. Le forze dell’ordine intervennero in modo brutale e incivile sulla popolazione che manifestava in modo
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Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
pacifico. Il 2 aprile a Pristina fu proclamato lo stato d’assedio che portò i carri
armati per le strade di Pristina. Tutto ciò non fermò la protesta degli albanesi che
si intensificarono ulteriormente provocando un bilancio pesantissimo. Non si è
mai saputo esattamente il numero delle vittima, alcune fonti parlano di centinaia
altri di migliaia. La polizia rimase ancora in Kosovo anche se lo stato d’assedio finì
e la conseguenza fu un’ondata di arresti e processi giudiziari.
Viene spontaneo in questo momento pensare alle raccomandazioni, fatte nel
memorandum dal Vaso Cubrilovic come queste: “i conflitti devono essere prepa ra ti e incora ggia ti …a ttribuendo a loro ra gioni economiche” e poi “reprimerli sa nguinosa mente nella ma niera più effica ce….il ruolo della polizia dovrà
essere di estrema importa nza ” (Cubrilovic 1937)24. Il parallelismo tra le sue raccomandazioni e quello che successe nel 1981 in Kosovo è impressionante.
Dopo la soppressione sanguinosa delle manifestazioni e la morte di centinaia di
connazionali, i kosovari furono privati, pian piano, della loro relativa libertà
garantita da Tito nel 1974. Questa volta il target della repressione furono gli intellettuali: scrittori, poeti, studenti e specialmente professori dell’università di
Pristina, perché con le loro ricerche intensive nel campo dell’albanologia rilevarono fatti storici veri che mettevano in luce l’origine dei kosovari, dimostrando
che non erano una popolazione estranea ma avevano le loro radici li in quei territori. Oltre ad essere licenziati, la maggior parte di essi, furono imprigionati
senza un processo legale. Nelle prigioni quasi il 50% degli incarcerati erano kosovari che diventarono oggetto di maltrattamenti.
Per la prima volta l’Albania reagì durante il regime comunista, denunciando l’accaduto in uno dei giornali del paese, esprimendo la sua solidarietà agli albanesi
del Kosovo, interrompendo definitivamente i legami con la Iugoslavia.
Oltre alla violenza, le persecuzioni e il maltrattamento, i serbi diedero inizio alla
propaganda razzista. Usando la libertà di stampa seguita dopo la morte di Tito,
gli intellettuali serbi pubblicarono scritti prodotti da studi pseudoscentifici, dove
si parlava della mentalità arretrata dei kosovari, della violenza da loro prodotta,
atti che avevano come scopo la pulizia etnica e lo spostamento dei serbi dal
Kosovo.
In particolare, sui giornali comparvero articoli che cercavano di denigrare gli
albanesi, esemplare fu il caso Martinovic25 sul quale venne pubblicato un libro di
485 pagine e vennero vendute 50000 copie cosa che dimostrava la forma isterica
che stava assumendo la campagna denigratoria serba contro gli albanesi. Per non
parlare poi della questione dello spostamento dei serbi dal Kosovo che veniva
denunciata da loro come genocidio. Nessuno ragionò sulle ragioni vere e proprie dell’allontanamento dei serbi dal Kosovo che era la conseguenza della difficile situazione sociale e della crisi economica post-Tito che colpì la Iugoslavia
cosa che portò uno spostamento dalle regioni povere verso quelle più ricche.
Le librarie furono riempite con libri di storia nuovi, con delle aggiunte nazionalistiche e razziste come quelli di Batakovic, Bogdanovic, Cosic26. In questi documenti si presentava una Serbia gravemente limitata a causa delle due province
autonome che godevano di più libertà rispetto a quello che meritavano, si affermava inoltre che in Kosovo era in corso dal 1981 una guerra aperta e totale contro i serbi, vittime di un genocidio da parte degli albanesi. Nei testi si chiedevano riforme democratiche per la stabilizzazione dello stato di diritto che avrebbe
potuto proteggere i diritti di tutti. In questo modo essi esigevano la limitazione
24
Citato in Juka (1984)
dove vengono riportati
pezzi molto ampi dell’articolo (The expulsion of
the Albanians) dello storico serbo Vaso Cubrilovic
pubblicato nel marzo
1937.
25
Il primo maggio 1985
venne ricoverato all’ospedale di Pristina, Dorde
Martinovic, con una bottiglia rotta infilata nell’ano
che secondo lui era stata
opera di alcuni albanesi
mascherati.
26
Erano conosciuti con il
nome Francuska 7 secondo l’indirizzo dove si trovavano per discutere e
redigere petizioni diretti
al governo della
Iugoslavia. Due di essi
erano i più conosciuti: La
Petizione dei duecento
intellettuali serbi diretta
al governo Iugoslavo, 21
gennaio 1986 e il
Memorandum della
Accademia delle Scienze e
dell’arte della Serbia dal
quale sono stati pubblicati solo due frammenti il
24 e il 25 settembre 1986.
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n.17 / 2007
27
Santo protettore dei
serbi.
66
o come vedremo la sospensione dell’autonomia del Kosovo. Questi libri pubblicati dalla Accademia delle Scienze della Serbia formarono le basi teoriche alla
politica nazionalistica che verrà adottata in Kosovo.
La persona che usò questo nazionalismo per la propria scalata verso il potere fu
Slobodan Milosevic. Infatti, con il suo avvento al potere, la situazione peggiorò
ulteriormente, perché incentivò ancora di più la crescita del sentimento nazionalistico serbo alimentato dalla creazione della “Grande Serbia” e il Kosovo in
questo caso costituì uno dei nodi principali di tale politica. Infatti, il mito del
Kosovo come terra d’origine da recuperare alla totale sovranità di Belgrado, riaccese l’orgoglio nazionalista e il desiderio di riconquista della “terra santa” ovvero la memoria comune. La “riconquista” diventò l’elemento centrale del nazionalismo serbo. Inoltre, salito al potere il nuovo leader rifiuto il sistema federale
come responsabile della debolezza economica della Serbia rispetto alle repubbliche del nord. Nel 1989, l’Assemblea della Serbia preparò una serie di emendamenti alla costituzione al fine di limitare le competenze del Kosovo e che
avrebbero dato alla Serbia il pieno controllo sulla polizia, sulla giustizia, sulla protezione territoriale, l’educazione e la lingua ecc. Emendamenti che non furono
adottati dal parlamento kosovaro posto davanti ad una riduzione delle libertà del
popolo kosovaro. Ricominciarono le proteste contro queste proposte legislative
che si concretizzarono in diversi scioperi dei minatori e in sospensioni dal lavoro in varie fabbriche, a cui Miloscevic rispose dichiarando lo stato d’assedio per
la seconda volta dal 1981. Cominciò una lunga fase di arresti con l’accusa di azioni controrivoluzionarie che per la maggio parte vennero sanzionate con la pena
di morte. Il Parlamento kosovaro fu messo di fronte ad una scelta difficile: adottare gli emendamenti o porre sotto un governo militare il Kosovo. Il 23 marzo
1989 l’assemblea provinciale del Kosovo si riunì in circostanze anomale, circondata da carri armati e blindati, dove forze di sicurezza e funzionari del partito
comunista serbo, parteciparono alla votazione. In questo modo fu ottenuta l’approvazione dal parlamento di Pristina, necessaria per approvare gli emendamenti costituzionali che avrebbero tolto ogni reale autonomia al Kosovo. Agli occhi
della popolazione serba sembrò che il Kosovo aveva deciso autonomamente di
limitare la propria autonomia tramite un processo democratico. La ratifica finale
degli emendamenti fu poi votata il 28 marzo a Belgrado: da questo momento il
Kosovo venne governato de fa cto da Belgrado. Iniziarono così le proteste e gli
scioperi dei kosovari che coinvolsero tutti i gruppi sociali e contemporaneamente iniziarono gli arresti di massa, la violenza e gli omicidi senza limiti.
La costituzione serba dell’anno 1990 vietò l’utilizzo della lingua albanese in tutte
le scuole e nell’Università di Pristina che venne trasformata nella Scuola di studi
superiori Sveti Sava27. Gli albanesi non poterono più vendere oppure comprare
beni immobiliari senza l’autorizzazione delle autorità serbe. A tutte le istituzioni
albanesi venne tolto ogni genere di potere e l’Assemblea del Kosovo perse ogni
diritto di votare i nuovi emendamenti alla nuova Costituzione della Serbia. Tanti
albanesi furono licenziati soprattutto il personale ospedaliero perché aiutavano
di nascosto le persone che avevano subito la violenza serba. Allo stesso tempo
venne chiusa l’Accademia delle Belle Arti Albanese. Il parlamento serbo aveva
come punto fondamentale del suo programma l’uniformazione di tutte le scuole in Kosovo, le quali furono obbligate ad usare come lingua solo il Serbo, per
annientare così ogni diritto degli albanesi e di conseguenza l’essere albanesi.
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
Questa politica arbitraria seguita dai serbi, riducendo i diritti agli albanesi in
Kosovo e trattandoli come cittadini inferiori di fronte ai cittadini serbi, alimentò
un continuo sentimento di rivolta. Il 2 luglio del 1990, l’Assemblea del Kosovo
dichiarò quest’ultimo un’entità indipendente con diritti uguali a livello federativo. Come risultato le autorità serbe soppressero sia l’Assemblea che il governo
del Kosovo, eliminando così le ultime speranze di autonomia. Tuttavia i membri
dell’Assemblea si riunirono di nuovo in segreto nella città di Kacanik, il 7 di settembre del 1990, e approvarono la “Costituzione della Repubblica del Kosovo”,
si sancì che la legge serba sarebbe valsa solo se non avesse violato le disposizioni della costituzione albanese. La reazione serba fu la solita: arresti, persecuzioni
e omicidi.
Un anno dopo, l’Assemblea organizzò un referendum, il quale confermò la sovranità e l’indipendenza della “Repubblica del Kosovo”. Il 26 maggio 1992, i kosovari svolsero elezioni parlamentari e presidenziali che portarono alla creazione
delle istituzioni del governo e del parlamento e il capo del partito La Lega
Democratica del Kosovo, Ibrahim Rugova, fu eletto presidente della Repubblica.
In uno dei suoi discorsi egli affermò: “Rima nere soggetto a lla Serbia non è una
soluzione. La Iugosla via è sta ta fra ntuma ta e a ssieme a essa la possibilità che
noi possia mo dipendere da essa ” (AA. VV. 1996, p. 122). Il Kosovo non fu mai
riconosciuto come stato da parte dei membri della comunità europea e quella
internazionale, l’unico Stato a riconoscere il Kosovo fu l’Albania.
I kosovari boicottarono le elezioni serbe e non vollero partecipare alla vita politica serba perché avrebbe significato giustificare il diritto dei serbi sul Kosovo.
Essi pensavano che un incontro tra i governi sarebbe stato possibile solo in un
terreno neutrale al di fuori dei confini. Questa proposta kosovara venne rifiutata
dai serbi, perché sarebbe sembrato un riconoscimento dello Stato kosovaro da
parte serba.
Nonostante ciò il governo del Kosovo continuava ad operare anche di fronte alle
grandi difficoltà organizzative: vennero aperte scuole nella lingua albanese utilizzando come edifici le abitazioni della popolazione e allo stesso tempo continuarono le proteste per la riapertura delle scuole in Kosovo. Di conseguenza il
capo di governo serbo Panic invitò Rugova a discutere della soluzione del problema delle scuole. Con la presenza delle delegazioni straniere essi si incontrarono a Pristina e dall’incontro uscirono risultati modesti ma anche questi non
vennero applicate, perché Miloscevic avvisò subito Panic che non era di sua competenza la risoluzione delle questioni interni alla Serbia.
Un sistema sanitario provvisorio venne creato con i finanziamenti provenienti
dagli emigrati kosovari che sostenevano il loro paese dall’estero. Questo stato
parallelo creato da Rugova e la sua strategia politica pacifica che puntava al riconoscimento della Repubblica del Kosovo come entità indipendente, non durò
molto.
Di fronte alle atrocità che i serbi commettevano in Kosovo ogni giorno, questa
strategia fallì, costringendo molti kosovari che ancora credevano nell’indipendenza, a sostenere i gruppi che proponevano politiche radicali. Case distrutte,
scuole, ospedali, case editrici che non potevano più lavorare, tutti i funzionari
dello stato che sostenevano la causa dell’indipendenza del Kosovo furono licenziati, i serbi cominciarono a trasferirsi in Kosovo per scacciare la popolazione
albanese. Oltre a questa violenza e il terrore della politica di Milosevic esistevano
67
n.17 / 2007
altre ragioni che portarono i kosovari a sostenere questi gruppi. In questo periodo Slovenia e Croazia raggiunsero l’indipendenza e non seguirono una politica
difensiva anzi il conflitto aperto con la Serbia fu la modalità seguita da questi
nuovi stati. Così in breve tempo l’opinione degli albanesi cambiò, convincendosi che anche per il Kosovo, la via migliore sarebbe stato il conflitto armato.
Il 14 dicembre 1995, Izetbegovic, Miloscevic, Tudman stipularono il Trattato di
Pace in Bosnia – Erzegovina dove la Comunità Europea assieme agli Stati Uniti
imposero la soluzione finale per l’ex Jugoslavia, senza però menzionare in nessun momento la soluzione per il Kosovo. Gli albanesi del Kosovo si sentirono di
conseguenza ignorati e abbandonati e non ebbero nessun riconoscimento per la
loro resistenza pacifica. Inoltre, la fuga di 200000 serbi dalla Krajina, a causa dell’esercito croato, fece capire che i serbi potevano essere sconfitti. La politica della
resistenza pacifica, seguita dagli albanesi, lasciò posto agli attacchi armati.
Inizialmente furono attacchi sporadici ma presto la situazione cambiò. Nel 1997,
un gruppo di guerriglieri, che si definì con il nome U.C.K (Ushtria Clirimare e
Kosoves) fece degli attentati armati alle stazioni di polizia serba. Il loro obbiettivo era la liberazione del Kosovo anche con la guerra. I serbi reagirono inviando
le forze militari pesanti in Kosovo, le quali realizzarono omicidi di massa senza
alcuna distinzione tra gente armata e popolazione civile. Il territorio del Kosovo
subì forti sconvolgimenti demografici, intensificatisi alla fine degli anni Novanta
a causa della “pulizia etnica” serba.
Essi devastarono villaggi interi, uccidendo tutti i componenti dei villaggi, senza
risparmiare donne e bambini. Soprattutto nei villaggi della Drenica il numero
delle vittime fu altissimo, 80 morti e tra questi 12 bambini e 14 donne. Per tutto
l’anno 1997 e quello successivo si susseguirono massacri senza mai interrompersi, Decan, Pej, Racak ecc. Le esecuzioni di civili e la evacuazione di interi villaggi provocò massicci esodi di profughi verso i paesi limitrofi e verso l’Europa,
soprattutto Italia, Germania e Turchia. Il numero aumentava con l’aumentare dei
massacri.
Il conflitto che andava sempre più accentuandosi e il rischio che il conflitto nel
Kosovo si espandesse nel resto dei Balcani, mobilitò la diplomazia internazionale: nel marzo 1998 si riunì a Londra il Gruppo di contatto – istituito per vigilare
sulla pace nell’ex Iugoslavia e formato da Stati Uniti, Russia, Francia, Germania,
Gran Bretagna e Italia – che decisero (con il parere contrario della Russia) di
imporre alla Serbia sanzioni economiche e l’embargo di armi, minacciando un
intervento militare diretto nel Kosovo se la Serbia non avesse accettato il ritiro
delle proprie forze di polizia e l’avvio di un negoziato di pace con i rappresentanti albanesi. Nel maggio 1998 gli Stati Uniti inviarono a Belgrado il mediatore
Richard Holbrooke – già intervenuto negli accordi di Dayton che conclusero la
guerra civile iugoslava – con l’incarico di favorire le trattative tra le parti in conflitto. Nel settembre dello stesso anno, il Consiglio di sicurezza dell’ONU votò la
risoluzione 1199 finalizzata al cessate il fuoco, ammonendo il governo di
Belgrado, nel contempo la NATO avviò i preparativi per un intervento militare
diretto. In ottobre si aprì il primo tavolo di negoziati, che si conclusero con la
firma di un accordo per il cessate il fuoco e per il ritiro delle truppe serbe dalla
regione, a garanzia dell’attuazione dell’accordo di pace furono inviati nel Kosovo
più di 2000 osservatori dell’OSCE.
La palese violazione dell’accordo nei mesi seguenti, con il ripetersi degli scontri,
68
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
degli esodi di popolazione e le stragi di civili albanesi da parte delle milizie serbe,
costrinse la diplomazia internazionale, a richiamare le parti in conflitto ad un
incontro, che si svolse dal 6-23 di febbraio del 1999 nel castello di Rambouillet,
nei pressi di Parigi sotto la sorveglianza del Gruppo di Contatto e con la partecipazione delle delegazioni serbe e albanesi. Il piano formulato dal Gruppo di contatto prevedeva la concessione di un’ampia autonomia al Kosovo nel rispetto
della sovranità serba sulla provincia, il disarmo dell’UÇK e il dispiegamento di
una forza multinazionale di pace sotto l’egida della NATO che garantisse il rispetto dell’accordo politico. Il Kosovo da quel momento avrebbe potuto intrattenere relazioni internazionali, nonostante fosse un’ entità sottostatale. Lo status del
paese era da considerarsi una via tra una provincia autonoma ed una repubblica
parte della RFJ.
Nonostante la comunità internazionale face una grande pressione affinché i
kosovari e serbi rispettassero il trattato di Rambouillet, nessuna delle parti fu
soddisfatta, poiché entrambe rivendicavano le proprie pretese. Dopo forti pressioni diplomatiche, la delegazione albanese decise di firmare il trattato, mentre
quella serba rifiutò nonostante il rischio di azioni militari da parte dei Paesi della
NATO nei suoi confronti.
Infatti, dal 24 marzo fino il 10 giugno 1999 la NATO intraprese una serie di bombardamenti sul tutto il territorio della Iugoslavia. Dopo 78 giorni di bombardamenti, fu raggiunto un accordo che prevedeva: la cessazione dei raid aerei della
NATO, il simultaneo ritiro delle forze serbe dal Kosovo e il dispiegamento di una
forza internazionale di pace (KFOR) composta di truppe dei paesi membri della
NATO e della Russia (per un totale di 50.000 uomini). Così, la Repubblica
Federale Iugoslava, accettò le condizioni proposte dai paesi del G-8 e il Consiglio
di Sicurezza istituì la risoluzione 1244 nel giugno del 1999 intesa ad autorizzare
l’intervento della forza di pace per permettere ai profughi di far ritorno in patria
che solo in Albania, nel 1999 erano già 100000.
Questa risoluzione segnò la fine del conflitto armato e pose il Kosovo sotto l’amministrazione dell’ONU28. La ratifica del Trattato di Rambouillet, siglata il 3 giugno 1999 da parte dell’Assemblea della Serbia a Kumanova, produsse la creazione di un’Amministrazione Temporanea delle Nazioni Unite in Kosovo (UMNIK)
come parte civile internazionale, mettendo al primo posto l’obiettivo di creare
una amministrazione a d interim sotto la quale il popolo del Kosovo potesse
godere di una sostanziale autonomia all’interno della Repubblica Federale
Iugoslava. Allo stesso tempo si decise che sarebbe stata compito della parte civile internazionale il controllo dello sviluppo delle istituzioni democratiche provvisorie di autogoverno. Inoltre vennero stabilite una serie di funzioni specifiche
ordinate in quattro “pilastri” ciascuno dei quali venne assegnato ad una organizzazione internazionale. L’amministrazione civile fu assegnata alle Nazioni Unite,
mentre dell’institution building venne incaricata l’OSCE. L’UNHCR condusse il
rientro dei rifugiati, degli sfollati e la fornitura degli aiuti umanitari invece
l’Unione europea gestì la ricostruzione economica del paese.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite poneva come priorità il rispetto dell’integrità territoriale e la sovranità della Repubblica Federale Jugoslava sul
Kosovo e l’avvio della realizzazione di una reale autonomia e di una efficace autoamministrazione. Fu chiesto all’amministrazione civile provvisoria guidata
dall’UNMIK di assolvere i compiti per la loro attuazione. Svolgere le funzioni
28
Per maggiori informazioni si veda United Nations
Security Council,
Resolution 1244, 10 June
1999.
69
n.17 / 2007
29
Si veda UNMIK,
Constitutional
Framework.
Constitutional Framework
for provisional selfgovernment,
UNMIK/REG/2001/9 – 15
MAY 2001.
70
amministrative civili di base era la funzione principale richiesta all’UNMIK per
promuovere l’instaurazione di forme di autonomia e autogoverno sostanziali.
Tra i suoi compiti figurava la facilitazione del processo politico che avrebbe portato alla determinazione del futuro status del Kosovo, la coordinazione dell’assistenza umanitaria fornita dalle varie agenzie internazionali e la ricostruzione
delle infrastrutture fondamentali. Sotto la sua competenza vi era il mantenimento dell’ordine e della legalità, la promozione dei diritti umani e assicurazione del
libero e sicuro ritorno di tutti i rifugiati e sfollati alle proprie case in Kosovo
(Muharremaj 2006).
Il passo successivo fu il graduale trasferimento delle responsabilità dalla comunità internazionale agli organi amministrativi kosovari per la creazione delle istituzioni statali temporanee del Kosovo, come previsto dalla Risoluzione 1244. Il
regolamento 2001/9 dell’UMNIK pose le basi per il trasferimento delle responsabilità alle istituzioni temporanee per l’auto-governo. In sostanza, l’UNMIK trasferì alle neonate istituzioni di autogoverno solamente alcune funzioni amministrative (e non politiche), non trasferendo così la propria autorità. Questo fu un passaggio importante perché sottolineava come i poteri tipici di uno stato sovrano
fossero ancora nelle mani dell’amministrazione internazionale. Questo documento pose le basi per la creazione di una costituzione provvisoria anche se l’uso
del termine Costituzione venne rifiutato dall’UMNIK che precisa, “Constitutiona l
Fra mework for Provisiona l Self-Government”. Esso rappresenta un documento
di grandissima importanza, nel quale venne dichiarato che il Kosovo è “una entità sotto a mministra zione interna ziona le che, con il suo popolo, ha ca ra tteristiche storiche, lega li, cultura li e linguistiche uniche”, a ggiungendo che è “un
territorio indiviso sul qua le le Istituzioni Provvisorie di Auto-Governo devono
esercita re le loro responsa bilità ” 29.
Quale status per il Kosovo?
Diversamente da quello che successe in Bosnia con gli accordi di Dayton, in
Kosovo non fu possibile trovare una soluzione definitiva per il suo status. La risoluzione 1244 affidò il compito di creare le premesse per la definizione dello status all’Amministrazione Internazionale che elaborò la teoria degli “sta nda rds
before sta tus”. Ovvero la possibilità di dialogare sullo status sarebbe potuta iniziare solo quando la società civile e le istituzioni kosovare avessero raggiunto gli
standards di democraticità richiesti dall’Amministrazione Internazionale. Il 10
dicembre del 2003, l’UNMIK presentò il documento intitolato “Sta nda rds for
Kosovo”, in cui furono elencati gli obiettivi da raggiungere. La creazione di istituzioni provvisorie liberamente, onestamente e democraticamente elette, che
governino in modo imparziale, trasparente e responsabile e che possono rappresentare i bisogni di tutte le comunità era l’obiettivo principale che il documento proponeva. Inoltre, esso poneva la condizione che anche gli sfollati e i
rifugiati fossero inclusi nel processo elettorale. Particolare attenzione viene dedicata ai media e alla società civile per la creazione di un sistema pluralistico di
media privati ed indipendenti, controllati da una autorità regolatrice indipendente. Il documento impone la formazione di una società in cui qualsiasi forma
di incoraggiamento all’odio interetnico sia condannata dal mondo politico, dai
media e dalla stessa autorità.
Blerina Brami
Rassegna critica della letteratura albanese sul Kosovo
Per quanto riguarda il secondo obiettivo veniva richiesta la messa in atto di una
sola struttura legale e di una effettiva politica di imposizione della legge. In
sostanza un sistema in cui la polizia , il potere giudiziario e il sistema penale possono agire imparzialmente e nel pieno rispetto dei diritti umani, creando un
sistema di giustizia uguale per tutti e da tutti ugualmente accessibile.
La libertà di movimento invece, prevedeva il diritto per tutti gli individui di qualsiasi etnia di viaggiare, lavorare e vivere in sicurezza e in assenza di minacce o di
paura di attacchi, maltrattamenti o intimidazioni. Un altro aspetto importante era
quello del libero uso della propria lingua ovunque in Kosovo, nonché il dovere
delle istituzioni di emanare documenti in tutte le lingue ufficiali. Per quel che
concerneva gli sfollati e rifugiati che abbiano il desiderio di ritornare, essi dovranno essere in grado di farlo in condizioni di sicurezza e di dignità e dovranno
poter essere in grado di partecipare pienamente alla vita politica, economica e
sociale del Kosovo. Inoltre venne creata una organizzazione civile di emergenza
in caso di calamità: Kosovo Protection Corps. Lo sviluppo di un’economia di mercato competitiva e sostenibile era uno dei punti cardine del documento che prevedeva la sua messa in atto ed l’implementazione, ponendo come obbiettivo
finale il raggiungimento degli sta nda rds economici europei. Per incoraggiare il
ritorno di tutte le comunità etniche il testo precisava un’onesta applicazione del
diritto di proprietà che richiede la messa in atto di una legislazione effettiva e di
meccanismi efficaci di risoluzione delle dispute sulla proprietà.
L’aspetto più importare e allo stesso tempo più difficile da realizzare era e rimane la costruzione di un duplice dialogo costruttivo e continuo. Oltre al dialogo
tra le istituzioni provvisorie di autogoverno e Belgrado sulle tematiche concrete,
era indispensabile la creazione di un Kosovo come “attore attivo” nella cooperazione e nei rapporti tra le regioni30.
Oggi il Kosovo ha raggiunto alcuni degli sta nda rds sopraelencati, ma il sogno di
un Kosovo pacifico e multietnico è ancora lontano dall’essere realizzato. La
popolazione albanese si è stancata di aspettare la decisione dell’amministrazione
internazionale, incapace di risolvere il problema dello status. Infatti, sono passati otto anni e la soluzione dello status non è ancora pronta. Le conferenze tenutesi in questi anni hanno proposto delle soluzioni ogni volta respinte dall’intervento di veti dimostrando la debolezza della diplomazia internazionale basata
ancora sui rapporti di forza.
Questa stasi ha influenzato negativamente i rapporti tra le due etnie mantenendo ancora vivi i vecchi rancori. Anche se il dialogo ha avuto inizio le due etnie
con a fianco i loro storici alleati non si discostano dalle loro posizioni. Da una
parte i Serbi decisi a non perdere l’integrità territoriale e dall’altra i kosovari che
reclamano la loro indipendenza. La convergenza delle due posizioni totalmente
contrarie aspetta alla comunità internazionale, un compito molto complesso ma
il mantenimento dello status quo non è una soluzione e non accontenta nessuna delle parti né gli albanesi e né i serbi. L’ultima soluzione proposta non soddisfa ancora nessuna delle due posizioni ma dà la possibilità alle due etnie di iniziare a voltare pagine lasciando alle spalle secoli di guerre, sperando che un
Kosovo multietnico non rimanga un’utopia.
30
UNMIK, Standards for
Kosovo, UNMIK/PR/1078,
10 December 2003
71
n.17 / 2007
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[email protected]
73
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul Kosovo: lettura in chiave identitaria
del contesto socio-politico kosovaro
Focus: Kosovo
1
Un segnale di indeterminatezza socio-politica è
dato dal fatto che l’incertezza relativa allo status
futuro si riproduce anche
a livello di applicazione
del regime dei visti. Nei
primi tre anni che seguono il conflitto del 1999,
infatti, solamente un
ristretto numero di stati
riconosce i documenti di
viaggio UNMIK, a testimonianza di come la mancanza di un chiaro assetto
politico comporta per il
popolo insediato in
Kosovo difficoltà di spostamento all’esterno della
provincia. Per un maggiore approfondimento di
tale questione, si veda
ICG (ICG 2005).
2
Si veda Unscr,
Resolution 1244 (1999),
New York: UNSCR,
S/RES/1244 (1999), 10
June.
