NICHOLAS SPARKS,
QUANDO HO APERTO GLI OCCHI.
Titolo dell'opera originale: The Guardian.
Traduzione di Alessandra Petrelli.
Copyright 2003 Nicholas Sparks Enterprises, Inc.
Copyright 2003 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Copyright Edizione Mondolibri S.p.A., Milano,
su licenza Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Siamo alla vigilia di Natale. Sono passati solo quaranta giorni dal
tragico momento in cui Jim se n'è andato per sempre, stroncato da un
tumore al cervello. Immaginate quindi l'incredulità con cui Julie,
giovane vedova straziata dal dolore, riceve un pacco accompagnato
da
una lettera in cui riconosce la grafia del marito scomparso.
Sconvolta, apre lo scatolone e si trova davanti un cucciolo di danese
che la guarda attonito. Nella lettera, scritta da Jim prima di
morire, Julie legge che quel cane sarà il suo angelo custode: la
proteggerà dalle insidie della vita perché lei sia ancora felice. Il
suo destino, infatti, è quello di incontrare un altro uomo, capace di
farla sorridere di nuovo. Una specie di profezia, destinata ad
avverarsi di lì a qualche tempo. Infatti, dopo essere stata a lungo
chiusa nel proprio dolore, Julie fa la conoscenza di Richard
Franklin, fascinoso consulente aziendale dagli occhi verdi, che
inizia a corteggiarla assiduamente. Julie è lusingata e spaventata al
tempo stesso: Richard è un tipo misterioso e tormentato,
probabilmente con un passato oscuro alle spalle. Mentre il buon Mike,
amico di Jim e da sempre segretamente innamorato di lei, adesso si
mostra geloso di questo Richard, sempre più presente e a volte quasi
soffocante... Julie è confusa perché nel suo cuore si agitano
sentimenti diversi: l'attrazione per Richard è un fuoco di paglia?
Quanto è profonda l'amicizia di Mike? Per lei si preparano
rivelazioni sconvolgenti ed eventi dalle conseguenze imprevedibili,
fino a una conclusione ad alta intensità emotiva.
Degna del grande Nicholas Sparks.
A Larry Kirshbaum e Maureen Egen
persone meravigliose, meravigliosi amici.
Ringraziamenti
Non potrei cominciare questi ringraziamenti senza citare
Cathy, mia moglie da ormai quasi quattordici anni. Sei la persona
più dolce che conosca e ti amo più di quanto tu possa immaginare.
E, ovviamente, nessun libro sarebbe completo senza un
riconoscimento
ai miei figli. Miles, Ryan, Landon, Lexie e Savannah
possono essere impegnativi, ma mi danno una gioia infinita.
Le mie giornate sarebbero vuote senza di voi, ragazzi.
Theresa Park, della Sanford Greenburger Associates, merita
la mia riconoscenza. Sei la mia agente e la mia manager, Theresa,
ma anche un genio e una persona sempre disponibile all'ascolto.
E una delle mie più care amiche. E' difficile credere
che siamo già passati attraverso sette romanzi, e non vedo l'ora
di affrontarne ancora molti altri.
Jamie Raab, la mia editor, è semplicemente la numero uno
del settore e questo libro, più dei precedenti, ha avuto bisogno
della sua guida paziente. Non so come me la sarei cavata
senza il tuo aiuto ed è un onore per me lavorare insieme.
Denise DiNovi, produttrice di Le parole che non ti ho detto
e I passi dell'amore, è diventata una presenza molto speciale
nella mia vita. Denise, ti ringrazio di cuore: non so se esista un
modo per ripagarti di tutto quello che hai fatto per migliorare
la mia vita.
Julie Barer, agente della Sanford Greenburger, ha avuto la
gentilezza di leggere il manoscritto e commentarlo con me
mentre era in vacanza. Non potrò mai ringraziarti abbastanza,
Julie, e spero che ora tu sia soddisfatta dei protagonisti.
Howie Sanders e Richard Green, agenti cinematografici della
United Talent Agency, hanno fornito un prezioso contributo
non solo a questo progetto, ma per quanto riguarda tutti i
miei romanzi. Sono i migliori nel loro campo.
Scott Schwimer, il mio avvocato, è un professionista molto
competente, ma anche un grande amico. Grazie di essere sempre
al mio fianco.
Dave Park, agente televisivo della United Talent Agency, mi
ha guidato con abilità attraverso l'intricato mondo della televisione.
Lorenzo De Bonaventura e Courtenay Valenti della Warner
Brothers, Lynn Harris di New Line Cinema, Mark Johnson,
Hunt Lowry e Ed Gaylord II sono stati fantastici e a loro va il
mio sentito grazie.
Jennifer Romanello, Emi Battaglia, Edna Farley dell'ufficio
stampa, John Aherne della redazione e Flag hanno contribuito
a fare della mia carriera quello che è. Grazie a tutti.
E per concludere un grazie a Todd Robinson per l'accurato
lavoro svolto. Sono stato fortunato ad averti nel mio team.
Prologo.
24 dicembre 1998.
Erano passati esattamente quaranta giorni dall'ultima volta
che aveva tenuto la mano a suo marito, pensò Julie Barenson
mentre contemplava fuori dalla finestra le vie deserte di Swansboro,
nel North Carolina. Faceva freddo: da una settimana il
cielo era coperto e ora la pioggia tamburellava lieve contro i
vetri. Gli alberi spogli protendevano nell'aria gelida i rami contorti
come lunghe dita artritiche.
Aveva messo una musica natalizia, immaginando che a Jim
avrebbe fatto piacere sentirla, e in sottofondo si udiva la voce di
Bing Crosby che cantava White Christmas. Aveva anche pensato
di fare l'albero in suo onore, ma quando infine si era decisa, non
erano rimasti che gli ultimi abeti rinsecchiti messi a disposizione
gratis fuori dal supermercato. Lo aveva addobbato comunque,
senza entusiasmo, e poi era rimasta lì seduta a fissarlo. Le era difficile
provare qualsiasi emozione da quando Jim era morto.
Aveva solo venticinque anni ed era già diventata vedova, una
parola che odiava in tutte le sue implicazioni. Evitava accuratamente
di pronunciarla e, quando la gente le chiedeva come
stava, scrollava le spalle in silenzio. Anche se a volte provava
l'impulso di rispondere in tono aspro. Volete davvero sapere
come mi sento da quando un tumore al cervello mi ha tolto mio
marito? avrebbe voluto replicare. Ecco come.
Jim è morto e, ora che non c'è più, sono morta anch'io.
Era quello che la gente voleva sentirsi dire? si chiedeva. Oppure
erano solo in cerca di rassicurazioni? Me la caverò. E' difficile,
certo, ma ce la farò. Grazie dell'interessamento. Probabilmente
avrebbe dovuto interpretare il ruolo del soldatino coraggioso,
ma non se la sentiva. Era più semplice e più sincero
scrollare le spalle in silenzio.
In fondo era convinta che non si sarebbe mai ripresa. Spesso
temeva di non riuscire ad arrivare alla fine della giornata senza
crollare. Soprattutto in serate come quella.
Appoggiò la mano alla finestra vicino al divano dove c'era il
riflesso delle luci dell'albero e avvertì il freddo del vetro contro
la pelle.
Mabel l'aveva invitata a cena, ma lei aveva cortesemente
declinato. Lo stesso avevano fatto Mike, Henry ed Emma, ma
aveva detto di no pure a loro. Tutti avevano capito, anche se
era evidente che nessuno dei suoi amici riteneva saggio che
rimanesse a casa da sola. E forse avevano ragione. Dentro casa
ogni cosa che vedeva, toccava, persino gli odori le ricordavano
Jim. I suoi vestiti occupavano ancora metà dell'armadio,
il suo rasoio era sul lavandino del bagno, accanto al portasapone,
e l'ultimo numero di Sports Illustrateci era arrivato
per posta il giorno prima. In frigo c'erano due bottiglie di
Heineken, la sua birra preferita. Quel pomeriggio, quando le
aveva viste sul ripiano, aveva mormorato tra sé: «Jim non le
berrà mai», poi aveva richiuso il frigo e vi si era appoggiata
contro scoppiando in lacrime.
Persa nei suoi pensieri, Julie avvertì vagamente il toc toc di
un ramo che batteva contro la parete esterna della casa. Era un
rumore regolare, persistente, e dopo un attimo si rese conto
che in realtà qualcuno stava bussando alla porta.
Si alzò a fatica, ravviandosi intanto i capelli con la mano per
ricomporsi. Non voleva che una delle amiche, venuta a vedere
come stava, notasse il suo aspetto sconvolto e decidesse di restare
a farle compagnia per un po'. Quando aprì la porta, tuttavia,
rimase sorpresa di trovarsi di fronte un ragazzo con una
cerata gialla che teneva in mano un grosso scatolone incartato.
«Signora Barenson?» le chiese.
«Sì?»
Lo sconosciuto fece un passo avanti. «Devo consegnarle questo.
Mio padre ha detto che era importante.»
«Tuo padre?»
«Voleva essere sicuro che lei lo ricevesse stasera.»
«Lo conosco?»
«Non so. Però ha insistito molto. E' un regalo.»
«Da parte di chi?»
«Papà ha detto che lo capirà quando lo aprirà. Mi raccomando,
non lo scuota... e lo tenga dritto così.»
Le depose il pacco tra le braccia prima che potesse impedirglielo,
poi si voltò per andarsene.
«Aspetta», gli urlò dietro Julie. «Non capisco...»
Il giovane voltò la testa, le augurò buon Natale, quindi si allontanò.
Julie rimase sulla soglia a guardarlo salire sul furgone. Tornata
dentro, posò lo scatolone sul pavimento davanti all'albero
di Natale e si inginocchiò accanto. Una rapida occhiata le
confermò l'assenza di un biglietto e di qualsiasi altro indizio
circa il mittente. Slacciò il nastro, poi sollevò il coperchio e rimase
a fissare il contenuto dello scatolone, sbalordita.
Un minuscolo ammasso di pelo, un paio di chili al massimo,
era seduto sulle zampe posteriori nell'angolo della scatola. Era
il cucciolo più brutto che avesse mai visto. Aveva la testa grossa
e sproporzionata rispetto al resto del corpo e la fissava a sua
volta, guaendo piano, con gli occhi lucidi.
Qualcuno mi ha regalato un cucciolo, realizzò. Un cucciolo
terribilmente brutto.
Incollata all'interno della scatola c'era una busta. Mentre la
staccava, riconobbe la calligrafia e si bloccò. No, pensò, non è
possibile...
L'aveva vista tante volte sulle lettere d'amore che lui le aveva
scritto in occasione dei loro anniversari, sui bigliettini scarabocchiati
in fretta accanto al telefono, sui documenti ammucchiati
sopra la scrivania. Tenne la busta davanti a sé, leggendo
e rileggendo il proprio nome scritto sopra. Poi, con dita
tremanti, estrasse la lettera. Il suo sguardo cadde sulle parole
scritte nell'angolo in alto a sinistra.
Mia cara Jules,
Era il soprannome con cui la chiamava Jim, e Julie chiuse gli
occhi, con l'impressione che il suo corpo si rimpicciolisse. Fece
un profondo respiro, poi si sforzò di riaprirli.
Mia cara jules,
se stai leggendo questa lettera, vuol dire che me ne sono già
andato. Non so da quanto tempo, ma spero che tu sia stata capace
di cominciare a guarire. Certo, sono consapevole che, se
fossi nei tuoi panni, soffrirei moltissimo, però ti ho sempre
considerato la più forte tra noi due.
Ti ho regalato un cane, come puoi vedere. Harold Kuphaldt
era un amico di mio padre e alleva danesi da quando ero bambino.
Allora desideravo molto averne uno, ma dato che la nostra
casa era molto piccola, la mamma non me lo ha mai permesso.
In effetti, sono cani davvero grossi, ma secondo Harold
sono anche i più teneri del mondo. Spero che ti piaccia.
Credo di aver sempre saputo, in fondo, che non ce l'avrei
fatta. Non volevo pensarci, però, perché mi tormentava l'idea
che tu non avresti avuto vicino nessuno che potesse aiutarti a
superare il dolore. Soffrivo all'idea di lasciarti completamente
sola e così, non sapendo che altro fare, ho preso accordi perché
ti portassero a casa un cucciolo.
Se non ti piace, non sei costretta a tenerlo per forza. Harold
ha detto che lo riprenderà senza problemi. (Dovrebbe esserci
il suo numero da qualche parte.)
Spero davvero che tu stia meglio. Da quando mi sono ammalato,
questa è stata la mia preoccupazione fissa. Ti amo, jules,
davvero. Incontrarti ha fatto di me la persona più fortunata
del mondo. E ora nel mio cuore desidero solo la tua felicità.
Quindi, fammi questo piacere, fallo per me. Sii felice di
nuovo. Trova qualcuno che ti renda felice. All'inizio potrà essere
difficile, e magari penserai che sia impossibile, ma vorrei
che ci provassi. Il mondo s'illumina quando tu sorridi.
E non preoccuparti. Dovunque io sia, veglierò su di te. Sarò
il tuo angelo custode, amore mio. Potrai sempre contare su di
me, io ti proteggerò.
Ti amo,
Con gli occhi pieni di lacrime, Julie guardò oltre il bordo
della scatola e ci infilò dentro il braccio. Il cucciolo si raggomitolò
sulla sua mano e lei lo tirò fuori, avvicinandoselo al viso.
Tremava tutto, sentiva le sue minuscole costole sotto la pelliccia.
Era proprio tremendo, pensò di nuovo. E sarebbe diventato
grande quasi quanto un pony. Che cosa poteva farsene di un
cane così?
Ma perché Jim non aveva scelto uno Schnauzer nano con i
baffi grigi, oppure un cocker dagli occhi tondi e tristi? Qualcosa
di gestibile. Qualcosa di piccolo, che potesse accovacciarsi
sulle sue ginocchia, di tanto in tanto?
Il cucciolo ricominciò a guaire, emettendo un lamento stridulo
che saliva e scendeva come il fischio di una locomotiva
lontana.
«Buono... buono», mormorò lei, «non ti farò del male...»
Gli parlò per un po' a voce bassa, lasciando che si abituasse
a lei, ancora turbata all'idea che fosse stato Jim a farle quel
regalo. Il cucciolo continuava a lamentarsi, quasi accompagnando
la melodia diffusa dallo stereo, mentre Julie lo grattava
delicatamente sotto il mento.
«Stai cantando?» chiese, sorridendo per la prima volta da
molto tempo. «Sembra proprio così, sai.»
Il cane si zittì per un istante e la guardò negli occhi. Poi riprese
a guaire, anche se questa volta sembrava meno terrorizzato.
«Singer», mormorò lei. «Penso che ti chiamerò Singer.»
1.
Quattro anni dopo.
Negli anni trascorsi dalla morte del marito, Julie Barenson
aveva trovato in qualche modo la forza per ricominciare a vivere.
Non era accaduto immediatamente: i primi due anni erano
stati difficili e solitari, ma il tempo alla fine aveva compiuto
il miracolo, trasformando il sentimento lacerante della perdita
in qualcosa di più sopportabile. Pur amando Jim e sapendo
che nel suo cuore avrebbe continuato ad amarlo per sempre,
il dolore si era fatto meno acuto. Ricordava ancora le lacrime
e il vuoto totale della propria vita nel periodo successivo
alla sua morte, ma la sofferenza lancinante di quei giorni era
passata. Adesso, quando pensava a Jim, lo ricordava con un
sorriso, grata della felicità che avevano condiviso.
Gli era grata anche per Singe, che si era dimostrato provvidenziale.
A modo suo, era stata proprio la sua presenza ad aiutarla
a tirare avanti.
In quel momento, tuttavia, schiacciata nel letto in una mattina
di inizio primavera a Swansboro, Julie non stava pensando
al meraviglioso sostegno che Singer le aveva offerto in quei
quattro anni. Piuttosto, malediceva mentalmente la sua stessa
esistenza mentre era lì senza fiato, sotto il peso del gigantesco
danese.
Con il cane abbandonato sopra di lei, immobilizzata contro
il materasso, già si vedeva le labbra cianotiche per mancanza
di ossigeno.
«Alzati, pigrone», ansimò. «Mi stai uccidendo...»
Singer, però, continuava a russare pacificamente, allora Julie
cominciò a divincolarsi per cercare di svegliarlo. Soffocata
da tutto quel peso, aveva l'impressione di essere stata buttata
in un lago avvolta in una coperta.
«Dico sul serio», alitò. «Non riesco a respirare.»
Singer alla fine alzò il grosso muso e la guardò assonnato.
Che cos'è tutto questo trambusto? sembrava chiedere. Non vedi
che sto dormendo?
«Vattene!» latrò Julie.
Il danese sbadigliò, poi le premette il naso freddo contro la
guancia.
«Sì, sì, buongiorno», borbottò lei. «Adesso smamma.»
A quelle parole il cane si decise a sollevarsi, schiacciandole
con le zampe varie parti del corpo. Alla fine, svettante su di lei
con un filo di bava che gli usciva dalla bocca, sembrava proprio
una creatura uscita da un film dell'orrore di serie B. Accidenti
se era enorme. Dopo tutti quegli anni avrebbe dovuto esserci
abituata, pensò Julie facendo un profondo respiro di sollievo.
Poi corrugò la fronte.
«Chi ti ha dato il permesso di salire sul mio letto?» chiese
severa.
In genere Singer dormiva in un angolo della camera, ma erano
due notti che veniva a sdraiarsi di fianco a lei. O, per essere
più precisi, sopra di lei. Che matto di un cane.
Il danese abbassò il muso e le leccò il viso.
«No, non sei perdonato», rispose Julie spingendolo via. «Non
ci provare nemmeno. Potevi ammazzarmi, lo sai? Pesi il doppio
di me. E adesso, giù!»
Singer guaì come un bambino imbronciato prima di decidersi
a balzare sul pavimento. Julie si mise seduta, con le costole
indolenzite, e guardò l'ora. Di già? I due si stiracchiarono
contemporaneamente, poi lei scostò le coperte.
«Forza», disse, «ora ti faccio uscire. Ma non andare a curiosare
tra i bidoni dei rifiuti dei vicini. Ieri mi hanno lasciato
un biglietto di protesta sul parabrezza della macchina.»
Singer la guardò.
«Lo so, lo so», ammise lei, «è solo spazzatura. Ma la gente
è fatta così.»
Il cane uscì dalla camera, diretto verso l'ingresso. Julie si
sgranchì le spalle mentre lo seguiva, chiudendo gli occhi per
un istante. Grosso errore. Andò subito a sbattere con il piede
contro il cassettone e il dolore le si propagò dalle dita a
tutta la gamba. Dopo il grido iniziale, cominciò a inveire, mescolando
imprecazioni diverse in fantasiosi connubi. Saltellando
su un piede solo con indosso il pigiama rosa, si sentiva
un po' come Bugs Bunny dopo una delle sue disavventure.
Singer le lanciò un'occhiata impaziente, come a dire: E allora
? Sei stata tu a svegliarmi, quindi adesso muoviti. Ho da fare
fuori.
Julie sbuffò. «Ma non vedi che mi sono fatta male?»
Singer sbadigliò in risposta e Julie si massaggiò il piede prima
di zoppicare fino a lui.
«Grazie dell'aiuto. Certo che, in caso di emergenza, sarei
davvero spacciata.»
Qualche istante più tardi, dopo essere passato sopra il piede
dolorante della padrona - quasi a farlo apposta - Singer uscì
in giardino. Invece di dirigersi verso i bidoni della spazzatura,
il grosso danese girò verso lo spiazzo alberato che si trovava sul
lato della casa. Julie lo osservò dondolare da una parte all'altra
la testa massiccia, come se volesse accertarsi che nessuno avesse
piantato nuovi alberi o cespugli durante la notte. Tutti i cani
hanno l'istinto di marcare il proprio territorio, ma per qualche
motivo Singer sembrava convinto che, trovando un numero
di posti sufficiente dove fare pipì, sarebbe stato nominato
imperatore dei cani del mondo. Se non altro, pensò, se l'era
tolto letteralmente dai piedi per un po'.
Negli ultimi giorni era stato davvero insopportabile, rifletté.
La seguiva dappertutto, rifiutandosi di perderla un attimo di
vista, tranne quando lei lo spediva fuori. Non era riuscita neppure
a riordinare la cucina senza inciampare ripetutamente
nella sua mole. La notte precedente, poi, non aveva smesso di
ringhiare e abbaiare per un'ora, tanto da farle venire voglia di
comprare una cuccia insonorizzata, oppure un fucile da caccia
grossa.
Bisognava dire, tuttavia, che il comportamento di Singer non
era mai stato... normale. A parte ciò che riguardava i bisogni
fisici, quel cane agiva sempre come se credesse di essere un
umano, considerò Julie. Si rifiutava di mangiare dalla ciotola,
non aveva mai avuto bisogno di un guinzaglio e, quando lei
guardava la televisione, si accovacciava sul divano e stava lì anche
lui a fissare lo schermo. Quando lei parlava con qualcuno,
Singer osservava attento, con la testa inclinata di lato, come se
seguisse la conversazione. E spesso sembrava capire veramente
quello che la padrona gli diceva. Qualunque cosa gli ordinasse
di fare, anche la più assurda, Singer ubbidiva. «Potresti
andarmi a prendere la borsa in camera da letto?» e lui qualche
istante dopo gliela portava trotterellando. «Spegni la luce, per
favore?» Singer si alzava sulle zampe posteriori e schiacciava
l'interruttore con il naso. Certo, c'erano molti cani addestrati,
ma bastava che gli mostrasse una volta come compiere una data
azione, e lui imparava a ripeterla. Gli altri lo trovavano un
po' sconcertante, invece Julie ne era orgogliosa.
Così aveva preso l'abitudine di parlare al cane con frasi compiute,
di mettersi a litigare con lui, a volte addirittura di chiedergli
consiglio.
Tuttavia, il suo comportamento era cambiato da quando lei
aveva ricominciato a uscire, e da un paio di mesi mostrava
apertamente
la propria animosità nei confronti degli uomini che si
presentavano sulla soglia di casa. In realtà, fin da cucciolo Singer
aveva avuto la tendenza a ringhiare contro gli sconosciuti.
Inizialmente lei aveva pensato che avesse un sesto senso per
distinguere
le persone per bene da quelle che era meglio evitare,
ma negli ultimi tempi si era ricreduta, e adesso era convinta che
il suo cane fosse una versione grossa e pelosa di un fidanzato
geloso.
Un bel problema, si disse. Dovevano fare un discorsetto, loro
due. Singer non voleva che lei restasse sola, giusto? No, certo.
Forse avrebbe impiegato un po' di tempo per abituarsi ad
avere intorno qualcun altro, ma alla fine avrebbe capito. Anzi,
sarebbe stato contento per lei. Ma qual era il modo migliore
per spiegarglielo?
Si bloccò per un attimo, considerando la questione prima di
accorgersi che non aveva senso.
Spiegarglielo? Per la miseria, pensò, sto diventando pazza.
Zoppicò fino al bagno per prepararsi. Si sfilò il pigiama e
si appoggiò al lavandino, fissando la propria immagine riflessa
nello specchio. Complimenti, si disse, hai ventinove anni e
cominci già a perdere colpi. Le dolevano le costole, le bruciava
l'alluce e lo specchio le dava il colpo di grazia. Durante
la giornata, la sua chioma castana era lunga e liscia, ma appena
alzata i capelli sembravano aver subito nottetempo l'attacco
di uno gnomo spettinatore. Erano tutti gonfi e arruffati,
«sotto assedio», come diceva scherzosamente Jim. E poi
aveva le guance imbrattate di mascara, la punta del naso rossa
e gli occhi verdi gonfi a causa dei pollini primaverili. Una
doccia avrebbe risistemato tutto, giusto?
Mah, forse bisognava correre ai ripari per l'allergia. Aprì l'armadietto
dei medicinali e inghiottì una compressa di antistaminico
prima di dare un'altra occhiata allo specchio, sperando
in un miglioramento istantaneo.
Blah.
Chissà, forse così non avrebbe dovuto fare troppi sforzi per
raffreddare l'interesse di Bob, si disse. Ormai era da un anno
che gli tagliava i radi capelli e un paio di mesi prima lui aveva
finalmente trovato il coraggio di invitarla fuori a cena. Certo,
non era il tipo più affascinante del mondo - stempiato, faccia
rotonda, occhi troppo ravvicinati e un accenno di pancetta ma era libero, aveva una buona posizione e poi lei non era più
uscita con un uomo dalla morte di Jim. Aveva pensato che quella
sarebbe stata l'occasione buona per rimettersi in pista. Si sbagliava.
C'era un motivo che spiegava come mai Bob fosse ancora
single. Non solo era un disastro sotto la voce aspetto esteriore,
ma era talmente noioso che durante la cena persino i
clienti seduti ai tavoli vicini le avevano lanciato occhiate di
compassione.
Il suo unico argomento di conversazione era la contabilità.
Non aveva manifestato il benché minimo interesse né per
lei, né per il cibo, né per il tempo, lo sport o il cinema. Lo
entusiasmavano
solo i conti. Per tre ore lo aveva ascoltato sciorinare
dati e nozioni su detrazioni e deduzioni, oneri fiscali e
capital gains e, quando alla fine lui si era sporto sul tavolo per
confidarle che conosceva «persone importanti all'ufficio delle
imposte», lei avrebbe voluto mettersi a piangere.
Naturalmente per Bob era stata una serata stupenda. Da allora
l'aveva chiamata almeno tre volte la settimana, chiedendole
di incontrarsi «per un secondo consulto, eh-eh-eh». Di sicuro
era insopportabile, ma determinato.
Poi c'era stato Ross, il secondo uomo con cui era uscita. Ross
il dottore. Ross il bello. Ross il pervertito. Un appuntamento
con lui era bastato, grazie tante.
E non bisognava dimenticare il buon vecchio Adam. Lavorava
per la contea, le aveva detto. Amava il suo lavoro, le aveva
detto. Un tipo normale, le aveva detto.
Julie aveva scoperto che Adam lavorava al dipartimento spurghi.
Non puzzava, non aveva sostanze misteriose che gli crescevano
sotto le unghie, i capelli non erano unti, ma lei continuava
a pensare che un giorno avrebbe potuto presentarsi alla sua
porta in quelle condizioni. C'è stato un incidente sul lavoro, cara.
Scusami se torno a casa così. La sola idea le metteva i brividi.
Non riusciva a immaginarsi mentre prendeva i suoi vestiti
per metterli a lavare dopo un disastro simile. Il loro rapporto
era condannato fin dall'inizio.
Proprio quando era arrivata al punto di chiedersi se esistessero
ancora in giro persone normali come Jim, e per quale ragione
lei sembrasse attirare solo individui stravaganti - come
se si portasse dietro un'insegna al neon con scritto SONO
DISPONIBILE.
NON E' RICHIESTA LA NORMALITà -, era comparso all'orizzonte
Richard.
E, miracolo dei miracoli, era rimasto in apparenza... normale
anche durante il loro primo appuntamento il sabato precedente.
Era consulente della società J.D. Blanchard Engineering
di Cleveland - la ditta incaricata di riparare il ponte sul
canale - e si erano conosciuti quando lui era venuto al negozio
per farsi spuntare i capelli. La sera in cui erano usciti insieme
le aveva tenuto aperte le porte, aveva sorriso al momento giusto
durante i dialoghi, aveva fatto le ordinazioni al ristorante e
non aveva nemmeno cercato di baciarla quando l'aveva
riaccompagnata
a casa. E soprattutto, aveva un aspetto attraente,
un po' da artista: zigomi scolpiti, occhi smeraldo, capelli neri
e baffi. Dopo essere rincasata, Julie avrebbe voluto gridare: Alleluia!
Ho visto la luce!
Singer non era rimasto altrettanto ben impressionato. Mentre
lei salutava Richard, aveva continuato a ringhiare dietro la
porta finché non era entrata.
«Oh, piantala», gli aveva detto Julie. «Non essere così ostile
con lui.»
Singer aveva ubbidito, ma se n'era andato dritto in camera
da letto e aveva tenuto il muso per tutta la notte.
Se il mio cane fosse appena un poco più strano, pensò ora
lei, potremmo esibirci al luna park, vicino allo stand del fachiro
che ingoia lampadine. Ma del resto neppure la mia vita è
mai stata troppo normale.
Aprì il rubinetto della doccia e si mise sotto il getto caldo,
cercando di arginare la marea dei ricordi. A che scopo rivangare
i brutti momenti? si disse. Ma le capitava spesso di pensare
con un certo rancore alle due grandi passioni della madre:
la bottiglia e gli uomini violenti. Sua madre cambiava compagno
con la facilità con cui si buttano via i fazzoletti di carta e
alcuni di loro avevano fatto sentire Julie molto a disagio una
volta entrata nell'adolescenza. Quando l'ultimo aveva cercato
seriamente di molestarla, lei lo aveva detto alla madre che, in
un accesso di rabbia alcolica, l'aveva accusata di averlo provocato
apposta. Poco dopo Jiulie era stata sbattuta fuori di casa.
Quei cinque o sei mesi vissuti per strada erano stati terribili,
ricordò. Quasi tutti quelli che incontrava erano drogati, spacciavano,
rubavano... o peggio. Terrorizzata all'idea di diventare
come gli sbandati che vedeva tutte le sere nei ricoveri o sdraiati
negli androni, si era messa all'affannosa ricerca di qualsiasi
lavoro che le permettesse di tenersi fuori dai guai. Aveva accettato
le incombenze più umili e non alzava mai la testa.
Un mattino era entrata in un bar di Daytona, per prendere
una tazza di caffè con gli ultimi spiccioli. Lì aveva conosciuto
Jim, che le aveva offerto la colazione dicendole, prima di uscire
dal locale, che avrebbe fatto lo stesso tutti i giorni. Affamata
com'era, lei si ripresentò il giorno dopo e, vedendo Jim, lo
sfidò a spiegarle il motivo di tanta generosità. Era una ragazza
piuttosto carina e credeva di conoscere le ragioni di quel tizio,
ma lui negò di nutrire un interesse personale nei suoi confronti.
Continuarono a incontrarsi al bar per tutta la settimana, finché
Jim le disse che stava per tornare a casa e le fece una proposta:
se fosse stata disposta a trasferirsi a Swansboro, l'avrebbe aiutata
a trovare un lavoro stabile e una sistemazione.
Ricordò che lo aveva fissato come se fosse un alieno.
Un mese dopo, tuttavia, considerato che non aveva niente
da perdere, aveva deciso di partire per Swansboro. Mentre
scendeva dal pullman si era domandata che cosa mai l'avesse
spinta ad approdare in quel posto anonimo, ma era andata comunque
in cerca di Jim che, mantenendo la promessa, l'aveva
accompagnata al negozio di parrucchiere di sua zia Mabel. La
donna le aveva offerto un lavoro come apprendista e un posto
per dormire nella stanza al piano di sopra del salone.
Al principio lei era stata contenta dall'apparente mancanza
di interesse nei suoi confronti da parte di Jim. Poi la sua indifferenza
l'aveva incuriosita e infine irritata. Dopo avergli lanciato
quelli che riteneva segnali sfacciatamente inequivocabili
tutte le volte che lo incontrava, non aveva resistito e aveva chiesto
a Mabel se secondo lei il nipote la riteneva poco attraente.
Solo a quel punto lui parve capire il messaggio. Uscirono insieme
per un mese e si innamorarono. Jim si dichiarò e si sposarono
nella chiesetta dov'era stato battezzato. Ricordò che lei
aveva trascorso i primi anni di matrimonio disegnando faccine
sorridenti mentre parlava al telefono. Non credeva alla sua felicità
e si chiedeva che altro potesse desiderare dalla vita.
Molto, come avrebbe scoperto ben presto, rifletté Julie con amarezza.
Poche settimane dopo il loro quarto anniversario, Jim era
svenuto mentre tornava a casa dalla messa ed era stato ricoverato
in ospedale. Due anni dopo era morto e lei si era ritrovata di nuovo
sola. Finché all'improvviso non era comparso Singer...
Riandando con la mente ai drammatici eventi e alle svolte
improvvise che avevano caratterizzato la sua esistenza, Julie
pensò che adesso erano i piccoli avvenimenti quotidiani a scandirla.
Mabel, grazie a Dio, era stata un angelo. L'aveva aiutata
a prendere il diploma di parrucchiera che le consentiva di
vivere in maniera decorosa. Henry ed Emma, poi, una coppia
di amici di suo marito, non solo l'avevano accolta con simpatia
quando era arrivata in città, ma le erano rimasti vicini
nei momenti più duri. E poi c'era Mike, il fratello minore di
Henry, che era stato l'amico del cuore di Jim.
Mentre usciva dalla doccia, Julie sorrise pensando a Mike.
Era sicura che un giorno avrebbe fatto molto felice una donna,
anche se a volte sembrava un po' sperduto.
Dopo essersi pettinata e vestita, Julie si infilò un paio di
scarpe comode. Dato che aveva portato l'auto a riparare, sarebbe
dovuta andare al lavoro a piedi, camminando per un
chilometro e mezzo. Chiamò Singer mentre chiudeva a chiave
la porta d'ingresso e, con la coda dell'occhio, scorse un biglietto
infilato sotto il coperchio della cassetta delle lettere.
Incuriosita, andò a prenderlo e lo lesse mentre Singer caracollava
verso di lei sbucando dagli alberi.
Cara Julie,
mi sono divertito molto sabato sera. Non riesco a smettere
di pensare a te.
Richard
«Visto?» esclamò, agitando il biglietto davanti al muso del
cane. «Te l'avevo detto che era una persona carina.»
Il danese fece per allontanarsi.
«Non farmi questo. Una volta tanto potresti ammettere di
avere torto, sai. Secondo me sei solo geloso.»
Singer le si strusciò contro.
«E' così. Sei geloso?» A differenza degli altri cani, Julie non
doveva chinarsi per accarezzarlo.
«Non fare l'egoista. Sii felice per me.»
Singer le girò intorno e la guardò.
«Adesso muoviamoci. Dobbiamo andare a piedi perché la
jeep è ancora da Mike.»
Sentendo pronunciare quel nome, il cane cominciò a scodinzolare.
2.
Le parole delle canzoni di Mike Harris lasciavano molto a
desiderare e la sua voce non avrebbe attirato l'attenzione di
nessun produttore discografico di Swansboro, però si esercitava
a suonare la chitarra ogni giorno, nella speranza che il successo
fosse dietro l'angolo. In dieci anni si era esibito con numerose
band, spaziando tra i vari generi, dall'hard rock anni
Ottanta allo stile melodico delle ballate country. In scena aveva
indossato di tutto, dai pantaloni neri di pelle con le borchie
ai cappelli da cowboy, ma sebbene suonasse con grande entusiasmo
e risultasse in genere simpatico ai membri del gruppo,
di solito veniva invitato a farsi da parte dopo qualche settimana,
con la scusa che per qualche ragione non funzionava. Era
accaduto così spesso che ormai sospettava non si trattasse di
un semplice conflitto di personalità, anche se non riusciva ancora
ad ammettere di non essere un genio musicale.
Mike teneva inoltre un taccuino, dove nel tempo libero annotava
i pensieri con l'intenzione di inserire le sue impressioni
in un romanzo, ma il processo di stesura era risultato più difficile
di quanto all'inizio avesse immaginato. Più che la mancanza
di idee, per lui il problema era semmai il contrario, cioè
una tale abbondanza di spunti che gli impediva di scegliere
quali elementi inserire nella storia o invece lasciare fuori. L'anno
prima aveva provato a scrivere un giallo ambientato su una
nave da crociera, alla maniera di Agatha Christie, con la solita
decina di sospetti. Ma la trama non lo convinceva troppo,
così aveva cercato di renderla più movimentata aggiungendo
diverse trovate, che comprendevano una testata nucleare nascosta
nei sotterranei di San Francisco, un poliziotto corrotto
testimone dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy, un
terrorista irlandese, la mafia, un ragazzo con il suo cane, uno
spietato speculatore finanziario e uno scienziato viaggiatore
nel tempo sfuggito alle persecuzioni del periodo dell'Impero
romano. Purtroppo il prologo aveva raggiunto le cento pagine
e i principali indiziati non erano ancora comparsi in scena,
così alla fine il lavoro si era bloccato.
In passato Mike si era cimentato pure con il disegno, la pittura,
il vetro colorato, la ceramica, l'intaglio in legno e il macramè,
creando alcune opere d'arte astratta durante accessi di
ispirazione che lo tenevano lontano dal lavoro per intere settimane.
Saldava e inchiodava pezzi di lamiera di vecchie automobili
in strutture ramificate e sbilanciate, e una volta finito
si sedeva sui gradini d'ingresso a contemplare fiero la propria
creazione, animato dalla convinzione di aver finalmente
trovato la sua strada. La sensazione di trionfo durava una settimana,
finché il consiglio comunale, dopo una seduta straordinaria,
non emanava un'ordinanza che vietava l'accumulo di
rifiuti davanti alle case. Insomma, come capita a tanti, Mike
Harris nutriva il sogno di essere un artista, ma gliene mancava
il talento.
Aveva però un vero talento naturale per riparare praticamente
tutto. Era un tecnico consumato, il provvidenziale cavaliere
dalla scintillante armatura quando c'erano tubazioni
che perdevano o elettrodomestici che si rompevano. Se poi
c'era da mettere le mani su qualcosa con quattro ruote e un
motore, Mike era il mago Merlino dell'era moderna. Insieme
al fratello Henry, gestiva l'autofficina più quotata della città:
Henry si occupava delle scartoffie e Mike del lavoro vero. Auto
straniere o americane, Ford Escort quattro cilindri o Porsche
911 turbo, per lui non avevano segreti. Era in grado di
ascoltare un motore, distinguere rumori e risonanze che nessun
altro avvertiva e scoprire la natura del problema in pochi
minuti. Conosceva alla perfezione manicotti e valvole d'aspirazione,
ammortizzatori e pistoni, radiatori e bilanciatura, e
ricordava a memoria il minimo di tutte le auto che passavano
per l'officina. Sapeva riassemblare un motore senza dover
consultare il manuale. Aveva sempre le dita sporche di grasso
e, pur consapevole che il suo era un valido modo per guadagnarsi
da vivere, a volte rimpiangeva di non poter applicare
parte del suo talento ad altri ambiti.
La tradizionale fama di donnaiolo generalmente associata
a meccanici e musicisti non aveva investito Mike. Nella sua
vita aveva fatto sul serio solo con due ragazze, una sua compagna
di scuola e poi Sarah, con la quale aveva rotto tre anni
prima, il che lasciava supporre che non fosse interessato a
un rapporto duraturo e neppure a una storia estiva. Anche lui
spesso ci rifletteva sopra, ma ultimamente sembrava che, nonostante
i buoni propositi, tutti i suoi appuntamenti fossero
destinati a concludersi con un bacio sulla guancia e un grazie
da parte della ragazza perché era un ottimo amico.
A trentaquattro anni, Mike Harris era estremamente abile
nella tenera arte di abbracciare le donne fraternamente, mentre
loro si mettevano a piangere sulla sua spalla raccontandogli
quanto le avessero fatte soffrire gli uomini precedenti.
Di sicuro non dipendeva dal suo aspetto. Con i capelli castano
chiaro e gli occhi azzurri, il sorriso pronto e la corporatura
muscolosa, era il prototipo del bel ragazzone americano.
E non si poteva neanche dire che le donne non gradissero
la sua compagnia, ma tutte istintivamente intuivano che in fondo
Mike non era alla ricerca di una relazione seria.
Suo fratello Henry sapeva perché ciò succedeva, e anche sua
cognata Emma. Pure Mabel ne aveva indovinato il motivo, come
del resto tutti quelli che conoscevano bene Mike Harris.
Loro sapevano che era già innamorato di un'altra.
«Ehi, Julie... aspetta.»
Appena giunta alla periferia del vecchio quartiere commerciale
di Swansboro, Julie udì la voce di Mike che la chiamava.
Si girò, mentre Singer alzava il muso e la guardava per chiedere
il permesso.
«Vai pure», gli disse lei.
Il danese partì al galoppo e raggiunse Mike a metà strada.
Lui gli accarezzò la testa e la groppa mentre camminava, poi
lo grattò dietro le orecchie. Quando smise di coccolarlo, Singer
agitò la testa su e giù a indicare che voleva altre attenzioni.
«Per adesso basta, vecchio mio», disse Mike. «Devo parlare
con Julie.»
Un attimo dopo lei lo raggiunse, mentre Singer, accucciato
ai piedi dell'uomo, continuava a cercare la sua mano.
«Ciao, Mike», fece Julie con un sorriso. «Che succede?»
«Ciao. Volevo solo dirti che la macchina è pronta.»
«Che cosa non funzionava?»
«L'alternatore.»
Esattamente quello che le aveva detto il venerdì sera, quando
gliel'aveva portata. «Hai dovuto sostituirlo?»
«Sì. Il tuo era defunto. Non c'è voluto molto... il proprietario
del negozio di autoricambi ne aveva diversi in magazzino.
Ho anche sistemato la perdita d'olio. Era partita una guarnizione
vicino al filtro.»
«C'era una perdita d'olio?»
«Non hai notato le macchie sul tuo vialetto?»
«A dire il vero, no, però non ci ho mai badato.»
Mike sorrise. «Comunque ho riparato anche quella. Vuoi che
vada a prenderti le chiavi?»
«No, passerò io dopo il lavoro. Tanto ora la macchina non
mi serve, sono impegnata per tutto il giorno. Sai com'è il lunedì.»
Julie sorrise. «A proposito, com'è andata al Clipper?
Mi è spiaciuto molto non essere potuta venire a sentirti.»
Mike aveva trascorso il fine settimana a suonare grunge rock
con un gruppo di liceali ripetenti che aspiravano solo a rimorchiare,
bere birra e riempire le giornate con MTV. Aveva almeno
una decina di anni più di loro e, quando aveva mostrato
a Julie i calzoni sformati e la maglietta sdrucita che avrebbe
indossato per lo spettacolo, lei aveva annuito con un debole:
«Oh, carino».
«Mah, credo bene», rispose Mike.
«Nient'altro?»
Lui scrollò le spalle. «Tanto non era il mio genere di musica.»
Julie non fece commenti. Per quanto le fosse simpatico, la
sua voce come cantante non la convinceva per niente. Singer,
invece, ne sembrava entusiasta. Tutte le volte che Mike cantava
alle feste, il danese si metteva a ululare con lui e i loro amici
facevano scommesse su chi dei due avrebbe sfondato per
primo.
«Quanto ti devo per la macchina?» chiese.
Mike rimase a pensare qualche istante, grattandosi il mento.
«Credo che basteranno due tagli di capelli.»
«Ma no, dai. Stavolta voglio pagarti. Almeno i pezzi di ricambio.
Ce li ho i soldi, sai.»
Nell'anno precedente, la jeep, un vecchio modello, era finita
in officina per tre volte. Ma Mike era sempre riuscito a rimetterla
in marcia.
«Va bene così», protestò lui. «Anche se i miei capelli si stanno
un po' diradando, un buon taglio ogni tanto fa miracoli.»
«Senti, in ogni caso due tagli non mi sembrano abbastanza.»
«Non ci ho lavorato tanto, davvero. E anche i ricambi non
sono costati molto. Il rivenditore mi doveva un favore.»
Julie alzò leggermente il mento.
«Henry lo sa?»
Mike allargò le braccia con aria innocente. «Certo che lo sa.
Siamo soci. E poi l'idea è stata sua.»
Come no, pensò Julie.
«Allora grazie», disse infine. «Ti sono davvero riconoscente.»
«Figurati.» Mike fece una pausa. Avrebbe voluto fermarsi a
chiacchierare ancora un po', ma non sapendo bene cosa dire,
si voltò verso Singer. Il cane lo guardava attentamente, con la
testa piegata di lato, come a spronarlo: Avanti, coraggio, Romeo.
So benissimo quale argomento vuoi affrontare. Lui deglutì.
«Allora, com'è andata con... hum...» Cercò di assumere un
tono il più possibile disinvolto.
«Richard?»
«Sì, Richard.»
«E' stata una serata simpatica.»
«Ah.»
Mike annuì, aveva la fronte imperlata di sudore. Si chiese
come fosse possibile che facesse già tanto caldo di prima mattina.
«Eh... ecco... dove siete andati?» chiese.
«Alla Slocum House.»
«Un po' ambizioso per un primo appuntamento», commentò.
«Ho scelto io. L'alternativa era Pizza Hut.»
Mike dondolava da un piede all'altro, nell'attesa di vedere
se lei avrebbe aggiunto qualcos'altro. Non lo fece.
Niente di buono, pensò allora. Era chiaro che Richard era
diverso dal romantico Bob, divoratore di numeri. O da Ross,
il maniaco sessuale. Oppure da Adam, giunto dalle viscere di
Swansboro. Con avversari del genere era convinto di avere qualche
chance. Ma con uno come Richard? E la Slocum House?
«Certo... e ti sei divertita?» le chiese.
«Sì, molto.»
Molto? Quanto? Le cose non andavano per niente bene, considerò
lui.
«Sono contento per te», mentì, sforzandosi di sembrare entusiasta.
Julie gli posò una mano sul braccio. «Non preoccuparti,
Mike. Tu resterai sempre nel mio cuore.»
Mike si infilò le mani nelle tasche. «Perché ti ho riparato
l'auto», disse.
«Non svilirti in questo modo», replicò lei. «Mi hai anche riparato
il tetto.»
«E la lavatrice.»
Julie lo baciò su una guancia, poi gli strinse il braccio.
«Che posso dire, Mike? Sei proprio un bravo ragazzo.»
Mentre si incamminava verso il negozio, Julie avvertiva su di
sé lo sguardo di Mike, ma diversamente da quanto le accadeva
con altri uomini, non si sentiva in imbarazzo. Lui era un amico,
si disse, poi si corresse. No, era un caro amico, una persona
che non avrebbe esitato a chiamare in caso di necessità e
che le rendeva molto più facile la vita a Swansboro, perché era
una presenza su cui poteva sempre contare. Amici come lui erano
rari, ed era per questo che si sentiva un po' in colpa per essere
stata reticente sul... suo ultimo appuntamento.
Però non le andava di entrare nei dettagli, dato che Mike...
ecco, non era esattamente un mistero che avesse un debole
per lei, e non voleva ferirlo. Che cosa avrebbe dovuto dirgli?
A confronto degli altri, Richard è stato magnifico. Sicuramente
usciremo di nuovo insieme! Sapeva che, almeno da un paio
di anni, a suo modo Mike la corteggiava. Ma i suoi sentimenti
per lui erano molto complicati. E come avrebbe potuto essere
diversamente? Jim e Mike erano stati amici fin da ragazzini,
lui era stato il loro testimone di nozze e l'aveva confortata
dopo la scomparsa di suo marito. Per lei era diventato quasi
un fratello, e ora non era possibile cambiare la situazione
con uno schiocco delle dita.
E poi non c'era solo quello, rifletté. Il fatto che Jim e Mike
fossero stati tanto amici le provocava un vago senso di tradimento
al pensiero di uscire con lui. Se avesse accettato, significava
che in fondo in fondo aveva sempre desiderato farlo?
Che cosa ne avrebbe pensato Jim? E sarebbe mai riuscita a
guardare negli occhi Mike senza ripensare a tutte le occasioni
in cui loro tre si erano ritrovati insieme? Inoltre, se non avesse
funzionato, i rapporti tra lei e Mike si sarebbero guastati, e
non sopportava l'idea di perderlo come amico. No, la cosa più
semplice era lasciare le cose come stavano.
Sospettava che anche Mike avesse le stesse perplessità e che
per questa ragione esitasse a farsi avanti.
A volte, però - come quando l'estate prima erano stati in
barca a fare sci d'acqua con Henry ed Emma - sembrava che
lui volesse trovare il coraggio di farlo e in quei momenti era
un po' comico. Anziché mostrarsi come sempre disponibile e
divertente, all'improvviso diventava silenzioso, e assumeva
un'aria assente e misteriosa. Invece di ridere spontaneamente
delle battute che facevano gli altri, ammiccava o roteava gli
occhi, oppure si esaminava le unghie. Quella volta in barca le
aveva sorriso lanciandole un'occhiata di fuoco del tipo: Ehi,
baby, perché non ce la spassiamo sul serio noi due? Suo fratello
Henry diventava spietato quando lui assumeva quell'atteggiamento.
Notando l'improvviso cambiamento di modi, gli
aveva chiesto se avesse mangiato qualcosa di strano, perché
aveva una faccia da mal di pancia.
L'ego di Mike si era sgonfiato all'istante.
Julie sorrise, ricordando l'episodio. Povero Mike.
Il giorno dopo era tornato quello di sempre. E lei preferiva
di gran lunga questa sua personalità allegra, si disse. Infatti provava
irritazione per gli uomini convinti che per una donna uscire
con loro fosse un grande onore, quelli che assumevano atteggiamenti
da duri, oppure attaccavano briga nei bar per dimostrare
che non si facevano mettere i piedi in testa da nessuno.
D'altro canto, Mike era davvero un ottimo partito, da tutti
i punti di vista. Aveva buon cuore e un bell'aspetto; quando
sorrideva socchiudeva gli occhi in maniera deliziosa e lei adorava
le sue fossette. Inoltre, ammirava il modo in cui sembrava
scrollarsi di dosso le cattive notizie con un'alzata di spalle.
Le piacevano gli uomini che ridevano, e Mike rideva molto.
E trovava assolutamente fantastico il suono della sua risata...
Ma come accadeva tutte le volte che i suoi pensieri prendevano
quella direzione, una vocina dentro di lei l'ammonì: Attenta.
Mike è tuo amico, il tuo migliore amico. Non vorrai mica
rovinare tutto, vero?
In quel momento Singer le si strofinò addosso, distogliendola
dalle sue riflessioni.
«Sì, va' pure avanti, vagabondo», gli disse.
Il danese trotterellò oltre la panetteria, poi entrò dalla porta
spalancata del negozio di Mabel, che teneva sempre pronto
per lui un biscottino croccante.
«Allora, com'è andato il suo appuntamento?» Henry era appoggiato
allo stipite, accanto alla macchinetta del caffè, con in
mano un bicchierino di plastica.
«Non gliel'ho chiesto», rispose Mike in un tono che manifestava
quanto trovasse ridicola anche solo l'idea. Si infilò la
tuta sopra i jeans.
«E perché no?»
«Non ci ho pensato.»
«Mmm», commentò Henry.
A trentotto anni, era per molti versi l'alter ego maturo di
Mike. Più alto e più piazzato, il suo giro vita si espandeva
proporzionalmente
a quanto si ritiravano i capelli; sposato da dodici
anni con Emma, padre di tre figlie e con una villetta di
proprietà, aveva raggiunto una certa stabilità esistenziale. A
differenza di Mike, non aveva mai nutrito aspirazioni artistiche.
Si era diplomato in economia aziendale e, come tanti primogeniti,
non poteva fare a meno di essere protettivo nei confronti
del fratello minore, di accertarsi che stesse bene e non
facesse cose di cui poi si sarebbe pentito.
Il fatto che il suo sostegno fraterno comprendesse anche prese
in giro, insulti e qualche occasionale scappellotto per farlo
tornare con i piedi per terra avrebbe potuto sembrare crudele,
ma in che modo avrebbe dovuto agire altrimenti? Henry
sorrise. Qualcuno doveva stare attento al ragazzo.
Intanto Mike si era infilato la tuta sporca di grasso fino in
vita.
«Volevo solo informarla che la sua macchina era pronta.»
«Di già? Non avevi detto che c'era anche una perdita d'olio?»
«Infatti.»
«E l'hai già riparata?»
«Mi ci sono volute poche ore.»
«Mmm...» fece di nuovo Henry. Si schiarì la gola. «E' così
che hai passato il fine settimana? Lavorando alla sua macchina?»
«Non solo. Ho anche suonato al Clipper, ma scommetto che
te ne eri dimenticato, vero?»
Henry alzò le mani in un gesto di difesa. «Sai che non mi
piace quella roba moderna. E poi avevamo a cena i genitori di
Emma.»
«Potevano venire anche loro.»
Suo fratello rise di gusto, rischiando di rovesciare il caffè.
«Come no. Te li immagini quei due al Clipper'? Secondo loro
la musica negli ascensori è già troppo alta e il rock è il mezzo
con cui Satana s'impossessa del cervello della gente. Gli
avrebbero sanguinato le orecchie, se fossero venuti lì.»
«Lo dirò a Emma.»
«Sarebbe d'accordo con me», replicò Henry. «Sono state parole
sue, non mie. Allora, com'è andata? Al Clipper, voglio dire?»
«Bene.»
Henry annuì, comprensivo. «Mi spiace.»
Mike scrollò le spalle e si allacciò la tuta.
«Dimmi, che cosa hai fatto pagare a Julie stavolta? Tre matite
e un panino?»
«No.»
«Un sasso luccicante?»
«Ah-ha.»
«Dico sul serio. Sono curioso.»
«Il solito.»
Henry fischiò. «Fortuna che sono io a tenere la contabilità.»
Mike gli lanciò un'occhiata spazientita. «Sai bene che anche
tu le avresti proposto un baratto.»
«E' vero.»
«E allora perché tiri fuori la cosa?»
«Perché voglio sapere com'è andato il suo appuntamento.»
«Che cosa c'entra questo con il costo della riparazione della
macchina?»
Henry sorrise. «Non lo so esattamente, fratellino. Secondo
te?»
«Secondo me non hai bevuto abbastanza caffè stamattina e
non riesci a pensare lucidamente.»
Henry finì di bere. «Sai, è probabile che tu abbia ragione.
Sono sicuro che non te ne importa niente dell'appuntamento
di Julie.»
«Esatto.»
Henry prese la caraffa e si versò un'altra tazza di caffè. «Allora
scommetto che non ti interessa nemmeno quello che ne
pensa Mabel.»
Mike alzò gli occhi. «Mabel?»
Con gesti noncuranti, Henry aggiunse il latte e lo zucchero.
«Sì, Mabel. Li ha incontrati al ristorante sabato sera.»
«Come fai a saperlo?»
«Perché ho scambiato due chiacchiere con lei dopo la messa
e me lo ha raccontato.»
«Davvero?»
Henry voltò le spalle al fratello, diretto verso l'ufficio, un
sorriso stampato sul viso. «Ma dato che non ti interessa, lasciamo
perdere.»
Sapeva per esperienza che Mike sarebbe rimasto lì paralizzato
fuori dalla porta per parecchio tempo dopo che lui si era
seduto alla scrivania.
3.
Sebbene Andrea Radley avesse preso il diploma di parrucchiera
da un anno e lavorasse per Mabel ormai da nove mesi,
non era certo una dipendente modello. Non solo aveva la tendenza
a prendersi giorni di «permesso per ragioni personali»
senza preavviso, e senza nemmeno telefonare, ma le volte in cui
si presentava al lavoro raramente era puntuale.
E non era neanche particolarmente portata per il taglio e
l'acconciatura. Non aveva l'abilità o la pazienza di seguire le
indicazioni dei clienti, non importava che le facessero vedere
la foto della pettinatura desiderata, né che le spiegassero con
precisione quello che desideravano: tagliava i capelli a tutti allo
stesso modo. Ma nessuno si lamentava: Andrea aveva già
quasi lo stesso numero di clienti di Julie, e non a caso erano
tutti uomini.
Ventitreenne, bionda e con un paio di gambe lunghissime,
era perennemente abbronzata e sembrava appena giunta da una
spiaggia della California, anziché dal paesino di montagna
dov'era cresciuta. E faceva del suo meglio per mettersi in mostra:
indipendentemente dalla temperatura esterna, indossava
sempre minigonne vertiginose accompagnate in estate da top
succinti e in inverno da stivali di pelle a tacco alto. Chiamava
tutti i suoi clienti «zuccherino», sbatteva le folte ciglia allungate
dal mascara e ruminava in continuazione gomma da masticare.
Julie e Mabel si divertivano un sacco a guardare l'espressione
sognante con cui i malcapitati fissavano la sua immagine
nello specchio. Erano convinte che non avrebbe perso un
cliente neanche se lo avesse accidentalmente rapato a zero.
Nonostante l'aspetto provocante, Andrea era piuttosto ingenua
in fatto di uomini. Certo, credeva di sapere che cosa volessero
da lei, e la maggior parte delle volte aveva ragione. Quello
che non capiva era come tenerseli, dopo. Non faticava a combinare
appuntamenti con motociclisti tatuati, oppure avventori
del Clipper o malviventi rilasciati su cauzione, ma non riusciva
mai a uscire con qualcuno che avesse un lavoro fisso.
Almeno era quello che si diceva quando era in uno dei suoi
momenti di autocommiserazione. In realtà, riceveva regolarmente
inviti da uomini affidabili, ma sembrava perdere subito
interesse per loro e se ne dimenticava prontamente.
Negli ultimi tre mesi era uscita con sette tizi diversi, totalizzando
trentun tatuaggi, sei Harley, due violazioni della libertà
condizionata e zero lavori, e in quel momento si sentiva sul depresso.
Sabato aveva offerto la cena e il cinema al suo accompagnatore,
che era senza un soldo, ma lui il giorno dopo l'aveva
richiamata? No, ovviamente. Non ci pensava nemmeno. I
suoi accompagnatori non chiamavano mai, a meno che non fossero
al verde o non si sentissero «un po' soli».
Quella mattina, invece, Richard aveva telefonato in negozio
chiedendo di Julie, rifletté.
E, quel che era peggio, lei non aveva nemmeno dovuto offrirgli
la cena perché lo facesse. Ma perché Julie si beccava
sempre gli uomini migliori? si chiese. Non si vestiva nemmeno
bene. Aveva un aspetto dimesso, con i jeans larghi, i maglioni
sformati e, diciamoci la verità, delle scarpe orribili. Di
sicuro non si sforzava di mettere in risalto la sua figura, non
si curava le unghie, non era mai abbronzata, tranne che in
estate. Allora come aveva fatto a conquistare Richard?
C'era anche lei nel negozio quando era entrato la settimana
prima per farsi tagliare i capelli; erano entrambe libere e, al suo
arrivo, avevano alzato la testa contemporaneamente. Ma Richard
aveva scelto Julie e alla fine le aveva chiesto di uscire.
Corrugò la fronte, assorta.
«Ahia!»
Strappata da un grido di dolore alle sue riflessioni, Andrea
abbassò gli occhi sul cliente. Era un avvocato sulla trentina, che
si stava massaggiando la cute.
«Che cosa c'è, zuccherino?»
«Mi hai ferito con la punta delle forbici.»
«Davvero?»
«Sì. Fa male.»
Andrea sbatté le ciglia.
«Mi spiace, zuccherino. Non volevo. Non sei arrabbiato con
me, vero?»
«No... no», disse lui alla fine, togliendo la mano. Guardandosi
allo specchio, commentò: «Non ti pare che il taglio sia un
po' storto?»
«Dove?»
«Qui.» Indicò con il dito. «Hai tagliato troppo questa basetta.»
Andrea sbatté due volte gli occhi, poi piegò lentamente il capo
da una parte all'altra. «Credo che sia storto lo specchio.»
«Lo specchio?» fece lui.
Lei gli mise una mano sulla spalla e sorrise. «Secondo me
stai benissimo, zuccherino.»
«Davvero?»
Dall'altro lato del salone, accanto alla finestra, Mabel alzò lo
sguardo dalla rivista e si accorse che il cliente si stava praticamente
sciogliendo sulla sedia. Scrollò il capo mentre Andrea si
rimetteva al lavoro.
Dopo un attimo, tranquillizzato, l'uomo tornò a sedersi più
dritto.
«Senti, ho un paio di biglietti per lo spettacolo di Faith Hill
a Raleigh, tra due settimane», disse. «Mi chiedevo se ti andava
di venirci con me.»
Sfortunatamente, la mente di Andrea era tornata a concentrarsi
su Richard e Julie. Mabel le aveva raccontato che erano
andati a cena alla Slocum Housel. Pur non essendoci mai stata,
sapeva che si trattava di un ristorante molto chic, il genere
di locale con le candele sui tavoli. E dove c'era il guardaroba
per i cappotti. E poi, tovaglie di stoffa, e non quella robaccia
di plastica a quadri bianchi e rossi. Lei non era mai stata invitata
in un posto del genere. Quelli con cui usciva probabilmente
non sapevano nemmeno che esistessero.
«Mi spiace, ma non posso proprio», rispose automaticamente.
Conoscendo Richard (anche se a dire la verità non lo conosceva
affatto), era sicura che le avesse anche mandato dei fiori.
Rose, probabilmente, si disse. Rose rosse! Già se le immaginava.
Ma perché quelli buoni capitavano tutti a Julie?
«Oh», fece il cliente.
L'esclamazione riportò Andrea al presente. «Come, scusa?»
chiese.
«Niente, niente.»
Nel dubbio, Andrea fece un sorriso smagliante e l'uomo
tornò a sciogliersi.
Dal suo angolo, Mabel dovette sforzarsi di trattenere una
risata.
Mabel vide Julie entrare in negozio poco dopo Singer. Stava
per salutarla, quando Andrea si intromise.
«Ha telefonato Richard», annunciò senza curarsi di mascherare
il proprio disappunto. Si stava limando le unghie già
perfettamente curate con grande energia.
«Davvero?» fece Julie. «Che cosa voleva?»
«Non gliel'ho chiesto», ribatté Andrea acida. «Non sono la
tua segretaria, sai.»
Mabel scrollò il capo per indicare a Julie di non prendersela.
Aveva sessantatré anni ma con il tempo era diventata una
delle sue migliori amiche, indipendentemente dal fatto che fosse
la zia di Jim.
Julie le era grata per l'accoglienza ricevuta anni prima e non
le importava che lei fosse un po' eccentrica... per usare un
eufemismo.
Da quando si era stabilita lì, aveva imparato che tutti gli
abitanti di Swansboro avevano qualche lato stravagante nella
loro personalità. Mabel, tuttavia, era eccentrica con la E
maiuscola, soprattutto per gli standard di quella piccola e tradizionale
cittadina del Sud. Era diversa a paragone degli altri,
e tutti lo sapevano. Nonostante avesse ricevuto almeno tre
proposte di matrimonio, non si era mai sposata e questo già
la escludeva dai vari circoli e gruppi di persone della sua età.
E poi girava in motorino, prediligeva gli abiti a pois, e aveva
un'ampia collezione di cimeli di Elvis Presley.
A trentasei anni, dopo essere sempre vissuta a Swansboro,
Mabel era partita senza avvisare nessuno e nel decennio successivo
aveva spedito alla famiglia cartoline da tutto il mondo:
da Ayers Rock in Australia, dal Kilimangiaro, dai fiordi
norvegesi, dal porto di Hong Kong. Infine era ricomparsa all'improvviso
come era sparita e aveva ripreso la propria vita
esattamente dal punto dove l'aveva lasciata, tornando al lavoro
di parrucchiera. Nessuno sapeva perché l'avesse fatto,
né dove avesse trovato i soldi per viaggiare e per aprire in seguito
il suo negozio, né lei aveva mai dato spiegazioni in proposito.
«E' un mistero», diceva ammiccando e questo non faceva
altro che alimentare i pettegolezzi sul suo discutibile passato.
Mabel però non si curava dell'opinione della gente e Julie
l'ammirava anche per questo. Si vestiva come voleva, frequentava
chi voleva, e faceva quello che voleva. Più di una volta Julie
si era chiesta se le sue manie fossero vere o se non facessero
parte del personaggio che si era costruita affinché parlassero
di lei. Comunque l'adorava incondizionatamente. Le piaceva
persino la sua inclinazione a ficcare il naso negli affari altrui.
«Allora, com'è andata con Richard?» chiese infatti lei un attimo
dopo.
«A dire la verità, sono stata un po' in ansia per te tutta la sera»,
le rispose Julie. «Temevo che ti stirassi qualche muscolo
del collo a forza di allungarlo per origliare.»
«Oh, non devi preoccuparti per questo», replicò Mabel ridendo,
«è bastata un'aspirina e sono tornata come nuova. Ma
adesso smettila di cambiare argomento. E' andata bene?»
«Direi di sì, considerato il fatto che l'ho appena conosciuto.»
«Dal mio tavolo, sembrava che lui ti conoscesse da sempre.»
«Perché dici così?»
«Non saprei. Forse per via della sua espressione o del modo
in cui ti fissava. Era come se i suoi occhi fossero incatenati
ai tuoi da un filo invisibile.»
«Non era troppo evidente, vero?»
«Tesoro, sembrava un marinaio in licenza che guarda uno
spettacolo di ballerine.»
Julie rise e si infilò la casacca da lavoro. «Devo averlo accecato
con la mia grazia.»
«Suppongo... di sì.»
Qualcosa nel suo tono indusse Julie ad alzare la testa. «Cosa
c'è? Non ti piace?»
«Non posso esprimere un giudizio. In fondo non lo conosco
nemmeno, giusto? Ero fuori quando è venuto qui in negozio
e sabato al ristorante non hai fatto le presentazioni. Eri
troppo impegnata a ricambiare il suo sguardo.» Mabel le
strizzò l'occhio. «E poi in fondo sono una vecchia romantica.
Fintanto che un uomo sa ascoltare ed è interessato a quello
che dici, il suo aspetto non è poi così importante.»
«Non lo trovi attraente?»
«Oh, mi conosci... preferisco i tizi che vengono qui per Andrea.
Trovo veramente molto sexy i tatuaggi a colori sui bicipiti.»
Julie rise. «Non farti sentire da lei, potrebbe offendersi.»
«Ne dubito. Se non le fai un disegno, non capisce nemmeno
di che stai parlando.»
Proprio in quel momento la porta si aprì e una cliente entrò
nel negozio. Julie si mosse per andarle incontro.
«Allora... uscirai di nuovo con lui?» chiese ancora Mabel.
«Non so se me lo chiederà, ma spero di sì.»
Gli occhi della donna lampeggiarono maliziosi. «E cosa dirai
al tuo povero, dolce Bob? Gli si spezzerà il cuore.»
«Se dovesse chiamare di nuovo, potrei dirgli che tu sei interessata
a uscire.»
«Ti prego, fallo: ho bisogno di una consulenza fiscale. Ma
temo che possa giudicarmi un po' troppo avventurosa per lui.»
Fece una pausa. «Come l'ha presa Mike?» Mabel li aveva visti
parlare in strada poco prima.
Julie scrollò le spalle. Si aspettava quella domanda. «Bene.»
«E' un bravo ragazzo, sai.»
«Hai ragione.»
Mabel non insistette oltre, sapendo che era inutile. Ma in
cuor suo sentiva che Mike e Julie sarebbero stati una bella coppia.
E nonostante quello che entrambi credevano, era sicura
che a Jim non sarebbe affatto dispiaciuto.
Non poteva sbagliarsi. Dopo tutto era sua zia.
La giornata si annunciava insolitamente calda per la stagione
e Mike stava riparando un'automobile quando la chiave inglese
gli rimase incastrata nel motore. Nel tentativo di liberarla,
tirò un po' troppo forte e si tagliò il dorso della mano. Dopo
aver medicato la ferita, cercò nuovamente di recuperare l'attrezzo,
con il medesimo risultato. Imprecando tra sé, si allontanò
dalla macchina e la fissò con sguardo truce, come se cercasse
di intimidirla per indurla a fare come voleva.
Era tutta la mattina che infilava un errore dietro l'altro in
un lavoro da niente e adesso non riusciva neppure a estrarre
quella stupida chiave inglese, pensò. Comunque non era solo
colpa sua, ovviamente. Come faceva a concentrarsi sul lavoro
se non la smetteva di rimuginare sulle parole di Julie?
Il suo simpatico Richard. Il suo divertente Richard.
Ma che cosa aveva di tanto simpatico? E che cosa intendeva
lei per divertente? C'era un solo modo per scoprirlo, lo sapeva,
anche se l'idea non gli andava a genio. Ma aveva altra
scelta, forse? Julie non era stata propriamente aperta con lui,
e non poteva certo presentarsi in negozio per chiederlo a Mabel
davanti a lei. Quindi Henry era la sua unica opzione.
Henry il bravo, gentile fratello maggiore. Come no, pensò
Mike.
Henry avrebbe potuto dirglielo prima, e invece nooo, lo aveva
lasciato lì a friggere. Henry sapeva esattamente quel che
faceva troncando la conversazione in quel modo, rifletté. Voleva
che andasse da lui a implorarlo in ginocchio di raccontargli
quello che sapeva, tanto per farsi quattro risate.
Nossignore, si disse Mike. Stavolta non gliel'avrebbe data
vinta.
Si chinò nuovamente sul cofano aperto e provò a tirare la
chiave inglese, ma... niente. Guardandosi intorno, vide un cacciavite
e pensò che magari con quello avrebbe potuto fare leva.
Ci provò, ma proprio quando lo aveva messo nella posizione
giusta, gli tornò in mente la voce di Julie: E' stata una serata
simpatica. Ci siamo divertiti molto... e anche quell'attrezzo
gli sfuggì di mano.
Cercò di recuperare almeno il cacciavite, ma quello scivolò
ancora, tintinnando come la pallina di un flipper, e alla fine
scomparve. Mike scrutò da ogni parte ma, pur conoscendo alla
perfezione quel modello di motore, non aveva idea di dove
fosse finito.
Si rialzò con un'espressione incredula.
Grandioso, pensò. Magnifico. La chiave inglese è incastrata,
il cacciavite è stato risucchiato da un buco nero meccanico
e io non ne faccio una giusta. E' un'ora che lavoro e, se va avanti
così, finirà che dovrò telefonare a Blaine Sutter per ordinare
una batteria di attrezzi nuovi.
Doveva proprio parlare con Henry, decise. Era l'unico modo
per togliersi quel tarlo dalla mente. Accidenti.
Prese uno straccio e si pulì le mani mentre si dirigeva verso
il fondo dell'officina, profondamente contrariato con se stesso
per essere arrivato a quel punto e cercando di trovare il modo
giusto per affrontare l'argomento, prendendolo alla larga.
Suo fratello non gli avrebbe certo reso le cose più facili, pensava,
probabilmente aveva passato tutta la mattinata pregustando
il momento. Doveva agire d'astuzia. Dopo un attimo di
riflessione, infilò la testa nell'ufficio.
Henry era seduto alla scrivania ingombra di carte e stava parlando
al telefono. Sul piano c'erano anche un pacchetto di biscotti
e una lattina di Pepsi aperti. Teneva sempre qualche porcheria
in ufficio, per compensare i pranzi salutari di Emma, e
gli fece segno di entrare.
Mike si sedette di fronte a lui.
«Era il rappresentante di Jacksonville», disse Henry dopo
aver riagganciato. «Il pezzo di ricambio che ti serviva per la
Volvo non arriverà prima della settimana prossima. Ricordami
di avvisare Evelyn, d'accordo?»
«Non preoccuparti», rispose Mike.
«Allora, che cosa c'è, fratellino?»
Ovviamente Henry lo sapeva benissimo. L'espressione che
aveva stampata in faccia non lasciava dubbi, ma la vista di Mike
che ballava sui carboni ardenti lo metteva sempre di buonumore
per tutta la giornata.
«Sai», iniziò il fratello, «stavo pensando...» Poi si fermò.
«Sì?» chiese Henry.
«Ecco, stavo pensando che forse dovrei ricominciare a venire
in chiesa con te e la famiglia, la domenica.»
Henry si portò un dito al mento, assorto. Un approccio originale,
complimenti, anche se non ti servirà a niente.
«Davvero?» fece, nascondendo un sorriso.
«Sì. E' troppo tempo che non lo faccio.»
Henry annuì. «Mmm... forse hai ragione. Preferisci che ci
troviamo direttamente lì, o che passiamo a prenderti?»
Mike si agitò sulla sedia. «Aspetta un attimo... prima vorrei
sapere com'è il nuovo reverendo. Voglio dire, i suoi sermoni
piacciono? La gente ne parla dopo?»
«A volte.»
«Ma la gente si ferma a scambiare due chiacchiere, dopo la
messa, no?»
«Certo. Lo scoprirai da te domenica. Ci andiamo alle nove.»
«Alle nove. Va bene.» Mike annuì, poi fece una pausa. «Senti,
tanto per sapere, che cosa hanno detto domenica scorsa?»
«Dunque, vediamo...» Henry corrugò la fronte, fingendo di
concentrarsi. «A pensarci bene, non me lo ricordo. Io stavo
parlando con Mabel.»
Bingo, pensò Mike sorridendo tra sé. Come avevo previsto.
Sono un maestro dell'inganno.
«Con Mabel?» chiese con aria innocente.
Henry prese un biscotto, lo addentò, poi si appoggiò allo
schienale, masticando con gusto. «Sì. In genere lei va alla messa
precedente, ma la sera prima aveva fatto tardi. Abbiamo
parlato parecchio e mi ha riferito cose davvero interessanti.»
Alzò lo sguardo verso il soffitto, contò i forellini nei pannelli
per guadagnare tempo, poi abbassò la testa, scrollandola.
«Ma tanto tu non vuoi sentirle: hai detto che l'appuntamento
di Julie è un argomento che non ti riguarda. Allora passiamo
a prenderti domenica o no?»
Mike impiegò qualche istante per riprendersi dopo che il suo
piano era andato in fumo.
«Ecco... cioè...»
Henry lo guardò negli occhi con un'espressione furba. «A
meno che tu non abbia cambiato idea, ovviamente.»
Mike impallidì. «Ma...»
Suo fratello scoppiò a ridere. Si era divertito abbastanza e
adesso era il momento di smettere. Tornato serio, si sporse in
avanti. «Dimmi una cosa, Mike, perché continui a negare il tuo
interesse per Julie?»
Mike sbatté le palpebre. «Siamo soltanto amici», disse
automaticamente.
Henry fece finta di non averlo sentito. «E' per via di Jim?»
Lui non rispose, allora Henry posò il biscotto e proseguì.
«Ormai è scomparso da molto tempo. Non devi sentirti come
se volessi portargli via la moglie.»
«Ma allora perché hai sempre cercato di ostacolare le mie
iniziative? L'estate scorsa in barca, per esempio.»
«Perché lei aveva bisogno di tempo, Mike. Lo sai. Non era
pronta a frequentare altri uomini l'anno scorso e nemmeno sei
mesi fa. Ma adesso sì.»
Preso alla sprovvista, Mike non sapeva che cosa rispondere.
né riusciva a comprendere come facesse suo fratello a sapere
tutte quelle cose.
«Non è così facile», rispose infine.
«Lo so. Credi che per me sia stato facile invitare fuori Emma
la prima volta? C'erano un sacco di altri ragazzi che volevano
uscire con lei, ma mi sono detto che il peggio che poteva
capitarmi era che mi dicesse di no.»
«Per te era più semplice... Emma mi ha confidato che le sei
piaciuto dal primo momento che ti ha visto. Eravate fatti l'uno
per l'altra.»
«Ma io allora non lo sapevo. Sapevo soltanto che dovevo tentare.»
Mike lo guardò dritto negli occhi. «Lei però non era stata
sposata con il tuo migliore amico.»
«No», rispose Henry, «però non eravamo neppure amici come
te e Julie».
«E' proprio questo il punto. E se le cose tra di noi dovessero
cambiare?»
«Stanno già cambiando, fratellino.»
«Non è vero.»
«Invece sì. Altrimenti non avresti avuto bisogno di chiedere
a me del suo appuntamento. Te l'avrebbe raccontato lei stessa,
come ha fatto nel caso di quel Bob, giusto?»
Mike rimase senza parole, ma quando uscì dall'ufficio qualche
istante più tardi, capì che Henry aveva ragione.
4.
Singer alzò il muso dalla coperta non appena Richard varcò
la soglia del negozio, ma si limitò a ringhiare piano, come se temesse
che Julie potesse sgridarlo di nuovo.
«Salve, zuccherino. Serve un altro taglio?» chiese Andrea
con un sorriso seducente.
Scrutò Richard, che indossava un paio di jeans e una camicia
sportiva aperta sul collo quel tanto che bastava a mostrare
i primi peli del petto. E che occhi aveva! «Un paio di minuti e
ho finito», aggiunse.
Lui scrollò la testa. «No, grazie», rispose. «C'è Julie?»
Il sorriso di Andrea si dissolse all'istante. Masticando rumorosamente
la cicca, indicò con il dito. «Sì», disse imbronciata.
«E' là dietro.»
Mabel aveva sentito suonare il campanello della porta e uscì
dal retro del negozio.
«Oh... Richard, giusto? Come va?» chiese.
Lui l'aveva riconosciuta da quella sera al ristorante e, sebbene
l'espressione della donna sembrasse benevola, sapeva di
essere ancora sotto esame. Le città di provincia erano tutte
uguali, pensò.
«Bene, grazie, signora. E lei?»
«Bene. Julie arriverà tra un istante. E' impegnata con una
cliente, ma ora vado a chiamarla.»
«Grazie.»
Richard sentiva ancora gli occhi di Andrea su di sé. Di sicuro
era un gran bel pezzo di figliola, pensò, ma non gli faceva una
particolare impressione. Non era il suo genere di bellezza, si sforzava
troppo di piacere. E lui preferiva le donne più naturali.
«Richard?» lo chiamò Julie un attimo dopo. Gli sorrise, ancora
una volta impressionata dal suo bell'aspetto.