3
Risulta comunque
necessario porre in evidenza alcune considerazioni rispetto alla risoluzione 1244: quest’ultima,
infatti, prevede “substantial autonomy and meaningful self-administration
for Kosovo” ma conferma
“the commitment of all
Member States to the
sovereignty and territorial
74
Oggi numerose sono le prospettive analitiche attraverso le quali il contesto
socio-politico caratterizzante il Kosovo viene indagato e approfondito: le definizioni che lo contraddistinguono sono molteplici (protettorato internazionale,
quasi-stato, stato fuori legge…) e ciò indica il suo essere in transizione e in un
limbo dai contorni indefiniti. A testimonianza dell’indeterminatezza politico-istituzionale1 che lo rappresenta, basti pensare all’esistenza di una discrepanza tra il
Kosovo così come definito giuridicamente e il Kosovo così come si presenta in
una dimensione reale. Infatti, se si considera come riferimento la risoluzione
1244 adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 10 giugno 1999, a
conclusione dello scontro bellico scoppiato nel marzo dello stesso anno, si afferma l’impegno degli Stati membri verso il mantenimento della sovranità e dell’integrità della Repubblica Federale della Jugoslavia2. Dunque, stando al testo prima
citato3, il Kosovo è ancora parte integrante della Serbia ma se si abbandona la
dimensione giuridica e ci si affaccia al contesto reale, alcune voci accademiche
considerano oggi il territorio come protettorato internazionale, di fatto staccato
dallo stato serbo. Basti pensare a chi, come Dusan Janjic, direttore del Forum per
le relazioni etniche di Belgrado, dichiari che il Kosovo sia già di per sé un’entità
separata e dunque non si profila la necessità per tale area e per il popolo in essa
insediato di ricercare uno status indipendente poiché questo esiste in una
dimensione contingente.4
Questa breve parentesi iniziale mira semplicemente a mettere in luce alcune precisazioni di tipo scientifico poiché, proprio in riferimento a tale contesto, non
emergono risposte univoche e immagini chiare e nitide, tanto che l’indagine qui
di seguito riportata risulta, nella sua totalità, percorsa da flussi in opposizione, da
valutazioni che danno vita a interpretazioni bi-direzionali, comportando un continuo ribaltamento e ripensamento del quadro identitario. Ciò risulta particolarmente evidente se si richiama l’interrogativo che attraversa il presente lavoro,
legato al tentativo di comprendere il panorama delle identità caratterizzanti la
provincia, attraverso una riflessione circa il carattere mono o multi-etnico della
stessa. Dunque, l’analisi che qui si propone poggia su una logica scientifica per
così dire duale in quanto, proprio per evitare di produrre un’indagine approssimativa e poco attenta alla molteplicità di prospettive analitiche a disposizione
con cui “affrontare” il Kosovo, si cerca di presentare, nella sua globalità, un sistema caratterizzato da immagini dissonanti e da percorsi spesso antitetici. Il desiderio di effettuare un lavoro il più aderente possibile alla varietà del contesto ter-
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
ritoriale di riferimento, si evidenzia nel tentare di focalizzare l’attenzione non
solo su percorsi univoci d’indagine ma nel cercare sempre di creare disequilibri
e mettere sotto una lente d’analisi critica le teorie descritte.
A seguito di simili puntualizzazioni, si tratta ora di sottolineare come qui l’obiettivo ultimo sia legato alla volontà di produrre una sorta di diagnosi del contesto
socio-politico di riferimento, in vista di una maggiore comprensione delle diverse modalità d’intervento che si profilano in relazione alla definizione di uno status per la provincia. In altre parole, ci si chiede se il Kosovo si presenta oggi
come una realtà composita e variegata o, al contrario, si delinea come territorio
caratterizzato da una conformazione identitaria dicotomica e polarizzata? La
risposta a tale interrogativo permette di effettuare un’analisi posizionandosi su
diversi livelli di riflessione:
a) approfondimento dell’andamento dei processi di identificazione, in particolare attraverso un dialogo tra dimensione religiosa e dimensione etno-nazionalista;
b) valutazione dell’esistenza di reali forme di coesistenza e di cooperazione tra i
diversi gruppi, che ci permettano quindi di capire se si possa effettivamente parlare di realtà “mosaicata” in Kosovo;
c) comprensione dei tentativi di ridefinizione in chiave monoetnica del quadro
delle identità in Kosovo, percorso che porterà a valutare se le categorie d’appartenenza sono così rigide e di difficile superamento o al contrario sia possibile
intravedere forme di mobilità e fluidità che trascendono le diverse affiliazioni del
singolo. Ciò sarà supportato da un approfondimento circa i processi volti alla
creazione di spazi territoriali sulla base di appartenenze identitarie nazionali.
1.1. Premessa di lavoro: ripristino del concetto di identità
Prima di dare avvio all’analisi socio-politica legata alla valutazione dell’andamento dei processi di maturazione delle identità in Kosovo, risulta utile sottolineare
alcune considerazioni, in linea con presunte obiezioni che potrebbero essere
mosse alla base scientifica da cui trae spunto il presente lavoro. Ciò che a prima
vista si potrebbe rilevare, in maniera critica, rispetto all’indagine qui proposta, è
il carattere ambiguo e fonte di conflittualità politica assunto dal concetto di identità, la cui mera evocazione spesso rimanda a visioni del mondo etnocentriche o
all’esistenza di crociate ideologiche contro gli “altri” (Cerutti 2002, p. 23).
Perché, dunque, a motivo dell’esistenza di simili rischi analitici, si decide di effettuare un approfondimento del contesto kosovaro, partendo proprio da un fra mework concettuale che pone l’appartenenza identitaria come variabile centrale? Per poter rispondere a tale quesito, risulta necessario scardinare le immagini
peggiorative del valore dell’identità, prima evidenziate, rifacendosi a due livelli di
approfondimento:
a) processo di integrazione europea e conseguente delegittimazione delle politiche d’identità, soprattutto nella loro accezione nazionale;
b) valorizzazione, nel dialogo dicotomico tra ragione e identità, della prima
dimensione sulla seconda.
In riferimento al primo ordine di considerazioni, è doveroso mettere in luce
come il percorso unificatore europeo, fin dalla sua esplicazione iniziale, si lega
ad una riformulazione delle identità nazionali e, proprio in virtù di definire un
quadro identitario più ampio, gli stati-nazione gradualmente si svuotano di significato. L’assunto per cui l’esistenza delle identità nazionali debba essere sgreto-
integrity of the Federal
Republic of Yugoslavia”.
In realtà, l’aver sancito
l’inviolabilità dei confini
dello stato serbo, configurabile come elemento che
può bloccare il processo
di avanzamento nella definizione di uno status
futuro, è stato interpretato non sempre nel senso
di un impedimento del
tentativo di rafforzare la
separazione del Kosovo.
Infatti, la risoluzione
1244, dopo aver dichiarato l’impegno a conservare
i confini esistenti, rimanda all’Atto finale di
Helsinki e all’Annesso 2
della risoluzione stessa. Il
primo sancisce “equal
recognition of a state’s
right to sovereignty and
territorial integrity” ma
anche “minority people’s
right to self-determination”. Anche l’Annesso 2
inserisce il rispetto dei
confini della FRY all’interno di un contesto che
favorisca “interim political
framework agreement
providing for substantial
self-government of
Kosovo”. Da ciò ne deriva
che rientra nel mandato
legale dell’UNMIK il trasferimento di autorità al
governo provvisorio in
Kosovo (Bugajski,
Hitchner, Williams 2003).
4
Si tratta di dichiarazioni
rilasciate a seguito di
un’intervista in cui Janjic,
uno dei maggiori esperti
serbi di Kosovo, traccia
alcune considerazioni
circa l’odierna situazione
della provincia. Per una
versione integrale dell’intervista, si veda Zanoni L.
(2006), Il Kosovo alla
deriva, www.osservatoriobalcani.org.
75
n.17 / 2007
lata, a favore di progetti integrativi, si pone sullo stesso piano di una chiusura,
che si registra a livello accademico, circa la problematica della nazione, dei nazionalismi e delle politiche d’identità, definiti come elementi legati a contesti politici ormai superati. In particolare, una simile marginalizzazione scientifica rispetto a tali concetti viene sottolineata, da un lato, dal paradigma liberale, che considera la nazionalità come variabile incompatibile con il pluralismo culturale, in
quanto l’esistenza di una società caratterizzata dal dominio di una nazione, comporta non solo la difficoltà di garantire uguale rispetto alla varietà di tradizioni in
essa presenti ma anche lo sgretolamento della competizione e dello scambio che
da tale diversità scaturisce (Miller 2000, p. 33). Dall’altro, si tratta del paradigma
marxista che, considerando la dimensione economica e l’appartenenza di classe
come elementi prioritari di identificazione, riduce in un contesto d’analisi secondario la portata del ba ckground culturale su cui poggia l’identità dei singoli. Nel
periodo 1945-1989, i problemi legati all’identity e alle politiche su di essa poggianti, sono presenti ma non assumono mai una configurazione prioritaria nell’agenda politica; un simile confinamento secondario dell’identità, però, soprattutto in seguito alla dissoluzione del mondo bipolare e all’emergere di istanze
etno-nazionaliste nell’Europa centro-orientale, subisce un forte scossone che
comporta un ripensamento del ruolo stesso delle appartenenze identitarie.
Paradossalmente, è proprio il progetto sopranazionale europeo, sorto come tentativo di superamento della centralità delle identità territoriali che, nel suo percorso attuale di riconfigurazione della propria anima, spinge verso un ripensamento dell’importanza dell’identity, contribuendo a ridare vitalità al dibattito.
Oggi, infatti, gli studi europei, finora caratterizzati da una focalizzazione sugli
aspetti meramente economico-finanziari del processo di integrazione, si stanno
indirizzando verso un percorso analitico volto a indagare la questione dell’identità politico-culturale dell’Europa. Quest’ultima, soprattutto a motivo dell’attuale fase di allargamento, non può mostrarsi indifferente rispetto al rapporto esistente tra le ampie identità collettive, soprattutto nazionali, presenti al proprio
interno, e l’emergente identità europea. Dunque, la nuova e approfondita riflessione che l’Unione Europea sta compiendo su se stessa, in virtù della ricerca di
valori altri rispetto a quelli meramente economici, che contribuiscano a rendere
la sua esistenza più pregna di significato, non fa altro che ripristinare la centralità di un concetto, quale l’identità, per lungo tempo considerato ai margini della
policy a genda e degli studi accademici.
Il secondo ordine di considerazioni, in grado di spiegare il motivo per cui facili
si profilerebbero le critiche ad un lavoro poggiante su rielaborazioni del concetto di identità, è legato all’esistenza di un’interpretazione riduttiva circa la portata, in termini di razionalità, delle appartenenze identitarie. L’attenzione qui viene
posta sull’indagine della relazione esistente tra rea son e identity (Schöpflin
2000) e sul ruolo di entrambi nella definizione del potere politico. Entrambi si
presentano come autentici, nel senso di essere in grado di conferire significato e
dare valore alla politics ma ciò che si profila, nel dibattito scientifico, è la considerazione che essi si configurino reciprocamente esclusivi e che l’identità, vista
legata al prodursi di azioni distruttive, quali la pulizia etnica, sia da bandire come
elemento in grado di produrre legittimità politica. In realtà, nel momento in cui
ci si interroga sulla presunta irrazionalità delle appartenenze identitarie, ciò che
emerge non è tanto la loro natura illogica e ambigua, quanto la loro capacità di
produrre significati in riferimento al politica l power . Coloro che enfatizzano il
76
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
ruolo della ragione, per il fatto che essa è in grado di impedire che la dimensione del potere si delinei come arbitraria, fonte di disordine e priva di a ccounta bility, devono considerare come anche l’identità abbia, in questo senso, un ruolo
primario: essa, infatti, conferisce al singolo un senso di sicurezza in quanto lo
rende consapevole di appartenere ad una comunità poggiante su legami solidaristici, evitando che esso si senta isolato e che dunque si sleghi dal contesto politico. E’ inimmaginabile prevedere l’esistenza di politics senza comunità e, quindi, di esseri umani slegati da appartenenze comunitarie, poiché la mancanza o
l’eliminazione dell’identità, comporta l’emergere di situazioni di anomia, perdita di significato e, in ultima analisi, di instabilità politica.
Lo stesso Sen (Sen 2006), nell’interrogarsi sulla relazione esistente tra violenza e
identità, fornisce un quadro d’analisi che contribuisce a rimettere in evidenza il
ruolo non distruttivo delle appartenenze collettive. Ciò che spinge all’attuale
cla sh of civila za tion non è tanto l’identità in sé ma la sua manipolazione in
senso riduttivo ed esclusivizzante. La presunzione che gli individui possano essere categorizzati basandosi su un’unica appartenenza, normalmente religiosa o
culturale, rappresenta proprio la maggiore fonte di conflitto, tanto che all’origine dello scoppio della violenza tra gruppi in opposizione, vi è proprio l’illusione
che l’identità sia univoca e che sia data senza che alla base vi sia una possibilità
di scelta da parte del singolo. Inconsapevolmente, il riduzionismo che si produce a livello accademico, contribuisce a rendere complessa l’opera di superamento del verificarsi di forme di conflitto poiché, fino a quando gli individui verranno inseriti in “piccole scatole”, la miniaturizzazione che ne consegue continuerà
a rafforzare visioni eccessivamente ristrette dell’identità stessa. Proprio in linea
con il pensiero di Sen, si inserisce una valutazione teorica del concetto di identità, che qui viene brevemente delineata, in quanto considerata base scientifica
in grado di proporre una lettura innovativa non solo dell’appartenenza identitaria ma, di riflesso, anche del Kosovo stesso. A tal proposito, si adotterà una prospettiva d’indagine che, configurando l’identità come una sorta di legame sociale che unisce un individuo ad una specifica categoria, giunge ad affermare come
questa possa subire variazioni non solo in relazione allo spazio e al tempo ma
anche in virtù dell’accettazione o contestazione da parte dei membri stessi della
comunità o al contrario di chi rispetto alla collettività si presenta come outsider .
Il concetto di identità a cui si farà spesso riferimento nel proseguo del lavoro si
inserisce in una corrente di pensiero5 che mira a valorizzare la natura processuale dei legami identitari, mettendo in luce come questi spesso si presentino fluidi
e modificabili (Duijzings 2000).
1.2. Applicazione del concetto di identità processuale al Kosovo
5
Ci si riferisce al concetto di identità “congiunturale” proposto da James
Clifford. A tal proposito,
si veda Duijzings (2000).
6
Da un primo sguardo sembrerebbe che l’attuale antagonismo serbo-albanese
che caratterizza la provincia sia legato ad odi antichi da sempre presenti nell’area e per tale motivo di difficile risoluzione; tale immagine, di un’origine ancestrale del conflitto, sembra trovare conferma se confrontata con la realtà della
Bosnia-Herzegovina. Infatti, nel contesto bosniaco, serbi, croati e musulmani
sono popoli slavi che parlano la stessa lingua e perciò l’aspetto principale di differenziazione risulta essere l’appartenenza confessionale. Al contrario, in
Kosovo, serbi e albanesi si distinguono non solo per motivi religiosi (e ciò rimanda all’antagonismo Ortodossia-Islam) ma anche per ragioni di lingua6, tanto da
Esistono approcci all’etnicità che conferiscono
alla lingua un ruolo primario nel processo di
unificazione delle collettività umane; alla base vi è
la considerazione che una
variabile primaria nella
costituzione di un gruppo
etnico sia la comunicazione, l’intellegibilità e la
comprensione reciproca.
77
n.17 / 2007
far sembrare tali divisioni più “genuinamente” etniche e da far presumere l’esistenza di premesse reali, oggettive, di conflittualità politica. Una simile visione
risulta confermata dagli eventi bellici più recenti che hanno portato a leggere la
complessa realtà kosovara in termini dicotomici ed esclusivamente etnici ma se
l’intento è quello di fornire una lettura più corretta possibile, si ritiene indispensabile condurre un’analisi volta alla comprensione se simili visioni di separatezza
si delineano come aderenti al reale o meno.
7
Duijzings preferisce a
tale proposito parlare
non tanto di sistema
quanto di forma di governo indiretto attraverso il
supporto delle autorità
ecclesiastiche locali
(Duijzings 2000, p. 28).
78
1.2.1. Processi di identifica zione religiosa
Applicare il concetto di identità in divenire rimanda al discorso teorico di
Duijzings dove il Kosovo viene dipinto come zona caratterizzata dalla presenza
di molteplici e fluide appartenenze identitarie (ethnic sha tter zone, zona di frantumazione etnica), a motivo della sua integrazione, per cinque secoli, nello stato
ottomano, il quale contribuisce a preservare una notevole diversità di gruppi
etnici (Duijzings 2000). Lo stesso Malcolm considera fuorvianti e del tutto false
le affermazioni che descrivono lo stato ottomano come elemento di distruzione
delle fiorenti culture nazionali, di colonizzazione di vaste aree dei Balcani, attraverso l’insediamento di coloni turchi, e di oppressione nei confronti delle Chiese
cristiane locali (Malcolm 1999, p. 126). A detta di Dérens, simili affermazioni sembrerebbero una provocazione, in netto contrasto con i consueti approcci ideologici che tendono a giudicare in maniera fortemente negativa la presenza della
Sublime Porta nei Balcani, evidenziandone l’arretratezza e il declino interno
(Dérens 2001). Sicuramente la conquista militare ottomana è accompagnata da
uccisioni, saccheggi, distruzioni di monasteri e chiese ma considerare l’intera
dominazione di Istanbul in termini di violenza, governo arbitrario o introduzione di pratiche barbariche quali la schiavitù, la tortura e la mutilazione, rappresenta una lettura storica errata e anacronistica. Infatti, nei primi anni, almeno
fino alla fine del XVI secolo, il sistema ottomano risulta essere ben regolato e
strutturato al proprio interno: le colonizzazioni di massa sono pressoché inesistenti come del tutto rara è la conversione forzata all’Islam, per non parlare poi
della schiavitù, pratica registrata anche sotto i precedenti stati cristiani.
L’emergere di giudizi del tutto negativi circa l’operato di Istanbul nella penisola
balcanica è legato al fatto che gli ultimi secoli di dominazione ottomana vedono
un inasprimento delle condizioni di vita della popolazione assoggettata e un
declino politico interno ed è proprio l’immagine finale di caos e di instabilità che
prevale. Una simile valutazione storica è tra l’altro comprensibile se inserita nel
clima generale anti-ottomano che circonda le guerre di liberazione del XIX secolo.
In ogni caso, risulta necessario scardinare visioni storiche semplicistiche e mettere in luce come, inizialmente, Istanbul dia grande prova di abilità amministrativa e organizzativa poiché riesce a gestire un impero così vasto, associando una
forma di governo militarista e assolutista ad una politica interna che concede
ampia autonomia culturale alle popolazioni conquistate. Anche a motivo della
mancanza di mezzi tecnologici e istituzionali per integrare e uniformare i popoli sottomessi, viene avviato un sistema di decentramento amministrativo (noto
come sistema7 del millet) che permette alle diverse comunità religiose, anche
alle più piccole, di auto-governarsi, a patto però che queste riconoscano fedeltà
al sovrano e rispettino gli obblighi tributari. L’elemento primo su cui si fonda il
millet risulta essere l’appartenenza religiosa e ciò spiega come tale sistema di
decentramento porti alla creazione di comunità anche non contigue dal punto
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
di vista territoriale poiché l’aspetto fondante non è la presenza stabile di un gruppo all’interno di una specifica realtà geografica bensì la fede professata. A riprova della priorità assunta dall’elemento confessionale, basti pensare come, accanto al millet ortodosso, istituito per primo, nel 1454, esiste un millet armeno ed
entrambi si pongono come le comunità religiose più estese, soprattutto se rapportate al millet ebraico. Il millet “latino” viene stabilito in un periodo di tempo
successivo, sottoforma di concessione alla popolazione di fede cattolica
dell’Albania settentrionale; quest’ultima viene inoltre posta sotto la protezione
dell’imperatore asburgico e il primo accordo tra Vienna e Istanbul viene siglato
nel luglio del 1615. L’impero ottomano viene governato sulla base dei precetti
islamici e, a motivo di questi, le principali linee di divisione tra i gruppi risultano
essere non tanto etno- linguistiche quanto confessionali; basti pensare come il
millet, configurando una netta separazione tra le diverse collettività religiose, stabilisce regole di condotta specifiche in merito, ad esempio, al tipo di vestiario
che è permesso indossare a ebrei e cristiani. Dunque, inizialmente i principi su
cui poggia il governo di Istanbul permettono alle diverse comunità religiose la
conservazione della propria individualità etnica e la protezione contro processi
di assimilazione o eliminazione, in quanto il modello ottomano di governa nce
gravita attorno alla religione e non alla nazionalità. In questo quadro si inserisce
la riproposta da parte di Duijzings del concetto di regimi religiosi; tale espressione poggia su una visione della religione e della politica non come settori completamente separati ma al contrario si tenta di valorizzare il loro legame intimo,
assegnando una funzionalità politica alla religione. I regimi religiosi, infatti, si
presentano come “a formalised and institutionalised constellation of human
interdependencies of variable strenght, which is legitimised by religious ideas
and propagated by religious specialist”(Duijzings 2000, p. 27). Il sistema del millet rappresenta dunque un buon esempio di regime religioso, poiché la dimensione confessionale viene in un certo senso formalizzata e istituzionalizzata in
quanto risulta essere il collante politico in grado di far coesistere una pluralità di
appartenenze identitarie.
Se ora si cerca di passare ad un livello più strettamente politico, e dunque si considerano i rapporti di forza che si sviluppano non solo nel contesto del millet ma
anche tra quest’ultimo e il governo di Istanbul, è utile sottolineare come l’autorità ecclesiastica, guida politica e giuridica all’interno delle singole comunità, rappresenti il punto di contatto tra i sudditi e lo Stato. I capi religiosi locali, infatti,
essendo visibili e affidabili per entrambe le parti, popolo e potere centrale, garantiscono stabilità nelle relazioni tra centro e periferia ed un clima di tranquillità e
di convivenza pacifica. In aggiunta, il fatto che la dirigenza ottomana non si occupi direttamente dell’andamento del millet, delegando ai vertici ecclesiastici ogni
contatto con i sudditi, contribuisce a creare delle aree del tutto autonome dove
le organizzazioni religiose svolgono senza interferenze esterne compiti che oltrepassano la sfera prettamente spirituale. Esemplificativo del grado di autonomia
concesso, è il mantenimento delle tradizioni giuridiche locali o addirittura l’integrazione di alcune norme consuetudinarie nei codici giuridici ottomani delle singole province. L’apertura politico-amministrativa e la tolleranza religiosa musulmana si manifestano inoltre attraverso l’afflusso di un gran numero di ebrei,
soprattutto sefarditi di lingua ladina, espulsi dalla Spagna verso la fine del XV
secolo. Da questa cornice risulta, quindi, come le formazioni religiose rappresentino il maggior veicolo nei processi di identificazione che interessano i popo-
79
n.17 / 2007
8
I cristiani, oltre ai normali obblighi tributari,
subiscono una tassazione
aggiuntiva sul prodotto
dell’attività terriera e
familiare e su tutti i possedimenti personali.
Inoltre, esiste una speciale tassa che colpisce i
maschi cristiani, concepita in sostituzione al servizio militare, richiesto al
contrario ai musulmani.
9
La “leva dei fanciulli”
(nota come devširme,
ossia raccolta) se da un
lato rappresenta uno dei
rari esempi iniziali di conversione forzata all’Islam,
dall’altro si configura
come la principale forma
di mobilità sociale verso
l’alto nel primo sistema
ottomano, poiché permette ai ragazzi raya di
entrare a far parte della
classe ahskeri. In aggiunta, tale sistema di reclutamento viene considerato
uno degli elementi che
contribuiscono a fare
della classe di governo
ottomana un amalgama
etnico di tutti i popoli
assoggettati (Malcolm
1999).
80
li assoggettati alla Sublime Porta, e l’importanza assunta dalla confessionalità nei
primi tempi di dominazione ottomana, contribuisce a spiegare come l’identità
etnica nei Balcani poggi molto sull’affiliazione religiosa.
La politica seguita dal governo ottomano in relazione al mosaico identitario che
lo compone, spesso comporta una valutazione del suo operato in termini positivi, in quanto viene considerata come esempio di tolleranza, armonia e convivenza pacifica tra le diverse culture. Per poter comprendere se simili immagini di
coesistenza senza frizioni sono effettivamente applicabili al contesto del millet,
risulta necessario avanzare alcuni quesiti: si tratta di reali forme di pluralismo e
di multiculturalità, tanto da far configurare l’impianto ottomano come esempio
di successo nel tentativo di far dialogare in maniera pacifica i popoli assoggettati? In realtà, il clima di relativa tolleranza finora messo in evidenza, viene in parte
sgretolato se si considera come, dal punto di vista della stratificazione sociale,
esistano delle distinzioni, che rimandano alle categorie d’appartenenza religiose
e comportano dei trattamenti differenziati per la componente non musulmana.
Tale situazione di disuguaglianza è definita dal geografo francese Michel Roux
“pluralismo gerarchizzato” (Duijzings 2000, p. 28) a motivo del fatto che, nonostante il variegato patrimonio culturale locale venga preservato, elementi di disequilibrio sono presenti nel contesto del millet. Se da un punto di vista amministrativo la componente prima su cui poggia l’intero sistema ottomano risulta
essere la religione, dal punto di vista del governo di Istanbul, la ragion d’essere
dell’impero poggia più che altro sull’espansione militare; da ciò ne deriva un
assetto sociale che vede l’esistenza di due gruppi distinti: coloro che finanziano
le guerre e coloro che al contrario le combattono. I primi, noti con il nome di
ra ya , sono i sudditi che pagano le tasse mentre i secondi, gli a shkeri , sono non
solo i soldati ma anche tutti coloro che esercitano un potere sulla base di una
delega del sovrano, come i giudici, gli impiegati e lo stesso clero musulmano.
E’ necessario comunque precisare come inizialmente tale differenziazione trascenda l’identità religiosa poiché, sebbene nelle fasi successive di governo ottomano il termine ra ya venga utilizzato per indicare esclusivamente i contadini cristiani, il suo significato originale è molto più ampio, tanto da comprendere
anche contadini musulmani. Inoltre va considerato come non tutti i sudditi cristiani vengano impiegati nelle proprietà feudali come braccianti, in quanto esistono categorie privilegiate, come gli artigiani che fabbricano armi per l’esercito,
i falconieri che allevano gli uccelli per il sultano e i signori locali, i soldati pagati
e i minatori, che beneficiano di particolari esenzioni fiscali. In ogni caso, aldilà
delle precisazioni prima evidenziate, gradualmente emerge una composizione
sociale che ricalca l’appartenenza religiosa e fa sì che ai musulmani venga conferito uno status più elevato; ciò è testimoniato dal fatto che vengono loro concesse ampie agevolazioni, come l’esenzione dai pagamenti tributari, o comunque sgravi fiscali, e il diritto a portare armi. I cristiani, al contrario, oltre agli obblighi in termini di tassazione8, sono tenuti ogni sette anni, o più spesso nei periodi di guerra frequente, a cedere un fanciullo sano, il quale verrà trasferito a
Istanbul dove verrà educato nella fede islamica e verrà istruito a parlare turco,
con l’obiettivo ultimo di addestrarlo nel corpo militare dei Giannizzeri o di inserirlo nell’amministrazione ottomana9.
Simili trattamenti differenziati in riferimento all’appartenenza religiosa aiutano a
comprendere un fenomeno che accompagna i primi anni di dominazione ottomana, la crescita e la diffusione della cultura islamica. Malcolm, nell’interrogarsi
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
sui motivi ultimi che stanno alla base di queste conversioni, si rifà a ragioni di
carattere pratico, in quanto abbandonare la religione cristiana significa soprattutto riduzione del carico fiscale e, in particolare per gli schiavi, si ha la possibilità di uscire dalla condizione di schiavitù e divenire contadini liberi. Se Malcolm
sottolinea come inizialmente i casi di conversione forzata all’Islam siano pressoché nulli (Malcolm 1999), Vickers si dichiara di tesi opposte: proprio la politica
di tassazione ottomana viene considerata una misura strategica volta a incoraggiare la conversione della popolazione cristiana, presente soprattutto nelle fasce
occidentali dell’impero (Vickers 1998, p. 23). A tale proposito risulta utile precisare come i cattolici siano più soggetti alla persecuzione ottomana rispetto agli
ortodossi10, in quanto legati ad un potere considerato straniero, il papato romano, tra l’altro quest’ultimo visto come nemico in grado di fomentare gli animi dei
propri fedeli e di dar vita ad un attacco in nome del Cattolicesimo. Tale considerazione risulta essere inoltre il presupposto di un altro tipo di trasformazione
dell’identità religiosa: proprio a motivo del minor grado di tolleranza riservato
alla popolazione cattolica, quest’ultima in alcuni casi, come avviene ad esempio
in Montenegro, preferisce convertirsi all’Ortodossia piuttosto che all’Islam.
Ad ulteriore conferma di quanto sostenuto nella fase d’esordio del presente lavoro, ossia che le identità di gruppo non debbano considerarsi come date nel
tempo e nello spazio ma al contrario esistono molte “ambiguità” in questo senso,
basti ricordare l’esistenza di forme di conversione incomplete, dove l’incompletezza è data dal mantenimento di elementi legati alla religione abbandonata e dal
loro coesistere con aspetti del nuovo credo abbracciato. Tale fenomeno si lega
soprattutto all’identità di genere poiché esistono in Kosovo famiglie estese
biconfessionali dove alcuni membri, soprattutto uomini, si convertono all’Islam
mentre mogli e figlie rimangono cristiane. Simili processi di identificazione religiosa interconnessi con l’identità di genere sono legati al tentativo di veder
migliorate le proprie condizioni di vita: in questo caso, l’esistenza di una tassa
pro capite (cizye) imposta solamente agli uomini non musulmani, fa sì che si
producano conversioni soprattutto tra la popolazione maschile.
Altro fenomeno da evidenziare, in linea con l’affermazione di quanto labili e
poco stabili siano le identità collettive, in questo caso quelle religiose, è dato dall’esistenza di comunità cristiane che si comportano esternamente come musulmane, salvo poi mantenere privatamente la propria fedeltà al cattolicesimo.