Singer si alzò dalla cuccia e fece per seguirla, ma lei alzò una
mano per fermarlo. Il danese si bloccò smettendo di ringhiare.
«Oh, ciao», rispose Richard. «Comincia ad abituarsi a me,
vedo.»
Julie lanciò un'occhiata al cane. «Chi, lui? Oh, abbiamo fatto
un bel discorsetto. Credo che abbia capito.»
«Un discorsetto?»
«E' geloso.»
«Geloso?»
Julie alzò le spalle. «Dovresti vivere con lui per capire.»
Richard era stupito ma non fece commenti.
«Allora, che cosa ti porta da queste parti?»
«Sono venuto a vedere come stavi.»
«Sto bene, ma in questo momento sono un po' impegnata.
Ho avuto da fare tutta la mattina. Come mai non sei al lavoro?»
«Come consulente ho una certa libertà, così ho deciso di fare
un salto in città.»
«Solo per vedermi?»
«Era la cosa migliore che potessi fare.»
Lei sorrise. «Sono stata bene sabato sera», disse.
«Anch'io.» Richard lanciò una rapida occhiata a Mabel e Andrea
che, pur fingendosi occupate in altre cose, di sicuro non
si perdevano una battuta. «Hai tempo per una breve pausa, così
possiamo andare a parlare fuori? Ho telefonato prima, ma
non c'eri.»
«Mi piacerebbe, ma...»
«Non ci vorrà molto.»
Julie esitò, dando un'occhiata all'orologio.
«Te lo prometto», aggiunse Richard. «So che stai lavorando.»
Un rapido calcolo le disse che aveva un po' di tempo libero.
«D'accordo», rispose, «ma solo per pochi minuti. Altrimenti
dovrò passare il pomeriggio a cercare di rimediare a una tinta
venuta male. Un attimo e arrivo, d'accordo?»
«Certo.»
Julie andò dalla sua cliente, che aveva la testa avvolta in una
cuffia di gomma bucherellata dalla quale uscivano ciocche di
capelli impastate di una sostanza violacea. Controllò il colore,
abbassò l'intensità del calore del casco per guadagnare un altro
minuto e tornò da Richard.
«Bene», disse incamminandosi verso l'uscita. «Sono pronta.»
Richard la seguì fuori e la porta si richiuse alle sue spalle con
un altro tintinnio del campanello.
«Che cosa volevi dirmi?»
Lui scrollò le spalle. «Niente di importante, in realtà. Desideravo
solo averti tutta per me per qualche momento.»
«Vuoi scherzare?»
«No.»
«Ma perché?»
«Mah», rispose lui con finta innocenza, «non lo so con certezza.»
«Ho trovato il biglietto che mi hai lasciato», disse lei. «Non
eri tenuto a farlo.»
«Lo so. Ma mi andava.»
«E' per questo che hai telefonato stamattina? Per informarti
se l'avevo letto?»
«No. Volevo solo sentire la tua voce. I bei ricordi, sai?»
«Di già?»
«Sono rimasto affascinato.»
Julie lo guardò bene, pensando lusingata che quello era un
ottimo modo di iniziare la giornata. Richard si era messo a
giocherellare
con il cinturino dell'orologio.
«In realtà, oltre al desiderio di vederti, sono qui anche per
un altro motivo.»
«Capisco. Prima mi addolcisci, poi mi fai ingoiare la pillola,
giusto?»
Lui rise. «In un certo senso. In realtà volevo sapere se ti andava
di uscire con me anche sabato prossimo.»
Con una fitta di disappunto, Julie ricordò di essere stata invitata
a cena da Emma ed Henry con Mike proprio quella sera.
«Mi piacerebbe, davvero, ma ho un invito a casa di amici.
Però potremmo uscire venerdì, o un altro giorno della settimana.»
Richard scrollò il capo. «Purtroppo stasera parto per Cleveland
e non tornerò prima di sabato. E ho appena saputo che
potrei rimanere via dalla città anche il weekend successivo.
Non è ancora stabilito, ma è assai probabile.» Fece una pausa.
«Sei sicura di non farcela?»
«Sì», disse lei, pronunciando quelle parole con rimpianto.
«Sai, sono buoni amici, non posso piantarli in asso all'ultimo
momento.»
Per un attimo, un'espressione imperscrutabile passò sul viso
di Richard, ma scomparve subito. «D'accordo.»
«Mi spiace», mormorò Julie, sperando si accorgesse che diceva
sul serio.
«Non preoccuparti.» Il suo sguardo vagò lontano prima di
tornare a posarsi su di lei. «Senti, sono cose che succedono, non
c'è problema. Posso telefonarti tra un paio di settimane, quando
torno? Magari potremo organizzare un'uscita per allora.»
Un paio di settimane?
«Senti, aspetta», si affrettò a dire Julie. «Potresti sempre venire
a cena dai miei amici. Sono sicura che per loro andrebbe
bene.»
Richard scrollò il capo. «No, sono amici tuoi, e io non sono
molto disinvolto nel conoscere nuove persone. Non lo sono mai
stato... credo per timidezza...» Indicò verso il negozio. «Ora
vai, avevo promesso di non trattenerti troppo e sono una persona
di parola. E poi anch'io devo tornare al lavoro.» Sorrise.
«Ciao, sei bellissima.»
Mentre Richard si voltava per andarsene, Julie lo richiamò
impulsivamente. «Aspetta!»
Lui si fermò. «Sì?»
Emma ed Henry avrebbero capito, no? si augurò Julie.
«Senti, visto che la settimana prossima sarai via, forse posso
liberarmi. Parlerò con l'amica che mi ha invitata.»
«Non voglio costringerti a rinunciare ai tuoi impegni.»
«Non è un problema... noialtri ci vediamo sempre.»
«Ne sei sicura?» chiese lui.
«Sì.»
Lui la guardò come se la vedesse per la prima volta. «E' magnifico.
..» disse e si chinò a baciarla. Non fu intenso, né troppo
lungo, ma fu comunque un bacio.
«Grazie», mormorò Richard.
ma Prima che lei potesse rispondergli, si allontanò sul marciapiede.
Julie lo seguì con lo sguardo.
«Ma l'ha proprio baciata?» chiese Mike, restando a bocca
aperta.
Si trovava vicino all'ingresso dell'officina quando aveva scorto
Richard raggiungere il negozio di Mabel, entrare da solo e
uscire con Julie. E nel momento in cui l'uomo si chinava a baciarla,
era arrivato suo fratello.
«A me sembrava di sì», rispose Henry.
«Ma non si conoscono neppure.»
«Adesso sì.»
«Grazie, Henry. Mi sento davvero meglio, ora.»
«Preferiresti che ti mentissi?»
«In questo preciso momento, credo di sì», borbottò lui un
po' depresso.
«E va bene», disse Henry, assorto. «Quel tizio ha un aspetto
orribile.»
Mike si prese la testa tra le mani.
Tornata in negozio, Julie andò dalla sua cliente.
«Temevo si fosse dimenticata di me», si lamentò la donna
abbassando la rivista che stava leggendo.
Julie controllò il colore su una ciocca di capelli. «Non si
preoccupi, ho tenuto d'occhio il tempo. Secondo me ci vogliono
ancora un paio di minuti. A meno che non li voglia scuri.»
«Li preferirei più chiari, lei che ne dice?»
«Anch'io.»
La donna si mise a spiegare come voleva i colpi di sole mentre
Julie l'ascoltava distrattamente. Non riusciva a smettere di
pensare a Richard e a ciò che era appena successo fuori.
Lui l'aveva baciata!
Non era niente di eccezionale, non nel grande schema del
destino, si disse. Eppure, per qualche ragione, non riusciva a
toglierselo dalla mente, né a capire le sensazioni che provava.
Era successo in modo così... così... così come?
Sempre assorta nei propri pensieri, si mise a cercare lo shampo
giusto, quando Mabel le si avvicinò.
«Ho visto davvero quello che ho appena visto?» chiese. «Lo
hai baciato?»
«Veramente è stato lui.»
«Non mi sembri troppo felice.»
«Non sono sicura che felice sia la parola giusta.»
«Perché?»
«Non saprei», rispose Julie. «E' stato così...»
«Inaspettato?» suggerì Mabel.
Julie ci pensò su. Certo, era stato un gesto audace, anche se
non eccessivo. E sicuramente lei lo trovava attraente, aveva
acconsentito
a uscire con lui, quindi non poteva esserne troppo
sorpresa. In fondo si aspettava di essere baciata al loro prossimo
appuntamento. E allora perché quella vaga sensazione che
Richard avesse appena oltrepassato un tacito confine senza chiederle
prima il permesso?
Scrollò le spalle, «Immagino di sì.»
Mabel la esaminò per qualche istante. «A questo punto direi
che l'altra sera anche lui si è divertito almeno quanto te»,
disse. «E' evidente che ti sta corteggiando come da manuale.»
Julie annuì lentamente. «Immagino di sì.»
«Immagini?»
«Mi ha lasciato persino un biglietto sulla porta. L'ho trovato
stamattina.»
Mabel alzò le sopracciglia.
«Credi che sia eccessivo?» le chiese Julie. «Dato il fatto che
ci siamo appena conosciuti.»
«Non necessariamente.»
«Ma potrebbe?»
«Non saprei. Potrebbe essere il genere di persona che sa
quello che vuole e che, quando lo trova, ci si tuffa a capofitto.
Ho conosciuto molti uomini così. Hanno il loro fascino. E tu
sei una bella preda, credimi.»
Julie sorrise.
«Oppure», aggiunse Mabel con un complicato movimento
delle spalle, «può darsi che sia un po' fuori di testa».
«Grazie mille.»
«Figurati. In ogni caso, ti do il benvenuto nel mondo degli
appuntamenti sentimentali. Come dico a tutti, non è mai noioso,
vero?»
Era da moltissimo tempo che Richard non rideva di gusto
e nell'abitacolo dell'auto il suono della sua risata rimbombò
forte.
«E' geloso», aveva detto Julie a proposito del cane. Come se
credesse sul serio che quel danese avesse emozioni umane. Che
buffo, pensò.
La serata trascorsa con lei era andata a meraviglia. Aveva apprezzato
la sua compagnia, ovvio, ma soprattutto aveva provato
ammirazione per la sua forza d'animo. Julie aveva avuto una
vita difficile, che avrebbe lasciato chiunque pieno di rabbia o
amarezza, invece in lei non ce n'era traccia.
Era anche incantevole. Il modo in cui gli aveva sorriso con
un trasporto quasi infantile, ricordò, e l'espressione assorta
mentre cercava di decidere se cambiare i programmi con gli
amici... avrebbe potuto restare a guardarla per ore senza stancarsi
mai.
«Sono stata bene sabato sera», gli aveva detto. Lo aveva
immaginato, si disse, ma aveva sentito il bisogno di rivederla
per assicurarsene. La mente può fare strani scherzi il giorno
dopo un appuntamento. Interrogativi, ansie, preoccupazioni...
avrebbe dovuto fare questo, avrebbe dovuto dire quello?
Il giorno prima aveva ripercorso mentalmente la loro serata,
soffermandosi sulle espressioni di Julie alla ricerca di implicazioni
nascoste nelle parole, che potessero suggerire un
qualche errore da parte sua. Era rimasto sveglio a lungo, finché
si era deciso a scriverle un biglietto e a recapitarglielo affinché
lo trovasse l'indomani.
Ma le sue preoccupazioni erano del tutto ingiustificate, concluse
compiaciuto. Erano stati bene insieme... anzi, magnificamente.
Ridicolo anche solo pensare di essersi sbagliato al riguardo.
Il cellulare cominciò a squillare e lui lesse il numero sul display.
Blansen dal lavoro. Senza dubbio il capocantiere aveva in
serbo altre brutte notizie sui ritardi nei lavori, o sull'aumento
dei costi. Blansen aveva sempre brutte notizie. Era una persona
davvero deprimente. Diceva di avere a cuore i suoi uomini,
ma in realtà non voleva farli lavorare come si doveva.
Invece di rispondere, Richard richiamò alla mente l'immagine
di Julie. Doveva esserci stata la mano del destino a guidare
il loro incontro. Quella mattina lui avrebbe potuto essere in
migliaia di altri posti. Non aveva nemmeno bisogno di farsi tagliare
i capelli, e invece era entrato nel negozio, come guidato
da una forza sconosciuta.
Il cellulare suonò di nuovo.
Sì, tutto è andato bene, a eccezione di una cosa. Oggi, verso la
fine...
Forse non avrebbe dovuto baciarla, meditò. In realtà non
ne aveva intenzione, ma aveva provato un tale sollievo quando
lei aveva acconsentito a uscire di nuovo nonostante l'impegno
preso con gli amici... era successo e basta. Una sorpresa
per entrambi. Forse era troppo e troppo presto?
Probabilmente era così, si disse, e se ne pentì. Non c'era motivo
di correre. La prossima volta avrebbe fatto meglio a prendersela
con calma. Doveva lasciarle un po' di spazio, fare in
modo che arrivasse da sola alle sue conclusioni su di lui, senza
fretta. In maniera naturale.
Il cellulare cominciò a suonare una terza volta, ma continuò
a non farci caso. Con gli occhi della mente rivide tutta la scena.
Molto graziosa.
5.
Mentre cenavano insieme il sabato successivo, Richard, seduto
di fronte a Julie, la guardava con l'ombra di un sorriso.
«Che cos'è che ti fa sorridere?» si informò lei.
Richard tornò al presente, l'espressione imbarazzata. «Scusa.
Stavo solo sognando a occhi aperti.»
«Sono così noiosa?»
«Per niente. Sono davvero felice che tu sia riuscita a uscire
con me stasera.» Si pulì l'angolo della bocca con il tovagliolo
e la guardò negli occhi. «Ti ho già detto quanto sei carina?»
«Almeno una decina di volte.»
«Vuoi che smetta?»
«No. Pensa pure quello che ti pare, ma mi piace stare su un
piedistallo.»
Richard rise. «Farò del mio meglio per tenertici.»
Erano al Pagini, un ristorantino di Morehead City che odorava
di spezie e di burro fresco, il genere di posto dove i camerieri
sono vestiti in bianco e nero e molte pietanze vengono
cucinate in sala. Al loro tavolo la luce delle candele si rifletteva
sui bicchieri di cristallo, facendo risaltare il colore dorato
del vino bianco. Richard si era presentato sulla porta di casa in
giacca e cravatta, con un mazzo di rose e un vago sentore di acqua
di colonia.
«Allora, raccontami la tua settimana», le disse. «Che cosa è
successo di bello durante la mia assenza?»
«Ti riferisci al lavoro?»
«Al lavoro e al resto. Voglio sapere tutto.»
«Forse sono io che dovrei farti questa domanda.»
«Perché?»
«Vedi», spiegò lei, «la mia vita non è poi così eccitante. Passo
le giornate in un negozietto di una cittadina del Sud, ricordi?»
Parlava in tono sicuro e divertito, come per allontanare
ogni eventuale compassione. «E poi mi sono resa conto di non
sapere quasi nulla di te.»
«Non è vero.»
«Sì, invece. Non so neppure che lavoro fai esattamente.»
«Ti ho detto che sono un consulente, no?»
«Sì, ma non sei entrato molto nei dettagli.»
«Solo perché il mio lavoro è noioso.»
Lei assunse un'espressione di finto scetticismo e Richard rimase
a pensare per un istante. «E va bene...» Fece una pausa.
«Diciamo che io sono quello che lavora dietro le quinte assicurandosi
che il ponte non crolli.»
«Non mi sembra affatto noioso.»
«E' solo un modo carino per dire che lavoro con i numeri
tutto il giorno. Insomma, passo il tempo a verificare calcoli e
preventivi.»
Lei lo osservò attentamente. «Era questo l'argomento della
riunione?»
«Quale riunione?»
«Quella di Cleveland.»
«Oh... no», rispose lui, scrollando il capo. «La mia società
parteciperà all'appalto di un altro progetto in Florida e così è
necessario fare molte ricerche... sui costi, il traffico, i tempi, e
cose simili. Ovviamente la società ha i suoi tecnici, ma usano
anche consulenti come me per essere sicuri che l'offerta risponda
a tutti i requisiti richiesti dalle gare d'appalto pubbliche.
Rimarresti sorpresa dalla mole di lavoro che occorre svolgere
prima di cominciare un progetto. Personalmente sono responsabile
della distruzione di vaste aree boschive solo per gli
incartamenti richiesti dal governo, e al momento sono anche a
corto di personale.»
Julie lo guardò alla luce bassa del ristorante. Il volto spigoloso,
a un tempo maschio e fanciullesco, le ricordava i modelli
che comparivano sulle pubblicità delle sigarette. Cercò, senza
successo, di immaginarselo da bambino.
«Che cosa fai nel tempo libero? Hai qualche hobby?»
«In realtà no. Tra il lavoro e la palestra non mi resta molto
tempo. In passato mi piaceva la fotografia. Quand'ero giovane
ho seguito diversi corsi e per un certo periodo ho accarezzato
l'idea di lavorare in quel campo. Mi sono anche comprato
l'attrezzatura. Ma è dura guadagnarsi da vivere come fotografo,
e io non me la sentivo proprio di passare i giorni a immortalare
matrimoni e battesimi, o a fare ritratti a bambini recalcitranti
per la gioia dei loro genitori.»
«E allora hai deciso di diventare ingegnere.»
Lui annuì. La conversazione languì per qualche istante e Julie
ne approfittò per bere un sorso di vino.
«Tu sei di Cleveland?» gli chiese poi.
«No, ci abito solo da un anno. Sono nato a Denver e ho trascorso
quasi tutta la mia vita in quella città.»
«Che cosa facevano i tuoi genitori?»
«Papà lavorava in un'industria chimica. E la mamma faceva
la mamma e basta. Almeno all'inizio. Stava a casa, cucinava, teneva
in ordine, sai, le solite cose. Ma dopo la morte di mio padre
ha dovuto mettersi a lavorare come cameriera. Lo stipendio
non era granché, però lei è riuscita a mantenermi e a permettermi
di studiare. Sinceramente, non so come abbia fatto.»
«Dev'essere una persona davvero speciale.»
«Lo era.»
«Era?»
«Lo è.» Lui abbassò gli occhi, facendo girare il vino nel bicchiere.
«Ha avuto un ictus qualche anno fa e... non si è più ripresa.
Non si rende conto di quello che le succede intorno e
non si ricorda più di me. Anzi, non ricorda più quasi niente.
Ho dovuto farla ricoverare in un istituto di Salt Lake City dove
curano i casi come il suo.»
Julie fece una smorfia. Vedendo la sua espressione, Richard
scrollò il capo.
«Non preoccuparti, non potevi saperlo. In genere non è un
argomento di cui parlo volentieri, perché spegne la conversazione,
soprattutto quando la gente viene a sapere che anche
mio padre è morto. Tutti si chiedono come sia essere senza genitori.
Ma credo che tu non abbia bisogno che te lo spieghi.»
No, pensò lei. E' una situazione che conosco bene.
«E' per questo che hai lasciato Denver? A causa di tua madre?»
«In parte.» Rimase assorto qualche istante, prima di guardarla
negli occhi. «Penso sia giunto il momento di dirti che sono
stato sposato. Con una donna che si chiama Jessica. Mi sono
trasferito anche a causa sua.»
Nonostante fosse un po' sorpresa, Julie non disse niente. Capiva
che lui stava dibattendo fra sé se continuare o tacere, ma
alla fine riprese, con voce neutra.
«Non so che cosa non abbia funzionato, potrei passare tutta
la sera a parlarne, per cercare di dare un senso alle cose, ma
sinceramente non l'ho ancora capito. Alla fine è successo e basta.»
«Per quanto tempo sei stato sposato?»
«Quattro anni.» La guardò negli occhi. «Vuoi davvero che
ti racconti tutta la storia?»
«Se non ti va, no.»
«Grazie», sospirò lui con un sorriso. «Non hai idea di quanto
sia felice che tu abbia detto così.»
Julie sorrise. «Allora, come ti trovi a Cleveland?»
«Bene, anche se non ci sto molto. In genere sono in giro, come
ora. Non ho idea di dove andrò al termine di questo progetto.»
«Scommetto che a volte è dura.»
«Sì, soprattutto quando sono costretto a pernottare in albergo.
Questo progetto è piacevole, perché resterò qui per un
po' e ho potuto affittare una casa. E poi ho avuto modo di conoscere
te.»
Julie pensò con una certa sorpresa a quanto si somigliassero
le loro vite, dall'infanzia trascorsa con un genitore solo
fino alla decisione di ricominciare in un posto nuovo. E anche
se i loro matrimoni erano terminati in maniera diversa,
qualcosa nel tono della sua voce le aveva fatto dedurre che
era stato lui a essere lasciato e che l'abbandono gli aveva causato
un profondo senso di perdita. Da quando abitava a Swansboro,
lei non aveva mai conosciuto nessuno in grado di comprendere
quanto si sentisse sola certe volte, soprattutto nei
periodi prima delle feste, quando Mike ed Henry si preparavano
ad andare a far visita ai genitori e Mabel partiva per
Charleston per trascorrere qualche giorno dalla sorella.
Richard, invece, conosceva quella sensazione e lei provò un
senso di affinità nei suoi confronti, un po' come quando all'estero
si incontra qualcuno che viene dal tuo paese.
Scese la notte e dalle finestre si vedeva il cielo ammantato di
stelle. Richard e Julie cenarono senza fretta. Alla fine presero
il caffè e divisero una fetta di torta al limone mangiandola
contemporaneamente
dalle due estremità.
La temperatura era ancora mite quando uscirono dal locale.
Julie si aspettava che lui le offrisse la mano o il braccio, ma
Richard stranamente non lo fece. Forse si tratteneva perché temeva
di averla presa in contropiede con quel bacio per strada,
pensò lei, oppure era un po' a disagio per tutto quello che le
aveva confidato di sé. In effetti c'era parecchio da digerire, si
disse. La notiziola del precedente matrimonio era piombata dal
nulla e si chiedeva per quale motivo lui non gliene avesse parlato
al loro primo incontro, quando gli aveva raccontato di Jim.
Ma non importava, decise. Ricordò a se stessa che le persone
reagivano in maniera diversa nei confronti del proprio passato.
E comunque adesso si conoscevano meglio, e la serata era
stata bella almeno quanto la prima. Era piacevole... non da batticuore,
ma sicuramente piacevole stare con lui. Quando si fermarono
prima di attraversare la strada, lo guardò. Mi piace, si
disse. Non sono ancora pazza di lui, più tardi riuscirò senza
troppa fatica a separarmi da lui, ma mi piace. E per adesso mi
basta.
«Sei pronto ad andare a ballare?» gli chiese.
«Vuoi andare a ballare?»
«Se a te va.»
«Non saprei. Non sono un granché come ballerino.»
«Avanti», insistette lei. «Conosco un posto.»
«Sicura di non voler cercare un localino dove bere qualcosa?»
«Siamo stati seduti tutta la sera. Mi andrebbe di divertirmi
e di fare quattro salti.»
«Non pensi di esserti divertita abbastanza finora?» chiese lui
fingendosi offeso. «Invece io sono stato proprio bene.»
«Senti, nemmeno io sono una brava ballerina, quindi ti prometto
che non dirò niente anche se mi pesti i piedi. Cercherò
perfino di non fare smorfie di dolore.»
«Soffrirai con un sorriso?»
«E' il destino delle donne.»
«D'accordo», concesse lui. «Ma dovrai mantenere la tua promessa.»
Lei rise e indicò la macchina. «Andiamo, allora.»
Richard provò una vampata di calore al suono della sua risata.
Era la prima volta che la sentiva quella sera.
E' una donna cauta, pensò. Un bacio è bastato a farle mettere
in discussione tutto. Ma se le lasci il comando, la sua prudenza
sembra svanire. Sapeva che lei lo stava valutando, cercando
di far combaciare la storia che le aveva raccontato con
l'uomo che aveva davanti. Ma non ci si poteva sbagliare sull'emozione
che le aveva animato il viso nel momento in cui aveva
scoperto quanto fossero simili.
6.
Il Sailing Clipper era il tipico bar delle cittadine costiere: luci
soffuse, aria impregnata di sale, fumo di sigaretta e alcol stantio,
era frequentato soprattutto dagli operai che si affollavano
al bancone ordinando ettolitri di birra. Lungo la parete di fondo,
il palco si affacciava sulla pista da ballo leggermente deformata
che non si svuotava quasi mai quando suonava qualche
gruppo. Una trentina di tavoli di legno, con incise sopra le iniziali
di tutti quelli che erano entrati nel locale, erano sparsi in
giro disordinatamente, con sedie scompagnate.
Il gruppo di quella sera, gli Ocracoke Inlet, era una presenza
abituale al Clipper. Il proprietario del locale, un uomo senza
una gamba soprannominato Joe lo Storto, li apprezzava perché
suonavano musica che metteva di buonumore e spingeva la clientela
a rimanere fino a tardi e quindi a ordinare da bere. Il loro
repertorio non prevedeva pezzi originali, né audaci, niente che
non si potesse trovare in qualunque jukebox del paese, ed era
proprio per questo che piacevano tanto. Piacevano veramente
a tutti, pensò Mike. A differenza delle band con cui si esibiva
lui, la gente accorreva in massa quando c'erano loro. Mai che
gli avessero chiesto di suonare insieme, però, anche se conosceva
personalmente quasi tutti i membri del gruppo. Pur trattandosi
di una band di provincia, la cosa era deprimente.
D'altronde, tutta la serata era stata deprimente, si disse. Accidenti,
la settimana intera era stata uno schifo, a essere precisi.
Era piombato in uno stato di prostrazione fin dal lunedì, quando
Julie era passata a prendere la macchina e aveva detto casualmente
che sabato sera sarebbe uscita con Richard invece di
andare a cena da Emma. E il suo atteggiamento torvo e pensieroso
non era sfuggito neppure ai clienti dell'officina, un paio
di loro ne avevano persino accennato a Henry. Peggio ancora,
da quel momento Mike non era più riuscito a trovare il coraggio
di parlare con Julie per tutta la settimana, ma ogni volta che
la vedeva camminare sul marciapiede diretta al negozio, si chiedeva
dolorosamente che cosa avrebbe potuto fare.
Certo, pensò ora, Henry ed Emma erano brave persone e lui
stava bene con loro, ma - diciamo la verità! - in una serata del
genere si sentiva proprio il terzo incomodo. Loro sarebbero
tornati a casa insieme, mentre lui, a parte il topo che scorrazzava
per la cucina, non aveva nessuno ad aspettarlo. Loro potevano
ballare insieme e lui doveva accontentarsi di restare seduto
al tavolo a leggere le etichette che staccava dalle bottiglie
di birra. E quando Emma lo invitava, cosa che faceva regolarmente,
raggiungeva la pista a testa china, sperando che nessuno
lo vedesse ballare con la sorella.
Sorella o cognata era lo stesso, si disse. Certi dettagli tecnici
non erano importanti in un momento simile. Gli sembrava
sempre di aver accettato l'offerta di sua madre di accompagnarlo
al ballo della scuola perché non aveva trovato nessuna
damigella.
Quella sera le cose non dovevano andare così, rifletté cupamente.
Julie avrebbe dovuto essere con loro. Fare coppia con
lui. Ballare con lui, sorridere al tavolo, ridere e flirtare. E lo
avrebbe fatto, se non fosse stato per Richard.
Richard. Lo odiava già. Non lo conosceva e nemmeno voleva
conoscerlo. Ma gli bastava pensare al suo nome per rabbuiarsi
parecchio.
Suo fratello Henry lo fissava attentamente mentre finiva la
sua Coors. «Faresti meglio a smettere di bere quella robaccia»,
commentò. «Vedo che ti da alla testa.»
Mike alzò lo sguardo dal tavolo. Con una smorfia sardonica,
Henry passò alla bottiglia di Emma. La moglie era andata
alla toilette e, calcolando la fila di persone che c'era sempre in
una serata simile, sarebbe rimasta via un bel po'.
«Sto seguendo il tuo esempio.»
«Giusto», replicò Henry, «ma alcuni uomini reggono l'alcol
meglio di altri.»
«Sì, sì... continua a parlare.»
«Per la miseria, siamo proprio di cattivo umore», disse Henry.
«E' tutta la sera che mi stuzzichi.»
«Visto come ti comporti ultimamente, te lo meriti. La cena
è stata ottima, io ti ho rallegrato con il mio spirito frizzante ed
Emma ha fatto in modo che non te ne restassi da solo al tavolo
come un perdente appena scaricato dalla ragazza.»
«Non mi fai ridere, sai.»
«Non era mia intenzione. Sto dicendo la semplice verità. Io
sono come il roveto in fiamme della Bibbia. Quando hai dei
dubbi, se cerchi delle risposte, vieni da me. Per esempio, ora...
cerca di tirarti su. Stai rovinandoci la serata.»
«Senti... ce la sto mettendo tutta, d'accordo?»
«Oh», fece Henry guardandolo con aria ironica. «Capisco.
Scusa. E' evidente che mi sono immaginato i tuoi sospiri.»
Mike strappò dalla bottiglia quel che restava dell'etichetta e
l'appallottolò. «Ha-ha-ha. Sei proprio un tipo spiritoso, fratellone.
Dovresti andare a Las Vegas con il tuo numero. Sarei lieto
di farti le valigie.»
Il fratello si appoggiò allo schienale della sedia. «Dai, non
fare così. Volevo solo scherzare un po'.»
«Già,.. a mie spese.»
Henry alzò le braccia, con finto candore. «Ci sei solo tu qui.
Con chi altro potrei prendermela?»
Mike gli lanciò un'occhiata torva, poi girò lo sguardo dall'altra
parte.
«Va bene, va bene... mi spiace», si scusò il fratello. «Ascolta,
però... te lo ripeto ancora una volta. Il fatto che Julie esca
con Richard non significa che tu abbia perso le speranze. Invece
di startene lì a piangerti addosso, considerala una sfida.
Questo magari potrebbe spingerti a chiederle di uscire.»
«Ci stavo pensando, infatti.»
«Sul serio?»
«Sì. Dopo la nostra conversazione di lunedì, avevo deciso di
fare come hai detto tu. E questa sarebbe stata proprio la serata
giusta.»
Henry lo esaminò. «Bene», disse infine. «Sono fiero di te.»
Mike aspettò che aggiungesse qualcosa, ma il fratello tacque.
«Come? Niente battute stavolta?»
«Non ce n'è motivo.»
«Perché non mi credi?»
«No, ti credo. Per forza.»
«Perché?»
«Perché presto ti vedrò all'opera.»
«Come?»
«La fortuna è con te, fratellino.»
«Ma di che diavolo stai parlando?»
Henry alzò il mento, a indicare la porta. «Indovina chi è entrato
proprio adesso?»
Richard stava accanto a Julie sulla soglia del locale mentre
lei allungava il collo alla ricerca di un buco libero.
«Non immaginavo che fosse così affollato», gridò lui per farsi
udire al di sopra del frastuono. «Sei sicura di volerti fermare?»
«Dai, vieni... ci divertiremo. Vedrai.»
Richard le rivolse un breve sorriso di assenso, ma in cuor suo
era molto scettico. Quel posto gli sembrava un rifugio per quelli
che annegano i problemi nell'alcol, gente alla disperata ricerca
della compagnia di estranei. L'atmosfera che si respirava
induceva a pensare che tutti lì dentro, soli o in compagnia, fossero
disponibili. Julie pareva fuori luogo in un locale del genere
almeno quanto lui.
Sul palco, la band aveva ripreso a suonare e le coppie si avvicinavano
alla pista da ballo. Richard si chinò all'orecchio di
Julie, che avvertì la carezza del suo respiro. «Andiamo a prendere
qualcosa da bere», le disse, «poi cercheremo un tavolo dove
sederci.»
Julie annuì. «Certo. Va' avanti tu. Il bar è là in fondo.»
Mentre cominciava a farsi largo tra la folla, Richard allungò
la mano verso di lei, che la strinse senza esitazioni. Una volta
raggiunto il banco non la lasciò, e con l'altra mano richiamò
l'attenzione del barista.
«Allora è lui?» chiese Emma.
Trentottenne, era una bionda con gli occhi verdi e un carattere
solare, che compensava largamente il fatto che non fosse
una bellezza nel senso classico del termine. Bassa e dal viso tondo,
stava perennemente a dieta senza successo, anche se né
Henry né Mike capivano perché lo facesse. Emma piaceva non
per tanto il suo aspetto, ma per la sua personalità aperta e generosa.
Era sempre disponibile con tutti e ogni pomeriggio alle
tre apriva la porta di casa bloccandola con un mattone, in
modo che i bambini del vicinato avessero un luogo di aggregazione.
E ce n'erano sempre tanti... la casa era invasa per ore
da piccole pesti attratte dalla pizza o dalle torte che lei preparava
quotidianamente.
Ma se i bambini le volevano bene, Henry l'adorava e si considerava
molto fortunato ad averla al suo fianco. Emma era perfetta
per lui e viceversa; come si dicevano spesso, erano troppo
occupati a ridere insieme per avere tempo di discutere. Al pari
di Henry, anche Emma aveva il gusto della presa in giro e, quando
partivano, non c'era verso di fermarli. E dopo un paio di bicchieri?
Meglio stare alla larga, pensò Mike. Erano letali, come
squali che divorano i loro piccoli.
Sfortunatamente, in quel momento lui si sentiva proprio come
il piccolo squalo che nuota davanti alle fauci spalancate della
madre. Gli bastò vedere l'espressione famelica negli occhi di
Emma per fargli venire voglia di nascondersi sotto il tavolo.
Henry annuì. «Sì, è lui.»
Emma continuò a fissare l'uomo in questione. «Notevole,
non trovi?»
«Credo che Mabel a proposito abbia usato la parola... sexy»,
convenne Henry.
Lei alzò un dito in segno di approvazione, come se il marito
fosse un avvocato che aveva appena fatto una valida osservazione
in tribunale. «Sì... sexy. A suo modo, quasi irresistibile,
direi.»
Mike incrociò le braccia e sprofondò sulla sedia, furente.
Henry osservò Richard e Julie che erano ancora al banco in
attesa delle loro ordinazioni. «Sono proprio una bella coppia»,
rincarò.
«Di sicuro spiccano tra la folla», disse Emma.
«Sembrano usciti da uno di quegli articoli sui personaggi del
jet set.»
«Come due protagonisti di film di successo.»
«Piantatela!» esclamò Mike alla fine. «Ho capito. Lui è perfetto,
meraviglioso, l'uomo dei sogni.»
Henry ed Emma si voltarono nella sua direzione con gli occhi
che lampeggiavano di ironia.
«Non stiamo dicendo questo, Mike», lo corresse il fratello,
«ma solo che sembra che sia così.»
Emma gli diede una pacca d'incoraggiamento sulle spalle.
«E poi», disse, «non c'è motivo di perdere le speranze. L'apparenza
non è tutto.»
Mike li guardò torvo.
Henry si chinò verso la moglie. «Forse non sai che il mio fratellino
sta passando un brutto momento, per via di questa situazione.
E a giudicare dalla sua espressione, non credo che
noi lo stiamo aiutando.»
«Dici?» chiese Emma candidamente.
«Starei benissimo, se solo la smetteste di prendermi in giro.
E' tutta la sera che non fate altro.»
«Sai, purtroppo tu sei un bersaglio facilissimo, quando sei
di questo umore», ridacchiò Emma. «Tutta colpa del broncio.»
«Henry ed io ne abbiamo già parlato.»
«Non è affatto attraente, te lo assicuro», proseguì Emma senza
badargli. «Fidati di una donna esperta: se non vuoi perdere
contro un tipo del genere, farai meglio a cambiare atteggiamento
prima che sia troppo tardi. Vai avanti così, e tanto vale
che rinunci subito.»
Mike trasalì alla sincerità di quelle parole. «Allora dovrei far
finta che non me ne importi niente?»
«No, Mike. Dimostra a Julie che le vuoi bene, che vuoi solo
ciò che è meglio per lei.»
«E come faccio?»
«Sii suo amico.»
«Ma io sono suo amico.»
«Se davvero lo fossi, saresti felice per lei.»
«E perché mai dovrei essere felice che stia con lui?»
«Perché», rispose Emma come se fosse un'ovvietà, «significa
che è pronta a cercare l'uomo giusto... e noi tutti sappiamo
già chi è. Sinceramente dubito che si tratti di quel tizio.» Sorrise
e gli toccò nuovamente la spalla. «Credi davvero che ti faremmo
soffrire tanto se non fossimo convinti che alla fine tutto
si aggiusterà tra voi due?»
Nonostante lei lo sfottesse, in quel momento Mike capì perché
Henry l'amava tanto. E perché anche lui l'amava. In modo
fraterno, ovviamente.
Finalmente arrivarono il whisky e la Diet Coke per Richard
e Julie. Dopo aver pagato, lui rimise in tasca il portafoglio e poi
girò la testa di lato, verso l'uomo seduto in fondo al banco.
Stava fissando il suo bicchiere, apparentemente assorto nei
propri pensieri, ma aveva continuato a guardare Julie da quando
loro due si erano seduti al banco, anche se cercava di non
farsi notare.
Questa volta, tuttavia, Richard intercettò il suo sguardo e lo
fissò senza battere ciglio finché lui non abbassò gli occhi.
«Che c'è?» chiese Julie.
Richard scrollò il capo. «Niente», rispose.
«Sei pronto a scendere in pista?»
«Non ancora. Prima vorrei finire il whisky.»
Con i fianchi fasciati da una minigonna nera, stivali dal tacco
a spillo e top a balconcino, Andrea si avvolgeva distrattamente
la gomma da masticare intorno al dito mentre Cobra
svuotava d'un sorso il sesto bicchiere di tequila mandandolo
giù con una spruzzata di lime. Pulendosi la bocca con il dorso
della mano, il motociclista le sorrise e il suo incisivo d'oro
brillò alla luce dell'insegna al neon dietro di loro.
Cobra si era presentato davanti al negozio in sella alla sua
Harley il giovedì mattina e, quando aveva finito di tagliargli i
capelli, Andrea gli aveva dato il suo numero di telefono e aveva
passato il resto della giornata a pavoneggiarsi avanti e indietro,
assolutamente soddisfatta di sé. Nella sua esaltazione,
non si era accorta delle occhiate impietosite che le lanciava Mabel,
né del fatto che Cobra, come tutti gli uomini con cui usciva,
era fondamentalmente un perdente.
L'aveva chiamata quella sera, dopo che si era scolato qualche
birra, e le aveva proposto di raggiungerlo al Clipper. Sebbene
tecnicamente non si trattasse di un vero appuntamento lui non si era offerto di passare a prenderla, né l'aveva invitata
ad andare a mangiare qualcosa prima - Andrea aveva riagganciato
piena di entusiasmo. Dopo aver trascorso un'ora davanti
allo specchio a decidere come vestirsi - la prima impressione
era importante - finalmente era uscita di casa.
Il suo cavaliere l'aveva accolta abbracciandola e baciandola
sul collo mentre le teneva le mani strette sul sedere.
Ma non aveva importanza. Dopo tutto, Cobra non era male,
a paragone dei tipi che in genere frequentava. Sebbene indossasse
una maglietta nera con un teschio insanguinato sul davanti
e un paio di jeans incrostati di sporcizia, non era né grasso
né troppo peloso. E doveva riconoscere che il tatuaggio della
sirena che aveva sul braccio era a suo modo elegante rispetto
ad altri che aveva visto. Il dente d'oro non la faceva impazzire,
ma lui sembrava abbastanza pulito, e non puzzava, e questo
era già qualcosa.
Tuttavia, alla fine si era resa conto che la serata era stata un
fallimento. Tanto per cominciare, dopo un paio di bicchieri,
quando la situazione cominciava a farsi interessante, erano arrivati
dei suoi amici motociclisti, e così aveva scoperto che
Cobra era solo un soprannome. Il suo vero nome era Ed DeBoner.
L'interesse di Andrea aveva iniziato a spegnersi. Ma come faceva
uno a chiamarsi in quel modo? si era chiesta. A differenza
di Cobra, Ed non era il nome di uno che guidava una Harley,
che viveva la vita libera un passo davanti alla legge. Ed non era
nemmeno un nome da cristiano, al massimo andava bene per
un cavallo parlante. Per non parlare poi del cognome.
DeBoner.
Quando l'aveva sentito, aveva rischiato di sputare quello che
stava bevendo.
«Vuoi tornare a casa tua, baby?» le chiese Cobra strascicando
le parole.
Andrea si rimise in bocca la gomma e rispose di no.
«Allora beviamo qualcos'altro.»
«Sei senza soldi.»
«Allora offrimelo tu, e ti ripagherò dopo, baby.»
Non sopportava più di farsi chiamare baby da quell'Ed DeBoner.
Per tutta risposta, Andrea gli fece scoppiare in faccia la
gomma da masticare.
Ma Cobra non sembrò far caso al suo atteggiamento carico
di disprezzo. Le accarezzò la coscia allungando la mano sotto
il tavolo, e lei si alzò bruscamente per andare a prendere da
bere.
Mentre si avvicinava al banco, riconobbe Richard.
Il viso di Julie si illuminò alla vista di Mike, Henry ed Emma
seduti a un tavolo vicino alla pista da ballo. Prese per mano
Richard e gli disse: «Vieni. Credo di aver trovato un posto».
Passando tra la folla ai bordi della pista, raggiunsero il tavolo.
«Ciao, ragazzi. Non mi aspettavo di incontrarvi», disse Julie.
«Come va?»
«Benissimo», rispose Henry. «Abbiamo pensato di fare un
salto qui dopo cena per vedere come buttava.»
Julie tirò per mano l'uomo che era alle sue spalle. «Voglio
presentarvi una persona. Richard... loro sono Henry ed Emma.
E questo è il mio amico del cuore, Mike.»
Henry tese la mano. «Piacere», disse.
Richard ebbe un'esitazione prima di stringerla. «Salve», disse
soltanto.
Poi toccò agli altri due. Quando Julie guardò Mike, lui le
sorrise amabile, anche se dentro si sentiva morire. Per via dell'aria
surriscaldata del locale lei aveva il viso arrossato ed era
particolarmente bella.
«Volete accomodarvi?» li invitò Henry. «Ci sono un paio di
sedie libere.»
«No... non vorremmo disturbare», rispose Richard.
«Ma figurati! Avanti, non fate complimenti», intervenne Emma
in tono vivace.
«Sicuri che non vi dispiace?» chiese Julie.
«Non essere sciocca», rispose la donna. «Siamo tra amici.»
Julie sorrise. Una volta che si furono seduti, Emma si sporse
in avanti sul tavolo.
«Allora, Richard», disse, «raccontaci di te.»
La conversazione era stentata, all'inizio quasi imbarazzante,
perché Richard era molto laconico e interveniva solo se interpellato
direttamente. A volte Julie aggiungeva informazioni al
posto suo, oppure lo spronava bonariamente per indurlo ad
aprirsi.
Mentre l'altro parlava, Mike faceva di tutto per mostrarsi interessato.
E a modo suo lo era, se non altro egoisticamente: voleva capire
con chi aveva a che fare. Con il passare dei minuti, però,
cominciò a sentirsi come un salmone che risale la corrente. Si
stava rendendo conto del perché Julie fosse rimasta colpita da
Richard. Era intelligente - sì, anche attraente, ammise, ma solo
se ti piacevano i tipi asciutti e atletici - e, diversamente da
lui, aveva studiato all'università e viaggiato molto. E sebbene
si mostrasse piuttosto riservato, sembrava che il suo disagio in
compagnia derivasse dalla timidezza piuttosto che dall'arroganza.
E poi non nascondeva certo i suoi sentimenti per Julie.
Tutte le volte che lei apriva bocca, pendeva dalle sue labbra,
come un marito al primo giorno di luna di miele.
Ormai provava un odio istintivo per quell'uomo, anche se si
sforzava di continuare a sorridere e ad annuire mentre lo ascoltava.
Quando Emma e Julie si misero a chiacchierare tra loro, Richard
si alzò per andare a prendere da bere per tutti, e allora
Mike si offrì di accompagnarlo.
Al banco, dovettero attendere che il barista arrivasse a prendere
le ordinazioni e, sebbene Mike fosse accanto a lui, Richard
non gli rivolse la parola.
«Julie è una donna eccezionale», disse infine Mike per rompere
il ghiaccio.
Richard si voltò e lo valutò attentamente prima di girarsi di
nuovo dall'altra parte.
«Sì», rispose.
Dopodiché, silenzio.
Una volta tornati al tavolo, Richard chiese a Julie se voleva
ballare. Salutarono gli altri e un attimo dopo erano spariti.
«Allora, non è stato così difficile, no?» chiese Emma.
Mike scrollò le spalle senza rispondere.
«E a me sembra simpatico», aggiunse Henry. «Taciturno, ma
cortese.»
Mike afferrò la birra. «Non mi è piaciuto», disse infine.
«Oh, sai che sorpresa», commentò il fratello ridendo.
«Non mi ispira fiducia.»
«Be', visto che hai perso la tua occasione», disse Henry sempre
sogghignando, «immagino che dovremo restare qui ancora
un po'.»
«Quale occasione?»
«Avevi detto che stasera le avresti chiesto di uscire con te.»
«Piantala, Henry.»
Un po' più tardi, Mike si ritrovò solo al tavolo. Henry ed
Emma erano andati a salutare una coppia di amici e lui ne approfittò
per riflettere sul perché Richard Franklin non lo convinceva
affatto.
Gelosia a parte.
No, non era solo quello, si disse. Nonostante l'opinione di
Henry, l'uomo non gli era parso particolarmente simpatico. Ne
aveva avuto la certezza quando erano rimasti insieme al bar.
Dopo che lui aveva tentato di rompere il ghiaccio, Richard lo
aveva guardato freddamente come un antagonista, e la sua faccia
aveva espresso chiaramente il suo pensiero in proposito: Tu
già hai perso, quindi fatti da parte.
Non proprio un atteggiamento da persona simpatica, rifletté.
Ma allora perché Julie sembrava non accorgersene? E perché
non lo avevano notato neppure Henry ed Emma? Oppure era
soltanto un parto della sua immaginazione?
Mike riesaminò tutta la scena. No, si disse infine, non se l'era
sognato. Era certo di quello che aveva visto. E non gli piaceva.
Si appoggiò allo schienale e fece un profondo respiro mentre
scrutava la sala in direzione di Richard e Julie. Li osservò
per un istante, poi si costrinse a distogliere lo sguardo.
Dopo qualche ballo, loro due si erano seduti a un tavolo vicino
al bar e Mike si era girato da quella parte in continuazione.
Non riusciva a smettere, anche se sapeva che il suo impulso
era simile a quello che spingeva la gente ad avvicinarsi alla
scena di un incidente. Anzi, a voler essere più precisi, era come
seguire una macchina che precipitava da un dirupo altissimo
attraverso una telecamera fissata al parabrezza.
Almeno questa era la sua impressione. Con il passare delle
ore, Mike si convinse sempre di più che la sua occasione con
Julie aveva seguito improvvisamente il tragico destino di Atlantide.
Mentre se ne stava seduto tutto solo, quei due si fissavano
negli occhi con espressione ebete. Bisbigliavano e ridevano
tra di loro, chiaramente felici della reciproca compagnia.
Disgustoso.
Ma che cosa stavano facendo adesso? si chiese.
Lentamente, di soppiatto, il suo sguardo tornò a dirigersi
verso di loro. Julie gli voltava le spalle, e quindi fortunatamente
non poteva accorgersi di lui. Se lo avesse sorpreso, magari gli
avrebbe rivolto un cenno di saluto, un sorriso, o peggio, lo
avrebbe ignorato. Le prime due ipotesi lo avrebbero fatto sentire
un idiota, l'ultima gli avrebbe spezzato il cuore.
Vide che Julie stava cercando qualcosa nella borsetta, ma
gli occhi di Richard incrociarono i suoi con un'espressione
fredda e quasi strafottente. Sì, Mike, lo so che stai guardando.
Rimase paralizzato, come un bambino sorpreso a rubare spiccioli
dal portafoglio della madre.
Finché non sentì una voce alle sue spalle. Si voltò e vide
Drew, il cantante della band, in piedi accanto al tavolo.
«Ciao», disse Drew. «Hai un minuto? Volevo parlarti.»
Un'ora più tardi, Andrea si diresse verso la toilette. Come
aveva già fatto mille volte da quando si era accorta della presenza
di Richard, mentre era in coda scrutò la sala per cercare
di individuarlo. E vide che anche lui stava dirigendosi verso il
bagno.
Sapendo che le sarebbe passato di fianco, si ravviò i capelli
e si sistemò la minigonna e il top, poi uscì dalla fila per intercettarlo.
«Ciao, Richard», disse allegramente. «Come va?»
«Bene, grazie», rispose lui un po' esitante. «Andrea, giusto?»
Lei sorrise, felice che l'avesse riconosciuta. «Non ti avevo
mai visto qui.»
«E' la prima volta che ci vengo.»
«Non lo trovi stupendo?»
«Veramente no.»
«Oh, neanch'io, a essere sincera, ma da queste parti non ci
sono molti altri posti dove andare. Qui si fa vita di provincia,
sai?»
«Sto imparando», rispose lui.
«Il venerdì sera in genere va meglio, però.»
«Ah sì?»
«Già. Io ci vengo spesso, anzi quasi tutte le settimane.»
Richard la fissò negli occhi per qualche istante prima di fare
un cenno in direzione del tavolo dov'era seduta Julie.
«Senti... mi piacerebbe scambiare due chiacchiere con te,
ma devo andare.»
«Perché sei con Julie?»
«Sono venuto con lei.»
«Sì, lo so», disse Andrea.
«Mi ha fatto piacere rivederti», la congedò lui.
«Grazie. Anche a me.»
Un attimo dopo sparì oltre la porta del bagno degli uomini.
Lei stava ancora guardando in quella direzione quando Cobra
la raggiunse barcollando e borbottò qualcosa di volgare a proposito
delle funzioni corporali. Andrea decise che era giunto il
momento di andarsene: la vista di quel motociclista ubriaco rischiava
di guastarle la sensazione che aveva provato quando Richard
l'aveva fissata intensamente negli occhi.
Era passata da poco la mezzanotte, il mondo era inondato
d'argento e Julie stava in piedi sulla veranda in compagnia di
Richard. L'aria era pervasa dal canto notturno dei grilli e delle
rane, una brezza leggera agitava le foglie e persino Singer sembrava
più bendisposto. Il suo muso sporgeva dalle tende e i
suoi occhi li scrutavano attentamente, ma non aveva emesso
suono.
«Grazie per la bella serata», disse lei.
«Figurati. Sono stato molto bene anch'io.»
«Anche al Clipper'?»
«Se tu ti sei divertita, io sono contento.»
«Non è il tuo genere di locale, vero?»
«A essere sincero, avrei preferito un posto più intimo, dove
poter stare insieme da soli io e te.»
«Ma siamo stati soli.»
«Non per tutto il tempo.»
Lei lo guardò con espressione interrogativa.
«Ti riferisci a quando ci siamo seduti con i miei amici per
un po'?» chiese. «Credi che l'abbia fatto perché con te non mi
divertivo?»
«Non saprei che cosa pensare. A volte le donne usano questo
stratagemma quando la serata non le soddisfa. E' una specie
di grido di aiuto.»
Julie sorrise. «Ti sbagli. Erano le persone con cui avrei dovuto
cenare, così, quando le ho viste, mi è sembrato carino passare
a salutarle.»
Richard girò lo sguardo verso la luce del portico, poi tornò
a posarlo su di lei. «Senti... so di non essere stato molto estroverso
con i tuoi amici. Mi spiace, ma il fatto è che in questi casi
non so mai che cosa dire.»
«Non preoccuparti. Sono sicuro che a loro sei piaciuto.»
«Tranne che a Mike, credo.»
«Mike?»
«Ci osservava continuamente.»
Pur non essendosene accorta, Julie non lo trovò sorprendente.
«Mike e io ci conosciamo da una vita», disse. «Lui si
prende cura di me, tutto qui.»
Richard rimase a pensare per un po', e alla fine il suo viso si
illuminò di un lieve sorriso. «D'accordo», disse. Rimasero in
silenzio per un po', poi lui si avvicinò.
Questa volta, pur aspettandosi il bacio e forse desiderandolo,
Julie non poté fare a meno di provare un certo sollievo quando
Richard un minuto dopo si voltò per andarsene.
Non c'è motivo di far precipitare le cose, pensò. Se è quello
giusto, me ne accorgerò.
7.
«Eccolo che arriva», disse Henry. «In perfetto orario.»
Era martedì mattina, un paio di giorni dopo la serata al Clipper,
e lui stava bevendo una lattina di Coca mentre osservava
Richard che camminava sul marciapiede diretto al negozio di
Mabel. Teneva in mano un pacchetto - sicuramente un regalo
- ma non era quello il motivo della sua curiosità.
Gli aveva detto dove lavorava, e si aspettava che l'uomo lanciasse
almeno un'occhiata in direzione del garage. La mattina
prima Henry gli aveva addirittura fatto un cenno di saluto, ma
Richard non lo aveva notato, o così sembrava. Aveva proseguito
per la sua strada guardando dritto davanti a sé, proprio come
in quel momento.
Nell'udire la voce del fratello, Mike emerse da sotto il cofano
di una macchina. Si sfilò uno straccio dalla cintura e cominciò
a pulirsi le mani.
«Dev'essere bello fare il consulente», osservò. «Ma quel tizio
non lavora mai?»
«Non ti scaldare. Hai già esaurito la tua razione annuale di
broncio la settimana scorsa. E poi è meglio che vada a trovarla
quando è in negozio piuttosto che quando è a casa, giusto?»
Sul viso di Mike comparve un'espressione sbigottita.
«Le sta portando un regalo?» chiese.
«Sì.»
«E che occasione speciale è?»
«Forse vuole solo far colpo su di lei.»
Mike riprese a strofinarsi le mani. «In questo caso, magari
anch'io passerò in negozio più tardi con un regalo.»
«Questo è parlare», esclamò Henry, dandogli una pacca sulle
spalle. «Era proprio quello che volevo sentirti dire. Meno
piagnistei e più azione. Noi Harris siamo sempre pronti a reagire
alle avversità.»
«Grazie, Henry.»
«Ma prima che tu parta con l'artiglieria, lascia che ti dia qualche
consiglio.»
«Sono tutto orecchi.»
«Scarta l'idea del regalo.»
«Hai appena detto...»
«E' una cosa che fa lui. Con te non funzionerebbe.»
«Che...»
«Fidati. Ti farà sembrare disperato.»
«Ma lo sono.»
«Può darsi», riconobbe Henry, «però non puoi darlo a vedere.
Altrimenti lei ti troverà patetico.»
«Richard...» disse Julie, fissando l'astuccio aperto che teneva
in mano. Dentro c'era una catenina d'oro con un elaborato
ciondolo a forma di cuore. «E' bellissimo.»
Erano fuori dalla porta del negozio, ignari degli sguardi di
Henry e Mike puntati su di loro e di Mabel e Singer che li sbirciavano
da dietro la vetrina.
«Ma perché questo regalo?»
«Oh, niente di particolare, sai. Quando l'ho visto... mi è piaciuto.
O meglio, ho pensato a te e ho capito che era perfetto.»
Julie esaminò il ciondolo. Era chiaramente costoso, e quindi
implicava determinate conseguenze.
Quasi leggendole nel pensiero, Richard alzò le mani. «Ti prego...
voglio che lo accetti. Se preferisci, consideralo un regalo
di compleanno.»
«Ma il mio compleanno è in agosto.»
«Allora considerami un po' in anticipo.» Fece una pausa.
«Per favore.»
Eppure qualcosa non la convinceva.
«Richard... è delizioso, ma non posso, davvero.»
«E' solo un ciondolo, non un anello di fidanzamento.»
Pur non del tutto persuasa, lei cedette e lo baciò. «Grazie»,
mormorò.
Richard fece un cenno con la testa. «Prova a mettertelo al
collo.»
Julie aprì la chiusura e si infilò la catenina. «Come mi sta?»
Lui fissò il ciondolo con uno strano sorriso sulle labbra, come
se stesse pensando ad altro. Rispose senza distogliere lo
sguardo. «E' perfetto. Esattamente come lo ricordavo.»
«Come lo ricordavi?»
«Sì, nella gioielleria», disse lui. «Ma su di te sta decisamente
meglio.»
«Oh. Però non avresti dovuto.»
«Ti sbagli, invece.»
Lei si mise una mano sul fianco. «Mi stai viziando, lo sai? In
genere nessuno mi fa regali senza un motivo.»
«Allora sono contento di essere il primo. E poi, secondo te
deve sempre esserci una ragione per tutto? Non ti è mai capitato
di vedere qualcosa che ti sembra perfetto per qualcuno e
di comprarla?»
«Certo. Ma si tratta di un gioiello. E non voglio che tu pensi
che mi aspetti da te regali simili, perché non è così.»
«Lo so, e anche per questo ho deciso di farlo. Tutti abbiamo
bisogno di una sorpresa ogni tanto.» La guardò sorridendo.
«Allora, hai già preso degli impegni per venerdì sera?»
«Ma non dovevi partire per quella riunione a Cleveland?»
«Infatti. Ma la riunione è stata cancellata. O meglio, per la
parte che mi riguarda. Così ho tutto il fine settimana libero.»
«Che cosa avevi in mente?» chiese lei.
«Qualcosa di molto speciale. Però vorrei che anche questa
fosse una sorpresa.»
Julie non rispose subito e lui le prese la mano, come intuendo
la sua incertezza. «Ti piacerà, vedrai. Puoi fidarti. Ma dovrai
essere pronta abbastanza presto. Passerò a prenderti intorno
alle quattro.»
«Perché così presto?»
«Ci vuole un po' ad arrivarci. Credi di potercela fare?»
Lei sorrise. «Dovrò spostare qualche appuntamento, ma credo
di sì. Come mi devo vestire, sportiva o elegante?»
Era un modo delicato per chiedere se doveva preparare una
borsa. Non capiva se lui intendeva andare fuori città per tutto
il weekend e in realtà non si sentiva ancora pronta a compiere
un passo del genere.
«Posso dirti che io sarò in giacca e cravatta.»
Aveva tutta l'aria di un invito formale, pensò Julie. «Allora
dovrò fare un po' di shopping», disse.
«Sono sicuro che sarai bellissima comunque.»
Detto questo, le diede un rapido bacio e se ne andò. Julie si
portò la mano al ciondolo. L'aprì e vide che, come aveva pensato,
poteva contenere due piccole fotografie, ma rimase sorpresa
di scoprire che Richard aveva già fatto incidere le iniziali
del suo nome, «J» e «B», una per lato.
«Sei nei guai, fratellino», commentò Henry. «Nonostante
quello che diceva Emma l'altra sera, le cose non si mettono bene.»
«Grazie per l'aggiornamento, Einstein», brontolò Mike.
«Lascia che ti dia un consiglio.»
«Un altro?»
Henry annuì con condiscendenza, come a dire che non c'era
bisogno che lo ringraziasse. «Prima di agire, sarà meglio che
tu escogiti un piano efficace.»
«Che piano?»
«Non so. Ma se fossi in te, cercherei di trovarne uno molto
buono.»
«E' davvero stupendo», disse Mabel osservando il ciondolo.
«Dev'essere proprio cotto, vero? Gli sarà costato una fortuna.
Ti spiace se lo guardo meglio?»
«No, no, fa' pure», rispose Julie, avvicinandosi.
Mabel lo esaminò accuratamente. «Uhm, di sicuro non viene
da una gioielleria di qui. Sembra fatto a mano.»
«Tu dici?»
«Certo. E rivela che Richard Franklin ha buon gusto.»
Mabel lasciò ricadere delicatamente il ciondolo sul petto di
Julie. «Adesso dovrò trovare due foto da metterci dentro», disse
lei.
Gli occhi della donna lampeggiarono. «Oh, tesoro... non essere
timida, sarò felicissima di darti una mia foto da portare
sempre con te. Anzi, ne sarò onorata.»
Julie rise. «Grazie. In effetti sei la prima persona a cui ho
pensato.»
«Non ne dubito. Allora... ci metterai una foto di Singer?»
Udendo il suo nome, il danese alzò gli occhi e Julie lo accarezzò
sulla schiena.
«E' talmente grosso che dovrei mettermi a cento metri di distanza
per fargli una foto che lo ritragga tutto.»
«Hai ragione», convenne Mabel. «A proposito, che cosa gli
è preso ultimamente? Ti sta sempre appiccicato.»
«Non ne ho idea, ma mi sta facendo letteralmente impazzire.
Continuo a inciamparci dentro tutte le volte che mi giro.»
«Come si comporta con Richard? A casa, intendo.»
«Come qui», rispose Julie. «Non lo perde di vista, ma se non
altro non ringhia più come ha fatto la prima volta.»
Singer mugolò, emettendo un flebile squittio che non sembrava
poter provenire dalla sua gola.
Smettila di lamentarti, sembrava voler dire, sappiamo entrambi
che mi ami comunque mi comporti.
Un piano, pensò Mike, mi serve un piano.
Si massaggiò il mento, senza rendersi conto che stava imbrattandosi
di grasso. Henry aveva ragione, una volta tanto dalla
sua bocca era uscita una cosa sensata. Un piano era decisamente
quello che gli occorreva.
Ma era molto più facile a dirsi che a farsi. E Mike non era
granché come pianificatore, non lo era mai stato. Le cose
succedevano
da sole e lui seguiva la corrente, come un sughero
che galleggia sulle onde. In genere funzionava. Era quasi sempre
felice e si sentiva piuttosto soddisfatto di se stesso, anche
se fino a quel momento non era riuscito a sviluppare il proprio
talento artistico e musicale.
Ma adesso la posta in gioco era più alta. Era giunto il momento
di scoprire le carte. O vedi o lasci. Una mano difficile,
ma bisognava giocarla. Agire per non farsi sfuggire l'occasione.
Era tempo di passare ai fatti. Ma quali?
Un piano.
Il problema era che non sapeva da che parte cominciare. Finora
per lei era sempre stato il confidente, il buon amico, la
persona su cui contare. Quello che le riparava l'auto, giocava
a frisbee con Singer, che aveva passato i primi due anni dopo
la morte di Jim a consolarla quando piangeva. Quei meriti acquisiti
sul campo non erano valsi a niente, però, quando era
comparso all'orizzonte Richard. E da una settimana aveva provato
a cambiare atteggiamento. Non le aveva più parlato, non
le aveva telefonato, non era passato da lei per farle un saluto.
E il risultato? Lei non gli aveva telefonato, non era passata a
salutarlo e alla fine, stando a quanto aveva visto succedere per
strada, il tutto aveva portato a un terzo appuntamento con Richard.
E adesso che cosa poteva fare? si domandò. Non certo andare
da lei a chiederle di uscire. Sicuramente era già impegnata
con Richard. Sarebbe stato imbarazzante. Oh, sabato
sera hai un impegno. E venerdì? Allora la settimana prossima,
forse? E all'ora di colazione? Era un comportamento da
disperati e, secondo Henry, da evitare a tutti i costi.
Un piano, si ripeté.
Scrollò il capo. La cosa peggiore era che, piano o non piano,
si sentiva solo.
Certo, quella storia di Richard era un flagello, ma il fatto era
che negli ultimi due anni lui si era abituato a parlare con Julie
almeno una volta al giorno, se non di più. Gli si spezzava il cuore
all'idea che lei e Richard si mettessero insieme, però, se fosse
accaduto, amen. Con il tempo forse sarebbe anche riuscito
ad accettarlo.
Quello che non riusciva a sopportare era la prospettiva di
provare ancora le emozioni dell'ultima settimana. Non era semplice
frustrazione, o gelosia. Non era nemmeno depressione.
Gli mancava Julie.
Parlare con lei, vederla sorridere, udire la sua risata. Osservare
i suoi occhi che alla luce del tramonto passavano dal verde
al turchese. Ascoltare il suo respiro affrettato tutte le volte
che arrivava alla fine di una barzelletta. Gli mancava persino il
modo in cui a volte gli pizzicava il braccio.
Forse la cosa migliore era passare più tardi a trovarla, ipotizzò,
come se tra di loro nulla fosse cambiato. Magari avrebbe
potuto addirittura dirle che era contento che l'altra sera si
fosse divertita, come consigliavano Henry o Emma.
No, pensò, cambiando idea all'improvviso. Non mi spingerò
fino a questo punto. Non c'è motivo di lasciarsi trascinare dalle
emozioni. Meglio fare un passo alla volta.
Ma le parlerò, decise.
Sapeva che non era granché come piano, ma era tutto quello
che gli era venuto in mente.
8.
«Ehi, Julie», chiamò Mike. «Aspetta!»
Udendo la sua voce la ragazza, che stava avviandosi verso la
macchina, si voltò e lo vide correrle incontro. Singer partì subito
al galoppo e lo raggiunse, poi cominciò a saltargli intorno
per ricoprirlo di leccate affettuose. Mike le schivò - per quanto
gli fosse affezionato, trovava un po' disgustoso essere ricoperto
di saliva canina - ma poi si mise ad accarezzarlo.
«Ti sono mancato, vero, cagnone? Sì, sì, anche tu. Dovremmo
fare presto qualche gioco insieme.»
Singer drizzò le orecchie, interessato, ma lui scrollò la testa.
«Niente frisbee oggi... mi spiace. Magari un altro giorno.»
Il cane non se la prese. Gli trotterellò accanto tutto allegro
e a un certo punto gli diede un colpetto con il muso. Mike rischiò
di finire addosso a una cassetta delle lettere, ma fece appena
in tempo a riprendere l'equilibrio.
«Secondo me dovresti portarlo fuori più spesso», disse a Julie.
«E' esagitato.»
«E' contento di vederti. Come stai? Non ci siamo più incontrati
ultimamente.»
«Sto bene. E' che in questo periodo ho molto da fare.»
Mentre rispondeva, non poté evitare di notare quanto fossero
verdi i suoi occhi. Come due pezzi di giada, pensò.
«Anch'io», disse lei. «Com'è andata la cena con Henry ed
Emma sabato sera?»
«E' stato divertente. Peccato che non ci fossi anche tu, ma...»
Scrollò le spalle come a dire che non aveva importanza, anche
se Julie sapeva - da quanto le aveva riferito Richard - che
non era così. Lui però la sorprese cambiando argomento. «Ho
una buona notizia, sai», le comunicò. «Ti ricordi il gruppo che
suonava al Clipper"? Gli Ocracoke Inlet? L'altra sera prima di
andarmene Drew mi ha chiesto di sostituire il loro chitarrista
la prossima volta che si esibiranno.»
«Ma è fantastico. E quando sarebbe?»
«Tra un paio di settimane. So che è solo per una sera, ma
sarà interessante.»
«Esibirti davanti al pubblico, vuoi dire?»
«Esatto. Perché no? Conosco quasi tutte le loro canzoni e
poi la band non è tanto male», rispose Mike.
«In passato la pensavi diversamente.»
«Ma non mi avevano mai chiesto di suonare con loro, prima.»
«Oh... eri geloso, eh?»
Si pentì di aver pronunciato quella parola, ma Mike sembrò
non badarci.
«No, ero irritato. E chissà, magari questa volta segnerà l'inizio
della mia carriera.»
Julie non voleva smorzare il suo entusiasmo. «Bene, sono felice
per te.»
Per un attimo rimasero in silenzio e Mike si dondolò da un
piede all'altro.
«Allora, tu che cosa mi racconti? Cioè... so che ti vedi con
Richard, ma ultimamente non abbiamo parlato molto. Qualche
novità in vista?»
«No, niente di particolare. Singer è diventato un tormento,
e per il resto tutto scorre come sempre.»
«Singer? Che cosa ti combina?»
Julie lo aggiornò sulle sue ultime stranezze e Mike scoppiò
a ridere. «Forse gli ci vorrebbe un po' di Prozac.»
«E chi lo sa. Ma se non la smette, comprerò una cuccia per
tenerlo fuori di casa.»
«Ascolta... se vuoi, sarò felice di togliertelo dai piedi di tanto
in tanto. Lo porterò a correre sulla spiaggia e, quando tornerà
a casa, sarà sfinito. Non avrà più l'energia per ringhiare,
abbaiare o seguirti per il resto della giornata.»
«Guarda che potrei prendere sul serio la tua offerta.»
«Lo spero. Io gli voglio molto bene.» Fece una carezza a Singer.
«Non è vero, cagnone?»
Il danese rispose abbaiando con entusiasmo.
«Qualche divertente aneddoto su Andrea?» si informò Mike.
Era un argomento di conversazione ricorrente tra di loro.
«Mi ha raccontato del suo appuntamento di sabato.»
Mike arricciò il naso. «Il tizio con cui era al Clipper'?»
«Lo hai visto?»
«Sì, un buzzurro orribile. Con tanto di dente d'oro. Pensavo
che lei avesse toccato il fondo con il motociclista con la benda
sull'occhio, ma mi sbagliavo.»
Julie sorrise. «Mabel ha detto la stessa cosa.»
Gli riferì quello che Andrea le aveva detto di Cobra. Mike
trovò molto divertente la parte sul nome Ed DeBoner, anche
se non capiva perché fosse stato proprio quel particolare, e non
altri, a irritarla. Alla fine scoppiarono entrambi in una risata.
«Mi chiedo che cos'abbia quella ragazza», osservò Mike.
«Non si rende conto di quello che è evidente a tutti? Quasi
quasi mi spiace per lei.»
«Tu almeno non devi lavorarci insieme. Anche se devo dire
che la sua presenza rende le giornate molto più movimentate
in negozio.»
«E ti credo. Senti... Emma ha detto se la chiami.»
«Lo farò. Non sai di che cosa si tratta?»
«No. Dovrà raccontarti di qualche sua nuova ricetta, suppongo.»
«Ascoltami bene, noi non parliamo di ricette di cucina. Ma
di cose importanti.»
«In altre parole, spettegolate.»
«Non sono pettegolezzi», protestò lei. «Ci teniamo aggiornate.»
«Capisco. Be', se vieni a sapere qualcosa di importante, telefonami
subito, d'accordo? Resterò a casa tutta la sera. E poi
magari uno dei prossimi giorni potrei venire a prendere Singer,
così te ne liberi per un po'. Che ne dici di questo fine settimana?»
Julie sorrise. «Affare fatto.»
E' andata, pensò Mike, alquanto soddisfatto di sé.
Certo, non era stato un gran dialogo o uno scambio di vedute
particolarmente intimo, ma gli aveva fatto capire che Julie
apprezzava ancora la sua compagnia. Avevano riso e scherzato
insieme come una volta, no?
Lui era riuscito a tenere la conversazione su argomenti leggeri,
evitando qualsiasi riferimento troppo personale, ma soprattutto,
si disse, nutriva la convinzione che Julie gli avrebbe
telefonato più tardi, dopo aver parlato con Emma. E poi era
stata un'ottima idea quella di offrirsi di andare a prendere Singer.
In quel modo presto si sarebbero rivisti.
Evitò assolutamente di pensare a Richard, o persino a quello
stupido ciondolo. Non aveva intenzione di farsi rovinare le
belle sensazioni che provava adesso nei confronti del piacevole
incontro con Julie.
La sua strategia funzionò egregiamente. Il buonumore lo accompagnò
per il resto della giornata e perfino durante la cena.
Fino a quando Mike si sdraiò sul letto a guardare la televisione.
Il telefono rimase desolatamente muto.
Il resto della settimana fu per Mike un tormento. Julie non
gli telefonò, né passò dall'officina per fargli un saluto.
Avrebbe potuto chiamarla a casa, e in passato non aveva mai
esitato a farlo, ma adesso non se la sentiva. Non voleva che lei
gli rispondesse che non aveva tempo di parlargli perché «era
in compagnia», oppure «stava preparandosi per uscire». E se
per caso non l'avesse trovata, avrebbe passato il resto della serata
a chiedersi dove fosse e per tutta la notte non sarebbe riuscito
a chiudere occhio.
Inoltre continuava a vedere Richard che andava tutti i giorni
in negozio - come probabilmente tutte le sere a casa di lei!
- e il venerdì notò Julie uscire dal lavoro a metà pomeriggio.
Stavano addirittura per partire per un weekend? si chiese
scandalizzato.
Cercò di non pensarci, di convincersi che non gli importava
quello che facevano quei due. La sua serata era già programmata:
birra nel frigo, un negozio di videonoleggio dietro
l'angolo e un posto che faceva un'ottima pizza al trancio nelle
vicinanze. Si sarebbe divertito. No, anzi, se la sarebbe spassata.
Sdraiato sul divano a rilassarsi dopo una settimana di lavoro,
magari suonando qualche accordo prima di vedere la
cassetta, e poi restando alzato finché gli pareva.
Per un attimo si immaginò la scena e allora venne assalito
dallo sconforto. Sono patetico, pensò. Il mio stile di vita farebbe
entrare in coma chiunque.
Ma la ciliegina sulla torta fu scoprire dov'erano andati Richard
e Julie, cogliendo brandelli di conversazioni in giro per
la città: dal fruttivendolo, al bar, persino in officina. Di colpo
era come se tutti gli altri ne sapessero molto più di lui. Il lunedì
mattina impiegò quasi mezzora per trovare la forza di uscire
dal letto.
Dai racconti carpiti, sembrava che Richard fosse passato a
prendere Julie con una limousine piena di bottiglie di champagne
e l'avesse portata a cena a Raleigh. Poi, seduti nelle poltrone
in prima fila al teatro comunale, avevano assistito a una
rappresentazione del Fantasma dell'Opera.
Come se questo non bastasse a far colpo su di lei, saltò fuori
che avevano trascorso insieme anche il sabato, dalle parti di
Wilmington. Un giro in mongolfiera e poi un picnic sulla spiaggia.
Come diavolo poteva pensare di competere con un tizio che
si inventava cose del genere?
9.
Che fine settimana memorabile, pensò
Julie. Richard di sicuro
poteva dare qualche suggerimento a Bob su come fare colpo
su una signora. Per la miseria, poteva tenere interi seminari
sull'argomento.
Guardando la propria immagine allo specchio la domenica
mattina, Julie stentava ancora a crederci. Non trascorreva un
fine settimana del genere da... oddio, non ne aveva mai passato
uno simile in vita sua. Il teatro era stato per lei una nuova
esperienza. Quando Richard le aveva rivelato che sarebbero andati
a vedere un musical, aveva pensato senza troppo entusiasmo
a quei vecchi adattamenti cinematografici, ed era convinta
che uno spettacolo a Raleigh sarebbe stato un po' come una
specie di recita scolastica, a confronto di quelli che davano a
New York.
Accidenti se si sbagliava.
Era rimasta incantata: le coppie in abito da sera che sorseggiavano
vino nel foyer prima dell'inizio dello spettacolo, il brusio
della folla che si affievoliva con l'abbassarsi della luce in sala,
l'attacco energico dell'orchestra che l'aveva fatta trasalire,
la vicenda tragica e romantica, l'abile recitazione degli attori e
le canzoni, alcune delle quali commoventi al punto da farla
piangere. E' poi i colori! Le scene e i costumi, l'alternanza di
luci e ombre, tutto contribuiva a creare sul palcoscenico un
mondo nel contempo surreale e straordinariamente vivo.
Era stata una serata da sogno. Per qualche ora aveva avuto
la sensazione di scivolare in un universo parallelo, in cui lei non
era una semplice parrucchiera di una piccola città del Sud, il cui
momento più luminoso della settimana era quando riusciva a
togliere il cerchio ostinato di sporco che si era formato intorno
alla vasca. No, quello era un altro mondo, un luogo abitato da
persone appartenenti a comunità esclusive che di mattina studiavano
le quotazioni in Borsa sul giornale mentre la bambinaia
vestiva i bambini per la scuola. All'uscita del teatro, aveva alzato
gli occhi verso il cielo e in quel momento non sarebbe rimasta
sorpresa di vedere due lune che illuminavano la notte.
Poi erano andati a cena al ristorante. E mentre facevano ritorno
a casa a bordo della limousine, ricordò, avvolta dall'odore
gradevole dei sedili di pelle e con le bollicine dello champagne
che le solleticavano il naso, si era messa a pensare. Allora
è questo il modo in cui vive l'altra metà della gente, si era
detta. E davvero facile abituarsi a questa vita.
Anche il sabato era stato una vera sorpresa, anche se molto
diversa dalla precedente: una gita all'aperto in mongolfiera, una
piacevole passeggiata tra strade chiassose e animate e infine il
picnic sulla spiaggia. Un intero repertorio di mondanità in due
giorni, pensò, come due sposi novelli che non vogliono perdere
nemmeno un'occasione nelle ultime ore della loro luna di
miele.
La gita in mongolfiera l'aveva un po' spaventata per via delle
raffiche di vento, ma tutto sommato le era piaciuta... e anche
camminare tenendosi per mano e mettersi in posa mentre
Richard le scattava fotografie, ma quello che l'aveva più divertita,
pensò, era stato il picnic. Ne aveva fatti tantissimi in vita
sua, a Jim piacevano molto, e per un attimo si era sentita di
nuovo quella di una volta. Ma nel cestino c'erano una bottiglia
di Merlot, un vassoio di formaggi francesi e frutta esotica, e dopo
aver finito di mangiare, Richard si era offerto di farle un
massaggio ai piedi. Le era sembrato un po' ridicolo e aveva riso
imbarazzata, ma quando lui le aveva sfilato i sandali e aveva
cominciato a massaggiarle i piedi, si era rilassata, immaginandosi
di essere Cleopatra sdraiata all'ombra delle palme.