Simili manifestazioni religiose, note con il nome di criptocristianesimo, si legano
presumibilmente alla divisione tra uomini e donne cui si è fatto riferimento
prima. Nella società ottomana, infatti, accade spesso che gli uomini che professano la fede musulmana ma sposano donne cristiane, permettono che le figlie
vengano educate al Cristianesimo; ciò garantisce la conservazione della religione
cristiana in forma privata, domestica, anche per diverse generazioni. Dunque,
con donne in famiglia ufficialmente cristiane, i preti possono entrare nelle case
e somministrare in segreto i sacramenti anche agli uomini, nonostante quest’ultimi si siano convertiti all’Islam. Un ulteriore elemento in grado di spiegare i
meccanismi alla base di tali fenomeni può essere di tipo sociale, in quanto il criptocristianesimo si sviluppa soprattutto nei villaggi poiché in ambito urbano vi è
un maggior grado di controllo da parte del clero musulmano. Va comunque sottolineato come il motore primo che contribuisce all’emergere di forme di appartenenza confessionale così ambigue è dato dalla collaborazione del clero locale
il quale si presta alla somministrazione di sacramenti cristiani anche a coloro che
10
Le chiese ortodosse
serba, bulgara e greca
sono viste con minor
sospetto in quanto si trovano tutte nel territorio
dell’impero ottomano.
81
n.17 / 2007
si sono convertiti alla religione musulmana.
Dalla trattazione dei processi di identificazione religiosa che si producono a
seguito della conquista ottomana e del conseguente sviluppo della religione islamica nella penisola balcanica, ciò che si considera fondamentale sottolineare è,
in primo luogo, come prima evidenziato, la necessità di andare oltre immagini
riduttive circa la presenza della Sublime Porta nei Balcani, dipinta spesso come
intollerante e distruttiva delle fiorenti culture locali. D’altro canto, però, risulta
doveroso superare visioni eccessivamente ottimistiche circa l’operato di Istanbul
e cogliere elementi di stratificazione e divisione sociale gerarchica, aspetti che la
precedente analisi ha cercato di far emergere. In secondo luogo, si ritiene utile
sottolineare, proprio in chiusura della trattazione relativa ai processi di identificazione religiosa, come il sistema del millet si caratterizzi per una non contemplazione dell’appartenenza etnica quale elemento fondante di divisione sociale e
di governo amministrativo. Dunque, tale considerazione fa emergere un quesito: come mai, l’identità etnica, fattore estraneo alla politica ottomana di gestione dei propri territori balcanici, si configura successivamente come elemento
prioritario di definizione dei gruppi?
11
“Controrivoluzione” è
un’espressione che emerge a partire dal 1981,
quando una manifestazione degli studenti dell’università di Priština, scontenti per le pessime condizioni di vita e di studio,
provoca l’intervento delle
forze dell’ordine serbe e
la dichiarazione dello
stato d’emergenza.
82
1.2.2. Da ll’identità religiosa a ll’identità etno-na ziona le
Il comune modo di considerare gli avvenimenti più recenti che hanno contraddistinto l’assetto politico-sociale del Kosovo, poggia sull’idea che esistano conflitti etnici, risultato del profilarsi di violenti odi, da sempre presenti tra le popolazioni che hanno insediato questa regione. Malcolm (Malcolm 1999) ci mette in
guardia da letture così semplicistiche, così come Duijzings (2000), il quale sottolinea come le divisioni legate all’etnia non sempre hanno caratterizzato le collettività presenti nella provincia. Al contrario, molti dei conflitti e delle ostilità che
oggi permeano la società kosovara corrono lungo binari “altri” rispetto a quelli
etnici. Basti pensare come, nel corso del XVIII secolo, la principale linea di distinzione vede da un lato i proprietari terrieri albanesi e dall’altro il resto della popolazione, in una perenne condizione di insicurezza esistenziale, vissuta indipendentemente dal ba ckground religioso ed etnico. Inoltre, se si considera la vita
quotidiana e i contesti più strettamente locali, linee di divisione non etniche
emergono, legate ad esempio all’appartenenza di clan, alla fedeltà tribale, all’opposizione urbano-rurale o al genere. Infine, se ci si affaccia ad eventi più recenti, un altro tipo di differenziazione può essere messo in luce, legato a divisioni
politiche o ideologiche: si tratta del contrasto che segna la vita politica del
Kosovo a partire dagli anni ’80 e che vede scontrarsi da un lato i comunisti e dall’altro i “controrivoluzionari”11. Con queste premesse, che dipingono un contesto dove l’etnia non risulta essere inizialmente una categoria concettuale atta a
produrre divisioni di gruppo così marcate, l’intento risulta essere ora quello di
capire come emergano differenziazioni che al contrario si rifanno all’etnicità. In
particolare, se si considerano i processi di identificazione religiosa precedentemente evidenziati, i quali hanno messo in luce come, nei primi anni di dominio
ottomano, il principale elemento di configurazione dell’identità collettiva sia
l’appartenenza religiosa, emerge un interrogativo: come mai la religione perde i
propri connotati di elemento primo di definizione identitaria?
Sono molteplici gli aspetti da evidenziare se si desidera comprendere al meglio
il passaggio dall’appartenenza confessionale all’etnia nella definizione delle identità, poiché diversi sono i cambiamenti socio-politici che intervengono a modifi-
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
ca degli assetti interni dell’impero ottomano. In primo luogo, è necessario sottolineare l’emergere di un graduale declino che inizia a far vacillare la presenza
della Sublime Porta nei Balcani, già a partire dalla fine del XVI secolo. L’elemento
scatenante è rappresentato dalla costante esigenza di espansione territoriale dell’impero stesso che, per sostenere le proprie campagne militari, costringe la
popolazione conquistata a sopportare oneri tributari sempre più pesanti. Ciò va
a colpire soprattutto la componente cristiana, che vede peggiorare le proprie
condizioni di vita, non solo a motivo di un innalzamento del livello di tassazione,
ma anche in seguito alle guerre che l’impero ottomano intraprende contro le
potenze cristiane12 le quali hanno come conseguenza un irrigidimento della politica adottata nei confronti dei sudditi non musulmani. E’ proprio a partire da
simili avvenimenti che emergono forme di conversione religiosa forzata: ne dà
testimonianza Vickers, che rifacendosi alla pesante sconfitta ottomana subita alle
porte di Vienna nel 168313, sottolinea il delinearsi di un periodo di forti pressioni, esemplificato dalla deportazione di centinaia di cattolici dall’Albania settentrionale alle piane della Serbia, dove la maggior parte viene obbligata ad abbandonare la propria religione e ad abbracciare l’Islam.
Come reagisce la popolazione locale a simili cambiamenti interni? Da un lato vi
è chi decide di lasciare le terre d’origine, scelta testimoniata dal verificarsi di
un’ondata di emigrazione serba dal Kosovo nel 1735-1739; anche la componente albanese si orienta verso l’abbandono della regione, spostandosi soprattutto
verso l’Italia, la Grecia e lungo la costa dalmata. Al contrario, vi è chi decide di
rimanere ma sceglie la via della ribellione; a questo proposito emerge un interrogativo: le rivolte locali che si producono possono essere considerate forme
embrionali di lotta di liberazione nazionale? Malcolm sostiene che, nonostante
gli storici serbi e albanesi abbiano in passato cercato di catalogare queste azioni
ribelli come nazionali forme di emancipazione, non tutte possono essere ricondotte all’interno di questa categoria. Vi sono infatti alcune sommosse che effettivamente mirano a liberarsi del dominio ottomano14 mentre altre sono configurabili più che altro come tentativi di protesta contro il sistema di tassazione o
contro funzionari locali particolarmente oppressivi, senza che si profili però
alcun intento di erosione del potere centrale (Malcolm 1999). Dunque, quando
si può effettivamente parlare di rivendicazioni nazionali? A tal proposito, risulta
interessante sottolineare come lo stesso sistema del millet paradossalmente contribuisca a far emergere istanze prenazionaliste. Infatti, l’iniziale tolleranza ottomana, manifestata non solo attraverso il mantenimento delle comunità religiose
locali in un clima di relativa autonomia ma anche dal fatto che ai cristiani convertiti vengono concesse molte opportunità di impiego nelle cariche amministrative più elevate15, garantisce la conservazione del variegato mosaico etno-linguistico dell’impero. In realtà, se da un lato l’assetto politico-amministrativo del
millet, mantenendo integre le specificità etniche e religiose locali, favorisce l’emergere di rivendicazioni nazionaliste, dall’altro bisogna rifarsi a variabili esterne
al contesto balcanico nel momento in cui si tenta di capire il percorso seguito
nella formazione delle identità nazionali. Basti pensare come sarà proprio l’intensificarsi dei contatti con l’Europa occidentale e centrale a portare trasformazioni nell’impero ottomano: si assiste, verso la metà del XIX secolo, alla graduale ma sempre più intensa diffusione delle idee dell’illuminismo prima, e del
romanticismo poi, tra i rappresentanti della borghesia ortodossa locale. Ne consegue una rottura del precedente rapporto di equilibrio creatosi con l’aristocra-
12
Ne sono esempio la
guerra tra Vienna e
Istanbul del 1593-1606 e
la campagna militare condotta dall’impero ottomano contro Venezia per la
conquista di Creta.
13
Vickers presenta altri
esempi di eventi bellici
che contribuiscono a
modificare l’assetto politico ottomano: la scontro
militare con la Russia,
conclusosi nel 1711, il rinnovo delle ostilità con
Venezia nel 1715 e lo
scoppio di una nuova
guerra con l’Austria nel
1716 (Vickers 1998, p.
29).
14
Malcolm si rifà in questo caso all’organizzazione di complotti da parte
degli arcivescovi cattolici;
in riferimento all’esempio
specifico della rivolta che
si sviluppa nella città di
Bar, in Montenegro, e ad
altri progetti politici volti
a destabilizzare il governo
ottomano, si veda
Malcolm (1999).
15
Il numero elevato di
pascià, generali, visir e
gran visir di origine albanese viene spesso interpretato come segno della
fedeltà e della collaborazione del popolo albanese nei confronti della
Sublime Porta
(Benedikter 1999, p. 29).
In realtà, ritengo che ciò
sia dovuto più semplicemente alle grandi opportunità politiche offerte dal
governo di Istanbul ai cristiani convertiti ed essendo quest’ultimi soprattutto di origine albanese, ne
consegue la loro presenza
cospicua nel settore
amministrativo-militare
ottomano, sicuramente
maggiore rispetto a quella
serba.
83
n.17 / 2007
16
Il sistema di decentramento amministrativo e
istituzionale del millet
funziona fino alla metà
del XIX secolo, quando
riforme in senso più
accentratore, note con il
nome di Tanzīmāt, ne
minano le basi. Proprio
per ridare vitalità ad un
impero in declino, scosso
da ribellioni indipendentiste interne e da pressioni
espansionistiche esterne,
a partire dal regno del
sultano Mahmud II (18081839), vengono introdotte alcune riforme volte a
modernizzare lo stato.
Particolarmente liberalizzanti si profilano le misure che proclamano uguali
diritti per tutti i sudditi,
indipendentemente dalla
religione professata, o la
dichiarazione del 1844
secondo cui i convertiti
musulmani dal cristianesimo desiderosi di ritornare alla fede cristiana non
rischiano la pena di
morte. Simili previsioni,
accompagnate anche dall’introduzione della circoscrizione obbligatoria,
spingono molti albanesi a
recuperare la fede cattolica; in ogni caso, tali processi di trasformazione
dell’identità religiosa
incontrano in Kosovo
forti opposizioni da parte
dei circoli ottomani più
conservatori (Vickers
1998).
84
zia militare e amministrativa ottomana poiché sarà proprio la crescita di una
nuova élite commerciale e di una classe di intellettuali secolarizzati a portare,
insieme ai mercanti cristiani, alla richiesta di una profonda riforma del sistema
del millet16. Nascono, dapprima come gruppi elitari, poi aumentando la base
d’appoggio tra la popolazione, movimenti nazionali che, richiamandosi ad un
passato medievale nazionale, rivendicano un diritto all’autogoverno e un territorio esclusivo su cui esercitare simili prerogative giuridiche. Gradualmente si
fanno quindi spazio meccanismi di auto-percezione collettiva legati all’esistenza
di confini etnici e nazionali ma le nuove identità che ne scaturiscono risultano
essere da subito segnate dalla specificità politico-istituzionale che caratterizza la
penisola balcanica, portandola a differenziarsi dal contesto europeo occidentale.
Come sostiene infatti Fornaro, la particolare configurazione del millet, poggiante sull’intermediazione e l’interposizione dell’autorità religiosa nel rapporto suddito-Stato, impedisce che nei popoli balcanici si sviluppi quella cultura dell’identificazione tra cittadini e Stato (che significa senso del dovere nei confronti delle
istituzioni, lealtà verso il potere centrale, volontà di difesa di un bene comune
ecc.) presente al contrario nel processo di formazione del cosiddetto “spirito di
patria” in Occidente. La singolarità dei processi di identificazione nazionale che
coinvolgono i popoli balcanici viene inoltre alla luce se si richiama il concetto di
nazionalismo tribale propugnato da Hannah Arendt. Vi sono infatti alcuni contesti geografici come la Russia zarista, l’Austria-Ungheria o i Balcani, dove il continuo cambiamento delle frontiere attraverso i secoli e la persistenza di processi
migratori interni, impediscono di creare un terreno fertile per la realizzazione
della trinità popolo, territorio e Stato. A differenza degli stati occidentali, i quali
possono vantare l’esistenza di un passato coloniale e di un popolo che ha maturato quel senso di patriottismo e di identificazione nello Stato di sui si parlava
prima, qui l’aver convissuto per anni all’interno di un sistema, come quello del
millet, produce, oltre ad un carente se non addirittura assente senso dello Stato,
un netto predominio delle élites locali ed un’intolleranza nei confronti degli elementi esterni alla propria comunità religiosa. A questo proposito si può addirittura giungere ad un giudizio negativo circa l’operato del millet in quanto tale
sistema, nell’opposizione concettuale che vede contrapposti nazione territoriale
e nazione diasporica, porta al prevalere della seconda tipologia. A differenza
della prima, che riconosce come membri di una specifica comunità nazionale
tutti coloro che sono insediati all’interno di un dato territorio, contemplando
quindi una situazione di inclusione e di riconoscimento delle minoranze, la
seconda nozione esprime un senso d’appartenenza che potremmo indicare
come aggressivo ed esclusivo in quanto considera l’etnia, la religione, la lingua e
non l’insediamento territoriale, l’elemento primo di inserimento degli individui
nella comunità. Finché la nazione diasporica rimane ancorata al ristretto spaziorete del millet, i problemi di convivenza tutto sommato non si pongono ma
quando si pretende di fuoriuscire da queste realtà anguste e di edificare Stati territoriali o passare da situazioni di autogoverno su base locale alla costruzione di
realtà politiche fondate sul principio dell’appropriazione esclusiva di un territorio, allora emergono situazioni di conflittualità. L’idea di stato–nazione, dunque,
una volta sradicata dal suo contesto originario di diffusione, l’Europa occidentale, finisce per snaturarsi poiché mal si concilia con la tradizione dei popoli balcanici. Simili considerazioni si pongono in linea con la tesi sostenuta da
Prévélakis in base alla quale l’avvento della modernità nei Balcani, verificatosi in
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
modo sempre più frequente a partire dalla fine del XVIII secolo, se da un lato
comporta effetti positivi, quali il progresso tecnologico e l’uscita dall’emarginazione, in ultima analisi produce lacerazioni e antagonismi fino ad allora poco
conosciuti (Fornaro 2001).
Questa situazione di frattura, conseguenza dell’emergere di nazionalismi e rivendicazioni indipendentiste, si delinea con maggior chiarezza se si considera il
Kosovo; la regione, infatti, si trova contesa tra un impero ottomano in declino da
un lato, e uno Stato serbo indipendente17 dall’altro, a conferma della sua immagine di zona di frontiera, evidenziata in apertura al lavoro. I confini tra i due stati
vengono stabiliti al Congresso di Berlino del 1878, evento che vede per la prima
volta la comparsa di “carte etnografiche”, a testimonianza del timore delle grandi potenze e dei dirigenti balcanici di ridefinire il nuovo assetto territoriale,
emerso in seguito alla decomposizione dell’impero ottomano, sulla base di criteri etnici. A motivo dell’indeterminatezza e dell’ambiguità che caratterizza le
identità nazionali sviluppatesi nei Balcani, come prima messo in luce, il tentativo
di far coincidere spazio etnico e spazio territoriale statale comporta un’ulteriore
esplosione degli antagonismi politici. Ne è prova il Kosovo che, a seguito delle
decisioni maturate a Berlino, per la prima volta nella sua storia vede profilarsi
nette divisioni etniche al suo interno, tanto che il dualismo religioso IslamCristianesimo che fino ad allora lo aveva caratterizzato, si trasforma, assumendo
i connotati di una divisione etno-nazionalista, quella tra serbi e albanesi.
1.2.3. Forme di coesistenza e coopera zione: esperienze rea li di sca mbio o meri
a rtifici teorico-a cca demici?
Se da un lato l’identità nazionale diventa, a partire dal XIX secolo, discorso imperante, tanto da rappresentare ancora oggi elemento primario a cui ci si rifà se si
guarda al Kosovo, dall’altro, però, la distanza e la nettezza dei confini che il processo di identificazione nazionale porta con sé, vengono meno, se si considera l’esistenza di momenti di cooperazione e condivisione tra i gruppi. Forme di contatto e dunque di sfumatura dei confini identitari si manifestano soprattutto se ci
si affaccia ad una dimensione locale, ed è proprio Duijzings che, indagando il
microcosmo etnico e religioso kosovaro, testimonia la presenza di contatti tra le
collettività. Il punto da cui partire è considerare l’esistenza di discrepanze tra il
discorso sostenuto dai nazionalismi e dai poteri statali che li incarnano, che spinge verso la fissità e l’impenetrabilità dei confini, e la pratica quotidiana registrata
soprattutto nelle aree di frontiera come il Kosovo, dove, al contrario, prevalgono
spesso momenti di interscambio piuttosto che di divisione (Duijzings 2000).
Oggi sembra inimmaginabile ma vi sono state, in un passato più o meno recente,
forme di contatto tra i gruppi che hanno popolato queste terre e simili esempi di
coesistenza ci portano ad essere cauti nell’analizzare il Kosovo solo in termini di
conflitto e separazioni. Anche in altre zone di frontiera, come l’Albania settentrionale e le zone montagnose del Montenegro meridionale, si sono verificati casi
di superamento dei confini identitari, tanto da far parlare di osmosi etnica; infatti, gli abitanti delle montagne montenegrine al confine con l’Albania, condividono molti caratteri, quali le leggi tradizionali, i costumi, l’organizzazione sociale,
con i loro vicini malësor18 albanesi. Nei secoli passati si sono creati legami forti tra
i due gruppi, quali le alleanze in tempo di guerra, i matrimoni misti o la condivisione di leggende legate ad antenati comuni. Simili forme di contatto hanno portato a pensare che alcuni clan montenegrini siano in realtà emanazione di fami-
17
In relazione alla formazione di uno Stato serbo
indipendente, si veda
Malcolm (1999).
18
Malësor è l’espressione
con cui si indicano le
genti albanesi insediate
nella zona montagnosa
dell’Albania nord-orientale, al confine con il
Kosovo. Il nome deriva
dal fatto che l’intero complesso montuoso viene
definito Malësi, cioè altopiano.
85
n.17 / 2007
19
Per una descrizione più
esaustiva del pellegrinaggio
in questione, si veda
Duijzings (2000).
20
Per maggiori dettagli, si
veda Duijzings (2000, p. 72).
86
glie albanesi e, sullo stesso piano, alcuni clan albanesi abbiano antenati slavi.
Ritornando al Kosovo, casi di superamento dei confini etno-religiosi si profilano
innanzitutto in campo bellico poiché esistono, nella storia, esempi di lotta comune serbo-albanese. Ne è prova il fatto che la stessa battaglia della Piana dei Merli
del 1389, evento che dà origine a rivendicazioni territoriali sul Kosovo da parte
serba, in aperta opposizione alle pretese nazionali albanesi, vede la presenza di
alleanze tra i due popoli. Inoltre, risulta doveroso aggiungere come queste compaiano non solo a motivo dell’esistenza di un obiettivo comune, quale l’impedire un’avanzata ottomana, ma anche sul fronte opposto e quindi in funzione antiserba, si configurano coalizioni volte a combattere il principe Lazar e il suo esercito. Forme di lotta comune compaiono anche nei periodi successivi: basti pensare come l’invasione austriaca in Kosovo, verificatasi nel 1689, vede non solo
serbi ma anche albanesi, agire a sostegno dell’esercito asburgico per sovvertire
l’impero ottomano. Ancora, una successiva rivolta a supporto di un’altra invasione austriaca che si produce nel 1737, coinvolge anche un gruppo misto slavoalbanese, proveniente dalle zone di montagna dell’Albania settentrionale e del
Montenegro, la cui costituzione è motivata dal fatto che già esistevano, tra i due
popoli, forme di condivisione di alcune caratteristiche, come messo precedentemente in evidenza.
La dimensione in cui si delineano le forme più interessanti, in quanto variegate
e composite, di condivisione e superamento dei contrasti tra le collettività, è la
religione popolare dove, fino a pochi anni fa, si sono registrate pratiche quali i
pellegrinaggi misti o l’adorazione degli stessi santi, che hanno visto amalgamati
musulmani e cristiani di differenti appartenenze etniche. A titolo esemplificativo,
basti pensare ai pellegrinaggi verso il santuario serbo-ortodosso situato nel piccolo villaggio serbo-albanese di Zočište, nei pressi di Orahovac19; qui, almeno
fino alla fine degli anni ’80, molti albanesi musulmani della zona hanno celebrato, in prossimità dell’edificio, il sa bor , festività religiosa che ha luogo il 14 luglio.
In aggiunta, bisogna ricordare che proprio in riferimento a tale area, si sono configurate nel corso della storia altre forme di condivisione religiosa: ci si sta riferendo alla pratica di istituire la figura del guardiano20 (vojvod) dei monasteri
serbo-ortodossi. La particolarità sta nel fatto che tale funzione è stata spesso svolta dai potenti clan albanesi di fede musulmana che, ponendo uno dei propri
membri a guardia degli edifici monastici, hanno fornito un supporto alla popolazione serba contro attacchi esterni, tra l’altro spesso di natura albanese.
Dunque, le differenze confessionali non hanno impedito lo svolgimento di questo ruolo ereditario, grazie al quale si è spesso evitato la distruzione dei monasteri serbo-ortodossi, soprattutto nei tempi di guerra.
Se Duijzings rappresenta un supporto teorico essenziale nell’intento di delineare forme di condivisione religiosa tra le genti in Kosovo, Malcolm riporta anch’esso momenti di contatto tra le comunità kosovare ma il suo apporto si inserisce
in una prospettiva storica meno recente e maggiormente legata all’interazione
tra Islam, Cattolicesimo e Ortodossia (Malcolm 1999). In effetti, se si focalizza
l’attenzione sul rapporto esistente tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa serba
in Kosovo, emergono sicuramente forme di competizione ma affiorano anche
momenti di mescolanza di riti e credenze, soprattutto nel campo della religione
popolare. Questo sincretismo, visibile già in precedenza con l’esempio di
Zočište, trova una spiegazione nel fatto che, per le genti del luogo, la funzione
principale della religione è spesso quasi magica, in quanto permette di combat-
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
tere il male, le malattie ed avere buoni raccolti. Se si pensa ai pellegrinaggi, i
motivi che portano collettività differenti verso gli stessi luoghi religiosi, sono di
natura universale, quali la ricerca della salute, del benessere e della felicità per sé
e per i propri famigliari, elementi, quindi, che trascendono le diverse appartenenze etno-religiose. E’ normale, dunque, che nelle aree dove sono presenti due
o più confessioni, la gente approfitti dell’esistenza di molteplici forme di protezione, attingendo elementi di rimedio anche da fedi diverse dalla propria. Il sincretismo aiuta inoltre a comprendere il fenomeno della conversione all’Islam, di
cui si è dato testimonianza in apertura del mio lavoro: riprendendo quanto detto
in precedenza, se inizialmente l’abbracciare la religione musulmana rappresenta
un atto volontario, allora come mai i cattolici non decidono di passare all’ortodossia, conservando in questo modo la propria cristianità? E’ vero che la ragione
prima sta nella volontà di ottenere vantaggi economici ma parte della risposta va
proprio ricercata nell’esistenza di pratiche religiose sincretiste; infatti, in virtù
della presenza di così tanti rituali condivisi, la gente non nota differenze così
nette tra la Cristianità e l’Islam.
A conclusione dell’approfondimento qui proposto, ritorna l’interrogativo prima
evidenziato: l’immagine di coesistenza che sin qui si è voluto mettere in luce rappresenta una sorta di sforzo accademico di proiettare nei confronti del Kosovo
assetti di convivenza e condivisione che in realtà non esistono21? Per poter far
fronte ad un simile quesito si ritiene indispensabile evidenziare come la descrizione di forme di cooperazione tra i popoli del Kosovo, anche se si delinea esperienza reale di interscambio e di mobilità delle identità d’appartenenza, risulta un
artificio teorico se si modifica la prospettiva analitica d’intervento; infatti, ci si
affaccia alla dimensione delle politiche di regolazione del conflitto etnico, si può
vedere come queste spesso si profilano poggianti su logiche omogeneizzanti.
Esse, dunque, oltre a far perdere di valore le esistenti forme di contatto, anche
se minime e strettamente circoscritte, fanno sì che nell’osservatore esterno e
nell’analista si radichino visioni riduttive, legate a letture strettamente duali, statiche e di divisione binaria delle identità in Kosovo, impedendo di ampliare l’orizzonte d’indagine. Proprio in riferimento allo sviluppo di politiche omogeneizzanti, si ritiene utile ora, approfondire i meccanismi che si pongono alla base di
simili interventi regolativi.
Innanzitutto, è necessario considerare che l’utilizzo della violenza si configura
come strategia che ha accompagnato uno specifico percorso storico: la creazione degli stati-nazione. Basti pensare, infatti, come l’emergere di un’esistenza
identitaria unica ed esclusiva sia uno dei requisiti essenziali su cui si fonda lo
stato e, nel tentativo di forgiare appartenenze nazionali, si assiste allo sviluppo di
percorsi di omogeneizzazione, volti a scardinare assetti politici al contrario caratterizzati dalla presenza di molteplici collettività. I moderni stati-nazione, attraverso la standardizzazione del linguaggio, l’introduzione di un sistema educativo
uniforme, la creazione di un mercato del lavoro nazionale contribuiscono a forgiare identità univoche, nonostante l’esistenza di un panorama d’appartenenze
variegato e composito. Nel percorso verso la costruzione di identità solide e di
confini impenetrabili, la violenza si pone come atto in grado di realizzare un triplice intento: in primo luogo, come prima sottolineato, rappresenta spesso un
motore alla base dei processi di na tion-building, soprattutto se legata alla conquista territoriale e al desiderio di modificare l’assetto demografico, eliminando
elementi che minacciano la costruzione dello stato stesso. In secondo luogo,
21
L’affermazione secondo
cui la focalizzazione su scenari di condivisione si delinea come mero artificio
accademico è condivisa da
Blumi che rivolge un’analisi critica alla pratica dei
pellegrinaggi condivisi proposta da Duijzings, mettendo in luce soprattutto
difetti di carattere metodologico (Blumi 2000, p.
128). A ciò si aggiunge una
revisione critica rispetto al
tentativo ossessivo di
Malcolm di ricercare quei
rari momenti storici di
lotta comune serbo-albanese (Djilas 1998).
87
n.17 / 2007
cerca di favorire delle trasformazioni identitarie, costringendo i singoli a ridefinire le proprie appartenenze, decostruendo le proprie identità primarie e stabilendo affiliazioni esclusive, fisse, cancellando quindi il ricordo di solidarietà e di
condivisione precedenti. Infine, si giunge forse alla considerazione più innovativa rispetto alle politiche di regolazione del conflitto che fanno uso della violenza: quest’ultima, infatti, nella sua capacità di creare nuovi assetti e nuove identità, si inserisce nella dimensione di una profezia che si auto adempie in quanto è
in grado di rendere reali i costrutti ideologici (nazionalisti) che stanno alla base
della sua pratica. In breve, sembra che la violenza, soprattutto in riferimento al
contesto balcanico, si configuri non tanto come il risultato dell’esistenza di divisioni etniche così profonde e insanabili ma si delinei più che altro come mezzo
attraverso il quale immagini di impossibile convivenza si producono nella dimensione contingente (Duijzings 2000). Anche Fornaro ricorda che la violenza non è
un aspetto insito nell’esperienza balcanica ma si configura come elemento legato ai processi di identificazione nazionale e dunque come fattore importato
dall’Europa occidentale. Se, infatti ci si interroga sulla presunta conflittualità
endemica del popolo balcanico, si può evincere come proiettare un’immagine di
dramma connaturato alle genti che vivono nell’area, rappresenta una considerazione storicamente inesatta e fuorviante. Si tratta infatti di un’esperienza relativamente recente, dal momento che esplode con tutta la sua intensità in concomitanza con l’emergere delle istanze nazionaliste nel corso del XIX secolo
(Fornaro 2001).