Stranamente, in quel momento ripensò a sua madre.
Pur avendo deciso ormai da molto tempo che era alquanto
inaffidabile come genitrice e anche come modello femminile,
le era tornata in mente una frase che le aveva detto quando lei
le aveva chiesto perché avesse smesso di uscire con l'ultimo
fidanzato.
«Non mi smuoveva dentro», l'aveva informata la madre in
tono pratico. «A volte succede.»
Allora Julie, che aveva otto anni, era rimasta perplessa. Ma
con il tempo aveva capito che cosa intendeva dire con quelle
parole.
Richard la smuoveva dentro? si chiese.
Teoricamente avrebbe dovuto, si disse. Cielo, non avrebbe
potuto trovare un uomo migliore, almeno non a Swansboro.
Aveva tutte le doti che si possono desiderare in un uomo
da sposare, ma adesso, dopo quattro romantiche uscite
e molto tempo trascorso insieme, di colpo Julie comprese che
non era così. Quella consapevolezza improvvisa la lasciò senza
fiato, come se stesse precipitando sul fondo di una piscina,
ma non poteva negare che, di qualunque natura fosse la
forza che univa due persone - si trattasse di chimica o di magia
- nel loro caso non c'era. Lei non provava i brividi che
aveva sentito la prima volta che Jim le aveva preso la mano.
Non sentiva l'impulso di chiudere gli occhi e sognare un futuro
insieme ed era assolutamente sicura che non avrebbe
passato il giorno successivo a un appuntamento in preda all'ebbrezza
d'amore. Era stato tutto davvero molto divertente,
nient'altro, e per quanto desiderasse diversamente, non
era più tanto sicura a proposito di Richard, a parte il fatto
che sembrava un tipo a posto... il genere di uomo perfetto
per qualcun'altra.
A volte, come diceva sua madre, succedeva.
Ma forse avevano solo bisogno di altro tempo, prima di trovare
un'intesa. Dopo tutto, il suo legame con Jim aveva impiegato
un po' per svilupparsi. Magari, dopo qualche altro appuntamento,
ripensando a quelle perplessità, si sarebbe sorpresa
di tanta diffidenza da parte sua. Giusto?
Forse, si ripeté mentre si spazzolava i capelli davanti allo
specchio. Poi posò la spazzola e pensò che doveva essere per
forza così. Sì, dobbiamo solo conoscerci meglio, concluse. E in
parte è anche colpa mia. Ho delle resistenze.
Pur avendo trascorso molte ore a parlare con Richard, i loro
dialoghi erano sempre stati superficiali. Certo, si erano detti
le cose fondamentali, considerò, ma lei non gli aveva offerto
molto di più. Tutte le volte che il passato faceva capolino,
l'aveva evitato. Non gli aveva rivelato quanto fossero stati difficili
i rapporti con sua madre, come fosse stato doloroso vedere
uomini che entravano e uscivano a tutte le ore, la tristezza
di dover andarsene di casa prima del diploma, né il terrore
di vivere per strada, specialmente la notte. Non gli aveva
detto che cosa aveva provato alla morte di Jim, quando le
era sembrato di non avere più la forza di andare avanti. Erano
tutti ricordi brutti, quelli che lasciavano un sapore amaro
in bocca quando li rievocava, e una parte di lei era tentata di
confidarli a Richard, affinché potesse conoscerla per quella
che era veramente.
Però non lo faceva. Per qualche motivo, non le riusciva. E
neppure Richard le aveva raccontato molto di sé. Anche lui in
un certo senso aveva evitato il passato.
Ma alla fin fine non stava proprio lì il fulcro dell'intimità? si
chiese. Nella capacità di comunicare, di aprirsi con l'altro? Tra
lei e Jim c'era stata quella confidenza ma, come il dilemma dell'uovo
e della gallina, ora Julie non ricordava più che cosa fosse
venuto prima: i brividi o tutto il resto.
Lo squillo del telefono interruppe le sue riflessioni. Si diresse
in salotto, seguita da Singer.
«Pronto?»
«Allora, com'è andata?» chiese Emma. «Voglio sapere tutto.
Fin nei minimi particolari.»
«Un massaggio ai piedi?» chiese Mike senza nascondere l'incredulità.
Era l'unico particolare che non aveva appreso per
strada.
«E' quello che ha raccontato a Emma ieri.»
«Ma... un massaggio ai piedi?»
«Ammetto che è un tipo un po' eccentrico.»
«Non è quello che voglio dire.» Mike fece una pausa e si infilò
le mani in tasca. Il suo viso assunse un'espressione assente.
Henry si sporse in avanti.
«Senti, mi rincresce doverti dare altre cattive notizie, ma ha
chiamato Benny dicendo che verrà oggi.»
Mike fece una smorfia. Benny, pensò. Buon Dio, Benny.
La giornata si annunciava davvero fantastica.
«E Blansen ha bisogno del suo furgone», proseguì il fratello.
«Lo sistemerai, vero? E' importante, perché ho fatto un contratto
con quelli del ponte.»
«Sì, stai tranquillo.»
Andrea non poteva crederci, non voleva crederci. Le veniva
il mal di stomaco solo a pensarci, soprattutto considerando
l'atteggiamento
noncurante di Julie. Una limousine? Champagne?
Il fantasma della soap opera, o come diavolo si chiamava? Il giro
in mongolfiera? Un picnic sulla spiaggia?
Non voleva sentire niente. Non voleva ascoltarlo nemmeno
per sbaglio, ma era impossibile, in una comunità così piccola e
pettegola.
Il suo weekend non era stato affatto così, si disse. No, era
stato uguale a tutti gli altri ultimamente, una lunga serie di giornate
da cancellare. Venerdì aveva passato la sera al Clipper, cercando
di arginare per la seconda volta le avances di Cobra. Anche
se non era andata lì con l'intenzione di incontrarlo, lui l'aveva
vista entrare e non aveva più smesso di ronzarle intorno
come una mosca con il miele. E sabato? Che bella giornata,
passata a rimediare alle unghie rovinate la notte prima!
Allora vi è piaciuto il mio weekend? avrebbe voluto gridare.
Vi fa ribollire il sangue d'invidia, eh?
Ma ovviamente nessuno glielo aveva chiesto. No, Mabel come
al solito era interessata solamente a quello che faceva Julie.
«E poi che cosa è successo? Scommetto che sei rimasta sorpresa,
vero? Che meraviglia!» Julie, Julie, Julie. Sempre e solo
lei, che scrollava le spalle come se niente fosse.
Nell'angolo, Andrea si limava le unghie come una smerigliatrice
umana. Non è giusto, si ripeteva.
Richard aprì la porta del negozio e lasciò passare una cliente
prima di entrare.
«Oh, ciao», disse Julie. «Che tempismo. Ho appena finito.»
Pur essendo ancora molto confusa sulle sue emozioni, era
contenta che fosse passato a trovarla, se non altro vederlo le
avrebbe schiarito un po' le idee.
«Sei bellissima», disse lui, chinandosi a baciarla.
Nonostante la brevità del gesto, Julie studiò analiticamente
le proprie sensazioni quando le loro labbra si unirono. Niente
fuochi d'artificio, pensò, ma nemmeno ribrezzo. Soltanto... un
bacio.
«Hai qualche minuto per bere un caffè?» le chiese.
Lei si guardò intorno: Mabel era andata in banca e Andrea
sembrava intenta a sfogliare il National Enquirer seduta in un
angolo.
«Sì», rispose. «Ho una mezzora prima del prossimo appuntamento.»
Lo sguardo di Richard si posò sul suo collo.
«Dov'è il ciondolo?»
Julie si portò istintivamente la mano alla gola.
«Oh... non l'ho messo. Continuava a impigliarsi nei vestiti
mentre lavoravo e oggi devo fare due permanenti.»
«Perché non lo infili sotto?»
«Ci ho provato, ma scivola sempre fuori.» Fece un passo verso
la porta. «Vieni, usciamo. Sono rimasta chiusa qui dentro
tutta la mattina.»
«Vuoi che ti faccia accorciare la catenina?»
«Non essere ridicolo. E' perfetto così com'è.»
«Però non lo porti», insistette lui.
Julie non rispose e, nel lungo silenzio che seguì, esaminò Richard
attentamente. Anche se sorrideva, la sua espressione aveva
un che di forzato.
«Ti spiace davvero così tanto che non mi sia messa il ciondolo?»
gli chiese.
«E' solo che pensavo ti piacesse.»
«Infatti. Però non voglio metterlo quando lavoro.»
Di nuovo quell'espressione di forzata accondiscendenza, ma
prima che Julie potesse rifletterci su, Richard parve riscuotersi
e il suo sorriso tornò naturale, come se si fosse trattato solo
di un'illusione.
«Ti farò avere una catenina più corta», disse. «Così ne avrai
due e potrai indossare il ciondolo tutte le volte che vorrai.»
«Non è necessario.»
«Lo so», disse lui, abbassando gli occhi per un attimo e tornando
a fissarla. «Ma mi va.»
Lei lo guardò, assalita di colpo da una sensazione di... che
cosa?
Andrea lasciò cadere il giornale non appena i due furono
usciti dal negozio. Julie era davvero la donna più idiota sulla
faccia della terra, pensò. Dopo un weekend come quello, che
cosa si aspettava?
Doveva sapere che Richard sarebbe passato a trovarla,
considerò. Veniva lì ogni santo giorno, e lei capiva perché
fosse rimasto offeso dalla mancanza di considerazione mostrata
da Julie. Chi non lo sarebbe stato? E poi non capitava
spesso di incontrare un uomo tanto generoso. Ma quella
stupida lo apprezzava? Si soffermava mai a pensare, almeno
per un momento, a che cosa potesse renderlo felice,
invece di mostrarsi così egoista? Non le era venuto in mente
che forse le aveva regalato il ciondolo perché voleva che
lo portasse? E che indossando quel gioiello avrebbe dimostrato
il proprio apprezzamento per tutte le sue attenzioni?
Il fatto era che Julie non si rendeva proprio conto della fortuna
capitatale. Magari era convinta che tutti gli uomini fossero
come Richard, che spendessero vagonate di dollari in regali,
cene e limousine. Per la miseria, si disse, solo il noleggio della
limousine doveva essere costato più di quanto i tizi con cui
lei usciva guadagnavano in un anno!
Scrollò la testa. No, Julie non se lo meritava proprio un tipo
del genere. Richard si comportava in modo fantastico. Per
non parlare poi del suo aspetto: stava cominciando a pensare
che era l'uomo più sexy che avesse mai visto.
Manipolata. Ecco come si sentiva Julie rientrando in negozio
dopo aver salutato Richard.
Era come se lui volesse costringerla a indossare il ciondolo
anche quando lavorava. Come se lei dovesse sentirsi in colpa
per non averlo fatto.
Come se dovesse tenerselo addosso sempre, si disse.
Cercò di rinconciliare quella sgradevole sensazione con l'immagine
positiva dell'uomo che si era mostrato tanto gentile durante
il weekend. Perché era sembrato sconvolto da un dettaglio
tutto sommato... insignificante? si chiese. Per lui era davvero
così importante?
A meno che non l'avesse interpretato come un'espressione
inconscia di quello che lei provava.
Fu colpita da quest'idea e si domandò se non fosse vera, soprattutto
dopo le riflessioni che le erano passate per la testa domenica.
Aveva indossato volentieri il ciondolo da quando lui
gliel'aveva regalato, anche nel fine settimana. E non era poi tanto
difficile tenerlo al collo mentre lavorava, solo un po' scomodo.
Quella mattina, invece, aveva improvvisamente deciso
di non metterlo, perciò...
No, pensò Julie scrollando la testa, non era cosi. Sapeva esattamente
quello che faceva: il ciondolo le era davvero d'impiccio.
La settimana prima aveva rischiato di strappare la catenina
almeno un paio di volte e si era impigliato nei capelli delle
clienti in diverse occasioni. Non lo portava perché non voleva
romperlo.
E comunque non era questo il punto, si disse. A turbarla era
stata la strana reazione di Richard. Le sue parole, quell'espressione
e la sensazione di disagio che aveva suscitato in lei... erano
tutti aspetti preoccupanti.
Jim non l'aveva mai trattata così. Quando qualcosa non gli
andava - il che in realtà capitava di rado - non cercava di manipolarla.
né nascondeva la rabbia dietro un sorriso, E lei non
aveva mai provato quella sensazione, che non le piaceva affatto.
Andrà tutto bene finché faremo a modo mio, sembrava invece
sottintendere l'atteggiamento autoritario di Richard. E che
non succeda più.
No, non le piaceva.
10.
Mike era in piedi nell'officina e annuiva assorto, sforzandosi
di trattenere l'impulso di strozzare il rompiscatole che gli stava
di fronte.
E anche Henry, che glielo aveva appioppato. Non appena
Benny Dickens aveva messo piede in officina, suo fratello si era
ricordato di una telefonata importante e lo aveva piantato in
asso.
«Ci pensi tu, Mike?»
Benny aveva ventun anni ed era il figlio del proprietario di
una miniera di fosforo che si trovava appena fuori città, un'impresa
che dava lavoro a centinaia di persone ed era la più importante
della zona. Aveva abbandonato gli studi prima del diploma
e abitava in un'enorme casa sul fiume, comprata con i
soldi di papà. Benny non lavorava, non aveva mai nemmeno
contemplato l'idea di farlo e in giro c'erano già almeno un paio
di Benny Junior, figli di donne diverse. Ma la famiglia Dickens
rappresentava di gran lunga il cliente più cospicuo dell'officina,
il genere di cliente che un piccolo esercizio commerciale
non poteva permettersi il lusso di perdere. E paparino amava
suo figlio. Credeva quasi che camminasse sulle acque. Paparino,
aveva deciso Mike già da tempo, era un perfetto idiota.
«Nooo, non ci siamo», commentò Benny, con le guance arrossate,
la voce stridula e lamentosa. «Ti avevo detto che lo volevo
alto!»
Si riferiva al rombo della sua Callaway Corvette nuova di
zecca, che aveva portato in officina per far elaborare il motore.
Mike immaginò che volesse intonarlo con le fiamme che
aveva fatto dipingere sul cofano la settimana prima e l'impianto
stereo a dodici casse che aveva fatto installare. Benny intendeva
presentarsi a bordo del suo bolide a Fort Lauderdale per
la festa di primavera la settimana successiva, nella speranza di
sedurre il maggior numero possibile di ragazze. Che giovanotto
irresistibile.
«E' alto», disse Mike. «Di più sarebbe illegale.»
«Non è illegale.»
«Ti garantisco che ti fermerebbero.»
Benny sbatté gli occhi, come se si sforzasse di capire le sue
parole.
«Non sai con chi stai parlando, stupido scimmione bisunto.
Non è illegale, mi hai capito?»
«Stupido scimmione bisunto», ripeté Mike, annuendo. «Ho
capito.»
Ora gli metto le mani al collo, i pollici sul pomo d'Adamo. Stringo
e scuoto.
Benny teneva le mani sui fianchi. Come al solito, sfoggiava
il suo Rolex.
«Mio padre non porta forse qui tutti i suoi furgoni a riparare?»
«Sì.»
«E io non sono sempre stato un buon cliente?»
«Sì.»
«Non ti ho affidato la mia Porsche e la mia Jaguar?»
«Sì.»
«Non pago sempre puntualmente?»
«Sì.»
Benny agitò le braccia, esasperato.
«Allora perché non hai alzato il motore? ! Ricordo di essere
venuto qui un paio di giorni fa e di avertelo spiegato per benino.
Ti ho detto che lo volevo alto! Devono voltarsi tutti! Forte
come un tuono! Non vado mica là a prendere il sole! Mi hai
capito?»
«Tuono, non sole», disse Mike. «Capito.»
«E allora alzalo!»
«Alzarlo.»
«Esatto! E lo voglio per domani!»
«Domani.»
«Alto! Lo capisci, vero? Alto!»
«Alto.»
Henry si massaggiava il mento contemplando Mike che gli
voltava le spalle: era rientrato nell'officina non appena Benny
era partito facendo fischiare le gomme della sua Jaguar e, ancora
furibondo, borbottava tra sé mentre regolava il motore
della Callaway.
«Forse avresti dovuto alzarlo di più», gli disse Henry. «Il motore,
cioè.»
Mike sollevò lo sguardo. «Lascia perdere.»
Suo fratello sorrise con finto candore. «Volevo solo aiutarti.»
«Certo. Come il boia che aziona l'interruttore della sedia
elettrica. Perché mi hai lasciato alle prese con quell'invasato?»
«Sai che non lo sopporto.»
«E io sì?»
«Però sei molto più bravo di me a incassare le offese. E noi
non possiamo permetterci di perdere il lavoro che ci fornisce
suo padre.»
«Stavo per strangolarlo.»
«Ma non lo hai fatto. E pensa, adesso possiamo presentargli
un conto più salato.»
«Non ne vale comunque la pena.»
«Avanti, Mike. Ti sei comportato da autentico professionista.
Sono rimasto colpito.»
«Mi ha chiamato 'stupido scimmione bisunto'.»
«Detto da lui, forse dovresti prenderlo come un complimento.»
Gli cinse le spalle con un braccio. «Ma senti, se succede
ancora, forse dovresti tentare con un approccio diverso.
Giusto per calmarlo un po'.»
«Una bella striscia di nastro adesivo?»
«No, magari qualcosa di più raffinato.»
«Ovvero?»
«Uhm.» Henry si portò di nuovo la mano al mento, meditabondo.
«Che ne diresti di un massaggio rilassante ai piedi?»
Mike rimase a bocca aperta. Detestava quel genere di umorismo.
Jake Blansen arrivò alle quattro a ritirare il furgone e, dopo
aver saldato il conto in ufficio, entrò nell'officina.
«Le chiavi sono nel cruscotto», gli spiegò Mike. «Senta, ho
anche regolato i freni. Adesso rispondono subito, quindi fate
attenzione. Per il resto, è tutto a posto.»
Jake annuì. Sembrava il prototipo del muratore esperto, con
le spalle larghe e l'addome prominente da bevitore di birra,
uno stuzzicadenti infilato tra le labbra e il berretto da baseball.
Aveva la camicia con gli aloni scuri sotto le ascelle, i jeans e gli
stivali incrostati di cemento.
«Glielo dirò», rispose. «Anche se, a essere sincero, non so
perché mi sia fatto coinvolgere in questa storia. Non spetta a
me occuparmi della manutenzione degli automezzi. Ma succede
sempre così, e i capi non vogliono sentir ragioni.»
Mike annuì in direzione dell'ufficio di Henry. «La capisco.
Anche quello lì a volte è un vero tormento. Ma deve prendere
il Viagra, quindi non posso biasimarlo. Certi problemi danno
alla testa.»
Jake rise della battuta.
Anche Mike sorrise, soddisfatto di essersi almeno in parte
vendicato. «Quanti uomini lavorano in cantiere adesso?»
«Non lo so esattamente. Duecento, all'incirca. Perché, cerca
lavoro?»
«No... io faccio il meccanico. E' solo che ho conosciuto uno
dei consulenti tecnici per il progetto del ponte.»
«Chi?»
«Richard Franklin. Lei lo conosce?»
Guardandolo dritto negli occhi, Jake si sfilò lo stuzzicadenti
di bocca. «Certo.»
«E' in gamba?»
«Lei che ne pensa?» replicò l'uomo.
Il suo tono sospettoso fece esitare Mike. «Suppongo che la
risposta sia no», disse infine.
Jake chiese: «Che cos'è? Un amico?»
«No... l'ho visto solo una volta.»
«Meglio così. Non le piacerebbe frequentarlo.»
«Perché?»
Dopo qualche attimo di silenzio, l'uomo scrollò il capo senza
dare spiegazioni. Riportò la conversazione sul furgone e se
ne andò quasi subito, lasciando Mike a chiedersi la ragione di
quello strano comportamento.
I suoi pensieri vennero interrotti dall'arrivo di Singer.
«Ehi, cagnone!» lo chiamò Mike.
Il danese si avvicinò e si alzò sulle zampe posteriori, appoggiando
quelle anteriori sul suo petto. Sembravano due ballerini.
«Che ci fai qui?» chiese Mike.
Singer emise un guaito di felicità, poi ricadde sulle quattro
zampe, si voltò e si diresse verso l'armadietto.
«Non ho niente da darti», gli disse lui seguendolo. «Ma sono
sicuro che Henry tiene qualcosa di buono in ufficio. Andiamo
a vedere.»
Singer lo precedette. Mike aprì l'ultimo cassetto della scrivania
e tirò fuori i dolcetti preferiti del fratello: biscotti ricoperti
di cioccolato e morbide pastefrolle con zucchero a velo.
Quindi si mise seduto sulla sua sedia e cominciò a lanciare
i dolci uno alla volta a Singer, che li prendeva al volo e li
inghiottiva vorace come un rospo a caccia di mosche. Probabilmente
non erano il cibo più indicato per un cane, si disse
Mike, ma il danese agitava la coda in segno di gradimento. E
poi Henry si sarebbe arrabbiato sul serio scoprendo che i suoi
dolci erano spariti. Ottimo. Un po' come prendere due piccioni
con una fava.
Dopo aver congedato l'ultima cliente della giornata, Julie si
guardò in giro per il negozio.
«Hai visto Singer?» chiese a Mabel.
«L'ho lasciato uscire qualche tempo fa», rispose questa. «Stava
in piedi sulla porta.»
«Quando è stato?»
«Più o meno un'ora fa.»
Julie guardò l'orologio. Singer non era mai rimasto lontano
così a lungo, pensò.
«E non è più tornato?»
«Mi pare di averlo visto andare verso l'officina.»
Singer era accovacciato su una vecchia coperta, intento a digerire
i biscotti, mentre Mike sistemava la trasmissione di una
Pontiac Sunbird.
«Ehi, Mike?» chiamò Julie. «Ci sei ancora?»
Al suono della sua voce lui alzò la testa e uscì da dietro la
macchina. «Da questa parte», disse. Il danese sollevò il muso
con gli occhi appannati.
«Hai visto Singer?»
«Sì, è qui con me.» Indicò di lato, quindi afferrò uno straccio
e cominciò a pulirsi le mani. Il danese si alzò e le andò incontro.
«Eccoti qua.» Julie accarezzò il dorso al cane che si era messo
a girarle intorno. «Cominciavo a preoccuparmi.»
Mike sorrise, grato che Singer fosse rimasto a fargli compagnia.
«Allora che mi dici?» chiese Julie.
«Niente di speciale. Tu come stai?»
«Bene.»
«Bene e basta?»
«E' una di quelle giornate...» disse lei. «Sai come succede a
volte.»
«Eccome», rispose lui annuendo. «Anche per me è stata una
giornata tosta. Tanto per cominciare, è venuto Benny... e poi
Henry ha rischiato di morire.»
«Come? Tuo fratello ha rischiato di morire?»
«Di morire... essere ucciso... fa lo stesso. Mi sono trattenuto
all'ultimo momento. Ho immaginato la faccia dei nostri genitori
quando mi avessero visto dietro le sbarre. Ma lascia che
ti dica una cosa... c'è mancato poco.»
«Così oggi ti ha fatto dannare?»
«Perché, di solito no?»
«Poverino», disse lei. «Ricordami di fare un piantarello per
te stasera.»
«Sapevo di poter contare sulla tua solidarietà.»
Julie rise. A volte lui era irresistibile, pensò, con quella buffa
fossetta. «Allora, che cosa ti ha combinato? Un altro taglio
con le forbici sul retro della tuta?»
«No, ormai quella è roba vecchia. E poi, l'ultima volta che
ci ha provato, ho ricoperto di colla a presa rapida una chiave
inglese e gli ho chiesto se poteva reggermela un attimo. Non è
riuscito a staccarla fino al mattino dopo: ha dovuto dormirci
insieme.»
«Me lo ricordo», disse Julie. «Per settimane ha avuto paura
a prendere in mano qualsiasi attrezzo.»
«Già», sospirò Mike malinconico. A suo parere era stato uno
dei momenti migliori. «Dovrei fargli certi scherzi più spesso.»
«Lo sai che continuerebbe comunque a prenderti in giro. Il
fatto è che è geloso.»
«Tu dici?»
«Certo. Sta perdendo i capelli e ha la malattia della cintura.»
«Che malattia?»
«Quella della pancia che deborda sotto la cintura.»
Mike rise. «Eh già, dev'essere dura invecchiare così.»
«Non hai ancora risposto alla mia domanda... che cosa ti ha
combinato oggi?»
Non poteva certo riferirle la battuta di Henry, e allora si avvicinò
al distributore di bibite e infilò la mano in tasca. «Non
vale la pena di parlarne», commentò in tono casuale mentre infilava
le monete nella fessura.
Julie si portò le mani sui fianchi. «Deve averti punto sul vivo,
se non me lo vuoi dire.»
«Non te lo dirò mai!» Mike si raddrizzò e la sua voce assunse
un tono più serio. «Ma a volte mi viene da pensare che
tu goda di riflesso delle sue pagliacciate, il che mi ferisce.» Le
porse una lattina di Diet Coke.
«Ti ferisce», ripeté lei prendendo la lattina.
«Come una coltellata.» Aprì la sua Sprite.
«Devo fare due piantarelli stasera?»
«Sì, due potrebbero andare, ma facciamo tre... e ti perdono
del tutto.»
Quando lo vide sorridere, Julie si rese conto di quanto le fossero
mancate le loro chiacchierate. «Allora, a parte Henry, è
successo qualcos'altro oggi?»
Mike non rispose subito. E' venuto qui un tizio di nome Jake
Blansen e ha fatto misteriose allusioni su Richard. Vuoi sentirle?
No, non era il momento giusto. Scrollò il capo e disse: «Niente
di speciale. Tu invece che mi racconti?»
«Ho lavorato tutto il giorno, come al solito.» Julie guardò il
cane. «E poi mi sono preoccupata sul serio quando ho visto
che lui era scappato, temevo gli fosse successo qualcosa.»
«A Singer? Se una macchina lo investisse, finirebbe spiaccicata
come un insetto.»
«Comunque ero in ansia.»
«Perché sei una donna. Noi uomini, invece... siamo addestrati
a non lasciarci prendere dal panico.»
Julie sorrise. «Mi fa piacere. Quando arriverà l'uragano, sarai
il primo che chiamerò per aiutarmi a mettere le protezioni
alla casa.»
«Tanto lo fai già. Hai persino comperato un martello speciale
apposta per me.»
«Non pretenderai che me la cavi da sola, vero? Potrei farmi
prendere dal panico.»
Mike fece una risata e per un attimo rimasero entrambi in
silenzio. E adesso? pensò lui. Non rimaneva che affrontare
l'argomento.
«Come va con Richard?» chiese, cercando di assumere un
tono disinvolto.
Julie esitò. Già, si chiese a sua volta, come andava?
«Bene», rispose. «Ho passato davvero un bel fine settimana,
però...» Lasciò la frase in sospeso, non sapendo bene che cosa
rivelare a Mike.
«Però?»
«Non è importante.»
Lui la fissò intensamente. «Sicura?»
«Sì.» Gli rivolse un sorriso forzato.
Mike avvertì il suo disagio, ma non indagò oltre. Se non voleva
ancora confidarsi, non c'erano problemi.
«Senti, se mai sentissi il bisogno di parlarne con qualcuno,
io sarò qui, d'accordo?»
«D'accordo.»
«Dico sul serio», insistette lui. «Sempre a tua disposizione.»
«Lo so.» Julie gli cinse amichevolmente le spalle, nel tentativo
di stemperare la tensione. «Sai, a volte penso che tu dovresti
uscire di più. Vedere il mondo, visitare luoghi esotici.»
«Che cosa? E interrompere la mia sequela di serate passate
a guardare le avvincenti repliche di Baywatch?»
«Esattamente. Qualsiasi cosa è meglio della televisione», disse
lei. «Ma se viaggiare non fa per te, potresti coltivare un hobby.
Per esempio imparare a suonare uno strumento.»
Mike serrò le labbra. «Questo, mia cara, è un colpo basso.»
Gli occhi di Julie lampeggiarono. «Come quello di Henry?»
Ci pensò un istante. «No», rispose, «lui ha colpito più duro.»
«Peccato.»
«Che posso dirti? Sei una dilettante.»
Lei sorrise, poi si piegò leggermente all'indietro, come per
valutarlo con comodo. «Sai che sei un tipo simpatico?»
«Perché è facile prendermi in giro?»
«No, perché abbocchi sempre.»
Mike si grattò via una macchia di grasso dalle unghie. «Che
buffo», disse.
«Che cosa?»
«Andrea ha pronunciato la stessa frase l'altra sera.»
«Andrea?» chiese Julie, dubitando di aver sentito bene.
«Sì. Siamo usciti insieme questo fine settimana. A proposito,
adesso che mi viene in mente... devo passare a prenderla
tra poco.»
Diede un'occhiata all'orologio, poi guardò verso l'armadietto.
«Ma... come... Andrea?» Julie non riusciva a nascondere il
proprio sconcerto.
«Sì... è fantastica. Ci siamo molto divertiti. Senti, scusa, adesso
devo proprio andare...»
Julie lo prese per un braccio. «Ma... ? Tu e Andrea...?»
Mike la guardò serio per qualche istante, poi le strizzò l'occhio.
«Ci sei cascata, vero?»
Lei incrociò le braccia. «No», ribatté secca.
«Dai. Ammettilo.»
«No.»
«Un pochino.»
«E va bene, lo ammetto.»
Mike le lanciò un'occhiata trionfante. «Bene. Ora siamo pari.»
11.
Julie rientrò in negozio sorridente, ancora divertita dalla piacevole
conversazione con Mike. Vedendola, Mabel alzò la testa
dal bancone.
«Dovevi uscire con Richard stasera?» le chiese.
«No. Perché?»
«E' passato di qui a cercarti.»
«Ero nell'officina a chiacchierare con Mike», disse Julie.
«E non hai incontrato Richard mentre tornavi?»
«No.»
«Che strano», osservò Mabel. «Avresti dovuto incrociarlo
per strada. Se n'è andato da un paio di minuti e pensavo ti fosse
venuto incontro.»
«Evidentemente no», rispose Julie guardando la porta. «Ti
ha detto che cosa voleva?»
«No. Se ti sbrighi, magari riesci ancora a raggiungerlo.»
Mabel inserì la segreteria telefonica e finì di riordinare il bancone,
mentre Julie dibatteva fra sé il da farsi.
«Non so tu», continuò la donna vedendo che lei non si muoveva,
«ma io sono sfinita. Oggi sembrava che tutte le clienti avessero
da ridire. Non hanno fatto che lamentarsi di questo o di quello.»
Julie stava ancora pensando a Richard. «Dev'essere la luna
piena», borbottò. «Rende la gente nervosa.»
«Anche Mike?»
«No, lui no.» Julie agitò una mano in aria in segno di sollievo.
«Per fortuna Mike è sempre lo stesso.»
Mabel aprì l'ultimo cassetto della scrivania e tirò fuori una
fiaschetta. «E' ora di spazzar via le ragnatele», annunciò. «Mi
fai compagnia?»
«Volentieri. Vado a chiudere la porta.»
La donna prese dal cassetto due bicchieri di plastica e andò
a mettersi comoda sul divano. Si tolse le scarpe, appoggiò i piedi
sul tavolino e versò il bourbon. Mentre sorseggiava il liquore
con gli occhi chiusi e la testa reclinata all'indietro, sembrava
seduta su una sdraio in una spiaggia tropicale.
«Che combina Mike in questi giorni?» chiese a Julie senza
aprire gli occhi. «Non si è fatto vedere molto in giro ultimamente.»
«Niente di speciale. Lavora, bisticcia con Henry, come al solito.»
Fece una pausa e il viso le si illuminò. «A proposito, hai
saputo che suonerà al Clipper tra qualche settimana?»
«Oh... urrà.» La sua mancanza di entusiasmo era palpabile.
Julie scoppiò a ridere. «Sii carina. E poi stavolta si tratta di
un buon gruppo.»
«Non servirà a niente.»
«Ma non suona poi così male.»
Mabel sorrise e si drizzò a sedere. «Tesoro, Mike è tuo amico,
ma per me è come un figlio. Lo conosco da quando portava
ancora i pannolini e ti assicuro che come musicista è davvero un
disastro. So che ci tiene molto ma, come dicono le Scritture: 'Non
tollerare i cattivi cantanti, perché rovinano le orecchie'.»
«Non c'è scritto così.»
«Dovrebbe. E lo avrebbero fatto se Mike fosse vissuto a quell'epoca.»
«Senti, a lui piace un sacco. E se avere l'occasione di suonare
gli da gioia, allora ne sono felice anch'io.»
Mabel sorrise. «Sei una ragazza davvero gentile e speciale,
Julie. Non mi importa quello che può dire la gente... mi piaci.»
Alzò il bicchiere in un brindisi.
«Idem per me.» Julie toccò il bicchiere con il suo.
«Bene, e ora che mi racconti di te e Richard?» incalzò la donna.
«Dopo che è passato stamattina, non ne hai più parlato.»
«Tutto a posto, credo.»
Mabel sollevò il mento. «Credi? Tipo: 'Credo che davanti a
noi non ci sia un iceberg, capitano'?»
«Tutto a posto», ripeté Julie.
«Allora perché non hai cercato di raggiungerlo poco fa, quando
te l'ho suggerito?» chiese Mabel scrutandola apertamente.
«Non ce n'era motivo», rispose lei. «Ci eravamo già visti oggi.»
«Ah», fece la donna con aria assorta. «Mi sembra sensato.»
Julie bevve un sorso di bourbon e sentì la gola bruciarle. Non
aveva potuto parlare di Richard con Mike, pensò, ma con Mabel
era diverso. L'avrebbe aiutata a chiarire le sue emozioni.
«Ti ricordi il ciondolo che mi ha regalato?» disse infine.
«E come potrei dimenticarlo?»
«Bene», proseguì Julie, «il problema era che oggi non lo portavo.»
«Tutto qui?»
«E' quello che pensavo anch'io. Invece Richard si è offeso...»
Vedendo che Julie esitava, Mabel agitò il bicchiere e disse:
«Si è offeso, e allora? Gli uomini hanno i loro difetti, e forse
questo è uno dei suoi. Ci sono cose peggiori, credimi. Secondo
me dovresti valutare l'episodio considerando anche tutto il
resto. Quante volte siete usciti insieme finora... tre?»
«Quattro, se calcoli doppio il weekend scorso.»
«E hai detto che lui è sempre stato carino, vero?»
«Sì. Così sembrava.»
«Allora forse oggi era soltanto una giornata no. Non ha un
orario di lavoro regolare, giusto? E forse domenica ha dovuto
fare gli straordinari fino a tardi. Chi lo sa?»
Julie soppesò l'ipotesi. «Forse.»
Mabel rigirò il bourbon nel bicchiere. «Non prendertela
troppo», disse. «Finché non supera i limiti, non è una questione
seria.»
«Allora devo lasciar correre?»
«Non proprio.»
Julie girò la testa a guardarla, stupita.
«Dai retta a una donna che ha collezionato molti appuntamenti
e conosciuto troppi uomini», disse Mabel. «All'inizio
di una relazione tutti, te compresa, danno il meglio di sé. Ma
a volte quelle che sembrano solo stravaganze del carattere con
il tempo possono rivelarsi delle vere e proprie manie... e il
vantaggio delle donne in questi casi è l'istinto.»
«Non mi hai appena detto di non preoccuparmi?»
«Infatti. Ma ti esorto anche a non ignorare il tuo istinto.»
«Quindi ritieni che ci sia sotto un problema?»
«Tesoro, non so che cosa pensare. Proprio come te. Non esiste
un libro magico delle risposte. Quindi, se il suo atteggiamento
ti ha dato tanto fastidio, non lasciare correre del tutto,
ma non permettere nemmeno che un incidente di percorso pregiudichi
la storia. In fondo due persone escono insieme proprio
per questo... cioè, per conoscersi meglio. Per scoprire se
tra loro scatta l'affinità. Io sto solo cercando di aggiungere un
po' di sano e vecchio buonsenso.»
Julie rimase in silenzio per qualche istante. «Penso che tu
abbia ragione», disse alla fine.
Il telefono si mise a squillare e Mabel si girò verso l'apparecchio.
Aspettò che partisse la segreteria e, dopo aver capito
chi stava lasciando il messaggio, tornò a rivolgere l'attenzione
alla sua giovane amica.
«Così siete usciti insieme quattro volte?»
Julie annuì.
«E ce ne sarà una quinta?»
«Non me l'ha ancora chiesto, ma credo che presto lo farà.»
«E' uno strano modo di rispondere.»
«Perché?»
L'amica la fissò con aria furba.
«Non mi hai detto che cosa hai intenzione di fare tu, se te
lo chiedesse.»
Julie girò la testa dall'altra parte. «E' vero», mormorò, «non
l'ho detto.»
Quando rincasò, Julie trovò Richard ad aspettarla.
Aveva parcheggiato sulla strada di fronte e stava appoggiato
alla macchina, con le braccia conserte e le gambe accavallate,
mentre la guardava imboccare il vialetto.
Dopo aver posteggiato, lei si slacciò la cintura rivolgendosi
a Singer.
«Resta qui dentro finché non ti dico di scendere, d'accordo?»
Il cane drizzò le orecchie.
«E comportati bene», aggiunse mentre apriva la portiera
della jeep.
Richard, intanto, si stava incamminando verso di lei sul vialetto.
«Ciao, Julie», le disse.
«Ciao», rispose in tono neutro. «Come mai sei qui?»
Lui si dondolò sui piedi. «Avevo un momento libero e ho
pensato di passare a farti un saluto. Ti ho cercato prima in negozio,
ma eri uscita.»
«Ero andata nell'officina a prendere Singer.»
Richard annuì. «E' quello che mi ha detto Mabel. Io però
ero un po' di corsa e non ho potuto aspettarti. Dovevo consegnare
dei disegni prima che l'ufficio chiudesse, e anche adesso
devo tornare indietro il più presto possibile. Senti, in realtà
desideravo scusarmi per stamattina. Ripensandoci mi sono accorto
di aver esagerato.»
Le sorrise, l'espressione contrita, come un bambino colto
con le mani nella marmellata.
«Ecco...» fece lei, «visto che ne hai parlato...»
Richard alzò le mani per fermarla. «Lo so, lo so. Non ho giustificazioni.
Volevo soltanto chiederti scusa.»
Julie si scostò una ciocca di capelli dal viso. «Eri davvero così
arrabbiato perché non indossavo il ciondolo?»
«No», rispose lui. «Davvero... non era per quello.»
«E allora perché?»
Richard distolse lo sguardo, poi riprese a parlare. La sua
voce era così bassa che lei stentava a distinguere le parole.
«E' solo che questo weekend sono stato davvero bene con
te e, quando ho visto che non lo portavi, ho pensato di essermi
sbagliato. Ho creduto di averti deluso in qualche modo.
Cioè... non puoi immaginare quanto per me sia stato fantastico
il tempo che abbiamo trascorso insieme. Mi capisci?»
Julie ci pensò un attimo, poi annuì.
«Sapevo che avresti capito», disse lui. Si guardò intorno, come
se all'improvviso la sua presenza lo rendesse nervoso.
«Ascolta... adesso devo proprio tornare al lavoro.»
«Va bene», rispose lei semplicemente, sforzandosi di sorridere.
Un attimo dopo, stavolta senza cercare di baciarla, se n'era
andato.
12.
Alla luce fioca di uno spicchio di luna, Richard raggiunse
la porta d'ingresso dell'edificio vittoriano che aveva affittato
in quel periodo. Si trovava alla periferia della città, in mezzo
a terreni agricoli, a un centinaio di metri dalla statale.
La casa, a un piano e circondata da pini, risaltava pallida al
chiaro di luna. Sebbene un po' decadente, conservava ancora
un certo fascino con il suo rivestimento in legno e le rifiniture
finemente intagliate che ricordavano i tempi dei balli nella dimora
del governatore. Anche il giardino aveva bisogno di cure
ed era infestato da erbacce, che tuttavia non disturbavano
Richard. C'era bellezza nel disordine della natura, pensava lui,
nelle linee curve e tormentate delle ombre notturne, così come
nelle variazioni di colori e forme dei rami e delle foglie alla luce
del giorno.
L'interno, al contrario, era in perfetto ordine. Il caos finiva
sulla soglia. Non appena ebbe aperto la porta, Richard accese
le luci. La mobilia noleggiata - non molti pezzi, giusto quanto
bastava a rendere l'ambiente presentabile - non era di suo gusto,
ma in una cittadina come Swansboro la scelta era limitata.
In un mondo di articoli da poco e di venditori con giacca di
poliestere, aveva preso gli oggetti migliori che era riuscito a trovare:
divani di velluto e tavolini con il piano in laminato quercia,
lampade di plastica dipinte color ottone.
Quella sera, tuttavia, non badò all'arredamento. Quella sera
nella sua mente esisteva solo Julie. E il ciondolo. E il modo
in cui la donna lo aveva guardato pochi minuti prima.
Ancora una volta si era spinto troppo oltre, e lei glielo aveva
fatto notare, rifletté. Stava cominciando a diventare una sfida,
ma la cosa gli piaceva. La rispettava per questo, dato che
più di tutto detestava la debolezza.
Perché diamine lei abitava in una cittadina come quella?
Julie, pensò, apparteneva alla grande città, un luogo di marciapiedi
affollati e brillanti insegne luminose, di brevi insulti e
risposte taglienti. Era troppo intelligente, troppo raffinata per
la vita di provincia. Lì non poteva trovare l'energia necessaria
a sostenerla, niente che la stimolasse alla lunga. La forza, se non
veniva utilizzata, si disperdeva e se Julie fosse rimasta a Swansboro
sarebbe diventata debole, proprio com'era successo a sua
madre. E con il tempo, non ci sarebbe più stato niente da rispettare.
Proprio come sua madre. La vittima. L'eterna vittima.
Chiuse gli occhi e tornò al passato. Era il 1974 e l'immagine
era sempre la stessa.
Con l'occhio sinistro tumefatto e un livido sulla guancia, sua
madre stava caricando una valigia nel portabagagli, cercando
di sbrigarsi. La valigia conteneva abiti per entrambi. Nella borsetta
aveva trentasette dollari, in spiccioli. Le c'era voluto quasi
un anno a racimolare quella somma: era Vernon a gestire le
finanze e le dava solo lo stretto necessario per fare la spesa.
Non era autorizzata a toccare il libretto degli assegni e non sapeva
nemmeno in quale banca lui versasse lo stipendio. I pochi
soldi messi da parte erano quelli che raccoglieva dal divano,
le monete che gli scivolavano dalle tasche mentre sonnecchiava
davanti alla televisione. Le aveva nascoste in una bottiglia
di detersivo sullo scaffale più alto della dispensa e, tutte le
volte che il marito vi si avvicinava, il cuore le batteva in gola.
Questa volta se ne sarebbe andata sul serio, si diceva sua madre.
Questa volta lui non l'avrebbe convinta a restare. Non gli
avrebbe creduto, per quanto si mostrasse tenero, per quanto
sembrassero sincere le sue promesse. Si diceva che, se fosse rimasta
ancora, lui l'avrebbe uccisa. Magari non questo mese o
il prossimo, ma di sicuro l'avrebbe fatto. E poi avrebbe ucciso
il figlio. Si diceva tutte queste cose e se le ripeteva quasi come
un mantra, come se le parole potessero darle il coraggio di andarsene.
Richard ripensò alla madre quel giorno. A come l'avesse tenuto
a casa da scuola e gli avesse detto di correre in cucina a
prendere il filone di pane e il burro di arachidi, perché andavano
a fare un picnic. Doveva portare anche un maglione, nel
caso la temperatura si abbassasse. Lui, a sei anni, le aveva ubbidito
anche se sapeva che mentiva.
Aveva udito le grida e i singhiozzi della madre la sera prima,
mentre era a letto terrorizzato. E il rumore della mano del padre
quando aveva colpito la sua guancia, mandandola a sbattere
contro la sottile parete divisoria tra le due camere; l'aveva
sentita gemere e implorarlo di smettere, che le spiaceva, che
avrebbe voluto fare il bucato ma aveva dovuto portare il figlio
dal dottore. Vernon la insultava come sempre quando aveva
bevuto: «Non mi assomiglia! Non è figlio mio!»
Richard ricordava di aver pregato che fosse vero. Non voleva
che quel mostro fosse suo padre. Lo odiava. Odiava l'odore
della sua capigliatura impomatata quando rincasava dal lavoro,
la sua puzza di alcol la sera. Odiava il fatto che, mentre
gli altri bambini del quartiere ricevevano biciclette e pattini per
Natale, quell'uomo gli avesse regalato una mazza da baseball,
ma senza guanto né pallina. E poi il modo in cui picchiava sua
madre se la casa non era abbastanza pulita, o se non trovava
qualcosa che lei aveva messo via. Odiava persino la loro abitudine
di tenere sempre le tende chiuse, e di non ricevere mai
ospiti.
«Sbrigati», aveva detto la madre esortandolo con un gesto
del braccio, «dobbiamo trovare una buona panchina al parco.»
Lui era corso dentro.
Rivide la scena: il padre pranzava a casa tutti i giorni e mancava
meno di un'ora al suo ritorno. Anche se andava al lavoro
a piedi, si portava dietro le chiavi della macchina assieme a quelle
di casa. Quella mattina lei le aveva tolte di nascosto dal portachiavi,
mentre il marito faceva colazione fumando e leggendo
il giornale.
Se ne sarebbero dovuti andare subito, non appena il padre
era scomparso dietro la collina. Lo sapeva anche lui, sebbene
avesse soltanto sei anni, e invece sua madre era rimasta seduta
al tavolo per ore, a fumare una sigaretta dopo l'altra. Non aveva
aperto bocca e non si era mossa da lì fino a pochi minuti
prima.
Adesso però era tardi. E il pensiero di non farcela la rendeva
frenetica, ricordò ancora Richard.
Quel giorno lui uscì di corsa di casa, con il pane, il burro e
il maglione, e si diresse verso l'auto. Mentre saliva, si accorse
che nel bianco dell'occhio sinistro della madre c'era del sangue.
Chiuse la portiera della Pontiac con un tonfo e lei tentò
di infilare le chiavi nel cruscotto, ma invano. Le tremavano le
mani. Fece un profondo respiro e provò di nuovo. Stavolta il
motore si accese e lei cercò di sorridere. Aveva il labbro gonfio
e, assieme all'occhio tumefatto, il suo sorriso storto aveva
un che di terrificante. Ingranò la retromarcia e uscì dal garage.
Si fermarono qualche istante sulla strada e sua madre guardò
il cruscotto.
Trasalì. L'indicatore della benzina segnalava che il serbatoio
era quasi vuoto.
Allora rimasero. Come sempre.
Quella notte, Richard udì di nuovo i genitori in camera da
letto, ma non erano suoni rabbiosi. Ridevano insieme e si baciavano;
più tardi sentì il respiro affannoso della madre e la sua
voce che gridava il nome del padre. Quando si alzò il mattino
successivo, li trovò abbracciati in cucina. Il padre gli strizzò
l'occhio e abbassò le mani sulla gonna di lei, che arrossì.
Richard aprì gli occhi. No, pensò, Julie non poteva restare
lì. Non se voleva condurre la vita che meritava. L'avrebbe portata
via da tutta quella mediocrità.
Che stupido era stato a prendersela tanto per il ciondolo.
Molto stupido. Non sarebbe più accaduto.
Immerso nelle proprie riflessioni, udì a stento lo squillo del
telefono, ma si alzò in tempo per rispondere prima che scattasse
la segreteria. Guardò il numero sul display e riconobbe il
prefisso di Daytona. Con un sospiro, alzò la cornetta.
13.
Nel buio della sua camera, afflitta da un feroce mal di testa
dovuto all'allergia, Julie lanciò un cuscino contro Singer, intimandogli
di stare zitto.
Il danese ignorò il «proiettile» e rimase accanto alla porta,
ansimando e ringhiando per convincerla a lasciarlo uscire a
«investigare»
come solo i cani sapevano fare. Era da un'ora che
girava senza sosta per casa, dalla camera al salotto e ritorno, e
più di una volta le aveva premuto addosso il suo naso umido,
facendola trasalire.
Julie si mise l'altro cuscino sulla faccia, ma non era sufficiente
a isolarla dal rumore e la compressione la faceva solo stare
peggio.
«Non c'è niente là fuori», borbottò infine. «E' notte fonda,
e mi fa male la testa. Non ho nessuna intenzione di alzarmi.»
Singer continuava a digrignare i denti brontolando. Non era
un ringhio sinistro né feroce, non era quello che emetteva quando
l'addetto dell'azienda elettrica veniva a leggere il contatore,
oppure il postino cercava di consegnare le lettere. Era solo un
rombo insistente e troppo forte per poterlo ignorare.
Julie gli tirò l'ultimo cuscino e il cane si vendicò attraversando
la camera e infilandole il naso nell'orecchio.
Lei si drizzò a sedere, asciugandosi con le dita.
«Questo è troppo! Questo è davvero troppo!»
Singer scodinzolò soddisfatto. Finalmente ti sei decisa a muoverti!
Poi trotterellò verso l'ingresso.
«Bene! Vuoi che ti dimostri che non c'è niente là fuori, matto
di un cane?»
Si massaggiò le tempie con un gemito, poi scese dal letto e
barcollò fino al soggiorno. Singer aveva già scostato le tendine
della finestra anteriore con il muso e guardava da una parte all'altra.
Anche Julie sbirciò fuori.
«Visto? Niente. Proprio come ti dicevo.»
Il danese non era convinto. Si spostò davanti alla porta e si
fermò, in attesa.
«Se esci, non credere che ti aspetti. Una volta fuori ci resti.
Io me ne torno a letto. Ho un mal di testa micidiale, sai... anche
se a te non interessa.»
Singer non le badò.
«D'accordo», disse lei. «Fa' come vuoi.»
Aprì la porta, aspettandosi che il cane caracollasse verso il
bosco. Invece avanzò sulla veranda e abbaiò due volte prima
di abbassare il naso per fiutare. Julie incrociò le braccia e si
guardò intorno.
Niente. Nessun segno che qualcuno fosse stato lì. A eccezione
di rane e grilli, tutto era silenzio. Le foglie erano immobili;
la via deserta.
Soddisfatto, Singer si voltò e tornò dentro casa.
«Tutto qui? Mi hai fatto alzare per questo?»
Il danese la guardò. L'orizzonte è libero, sembrava volerle
dire. Nessun motivo di preoccuparsi. Puoi tornare a dormire
adesso.
Julie gli lanciò un'occhiata di rimprovero prima di tornare
in camera. Singer non la seguì e lo vide accucciarsi davanti alla
finestra per guardare fuori.
«Come vuoi», borbottò.
Andò in bagno a prendere alcune gocce di sonnifero.
Quando Singer si rimise a ringhiare e ad abbaiare un'ora più
tardi, stavolta sul serio, Julie non lo sentì; aveva chiuso la porta
della camera e azionato il ventilatore del bagno.
Il mattino dopo, Julie uscì di casa con gli occhiali da sole. Il
mal di testa non le era passato completamente, anche se non
era più forte come durante la notte. Il sole splendeva nel cielo
di un azzurro che sembrava finto. Affiancata da Singer, lesse il
biglietto che era stato infilato sotto il tergicristallo della jeep.
Julie,
sono stato chiamato fuori città per un'emergenza, perciò non
potremo vederci per un paio di giorni. Ti chiamerò appena possibile.
Non smetterò di pensare a te.
Richard
Guardò il cane. «Allora era questo il motivo della tua sfuriata
notturna?» gli chiese, tenendo in mano il biglietto. «Richard?»
Singer assunse un'espressione compiaciuta, come solo lui sapeva
fare. Visto? Te l'avevo detto che c'era qualcuno.
Il sonnifero l'aveva lasciata stordita e assonnata, con un sapore
acido in bocca, e non era dell'umore adatto per sopportare
il suo atteggiamento di superiorità. «Non ci provare. Mi
hai tenuta sveglia per ore. E dire che lo conosci, ormai!» gridò.
Il danese sbuffò e salì sulla jeep.
«Non si è nemmeno avvicinato alla porta!»
Julie chiuse il portellone e salì a sua volta. Nello specchietto
retrovisore vide Singer fare un giro su se stesso e sdraiarsi
dandole la schiena.
«Anch'io sono arrabbiata con te.»
Durante il tragitto, guardando nello specchietto retrovisore,
Julie notò che Singer non aveva cambiato posizione, né aveva
sporto la testa fuori dal finestrino come faceva sempre per prendere
il vento. Non appena ebbero parcheggiato, balzò giù dalla
macchina e trotterellò via, ignorando i suoi richiami, diretto
verso l'officina.
I cani. A volte erano infantili come gli uomini.
Mabel era al telefono per disdire tutti gli appuntamenti di
Andrea, che non si sarebbe presentata al lavoro per un'altra
delle sue giornate di «permesso». Se non altro stavolta aveva
avvisato, pensava. E senza dubbio sarebbe tornata con un'altra
delle sue storie incredibili. L'ultima volta aveva raccontato
di aver visto Bruce Springsteen che camminava nel parcheggio
del Food Lion e di averlo seguito per tutta la giornata prima di
accorgersi che non era lui. Non le era nemmeno passato per la
mente di chiedersi perché mai Springsteen avrebbe dovuto
frequentare
quello squallido locale di Swansboro.
Nell'udire il campanello dietro di sé, Mabel si voltò e vide
Julie entrare. Automaticamente prese la scatola di biscotti per
darne uno a Singer, ma si accorse che il cane non era con lei.
«Dov'è Singer?» le chiese.
Julie posò la borsa sullo scaffale. «Credo che sia da Mike.»
«Ancora?»
«Abbiamo bisticciato.»
Lo disse come se avesse avuto una discussione con Jim, e
Mabel sorrise. Julie non si rendeva proprio conto di quanto potesse
sembrare ridicola.
«Avete... bisticciato?»
«Sì, e quindi adesso mi tiene il broncio. Come se volesse punirmi
perché mi sono azzardata ad alzare la voce con lui. Ma
se lo meritava.»
«Ah», fece l'altra. «Che cosa è successo?»
Julie raccontò gli avvenimenti della notte precedente.
«Ti ha lasciato un biglietto di scuse?» chiese Mabel.
«No, si è scusato ieri quando sono tornata a casa. Il biglietto
era per farmi sapere che rimarrà fuori città un paio di giorni.»
Mabel avrebbe voluto chiederle come erano andate le scuse,
ma capì che Julie non era dell'umore giusto per parlarne.
Rimise a posto il biscotto e guardò verso la coperta di Singer
nell'angolo.
«Il negozio sembra vuoto senza di lui», osservò. «Come se
avessimo tolto un divano.»
«Vedrai che tra poco sarà qui. Sai com'è fatto.»
Con loro sorpresa, tuttavia, alla fine della giornata non era
ancora tornato.
«Ho provato a riportartelo un paio di volte», disse Mike,
perplesso quanto lei. «Ma non voleva seguirmi, per quanto lo
chiamassi. Ho persino provato con qualche boccone di carne.
A un certo punto ho pensato di trascinarlo di peso, ma sinceramente
non credo che ce l'avrei fatta.»
Julie guardò il cane accovacciato accanto a Mike, con il muso
girato di lato.
«Ce l'hai ancora con me, Singer?» gli chiese. «E' per questo
che fai così?»
«Perché dovrebbe avercela con te?»
«Abbiamo bisticciato.»
«Oh.»
«Vuoi restare qui o torni a casa?» chiese lei.
Il cane si leccò il muso ma non si mosse.
«Singer... vieni!» ordinò Julie.
Il cane rimase dov'era.
«A cuccia!»
Sebbene non gli avesse mai dato quell'ordine particolare, Julie
non sapeva che altro dire, ma quando cominciò a mostrarsi
davvero arrabbiata, Mike agitò la mano.
«Avanti, Singer, ubbidisci, se non vuoi finire nei guai.»
Il cane si alzò e, con molta riluttanza, si mise di fianco alla
padrona. Lei lo fissò con le mani sui fianchi.
«Cos'è questa storia? Adesso dai retta a Mike?»
«Io non c'entro», disse lui in tono innocente. «Non ho fatto
niente.»
«Lo so. E' solo che non riesco a capire che cosa gli abbia preso.»
Singer si era accucciato accanto a lei e la guardava. «Che
cosa ha fatto tutto il giorno?»
«Ha dormito, mi ha rubato il panino al tacchino quando mi
sono allontanato per prendere da bere, ed è andato sul retro a
fare i suoi bisogni. E' come se si fosse trasferito qui per la giornata.»
«Ti è parso strano?»
«Non direi.»
«Non era arrabbiato?»
Mike si grattò la testa, sapendo che per lei era una domanda
seria. «A essere sincero non ha detto niente, almeno a me.
Vuoi che chieda a Henry? Magari si è sfogato con lui.»
«Mi prendi in giro?»
«No, sai che non farei una cosa del genere.»
«Bene. Dopo aver quasi rischiato di perdere il cane, non sono
dell'umore giusto per scherzare.»
«Non hai rischiato di perderlo. Era qui in officina.»
«Già. Adesso ti preferisce a me.»
«Forse sente solo la mia mancanza. Sono irresistibile io, sai.»
Per la prima volta da quel mattino, Julie sorrise.
«Ma davvero?»
«Che posso dire. E' una maledizione.»
Julie rise. «Dev'essere faticoso avere il tuo fascino innato.»
Mike scrollò il capo, pensando a quant'era bella. «Non ne
hai un'idea.»
Un'ora più tardi, Julie era davanti al lavello della cucina e
stringeva goffamente gli asciugamani che aveva avvolto intorno
al rubinetto rotto, nel tentativo di arginare il getto d'acqua
che era esploso di colpo verso il soffitto come un geyser domestico.
Afferrò una salvietta e l'aggiunse alle altre, poi strinse
la presa, riuscendo finalmente a ridurre il getto, ma indirizzandolo
purtroppo verso di sé.
«Puoi portarmi il telefono?» gridò, tenendo il mento alto per
evitare che l'acqua la colpisse in faccia.
Singer trotterellò verso il salotto e un attimo dopo Julie, con
la mano libera, prese il cordless dalla sua bocca e schiacciò un
tasto componendo il primo numero in memoria.
Mike era sul divano a sgranocchiare patatine alla paprica,
con le dita coperte di polvere arancione e una lattina di birra
tra le gambe. Assieme al Big Mac che aveva preso (e finito)
tornando a casa, quella era tutta la sua cena. Sul divano
accanto a lui c'era la chitarra e come sempre, dopo aver finito
di suonare, aveva chiuso gli occhi e si era sdraiato all'indietro,
immaginando la nota giornalista musicale Katie Couric
che descriveva la scena al pubblico televisivo nazionale.
«E' l'evento musicale più atteso dell'anno», annuncia Katie
in tono concitato. «Con un solo album, Michael Harris ha
incendiato il panorama musicale internazionale. Il suo disco
ha venduto più di quanto i Beatles ed Elvis Presley messi insieme
abbiano mai fatto in tutta la loro carriera, e si calcola
che il concerto trasmesso in televisione raggiungerà un'audience
da record. Sarà diffuso in mondovisione e seguito da
circa tre miliardi di spettatori, mentre il pubblico presente si
avvicina ai due milioni. Questi sono i dati, gente.»
Sorridendo, Mike prese un'altra manciata di patatine. Oh sì,
pensò. Oh, sì.
«Sentite la folla dietro di me che scandisce il suo nome. E'
incredibile il numero di fan che sono accorsi. Tantissime persone
sono venute da me a dirmi che Michael Harris con la
sua musica ha cambiato la loro vita... ma eccolo che sale sul
palco!»
La voce di Ratte è sommersa dal frastuono della folla che
erompe in un applauso fragoroso. Mike avanza sul palco con
la sua chitarra.
Scruta la folla. Il pubblico è in preda a un delirio collettivo,
il boato è assordante. Gli lanciano mazzi di fiori mentre si avvicina
al microfono. Donne e bambini si esaltano alla sua vista.
Gli uomini, rosi dall'invidia, sognano di essere lui. Katie
rischia di svenire dall'emozione.
Mike batte sul microfono con un dito, segnalando di essere
pronto e di colpo la folla tace, aspettando che cominci a cantare,
ma lui non lo fa subito, passano i secondi, il pubblico è
scosso da un brivido di attesa mentre Mike lascia che la tensione
cresca.
finché diventa quasi insopportabile. Il pubblico l'avverte.
Katie l'avverte. Miliardi di persone davanti agli schermi la sentono.
..
Anche Mike.
Stava lì stravaccato sul divano, con la mano nel sacchetto di
patatine, a lasciarsi inondare dall'adorazione della folla.
Oh, sì...
Lo squillo del telefono lacerò l'aria come una sirena d'allarme,
facendolo trasalire. La sua mano guizzò verso l'alto, spandendo
una pioggia di patatine tutt'intorno e rovesciando la lattina
di birra. Istintivamente, Mike cercò di pulirsi i calzoni, ma
non ottenne altro che striature arancioni all'altezza del cavallo.
«Cribbio», borbottò, mettendo da parte la lattina ormai vuota
e il sacchetto. Si allungò per afferrare la cornetta, mentre con
l'altra mano cercava ancora di ripulirsi. Nuove striature. «E
dai», disse all'apparecchio, «smettila.» Il telefono fece ancora
uno squillo prima che lui rispondesse.
«Pronto?»
«Ciao, Mike», esordì Julie in tono concitato. «Hai da fare?»
La birra continuava a inzuppare la stoffa dei calzoni, così si
spostò leggermente sul divano. Tutto inutile, ormai si erano bagnate
anche le mutande, provocandogli una sensazione di umido
appiccicoso piuttosto sgradevole.
«No... no.»
«Mi sembri distratto.»
«Scusa, ma ho appena avuto un piccolo incidente con la cena.»
«Come?»
Mike cominciò a levare le patatine dalla chitarra.
«Niente di grave», disse. «Che succede?»
«Ho bisogno di te.»
«Davvero?» L'improvvisa ondata di autocompiacimento gli
fece dimenticare il pasticcio che aveva appena combinato.
«Mi si è rotto il rubinetto.»
«Oh», fece lui, sgonfiandosi di nuovo. «Com'è successo?»
«Come posso saperlo?»
«Lo hai storto o forzato in qualche modo?»
«No, ho solo provato ad aprirlo.»
«Perdeva di già?»
«Non lo so... senti, puoi venire o no?»
Lui prese una rapida decisione.
«Prima mi devo cambiare le mutande.»
«Come?»
«Non importa. Sarò da te tra pochi minuti... il tempo di passare
dal ferramenta a prendere un rubinetto nuovo.»
«Non ci vorrà molto, vero? Sono bloccata qui con gli stracci
e devo andare in bagno. Se stringo ancora di più le gambe,
mi slogo le ginocchia.»
«Arrivo.»
La fretta di vestirsi unita alla prospettiva di vedere Julie lo
fece cadere solo una volta mentre si infilava un paio di pantaloni
puliti. La cosa gli parve ragionevole, considerate le circostanze.
albert
14.
«Julie?» chiamò Mike entrando in casa.
Lei si sporse verso la porta, allentando leggermente la pressione
sugli asciugamani.
«Sono qui, Mike. Dev'essere appena successo qualcosa. Sembra
che il rubinetto non perda più.»
«Sono io che ho chiuso il rubinetto centrale. Adesso puoi
mollare la presa.»
Infilò la testa in cucina e nella sua mente si formò all'istante
una sola parola: seni. Julie, con la maglietta fradicia aderente
al corpo, sembrava essere stata il bersaglio di una banda di
ragazzacci di strada, del genere di quelli che considerano bere
litri di birra e fare gavettoni come il culmine della loro esistenza.
«Non hai idea di quanto ti sia riconoscente per essere venuto
subito», disse lei, scrollandosi via l'acqua dalle mani e cominciando
a levare gli stracci dal rubinetto.
Mike la udì appena. Non fissarle i seni, si ripeteva, non fissarle
i seni. Un gentiluomo non lo farebbe. Un amico nemmeno.
Si inginocchiò e aprì la cassetta degli attrezzi, mentre Singer
si accucciava accanto a lui, in cerca di qualcosa di buono
da mangiare.
«Nessun problema», borbottò in risposta.
«Dico sul serio», proseguì Julie, continuando a svolgere gli
asciugamani uno alla volta. «Spero di non averti rovinato la serata.»
«Non preoccuparti...»
Julie si scostò dalla pelle la maglietta bagnata e lo guardò.
«Ti senti bene?» chiese.
Mike si mise a rovistare alla ricerca della chiave da idraulico...
un attrezzo lungo, fatto apposta per svitare i bulloni, si
disse.
«Sto bene, perché?»
«Ti comporti in modo strano.»
«Non è vero.»
«Non mi guardi nemmeno.»
«Non voglio fissarti.»
«E' quello che ho appena detto.»
«Oh.»
«Mike?»
«Eccola!» esclamò lui, ringraziando il cielo di avere la possibilità
di cambiare argomento. «Sapevo di averla messa qui
dentro.»
Julie continuava a guardarlo, perplessa. «Andrò a cambiarmi»,
disse infine.
«Sarà meglio», borbottò Mike.
Il lavoro che aveva sottomano gli dava qualcosa su cui concentrarsi
e lui vi si dedicò completamente, se non altro per scacciare
l'immagine di Julie dalla mente.
Stese a terra alcuni stracci che aveva preso dal ripostiglio e
asciugò gran parte dell'acqua riversatasi, poi svuotò l'armadietto
sotto il lavandino, spostando i vari flaconi di detersivi ai
lati degli sportelli.
Quando Julie tornò, stava già sostituendo il rubinetto... solo
il suo busto e le gambe spuntavano da sotto il lavandino. Nonostante
gli stracci, aveva i pantaloni bagnati sulle ginocchia. Singer
era sdraiato accanto a lui, il muso infilato nell'armadietto vuoto.
«La vuoi smettere di ansimare, per favore?» si lamentò Mike.
Il cane non gli badò e allora lui prese a respirare a bocca
aperta.
«Dico sul serio. Ti puzza il fiato.»
La coda di Singer si agitò in verticale.
Julie vide che Mike tentava invano di spingerlo indietro. Si
era infilata velocemente un paio di jeans e una felpa leggera e
aveva ancora i capelli bagnati.
«Come va là sotto?» chiese.
Al suono della sua voce, lui alzò la testa, andando a sbattere
contro la vasca del lavello. L'alito caldo di Singer gli faceva
lacrimare gli occhi.
«Bene, ho quasi finito.»
«Di già?»
«Non è un lavoro difficile: basta svitare un paio di dadi e poi
sfilarlo. Non sapevo che genere di rubinetto volessi, quindi ne
ho preso uno simile a quello che avevi già. Spero che vada bene.»
Julie lo vide appoggiato sul tavolo. «Grazie, va benissimo.»
«Altrimenti posso andare a cambiarlo. Non ci sono problemi.»
«No, basta che funzioni.»
Osservò le braccia di Mike che ruotavano la chiave e rimase
suo malgrado affascinata alla vista di quei muscoli in movimento.
Poi ci fu il tonfo metallico di qualcosa che cadeva sotto
l'armadietto.
«Fatto», annunciò lui un attimo dopo.
Scivolò fuori e, vedendo che lei si era cambiata, cominciò a
rilassarsi. Così era più facile. Meno pericoloso. E provocante,
pensò. Si alzò, sfilò il vecchio rubinetto e glielo porse.
«Lo hai distrutto proprio per bene», disse, indicando un foro
sulla sommità. «Che cosa hai usato per aprirlo, un martello?»
«No, dinamite.»
«La prossima volta, mettine un po' meno.»
Julie sorrise. «Sai dirmi perché si è rotto?»
«Era molto vecchio, probabilmente risale a quando hanno
costruito la casa. E' l'unica cosa che non avevo ancora cambiato
qui dentro, ma forse avrei dovuto dargli un'occhiata l'ultima
volta che sono venuto.»
«Vuoi dire che è colpa tua?»
«Se la metti così», rispose. «Cioè, se ti fa sentire meglio, d'accordo.
Dammi un altro minuto e poi ho finito, va bene?»
«Certo.»
Mike mise al suo posto il rubinetto nuovo, quindi tornò a
infilarsi sotto il lavandino e lo fissò. Si rialzò e sparì per un attimo
dalla cucina, seguito dappresso da Singer. Dopo aver riaperto
il rubinetto centrale, tornò indietro e verificò che quello
del lavello funzionasse bene.
«Direi che ci siamo.»
«Continuo a pensare che tu faccia sembrare le cose troppo
facili», rispose lei. «Prima che arrivassi, mi chiedevo quale idraulico
chiamare, se non fossi riuscito a risolvere il problema.»
Mike si finse molto offeso. «Non posso credere che, dopo
tutti questi anni, tu osi ancora dubitare delle mie capacità.»
Julie rise e vide che lui si chinava per rimettere i detersivi
nell'armadietto.
«No, no... lascia stare», gli disse, inginocchiandosi al suo
fianco. «Almeno questo posso farlo anch'io.»
Mentre rimettevano in ordine, lei avvertì più volte il tocco
del suo braccio muscoloso che la sfiorava. Pochi istanti dopo
l'armadietto era chiuso e gli stracci fradici appallottolati. Julie
li prese e andò a buttarli nel cesto vicino alla lavatrice mentre
Mike rimetteva a posto gli attrezzi. Quando tornò, si diresse
decisa verso il frigorifero.
«Sento proprio il bisogno di una birra, dopo tutto questo
trambusto. Ne vuoi anche tu?»
«Con piacere.»
Julia prese due bottiglie di Coors Light, le stappò, gliene porse
una e brindò assieme a lui.
«Grazie ancora per il tuo aiuto.»
«Ehi», rispose Mike, «gli amici servono a questo, non è vero?»
«Vieni», disse Julie con un cenno della mano, «andiamo a
sederci in veranda. Il tempo è troppo bello per restare chiusi
dentro.»
Si avviò verso la porta, poi si bloccò di scatto. «Aspetta...
hai detto che avevi già cenato? Quando ti ho telefonato, cioè?»
«Perché?»
«Perché io ho una fame da lupi. Con questa confusione, non
ho ancora mangiato. Ti andrebbe una pizza?»
Mike sorrise. «Ottima idea.»
Julie si diresse verso il telefono e, mentre si allontanava, lui
si chiese se la serata sarebbe finita in maniera da spezzargli il
cuore.
«Prosciutto e funghi va bene?» gli chiese allora lei dal salotto.
Mike deglutì. «Scegli tu, per me va bene tutto.»
L'aria della sera era fresca mentre guardavano il tramonto
dalle sedie a dondolo in veranda, in mezzo al canto delle cicale.
Il sole stava scendendo dietro l'orizzonte e gli ultimi raggi
di luce filtravano attraverso le fronde scure degli alberi.
La vecchia casa era costeggiata sul retro e sui lati da folti boschi
e, quando Julie voleva stare da sola, era lì che si rifugiava.
Sebbene l'edificio avesse avuto bisogno di urgenti restauri, erano
stati proprio la pace che si respirava in quel luogo e l'ampia
veranda che circondava la casa a convincere lei e Jim a comprarla
lo stesso giorno in cui ci avevano messo piede la prima volta.
Singer sonnecchiava vicino ai gradini, aprendo di tanto in
tanto un occhio per accertarsi di tenere tutto sotto controllo.
Alla luce del tramonto, il viso di Julie aveva assunto un alone
pallido.
«Questa sera mi ricorda la prima volta che ci siamo incontrati.
Ricordi? Quando Mabel ci invitò tutti da lei per conoscerti»,
disse Mike.
«E come potrei dimenticarlo? E' stato uno dei momenti più
terrificanti della mia vita.»
«Ma se noi siamo gente così simpatica.»
«Allora non lo sapevo. Non vi conoscevo ancora, e non avevo
idea di che cosa aspettarmi.»
«Nemmeno da Jim?»
«Soprattutto da lui. Impiegai parecchio tempo a capire perché
mi avesse aiutato in modo così disinteressato e generoso.
Confesso che non mi era mai capitato prima, e stentavo a credere
che esistessero al mondo persone... buone e basta. Mi pare
di non avergli nemmeno rivolto la parola, quella sera.»
«Infatti. Il giorno dopo me lo raccontò lui.»
«Davvero?»
«Non in maniera negativa. E comunque, ci aveva avvisato in
anticipo di non aspettarci molte parole da te. Sosteneva che eri
un po' timida.»
«Non è vero.»
«Ti definiva silenziosa come un topolino.»
Lei rise. «Questa non l'avevo mai sentita.»
«Secondo me lo diceva per farti accettare da noi. Ma non
era necessario, il fatto che lui e Mabel ti trovassero simpatica
ci bastava.»
Julie rimase in silenzio per un po', immersa nei ricordi. «A
volte mi è ancora difficile credere di essere qui», disse infine.
«Perché?»
«Per come sono andate le cose. Non avevo mai sentito nominare
Swansboro finché non me ne parlò Jim e adesso bazzico
ancora in questo posto.»
Mike la guardò da sopra la bottiglia. «Lo dici come se te ne
volessi andare.»
Julie piegò una gamba sotto di sé. «No, no, niente affatto.
Mi piace. Certo, per un certo periodo dopo la morte di Jim ho
accarezzato l'idea di ricominciare da qualche altra parte, ma
non ne avevo la forza. E poi, dove sarei potuta andare? Non
morivo certo dalla voglia di tornare da mia madre.»
«Le hai parlato di recente?»
«Mi ha telefonato per Natale dicendo che voleva venire a
trovarmi, ma da allora non l'ho più sentita. Sono passati mesi.
Forse si aspettava che le inviassi i soldi per il viaggio, ma io non
l'ho fatto. Vederci servirebbe solo a riaprire vecchie ferite.»
«Dev'essere dura per te.»
«A volte sì. O almeno, lo era in passato. Adesso però non ci
penso più molto spesso. Quando cominciai a frequentare Jim,
volevo mettermi in contatto con lei, se non altro per farle sapere
che ero felice. Forse in realtà volevo la sua approvazione.
E strano che ci tenessi, ma per quanto lei sia stata deludente
come madre, per me era importante ugualmente.»
«Adesso non è più così?»
«Molto meno. Non si è fatta vedere per il matrimonio, e nemmeno
per il funerale di Jim. Allora ho smesso di tenerci. Questo
non significa che io sia sgarbata quando chiama, ma non
c'è rimasto più molto da dirci. E' quasi come parlare con un'estranea.»
Mike guardò le ombre che si allungavano dai boschi. In lontananza,
piccoli pipistrelli svolazzavano in cielo, come apparizioni
fugaci.
«Henry mi fa arrabbiare un giorno sì e uno no, e anche i miei
genitori a volte sono insopportabili, ma è bello sapere di avere
qualcuno a cui appoggiarsi. Non potrei stare senza di loro.
E non credo che me la caverei da solo, come invece hai fatto
tu.»
Lei lo guardò.
«Ce la faresti. E poi io non sono sola. Ho Singer e i miei amici.
Per adesso mi basta.»
Mike avrebbe voluto chiederle se Richard entrava in quell'equazione,
ma non voleva rovinare l'atmosfera rilassata tra di
loro. né la sensazione di benessere che l'avvolgeva, adesso che
aveva quasi finito la birra.
«Posso farti una domanda?» gli chiese Julie.
«Certo.»
«Che cosa è successo con Sarah? Pensavo che tra di voi ci
fosse una storia seria e poi di colpo avete smesso di vedervi.»
Mike si spostò sulla sedia. «Ma, sai...»
«Veramente, no. Non mi hai mai spiegato perché è finita.»
«Non c'è molto da dire.»
«E' quello che ripeti sempre. Ma qual è la verità?»
Mike rimase in silenzio a lungo, prima di scuotere la testa.
«Preferisco che tu non lo sappia.»
«Che cosa ti ha fatto? Ti ha tradito?»
Vedendo che non le rispondeva, capì di aver colto nel segno.
«Oh, Mike. Quanto mi dispiace.»
«Anche a me. O almeno, mi dispiaceva. Era un collega di lavoro.
Ho visto la sua macchina posteggiata di fianco a casa di
lei passandoci davanti una mattina.»
«E che cosa hai fatto?»
«Vuoi sapere se mi sono arrabbiato? Certo. Ma a essere sincero,
non era solo colpa sua. In fin dei conti non ero stato un
fidanzato troppo attento. Credo che Sarah si sentisse trascurata.»
Sospirò passandosi una mano sul viso. «Non so... forse in
fondo sentivo che non sarebbe durata, così ho smesso di impegnarmi.
E a quel punto era inevitabile che accadesse il disastro.»
Rimasero entrambi zitti per un po', poi Julie gli chiese se voleva
un'altra birra.
«Magari», rispose lui.
«Vado a prenderla.»