Se ora ci si affaccia al panorama kosovaro, si può notare come il margine di manipolazione e di intervento omogeneizzante da parte dello stato sia molto ampio
a causa della sua particolare configurazione di territorio di frontiera. E’ da premettere che esiste una sorta di proporzionalità diretta tra la longevità del processo di formazione dello stato-nazione e la flessibilità e fluidità delle appartenenze identitarie. Infatti, dove le istanze nazionaliste si presentano come di più
antica apparizione, come nel caso del contesto occidentale europeo, la coscienza dell’esistenza di un unico tipo di appartenenza è molto più radicata rispetto a
società periferiche, dove le affiliazioni sono più fluide e differenziate. A ciò va
aggiunto il fatto che spesso l’insicurezza esistenziale si presenta come elemento
ulteriore in grado di favorire la mutabilità delle identità di gruppo. Il Kosovo, a
tal proposito, si configura come esempio emblematico in quanto si caratterizza
per essere una società periferica, povera, frantumata da conflitti interni, dove la
maggior parte della popolazione rurale vive in una situazione quotidiana di lotta
per la sopravvivenza. Proprio perché le condizioni di vita si presentano dure e
altamente competitive, gli individui cercano rifugio nella famiglia, la cui struttura estesa e patriarcale garantisce non solo sostentamento ma anche protezione
da minacce esterne. E’ chiaro, quindi, che l’enfatizzazione del legame di clan
comporta l’emergere di una società atomizzata, dove il radicamento nella famiglia e la sfiducia nutrita nei confronti degli elementi non appartenenti alla propria cerchia, impediscono di ricreare, anche nei contesti che oltrepassano la
dimensione famigliare, forme di solidarietà così strette. Dunque, l’eccessiva
frammentazione e la conseguente mancanza di qualsiasi forma di integrazione
sociale ed economica tra clan, rappresenta un ostacolo alla formazione di identificazioni più stabili e più ampie, contribuendo a creare identità fluide e facilmente malleabili. In un simile contesto di mutabilità dei confini, la pratica di rendere l’assetto etno-demografico meno complesso e maggiormente omogeneo, si
88
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
presenta proprio come tentativo di ridurre le ambiguità e le ambivalenze identitarie. Il conflitto, dunque, mette in moto dei meccanismi che semplificano la
complessità sociale, assorbendo le identità plurime all’interno delle categorie
etniche principali, attraverso forme di assimilazione o, in maniera più acuta, per
mezzo di espulsione o eliminazione delle cosiddette anomalie.
Proprio in relazione ai meccanismi omogeneizzanti che spingono allo sgretolamento e alla perdita di significato di quel concetto di identità processuale e fluida di cui si è parlato precedentemente, in quanto comportano un irrigidimento
delle categorie e dei confini d’appartenenza, sembra interessante comprendere
come il discorso sulla malleabilità dei processi di identificazione si ponga rispetto alla pretesa di creare nuove na tiona l identities, percorso che oggi sta interessando direttamente il Kosovo. Si sceglie di approfondire tale dimensione
posizionandosi su due livelli d’indagine:
1) elaborazione critica del concetto di autodeterminazione dei popoli;
2) analisi della validità delle pretese di forgiare nuove identità nazionali.
1.3. Principio di autodeterminazione dei popoli e sviluppo delle identità nazionali
In relazione all’affermazione secondo cui la declinazione concreta del principio
di autodeterminazione dei popoli si attua attraverso la creazione di stati-nazione,
può essere posta sotto una lente analitica critica. E’ da premettere, innanzitutto,
che l’autodeterminazione si presenta in una triplice configurazione:
inizialmente si sviluppa come diritto concesso ai popoli colonizzati di creare un
proprio stato durante il periodo di decolonizzazione; è proprio in tali termini che
tale principio viene delineato nella Carta delle Nazioni Unite e in numerose fonti
di diritto internazionale;
il secondo significato, in linea con le richieste secessioniste, si rifà alla volontà
delle minoranze all’interno di uno stato di staccarsi e di configurarsi come entità politica autonoma o, comunque, di unirsi ad una già esistente;
infine, l’autodeterminazione contempla anche situazioni in cui esistono gruppi
etnici e culturali che, sebbene non avanzino pretese secessioniste, dichiarano il
desiderio di veder tutelati alcuni diritti collettivi.
Naturalmente, queste tre categorie sono interconnesse: basti pensare al contesto
kosovaro, che si presenta, da questo punto di vista, un ottimo laboratorio d’analisi. Si registra, infatti, in relazione al caso studio qui riportato, una configurazione
a spirale, dove, inizialmente, vi è uno stato, la Jugoslavia prima e la Serbia poi, che,
a motivo di una presunta negazione dei diritti di alcune minoranze etniche, porta
quest’ultime a cercare di delinearsi come entità politica separata, in virtù della
protezione della propria identità e la conseguente secessione albanese che ne
scaturirebbe, potrebbe comportare, in ultima analisi, l’emergere di un’ulteriore
assetto dove si riproporrebbe una situazione di mancata tutela dei diritti, questa
volta della minoranza serba. Una simile precisazione permette già di porre in evidenza alcune lacune alla base degli appelli al principio di autodeterminazione,
considerato come soluzione pratica alla multietnicità; infatti, l’aver ampliato il suo
significato, porta a concludere come la sua piena realizzazione darebbe adito a
rivendicazioni all’infinito, creando non solo effetti destabilizzanti ma comportando l’emergere di un circolo vizioso in cui facile si profilerebbe l’uso delle armi
come proposta risolutiva.
89
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22
Tra i progetti sopranazionali che interessano
l’area, si citano l’idea del
letterato croato Ljudevic
Gaj (1809-1872) di costituire una “Grande Illiria”,
entità politica che avrebbe unito tutti gli slavi del
sud, dall’Adriatico al Mar
Nero. In aggiunta, si
richiama la proposta di
costituire una confederazione bulgaro-jugoslava,
idea sviluppata dopo il
primo conflitto mondiale
dal leader contadino bulgaro Aleksander
Srambolijski, ma venuta
meno a causa di un colpo
di stato militare che pone
fine al suo governo e ai
suoi progetti federativi
(Fornaro 2001, p. 34).
90
Altra critica alle rivendicazioni poggianti sull’esplicazione in termini etno-nazionalisti del diritto all’autodeterminazione, è data dall’interconnessione esistente
tra stato e popolo. Il concetto di autodeterminazione si basa sull’assunto che i
popoli stessi siano da considerare titolari di specifici diritti e, come effetto di ciò,
risulta necessario creare delle istituzioni a d hoc, diverse da quelle modellate per
i singoli e lo stato. Il problema sorge per il fatto che, a differenza di quanto avviene per l’entità statale, la quale si presenta con confini specifici e con un sistema
legislativo che la rende di facile definizione e riconoscimento, qualsiasi atto di
classificazione dei popoli poggia su considerazioni soggettive e dunque dà adito
a interpretazioni arbitrarie circa la sua natura. L’esistenza di questa discrepanza
fa sì che lo stato spesso non si configuri come entità in grado di soddisfare le esigenze di un popolo proprio perché non esiste, in una dimensione contingente,
una corrispondenza tra le due variabili e l’idea di ridefinire un territorio in vista
di farlo aderire ad un popolo risulta impensabile (Archibugi 2003). Se da un lato
vi è il riconoscimento del concetto di auto-determinazione, poiché oggi vi è un
consenso circa il fatto che non debbano intervenire fattori esogeni nella definizione di ciò che è meglio per un popolo, dall’altro, però, identificare quest’ultimo come soggetto giuridico non implica necessariamente riconoscergli la sovranità e quindi favorirne la costituzione come stato. Il diritto all’autodeterminazione prevede che una comunità possa scegliere il quadro politico che difende
meglio i propri interessi ma non vi sono elementi in grado di dimostrare che la
migliore struttura istituzionale per rispondere a simili aspirazioni sia uno stato
fondato su basi etno-nazionali esclusive, nel quadro di territori isolati l’uno dall’altro (Samary 1999).
Il discorso sull’autodeterminazione permette di introdurre alcune considerazioni
in linea con la precedente elaborazione storica dei processi di identificazione che
hanno interessato la penisola balcanica. L’irruzione, nel XIX secolo, del concetto
di stato-nazione, comporta l’emergere di rivendicazioni fondate sulla volontà di
definire lo spazio attraverso elementi esclusivisti ed assolutizzanti, quali l’omogeneità etnica o la fede religiosa. Proprio quando ci si interroga sulla presunta intrinseca conflittualità interbalcanica, una delle ragioni prime che la caratterizzano è la
continua ossessione verso l’edificazione ad ogni costo di Stati nazionali puri, oggi
più che mai prodotto di visioni anacronistiche, devianti, riduttive. Il prevalere
degli egoismi nazionali ha comportato l’abbandono di qualsiasi progetto di integrazione, cooperazione e di sviluppo equilibrato dell’area, che, nel passato, ha
visto una pallida affermazione22 (Fornaro 2001). Dunque, nel momento in cui
l’Unione Europea sta portando avanti un progetto innovatore di natura sovranazionale e integrativa, perché insistere ancora sulla frammentazione degli spazi e
dei territori in micronazioni? (Thiesse 1999, p. 12). In generale, gli stati balcanici
riusciranno a fondare la propria legittimità politica su basi diverse da quelle etnonazionali? E’ possibile uscire da una logica che vede solamente nello stato-nazione l’unico assetto politico risolutivo? (Dérens 2003, p. 17).
In realtà, se da un lato, l’analisi di natura essenzialmente storica prodotta nella
fase iniziale del lavoro ha visto l’emergere di un giudizio critico circa la tendenza a forgiare identità poggianti su elementi etnici e nazionali, dall’altro, però, si
sollevano voci che vedono proprio nel rispetto della nazionalità l’unico percorso
possibile per poter realizzare reali forme di solidarietà tra popolazioni.
Ripristinare il concetto di appartenenza nazionale, vista come unica variabile in
grado di garantire coesione e lealtà tra individui, in aperta opposizione a chi vede
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
nell’identità civica e sovranazionale un percorso unificatore possibile, poggia su
alcune proposizioni interconnesse. In primo luogo, l’identità nazionale si presenta come elemento costituente l’identità personale, nel senso che se un singolo è chiamato a specificare gli elementi che definiscono la sua natura identitaria, solitamente si rifà alla propria nazionalità. In secondo luogo, le nazioni si presentano come comunità etiche, in grado cioè di delineare un sistema di doveri
reciproci tra i membri che le costituiscono e la creazione di simili legami rende
del tutto validi gli schemi istituzionali volti ad assegnare specifici benefici solamente a chi ricade all’interno di determinati confini territoriali. Quando si parla
di nazione come comunità etica, non si ha in mente il senso di comunità che normalmente caratterizza una collettività unita da solidarietà reciproca ma ci si rifà
ad un grado di unità più profondo, che solo l’appartenenza nazionale può garantire. A tal proposito, basti pensare alla sua continuità storica e al fatto che si configura come fattore che permane nel tempo e al quale le generazioni presenti
non possono rinunciare (Miller 2000). A motivo di tali affermazioni, si giunge a
considerazioni antitetiche rispetto a quelle emerse in precedenza rispetto alla
portata riduttiva della nazione: infatti, se da un lato si assiste ad una sua demolizione, in quanto considerata nozione reazionaria, in controtendenza rispetto
all’attuale progresso politico che porta al suo superamento, dall’altro, però, il
suo configurarsi, in rapporto ad altre forme d’appartenenza, come fonte principale di solidarietà e coesione23, comporta una sua rivalutazione.
E’ possibile, in ultima analisi, avanzare delle obiezioni alle tesi difensive della
nazionalità? Il contesto balcanico può rappresentare una cornice in grado di
testimoniare l’effetto distruttivo e conflittuale delle pretese di forgiare identità
nazionali e di appartenenze territoriali esclusive, come sta avvenendo ora in
Kosovo, dove le richieste indipendentiste albanesi possono essere viste come
poggianti su logiche omogeneizzanti e monoetniche? Per poter comprendere le
eventuali conseguenze destabilizzanti dell’applicazione del concetto di nazionalità nel processo di ridefinizione dei confini territoriali, è necessario soffermarsi
su una questione: ciò che sta avvenendo in Kosovo deve farci chiedere, in riferimento alla volontà secessionista albanese, se quest’ultima poggia sull’esistenza
di una reale identità collettiva divenuta incompatibile con quella nazionale, di cui
si fa portatrice la maggioranza serba. Se, proprio in riferimento a tale interrogativo, si configura una situazione di distacco e antagonismo netto tra i due gruppi in lotta, Serbia da una parte e albanesi kosovari dall’altra, tale da rendere solide le tesi secessioniste e indipendentiste, è anche vero, però, che per poter ridefinire i confini sulla base di criteri nazionali, è necessario rispettare alcune condizioni. Non è sufficiente, infatti, il configurarsi di una situazione di incompatibilità identitaria ma è necessario valutare un altro fattore in gioco: il territorio su
cui la comunità rivendica la secessione non deve contenere al proprio interno
altre minoranze, la cui identità risulti in conflitto con l’eventuale nuova maggioranza che si andrebbe a creare. Ciò sembra un assetto che si potrebbe profilare
nel caso kosovaro, in quanto la causa indipendentista, se realizzata, non condurrebbe alla costituzione di uno stato-nazione omogeneo, in virtù della presenza di
una minoranza serba, incompatibile con la neonata identità nazionale albanese.
Cosa si può dedurre da simili argomentazioni? La rielaborazione critica del principio di autodeterminazione non mira in alcun modo ad un suo sgretolamento
ma si pone nella prospettiva di precisare come esso non debba essere considerato meramente in termini secessionisti, soprattutto se esistono assetti territo-
23
Per testimoniare la validità coesiva della nazionalità, basti pensare alle
società caratterizzate dalla
presenza di un’economia
di mercato, la cui centralità comporta l’emergere di
una tendenza verso l’atomizzazione sociale, in
quanto ogni individuo
cerca di massimizzare i
propri interessi e quelli
del network sociale a cui
appartiene. Come conseguenza del prevalere di
simili logiche egoiste,
risulta difficile trovare
consenso circa l’adozione
di pratiche redistributive
dalle quali i singoli non
trovano beneficio diretto.
Tali problemi possono
essere superati se esiste
una solidarietà di larga
scala, che fa sentire gli
individui parte di una
macrocomunità, in grado
di produrre, nei singoli,
un senso di dovere ad
agire a protezione dei
propri vicini più svantaggiati (Miller 2000, p. 32).
Solamente la nazione può
creare un sistema d’appartenenza così ampio e
allo stesso tempo così
integrativo.
91
n.17 / 2007
riali, come quello kosovaro, dove la sua applicazione comporterebbe effetti
destabilizzanti. Ci si sta riferendo, a questo proposito, alle difficoltà che emergerebbero in riferimento alla coesistenza e all’interazione con la componente
serba, fattore che, sebbene numericamente minoritario in Kosovo, risulta legato
a dinamiche complesse con le quali l’amministrazione internazionale a d interim
ha cercato e sta cercando tuttora di dialogare.
1.4. Tentativi da parte dell’UNMIK di preservazione del panorama identitario mosaicato kosovaro
24
Si veda UNSCR,
Resolution 1244 (99),
New York: UNSCR,
S/RES/1244 (1999), 10
June.
92
Costruire uno scenario di convivenza pacifica e di promozione della multietnicità: questa è la premessa sulla quale si inserisce la strategia d’intervento da parte
dell’amministrazione internazionale a d interim. Sebbene dalla lettura della risoluzione 1244 non emerga alcun mandato specifico in relazione al dialogo interetnico24, tanto da configurare già una lacuna di partenza, descrivibile in termini
di mancanza di linee guida specifiche in tale settore, esistono, in ogni caso,
dimensioni di policy in grado di tutelare l’obiettivo multietnico, in virtù del suo
presentarsi come elemento di natura intersettoriale. L’assunto su cui poggia l’intervento dell’UNMIK è legato al tentativo di evitare lo sviluppo e il consolidamento di una visione del Kosovo come territorio di un solo popolo, gli albanesi,
rafforzando, al contrario, la partecipazione e l’integrazione della componente
serba nelle strutture politiche. Si desidera avviare, con la creazione di spazi istituzionali in cui la minoranza serba, e non solo, si senta inserita, un percorso in
grado di promuovere la coesione attraverso il graduale sviluppo di un comune
senso di identificazione nei confronti della dimensione della politics. La maturazione di interessi ed esperienze condivise, risultato dell’emergere di meccanismi
d’appartenenza al sistema politico-istituzionale, è qui considerata come variabile
in grado di produrre un senso di unità e garantire forme di interazione tra le
parti. Il problema, in relazione al Kosovo, è dato dal fatto che l’eccessiva segregazione e polarizzazione etnica, rafforzatasi nell’ultimo ventennio, limita enormemente il potenziale integrativo del processo di sta te-building, dove con tale
espressione si indica l’adozione di una serie di attività quali la creazione di istituzioni politiche, il consolidamento della società civile e l’applicazione di un
sistema elettorale efficace, volte a creare un senso di comunità all’interno di una
polity. In realtà, sebbene sia assente tra i cittadini la percezione di far parte della
stessa cornice istituzionale, si possono configurare, in ogni caso, strutture e policies in grado di facilitare lo sviluppo di un simile senso di coesione (Simonsen
2004, p. 290). Lo spettro delle politiche aventi in sé un potenziale integrativo è
molto ampio e copre settori quali la facilitazione del ritorno dei rifugiati, la creazione di un ambiente sicuro in cui le minoranze si sentano protette o l’emergere di una rappresentanza politica che rispecchi le varie componenti etniche.
Se ora si cercano di indagare i metodi e le azioni poste in essere dagli attori internazionali in Kosovo nel periodo postbellico, si delinea, proprio in riferimento
alle strategie adottate, la possibilità di applicare il metodo di regolazione del conflitto etnico, che McGarry e O’Leary definiscono del consociativismo o “power
sharing”. Si tratta di una modalità d’intervento che, per poter trovare realizzazione concreta, necessita il rispetto di alcuni elementi chiave: creazione di grandi coalizioni di governo in cui siano presenti i rappresentanti di tutti i gruppi
etnici, introduzione del meccanismo della rappresentanza proporzionale in aree
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
quali il pubblico impiego, le istituzioni politiche e l’allocazione dei servizi, la concessione di autonomia e di possibilità di auto-determinazione per le diverse
comunità, soprattutto in quelle aree considerate prioritarie per la tutela della
propria identità ed infine, la previsione di un diritto di veto per le minoranze
(Hoxhaj 2005, p. 25). Avendo a riferimento un simile modello regolativo, si può
mettere in luce come l’UNMIK, nel tentativo di preservare il quadro multietnico
kosovaro, spesso si sia ispirata ad esso. Di seguito, verranno brevemente elencate alcune misure che, nel loro esplicarsi, ricordano la strategia consociativa; tale
presentazione, inoltre, permetterà di valutare quali siano i settori di policy considerati prioritari nella realizzazione dell’obiettivo della coesione interna.
Sebbene il mandato su cui poggia l’intervento internazionale in Kosovo non citi
esplicitamente la dimensione della convivenza interetnica, l’UNMIK, dopo la
campagna aerea della Nato, decide di adottare una strategia d’azione volta a preservare il composito quadro identitario kosovaro. Accanto al profilarsi di opzioni ristrette e catastrofiche, quali il fallimento politico, legato cioè all’abbandono
dell’obiettivo della convivenza, o il disastro politico, riferito alla possibilità che si
configuri una situazione di guerrilla interna, emerge un’opzione alternativa, poggiante sull’intento di realizzare forme di interazione tra le parti. Prima di addentrarsi nell’analisi delle misure adottate, è utile premettere come sia possibile individuare, tra le politiche pubbliche, una differenziazione che vede, da un lato,
quelle inclusive, in grado cioè di produrre processi che accomunino e avvicinino
tutti i gruppi etnici presenti all’interno di una polity e, dall’altro, quelle esclusive
che, al pari delle prime, si delineano come tentativi di creare coesione ma la
variabile distintiva è legata al fatto che esse si sviluppano in relazione ad un unico
gruppo, avendo quindi effetti discriminanti e di marginalizzazione rispetto alle
altre collettività (Simonsen 2004, p. 290).
Esistono in Kosovo delle arene o policies in grado di promuovere identità inclusive e sulle quali l’UNMIK ha indirizzato i propri sforzi: a seguito dello svilupparsi di una sorta di “contro-epurazione etnica” albanese nei mesi successivi al conflitto bellico e, di riflesso, alla poca fiducia nutrita dalla componente serba nei
confronti della capacità di protezione da parte della missione internazionale,
vengono promosse alcune misure per favorire la partecipazione di tale gruppo
alle strutture politico-istituzionali. Nel dicembre 1999, il Rappresentante speciale (SRSG) Bernard Kouchner, lancia l’Agenda per la Coesistenza, documento in
cui viene enfatizzato il percorso che l’UNMIK desidera seguire: in virtù della
necessità di evitare di dar vita ad assetti socio-politici per i quali la popolazione
non è pronta, si decide di ridurre l’obiettivo di intervento, puntando non tanto
sull’ambizioso risultato della riconciliazione ma indirizzandosi, come primo step,
verso una più moderata coesistenza. A tal proposito, in virtù del tentativo di
garantire l’integrazione serba nelle strutture politiche, viene prevista l’adozione
di accordi UNMIK-leaders serbi, volti a indicare misure amministrative e nel
campo della sicurezza in grado di tutelare tale collettività, in cambio di una sua
cooperazione. Tali strategie non si configurano come risolutive in quanto, nell’ottobre 2000, i serbi-kosovari boicottano le elezioni municipali e ciò comporta
l’adozione di un secondo livello d’azioni, legato al settore della rappresentanza
politica.
In riferimento a tale arena, è necessario innanzitutto evidenziare come i partiti
politici in Kosovo si caratterizzano per avere una base di supporto e una leadership che rispecchia l’identità etnica e, dunque, una simile connotazione par-
93
n.17 / 2007
25
Si veda UNMIK,
Constitutional Framework
for provisional selfgovernment,
UNMIK/REG/2001/9, 15
May.
26
Per una descrizione
della composizione del
sistema delle istituzioni
provvisorie di autogoverno (PSIG), contenente al
proprio interno un’assemblea parlamentare e
un esecutivo, costituitisi a
seguito delle elezioni
politiche del novembre
2001, si veda Hoxhaj
(2005, p. 26) e Simonsen
(2004).
27
Tale accordo è noto
come Common
Document, risultato di un
negoziato tra il
Rappresentante speciale
Haekkerup e il ViceMinistro serbo Nebojsa
Covic, nonché capo del
Coordinating Centre for
Kosovo.
94
titica comporta il rischio che le maggioranze al governo non riproducano la composita realtà identitaria della provincia. Una prima azione poggia proprio sulla
configurazione di un nuovo sistema istituzionale, in cui, in linea con quanto contenuto nel Constitutiona l Fra mework25, porti alla creazione di strutture politiche in grado di garantire, al proprio interno, spazi di rappresentanza anche per
le minoranze.26 Proprio per assicurare la partecipazione serba alle strutture istituzionali, l’UNMIK, attraverso il suo Rappresentante speciale Haekkerup, negozia un accordo27 con il governo serbo in cui si chiede che Belgrado eserciti pressione sui serbi-kosovari, in modo che essi partecipino alle elezioni parlamentari
del 2001, obiettivo che riuscirà ad essere realizzato. In realtà, emergono alcuni
difetti da questo punto di vista, in quanto l’amministrazione internazionale, scegliendo di rifarsi a Belgrado, contribuisce a rendere la Repubblica serba un fattore chiave nella vita politica kosovara, impedendo di dar voce alla popolazione
serba locale (Hoxhaj 2005, p. 24).
Altro elemento lacunoso che si desidera mettere in luce è legato alla politica di
over-representa tion (Simonsen 2004, p. 299), seguita dall’UNMIK. Non solo in
riferimento all’inserimento di un’agenda etnica nel settore legato alla partecipazione politica ma anche in altre dimensioni di policy, si profilano interventi inclusivi, volti a garantire un equilibrio tra le diverse collettività. Basti pensare all’arena legata alla sicurezza interna dove, accanto alla struttura della KPC (Kosovo
Protection Corp) che, in quanto mutuata dal precedente Esercito di Liberazione
nazionale (KLA), si configura come corpo di polizia eccessivamente legato agli
interessi albanesi, esistono organismi più inclusivi. Ne è un esempio il Kosovo
Police Service (KPS) che, dal punto di vista dell’integrazione, rappresenta un successo in quanto, al proprio interno, sono compresi non solo albanesi ma anche
serbi, rom, turchi e slavi musulmani e ciò rappresenta una prova di come esistono, in molte aree della provincia, pattuglie di polizia etnicamente miste.
Ulteriore conferma dell’adozione di strategie consociative, non solo in ambito
strettamente politico, è dato dal mercato del lavoro, in cui si è cercato di riprodurre, nel settore impiegatizio amministrativo, un meccanismo che assegni alle
minoranze la possibilità di inserimento lavorativo, garantendo un livello minimo
di rappresentanza (8-18% del totale dei posti disponibili).
A seguito della presentazione di simili misure volte a preservare un quadro multietnico in Kosovo, ci si chiede se la politica poggiante sul modello consociativo
possa rappresentare un buon canale per raggiungere forme di interazione.
Sicuramente, se l’attenzione viene focalizzata sull’inclusività e sulla ricerca di
unità interna, risultano del tutto genuine e colme di significato le strategie adottate dall’UNMIK. Basti pensare alla rappresentanza politica, per la quale ha un
senso produrre misure volte a garantire una partecipazione delle minoranze, in
modo da evitare che si formino strutture istituzionali monoetniche e totalmente
dominate dalla componente albanese. Se, però, si sposta il focus dall’obiettivo
dell’equilibrio etnico a quello della creazione di identità civiche, che comportino
cioè un superamento delle appartenenze identitarie etniche come tratto sociale
distintivo, allora emergono alcune immagini dissonanti. Infatti, se si considera il
rapporto tra ethnicity e politics e si sceglie di avviare un processo di de-etnicizzazione della seconda, in virtù della promozione di forme di coesione di tipo civico, non vi è forse il rischio che strategie di “power-sharing” agiscano in senso
opposto, ossia rafforzando la dimensione etnica? L’inserimento di un’agenda
etnica in settori chiave quali il sistema partitico-elettorale o il sistema impiegati-
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
zio si pone forse come sforzo antitetico rispetto al tentativo di ridurre il significato e la portata dell’etnicità? Si chiude questo ultimo scenario proprio con un
simile interrogativo, che mette in luce come, per poter realizzare forme di interazione o di mera coesistenza in Kosovo, attraverso lo strumento della governa nce o della modellazione in senso inclusivo delle policies, non è del tutto efficace l’adozione di politiche palesemente e direttamente multietniche. Piuttosto
che cercare la realizzazione di forme di compromesso attraverso la creazione di
strutture collettiviste ed “etniciste”, che garantirebbero risultati, ma solo in
un’ottica di breve termine, risulta necessario spostare l’attenzione verso un
approccio che insista maggiormente su principi civici (ICG 2003, p. 17).
In realtà, proprio in riferimento ad una simile necessità, risulta indispensabile
problematizzare ulteriormente la questione: se, infatti, come prima evidenziato
in relazione all’UNMIK, la pratica consociativa contribuisce a delineare il rischio
del configurarsi di una sorta di “etnocrazia”, sottolineando il bisogno di poggiare su percorsi identitari legati alla maturazione di istituzioni comuni in grado di
produrre coesione, le appartenenze identitarie civiche si presentano anch’esse
ambigue e discutibili. Infatti, è necessario sottolineare come il ruolo della sfera
simbolica si presenta essenziale nel salvaguardare la stabilità della comunità e,
dunque, nel momento in cui ci si interroga sull’esistenza di possibili percorsi
identitari coesivi, riservare all’ethnicity una funzione secondaria nei processi di
identificazione, rappresenta una sorta di cecità analitica. Questa breve parentesi
finale mira solamente a mettere in guardia dall’adozione di ricette risolutive semplicistiche e riduttive, legate alla scelta, nell’opposizione dicotomica tra ethnicity
e citizenship, dell’una o dell’altra. Al contrario, per produrre strategie d’intervento adeguate, è necessario far incontrare le due dimensioni; ciò significa operare un connubio tra personale e impersonale, facendo in modo che il singolo
sia consapevole del fatto che le procedure istituzionali impersonali e i meccanismi di potere neutrali si configurino come una parte della propria esperienza
personale e della propria appartenenza identitaria (Schöpflin 2000, p. 28).
Conclusioni
L’analisi qui presentata si è posta come tentativo di approfondire la dimensione
socio-politico kosovara attraverso le dinamiche che interessano i processi di
maturazione delle identità, secondo un quadro teorico che mira ad abbandonare visioni eccessivamente riduttive ed esclusiviste dell’identity. Si è cercato, infatti, di presentare una lettura innovativa del contesto kosovaro, mettendo in luce
come l’immagine di un Kosovo percorso da rivalità di remota origine e da conflitti da sempre poggianti sull’esistenza di divisioni etniche, risulta scardinata se
si attua un’analisi storica poiché quest’ultima ha messo in luce la presenza di
esempi di interazione e di condivisione tra i diversi gruppi. La tesi qui sostenuta,
ripresa dal lavoro di Duijzings, è considerare l’area non tanto un territorio caratterizzato dalla configurazione di due società parallele i cui confini risultano perfettamente definiti e dunque di difficile superamento, quanto una singola società “di frontiera” (one single “frontier” society) dove periodi di scontro si sono
alternati a periodi di contatto tra le diverse comunità (Duijzings 2000). Per produrre una lettura più corretta possibile, non si possono tralasciare nell’indagine
momenti di coesistenza, cooperazione e contatto tra le molteplici collettività. I
confini, siano essi considerati in termini territoriali che in termini cognitivi, spes-
95
n.17 / 2007
28
Per una visione dell’andamento dei negoziati, si
rimanda al sito
www.osservatoriobalcani.org, il quale contiene
numerosi articoli circa l’evoluzione del processo
negoziale a Vienna.
29
Per una panoramica
circa i contenuti della
proposta Athisaari, si veda
il sito www.osservatoriobalcani.org.