Si alzò e Mike spostò la sedia a dondolo all'indietro per farle
spazio. Dopo averla guardata sparire oltre la soglia, rimase
a pensare a quanto le stessero bene i jeans. Poi scrollò la testa,
scacciando l'idea. Non era il momento adatto, si disse. Se avessero
cenato con vino e aragosta, magari, ma pizza e birra? No,
era solo una serata tra amici. Come accadeva ai vecchi tempi...
prima che lui commettesse la follia di innamorarsi di lei.
Non sapeva ancora con esattezza quand'era successo. Se
ne era reso conto dopo che Jim se n'era andato da un po', rifletté.
Ma non riusciva a essere più preciso. Non era stato come
se si fosse accesa di colpo una lampadina; somigliava più
a un'alba, con il cielo che diventa sempre più chiaro, in maniera
impercettibile, finché ti rendi conto che è mattino.
Julie tornò di lì a poco e gli porse la bottiglia prima di tornare
a sedersi.
«Anche Jim usava quell'espressione, sai?»
«Quale?»
«'Magari'. Quando gli chiedevo se voleva un'altra birra. L'aveva
imparata da te?»
«Magari.»
Lei rise, poi gli domandò: «Ci pensi ancora a lui?»
Mike annuì. «In continuazione.»
«Anch'io.»
«Non ne dubito. Era un bravo ragazzo... eccezionale. Non
avresti potuto scegliere di meglio. E anche lui mi ripeteva sempre
che non avrebbe potuto fare una scelta migliore.»
Lei si appoggiò alla spalliera, pensando a quanto le piacevano
quelle parole. «Anche tu sei un bravo ragazzo.»
«Certo, assieme a un altro milione di individui. Non sono
come Jim.»
«Non è vero. Siete cresciuti nella stessa città di provincia,
avete avuto gli stessi amici, vi piacevano le stesse cose. Sembravate
quasi due fratelli, molto più che tu e Henry. A parte,
ovviamente, il fatto che Jim non sarebbe mai riuscito a cambiare
il rubinetto. Non sapeva fare niente in casa.»
«Se è per questo, nemmeno Henry lo avrebbe fatto.»
«Davvero?»
«Sì, ma non perché non ne sia capace. E' solo che odia sporcarsi
le mani.»
«Certo che è strano, considerato il fatto che gestite un'officina.»
«Non dirlo a me. Ma non mi importa. A dire il vero, preferisco
di gran lunga il mio lavoro al suo. Non sono granché con
le scartoffie, io.»
«Immagino che lavorare all'ufficio prestiti allora non farebbe
per te, eh?»
«Come Jim? Assolutamente no. Anche se per qualche motivo
riuscissi a ottenere quel posto, non durerei più di una settimana.
Concederei un prestito a chiunque entrasse. Non sono
bravo a dire di no quando qualcuno ha bisogno di qualcosa.»
Julie allora gli toccò il braccio. «Non me n'ero mai accorta,
sai?»
Lui sorrise, senza sapere che cosa rispondere, desiderando
ardentemente che lei non togliesse più la sua mano.
La pizza arrivò dopo qualche minuto. Un ragazzino lentigginoso
con un paio di occhiali dalla spessa montatura nera esaminò
lo scontrino per un tempo eccessivo, prima di balbettare
il totale.
Mike stava per tirare fuori il portafoglio, ma Julie lo scansò,
aprendo il suo.
«Non ci provare. Stavolta tocca a me.»
«Ma io ne mangerò di più.»
«Puoi mangiartela anche tutta, se vuoi. Però questa volta pago
io.»
Prima che lui potesse obiettare ancora, Julie diede i soldi al
fattorino, dicendogli di tenere il resto, quindi portò la pizza in
cucina.
«Vanno bene i piatti di carta?»
«Io mangio sempre nei piatti di carta.»
«Capisco», disse lei ammiccando. «E non sai quanto mi spiace
per te.»
Trascorsero l'ora successiva a mangiare e chiacchierare
tranquillamente,
con la confidenza che li aveva sempre uniti. Parlarono
di Jim e dei vecchi ricordi, poi degli ultimi avvenimenti
in città e dei loro conoscenti. Di tanto in tanto Singer guaiva,
come se si sentisse trascurato, e Mike gli gettava un pezzo
di crosta senza smettere di parlare.
Con il passare dei minuti, Julie si accorse di guardarlo con più
insistenza del solito. Anche se non capiva perché: lui si era
comportato
come sempre da quando era arrivato; e non c'entrava
nemmeno il fatto che stessero seduti da soli in veranda a cenare
insieme, come se fosse una serata organizzata in anticipo.
No, non c'era motivo di agitarsi, si disse, e tuttavia non riusciva
a controllarsi. né desiderava che quel suo stato d'animo
finisse, anche se non aveva senso. Con le scarpe da tennis e i
jeans, le gambe appoggiate alla balaustra, i capelli spettinati,
Mike aveva un aspetto al tempo stesso attraente e familiare. Ma
del resto lo aveva sempre saputo, pensò, ancor prima di mettersi
con Jim.
Stare con lui era diverso dagli incontri che aveva avuto ultimamente,
rifletté allora, compreso il weekend appena trascorso
assieme a Richard. Con lui non c'era finzione, nessun significato
nascosto nelle parole, nessun piano complesso volto a fare
colpo sull'altro. All'improvviso Julie si rese conto che, presa
nel vortice delle ultime due settimane, si era quasi dimenticata
di quanto le piacesse passare il tempo in sua compagnia.
Insomma, era un po' la stessa sensazione che provava
quand'era sposata con Jim, pensò. A parte l'ondata di emozioni
roventi che la invadeva quando facevano l'amore, quello
che adorava erano soprattutto le pigre mattinate a letto a
leggere insieme il giornale sorseggiando il caffè, o le gelide
giornate di dicembre trascorse a piantare bulbi in giardino,
oppure le ore passate girando da un negozio all'altro per scegliere
i mobili, dibattendo i pregi del ciliegio o dell'acero. Erano
quelli i momenti in cui si era sentita più soddisfatta, in cui
finalmente si era concessa di credere nell'impossibile. I momenti
in cui tutto il mondo sembrava in sintonia.
Mentre rifletteva, con un sorriso di tenerezza osservò Mike
intento a mangiare. Lottava con i fili di formaggio che andavano
dalla bocca al piatto e, dopo ogni morso, armeggiava
con la fetta, usando il dito per raccogliere la farcitura che scivolava
dalla pasta. Poi, ridendo di sé, si puliva la faccia con
il tovagliolo, borbottando frasi del tipo: «Quasi mi macchiavo
la camicia». Il fatto che non si prendesse troppo sul serio,
né che ce l'avesse con lei per lo stesso motivo, le scaldava il
cuore con un'emozione simile a quella che poteva provare una
coppia di anziani seduta mano nella mano su una panchina
del parco.
Ce l'aveva ancora in mente qualche minuto più tardi, quando
lo seguì in cucina per mettere via gli avanzi della cena e lo
vide prendere il rotolo di pellicola trasparente dal cassetto accanto
ai fornelli senza nemmeno chiederle dov'era. Dopo che
ebbe riposto la pizza in frigorifero, con gesti automatici lui tirò
fuori il sacchetto della spazzatura che era pieno e per un attimo,
un attimo soltanto, ai suoi occhi fu come se quella scena
non fosse attuale, ma appartenesse a un futuro imprecisato: soltanto
una serata qualunque fra le tante trascorse insieme.
«Ecco fatto», disse Mike guardandosi intorno per la cucina.
La sua voce riportò Julie al presente, facendola arrossire leggermente.
«Direi di sì», concordò. «Grazie di avermi aiutato a riordinare.»
Rimasero in silenzio per un po' e all'improvviso nella testa
di Julie si accese il ritornello che si era ripetuta negli ultimi due
anni, come una registrazione fatta partire da qualcuno. Una storia
con Mike? Impossibile. Assolutamente escluso.
Lui unì le mani, interrompendo quel pensiero. «Sarà meglio
che vada, ora. Domani devo alzarmi presto.»
Lei annuì. «Lo immaginavo. Anch'io dovrei andare a letto.
Singer mi ha tenuto sveglia per ore ieri notte.»
«Come mai?»
«Non la smetteva più di guaire, ringhiare, abbaiare, camminare.
.. tutto il suo repertorio per tormentarmi.»
«Davvero? E cos'era successo?»
«Oh, Richard era passato di qui. E sai come diventa Singer
quando ci sono in giro persone nuove.»
Era la prima volta che quel nome veniva pronunciato in tutta
la serata e all'improvviso Mike avvertì un nodo in gola, come
se qualcuno volesse strozzarlo.
«Richard è stato qui ieri notte?» chiese.
«No... non proprio. Non dovevamo vederci. E' passato solo
a lasciarmi un biglietto sulla macchina, per avvertirmi che
sarebbe andato fuori città.»
«Oh», fece Mike.
«Niente di speciale», aggiunse Julie, colta dall'improvviso
desiderio di chiarire le cose.
«A che ora è passato?» chiese Mike.
Lei si voltò verso l'orologio appeso alla parete, come se avesse
bisogno di un riscontro visivo per ricordare quello che era
successo.
«Intorno alle due, credo. Almeno è a quell'ora che Singer ha
cominciato ad agitarsi, anche se, come ti ho detto, poi è andato
avanti parecchio.»
Mike serrò le labbra, pensando: ma perché il cane ha continuato
a latrare?
«Mi chiedo come mai lui non ti abbia lasciato il biglietto prima
di partire stamattina», disse.
Julie scrollò le spalle. «Non ne ho idea. Forse non aveva tempo.»
Lui annuì, sforzandosi di non replicare. Prese la borsa degli
attrezzi e il rubinetto che aveva sostituito, e fece un passo verso
la porta. Non voleva che la serata finisse con qualche affermazione
che poteva essere fraintesa.
«Senti...»
Julie si passò la mano tra i capelli, notando per la prima volta
sulla guancia di lui un piccolo neo quasi ornamentale, che
sembrava messo lì apposta da un truccatore per dare il giusto
effetto. Chissà perché lo vedeva solo adesso, si chiese.
«Lo so... devi andare», disse, prevenendolo.
Mike dondolò da un piede all'altro. Senza sapere che altro
dire, alzò il rubinetto.
«Be', ti ringrazio di avermi chiamato... per questo. Che tu
ci creda o no, è stata una serata magnifica.»
I loro occhi si incrociarono rimanendo in contatto per un
momento, prima che Mike si voltasse. Julie esalò il respiro non si era nemmeno accorta di averlo trattenuto - e suo malgrado
si sorprese a osservarlo attentamente mentre raggiungeva
la porta. Notò le sue spalle, i jeans che gli fasciavano il
didietro... e arrossì di nuovo come una ragazzina.
Alzò la testa di scatto quando Mike girò la maniglia. Per un
attimo fu come stesse guardando qualcuno a una festa attraverso
una sala affollata, un uomo che non aveva mai visto prima.
In un'altra situazione, in un altro momento avrebbe riso
di quell'assurdità.
Ma stranamente non le veniva da ridere.
Dopo averlo salutato, rimase per un attimo sulla soglia mentre
lui saliva sul furgone. Prima di chiudere la portiera, illuminato
dall'alone fioco del lampione, Mike agitò in aria la mano.
Julie lo imitò e poi rimase immobile dov'era ancora per un
po', riflettendo sulle proprie emozioni. Mike, pensò. Mike.
Ma perché ci pensava? E che cosa c'era da pensare? Non sarebbe
successo. Incrociando le braccia, rise tra sé. Mike? Certo,
era simpatico, era di compagnia, era pure attraente. Ma...
Mike?
Una faccenda assolutamente impossibile, concluse. Solo un
mucchio di scemenze. Si voltò per rientrare in casa.
Oppure no?
15.
La mattina seguente, nel suo ufficio, Henry posò il bicchiere
di plastica sulla scrivania e guardò il fratello. «Tutto qui?»
chiese.
Mike si grattò la nuca. «Esatto.»
«Te ne sei andato così?»
«Sì.»
Henry unì gli indici a formare un triangolo che appoggiò sotto
il mento. In circostanze normali, avrebbe volentieri sfottuto
Mike perché non aveva saputo approfittare dell'occasione
per invitare Julie a uscire con lui, ma non era quello il momento.
«Fammi capire bene. Jake Blansen ti accenna a qualcosa di
misterioso sul conto di quel Richard, che potrebbe essere importante
o meno, ma che comunque suona sinistro. Poi vieni
a scoprire che l'uomo è andato a casa di lei nel cuore della
notte, rimanendo lì fuori per Dio sa quanto tempo, e tu decidi
di non dirle che il fatto ti pare un po' sospetto? E nemmeno
che la cosa potrebbe forse essere preoccupante?»
«E' stata lei a informarmi che Richard era passato. Quindi lo
sapeva già.»
«Non è questo il punto.»
Mike scrollò il capo. «Non è successo niente, Henry.»
«Avresti dovuto parlarle lo stesso.»
«E come?»
Henry si appoggiò alla spalliera. «Come ho fatto io adesso.
Dovevi dirle semplicemente quello che pensi.»
«Tu puoi farlo, ma io no», replicò Mike, guardando il fratello
negli occhi. «Avrebbe potuto credere che la mia reazione
fosse dettata dalla gelosia.»
«Senti», disse Henry in tono paterno, «tu sei un suo amico
e lo sarai sempre, qualunque cosa accada tra di voi. E lo stesso
vale per me, d'accordo? Non mi piace l'idea di quel tizio
che si aggira fuori da casa di Julie nel cuore della notte. E
preoccupante,
quali che fossero le sue ragioni. Poteva portarle il biglietto
la mattina, telefonarle, lasciarle un messaggio in negozio...
che razza di persona si veste, salta in macchina e attraversa
la città per recapitare un biglietto alle due di notte? Lei
non ha detto che Singer l'ha tenuta sveglia per ore? E se Richard
fosse rimasto fuori da casa sua per tutto quel tempo? Se
Blansen con le sue allusioni avesse voluto metterti in guardia?
Non ci pensi?»
«Certo, che ci penso. Questa storia non piace nemmeno a me.»
«Allora avresti dovuto avvertirla.»
Mike chiuse gli occhi. Era stata una serata stupenda, fino a
quel momento.
«Tu non eri lì, Henry», disse. «E poi lei non sembrava trovarci
niente di strano, perciò non ingigantiamo le cose. In fondo
lui ha soltanto lasciato un biglietto.»
«Come puoi sapere che fosse solo quello il suo scopo?»
Mike fece per obiettare, ma l'espressione del fratello lo
bloccò.
«In genere non mi impiccio dei tuoi affari, lo sai», riprese
Henry, «ma c'è un luogo e un tempo per ogni cosa. E ora non
è proprio il caso di tenerla all'oscuro di una faccenda del genere.
Sei d'accordo?»
Dopo un attimo Mike chinò il mento sul petto. «Sì», disse,
«sono d'accordo.»
«Be', pare che tu abbia trascorso una piacevole serata», disse
Mabel, seduta dietro il bancone.
«Infatti», rispose Julie. «Sai com'è Mike. Sempre molto divertente.»
Non c'erano clienti in quel momento in negozio e potevano
chiacchierare liberamente.
«E il rubinetto è a posto?»
Julie annuì, mentre sistemava il suo cesto delle spazzole. «Me
lo ha cambiato.»
«E lo ha fatto senza fatica, vero? Al punto che ti sei chiesta
che bisogno c'era di chiamarlo.»
«Proprio così.»
«E' una cosa irritante, vero?»
«Non me ne parlare.»
Mabel rise. «Certo che è un fenomeno, non trovi?»
Julie esitò. Con la coda dell'occhio vide Singer seduto accanto
alla porta d'ingresso che guardava fuori, come se volesse
uscire.
Sebbene la domanda di Mabel fosse pleonastica, la possibile
risposta implicava un elemento di serietà, su cui lei aveva
continuato a riflettere incessantemente fin dalla sera precedente.
Non sapeva con esattezza perché quella serata le fosse
rimasta così impressa. Non era stata eccitante; non era stata
neppure memorabile. Ma quella notte, con la luna che illuminava
la camera e le falene che sbattevano contro la zanzariera,
Mike era stata l'ultima persona a cui aveva pensato mentre si
addormentava. E anche la prima che le era venuta in mente la
mattina quando aveva aperto gli occhi.
E così la risposta le venne naturale, mentre andava ad aprire
la porta per far uscire Singer.
«Sì», disse, «davvero.»
«Mike», chiamò Henry, «hai compagnia.»
Lui sporse la testa oltre la porta del magazzino. «Chi è?»
«Prova a indovinare.»
Prima che avesse tempo di rispondere, Singer gli trotterellò
accanto.
Era ormai tardo pomeriggio quando Julie si presentò all'officina.
Con le mani sui fianchi, lanciò un'occhiata torva al cane.
«Se non ti conoscessi, penserei che il tuo è un complotto per
farmi venire fin qui», disse.
A quelle parole, Mike ringraziò mentalmente Singer. «Forse
vuole comunicarti qualcosa.»
«E cioè?»
«Non saprei. Magari non ha ricevuto abbastanza attenzioni
ultimamente.»
«Oh, ne riceve, eccome. Non farti ingannare. E' viziato da
far schifo.»
Singer cominciò a grattarsi con la zampa posteriore, a dimostrazione
di indifferenza per i loro discorsi. Mike intanto si
stava sbottonando la tuta.
«Scusami», disse, «ma questa roba mi sta facendo impazzire.
Ci ho fatto cadere sopra del liquido per la trasmissione ed
è tutto il giorno che respiro i vapori.»
«Allora sei un po' su di giri?»
«No, ho solo mal di testa, sfortunatamente.»
Julie lo guardò mentre si sfilava la tuta restando in equilibrio
su una gamba e sull'altra, poi l'appallottolava e la gettava
in un angolo. Con i jeans e la maglietta rossa sembrava più giovane
della sua età.
«Che cosa hai in programma per stasera?» gli chiese.
«Il solito. Salvare il mondo, sfamare gli affamati, promuovere
la pace.»
«E' stupefacente quello che una persona può fare in una sola
sera, se si impegna.»
«Proprio così.» Mike le rivolse un sorriso da ragazzino. Ma
quando lei si passò la mano tra i capelli, d'un tratto venne preso
dallo stesso nervosismo che l'aveva assalito la sera prima,
mentre entrava nella sua cucina.
«E tu? Qualcosa di irresistibile in vista?»
«No. Fare i mestieri di casa e dare un'occhiata alle bollette.
A differenza di te, prima di mettermi a perfezionare l'universo,
io devo occuparmi delle piccole cose.»
Mike scorse Henry appoggiato allo stipite, che fingeva di
controllare dei documenti, ma in realtà era lì per ricordargli
quello che si erano detti in precedenza. Allora si infilò le mani
in tasca. Non voleva farlo. Sapeva di doverlo fare, ma non voleva.
Tirò un profondo respiro, poi le chiese: «Senti, hai due
minuti di tempo? Vorrei parlarti».
«Certo. Di che si tratta?»
«Ti spiace se andiamo da qualche altra parte? Mi andrebbe
di bere una birra, prima.»
Sebbene fosse sconcertata dall'improvvisa serietà dell'amico,
Julie non poteva negare di essere contenta che lui glielo
avesse chiesto.
«Volentieri», rispose.
A poca distanza dall'officina, il Tizzy era incastrato tra un
negozio di animali e una lavanderia; come il Sailing Clipper,
non era pulito né particolarmente accogliente: in un angolo
c'era la televisione accesa a tutto volume, le finestre erano incrostate
di sporco e l'aria puzzava di fumo, che aleggiava sui
tavoli in dense volute. Per gli avventori abituali non c'era niente
di male in tutto questo, e almeno cinque o sei persone in pratica
vivevano stabilmente nel locale. Secondo Tizzy Welborn,
il proprietario, il suo bar era popolare perché «aveva carattere».
Con il che, secondo Mike, intendeva la vendita di alcolici
a buon mercato.
D'altro canto, Tizzy non andava tanto per il sottile con le regole.
I suoi clienti non avevano bisogno di scarpe o camicie per
essere serviti e lui non stava a guardare che cosa si portavano
dietro. Negli anni, dichiarò, avevano varcato la porta del bar
gli oggetti più svariati, dalle spade da samurai alle bambole gonfiabili
e, nonostante le vivaci proteste di Julie, anche Singer a
suo parere rientrava in quella categoria. Mentre loro due si sedevano
sugli sgabelli all'estremità del bancone, il cane fece un
giro su se stesso e si sdraiò lì vicino.
Tizzy servì subito le birre che avevano chiesto. Anche se non
erano fredde come avrebbero dovuto, non erano nemmeno calde,
e di questo Mike era grato. Sapeva che in un luogo del genere
il cliente non poteva aspettarsi troppo.
Julie si guardò intorno. «Questo posto è una vera fogna. Tutte
le volte che ci vengo ho paura di beccarmi qualche infezione
se rimango più di un'ora.»
«Però ha carattere», replicò Mike.
«Come no. Allora, che cosa c'è di tanto importante da spingerti
a trascinarmi qui?»
Mike strinse la bottiglia con le mani. «E' qualcosa che Henry
mi ha detto di fare.»
«Henry?»
«Sì.» Mike fece una pausa. «Secondo lui avrei dovuto parlarne
già ieri. Con te, cioè.»
«A proposito di che?»
«Riguarda Richard.»
«E cioè?»
Mike si raddrizzò sullo sgabello. «Il fatto che ti abbia lasciato
quel biglietto nel cuore della notte.»
Julie lo guardò scettica. «Henry è preoccupato per questo?»
«Sì. Henry.»
«Mmm... tu no, invece?»
«NO.»
Julie bevve un sorso di birra. «Ma per quale ragione? Richard
non si è mica messo a sbirciare dalla finestra. Singer gli
sarebbe balzato addosso a costo di attraversare il vetro, se l'avesse
fatto. E il biglietto diceva che era stato chiamato per un'emergenza,
quindi può darsi che sia dovuto partire sul momento.»
«Ecco... non è finita. L'altro giorno un operaio del cantiere
è venuto in officina e ha fatto delle strane allusioni.»
«Del tipo?»
Mentre lasciava scorrere il dito nei solchi incisi sul legno del
bancone, Mike raccontò quello che gli aveva detto Jake Blansen
e le riferì in modo più dettagliato i commenti di Henry. Una
volta che ebbe finito di parlare, Julie gli posò una mano sul
braccio e sorrise.
«E' davvero gentile da parte di Henry preoccuparsi per me.»
Mike impiegò qualche istante ad assimilare la frase.
«Aspetta... non sei arrabbiata?»
«Certo che no. Sono contenta di avere degli amici come lui.»
«Ma...»
«Ma cosa?»
«Ecco... cioè...»
Julie rise e gli diede un buffetto sulla spalla. «Avanti, ammettilo,
eri preoccupato anche tu. Non era solo Henry, giusto?»
Mike deglutì. «Infatti.»
«E allora perché non l'hai detto subito? Perché hai tirato in
ballo tuo fratello?»
«Non volevo che ti arrabbiassi con me.»
«E perché mi sarei dovuta arrabbiare?»
«Perché... ecco, sai... esci con lui.»
«E allora?»
«Non volevo che pensassi...» Tacque, non riuscendo a finire
la frase.
«Che lo dicevi solo perché io smettessi di vederlo?»
«SI»
Julie lo guardò assorta. «Credi davvero che abbia così poca
fiducia nella nostra amicizia? Che questi dodici anni non contino
nulla?»
Mike non rispose.
«Mi conosci meglio di chiunque altro, e sei il mio migliore
amico. Non credo che tu possa dire qualcosa solo per ferirmi.
Sono sicura che non ne sei capace. Perché pensi che mi piaccia
passare il tempo con te? Perché sei un bravo ragazzo. Un
ragazzo simpatico e gentile.»
Mike si voltò di lato, offeso quasi come se gli avesse dato
dell'eunuco.
«I ragazzi simpatici finiscono ultimi, non si dice così?»
Con un dito, Julie lo costrinse a girare la testa e a guardarla
in faccia. «Per me non è così.»
«E Richard?»
«Che cosa c'entra?»
«Ultimamente hai passato molto tempo con lui.»
Lei si protese all'indietro sullo sgabello, come per metterlo
a fuoco meglio.
«Ma guarda, se non ti conoscessi, direi che sei geloso», lo
provocò.
Mike bevve un sorso di birra senza raccogliere la sfida.
«Non è il caso, sai. Siamo usciti insieme qualche volta e ci
siamo divertiti. E allora? Niente di importante. Non ho intenzione
di sposarlo.»
«No?»
Julie sbuffò. «Vuoi scherzare?» Fece una pausa, ma l'espressione
di Mike la indusse a rispondersi da sola. «Non stai
scherzando», disse. «Cosa... pensavi che fossi innamorata di
lui?»
«Non ne avevo idea.»
«Ah. Be', se proprio vuoi saperlo, non sono innamorata. Non
so nemmeno se uscirò di nuovo con lui. E non solo per quello
che mi hai appena detto. Il fine settimana scorso è stato magnifico,
divertente, ma non è scattato quel non so che, mi capisci?
E poi lunedì si è comportato in maniera un po' strana e
ho deciso che non era il caso di proseguire.»
«Davvero?»
Lei sorrise. «Davvero.»
«Uau!»
«Già.»
Tizzy sintonizzò la televisione su un altro canale, poi chiese
loro se volevano qualcos'altro. Scossero la testa all'unisono.
«Allora adesso che farai?» chiese Mike. «Ricomincerai a uscire
con Bob?»
«Spero di no.»
Mike annuì. Nello squallore del bar, Julie era radiosa e lui
aveva la gola secca. Bevve un altro sorso di birra.
«Chissà, magari potrebbe spuntare qualcun altro», buttò lì.
«Forse.» Julie appoggiò il mento alla mano e lo guardò negli
occhi.
«Non ci vorrà molto. Sono sicuro che ci sono decine di uomini
che aspettano l'occasione giusta per chiederti di uscire.»
«A me ne basta uno.» Julie fece un sorriso smagliante.
«Arriverà», dichiarò Mike. «Se fossi in te non mi preoccuperei.»
«Infatti. Ormai credo di aver capito che cosa cerco in un uomo.
Adesso che sono uscita con diversi tizi, ho le idee più chiare.
Voglio trovare un bravo ragazzo. Un ragazzo simpatico.»
«Te lo meriti, questo è sicuro.»
Certo che Mike a volte era duro come il marmo, pensò Julie.
Tentò un approccio diverso.
«E tu? Pensi che troverai una persona speciale, prima o poi?»
«Chissà.»
«Ci riuscirai. Sempre che tu lo voglia. A volte ce le hai proprio
sotto il naso.»
Mike si allargò lo scollo della maglietta. Non si era accorto
che facesse cosi caldo lì dentro, ma se non usciva subito, avrebbe
cominciato a sudare sul serio. «Spero che tu abbia ragione»,
disse.
Rimasero di nuovo in silenzio.
«Bene», fece lei per indurlo a parlare.
«Bene», ripeté lui guardandosi intorno.
Julie sbuffò. Immagino che tocchi a me fare il primo passo,
si disse. Se aspetto questo Casanova, finirò per restare sola tutta
la vita.
«Che cosa hai in programma per domani sera?» gli chiese.
«Non ci ho ancora pensato.»
«Io pensavo che potremmo uscire insieme.»
«Uscire?»
«Sì. C'è un locale sull'isola davvero bello. E' proprio sulla
spiaggia e mi hanno detto che si mangia bene.»
«Vuoi che senta se Henry ed Emma vogliono venire?»
Lei si portò un dito al mento. «Mmm... che ne dici se ci andiamo
solo noi due?»
«Io e te?» Mike sentì il cuore salirgli in gola.
«Certo. Perché no. A meno che l'idea non ti vada a genio.»
«Sì, sì», rispose lui un po' troppo precipitosamente e pentendosene
subito. Fece un profondo respiro e si obbligò a calmarsi.
Non scoprirti troppo, si disse. Le rivolse il suo sguardo
alla James Dean. «Voglio dire, credo che si possa fare.»
Julie trattenne una risata. «Oh, sono lusingata», disse.
«Così le hai chiesto di uscire?» disse Henry.
Mike era appoggiato al muro in una posa da cowboy - una
gamba piegata con il piede appoggiato alla parete e la testa in
avanti - e si esaminava le unghie come se la faccenda non fosse
di grande importanza.
«Era tempo», disse con una teatrale scrollata di spalle.
«Sì... bene. E sei sicuro che sia un vero appuntamento?»
Lui alzò gli occhi e guardò il fratello con aria spazientita.
«Certo. Senza ombra di dubbio.»
«E come hai fatto? Voglio dire, quale strategia hai usato?»
«Ci sono arrivato piano piano. Ho lasciato che la conversazione
prendesse una certa direzione e al momento giusto è successo.»
«Così, da solo?»
«Esatto, così.»
«Mmm...» Henry era sospettoso. Ma in fondo, tutto lasciava
pensare che lui e Julie sarebbero usciti per davvero insieme.
«E che cosa ti ha raccontato di Richard?»
Mike si strofinò le unghie contro la maglietta e tornò a esaminarle.
«Credo che ormai tra di loro sia finita.»
«Te lo ha detto lei?»
«Sì.»
«Oh.» Henry non sapeva che cosa dire. Non poteva sfotterlo,
non poteva offrirgli dei consigli, non poteva fare niente se
prima non scopriva perché il racconto del fratello gli sembrasse
poco plausibile.
«Be', sono fiero di te. Era ora ormai che voi due ci provaste.»
«Grazie, Henry.»
«Figurati.» Poi indicò alle proprie spalle. «Senti... ho ancora
del lavoro da sbrigare e vorrei rincasare a un'ora decente,
quindi, se non ti spiace, torno alla mia scrivania.»
«Fai pure.» Animato da una sensazione di benessere forse
mai provata prima, Mike posò a terra il piede e si diresse verso
l'officina. Henry lo seguì con lo sguardo, poi entrò in ufficio,
chiudendosi la porta alle spalle. Prese il telefono, compose
il numero di casa e dopo un istante sentì la voce di Emma
all'apparecchio.
«Non crederai a quello che ho appena saputo», le disse.
«Che cosa?»
Henry la informò.
«Era ora», esclamò lei, esultante.
«Lo so. E' quello che ho detto anch'io. Senti una cosa, però...
non è che potresti avere la versione di Julie?»
«Pensavo che Mike ti avesse già raccontato tutto.»
«Infatti, ma ho il sospetto che mi nasconda qualcosa.»
Emma esitò prima di rispondere: «Non avrai in mente qualche
scherzo, vero? Non vorrai sabotare l'iniziativa, eh?»
«No, no. Voglio soltanto sapere che cosa è successo in realtà.»
«Perché? Per poterlo sfottere?»
«Ma no, è ovvio.»
«Henry...»
«Dai, tesoro. Mi conosci. Non farei mai niente del genere.
Voglio solo sapere come la racconta Julie, va bene? Mike l'ha
presa molto sul serio, e non vorrei che ci rimanesse male.»
Emma rimase in silenzio e lui capì che stava valutando se
credergli o meno.
«D'accordo. E' da parecchio che lei e io non pranziamo più
insieme.»
Henry annuì pensando: ben fatto, ragazza mia.
Julie aprì la porta di casa e si diresse in cucina per posare la
spesa e la posta. Rimasta senza provviste, si era fermata al
supermercato
con l'intenzione di scegliere qualche alimento salutare,
ma aveva finito con l'acquistare una porzione di lasagne
precotte.
Singer non l'aveva seguita dentro; era saltato giù dalla jeep
e si era diretto verso i boschi che fiancheggiavano il canale. Sarebbe
stato via per un po'.
Julie infilò le lasagne nel forno a microonde, indossò maglietta
e calzoncini in camera sua, poi tornò in cucina. Diede
un'occhiata alla posta - fatture, pubblicità, un paio di cataloghi
- poi la mise da parte. Non era dell'umore giusto per occuparsene
adesso.
Sarebbe uscita con Mike, si disse. Mike.
Mormorò il suo nome a bassa voce, per controllare se suonava
incredibile come le sembrava.
Sì, era incredibile.
Mentre rifletteva, lo sguardo le cadde sulla segreteria telefonica
che lampeggiava. Schiacciò il tasto e udì la voce di Emma
che le chiedeva se le andava di uscire insieme a pranzo venerdì.
«Se non ti va bene, chiamami. Altrimenti ci vediamo al
solito posto, d'accordo?»
Per me va benissimo, pensò Julie. Dopo un bip, fu la volta
della voce di Richard. Sembrava stanco, come se avesse lavorato
sodo tutto il giorno sotto il sole.
«Ciao, volevo solo sapere come stavi, ma suppongo che tu
non sia in casa. Rimarrò fuori città anche stasera e tornerò domani.»
Fece una pausa e lei lo sentì prendere fiato. «Non puoi
immaginare quanto mi manchi.»
Si udì il rumore del telefono che veniva riagganciato. Sul davanzale
della finestra, Julie vide un grillo fare due saltelli prima
di volare via.
Accidenti, pensò d'un tratto, perché ho la sensazione che
non la prenderà affatto bene?
16.
La sera successiva Mike arrivò a casa di Julie poco prima
delle sette, con indosso un paio di calzoni di tela beige e una camicia
bianca di lino. Spense il motore, si infilò le chiavi in tasca,
afferrò la scatola di cioccolatini e si avviò verso la porta,
ripassando quello che le avrebbe detto. Non poteva arginare
l'impulso di fare colpo su di lei, di accecarla proprio, fin dai
primi istanti. Dopo ore di riflessione aveva optato per un «Che
bella idea andare sulla spiaggia. E' una splendida serata», non
solo perché suonava naturale, ma anche perché non sarebbe
risultato troppo impegnativo. Era la sua occasione, forse l'unica,
e non voleva rovinare tutto.
Julie uscì di casa mentre lui si avvicinava e pronunciò qualche
parola amichevole, probabilmente un saluto, ma la sua voce,
unita alla dirompente consapevolezza che stavano per uscire
insieme davvero! gli rovinò il corso dei pensieri facendogli
dimenticare quello che aveva in mente di dire. Anzi, si dimenticò
proprio di tutto.
C'erano belle donne dappertutto, pensò guardandola assorto.
C'erano alcune che facevano girare la testa agli uomini anche
se erano in dolce compagnia, altre che potevano evitare
una multa con un semplice battito di ciglia dopo essere state
fermate per eccesso di velocità.
E poi c'era Julie.
Molti l'avrebbero definita «carina». Aveva qualche difetto,
è naturale... il naso all'insù, un po' troppe lentiggini, i capelli
ribelli, ma mentre la osservava scendere i gradini, con l'abito
leggero che le svolazzava intorno alla lieve brezza di tarda primavera,
capì che non aveva mai visto nessuna più bella di lei.
«Mike?» disse Julie.
Bene, pensò lui, ora tocca a te. Non rovinare tutto. Sai esattamente
che cosa dire. Resta calmo e lascia che le parole escano
con naturalezza.
«Mike?» ripeté Julie.
La sua voce insistente lo riportò alla realtà. Qual era la frase
che si era preparato?
«Ti senti bene?» gli chiese lei. «Ti vedo stanco, un po' pallido.»
Mike aprì la bocca, poi la richiuse, gli si era formato il vuoto
nella testa. Niente panico, si esortò allora cominciando a sentirsi
in preda al panico, qualunque cosa succeda, niente panico!
Decise di buttarsi e fece un profondo respiro.
«Ti ho portato dei cioccolatini», esordì, porgendole la scatola.
Julie lo guardò. «Lo vedo. Grazie.»
Ti ho portato dei cioccolatini? E tutto quello che sono riuscito
a dire?
«Pronto?...» chiese Julie. «C'è nessuno?»
La frase... la frase... Mike si concentrò e sentì che la frase
d'apertura cominciava a rimettersi insieme a pezzi e bocconi.
«Sei bella sulla spiaggia stasera», sbottò infine.
Julie lo esaminò seria e poi gli sorrise. «Grazie, ma ancora
non siamo sulla spiaggia.»
Mike si infilò le mani in tasca. Idiota! «Scusami», borbottò.
«Di che cosa?»
«Perché non so che cosa dire.»
«Ma di che parli?»
Lesse sul suo volto una strana mescolanza di confusione e
indulgenza, che lo spinse a trovare finalmente la frase giusta.
«Niente», rispose. «Sono solo veramente contento di essere
qui.»
Julie capì che erano parole sincere. «Anch'io», rispose.
Mike si riprese un pochino. Le sorrise, poi guardò da un'altra
parte, come se volesse studiare approfonditamente il quartiere.
Non sapeva bene quale fosse il passo successivo.
«Sei pronta?» chiese infine.
«Quando vuoi.»
Mentre si avviavano verso il furgone, Singer abbaiò dentro
casa.
«Il cane non viene?»
«Non credevo che volessimo portarcelo dietro.»
Mike si fermò. Singer avrebbe potuto allentare la tensione,
pensò, riducendo le aspettative da entrambe le parti. Come se
fosse una specie di chaperon. «Che ne dici se invece lo facciamo?
Di sicuro gli piacerebbe un sacco correre sulla spiaggia.»
Julie si girò a guardare Singer che abbaiava con il muso contro
la finestra. Sicuramente si sarebbe divertito sulla spiaggia,
rifletté, ma d'altra parte quello era un appuntamento galante.
Con Richard - o qualunque altro degli uomini con cui era uscita
- non le era passato nemmeno per la testa di farsi accompagnare
dal cane.
«D'accordo.» Julie sorrise. «Vado ad aprirgli subito la porta.»
Qualche minuto più tardi, mentre attraversavano il ponte
che portava a Bogue Banks, Singer abbaiò di nuovo. Seduto
sul pianale del pick-up, con la lingua e le orecchie al vento, era
beato come solo un cane può esserlo.
Il danese si accucciò sulla sabbia tiepida davanti al ristorante,
mentre Julie e Mike prendevano posto a un tavolo in terrazza.
Il sole cominciava a tramontare, tingendo di rosso le nuvole
all'orizzonte, e la brezza marina, sempre più forte sull'isola,
agitava le falde degli ombrelloni sopra i tavoli. Julie si fermò i
capelli dietro le orecchie per impedire che le finissero in faccia.
La spiaggia era ancora vuota; i bagnanti sarebbero arrivati
solo qualche settimana dopo e le onde si infrangevano dolcemente
sulla sabbia.
Il ristorante, senza pretese ma con quella posizione invidiabile,
era pieno. Quando il cameriere andò da loro, Julie ordinò
un bicchiere di vino e Mike optò per la birra.
Durante il breve tragitto fin lì avevano parlato degli avvenimenti
della giornata, soffermandosi come sempre su Mabel e
Andrea, Henry ed Emma. Mike aveva cercato di ritrovare un
contegno. Non riusciva ancora a credere di aver mandato in
fumo un'intera giornata di accurata pianificazione dimenticandosi
la frase d'apertura. Ma in qualche modo le cose funzionavano
lo stesso, si diceva. Avrebbe voluto attribuirne il merito
al suo fascino innato, ma in fondo sapeva che Julie non aveva
fatto troppo caso al suo imbarazzo perché non ci trovava
niente di straordinario. Era un po' scoraggiante, però se non
altro stavolta non lo aveva preso in giro.
Anche mentre era seduto al ristorante, Mike faticava a concentrarsi.
Dopo tutto aveva pensato a quel momento quasi ogni
giorno negli ultimi due anni. E continuava a dirsi che - giocando
le carte giuste - forse sarebbe riuscito a baciare Julie più
tardi. Era cosi ossessionato che, quando lei si portava il bicchiere
alle labbra per bere un sorso di vino rosso, gli sembrava
di assistere a uno dei gesti più sensuali che avesse mai visto.
Con uno sforzo sovrumano, riuscì comunque a tenere viva
la conversazione, facendola persino ridere un paio di volte, ma
quando arrivarono le portate si sentì di nuovo teso e confuso.
Controllati, si ammonì.
Mike non sembrava affatto quello di sempre.
Julie non ne era troppo sorpresa, sapeva che avrebbe impiegato
un po' di tempo a rilassarsi, ma a quel punto sperava che
sarebbe accaduto più prima che poi. Nemmeno lei si sentiva
completamente a proprio agio e il suo comportamento non l'aiutava
certo. Il modo in cui strabuzzava gli occhi tutte le volte che
lei si portava il bicchiere alla bocca le faceva venire voglia di
chiedergli se non avesse mai visto prima qualcuno bere del vino.
All'inizio aveva addirittura pensato che volesse avvertirla
che stava per inghiottire un insetto caduto nel bicchiere.
Era una serata molto diversa rispetto a quando era andato a
casa sua a ripararle il rubinetto, rifletté, ma non si era immaginata
che sarebbe stata tanto imbarazzante. Dopo tutto, erano
anni che si frequentavano. Lei, lui... e Jim.
Mentre mangiava, il suo pensiero era tornato spesso al marito,
spingendola a fare paragoni tra i due uomini. Ed era rimasta
sorpresa di constatare che Mike, per quanto si sforzasse
di rendere tutto più difficile, reggeva bene il confronto.
Certo, non sarebbe mai stato come con Jim, si disse, ma c'era
qualcosa nel loro modo di stare insieme che le ricordava i
bei tempi del matrimonio. Ed era sicura, come lo era stata con
suo marito, che Mike l'amasse non solo in quel momento, ma
che avrebbe continuato ad amarla ogni giorno.
Solamente per un istante aveva provato un vago senso di
tradimento, come se Jim in qualche modo potesse vederli, ma
era stata una sensazione fugace. E stranamente, a differenza
del passato, per la prima volta le aveva portato la rassicurante
convinzione che Jim non si sarebbe affatto risentito.
Quando ebbero finito di cenare il sole era ormai scomparso
dietro l'orizzonte, lasciando una scia rossa sull'acqua scura.
«Ti va di fare una passeggiata?» propose Mike.
«Volentieri», rispose lei, posando il bicchiere sul tavolo.
Lui si alzò e Julie si rassettò il vestito, rimettendo a posto la
spallina che le era scivolata sul braccio. Spostandosi verso la
ringhiera, Mike le passò accanto e, attraverso l'odore salmastro
dell'aria, lei colse il sentore della sua acqua di colonia, che le
rammentò come tutto fosse cambiato all'improvviso. Mike si
sporse, cercando Singer nel buio. Aveva il viso in ombra, ma
quando girò la testa i suoi lineamenti illuminati dalla luna lo
fecero sembrare ai suoi occhi uno sconosciuto.
Le dita strette intorno alla balaustra erano macchiate di grasso,
e Julie comprese quanto lui fosse in realtà diverso dall'uomo
che un giorno l'aveva accompagnata all'altare.
No, pensò, non sono innamorata di Mike.
Poi sorrise tra sé. Non ancora, almeno.
«Sei diventata taciturna verso la fine della cena», disse Mike.
Camminavano in riva all'acqua; si erano tolti le scarpe e lui
si era arrotolato i calzoni a metà polpaccio. Singer li precedeva,
il naso a terra, in cerca di granchi.
«Stavo pensando», mormorò lei.
Mike annuì. «A Jim?»
Julie lo guardò. «Come fai a saperlo?»
«Ho già visto quell'espressione tantissime volte. Saresti una
pessima giocatrice di poker.» Si tastò la tempia. «Non mi sfugge
niente, sai?»
«Ma davvero? E allora dimmi, a che cosa pensavo esattamente?»
«Pensavi... che eri contenta di averlo sposato.»
«Oh, ma questo è troppo facile.»
«Però ho indovinato?»
«No.»
«Allora a che cosa stavi pensando?»
«Non è importante. E poi, non ti piacerebbe.»
«Perché? E qualcosa di brutto?»
«No.»
«Allora dimmelo.»
«E va bene. Stavo pensando alle sue dita.»
«Le sue dita?»
«Sì. Tu hai le mani sporche di grasso. Sono molto diverse da
quelle di Jim.»
Mike, imbarazzato, nascose le braccia dietro la schiena.
«Oh, la mia non era una critica», disse lei. «So che fai il meccanico.
E naturale che con il tuo lavoro ti sporchi le mani.»
«Non sono sporche, me le lavo in continuazione. Sono macchiate.»
«Non essere permaloso. Hai capito che cosa intendo. E poi,
mi piacciono.»
«Davvero?»
«Per forza, fanno parte del pacchetto.»
Mike gonfiò il petto e per un po' camminarono in silenzio.
«Se non hai altri impegni, domani sera ti andrebbe ti fare un
giro a Beaufort?» chiese infine lui.
«L'idea mi alletta.»
«Però mi sa che dovremo lasciare a casa Singer», aggiunse
Mike.
«Non c'è problema. E' grande. Sa cavarsela anche da solo.»
«Ti piacerebbe andare in qualche posto particolare?»
«Tocca a te scegliere. Io ho fatto già il mio dovere.»
«E lo hai fatto bene.» Mike le lanciò un'occhiata obliqua,
poi la prese per mano. «Che bella idea andare sulla spiaggia. E'
una splendida serata.»
Julie sorrise e intrecciò le dita tra le sue. «Hai ragione.»
Tornarono indietro qualche minuto dopo, perché Julie cominciava
a sentire freddo. Suo malgrado, Mike dovette lasciarle
la mano quando raggiunsero il furgone. Considerò l'idea
di stringergliela di nuovo una volta saliti, ma lei incrociò
le braccia e si mise a guardare fuori dal finestrino.
Non parlò molto in macchina e, quando la accompagnò alla
porta di casa, aveva un'espressione indecifrabile. Da parte
sua Mike coltivava invece chiari propositi... sperava solo che
Julie indugiasse un attimo sulla veranda, prima di salutarlo, per
dargli l'occasione di agire.
«E stato molto bello stasera», disse.
«Anche per me. A che ora devo essere pronta domani?»
«Per le sette?»
«Perfetto.»
Mike annuì, agitato come un adolescente. Eccoci giunti al
grande momento, pensava.
«Non resta che salutarci», disse, tanto per darsi un contegno
disinvolto.
Julie sorrise, leggendogli nel pensiero. Gli prese la mano e
gliela strinse prima di lasciarla di nuovo.
«Buonanotte, Mike. Ci vediamo domani, allora.»
Lui impiegò qualche istante a registrare il rifiuto appena ricevuto
e si dondolò sui piedi. «Domani?» chiese esitante.
Lei aprì la borsa e si mise a cercare le chiavi di casa. «Sì. Per
il nostro appuntamento, ricordi?»
Trovò le chiavi, infilò subito quella giusta nella serratura, poi
tornò a guardarlo. Singer li aveva raggiunti e lei aprì la porta
per farlo entrare.
«Grazie ancora per la bella serata.»
Fece un cenno di saluto con la mano e seguì Singer all'interno.
Quando la porta si richiuse alle sue spalle, Mike rimase
a fissarla sbalordito per qualche minuto prima di capire che lei
non sarebbe più uscita. Poi si girò e si avviò verso il furgone,
prendendo a calci la ghiaia del vialetto.
Sapendo che non sarebbe riuscita a dormire, Julie si mise a
sfogliare una rivista seduta sul divano, mentre ripensava a quella
sera. Era contenta di non essersi fatta baciare da Mike sulla
veranda, anche se non sapeva perché. Forse aveva bisogno di
più tempo per adattarsi al suo nuovo sentimento per lui.
Oppure, più semplicemente, gli piaceva vederlo friggere, pensò.
Quand'era agitato, diventava davvero irresistibile. Henry aveva
ragione: era proprio divertente prenderlo un po' in giro.
Afferrò il telecomando e accese la televisione. Era ancora presto,
neanche le dieci, così si mise a guardare un film su uno sceriffo
che si sentiva in obbligo di rischiare la vita per salvare gli
altri.
Venti minuti più tardi, mentre lo sceriffo era in procinto di
estrarre un ragazzo dai rottami di un'auto in fiamme, sentì bussare
alla porta.
Singer si alzò di scatto attraversando d'un balzo il salotto.
Infilò la testa tra le tende della finestra e lei pensò che Mike
fosse tornato.
Poi il cane si mise ad abbaiare.
17.
«Richard.»
«Ciao, Julie.» Le porse un mazzo di rose. «Le ho prese all'aeroporto
quando sono atterrato. Non sono troppo fresche,
ma non c'era molto da scegliere.»
Lei era sulla soglia, con Singer che aveva smesso di latrare
quando Richard aveva allungato verso il suo naso il palmo della
mano aperto. Il cane lo aveva annusato, poi lo aveva guardato
per accertarsi che il viso corrispondesse all'odore familiare,
e quindi si era placato. Oh, lui, sembrava dire con la sua
espressione condiscendente. La cosa non mi entusiasma, ma va
bene.
Per Julie, invece, non era così semplice. Esitò prima di accettare
i fiori, rimpiangendo che glieli avesse portati. «Grazie»,
disse.
«Scusa l'ora, ma volevo passare a salutarti prima di andare
a casa.»
«Non importa», rispose lei.
«Ti ho telefonato prima di partire per avvisarti, ma forse non
c'eri.»
«Hai lasciato un messaggio?»
«Non ne ho avuto il tempo. Stavano chiamando il volo ed
ero in lista d'attesa. Sai come vanno queste cose. Però te ne avevo
lasciato uno ieri.»
«Si, quello l'ho ricevuto.»
Richard unì le mani davanti a sé. «Allora, eri a casa?» chiese.
«Quando ho telefonato.»
Julie avvertì una leggera stretta alla bocca dello stomaco.
Non avrebbe proprio voluto affrontare subito la questione.
«Ero uscita con un amico», disse.
«Un amico?»
«Ti ricordi di Mike? Siamo andati a mangiare un boccone.»
«Ma certo. L'ho conosciuto al Clipper quella sera, giusto?»
disse lui. «Quello che lavora all'officina.»
«Si, lui.»
«Ah. E ti sei divertita?»
«Ultimamente non ci eravamo visti molto, così è stato bello
recuperare il tempo perduto.»
«Bene.» Gettò un'occhiata di lato, poi si guardò i piedi, quindi
tornò a fissarla. «Mi fai entrare? Speravo di poter fare due
chiacchiere con te.»
«Non saprei», tentennò lei. «E' già tardi. Mi stavo preparando
per andare a letto.»
«Oh, capisco. Ci vediamo domani, allora? Magari potremmo
andare a cena fuori.»
Nell'ombra i suoi lineamenti sembravano più truci, ma sorrideva,
fiducioso nella risposta.
Julie chiuse gli occhi per un istante. Odio doverlo fare, pensò,
lo odio, lo odio, lo odio. Almeno il povero Bob aveva il
sospetto che la storia stesse per finire. Richard, invece, no.
«Mi spiace», disse. «Non posso. Ho già un impegno.»
«Di nuovo con Mike?»
Lei annuì.
Richard si strofinò distrattamente la guancia, continuando a
guardarla negli occhi. «E' così, allora? Tra di noi, intendo?»
L'espressione di Julie era eloquente.
«Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiese lui.
«No», protestò lei, «non è questo.»
«E allora che cos'è? Non ti sei divertita quando sei uscita
con me?»
«Sì.»
«E allora?»
Julie esitò. «Non c'è niente che non vada in te, credimi. Il
fatto è che tra me e Mike... E' come se, dopo tanto tempo,
all'improvviso
noi due... ecco, non so come spiegartelo...»
Mentre lei annaspava in cerca delle parole, Richard cominciò
a serrare ritmicamente la mascella. Per un attimo rimase in
silenzio.
«Devi essertela proprio spassata mentre non c'ero, vero?»
chiese infine.
«Senti, mi spiace...»
«Di che cosa? Di avermi colpito alle spalle non appena sono
andato via? Di avermi usato solo per far ingelosire Mike?»
Lei era indignata. «Ma di che cosa parli?»
«Mi hai sentito benissimo.»
«Io non ti ho affatto usato...»
Richard non intendeva sentir ragioni. «E allora perché vuoi
troncare la nostra storia quando dobbiamo ancora conoscerci
bene? E com'è che Mike di colpo è diventato tanto interessante?
Ma tu pensa, me ne vado via qualche giorno e al
mio ritorno scopro che tra noi è finita e che quel tizio ha già
preso il mio posto!» La fissò, con le labbra che cominciavano
a sbiancare. «E tu vorresti farmi credere che è successo
cosi, all'improvviso. Eh, no! E' dannatamente chiaro che avevi
programmato tutto.»
Il suo sfogo era stato tanto repentino e violento, che lei non
riuscì a trattenersi. «Sei un idiota!»
Richard la fissò ancora per un istante, poi abbassò lo sguardo.
La sua rabbia lasciò il posto a un'espressione contrita.
«Non è giusto», disse piano. «Per favore, voglio parlarti solo
per pochi minuti», la implorò.
Julie rimase sorpresa di vedere che aveva le lacrime agli occhi.
Quell'uomo era un vero acrobata delle emozioni, pensò.
«Senti, Richard, mi spiace. Non avrei dovuto dire così. E non
volevo ferirti, davvero.» Fece una pausa per accertarsi che
l'ascoltasse.
«Ma è tardi, e siamo tutti e due molto stanchi. Meglio
lasciar perdere in questo momento, non vorrei che aggiungessimo
qualcos'altro di cui poi ci pentiremmo. D'accordo?»
Vedendo che non le rispondeva, fece un passo indietro e cominciò
a chiudere l'uscio. Lui d'un tratto alzò una mano per
fermarla.
«Julie! Aspetta!» esclamò. «Ti chiedo scusa. Per favore...
ho davvero bisogno di parlarti.»
Prima ancora che lei potesse rendersi conto che Richard stava
cercando di trattenere la porta, Singer si era lanciato verso
la mano, come se volesse prendere un frisbee al volo. Le sue
mandibole strinsero il bersaglio e l'uomo vacillò con un gemito
di dolore.
«Singer!» gridò Julie.
Richard cadde in ginocchio, con il braccio proteso, mentre
il cane agitava la testa da una parte all'altra, ringhiando.
«Fermalo!» urlò lui. «Toglimelo di dosso!»
Julie afferrò il collare del cane e cominciò a tirare con forza.
«Lascialo!» ordinò. «Lascialo subito!»
Nonostante la concitazione del momento, Singer ubbidì all'istante
e Richard si portò istintivamente la mano al petto, proteggendola
con l'altra. Il cane rimase fermo con i denti scoperti.
«Singer, basta!» gridò ancora lei, sbigottita dalla ferocia dell'animale.
«Come va la mano?» chiese poi.
L'uomo mosse le dita con una smorfia. «Be', non credo che
ci sia niente di rotto.»
Julie accarezzò il dorso di Singer. Aveva i muscoli contratti
e teneva gli occhi fissi su Richard.
«Non l'ho nemmeno visto arrivare», disse lui a bassa voce.
«Ricordami di non mettere più la mano sulla tua porta quando
c'è in giro il cane.»
Sebbene parlasse dell'incidente in tono quasi divertito, Julie
non rispose. Singer aveva agito d'istinto per proteggerla,
pensava, e non lo avrebbe punito per questo.
Richard si alzò, continuando ad aprire e chiudere le dita, e
Julie vide sulla sua mano il segno dei denti di Singer, che però
non avevano lacerato la pelle.
«Mi spiace», disse lui indietreggiando di un passo, «non avrei
dovuto agire d'impulso. Ho sbagliato.»
Hai proprio ragione, pensò lei.
«E non mi sarei dovuto arrabbiare, prima», sospirò. «E' solo
che questa è stata una settimana davvero spaventosa. Ecco
perché sono passato da te. Lo so che non è una giustificazione,
ma...»
Sembrava sincero e pentito, però lei scosse la testa.
«Richard...»
Il suo tono lasciava intendere chiaramente che non voleva
ricominciare. Lui guardò assorto di lato, e la luce della veranda
gli illuminò il viso. Julie si accorse di non essersi sbagliata
prima: aveva di nuovo gli occhi lucidi.
Quando l'uomo parlò, la sua voce era strozzata e carica di
pathos.
«Mia madre è morta questa settimana», bisbigliò. «Sono appena
tornato dal funerale.»
«E' per questo che ti ho lasciato un biglietto sulla macchina
nel cuore della notte», spiegò Richard. «Il dottore mi aveva detto
di arrivare il prima possibile, perché non sapeva se lei avrebbe
resistito ancora un giorno. Allora ho dovuto affrettarmi a
prendere il primo volo per Raleigh...»
Era seduto sul divano nel salotto di Julie, con lo sguardo a
terra, mentre lottava ancora per trattenere il pianto. Quando
sulla porta le aveva detto della madre, lei aveva provato un moto
di sincera compassione. Così gli aveva permesso di entrare
e, dopo aver chiuso Singer in camera da letto, si era seduta di
fronte a lui.
Ora stava lì ad ascoltare il suo sfogo, mentre pensava: tempismo
perfetto, Julie. Certo che tu sai scegliere proprio il momento
migliore quando si tratta di spezzare i cuori, eh?
«So che questo non cambia ciò che mi hai detto prima sulla
veranda, ma non volevo che tra noi finisse con un litigio. Sono
stato troppo bene con te.»
Si schiarì la voce e si premette le dita sulle palpebre. «E' stato
così improvviso, sai? Non ero preparato a ricevere un colpo
simile.» Sospirò. «Cristo, non ero pronto per niente. Non puoi
immaginare com'è stato per me là... Il suo aspetto prima di andarsene,
l'atmosfera triste dell'ospedale, l'odore...»
Si coprì il viso con le mani e scoppiò in singhiozzi come un
bambino.
«Avevo bisogno di parlarne con qualcuno. Una persona che
sapesse ascoltare.»
Accidenti, pensò Julie. Poteva andare peggio di così?
Si sforzò di sorridere e disse: «Sono qui, Richard. Siamo ancora
amici, giusto?»
Richard continuò a parlare a lungo, passando da un argomento
all'altro: i ricordi della sua infanzia, i suoi pensieri quando
era entrato in ospedale, la sensazione provata il mattino dopo,
mentre stringeva la mano della madre per l'ultima volta. A
un certo punto Julie gli offrì una birra e, mentre passavano le
ore, lui ne bevve distrattamente anche altre due. Di tanto in
tanto si fermava e si guardava intorno con espressione assente,
come se avesse dimenticato quello che voleva dire; in alcuni
momenti parlava come se avesse appena ingerito un caffè doppio,
con le frasi che gli uscivano a raffica dalla bocca. Lei ascoltò
pazientemente senza interromperlo, facendo solo qualche domanda
se le sembrava appropriato. Vide più volte le lacrime
riaffiorargli agli occhi, ma quando rischiavano di sgorgare, Richard
si stringeva il naso per ricacciarle indietro.
Passò mezzanotte, poi l'una e, un po' prima delle due, la birra
e la stanchezza emotiva ebbero il sopravvento. Richard aveva
cominciato a ripetersi, la sua parlata si era fatta più faticosa.
Quando lei tornò dalla cucina con un bicchiere d'acqua, vide
che aveva chiuso gli occhi e reclinato la testa all'indietro sul
divano. Teneva la bocca aperta e i suoi respiri erano profondi
e regolari.
Con il bicchiere in mano, rimase in piedi dov'era pensando:
magnifico. E adesso che faccio?
Avrebbe voluto rimandarlo a casa, ma temeva che non fosse
abbastanza sobrio per guidare. Non le piaceva che restasse
a dormire da lei, però, se lo svegliava, correva il rischio che
ricominciasse
a parlare. Si sentiva esausta.
«Richard», bisbigliò. «Richard?»
Niente.
Poco dopo provò ancora, con lo stesso risultato. Avrebbe
potuto scuoterlo, pensò, ma viste le alternative, forse era meglio
lasciarlo tranquillo.
Dopo tutto non è così grave, si disse. Tanto dorme.
Spense le luci e andò in camera sua, chiudendo a chiave la
porta. Singer era sul letto e alzò la testa osservandola mentre si
infilava il pigiama.
«E' solo per stanotte», gli spiegò lei, come per convincersi di
aver preso la decisione giusta. «Non ho cambiato idea. E' solo
che sono sfinita, va bene?»
Julie si svegliò all'alba e, dopo aver dato un'occhiata all'orologio,
si rigirò con un gemito. Non voleva alzarsi, si sentiva
intorpidita e confusa come dopo una sbornia.
Si costrinse a scendere dal letto e socchiuse la porta per sbirciare
in salotto: Richard sembrava ancora addormentato. Allora
si infilò sotto la doccia e si vestì, perché non voleva farsi vedere
in pigiama. Quando entrò in sala - con Singer che la seguiva
circospetto - lui si era raddrizzato sul divano e stava strofinandosi
la faccia. Il suo mazzo di chiavi e il portafoglio erano
appoggiati sul tavolino.
«Oh, salve», disse, imbarazzato. «Devo essere crollato, eh?
Mi spiace.»
«Era stata una lunga giornata», disse lei.
«Davvero.» Richard si alzò e afferrò il portafoglio. Un breve
sorriso gli passò sulle labbra. «Grazie di avermi ospitato per
stanotte.»
«Figurati», disse lei. «Ti senti bene?»
«Credo di sì. La vita continua, giusto?»
Si lisciò la camicia spiegazzata. «Ti chiedo ancora scusa per
il mio comportamento di ieri notte», aggiunse. «Non so che cosa
mi avesse preso.»
Julie aveva i capelli ancora bagnati e sentì una goccia d'acqua
filtrarle sotto la camicia.
«Non importa», rispose. «Capisco che per te dev'essere stata
una sgradevole sorpresa, ma...»
Richard scrollò il capo. «No... lascia stare. Non devi spiegare...
capisco. Mike mi sembra un bravo ragazzo.»
Lei esitò. «Infatti», disse infine, «ma grazie comunque.»
«Voglio che tu sia felice. E' tutto quello che ho sempre desiderato.
Sei una persona fantastica, e te lo meriti. Soprattutto
dopo avermi ascoltato per ore stanotte. Non hai idea di quello
che ha significato per me. Niente risentimenti?»
«Niente risentimenti», ripeté lei.
«Amici?»
«Certo.»
«Grazie.» Dopo un momento di esitazione, prese le chiavi e
si avviò verso la porta.
«Mike è un ragazzo fortunato», disse una volta uscito, con
un sorriso malinconico. «Arrivederci, Julie.»
Quando finalmente salì in macchina, lei tirò un sospiro di
sollievo. In fondo era andata molto meglio del previsto, si disse.
Poi, corrugando la fronte, ci pensò su. Certo, di sicuro era
andata meglio della notte prima. Che incubo.
Almeno adesso era finita.
18.
Richard salì lo scalone della sua casa vittoriana, diretto nella
stanza d'angolo. Aveva tinteggiato le pareti di nero e oscurato
le finestre; una lampada a luce rossa era fissata a un tavolo
di fortuna lungo la parete di fondo. Da un lato c'era la sua
attrezzatura fotografica: quattro apparecchi, una decina di obbiettivi,
diverse scatole di rullini. Girò l'interruttore e orientò
il paralume per vedere meglio.
Prese il mucchio di fotografie che stava accanto alle vaschette
degli acidi con cui sviluppava le pellicole e le sfogliò. Erano
quelle che aveva scattato a Julie durante il loro weekend insieme.
Ogni tanto si soffermava a guardare qualche immagine
in particolare. Lei sembrava felice, pensò, come se avesse capito
che la sua vita aveva subito un repentino miglioramento.
Ed era anche incantevole. Esaminando la sua espressione, non
riusciva a trovare una spiegazione per quanto era successo la
sera prima.
Scrollò il capo. No, non se la sarebbe presa con lei, si disse.
Chiunque fosse in grado di passare così rapidamente dalla rabbia
alla compassione come aveva fatto Julie era un tesoro, ed
era stato fortunato a incontrarla.
Ormai aveva raccolto parecchie informazioni su Julie Barenson,
considerò. Sua madre era un'alcolizzata con un debole
per la vodka, che abitava in una baracca fumosa alla periferia
di Daytona. Il padre attualmente viveva nel Minnesota con
un'altra donna, campando del sussidio di invalidità ottenuto
dopo un incidente in cantiere. Aveva abbandonato la moglie
quando Julie aveva solo tre anni. In seguito sua madre aveva
convissuto con numerosi uomini diversi, per periodi più o meno
lunghi. Si era trasferita almeno una decina di volte, sempre
da un tugurio all'altro.
E così Julie era stata costretta a cambiare spesso scuola, si
disse. Aveva avuto il suo primo ragazzo a quattordici anni: lui
giocava a basket e nell'annuario scolastico c'era una foto che li
ritraeva insieme. Lei aveva partecipato in ruoli secondari a un
paio di recite organizzate dal liceo, poi aveva abbandonato gli
studi senza prendere il diploma ed era scomparsa per qualche
mese prima di spuntare lì a Swansboro.
Richard non aveva idea di come Jim fosse riuscito ad attirarla
in un posto simile.
Matrimonio felice, marito opaco. Carino, pensò, ma opaco.
Si era anche informato su Mike dopo che lo aveva conosciuto
al Clipper. Era incredibile come fosse bastato offrire da bere in
un bar a un abitante del luogo per ottenere quello che voleva.
Quel ragazzo era innamorato di Julie, ma questo lui lo aveva
già capito. Tuttavia era stato interessante venire a sapere i
particolari sulla fine della sua precedente relazione. Il tradimento
di Sarah apriva nuove possibilità per il futuro.
Aveva anche scoperto che Mike era stato testimone di nozze
di Julie, e così il loro rapporto acquistava maggior senso. Lui
rappresentava un legame con il passato, e con Jim. Capiva il
suo desiderio di restarvi aggrappata, così come di difendersi da
chi avrebbe potuto portarla via da lì. Ma era un desiderio che
nasceva dalla paura dell'ignoto, dal timore di finire come sua
madre, di perdere tutto quello per cui aveva lottato. Gli era venuto
quasi da ridere la notte prima, quando aveva sentito che
chiudeva a chiave la porta della camera da letto.
Quanta prudenza, pensò. Probabilmente era un'abitudine
acquisita da piccola, a causa degli uomini che la madre si portava
a casa. Ma non c'era motivo di vivere in quel modo, non
più. Poteva guardare avanti, come aveva fatto lui.
La loro infanzia non doveva essere stata tanto diversa, dopo
tutto. L'alcolismo. Le botte. La cucina infestata di scarafaggi.
L'odore di polvere e di intonaco ammuffito, ricordò. L'acqua
torbida che gocciolava dal rubinetto dandogli la nausea. L'unica
via di fuga per lui erano stati i libri di fotografia di Ansel
Adams, immagini affascinanti che evocavano luoghi lontani e
migliori. Aveva scoperto quei volumi nella biblioteca della scuola
e trascorreva ore a sfogliarli, perdendosi in paesaggi di una
bellezza surreale. Sua madre si era accorta del suo interesse e,
nonostante in genere il Natale fosse una ricorrenza deprimente,
era riuscita a convincere il padre a regalargli una piccola
macchina fotografica e qualche rullino. Allora lui aveva dieci
anni e quella era stata l'unica occasione della sua vita in cui ricordava
di aver pianto di felicità.
Rammentò che passava ore a fotografare oggetti in casa o gli
uccellini in cortile. Scattava le foto all'alba o al tramonto, perché
gli piaceva la luce di quei momenti; imparò a muoversi in
silenzio, per catturare suggestive immagini ravvicinate dei suoi
soggetti animati. Ogni volta che finiva un rullino, andava dal
padre e lo implorava di farlo sviluppare. Quando le foto erano
pronte, si chiudeva in camera sua a studiarle con attenzione,
per cercare di capire che cosa c'era di giusto e di sbagliato.
Nei primi tempi, suo padre sembrava divertito e aveva dato
anche un'occhiata alle stampe dei primi due rullini. Poi erano
cominciati i commenti sarcastici: «Toh, un altro uccellino»,
oppure: «Ma guarda, tanto per cambiare». Alla fine si era messo
a brontolare per i soldi che doveva spendere per lui. «Tutto
denaro sprecato», si lamentava, e invece di suggerirgli di
ingegnarsi a fare qualche lavoretto nel vicinato per pagarsi lo
sviluppo delle fotografie, aveva deciso di dargli una lezione.
Richard non avrebbe mai scordato la scena.
Una sera tornò a casa ubriaco e lui e sua madre cercarono
di stargli alla larga, facendo di tutto per passare inosservati. Si
mise in salotto a guardare una partita di football in televisione:
aveva scommesso sulla squadra del cuore, ma che purtroppo
perse, facendolo infuriare. Allora si allontanò nel corridoio e,
poco dopo, entrò in cucina con la macchina fotografica in una
mano e un martello nell'altra. Una volta sicuro di avere l'attenzione
del figlio, posò l'apparecchio sul tavolo e lo mandò in
frantumi con un'unica martellata ben assestata.
«Lavoro come una bestia tutta la settimana per mantenervi,
e tu butti via i soldi così! D'ora in avanti non avremo più questo
problema!»
Nello stesso anno il padre morì. Anche i ricordi di quell'avvenimento
erano ancora vividi nella mente di Richard: il raggio
di sole al mattino sul tavolo della cucina, lo sguardo assente
della madre, lo stillicidio del rubinetto mentre le ore passavano
e si faceva pomeriggio. Gli agenti arrivarono e se ne andarono
parlando a voce bassa; l'ispettore esaminò il cadavere
e lo fece portare via.
E poi, i lamenti di sua madre, una volta rimasti soli. «Che
cosa faremo senza di lui?» singhiozzava, scuotendolo per le
spalle. «Com'è potuto accadere?»
Ecco come: il padre si trovava in uno squallido bar di Boston,
non lontano da casa. Secondo gli altri clienti, aveva fatto
una partita a biliardo e aveva perso, poi si era seduto al banco
a bere per il resto della serata. Era stato licenziato due mesi prima
e ormai passava quasi tutte le sere lì, un uomo rabbioso e
abbrutito in cerca di conforto dalla compagnia di altri alcolizzati.
Con il passare del tempo Vernon era diventato sempre più
violento e picchiava regolarmente sia la moglie sia il figlio. La
sera prima era stato particolarmente brutale.
Era uscito dal bar poco dopo le dieci, si era fermato a comprare
un pacchetto di sigarette nel negozio all'angolo, poi si era
avviato verso casa con la macchina. Un vicino che portava a
spasso il cane lo aveva visto. La porta del garage era aperta e
Vernon aveva infilato l'auto nello spazio tra gli scatoloni ammassati
lungo le pareti.
A questo punto cominciavano le speculazioni. Il fatto che
avesse chiuso la porta del garage era assodato e comprovato
dall'elevata concentrazione di monossido di carbonio. Ma perché,
si chiese l'ispettore, non aveva spento prima il motore? E
perché era tornato in macchina dopo aver abbassato la saracinesca?
Da tutti gli elementi a disposizione, sembrava un suicidio,
anche se i suoi amici del bar insistevano che non era possibile.
Era un combattente, non un perdente, dicevano. Non si
sarebbe mai arreso così.
I poliziotti tornarono due giorni dopo, facendo una sequela
interminabile di domande. La madre gemeva parole incoerenti;
il ragazzino di dieci anni offriva solo il suo sguardo deciso.
I lividi sul loro viso avevano cominciato ad assumere un
colore verdastro, dando a entrambi un'aria spettrale. Gli agenti
se ne andarono senza risposte.
Alla fine il caso venne chiuso: si era trattato di un incidente
e la morte fu attribuita all'eccesso di alcol.
Al funerale partecipò una decina di persone. La madre, vestita
di nero, piangeva soffiandosi il naso in un fazzoletto bianco,
con Richard al suo fianco. Tre amici parlarono sulla tomba,
rendendo omaggio a un uomo momentaneamente abbandonato
dalla fortuna, ma che per il resto era stato una brava
persona, un gran lavoratore, padre e marito amorevole.
Il figlio recitò alla perfezione la propria parte. Con gli occhi
bassi, di tanto in tanto si portava un dito alla guancia, come per
asciugare una lacrima. Prese sottobraccio la madre e annuì
gravemente
ringraziando chi veniva a porgere le condoglianze.
Il giorno dopo, tuttavia, quando tutti se n'erano andati,
tornò al cimitero e si fermò sulla terra ancora smossa davanti
alla tomba.
Poi ci sputò sopra.
Ora, nella camera oscura, Richard attaccò una fotografia alla
parete, ricordandosi che il passato getta sempre ombre molto
lunghe. E' facile confondersi, pensò. Sapeva che lei non lo
aveva fatto apposta, e comprendeva. Le perdonava quell'errore.
Guardò la sua immagine. E come non perdonarla?
19.
Dato che quella mattina Julie si era dovuta preparare in anticipo,
si fermò a comprare il giornale prima di andare al lavoro.
Si mise seduta a un tavolino fuori da un caffè e fece colazione
mentre lo sfogliava, con Singer sdraiato ai suoi piedi.
Alla fine sollevò gli occhi e rimase a osservare la tranquilla
cittadina che si risvegliava. Uno dopo l'altro i negozi lungo la
via alzarono la serranda, mentre porte e finestre venivano aperte
per fare entrare l'aria fresca. Il cielo era limpido e un sottile
strato di rugiada notturna ricopriva il parabrezza delle macchine
parcheggiate in strada.
Quando ebbe finito di leggerlo, Julie offrì il giornale a una
coppia seduta al tavolo accanto e si avviò verso il negozio di
Mabel. L'officina era già aperta, così decise di fare un salto dentro,
visto che aveva ancora qualche minuto libero. Mike non
doveva ancora essere troppo impegnato e poi voleva assicurarsi
che le emozioni provate con lui la sera prima non fossero frutto
della sua immaginazione.
Non aveva intenzione di dirgli che Richard aveva finito per passare
la notte da lei. Era troppo complicato da spiegare e temeva
che Mike si insospettisse, soprattutto alla luce di quanto era accaduto
con Sarah. Magari avrebbe perso la fiducia, e tra loro si sarebbe
aperta una crepa insanabile. E comunque, non era importante.
Quello che contava era aver chiarito le cose con Richard.
Attraversò la strada, accompagnata da Singer, ed entrò. Mike
le andò incontro non appena la vide, con l'espressione di chi
ha vinto alla lotteria.
«Ciao, Julie», disse. «Che bella sorpresa.»
Anche se aveva una striscia di grasso sulla guancia e la fronte
già imperlata di sudore, lei lo trovò maledettamente bello.
Non è immaginazione, si disse.
«Sì, sono contento di vedere anche te, cagnone», aggiunse lui
accarezzando Singer. Fu allora che Julie notò i cerotti sulle dita.
«Che cosa ti è successo?»
Mike si guardò le mani. «Oh, niente. Sono solo un po' arrossate
stamani.»
«Come mai?»
«Temo di averle strofinate troppo ieri sera quando sono tornato
a casa.»
Lei aggrottò la fronte. «Per via di quello che ti ho detto sulla
spiaggia?»
«No», rispose lui, poi, scrollando le spalle, «sì, forse in parte
anche per quello», aggiunse.
«Non dicevo sul serio.»
«Lo so. Ma mi chiedevo se con un altro detersivo avrei ottenuto
risultati migliori.»
«Capisco. E che cosa hai usato? L'Aiax?»
«Aiax, Lysoform, Vim. Li ho provati tutti.»
Lei si mise le mani sui fianchi e lo guardò. «Sai, a volte non
posso fare a meno di chiedermi quando ti deciderai a crescere.»
«Se vuoi proprio saperlo, dubito che lo farò mai.»
Lei rise, pensando: mi piace proprio quest'uomo.
«Sono passata solo per dirti che ieri è stata una serata speciale.»
«Anche per me», disse lui. «E vedrai stasera.»
«Ci divertiremo.»
I loro sguardi si incontrarono per un attimo. «Senti, adesso
devo proprio andare. Ho la mattinata piena di appuntamenti
e devo pranzare con Emma, quindi non posso ritardare.»
«Salutala da parte mia.»
«Certo. Buona giornata.»
«Anche a te», rispose lui.
Lei gli strizzò l'occhio. «E stai attento con quelle dita. Non
va bene macchiare di sangue i motori su cui lavori.»
«Ah-ha», fece lui. Ma essere preso in giro da lei non lo disturbava.
Sapeva che era il suo modo di flirtare. Per davvero,
non solo come amica. E per Dio, quella novità gli piaceva! Eccome
se gli piaceva!
Si salutarono e un attimo dopo Julie attraversò la strada con
passo allegro.
«Mi sembra che l'uscita sia andata piuttosto bene, no?»
Henry teneva in mano una brioche sbocconcellata.
Mike infilò i pollici nelle bretelle della tuta e sospirò. «Oh
sì, è andata benissimo.»
Henry agitò la brioche e scrollò il capo. «La vuoi piantare con
quell'aria alla James Dean, fratellino? Ti avverto: non ti si addice.
E poi non riesce a mascherare la tua espressione ebete.»
«Non ho l'espressione ebete.»
«Ebete, innamorata, è lo stesso.»
«Ehi, non posso farci niente se le piaccio.»
«Lo so. Sei irresistibile, vero?»
«Credevo che fossi felice per me.»
«E lo sono. Sono anche fiero di te», disse Henry.
«Davvero? E perché?»
«Perché, anche se sembra incredibile, il tuo piano evidentemente
ha funzionato.»
«Dimmi un po', che cosa è successo con Richard?» chiese
Emma. «L'altra sera, al locale, mi sembrava che ve la intendeste
molto bene.»
«Mah, sai come vanno certe cose... era carino, sì, ma non
provavo niente per lui.»
«Immagino che fosse per via del suo aspetto, vero?»