30
Si sta facendo riferimento al fatto che nel
febbraio scorso, la discesa
in piazza del movimento
albanese-kosovaro
Vetvendosje, indipendenza, per manifestare il proprio dissenso contro i
contenuti della proposta
Athisaari, ha comportato
una degenerazione della
manifestazione che si è
conclusa con due morti e
numerosi feriti.
96
so sono sfumati nel corso della storia e hanno dato vita a forme di condivisione
di numerosi tratti culturali, rendendo le identità fluide, mobili e non definite in
modo netto e duraturo. In realtà, una simile immagine innovativa non si presenta come assoluta e ciò è stato sottolineato dalla descrizione della rottura che si
produce, soprattutto nel corso del XIX secolo, a causa della penetrazione del
concetto di stato-nazione e della sua particolare combinazione con la specificità
del contesto politico balcanico. Proprio in relazione al tentativo di definire nuovi
spazi, avendo come concetto-chiave di riferimento l’appartenenza nazionale, la
valutazione critica della stessa che prima si è proposta, viene qui di seguito ripresa, a motivo della scelta di concludere il lavoro con una riflessione circa il percorso futuro che si profila per il Kosovo. L’anno 2006 doveva essere un momento cruciale per l’area, in quanto, nel febbraio, si sono aperti a Vienna i negoziati28
in vista del tentativo di definire un assetto ancora caratterizzato da indeterminatezza politica. In realtà, ciò che si è prodotto, è stato il profilarsi di una situazione di stallo, in cui non si è riusciti a concretizzare alcuna forma di compromesso
o di avvicinamento tra le parti in gioco. Le speranze verso il raggiungimento di
una possibile soluzione politica sono state così posposte all’anno successivo, che
si è aperto con la presentazione da parte del Rappresentante speciale delle
Nazioni Unite, Marthi Athisaari29, di una bozza risolutiva che dovrebbe garantire
la realizzazione di un primo passo verso la ricomposizione delle divergenze. In
realtà, ciò che si è realizzato è stata un’ulteriore esacerbazione del conflitto: basti
pensare agli avvenimenti che recentemente hanno caratterizzato la provincia30.
Ciò riporta ad una considerazione finale: come potranno le genti insediate in
Kosovo sviluppare forme d’appartenenza identitaria di tipo coesivo o integrativo, se non hanno ancora uno status politico definitivo? Sicuramente il fatto che
attualmente vi sia una situazione di temporeggiamento e di stallo nei negoziati è
sintomatico della difficoltà di ricomposizione del dialogo e delle parti ma ciò che
si desidera evidenziare è il rischio che il perdurare della provincia in una condizione di limbo, innalzi il livello di insoddisfazione, soprattutto per quella componente albanese più radicata nella causa indipendentista, creando nuove instabilità interne. Quando si parla di innalzamento del livello di insicurezza, ci si rifà
alla possibilità che il Kosovo possa cadere, come già avvenuto nel marzo 2004, in
una situazione di collasso e di intensificazione dell’uso della violenza, contribuendo a polarizzare ulteriormente il panorama etnico-demografico kosovaro.
Rimanendo all’interno del discorso identitario sin qui proposto, esistono, a conclusione delle argomentazioni finora maturate, spiragli di positività futura?
Probabilmente, ma ciò sarà tutto da scoprire, essi potranno emergere in relazione alla possibilità di ancoraggio e di avvicinamento della provincia al contesto
integrativo europeo. Tale configurazione si potrebbe realizzare, tra l’altro, in un
futuro immediato poiché l’andamento dei negoziati prevede che, a seguito dell’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di una nuova
risoluzione, in sostituzione della 1244, avvenga una modifica nella composizione
internazionale che guida il processo di transizione democratica nella provincia.
Infatti, le nuove prospettive d’intervento stabiliscono che sia proprio l’Unione
Europea a sostituire le Nazioni Unite nella conduzione dell’amministrazione a d
interim in Kosovo. Quale apporto concreto potrebbe dare l’UE al contesto kosovaro? Si configura, a tale proposito, una particolare dimensione in cui l’avvicinamento tra le due entità politiche può produrre nuova linfa vitale per entrambe.
L’Unione Europea e il Kosovo, infatti, sono accomunate da un tentativo attuale
Federica Dallan
Rassegna critica della letteratura internazionale sul kosovo
di riconsiderazione della propria identità. Si ricorda che in ambito comunitario
si sta assistendo alla maturazione di un percorso di auto-riflessione circa la necessità di dotarsi di un’anima culturale, che rafforzi la coesione interna e garantisca
un più elevato livello di avvicinamento dei cittadini europei alle strutture istituzionali, andando oltre la già raggiunta configurazione di un’identità economica e
funzionalista. Non solo la comune riflessione circa la propria immagine identitaria può contribuire a generare nuovi impulsi, in un percorso di influenza reciproca e bi-direzionale ma si può assistere anche ad un interscambio interessante tra le due. Se si considera, infatti, l’esistenza di una duplice modalità di maturazione di coesione e integrazione, evidenziando da un lato la possibilità di creare unità attraverso la previsione di comuni meccanismi istituzionali e statali e,
dall’altro, la capacità di forgiare identità sulla base di appartenenze etniche,
emerge un quadro di interconnessione. L’Unione Europea sta cercando di
affrontare una sfida, data dal tentativo di approfondire il processo integrativo
focalizzando l’attenzione sulla dimensione simbolica e culturale e, proprio in
questo senso, il suo avvicinamento al Kosovo e, più in generale, al contesto europeo balcanico, può fornirle un notevole insegnamento. Infatti, la particolare
esperienza europea orientale, legata all’aver seguito percorsi di identificazione
poggianti sull’appartenenza etnica e culturale, può aiutare l’UE a superare la
soglia della mera identità economica e istituzionale, evidenziando come l’etnicità sia un elemento non trascurabile nel definire le appartenenze identitarie collettive. L’Unione Europea, dal canto suo, può mostrare, in questo caso al Kosovo,
come sia possibile non solo dar vita a processi integrativi che oltrepassano il concetto di appartenenza nazionale ad un territorio ma può sottolineare percorsi di
identificazione innovativi, slegati dall’etnicità, maggiormente ancorati alle comuni istituzioni e alla maturazione di coesione attraverso identità per così dire civiche e sovra-etniche.
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98
99
100
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
Focus: Memorie e Kosovo
“Non puoi capire cosa significa sentire quella musica dappertutto. Quando c’è il
sole e apri le finestre la senti nell’aria…Come possiamo ascoltare musica serba!?
È musica allegra, per i giovani e loro l’ascoltano e cantano le parole. A me fa troppo male… capire che quella cultura [dei serbi] conquista tutta l’area e alla fine la
“Grande Serbia” passa anche nelle onde della radio dei nostri figli. Povero
Danubio… quella non la può fermare nemmeno lui”.
Lo sfogo di una collaboratrice del referente croato nel corso di uno dei miei ultimi viaggi nei “Balcani”, riassumeva efficacemente gran parte della considerevole
produzione scientifica elaborata attorno alle grandi questioni del nostro presente,
europeo ad intensità differenti e, quindi, anche balcanico: il tema dell’identità, dell’invenzione del conflitto inter-etnico, della memoria collettiva e di quella culturale, della ricerca ossessiva della purezza della lingua, delle minoranze, dell’inurbanizzazione… e della musica, della cucina, del nome delle strade, piazze e città da
cambiare, dell’eterno dibattito sul “possesso” degli eroi che, a seconda, sono criminali o pazzi oppure, semplicemente, nessuno.
Appare evidente che ogni tentativo di delimitare forzatamente il campo d’indagine, con la pretesa di occuparsi di una di queste prospettive, e una sola, è destinato ad aggiunger ben poco a quanto già detto e scritto; viceversa, l’utopia di affrontare un approccio globale, esaustivo ed esauriente che non sacrifichi alcun tema
è, appunto, un’utopia che forse potrebbe anche esser utile come indicazione della
strada da seguire, ma in altre sedi, con altri spazi e possibilmente in regime di collaborazione. Tuttavia, e giusto per aprire con una contraddizione, tra i temi esposti ve n’è uno che potrebbe trovare ospitalità in tutti gli altri: la memoria ed il ruolo
giocato nella configurazione degli eventi storici, politici, economici e sociali dell’area del Sud Est Europa1. E una prima fondata obiezione potrebbe muoversi contro l’oggetto del presente studio, relativamente al rilievo che si vorrebbe attribuire alla memoria in questa regione, quasi come si volesse farla assurgere a chiave di
lettura esclusiva, in virtù della sua importanza, adatta a dare una spiegazione alternativa2, univoca e definitiva delle complesse dinamiche che informano l’area. Ma
non è così.
1
Sud Est Europa è la
dizione ritenuta politicamente corretta rispetto a
“Balcani”, come si spiegherà più avanti.
Entrambe le forme sono
comunque tuttora ugualmente diffuse e nel presente lavoro si continuerà prevalentemente ad
usare la seconda.
2
Memoria(e)
La memoria è il codice che conferisce senso alla mappa dell’esistenza umana, individuale e collettiva, pur in modi e con percorsi differenti; è il filtro che media la
Rispetto ad altre più
comuni quali quella che
attribuisce la dissoluzione della Jugoslavia alla
scomparsa della figura e
del carisma di Tito.
101
n.17 / 2007
3
Scrive Jan-Werner
Müller “Memory matters.
It matters for the simple
reason that memory is an
anthropological given,
since all consciousness is
mediated trough it”.
4
E certamente di memoria si è occupato ad es.
Henri Bergson, che in
“Materia e Memoria” del
1896 si occupa di definire
il cervello non quale
deposito di ricordi ma
dispositivo di attivazione
di percezioni passate e
selezionate (Bergson
1986, 196 e segg.).
L’interesse verso la
memoria non è misurabile: dalla trasmissione
orale della cultura, al
lavoro di trascrizione
delle opere da parte degli
Amanuensi, agli archivi
genealogici dei mormoni
in Salt Lake City, con 2,4
milioni di dati di nomi in
microfilm.
5
Nell’opera, del 1925,
l’Autore anticipa il concetto di “cornice” o
frame, prima di Goffman,
“Frame Analysis”, del
1974 e di Schön e Rein
“Frame Reflection”, del
1994.
102
coscienza3 (Müller 2002, 1) e contribuisce ad attestare che “Il mondo è veramente
un’operazione dinamica; solo per mezzo di simboli la mente può trattare con esso
‘come se’ fosse una struttura statica”(Upton 1961, 31-32). Nei Balcani così come in
ogni altro contesto.
Condividendo un destino comune a numerosi concetti che costituiscono il piano
d’azione delle scienze umane, anche per quello di memoria non è disponibile una
definizione univoca.
Esiste una memoria che aiuta nella preparazione degli esami e nell’acquisto delle
provviste; una memoria che accompagna un album fotografico, o un profumo, o
un motivo musicale. Esiste una memoria che viene compromessa da gravi patologie neurologiche; una che interessa i creatori di consenso politico. Memorie che
persistono e altre che svaniscono, con propria autonomia ed indipendentemente
da chi le possiede; memorie del singolo, della collettività, di un’istituzione, di una
generazione o di una cultura. Memorie apprese e memorie agite, memorie di un
luogo, fisico e/o mentale.
L’attenzione per la memoria è sempre stata elevata. Basterebbe far emergere lo
stretto legame che forma la coppia ‘memoria-potere’; ma l’interesse per l’aspetto
qui affrontato ha inizio principalmente con i lavori di Maurice Halbwacks, sociologo francese formatosi alla scuola di Durkheim. Non è indifferente specificare la
natura della formazione di Halbwachs poiché questa combinazione influenzerà
l’approccio dell’Autore alle tematiche che qui sono rilevanti. È chiaro che esiste un
interesse per la memoria assolutamente antecedente ai lavori di Halbwacks4, tuttavia, l’originalità del suo pensiero risiede nel proporre una memoria sempre e
comunque da intendere quale risultato della mediazione dell’individuo con il
gruppo, sottraendo la possibilità dell’esistenza di una memoria individuale, autonoma e non riconducibile a quella collettiva. Nell’opera “I quadri sociali della
memoria”5, l’Autore individua la dimensione sociale della memoria nell’esistenza
di strutture ordinative o categorie a-priori - linguaggio, rappresentazioni sociali
dello spazio e del tempo, classificazione - che conferiscono pregnanza al ricordo condizione necessaria affinché venga fissato - e orizzonte, ovvero un significato e
una rilevanza sociale del ricordo. Sensibile all’ambiente della sua formazione,
Halbwachs tende progressivamente a negare l’esistenza di una memoria individuale specifica e distinta da quella sociale:
“(…) i nostri ricordi vivono in noi come ricordi collettivi, e ci sono rammentati
dagli altri a nche qua ndo si tra tta di a vvenimenti in cui sia mo sta ti coinvolti solo
noi (…). Il fatto è che, in realtà, non siamo mai soli (…) perché ciascuno di noi
porta sempre con sé e dentro di sé una quantità di persone distinte” (Halbwachs
2001, 80, corsivi aggiunti).
Non solo è necessario un gruppo per la formazione del ricordo di un evento collettivo, es. un evento naturale rilevante, ma la condizione dell’individuo in quanto
parte di una formazione sociale condiziona ed influisce anche la formazione di un
ricordo che potrebbe altrimenti collocarsi a pieno titolo nel novero dei ricordi biografici e personali. L’“essere parte di” è una condizione necessaria per la riattivazione del ricordo: similmente ai comuni “bei vecchi tempi” che si rievocano in
occasione dell’incontro con persone che hanno condiviso parte della loro esistenza insieme, il ricordo si riattiva al momento in cui si rioccupa una posizione di
appartenenza, è una ricomposizione alla quale ognuno collabora conferendo al
prodotto - il ricordo - la propria personale testimonianza che mantiene intatto ed
inalterato il codice genetico del gruppo in cui - e da cui - ha avuto origine:
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
“Perché la nostra memoria si aiuti con quella degli altri non basta che questi ci portino le loro testimonianze: bisogna anche che essa non abbia cessato di essere in
accordo con le loro memorie e che vi siano abbastanza punti di contatto fra l’una
e le altre perché il ricordo che ci viene rievocato possa essere ricostruito su di un
fondamento comune” (Halbwachs 2001, 90).
Questo è vero, ma pure non lo è. Se non è sufficiente che gli altri ci portino le loro
testimonianze, è pur vero che non è indifferente “chi sono” questi altri: l’eventuale accordo dipende, quindi, non tanto dalla permanenza immutata di punti di contatto nelle memorie, quanto soprattutto dalla persistenza dei codici interpretativi
per quelle memorie.
Ancor meno attendibile è l’idea che per aversi una memoria collettiva è necessario esser stati, e continuare ad essere, parte della medesima società6: è forse questa la conditio sine qua non per “(…) comprendere come un ricordo possa essere contemporaneamente riconosciuto e ricostruito”? In realtà Halbwacks sta sottolineando il problema dell’identità collettiva, prima e oltre a quello della memoria collettiva. Un cittadino israeliano ebreo di Tel Aviv, lo psicologo ebreo che tratta la sindrome dei disordini da stress post-traumatico a Vukovar, in Croazia, Simon
Wiesenthal7, non sono parte della stessa società, eppure presumibilmente intercorrono tra loro stretti legami identitari con la comunità ebraica e compartecipano al ricordo dell’Esodo, dell’Olocausto, della Shoah. Si potrebbe aggiungere che
nella religione ebraica la filiazione segue la linea della madre8, che la madre è la
figura che più incide nella formazione del bambino e nella trasmissione degli elementi che contribuiranno alla creazione dei vincoli di appartenenza alla comunità
e alla costituzione dell’identità, in questo caso, ebraica. Proprio Jan Assmann spiega che in ogni cultura è possibile rinvenire una “struttura connettiva” che agisce
connettendo una dimensione sociale ad una temporale e che si costituisce sulla
base di elementi quali il ricordo, l’identità e la perpetuazione culturale (Assmann
1997, xii). Proseguendo sulla stessa linea, anche la formula “fate questo in memoria di me” che accompagna la celebrazione eucaristica della messa cattolica non
elimina i dubbi circa la comunanza degli astanti dell’ultima cena con la comunità
di fedeli riuniti in una chiesa di periferia di una qualsiasi città. E tuttavia quella formula induce una curvatura nella dimensione dello spazio e del tempo, annulla le
differenze, crea identità, comunità e appartenenza, riattiva i quadri sociali della
memoria e agisce nel senso di indurre la compartecipazione dell’individuo alla
memoria collettiva. Così pure la cerimonia ebraica del séder , un banchetto che
celebra (ricorda) l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto e nel quale viene letto ai
bambini il libretto dell’Ha gga dá h, una raccolta di canti, aneddoti, storie che si
sostanziano in una grande lezione sull’esodo (Assmann 1997, xi-xiii) e che attinge
dalla Bibbia passi quali “Lo spiegherai al figlio tuo, in quel giorno, dicendo: ‘È a
causa di quel che il Signore fece per me, quando uscii dall’Egitto’”9. Assmann spiega che la cerimonia del séder non è solo una ripetizione di quella dell’anno precedente ma è una evocazione di un evento che ha segnato, segna e segnerà l’identità di appartenenza alla medesima Comunità dell’Esodo, anche per tramite
della coerenza rituale della cerimonia. Memoria e identità sono concetti che si
svolgono in parallelo e la condivisione - per la memoria - o l’appartenenza - per l’identità - non hanno una valenza temporale e non può risentire dell’“interesse”
attuale per una certa tematica10.
Così come non si può scegliere cosa ricordare e cosa dimenticare dell’insieme dei
ricordi che formano la memoria personale (supposto che ne esista una, autonoma
6
“Bisogna che questa
ricostruzione sia fatta a
partire da dati o nozioni
comuni che si trovano
dentro di noi tanto quanto negli altri, perché passano senza sosta da noi a
loro e reciprocamente;
questo è possibile solo se
tutti fanno parte, e continuano a far parte, di una
medesima società”
(Halbwachs 2001, 91).
7
Sopravvissuto ai campi
nazisti, Wiesenthal ha
dedicato la sua vita a
documentare i crimini
dell’Olocausto e ad assicurare alla giustizia i
responsabili.
8
Nella versione più
comunemente accettata,
anche se la questione è
tutt’ora oggetto di dibattito: “Nei periodi moderni
vi sono stati occasionali
contrasti tra la definizione
rabbinica e quella del
senso comune, per esempio nell’interpretazione
data dalla Corte suprema
israeliana della “legge del
ritorno”, secondo l’opinione di Rabbi John D.
Rayner, Union of Liberal
& Progressive
Synagogues, 1993, consultabile sul sito
http://www.levchadash.inf
o/?page_id=37 Vedi
anche Meyers (1998) a
proposito degli Ebrei in
Russia.
9
Esodo, 13, 8. In realtà ci
sono quattro diverse formulazioni dello stesso
concetto che propongono varianti sul pronome
personale usato: “vi”,
“me”, etc. che definiscono il tipo di relazione che
il bambino “sente” prima
della lettura e della celebrazione e che definiscono il suo stile nel rapportarsi alla sua comunità.
Vedi Assmann.
103
n.17 / 2007
10
Diversamente
Halbwacks:“Che m’importa che gli altri siano ancora dominati da un sentimento che un tempo provavo anch’io con loro ma
che oggi non provo più?”
(2001, p.90)
11
Il riferimento è alla
querelle sulle radici giudaico-cristiane da includere nel testo costituzionale
dell’Unione Europea.
12
Che è poi la stessa
domanda…
104
e separata da quella della collettività), allo stesso modo il coinvolgimento entro la
memoria collettiva è sottratto alla libera scelta autonoma. E non può essere imposto.11 Con questo non si vuole sostenere che la memoria collettiva è “qualcosa” che
sfugge dal controllo e che si propone come un assolutamente autonomo a cui riferirsi o verso cui tendere. La domanda, qui, che potrebbe orientare il discorso verso
scenari fecondi di riflessione non è “cos’è la memoria collettiva” ma, piuttosto,
“quale è l’uso che ne viene fatto?”12. L’uso della memoria collettiva risponde all’esigenza di fornire risposte ad una domanda che non è stata formulata 2000 anni fa
ma che origina dalle attuali contingenze (Fabietti e Matera 1999, 11), ovvero, la
memoria risponde ad un bisogno che è a ttua le. D’altro canto, questo bisogno
attuale ha una sua origine nel passato ed è suscettibile di essere interpretato alla
luce dei costituenti della memoria collettiva. Prendiamo la questione a partire da
un confronto.
Memoria individuale e memoria collettiva si intrecciano inesorabilmente, eppure si
dispiegano seguendo logiche differenti. Posto che non vi è attendibilità dei ricordi
personali, intesa quale completa coincidenza del ricordato – del contenuto del
ricordo – con l’evento oggetto dello stesso, va da sé che questa coincidenza non
possa aversi neppure per gli elementi costituenti la memoria collettiva. Tuttavia,
rispetto a quella individuale quella collettiva è maggiormente esposta ad eventuali
interventi di pianificazione. Se assumiamo il vissuto personale e l’elaborazione che
di questo l’individuo ne fa e che sono elementi costitutivi del ricordo e quindi della
memoria, come in una condizione di “equilibrio endogeno”, vale a dire che la
memoria adempie efficacemente al suo ruolo in quanto elaborata sulla base di un
set di esigenze proprie del soggetto che la possiede, resta da prendere in considerazione la diversa sorte cui inevitabilmente va incontro la memoria collettiva.
Anche questa è il prodotto di una selezione e di una codificazione, anche questa
risponde a precise esigenze che in questo caso, però, sono quelle di una collettività e che quindi devono essere interpretate e/o rappresentate da altri. Questa interpretazione genera una condizione di “squilibrio esogeno” in quanto si apre la possibilità che l’individuo singolo possieda un ricordo “diverso”; fatto, questo, che
però non incide in alcun caso sull’attendibilità della memoria collettiva la cui esistenza non deve, comunque, ricevere necessariamente una generale sottoscrizione
di paternità.
Un ricordo lo si “sente” proprio. Dipende dal grado di predisposizione degli individui a credere nella sua esistenza e nella sua legittimità, coerenza, utilità. Elementi
che hanno a che fare con la disponibilità di una visione presumibilmente chiara dei
bisogni attuali e pure con la capacità di prevederne l’evoluzione. Non sembri fuori
luogo il riferimento a John Dewey quando scrive che “Chiodi e tavole non sono,
propriamente parlando, i mezzi di una cassetta: sono soltanto i materiali che occorrono per farla” (Dewey 1958, 32). La battaglia di Kosovo-Polje del 1389, i “bogomili”
della Bosnia, i monasteri ortodossi del Kosovo, il ponte vecchio di Mostar, l’opera
di santo Sava non sono (alcuni dei) mezzi che compongono le memorie collettive
dei Balcani, sono piuttosto gli elementi costitutivi che, in quanto orientati verso il
soddisfacimento di un bisogno, necessitano per questo di una forma di organizzazione (Dewey 1958, 33) che Dewey chiama “abitudine”, e che così definisce:
“(…) noi abbiamo bisogno di una parola che esprima quel genere di attività umana
che è influenzata da un’attività precedente, e in questo senso è acquisita; che contenga in se stessa un certo ordinamento o sistemazione di minori elementi di azione; che sia prospettica, di qualità dinamica, pronta a manifestarsi apertamente, e
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
che operi in qualche forma attenuata e subordinata anche quando non domini
palesemente l’azione: e la parola ‘abitudine’ nel suo senso ordinario si avvicina più
di qualsiasi altra a denotare questi fatti” (Dewey 1958, 47).
Una “cosa” che non è autonoma, che si acquisisce, che contiene in sé elementi
minori o accessori, che sia in costante evoluzione e che riesca a generare correnti profonde non visibili ma per questo non meno determinanti, è una “cosa” che
sta immediatamente prima della memoria collettiva: un’a bitudine-memoria collettiva o, se si preferisce, la “matrice” della memoria collettiva13. Così come non
tutti faranno una cassetta con i chiodi e le tavole, ma forse un appendiabiti oppure un cavalletto, i materiali costitutivi che diverranno poi mezzi per la formazione
di una memoria collettiva nei Balcani - visto l’oggetto di questo studio - hanno
necessità di una “predisposizione acquisita a modi determinati di risposta”
(Dewey, 1958 49) per poter giungere a quella particolare combinazione dei ricordi che sia incastrabile e/o compatibile con il vissuto individuale di ognuno (che sia
balcanico). Stiamo forse sostenendo che nei Balcani gli individui sono naturalmente predisposti all’odio, al rancore, alla vendetta?14 No; e per gli stessi argomenti per i quali Dewey sceglie “abitudine” invece di “attitudine” o “disposizione”
(Dewey, 47 e 48). Questi termini fanno riferimento all’esistenza di qualcosa di
latente, pronto a divenire manifesto in seguito ad uno stimolo esterno e dopo aver
rimosso eventuali “tendenze inibitorie”, esempio, la possibilità dell’uso coercitivo
della forza. Disposizione, poi, richiama predisposizione ovvero qualcosa che è
“(…) in attesa come se dovesse balzare attraverso una porta aperta”, come l’emersione violenta di una pallina di gomma prima tenuta ferma sul fondo di un
contenitore pieno d’acqua. Quella che riteniamo possa intendersi quale “matrice
della memoria collettiva”, e che è “abitudine” per Dewey, è esattamente “(…) una
particolare sensibilità o accessibilità a certe classi di stimoli, delle predilezioni e
avversioni [che restano] costanti(…)” (Dewey 1958, 49). Nel nostro caso, la matrice della memoria collettiva è il principio ordinatore mediante il quale acquisiscono senso e significato gli elementi che verranno a comporre la memoria collettiva.
È quella particolare sensibilità contenuta entro il codice genetico-culturale di un
popolo, è la traccia mnesica che permane, come nella metafora del “notes magico”, dove da un lato è possibile scrivere illimitate volte sulla pellicola mentre dall’altro tutti i segni restano per sempre incisi sulla tavoletta sottostante15 (Freud
1989, 63-68) e che è possibile ripassare infinite volte ancora. Il premier britannico
Winston Churchill diede una descrizione illuminante: “I Balcani producono più
storia di quanta ne possono digerire”. La “storia balcanica” ha una connaturata
propensione alla ripetizione?
Per un’altra “storia balcanica”.
L’accusa che Halbwacks muove con decisione alla “presunzione della storia” deriva dalla constatazione che, per necessità, questa tende ad epurare l’elemento
umano dal suo svolgimento per cui quel che resta è uno spettatore fuori dal
tempo e disumanizzato che sembra “(…) come quel personaggio di un’opera
buffa che esclama: ‘oggi comincia la guerra dei cent’anni!’” (Halbwachs 2001, 158).
L’attribuzione di rilevanza storica ad un dato avvenimento è sempre un’operazione ex-post che emerge dal “gusto estremo per lo studio dettagliato” (Halbwachs
2001, 160) che porta ad attribuire eguale importanza, nel segno dell’obiettività, a
qualsiasi fatto non facendosi carico, così, “(…) del punto di vista di nessuno dei
13
Un efficace panoramica
è quella proposta da
Yadin Dudai per il quale
l’espressione “memoria
collettiva” si riferisce a tre
entità: un corpo di conoscenze, un attributo e un
processo. Il corpo di
conoscenze è un tratto
caratteristico della cultura
degli individui che condividono alcune analogie e
che possono prendere
parte a diversi gruppi e
quindi a diverse memorie
collettive sulla base dell’occupazione, del luogo
di origine e così via.
L’attributo è il riassunto
totale e distintivo del passato del gruppo, es. il
ricordo di un incidente
aereo per i sopravvissuti.
Il processo è la dinamica
che interconnette l’individuo e il suo gruppo e
apre ad una influenza biunivoca, dove il gruppo
incide sulle memorie dell’individuo e questi può,
in diversa misura, incidere su quelle del gruppo
cui appartiene. (Dudai
2002, 51)
14
È proprio questa l’immagine dei Balcani che
più incontra consensi,
come spiega Maria
Todorova che riporta un
passo da “Inside Europe”
di John Gunter pubblicato nel 1914 e ripubblicato
nel 1940 “È un intollerabile affronto alla natura
umana e politica che questi piccoli paesi sventurati
e infelici della penisola
balcanica possano, e lo
fanno, avere contrasti tali
da provocare guerre
mondiali. Circa centocinquantamila giovani americani sono morti a causa di
un episodio avvenuto in
un fangoso villaggio primitivo, Sarajevo”, mentre
Harry de Windt proclamava che “la vita qui
[Montenegro] ha un valo-
105
n.17 / 2007
re basso, quanto in Cina e
in Giappone”. (Todorova
1997, 199)
15
Il notes magico permette ai segni tracciati
sulla pellicola superficiale
trasparente di essere cancellati, permettendo di rioperare sulla stessa
superficie senza necessariamente cambiare il supporto grafico. I segni
sono solo apparentemente cancellati di volta in
volta poiché essi rimangono pure impressi sulla
superficie sottostante al
primo strato di pellicola.
Al di sotto di questo strato restano delle tracce,
che nel tempo si stratificano e si confondono le
une con le altre. Le tracce
grafiche vengono paragonate da Freud alle impressioni ricevute dall'esterno
che si sono sedimentate
al di sotto della soglia
cosciente, la pellicola
sovrastante prende invece
il carattere della coscienza
percettiva. La distruzione
delle annotazioni già
prese in un dato contesto
psicologico è solo apparente: le tracce restano
ed è per questo che possono essere riportate alla
luce.
106
gruppi vivi e reali che esistono, o sono esistiti: per questi, infatti, al contrario, tutti
gli avvenimenti, tutti i luoghi e tutti i periodi sono ben lonta ni da ll’a vere la stessa importa nza , poiché non sono vissuti a lla stessa ma niera ” (Halbwachs 2001,
161 corsivi aggiunti). Conferire alla disciplina della storia il compito di dipanare il
“groviglio” della memoria balcanica implica la possibilità di sottrarsi alla domanda:
Cosa sono, dunque, i Ba lca ni? (Todorova 1997, 268). Se la domanda appare scontata è perché la risposta che notoriamente vi si accompagna è in rima con il senso
comune banalmente vigente, ovvero “tutto quello che c’è a Est” dell’Europa (sic),
che oggi è già in parte Europa (nel senso di “Unione”), in ogni caso, forse, non
sarebbe più nemmeno tanto corretto continuare a chiamarli “Balcani” quanto
piuttosto “Sud-Est Europa”, conferendo all’idea di Europa, in perfetta assonanza
con l’antropocentrismo vecchia maniera, il compito di definire una parte di
mondo in relazione alla posizione occupata rispetto ad un punto fermo e definito
(mettendo da parte, e a fatica, l’euroscetticismo dilagante).
Per trovare una risposta, poniamo una ulteriore domanda: essi sono Balcani oppure sono visti come Balcani? Tra “vedere come” ed “essere” Balcani corre la stessa
relazione che generalmente si individua nella relazione tra “interpretante” e “significato”: semplificando il discorso, “essere Balcani” ha a che fare con il significato,
il quale “(…)presuppone che esista un senso dei concetti autonomo e indipendente da coloro che li utilizzano, dai contesti in cui sono utilizzati e dalle teorie
con cui si interpretano quei contesti” (Gangemi 1999, 153-160), esaltando così una
relazione forte tra l’oggetto, il segno (o nome) e il significato autonomo ed indipendente dell’essere Balcani; “vedere come” ha a che fare con l’interpretante e
presuppone “(…) che non esist[a] alcun significato oggettivo (al massimo esiste
un significato consolidato dalla e nella tradizione), che tutti i significati sono sempre interpretati da chi li utilizza e che è l’interprete (…) a rivestire di significato i
concetti che utilizza perché l’uomo è, per sua natura, un animale simbolico”, dove
la relazione forte è quella tra, appunto, l’interpretante e il referente e, dall’altra,
l’interpretante e il significante.
Pure se non è disponibile, quindi, alcun significato oggettivo, non da meno i
Balcani si accompagnano ad un significato consolidato nella tradizione, e basterebbe “Balcani, la polveriera d’Europa”, “i Balcani segnano l’inizio e la fine del
secolo con una guerra”, e così via. Essi, quindi, “sono da vvero” Balcani. Questa
trasformazione del passato dei Balcani in un presente sempre ricorrente è un’operazione compiuta anche da Rebecca West nel suo studio, datato 1941, Bla ck
La mb a nd Grey Fa lcon , in cui chiarisce la ciclicità ricorrente di determinate assunzioni attraverso uno stile espositivo che non è esclusivo di quegli anni: Robert
Kaplan osserva che “Avrei preferito perdere il mio passaporto o i soldi invece della
mia copia ampiamente sfogliata e annotata di Bla ck La mb a nd Grey Fa lcon ”
(Kaplan 2000, 39). E infatti l’influenza del libro della West su Kaplan è manifesta.
L’incanto di Rebecca West per i Balcani è il prodotto della percezione di “(…) una
terra in cui tutto era [immediatamente] comprensibile”(West 1993, 1), atteggiamento che richiama quella “chiarezza beata” che Roland Barthes individua nel
mito, i cui effetti inducono “le cose a significare qualcosa da sole” (Barthes 1972,
142-43). I Balcani di Rebecca West sono un luogo in cui le persone agiscono entro
un dramma storico che ha luogo da secoli, un elemento che, secondo l’Autrice,
“impreziosisce” in qualche modo gli jugoslavi e consente, in un prolasso di significato, di identificare gli individui che di volta in volta compaiono sul palcoscenico
balcanico come gli interpreti della parte del Serbo, del Croato e del Turco entro
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
questa “recita a soggetto” che costituisce i Balcani. Così, per la West anche i commensali in un ristorante a Senj erano innanzitutto esponenti di un determinato e
determinabile gruppo etnico: quando un cliente ha esternato, gridando, le proprie
rimostranze per la “minestra fredda come l’acqua del mare”, la West ha capito che
“non stava lamentandosi della minestra. Stava gridando ai Turchi, ai Veneziani, agli
Austriaci, ai Francesi ed ai Serbi [nel caso fosse un croato] o ai Croati [in caso fosse
un serbo]. È stato un bene che abbia gridato” perché così ha reso giustizia alla
memoria dei suoi “antenati [che] sono sopravvissuti perché hanno avuto il potere
di gridare, rifiutando la minestra fredda”(West 1993, 128). Ancor oggi, i Balcani tendono ad essere percepiti come straordinariamente trasparenti, così coincidenti con
la loro essenza, così prevedibili e ad una dimensione, ovviamente quella balcanica.
Per la comprensione del fenomeno attributivo che innesca la “natura balcanica”
occorre un’indagine che parta dal nome. C’è un monte che separa la Bulgaria dalla
Romania, Aemus per i greci antichi e Ha emus per gli antichi romani che, per un’errata convinzione che ha resistito almeno fino al XVIII secolo, si riteneva fosse parte
di una catena montuosa che attraversava l’intera Europa, collegandosi alle catene
montuose europee in Croazia (Todorova 1997, 50-52). Sono i turchi a chiamarlo
Ba l-ka n , montagna generalmente ricoperta da foreste e difficile da attraversare ed
è dal 1827 che il nome Ba lka n iniziò ad essere utilizzato per indicare l’intera penisola, quando, come riporta la Todorova, Robert Walsh si riferì al fatto che i vescovi
nei Balcani erano pur sempre greci…(1997, 51). Ne “Immaginando i Balcani”,
Todorova traccia la genealogia del “Balcanismo” attraverso un’indagine sui racconti di viaggio di autori occidentali per ripercorrere le modalità con le quali il termine “Balcani” è stato costruito attraverso una connotazione negativa durante gli ultimi tre secoli. Todorova individua tre fasi dello sviluppo del “balcanismo”:
I Balcani vennero prima “scoperti” attorno alla fine del XVIII secolo dai viaggiatori occidentali. Benché questi primi resoconti occidentali sui Balcani contenessero
alcune inesattezze geografiche, lo stile utilizzato è principalmente classificatorio e
descrittivo;
Dopo una serie di guerre nei Balcani e con la prima guerra mondiale, i Balcani
divengono progressivamente oggetto “(…) di saturazione dell’appellativo geografico con tutti i sottintesi politici, sociali, culturali e ideologici, e dell’inizio dell’uso peggiorativo di ‘Balcani’”(Todorova 1997, 22-23);
Oggi il termine “Balcani” è stato quasi completamente dissociato dal referente e i
giornalisti e gli accademici utilizzano il costrutto “Balcani” come un potente simbolo collocato convenientemente fuori da qualsiasi contesto spaziale o temporale. “Balcanizzazione” ora indica generalmente la disintegrazione delle nazioni e il
possibile innesco di una spirale verso “the tribal, the backward, the primitive, the
barbarian” (Todorova 1994; vedi anche Iveković 1995).
Questi stereotipi balcanici si sono rinvigoriti nel corso dell’ultima guerra nell’ex
Iugoslavia, spesso definita la “guerra nei Balcani” malgrado il fatto che fossero
coinvolti soltanto gli stati dell’ex-Jugoslavia e che prima della guerra la Jugoslavia
fosse considerata come “la stella brillante” dell’Europa Orientale. Il metodo
archeologico di Todorova nello studio dei Balcani e del Balcanismo ha molto in
comune con il lavoro di Edward Said e le sue analisi in Orienta lismo. Said argomenta le modalità in cui “(…) la cultura europea ha saputo trattare - e persino
creare, in una certa misura – l’Oriente in campo politico, sociologico, militare,
ideologico, scientifico e immaginativo (…)” (Said 2002, 13) con i “discorsi”
sull’Oriente che lo hanno trasformato in “essenzialmente altro”, attraverso dico-
107
n.17 / 2007
tomie tessute su rappresentazioni stereotipiche funzionali a rinforzare l’immagine
dell’Occidente quale civiltà superiore. Todorova dimostra che un simile fenomeno
esiste fra i Balcani e l’Europa. Scrive: “Geograficamente inestricabili dall’Europa,
benché culturalmente costruiti come ‘l’altro’ al proprio interno, i Balcani (…) sono
stati in grado di assorbire un certo numero di frustrazioni poltiche, ideologiche e
culturali (…) che derivano da tensioni e contraddizioni proprie di regioni e società esterne ad essi”, e aggiunge: “I Balcani sono serviti da ricettacolo delle caratteristiche negative contro cui è stata costruita un’immagine positiva ed autocompiacente dell’’europeo’ e dell’’occidentale’” (Todorova 1997, 310).
L’Autrice sostiene che i Balcani sono una parte di Europa, anche se una parte provinciale o periferica e quindi il balcanismo origina da differenze interne all’Europa:
“La mia tesi sostiene che mentre l’orientalismo si occupa della differenza fra (supposti) tipi, il balcanismo affronta le differenze all’interno di un solo tipo” (Todorova
1997, 42), il tipo-Europa, meno propenso ad affrontare le proprie contraddizioni
interne di quanto non lo sia a proiettare la sua “metà oscura” sui vicini Balcani.
Il nome “Balcani” ha spesso indignato quanti ritenevano ingiusto e scorretto continuare ad indicare un’intera regione con un nome dato dai turchi a un monte di
poco conto, e non mancarono i tentativi di de-balcanizzare i Balcani, col chiaro
intento di “ripulire” l’immagine del referente per “sdoganare” il significato. Oggi si
preferisce, specie istituzionalmente, parlare di Sud-Est-Europa, che suona anche
come un auspicio e sprono per il raggiungimento di un obiettivo che dovrebbe
contribuire alla risoluzione dei problemi che, notoria mente, attraversano la regione. “Notoriamente”, proprio perché le memorie che hanno avuto un ruolo nei
paesi dell’ex-Jugoslavia non sono esclusivamente quelle autoctone: paradossalmente, un qualsiasi discorso sul ruolo e la valenza della memoria - intesa in senso
ampio - relativamente ai Balcani non è rilevante solo per la zona in questione se,
come in questo caso, l’interesse alla memoria è principalmente legato al ruolo giocato nella preparazione e conduzione del conflitto armato; ma è rilevante pure per
tutti quei soggetti che vi hanno preso parte a diverso titolo: le organizzazioni internazionali ed ogni specifica azione a queste riconducibile, le diverse ONG, organizzazioni internazionali di pace e di volontariato italiane, speso nate informalmente e con momenti fondativi che hanno inciso nel senso di cortocircuitare le
memorie dei Balcani con quelle sui Balcani: Luca Rastello lo spiega in “La guerra
in casa” dove racconta come il coinvolgimento personale, e della sua famiglia, nel
conflitto dell’ex-Jugoslavia è stato tale che sua figlia aveva imparato alcune parole
“(…) di una lingua che non esiste più, il serbocroato” (Rastello 1998, 3). Più avanti descrive la morte di Sergio Lana, Fabio Moreni e Guido Puletti, pacifisti volontari in missione il 23 maggio 1993 mentre, assieme ad Agostino Zanotti e Christian
Penocchio, cercavano di portare a Zavidovići un carico di aiuti e i documenti per
l’espatrio di decine di vedove con i loro figli che dovevano essere ospitate a
Brescia (Rastello 1998, 142 e segg.). Overla pping Histories sono storie sovrapposte che generano quelle memorie che Banasik e Pennebaker chiamano fla hbulb
memories, una mistura nella memoria di circostanze personali ed eventi storici,
quando la Storia fa da sottofondo agli “assolo” della vita personale svolgendo la
trama delle interconnessioni fra le diverse dimensioni della memoria (Banasik e
Pennebaker 1997, 4-5 e 35-40). Non ci si può sottrarre all’incombenza della memoria e non esistono mezzi o strumenti per poter classificare il valore di una memoria; a questo si aggiunge il riconoscimento risolutivo ed immediato delle memorie
altrui, il che testimonia le difficoltà presenti nel riconoscimento delle proprie:
108
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
quanti, infatti, all’indomani dello scoppio della guerra che ha coinvolto i paesi dell’ex-Jugoslavia, avranno potuto esimersi dal pensare “un’altra guerra nei Balcani,
un’altra scintilla nella polveriera d’Europa”? Tutti coloro che, con la West, “conoscono” la risposta alla domanda posta in apertura dalla Torodova. La memoria non
è un contenitore immutato ed indifferente rispetto al contenuto, che attinge
costantemente e in modo indefesso dal passato per pianificare il presente, quanto piuttosto il prodotto di un processo che risente dell’azione della matrice della
memoria collettiva e che si orienta in relazione alle diverse issues.
La “scena primaria” balcanica: tra monasteri, memorandum e fr a mes
In psicoanalisi la scena primaria rimanda all’origine delle pulsioni sessuali ma,
senza ribadire la congruità della coppia Eros-Tha na tos, in questo caso interessa la
parte che evidenzia come le fantasie legate alla scena primaria sono “(…) il prodotto dell’elaborazione e configurazione dell’evento vissuto attuate posteriormente nel ricordo” (Mertens e Haubl, 1996). È chiaro che le disposizioni interne
incidono sulla colorazione dell’elaborazione dell’evento e, come visto prima, chiameremo “sensibilità” balcanica, nell’accezione deweiana del termine, tale originale capacità di reazione a determinati stimoli. E questo reintroduce con prepotenza l’umano nella storia.
È plausibile pensare che si possano rintracciare nella storia dei Balcani avvenimenti che hanno contribuito alla strutturazione di questa matrice della memoria collettiva, “chiodi e tavole” reinventate che attendono una nuova organizzazione.
Quale che sia il materiale storico di queste “scene madri”, tuttavia, esso risulta da
un lavoro di selezione e ricostruzione che manca di oggettività, obiettività ed
imparzialità, tutti vizi che incideranno sul lavoro storico finale, precludendo un
confronto eventuale con le storie di altri paesi, e anche su chi questo lavoro lo fa:
“[Lo storico] anche quando scrive la storia del suo paese, si sforza di raccogliere
un insieme di fatti che potrà essere posto a fianco di un altro insieme, per esempio alla storia di un altro paese, in modo tale che non vi sia alcuna soluzione di
continuità, e che nel quadro complessivo della storia d’Europa si trovi non l’intersezione di più punti di vista nazionali sui fatti, ma piuttosto la serie e la totalità dei
fatti così come sono, non per il paese tale o per il gruppo tale, ma indipendentemente da qualunque giudizio di un gruppo” (Halbwachs 2001, 161).
Al fine di comporre una “nuova storia” gli elementi che componevano la vecchia
vengono selezionati, ristrutturati, enfatizzati, riconfigurati, e pure dimenticati. In
questo senso esiste un processo di autenticazione che gli storici compiono nella
ricomposizione dei nuovi eventi, al quale se ne affianca uno di de-autenticazione
di tutte le altre combinazioni possibili. Dimenticare non è mai un evento accidentale, ma può essere coscientemente indirizzato verso la negazione della cittadinanza ad ogni collezione di eventi alternativa a quella “ufficiale”. Rilevanza e irrilevanza non sono qualità in sé, sono costrutti e, quindi, strategici: i cicli, le ridondanze, i destini ineluttabili, la terra inzuppata di sangue e le torri di teschi non sono
certo appropriati per una ricostruzione propriamente storica, eppure sono “Solo
[le] parole che volano di bocca in bocca, leggende e canti, nei confini del paese
[che] tengono il popolo in vita”16. Parole, leggende, storie al plurale per un’audience composita con differenti sensibilità e una disponibilità ad ascoltare ed impa ra re differente da quella che potrebbe aversi da quanti studia no un manuale di storia. Prendiamo in considerazione le “storie” che seguono.
16
Grundtvig N.F.S.
“Budstikke i Høinorden”
citato in De Certeau 2001,
195.
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- Il monastero di Visoki Decani in Kosovo è letteralmente forgiato dalla memoria.
Tutti i giovedì i monaci di Visoko Decani si preparano per un rito che consiste nell’aprire il sarcofago dove sono conservate le spoglie mortali di Stefan Decanski che
fu re dei Serbi fino al 1331 quando venne ucciso, strangolato, dal figlio Dusan che
governò il glorioso impero per soli quattro anni, prima di morire (Judah 1997b,
23). I monaci raccontano che quando vengono esposti i resti di Stefan Decansky
in estate, la chiesa si riempie di un dolce profumo di rose. Questo non è importante storicamente, non spiega gli “accordi” di Dayton, nè il bombardamento del
ponte di Mostar, l’assedio di Sarajevo, il bombardamento di Belgrado. La domanda è: perché queste informazioni sono ancora oggetto di discussione? Chi le ha
selezionate? Chi ha definito rilevante il rito che ancora si celebra dopo quasi sette
secoli? Quel rito che sarebbe cessato per sempre senza l’intervento dei militari italiani che durante la guerra lo protessero dagli attacchi della resistenza nazionalista
albanese, segnando l’inizio di un sentimento di riconoscenza verso le truppe tricolori “(…) Noi non abbiamo brutte esperienze con loro. Le truppe dell’esercito
erano davvero amichevoli ma le ca micie nere erano aggressive” (Judah 1997a,
131). Si sarebbe potuto sentire un commento analogo da un monaco croato?
- Più di trentacinque anni dopo la seconda guerra mondiale morì Vitomir Janković,
un operaio, probabilmente un custode della città bosniaca di Odzak. La sua fama
era nota in città per la sua partecipazione ad un massacro di musulmani nel
novembre 1941 ed era stato accusato di aver fornito informazioni sui partigiani
qualche mese prima, ragion per cui non godeva della fiducia tra i suoi vicini serbi.
In virtù della sua notorietà, la notizia della sua morte si diffuse rapidamente e giunse a Sarajevo mentre vi era in visita Avdo Čelik. Avdo Čelik è il figlio di un musulmano vittima di Janković nel 1941; dopo aver sentito parlare di lui e della sua storia, acquista una cartolina e la invia alla famiglia Janković con una sola frase: “Le
mie congratulazioni per Vitomir Janković, morto come un cane”. Questo accadde
10 anni prima che Avdo ricevesse una risposta: “Cordiali Saluti”. Non scrisse altro
Mile Janković, figlio di Vitomir, il quale, all’inizio dell’escalation della guerra etnica nell’ex-Jugoslavia, aveva ucciso i cugini di Avdo vicino a Visegrad, gettando poi
i loro corpi nel fiume di Drina (Sudetic 1998, 52).
Sono storie, queste, che non fanno la Storia e non la cambiano. Sono storie che
non dicono nulla, spaccati di micro-realtà che possono ritrovarsi in diversi contesti ed assumere, o venire interpretati, secondo sensi diversi che predispongono a
significati diversi.
- Durante un’intervista a Sarajevo, un ricercatore italiano presso la facoltà di studi
islamici lamentava la mancanza di rielaborazione storica degli eventi che hanno
segnato i Balcani:
“(…)Qui la storia si fa con “la lista della spesa”. Hai la lista, prendi quello che vuoi,
o quello che devi, dipende da cosa devi legittimare in quel momento. Manca una
storia condivisa. Ce ne sono tre ma solo una ufficiale, che non considera nessuno
in quanto non vi ci riconosce nessuno, ma che funziona finché tutto quello che sta
intorno regge (…) Appena qualcosa scricchiola o si ferma allora emergono le vere
storie, quelle della gente che va in chiesa o in moschea, che usa l’alfabeto cirillico
o quello latino, che si ricorda l’importanza o la necessità di essere diversi. (…) A
Sarajevo non c’è un istituto di cultura. Ce ne sono tre. Devi andare in ognuno, sha kera re il contenuto e poi vedere quanto, ed è tanto, è frutto di invenzione. (…)
È facilissimo fare la storia, una storia che sia funzionale alla spiegazione di quello
che cade oggi e presumibilmente domani. Quando è morto Tito, nessuno ha par-
110
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
lato dello scioglimento della Jugoslavia, nessuno... neanche all’estero. (…)
Ricordo che il presidente americano (Clinton) arrivato in Slovenia salutava con
gioia “il popolo slovacco”. Slovacchia, Slovenia, Slavonia... che confusione!”.
Più avanti, aggiunge: “Una volta sono stato in un quartiere prevalentemente serbo
di Sarajevo, ospite di una famiglia che mi spiegava che l’intera loro esistenza si
svolge nella Repubblica Srpska a Lukavica, a tre minuti da qua, però dall’altra
parte. E loro la mattina escono di casa ‘in apnea’ nella valle e fanno tutto al di là:
scuola, lavoro, compere, tutto. E come vanno le cose a Lukavica [qua rtiere serbo
a Sa ra jevo]? Come in tutta la Repubblica Srpska, ha problemi enormi: 43% di disoccupazione, miseria e fame, sporcizia e disperazione (…) Ho amici sia serbi che
bosniacchi i quali mi consigliano o sconsigliano di visitare un luogo, a seconda che
il posto in questione sia in Bosnia o in Repubblica Srpska. Molti serbi a Sarajevo si
vergognano anche di passeggiare in centro…“
Innegabilmente questa serie di citazioni ha fatto precipitare il discorso verso toni
finora inediti. Probabilmente è l’umano che irrompe quando le storie che nessuno studierà restano a disposizione per essere imparate, raccontate ed ammantate
di veri o finti particolari che plasmano la sensibilità incidendo su quella forza “(…)
che sia prospettica, di qualità dinamica, pronta a manifestarsi apertamente” che è
l’abitudine. La risposta alla crisi della Jugoslavia potrebbe trovarsi in una più precisa definizione della “matrice della memoria collettiva”, anzitutto per esorcizzare
gli “Spettri dei Balcani” che solo inseguono la necessità di una spiegazione coerente e logica - e ad uso esterno dai Balcani, talvolta giustificativa nella politica interna - per quanto accaduto. A Sarajevo, Belgrado e Zagabria non ci sono più “spettri” di quanti ve ne siano alla stazione di Bologna, in piazza Fontana o a Manhattan,
sul muro di Berlino, in quello di Israele… Si cercherà di esaminare parte della letteratura attorno a questi ed altri fantasmi e sulle strutture della temporalità che
hanno consentito “apparizioni” e “sparizioni” spettrali. D’altro canto, come vedremo, l’ex–Jugoslavia non si discosta da una più generale “crisi di memoria” che
deve essere contestualizzata più specificamente sul problema dell’immaginazione
di un passato collettivo, delimitato nel tempo e nello spazio ma sempre strumento pronto a trasformarsi in “mezzo”.
La saga dei “Jankovićs” e “Čeliks” prima citata è parte dell’opera di Chuck Sudetic,
per il quale gli eccidi degli anni ‘90 hanno palesato “un culto dei morti, un mondo
dove le memorie e le storie per la notte hanno fuso la storia entro il proprio orizzonte” (Sudetic 1998, xxxi). Dal canto suo, l’Autore passa in rassegna un considerevole numero di altri osservatori bene informati per quali “i miti mortali” della
nazione serba o croata hanno costituito “la struttura profonda” della tragedia
jugoslava. Nel forse più completo resoconto sui serbi, per esempio, Tim Judah
rileva la natura seriale di “incendio dei villaggi, massacri e fuga” e struttura le sue
descrizioni come una serie di ripetizioni: 1804, 1876-78, 1912-13, 1941-45, 1991-95.
Judah insiste sulla forza dei miti collettivi e la vitalità delle memorie del gruppo:
con evidente approvazione cita Ljubomir Nenadović, scrittore serbo del diciannovesimo secolo: “Quando parlate con questa gente, avete l’impressione che la battaglia di Kosovo-Polje è avvenuta ieri” (Judah 1997a, 65). Commentatori perspicaci quale Roger Cohen, che segue la saga di numerose famiglie a Sarajevo; Marcus
Tanner, che ha condotto studi sulla Croazia; e Robert Kaplan, il cui titolo del libro
- Fa nta smi dei Ba lca ni - è un efficace sunto delle sue tesi, sottolineano ampiamente il punto di vista “esterno” secondo il quale persone comuni convivono
costantemente nella vita quotidiana con un “viscerale senso del passato”. E anche
111
n.17 / 2007
17
O “eterno ritorno” elemento portante della filosofia di Friedrich
Nietzsche. Il ragionamento che sta dietro al concetto di Nietzsche è che
dato un tempo infinito,
entro un sistema finito
ogni combinazione può
ripetersi infinite volte.
18
Nezavisna Država
Hrvatska, Stato
Indipendente Croato, era
il nome dello stato che
comprendeva la maggior
parte della Croazia durante la Seconda Guerra
Mondiale.
112
quanto gli osservatori stranieri abbiano utilizzato la chiave di lettura del passato
balcanico sempre ricorrente17, così come descritto da Rebecca West. I miti collettivi possono effettivamente modellare le identità sociali, ma non necessariamente
in regime di “stimolo-risposta”. Come lo scivolone della West al ristorante potrebbe suggerire, esistono pesanti ostacoli - e tranelli - di fronte al presupposto che gli
argomenti storici sono costantemente presenti e immutati entro le vetuste tradizioni collettive: la minestra, talvolta, è semplicemente fredda.
Srebrenica è un nome evocativo; non lo sono Bjelovar, 184 serbi uccisi dagli
Ustaša croati, 250 a Blagaj, 300 a Glina, 150 a Gacko, 1200 a Grabovac e i 20.000
serbi morti nei mesi estivi dell’anno 1941. Erano anni in cui la morte era un prodotto diffuso; Srebrenica è considerato invece il massacro più grande della storia
dopo la seconda guerra mondiale. Non c’è dubbio, commenta Marcus Tanner, che
la NDH18 “intendesse sterminare la popolazione serba e non vi è riuscito soltanto
perché non disponeva degli strumenti necessari” (Tanner 1997, 153), e se è vero
che non si processano le intenzioni, è pur vero che “dopo tutto, i serbi non sarebbero stati manipolati se non ci fosse stato materiale con cui manipolarli”, commenta Tim Judah (1997b). A questa interpretazione debole si potrebbe contrapporre quella forte di Schön e Rein i quali, per gli aspetti che in questa discussione
sono rilevanti, spiegano come il materiale per “manipolare” i serbi - ma non solo si è reso disponibile successivamente, piuttosto che essere già pronto, come conseguenza diretta di eventi determinati e determinabili. Partendo dall’assunto che
tutte le situazioni che possono ritenersi reali sono per ciò stesso complesse,
vaghe, ambigue ed indeterminate, Schön e Rein sostengono che, al fine di conferire un senso ad una situazione, è necessario definire le caratteristiche determinanti e le relazioni che intercorrono tra queste nella situazione in esame, pervenendo così alla costituzione di un “frame”, una cornice che è una struttura di credenza, di percezione e comprensione alla base di una posizione soprattutto politica (Schön e Rein 1994, 23). Al fra me viene affidato il compito di spiegare e si tratta di un “uso attivo” ovvero un uso che discende e dipende direttamente dall’atto
della sua creazione. Questi presupposti sono alla base della creazione di una storia - un’altra storia che spiega la prima - e che è il prodotto di una procedura di
selezione che viene definita di “na ming a nd fra ming” (Schön e Rein 1994, 26),
attuata a partire da una situazione problematica che è vaga, ambigua ed indeterminata, e portata avanti attraverso la selezione e nominazione delle caratteristiche
ritenute determinanti e che per questa via divengono ‘le cose’ della storia, ciò di
cui la storia tratta. A seguire, ogni storia colloca le caratteristiche che ha selezionato entro il fra me di un contesto specifico. Si tratta di un modus opera ndi che
Donald Schön racchiude in due sentenze chiarificatrici “I problemi non sono dati.
Essi sono costruiti dagli esseri umani nel tentativo di dare un senso a situazioni
complesse e tormentate” (Schön 1993, 144). Le osservazioni di Schön e Rein rendono disponibile una chiave di lettura particolarmente adeguata per il
“Memorandum dell’Accademia delle Arti e delle Scienze di Belgrado”, un prodotto dove si coniugano capacità di sintesi, dovizia di particolari, attenzione per il passato e proiezione sul futuro, attendibilità, prestigio e tempismo. Alla voce “memorandum” il dizionario della Garzanti del 1984 riporta quanto segue: “scritto in cui
sono ricordati a sommi capi i termini di una questione; libricino di note in cui si
segnano le cose da fare giorno per giorno, per non dimenticarsene”. Così, quando venne pubblicato nel settembre 1986 l’intero paese rimase perplesso non tanto
per i contenuti, già li viveva, quanto per il fatto che il memorandum aveva ordina-
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
to, dato senso ed inedita concretezza al sentire collettivo dell’epoca. Da questo
punto di vista il documento è un distillato del malessere serbo del quale
l’Accademia ha sentito il dovere morale di rendersi interprete, producendo un
documento che fosse da monito e da guida: “Nessuno ha il diritto di chiudere gli
occhi davanti a quanto si sta verificando e su quanto potrebbe accadere. In particolare non ha questo diritto l’istituzione scientifica e culturale del popolo serbo”19
e non dello stato serbo. Il documento si concentra sui maggiori problemi che ora
necessitano di essere nominati ed inseriti in un fra me - che contenga anche un
conseguente ed implicito aspetto normativo -: crescita economica, disoccupazione, relazione con le altre entità della Federazione nei confronti della quale la
Serbia viene presentata in regime antagonistico: “(…) il ritardo relativo della
Serbia è in primo luogo il risultato di un debole tasso di investimenti per abitante
e non di una minore efficienza degli investimenti (…)[che] nel corso dell’ultimo
decennio è stata la più elevata in Jugoslavia”. Un popolo virtuoso che fa tanto con
poco, che non si è mai tirato indietro davanti ai richiami della Storia ma che è stato
guidato da leaders miopi ed inetti: “Le concessioni che molti leaders serbi hanno
fatto a spese del loro popolo non sarebbero state accettate storicamente ed eticamente da nessun’altra nazione al mondo, soprattutto perché i serbi non hanno
mai, nel corso della loro storia, conquistato e sfruttato altri popoli” dirà Slobodan
Milosević20 il 28 giugno del 1989 nel discorso di Kosovo-Polje. Tim Judah (1997a)
inserisce nel suo libro una foto scattata quel giorno: alle spalle di Milosević campeggiano due date a caratteri cubitali, 1389-1989. Sembra quindi una finzione narrativa l’inizio del suo discorso quando afferma che “Oggi è difficile dire quale sia
la verità storica sulla battaglia del Kosovo e cosa è leggenda. Oggi non è più importante. Oppressi dal dolore e pieni di speranza, i popoli ricordano e dimenticano e,
dopo tutto, tutti i popoli del mondo fanno lo stesso”. Ma non tutti i popoli hanno
combattuto la battaglia di Kosovo-Polje. Il Memorandum, invece, non fa alcun riferimento al mito: non si parla di “Grande Serbia”, né di Lazar, o di Miloš Obilić21.