«Ammetto che da quel lato non era niente male», rispose Julie
ed Emma scoppiò a ridere.
Stavano sedute davanti a due piatti di insalata nella rosticceria
del centro e il sole illuminava il loro tavolo, riflettendosi
sui bicchieri di tè.
«E' quello che ho detto anche a Henry quando siamo tornati
a casa. E gli ho chiesto come mai lui invece ha smesso di tenersi
in forma.»
«Che cosa ti ha risposto?»
«Ha detto...» Emma si drizzò sulla sedia e cambiò voce, imitando
il marito. «Non capisco di che parli, ma se non fossi sicuro
che mi ami, mi verrebbe da pensare che tu mi voglia offendere.»
Julie scoppiò a ridere. «Sei precisa a lui.»
«Tesoro, con tutti gli anni di matrimonio che ho alle spalle,
non è così difficile. Per completare il quadro mi manca solo
una brioche da agitare in aria.»
Julie rise ancora, versando qualche goccia di tè sulla tovaglia.
«Però lui ti rende ancora felice, vero?»
«In genere è un gran bravo ragazzo. A volte vorrei dargli una
padellata in testa, ma credo che questo sia normale, no?»
Nello sguardo di Julie brillò una luce maliziosa mentre si chinava
in avanti sul tavolo. «Ti ho mai raccontato che un giorno
ho lanciato una pentola a Jim?»
«Davvero? E quando?»
«Non ricordo. Non so nemmeno a che proposito stessimo
discutendo. L'ho mancato, ma ho ottenuto la sua attenzione.»
L'amica assunse un'aria cospiratoria. «La vita dentro le mura
di casa è sempre un mistero, no?»
«Proprio così.»
Emma bevve un sorso di tè, poi prese una forchettata di insalata.
«E' vera questa storia con Mike che mi è giunta all'orecchio?»
Julie se lo aspettava. Invece di interessarsi di politica o delle
questioni universali, in quella cittadina di provincia la gente
aveva un debole per gli affari altrui.
«Dipende da cosa si dice in giro.»
«Ho saputo che ti ha chiesto di uscire e che avete cenato insieme.»
«Più o meno. In realtà l'ho invitato io.»
«Lui non poteva farlo?»
Julie guardò l'amica. «Tu che ne pensi?»
«Mmm... secondo me era raggelato come uno stagno in pieno
inverno.»
Julie rise. «Hai indovinato.»
«Allora, dove siete stati?»
Julie le raccontò la serata e, quando ebbe finito, Emma si
appoggiò alla spalliera della sedia con aria soddisfatta.
«Mi sembra che sia andato tutto bene.»
«Infatti.»
L'amica studiò il suo viso per un istante. «E a proposito di...
sai... hai pensato.,.» Lasciò la frase a metà e Julie la concluse
per lei.
«A Jim?»
Emma annuì e lei ci rifletté per qualche istante. «Sì», disse.
«Ma per la prima volta quel pensiero non mi ha assillata. Sai,
Mike e io... andiamo proprio d'accordo. Lui mi fa ridere. Mi
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fa sentire bene con me stessa. Era da tanto tempo che non mi
sentivo così.»
«Sembri sorpresa.»
«Infatti. A essere sincera, non sapevo come sarebbe andata.»
L'espressione di Emma si addolcì. «Lo immagino. Per te
dev'essere stata dura. Tu e Jim eravate assai affiatati. Mi ricordo
che scherzavamo sempre su come vi guardavate negli occhi
quando uscivamo insieme.»
«Sì, eravamo molto uniti», disse Julie con un velo di malinconia
nella voce.
Emma rimase in silenzio, poi domandò: «E Mike, come ti
sembrava?»
«A dire il vero era piuttosto nervoso, ma stavolta non credo
che c'entrasse Jim. Voleva mostrarsi all'altezza della situazione.»
«Me lo vedo.»
Julie sorrise. «Sì. Comunque sono stata proprio bene.»
«Allora... allora ti piace?»
«Certo che mi piace.»
«No, voglio dire, ti piace?»
La questione era tutta lì, giusto? pensò Julie. Ma alla fine
non ebbe bisogno di rispondere; il suo viso parlava per lei ed
Emma le strinse la mano con affetto.
«Sono contenta. Sapevo che sarebbe successo.»
«Davvero?»
«Credo che se lo aspettassero tutti, a eccezione di te e Mike.
Era solo questione di tempo.»
«Non hai mai detto niente.»
«Non ce n'era bisogno. Ero sicura che, quando fossi stata
pronta, avresti trovato in Mike le qualità che ci vedo io.»
«E cioè?»
«Che non ti deluderà mai. Quel ragazzo ha un cuore grosso
così, e ti ama. E' questo che conta. Fidati di chi ha esperienza.
Mia madre diceva sempre che l'importante è sposare un uomo
che ti ama più di quanto l'ami tu.»
«Non è vero.»
«Sì, invece. E io le ho dato retta. Perché credi che io e Henry
andiamo tanto d'accordo? Non dico che non lo amo, ma se lo
lasciassi, o se, Dio non voglia, mi capitasse qualcosa, non credo
proprio che lui se la caverebbe da solo. E poi sarebbe pronto
a rischiare la vita per me senza pensarci su.»
«E tu pensi che anche Mike sia così?»
«Tesoro, ci puoi scommettere.»
Julie era di umore meditabondo quando uscì dal negozio alla
fine della giornata. Continuava a ripensare alle parole di Emma
sul fatto che Henry non sarebbe riuscito a rifarsi una vita,
se l'avesse perduta.
Quel pomeriggio aveva sentito la mancanza di Jim come non
le capitava da tempo. Forse dipendeva da quello che stava
succedendo
con Mike, si disse. Lei stava andando avanti, ma cominciava
a dubitare che Jim ci sarebbe riuscito, se si fossero
rovesciati i ruoli. Probabilmente sì, ma, in caso contrario, voleva
forse dire che lui l'aveva amata più di quanto avesse fatto
lei? E che cosa succederebbe, si chiedeva, se mi innamorassi
sul serio di Mike? Che cosa ne sarebbe dei miei sentimenti per
Jim? Dei ricordi che ancora mi legano a lui? Quegli interrogativi
l'avevano tormentata per ore, senza che riuscisse a trovare
il coraggio di affrontare le risposte. I suoi ricordi sarebbero
sbiaditi gradualmente, svanendo come vecchie fotografie?
Non lo sapeva. né capiva perché la prospettiva di rivedere
Mike quella sera la innervosisse tanto. Era più nervosa di quanto
le fosse capitato in occasione di tutti gli appuntamenti precedenti.
Perché?
Forse, pensò rispondendosi da sola, perché so che stavolta
è diverso.
Aprì la portiera della jeep e fece salire Singer, che balzò sul
sedile posteriore. Ma invece di dirigersi verso casa, seguì la via
principale per qualche isolato, poi girò a sinistra e proseguì verso
i sobborghi. Pochi minuti più tardi, dopo un'altra svolta, si
fermò al cimitero di Brookview.
La tomba di Jim era in cima alla collina, all'ombra di un noce.
Imboccò il vialetto che portava lì e, fatti pochi passi, Singer
si fermò sul posto ad aspettarla. Il cane non aveva mai voluto
avvicinarsi oltre. Nei primi tempi Julie si era chiesta perché,
ma poi era giunta alla conclusione che in qualche modo
capisse che voleva restare da sola.
Rimase in piedi davanti alla lapide, aspettando che emergessero
le emozioni. Fece un profondo respiro, in attesa delle
lacrime, che però non vennero. né avvertì l'oppressione che
provava sempre. Richiamò alla mente l'immagine di Jim, ripensò
ai tempi felici e, anche se i ricordi giunsero con un vago
senso di tristezza e malinconia, fu come sentire i rintocchi di
una campana che riecheggiano in lontananza prima di svanire.
In uno stato di lieve torpore, guardò l'angelo scolpito sopra il
nome, quello che le ricordava sempre la lettera che aveva
accompagnato
l'arrivo di Singer.
E ora nel mio cuore desidero solo la tua felicità... Trova qualcuno
che ti renda felice... Il mondo s'illumina quando tu sorridi.
Lì, in piedi accanto alla tomba, comprese quello che Jim aveva
voluto dirle con le sue parole e, come la sera precedente, ebbe
l'improvvisa certezza che sarebbe stato contento per lei.
No, pensò, non ti dimenticherò. Mai. E nemmeno Mike.
Era anche questo a renderlo diverso, si disse.
Non si mosse finché le zanzare cominciarono a ronzarle intorno.
Una le si posò sulla mano e lei la schiacciò. Era contenta
di essere andata a trovare Jim, pensò, ma era il momento di
tornare a casa. Mike sarebbe passato a prenderla entro un'ora
e voleva farsi trovare pronta.
Un alito di vento agitò le foglie sopra la sua testa, scuotendole
come ciottoli trascinati dalle onde. Dopo un attimo il vento
cessò all'improvviso. Ma il silenzio era rotto: dalla strada giunsero
il rombo di una macchina e la voce di un bambino, e poi
il rumore di qualcosa che grattava contro il tronco di un albero
poco distante. Un pettirosso spiccò il volo dai rami e, voltando
la testa, vide Singer che aveva drizzato le orecchie, in
ascolto. Ma il cane era immobile e Julie non scorse niente. Aggrottò
la fronte incrociando le braccia sul petto, poi si girò e cominciò
a scendere la collina, rabbrividendo leggermente.
20.
Mike arrivò in perfetto orario e Julie si chiuse la porta di casa
alle spalle prima che Singer potesse uscire. Notando che lui
era in giacca e pantaloni eleganti, sorrise.
«Uau», esclamò, «Sono due sere di fila che sei tutto in tiro.
Mi ci vorrà un po' per abituarmi.»
Avrebbe potuto dire lo stesso di sé. Come la sera prima, indossava
un abito estivo che le accarezzava la figura. Si era messa
dei cerchietti d'oro alle orecchie e Mike avvertì una leggera
traccia di profumo.
«E' troppo?» le chiese.
«Niente affatto», lo tranquillizzò lei. Gli toccò il bavero della
giacca. «Mi piace... è nuova?»
«No, ce l'ho da un po'», rispose lui. «Solo che non la porto
spesso.»
«Invece dovresti. Ti sta molto bene.»
Mike girò le spalle e indicò verso il furgone prima che lei potesse
aggiungere altro.
«Bene... sei pronta?»
«Quando vuoi.»
Mentre si incamminavano, Julie lo prese per un braccio.
«Niente cerotti?»
«Li ho tolti. Le dita stanno meglio.»
«Di già?»
«Che posso dire, guarisco in fretta.»
In piedi sulla veranda, lo fissò severa come una maestra che
ordina a uno scolaro di sputare la cicca. Obbediente, Mike le
mostrò le mani.
«A me sembrano ancora rosse.» Tacque un istante, poi lo
guardò con un'espressione incuriosita. «Si può sapere con che
cosa le hai strofinate? Devi averle scorticate a sangue.»
«Adesso non sanguinano più.»
«Mio Dio», disse lei. «Se lo avessi saputo, non avrei mai fatto
commenti in proposito. Ma credo di avere una medicina che
potrà darti un po' di sollievo.»
«Quale?»
Guardandolo negli occhi, Julie si portò la sua mano alla bocca
e gli baciò la punta delle dita.
«Ecco. Come va?» chiese sorridendo.
Mike si schiarì la gola. Era come stare attaccato a un cavo
elettrico, pensò. Oppure entrare in una galleria del vento. O
buttarsi giù da una ripida montagna con gli sci.
«Meglio», riuscì a rispondere.
Cenarono al Landing, un ristorante in riva al mare nel centro
di Beaufort. Come la sera prima, scelsero un tavolo sulla
terrazza, da dove potevano osservare le barche entrare e uscire
dal porticciolo turistico. Il lungomare era affollato di coppiette
e famiglie a passeggio con gelati e sacchetti di dolciumi.
Julie si posò il tovagliolo in grembo e si chinò in avanti.
«Ottima scelta, Mike», disse. «Questo posto è bellissimo.»
«Mi fa piacere», rispose lui sollevato. «Anche a me piace
molto, ma in genere ci vengo a pranzo. Era da parecchio tempo
che non cenavo qui. Mi sarei sentito in imbarazzo a stare
seduto al tavolo da solo.»
«Avresti potuto invitare Henry.»
«Sì», rispose lui. «Ma preferivo di no.»
«Non ti piace uscire con tuo fratello?»
«Passiamo insieme tutta la giornata. Sarebbe come se tu uscissi
con Mabel.»
«A me piace uscire con Mabel.»
«Sì, perché lei non ti sfotte.»
Julie rise. Sembrava rilassata e radiosa, completamente a suo
agio in quell'ambiente.
«Com'è andato il pranzo con Emma?» le chiese.
«Benissimo. Abbiamo chiacchierato un sacco.»
«Anche con lei è facile parlare come con me?»
«Non esattamente. Con Emma posso parlare di argomenti
che con te non posso affrontare.»
«Ovvero di me?»
Gli lanciò un'occhiata ammiccante. «Esatto. Che gusto c'è
a uscire con qualcuno se poi non puoi raccontarlo agli altri?»
«E che cosa vi siete dette? Spero solo cose belle.»
«Non ti preoccupare. Abbiamo tessuto le tue lodi.»
Mike sorrise e prese il menu. «Che ne diresti di cominciare
con una bottiglia di vino? Io suggerirei uno Chardonnay KendallJackson.
Non è troppo forte e ha un delicato profumo di
legno di quercia.»
«Sono esterrefatta», rispose lei. «Non sapevo che fossi un
intenditore di vini.»
«Sono un uomo dai molti talenti», ammise lui facendola sorridere.
Cenarono con tutta calma, chiacchierando e ridendo, senza
badare al viavai di camerieri intorno a loro. Quando si alzarono,
il cielo brillava di stelle.
A quell'ora il lungomare era affollato da giovani che stavano
appoggiati alla ringhiera che dava verso l'oceano o riuniti
attorno ai tavolini dei bar. Poco più avanti, c'erano due ristoranti
all'aperto dove si suonava musica dal vivo. Il piccolo porto
era pieno di barche ormeggiate vicino, anche in terza o quarta
fila. Tra i vari equipaggi c'era uno scambio amichevole di risate,
birra e sigarette, mentre chi voleva scendere a terra era
costretto ad avventurose peripezie per saltare da un ponte all'altro.
Una volta fuori dal ristorante, Mike la prese per mano e insieme
cominciarono a passeggiare sulle assi consumate. Sentiva
il calore della mano di Julie irradiarsi per tutto il braccio, fino
ad avvolgergli il cuore.
Trascorsero ancora un'ora a vagare per Beaufort finché lei
sentì svanire anche l'ultima traccia di nervosismo. Mike la teneva
sempre per mano e di tanto in tanto le accarezzava il dorso
con il pollice. Si fermarono a comprare dei dolci, poi camminarono
senza scarpe sul prato del parco, alla ricerca di un
posto dove fermarsi a mangiarli. Quando tornarono sulla passeggiata,
le stelle avevano cambiato posizione in cielo ed era
sorta la luna. Le onde si infrangevano pigramente sulla massicciata
e una luce argentea si rifletteva sull'acqua. Entrarono
in un altro locale e si sedettero a un tavolo consunto sotto le
pale di un ventilatore che cigolava appeso al soffitto. Il cantante
sul palco fece un cenno di saluto a Mike, che ordinò birra
per sé e una Diet Coke per Julie.
Mentre ascoltavano la musica, lei pensava meravigliata a
quante cose fossero cambiate negli ultimi giorni. A quanto lei
fosse cambiata. E a tutto quello che sarebbe ancora cambiato
da quel momento in avanti.
Era buffo conoscere una persona da anni e scoprirne all'improvviso
nuovi aspetti, si disse. Nonostante la luce fioca,
notò le prime striature grigie sulle tempie di Mike e una sottile
cicatrice sotto la piega della palpebra. Fino a due giorni prima
gli era sembrato uguale a quando aveva vent'anni, mentre
adesso scorgeva le rughe sottili attorno alla bocca e agli occhi.
Il cantante attaccò un altro pezzo e Mike si chinò verso di
lei.
«Lo sapevi che Jim e io venivamo qui spesso, prima che tu
ti trasferissi in città?»
«Sì, me lo aveva raccontato. Diceva che ci venivate per rimorchiare.»
«E ti ha detto anche che eravamo proprio in questo locale
quando mi ha parlato di te per la prima volta?»
«Davvero?»
«Sì. Lui era appena tornato da Daytona e mi raccontò di una
ragazza che aveva conosciuto.»
«Che cosa ti disse?»
«Di averti offerto la colazione un paio di volte. E che eri carina.»
«Ero orribile.»
«Lui non la pensava così. Mi confidò che aveva promesso di
trovarti un lavoro e una sistemazione se avessi acconsentito a
venire qui.»
«E tu lo hai giudicato pazzo?»
«Senza dubbio. Soprattutto perché non la smetteva più di
parlare di te.»
«E allora che cosa hai pensato quando io ho accettato la sua
offerta?»
«Che eri pazza. Ma poi, ho pensato che eri coraggiosa.»
«Non ci credo.»
«Sì, invece. Ci vuole fegato a cambiare vita come hai fatto
tu.»
«Non avevo scelta.»
«C'è sempre una scelta. Solo che certe persone fanno quella
sbagliata.»
«Ehi, come siamo filosofi stasera.»
«Mi capita a volte, dopo qualche birra.»
La musica tacque. Il cantante scese dal palco e li raggiunse
per bisbigliare qualcosa all'orecchio di Mike.
Julie si chinò in avanti. «Che succede?» chiese.
Il cantante la guardò. «Oh, ciao. Scusa se vi ho interrotto.
Io mi prendo una pausa e volevo sapere se Mike aveva voglia
di suonare un paio di pezzi al mio posto», disse.
Mike fissò il palco per qualche istante, poi scrollò la testa.
«Mi piacerebbe, ma sono venuto qui con lei», disse.
«Vai pure», lo spronò Julie. «Per me va bene.»
«Sicura che non ti dispiaccia?»
«Niente affatto. E poi si vede che muori dalla voglia di suonare.»
Mike le rivolse un sorriso smagliante e posò la birra sul tavolo;
un minuto dopo aveva la chitarra a tracolla e la stava accordando.
Guardò Julie, poi le strizzò l'occhio e partì con i primi accordi. Il
pubblico impiegò solo un istante a riconoscere la canzone. Dapprima
ci furono applausi e urla, con qualche fischio; poi quasi tutti
cominciarono ad agitare i bicchieri a tempo con la musica e a
cantare. Mike aveva scelto American Pie, un pezzo popolare e molto
orecchiabile che piaceva sempre al pubblico locale.
La sua voce era tipicamente stonata, si disse Julie, ma con
tutta quella folla non aveva importanza, e così anche lei si mise
a cantare e a ondeggiare assieme agli altri.
Quando ebbe finito, Mike posò la chitarra mentre il pubblico
applaudiva calorosamente e tornò al tavolo, rivolgendo
occhiate del tipo è-stato-un-gioco-da-ragazzi a quanti gli davano
pacche sulle spalle. Lei lo guardò con un misto di sincera
ammirazione e piacere.
Era riuscito a rendere ancora più bella una serata già stupenda,
pensò.
Un po' più tardi, quando si alzarono per andarsene, il barista
li informò che le loro consumazioni erano già state pagate.
«Uno dei tuoi ammiratori, Mike», disse.
Durante il tragitto di ritorno Julie era serena. Mike l'accompagnò
alla porta e, quando si voltò a guardarlo, capì dalla
sua espressione che avrebbe voluto baciarla, ma che esitava,
dopo quello che era successo la sera prima. Lo fissò intensamente,
per dargli il segnale di via libera, ma lui non se ne accorse.
«Senti, è stata una magnifica serata...»
«Vuoi entrare?» chiese allora Julie, interrompendolo. «Può
darsi che trasmettano qualche vecchio film che potremmo vedere
insieme.»
«Sei sicura che non sia troppo tardi?»
«Per me no. Ma se tu preferisci...»
«No, no, va benissimo.»
Julie aprì la porta e subito Singer, che era lì ad aspettarli,
uscì agitando in aria la coda. Puntò il naso per aria e abbaiò
una volta, quindi cominciò ad annusare in giro in cerca di insetti
da cacciare. Un minuto più tardi era sparito tra gli alberi.
Mike si tolse la giacca e l'appoggiò alla spalliera della poltrona
mentre Julie andava in cucina a prendere dell'acqua.
Quando lei tornò in salotto, lo trovò ancora lì in piedi e gli indicò
il divano. Si sedettero vicini, ma senza toccarsi, e Julie prese
il telecomando. Purtroppo non c'erano in programma vecchi
film, però si divertirono ugualmente a guardare la replica
di uno sceneggiato comico.
Dopo circa un'ora, Singer abbaiò da fuori per annunciare il
suo ritorno e Julie sbadigliò.
«Sarà meglio che vada adesso. Vedo che sei stanca», disse
Mike alzandosi dal divano.
«Ti accompagno», rispose lei.
Mike aprì la porta d'ingresso e fece entrare Singer.
Mentre lo osservava infilarsi il giaccone sulla soglia, Julie venne
di nuovo colpita dal pensiero che loro due erano stati grandi
amici per anni. Valeva la pena di rischiare di rovinare quell'amicizia?
Non ne era troppo sicura.
E baciare Mike sarebbe stato come baciare un fratello? Non
sapeva nemmeno quello.
Ma come un giocatore davanti a una slot-machine, animato
dalla speranza che il tiro successivo possa cambiare la sua vita,
scacciò i dubbi e partì all'attacco. Si avvicinò, gli prese la mano
e lo attirò a sé, tanto da sentire il suo corpo contro il proprio.
Poi lo guardò, piegando leggermente la testa. Mike finalmente
capì che cosa stava per succedere, ma era ancora incredulo
mentre chinava il capo socchiudendo gli occhi.
Sulla veranda le falene svolazzavano intorno alla lampada,
sbattendoci contro come a voler rompere il vetro. Una civetta
chiamò da un albero poco distante.
Mike, tuttavia, non si accorgeva di niente. Perso nel loro tenero
bacio, sapeva una cosa sola con certezza: nel momento in
cui le loro labbra erano entrate in contatto, si era sentito attraversare
da una scossa elettrica che lo aveva convinto che
quell'emozione sarebbe durata per sempre.
Niente male, pensò Julie. Anzi, meglio di quanto si aspettasse.
E decisamente non come baciare un fratello.
Stava ancora lì a pensarci dopo che lo aveva udito mettere
in moto il furgone e allontanarsi. Con un sorriso sulle labbra,
allungò la mano per spegnere la luce della veranda quando si
accorse dell'espressione di Singer.
La fissava, il muso piegato di lato, le orecchie dritte, come
a chiedere: E' successo proprio quello che ho visto?
«E allora?» disse lei. «Ci siamo baciati.» Prese i bicchieri dal
tavolino, innervosita. Per qualche motivo, si sentiva come una
ragazzina colta in fallo da un genitore.
«Non è la prima volta che mi vedi baciare qualcuno», proseguì.
Singer continuava a guardarla.
«Non è niente di straordinario», concluse, dirigendosi in cucina.
Infilò i bicchieri nella lavastoviglie e accese la luce sopra
il lavandino. Quando fece per voltarsi, scorse un'ombra che incombeva
dietro di lei e trasalì.
Il cane l'aveva seguita in cucina e si era seduto vicino al bancone,
sempre con la stessa espressione. Julie si mise le mani sui
fianchi. «Vuoi smetterla di fissarmi? E piantala anche di tallonarmi.
Mi hai fatto spaventare.»
A quelle parole Singer si decise a distogliere lo sguardo.
Così va meglio, pensò lei. Prese una spugna, la bagnò sotto
il rubinetto e cominciò a pulire il bancone, ma poi cambiò idea
e decise di lasciar perdere. Gettò la spugna nel lavandino e andò
in camera da letto, ripercorrendo mentalmente le scene di quella
sera.
Tutto sommato, Mike sapeva baciare proprio bene, concluse,
sentendosi arrossire.
Presa dai propri pensieri, non fece caso al fascio di luce dei
fari di un'auto che passava per la via, solitamente deserta, rallentando
davanti a casa sua.
«Sei sveglio?» chiese Julie al telefono il mattino seguente.
Mike si divincolò tra le lenzuola e si mise a sedere sul letto
quando riconobbe la sua voce. «Adesso sì.»
«Allora muoviti. Chi dorme non piglia pesci», disse lei. «Sull'attenti,
soldato.»
Lui si strofinò gli occhi. Accidenti, Julie era arzilla come se
fosse in piedi già da ore, pensò. «Ma di che stai parlando?»
«Il fine settimana. Che cosa hai in programma?»
«Niente, perché?»
«Allora alzati e vestiti. Pensavo che potremmo andare al mare.
La giornata promette bene. Magari portiamo Singer a correre
un po'. Che te ne pare?»
Trascorsero la giornata a camminare a piedi scalzi sulla sabbia
bianca, a lanciare il frisbee a Singer e a guardare le onde
sdraiati sugli asciugamani. Per pranzo comprarono una pizza
e rimasero al mare fino al tramonto, poi cenarono insieme. Dopo
il ristorante decisero di andare al cinema: Mike fece scegliere
a Julie, senza protestare quando si accorse che era un film
da donne. E quando lei, verso la metà della proiezione, gli si
strinse contro con le lacrime agli occhi in cerca di conforto,
ogni sua riserva sulla pellicola crollò.
Era molto tardi. Tornarono a casa e di nuovo si baciarono
sulla veranda, questa volta un po' più a lungo. Per Julie fu meglio
ancora della prima volta; per Mike, ciò non era né possibile
né necessario.
La domenica rimasero a casa di lei. Mike tosò il prato, potò
le siepi e l'aiutò a piantare fiori nell'aiola. Quindi sistemò tutti
quei lavoretti domestici che restano in sospeso in una casa
vecchia: sostituire i chiodi che si erano staccati nelle assi del
pavimento, oliare le serrature, appendere la nuova lampada per
il bagno acquistata mesi prima.
Julie lo osservava lavorare, notando ancora una volta quanto
stesse bene in jeans e come emanasse sicurezza quand'era
impegnato in lavori manuali. Lo baciò mentre era intento a
martellare e l'espressione sul suo viso le fece capire esattamente
i suoi sentimenti per lei. Quello che una volta le provocava imbarazzo
adesso era la reazione che bramava.
Quando lui se ne andò, richiuse la porta e ci si appoggiò a
occhi chiusi. Sono in paradiso, pensò, in preda alla stessa identica
emozione che Mike aveva provato due sere prima.
21.
Era il martedì successivo e dopo una giornata di lavoro molto
intensa - Andrea non si era presentata per l'ennesima volta
- Julie stava facendo la spesa al supermercato. Mike si era offerto
di preparare la cena, lasciandole la lista degli ingredienti
da acquistare. E sebbene non ne fosse particolarmente entusiasta,
dubitava del risultato di una ricetta a base di patatine
fritte e cetriolini sottaceto, aveva deciso di dargli fiducia.
Stava per dirigersi alla cassa, quando si ricordò di aver dimenticato
una cosa. Passò in rassegna il reparto delle spezie,
in cerca della cipolla liofilizzata, ma il suo carrello si
fermò di colpo andando a sbattere contro le gambe di un altro
cliente.
«Mi scusi», disse automaticamente. «Non l'avevo vista...»
«Non importa...» rispose l'uomo. Quando si girò, Julie
sgranò gli occhi.
«Richard?»
«Oh, ciao», fece lui a voce bassa. «Come stai?»
«Bene», disse lei. «E tu?» Non lo vedeva dalla mattina in cui
era andato via da casa sua e lo trovò un po' trasandato.
«Si tira avanti. E' stata dura. Ho dovuto occuparmi di un sacco
di incombenze. Ma sai come vanno queste cose.»
«Certo. Come sta la tua mano, a proposito?»
«Meglio. C'è ancora il segno, ma non è niente di grave.» Poi,
come se l'accenno alla mano gli avesse riportato alla mente i ricordi
di quella notte, abbassò lo sguardo. «Senti, voglio scusarmi
ancora per il mio comportamento della settimana scorsa.
Non avevo il diritto di arrabbiarmi così.»
«Non importa.»
«E voglio anche ringraziarti di avermi ascoltato. Poche persone
si sarebbero dimostrate altrettanto disponibili.»
«Ma figurati...»
«No, davvero», insistette lui. «Non so che cosa avrei fatto
senza di te. Ero piuttosto giù quella sera.»
Julie scrollò le spalle.
«Bene...» disse Richard come andando alla ricerca di qualche
altro argomento. Si sistemò il cestino sul braccio. «Ti prego,
non prenderla nel modo sbagliato, ma sei uno schianto.»
Lo aveva detto come avrebbe fatto un amico, senza implicazioni,
e lei sorrise.
«Grazie», rispose.
Una donna si stava avvicinando con il carrello e loro due si
fecero da parte per lasciarla passare.
«Insomma», aggiunse Richard, «vorrei sdebitarmi con te per
essere stata tanto paziente l'altra notte.»
«Non mi devi niente.»
«Però vorrei dimostrarti lo stesso la mia riconoscenza. Forse
potremo cenare insieme?»
Lei non rispose subito e Richard, notando la sua esitazione,
proseguì. «Una cena soltanto... e nient'altro. Nessun risvolto
sentimentale. Te lo prometto.»
Julie girò la testa di lato, poi tornò a guardarlo.
«Non credo che sia il caso», disse. «Mi spiace.»
«Non importa. Io ci ho provato.» Richard sorrise. «Allora
niente rancori per l'altra sera, giusto?»
«No, niente rancori», ripeté lei.
«Bene.» Si allontanò di un passo. «Devo comprare ancora
qualcosa. Ci si vede, d'accordo?»
«Certo.»
«Ciao.»
«Ciao, Richard.»
«Ripetimi un po' come si chiamano questi?» chiese Julie.
Mike era ai fornelli nel suo appartamento e seguiva la cottura
della carne di manzo che sfrigolava in padella.
«Medaglioni alla creola.»
«E' una ricetta tradizionale creola?»
«Sì», rispose lui. «Secondo te perché ti ho chiesto questi due
barattoli di zuppa? E' quello che gli da il sapore autentico.»
Soltanto Mike poteva considerare la zuppa di pollo Campbell's
come autentica cucina creola, pensò lei.
Quando la carne fu cotta, lui ci versò la zuppa, quindi aggiunse
un po' di ketchup e di senape e mescolò il tutto. Julie
stava appoggiata al suo fianco e osservava l'intingolo con espressione
disgustata.
«E' incredibile quello che riescono a cucinare gli scapoli.»
«Si, si. Adesso mi prendi in giro, ma sentirai tra un po'. Ti
sembrerà di essere in paradiso.»
«Ne sono sicura.»
Le diede una spinta con il fianco, fingendosi offeso, e sentì
il suo corpo muoversi armoniosamente.
«Ti ha mai detto nessuno che ogni tanto hai una spiccata
tendenza al sarcasmo?»
«Un paio di volte. Ma credo che sia stato tu a farlo.»
«Ho sempre saputo di essere un ragazzo sveglio.»
«Non lo dubito», replicò lei, «ma quello che mi preoccupa
è la tua cucina, e non il tuo cervello».
Quindici minuti più tardi, erano seduti a tavola e Julie fissava
il piatto.
«Sembra polpettone in brodo», dichiarò.
«No», protestò lui, «è carne alla creola. Sentirai il marcato
aroma della Louisiana.»
«Che è il tuo preferito.»
«Esatto. E non dimenticare di mangiarci insieme anche il cetriolo.
Sarà un'esperienza mistica.»
Julie si guardò in giro nel piccolo appartamento, per prendere
tempo. Sebbene i mobili fossero abbastanza passabili, disseminati
ovunque c'erano chiari indizi che Mike era un uomo
che abitava da solo. Per esempio, le scarpe da tennis in un angolo
del salotto accanto alla chitarra. E poi la pila di vestiti non
piegati sbattuti sul letto. L'enorme televisore con sopra una collezione
di bottiglie di birra d'importazione. E il bersaglio per
freccette attaccato alla porta d'ingresso.
Si chinò in avanti, attirando la sua attenzione. «Hai creato
un ambiente davvero delizioso stasera. Basta una candela e mi
sentirò a Parigi.»
«Sul serio? Credo di averne una», rispose lui.
Si alzò da tavola, aprì un cassetto e un attimo dopo una candela
accesa era sul tavolo in mezzo a loro. Mike tornò a sedersi.
«Meglio?»
«Come il dormitorio di un college.»
«A Parigi?»
«Mmm... forse mi sbagliavo. Sa più di... Omaha.»
Lui rise. «Allora hai intenzione di assaggiare la mia ricetta,
oppure ti spaventa?»
«No, l'assaggerò. Ma mi stavo pregustando il piacere.»
Lui indicò il suo piatto. «Bene. Allora pensa a un modo carino
per scusarti con il cuoco.»
Julie prese un pezzetto di carne e se lo mise in bocca. Mike
la osservò mentre cercava di assorbirne il sapore.
«Non male», disse lei dopo aver deglutito.
«Non male?»
Julie guardò il piatto con una traccia di sorpresa sul viso. «A
dire il vero è gustoso.»
«Te l'avevo detto. Il segreto sta tutto nella zuppa di pollo.»
Lei addentò il cetriolo e gli strizzò l'occhio. «Cercherò di ricordarmelo.»
Mercoledì toccò a Julie preparare la cena. Cucinò sogliola
ripiena di polpa di granchio con verdure saltate, il tutto accompagnato
da una bottiglia di Sauvignon Blanc. Mike apprezzò
la ricetta, dicendo che a suo parere era raffinata quasi
come i medaglioni alla creola. Il giovedì si incontrarono per
pranzo aH' Emerald Isle e poi andarono a passeggiare in riva al
mare. A un certo punto Singer li bloccò sulla spiaggia con la
sua mole, deponendo ai loro piedi un bastone e guardando
Mike come per dire: Dai, fammi vedere che cosa sai fare.
«Vuole che tu gli tiri il bastone», disse Julie. «Secondo lui io
non sono capace di lanciarlo abbastanza lontano.»
«Perché sei una ragazza.»
Lei gli diede una gomitata. «Stai attento, sai. Da qualche parte
qui dentro c'è una femminista che si offende per affermazioni
del genere.»
«Le femministe si offendono per tutto ciò che gli uomini sanno
fare meglio di loro.»
Si allontanò prima di ricevere un'altra gomitata e afferrò il
bastone. Si tolse scarpe e calze e si arrotolò i pantaloni, quindi
entrò di corsa in acqua fino a metà gamba. Teneva il bastone
davanti a sé e Singer lo fissava come se fosse una bistecca
succulenta.
«Pronto?» gli chiese Mike.
Portò il bastone dietro le spalle e tirò più forte che poté. Singer
caracollò tra le onde.
Julie si mise seduta sulla sabbia, abbracciandosi le ginocchia.
Faceva fresco; il cielo era solcato da batuffoli di nuvole bianche
che coprivano il sole. Diverse starne volavano rasenti alle
onde in cerca di cibo, muovendo a scatti la testa appuntita.
Singer tornò a riva saltellando con il bastone in bocca e si
scrollò via l'acqua dal pelo, infradiciando Mike. Lui afferrò il
bastone e lo tirò di nuovo, poi si voltò verso di lei, con la maglietta
appiccicata alla pelle. Julie ammirò le sue braccia possenti
e il torso muscoloso. Bello, pensò, molto bello.
«Facciamo qualcosa domani sera?» le gridò Mike.
Lei annuì. Stringendosi di più le ginocchia, li guardò continuare
a giocare. In lontananza, un peschereccio si avviava al
largo, per gettare le reti. Il faro di Cape Lookout lampeggiava
a distanza. Avvertì la brezza salmastra accarezzarle la pelle e si
chiese perché mai avesse avuto dei dubbi.
«Il minigolf?» chiese lei, mentre parcheggiavano il furgone
la sera seguente. Portava un paio di jeans, come Mike, che le
aveva detto di vestirsi sportiva. E adesso ne capiva il motivo.
«E' quello che vuoi fare stasera?»
«Non solo. Ci aspettano anche i videogame. E il minibasket.»
«Oooh», fece lei, «sono entusiasta.»
«Ha! E' solo perché sai di non potermi battere», sbuffò Mike.
«Eccome, se posso batterti. Sono un fenomeno in queste
cose.»
«Lo vedremo subito.»
Lei annuì con un lampo di sfida negli occhi. «D'accordo.»
Scesero dal furgone e si avviarono verso il chiosco per prendere
le mazze. «Azzurro e rosa», disse lui, indicando il colore
delle palline da golf. «Io e te. Maschio e femmina.»
«Tu quale scegli?» chiese lei con finta innocenza.
«Spiritosa. Continua così e sarò spietato», l'ammonì.
«Ci sto.»
Pochi istanti dopo, giunsero alla prima buca.
«L'età ha la precedenza sulla bellezza», disse lei, facendogli
segno di cominciare.
Mike le lanciò un'occhiata di finta offesa, poi sistemò la pallina.
La prima postazione prevedeva che la pallina passasse attraverso
un piccolo mulino a vento e poi scendesse verso la buca.
Si mise in posizione prendendo la mira.
«Guarda e impara», disse.
«Stai zitto e tira.»
Lui colpì la palla, che entrò nell'apertura del mulino e rotolò
fuori dall'altra parte, fermandosi a pochi centimetri dalla
buca. «Visto? E' facile.»
«Spostati. Ti faccio vedere io come si fa.»
Julie posò a terra la pallina e la tirò, mandandola a sbattere
contro le pale del mulino che la fecero rimbalzare indietro.
«Mmmm.... quanto mi dispiace», disse Mike scrollando la testa.
«Che peccato.»
«Era solo una prova.»
Prendendo la mira con maggiore attenzione, Julie tirò di nuovo
e questa volta la palla infilò il passaggio del mulino, rotolò
dall'altra parte e scomparve direttamente nella buca.
«Bel tiro», concesse Mike. «Ma è solo fortuna.»
Lei lo colpì con la mazza. «Fa tutto parte del piano, cosa credi?»
Richard era seduto sul letto nella sua stanza buia, con la
schiena appoggiata alla testiera. Aveva chiuso le tende e l'unica
luce era quella della candela sul comodino. Impastando tra
le dita un pezzo di cera, pensava a Julie.
Era stata abbastanza cordiale al supermercato, anche se era
chiaro che quell'incontro l'aveva contrariata. Scrollò la testa,
chiedendosi perché avesse cercato di nasconderlo. Era inutile,
pensò, dato che per certi versi la conosceva addirittura meglio
di lei stessa. Per esempio sapeva che in quel momento era assieme
a Mike, in cui vedeva una rassicurante fonte di conforto.
Aveva paura delle novità, mentre lui avrebbe voluto che si accorgesse
di quello che poteva riservarle il futuro, che era molto
di più, per entrambi. Non si rendeva conto che, se rimaneva lì,
Mike l'avrebbe trascinata a fondo? Che i suoi amici prima o poi
l'avrebbero delusa? E' quello che accade quando lasci che sia la
paura a guidare le tue decisioni, si disse.
Lo aveva imparato per esperienza diretta. Aveva disprezzato
suo padre, come Julie disprezzava gli uomini che erano entrati
e usciti dalla sua vita. Lui odiava la madre per la sua debolezza,
esattamente come Julie odiava la propria per lo stesso
motivo. Ma lei stava cercando di fare pace con il passato,
tentando di riviverlo, considerò. La paura la stava conducendo
verso l'illusione della consolazione, che però sarebbe rimasta
tale. Non doveva finire come sua madre; la sua vita poteva
essere tutto ciò che voleva. Come per lui.
«Che fortuna!» esclamò Mike un'altra volta. A metà del percorso
il punteggio era di parità, fino all'ultimo tiro di Julie, che
era rimbalzato sul muro finendo in buca. Lei si chinò a recuperare
la palla.
«Com'è che per me è sempre fortuna, mentre per te è abilità?»
chiese.
Mike stava ancora osservando la traiettoria seguita dalla pallina.
«Perché è così! Non è possibile che tu abbia pianificato
un tiro del genere.»
«Sbaglio o stai diventando nervoso?»
«Non è vero.»
Imitando il suo gesto di prima, lei si strofinò le unghie sulla
maglietta e sospirò. «Dovresti. Non ti piacerà essere battuto
da una ragazza.»
«Non mi batterai.»
«Scusa, qual è il punteggio?»
Lui infilò il cartoncino dei punti e la matita nella tasca posteriore
dei jeans.
«Non ha importanza adesso. Quello che conta è il punteggio
finale», dichiarò avviandosi verso la buca successiva.
Julie lo seguì ridacchiando tra sé.
Richard respirò più lentamente, concentrandosi ancora sull'immagine
di Julie. Anche se adesso era confusa, sapeva che
era diversa dalle altre persone. Era speciale, migliore, come lui.
Era stata la segreta consapevolezza della propria unicità a
sostenerlo negli anni difficili dell'adolescenza, in cui era passato
da una famiglia adottiva all'altra, ricordò. A parte pochi
articoli di vestiario, gli unici oggetti che possedeva erano una
macchina fotografica rubata a un vicino e una scatola con le
sue fotografie.
Chiuse gli occhi, tornando con la mente a quel periodo.
I primi genitori adottivi erano abbastanza gentili, ma lui li
ignorava quasi del tutto. Andava e veniva a suo piacimento,
considerava quella casa solo un posto dove trovare da mangiare
e un letto per dormire. Come succede spesso nelle famiglie
che prendono bambini in affido, divideva la stanza con due ragazzi
più grandi. Erano stati loro a rubargli la macchina fotografica,
per rivenderla al monte dei pegni e comprarsi le sigarette.
Quando lui li affrontò, stavano giocando nel giardino di
una casa abbandonata vicina alla loro. Per terra c'era una mazza
da baseball e si chinò ad afferrarla. All'inizio i due si erano
messi a ridere, perché erano più alti e più forti. Alla fine,
però, vennero portati via con l'ambulanza, avevano la testa
fracassata e la faccia devastata dai colpi ricevuti. L'assistente
sociale decise allora di mandarlo in riformatorio. Venne a prenderlo
quel giorno stesso con i poliziotti, dopo che i genitori
affidatari lo avevano denunciato. Fu condotto in commissariato,
dove si sedette nello stanzino degli interrogatori di fronte
a un uomo corpulento che si chiamava Dugan.
L'agente Dugan, con le guance butterate e il naso bitorzoluto,
parlava con una specie di ansito. Sporgendosi in avanti,
gli disse che aveva ferito gravemente i due ragazzi e che avrebbe
passato diversi anni chiuso in carcere. Ma lui non si lasciò
intimorire, come non aveva avuto paura quando i poliziotti erano
andati a casa sua dopo la morte del padre. Chinò la testa e
scoppiò a piangere.
«Non volevo farlo...» singhiozzò sottovoce. «Loro mi hanno
rubato la macchina fotografica e, quando io gli ho detto che
lo avrei riferito all'assistente sociale, hanno tentato di uccidermi.
Avevo paura, uno di loro mi ha aggredito... con un coltello.»
Alzò la maglia e Dugan vide il sangue sulla pelle.
Venne portato all'ospedale perché aveva una ferita da taglio
al basso ventre. All'ultimo momento era riuscito a divincolarsi
dalla loro presa, spiegò, e si era difeso con la mazza da baseball
che aveva trovato per terra. Dugan rintracciò il coltello
sul tetto del magazzino, proprio dove Richard aveva affermato
di averlo visto lanciare da uno dei ragazzi.
I due finirono in riformatorio al posto suo, anche se continuavano
a negare di averlo accoltellato. Ma l'uomo del banco
dei pegni confermò che gli avevano portato la macchina fotografica,
e nessuno credette alle loro proteste. Dopo tutto c'erano
già dei precedenti penali.
Anni dopo, Richard ne aveva rivisto uno nel quartiere, sul
lato opposto della strada. Ormai era diventato un uomo grande
e grosso, ma scorgendolo si era bloccato per la paura; lui gli
aveva sorriso, continuando a camminare tranquillo mentre pensava
sdegnosamente alla facilità con cui tanto tempo prima si
era inferto quella coltellata.
Richard aprì gli occhi. Sì, sapeva per esperienza che tutte le
difficoltà potevano essere superate. A Julie serviva solo la persona
giusta per aiutarla, concluse. Insieme, sarebbero riusciti a
raggiungere qualunque obiettivo, ma lei prima doveva capire.
Arrivare ad accettare quello che aveva da offrirle.
Era chiedere troppo?
«Qual è il punteggio adesso?» chiese Julie.
Erano quasi arrivati al traguardo e Mike si era fatto serio.
Era indietro di un lancio; il suo primo tiro aveva deviato dalla
traiettoria e la pallina si era fermata vicino a una roccia sporgente.
Da lì sarebbe stato impossibile andare in buca. Si asciugò
la fronte, ignorando il sorriso trionfante sul viso di lei.
«Forse sei in vantaggio tu», disse. «Ma non è ancora detta
l'ultima parola.»
«D'accordo.»
«Potresti ancora perdere, sai.»
«Certo.»
«Non vorrai rovinare tutto proprio adesso, no?»
«Giusto.»
«Quindi, attenta a non commettere nemmeno il più piccolo
errore», concluse Mike.
«Mmm... Grazie del consiglio, allenatore.»
Julie posò la pallina e si mise in posizione, con lo sguardo
acceso che andava dalla palla alla buca e viceversa. Colpì con
decisione e la pallina rotolò fermandosi a un centimetro dalla
buca. Peccato non avere una macchina fotografica, pensò guardando
Mike; la sua espressione era impagabile.
«La vedo un po' male per te», osservò, girando il coltello
nella piaga. «Dovresti andare direttamente in buca per pareggiare,
ma da quella posizione non puoi farcela.»
Mike fissò la pallina, quindi alzò lo sguardo su di lei e scrollò
le spalle.
«Hai ragione», concesse. «E' finita.»
«Ha!»
Lui scosse la testa.
«Mi spiace doverlo dire, ma stasera non mi sono impegnato»,
dichiarò. «Ti ho lasciato vincere.»
Julie ebbe un attimo di esitazione, poi gli corse incontro con
la mazza alzata, mentre lui fingeva di voler scappare. Lo afferrò,
lo fece girare e lo strinse a sé.
«Hai persoooo», cantilenò. «Ammettilo.»
«No», rispose Mike guardandola negli occhi. «Ti sbagli. Forse
ho perso questa partita, ma ho vinto il campionato.»
«E come?»
Sorrise e si chinò a baciarla.
Richard si alzò dal letto e andò alla finestra. Le ombre della
notte si allungavano sul prato della casa, ammantandolo di
oscurità.
Al momento giusto avrebbe raccontato a Julie tutto di sé, rifletteva.
Le avrebbe parlato del padre e della madre, di quei
due ragazzi in affido, ed era sicuro che lei avrebbe capito perché
fosse stato costretto ad agire come aveva fatto. Le avrebbe
raccontato della signorina Higgins, l'assistente scolastica, che
aveva cominciato a nutrire un interesse speciale per lui al liceo,
quando aveva scoperto che era orfano.
Rammentava ancora il dialogo che avevano avuto seduti sul divano
nel suo ufficio. Forse da giovane era stata anche bella, ricordava
di aver pensato, ma ogni traccia di fascino in lei era svanita.
I suoi capelli avevano assunto una sfumatura indefinibile tra
il biondo spento e il grigio e, quando sorrideva, le rughe intorno
alla bocca le davano un'aria rinsecchita. Però aveva bisogno di
un'alleata. Aveva bisogno di qualcuno che garantisse per lui, che
dicesse che non era un aguzzino, bensì una vittima e la signorina
Higgins era perfetta. Tutto nel suo ufficio, nel suo atteggiamento,
dimostrava la volontà di apparire gentile e sollecita: il modo
in cui stava china in avanti con gli occhi tristi, annuendo ripetutamente
mentre le raccontava le terribili storie della sua infanzia.
Quel giorno la signorina Higgins si era commossa fino alle
lacrime.
Poi, nel giro di pochi mesi, era arrivata a considerarlo una
specie di figlio adottivo, e lui si era immedesimato bene nel ruolo.
Le aveva mandato un biglietto d'auguri per il compleanno
e lei gli aveva comprato un'altra macchina fotografica, una 35
mm che usava ancora adesso.
Richard era sempre stato bravo in scienze e matematica, ma
lei parlò con gli insegnanti di storia e di inglese, che cominciarono
a essere meno severi, e la sua media ebbe un'impennata
repentina. La donna informò il preside che il suo quoziente di
intelligenza era superiore alla media e fece pressioni affinché
fosse ammesso nei programmi per gli studenti dotati. Gli suggerì
di raccogliere in un album le sue migliori fotografie, per
dimostrare il suo talento, e pagò tutte le spese necessarie alla
realizzazione. Scrisse una lettera di raccomandazione all'università
del Massachusetts, la sua alma mater, dichiarando di non
aver mai visto un giovane tanto dotato. Si recò anche personalmente
nell'istituto per incontrare il comitato di ammissione
e intercedere per lui. Fece tutto il possibile e, quando venne a
sapere che i suoi sforzi erano stati ricompensati, dovette provare
una profonda soddisfazione.
Comunque non fu lui a darle la bella notizia, ricordò Richard.
Infatti, una volta ammesso all'università, non le aveva
più parlato. Lei gli era stata utile, ma a quel punto doveva guardare
avanti.
Allo stesso modo, anche Mike era stato utile a Julie, ma adesso
non lo era più, pensò. Si era dimostrato un buon amico, però
era ora di mandarlo per la sua strada, dato che rischiava di
soffocarla, di trattenerla, di impedirle di scegliere liberamente
il proprio futuro. Il loro futuro.
22.
Per Julie le giornate cominciarono a prendere un nuovo ritmo.
Tutte le mattine Mike usciva dall'officina per salutarla quando
passava per strada, poi pranzavano insieme in qualche locale
poco frequentato e trascorrevano pigramente la sera immersi
in lunghe e piacevoli conversazioni; lui stava diventando
una parte sempre più eccitante e importante della sua vita.
Procedevano ancora molto circospetti nel loro rapporto, come
se entrambi temessero che un gesto avventato della mano
potesse farlo svanire nell'aria come fumo. Mike non si era mai
fermato a dormire da Julie, né lei aveva pernottato a casa sua
e, anche se in un paio di occasioni si era presentata l'opportunità,
nessuno dei due sembrava ancora pronto a farlo.
Mentre passeggiava con Singer una sera dopo il lavoro, Julie
riconobbe con se stessa che ormai si trattava solo di una questione
di tempo. Era giovedì, due settimane dalla loro prima
uscita e, soprattutto, almeno una decina di giorni dal fatidico
terzo appuntamento che, secondo le riviste femminili, costituiva
lo spartiacque per passare la notte insieme. Avevano superato
quel traguardo senza accorgersene, si disse, anche se
non ne era sorpresa. Negli anni trascorsi dalla morte di Jim,
aveva provato «momenti di sensualità», come li chiamava lei,
ma era passato così tanto tempo dall'ultima volta che era stata
a letto con un uomo, che aveva finito per accettare il nubilato
come uno stile di vita permanente. Si era persino dimenticata
che cosa significasse desiderare che accadesse, ma adesso i suoi
ormoni si erano rimessi in moto e le era capitato più di una volta
di avere fantasie su Mike.
Questo non significava che fosse pronta a saltargli addosso.
No, così lo avrebbe terrorizzato, rifletté. E comunque anche lei
non si sarebbe sentita troppo disinvolta. Se affrontare il primo
bacio era stato tanto arduo, come sarebbe andato il passo
successivo?
«Oh», si immaginava di dirgli mentre gli stava davanti
in camera da letto, «questi rotolini? Scusa, sai, ma ultimamente
abbiamo mangiato fuori molto spesso. Abbassa le luci,
tesoro.»
Era anche possibile che la faccenda finisse in un fiasco completo,
e allora? Il sesso non era il lato più importante di un rapporto,
ma di sicuro non era all'ultimo posto, considerò. Temeva
che, quando fosse stato il momento, lo stress legato alla loro
prima volta insieme avrebbe tolto loro qualsiasi gioia. Dovrei
fare questo? Dovrei dire quello? Sarebbe stato come partecipare
a un quiz con domande impossibili, pensava lei, con
l'unica differenza che i concorrenti erano nudi.
Basta, si rimproverò, forse mi preoccupo troppo. Ma è quello
che succede quando sei stata con un uomo solo, che poi è diventato
anche tuo marito. E il naturale risvolto di una vita sentimentale
tranquilla, concluse, e in tutta sincerità, non voleva
più pensarci. Una passeggiata con il cane avrebbe dovuto essere
rilassante, e non agitarla al punto da farle sudare le mani.
Singer procedeva davanti a lei nel fitto bosco che confinava
con il canale navigabile e che entro un paio d'anni avrebbe lasciato
il posto a un nuovo quartiere residenziale. Il progetto era
già stato avviato e, sebbene il cambiamento avrebbe aumentato
il valore degli immobili circostanti, Julie rimpiangeva che volessero
abbattere tutti quegli alberi. Le piaceva la sensazione di
isolamento che il bosco intorno alla casa le dava, e poi era perfetto
per Singer. La prospettiva di doverlo seguire con paletta
e sacchetto, per non sporcare i prati all'inglese dei vicini, non
l'allettava affatto. L'idea già da sola le faceva venire la nausea,
per non parlare delle occhiate che le avrebbe lanciato Singer:
Ecco, ho fatto i miei bisognini vicino a quell'albero... vai a pulirli,
da brava.
Dopo un quarto d'ora di cammino raggiunse la riva del mare
e si sedette su un tronco d'albero, a osservare le barche che
passavano al largo. Non vedeva Singer, ma sapeva che era nei
paraggi; lungo il percorso si era girato indietro a intervalli regolari
per accertarsi che lo seguisse.
Era protettivo verso di lei. Come Mike, a modo suo.
Mike, pensò.
Lei e Mike insieme. Per davvero. In un attimo i suoi pensieri
erano tornati al punto di partenza, con tanto di mani sudate e
tutto il resto.
Un'ora più tardi, mentre si avvicinava a casa sua, Julie sentì
suonare il telefono. Corse dentro per rispondere, pensando che
fosse Emma. L'amica l'aveva chiamata spesso ultimamente, felice
e ansiosa di parlare di quanto stava succedendo con Mike.
E in realtà anche lei apprezzava le loro chiacchiere tra donne,
che la aiutavano a chiarirsi le idee.
Alzò la cornetta. «Pronto?»
Non ottenne risposta, anche se la linea sembrava aperta.
«Pronto?» ripeté.
Niente. riattaccò e fece entrare Singer. Nella fretta, gli aveva
sbattuto la porta sul muso. Un attimo dopo, il telefono suonò
di nuovo e lei si affrettò a rispondere.
Ancora silenzio, ma stavolta, prima di riagganciare, le parve
di sentire il lieve scatto della comunicazione che veniva interrotta
dall'altra parte.
«Come vanno le cose con Julie?» chiese Henry.
«Bene», rispose Mike, la testa infilata sotto il cofano di una
macchina. Nell'ultima settimana non aveva parlato molto con
il fratello perché non ne aveva avuto il tempo. L'estate era alle
porte e le richieste di condizionatori fioccavano da tutte le parti.
E poi, era così divertente tenersi per sé le informazioni che
lui agognava. Una volta tanto gli sembrava di essere in posizione
di vantaggio.
Henry lo guardò. «A giudicare dalla frequenza con cui vi vedete,
avrei sperato in qualcosa di meglio.»
«Sai com'è», disse Mike, continuando a lavorare. Prese una
chiave inglese e cercò di svitare i bulloni che bloccavano il radiatore.
«Veramente no.»
Evviva, c'è cascato!
«Come ti ho detto, va tutto bene. Puoi passarmi lo straccio?
Ho le mani scivolose.»
Henry ubbidì. «Ho sentito che avete cenato a casa tua qualche
giorno fa.»
«Sì», disse Mike.
«E?»
«E cosa?»
«Com'è andata?»
«Le è piaciuta la mia ricetta.»
«Tutto qui?»
«Che cosa vuoi che ti dica, Henry?»
«Secondo te, che cosa prova per te?»
«Credo di piacerle.»
Il fratello si stropicciò le mani. Adesso cominciavano a ragionare.
«Credi di piacerle?»
Mike indugiò apposta qualche secondo prima di rispondere,
sapendo che Henry voleva i particolari.
«Sì», disse, esultando tra sé sotto il cofano.
«Mmm...» fece Henry. Pensa di essere tanto furbo, ma ci
sono altri modi per ottenere informazioni, si disse. «Senti, mi
chiedevo se vi andava di venire in barca con noi il prossimo fine
settimana.»
«Il prossimo fine settimana?»
«Sì. Potremmo pescare, stare un po' in compagnia. Sarà divertente.»
«Ti farò sapere.»
Henry si risentì lievemente. Il fratellino si da un sacco di arie,
adesso, pensò. E incredibile l'effetto che può fare una ragazza.
«Mi raccomando, modera l'entusiasmo», brontolò.
«Ehi, non te la prendere. Volevo solo dire che prima devo
chiederlo a Julie.»
«Oh, certo», disse Henry. E in effetti era così.
Rimase accanto a Mike per un minuto ancora, e lui non si
degnò neppure di togliere la testa da sotto il cofano. Alla fine
tornò in ufficio pensando: d'accordo, adesso ti sistemo. Volevo
solo qualche informazione, e invece no, hai voluto fare il misterioso.
L'unico problema era che, trascorsi venti minuti, non gli veniva
in mente proprio niente. Gli piaceva sfottere, però non
aveva intenzione di guastare la festa al fratellino.
Forse era un po' sadico, ma certo non malvagio.
«Sai che ti dico, in questi giorni sei raggiante», commentò
Mabel.
«Non è vero. E' solo che ho preso un po' di sole ultimamente»,
ribatté Julie.
Erano in negozio e si stavano prendendo una pausa. Andrea
era impegnata in un taglio e parlava di politica con il cliente,
affermando che le piaceva l'attuale governatore perché aveva
«una pettinatura migliore di quell'altro tizio».
«Sai che non mi riferisco alla tua abbronzatura.»
Julie prese la scopa e cominciò a spazzare il pavimento intorno
a una poltrona.
«Sì, Mabel, lo so. Non sei proprio la persona più diplomatica
che conosca.»
«E perché dovrei sforzarmi di esserlo? E' molto più facile
parlare chiaramente.»
«Per te, forse. Noi mortali a volte siamo tormentati da interrogativi
del tipo: come riuscire simpatici agli altri.»
«Tesoro, non puoi preoccuparti di certe cose. La vita è troppo
breve. E poi, ti sono simpatica, giusto?»
«Certo che sei proprio unica.»
Mabel si chinò verso di lei. «Allora piantala di fare storie e
tira fuori le ultime novità.»
Un'ora più tardi, l'ultimo cliente di Andrea se n'era andato
lasciandole una generosa mancia che le sarebbe servita per l'acquisto
di un nuovo, miracoloso modello di reggiseno su cui aveva
messo gli occhi. Nelle ultime due settimane era giunta alla
conclusione che il suo problema era il petto, troppo piccolo
per attirare i tipi giusti, ma in quel modo vi avrebbe sicuramente
rimediato.
E le sarebbe servito anche per sentirsi un po' meglio con se
stessa. Da giorni e per tutta la mattinata Mabel e Julie non avevano
fatto altro che complottare tra loro come se stessero organizzando
una rapina in banca, ma era chiaro che stavano parlando
di Mike. E comunque era riuscita più o meno a capire
che cosa era successo. Julie lo aveva baciato? E allora, che c'era
di strano? si chiese. Lei baciava ragazzi da quando aveva
quattordici anni, ma quella sprovveduta sembrava convinta che
tutta la faccenda fosse romantica come in Pretty Woman.
E poi, considerò Andrea, la storia di Mike era assolutamente
ridicola. Mike o Richard? Ma dai, si disse, la scelta era semplice,
anche per una deficiente. Mike era carino, ma neanche
da paragonarsi a Richard, che trasudava fascino. E il piccolo
Mike? Dov'era il suo sex appeal? Certo che Julie era proprio
cieca come una talpa, quando si trattava di uomini.
Se non altro, pensava, dovrebbe parlarne con me. Le darei
qualche valido consiglio su come risistemare le cose con Richard.
Proprio in quel momento, il campanello sopra la porta tintinnò
e Andrea si girò, pensando: bene, parli del diavolo...
Per un momento il silenzio regnò sovrano nel negozio. Mabel
era fuori a fare una commissione e l'unica cliente stava giusto
per uscire. Voltandosi verso la porta, Julie aveva scorso all'improvviso
il riflesso del suo viso sulle lenti degli occhiali da
sole di Richard, avvertendo un acuto senso di disagio. Singer
si era drizzato a sedere sulla coperta.
«Richard...»
«Ciao, Julie. Come va?»
Non c'era motivo di essere sgarbati, pensò lei, ma non aveva
voglia di scambiare cordialità. Anche se non le dava fastidio
imbattersi in lui di tanto in tanto, dato che in quella piccola
città era inevitabile, non le andava di vederselo arrivare lì in negozio.
E non voleva fare nulla per incoraggiarlo.
«Che cosa c'è?» gli chiese.
Richard si tolse gli occhiali e sorrise. Poi parlò con voce dolce.
«Speravo che avessi il tempo di tagliarmi i capelli. Sono davvero
troppo lunghi.»
Chiedendosi se quello fosse l'unico motivo della sua venuta,
Julie studiò l'agenda, già sapendo che cosa vi avrebbe trovato.
Poi scrollò il capo.
«Mi spiace, ma non ho un attimo di tempo. C'è una cliente
tra poco e poi devo seguire una tinta.»
«Immagino che avrei dovuto fissare un appuntamento», disse
lui.
«A volte ho qualche buco tra un cliente e l'altro, ma oggi sono
proprio piena.»
«Capisco.» Richard distolse lo sguardo. «Già che mi trovo
qui, magari posso prenotare. Potrebbe andare lunedì?»
Lei sfogliò l'agenda, già sapendo che cosa vi avrebbe trovato.
«Sono già tutta prenotata. Il lunedì c'è sempre molto da fare.
E' la giornata delle clienti abituali.»
«Martedì?»
Questa volta lei non consultò l'agenda. «Lavoro solo mezza
giornata. Nel pomeriggio ho altri impegni.»
Richard chiuse lentamente gli occhi, poi li riaprì lanciandole
un'occhiata di sfida. Avvertendo la tensione tra loro, Andrea
si avvicinò.
«Sono libera, tesoro», disse. «Posso servirti io.»
Dopo qualche istante, l'uomo fece un passo indietro, senza
distogliere lo sguardo da Julie.
«Va bene», disse, «d'accordo.»
Andrea si lisciò la minigonna e lo precedette verso i lavatesta.
«Vieni, zuccherino. Prima facciamo uno shampoo.»
«Certo. Grazie, Andrea.»
Lei si voltò a guardarlo, scoccandogli il suo miglior sorriso.
Era eccitata dal modo in cui il suo nome suonava sulla bocca
di Richard.
«Che cosa è venuto a fare?» chiese Mike. Non appena aveva
visto Richard uscire dal negozio - tendeva a guardare verso
il salone tutte le volte che poteva - aveva attraversato la strada,
e Julie gli era andata incontro.
«A farsi tagliare i capelli.»
«Perché?»
«Veramente, è il nostro lavoro.»
Lui le lanciò un'occhiata d'impazienza e lei proseguì: «Dai,
non drammatizzare. Non gli ho quasi parlato. Lo ha servito Andrea,
non io.»
«Però lui voleva te, vero? Anche se avete rotto?»
«Non posso negarlo. Ma credo abbia capito che non intendo
più vederlo, nemmeno in negozio. Non sono stata maleducata,
ma sono sicura che ha recepito il messaggio.»
«Bene», disse Mike. Poi aggiunse: «Ha finalmente capito...
cioè, è al corrente che... sì, insomma, esci con me?»
Invece di rispondere, Julie gli prese la mano. «Lo sai che diventi
irresistibile quando sei geloso?»
«Non sono geloso.»
«Certo che sì. Ma non preoccuparti, io ti trovo sempre irresistibile.
Ci vediamo stasera?»
Per la prima volta da quando aveva scorto Richard, Mike cominciò
a rilassarsi. «Ci sarò», rispose.
Quando Julie rientrò in negozio pochi minuti dopo, notò
che Andrea aveva ancora le gote arrossate per il suo recente incontro
con Richard. Era la prima volta che la vedeva emozionata
a causa di un uomo. E buon per lei, si disse. Una volta tanto
quella ragazza si sarebbe meritata qualcuno con un lavoro
fisso, anche se sospettava che si sarebbe stancata presto di una
relazione seria.
Finì di lavorare poco dopo le cinque e cominciò a chiudere
il negozio. Andrea era andata via già da mezzora e Mabel stava
pulendo sul retro. Mentre riordinava il bancone, Julie notò
degli occhiali da sole appoggiati accanto al vaso con la pianta.
Li riconobbe subito e per un istante considerò l'idea di chiamare
Richard per avvisarlo, ma poi decise di no. Potevano pensarci
Mabel o Andrea. Era meglio così.
Julie era passata al supermercato a fare la spesa e stava appena
entrando in casa quando sentì squillare il telefono. Posò
il sacchetto sul tavolo e rispose.
«Pronto?»
«Ciao, Julie.» Il suo tono era disinvolto, amichevole, come
se si sentissero al telefono tutti i giorni. «Non sapevo se eri già
arrivata, ma sono felice di averti trovato. Mi è spiaciuto di non
poterti parlare, oggi.»
Lei chiuse gli occhi, pensando: adesso basta.
«Ciao, Richard», rispose freddamente.
«Come stai?»
«Bene, grazie.»
Avvertendo la sua impazienza, lui fece una pausa. «Immagino
che ti starai domandando perché ti ho telefonato.»
«Più o meno.»
«Mi chiedevo se per caso avessi trovato un paio di occhiali
da sole. Forse li ho dimenticati in negozio.»
«Sì, sono lì. Li ho lasciati sul bancone. Puoi andare a prenderli
lunedì.»
«Il sabato non siete aperti?»
«No. Secondo Mabel non bisogna lavorare nel fine settimana.»
«Oh.» Sospirò. «Senti, visto che devo andare fuori città, speravo
di poterli recuperare prima. Non potresti aprirmi il negozio
stasera? Ci vorrà solo un minuto. Li prendo e me ne vado.»
Julie rimase muta con la cornetta premuta sull'orecchio, pensando:
stai scherzando, vero? So che li hai lasciati lì apposta
per avere un pretesto per chiamarmi.
«Julie? Ci sei ancora?»
Lei sbuffò apertamente, non le importava più se rischiava di
ferirlo. «Non ti sembra di stare esagerando?» La sua voce non
recava la minima traccia di simpatia né di gentilezza. «So che
cosa hai mente e ho cercato di essere carina con te, ma ora basta.»
«Non capisco di che cosa parli. Io voglio solo i miei occhiali.»
«Richard, dico sul serio. Adesso mi vedo con un altro. E' finita.
Puoi riprenderti gli occhiali lunedì.»
«Julie... aspetta...»
Riagganciò senza rispondere.
23.
Un'ora più tardi, Mike apriva la porta d'ingresso della casa
e infilava dentro la testa. «Ehi, sono arrivato», annunciò.
Julie era in bagno ad asciugarsi i capelli, ma Singer, sentendo
la sua voce, gli corse subito incontro.
«Sei presentabile?» gridò allora Mike, per farsi udire al di
sopra del rumore del phon.
«Sì», rispose lei, spegnendo l'apparecchio. «Vieni pure».
Lui attraversò la camera da letto e si sporse sulla soglia del
bagno.
«Scusa se sono in ritardo, ma sentivo proprio il bisogno di
farmi una doccia», disse lei, mentre riavvolgeva il cavo
dell'asciugacapelli
e lo riponeva nel cassetto. «Alla fine di una giornata
di lavoro come questa, mi sembra di avere addosso tutti i
capelli dei clienti. Ho quasi finito.»
«Ti spiace se resto qui?»
«Niente affatto.»
Mike si appoggiò alla parete, mentre Julie prendeva l'ombretto
e se lo passava sugli occhi con gesti veloci ed esperti. Poi
fu la volta del mascara, che venne applicato con la stessa precisione,
prima sulle ciglia superiori, poi su quelle inferiori.
C'era qualcosa di molto sensuale nei gesti di una donna che
si truccava, pensò Mike. Era un'operazione complessa, delicata,
che rivelava la sua voglia di sentirsi attraente. Notò le sottili
differenze mentre lei cambiava aspetto davanti ai suoi occhi.
Dato che quella sera sarebbero rimasti in casa, il suo impegno
era dedicato soltanto a lui, un'idea che trovava molto erotica.
Sapeva di essere innamorato di Julie: le ultime due settimane
glielo avevano fatto capire chiaramente, ma il suo sentimento
era diverso da quello che aveva provato prima che cominciassero
a uscire insieme. Adesso lei non era più una fantasia,
ma una realtà, di cui non poteva immaginare di fare a
meno, e istintivamente incrociò le braccia al petto, come per
difendersi dall'eventualità che tutto gli scivolasse via.
Julie si infilò un paio di orecchini, con un breve sorriso, chiedendosi
che cosa ci trovasse Mike di tanto interessante, e tuttavia
lusingata dalla sua attenzione. Si spruzzò un po' di profumo
sul collo e poi sui polsi, che strofinò uno contro l'altro,
sostenendo il suo sguardo.
«Meglio?» chiese.
«Sei bellissima», disse lui. «Come sempre.»
Julie uscì dal bagno sfiorandolo con il corpo e lui la seguì,
attratto dal lieve ondeggiare dei fianchi e dalla dolce curva del
sedere. A piedi scalzi e con un paio di jeans sbiaditi gli sembrava
l'immagine della grazia, anche se sapeva che non si muoveva
diversamente dal solito.
«Ho preso due bistecche per stasera», disse Julie. «Che ne
dici?»
«Ottimo, anche se non ho ancora molta fame. Ho pranzato
tardi in officina, però berrei volentieri qualcosa.»
Julie andò in cucina e si alzò in punta di piedi per tirare giù
un bicchiere dalla credenza. La camicetta salì scoprendole l'ombelico
e Mike girò la testa dall'altra parte, sforzandosi di pensare
al baseball. Stappò una bottiglia di vino e glielo versò, poi
prese una birra per sé.
«Ci sediamo fuori?» propose lei.
«Certo», rispose, dopo aver ingollato un paio di sorsate.
Julie indossava una camicetta senza maniche e, mentre teneva
aperta la porta di rete per fare uscire Singer, Mike notò i
delicati muscoli del braccio e l'attaccatura del seno e non poté
fare a meno di immaginarsela nuda.
Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Speriamo di non
fare la figura dell'idiota, si disse. Bevve un'altra lunga sorsata,
svuotando quasi la lattina.
Sarà una notte maledettamente lunga, pensò.
Non fu nemmeno lontanamente difficile come aveva temuto.
Come sempre, cominciarono a chiacchierare amabilmente,
accarezzati dalla brezza della sera; poi Mike accese il barbecue
e un'ora più tardi arrostì le bistecche, mentre Julie entrava a
preparare un'insalata.
In cucina, si disse che lui aveva l'aria di un satiro rimasto
bloccato per anni su un'isola deserta. Il poverino non aveva fatto
altro che fissarla tutta la sera e, nonostante i suoi sforzi per
mascherare le proprie emozioni, lei aveva capito benissimo a
che cosa pensava anche perché, sinceramente, era ossessionata
dalla stessa idea. Si sentiva i palmi terribilmente sudati, al
punto da non riuscire quasi a tenere in mano le verdure.
Affettò cetrioli e pomodori, quindi apparecchiò con il servizio
buono. Quando ebbe finito, fece un passo indietro per
ammirare la tavola e si accorse che mancava qualcosa. Trovò
due candele, le mise al centro e le accese. Poi spense la luce e
annuì soddisfatta.
Andò in salotto e infilò un CD di Ella Fitzgerald nello stereo.
Stava versando il vino, quando Mike entrò con le bistecche. Si
fermò sulla soglia alla vista della tavola che aveva preparato.
«Ti piace?» gli chiese lei.
«E'... meraviglioso», rispose.
La fissò intensamente mentre parlava e per diverso tempo
rimasero a guardarsi in silenzio. Alla fine posò le bistecche sulla
tavola, ma invece di mettersi seduto, avanzò verso Julie, che
avvertì una stretta allo stomaco. Oddio, pensò, sono pronta?
Si fermò davanti a lei, poi alzò una mano e gliela avvicinò al
viso con il palmo aperto, come per chiedere il permesso di andare
avanti. La musica in sottofondo creava un'atmosfera molto
sensuale, mentre l'aroma di cibo pervadeva la piccola cucina.
Mike sembrava riempire la stanza intera con la sua presenza.
Fu in quell'istante che Julie capì di amarlo.
Lui la guardò come se le leggesse nel pensiero e lei si abbandonò
alle emozioni. Appoggiò il viso alla sua mano, chiuse
gli occhi e interiorizzò la carezza. Quando Mike fece un altro
passo, sentì il suo petto contro di sé e il calore delle sue
braccia che la stringevano.
Poi la baciò. Dapprima fu un tocco lieve, come lo spostamento
d'aria causato dal battito d'ali di un usignolo, ma divenne
sempre più intenso. Mentre le loro lingue si incontravano,
Julie lo abbracciò con la consapevolezza che i loro lunghi
anni di amicizia li avevano portati inesorabilmente a quel momento.
Mike la prese per mano conducendola in camera da letto. Si
baciarono di nuovo, mentre le slacciava la camicia. Lei sentì le
sue dita sulla pelle e la sua mano scendere a sbottonarle i jeans.
Le baciò il collo, affondando le mani nei suoi capelli.
«Ti amo», sussurrò.
La camera sembrava fatta solo di ombre e dell'eco delle sue
parole. Julie sospirò.
«Oh, Mike», disse, sentendo il suo respiro sulla pelle. «Anch'io
ti amo.»
Fecero l'amore e, anche se non fu imbarazzante come lei aveva
temuto, non fu neppure un'esperienza elettrizzante. Mike
voleva in primo luogo soddisfare Julie e Julie voleva soddisfare
Mike ed entrambi erano troppo concentrati a pensare per
lasciarsi andare alla passione.
Quando ebbero terminato, rimasero sdraiati con il fiato
corto a fissare il soffitto, pensando entrambi: sono davvero
fuori esercizio. Spero che Julie Mike non se ne sia accorta.
Una volta superato l'ardore iniziale, rimasero lì abbracciati,
avvolti da un grande senso di tenerezza, ripetendosi di amarsi.
E un'ora dopo, quando rifecero l'amore, fu perfetto.
Era passata mezzanotte e loro erano ancora a letto. Mike accarezzava
l'addome di Julie con piccoli gesti circolari delle dita.
Quando non resistette più, lei scoppiò a ridere e si divincolò,
fermandolo con la mano.
«Mi fai il solletico», protestò.
Lui le baciò la mano e la guardò. «Sei stata fantastica, sai.»
«Oh, ci siamo abbassati a questo livello? Come se fossi un'avventura
di una sera e tu volessi farti perdonare di aver approfittato
di me?»
«No, dico sul serio. Sei stata fantastica. La migliore. Non
avrei mai immaginato che potesse essere così.»
Lei rise. «Tutti luoghi comuni.»
«Non mi credi?»
«Come no. Sono stata fantastica», ripeté. «La migliore. Non
avresti mai...»
Cominciò a farle il solletico e Julie si dimenò cercando di
sfuggirgli. Mike si fermò, appoggiandosi sui gomiti. «E comunque
non mi sono approfittato di te.»
Si girò su un fianco per guardarlo meglio, poi tirò il lenzuolo.
«Ah no? Io so che un attimo prima mi stavo preparando a
cenare e un attimo dopo i nostri vestiti erano sparsi per tutta
la camera da letto.»
«Sono stato irresistibile, vero?»
«Sì, assolutamente.» Gli accarezzò una guancia. «Ti amo,
sai.»
«Sì, lo so.»
Lo spinse via scherzosamente. «E io che volevo essere seria
almeno una volta, tanto per cambiare», protestò. «Il minimo
che tu possa fare è dirmi che mi ami.»
«Ancora? Quante volte vuoi che te lo dica?»
«Quante volte vuoi dirmelo?»
Mike la guardò, poi le prese la mano e le baciò le dita a una
a una. «Se fosse per me», rispose, «te lo ripeterei ogni giorno
per il resto della mia vita».
Ah, queste sì che erano dolci parole.
«D'accordo, allora. Visto che mi ami tanto, ti spiacerebbe
portarmi qualcosa da mangiare? Muoio di fame.»
«Certo.»
Mentre lui si sporgeva dal letto per prendere i calzoni, il telefono
che era sul comodino dalla sua parte cominciò a suonare.
Una volta, due. Al terzo squillo, alzò la cornetta.
«Pronto?» disse. E poi ripeté: «Pronto?»
Julie chiuse gli occhi, sperando che non lo dicesse più.
«Pronto?»
Mike riagganciò. «Niente», spiegò. «Doveva essere qualcuno
che ha sbagliato numero.» Poi la guardò. «Ti senti bene?»
Lei si sforzò di sorridere. «Sì, sì, sto bene», disse.
Il telefono ricominciò a suonare. Mike le lanciò un'occhiata
perplessa poi rispose.
Si ripeté la stessa scena.
Julie incrociò le braccia. Anche se cercava di convincersi che
forse non significava niente, provò uno spiacevole senso di déjàvu,
la stessa impressione di quando era stata a trovare Jim al cimitero.
Qualcuno la stava spiando.
24.
I veri cambiamenti nella vita di Julie cominciarono quella
notte.
In gran parte furono meravigliosi. Mike trascorse la domenica
con lei e fecero l'amore la mattina e poi di nuovo prima
di andare a dormire. Il lunedì andarono insieme ai grandi magazzini
di Jacksonville, dove lei comperò un costume da bagno,
dei calzoncini e dei sandali. Quando sfilò per lui come una modella
con il bikini nuovo in salotto, Mike strabuzzò gli occhi,
poi balzò in piedi dal divano e cominciò a darle la caccia. La
rincorse per tutta la casa, tra risa e schiamazzi, finché la catturò
in camera, dove caddero insieme sul letto e pochi minuti
dopo si ritrovarono avviluppati nelle lenzuola.
A parte l'essere nudi molto spesso, Julie era sorpresa - e grata
- che fare l'amore non avesse mutato l'amicizia che esisteva
tra loro. Mike continuava a scherzare e a farla ridere, lei lo stuzzicava
sempre, lui le teneva ancora la mano quando guardavano
i film drammatici in televisione.
Ma per quanto si sforzasse di negarlo, quella settimana fu
contrassegnata soprattutto dalle continue telefonate anonime.
Le due di venerdì notte, altre due il sabato. La domenica il telefono
suonò quattro volte; il lunedì cinque, e aveva sempre risposto
lei. Il martedì, dopo essere andata a letto - Mike era tornato
a casa sua - aveva ricevuto quattro chiamate e poi aveva
staccato la spina. E il mercoledì, rientrata dal lavoro, aveva notato
che la segreteria telefonica lampeggiava.
Aveva schiacciato il tasto per ascoltare i messaggi. La segreteria
registrava l'ora e scoprì che la chiamata successiva veniva
fatta non appena quella precedente era terminata. Al quarto
messaggio muto di seguito Julie cominciò ad ansimare, al nono
aveva gli occhi pieni di lacrime. Al dodicesimo era in preda
al panico e cancellava tutti i messaggi con frenesia.
Quando ebbe finito, si sedette al tavolo, tremante.
In totale erano state fatte venti telefonate, ognuna di due minuti.
E tutte perfettamente mute.
Il giovedì e il venerdì ci fu una tregua.
25.
«Mi sembra che vada alla grande», disse Emma.
Lei ed Henry si erano dati appuntamento quel sabato mattina
con Julie e Mike all'imbarcadero di Harker's Island. Avevano
caricato tutto sulla barca: borse frigo, asciugamani, creme
e cappelli, secchi pieni di ghiaccio e l'attrezzatura da pesca
adatta a prendere tutto quello che capitava sotto tiro, compresi
Moby Dick, l'Orca Assassina e lo Squalo. A metà mattina
avevano gettato l'ancora nella baia vicino a Cape Lookout e i
due fratelli si erano sfidati in una competizione all'ultimo amo
che si poteva definire goliardica. Ogni volta che uno dei due
catturava una preda, doveva scuotere una bottiglia di birra e
innaffiare l'altro. Un secchio conteneva già una quantità di pesce
sufficiente a saziare un branco di foche affamate e i due uomini
avevano appeso alla battagliola le magliette grondanti di
birra.
Emma e Julie, sedute su due poltrone da regista vicino alla
cabina, si comportavano in maniera un po' più adulta. Il sole
picchiava, ma non essendo ancora piena estate, l'umidità era
sopportabile.
«Infatti», concordò Julie. «Anzi, di più. Dopo l'ultima settimana
mi sono chiesta perché avessi avuto tanta paura finora...»
Il suo tono mise in allarme Emma.
«Ma?»
«Ma cosa?»
«C'è qualcosa che ti preoccupa, vero?»
«E' così evidente?» chiese Julie.
«No, però ormai ti conosco abbastanza da riconoscere i segni.
E' un problema che riguarda Mike?»
«No, no, assolutamente.»
«Lo ami?»
«Sì.»
«Allora che cosa c'è?»
Julie posò lentamente la birra per terra. «Ultimamente ho ricevuto
strane telefonate.»
«Da chi?»
«Non lo so.»
«Un molestatore telefonico?»
«Non credo, non dice assolutamente nulla. Ho chiamato il
servizio per rintracciare le chiamate e mi hanno risposto che
provengono da un cellulare. Però il numero non è in elenco e
quindi non possono risalire all'utente.»
«Com'è possibile?»
«Me l'hanno spiegato, ma dopo che ho capito che non potevano
aiutarmi, non ho più prestato attenzione.»
«Hai almeno un'idea di chi possa essere?»
Julie guardò Mike che gettava la lenza.
«Forse Richard, ma è solo una sensazione.»
«E perché?»
«Per via delle circostanze. Voglio dire, non ho conosciuto
nessun altro ultimamente e... non so... credo che sia lui. Il modo
in cui ha reagito quando gli ho detto che tra noi era finita,
il fatto che continui a rispuntare nella mia vita.»
«In che senso?»
«Un giorno l'ho incontrato per caso al supermercato. Poi è
venuto al negozio per farsi tagliare i capelli. E tutte le volte che
ci vediamo, è come se lui cercasse di trovare il modo di riprovarci
con me.»
Emma la guardò. «Mike che cosa ne pensa?»
«Non gliene ho ancora parlato.»
«Perché?»
Julie scrollò le spalle. «Che cosa potrebbe fare? Affrontarlo?
Come ti ho detto, non sono nemmeno sicura che sia proprio
Richard a telefonare.»
«E quante chiamate hai ricevuto?»
Chiuse gli occhi per un istante. «Mercoledì c'erano venti
messaggi sulla segreteria.»
Emma si drizzò a sedere. «Oh, mio Dio. Hai informato la
polizia?»
«No», disse lei. «Faticavo ad ammettere quello che stava succedendo.
Speravo che si trattasse di un problema del centralino,
o che quelle telefonate cessassero da sole. E forse avevo ragione.
Negli ultimi due giorni il mio telefono non ha più suonato.»
Emma le prese la mano. «La gente così non si ferma. Sui
giornali si legge continuamente di storie del genere... fidanzati
respinti che vogliono vendicarsi. Si tratta di molestie, non te
ne rendi conto?»
«Certo che lo so. Ma che cosa potrei dire alla polizia? Non
posso dimostrare che è Richard a chiamare. Non mi ha minacciato,
non ho visto la sua macchina parcheggiata vicino a
casa mia o al negozio. Si è sempre comportato in maniera educata
e, tutte le volte che ci siamo incontrati, è stato in presenza
di altri.» Elencava i vari punti come un avvocato che riassume
un caso. «E poi», concluse, «ti ripeto che non sono sicura
che sia lui. Da quanto ne so, potrebbe anche trattarsi di
Bob. O di uno sconosciuto.»
L'amica la guardò, stringendole la mano. «Però istintivamente
credi che sia Richard.»
Julie esitò un istante prima di annuire.
«Così nessuna telefonata ieri sera? O l'altra sera, quando c'era
Mike con te?»
«No. Tutto tranquillo. Penso che abbia smesso.»
Emma corrugò la fronte, assorta. Oppure vuole farti credere
di aver smesso.
Decise però di non rivelare i propri sospetti. «Strano», disse.
«E un po' inquietante; mi vengono i brividi solo a pensarci.»
«Anche a me.»
«Che cosa hai intenzione di fare?»
Julie scrollò il capo. «Non ne ho idea.»
Un'ora più tardi, Julie era in piedi a prua quando sentì Mike
che la cingeva con le braccia e le solleticava il collo. Si abbandonò
al suo abbraccio, sentendosi rassicurata dalla sua presenza.
«Ciao, marinaio», gli disse.
«Ciao. Come mai tutta sola quaggiù?»
«Mi godo la brezza. Mi ero stufata del sole.»
«Anch'io. Devo essermi scottato. La birra che Henry mi ha
versato addosso ha lavato via la crema solare.»
«Hai vinto tu?»
«Naturalmente.»
Lei sorrise, e si voltò a guardare Henry, che si era sporto fuori
bordo e stava riempiendo di acqua di mare una lattina di birra.
Vedendo che lo osservava, si portò un dito alla bocca per
indicarle di non fare commenti.
«Sei pronto per la tua esibizione di stasera al Clipper?» chiese
Julie a Mike.
«Sì. Conosco già la maggior parte delle canzoni.»
«Come ti vestirai?»
«Jeans e maglietta, penso. Sono troppo vecchio per mascherarmi
come un ragazzino.»
«E te ne sei accorto soltanto adesso?»
«A volte sono un po' lento.»
Si appoggiò contro di lui. «Come con me?»
«Esatto, come con te.»
In lontananza, imbarcazioni di vario genere avevano gettato
l'ancora nella baia di Cape Lookout. Era il primo fine settimana
estivo e la spiaggia era affollata di famiglie. I bambini gridavano
e giocavano nell'acqua mentre i genitori prendevano il
sole. Alle spalle dei bagnanti, il faro si ergeva slanciato; pitturato
di bianco con le losanghe nere, sembrava una scacchiera
piegata a fisarmonica e messa in piedi.
«Sei stata taciturna oggi», disse Mike, stringendola.
«Pensavo.»
«A quello che ti ha detto Emma?»
«No. A quello che le ho detto io.»
Mike sentiva le ciocche dei suoi capelli accarezzargli il viso.
«Ne vuoi parlare?»
Julie fece un profondo respiro e poi gli raccontò le sue preoccupazioni.
Mentre la ascoltava, l'espressione di Mike passò dallo
sbigottimento all'ansia, e infine alla rabbia. Quando lei ebbe
finito, le prese la mano e la fece girare verso di sé.
«Pensi che fosse lui quando ho risposto al telefono l'altra
notte?»
«Non so.»
«Perché non me ne hai parlato prima?»
«Non c'era niente da dire. Almeno fino a un paio di giorni
fa.»
Mike distolse lo sguardo, accigliato, poi tornò a guardarla.
«Se succede di nuovo, ci penso io.»
Julie lo fissò, poi gli sorrise.
«Hai di nuovo quell'espressione sexy negli occhi.»
«Non cercare di cambiare argomento», disse lui. «E' una faccenda
seria. Ricordi quello che ci dicemmo da Tizzy?»
«Sì, me lo ricordo.» La sua voce era inespressiva. «E' solo il
mio modo di affrontare la situazione quando sono turbata. Cerco
di scherzarci su. Una vecchia abitudine, sai?»
Dopo un momento, Mike l'abbracciò di nuovo. «Stai tranquilla»,
le disse. «Non permetterò che ti accada nulla.»
Mangiarono i panini e l'insalata di patate. Dopo aver parlato
con Emma e Mike e con la pancia piena, Julie si sentiva un
po' meglio.
Cominciò a rilassarsi e a divertirsi. A un certo punto Henry
offrì al fratello la lattina che aveva appena riempito e Mike bevve
una generosa sorsata prima di correre a sputare l'acqua salata
fuori bordo. Gli altri scoppiarono in una fragorosa risata,
e anche Mike si mise a ridere dopo essersi pulito il mento. Ma
non lasciò correre. Più tardi, prese un pesce del secchio e lo infilò
di nascosto nel panino del fratello.
Henry vomitò il boccone, disgustato, e poi lanciò il panino
contro Mike, che si vendicò tirandogli una cucchiaiata di insalata
di patate.
Mentre i due fratelli erano intenti in quella schermaglia, Emma
si chinò all'orecchio di Julie. «Guarda che imbecilli», bisbigliò.
«Gli uomini sono proprio dei bambini.»
Quel giorno Julie bevve più birra del solito. Era proprio quello
che le ci voleva, pensava, e con la mente leggermente annebbiata,
cercò di scacciare le paure. Forse quelle telefonate
erano solo il modo in cui Richard sfogava la propria rabbia, si
disse. Forse ce l'aveva con lei per come gli aveva risposto a proposito
degli occhiali. Ricordava di essere stata piuttosto freddina.
Certo, se lo meritava, e dato che non si era ancora fatto
vedere in negozio per riprenderli, era sempre più convinta che
quello fosse stato solo un pretesto per rivederla. E lui voleva
farle capire che era in collera perché il suo piano non aveva
funzionato.
E poi, ricordò a se stessa ancora una volta, le telefonate erano
cessate due giorni prima. E non erano nemmeno andate
avanti tanto a lungo. Probabilmente era finita, pensò, cercando
di rassicurarsi. Nonostante quello che poteva pensare Emma,
lei aveva preso molto sul serio la faccenda. L'essere vissuta
senza casa da ragazza, per quanto brevemente, le aveva lasciato
addosso una salutare paranoia. Finché non si fosse sentita
più tranquilla, non avrebbe fatto niente di avventato: basta
passeggiate serali da sola, porta di casa chiusa a chiave e
Singer a dormire in camera con lei le notti in cui Mike non c'era.
Sarebbe stata attenta, decise.
Incrociò le braccia e ascoltò il gorgoglio dell'acqua sotto la
chiglia.
No, le cose non sarebbero peggiorate, concluse. Non era possibile.
Verso metà pomeriggio, issarono l'ancora e fecero rotta per
Harker's Island. Emma aveva messo un CD di Jimmy Buffet e
si era avvicinata a Henry al timone, mordicchiandogli di tanto
in tanto l'orecchio.
Mike era a poppa e stava rimettendo a posto l'attrezzatura
da pesca. Julie tornò a prua a lasciarsi scompigliare i capelli dal
vento. Si era scottata leggermente e aveva le spalle arrossate.
Anche altre parti del corpo dove non aveva spalmato bene la
crema solare erano state colpite dai raggi: la punta dell'orecchio
sinistro, la fronte vicino all'attaccatura dei capelli, una striscia
sulla coscia e un'altra sul polpaccio. Era incredibile come
il sole si fosse preso la sua rivincita accanendosi proprio su quei
punti scoperti, pensò. Sembro un ghepardo rosa.
Il tempo era ancora splendido, ma era giunta l'ora di tornare
a casa. Emma ed Henry avevano affrontato un piccolo
ammutinamento
quella mattina, con tanto di lacrime e strepiti,
perché i figli si erano impuntati di voler andare in barca a tutti
i costi. Per placarli, i genitori avevano promesso di portarli
fuori a mangiare la pizza e poi al cinema, al loro rientro. E
Mike doveva essere al Clipper alle otto per provare con il gruppo.
Julie contava di raggiungerlo intorno alle dieci, voleva approfittare
delle ore libere per schiacciare un sonnellino. Era
stravolta. Il sole e la birra l'avevano stordita.
Andò a prendere i suoi vestiti nella borsa. Mentre si infilava
un paio di calzoncini, guardando distrattamente verso la
spiaggia notò qualcosa di strano. Inizialmente registrò solo una
vaga sensazione, e nemmeno uno sguardo più attento bastò a
farle capire che cos'era che non andava. Schermandosi gli occhi
con la mano, scrutò le barche, poi la riva, quindi la gente
sulla spiaggia.
Era lì. Da qualche parte, si disse. E qualunque cosa fosse,
era stonata.
Esaminò meglio la riva e alla fine colse il particolare che aveva
attirato la sua attenzione. E aveva visto giusto: non c'entrava
per niente con gli altri bagnanti.
Abbassò la mano, confusa.
Nei pressi delle dune c'era una figura in jeans e maglietta
blu scuro che teneva in mano... un cannocchiale? Un telescopio?
Non lo distingueva esattamente, ma qualunque cosa
fosse, era puntata inequivocabilmente verso la loro barca.
Su di lei.
Provò un senso di oppressione mentre l'uomo abbassava lo
strumento che teneva in mano, e per un attimo si convinse quasi
di essersi sbagliata. Ma poi, come se le avesse letto nel pensiero,
lui alzò un braccio e lo agitò lentamente, come il pendolo
di un vecchio orologio. Sono qui, sembrava voler dire, sono
sempre qui.
Richard.
Julie si sentì sbiancare e inspirò forte, portandosi il dorso
della mano alla bocca.
Sbatté gli occhi, e l'uomo era scomparso. Corse di nuovo a
prua e si sporse in avanti. Niente. Non c'era segno di lui. Era
come se non ci fosse mai stato. Mike aveva notato la sua agitazione
e la raggiunse immediatamente.
«Che cosa c'è?» chiese.
Julie continuava a fissare la spiaggia. Mike seguì la direzione
del suo sguardo e lei, non trovando più traccia di Richard,
né di qualcos'altro di strano, si abbandonò tra le sue braccia.
«Non so», disse.
Doveva essere stata un'illusione, pensò. Non poteva essere
vero. Nessuno era in grado di muoversi così in fretta. Nessuno.
Mike l'accompagnò a casa e si fermò sul vialetto a scaricare
le cose dal furgone mentre lei entrava in casa. Singer la seguì e
le lasciò appena il tempo di posare la borsa sul bancone della
cucina prima di alzarsi sulle zampe posteriori per salutarla. Julie
stava cercando di parare i colpi della sua lingua, quando
notò che la segreteria telefonica lampeggiava.
Scostò il cane, che trotterellò verso il salotto per andare incontro
a Mike. In cucina, il frigorifero ronzava e una mosca
sbatteva caparbia contro il vetro della finestra. Ma lei non se
ne accorse. né udiva i rumori che facevano Mike e Singer fuori,
o il suo respiro affannato. Tutta l'attenzione era concentrata
sulla segreteria. La lucina lampeggiava sinistra, ipnotica.
Azionami... sembrava dire. Azionami...
Barcollò, come se fosse di nuovo sulla barca a guardare verso
la spiaggia. Lui l'aveva salutata, pensò. L'aveva spiata e poi
l'aveva chiamata per dirglielo.
Scrollò la testa. Non poteva essere. Non era lui. Era stato un
miraggio, pensò. Uno scherzo degli occhi, dopo troppe birre e
troppo sole.
La segreteria continuava a lampeggiare.
Avanti, Julie, datti una calmata, si esortò. Sapeva che poteva
essere stato chiunque a lasciare un messaggio. Era quella la
funzione di una segreteria telefonica, quindi doveva schiacciare
il pulsante. Non appena lo farò, si disse, scoprirò che è stata
Mabel o qualche altro conoscente a telefonarmi.
Azionami...
Chiuse gli occhi e cercò di trovare il coraggio.
Aveva il fiato grosso. Per quanto tentasse di essere coraggiosa
e razionale, per quanto volesse convincersi di esagerare
nei propri timori, la paura stava prendendo il sopravvento. Ti
prego, implorò, fa' che non sia un messaggio muto. Fammi sentire
una voce umana, qualsiasi voce ma non la sua.
Con mano tremante, schiacciò il tasto.
All'inizio non udì niente e trattenne il respiro. Poi le giunse
un mormorio confuso, un bisbiglio impossibile da decifrare che
la fece chinare verso la segreteria per sentire meglio. Ascoltò
con attenzione e, proprio mentre stava per azionare il pulsante
per cancellare il messaggio, lo riconobbe. Sgranando gli occhi
sentì il ritornello di una canzone che conosceva a memoria.
La canzone ascoltata durante la sera trascorsa a Beaufort con
Mike due settimane prima.
«Bye, bye, Miss American Pie...»
26.
Il grido fece accorrere Mike.
Julie era in piedi accanto alla segreteria, intenta a schiacciare
con foga il tasto per cancellare i messaggi.
«Che cosa è successo?» le chiese. «Stai bene?»
Lei lo udì a stento. Era scossa dai brividi mentre nella sua
mente si sovrapponevano immagini che la nauseavano. Richard
era stato in spiaggia quel giorno, adesso ne aveva la certezza...
Era stato lui a fare quelle telefonate... non c'erano più dubbi
in proposito. E non si era limitato a quello, comprese di colpo.
Li aveva anche seguiti a Beaufort. Tenendosi nascosto, li aveva
osservati cenare, poi passeggiare nel parco ed era stato vicino,
tanto vicino da sentire la canzone che Mike aveva cantato.
Da quanto ne sapeva, poteva essere stato benissimo lui a pagare
le loro consumazioni. Aveva anche telefonato la notte in
cui Mike aveva dormito a casa sua. E sapeva con terrificante
certezza che l'aveva spiata persino quando era andata al cimitero.
E' stato ovunque.
Era incredibile, si disse con un groppo in gola, ma vero. All'improvviso
tutto le sembrò terribilmente minaccioso. La cucina
era troppo luminosa, le tende aperte e le finestre davano
sui boschi, dove poteva nascondersi chiunque. Le ombre della
sera cominciavano ad allungarsi, il cielo si era rannuvolato e
il mondo aveva preso una luce grigia, come in un vecchio film
dell'orrore in bianco e nero. Se l'aveva spiata quel pomeriggio,
se l'aveva spiata sempre, era probabile che la stesse spiando anche
ora.
Fuori, in giardino, Singer alzò il muso e abbaiò.
Julie sussultò, il cuore in gola, e si voltò verso Mike, nascondendo
il viso sul suo petto mentre le lacrime le sgorgavano
dagli occhi.
La gente così non si ferma, aveva detto Emma, ricordò.
«Julie?... Dai... dimmi che cosa è successo», la implorò
Mike. «Che cosa c'è?»
Con voce rotta e debole infine rispose: «Ho paura».
Julie tremava ancora quando salì in macchina con Mike pochi
minuti dopo. Il pisolino era fuori questione, ormai; tanto
non sarebbe riuscita a dormire. E non aveva nessuna intenzione
di restare a casa da sola mentre lui andava al Clipper. Si era
offerto di rinunciare alla serata, ma lei non voleva, sapendo che
altrimenti avrebbero passato le ore a casa a tormentarsi. Non
c'era motivo di rivivere quel clima di soffocante terrore.
No, aveva bisogno di svagarsi, pensò. Una serata in città, musica
a tutto volume, un altro paio di birre e sarebbe tornata come
nuova. Quella di prima.
Come se fosse possibile, disse una vocina scettica dentro di
lei.
Julie corrugò la fronte. D'accordo, magari non avrebbe funzionato,
ma abbandonarsi all'ossessione era ancora peggio. E
non sarebbe rimasta chiusa in casa. Non voleva più pensarci,
si disse, se non per cercare di capire che cosa fare d'ora in
avanti.
Aveva sempre creduto che esistessero due generi di persone,
quelle che guardano fuori dal parabrezza e quelle che fissano
lo specchietto retrovisore. Lei era sempre stata del primo
tipo: bisogna concentrarsi sul futuro, perché è l'unica parte della
vita che si può ancora afferrare. Mia madre mi caccia di casa?
Troverò del cibo e un posto per dormire. Mio marito muore?
Continuerò a lavorare per non impazzire. Qualcuno mi perseguita?
Escogiterò un modo per fermarlo.
Lì, in macchina con Mike, si fece forza, persuadendosi di essere
una persona intraprendente e sicura di sé.
L'opera di convincimento durò un istante, prima che lo
sconforto tornasse a impadronirsi di lei. Sì, certo, pensò, ma
stavolta non sarebbe stato facile, perché la questione non era
ancora chiusa ed era dura concentrarsi sul futuro se il passato
non se ne andava. Per il momento rimaneva bloccata nel presente,
e non era affatto una bella sensazione. Nonostante cercasse
di farsi coraggio, aveva paura, più di quando era vissuta
per strada. Allora era riuscita a trovare il modo di non farsi notare,
era sopravvissuta nascondendosi, il che era esattamente
l'opposto di quanto stava succedendo con Richard: per lui costituiva
un bersaglio fin troppo visibile.
Quando Mike parcheggiò davanti al suo appartamento, Julie
si guardò intorno circospetta, alla ricerca di qualcosa di insolito.
Gli spazi bui tra le case non contribuivano certo a tranquillizzarla,
come neppure il fruscio prodotto da un gatto randagio
che rovistava tra i rifiuti.
E poi c'erano le domande che l'assillavano... un vero balsamo
per i nervi. Che cosa voleva? Che cosa avrebbe fatto? Per
un attimo si immaginò in camera sua al buio e, quando i suoi
occhi si abituavano all'oscurità, lo vedeva in piedi accanto al
letto, che si chinava tenendo in mano qualcosa...
Scacciò l'immagine dalla mente, decisa a non farsi trascinare
dalla fantasia. Non sarebbe successo, si disse. E comunque
Mike lo avrebbe impedito.
Che cosa fare, però?
Rimpiangeva di aver cancellato il messaggio, anzi di averli
cancellati tutti, dal momento che erano l'unica prova concreta
da fornire alla polizia.
Ripensò al suggerimento di Emma. Poteva comunque tentare
di denunciarlo, si disse, ma nonostante le nuove leggi sulle
molestie, senza prove la polizia non avrebbe potuto fare nulla.
Lei avrebbe finito per ritrovarsi seduta davanti a un agente
subissato di impegni che l'avrebbe ascoltata distrattamente,
giocherellando
con la matita.
Che cosa diceva nel primo messaggio? Niente.
L'ha mai minacciata? No.
L'ha mai visto seguirla? No, tranne che sulla spiaggia.
Ma non può essere sicura che fosse lui. Era troppo lontano.
Se la voce nell'ultimo messaggio si è limitata a sussurrare,
come ha fatto a capire che era proprio la sua? Non posso dimostrarlo,
ma so che era lui.
Pausa. Ha qualcosa da aggiungere? No. Tranne che sono in
preda alla paranoia e vorrei farmi la doccia senza immaginarmi
un assassino al di là della tenda.
Altra giratina di matita.
Persino a lei sembrava un'ipotesi insostenibile, rifletté. Il fatto
di sospettare di Richard non lo rendeva automaticamente
colpevole. Però era lui! Ne era sicurissima... Oppure no?
Al Clipper Julie si sedette al banco assieme ai pochi clienti
che erano venuti lì presto per guardare una partita di baseball
alla televisione.
Ordinò una birra e la bevve con calma, in attesa che i musicisti
finissero di preparare gli strumenti. Dopo un po' Mike la
raggiunse. E anche se avevano deciso di non parlare più
dell'accaduto,
lei lesse la rabbia nei suoi occhi quando infine le
disse che doveva salire sul palco.
A quel punto il locale si stava riempiendo. Alle nove e mezzo
il gruppo cominciò a suonare e la gente continuava a entrare.
Molti si accalcavano al banco per ordinare da bere, ma Julie
non ci badava, grata che la confusione e l'atmosfera allegra
riuscissero a cancellare almeno in parte l'assillo di quelle domande
senza risposta. Tuttavia, istintivamente si girava verso
la porta tutte le volte che si apriva, nel timore di veder comparire
Richard.
Entrarono decine di persone, ma non lui.
Le ore passarono: le dieci, poi le undici, infine mezzanotte
e per la prima volta da quel pomeriggio, lei cominciò a tornare
padrona di se stessa. E come Mike, si sentì crescere dentro
la rabbia. Il suo massimo desiderio sarebbe stato affrontare
verbalmente
Richard in pubblico, con tanto di voce alta e di indice
puntato contro il suo petto. Ma chi ti credi di essere? si immaginava
di gridargli in faccia. Pensi davvero che io abbia intenzione
di sopportare ancora questa farsa? (colpo di indice) Ho
già visto troppo... ho superato già troppo... per lasciarmi intimorire
da te. Non ti permetterò, te lo ripeto, non ti permetterò
di rovinarmi l'esistenza, (colpo, colpo) Per chi mi hai preso? (colpo)
Per una donnicciola che se ne sta seduta sul divano a tremare,
in attesa della tua prossima mossa? Per la miseria, no! (colpo,
colpo) Devi andare avanti con la tua vita, Richard Franklin.
Ha vinto il migliore e, mi spiace dirtelo, ma non eri tu. Anzi, non
avresti mai potuto esserlo, (colpo, colpo, colpo, seguiti dalle
acclamazioni
di decine di donne che si alzano e applaudono spontaneamente.)
Mentre immaginava la propria vendetta, un gruppo di giovani
si incuneò a fianco a lei, ordinando da bere. Impiegarono
qualche minuto a essere serviti e, quando se ne andarono, Julie
girò lo sguardo di lato.
A metà del bancone, vide una figura familiare china verso il
barista.
Richard.
La sua vista fu come un pugno allo stomaco e le fece dimenticare
tutte le velleità di vendetta.
Era lì.
L'aveva seguita ancora una volta.
Mike si era accorto subito dell'arrivo di Richard e avrebbe
voluto scendere dal palco per sbatterlo fuori, ma si trattenne e
continuò a suonare.
Anche Richard si era accorto di lui. Lo aveva salutato con
un cenno beffardo della testa, prima di dirigersi verso il bar
con noncuranza.
So io dove te lo caccerei il tuo saluto, pensava Mike sentendo
l'adrenalina salirgli nel sangue. Una mossa sbagliata e ti spacco
questa chitarra in testa.
Julie lo vedeva, lo sentiva, era una sensazione opprimente
come un alito pesante dentro un ascensore affollato.
Lui non fece niente. Non la guardò, né si mosse nella sua direzione.
Voltando le spalle al banco, si mise a osservare la folla
con il bicchiere in mano, in tutto e per tutto uguale agli altri
clienti. Come se credesse per davvero che lei potesse pensare
a una coincidenza.
Vai al diavolo, pensò Julie. Non mi fai paura.
Mentre la banda attaccava un'altra canzone, osservò Mike.
Aveva l'espressione tesa, gli occhi vigili e minacciosi. Mosse le
labbra per dirle: Ho quasi finito, e lei annuì, sentendosi di colpo
assetata. Le ci voleva qualcosa di forte, pensò, da buttare
giù in un sol colpo.
Nella luce fioca il profilo di Richard era in ombra. Teneva le
gambe accavallate e per un attimo Julie ebbe l'impressione che
sorridesse divertito, come se sapesse che lo stava osservando.
Lei aveva la gola secca.
Ma chi voglio illudere? si disse d'un tratto. Mi fa una paura
del diavolo.
Adesso basta!
Senza indugiare, si alzò e andò verso di lui. Richard si voltò
quando gli fu vicina e la sua espressione si aprì come se fosse
piacevolmente sorpreso di vederla.
«Julie», disse, «non sapevo che fossi qui. Come stai?»
«Che ci fai tu qui, Richard?»
Lui scrollò le spalle. «Sono venuto a bere un bicchiere.»
«Vedi di piantarla, d'accordo?»
Lo disse abbastanza forte da essere sentita anche dagli altri.
«Come, scusa?» chiese lui.
«Sai benissimo di che cosa parlo!»
«No, io...»
La gente cominciò a girarsi verso di loro. Dal palco, Mike
seguiva la scena con apprensione e, non appena la canzone fu
finita, gettò la chitarra per terra e li raggiunse.
«Credi di poter continuare a seguirmi senza che io dica niente?»
domandò Julie alzando di più la voce.
Richard sollevò le braccia.
«Julie... aspetta. Aspetta. Non so di che cosa parli.»
«Hai scelto la ragazza sbagliata da spaventare e se non ci dai
un taglio, chiamerò la polizia e ti farò diffidare. No, ti farò arrestare.
Credi di potermi telefonare e lasciare messaggi come
hai fatto...» gridò.
«Non ti ho lasciato nessun messaggio...»
Ormai un piccolo pubblico assisteva allo scambio di battute
con autentico interesse. Si era formato un semicerchio intorno
a loro, come se tutti si aspettassero di veder volare qualche
ceffone.
Lei era incontenibile. Si rese conto che vivere una fantasia
era molto meglio che immaginarla. Brava! Continua così!
«...e passarla liscia? Credi che non ti abbia notato oggi mentre
mi spiavi?»
Richard fece un passo indietro.
«E' la prima volta che ti vedo. Sono stato al lavoro tutto il
giorno.»
Sull'onda dell'emozione, Julie non badò alle sue proteste.
«Non ho intenzione di sopportare oltre!»
«Sopportare che cosa?»
«Smettila e basta! Voglio che tu la smetta!»
Richard guardò i presenti intorno a loro, scrollando le spalle
come per conquistarne la simpatia.
«Senti... Non so che cosa stia succedendo, ma forse farei
meglio ad andare via...»
«E' finita. Hai capito?»
In quel momento Mike si fece largo tra la folla. Julie era rossa
in viso dalla rabbia, anche se aveva l'aria spaventata, e per
un attimo lui incrociò lo sguardo di Richard. Fu soltanto un
lampo, ma riconobbe negli occhi di quell'uomo la stessa luce
beffarda che vi aveva visto quando era entrato nel locale:
un'espressione
arrogante, di sfida.
Non ci volle altro.
La furia che gli era cresciuta dentro fin dal pomeriggio esplose.
Si buttò contro Richard, colpendolo al petto con la testa come
un giocatore di rugby diretto in meta. L'impatto lo sollevò
da terra e lo mandò a sbattere contro il bancone. Bicchieri e
bottiglie andarono in frantumi, mentre la folla cominciava a
gridare.
Non contento, afferrò l'uomo per il colletto, gli piegò il braccio
all'indietro e gli sferrò un pugno sulla guancia. Richard andò
a sbattere di nuovo contro il banco e vi si aggrappò per non
cadere a terra. Quando risollevò la testa, aveva un taglio sotto
l'occhio. Mike lo colpì ancora con violenza, girandogli la
faccia dall'altra parte. Come in un filmato al rallentatore, Richard
balzò all'indietro travolgendo uno sgabello e poi crollò
sul pavimento. Si rigirò lentamente con il sangue che gli
usciva dalla bocca. Mike era pronto a sferrare un nuovo attacco,
ma lo immobilizzarono da dietro.
La rissa era durata in tutto meno di quindici secondi. Si divincolò
per liberarsi, ma poi si rese conto che la gente non lo
tratteneva per consentire all'altro di colpirlo, bensì per evitare
che lui lo ferisse in modo ancora più grave. Si calmò, e non appena
lo lasciarono libero, Julie lo prese per mano e lo condusse
fuori.
Anche i membri della band capirono che era meglio non cercare
di fermarlo.
27.
Una volta fuori, Mike si appoggiò alla cancellata per riprendersi.
«Dammi un minuto», disse.
«Stai bene?» chiese Julie.
Si portò le mani al viso e sospirò, parlando attraverso le
dita.
«Sì. Sono solo un po' scosso.»
Lei si avvicinò e lo tirò per la maglietta. «Ehi, non conoscevo
questo aspetto della tua personalità. Comunque sappi che
me la stavo cavando bene anche da sola.»
«Lo so. Ma l'occhiata beffarda che lui mi ha lanciato mi ha
fatto imbufalire.»
«Non me n'ero accorta.»
«Infatti, la sfida era rivolta a me. Ma credo che adesso sia finita
per davvero.»
Per un po' rimasero in silenzio. Alcune persone erano uscite
dal locale e guardavano nella loro direzione. Julie però non
ci badava, aveva altri pensieri per la testa. Che cosa aveva detto
Richard? Che quel giorno aveva lavorato? Che era stato sempre
in cantiere? Al momento non lo aveva ascoltato, ma adesso
le sue parole le tornavano in mente.
«Spero di si», commentò infine.
«E' finita», ripeté Mike.
Julie sorrise distrattamente. «Ha affermato che lui oggi non
era sulla spiaggia», disse. «E che non mi ha nemmeno telefonato.
Non capiva di che cosa parlassi.»
«Non ti aspettavi certo che lo ammettesse, no?»
«Non so. Forse non mi aspettavo che replicasse.»
«Sei ancora sicura che fosse lui, vero?»
«Sì.» Fece una pausa. «Almeno... credo.»
Le prese la mano. «Gliel'ho letto in faccia.»
Lei guardò in terra. «D'accordo...»
Mike le strinse la mano. «Avanti, Julie, non vorrai certo che
cominci a stare in pena per aver picchiato un tizio che non c'entrava
niente, no? E lui. Fidati. E se non la smette, andremo dalla
polizia e racconteremo tutto. Gli faremo consegnare una diffida.
Lo denunceremo. E poi, altrimenti, che cosa ci faceva qui
stasera? E perché non ti ha salutato quando è arrivato? Era a
pochi passi da te.»
Julie chiuse gli occhi. Mike ha ragione, pensò. Ha perfettamente
ragione. Perché Richard era andato nel locale? Non aveva
detto che non gli piaceva? Doveva averli di nuovo seguiti.
Sapeva dov'erano diretti dato che li aveva spiati. Ed era ovvio
che mentisse, dopo aver compiuto tutte quelle stranezze.
Ma perché stavolta si era fatto vedere? Che cosa significava?
si domandò, angosciata.
Nonostante l'aria tiepida, avvertì un brivido di freddo.
«Forse dovrei andare comunque dalla polizia. Almeno a sporgere
denuncia contro ignoti.»
«Non sarebbe una cattiva idea.»
«Verrai con me?»
«Sicuro.» Mike le accarezzò il viso. «Ti senti meglio ora?»
«Un pochino. Ho ancora paura, ma va meglio.»
Le passò un dito sulla guancia, poi si chinò a baciarla.
«Ti avevo detto che non avrei lasciato che ti accadesse nulla,
ricordi?»
La sua vicinanza la riscaldò. «Sì.»
Al bar, Richard era finalmente riuscito a rimettersi in piedi.
E tra i primi a soccorrerlo ci fu Andrea.
Aveva visto Mike saltare giù dal palco e farsi largo tra la folla.
E il tizio con cui stava ballando - un altro perdente, anche
se la cicatrice sul collo era piuttosto sexy - l'aveva presa per
mano dicendo: «Vieni... c'è una rissa». Erano arrivati troppo
tardi per assistere alla colluttazione, ma lei aveva scorto Julie
che portava fuori Mike, mentre Richard tentava di rialzarsi reggendosi
alle gambe dello sgabello. Qualcuno lo aiutò, mentre
altri intorno a lui commentavano l'accaduto. Colse brandelli di
frasi.
«Lo ha aggredito di colpo...»
«Questo tizio si faceva gli affari suoi quando la donna ha cominciato
a insultarlo e poi è arrivato quell'altro...»
«Non stava facendo niente...»
Andrea vide il taglio sullo zigomo, il sangue all'angolo della
bocca e dalla sorpresa smise di masticare la gomma. Non poteva
crederci: non aveva mai sentito Mike neppure alzare la voce,
figurarsi poi aggredire una persona. A volte si imbronciava,
e se ne andava via per sbollire la collera, ma non aveva mai
fatto niente di violento. La prova, tuttavia, le stava davanti agli
occhi. Guardò Richard che si era rimesso in piedi a fatica e
reagì automaticamente. E' ferito! pensò. Ha bisogno di me! Allontanò
da sé con una scusa il tizio con la cicatrice e praticamente
si gettò su di lui.
«Mio Dio... stai bene?»
Richard la fissò senza rispondere e, vedendolo vacillare, Andrea
lo cinse con un braccio. Non aveva un filo di grasso, notò.
«Che cosa è successo?» gli chiese, sentendosi arrossire.
«Mi ha aggredito», rispose lui.
«Ma perché?»
«Non lo so.»
Barcollò di nuovo e lo sentì appoggiarsi contro il suo corpo.
Poi le mise un braccio sulle spalle. Anche qui, tutti muscoli,
pensò lei.
«Devi sederti. Vieni, lascia che ti aiuti.»
Fecero qualche passo esitante e la folla si aprì. Andrea lo
trovò molto esaltante: era quasi come vivere la scena finale di
un film, subito prima dei titoli di coda. Aveva appena cominciato
a sbattere le ciglia lusingata, quando Joe lo Storto comparve
di colpo con la sua gamba finta e si mise all'altro fianco
di Richard per sorreggerlo.
«Venga», abbaiò. «Sono il proprietario. Dobbiamo parlare.»
Avanzò con decisione, ma quando cambiò direzione all'improvviso,
lei fu spinta di lato e costretta a lasciare la presa. Un
minuto più tardi vide che i due parlavano tra loro a un tavolino
in fondo alla sala.
Rimasta dall'altra parte del bar e privata del suo momento
di gloria, li osservò contrariata. E quando ricomparve il suo
accompagnatore,
aveva già deciso che cosa doveva fare.
Tutto sommato una giornata da dimenticare, pensò Julie.
Certo, era sempre un bene provare il motore, per così dire.
Da quando aveva messo piede fuori dal letto quella mattina,
aveva sperimentato ogni possibile emozione e sembravano tutte
funzionare benissimo. Se avesse dovuto stilare una classifica
generale delle giornate, rifletté, quella sarebbe stata al secondo
posto per il terrore (dopo la notte che aveva trascorso
sotto un cavalcavia della superstrada a Daytona), al terzo per
lo sconforto (il giorno della morte di Jim e quello del funerale
occupavano le posizioni in testa alla triste categoria) e al primo
per la stanchezza psicofisica. Se poi si considerava il miscuglio
di amore, rabbia, lacrime, risate, sorpresa, sollievo e il
tira e molla di angoscia al pensiero di quello che poteva ancora
accadere, diventava una giornata decisamente memorabile.
Mike stava preparando un caffè. Era rimasto in silenzio per
tutto il tragitto e, una volta giunti a casa, le aveva chiesto delle
aspirine e ne aveva ingoiate quattro con un bicchier d'acqua.
Era seduta al tavolo in cucina e Singer si appoggiò a lei reclamando
le sue attenzioni.
Mentre accarezzava distrattamente il cane, pensò che Mike
sembrava stare bene. Ma le era venuto il dubbio che quell'incidente
fosse stato progettato da Richard, che lui avesse previsto
tutto. Doveva essere per forza così. Le sue risposte, le sue
bugie quando lo aveva aggredito verbalmente erano state troppo
rapide, troppo naturali, troppo fluide.
E non era stato nemmeno lui a iniziare la rissa, considerò.
Rivide mentalmente la scena: anche se Mike aveva avuto dalla
sua l'elemento sorpresa, lei lo aveva visto avvicinarsi e aveva
avuto tempo di spostarsi, invece Richard, non solo non aveva
reagito, ma non si era neanche mosso. Poteva essere stata
sua precisa intenzione apparire vittima di quella collutazione.
Adesso stai esagerando, si disse, senza riuscire a scacciare
una sgradevole sensazione di fondo.
«Allora è sicuro di sentirsi bene?» chiese Joe lo Storto. «Ha
una brutta ferita.»
Erano in piedi vicino all'ingresso del Clipper, e Richard scrollò
il capo. «Desidero solo tornare a casa», rispose.
«Se vuole, posso chiamarle un'ambulanza», si offrì il proprietario
del locale, in un tono sollecito che sembrava voler dire:
La prego, non mi denunci.
«No, ora vado, grazie», concluse Richard, già stanco del vecchio.
Spinse la porta e uscì nell'oscurità. Scrutando il parcheggio,
vide che la polizia se n'era andata.
Ma quando si avvicinò all'auto, scorse una persona che lo
aspettava appoggiata alla portiera.
«Ciao, Richard.»
Esitò prima di rispondere. «Ciao, Andrea.»
Lei sollevò leggermente il mento e lo guardò negli occhi. «Ti
senti meglio?»
Lui scrollò le spalle.
Dopo un attimo, Andrea si schiarì la voce. «So che può sembrare
strano, visto quello che è appena successo, ma ti spiacerebbe
darmi un passaggio fino a casa?»
Richard si guardò in giro. Non c'era nessuno.
«Dov'è il tuo accompagnatore?»
Indicò verso il Clipper. «E' ancora dentro. Gli ho detto che
andavo al bagno.»
Lui non replicò.
Nel silenzio che seguì, Andrea fece un passo avanti. Quando
gli fu vicino, alzò lentamente la mano e gli toccò la ferita
sulla guancia, senza mai distogliere lo sguardo.
«Per favore?» lo implorò.
«Che ne diresti di andare da un'altra parte, invece?»
Piegò la testa di lato, perplessa.
Lui sorrise. «Fidati.»
Nella cucina di Julie, la macchina per il caffè gorgogliava.
Mike si era seduto al tavolo.
«A che cosa pensi?» le chiese.
Che tutto quello che era successo quella sera sembrava stonato,
si disse lei. Sapendo che Mike avrebbe cercato di convincerla
che si sbagliava, preferì dargli una risposta vaga. «Stavo
ripensando all'accaduto. Continua a girarmi per la testa,
sai?»
«Anche a me.»
Il caffè era pronto e Mike si alzò per prendere due tazze.
Singer drizzò le orecchie e trotterellò in salotto. Julie lanciò
un'occhiata fuori e vide una macchina che stava percorrendo
la via. In genere non c'era molto traffico a quell'ora di notte,
così guardò meglio per cercare di capire se si trattava di qualche
vicino che rientrava tardi.
Singer rimase con il naso incollato alla finestra, a osservare
i fari che si avvicinavano. Poi il fascio di luce si fermò nei pressi
della casa, attirando sciami di falene e insetti notturni. Il cane
abbaiò una volta, e cominciò a ringhiare.
Julie si drizzò sulla sedia. Fuori, il motore e i fari vennero
spenti. Una portiera sbatté.
Era lì, pensò lei. Richard era arrivato.
Mike guardò verso la finestra.
Singer ora abbaiava forte e lui posò una mano sulla spalla di
Julie e fece un passo incerto verso la sala. In mezzo ai latrati furiosi
del cane, gli sembrava di aver udito un rumore.
Poi il rumore si ripeté. Qualcuno stava bussando alla porta.
Si girò verso Julie con sguardo interrogativo.
Sbirciò ancora dalla finestra e lei lo vide insaccare le spalle;
quando la guardò di nuovo, aveva un'espressione sollevata. Si
diresse all'ingresso, accarezzò Singer e gli intimò di smettere.
Il cane si calmò subito, però gli rimase accanto mentre lui apriva
la porta.
Un attimo dopo, comparvero sulla soglia due agenti della
polizia.
L'agente Jennifer Romanello era nuova del lavoro, ma non
vedeva l'ora di avere una macchina tutta sua, se non altro per
togliersi dai piedi il suo attuale compagno di squadra. Dopo
aver frequentato l'accademia di polizia a Jacksonville, si era trasferita
a Sawansboro meno di un mese prima. Era di pattuglia
assieme a Pete Gandy da due settimane e gliene restavano ancora
quattro - tutte le matricole dovevano essere affiancate da un
agente esperto nel primo periodo, per completare l'addestramento
-, però, se lo avesse ancora sentito nominare «i rudimenti»,
era sicura che l'avrebbe strozzato all'istante.
Pete Gandy spense il motore e la guardò.
«Lascia parlare me», disse. «Tu stai ancora imparando i rudimenti.»
Prima o poi lo uccido sul serio, pensò lei.
«Devo aspettare in macchina?»
La sua era una battuta, ma Pete la prese sul serio e ci pensò
su flettendo il braccio. Prendeva molto sul serio anche i suoi
bicipiti. E gli piaceva guardarsi nello specchietto prima di entrare
in azione.
«No. Vieni con me. Però non dire niente. E tieni gli occhi
aperti, ragazzina.»
Lo disse in tono da veterano. In realtà era entrato in polizia
solo da due anni e, sebbene Swansboro non fosse propriamente
un covo di criminali, aveva sviluppato la teoria che la mafia
avesse cominciato a infiltrarsi in città, ed era deciso a sgominarla.
Il suo film preferito era Serpico.
Jennifer chiuse gli occhi. Ma perché doveva capitare proprio
a me questo grandissimo idiota? si chiese.
«Come vuoi.»
«Mike Harris?» chiese l'agente Pete Gandy.
Aveva assunto l'atteggiamento intimidatorio del poliziotto in
divisa e Jennifer ebbe la tentazione di dargli una sberla sulla
nuca. Sapeva che lui e Mike si conoscevano da anni... appena
prima le aveva raccontato che portava la macchina ad aggiustare
nella sua officina e che andava spesso nel negozio da Julie
a farsi tagliare i capelli, anche se ultimamente preferiva essere
servito dall'altra ragazza. La vita di provincia, sospirò. Per
una cresciuta nel Bronx come lei, era un mondo tutto nuovo e
doveva ancora farci l'abitudine.
«Oh, salve», disse Mike. «Che cosa posso fare per voi?»
«Possiamo entrare un attimo? Abbiamo bisogno di parlarti.»
«Certo.»
I due agenti esitarono e Mike guardò verso Singer. «Oh, non
preoccupatevi. E' buono.»
Entrarono in salotto e lui indicò verso la cucina alle proprie
spalle. «Posso offrirvi del caffè? L'ho appena fatto.»
«No, grazie, non siamo autorizzati a bere in servizio.»
Jennifer roteò gli occhi, pensando: vale solo per gli alcolici,
deficiente.
Julie intanto era uscita dalla cucina e si era fermata lì in piedi
con le braccia conserte. Singer andò ad accucciarsi vicino a
lei.
«Che cosa succede, Pete?» chiese.
L'agente Gandy detestava essere chiamato Pete quando portava
l'uniforme e fu un po' indispettito da quel tono familiare.
Si schiarì la voce.
«Sei stato al Sailing Clipper stasera, Mike?»
«Sì. Ho suonato con gli Ocracoke Inlet.»
Pete lanciò un'occhiata a Jennifer come per mostrarle come
si faceva. Oh, che scoperta, pensò lei. C'era giusto un milione
di testimoni che poteva confermarlo.
«E sei rimasto coinvolto in un alterco con un certo Richard
Franklin?»
Prima che potesse rispondere, Julie avanzò in salotto.
«Che succede?» chiese.
Pete Gandy aspettava quel momento. Oltre a estrarre la pistola,
era di gran lunga la parte migliore del suo lavoro, anche
quando lo faceva con qualcuno che conosceva bene. Il dovere
era dovere, pensava, e se abbassava la guardia, Swansboro si
sarebbe trasformata in men che non si dica in capitale mondiale
del crimine. Solo nell'ultimo mese aveva emesso una decina
di multe a pedoni che avevano attraversato la strada fuori
dalle strisce e altrettante a chi aveva gettato rifiuti per terra.
«Mi duole procedere, ma diversi testimoni hanno dichiarato
che hai attaccato il signor Franklin senza essere stato provocato.
E' aggressione, lo sai, ed è un reato...»
Alla fine Mike venne portato via sull'autopattuglia.
28.
«Lo hanno portato alla centrale?» domandò Mabel incredula.
Era lunedì mattina e, dato che nel fine settimana era andata
dal fratello ad Atlanta, non era al corrente delle ultime novità.
Ma non appena messo piede in negozio, Julie aveva cominciato
a riferirle l'accaduto. Andrea, impegnata a insaponare
i capelli a un cliente, allungava il collo per ascoltare. Era rimasta
seria da quando la collega aveva cominciato a parlare, e
non credeva alle sue orecchie.
Richard non era pericoloso! pensava indignata. Era stato
Mike ad aggredirlo. E poi, a lui Julie non interessava più. Si era
convinta che avesse finalmente visto la luce. E ragazzi, se era
romantico! L'aveva portata sulla spiaggia e avevano parlato!
Per ore! E non ci aveva nemmeno provato! Nessuno l'aveva
mai trattata con tanto rispetto. Ed era anche dolce. Le aveva
chiesto di non dire niente a Julie perché non voleva ferirla. Un
atteggiamento da molestatore, quello? Certo che no! E anche
se lui aveva rifiutato la sua offerta di entrare quando l'aveva
riaccompagnata a casa, il loro incontro era stato esaltante.
Julie scrollò le spalle. Aveva l'aria pallida e tirata, come se
non avesse dormito molto.
«Pete Gandy lo ha interrogato per un'ora ed è rimasto lì finché
Henry non ha pagato la cauzione.»
Mabel trasecolò. «Pete? Ma è impazzito? Non ha ascoltato
quello che Mike aveva da dire?»
«Secondo me, no. Era già sicuro che lui fosse stato geloso.
Continuava a chiedergli qual era il vero motivo che lo aveva
spinto ad aggredire Richard.»
«Gli hai parlato delle telefonate anonime, e di tutto il resto?»
«Ci ho provato, ma Pete lo ha giudicato irrilevante.»
Mabel gettò la borsa sul tavolino pieno di riviste. «E' un idiota.
Del resto, lo è sempre stato. Non so proprio come abbia fatto
a entrare in polizia.»
«Sarà anche vero, ma questo certo non ci aiuta.»
«E adesso che succederà a Mike? Verrà accusato formalmente?»
«Non ne ho idea. Lo scopriremo nel pomeriggio, credo. Ha
un appuntamento con Steve Sides.»
Era un bravo avvocato e Mabel conosceva la sua famiglia da
anni.
«Ottima scelta. E' un vostro amico?»
«No, di Henry. Speriamo che riesca a escogitare qualcosa
con il procuratore.»
«E tu che hai intenzione di fare? Riguardo a Richard?»
«Oggi mi cambieranno il numero di telefono.»
«Tutto qui?»
«Non saprei che altro fare. Pete non ha voluto ascoltarmi e
mi ha detto solo di informarlo se la cosa continua.»
«Richard ti ha telefonato domenica?»
«Grazie a Dio, no.»
«E non lo hai più visto?»
«No.»
All'estremità opposta del negozio, Andrea corrugò la fronte,
dicendosi: perché sta ancora pensando a me. E smettetela
di denigrarlo.
«Credi davvero che sia stata tutta una montatura organizzata
da lui?»
«Ne sono sicura, compreso sabato sera. Penso che per lui sia
tutto un gioco.»
Mabel la guardò negli occhi. «Non è un gioco, Julie», disse.
«Lo so.»
«Allora, come è andato l'interrogatorio?» chiese Henry.
Erano seduti nell'ufficio con la porta chiusa. Mike sbuffò.
«E' difficile da spiegare.»
«Che vuoi dire?»
«Era come se Pete si fosse già fatto un'idea della dinamica
dell'incidente e niente di quello che dicevo potesse fargliela
cambiare.»
«Non ha dato importanza alle telefonate? O al fatto che quell'uomo
vi aveva spiato in precedenza?»
«No. Secondo lui era Julie che esagerava. Tutti vanno a fare
la spesa e a farsi tagliare i capelli. Non c'è niente di strano.»
«E l'altro agente? La donna, com'era?»
«Pete non l'ha lasciata parlare. Perciò non saprei.»
Henry bevve un sorso di caffè. «Stavolta l'hai fatta grossa»,
disse. «Non ti biasimo, però. Anch'io avrei reagito così se fossi
stato nei tuoi panni.»
«Secondo te che cosa succederà adesso?»
«Ma, non credo che finirai in prigione, se è questo che vuoi
sapere.»
«Non mi riferivo a questo.»
Suo fratello lo guardò. «Vuoi dire con Richard?»
Mike annuì.
Henry posò la tazza di caffè sulla scrivania. «Vorrei saperlo
anch'io, fratellino», concluse filosoficamente.
Jennifer aveva già raggiunto il limite di sopportazione con il
suo compagno di squadra, e lavoravano insieme solo da un'ora
quella mattina. Era dovuta arrivare in ufficio presto per finire
i rapporti di domenica che l'agente Pete Gandy aveva lasciato
incompleti perché, parole sue: «Ho troppo da fare a proteggere
le strade per restarmene seduto a tavolino per tutto il
turno. E poi, ti aiuterà a imparare i rudimenti».
L'unica cosa che aveva imparato in quel periodo di addestramento
era che Pete era ben felice di rifilarle tutte le incombenze
più noiose, per avere più tempo da passare a sollevare
pesi davanti allo specchio. E poi era giunta alla conclusione
che fosse un vero incapace quando si trattava di interrogare
le persone.
La sera precedente ne era stata un esempio eclatante.
Non c'era bisogno di essere un premio Nobel per rendersi
conto che quei due ragazzi erano spaventati, e non dall'idea di
dover andare al commissariato. No, avevano paura di Richard
Franklin, e se quello che dicevano era vero, ne avevano ottimi
motivi. L'agente Pete Gandy aveva l'istinto di un pezzo di legno,
pensò, ma lei era molto più sensibile, nonostante avesse
appena finito l'accademia. Del resto, era cresciuta sentendo in
continuazione storie del genere.
Jennifer apparteneva a una lunga schiera di poliziotti: suo
nonno, suo padre, e i suoi due fratelli erano stati o erano tuttora
in servizio nella polizia di New York. Come lei invece fosse
finita sulla costa della North Carolina era una lunga storia
che riguardava il college, un ex fidanzato, il bisogno di lasciare
il proprio segno nel mondo e il desiderio di vedere un'altra
zona del paese. Tutti quei fattori si erano fusi all'incirca sei mesi
prima, quando, seguendo l'impulso, aveva fatto domanda per
l'accademia ed era rimasta sorpresa di venire accettata in vista
di un incarico a Swansboro. Suo padre, per quanto fiero che
anche la figlia «si unisse ai nostri», era rimasto sconcertato alla
notizia che si sarebbe trasferita nel North Carolina. «Da quelle
parti masticano tabacco, mangiano fagioli e chiamano le donne
'cara'. Che ci farà una bella ragazza italiana laggiù?»
Però lei, stranamente, si era inserita bene. Finora era stato
molto meglio di quanto avesse immaginato, soprattutto la gente
che - sentite questa - era così cordiale che si salutava per
strada senza neanche conoscersi. Erano tutti stupendi, a parte
Pete Gandy. Con la coda dell'occhio, lo osservò flettere di nuovo
il braccio per gonfiare il bicipite, e poi fare un cenno con la
testa agli autisti di tutte le macchine che superavano per intimare
loro: Vai piano, amico.
«Che ne pensi della storia di Mike Harris?» gli chiese.
Sorpreso mentre annuiva soddisfatto, Pete impiegò qualche
istante a rendersi conto che lei aveva parlato.
«Ma, beh... tutte scuse», rispose. «Visto una volta, visto sempre.
Chiunque venga accusato tenta di incolpare l'altro. Nessun
criminale è mai colpevole: se stai a sentire loro, c'è sempre una
giustificazione per quello che hanno fatto. Quando avrai imparato
i rudimenti, ti ci abituerai in fretta.»
«Ma non avevi detto che lo conoscevi e che ti era sempre
parso un tipo tranquillo?»
«Non importa. La legge è la legge, vale per tutti.»
Voleva atteggiarsi a uomo saggio, esperto del mondo, e soprattutto
imparziale. Ma secondo lui il wrestling professionale
era un vero sport e l'imparzialità non sapeva nemmeno dove
stesse di casa, considerò Jennifer. L'aveva visto appioppare una
multa a una vecchia che girava per strada su una carrozzella e
la notte prima, quando lei aveva aperto bocca per fare una domanda
a Mike Harris, l'aveva bloccata, commentando che «la
signorina sta ancora imparando i rudimenti sugli interrogatori.
Non badatele».
Se fossero stati da qualche altra parte, anziché al commissariato,
gliele avrebbe cantate chiare in faccia. Ci era andata vicina,
comunque. Signorina? Una volta terminato l'addestramento,
gliel'avrebbe fatta pagare a Pete Gandy. Poco ma sicuro.
Tuttavia, per il momento non poteva far altro che ingoiare
la rabbia. E comunque non era quello il punto. La questione
riguardava Mike Harris e Richard Franklin. E Julie Barenson,
ovviamente. Dopo aver parlato con Franklin e ascoltato le dichiarazioni
degli altri due, non aveva dormito per niente bene
alla fine del turno.
Aveva la sensazione che quell'uomo dall'atteggiamento
apparentemente
mite non fosse la vittima innocente che voleva
farsi credere. né Julie e Mike la convincevano come bugiardi.
«Non credi che dovremmo fare almeno qualche ricerca? E
se loro dicessero la verità?»
Pete sospirò, come se l'argomento l'annoiasse. «Allora sarebbero
dovuti venire prima al commissariato a sporgere denuncia.
Invece non l'hanno fatto. E hanno ammesso di non avere
prove. Lei non è nemmeno sicura che fosse proprio quel
Franklin a telefonarle. Questo che cosa ti dice?»
«Ma...»
«Ti dice che probabilmente era tutta una messa in scena.
Senti, lui lo abbiamo colto sul fatto, e non ci sono attenuanti.»
Jennifer tentò un approccio diverso. «Ma lei? Julie Barenson.
Non ti sembrava spaventata?»
«Naturale che lo fosse. Il suo tesorino era appena stato arrestato.
Anche tu saresti impaurita, al posto suo.»
«A New York, la polizia...»
Pete alzò una mano. «Non voglio più sentire le storie di New
York, d'accordo? Qui le cose sono diverse. Gli animi si scaldano
facilmente. Quando avrai imparato i rudimenti, capirai
che quasi ogni rissa ha a che fare con una faida o una vendetta
di qualche genere, e alla legge non piace farsi coinvolgere in
certe situazioni, a meno che non sia strettamente necessario,
come in questo caso. E poi stamattina, prima che tu arrivassi,
ho parlato con il capo: mi ha detto di aver ricevuto una telefonata
dall'avvocato e che stanno cercando di arrivare a un accordo.
Quindi la cosa è già risolta, almeno per quanto ci riguarda.
A meno che non si finisca in tribunale.»
Lo guardò perplessa. «Ma di che cosa parli?»
Pete scrollò le spalle. «E' tutto quello che posso dirti.»
Un'altra cosa che Jennifer non riusciva a sopportare dell'agente
Gandy era la sua reticenza a condividere con lei le informazioni
sui casi a cui lavoravano. A Pete piaceva avere il controllo
della situazione e questo era il suo modo per farle sapere
chi comandava.
L'uomo ricominciò la sua serie di cenni con la testa.
I pensieri di Jennifer tornarono allora a Mike e Julie. Si chiese
se non fosse il caso di incontrarli di nuovo, preferibilmente
in assenza dell'imbecille.
Henry era in piedi accanto al fratello ad ascoltare la sua conversazione
telefonica con l'avvocato. «Vuole scherzare», fu seguito
da «Non dirà sul serio», e «Non posso crederci!» Mike
camminava a grandi passi per l'ufficio, l'aria allibita, mentre ripeteva
quelle frasi. Alla fine, con la mascella serrata, cominciò
a rispondere a monosillabi e poi riagganciò.
Rimase immobile a fissare il telefono mordendosi il labbro.
«Che cosa è successo?» chiese a quel punto Henry.
Gli sembrò che la sua domanda passasse attraverso un elaborato
filtro mentale per essere poi rimandata al mittente. La
faccia di Mike però era eloquente: aveva assunto l'espressione
andiamo di male in peggio.
«Sides ha detto che ha appena parlato con l'avvocato di Richard
Franklin», mormorò infine lui.
«E?»
Mike si era girato verso la porta, lo sguardo perso nel nulla.
«Hanno intenzione di chiedere una diffida contro di me finché
il caso non verrà chiarito. Ha detto che Richard mi ritiene una
minaccia.»
«Chi? Tu?»
«Vogliono anche incriminarmi.»
«Stai scherzando.»
«E' così. Secondo il suo avvocato, Richard è ancora stordito
dall'altra sera. A quanto pare credeva di stare bene ed è riuscito
a tornare a casa da solo sabato sera. Ma domenica mattina
aveva la vista appannata e ha chiamato un taxi per farsi portare
all'ospedale. Il suo avvocato sostiene che gli ho procurato
una commozione cerebrale.»
Henry trasalì leggermente.
«Hai spiegato a Sides che Richard mente? Voglio dire, non
per dubitare della tua potenza, sono sicuro che gli hai affibbiato
una bella botta, ma addirittura da commozione cerebrale?»
Mike scrollò le spalle, ancora incredulo, mentre si domandava
come la situazione gli fosse sfuggita di mano così all'improvviso.
Fino a due giorni prima il suo unico desiderio era che
Richard la smettesse di molestare Julie. Fino a tre giorni prima
non pensava più neppure a lui. E adesso era considerato un criminale
perché aveva fatto quello che considerava giusto.
Decise che Pete Gandy sarebbe stato cancellato definitivamente
dall'elenco degli invitati alla festa di Natale. Non che ne
avesse in programma una, ma se così fosse stato, lo avrebbe
senza dubbio escluso. Se quella testa di legno lo avesse ascoltato,
se avesse almeno provato a capire le sue ragioni, tutto sarebbe
stato molto più semplice.
Aprì la porta dell'ufficio. «Devo parlare con Julie», annunciò,
poi uscì sbattendo l'uscio.
A Julie bastò un'occhiata per capire che Mike era sconvolto.
«E ridicolo!» esclamò lui, subito dopo essere entrato in negozio.
«Voglio dire, a che serve la polizia se non intende far
nulla contro di lui? Non sono io il problema, qui.»
«Lo so», lo consolò lei.
«Non capiscono che non mi sarei mai inventato quello che
ho detto? Che non l'avrei mai colpito, se non se lo fosse meritato?
A che cosa serve rispettare la legge se poi tanto nessuno
ti crede? Adesso sono io che mi devo difendere. Sono io quello
fuori su cauzione. Quello che deve trovarsi un avvocato. Che
cosa ti dice questo del sistema giudiziario? Quel tizio può fare
ciò che vuole, mentre io non posso fare un dannato niente.»
Julie gli prese la mano e gliela tirò finché lui non cedette.
«Hai ragione, è assurdo», gli disse. «E mi spiace.»
Sebbene quel contatto fisico l'avesse un po' calmato, Mike non
riusciva ancora a guardarla negli occhi. «Anche a me», disse.
«Perché?»
«Perché ho incasinato tutto con la polizia. E' questo che mi
tormenta di più. Io posso badare a me stesso, ma tu? A causa
mia, ora loro non credono alla tua storia. E se non ci credessero
nemmeno in futuro?»
Julie non voleva più pensarci. Era tutta la mattina che ci rimuginava
sopra. Ed era giunta alla conclusione che le cose avessero
preso esattamente la piega voluta da Richard. Era più che
mai convinta che avesse previsto tutto.
«Non è giusto», proseguì Mike.
«L'avvocato ti ha detto qualcos'altro?»
Scrollò le spalle. «Le solite cose. Che per il momento non
c'è motivo di preoccuparsi.»
«E' facile dirlo, per lui.»
Mike lasciò la sua mano e fece un profondo respiro. «Già.»
Il suo tono era stanco, scoraggiato, e Julie lo guardò in viso.
«Verrai lo stesso a casa mia questa sera?»
«Se vuoi... se non sei arrabbiata con me.»
«Non sono arrabbiata con te, ma lo sarei se non lo facessi.
Non ho voglia di restare da sola stanotte.»
Lo studio di Steven Sides era vicino al tribunale. Una volta
dentro, Mike venne condotto in una stanza rivestita di legno,
dominata da un grande tavolo rettangolare e con gli scaffali alle
pareti pieni di codici legali. Si mise seduto mentre l'avvocato
apriva la porta.
Sides aveva cinquant'anni, la faccia tonda e i capelli neri leggermente
brizzolati sulle tempie. Portava un vestito costoso sicuramente di qualche stilista italiano - dall'aria spiegazzata.
Aveva la faccia un po' gonfia e la punta del naso arrossata tradiva
l'abitudine di bere qualche aperitivo di troppo dopo il lavoro,
ma la determinazione che emanava dal suo portamento
era rassicurante. L'uomo parlava lentamente, esprimendosi con
precisione, ogni parola misurata a effetto. Fece sfogare Mike
per qualche minuto, poi lo guidò attraverso la vicenda con una
serie di domande specifiche.
In breve, lui gli raccontò tutto.
Quando ebbe finito, Sides posò la matita sul blocco per appunti
e si appoggiò alla spalliera.
«Come le ho detto per telefono, non mi preoccuperei troppo
per la rissa di sabato sera. Tanto per cominciare, non sono
sicuro che il procuratore distrettuale voglia incriminarla, per
diverse ragioni.» Cominciò a elencarle a una a una. «La fedina
penale pulita, la sua buona reputazione in città e il fatto che si
rende conto che lei potrebbe trovare decine di testimoni a suo
favore, il che gli renderebbe assai difficile riunire una giuria
pronta a condannarla. E quando gli spiegherò che cosa l'ha
spinta ad agire così, l'incriminazione sarà ancora più improbabile,
anche se non ci sono prove della molestia. La giuria potrebbe
comunque giudicare l'ipotesi credibile, e lui lo sa.»
«Per la denuncia civile, invece?»
«Quella è una faccenda diversa, ma non sarà immediata,
ammesso che venga fuori. Se il procuratore non procede, non
sarà positivo per la causa di Franklin. Se invece procede e perde
la causa, sarà altrettanto negativo. E' molto probabile che
non vorranno andare in tribunale se non avranno la certezza
di vincere e, come ho detto, non mi sembra questo il caso. Lei
riteneva che la sua ragazza fosse in pericolo e ha reagito; bene
o male quasi tutti lo troverebbero ragionevole. E la diffida
è solo una manovra difensiva. Del resto non credo che abbia
difficoltà a tenersi lontano da Richard Franklin.»
«Niente affatto. Non ci ho mai tenuto a frequentarlo.»
«Bene. Ma lasci che al pubblico ministero ci pensi io, va bene?
E non vada a parlare con la polizia. Li faccia venire da me.»
Mike annuì. «Allora secondo lei non dovrei davvero preoccuparmi?»
«Per il momento, no. Parlerò con qualche persona e tra un
paio di giorni la informerò a che punto siamo. Se c'è qualcosa
di cui deve preoccuparsi, però, è sicuramente Richard
Franklin.»
Steven Sides si sporse in avanti, l'espressione grave. «Quello
che le dico deve restare tra noi, d'accordo? E lo faccio solo
perché lei mi sembra una persona perbene. Se qualcuno verrà
a saperlo, io negherò.»
Dopo un attimo di riflessione, Mike annuì.
L'avvocato attese ancora, per essere sicuro di avere la sua
completa attenzione.
«C'è una questione fondamentale che deve capire sulla polizia.
I loro metodi funzionano quando si verifica un furto o un
omicidio. Il sistema è stato creato a questo scopo... per catturare
i colpevoli dopo il fatto. Invece, nonostante le leggi contro
le molestie, la polizia non può fare nulla se qualcuno ti prende
di mira senza lasciare tracce che possano portare al suo arresto.
Se una persona è decisa a farti del male e non le interessano
le conseguenze, allora ti ritrovi da solo e sarai tu a dover
affrontare la situazione.»
«Pensa che quell'uomo voglia far del male a Julie?»
«Questa non è la domanda giusta. Piuttosto, lei crede che
sia così? In questo caso dovrà essere pronto ad agire. Perché,
se la situazione peggiora, nessuno sarà in grado di aiutarvi.»
Il colloquio con l'avvocato lasciò Mike un po' interdetto. Era
evidente che Sides era un tipo in gamba, e lo aveva rassicurato
riguardo alle prospettive legali, ma il sollievo era oscurato
dal suo avvertimento.
Con Richard era finita? si domandò.
Si fermò davanti al furgone e ci pensò su. Richiamò alla mente
la faccia dell'uomo al bar. Vide la sua smorfia beffarda e la
risposta gli fu chiara.
Non era ancora finita, si disse. Anzi, lui aveva appena cominciato.
Mentre saliva sul furgone, gli tornarono in mente le parole
di Sides. Nessuno sarà in grado di aiutarvi.
Mike e Julie fecero del loro meglio per trascorrere una serata
normale. Comprarono una pizza mentre andavano a casa,
poi si misero tranquilli a guardare un film in televisione, anche
se trasalivano al rumore di ogni macchina che passava per strada.
Avevano chiuso le tende ed evitato di far uscire Singer, che
si accorse del loro nervosismo. Il cane pattugliava il territorio
da una stanza all'altra senza abbaiare né ringhiare. E quando
chiuse gli occhi per sonnecchiare, tenne un orecchio piegato in
avanti.
La serata fu fin troppo quieta. Julie aveva cambiato numero
di telefono. Lo aveva dato solo a poche persone fidate e aveva
chiesto di non metterlo in elenco. Se Richard non riesce a chiamarmi,
forse capirà il messaggio.
Cambiò posizione sul divano. Forse.
Dopo cena, aveva chiesto a Mike com'era andato il colloquio
con l'avvocato e lui le aveva riferito in poche parole quello
che gli aveva detto... ovvero che non doveva preoccuparsi.
Ma al suo occhio vigile non era sfuggito che le stava nascondendo
qualcosa.
All'altro capo della città, Richard era in piedi sopra le bacinelle
di reagente nella sua camera oscura, il volto illuminato di
rosso, e guardava l'immagine prendere forma lentamente sulla
carta fotografica. Era un processo misterioso che ancora lo
affascinava: fantasmi e ombre, che si scurivano, diventavano
reali. Diventavano Julie.
Gli occhi di lei brillavano dalla bacinella, brillavano tutt'intorno
a lui.
Come sempre, tornava alla fotografia, l'unica costante della
sua vita. Osservare la bellezza delle luci e delle ombre riflesse
nelle immagini gli dava uno scopo, gli ricordava di avere il controllo
del proprio destino.
il ricordo di sabato sera lo divertiva ancora. Era sicuro che
l'immaginazione di Julie galoppasse veloce. In quello stesso momento
probabilmente si stava chiedendo dove lui si trovasse,
che cosa pensasse, che cosa avrebbe fatto. Come se fosse una
specie di mostro, l'uomo nero degli incubi infantili. Gli veniva
da ridere. Com'era possibile che le sue paure lo facessero sentire
così bene?
E Mike, che gli era piombato addosso come la cavalleria, ricordò.
Così prevedibile. Ridicolo. Non c'era sfida con quello
lì. Ma Julie, invece...
Così emotiva, pensò. Così coraggiosa.
Così viva.
Esaminando la fotografia che aveva davanti, rilevò ancora
una volta le somiglianze tra Julie e Jessica. Gli stessi occhi. Gli
stessi capelli. La stessa aria innocente. La prima volta che l'aveva
vista nel negozio aveva pensato che fossero sorelle.
Scrollò la testa, mentre gli riaffiorava alla mente il ricordo di
Jessica.
Per la luna di miele avevano preso in affitto una casa alle
Bermuda, poco distante dai villaggi turistici. Era un luogo tranquillo
e romantico, con i ventilatori a soffitto, i mobili di vimini
bianco e una veranda affacciata sull'oceano. C'era una spiaggia
privata dove potevano trascorrere ore al sole, soltanto loro
due.
Oh, con quanta ansia aveva aspettato quei momenti! Nei primi
due giorni le aveva scattato decine di fotografie.
Gli piaceva la sua pelle; era morbida e liscia, cosparsa da un
velo di olio solare. Il terzo giorno era diventata color bronzo e
con il prendisole bianco era un vero schianto. Quella sera, non
desiderava altro che stringerla tra le braccia, sfilarle lentamente
il vestito e amarla sotto le stelle.
Ma lei voleva andare a ballare. Al villaggio.
«No», aveva detto lui. «Restiamo qui. E la nostra luna di
miele.»
«Per favore», aveva supplicato lei. «Fallo per me. Non vuoi
accontentarmi?»
Erano andati e il posto era chiassoso e pieno di ubriachi, e
Jessica era chiassosa e aveva continuato a bere. La sua parlata
era diventata impastata e più tardi si era diretta al bagno barcollando.
Si era scontrata con un giovanotto, rischiando di rovesciargli
il bicchiere. Il ragazzo le aveva toccato un braccio e
aveva riso. Anche Jessica aveva riso.
Lui aveva osservato la scena ribollendo di rabbia. Lo imbarazzava.
Lo infuriava. Però l'avrebbe perdonata, si era detto.
Era giovane e immatura. L'avrebbe perdonata... perché era suo
marito e l'amava. Anche se doveva promettergli che non l'avrebbe
mai più fatto.
Ma quella sera, quando erano rientrati, lei non aveva voluto
ascoltarlo.
«Mi stavo solo divertendo», rispose. «Avresti potuto provarci
anche tu.»
«E come facevo, vedendo la mia mogliettina che flirtava con
gli estranei?»
«Non stavo flirtando.»
«Ti ho visto, sai.»
«Smettila di fare il pazzo.»
«Che cosa hai detto? Come mi hai chiamato?»
«Ahi... lasciami... mi fai male...»
«Che cosa hai detto?»
«Ahi... ti prego... Ah!»
«Che cosa hai detto?!»
Alla fine, lo aveva deluso, pensò Richard tornando al presente.
Come Julie. Al supermercato, al negozio, al telefono. Lui
aveva cominciato a perdere la fiducia, ma lei si era redenta al
bar. Non era riuscita a ignorarlo, non era riuscita ad andarsene
e basta. No, si disse, aveva dovuto parlargli e sebbene gli
avesse rivolto parole sprezzanti, lui sapeva che cosa provava in
realtà. Si, lo sapeva, lei lo amava, perché rabbia e amore erano
due facce della stessa medaglia. Una grande rabbia è impossibile
senza un grande amore... ed era stata così arrabbiata.
Il pensiero lo riempì di beatitudine.
Uscì dalla camera oscura e prese il cellulare che era sul letto
in mezzo a una confusione di macchine fotografiche e obbiettivi;
sapeva che la chiamata dal telefono fisso avrebbe potuto
essere rintracciata. Aveva bisogno di sentire la sua voce,
anche se era soltanto quella registrata sulla segreteria. Quando
la udiva, la rivedeva a teatro con lui, con le lacrime agli occhi,
il respiro che accelerava, mentre il Fantasma decideva se il suo
amore poteva lasciarlo, o se dovevano morire entrambi.