Consoni al ruolo che ricoprono, sottolineano che l’economia serba fornisce “l’immagine di una economia dipendente e trascurata nel quadro dello spazio jugoslavo”. Le ragioni? Nella passata gestione del “Kominterm autoritario [e nella] giustificazione ideologica dell’opporre la nazione serba ‘oppressiva’ alle altre nazioni
‘oppresse’”. Definito il problema, ergo la soluzione. Le cause individuate si configurano esterne alla Serbia, presuppongono un’interazione monca dove una parte
- quella serba - virtuosa, aperta al dialogo, rappresentata da leaders incapaci e
costretta a fronteggiare tutte le dinamiche implicite nella dizione “nazione serba
oppressiva” si contrappone ad un “altro” generalizzato ed indefinito ma sempre
pronto ad ordire un complotto. Come accadde, ad esempio, nell’errata valutazione della situazione economica, quando “un semplice colpo d’occhio agli indicatori di base del livello di sviluppo del 1948 [avrebbe confermato che] la Serbia non
aveva goduto di una situazione economica privilegiata nel periodo fra le due guerre”. Ma l’errata valutazione ancora pesa, perché “diventa” la causa selezionata per
ordinare la situazione attuale. È innegabile la presenza di un complotto architettato ai danni della Serbia al fine di “inculcare nel popolo serbo un sentimento di
colpa che controbilanciasse la sua resistenza al dominio politico ed economico cui
veniva sottomesso”. Quest’ultima è una metafora generativa à la Schön: come
arriviamo a vedere le cose in modo nuovo? Anche la battaglia di Kosovo-Polje che
vide i serbi opporsi all’invasione turca, così come ora li vede opporsi al dominio
politico e, come contrappasso dantesco, l’interiorizzazione della colpa conse-
19
Tutte le citazioni che
seguono sono tratte dal
“memorandum” ove non
specificato diversamente.
20
Il testo completo del
discorso di Slobodan
Milosević è consultabile
sul sito www.trepca.net,
indirizzo completo nella
bibliografia.
21
Mitico eroe serbo che
durante la battaglia di
Kosovo-Polje del 1389
uccise il sultano turco
Murad, vedi Hösch 2005,
73. Noel Malcolm, invece,
nutre forti dubbi sulla serbità dell’eroe mitico,
avanzando l’ipotesi di
discendenza ungheresi o
albanesi. Cfr. Malcolm
1999, 104-107
113
n.17 / 2007
guente all’atto. La metafora del sacrificio martirologico di Lazar che rinuncia ad un
regno terreno per la conquista ultraterrena non passa per la trama del
Memorandum, ovvero, il senso di colpa non ha ragion d’essere perché la resistenza al dominio politico – o all’invasione turca – è elemento di pregio che contraddistingue il popolo serbo, da sempre. Il mito c’è nel Memorandum, è un
fra me elaborato in seconda battuta che supporta e conferma quello principale.
Notare, peraltro, i tanti riferimenti a caratteristiche della personalità individuale,
piuttosto che ad una ipotetica collettiva. Ragionando a contrario, “Non si vede
come la mentalità collettiva possa significare qualcosa di più che un costume portato in qualche punto fino al grado di coscienza esplicita ben rilevata, emozionale
o intellettuale” (Dewey 1958, 67), anche se esistono riserve sull’accettare un
costume collettivo come la rappresentazione diffusa di un costume individuale, in
nota Dewey precisa che “(…) i capi di un’organizzazione (…) possono, allo
scopo di far trionfare certi progetti, ricorrere deliberatamente a stimoli che spezzera nno la crosta del costume ordina rio e sfreneranno gli impulsi su tale scala
da generare una psicologia di folla” (corsivi aggiunti) e prosegue “(…) vaste ondate di emozione travolgono le masse”. Trattando di memoria collettiva, non potremo evitare di parlare delle ‘vaste ondate di emozioni’ proprie delle folle. Che si
distinguono dalle reazioni individuali non semplicemente moltiplicando il singolo. Come Gustave Le Bon (1970, 90-98) precisa, la folla tende a “diluire” quelle
connotazioni specificatamente umane che caratterizzano l’individuo: analisi, ponderazione, elaborazione di una soluzione, sono fattori che tendono a zero in situazioni di crisi collettiva. È come se si demandasse agli altri parte della responsabilità sul “che fare”, oppure, come se la semplice osservazione del comportamento
altrui costituisse un rinforzo circa la congruità delle proprie reazioni. Il conformismo ha una netta rilevanza in queste dinamiche. Rispetto al singolo, la folla si contraddistingue per i seguenti fattori (Delumeau 1979, 26):
- influenzabilità;
- carattere assoluto dei suoi giudizi;
- rapidità della propagazione dei “contagi”;
- riduzione del senso personale di responsabilità;
- capacità di conversione repentina dell’atteggiamento: una folla acclamante il leader, facilmente si trasforma in una folla inneggiante l’eliminazione fisica della
minaccia (del leader).
A questi fattori si accompagna la seguente considerazione: mentre le paure collettive appartengono ad un genus che può essere mutuato dagli individui singoli,
nel senso che le paure collettive possiedono la “dimensione del singolare”, non è
vero che le paure individuali possono integralmente - e contemporaneamente essere collettive. La paura di una catastrofe naturale, di un’invasione, di un’epidemia, di una recessione economica, ad esempio, sono paure bi-dimensionali; la
paura delle reazioni del proprio datore di lavoro, la paura della velocità, dei ragni,
di essere scoperti in flagranza di infedeltà dal proprio partner, sono esempi dei
limitati e personali scenari di paura che, peraltro, possiedono una dimensione
temporale ben definita. La paura collettiva va intesa come “l’abitudine posseduta
da un gruppo umano di temere questa o quella minaccia, reale o immaginaria”
(Delumeau 1979, 26).
“Abitudine” non deve intendersi come “tendenza”, anche seguendo Dewey, ma
come esposizione a stress emozionali ripetuti, aggressioni psicologiche che hanno
desensibilizzato il gruppo umano, che hanno modificato sensibilmente - accor-
114
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
ciandoli - i suoi tempi di reazione alla minaccia, ovvero, l’hanno a bitua to ad aver
paura. Il fatto che l’abitudine abbia ad oggetto una minaccia reale o immaginaria,
però, contravviene alla definizione di “paura” fornita da Freud, che presuppone la
definizione dell’oggetto di cui si ha paura. La sensibilizzazione del gruppo alla
minaccia, e l’indefinitezza di questa, trasforma la paura in a ngoscia : uno stato di
tensione caratterizzato da inquietudine, ansietà, depressione, sensazioni che vengono originate dalla percezione di un pericolo non conosciuto, non presente, non
nominato eppure così “reale”. L’angoscia, a differenza della paura, è prettamente
umana: la sua presenza presuppone una memoria collettiva - vissuto - e previsionalità: “(...) l’uomo reagisce a una situazione critica in funzione del suo vissuto
anteriore e dei suoi ricordi” (Delumeau 1979, 28).
La mancanza di precisi riferimenti oggettivi rende l’angoscia più insopportabile
della paura; l’incapacità di individuarne la causa la trasforma in un sentimento di
insicurezza globale in cui l’immaginazione svolge una parte di rilievo.
“Immaginazione” non come “invenzione”, ma come modalità di recupero di elementi comuni a situazioni ed eventi già vissuti (spesso subìti) dal gruppo sociale,
che richiama “evocazione”; elementi che contribuiscono a “completare il quadro”
in modo forzoso attraverso simboli - trasfigurazioni - il cui significato è un prodotto culturale comune.
Nel fare questo gli individui trasformano il sentimento di angoscia generalizzata ed
indefinita - nevrotica - in paure precise di qualcosa o di qualcuno, è sufficiente che
sia “ben definito”. E gli accademici di Belgrado, appunto, “scrostano” la patina di
angoscia diffusa ed inspiegabile che affigge il popolo serbo e definiscono le cause
che normalmente sfuggono all’”uomo della strada”. Il bisogno da soddisfare è
quello di ottenere un quadro esaustivo e coerente della situazione, una cristallizzazione discorsiva della Serbia che addomestichi il caos di risentimento e frustrazione dilaganti assieme ad un indefinibile “sentimento di colpa”. Oltre alla possibilità di rispolverare il richiamo al martirologio sopito nel “(…)popolo serbo,
costantemente accusato di essere ‘oppressore’, ‘unitarista’, ‘centralista’, ‘poliziotto’, [che] non ha potuto ottenere diritti uguali a quelli di tutti gli altri popoli della
Jugoslavia, paese per il quale ha sopportato i maggiori sacrifici”. Ingratitudine,
fraintendimenti, etichettamento, e non basta, perché è evidente una “coalizione
antiserba” che resiste malgrado il paese abbia “(…) con il suo contributo, aiutato
lo sviluppo delle regioni sottosviluppate mentre si assumeva il fardello delle regioni sviluppate (…) la Serbia si è scontrata con l’incomprensione delle une e delle
altre”.
La foto accanto riproduce
forse il dipinto più popolare
della Serbia ad opera di
Uroš Predić, che fu membro
dell’Accademia di Belgrado.
Il dipinto fu portato a compimento nel 1919 ed il
nome è “la ragazza del
Kosovo”. Tiene amorevolmente la testa di Lazar
morente e gli porge del vino
con una coppa d’oro, sullo
sfondo della battaglia di
115
n.17 / 2007
22
Un’altra interpretazione atribuisce alle Quattro
lettere il significato di
“Sveti Sava - Srpska Slava”
ovvero Santo Sava, patrono della Serbia. Ma le
notizie non concordano.
116
Kosovo-Polje del 1389. E in Kosovo ci sono i giacimenti minerari più importanti di
tutto il Sud Est Europa (Malcolm 1999, 33-34). È interessante notare il senso di
beata rassegnazione del viso della ragazza. Sembra l’incarnazione della certezza
nell’ineluttabilità del destino, nella necessità del sacrificio perché, come ricorda
Tim Judah, “È meglio morire in battaglia che vivere nella vergogna”. Anche nei toni
del Memorandum aleggia una sorta di strana rassegnazione, la constatazione distaccata che le cose vanno così com’era prevedibile che andassero. La sindrome
dell’incompreso: “La voce di un elettore serbo vale meno di quella dell’elettore di
una qualunque delle altre repubbliche o province autonome”, la Vojvodina e il
Kosovo. Le quali sono potentemente autonome, nel senso che, pur avendo un
numero inferiore di rappresentanti negli organi della federazione, esse “compensavano queste carenze col fatto che, tramite l’Assemblea Repubblicana, possono
intervenire negli affari interni della Serbia nel senso stretto del termine [senza province] mentre le loro Assemblee sono del tutto autonome”. Soffre la Serbia a constatare che il grado di autonomia delle province è così elevato che quasi sono
repubbliche anch’esse: riconosce che ci sono state forti tendenze separatiste ma
queste non avrebbero avuto seguito se “non avessero ottenuto il sostegno morale e politico delle repubbliche nelle quali le tendenze separatiste non sono mai
scomparse”. Che dire riguardo al “sostegno morale”? Che man mano che il discorso scende sui particolari, gli stati antropomorfizzati hanno bisogni umani,
paure umane, risentimenti, rancori. Ovviamente è una forzatura, ma è indubbio
che l’Accademia conoscesse perfettamente le “corde” del Paese: così come questo
documento non suscita le stesse riflessioni indipendentemente da chi lo legge,
così il richiamo subliminale che è racchiuso in questa precisa sequenza di argomenti era potenzialmente in grado di smuovere esattamente le persone cui era
rivolto. Per quelli che non hanno ancora capito, Само Слога Србина Спасава
(Sa mo Sloga Srbina Spa sa va ), cioè, “solo l’unità salva i serbi”, è ciò che significano le quattro “C” della croce tradizionale serba22. “Se abbiamo perduto la battaglia
fu non solo per la superiorità sociale e militare dell’impero ottomano ma anche
per la tragica disunità della leadership dello stato serbo dell’epoca” ricorda e precisa Milosevic. Nel lontano 1389 esattamente come ora, ricordano all’Accademia,
“Gli avvenimenti in Kosovo alla fine degli anni sessanta mostrarono a che punto si
può arrivare quando l’autonomia viene accresciuta”, forze cospiratrici cercano,
“seminando disinformazione, di dividere il popolo serbo in ‘serbi di Serbia’ e ‘serbi
al di là del fiume’”. E proseguono con l’accusa di aver aiutato le nuove province
autonome a comportarsi come entità federali “(…) dimenticandosi che sono parti
costitutive della Repubblica di Serbia”. Sfugge, ma è una svista voluta perché parte
integrante del fra me, un’analisi sui motivi per cui i le province autonome si
“dimenticano” di essere parte della Serbia. Per il Kosovo sono chiare le spinte
autonomiste degli albanesi, per la Vojvodina nell’era avanzata dell’espansione
asburgica a sud-est, le famiglie dei magnati austriaci e magiari avevano accumulato una considerevole proprietà latifondista fino al punto che, nel 1945 anno della
riforma agraria, il 41% delle terre Jugoslave espropriate appartenevano alla minoranza tedesca presente e fiorente soprattutto in Vojvodina che venne successivamente deportata attraverso rappresaglie e sfollamenti e rimpiazzata da immigrati
serbi (Hösch 2005, 205 e 252). Tim Judah precisa che si trattava di circa 350.000
tedeschi sfollati e rimpiazzati da serbi bosniaci e croati (Judah 1997a, 154). Come
può la Vojvodina “dimenticare” di esser serba? Ancora, la personificazione delle
entità territoriali è stupefacente. In un crescendo di astiosità e dimenticanze stra-
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
tegiche incompatibili con il fra me che va costruendo, l’Accademia prepara il colpo
finale, l’argomento che pone una pesante ipoteca sull’eroismo e soprattutto sulla
memoria di Miloš Obilić che scambiò la sua vita col sultano Murad: “L’espulsione
del popolo serbo dal Kosovo è la testimonianza spettacolare della sua sconfitta
storica”. A cosa è servito perdere Lazar? Meglio la morte che la vergogna, ma i vivi
dovranno vergognarsi fino a quando non capiranno che “il destino del Kosovo
resta una questione vitale per il popolo serbo tutto intero”, compresi i figli di quelli che persero in Kosovo per mancanza di unità e che ancora oggi, divisi, assistono impotenti davanti al ripetersi della storia. Basterà la propensione serba al martirio a sopire gli animi? Le forze politiche serbe “organizzate hanno compiuto una
rivoluzione in condizioni pressoché impossibili sotto il giogo del nemico più
potente del secolo [il Reich]”: l’accento è su “organizzate”. Ora non lo sono più e
non capiscono che devono rispondere “a una guerra aperta nel solo modo appropriato: con la difesa risoluta del popolo e del territorio”. Saltato il confine tra pensiero e azione, l’Accademia si erge in una dimensione a-temporale e a-storica e si
rivolge alla “sensibilità” del popolo serbo che conosce benissimo, fornendogli il
progetto per completare la cassetta di Dewey: chiodi e tavole ce ne sono a sufficienza. Anche fra mes.
Ancorati ad un Ricor do
Il Memorandum dell’Accademia colpisce per il suo ricercato equilibrio tra emozioni e dati, tra riletture del passato e consegne per il presente. Poggia su una ricostruzione storica ed analitica degli eventi ma tra le maglie scivola quello che abbiamo definito un richiamo subliminale che non è mirato ad un impatto puramente
razionale.
La materia prima della memoria è il ricordo, e la radice prima del termine “ricordo” è cor -cordis, che indica il cuore, e il cuore ha ragioni che la ragione non conosce, ricorda Blaise Pascal. Difficile mettere in discussione il potere di un ricordo,
anche quando questo è falso. Fa lse memories è la dizione inglese per “ricordi
apparenti”, detti anche “falsi riconoscimenti”. Ricordare è riconoscere, conoscere
di nuovo: nel caso dei ricordi apparenti23, tuttavia, tale riconoscimento è falso e
viene percepito come vero dal soggetto in quanto avviene in condizioni di supposta certezza del ricordo, così da ammantarli dell’attributo di veridicità. Una condizione necessaria, ma non sufficiente, per aversi una fa lse memory è la plausibilità del ricordo, ovvero, esso deve “rimare” con l’insieme dei ricordi che costituiscono la memoria. Un ricordo apparente è, quindi, il prodotto di fattori interni ed
esterni all’individuo. Tra quelli esterni vi è l’opinione di una figura autorevole, la
ripetizione dell’informazione con qualunque mezzo e attraverso qualsiasi forma, la
condivisibilità dell’evento “ricordato” con altri soggetti - e che verosimilmente
sono esposti ai medesimi stimoli24. Un falso ricordo, quindi, non deve necessariamente essere il prodotto di un singolo a suo uso e consumo, ovvero: nel tranello
della memoria (spesso) ci si cade in compagnia. Ciò detto, pur nella sua intrinseca fragilità epistemologica, il ricordo è comunque “nostro”, e quindi l’attendibilità
e soprattutto la veridicità – vera o presunta – hanno una rilevanza limitata rispetto alla sua capacità di spiegare, di mettere ordine tra altri eventi – pure questi
ricordati – e anche di mantenere quella “condizione di equilibrio” che è il presupposto minimo per conservare una soddisfacente salute mentale. Ora, il ricordo è un segno che tende a restare, ma non come resta la cicatrice di una ferita chi-
23
Vedi voce “ricordi
apparenti” in “Dizionario
della memoria e del ricordo” op. cit.
24
Scrive Dewey: “Spesso
si immagina che le istituzioni, il costume sociale,
l’abitudine collettiva, si
siano formati per consolidamento delle abitudini
individuali. Per la maggior
parte dei casi la supposizione è di fatto falsa. In
molti casi, i costumi, o le
uniformità di abitudine
largamente diffuse, esistono perché gli individui si
trovano di fronte alla
medesima situazione e
reagiscono in modo simile” (Dewey 1958, 65).
117
n.17 / 2007
25
Il riferimento è a
Hobsbawm nell’introduzione a “L’invenzione
della tradizione”
(Hobsbawm e Ranger
1987, 3)
26
L’intera opera di
Halbwacks richiama l’elemento sensibilità, quale
tratto della matrice della
memoria collettiva. Per
serbare un ricordo, perché la testimonianza non
sia un elemento completamente avulso dalla
nostra memoria, è necessario che un individuo
conservi l’abitudine e la
facoltà di pensare e ricordare “(…) in quanto
membri del gruppo del
quale facevamo parte
insieme ai testimoni, cioè
ponendoci dal suo punto
di vista, e facendo uso di
tutte le nozioni comuni ai
suoi membri” (Halbwacks
2001, 83)
27
Tra storia e memoria vi
è una relazione discorsiva
che le congiunge ma, precisa Halbwacks “Fra il
viaggiatore e il paese
attraversato non ci sarà
vero contatto”
(Halbwacks 2001, 127). La
memoria autobiografica
(il viaggiatore) si appoggia a quella storica (il paesaggio) in virtù della sua
appartenenza, ma si tratta
di una differenza di “densità”, dove la storia è il
riassunto sintetico e la
memoria un racconto
denso e continuo. La storia non è la somma degli
accadimenti ma un discorso sulla conoscenza di
quanto è accaduto. In
questo senso, come disciplina universitaria autonoma dal XVII secolo, la storia si studia e la memoria,
in quanto passato “abitato” si impara. Vedi anche
“Dizionario della memoria e del ricordo”, op.cit.
118
rurgica: “bruciature”, “ferite”, “scottature”, sono metafore che rinviano anche ad
un avvenimento passato, un’esperienza, un ricordo che ha segnato l’esistenza, che
ha impresso una svolta, che ha contribuito e contribuisce alla costituzione originale dell’irripetibile unicità dell’essere umano. Percorrendo la metafora, ciò che
caratterizza il segno del ricordo, e la memoria nel suo insieme, riguarda la “mobilità dei punti di sutura”, vale a dire, l’apertura del ricordo alla possibilità di essere
il prodotto di un’operazione di costruzione e/o ricostruzione o “invenzione”25.
La memoria si costituisce in ricordi e questi hanno una propria ed implicita connotazione affettiva e sensibile. La traccia dell’avvenimento passato di cui tratta
Halbwacks26, quindi, è ben più ed altro di una semplice constatazione meccanica
dell’effettiva datità di un evento, quale potrebbe essere lo spasmodico ricorso a
testimonianze ufficiali e/o l’ostinata ricerca di fonti storiche reputate inoppugnabili: è necessario “credere” nel ricordo, “sentirlo” attraverso codici che sono sufficientemente distanti dalla quelli della verità scientifica. Che non potrebbero esserlo nel caso in cui vi fosse una relazione precisa tra memoria e storia. Per avere solo
un’idea della relazione27 tra i due fattori, utilizziamo la traduzione inglese del termine “studiare” che scinde i due aspetti in to study e to lea rn : la storia si studia,
la memoria si impara. Così come si impara ad andare in bicicletta, e non lo si scorda più, così si studiano i nomi dei sette re di Roma, e li si dimenticano. Non si
impara la medicina, la si studia, mentre si impara a cambiare la gomma dell’auto
ma non l’io kantiano e anche il significato del séder , il banchetto ebraico, si impara. Un esempio della sovrapposizione tra storia e memoria è il caso di quelle che
Banasik e Pennebaker chiamano fla hbulb memories (Banasik e Pennebaker 1997,
4-5 e 35-40), una mistura nella memoria di circostanze personali ed eventi storici,
quando la Storia fa da sottofondo agli “assolo” della vita personale svolgendo la
trama delle interconnessioni fra le diverse dimensioni della memoria28.
L’idea di ciclo storico, come la Todorova ha messo in allerta, è perfettamente sovrapponibile all’immagine dei Balcani. Un ciclo deve avere un inizio. Nella formazione ed
esistenza di un ciclo la memoria svolge un suo ruolo duplice, garantendo le condizioni per il suo innesco [memoria come dispositivo] e il suo sostentamento [memoria come riconoscimento d’appartenenza, formazione di identità]. Alcune delle
memorie in gioco hanno precisi quanto deformanti punti di contatto con eventi storici, altre sono state forzatamente familiarizzate, altre ancora sono il prodotto dell’elaborazione del mito ma si tratta comunque di ricordi di dolore e di aggressioni (BetEl 2002, 206-222). E cosa importa se si tratta di accadimenti di diversi secoli addietro, se comunque l’effetto di quegli accadimenti ancora influisce e indubbiamente
influirà sul futuro nei secoli? “In quale punto della storia dovrebbe iniziare la cronaca del conflitto fra serbi e albanesi per il Kosovo?” si chiede Zerubavel (2005, 11):
compatibilmente con la disponibilità degli archeologi e dei finanziatori di continuare a cercare. Almeno fino a quando al carbonio14 non si sostituirà un nuovo metodo per la datazione dell’ultima moneta, dell’ultima iscrizione, dell’ultimo manufatto.
Zerubavel chiama “battaglie mnemoniche” tutte le ricostruzioni del passato che,
lungi dall’essere oggettive e funzionali per capire chi-ha-iniziato-cosa29, riescono solo
a dimostrare che non tutti ricordano allo stesso modo, pur trattandosi degli stessi
eventi e che “(…) l’acquisizione delle memorie di un gruppo, e quindi l’identificazione con il suo passato collettivo, fa parte del processo di acquisizione di ogni identità sociale, e far familiarizzare i membri con quel passato è lo sforzo principale di
una comunità per assimilarli” (Zerubavel 2005, 14 corsivi aggiunti). Quindi non si
tratta di un passato ma di molteplici, uno (solo?) per ciascun gruppo nazionale: i
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
croati nel passato dei serbi e dei bosniacchi30; i bosniacchi in quello dei croati e dei
serbi; i serbi in quello dei croati, dei bosniacchi e dei kosovari albanesi; i kosovari
albanesi in quello dei serbi. Questo incrocio di relazioni evidentemente è solo una
ricostruzione ex-post della storia degli eventi e trasferisce la sua artificiosità alla formazione delle memorie dei gruppi nazionali coinvolti.
Anche le memorie collettive internazionali giocano un ruolo importante, non solo
quelle autoctone. Non è possibile sottrarre l’influenza internazionale dalla modellizzazione dell’ultima guerra balcanica: l’immediato riconoscimento dell’indipendenza della Slovenia nel 1991 ha preparato la scena per quanto è poi avvenuto. Gli
accordi di Dayton nel 1995 hanno generato, più che una pace tra i contendenti,
una situazione preparatoria di non-guerra “conclusa” nel 1999 con il conflitto in
Kosovo. Evidentemente, la guerra non ha portato alla risoluzione dei motivi che
l’hanno scatenata e, ammesso che essi fossero riconducibili ai “tipici rancori e odii
balcanici”, la non-guerra sembra più che altro un momento di restaurazione della
“polveriera balcanica”.
[Intermezzo] “Bure ba ruta ” in serbo-croa to-bosnia co significa “La Polveriera ”,
è il titolo di un film di Gora n Pa ska ljevic costruito come un schizofrenico puzzle metropolita no vissuto nell’a rco di una sola notte, in una Belgra do sma rrita
nella violenza successiva a i conflitti degli a nni ‘90. La scena si gira su un a utobus, dove i pa sseggeri a spetta no pa zientemente che l’a utista finisca il suo ca ffè
per pa rtire con 15 minuti di rita rdo. Uno di questi, un ra ga zzo, prende spunto
da questo ma lcostume per urla re la sua persona le interpreta zione “Si ricorda
signora com’era sotto i turchi?” “Come fa ccio a sa pere com’era sotto i turchi?”
“Come fa a sa perlo? Fa cile, ci ha nno domina to per 500 a nni” “È vero, ma non
ero na ta a quell’epoca ” “Allora pa rlia mo dei crucchi” “Non me li ricordo proprio i crucchi” “Non ricorda nemmeno quelli? Anche di questa guerra si è
dimentica ta , vero? Il problema è questo…nessuno ricorda niente, qui. Mi pa re
chia ro che a vete bisogno di un’a ltra guerra ”.
Ricordare e dimenticare non sono antitetici ma si confermano vicendevolmente.
L’oblio non è la perdita del fatto in sé, il puro accadimento, quanto piuttosto la
perdita della rielaborazione che del fatto si è compiuta. Non si ricorda tutto, non
si dimentica tutto: così come c’è una selezione e una rielaborazione che consentono all’evento di diventare parte della memoria, così anche l’oblio è selettivo:
“Dimmi cosa dimentichi e ti dirò chi sei”, azzarda Marc Augé (2000, 30).
I serbi non poterono certo dimenticare “le ragioni” del millenario vittimismo in
occasione dell’espulsione e delle uccisioni dei serbo-croati nella regione della
Krajina nel 199531; mentre l’immobilismo della scena internazionale durante l’assedio di Sarajevo ha indotto una reazione più solerte [e azzardata] delle forze
internazionali in Kosovo. Ciò che forse avvenne per l’uso incondizionato e criminogeno di immagini deformate della storia ebbe un decennio di conflitti per riassestarsi e ri-orientare, ma non dissolvere, l’arsenale immaginifico. Il primo
momento di coagulazione della memoria nei Balcani è, ovviamente, la battaglia di
Kosovo-Polje del 1389. Nonostante Milosević, come già visto, abbia cercato, non
volendolo, di ridimensionarne la portata mitica, in realtà ha solo provveduto a
togliere la polvere di 600 anni di storia, attualizzando non la battaglia in sé – chi
ha perso, chi ha vinto – quanto il messaggio dell’importanza, vitale per la Serbia,
di riconquistare l’unità. Ma c’è anche un messaggio più profondo e totale, quello
che profetizza la dissoluzione irreversibile della federazione jugoslava:
“Sei secoli dopo, la Serbia eroicamente difende se stessa nel Kosovo, ma difende
p. 552-53 e Assmann
1997, 17-20.
28
É l’esempio narrato
con maestria nel film,
composto da un insieme
di ‘corti’ e di cui quello
riportato è girato da Sean
Penn, dal titolo “11
Settembre 2001”: un
uomo anziano, in un
appartamento molto
buio. Sul letto, riposti con
cura infinita, alcuni vestiti
di donna, sono quelli di
sua moglie. L’intero
appartamento è un mausoleo in memoria della
compagna di una vita. Ci
sono dei fiori ormai
appassiti sul davanzale di
una finestra che resta
comunque in ombra.