Compose il numero e chiuse gli occhi, in attesa. Al posto
della voce di Julie, però, c'era una registrazione della compagnia
telefonica. Terminò la chiamata e rifece il numero, con
maggiore attenzione, ma udì lo stesso messaggio.
Richard guardò la cornetta. Oh, Julie... si disse. Perché? Perché?
29.
Dopo il tumulto del mese precedente, la vita di Julie nella
settimana successiva fu sorprendentemente tranquilla. Non vide
Richard da nessuna parte, neppure nel weekend, e anche
il lunedì filò via liscio, tanto da farle ben sperare anche per quel
giorno.
Tutto era iniziato bene. Il telefono taceva, dimostrando che
i numeri non in elenco erano un modo efficace per mettere fine
a chiamate indesiderate e, sebbene quel fatto la rassicurasse,
cominciava a pensare che tanto valeva staccarlo del tutto.
Solo quattro persone - Mabel, Mike, Emma ed Henry - conoscevano
il suo nuovo numero e, dato che trascorreva sempre
la giornata con Mabel e la notte con Mike, nessuno dei due
sentiva la necessità di farle uno squillo. Henry non l'aveva mai
chiamata da quando si conoscevano ed Emma, dopo aver saputo
quanto fosse rimasta sconvolta da quelle telefonate, probabilmente
voleva evitare di farle prendere un altro spavento.
Dapprima aveva trovato piacevole la sensazione di isolamento.
Era bello poter cucinare, o fare la doccia o sfogliare una
rivista o scambiarsi le coccole con Mike senza essere disturbata,
ma dopo un po' la cosa era diventata quasi irritante. Le dava
l'impressione di essere tornata indietro all'epoca dei pionieri.
E' buffo come una settimana di tranquillità assoluta possa
cambiare la tua visione del mondo, pensava.
Ma in effetti era stata davvero tranquilla. Normalmente tranquilla.
Non aveva visto in giro nessuno che somigliasse a Richard,
neppure da lontano, e dire che praticamente lo cercava
senza sosta, come in un certo senso facevano anche i suoi amici.
Sbirciava fuori dalle vetrine del negozio almeno una ventina
di volte al giorno. E quando era in macchina, a volte svoltava
di colpo in un'altra strada e si fermava a guardare nello
specchietto retrovisore per capire se qualcuno la seguiva. Scrutava
i parcheggi con occhio vigile e stava rivolta verso la porta
se era in fila alla posta o al supermercato. Quando rientrava la
sera, mandava avanti Singer a ispezionare la casa mentre lei
aspettava fuori, con la mano sullo spruzzatore di gas irritante
che aveva comprato all'emporio. Dopo qualche minuto, il cane
tornava indietro, scodinzolando e sbavando, felice come un
bambino il giorno del suo compleanno.
Che ci fai ancora lì? sembrava chiederle. Non vuoi entrare?
Anche lui si era accorto del suo comportamento paranoico.
Ma, si diceva lei, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
E poi c'era Mike. Non la perdeva mai di vista, tranne quando
era in negozio. Anche se averlo sempre vicino era confortante,
in certi momenti le sembrava di soffocare. Ormai non
aveva più un momento di privacy.
Quanto al fronte legale, l'agente Romanello era venuta a parlare
con loro la settimana prima e aveva detto di non esitare a
contattarla se fosse accaduto qualcosa di insolito. Questo li aveva
fatti sentire meglio, ma fino a quel momento non avevano
avuto motivo di chiamarla. Sul fronte dell'accusa, il procuratore
distrettuale si era rifiutato di incriminare Mike, e anche se
si riservava di poterlo fare in futuro, per il momento lui era libero.
Il magistrato aveva deciso così non perché ritenesse che
il suo comportamento fosse stato legittimo, ma perché Richard
Franklin non si era presentato a rilasciare la deposizione ufficiale.
E nessuno era riuscito a mettersi in contatto con lui.
Strano, pensò Julie quando lo venne a sapere.
Otto giorni di calma l'avevano ringalluzzita. Non che fosse
così stupida da dimenticare il possibile rischio... Non voglio
essere invitata in televisione a fare la figura da idiota, come quelle
vittime di molestie che vanno nei talkshow del mattino a raccontare
che non si erano accorte del pericolo, si diceva. Ma effettivamente
c'era stato un sottile cambiamento nel suo comportamento,
senza che se ne accorgesse. La settimana prima si
aspettava di vedere Richard. Temeva di trovarselo lì in agguato
ovunque, ed era pronta. Come avrebbe reagito dipendeva
ovviamente dalle circostanze, ma non avrebbe certo esitato a
gridare, scappare o aizzargli contro Singer, se fosse stato necessario.
Sono pronta a tutto, si ripeteva, fai pure la tua mossa.
Provaci soltanto e te ne pentirai, signor Franklin.
Ma a forza di scrutare, stare in ascolto e non trovare traccia
di lui, la sua determinazione si era indebolita. Adesso, pur continuando
a stare sul chi vive, era arrivata al punto di non aspettarsi
più di incontrarlo. Così, quando Mike quel giorno la
informò che Steven Sides gli aveva lasciato un messaggio
chiedendogli
di passare nel suo studio dopo il lavoro, rispose che
era stanca e che sarebbe tornata a casa da sola.
«Raggiungimi quando hai finito», disse. «E se ritardi chiamami,
d'accordo?»
Singer balzò giù dal finestrino della jeep non appena si fermarono
e cominciò a muoversi in cerchio per il giardino, allontanandosi
sempre di più, con il naso a terra. Quando lei lo
chiamò, alzò il muso e la guardò come per dire: Andiamo, su,
sono secoli che non mi porti a fare un giro.
Julie scese dalla macchina. «Non possiamo andare adesso»,
rispose. «Magari più tardi, quando torna Mike.»
Singer rimase dov'era.
«Mi spiace, ma non voglio che tu ti allontani, hai capito?»
Anche a distanza, lo vide abbassare le orecchie. Dai.
Incrociò le braccia e si guardò intorno. Non c'era in giro
traccia della macchina di Richard, né l'aveva visto seguirla lungo
la strada. Quindi, a meno che non avesse fatto l'autostop,
lui non poteva essere nei paraggi. L'unica auto parcheggiata
nella via era quella dell'agenzia immobiliare di Edna Farley.
Edna era una cliente fissa del negozio. Si faceva tagliare i capelli
da Mabel, ma con gli anni anche Julie aveva fatto amicizia
con lei. Grassoccia e di mezza età, era simpatica alla maniera
di tutti gli agenti immobiliari - allegra ed entusiasta, con
la tendenza a rifilare a chiunque il suo biglietto da visita - ma
anche un po' suonata. Quando era in preda all'eccitazione, il
che praticamente succedeva sempre, restava indietro nella
conversazione.
E mentre gli altri erano già passati a un argomento
diverso, lei continuava a discutere di quello precedente. Una
donna davvero buffa, pensò.
Singer scodinzolava pieno di aspettativa. Per favooore?
Julie non voleva cedere, ma era vero che non lo portava più
a spasso da molto tempo.
Lanciò un'altra occhiata alla via. Niente.
Richard si sarebbe fatto tre chilometri a piedi con la vaga
speranza che lei decidesse di fare un giro con il cane?
No, non era da lui, si disse. E poi al suo fianco c'era Singer,
che non era un chihuahua. Le sarebbe bastato un gemito e il
gigantesco danese avrebbe attaccato come un guerriero samurai
imbottito di steroidi.
Però non si sentiva ancora convinta. Il bosco adesso la spaventava.
C'erano troppi nascondigli. Troppi posti dove poter
spiare ed essere spiati. Troppe opportunità per Richard di nascondersi
dietro un albero ad aspettare che lei passasse per poi
seguirla di nascosto, facendo scricchiolare le foglie sotto i suoi
passi...
Sentì che il panico stava per assalirla e lo scacciò. Non sarebbe
successo niente, si ripeté. Non con Singer accanto, non
con Edna in zona. Non senza l'auto di Richard in vista. Lui non
c'era.
Allora perché non portare a spasso Singer? si chiese.
Il cane abbaiò per attirare la sua attenzione. Allora?
«D'accordo», concesse lei alla fine. «Ma non possiamo stare
via molto. Mi sa che tra un po' comincia a piovere...»
Non aveva ancora finito di parlare che Singer si era già diretto
verso il bosco, scomparendo rapidamente tra i tronchi.
Julie impiegò qualche tempo ad accorgersi che stava mormorando
tra sé.
«Non succederà niente», si diceva, «non c'è nessun pericolo
qui.»
Ed era così, pensava, doveva esserlo, ma magari era meglio
ripetersene i motivi. E così, ancora una volta ripercorse il suo
ragionamento giungendo alla logica conclusione che Richard
non poteva essere appostato dietro un albero. Ma era tutto inutile.
Cominciò ad ansimare mentre avanzava lungo il sentiero,
scostando i cespugli. La vegetazione era cresciuta dall'ultima
volta che era stata lì, o almeno così le sembrava. In passato la
luce riusciva a penetrare tra il fogliame, ma adesso il bosco sembrava
stranamente buio, con il sole basso sull'orizzonte e le nuvole
temporalesche in cielo.
E' stata una stupidaggine, pensò. Una madornale stupidaggine.
Se avessero avuto il suo numero di telefono, quelli dei talk
show del mattino l'avrebbero chiamata di sicuro.
Perché non è stata più attenta? le avrebbe chiesto il presentatore.
Perché sono una stupida, avrebbe risposto lei asciugandosi
gli occhi.
Si fermò e rimase in ascolto; l'aria era immobile, silenzio, a
eccezione del cinguettio di una gazza. Si voltò da una parte all'altra,
guardò avanti e indietro sul sentiero e non scorse nulla
di insolito. Niente. «Non c'è nessun pericolo», bisbigliò.
Bene, ragazza mia, si disse, sei stata tu a cacciarti in questo
pasticcio e adesso cerca di restare calma. Anche se non lo vedo,
il cane non dev'essere lontano. Lo lascerò libero ancora
qualche minuto, poi rientreremo e tutto tornerà tranquillo. Magari
mi ci vorrà un bicchiere di vino per riprendermi, ma, accidenti,
sono umana anch'io. E a Singer piace gironzolare qui,
in fondo...
Lo sentì abbaiare a distanza e quel rumore improvviso le fece
balzare il cuore in gola. Benissimo, pensò, cambiando idea,
mi sembra un messaggio molto chiaro...
«Singer! Vieni», chiamò, «è ora di tornare a casa».
Rimase in attesa, e il cane abbaiò di nuovo. Ma il suo non
era un richiamo rabbioso, più un saluto amichevole. Julie fece
qualche passo in quella direzione, poi si fermò. Non andare,
pensò, poi udì un altro suono... Era la voce di qualcuno che
stava parlando a Singer e, quando la riconobbe, tirò un sospiro
di sollievo: Edna Farley.
Affrettò il passo lungo il tortuoso sentiero fino a intravedere
l'acqua del canale. Lì la foresta si diradava e allora vide Edna
accarezzare il cane, che stava accovacciato sulle zampe posteriori,
a bocca aperta. Quando si accorse che Julie era entrata
nella radura, Singer girò il muso a guardarla.
Questa si che è vita, sembrava volerle dire. Una corsetta, un
po' di coccole... che cosa c'è di meglio?
Anche Edna si era voltata.
«Julie!» la chiamò. «Come stai?»
Le andò incontro. «Ciao, Edna. Sto bene, grazie. Stavo facendo
una passeggiata.»
«Oggi è una giornata davvero splendida. O almeno lo era
quando siamo arrivati. Adesso però pare che voglia piovere da
un momento all'altro.»
Julie intanto l'aveva raggiunta.
«Come mai qui?» le chiese.
«Sono venuta con un cliente che voleva vedere un paio di
lotti. Certo, è parecchio che sono in vendita, ma lui mi sembra
molto interessato, perciò fai il tifo per me...»
Singer di colpo si alzò e andò a mettersi di fianco alla padrona,
con i peli ritti sulla nuca. Cominciò a ringhiare. Il cuore
di Julie prese a battere forte, mentre si girava nella direzione
verso cui guardava il cane. I suoi occhi impiegarono qualche
istante a mettere a fuoco, poi trattenne il fiato con un singulto.
In sottofondo, sentiva la voce di Edna che continuava a
parlare.
«Ma eccolo che arriva», stava dicendo.
Prima che Julie potesse muoversi, prima che potesse anche
solo pensare, Richard era comparso di fianco alla donna. Si
asciugò la fronte e le sorrise, facendola arrossire.
«Aveva ragione lei», disse, «anche quei lotti sono carini, ma
preferisco quelli da questa parte.»
«Sono d'accordo», rispose Edna. «La vista sull'acqua da questa
parte è assolutamente impagabile. E' difficile trovare appezzamenti
con una simile posizione, sa? E' un ottimo investimento.»
Rise. «Ma mi scusi, ho dimenticato le buone maniere.
Le presento una mia amica...»
«Ciao, Julie», disse Richard. «Che bella sorpresa.»
Lei non parlò e rimase immobile. Singer continuava a ringhiare,
con le labbra tirate indietro a scoprire i denti. Edna lasciò
la frase a metà. «Oh, vi conoscete già?» chiese.
«Può ben dirlo», rispose Richard. «Giusto, Julie?»
Bastardo, pensò lei cercando di darsi coraggio. Come facevi
a sapere che sarei venuta qui?
«Ehi, Julie, ma che cos'ha Singer?» chiese Edna. «Perché si
comporta così?»
Richard si girò verso di lei.
«Senta, ha portato le informazioni sulle dimensioni dei lotti
che le avevo chiesto? E i prezzi? Vorrei dare un'occhiata alle
mappe mentre sono qui.»
Alla parola prezzi gli occhi della donna si illuminarono.
«Certo. Ho tutto in macchina», disse. «Vado a prenderli. Sono
sicura che rimarrà contento... i prezzi sono molto ragionevoli.
Torno subito.»
«Faccia pure con comodo», rispose lui. «Non ho fretta.»
Un attimo dopo, la donna si allontanava trotterellando sul
sentiero, simile a un birillo che sta per cadere. Quando se ne
fu andata, Richard rivolse un caldo sorriso a Julie.
«Sei magnifica», disse. «E mi sei mancata. Come stai?»
Fu allora che lei si rese conto con raggelante terrore che erano
rimasti soli e quel pensiero servì a riscuoterla. Fece un passo
indietro, ringraziando il cielo che Singer fosse lì.
«Che cosa ci fai qui, Richard?»
Lui scrollò le spalle, come se fosse una domanda ovvia. «E'
un ottimo investimento. Penso che potrebbe essere il posto giusto
dove mettere radici. Un uomo ha bisogno di una casa tutta
sua, e in questo modo diventeremmo vicini.»
Julie impallidì.
Richard sorrise. «Ti piacerebbe, vero? Avermi come vicino
di casa? No? Allora forse volevo solo parlarti. Hai cambiato
numero di telefono, non vai più in giro da sola. Che altro potevo
fare?»
Lei indietreggiò ancora; Singer rimase fermo dov'era, come
per sfidare l'uomo ad avvicinarsi, le zampe posteriori frementi
e pronte a scattare.
«Io non voglio parlare con te», rispose Julie, odiandosi per
il suo tono lamentoso. «Perché non vuoi mettertelo in testa?»
«Non ricordi i nostri appuntamenti?» chiese Richard con
voce dolce. Aveva un'espressione malinconica e lei di colpo
trovò la scena quasi surreale. «Abbiamo passato momenti speciali
insieme. Perché non vuoi ammetterlo?»
«Non c'è niente da ammettere.» Julie fece un altro passo indietro.
«Perché ti comporti così?» Ora sembrava ferito, confuso.
«Adesso non c'è Mike... siamo soli tu e io.»
Julie lanciò una rapida occhiata all'imbocco del sentiero. Ora
di andarsene, decise.
«Se fai solo un passo verso di me o se provi a seguirmi, mi
metto a gridare... e stavolta non tratterrò Singer.»
Lui le offrì un altro sorriso gentile, come se cercasse con pazienza
di far ragionare un bambino testardo.
«Non c'è motivo di aver paura. Sai che non ti farei mai del
male. Io ti amo.»
Lei sgranò gli occhi. Mi ama? pensò incredula.
«Ma che diavolo stai dicendo?» esclamò, con più enfasi di
quanto intendesse.
«Ti amo», ripeté lui. «E possiamo ricominciare da capo. Andremo
di nuovo a teatro... so che ti è piaciuto. Oppure, se non
vuoi, possiamo fare quello che preferisci. Non ha importanza.
E cancelleremo questa tua infatuazione per Mike come un errore,
va bene? Ti perdono.»
Mentre l'altro parlava, Julie continuava a indietreggiare, l'espressione
sempre più sbigottita. Non erano semplicemente
quelle parole a spaventarla, ma l'espressione di assoluta sincerità
sul suo viso.
Richard fece un sorriso beffardo. «Scommetto che non gli
hai nemmeno detto che mi hai fatto passare la notte a casa tua.
Secondo te come la prenderebbe?»
L'ultima frase la colpì con una violenza quasi fisica. Lui notò
la sua reazione e, sicuro di aver colto nel segno, le tese la mano.
«Adesso vieni, andiamo in qualche posto tranquillo a mangiare
un boccone.»
Julie continuò a indietreggiare, rischiando di inciampare su
una radice scoperta. «Non verrò assolutamente da nessuna parte
con te», sibilò.
«Non fare cosi. Per favore. Ti farò felice, Jessica.»
Per un secondo lei si chiese se aveva sentito bene, ma non
c'erano dubbi.
«Tu... sei... pazzo», sbottò.
Questa volta le sue parole lo bloccarono.
«Non dovresti dirlo», l'ammonì lui in tono improvvisamente
minaccioso. «Non dovresti mai dire cose che non pensi.»
Con la coda dell'occhio Julie vide Edna che tornava nella radura.
«Arrivo», gridava allegramente. «Arrivo...»
Richard stava ancora fissando Julie quando Edna li raggiunse.
La donna girò lo sguardo dall'uno all'altra. «Qualcosa non va?»
chiese.
Infine lui abbassò gli occhi. «No», rispose. «Stavamo solo
cercando di calcolare quante case potrebbero sorgere qui. Credo
che Julie ami la sua privacy.»
Lei lo udì a stento. «Devo andare», disse.
Richard sorrise. «Ciao. Ci vediamo.»
Julie si girò e iniziò a uscire dalla radura. Singer indugiò ancora
un attimo, come per accertarsi che l'uomo non li seguisse,
poi la imitò.
Una volta fuori vista, lei si mise a correre sempre più forte.
I rami le sferzavano il viso e il suo respiro era affannoso. Cadde
e si rialzò subito, senza badare al dolore al ginocchio. Sentì
un rumore e si voltò terrorizzata... nessuna traccia di Richard.
Ricominciò a correre, costringendo le sue gambe a continuare
a muoversi, sentendo i graffi dei rami sulla pelle mentre avanzava.
Era quasi arrivata...
Pochi minuti dopo, stava cercando di ricacciare indietro le
lacrime quando Mike entrò in casa. La tenne stretta mentre
piangeva. Dopo avergli raccontato tutto, alla fine Julie tornò
abbastanza in sé da chiedergli come mai fosse tornato così presto.
Vide che lui era pallido in viso. Quando le rispose, la sua voce
era un sussurro.
«L'avvocato ha detto che non mi aveva lasciato nessun messaggio.»
30.
Mezzora più tardi l'agente Jennifer Romanello era seduta al
tavolo in cucina e ascoltava con attenzione il resoconto dell'accaduto.
Mentre Julie parlava, si convinceva sempre di più della sua
sincerità. Nonostante gli sforzi per non darlo a vedere, era chiaro
che quella ragazza era a pezzi. Anche lei si era sentita rizzare
i capelli sulla nuca quando le aveva riferito che l'uomo l'aveva
chiamata Jessica.
«Questa storia non mi piace», commentò infine.
Pur sapendo che era un'affermazione degna di un poliziotto
con l'intelligenza di Pete Gandy, che cos'altro avrebbe potuto
dire? Porca vacca! Comprati una fistola e barricati in casa.
.. questo tizio è pazzo! Mike e Julie erano così scossi che avevano
bisogno di qualcuno che mantenesse la calma, pensò. E
poi era esattamente quello che avrebbe detto suo padre. Lui
era bravissimo a tenere calme le persone nelle situazioni di tensione.
Sosteneva che era l'unica cosa davvero importante che
un poliziotto potesse fare, se voleva arrivare alla pensione.
«E adesso che cosa facciamo?» chiese Mike.
«Non lo so ancora con precisione», disse Jennifer. «Ma vorrei
che rispondeste ancora a qualche domanda, per essere sicura
di aver capito tutto bene.»
Julie si stava mordendo distrattamente le unghie, pensando
all'unica parte della storia che aveva tenuto nascosta.
Scommetto che non gli hai nemmeno detto che mi hai fatto
passare la notte a casa tua. Secondo te come la prenderebbe?
Sapeva che Mike probabilmente non se la sarebbe presa, dato
che non era successo niente. Non era stato certo un tradimento
come nel caso di Sarah, giusto? Ma allora, perché continuava
a tacere?
Persa nei suoi pensieri, non si accorse che Jennifer le aveva
fatto una domanda.
«Ha idea di come potesse sapere che sarebbe andata nel bosco?»
ripeté l'agente.
«No», rispose Julie.
«Però Richard Franklin era già lì prima di lei, giusto?»
«Sì, credo che sia arrivato con Edna. Non so da quanto tempo
fosse lì. Ho notato la macchina dell'agenzia parcheggiata
sulla via, ma non li ho visti scendere.»
L'agente si rivolse a Mike. «Lei invece credeva di avere un
appuntamento con il suo avvocato?» gli chiese.
«All'officina mi hanno detto che dovevamo incontrarci alle
cinque. Era stato un altro meccanico a rispondere al telefono,
ma quando sono arrivato nello studio, l'avvocato era all'oscuro
di tutto. Allora sono venuto direttamente qui.»
Sembrava spaventato. E arrabbiato.
Jennifer tornò a interrogare Julie. «Posso chiederle perché
è uscita da sola?»
«Sono una stupida», borbottò lei.
«Come, scusi?»
«No, niente.» Julie fece un respiro profondo. «Era da una
settimana che non sentivo né vedevo Richard e speravo che fosse
finita.»
«Non credo che dovrebbe rifarlo in futuro. I luoghi pubblici
vanno bene, ma cerchi di evitare i posti dove lui potrebbe incontrarla
da sola, d'accordo?»
Julie sbuffò. «Non deve più preoccuparsi di questo.»
«Che cosa sa di Jessica?»
«Veramente niente. Richard mi aveva raccontato di essere
stato sposato per qualche anno, ma che tra loro non aveva funzionato.
Non disse altro. Non abbiamo mai più parlato di lei.»
«Lui è originario di Denver?»
«Così mi ha detto.»
«E senta, l'ha mai minacciata espressamente?»
«No. Ma non ce n'era bisogno. E pazzo.»
Niente da obiettare, si disse Jennifer. Sembra pazzo pure a me.
«E non ha mai accennato a quello che potrebbe avere intenzione
di fare?» chiese.
Julie scrollò la testa. Però io mi sono immaginata un sacco
di cose, pensò. Vuole che gliele elenchi? Chiuse gli occhi e sussurrò
invece: «Vorrei solo che la smettesse».
«Lo arresterete?» chiese Mike. «O almeno lo interrogherete?»
Jennifer esitò qualche istante prima di rispondere. «Farò il
possibile», disse.
Non ebbe bisogno di aggiungere altro. I due si lanciarono
un'occhiata, poi Julie chiese: «Così dovremo cavarcela da soli?»
«Sentite, lo so che siete giustamente preoccupati, spaventati,
e credetemi, sono dalla vostra parte. Perciò non pensate che,
una volta andata via di qui, io mi dimentichi di voi. Farò qualche
ricerca sul passato di Richard Franklin per vedere se salta
fuori qualcosa e sono sicura che prima o poi gli parlerò. Ma ricordate
che devo lavorare assieme all'agente Gandy...»
«Grandioso...»
Jennifer allungò il braccio sul tavolo e strinse la mano di Julie.
«Vi do la mia parola che esamineremo il caso», disse. «E che
faremo tutto il possibile per aiutarvi. Fidatevi di me.»
Era proprio il genere di discorso a vanvera che uno voleva
sentire in una situazione simile. E infatti fu come fare un buco
nell'acqua.
Andrea stava guardando la televisione quando sentì squillare
il telefono. Alzò la cornetta distrattamente, lo sguardo incollato
alle immagini che si muovevano sullo schermo.
Un attimo dopo i suoi occhi si illuminarono. «Oh, ciao!»
esclamò. «Speravo che mi avresti chiamato...»
Jennifer era ancora scombussolata mentre tornava a casa. Invece
di concentrarsi sulla guida, era assorbita da un senso di
malessere diffuso e aveva la pelle d'oca. Tutta quella storia la
spaventava su vari livelli. Come agente di polizia sapeva quanto
potessero essere pericolosi i molestatori. E come donna provava
simpatia per Julie anche su un piano più personale. Le bastava
chiudere gli occhi per sentirsi lì con lei, a condividere la
sua impotenza. Non c'era niente di peggio, si disse. La gente
in genere viveva con la convinzione di avere il pieno controllo
della propria vita, ma non era del tutto vero. Certo, potevi decidere
che cosa mangiare per colazione e che cosa indossare e
tante altre piccole cose, ma non appena uscivi di casa, cadevi
alla mercé dei tuoi simili e tutto quello che potevi augurarti era
che nessuno volesse sfogare su di te il suo malumore per una
giornata storta.
Sapeva che era un atteggiamento piuttosto pessimistico, ma
era esattamente ciò che vedeva accadere ora. L'illusione di sicurezza
di Julie era finita in pezzi e adesso lei voleva che Jennifer
- o chiunque altro - gliela ricostruisse, pensò. Che cosa
aveva detto? Vorrei solo che la smettesse? Già, e chi non lo
avrebbe voluto? Quello che intendeva esprimere veramente era
il suo desiderio che le cose tornassero come prima. Quando il
mondo era un posto sicuro.
Non sarebbe stato così facile, rifletté. Una parte del problema
nasceva dal fatto che la stessa Jennifer si sentiva impotente.
Loro l'avevano cercata per chiedere aiuto, e invece lei non
poteva nemmeno parlare da sola con Richard in maniera ufficiale.
E Pete Gandy, che pure avrebbe fatto quello che voleva,
se glielo chiedeva in modo civettuolo, avrebbe rovinato tutto
nel momento stesso in cui apriva bocca.
Però poteva indagare sul tizio per conto suo, considerò. E
come aveva promesso a Mike e Julie, era esattamente quello
che aveva intenzione di fare.
L'agente Romanello era andata via da un'ora e loro due erano
ancora seduti in cucina. Mike sorseggiava una birra mentre
Julie guardava fisso davanti a sé con aria assente. Non era riuscita
a bere nemmeno il bicchiere di vino che si era versata prima
e lo aveva rovesciato nel lavandino. Non parlava e, sebbene
avesse l'aria stanca, lui sapeva che non era il caso di suggerirle
di andare a dormire, perché il sonno era una prospettiva
impensabile per entrambi.
«Hai fame?» le chiese dopo un po'.
«No.»
«Vuoi che andiamo a noleggiare una videocassetta?»
«No.»
«Senti, ho un'idea», disse Mike. «Perché non ce ne stiamo
ancora qui seduti a guardarci negli occhi? Magari potremmo
anche angosciarci un pochino, tanto per rompere la monotonia.
Dobbiamo pur trovare un modo per passare il tempo.»
A quelle parole Julie sorrise.
«Hai ragione», rispose, prendendogli di mano la birra e bevendone
un sorso. «Mi sono stufata. E poi tanto non serve a
niente.»
«Che cosa vuoi fare allora?»
«Vuoi tenermi stretta?» Si alzò e gli andò vicino.
Anche Mike si alzò e la cinse con le braccia. La strinse a sé,
assorbendo il calore del suo corpo mentre gli posava la testa
sul petto.
«Sono contenta che tu sia qui», mormorò Julie. «Non so che
cosa farei senza di te.»
Prima che lui potesse aprire bocca, il telefono suonò. Si irrigidirono
e continuarono a tenersi stretti mentre l'apparecchio
emetteva un secondo squillo.
Poi un terzo.
Mike la lasciò andare.
«No...» singhiozzò Julie con la paura negli occhi.
Un quarto squillo.
Lui non le badò. Andò in salotto e alzò la cornetta. La tenne
per un po' sospesa sopra il telefono, poi lentamente se l'avvicinò
all'orecchio.
«Pronto?»
«Oh, ciao. Per un momento ho pensato che non foste in casa»,
disse una voce all'altro capo del filo. L'espressione di Mike
si distese.
«Ciao, Emma», disse con un sorriso. «Come stai?»
«Bene», rispose lei con voce energica. «Senti, sono a Morehead
City, e non crederai alle tue orecchie quando ti dirò chi
ho appena visto.»
Julie lo aveva raggiunto e lui scostò la cornetta dall'orecchio
per permetterle di sentire.
«Chi?»
«Andrea. E non indovinerai mai con chi era.»
«Chi?»
«Richard. E senti questa, li ho visti baciarsi.»
«Non ho idea di che cosa significhi», disse Julie. «Cioè, non
ha senso.»
Mike aveva riattaccato e si era seduto sul divano assieme a
Julie. Singer era sdraiato davanti alla porta d'ingresso.
«Lei ha accennato qualcosa in negozio questa settimana? Sul
fatto che lo vedeva?»
Julie scrollò il capo. «Niente. Nemmeno una parola. So che
gli taglia i capelli, ma nient'altro.»
«Non ha sentito quello che dicevi su di lui?»
«Certo che lo ha sentito.»
«E non se ne preoccupa?»
«Forse non mi crede.»
«E perché non dovrebbe farlo?»
«Chi lo sa? Domani proverò a parlarle. Magari riesco a farla
ragionare.»
Più tardi Richard portò Andrea a casa sua, dove si fermarono
sulla veranda a guardare il cielo. Stretto contro di lei, le cinse
la vita con le braccia, poi fece scivolare le mani sui seni. Andrea
posò la testa sulla sua spalla e sospirò.
«Non sapevo se mi avresti chiamato.»
Richard le baciò il collo e il calore delle sue labbra la fece
rabbrividire. La luna gettava una luce argentea sugli alberi.
«E' così bello qua fuori», disse lei. «Così tranquillo.»
«Shh. Non parlare. Ascolta e basta.»
Non voleva sentire la sua voce, perché gli ricordava che non era
Julie. Stava con un'altra donna, una che non significava niente per
lui, ma il suo corpo era morbido e caldo e lei lo desiderava.
«E la luna...»
«Shh...» ripeté lui.
Un'ora più tardi, mentre erano a letto insieme, Andrea gemette
e gli conficcò le unghie nella schiena, ma Richard le aveva
detto di non fiatare. Niente sussurri, niente parole. Aveva
anche insistito per spegnere la luce.
Si muoveva sopra di lei, sentendo il suo respiro sulla pelle.
Julie, voleva sussurrare. Non puoi sfuggirmi per sempre. Non
vedi quello che abbiamo? Non aneli al completamento che nascerà
dalla nostra unione?
Ma poi rammentò il loro incontro nei boschi, l'espressione
terrorizzata nei suoi occhi. Vide il suo disgusto, udì le sue parole
di rifiuto. Avvertì il suo odio. Quel ricordo lo feriva, come
un'aggressione ai suoi sensi. Julie, avrebbe voluto mormorare,
sei stata crudele con me oggi. Hai ignorato la mia dichiarazione
d'amore. Mi hai trattato come se non significassi nulla...
«Ahi», udì nel buio, «non così forte... mi fai male... Ah!»
Quel suono lo riportò alla realtà.
«Shhhh...» mormorò, ma non allentò la stretta delle mani.
Alla fioca luce della luna, scorse un'ombra di paura negli occhi
di Andrea e provò un impeto di desiderio.
31.
Sebbene il mercoledì il suo turno iniziasse alle otto, Jennifer
era seduta davanti al computer fin dalle sei, con accanto la
copia del verbale dell'arresto di Mike Harris. In cima al rapporto
c'erano i dati essenziali: il nome di Richard Franklin, indirizzo,
numero di telefono, luogo di lavoro, eccetera. Vi diede
una scorsa, prima di leggere la descrizione dell'alterco. Come
sospettava, non vi trovò nulla di particolare sul passato dell'uomo,
ma le pareva comunque la cosa giusta da fare. Aveva
bisogno di un punto di partenza per mettere in moto le ricerche.
Suo padre, grazie a Dio, le era stato utile la sera prima. Quando
era tornata a casa, lo aveva chiamato per sentire il suo parere
e, dopo che gli aveva raccontato la vicenda, lui aveva confermato
le sue idee, per quanto fossero solo vaghe le ipotesi su
possibili sviluppi. «Potrebbe finire in entrambi i modi», aveva
detto il padre, «perciò devi scoprire se è veramente pazzo o se
si finge soltanto tale.»
Lei non sapeva ancora bene come muoversi, dato che le informazioni
su Richard Franklin erano scarse e che il suo tempo
da dedicare alle ricerche non rientrava in un normale orario di
lavoro. L'ufficio del personale al cantiere del ponte apriva solo
più tardi e, anche se quello sembrava il posto più ovvio dove
iniziare, suo padre le aveva suggerito di provare con il padrone
di casa. «E' gente abituata alle chiamate serali, quindi
puoi telefonargli anche fuori orario. Magari riesci a ottenere un
numero del libretto sanitario o della patente, oltre alle referenze.
In genere sono dati riportati sui contratti d'affitto.»
Ed era esattamente quello che lei aveva fatto. Dopo aver ottenuto
il nome del proprietario da un suo conoscente che lavorava
per la contea, gli aveva parlato e aveva saputo che la casa
apparteneva ai suoi nonni; l'affitto era sempre stato pagato
regolarmente e Richard Franklin aveva versato sia un deposito
cauzionale sia la prima e l'ultima rata in anticipo. Il proprietario
non lo aveva mai incontrato di persona; era da più di
un anno che non visitava nemmeno la casa. La riscossione dell'affitto
e tutte le altre pratiche inerenti alla proprietà erano gestite
da un'agenzia immobiliare locale, di cui le fornì nome e
numero di telefono.
Dopo aver riattaccato, aveva chiamato l'agente immobiliare
che, dietro un po' di insistenze, aveva accettato di inviarle per
fax il contratto di locazione. Le referenze erano quelle del datore
di lavoro e del capo del personale; nessuna dall'Ohio o dal
Colorado. Era riuscita a ottenere il numero della tessera sanitaria
e quello della patente e adesso li stava inserendo nel computer
seduta alla scrivania di Pete Gandy.
Passò l'ora successiva a cercare informazioni, partendo dal
North Carolina. A quanto pareva Richard Franklin lì risultava
incensurato. E anche se la patente era stata rilasciata nell'Ohio,
era troppo presto per controllare con la motorizzazione di quello
stato. Lo stesso valeva per il Colorado.
Decise allora di provare con Internet e, usando motori di ricerca
standard, trovò milioni di riferimenti al suo nome e alcune
pagine web personali intestate a vari Richard Franklin,
ma nessuna riguardante l'uomo che cercava.
A quel punto era in un vicolo cieco. Per ottenere informazioni
dal Colorado e dall'Ohio ci sarebbe voluta quanto meno
una giornata e la collaborazione di un altro dipartimento, visto
che gli archivi della polizia erano conservati in loco, rifletté.
Non sarebbe stato difficile, se fosse stata una poliziotta effettiva,
ma era un po' più complicato come agente in prova. E poi
avrebbero dovuto richiamarla, e se lo facevano quando era fuori
- cosa probabile, visto che era di pattuglia con Pete Gandy
- lei avrebbe dovuto spiegare al capo il motivo delle sue telefonate
ai dipartimenti di polizia di Denver e Columbus, e
avrebbero potuto levarle il caso o magari persino licenziarla.
E poi, si chiese, Richard Franklin era davvero chi affermava
di essere?
Veniva proprio da Denver? A Julie aveva detto così, ma chi
poteva confermarlo? Anche suo padre al telefono aveva avuto
dei dubbi in proposito, ricordò. «E' nuovo in città e ha un
comportamento
un po' psicotico? Non so se darei troppo credito
alle informazioni che ha fornito a quella donna. Se è riuscito a
schivare la legge finora, sono sicuro che è stato altrettanto bravo
a mascherare la verità sul suo passato.»
Pur sapendo che era illegale, Jennifer decise di controllare
la sua situazione finanziaria. Sapeva che esistevano tre importanti
agenzie di credito specializzate, ma che in genere quasi
tutte fornivano un rendiconto gratuito su base annuale. Usando
i dati del contratto di locazione, digitò le informazioni richieste
- sicuramente le stesse utilizzate dall'agenzia immobiliare
prima di affittare la casa: nome, numero di tessera sanitaria,
ultimo indirizzo, indirizzo precedente, numero di conto
corrente - e trovò una miniera d'oro.
La situazione economica di Richard Franklin comparve in
dettaglio sullo schermo suddivisa su molte pagine.
Come aveva previsto, l'unica richiesta recente era stata fatta
dall'agenzia immobiliare, ma quello che la sorprese fu l'assurdità
dei dati. Non avevano molto senso, soprattutto per un
ingegnere con un impiego ben pagato.
Non c'erano carte di credito registrate a suo nome né in uso,
nessun prestito per l'auto, nessuna forma di credito personale.
Una scorsa veloce ai dati rivelò che ogni conto corrente che appariva
sul rapporto era stato chiuso.
Esaminando il documento in maniera più dettagliata, vide
che c'era un ammanco sostanzioso su una banca di Denver, risalente
a quattro anni prima. Era classificato sotto la voce «immobili»
e, a giudicare dall'entità, doveva trattarsi di un'ipoteca
su una casa.
C'era anche una serie di altri pagamenti in ritardo sempre
intorno a quel periodo. Visa. Mastercard. American Express.
Bolletta telefonica. Bolletta dell'elettricità. Bolletta dell'acqua.
Tutte erano rimaste scoperte per un anno, ma alla fine erano
state pagate.
Successivamente, i conti delle carte di credito erano stati
chiusi.
Jennifer si appoggiò alla spalliera della sedia, riflettendo. Bene,
ora era assodato che per un certo periodo aveva abitato
effettivamente
a Denver e che doveva aver avuto dei problemi
economici quattro anni prima. Le spiegazioni potevano essere
tante, un sacco di gente non era brava a gestire i soldi, e lui aveva
accennato a Julie di aver divorziato. Forse questo c'entrava
con le sue difficoltà.
Tornò a fissare lo schermo. Ma perché non c'erano più voci
di spesa recenti? si chiese.
Probabilmente pagava i conti attraverso una sua società, come
avveniva per l'affitto, pensò. Prese un appunto per ricordarsi
di verificare.
Che altro? Jennifer era sicura di dover scoprire altro su Jessica.
Ma senza ulteriori informazioni, non aveva proprio nessun
aggancio da cui partire.
Spense il portatile, lo chiuse e lo ripose nella custodia, chiedendosi
che cosa fare ancora. La mossa migliore, concluse, era
aspettare l'apertura del cantiere per scambiare due chiacchiere
con il responsabile del personale. Franklin era consulente
tecnico di un progetto importante e lavorava per una grossa
impresa, che sicuramente aveva altre informazioni su di lui. Forse
qualcuno poteva gettare un po' di luce su quanto era avvenuto
quattro anni prima. Ma questo significava ancora un'ora
di attesa.
Esaminò di nuovo il verbale dell'arresto, soffermandosi sull'indirizzo.
Perché no? si disse. Non sapeva bene che cosa andasse
cercando; voleva solo vedere dove abitava, nella speranza
di ricevere altre impressioni sulla sua personalità. Prese il
computer sottobraccio, si versò una tazza di caffè al volo e salì
in macchina.
Non essendo pratica della zona, controllò sulla cartina che
teneva nel cassetto del cruscotto, poi imboccò la via principale
che portava fuori città, verso l'area rurale.
Dieci minuti più tardi, svoltò nella strada sterrata dove abitava
Richard Franklin. Rallentò avvicinandosi a una cassetta
delle lettere, per leggere il numero e raccapezzarsi meglio. Poi
accelerò di nuovo, avendo scoperto di essere ancora lontana
dalla meta.
Rimase colpita dalla posizione isolata delle case. Molte erano
circondate da vasti terreni e si chiese perché un ingegnere
proveniente da una grande città avesse scelto di andare ad abitare
proprio in un posto del genere. Non era vicino al centro,
né al luogo di lavoro, né a nient'altro. E la strada peggiorava
sempre.
A mano a mano che avanzava, le case diventavano più vecchie
e malandate. Più di una sembrava addirittura abbandonata.
Passò davanti ai resti di un vecchio deposito di tabacco:
il tetto era crollato e i rampicanti ricoprivano quasi interamente
le pareti in rovina. Sul retro vide la carcassa arrugginita di un
trattore avviluppata da erbacce.
Dopo qualche minuto, ecco un altro numero civico. Ci siamo
quasi, pensò.
Rallentò. La casa doveva essere la prossima sulla destra, calcolò,
e la scorse tra gli alberi. Sorgeva lontana dalla strada, era
a due piani con un aspetto meno cadente delle altre, anche se
il giardino sembrava una giungla.
Eppure...
Chi viveva li lo faceva perché si trattava di una proprietà di
famiglia, o perché non poteva permettersi altro, pensò. Ma per
quale ragione lui aveva scelto un luogo simile?
Voleva nascondersi?
Oppure nascondeva qualcosa?
Invece di fermarsi, proseguì per un chilometro, poi fece
un'inversione a U. Le stesse domande le giravano ancora per
la testa quando ripassò davanti alla casa per tornare verso la
stazione di polizia.
Richard Franklin si allontanò dalla finestra, leggermente accigliato.
Qualcuno era venuto a trovarlo, ne era certo, ma non aveva
riconosciuto la macchina. Sapeva che non si trattava né di Mike
né di Julie. né di una persona che abitava in zona. La strada
finiva circa tre chilometri più avanti e nessuno dei suoi vicini
possedeva una Honda.
Ma qualcuno era venuto. L'aveva visto risalire la strada con
un'andatura troppo lenta, come se cercasse qualcosa. L'inversione
a U aveva confermato i suoi sospetti. Se fosse stato uno
che si era perso, pensò, non avrebbe rallentato proprio davanti
a casa sua per poi accelerare di nuovo.
No, qualcuno era venuto a vedere dove abitava.
«Che cosa stai guardando?» chiese Andrea.
Richard lasciò ricadere la tendina e si voltò. «Niente»,
disse.
Il lenzuolo le era scivolato dal corpo, scoprendole i seni. Si
mise seduto sul letto accanto a lei. Vide i lividi sulle braccia e
li accarezzò teneramente.
«Buongiorno», disse. «Dormito bene?»
Nella luce del mattino, con indosso solo i jeans, Richard aveva
un'aria attraente. Sensuale. Perciò che cosa importava se la
notte prima era stato un po' rude? pensò Andrea.
Si scostò una ciocca di capelli che le era caduta sul viso. «Per
quel poco che abbiamo dormito, sì.»
«Hai fame?»
«Sì. Però prima devo andare in bagno.»
«E' l'ultima porta sulla destra.»
Andrea si alzò dal letto, portandosi dietro il lenzuolo. Si sentiva
le gambe molli mentre usciva dalla camera. Richard la osservò,
rimpiangendo che non se ne fosse andata la notte prima,
poi tornò a guardare fuori dalla finestra.
Qualcuno era venuto a vedere dove abitava.
Non potevano essere stati nemmeno Henry o Mabel, pensò.
Conosceva anche le loro macchine. Ma allora, chi era? Si massaggiò
la fronte.
La polizia? Sì, era possibile che Julie li avesse chiamati, si
disse. Il giorno prima lei si era comportata in maniera del tutto
irrazionale. Era spaventata e arrabbiata. E adesso voleva assumere
il controllo cambiando le regole del gioco.
Ma a quale agente si era rivolta? Non certo Pete Gandy. Ne
era sicuro. Forse l'altra, quella poliziotta nuova? Che cosa aveva
detto Gandy di lei? Che suo padre era nella polizia di New
York?
Richard ci pensò su. L'agente Romanello non aveva creduto
alla sua versione della rissa al bar. Glielo aveva letto negli occhi,
si capiva dal modo in cui lo guardava. Ed era una donna.
Sì, si disse, doveva essersi trattato di lei. Ma Gandy l'avrebbe
sostenuta? Per il momento sicuramente no, pensò. E lui
avrebbe fatto in modo che non succedesse comunque. L'agente
Gandy era un idiota. Sarebbe stato facile da manipolare, come
l'agente Dugan.
Una parte del problema era risolta, concluse. Invece, per
quanto riguardava Julie...
I suoi pensieri vennero interrotti da un grido proveniente
dal corridoio. Quando uscì dalla camera, trovò Andrea immobile,
gli occhi sgranati, una mano sulla bocca.
Non aveva aperto la porta sulla destra, quella del bagno. Stava
guardando dentro la stanza a sinistra.
La camera oscura.
Si voltò a fissare Richard come se lo vedesse per la prima
volta.
«Oddio», disse, «Oh, mio Dio...»
Lui si portò un dito alle labbra, gli occhi fissi nei suoi.
«Shh...»
Alla vista della sua espressione, Andrea fece un passo indietro.
«Non avresti dovuto aprire quella porta», le disse. «Ti avevo
spiegato dov'era il bagno, e invece tu non mi hai ascoltato.»
«Richard? Le foto...»
Cominciò ad avanzare. «No, no. Tutto questo è così... deludente.»
«Richard?» bisbigliò lei di nuovo, indietreggiando.
Jennifer rientrò in ufficio con qualche minuto d'anticipo sull'inizio
del turno. Per fortuna Pete non era ancora arrivato, cosi
si mise alla sua scrivania, annotò rapidamente su un foglio il
numero dell'impresa a cui era affidato il progetto del ponte,
poi rinfilò nella cartellina il verbale dell'arresto.
Andò al suo tavolo, compose il numero e chiese di parlare
con Jake Blansen, l'uomo che Mike aveva menzionato.
Mentre aspettava in linea, ricordò a se stessa che doveva procedere
con cautela; non voleva che Franklin scoprisse che stava
indagando su di lui. né che il signor Blansen telefonasse al
suo capo per lamentarsi, o le dicesse che c'era bisogno di un
mandato per ottenere quelle informazioni. Non erano alternative
praticabili, perciò decise di modificare leggermente la verità,
adducendo la scusa di voler verificare il verbale dell'arresto.
Blansen rispose al telefono con una voce roca e meridionale,
come se fumasse sigarette senza filtro da cinquant'anni. Jennifer
si presentò quale agente di polizia in servizio a Swansboro,
scambiò le normali frasi di cortesia e poi fece un breve riassunto
dell'incidente.
«Non posso credere di aver perso delle informazioni relative
all'arresto e, dato che sono appena arrivata qui, non vorrei
finire in guai più grossi di quelli in cui già mi trovo. Il signor
Franklin potrebbe pensare che siamo degli incompetenti, se
tornando da noi scoprisse che il verbale è incompleto.»
Fece di tutto per sembrare una recluta timida e pasticciona,
ma anche se la sua era una montatura molto fragile, l'uomo non
sembrò badarci.
«Non so quanto potrò aiutarla», disse senza esitare, con una
parlata strascicata. «Io sono solo il capocantiere. Forse dovrà
parlare con la direzione. Sono loro che hanno le informazioni
sui consulenti. La sede centrale è nell'Ohio, ma la segretaria
potrà darle il numero di telefono.»
«Capisco. Forse però può essermi d'aiuto anche lei.»
«Non vedo come.»
«Lei ha lavorato con Richard Franklin, vero? Che tipo è?»
Blansen rimase in silenzio per un po'.
«Ma è vera?»
«Come dice, scusi?»
«Lei. Questa storia. La perdita del verbale. Il fatto che sia
della polizia. Tutto quanto.»
«Certo che lo è. Se vuole, le do il mio numero diretto, così
può richiamarmi. Oppure posso venire a trovarla.»
Jake Blansen fece un profondo sospiro.
«E' un tipo pericoloso», disse infine a bassa voce. «La società
lo ha assunto perché tiene bassi i costi, solo che lo fa a scapito
della sicurezza. Diversi dei miei uomini si sono infortunati per
causa sua.»
«E com'è possibile?»
«Trascura la manutenzione, così le cose si rompono, e la gente
si fa male. Una settimana è la gru. L'altra un serbatoio. Ho
anche fatto rapporto alla direzione e loro mi hanno promesso
di indagare. Ma lui dev'essere venuto a saperlo e se l'è presa
con me.»
«L'ha aggredita?»
«No... però mi ha minacciato. Indirettamente. Ha cominciato
come se fossimo grandi amici, sa? Chiedendomi di moglie
e figli, poi ha aggiunto che era molto deluso perché io non
mi fidavo di lui e che, se non stavo più attento, non avrebbe
potuto fare niente. Come se fosse tutta colpa mia e lui mi stesse
facendo un gran favore cercando di proteggermi. Mi ha messo
un braccio sulle spalle borbottando che sarebbe stato un
peccato se ci fossero stati altri incidenti... il modo in cui lo diceva
dava l'impressione che si riferisse in particolare alla mia
famiglia. Mi ha fatto venire i brividi e, a essere sincero, sono
stato felice quando se n'è andato. Mi sarei messo a ballare di
gioia. E con me tutti gli altri addetti al cantiere.»
«Come, scusi... se n'è andato?»
«Sì. Ha mollato tutto. Aveva non so quale emergenza fuori
città, poi, quando è tornato, ci ha fatto sapere che doveva prendere
delle ferie per motivi personali. Da allora non l'ho più visto.»
A quel punto Blansen le passò la segretaria, che le fornì il
numero della sede nell'Ohio. Jennifer chiamò allora la direzione
della società, ma al centralino le risposero che l'impiegato
che avrebbe potuto aiutarla era fuori e sarebbe tornato nel
pomeriggio.
Lei si annotò il suo nome, Casey Ferguson, e poi si appoggiò
alla spalliera della sedia per riflettere.
Richard Franklin era pericoloso, aveva detto Blansen, ma
questo lei lo sapeva già. Che altro? Aveva lasciato il lavoro qualche
settimana prima, anche se a loro aveva dato una versione
leggermente diversa, ricordò calcolando i tempi.
Se n'era andato dopo essere stato fuori città per un'emergenza,
si disse. Dopo che Julie gli aveva fatto sapere che non
lo voleva più vedere.
Una coincidenza. O c'è un legame?
In quel momento Pete Gandy entrò nell'ufficio. Era contenta
che non l'avesse vista seduta alla sua scrivania. Le serviva
ancora solo un attimo di riflessione.
Una coincidenza sospetta, decise, soprattutto dopo quello
che aveva scoperto sulla sua situazione finanziaria. Ma Julie,
per sua stessa ammissione, era uscita con lui poche volte e sebbene
l'avesse chiamata in diverse occasioni, non era mai rimasto
al telefono a lungo.
Jennifer guardò fuori dalla finestra, pensierosa.
In che altro modo aveva occupato il tempo, allora?
Parcheggiarono davanti all'officina mentre la nebbia finalmente
si andava diradando. Julie teneva gli occhi rivolti verso
il pavimento del furgone e Mike, seguendo il suo sguardo, notò
le punte delle scarpe che erano coperte da uno strato di umidità
del prato. Lei si riscosse e sospirò, come per dire: Non possiamo
far altro che stare a vedere che cosa succederà oggi.
Nessuno dei due aveva dormito bene quella notte. Lui si era
alzato quattro volte per andare a bere ed era rimasto a lungo
in piedi accanto alla finestra che dava sul davanti della casa, a
guardare fuori. Julie, da parte sua, aveva sognato molto. Non
ricordava più i singoli sogni, ma si era svegliata con un senso
generale di oppressione, che l'aveva accompagnata anche mentre
si vestiva e faceva colazione.
Scese dall'auto ancora in preda a quella sensazione di impotenza.
Lui l'abbracciò e la baciò offrendosi di accompagnarla
fino al negozio sull'altro lato della strada, ma lei scosse la testa.
Singer, intanto, era balzato fuori e si era già avviato, in cerca
del suo biscotto quotidiano.
«Andrà tutto bene», disse Julie a Mike, con un tono piuttosto
perplesso.
«Lo so», rispose lui con altrettanta incertezza. «Passerò tra
un po' per vedere come stai, d'accordo?»
«Sì.»
Mentre lui entrava nell'officina, Julie fece un profondo respiro
e attraversò la strada. Il centro era ancora semideserto la nebbia sembrava aver fatto ritardare tutti - ma mentre era
in mezzo alla strada, immaginò che una macchina le venisse incontro
a tutta velocità, e allora si mise a correre per schivarla.
Non c'era niente, però.
Non appena raggiunse il marciapiede opposto, si aggiustò la
borsa e si guardò intorno, cercando di farsi forza. Un caffè,
pensò, ecco quello che ci vuole.
Entrò nel bar. La cameriera le riempì una tazza di caffè caldo
e lei vi aggiunse latte e zucchero, versandone un po' sul bancone.
Mentre cercava di pulire la macchia con un tovagliolino
di carta, ebbe la spiacevole sensazione di essere osservata da
qualcuno nell'angolo. Con un nodo allo stomaco, si girò da
quella parte, scrutando i séparé, alcuni non ancora sparecchiati.
Non c'era nessuno, però.
Chiuse gli occhi per cacciare indietro le lacrime. Poi uscì senza
salutare.
Era presto, mancava ancora un'ora all'apertura del negozio,
ma era sicura che Mabel fosse già arrivata. Il martedì mattina
di solito lo dedicava all'inventario e infatti, aprendo la porta,
la vide che esaminava gli scaffali, contando flaconi di shampoo
e balsamo. Quando si girò a guardarla, sul suo viso comparve
un'espressione preoccupata. Posò il blocco e la penna e le chiese,
senza nemmeno averla salutata: «Che cosa è successo?»
«Ho un aspetto così brutto?»
«Di nuovo Richard?»
Per tutta risposta, Julie si morse il labbro e l'amica la raggiunse
subito, abbracciandola.
La strinse forte e lei inalò energicamente, cercando di resistere.
Non voleva crollare; a parte l'essere spaventata, negli ultimi
tempi le sembrava di non aver fatto altro che piangere.
Ed era esausta. Nonostante gli sforzi, le lacrime le pungevano
gli occhi. Strinse le palpebre, ma non servì a nulla. Allora
scoppiò in singhiozzi tra le braccia di Mabel, il corpo che tremava,
braccia e gambe così deboli da non riuscire quasi a sostenerla.
«Su, su...» mormorò l'amica. «Shh... andrà tutto a posto...»
Julie continuò a piangere per chissà quanto tempo e alla fine
aveva il naso tutto rosso e il mascara colato sulle guance.
Quando Mabel la lasciò, tirò su con il naso e prese un fazzoletto
di carta. Poi le raccontò l'incontro nel bosco con Richard
e il loro colloquio con l'agente Romanello.
Il viso dell'amica esprimeva profonda preoccupazione e partecipazione
mentre ascoltava in silenzio. Ma quando Julie le riferì
della telefonata di Emma, sussultò.
«Chiamo subito Andrea», dichiarò.
Alzò il ricevitore e compose il numero mentre le rivolgeva
un debole sorriso, che svanì ben presto, scoprendo che la ragazza
non era in casa.
«Sono sicura che sia già per strada», disse allora. «Arriverà
tra un paio di minuti. Oppure avrà deciso di prendersi una delle
sue solite giornate libere. Sai com'è fatta... tanto il martedì
non c'è mai molto da fare.»
A Julie sembrò che, più che altro, Mabel stesse cercando di
convincere se stessa.
Invece di portare a termine i rapporti del collega, Jennifer
trascorse gran parte della mattinata a fare telefonate a diverse
società di servizi. I suoi sospetti vennero confermati. Tutti i conti
di Richard Franklin erano stati saldati, e per tempo, da una
sua società, la RPF Industries, Inc.
Poi chiamò la Camera di Commercio di Denver, nel Colorado,
e venne a sapere che al momento non c'era nessuna società
registrata con quel nome, anche se era esistita una RPF
Industries, Inc., che aveva cessato la propria attività poco più
di tre anni prima. Seguendo l'istinto, telefonò allora alla Camera
di Commercio di Columbus, e scoprì che la società di Richard
nell'Ohio era stata registrata poco più di un mese prima
che lui iniziasse a lavorare per la J.D. Blanchard Engineering,
e appena una settimana dopo che la RPF Industries aveva cessato
l'attività in Colorado.
Altre telefonate alle banche di Columbus dove la società teneva
i conti correnti le fornirono poche informazioni, a parte
il fatto che Franklin non disponeva di un conto personale né
di investimenti registrati a suo nome.
Seduta alla scrivania, Jennifer rifletteva su queste novità. Era
evidente che Richard Franklin aveva chiuso un'attività solo per
aprirne un'altra con un nome simile in un altro stato, e che
successivamente
aveva fatto di tutto per non mettersi in evidenza,
mantenendo un basso profilo. Entrambe le decisioni erano state
prese almeno tre anni prima. Strano, pensò. Non illegale, ma
strano.
Sebbene in un primo tempo lei fosse stata convinta che all'origine
di quel comportamento ci fossero problemi con la legge
- perché altrimenti darsi tanto da fare per nascondersi? poi ci aveva ripensato. Un basso profilo era una cosa, l'invisibilità
un'altra e Richard Franklin poteva essere rintracciato con
una certa facilità da chi volesse cercarlo, polizia compresa. Bastava
guardare la cartella finanziaria e c'era il suo indirizzo. Allora
perché tutte quelle manovre di camuffamento?
Non avevano senso.
Guardò l'orologio, sperando che la telefonata alla J.D. Blanchard
potesse chiarire almeno in parte il mistero. Purtroppo
doveva pazientare ancora un paio d'ore.
Pete Gandy entrò in palestra all'ora di pranzo e vide Richard
Franklin sulla panca del sollevamento pesi. L'uomo lavorava
con sei anelli sulla sbarra... non tanti quanti quelli che riusciva
a sollevare lui, ma non male lo stesso.
Quando si mise seduto, dopo aver posato la sbarra, impiegò
pochissimi istanti a riconoscerlo.
«Salve, agente, come sta?»
Pete lo raggiunse. «Bene. E lei come si sente?»
«Meglio.» Richard sorrise. «Non sapevo che frequentasse
questa palestra.»
«Ci vengo da anni.»
«Anch'io pensavo di iscrivermi. Oggi sto facendo un allenamento
di prova.» Una pausa. «Vuole venire qui lei, mentre
mi riposo?»
«Se non le spiace.»
«Si figuri.»
Un incontro casuale, seguito da quattro chiacchiere innocue.
Poi, dopo qualche minuto: «A proposito, agente Gandy...»
«Mi chiami Pete.»
«Pete», ripeté Richard. «Credo di essermi dimenticato di riferirle
una cosa, l'altra sera. Forse potrebbe esserle utile.»
«Sì?»
Richard spiegò. Poi, dopo aver terminato: «Come ho detto,
volevo che lo sapesse. Non si sa mai».
Mentre si allontanava, ripensò all'agente Dugan e alla sua
espressione quando si era sollevato la maglietta. Idiota.
32.
Julie se lo sarebbe sempre ricordato come l'ultimo giorno di
normalità.
Una normalità relativa, dato che da settimane niente sembrava
più tale. Singer era stranamente agitato: camminava irrequieto
tra le poltrone del negozio, mentre lei e Mabel lavoravano.
Anche i clienti non parevano particolarmente inclini a
chiacchierare. Julie avrebbe voluto essere in qualsiasi altro posto
(l'importante era solo che fosse molto, molto lontano da lì)
e loro, soprattutto le donne, lo intuivano.
Quando la nebbia si era dissolta, la temperatura era salita e,
manco a farlo apposta, il condizionatore dopo un po' si era inceppato.
Una cappa opprimente aleggiava nel locale e Mabel
aveva spalancato la porta d'ingresso, ma non essendoci un filo
di vento, entrava solo il caldo. Il ventilatore a soffitto era insufficiente
e Julie si sentiva svenire. Aveva la faccia lucida di
sudore e si scostava nervosamente il davanti della maglia per
farsi aria.
Però non aveva più pianto e, quando Mike era passato a vedere
come stava, aveva ritrovato il contegno giusto per nascondere
l'ennesima crisi appena superata. Si odiava per la propria
debolezza, avrebbe voluto affrontare la situazione con tranquilla
dignità, pensava. Poteva mostrare a Mike le proprie emozioni,
ma non andava bene scaricarle sugli altri, anche se si trattava
di amici. Per tutta la mattina, dopo quello che era successo,
Mabel l'aveva guardata di sottecchi, pronta a precipitarsi
da lei a braccia aperte in caso di necessità. Era tenero da parte
sua, ma alla fine quel comportamento non faceva altro che
ricordarle in continuazione il motivo della sua angoscia.
E poi c'era Andrea, che non si era fatta viva. Controllando
l'agenda, Mabel aveva visto che non aveva appuntamenti fino
a tarda mattina, perciò esisteva ancora la possibilità che, seppur
in ritardo, si presentasse in negozio.
Ma con il passare delle ore, a mano a mano che i suoi clienti
arrivavano, l'ansia di Julie cresceva.
Sebbene loro due non fossero amiche, sperava che non le
fosse capitato nulla. E pregava che lei non si trovasse con Richard.
Valutò se fosse il caso di chiamare la polizia, ma che cosa
avrebbe potuto dire? Che Andrea non si era presentata al
lavoro? Sapeva che per prima cosa le avrebbero chiesto se la
sua assenza fosse insolita. E la sua collega era sempre stata poco
affidabile quanto a puntualità.
Chissà quando si erano conosciuti lei e Richard, si domandò.
Era stato lì in negozio? Era evidente che Andrea nutriva
una certa attrazione, ma a quanto poteva giudicare, lui
non l'aveva corrisposta. No, si disse, quel giorno, mentre lei
gli tagliava i capelli, Richard continuava a voltarsi verso di me.
Mi guardava esattamente con la stessa espressione che aveva
dopo che Edna si era allontanata lasciandoci soli. Ricordò
quello che aveva detto la sera prima Emma al telefono.
Ho appena visto Andrea con Richard... li ho visti baciarsi.
In quel momento erano passate solo poche ore da quando
lei lo aveva trovato ad aspettarla nel bosco, rifletté. Inoltre, se
i due erano a Morehead City - a mezzora di strada da Swansboro
- Richard doveva essere passato a prendere Andrea appena
dopo il loro incontro. Lo aveva fatto, pensò, subito dopo
avermi detto che mi amava.
Non aveva senso.
Forse lui sapeva che Emma sarebbe stata da quelle parti?
Anche se si erano visti solo una volta, era sicura che Richard
avrebbe riconosciuto la sua amica e si chiese se anche quella
non fosse tutta una sua montatura. Forse in quel modo voleva
lanciarle un messaggio, anche se non riusciva proprio a capire
quale potesse essere. Ma se lo aveva fatto per infonderle un'illusione
di sicurezza, si sbagliava di grosso. Non ci sarebbe cascata
di nuovo.
No. Era escluso. Non c'era più nulla che lui potesse fare per
sorprenderla. Almeno, così pensava.
Al telefono con Casey Ferguson della J.D. Blanchard, Jennifer
si avvicinò il blocco e prese la matita.
«Certo, naturale», stava dicendo l'impiegato, continuando a
tergiversare, «però non siamo autorizzati a fornire simili informazioni.
I dati personali sono riservati.»
«Capisco», rispose lei, agitandosi sulla sedia e cercando di
darsi un tono serissimo. «Ma come ho spiegato, stiamo conducendo
un'indagine.»
«Gli accordi sulla privacy sono molto rigidi. Le amministrazioni
statali vogliono che li rispettiamo quando prendiamo
un appalto da loro.»
«Capisco», ripeté Jennifer, «ma se sarà necessario chiederemo
un mandato. Peccato, non volevo che la sua compagnia venisse
accusata di intralcio alla giustizia».
«E' una minaccia?»
«No, certo, che no», rispose Jennifer, ma sapeva di essersi
spinta troppo avanti.
«Mi spiace di non poterla aiutare. Se ci fosse un mandato,
allora saremmo lieti di collaborare», concluse Ferguson in tono
secco.
Un attimo dopo riattaccò e Jennifer imprecò tra sé mentre
posava a sua volta il ricevitore.
Quella sera a casa di lei, Julie e Mike fecero l'amore per la
prima volta da quando avevano incontrato Richard al Clipper.
Nessuno dei due però avvertiva un senso di frenesia e il loro
amplesso fu tenero e pieno di baci gentili. Poi lui la tenne stretta
a sé, sfiorandole la schiena con le labbra finché non si addormentò.
Si risvegliò qualche tempo dopo, sentendo Mike che
si muoveva. Fuori era già buio, ma non era tardi, e vide che si
stava infilando i jeans.
«Dove vai?»
«Devo portare fuori Singer. Credo che non ce la faccia più.»
Julie si stiracchiò. «Quanto ho dormito?»
«Non molto... un'oretta.»
«Scusa.»
«No, mi è piaciuto. Era bello ascoltare il tuo respiro. Dovevi
essere davvero stanca.»
Julie sorrise. «Lo sono ancora. Però ora vado in cucina a prendere
da mangiare, ho una fame terribile. Tu vuoi qualcosa?»
«Una mela mi basta.»
«Nient'altro? Non vuoi del formaggio o dei cracker?»
«No. Non ho fame stasera. Mi basta una mela.»
Uscì dalla camera mentre Julie accendeva l'abat-jour, sbattendo
gli occhi per abituarli alla luce. Poi si alzò, aprì un cassetto
e prese una maglietta extralarge. Si diresse in cucina mentre
se la infilava.
Mike era sulla porta ad aspettare che Singer rientrasse e la
guardò passare. Una volta in cucina, Julie aprì il frigo e tirò
fuori uno yogurt e dei biscotti al cioccolato, quindi afferrò anche
una mela dalla cesta e tornò verso la camera.
Mentre riattraversava il salotto, il suo sguardo cadde sul ciondolo.
Era sullo scrittoio accanto al calendario, nascosto in parte
da una pila di cataloghi, e al vederlo si sentì mancare. Il ciondolo
le faceva tornare alla mente immagini di Richard: il suo
modo di guardarla quando gliel'aveva regalato, Richard che afferrava
di scatto la porta, Richard nel bosco, che l'aspettava.
Non lo voleva in casa, ma con tutto quello che era successo, se
l'era scordato.
Adesso era lì sullo scrittoio, e l'aveva visto subito, senza cercarlo,
si disse. Senza volerlo vedere. Perché non l'aveva mai notato
prima?
Alle sue spalle l'orologio a muro scandiva i secondi. Con
la coda dell'occhio scorse Mike appoggiato contro lo stipite.
Il ciondolo rifletteva la luce della lampada sul tavolino, e brillava
sinistro. Julie si rese conto che le tremavano le mani.
La posta, pensò di colpo. Sì, è così. Quando ho messo la posta
sullo scrittoio devo averlo spostato inavvertitamente. Deglutì.
Giusto?
Non ne era certa. Tutto quello che sapeva era che non lo voleva
più in giro. Per quanto suonasse ridicolo, adesso era un
simbolo del male e toccarlo avrebbe in qualche modo evocato
la presenza di Richard. Ma non aveva scelta.
Con uno sforzo di volontà, allungò la mano, lo afferrò e lo
sfilò da sotto i cataloghi. E' solo un ciondolo, si disse. Nient'altro.
Stava per andare a gettarlo nella spazzatura, poi ci ripensò
e decise di riporlo momentaneamente nel cassettone. Non
avrebbe avuto molto valore con le sue iniziali incise dentro, ma
vendendolo ci avrebbe ricavato qualche soldo, che avrebbe dato
in elemosina in chiesa. Almeno quell'oggetto sarebbe servito
per una buona causa.
Lo portò in camera e lo esaminò mentre apriva un cassetto.
Il motivo floreale che lo decorava era molto grazioso e doveva
essere stato eseguito da un abile orafo. Che peccato, pensò.
Se era fortunata ci avrebbe ricavato al massimo cinquanta
dollari.
Mentre spostava di lato la biancheria, i suoi occhi notarono
qualcosa di strano. Il ciondolo era lo stesso, ma c'era qualcosa
di diverso. Qualcosa...
Trattenne il respiro.
No. Ti prego... no...
Aprì la chiusura, sapendo che era l'unico modo per accertarsene.
Si avvicinò allo specchio del bagno e si mise la catena
al collo, tenendola ferma con le dita sulla nuca ma senza richiuderla.
Poi, guardandosi allo specchio, cercò di affrontare
ciò che era già evidente. Il ciondolo, che in origine le arrivava
all'altezza dell'incavo dei seni, adesso poggiava diversi centimetri
più in alto.
Ti farò avere una catenina più corta Così potrai indossare il
ciondolo tutte le volte che vorrai.
Julie si sentì mancare. Si allontanò dallo specchio barcollando,
lasciando cadere di scatto la catenina come se le avesse
scottato le dita. Il ciondolo scivolò sotto la maglietta e rimbalzò
tintinnando sul pavimento di mattonelle.
Lei lo osservò in silenzio e dopo qualche secondo lanciò un
grido.
Cadendo, il ciondolo si era aperto, rivelando al suo interno
due foto di Richard sorridente scelte apposta per lei.
Questa volta Jennifer Romanello non era arrivata da sola a
casa di Julie. L'agente Gandy era seduto al tavolo in cucina e
teneva in mano il ciondolo, senza mascherare un'espressione
dubbiosa.
«Fatemi capire», disse, aprendolo. «Tu picchi quel tizio e lui
per vendicarsi manda a Julie un paio di sue foto?»
Mike strinse i pugni sotto il tavolo cercando di trattenersi.
«Te l'ho già detto, la sta perseguitando.»
Pete annuì, continuando a guardare le foto. «Sì, lo so. Continui
a ripeterlo, ma sto solo cercando di vedere se ci sono altre
angolature.»
«Quali altre angolature?» chiese Mike esasperato. «Non capisci
che la prova è proprio questa? Che lui si è introdotto qui?
Si tratta di violazione di domicilio.»
«Ma non manca niente. Non ci sono segni di effrazione. Tutte
le porte e le finestre erano chiuse quando siete tornati a casa.
Lo hai detto tu stesso.»
«Non stiamo sostenendo che abbia preso qualcosa! E non
so come ci sia riuscito, ma lo ha fatto. Ti vuoi decidere ad aprire
gli occhi?»
Pete alzò le mani.
«Senti, Mike, datti una calmata. Non c'è motivo di alterarsi.
Sto solo cercando di arrivare a fondo della questione.»
Anche Jennifer fremeva, ma Pete l'aveva avvertita che avrebbe
condotto lui il colloquio e che non doveva fiatare. La sua
faccia però rivelava un misto di raccapriccio e morboso interesse,
soprattutto alla luce delle indagini che aveva condotto
quella mattina. Possibile che il suo compagno fosse così cieco?
si chiese.
«Arrivare a fondo?»
«Sì», rispose Pete. Si sporse in avanti e posò il ciondolo sul
tavolo. «Adesso, non è che la faccenda non sia un po' torbida,
lo ammetto. E se Julie dice la verità, allora Richard Franklin
ha un problemino e sarà il caso che vada a parlarci.»
Il viso di Mike si indurì. «Lei sta dicendo la verità», rispose
a denti stretti.
Pete ignorò le sue parole e fissò Julie. «Sei sicura di tutto?
Che per Richard l'unico modo di inserire le foto nel ciondolo
sia stato entrare di nascosto in casa tua?»
Lei annuì.
«E hai detto di non aver toccato la collanina nelle ultime settimane?»
«Sì», confermò lei. «Era sepolta sotto una pila di riviste sullo
scrittoio.»
«Avanti, Pete», si intromise Mike, «che cosa c'entra tutto
questo?»
Il poliziotto lo ignorò anche stavolta, lo sguardo scettico sempre
fisso su di lei.
«Non esiste altro momento in cui lui abbia potuto mettere
le foto qui dentro?» ripeté. «Nessun'altra occasione nelle ultime
settimane?»
Quando ebbe finito di parlare la cucina rimase stranamente
silenziosa. Pete continuava a fissarla e, sotto quello sguardo
penetrante, Julie alla fine intuì che lui sapeva. Sentì una stretta
allo stomaco.
«Quando te lo ha detto?» gli chiese.
«Detto cosa?» domandò Mike.
Julie proseguì a voce bassa, ma carica di disprezzo. «Ti ha
telefonato per informarti che si era dimenticato di riferirtelo?»
chiese. «E' così? Oppure vi siete incontrati per caso da qualche
parte e lui se n'è ricordato all'improvviso?»
Pete non rispose, ma non ce ne fu bisogno. Un movimento
istintivo e quasi impercettibile della sua testa le rivelò di avere
indovinato. Probabilmente era vera la seconda ipotesi, pensò.
Richard glielo aveva detto di persona, faccia a faccia, in modo
che Pete potesse essere ingannato.
Mike, nel frattempo, guardava dall'uno all'altra, cercando di
decifrare il misterioso dialogo. Quella comunicazione segreta
tra loro due gli dava l'impressione che tutta la situazione fosse
ormai fuori da qualsiasi controllo.
«Puoi rispondere alla domanda e basta, per favore?» insistette
Pete.
Julie tacque e continuò a guardarlo negli occhi.
«Ma ti ha risposto!» esclamò Mike. «No, non c'è altra possibilità...»
Julie non lo udì nemmeno. Si girò verso la finestra, fissando
distrattamente le tende chiuse.
«Sì», rispose senza enfasi. «C'è stata un'occasione in cui
avrebbe potuto farlo.»
Pete si appoggiò alla spalliera e alzò le sopracciglia.
«Cioè quando ha passato la notte qui», disse.
«Cosa?» esclamò Jennifer spalancando la bocca.
«Cosa?» le fece eco Mike.
Julie si voltò verso di loro.
«Non è successo niente tra di noi, Mike», disse con aria distaccata.
«Proprio niente. Sua madre era morta e lui era sconvolto,
così abbiamo parlato. Parlato e basta. Poi si è addormentato
sul divano. E questo che intende Pete.»
Sebbene lei avesse detto l'assoluta verità, l'espressione del
poliziotto le fece capire che Richard aveva lasciato intendere
qualcos'altro.
E anche Mike se ne rese conto.
Richard abbassò la macchina fotografica. Equipaggiata con
un teleobiettivo, gli serviva da binocolo di fortuna e l'aveva usata
per osservare Mike e Julie da quando erano rincasati. Di giorno
era impossibile vedere qualcosa attraverso le tende di garza
alle finestre, ma dopo il tramonto, con le luci accese, riusciva
a scorgere delle ombre ed era tutto quello che gli serviva.
Sapeva che l'avrebbe trovato proprio quella sera, si disse.
Aveva dovuto spostarlo in una posizione migliore dopo il suo
incontro con Pete Gandy, ma era sicuro che lei l'avrebbe notato
sullo scrittoio.
Certo, era stata una spiacevole sorpresa, pensò, ma non c'era
altra soluzione. Era ora di mettere fine una volta per tutte
alla sua infatuazione per Mike.
Dopo aver chiuso la porta dietro gli agenti, Mike ci si appoggiò
con le mani, come se avesse bisogno di un puntello. Teneva
la testa china e Julie sentiva i suoi lunghi respiri. Singer
era al suo fianco e lo guardava incuriosito, forse chiedendosi
se si trattava di un nuovo gioco.
«Perché non me lo hai detto?» chiese a un certo punto Mike,
alzando il mento.
Julie, che stava in piedi sulla soglia della cucina, girò la testa
di lato.
«Sapevo che ti saresti arrabbiato...»
Lui sbuffò, ma lei continuò come se non l'avesse sentito.
«Ma soprattutto, sapevo che avrei ferito i tuoi sentimenti, e
non c'era motivo di farlo. Ti giuro che non è successo niente.
Abbiamo solo parlato.»
Mike si raddrizzò e infine si girò. La sua espressione era dura.
Arrabbiata. «E' successo la sera del nostro primo appuntamento,
giusto?» Era stata anche la sera in cui aveva cercato di
baciarla per la prima volta, ma lei non glielo aveva permesso.
Julie annuì. «Tempismo perfetto, vero?»
Non era il momento di scherzare e se ne pentì subito. Fece
un passo avanti. «Non sapevo che si sarebbe fermato qui. Stavo
per andarmene a dormire quando ha suonato alla porta.»
«E allora? Tu lo hai fatto entrare?»
«Non è andata così. Prima abbiamo quasi litigato, perché gli
ho detto che non volevo più vederlo. Lui si è arrabbiato e allora
Singer...»
Fece una pausa. Non voleva ricordare quei momenti. Tanto
sembrava tutto inutile.
«Singer che cosa?»
Julie alzò le spalle. «Lo ha morso. Quando ho cercato di richiudere
la porta, lui l'ha bloccata con la mano e Singer lo ha
azzannato.»
Mike la guardava. «E non hai mai pensato che fosse una cosa
abbastanza importante per parlarmene? Nemmeno dopo tutto
quello che è successo in seguito?»
«E' così, credimi», lo supplicò lei. «Non era importante. Io
gli ho detto che non volevo più vederlo e lui si è arrabbiato.»