D’un tratto la stanza si
inonda progressivamente
di luce intensa, inedita,
inaspettata: crollando,
una delle due torri lascia
passare la luce del sole.
29
“Words of the past
became weapons of war”
(Bet-El 2002, 206)
30
“Bosniacchi” è la trasposizione italiana del termine inglese “bosniaks”
che indica il cittadino di
Bosnia-Herzegovina di
religione musulmana.
31
Tra il 4 e il 6 agosto
1995 si effettua l’operazione “Tempesta”, in
croato Oluja. I croati conquistano la Krajina,
costringendo 170.000
serbi alla fuga. Hösch,
p.390
119
n.17 / 2007
32
Questa parte del discorso, introvabile altrove, è
riportata da Tim Judah
1997a, 29
33
“The here-and-now,
which as the model of
messianic time, summarizes the entire history of
humanity into a monstrous abbreviation”
(Benjamin 1999, 246)
120
pure l’Europa. La Serbia fu, in quel tempo, il bastione che difese la cultura europea, la religione e la società in generale (…) Camerati! Voglio dirlo, in primo
luogo che dovreste rimanere qui. Questo è il vostro paese, queste sono le vostre
case, i vostri campi e i giardini, le vostre memorie… Dovreste restare qui… In
caso contrario sareste una vergogna per i vostri antenati e una delusione per i
vostri discendenti. Ma non sto dicendo che dovreste stare qui soffrendo e perdurando in una situazione per cui siete insoddisfatti. Al contrario! Tale situazione
dovrà cambiare! (…) La Jugoslavia non esiste senza il Kosovo! La Jugoslavia si disintegrerà senza il Kosovo! La Jugoslavia e la Serbia non molleranno il Kosovo!”32
Era la dichiarazione di morte della Jugoslavia. Parole che risuonavano nella piana
dei merli con colore intonato per tutti coloro che hanno percepito la minaccia
della ripresa dell’antico nazionalismo serbo che ha svolto un ruolo determinante
anche nella formazione delle coscienze di quanti, di lì a poco, sarebbero stati coinvolti in un altro “ciclo della storia” balcanica. Come è naturale nel caso di memorie sovrapposte, da quelle parole ognuno ha ritagliato la parte che più lo chiamava in causa. I croati hanno recuperato le immagini di oppressione serba durante le
due guerre e nella Jugoslavia di Tito; i musulmani di Bosnia hanno ripensato alla
supremazia ottomana fino alla dissoluzione dell’Impero; i kossovari albanesi, probabilmente, non hanno dovuto sforzarsi troppo per ripercorrere la difficile convivenza nella regione, almeno dal diciassettesimo secolo in avanti. Tuttavia, ed è la
parte che merita maggiore rilievo, le memorie serbe e croate si sono trovate coincidenti al confronto con la dominazione turca, quando uniti combattevano gli
“infedeli”; e i serbi e i musulmani avevano condiviso il regime degli Ustaša e il
campo di concentramento di Jasenovac. Tali memorie erano sopravissute agli sforzi della politica di Tito di “cacciare i rancori nel profondo freezer della storia”,
senza successo (Glenny 1993, 148). C’erano tutti i motivi per imparare la memoria dei partigiani, degli ustaša, dei musulmani. I motivi che inducevano Tito a surgelare le memorie sono stati, al rovescio, gli stessi che hanno indotto i politici
all’indomani della sua morte nel 1980 a “(…)ricorrere deliberatamente a stimoli
che spezzeranno la crosta del costume ordinario e sfreneranno gli impulsi(…)”,
spiega Dewey. La costituzione degli stati nazionali valeva bene un mito distorto, a
discapito della coerenza narrativa, perché era necessario mobilitare gli individui
affinché combattessero contro i - o supportati dai - ricordi del cuore.
La nuova ricomposizione delle memorie è stata sufficientemente attenta a rimuovere ogni punto in comune, ogni memoria condivisa che avrebbe potuto vanificare lo sforzo. Era necessario buttare giù i ponti, anche fisicamente, enucleare
impianti di memoria monolitici e autoreferenziali che potessero, radicalizzandosi
e cristallizzandosi, giustificare e legittimare qualsiasi azione sulla base della memoria presente. Per Walter Benjamin il “tempo messianico” è una condizione di
simultaneità del passato e del futuro in un presente istantaneo33, e tale situazione
pare perfettamente congrua per i Balcani in generale e per i serbi nello specifico.
Tim Judah descrive la santificazione del re medioevale Nemanja e la convinzione
che i suoi discendenti serbi fossero il “popolo eletto”, nel 1848, assieme all’ondata di nazionalismo che imperversava in Europa, Ilija Garasanin, politico serbo di
spicco e il primo a teorizzare un’ideologia nazionale serba, ha scritto: “il nostro
presente non sarà senza un legame con il nostro passato, ma realizzerà un tutto
collegato, coerente e congruo e questo regno serbo (…) sarà sotto il sacro diritto storico” (Judah 1997a, 58), e gli stessi legami, reali o artefatti del presente con
il passato, si ritrovano nei discorsi di Milosevic, nel Memorandum dell’Accademia
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
ma tutti, indistintamente, riferiscono ad un passato immutato e immutabile, così
come immutati nel presente istantaneo sono i discendenti di quel sangue di eroi,
re e santi.
Luoghi di memorie per over la pping memor ies
La memoria è oggetto di discussioni e decisioni pubbliche progressivamente sempre più frequenti34, naturalmente anche fuori dai Balcani. Il fatto che sia oggetto di
discussione è indice innanzitutto di un avvenuto mutamento nell’approccio alla
memoria e più precisamente un cambiamento nel modo di pensare il passato: dal
rifiuto delle storie ufficiali alla ricerca delle origini, dalla rivendicazione di un passato dimenticato a nuove storie alternative ed un generale rinnovato interesse per
stabilire le condizioni necessarie per la “tutela della memoria”, salvandola da un
oblio storico percepito costantemente in agguato. I “giorni della memoria” e i
musei, le opere architettoniche a tema, le commemorazioni in genere, sono
innanzitutto una reazione allo sconforto che deriva da una generale ed indefinita
“crisi” della memoria, che implicitamente le vale quanto un esplicito conferimento di importanza. La domanda è se questo revival sia da interpretarsi quale moda,
se oggi la memoria svolga un ruolo determinante e se questo sia mutato rispetto
al passato. Oppure, se oggi la memoria sia una metafora interpretativa funzionale
a mutare il piano del conflitto: in questo caso, eventuali “memorie confliggenti”
sono sempre preferibili ad un conflitto agito. Pierre Nora risponde con una esauriente affermazione: “Parliamo così tanto di memoria perché ne è rimasta così
poca”35. Il paradosso si spiega dal fatto che l’oggetto delle discussioni non è la
memoria, soprattutto perché questa è materia che poco si adatta a discussioni il
cui esito non sia più che prevedibile; vale a dire che essa è di per sé politica lly
incorrect: la potenza insita nell’affermazione “mi ricordo” e, per i motivi visti
prima, ancor più “ci ricordiamo”, la sottrae alla negoziazione perché in gioco non
c’è la data della fondazione di Roma ma la stessa materia di cui è formata l’esistenza di società viventi, fondate nel nome di quella memoria di cui si vorrebbe
discutere (Nora 1989a, 8). La memoria conquista gli spazi creati da rilevanti - o
supposti tali - avvenimenti storici, in un regime di ciò che Nora chiama “accelerazione della storia”, ovvero “uno slittamento sempre più veloce del presente in un
passato storico che è andato per sempre, una generale percezione che niente o
tutto potrebbe dissolversi - sono indici della rottura di un equilibrio”36 (Nora 1989a
7). Come lo stesso Autore spiega, questa nozione essenzialmente significa che la
caratteristica che più contraddistingue il mondo moderno non è la continuità o la
permanenza ma il cambiamento. E il cambiamento è sempre più veloce, una precipitazione accelerata di tutte le cose in un passato in veloce ritirata. Significa che
viene meno la separazione tra il passato, da una parte, ed il presente con il futuro
dall’altra. Nora ricorda che le modalità di relazione al futuro di un gruppo sociale
incidono sulla selezione degli elementi del passato che devono, o no, essere mantenuti per essere ricordati. E questa scelta, compiuta nel presente, rappresenta il
collegamento delle due dimensioni, passato e futuro. Milosevic nella Piana dei
Merli ricordava che “(...)queste sono le vostre case, i vostri campi e i giardini, le
vostre memorie… Dovreste restare qui… In caso contrario sareste una vergogna
per i vostri antenati e una delusione per i vostri discendenti(...)”. La certezza di
potersi rapportare con entrambe le dimensioni temporali è falsa ed il presente,
che era appena futuro ed è già storia, ci pone davanti alla responsabilità di sce-
34
Con legge n. 56 del 4
maggio 2007 (pubblicata
nella G.U. - serie generale
- n. 103 del 5 maggio
2007), il Parlamento
Italiano ha riconosciuto il
9 maggio, anniversario
dell’uccisione di Aldo
Moro, quale “Giorno della
memoria”, al fine di ricordare tutte le vittime del
terrorismo, interno ed
internazionale, e delle
stragi di tale matrice. Il
“Giorno del ricordo”,
invece, è stato istituito
con legge n. 92 del 30
marzo 2004 “(…)al fine
di conservare e rinnovare
la memoria della tragedia
degli italiani e di tutte le
vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli
istriani, fiumani e dalmati
nel secondo dopoguerra
e della più complessa
vicenda del confine orientale”.
35
Nora, Pierre “Between
Memory and History: Les
Lieux de Mémoire” che
costituisce l’introduzione
all’opera in sette volumi,
riedita poi in tre tomi
“Les Lieux de mémoire”, a
cura di Pierre Nora, preparati tra il 1983 e il 1994.
Paris : Quarto Gallimard,
1997
36
“An increasingly rapid
slippage of the present
into a historical past that
is gone for good, a general perception that
anything and everything
may disappear-these indicate a rupture of equilibrium”.
121
n.17 / 2007
gliere quello che dovremmo consegnare ai posteri sulla base sia dell’idea che vorremmo avessero di noi, sia dall’idea che noi, già ora, abbiamo del futuro. Così
(Nora b), poiché non possiamo anticipare che cosa i nostri discendenti dovranno
conoscere di noi per capire loro stessi, accumuliamo ogni traccia possa testimoniare cosa siamo ora e, facendolo, condensiamo entro spazi finiti le possibilità del
divenire. Sparendo la teleologia della storia, di un fine noto, avanza un urgente
“dovere di ricordarsi”, un approccio più meccanico all’eredità da lasciare che si
propone come “perdita”: per questo determiniamo la memoria che costituirà l’eredità ai posteri in termini “quantitativi” in modo da lasciargli in eredità ciò che noi
abbiamo perduto: la memoria.
Tale “accelerazione della storia” annulla qualsiasi comunione con il passato che
viene sostituita con una relazione impostata sulle tracce via via recuperate, analizzate, classificate. È la memoria degli archivi, dei rinvenimenti archeologici, dello
studio dei documenti. Porta all’istituzione di “giorni della memoria” sulla base di
nuove analisi storiografiche di eventi passati, alla conseguente sovrapposizione
coincidente di storia e memoria e, soprattutto, conferisce alla storia il mandato di
ricostruire la memoria.
Seguendo questa linea, la formazione della memoria avviene sulla base degli eventuali sviluppi della conoscenza storica la quale, in quanto strumento e non fine,
consente il costante reperimento di elementi utili all’emersione della memoria dei
diversi gruppi che compongono la collettività, i quali si individuano sulla base di
una memoria che è stata storicamente prodotta. Si tratta di memorie in cerca di
cittadinanza all’interno di collettività che non riconoscerebbero loro questo diritto in mancanza di elementi storici che ne stabiliscano il fondamento. Per Nora,
questi trends di emancipazione sono da interpretarsi quali movimenti di “decolonizzazione” della memoria che può essere “internazionale”, delle società che
sono/sono state sotto regime coloniale, con l’accesso alla coscienza storica e la
riabilitazione o la fabbricazione di memorie; “domestica” per le rivendicazioni
della memoria di gruppi minoritari religiosi, di genere, province che chiedono il
riconoscimento dell’autonomia e che tramite l’affermazione della loro memoria,
che è in realtà storia, rivendicano il diritto al riconoscimento del particolarismo;
“ideologica” che riunisce le esigenze di ripristino della memoria di quanti hanno
subito gli effetti di un regime totalitario (Nora b). La novità di questo revival della
memoria è ben espressa dal nuovo equilibrio di relazione tra storia e memoria. La
storia è al servizio delle autorità pubbliche, studiosi e gruppi di ricerca specializzati ai quali è demandato il compito di dare forma al sentire collettivo di una nazione e fornire, anche inconsapevolmente, le direttive per uniformare le identità individuali a quella collettiva. Storia e memoria si scambiano di posto e le rispettive
sfere d’influenza, la storia della collettività e la memoria dell’individuo, vedono
depotenziati i rispettivi confini. Ma la memoria non può aspirare allo status scientifico proprio della storia, e tale esigenza è ben espressa entro i “musei della
memoria”, dove c’è molta storia e poca memoria. E non è indifferente riflettere su
cosa potrebbe accadere se si dovesse conferire alla storia il compito di svolgere
integralmente il ruolo della memoria. Ad esempio, cosa comporterebbe sostituire
la memoria della Shoah con la storia del popolo ebraico nella Germania nazista?
Quei luoghi, quelle foto, quegli elenchi di nomi, quelle perfette ricostruzioni
ambientali con le “docce”, le catene, le cancellate, il filo spinato, non sono forse il
tentativo di accesso alla memoria collettiva passando attraverso i canoni dell’evidenza storica? A quale necessità si sta dando risposta? Quale tipo di “sensibilità” o
122
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
abitudine si vorrebbe ri-attivare, in che modo incidere sulla formazione della matrice della memoria collettiva via storia? E cosa accadrebbe se scomparisse contemporaneamente ogni minimo riferimento storico, ogni evidenza, ogni prova storicamente fondata? Quali pericoli si nascondono dietro l’illusione che una sia sicuramente scienza, l’altra semplicemente tradizione? Si dice che l’obiettivo pedagogico
da raggiungere è che tali orrori non accadano mai più ed è una constatazione desolante quella che sottolinea che tali orrori siano tuttora presenti anche se “quel” particolare orrore, in “quel” modo preciso e determinato logicamente non accadrà mai
più, con o senza musei, con o senza giorni della memoria. Perché il patrimonio della
memoria collettiva della Shoah, se esiste e se è disponibile, non può essere attivato,
o non agisce, come deterrente reale contro ogni evento analogo? Inoltre, investire
un luogo fisico della responsabilità di conservare e riprodurre memoria può interpretarsi come un disinventimento collettivo di responsabilità: in quanto costrutto, la
memoria collettiva coincide con l’erogazione di un servizio da attuarsi esclusivamente entro i luoghi preposti per i diversi Lieux de mémoire.
Nora individua due modelli d’organizzazione della memoria. Il primo consiste nel
riciclaggio ossessivo del passato. Ciascun evento commemorativo è prova che il
passato ha smesso di avere un significato univoco e che un presente ricoperto di
consapevolezza relativamente alla propria storia apre anche alla possibilità di
numerose versioni alternative del passato.
Correlato al primo, il secondo modello tiene conto della fine del monopolio della
storia da parte degli storici. Non esiste più una sola interpretazione esclusiva del
passato ma ognuna di queste deve confrontarsi con i media, con i giudici e i testimoni, con i legislatori. Da questa negoziazione potrebbe emergere, ad esempio,
l’esistenza di differenze sostanziali tra la lingua serba, croata e bosniaca. Oggi è
plausibile, ma nell’ex-Jugoslavia veniva parlata una lingua slava del sud, solitamente chiamata “serbo-croato” o “croato-serbo”. Nel diciannovesimo secolo, i dialetti molto simili del serbo-croato sono stati standardizzati in una singola lingua
ufficiale. È dei Principati Danubiani l’iniziativa di adottare i caratteri latini per le
pubblicazioni ufficiali, nel 1860 a cui seguì l’opera dei riformatori linguistici dell’area serbo-croata. Infrangendo le barriere linguistiche regionali e confessionali esistenti, si preferì adottare, come futuro veicolo delle comuni tradizioni letterarie, il
volgare parlato dalla maggioranza, cioè la variante jeka vica del dialetto ŝtoka vo;
per la fonetica si adottò il principio ‘una lettera per ogni suono’ (Hösch 2005, 158),
al fine di dimostrare la “unicità” dello jugoslavo e della nazione slava del sud
soprattutto nei confronti dei “diversi nemici” (tedeschi, ungheresi, turchi). Oggi i
“nemici” sono gli albanesi, i serbi, i croati, gli sloveni, i bosniacchi, anche i montenegrini: nemici potenziali, certo, ma dietro l’inflessione sbagliata, dietro un’esitazione linguistica si misura lo spazio creato dalla precipitazione della storia recente in un passato che lascia emergere la purezza della lingua come valore irrinunciabile, anche se “artificiale”.
La rivendicazione storica dell’identità si trasforma inevitabilmente in esclusione depurazione - di tutto quanto ritenuto ad essa non pertinente. Quindi si selezionano simboli e narrazioni che modellano la memoria collettiva e l’identità culturale e che provengono da un assortimento ra ndom di oggetti ed eventi ereditati.
Negli spazi comuni - virtuali e geografici - gli eventi, i confini ed i monumenti, i riti
collettivi, le celebrazioni pubbliche, le immagini, i suoni, la musica (“Non puoi
ca pire cosa significa sentire quella musica da ppertutto”), i testi e anche alcuni
film, la radio e le trasmissioni televisive, sono investiti di importanza simbolica. Si
123
n.17 / 2007
trasformano in ciò che Nora ha chiamato “lieux de mémoire”, i luoghi della
memoria intorno ai quali memorie comuni ed identità interrelate sono tessute,
consolidate e comunicate. I lieux de mémoire sono il segno del dissolvimento del
milieux de mémoire, ambienti, spazi di memoria. La società civile non trova più
spazi per raccontarsi, dove imparare e far imparare la memoria, dove raccontare e
raccontarsi che a Sarajevo nel 1984 ci sono state le Olimpiadi e c’era una squadra,
una bandiera, una lingua: la coesione della memoria cede il passo ad un lavoro
consa pevole e scientifico di ricostruzione storica. I luoghi della memoria emergono dalla realizzazione che non esiste nulla che possa essere inteso quale memoria spontanea, ragion per cui si creano archivi, si programmano anniversari, si
organizzano celebrazioni (Nora 1989a, 12). E in situazione di pluralismo, ad ogni
particolare dovrebbe essere garantito eguale spazio, ma nell’ex-Jugoslavia non è
così: le memorie ufficiali vengono consegnate ai posteri successivamente ad un’attenta selezione. Queste produzioni volute, decise e pianificate, evocano un passato “sterilizzato”, incapace di creare legami percorribili ed autentici e generatore di
immagini virtuali che fungono da succedaneo per l’immaginazione. L’eco del
ricordo si dissolve davanti al presente disincantato e “i luoghi della memoria restano come conchiglie sulla spiaggia dopo il ritiro del mare della memoria vivente”
(Nora 1989a, 12). Nora non chiarisce il momento in cui sarebbe avvenuta questa
frattura, ma dalle metafore usate si nota che il riferimento è all’inizio della rivoluzione industriale e ai movimenti di urbanizzazione delle masse dalla campagna,
quindi presumibilmente nella prima metà del diciannovesimo secolo. Non sono
mancati i critici alle tesi di Nora, soprattutto per quanto concerne il riferimento ad
un passato della memoria inteso quale corpo unico, immodificato ed originale
attraverso il quale, per differenza, leggere le memorie contraffate generate dalle
pratiche della storia. Tuttavia, gran parte dell’impianto di Nora è valido anche perché rintracciabile in diverse forme lungo tutta la tradizione di pensiero del diciannovesimo e ventesimo secolo.
Il tempo dell’esperienza si è contratto al punto quasi di dissolversi, quando i vissuti e le esperienze, personali e collettivi, vengono costantemente presentificati.
Oggi, “inventare” e “possedere” una memoria risultano essere necessità sociali
imprescindibili, acutizzate anche dal sentimento della sua mancanza: il desiderio
di qualcosa trae origine, infatti, dal sentimento della perdita.
Nessuno avrebbe permesso che la città di Mostar, in Bosnia-Herzegovina, perdesse il suo vecchio ponte, lo Sta ri Most in serbo-croato-bosniaco, il ponte sul fiume
Neretva. In realtà l’ha perso il 9 novembre del 1993, durante il conflitto, ad opera
delle milizie croate. Il ponte divenne presto un’ossessione per l’opinione pubblica internazionale tanto che venne deciso che sarebbe stato ricostruito “dov’era e
com’era”: restava implicita la terza variabile “cos’era”, ovvio, un ponte. Cosa si
vuole consegnare ai posteri decidendo per la sua ricostruzione? “Non mi piace il
nuovo ‘ponte vecchio’”, affermava con disinvoltura uno dei collaboratori
dell’Agenzia di democrazia locale di Mostar, perché “quella Mostar non c’è più e
questo ponte non è ‘quel’ ponte”. Evidentemente l’opinione differiva da quella diffusa fuori dalla Bosnia. Due antitetiche modalità di produzione e gestione della
memoria collettiva non si incontravano sul “ponte vecchio” che nelle intenzioni
doveva rappresentare simbolicamente il dialogo, l’unione della città - ora nettamente divisa in una parte bosniacca e in una croata - e dei popoli. Il “ponte che
unisce” era diventato, nel 2004, anno della riapertura, un luogo della memoria,
dove questa si cristallizza e si nasconde, dove la coscienza di una rottura con il pas-
124
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
sato si lega alla certezza di uno strappo nella memoria tale da porre il problema di
incarnarla in un luogo in cui, si presume, persiste un senso di continuità storica
(Nora 1989a, 1). Il ponte di Mostar era questo luogo e l’Unesco, conferendogli lo
status di patrimonio dell’umanità, ha soddisfatto un bisogno che è della comunità internazionale più che di quella locale. Il ponte che il turista attraversa con
meraviglia e incanto, recuperando dalla memoria quante più immagini gli è possibile della guerra dell’ex-Jugoslavia, non è lo stesso ponte che attraversa il mostarino. Il ponte è diverso perché lo sono i significati di cui dovrebbe essere, e sicuramente è, il simbolo. Una delle caratteristiche connaturate al luogo della memoria
è che dovrebbe, almeno in via teorica, produrre lo stesso “tipo” di memoria indistintamente per tutti. Ma la memoria non si studia. Le motivazioni dell’introduzione del ponte di Mostar nella lista dei beni patrimonio culturale dell’umanità è
la seguente: “Con la ‘rinascita’ del Vecchio Ponte e delle zone adiacenti, il potere
ed il significato simbolici della città di Mostar - quali simboli universali ed eccezionali di coesistenza delle comunità appartenenti a differenti background culturali,
etnici e religiosi - sono stati rinforzati e consolidati, sottolineando così gli sforzi illimitati della solidarietà umana per la pace e l’intensa cooperazione di fronte alle
immani catastrofi.” Certo, non è “la minestra fredda” di Rebecca West, eppure dietro questa motivazione si agitano ancora gli “spettri dei Balcani” dei quali l’Europa
ha sempre procurato di fornire una solerte regia. È quindi un elemento che
“stona” l’iscrizione a vernice nera su un sasso posto alle due estremità del ponte:
“Don’t forget ’93”?
Eric Hobsbawm definisce “tradizione inventata” le pratiche dotate di natura anche
simbolica che intendono favorire l’affermazione di valori e norme di comportamento dei quali è implicita la continuità con il passato (Hobsbawm, Eric J. 3-17).
La comunità internazionale intendeva affidare al ponte il compito di “ricordare”
l’importanza dell’unione, il valore della contiguità e il rispetto delle differenze là
dove serbi e croati hanno sempre e solo visto il simbolo di un passato ottomano
combattuto, ingombrante e disdicevole. Come spiega Nora, i luoghi della memoria sono una risposta alla mancanza di milieux de mémoire, ambienti o spazi di
memoria. Il ponte assieme alla città di Mostar hanno perduto entrambi lo spazio
d’esistenza in divenire nella memoria collettiva per riscoprirsi parti di uno spazio
storicamente sclerotizzato e anche ricostruito, finalizzato al favorire la resurrezione di un passato mitico di convivenza fraterna tra diversi, da una parte, e dall’altra
corroborare le tesi che interpretano i conflitti balcanici come l’eccezione attribuibile al cadenzato sonno della ragione. Lo stesso dicasi per il centro storico di
Sarajevo, la Bascarsija. Tutto ricostruito, tutto com’era. Eppure è ora che ci sono
zone della città, come il quartiere Lukavica a prevalenza serba, che hanno iniziato
ad auto-affermarsi “Srpsko Sarajevo”, Sarajevo Serbo; è ora che si vedono diverse
bandiere nazionali dei diversi quartieri a segnare confini immaginari37. Halbwachs
suggerisce che l’apparente staticità dell’ambiente esterno, fatto di cose e oggetti,
contribuisce a garantire una sensazione irrinunciabile di stabilità, quiete, permanenza (Halbwachs 2001, 215), ma è una considerazione che non tiene conto del
fatto che la memoria, a differenza della storia, ha a che fare con le pratiche. E nelle
pratiche è l’uso che rileva, quando la creatività e l’inventiva dell’uomo comune, reinventa, creandola e appropriandosene, la totalità del quotidiano. La memoria è
un ri-uso della storia in una combinazione creatrice che sovverte i limiti della storiografia in quanto scienza, aprendo alla possibilità, come per Charlie Chaplin38, di
fare cose inedite attraverso tattiche attinte da un repertorio contenuto nella matri-
37
Ma che comunque
sono anche amministrativi in quanto la linea che
separa la Bosnia dalla
Repubblica Srpska passa
dentro la città: “A casa ho
la cucina in Bosnia e il
salotto nella Repubblica”,
commentava divertita
un’intervistata di
Sarajevo.
38
Il riferimento è a De
Certeau “È così che
Charlie Chaplin moltiplica
le possibilità del suo
bastoncino: fa altre cose
con lo stesso oggetto e
oltrepassa i limiti che le
determinazioni di quest’ultimo fissavano al suo
utilizzo” (2001, 152)
125
n.17 / 2007
ce della memoria collettiva. La scritta “Don’t forget ’93” è la ri-appropriazione del
ponte, è la sconfessione del luogo della memoria, è la prova che nei Balcani non
bisogna che tutto cambi perché nulla cambi; piuttosto, bisogna che tutto torni
com’era perché tutto cambi. La quantità di memorie balcaniche è tale che solo con
fatica riescono a ricavarsi uno spazio autonomo ed esclusivo d’esistenza. E quale
memoria indipendente ed autonoma per i milioni di nati dal 12% di matrimoni
misti nel 1988, milioni di persone nate che ora hanno vent’anni e si sentono
“jugoslavi”? (Iveković 1995, 141). La risposta al bisogno principale, quello della
creazione-costituzione e riconoscimento di un’identità esclusiva cozza con l’impossibilità oggettiva - ma sarebbe più corretto definirla storica - di individuare le
linee di demarcazione delle diverse memorie le quali, ormai divenute overla pping
memories, pericolosamente giungono a render conto anche delle storie degli
“altri”. È dalla constatazione dell’imperante contaminazione che occorre ripartire,
piuttosto che investire la storia del compito di forgiare una memoria a d hoc, pura,
originale, e ricostruita. Forzare il ragionamento fino ad affermare che diverse
memorie divise garantiscono una coesistenza civile immune da conflitti significa
non considerare la natura viva della memoria che resiste nelle pratiche, nelle narrazioni, nella vita della comunità e finché questa potrà raccontarsi.
La sensazione, che potrebbe costituire il naturale prosieguo di tanti discorsi qui
appena abbozzati, è che la consapevolezza dell’esistenza di una corrente profonda
di memoria collettivamente riconosciuta nei Balcani sia una certezza che trova
ampi spazi di consenso all’interno della società civile, molto meno tra le istituzioni
politiche; aiuta il riferimento a Mary Douglas quando scrive “Perché una convenzione si trasformi in un’istituzione sociale legittima è necessaria una parallela convenzione cognitiva che la sostenga” e se questa convenzione è istituzionalizzata
essa darà ragione di sé facendo riferimento “(…) alla posizione dei pianeti nel cielo
o al modo in cui le piante, gli animali o gli esseri umani si comportano naturalmente” (Douglas 1990, 82-83). Ci sono elementi che inducono a pensare che nei
Balcani ancora debba avvenire il salto che trasforma le memorie collettive in una
convenzione istituzionalizzata; la memoria dei e nei Balcani è ancora un marasma
indefinito di memorie sovrapposte suscettibile di ricevere nuove forme e connotazioni e significati inediti e questo, che corrisponde al suo maggior pregio, è anche
ciò che più la avvicina ad un capitale che diverrà indisponibile nel momento in cui
contribuirà a fondare un’identità nazionale definita. Come già sta accadendo.
Sarà possibile, e come, garantire spazi d’esistenza delle memorie alternative - antagoniste - delle minoranze più o meno rappresentate entro tutti gli stati balcanici, evitando che per questo debbano ricorrere alle rispettive
memorie di riferimento
(degli stati nazionali)?
126
Damiano Fanni
“Don’t forget”: ricordi e memorie balcaniche
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