Mike incrociò le braccia. «Fammi capire bene», disse. «Lui
viene alla porta, litigate, Singer lo azzanna e poi tu lo inviti a
dormire da te. Correggimi se sbaglio, ma mi sembra che non
abbia molto senso.»
«Non fare quella faccia, Mike...»
«Quale faccia? Quella di uno che è un po' sconvolto perché
gli hai mentito?»
«Non ti ho mentito.»
«No? E allora tu come definiresti il tuo atteggiamento?»
«Non te l'ho detto perché non era importante, te lo ripeto.
Non significava niente e non era successo niente. E tutto quello
che sta succedendo ora non è conseguenza di quella notte.»
«Come fai a saperlo? Forse è stata proprio quella notte a dargli
l'impressione sbagliata.»
«Ma io l'ho solo ascoltato e nient'altro!»
Mike non replicò, ma la guardò con aria di accusa.
«Non mi credi?» gli chiese lei, scrutandolo. «Che cosa? Pensi
che sia andata a letto con lui?»
Mike non rispose subito. «Non so più che cosa pensare.»
Julie trasalì. Avrebbe voluto sfogarsi subito, alzare la voce,
mandarlo fuori di casa, ma resistette all'impulso, ricordando le
parole di Richard.
Scommetto che non gli hai nemmeno detto che mi hai fatto
passare la notte a casa tua. Secondo te come la prenderebbe?
Di colpo comprese che anche questo faceva parte del suo
piano. Li stava manovrando, come aveva fatto con Pete Gandy.
Come aveva fatto al Clipper. Respirò profondamente, sforzandosi
di tenere calma la voce, di non far trapelare la rabbia.
«E questo che pensi di me, Mike? Che andrei a letto con un
uomo che conosco appena la sera stessa in cui gli ho detto che
non voglio più vederlo? E dopo averti confidato che non mi
piace nemmeno? Sono tanti anni che mi conosci, e credi davvero
che farei una cosa del genere?»
Mike la guardò. «Non lo so.»
Quelle parole le fecero salire le lacrime agli occhi. «Non sono
andata a letto con lui», protestò.
«Forse no», disse Mike alla fine. Afferrò la maniglia. «Però
fa male lo stesso sapere che non ti sei fidata di me. Soprattutto
dopo che è cominciata questa storia delle molestie.»
«Io mi fido di te. Ma non volevo ferirti.»
«Lo hai appena fatto, Julie», disse lui. «Lo hai appena fatto.»
Aprì la porta d'ingresso e Julie comprese per la prima volta
che aveva intenzione di andarsene.
«Aspetta... dove vai?»
Mike alzò le mani. «Ho bisogno di un po' di tempo per pensare,
d'accordo?»
«Ti prego», lo implorò lei. «Non andartene. Non voglio restare
da sola stanotte.»
Lui si fermò e fece un profondo respiro. Ma un momento
dopo scrollò il capo e si allontanò.
Richard osservò Mike percorrere il vialetto e sbattere la portiera
del furgone.
Sorrise, sapendo che Julie avrebbe finalmente compreso la
verità su di lui. Che non poteva fidarsi. Che Mike era una persona
impulsiva, uno che non ragionava prima di agire. Che Mike
non era degno di lei, né lo sarebbe mai stato. Che lei meritava
un uomo più forte, più intelligente, all'altezza del suo amore.
Nascosto sull'albero, non vedeva l'ora di portarla via da quella
casa, da quella città, da quella vita nella quale si era lasciata
intrappolare. Sollevando la macchina fotografica, tornò a guardare
l'ombra di Julie oltre le tende del salotto.
Anche la sua ombra era bella, si disse.
33.
«Che cosa ha fatto?» chiese Henry.
«Mi hai sentito», rispose Mike. «Gli ha fatto passare la notte
a casa sua.»
Nei quindici minuti che aveva impiegato per arrivare dal fratello,
la sua collera era cresciuta. Adesso erano in giardino ed
Emma aprì la porta per chiedere che cosa stesse succedendo,
ma lui rimase a fissarla in silenzio, convinto che sapesse già
quello che aveva combinato Julie. Henry alzò una mano.
«Dammi un secondo, cara, d'accordo? Mike è piuttosto sconvolto.»
Prima di rientrare in casa, Emma gli lanciò un'occhiata che
diceva chiaramente: D'accordo, chiudo la porta, ma mi aspetto
un rapporto completo, dopo. Henry tornò a girarsi verso il fratello.
«Te lo ha detto lei?» gli chiese.
«Sì, quando è venuta la polizia...»
«Aspetta un attimo», lo bloccò Henry. «La polizia è venuta
da voi?»
«Sono appena andati via.»
«E perché?»
«Per via del ciondolo. Richard ci ha messo dentro un paio
di sue foto. Si può sapere che diavolo devo fare io adesso?»
Henry cercava di seguire il suo racconto, ma tutta la faccenda
gli risultava molto confusa. Alla fine lo prese per un braccio.
«Ora calmati, Mike. Magari è meglio se parti dall'inizio.»
«Allora, per quanto tempo hai intenzione di tenermi il muso?»
chiese Pete Gandy.
Stavano attraversando lentamente le vie del centro e Jennifer
Romanello non aveva aperto bocca da quando erano usciti da
casa di Julie. Si voltò verso il finestrino nell'udire la sua voce.
«Ce l'hai ancora con me per questa storia di Mike Harris?»
continuò lui imperterrito. «In tal caso, devi imparare a dominare
le tue emozioni. Il nostro lavoro non è sempre facile.»
Jennifer lo guardò con aria disgustata.
«Non sarà facile», disse, «ma non c'è nemmeno bisogno di
essere uno stronzo.»
«Ma di che cosa parli? Non sono stato uno stronzo.»
«No? E allora che cos'era quella piccola osservazione che
hai fatto di fronte a Mike? Non ce n'era motivo.»
«Vuoi dire a proposito di Richard e Julie?»
Lei non rispose, ma non era necessario. Persino Pete sapeva
che era quello il punto.
«Ma perché sei così scandalizzata? Era vero, no?»
Jennifer decise che quel tipo meritava tutto il suo disprezzo.
«Ma non dovevi dirlo per forza davanti a lui», rispose. «Potevi
prendere Julie da parte e parlargliene a quattrocchi. Poi
lei avrebbe potuto spiegarlo al suo uomo.»
«E che differenza c'è?»
«La differenza è che li hai colti di sorpresa, e probabilmente
così hai scatenato una crisi tra di loro.»
«E allora? Non è affar mio se non sono sinceri tra di loro.
Io volevo solo chiarire le cose fino in fondo.»
«Come no», disse Jennifer. «E poi, senti, come hai scoperto
che Richard aveva passato la notte da lei? Hai parlato con lui
o cosa?»
«Sì, in effetti l'ho incontrato per caso in palestra. Mi sembra
un tipo simpatico.»
«Un tipo simpatico.»
«Sì.» Pete era sulla difensiva. «Tanto per cominciare, non ha
intenzione di dar corso alle accuse e questo dice già qualcosa,
no? Vuole dimenticare tutta la faccenda. E non procederà nemmeno
con la denuncia civile.»
«E quando avevi intenzione di farmelo sapere?»
«Che cosa c'era da farti sapere? Come ho detto, il caso è
chiuso e poi non ti riguarda comunque. Stai ancora imparando
i rudimenti.»
Jennifer chiuse gli occhi.
«Il problema è che Richard Franklin perseguita Julie Barenson,
e lei è spaventata a morte. Ma perché non riesci a capirlo?»
Pete scrollò la testa.
«Senti, Richard mi ha parlato del ciondolo, va bene? Mi ha
detto di averci messo dentro le foto quando ha passato la notte
con lei. E ricordati che anche Julie ha dichiarato di non averlo
più toccato da allora, quindi chi può dire che lui mente?»
«E non ti importa niente di tutto il resto che lei ha dichiarato?
Del fatto che l'abbia seguita? Non credi che sia una coincidenza
un po' sospetta?»
«Ehi», protestò Pete, «ho parlato con lui un paio di volte e
adesso...»
Venne interrotto dalla radio che li chiamava. Lanciandogli
un'occhiata di fuoco, Jennifer rispose.
Sylvia, l'addetta al centralino che lavorava al distretto da
vent'anni e in pratica conosceva tutti gli abitanti della città,
aveva un tono incerto, come se non sapesse che cosa fare.
«Abbiamo appena ricevuto una segnalazione da un camionista
in viaggio sull'autostrada. Ha detto di aver visto qualcosa
di strano in un fossato e che forse era il caso di mandare
qualcuno a controllare.»
«Secondo lui di che cosa si trattava?»
«Non si è dilungato in spiegazioni. Credo che avesse fretta
e non volesse fermarsi per essere interrogato. E sull'autostrada
24, a meno di un chilometro dalla stazione di servizio Amoco,
in carreggiata nord.»
«Ci andiamo subito», rispose Jennifer, grata che ci fosse qualcosa
che zittisse Pete.
Mike se n'era andato da mezzora e la casa era minacciosamente
silenziosa. Julie entrò in tutte le stanze, per accertarsi che
porte e finestre fossero chiuse a chiave, poi si mise a camminare
su e giù per il salotto. Singer era sempre al suo fianco. Fuori
i grilli cantavano e un vento leggero faceva frusciare le foglie.
Incrociò le braccia e guardò verso la porta. Il cane si era seduto
accanto a lei, con la testa appoggiata alla sua gamba. Dopo
un attimo guaì e lei cominciò ad accarezzarlo. Come se si rendesse
conto
della
situazione, non l'aveva più lasciata da
quando Mike era uscito.
Julie era sicura che Richard non avesse messo le foto nel ciondolo
la notte in cui aveva dormito lì. Era appena tornato da un funerale,
santo Dio. Ed era plausibile che si portasse dietro due piccole
foto di se stesso, nella remota eventualità di poter compiere
di nascosto quell'operazione mentre lei era chiusa in camera?
No, era stato lì in seguito, decise. Dentro casa sua. A guardarsi
in giro, aprire i cassetti, rovistare tra le sue cose. Il che
voleva dire che sapeva come entrare.
E che poteva rifarlo.
Sentì un nodo in gola a quel pensiero e andò in cucina. Prese
una sedia e la incastrò sotto la maniglia della porta d'ingresso.
Ma perché Mike se n'era andato? si chiese. Come aveva potuto
lasciarla sola proprio quella notte, con Andrea che era sparita
e quell'uomo che la perseguitava?
D'accordo, non gli aveva detto di Richard, ammise. E allora?
Non era successo niente!
Però Mike non le aveva creduto, pensò. Era arrabbiata con
lui per questo, e anche ferita. Ma lasciarla sola proprio in una
notte simile...
Si mise seduta sul divano e cominciò a piangere.
«Le credi?» chiese Henry.
Mike guardò verso la strada e fece un profondo respiro.
«Non lo so.»
Il fratello lo fissò negli occhi. «Certo che le credi.»
«Invece no», sbottò Mike. «Come faccio a saperlo, se non
ero lì?»
«Perché conosci Julie», spiegò Henry. «La conosci meglio di
chiunque altro.»
Dopo un attimo le spalle di Mike si rilassarono impercettibilmente.
«No», disse infine, «non penso che sia andata a letto
con lui.»
Henry aspettò un attimo, poi chiese: «Allora che cos'è questa
storia?»
«Mi ha mentito.»
«Non è vero. Non te lo ha detto e basta.»
«E' lo stesso.»
«Non è vero. Credi che io dica sempre tutto a Emma? Soprattutto
le cose insignificanti?»
«Questo era importante, Henry.»
«Non per lei, Mike.»
«Com'è possibile? Dopo tutto quello che è successo.»
In effetti aveva ragione, pensò Henry. Julie avrebbe fatto meglio
a informarlo, ma ormai era andata così e non aveva senso
recriminare.
«Allora che cosa hai intenzione di fare?»
Mike rimase in silenzio per un po', poi rispose: «Non lo so».
Richard vedeva la sagoma di Julie seduta sul divano. Sapeva
che stava piangendo e avrebbe voluto stringerla, consolarla,
scacciare il dolore. Le emozioni di lei erano diventate le sue
e lui le provava tutte: la solitudine, la paura, la sofferenza. Prima
d'ora non si era mai commosso alla vista delle lacrime.
Non si era sentito così nemmeno dopo aver visto la madre
piangere nei mesi successivi al funerale del padre, pensò. Ma
del resto, alla fine era arrivato a odiarla.
Mike lasciò la casa di Henry diretto al suo appartamento,
con la testa ancora confusa.
Non riusciva a mettere a fuoco la strada e non riconosceva
le immagini che gli sfilavano accanto.
Julie avrebbe dovuto dirglielo, pensò di nuovo. Certo, all'inizio
lui non l'avrebbe presa bene, ma poi ci sarebbe passato
sopra. L'amava e che cos'era l'amore senza la fiducia o la sincerità?
Ce l'aveva anche con Henry, che non aveva dato troppo
peso alla faccenda. Forse l'avrebbe pensata diversamente se
Emma lo avesse tradito, come aveva fatto Sarah con lui qualche
anno prima. Una volta scottati, si diventa prudenti.
Solo che Julie non l'aveva tradito. Sapeva che non mentiva
su questo. Però non si era fidata di lui, rimuginò. Ed era questo
il punto cruciale. La fiducia. Era sicuro che a Jim lo avrebbe
detto, e allora perché non l'aveva detto a lui?
Il loro rapporto era così diverso da quello tra lei e Jim? Lei
non si fidava di lui quanto si fidava del marito?
Non lo amava?
Appostato sull'albero, Richard continuava a pensare alla madre.
Ricordò di aver sperato che stesse meglio, che diventasse
più forte dopo il funerale del padre. Invece aveva cominciato
a bere e la cucina era perennemente impregnata del fumo
delle sigarette che accendeva a ripetizione. Poi era diventata
violenta, come se avesse scelto di rimanere fedele al marito
assumendone il comportamento. La prima volta che era successo,
lui stava dormendo ed era stato svegliato di soprassalto
da un dolore lancinante, come una bruciatura.
La madre era in piedi di fianco al suo letto, gli occhi sgranati,
la cinghia stretta in una mano. Aveva usato l'estremità con
la fibbia per colpirlo.
«E' stata colpa tua!» gridò. «Lo facevi sempre arrabbiare!»
Lo aveva colpito ripetutamente. Si era raggomitolato, le aveva
implorato di smettere, aveva cercato di proteggersi, ma lei
aveva continuato a infierire finché le sue braccia non avevano
più avuto la forza di alzare la cinghia.
La notte dopo era tornata, ma stavolta se l'aspettava e aveva
sopportato i colpi con la stessa rabbia silenziosa che provava
nei confronti del padre. Capì di odiarla, ma non poteva fare
qualcosa per fermarla subito. Dopo tutto la polizia nutriva
ancora qualche dubbio sull'incidente che aveva causato la morte
di suo padre.
Nove mesi dopo, con la schiena e le gambe coperte di cicatrici,
aveva sbriciolato i sonniferi della madre e li aveva versati
nelle bottiglie di vodka. Quella sera lei era andata a letto
e non si era più risvegliata. La mattina dopo, mentre guardava
il suo corpo disteso, era rimasto a pensare a quanto fosse
stata limitata la sua intelligenza. Pur avendo il sospetto che il
figlio fosse in qualche modo coinvolto nella morte del marito,
non era arrivata a credere che le potesse capitare la stessa
sorte. Invece avrebbe dovuto sapere che lui era abbastanza
forte da fare quello che andava fatto.
E anche Julie era stata abbastanza forte da cambiare la propria
vita, si disse ora. Julie era una lottatrice.
L'ammirava proprio per questo. L'amava per questo. Ma
era giunto il momento che la lotta finisse. Era sicuro che persino
lei se ne rendesse conto. Magari non consapevolmente,
ma in maniera inconscia. Adesso che la storia con Mike era
chiusa, non c'era più motivo di rimandare l'inevitabile.
Lentamente, cominciò a scendere dall'albero.
Gli agenti Romanello e Gandy parcheggiarono sul ciglio
dell'autostrada
e, dopo aver preso le torce, saltarono giù dalla vettura.
A poca distanza, si vedevano le luci della stazione di servizio
Amoco e le auto che facevano benzina. Sulla carreggiata, le
macchine sfrecciavano veloci e il lampeggiante blu e rosso segnalava
agli automobilisti la loro presenza.
«Tu vai da quella parte», disse Pete indicando verso la stazione.
«Io da questa.»
Jennifer accese la torcia e cominciò la perlustrazione.
Julie stava ancora piangendo sul divano, quando udì un rumore
fuori. Singer drizzò le orecchie e corse verso la finestra,
ringhiando. Con il cuore in gola, lei si guardò intorno, in cerca
di un'arma.
Quando il cane abbaiò, balzò su dal divano con gli occhi
sbarrati, ma un attimo dopo si accorse che scodinzolava.
«Julie?» disse una voce. «Sono io, Mike.»
Raggiunse al volo la porta d'ingresso e tolse la sedia che la
bloccava, mentre era invasa da un'ondata di sollievo. Non appena
ebbe aperto, Mike la guardò, poi chinò gli occhi a terra.
«So che non sei stata a letto con lui», disse.
Julie annuì. «Grazie.»
«Però vorrei parlarne con te.»
«D'accordo.»
Mike si mise le mani in tasca e fece un profondo respiro.
«A Jim lo avresti detto?» chiese infine.
Julie rimase perplessa. Era una domanda che non si era posta.
«Sì», rispose. «Glielo avrei detto.»
Lui annuì. «Lo immaginavo.»
«Eravamo sposati, Mike. Devi capirlo.»
«Lo so.»
«Non ha niente a che vedere con quello che provo per te,
però. Non credo che glielo avrei detto se fosse successo quando
eravamo fidanzati.»
«Davvero?»
«Davvero. Non volevo ferirti. Io ti amo. E se avessi saputo
che saremmo arrivati a questo punto, te l'avrei detto subito.
Ma avrei dovuto farlo comunque. Ti chiedo scusa.»
«Anch'io. Per averti detto quello che ho detto.»
Julie fece un passo avanti, titubante, ma vedendo che Mike
non si allontanava, gli si appoggiò contro e sentì le sue braccia
che la stringevano.
«Vorrei fermarmi qui stanotte», disse lui, «se per te va bene».
Chiuse gli occhi. «Speravo che me l'avresti chiesto.»
Richard era tornato sui suoi passi non appena aveva visto il
furgone fermarsi davanti alla casa e si era nascosto di nuovo
sull'albero. Adesso li guardava con un'espressione dura.
No, pensò. No, no, no...
Come in un incubo, la vide abbandonarsi tra le braccia di
Mike. Vide lui che la stringeva a sé...
No, non era vero, non poteva essere vero. Mike era tornato
e adesso stavano abbracciati. Come se si amassero.
Si sforzò di calmarsi, di recuperare il controllo.
Chiuse gli occhi, visualizzò le sue foto di Jessica, di Julie, degli
uccelli; recitò le lezioni su come preparare la macchina fotografica
per uno scatto. Sugli obbiettivi e le loro caratteristiche.
Sull'angolazione giusta del flash, le proprietà della luce...
Il suo respiro tornò regolare e lui aprì gli occhi. Aveva ritrovato
il controllo, ma sentiva la rabbia che gli saliva dentro.
Perché, si chiese, perché lei insisteva a ripetere gli stessi errori?
Lui aveva cercato di essere carino. Di essere giusto. Era
stato molto paziente con lei e con il suo amichetto. Più che paziente.
Socchiuse gli occhi. Ma non si rendeva conto di quello che
lo stava spingendo a fare?
Jennifer spostava la torcia da una parte all'altra, cercando
quello che il camionista poteva aver visto. La luna era bassa
sull'orizzonte,
sotto la linea degli alberi. Il cielo era punteggiato
da una miriade di stelle e l'aria pervasa dall'odore intenso dei
gas di scarico. Avanzava lentamente, perlustrando il ciglio del
fosso. Niente.
A pochi metri dalla strada cresceva un folto di pini. Il sottobosco
era molto fitto e intricato e la luce della torcia non riusciva
a penetrarlo. Le macchine continuavano a sfrecciare, ma
lei non ci faceva caso. Stava guardando il terreno, avanzando
piano, con cautela. Fece un altro passo, quando udì un movimento
alle proprie spalle. Girò la torcia e vide due occhi fosforescenti
che la fissavano. Si irrigidì, sorpresa, prima che il
cervo scappasse via.
Tirò il fiato e continuò a camminare. La stazione di servizio
adesso era più vicina e ancora una volta si chiese che cosa mai
avrebbe dovuto cercare.
Girò intorno a un sacco dell'immondizia, vide lattine e fazzoletti
sul fondo del fossato. Cominciava a domandarsi se non
fosse il caso di tornare indietro per aiutare Pete dall'altra parte,
quando il fascio della torcia illuminò qualcosa che la sua
mente si rifiutava di identificare.
Poi Jennifer urlò.
Pete Gandy si voltò di scatto e corse nella sua direzione. La
raggiunse in meno di un minuto e la vide china su un corpo. Si
bloccò, di colpo paralizzato.
«Chiama subito un'ambulanza!» gli gridò Jennifer e lui si
precipitò verso l'autopattuglia.
Tenendo a bada il panico, lei si concentrò sul corpo che giaceva
ai suoi piedi. Era una giovane donna con il volto fracassato
e pieno di sangue. Intorno al collo si era formato un nauseabondo
anello rossastro. Un polso era piegato in maniera innaturale,
chiaramente rotto. Aveva creduto che fosse morta finché,
tastandole il polso, non aveva sentito un lieve battito.
Pete tornò, si inginocchiò lì accanto e, non appena ebbe riconosciuto
la vittima, si girò di lato a vomitare.
34.
Quando Julie arrivò al lavoro il giovedì mattina, trovò gli
agenti Gandy e Romanello ad aspettarla in negozio. Ne capì
subito il motivo.
«Si tratta di Andrea, vero?»
Mabel era in piedi dietro di loro, con gli occhi rossi e gonfi.
«Oh, tesoro...» disse, andando verso di lei per abbracciarla.
«Ho avvertito anche Mike ed Henry...» Cominciò a singhiozzare
convulsamente.
«Che cosa è successo?»
«L'ha picchiata a sangue», mormorò Mabel. «L'ha quasi uccisa.
.. E' in coma... non sanno se ce la farà... L'hanno portata
a Wilmington in elicottero...»
Julie si sentì mancare le ginocchia. Un attimo dopo, Mike ed
Henry si precipitarono dentro.
«Che cosa ha fatto ad Andrea?» chiese Mike fissando i due
poliziotti.
Jennifer esitò. Come descrivere una violenza simile? pensò.
Tutto quel sangue, le ossa rotte...
«Una brutta storia», disse infine Pete. «Non avevo mai visto
niente di simile.»
Mabel ricominciò a singhiozzare, mentre Julie si sforzava di
non piangere. Henry era impietrito, ma Mike guardò Jennifer
negli occhi.
«Lo avete arrestato?» chiese.
«Non ancora», rispose lei.
«E che cosa aspettate, per la miseria?»
«Non sappiamo se sia lui il colpevole...»
«Ma certo che è lui! Chi altri potrebbe compiere un'azione
simile?»
Jennifer alzò le mani, cercando di mantenere il controllo della
situazione.
«Sentite, so che siete sconvolti...»
«Eccome!» gridò Mike. «Come potremmo non esserlo?
Quell'uomo è ancora libero mentre voi due state qui a perdere
tempo!»
«Adesso calmati», gli disse Pete.
L'altro si voltò verso di lui. «Calmarmi? Se tu non fossi così
dannatamente stupido, tutto questo non sarebbe successo!
Ti avevo avvertito che quel tizio era pericoloso! Ti abbiamo implorato
di intervenire! Ma eri troppo occupato a fare il duro,
per renderti conto di quello che stava succedendo.»
«Vacci piano.»
Mike si fece avanti. «E non dirmi che cosa devo fare! E' tutta
colpa tua!»
Pete serrò la bocca e fece un passo verso Mike, prima che
Jennifer si mettesse tra loro.
«In questo modo non aiuteremo certo Andrea!» gridò. «Calmatevi!
Tutti e due!»
I due uomini continuavano a fissarsi negli occhi, i corpi tesi
e frementi.
«Ascoltate», si affrettò ad aggiungere Jennifer rivolta a Mike
e a Julie, «voi non ci avevate informato che Andrea era stata
vista con Richard e l'abbiamo trovata solo dopo essercene andati
da casa vostra. Lei era già in coma, non c'era modo di sapere
chi l'avesse ridotta così. Pete e io siamo rimasti sul posto
fin quasi all'alba e siamo venuti qui stamattina, perché questo
è il posto dove lei lavorava e non perché sospettassimo qualcosa.
Mabel ci ha detto di lui e Andrea giusto cinque minuti
fa. Avete capito?»
Mike fissò Pete ancora per qualche istante, poi distolse lo
sguardo e fece un profondo respiro.
«Va bene, ho capito», disse. «Scusatemi.»
Pete continuò a guardarlo risentito. Un attimo dopo, Jennifer
si rivolse a Julie.
«Mabel ci ha detto che Emma aveva visto Andrea e Richard
insieme a Morehead City, è giusto?»
«Sì», rispose lei. «Un paio di giorni fa. Quando l'ho incontrato
nel bosco.»
«E nessuno di voi era al corrente del fatto che si frequentavano?»
«No», fece Julie. «A me non lo aveva detto. L'ho saputo per
la prima volta da Emma.»
«Mabel?»
«Anche a me non aveva detto niente.»
«E ieri non è venuta al lavoro?»
«No.»
«E non vi è sembrato strano? Voglio dire, sapendo che era
uscita con Richard.»
«Certo, eravamo preoccupate per lei», spiegò Mabel. «Però
non era la prima volta che Andrea non si presentava al lavoro.
E' fatta così.»
«Ma in genere non telefona per avvertire?»
«Non sempre.»
Jennifer tornò a rivolgersi a Julie. «Perché non ci hai detto
nulla di Andrea e Richard ieri sera?»
«Non ci ho pensato. Ero sconvolta per via del ciondolo, e
poi, dopo che Pete...»
Lei annuì, capiva perfettamente a che cosa si riferisse.
«Sarebbe possibile far venire qui Emma? Vorrei sentire che
cosa ha da dire.»
«Non c'è problema», rispose Henry. «La chiamo subito.»
Volendo accertarsi di avere tutti gli elementi del caso, Jennifer
ripercorse ancora una volta la sequenza degli eventi, prima
di passare a domande più generiche: quali locali frequentasse
Andrea, chi fossero i suoi amici, se esistesse la possibilità
che fosse coinvolto anche qualcun altro. Era la procedura standard,
perché sapeva che la mancanza di indagini verso altri possibili
sospetti poteva essere usata dalla difesa per accusare la
polizia di negligenza in tribunale.
Julie faticava a concentrarsi mentre Jennifer proseguiva nelle
domande. Per quanto fosse sconvolta da ciò che era accaduto
ad Andrea, non riusciva a scrollarsi di dosso il pensiero
che Richard l'avesse seguita per settimane. Che era stato a casa
sua. E che lei poteva essere la sua prossima vittima.
Emma arrivò con gli occhi gonfi di pianto per rispondere
alle domande dell'agente. Non sapeva più di quanto avessero
già riferito Julie e Mabel, anche se aggiunse di avere visto la
coppia fuori da un locale che si chiamava Mosquito Grove, sul
lungomare.
Dopo averla interrogata, Jennifer si guardò in giro.
«Posso dare un'occhiata all'angolo dove di solito lavora Andrea?
Potrei trovarvi qualche indizio.»
«Certo, faccia pure», rispose Mabel.
Si mise a rovistare nei cassetti vicino alla poltrona, poi scorse
una foto di Andrea infilata nella cornice dello specchio.
«Posso prenderla? Nel caso ci serva?»
«Sicuro», rispose ancora Mabel.
Lei esaminò la foto, poi alzò gli occhi. «Bene, per adesso ho
finito», dichiarò.
Tutti annuirono all'unisono. Prima di andarsene, Jennifer si
avvicinò a Mike e Julie. Dopo le ore trascorse assieme a loro,
era arrivata al punto di considerarli quasi degli amici.
«Voglio avvertirvi che, se questa è davvero opera di Richard,
allora quell'uomo è capace di tutto», disse loro. «Non avevo
mai visto nessuno conciato in quel modo. Non ci sono parole
per descrivere quello che ha fatto. E' uno psicopatico. Spero ne
siate consapevoli.»
Mike deglutì a fatica.
«Fate tutto quello che serve per stare al sicuro», concluse
lei. «Entrambi.»
Una volta fuori, Jennifer si incamminò in silenzio al fianco
di Pete. Doveva dargli credito per averle permesso di condurre
le indagini nel negozio e anche per la nuova determinazione
che leggeva sulla sua faccia seria.
Dopo essere saliti in macchina, lui inserì le chiavi nel cruscotto,
poi si appoggiò al sedile senza mettere in moto. Guardando
fuori dal parabrezza, disse: «E' lei che mi taglia i capelli».
«Chi Andrea?»
«Sì. E' per quello che l'ho riconosciuta stanotte.»
Jennifer rimase ancora in silenzio a guardare Pete che chiudeva
gli occhi.
«Non si meritava quello che le è successo», continuò lui.
«Nessuno se lo meriterebbe.»
Gli posò una mano sulla spalla. «Mi spiace», disse.
Lui annuì lentamente, come se cercasse di dimenticare quello
che aveva visto la notte prima.
«Credo che sia il momento di andare a trovare Richard sul
lavoro», disse calmo, mettendo in moto. «Preferirei coglierlo
di sorpresa, se possibile. Non voglio dargli il tempo di inventarsi
una storia. Se è stato lui, deve pagare. Duramente.»
Jennifer uni le mani in grembo. Fuori dal finestrino, alberi
e edifici sfrecciavano di fianco alla macchina diretta verso il
ponte.
«Non ci sarà», rispose infine. «Ha dato le dimissioni qualche
settimana fa.»
Pete la guardò. Aveva gli occhi cerchiati e nella semioscurità
dell'abitacolo sembrava sfinito quanto lei.
«Come fai a saperlo?»
«Ho telefonato all'ufficio personale della J.D. Blanchard.»
«Stavi facendo indagini su di lui?»
«Non ufficialmente.»
Pete tornò a guardare la strada, poi accostò all'ombra di una
gigantesca magnolia. «Perché non cominci dal principio e non
mi dici tutto quello che sai?» le chiese. Aprì la tazza di caffè
che aveva acquistato in precedenza. «E non preoccuparti di finire
nei guai. Questa faccenda resterà tra di noi.»
Jennifer fece un profondo respiro e cominciò a parlare.
Nel negozio, Henry aveva lo sguardo perso nel vuoto, Mike
era pallido e Mabel si asciugava le lacrime. Emma sembrava sul
punto di svenire e sedeva stringendosi al marito. Julie, a braccia
conserte, dondolava piano sul divano.
«Non riesco a crederci», mormorò Emma. «Non riesco proprio
a crederci. Perché se l'è presa tanto con quella povera ragazza?»
Nessuno rispose. Mabel abbassò gli occhi. «Credo che andrò
a trovarla, oggi. Non so che altro fare.»
«E' colpa mia», disse Julie. «Avrei dovuto metterla in guardia,
dopo che gli aveva tagliato i capelli. Avevo capito che era
attratta da lui.»
«Non è stata colpa tua», protestò Mike. «Non avresti potuto
far niente per fermarlo. Se non fosse stata lei, si sarebbe trovato
un'altra vittima.»
Per esempio, io.
Mike le andò vicino. «Ce la farà, vedrai.»
Julie scrollò il capo. «Come puoi saperlo, tu. Non puoi promettere
una cosa del genere.»
Il suo tono era più spazientito di quanto avrebbe voluto, e
Mike abbassò lo sguardo. No, pensò, è vero.
«Io non capisco», proseguì lei. «Ma perché? Perché doveva
venire proprio qui, con tutti i posti che ci sono. E perché lei?
Lei non gli aveva fatto niente.»
«E' pazzo», disse Mabel. «Quando lo prenderanno, spero
che lo rinchiudano per molto, molto tempo.»
Se lo prenderanno, pensò Julie.
Nel silenzio che seguì, Henry guardò fuori dalla vetrina, poi
si rivolse a lei. «La polizia ha ragione a dire che dovete fare tutto
il possibile per proteggervi», disse. «Non potete più stare qui.»
Julie lo guardò.
«E troppo pericoloso, dopo quello che è successo ad Andrea»,
proseguì Henry. «E poi è stato anche a casa tua. Non
siete più al sicuro qui, né tu né Mike.»
«Dove dovremmo andare?»
«Dovunque. Ma via dalla città. E meglio che restiate lontani
finché non lo beccheranno.» Fece una pausa. «Andate nella
nostra casa al mare, lì non vi troverà.»
«Henry ha ragione», concordò Emma. «Dovete andarvene
da qui.»
«E se vi sbagliaste?» chiese Julie. «E se invece mi trovasse?»
«E' impossibile. La casa non è nemmeno registrata a nostro
nome. Non può risalire a noi come proprietari. Non ci è andato
nessuno negli ultimi mesi, così lui non può nemmeno sapere
che esiste.»
«Il pensiero di andare lì mi mette i brividi», disse lei. «E' così
isolata.»
«Preferisci che ci trasferiamo da me?» chiese Mike.
«No. Scommetto che sa dove abiti.»
«Andate via subito», insistette Mabel. «Henry ha ragione. E'
troppo pericoloso restare qui.»
«E se ci segue? E se ci stesse spiando anche in questo momento?»
Cinque paia di occhi si girarono istintivamente verso la vetrina.
«Prendete la mia macchina», disse Henry. «Anzi, no, quella
di Emma. E partite immediatamente. Mike e io andiamo a controllare
se lui è nei paraggi. Se non c'è, prendete l'autostrada.
E tutta dritta, e quindi capirete se qualcuno vi segue. Arrivati
a Jacksonville, girate un po' a vuoto per far perdere le vostre
tracce. La cosa importante è che ve ne andiate prima che Richard
possa rendersene conto.»
«E la polizia? Non dovremmo avvisarli?»
«Ci penserò io. Adesso andate, su. E mi raccomando, non
tornate qui per nessun motivo.»
Qualche minuto dopo, Mike e Julie erano partiti.
Jennifer impiegò una decina di minuti a riferire tutte le informazioni
che aveva raccolto: la strana storia dei conti, la nuova
società nell'Ohio che aveva sostituito quella in Colorado, il desiderio
di Richard di mantenere un basso profilo, i commenti
di Jake Blansen sulla sua pericolosità e il fatto che non lavorasse
più per la J.D. Blanchard. Pete tamburellava con le dita
sul volante e alla fine annuì, come se tutto quello che lei aveva
detto gli fosse già perfettamente chiaro.
«Sapevo che c'era qualcosa di losco in quel tizio», commentò.
«Anche in palestra, mi era sembrato un po' viscido, sai?»
Jennifer lo guardò. Nonostante tutto, pensò, lui aveva visto
la luce, finalmente, e a parte il rimpianto per il tempo che ci
aveva messo, adesso era dalla sua parte.
«Mi era parso di capirlo», disse.
Pete non colse l'ironia e ricominciò a tamburellare sul volante.
«Se non è al lavoro, dove può essere?» chiese.
«Non saprei. Possiamo provare a casa sua.»
Lui annuì. «D'accordo.»
Un quarto d'ora dopo, i due agenti imboccavano il vialetto
della casa vittoriana. Scesero dalla macchina e slacciarono la
fondina, mentre perlustravano la zona.
Visto da vicino l'edificio sembrava più cadente che dalla strada.
Le tende alle finestre del pianterreno erano chiuse. Non
c'era segno di un'auto parcheggiata nel piazzale, anche se il vialetto
coperto di erbacce proseguiva fin sul retro.
Il motore della loro macchina ticchettava raffreddandosi.
Uno stormo di uccelli spiccò il volo dagli alberi con un'esplosione
di ali e cinguettii. Uno scoiattolo corse sul prato, in cerca
di riparo tra i rami di un pino. Nient'altro. Nessun rumore.
Nessun segno di movimento alle finestre.
«Sembra che il nostro sospetto abbia tagliato la corda», bisbigliò
Pete.
No, pensò Jennifer con improvvisa sicurezza. E' ancora qui.
Richard li osservava nascosto tra gli alberi. Era sul retro, a pulire
l'abitacolo della macchina - aveva già ripassato la casa da cima
a fondo, per cercare di cancellare le tracce della notte prima quando aveva sentito la macchina della polizia risalire il vialetto.
Li aspettava, ovviamente, ma non così presto.
Pete e Jennifer si avvicinarono cauti alla porta d'ingresso, facendo
scricchiolare le assi della veranda. Si fermarono davanti
all'uscio scrostato e si guardarono. Lui bussò e lei rimase immobile
a lato, con la mano sulla fondina aperta. Il suo sguardo
si posò sulla finestra, e istintivamente estrasse la pistola.
Richard li stava ancora osservando.
Fece un profondo respiro, poi si addentrò in silenzio tra gli
alberi, chiedendosi come avessero fatto a stabilire così in fretta
un legame tra lui e Andrea.
Il DNA? No, ci vuole del tempo, pensò, almeno una settimana.
Lei doveva aver parlato con qualcuno, anche se le aveva
detto di tenere la bocca chiusa. Oppure qualcuno li aveva
visti insieme. Al bar, forse. O a Morehead City.
Non aveva importanza. Sapeva già che la sua vita come Richard
Franklin era giunta a conclusione. L'inconveniente di Andrea
aveva solo accelerato l'inevitabile. Nonostante i suoi sforzi,
sarebbe stato impossibile eliminare tutte le tracce di quello
che le aveva fatto dentro la casa. Gli strumenti della polizia
scientifica erano così sofisticati che gli esperti erano in grado
di individuare minuscoli residui di sangue o frammenti di capelli,
ed era per questo che non si era dato la pena di nascondere
meglio il suo corpo. Se avessero ottenuto un mandato di
perquisizione - il che era solo questione di ore, ormai - avrebbero
trovato quello che serviva per incriminarlo.
Tuttavia, si rammaricò, avrebbe voluto avere un po' più di
tempo a disposizione per prendere le sue cose. Le macchine
fotografiche e gli obbiettivi erano ancora in casa e gli spiaceva
doversene separare. E poi le fotografie, in particolare quelle
di Jessica che teneva nella ventiquattrore. Sapeva che la polizia
non sarebbe riuscita a usarle per raccogliere informazioni
su di lei - era stato molto attento a distruggere tutte le immagini
che potessero fornire anche il minimo indizio su dove
erano vissuti - ma non avrebbe potuto ristamparle.
Gli sarebbero mancate anche quelle di Julie, si disse, ma non
c'erano problemi. Avevano tutta la vita davanti per rifarsi.
Si chiese se fosse al corrente di quello che era successo ad Andrea.
Probabilmente sì. Anzi, era quasi sicuro che la polizia fosse
appena andata da lei. Che cosa avrebbe fatto a quel punto?
Sarebbe scappata subito, si disse. Così com'era fuggita da
sua madre. Avrebbe cercato di nascondersi, e probabilmente si
sarebbe portata dietro anche quello scemo. Probabilmente se
n'era già andata.
Un altro motivo per filarsela di lì.
Valutò le alternative. Se avessero girato dietro la casa per
perlustrare il giardino...
Un rischio, calcolò, ma che scelta aveva? In punta di piedi,
cominciò ad avanzare verso l'autopattuglia.
«Diamo un'occhiata sul retro», bisbigliò Jennifer. La pistola
era stranamente leggera nella sua mano. «Ho la strana sensazione
che sia ancora qui.»
Pete annuì e scese dalla veranda. Si diresse verso il vialetto,
ma quando vide Jennifer andare dalla parte opposta, esitò un
attimo, poi la seguì. Da quel lato dovevano procedere tra gli alberi,
facendo scricchiolare le foglie sotto i loro piedi. L'erba alta
e i cespugli strisciavano frusciando contro le uniformi. Si fermarono
in prossimità dell'angolo posteriore della casa. Jennifer
era davanti e si appiattì contro il muro per sbirciare oltre.
Vide che la macchina di Richard era parcheggiata lì, con la
portiera aperta.
Si portò la pistola al petto, con la canna verso l'alto, e accennò
in quella direzione. Lentamente, anche Pete sfoderò l'arma.
Lei sbirciò di nuovo, scrutando il giardino, poi gli fece segno
di seguirla. Scivolarono sul retro della casa cercando di fare
il minimo rumore possibile.
Superarono le finestre d'angolo. In ascolto...
Jennifer notò che gli uccelli avevano smesso di cantare.
Alla fine della veranda, la porta posteriore era aperta. Indicò
da quella parte e Pete annuì, prima di dirigersi con cautela verso
la casa.
L'auto era vicina adesso. Jennifer riusciva a sentire la radio che
trasmetteva vecchie canzoni da una stazione di Jacksonville.
Si fermò, scrutando da una parte all'altra. Dev'essere qui. E
ci sta osservando. Ci spia. Come ha fatto con Julie.
Le tornò in mente la faccia distrutta di Andrea. Guardandosi
alle spalle, vide Pete che si avvicinava alla porta posteriore.
Fu allora che udirono un grido. Era un lamento penetrante,
stridulo, straziante, e Jennifer fu sul punto di premere il grilletto.
Esitò un attimo, poi incrociò lo sguardo del collega.
Le urla venivano dal davanti.
Pete saltò giù dai gradini e si precipitò da quella parte. Girarono
l'angolo facendosi largo tra i rami e gli arbusti che ostacolavano
la loro corsa.
Quando raggiunsero la parte anteriore della casa, non videro
nulla. Tutto era esattamente come prima.
A quel punto si divisero: Pete si avvicinò all'edificio e Jennifer
avanzò nel giardino.
Aveva la bocca secca e il fiato corto, mentre cercava di restare
calma. A poca distanza, scorse un fitto boschetto circondato
da cespugli, sembrava un nascondiglio perfetto per la caccia
alle anatre. Guardò oltre, poi tornò a fissare quel punto.
La mano che stringeva l'arma era sudata.
E' lì dentro, pensò. Si nasconde e vuole che vada a prenderlo.
Alle sue spalle sentiva Pete che attraversava la ghiaia del vialetto.
Puntò la pistola davanti a sé, stendendo il braccio come le
aveva insegnato suo padre.
«Richard Franklin, sono l'agente Jennifer Romanello e la tengo
sotto tiro», scandì lentamente. «Si identifichi e venga fuori
con le mani in alto.»
Pete si voltò al suono della sua voce e, vedendo quello che
stava facendo, tornò indietro verso di lei con l'arma in pugno.
Dal retro della casa giunse il rumore di un motorino di avviamento.
Il motore gemette, mentre l'acceleratore veniva pigiato
fino in fondo e i pneumatici facevano schizzare via la
ghiaia. Un attimo dopo la macchina arrivò verso di loro dall'altro
lato della casa.
Pete rimase immobile in mezzo al vialetto. Vide l'auto venirgli
incontro, senza rallentare.
Puntò la pistola contro il parabrezza, ma ebbe un'esitazione.
Jennifer seguiva la scena con gli occhi sbarrati.
All'ultimo istante, lui si tuffò verso il prato mentre l'auto
lo sfiorava. Cadde a pancia in giù, come un giocatore di baseball
che tocca la base, e la pistola gli scivolò via di mano.
Jennifer aveva evitato di sparare, temeva di colpirlo e gli alberi
le impedivano di prendere bene la mira.
L'auto sfrecciò lungo la via, imboccò la curva a tutta velocità
e scomparve in una nuvola di polvere.
Lei corse verso Pete, che si stava rialzando e cercava la pistola.
Impiegarono qualche secondo per ritrovarla, poi si diressero
velocemente all'auto senza dire una parola. Salirono al
volo e sbatterono le portiere. Lui allungò la mano sul cruscotto
per mettere in moto.
Ma la chiave era sparita.
In quel momento lei si accorse che i cavi della radio erano
stati strappati.
Il rombo della macchina di Richard era svanito in distanza.
«Al diavolo!» gridò Pete, colpendo con forza il volante.
Jennifer prese il cellulare e chiamò il commissariato. In quella
piccola città c'erano solo pochi agenti in servizio, e non nutriva
troppe speranze che riuscissero a mandare una squadra a
inseguirlo. Quando riattaccò, lui la guardò.
«E adesso che facciamo?»
«Io entro.»
«Senza mandato?»
Lei aprì la portiera e uscì. «Ha cercato di investirti e probabilmente
sta per fare del male a qualcun altro. Mi sembra che
ci siano elementi sufficienti per giustificare una perquisizione.
Non ti pare?»
Un attimo dopo, Pete la seguì.
Nonostante la concitazione del momento, non poté fare a
meno di notare che, rispetto all'apprendimento dei rudimenti,
Jennifer Romanello era un'allieva molto dotata.
Non appena mise piede dentro la casa, Jennifer venne colpita
dalla anonimità dell'ambiente. In una casa così avrebbe
potuto abitare chiunque, pensò.
La cucina era incredibilmente pulita; il lavandino splendeva
al sole, la spugnetta per lavare era ripiegata ordinatamente
da una parte. Non c'era nemmeno una pentola sui fornelli,
né un piatto sporco sul bancone. Se avesse fatto una foto,
si disse, nessuno avrebbe notato niente di strano. Non c'erano
elettrodomestici moderni - il frigorifero era un modello
degli anni Cinquanta e mancavano sia lavastoviglie sia forno
a microonde - ma nel complesso la stanza aveva un'aria accogliente,
come le vecchie cucine di una volta.
Jennifer passò oltre e superò un piccolo tinello. Era una stanza
molto luminosa, il sole entrava dalla finestra e accarezzava
il pavimento. La bella carta da parati, giallo chiaro a fiori stilizzati,
e una modanatura in quercia le davano un'aria opulenta.
Il tavolo era semplice, le sedie sistemate con ordine.
Passò nel soggiorno, senza rilevare nemmeno lì nulla di inconsueto.
L'arredamento era semplice, ogni cosa al suo posto.
Tuttavia...
Dopo un attimo di riflessione, finalmente capì che cosa c'era
di strano. Mancava qualunque oggetto personale. Niente di
niente. Nessuna fotografia né quadro alle pareti, niente riviste
né giornali sul tavolino, nessuna pianta. Niente stereo, niente
televisione.
Soltanto un divano, due tavolini bassi e qualche lampada.
Jennifer guardò verso le scale. Dietro di lei, Pete avanzava
con la pistola in pugno.
«Un po' vuoto, eh?» osservò lui.
«Ora vado di sopra.»
Pete la seguì.
Una volta in cima alle scale, sbirciarono nel corridoio, poi si
diressero verso destra. Aprirono una porta ed entrarono nella
camera oscura. Accesero la luce rossa, e Jennifer provò un
improvviso
senso di mancamento, scoprendo come aveva passato
le sue giornate Richard da quando aveva lasciato il lavoro.
«Dio Onnipotente...» fu tutto quello che riuscì a dire.
Deciso a non farsi notare, Richard rallentò non appena raggiunse
la statale. Il cuore gli batteva in gola, ma era libero! Era
riuscito a scappare quando la fuga sembrava impossibile e il
suo successo gli provocò uno scoppio di ilarità. Vedeva ancora
le facce allibite dei due poliziotti mentre sfrecciava sul vialetto,
e si sentiva estasiato.
Peccato che Pete Gandy fosse balzato di lato. Si immaginava
già il tonfo della carrozzeria che lo investiva, quando all'ultimo
momento lui era riuscito a cavarsela. Rise di nuovo, esilarato,
poi si concentrò sul suo piano.
Doveva sbarazzarsi dell'auto, decise, ma prima voleva allontanarsi
il più possibile da Swansboro. Imboccò l'autostrada
che portava a Jacksonville. Lì avrebbe lasciato la macchina in
un posto appartato e si sarebbe messo alla ricerca di Julie.
Anche Jessica una volta aveva cercato di fuggire, ricordò, e
credeva di essere stata attenta. Aveva attraversato mezzo paese
in autobus, sperando che lui la lasciasse andare. Invece l'aveva
rintracciata e quando aveva aperto la porta del motel malandato
dove si era rifugiata, l'aveva trovata seduta sul letto,
per niente sorpresa di vederlo. In fondo se l'aspettava, e l'attesa
l'aveva sfinita. Non aveva più nemmeno la forza di piangere.
Quando le porse il ciondolo, se lo allacciò al collo con
aria rassegnata.
L'aveva aiutata ad alzarsi dal letto, rammentò, senza badare
alla sua apatia, e l'aveva abbracciata. Aveva affondato il viso nei
suoi capelli, aspirandone il profumo, mentre lei teneva le braccia
inerti lungo i fianchi.
«Sapevi che non ti avrei lasciato andare via cosi facilmente,
vero?» bisbigliò lui.
«Ti prego», mormorò lei.
«Dillo.»
Jessica parlò con voce rotta. «No, non potevi lasciarmi andare
via.»
«Hai commesso un grave errore a fuggire, vero?»
Lei scoppiò a piangere, disperata.
«Ti prego... no... non farmi del male... per favore, basta...»
«Ma tu hai cercato di fuggire», ripeté lui. «E mi hai ferito,
Jessica.»
«Oddio... no... ti prego... no...»
In piedi sulla soglia della camera oscura, Pete Gandy sbatté
le palpebre mentre si guardava intorno senza riuscire a capacitarsi
di ciò che vedeva.
Appese alle pareti c'erano centinaia di foto di Julie. Julie
che usciva dal negozio e saliva in macchina. Julie nel bosco
con Singer. Julie a cena. Julie al supermercato. Julie sulla veranda
posteriore. Julie che leggeva il giornale. Julie che ritirava
la posta. Julie sulla spiaggia. Julie per strada. Julie in camera
da letto.
Julie, ovunque fosse stata nelle ultime settimane.
Jennifer era profondamente turbata, le sue peggiori previsioni
si erano avverate. Ma voleva andare avanti, entrare anche
nelle altre stanze in cerca di tracce della presenza di Andrea.
Pete era paralizzato dallo sgomento.
«Non posso crederci», sussurrò quando lei gli passò accanto.
Nella seconda camera da letto, Jennifer trovò l'equipaggiamento
fotografico di Richard. C'era anche uno specchio incorniciato,
circondato da altre fotografie. Passò nell'ultima stanza,
che immaginò fosse la sua camera da letto. Sebbene non fosse
certa della legalità delle proprie azioni, era sempre più decisa a
dare un'occhiata in giro in attesa dell'arrivo dei rinforzi.
Aprì la porta e vide un cassettone dall'aria malandata che doveva
essere stato lasciato lì dagli inquilini precedenti. Nell'armadio
erano appesi gli abiti di Richard. Contro la parete c'era
una cesta; per terra, accanto al letto, un telefono.
Ma fu la foto sul comodino ad attirare la sua attenzione.
In un primo momento, pensò che fosse di Julie. I capelli erano
identici e gli occhi del medesimo colore azzurroverde, eppure,
guardando meglio, si rese conto che non era lei, bensì
una donna che le assomigliava molto. Teneva una rosa accanto
alla guancia, sorridendo in modo quasi infantile, e dimostrava
meno anni di Julie.
Mentre prendeva in mano la foto, notò la catenina al collo
della donna. Il ciondolo era uguale a quello che Julie le aveva
mostrato in cucina.
Lo stesso...
Il suo piede colpì un oggetto pesante. Si chinò e vide spuntare
da sotto il letto l'angolo di una valigetta.
La tirò fuori e la posò sulla coperta. All'interno c'erano decine
di foto di quella donna.
Pete la raggiunse. «Che cos'è?» chiese.
Jennifer scrollò il capo. «Altre fotografie», rispose.
«Di Julie?»
«No.» Si voltò verso di lui. «Non ne ho la certezza, ma penso
debba trattarsi di Jessica.»
35.
Nel giro di quaranta minuti, la casa di Richard Franklin
brulicava di poliziotti locali e della contea. La squadra della
scientifica venuta da Jacksonville era all'interno a rilevare impronte
per cercare prove della presenza di Andrea Radley.
Gli agenti Gandy e Romanello erano fuori con il loro capitano,
Russell Morrison, un uomo corpulento e scontroso con
radi capelli grigi e occhi troppo ravvicinati. Aveva chiesto loro
di riepilogare l'accaduto, poi aveva ascoltato Jennifer ragguagliarlo
su quanto già sapeva.
Alla fine Morrison si limitò a scrollare il capo in silenzio. Era
nato e cresciuto a Swansboro e si riteneva una specie di protettore
della città; la notte precedente era stato tra i primi ad
arrivare sul luogo dov'era stata rinvenuta la donna, anche se
dormiva già quando aveva ricevuto la telefonata.
«E' lo stesso tizio che Mike Harris ha aggredito al Clipper'?
Quello che Julie Barenson accusava di molestie?»
«Sì», rispose Jennifer.
«Però non ci sono prove evidenti che lo colleghino a questo
pestaggio.»
«Non ancora.»
«Avete parlato con i vicini della vittima, per vedere se sanno
qualcosa?»
«No. Siamo venuti direttamente qui dal negozio dove lei lavora.»
Russell Morrison rimase qualche istante in silenzio, assorto.
«Il fatto che sia scappato non significa che sia stato lui ad
aggredire la donna. E nemmeno quello che tu hai scoperto sul
suo passato.»
«Ma...» fece per protestare Jennifer. Morrison alzò le mani.
«Non dico che sia innocente. Che diamine, ha cercato di investire
un agente, e questo è già sufficiente.» Guardò Pete. «Sei
sicuro di star bene?»
«Sì. Incazzato, ma sto bene.»
«D'accordo. Sarai tu a condurre l'indagine, ma ci metterò al
lavoro tutti quanti.»
In quel momento vennero interrotti da un richiamo di Fred
Burris, uno degli agenti che stavano perquisendo la casa. Venne
verso di loro a passo svelto.
«Capitano?» chiamò a voce alta.
Morrison si voltò verso di lui. «Sì?»
«Credo di aver trovato qualcosa», annunciò.
«Che cosa?»
«Sangue.»
La casa di Henry si trovava a Topsail Island, un lembo di
terra a mezzo miglio dalla costa e a una quarantina di minuti
da Swansboro. Coperta di dune bianche, era una località molto
frequentata dalle famiglie nei mesi estivi, ma durante il resto
dell'anno quasi disabitata. In primavera, i pochi villeggianti
avevano l'isola a loro completa disposizione.
Come in tutti gli altri edifici, il pianterreno era stato costruito
in posizione sopraelevata, sopra il garage e la cantina, a causa
delle burrasche. Una scaletta scendeva dalla veranda posteriore
alla spiaggia e le ampie vetrate da quel lato offrivano una vista
spettacolare sull'oceano.
Julie era alla finestra a fissare il moto incessante delle onde.
Anche lì le era impossibile rilassarsi o sentirsi al sicuro.
Lei e Mike si erano fermati al supermercato lungo il tragitto
per procurarsi cibo sufficiente per una settimana, poi erano
stati in un grande magazzino a comprare qualche indumento
di prima necessità. Nessuno dei due sapeva per quanto tempo
sarebbero rimasti sull'isola e Jennifer non voleva uscire, a meno
che non fosse strettamente necessario.
Tutte le tende alle finestre erano chiuse, fatta eccezione per
quella del salotto; Mike aveva parcheggiato l'auto di Emma in
garage, perché non fosse visibile dalla strada. Durante il viaggio,
aveva seguito i consigli del fratello ed era uscito dall'autostrada
tre volte, girando poi su strade secondarie con l'occhio
rivolto allo specchietto. Nessuno li aveva seguiti, di questo
era sicuro. Julie, tuttavia, non riusciva a scacciare la sensazione
che Richard in qualche modo sarebbe riuscito a trovarli.
Alle sue spalle, lui metteva via la spesa aprendo e chiudendo
le ante della cucina.
«Forse lo hanno già preso», disse dopo un po'.
Julie tacque. Singer le andò vicino e le toccò il fianco con il
muso. Lo accarezzò con gesti automatici.
«Stai bene?»
«No», rispose lei laconica.
Mike annuì. Che domanda stupida, si rimproverò.
«Spero che le condizioni di Andrea siano migliorate», disse
poi.
Vedendo che continuava a tacere, la guardò. «Questo è un
posto sicuro, sai», tentò di tranquillizzarla. «Nessuno può scoprire
dove siamo.»
«Lo so.»
Ma non ne era troppo certa e i suoi timori la fecero indietreggiare
istintivamente dalla finestra. Al suo movimento, Singer
drizzò le orecchie.
«Che cosa c'è?» chiese Mike.
Julie scrollò il capo. Sulla spiaggia, due coppie camminavano
in riva all'acqua, in direzioni opposte. Entrambe erano passate
poco prima davanti alla casa senza degnarla di uno sguardo.
A parte loro, non c'era nessun altro.
«Niente», disse infine.
«Un panorama magnifico, vero?»
Julie abbassò lo sguardo. A dire la verità, pensò, non ci aveva
fatto caso.
Morrison era circondato da agenti fuori dalla casa di Richard
e delineava la situazione, impartendo ordini.
«La polizia di Jacksonville e il dipartimento dello sceriffo
stanno cercando la macchina di questo tizio», cominciò, «ma
nel frattempo, ecco che cosa voglio da voi.»
Indicò da un uomo all'altro parlando rapidamente.
«Haroldson e Teeter: andate giù al ponte e parlate con chiunque
sappia qualcosa del ricercato. Dove va, quali sono i suoi
amici, le sue abitudini...
«Thomas: tu devi restare qui con la scientifica. Assicurati che
non trascurino niente... bisogna procedere a regola d'arte...
«Burris: devi andare a casa di Andrea Radley a parlare con
i vicini. Voglio sapere se qualcuno lo ha visto da lei...
«Johnson: lo stesso per te. Vai a Morehead City e scopri se
c'è qualche testimone che ha visto insieme Andrea e Richard
Franklin...
«Puck: voglio sapere quali altre persone frequentava Andrea
e se qualcuno di loro potrebbe essere l'autore del pestaggio. E
probabile che il colpevole sia questo Franklin, ma sai come sono
gli avvocati difensori. Dobbiamo verificare tutti i possibili
sospetti...»
Si voltò infine verso Jennifer e Pete. «E voi due: voglio che
scopriate vita, morte e miracoli su questo tizio. Tutto. E vedete
se salta fuori qualcosa anche su Jessica. Mi piacerebbe parlare
con lei, se ci riusciamo.»
«E per quanto riguarda il mandato per la J.D. Blanchard?»
chiese Jennifer.
Morrison la guardò negli occhi. «A quello ci penso io.»
Come Julie e Mike, anche Richard si fermò al supermercato.
E dopo aver parcheggiato l'auto nell'angolo più remoto del
parcheggio dell'ospedale - dove non avrebbe destato sospetti
se fosse rimasta nello stesso posto per qualche giorno - prese
le borse della spesa e percorse a piedi un isolato, fino a una stazione
di servizio. Lì si chiuse a chiave in bagno e si guardò nello
specchio lurido.
Nelle borse di plastica c'era l'occorrente per la trasformazione
che aveva già un'altra volta collaudato. Rasoio, forbici,
tintura per capelli, crema autoabbronzante e un paio di occhiali
da lettura. Non molto, ma quel che bastava per alterare il suo
aspetto da lontano; per camuffarsi nel breve periodo. Quel che
bastava per trovarla, si disse.
C'era, tuttavia, il problema di rintracciarla. Perché se n'era
andata, di questo era sicuro. Nessuno aveva risposto al telefono
in negozio e quando aveva chiamato l'officina, uno dei ragazzi
di Henry gli aveva detto che Mike era via.
Perciò era scappata con lui, ma dove? Richard sorrise, sapendo
che avrebbe impiegato poco tempo a trovare la risposta.
Anche quando cercavano di stare attenti, si disse, tutti conimettevano
degli errori. E lo sbaglio di Julie stava nel fatto che
qualcuno sapeva perfettamente dove si trovava.
Henry o Emma o Mabel probabilmente ne erano al corrente,
rifletté. E anche la polizia. Senza dubbio volevano parlarle,
tenerla aggiornata, proteggerla. E una di queste persone l'avrebbe
condotto direttamente alla sua porta.
Fischiettò piano tra sé e cominciò a modificare meticolosamente
il proprio aspetto. Mezzora più tardi, usciva al sole più
biondo, più abbronzato, con un paio di occhiali e senza baffi.
Un uomo nuovo.
Tutto quello che ora gli restava da fare era trovare un'altra
macchina, pensò. Si diresse verso il centro commerciale di fronte
all'ospedale.
Tornata al commissariato, Jennifer chiamò subito il dipartimento
di polizia di Denver, dove fu rimbalzata da una persona
all'altra prima di raggiungere l'agente investigativo Cohen.
Si presentò e lo informò delle indagini; mentre parlava, udì il
suo interlocutore emettere un fischio.
«D'accordo», disse Cohen alla fine. «Vedrò che cosa posso
fare. Non sono alla mia scrivania, perciò la richiamerò tra qualche
minuto.»
Dopo aver riagganciato, Jennifer guardò Pete. Stava telefonando
a varie compagnie aeree negli aeroporti di Jacksonville,
Raleigh e Wilmington, per cercare di scoprire se Richard fosse
andato veramente fuori città, quando aveva raccontato a Julie
di essere stato al funerale della madre. Se era così, volevano
sapere dove era avvenuta la cerimonia, nella speranza di rintracciare
qualche suo conoscente.
Morrison era nel suo ufficio a coordinare tutte le informazioni
che arrivavano. Thomas aveva chiamato qualche minuto
prima, dicendo che la scientifica aveva trovato tracce di sperma
sulle lenzuola e che stavano esaminando il letto in cerca di
altre prove.
Quando Cohen richiamò, Jennifer rispose al primo squillo.
«In archivio abbiamo dati su diversi Richard Franklin», le
disse. «E' un nome abbastanza comune, perciò ce n'è più d'uno.
Mi parli di lui.»
Jennifer gli fornì una breve descrizione: altezza, peso, colore
degli occhi e dei capelli, età approssimativa, razza.
«Bene. Aspetti un secondo.»
Attraverso il telefono, le giungeva il ticchettio delle dita sui
tasti del computer.
«Uh», disse lui infine.
«Cosa c'è?»
Lui esitò. «Non credo che ci siano informazioni per lei.»
«Niente? Nemmeno un arresto?»
«Non sulla base di ciò che mi ha detto. Abbiamo i rapporti
di sette individui a nome Richard Franklin. Quattro sono di
colore, uno è deceduto, uno è sulla sessantina.»
«E l'ultimo?»
«Uno sbandato. Ha la stessa età del vostro ricercato, ma non
c'è nessun'altra analogia. Non potrebbe mai spacciarsi per ingegnere.
Ha trascorso gli ultimi vent'anni entrando e uscendo
di prigione. E dai nostri archivi risulta che non ha mai abitato
all'indirizzo da lei indicato.»
«Nient'altro? Può consultare gli archivi della contea? O magari
di altre città?»
«E' tutto qui», disse Cohen, in tono deluso. «Il sistema è stato
aggiornato un paio di anni fa. Abbiamo i dati di tutte le persone
arrestate nello stato a partire dal 1977. Se l'avessero fermato per
qualche ragione da qualche parte in Colorado, lo sapremmo.»
Jennifer tamburellò con la matita sul blocco.
«Potrebbe inviarmi comunque una foto dell'ultimo individuo?
Per fax, oppure per e-mail?»
«Sicuro. Ma non credo che sia il vostro uomo», rispose
Cohen, il tono un po' deluso. Dopo una pausa aggiunse: «Senta.
.. se ha bisogno di qualcos'altro, me lo faccia sapere. Mi pare
un tipo pericoloso. Meglio bloccarlo il prima possibile».
Dopo aver riagganciato, Jennifer chiamò il dipartimento di
Columbus nell'Ohio, sperando di avere più fortuna.
Mabel aveva chiuso il negozio quella mattina ed era andata
all'ospedale a trovare Andrea. Adesso era seduta al suo capezzale,
nel reparto rianimazione, e le stringeva la mano, nella speranza
che la ragazza capisse in qualche modo che lei era lì.
«Guarirai, piccola», sussurrò quasi a se stessa. «I tuoi genitori
stanno per arrivare.»
Il monitor cardiaco emetteva un segnale regolare e Mabel
guardò verso il telefono.
Avrebbe voluto sapere come procedevano le indagini. Per un
attimo pensò di chiamare Pete Gandy per scoprirlo. Ma era ancora
troppo in collera con lui per aver fatto precipitare le cose al
punto in cui erano, e di sicuro non sarebbe riuscita a trattenersi.
Aveva ragione Mike, si disse. Ah, se quella testa di legno avesse
dato ascolto a Julie... Ma come diavolo aveva fatto a passare
l'addestramento?
Udì dei passi che si avvicinavano e, alzando gli occhi, vide
l'infermiera che entrava nella camera. Veniva ogni venti minuti
a controllare le funzioni vitali.
Il dottore aveva detto che le prime ventiquattro ore erano
critiche. Se Andrea mostrava qualche segno di miglioramento
in quel lasso di tempo, c'era da sperare che potesse uscire dal
coma senza danni cerebrali.
Mabel osservò l'infermiera con un groppo in gola. Dalla sua
espressione capì che la situazione era stazionaria.
Jennifer riattaccò dopo la telefonata a Columbus proprio
mentre Morrison usciva dal suo ufficio.
«Ho ottenuto il mandato», disse. «Il giudice Riley l'ha firmato
pochi minuti fa ed è già stato inviato via fax alla J.D. Blanchard.
Presto avremo le informazioni che ci servono, a meno che
non facciano intervenire i loro legali per bloccare la pratica.»
Jennifer annuì, ma senza riuscire a mascherare la delusione
sul suo viso.
«Ancora niente?»
Scrollò il capo. «Niente. Assolutamente niente. Non ha beccato
nemmeno una multa per eccesso di velocità né in Colorado
né nell'Ohio. Nessun arresto, nessuna indagine come sospettato
di qualche reato.»
«Il fax da Denver non ti è servito?»
«Non è il nostro uomo. Neanche lontanamente.» Jennifer
controllò di nuovo la fotografia. «Non capisco. Un tizio come
lui non salta fuori dal nulla. Sono sicura che ha già compiuto
simili prodezze. Deve pur esserci qualche rapporto.» Si passò
una mano tra i capelli. «Novità dalla casa?»
«Pare che abbia fatto pulizia di recente. Hanno trovato una
borsa con alcuni oggetti, ma non sapremo se possono esserci
utili finché non verranno esaminati. Abbiamo spedito un campione
di sangue a Wilmington, dove c'è uno dei migliori laboratori
dello stato. Appena avranno anche il sangue di Andrea,
faranno un esame comparato. Speriamo che combacino.
Il suo gruppo sanguigno comunque è lo stesso del campione.
A positivo. E dato che è un gruppo meno frequente
dello O, è probabile che lui sia il nostro uomo.»
«Notizie da Morehead? O dal cantiere?»
«Per ora niente. Franklin era un tipo solitario. Haroldson e
Teeter non hanno incontrato nessuno che lo trovasse simpatico
e lo frequentasse. Nessuno sapeva neppure dove abitava. Devono
ancora parlare con qualche persona, ma non nutrono molte
speranze. Per quanto riguarda Burris e Puck, dicono che nessuno
ricorda di aver visto Franklin vicino all'appartamento di
Andrea. Ma stanno cercando informazioni su altri possibili sospetti,
tanto per stare sicuri. Andrea aveva un debole per i tipi
un po' fuori dal comune e Puck sta raccogliendo i loro nomi.»
«E' Richard Franklin il nostro uomo», insistette Jennifer.
Morrison alzò le mani, come a indicare che lo sapeva. «Ne
avremo la certezza tra un paio d'ore», disse. «A Morehead City,
Johnson sta mostrando in giro la foto di Andrea. A proposito,
ottima idea quella della fotografia. Finora, però, niente. Lì ci
sono molti bar e ristoranti e i turni serali cominciano intorno
alle cinque, perciò ci vorrà ancora un po' di tempo.»
Jennifer annuì.
Il capitano indicò il telefono. «Sei riuscita a rintracciare qualche
informazione su Jessica?»
«No, pensavo di farlo adesso», fu la risposta.
Julie era seduta sul divano con Singer accanto a lei, un orecchio
piegato in avanti. Mike accese la televisione, girò un po'
di canali, poi la spense di nuovo. Si alzò, andò a controllare che
la porta d'ingresso fosse chiusa a chiave, poi guardò fuori dalla
finestra che dava sulla strada.
Tutto era deserto e tranquillo.
«Faccio uno squillo a Henry», disse infine. «Per informarlo
che siamo arrivati.»
Julie annuì.
Jennifer si scostò i capelli dal viso e si concentrò sulle fotografie
trovate nella valigetta di Richard. A differenza di Julie,
pensò, quella donna appariva in posa e sorridente in quasi tutti
i ritratti. E sembrava che fosse davvero sua moglie; notò che
all'anello di fidanzamento che si vedeva nelle prime foto si era
aggiunta in seguito una fede nuziale.
Sfortunatamente, però, non potevano dirle niente di Jessica...
sempre che si chiamasse davvero così, si disse. Non c'erano
scritte sul retro che indicassero un cognome da ragazza o
il luogo dov'erano state scattate. Nemmeno le immagini contenevano
punti di riferimento di luoghi particolari e, dopo averle
esaminate velocemente, le posò sulla scrivania.
Controllò sulla Rete se c'era qualcosa riguardante Jessica
Franklin, cercando persone del Colorado o dell'Ohio e verificando
i siti che riportavano una fotografia. Erano meno di una
decina e nessuna foto ricordava la donna che stava cercando.
La cosa non la sorprese. Dopo un divorzio, la maggior parte
delle donne riprendeva il cognome da ragazza...
Ma se non avessero affatto divorziato? si chiese.
Lui aveva già dimostrato quanto potesse essere violento, pensò.
Jennifer guardò il telefono. Dopo un attimo di esitazione,
compose il numero dell'agente investigativo Cohen a Denver.
«Nessun problema», rispose lui dopo aver ascoltato la sua
richiesta. «Da quando ci siamo sentiti, non ho smesso di pensare
a quel tipo. Non so perché, ma il suo nome non mi suona
nuovo. Non dovrebbe essere troppo difficile scoprirlo. Aspetti
che controllo.»
Lei rimase in attesa.
«No», rispose lui infine, «non ci sono vittime di omicidio
che corrispondono al nome Jessica Franklin, e neppure persone
scomparse.»
«Esiste un modo per scoprire qualcosa sul loro matrimonio?
Quando fu celebrato, per quanto tempo sono stati sposati?»
«Noi non abbiamo accesso diretto a questo genere di informazioni,
ma la contea sì. Forse la cosa migliore è controllare
il registro delle imposte patrimoniali, dato che in genere le case
sono intestate a entrambi i coniugi. Potrebbe essere un inizio.
Ma le servirà qualcuno che abbia accesso agli archivi.
Sempre ammesso, poi, che si siano sposati nella zona.»
«Lei ha il numero di telefono?»
«Aspetti che glielo cerco.»
Lo udì aprire un cassetto, imprecare, poi chiamare un collega
e chiedergli la rubrica. Un attimo dopo le comunicò il numero.
Lo stava annotando, quando Pete piombò alla sua scrivania.
«Daytona», disse trafelato. «Quel figlio di puttana è stato a Daytona
quando ha detto di essere andato al funerale della madre...»
«Daytona? Non è da lì che arriva Julie?»
«Non ricordo», rispose Pete, «ma ascolta... se sua madre è
davvero morta, dovremmo poter trovare il suo necrologio. Mi
sono già collegato al giornale e sto scaricando le informazioni.
Furbo, eh?»
Jennifer non rispose e rimase a pensare. «Non lo trovi strano?»
chiese dopo un po'. «Voglio dire, che la madre sia morta
proprio nel posto dov'è cresciuta Julie?»
«Forse sono cresciuti nello stesso posto.»
Possibile, ma improbabile, pensò lei scrollando la testa. C'era
qualcosa di poco chiaro. Soprattutto dal momento che esistevano
le prove che era vissuto a Denver quattro anni prima
e Julie avrebbe sicuramente accennato a quel loro passato in
comune, se ci fosse stato. Ma... che cosa era andato a fare a
Daytona?
Jennifer impallidì di colpo. «Hai il numero di telefono della
madre di Julie?» chiese.
Pete scrollò il capo. «No.»
«Trovalo. Credo che dovremmo parlare con lei.»
«Ma i necrologi?»
«Scordateli. Non siamo nemmeno sicuri che la storia della
madre sia vera. Cerchiamo piuttosto il tabulato delle sue telefonate.
Magari scopriamo chi ha chiamato.»
Avrei dovuto farlo fin dal principio, si disse Jennifer. E io
che pensavo di sapere tutto.
«Il tabulato delle telefonate?»
«Quelle fatte da casa, Pete. Trova il tabulato delle telefonate
fatte da Richard Franklin.»
Pete sbatté gli occhi, cercando di stare al passo. «Allora i necrologi
non servono a niente?»
«No, non è partito per recarsi al capezzale della madre. E'
andato a Daytona per avere notizie su Julie. Sono pronta a
scommetterci
la vita.»
Henry era seduto con Emma al tavolo in cucina, i suoi occhi
seguivano distrattamente il volo di una mosca che sbatteva
contro il vetro della finestra.
«Sono sicuri che nessuno li abbia seguiti?»
Lui annuì. «E' quello che ha detto Mike quando ha chiamato.»
«E tu pensi che siano al sicuro?»
«Lo spero, ma finché non prendono quel figlio di puttana,
non dormirò tranquillo.»
«E se non ci riescono?»
«Lo troveranno.»
«Ma se non ci riuscissero?» chiese Emma di nuovo. «Per
quanto tempo dovranno stare nascosti là?»
Henry scrollò la testa. «Per tutto il tempo necessario.» Poi
aggiunse: «Forse dovrei chiamare la polizia e informarli di dove
si trovano».
Jennifer si arricciava distrattamente una ciocca di capelli
mentre parlava al telefono con Henry.
«Grazie di avermi informato», disse. «Arrivederci.»
Dunque avevano lasciato la città, pensò riattaccando. Avrebbe
fatto la stessa cosa anche lei in quella situazione. D'altra parte,
però, così erano più distanti in caso di necessità. Anche se
Topsail faceva parte della contea, si trovava all'estremità meridionale...
almeno a quaranta minuti di strada da Swansboro.
Le ricerche nel registro delle imposte patrimoniali erano
state inutili. La casa era intestata a nome di Richard Franklin
soltanto.
Non sapendo da che altra fonte attingere informazioni, Jennifer
tornò a esaminare le foto. Sapeva che le fotografie non
parlavano solo del soggetto, ma anche del fotografo. E Richard
era davvero bravo... molte delle immagini erano notevoli. Richard
Franklin non era un dilettante, ma una persona che considerava
la fotografia come un'arte, concluse. Bastava pensare
all'attrezzatura che avevano trovato a casa sua.
Era la prima volta che faceva quelle considerazioni, si disse.
C'era qualche elemento che poteva tornarle utile? Non ne era
sicura.
Tuttavia, più osservava le foto, più sentiva di essere sulla
strada giusta con il suo ragionamento. Anche se non sapeva
ancora con esattezza quali fossero le risposte che cercava - e
neppure le domande - mentre esaminava le immagini e si chiedeva
che cosa implicassero su Richard, aveva la netta sensazione
di stare avvicinandosi a una svolta nelle indagini.
36.
A Denver, l'agente investigativo Larry Cohen pensava alle
telefonate ricevute dal North Carolina. L'agente Romanello gli
aveva chiesto informazioni su Richard Franklin e, sebbene l'archivio
non avesse dato risultati significativi, era certo di aver
già sentito quel nome.
Certo, poteva essere di chiunque, rifletté. Un testimone in
uno degli innumerevoli casi che aveva seguito; magari l'aveva
letto sul giornale, oppure era quello di un tizio conosciuto a
una festa, o incontrato di passaggio.
Però aveva la sensazione che quel nome c'entrasse con la polizia.
Ma perché, se l'uomo non era mai stato arrestato?
Si alzò dalla scrivania e decise di fare qualche domanda in
giro. Magari qualcuno al dipartimento era in grado di fornirgli
delucidazioni.
Un'ora dopo, il capitano Morrison uscì dal suo ufficio con
in mano i dati delle telefonate fatte da Richard Franklin e
quelli ottenuti dalla J.D. Blanchard. Il fax conteneva anche
informazioni sui progetti precedenti per i quali era stato consulente.
Pete prese il tabulato delle telefonate; Jennifer posò le foto
e cominciò a studiare il fax della J.D. Blanchard.
In cima alla scheda anagrafica, Richard aveva indicato un indirizzo
di Columbus; il resto era una vera miniera d'oro. Con
chi aveva lavorato e quando, le associazioni a cui era iscritto,
le esperienze precedenti, il corso di studi.
«Ti ho beccato», mormorò lei. Dopo aver chiamato il servizio
informazioni, compose il numero della Lentry Construction
di Cheyenne, nel Wyoming, l'ultima società dove Richard
era stato assunto prima di mettersi in proprio.
Parlò con la centralinista e fu messa in comunicazione con
Clancy Edwards, vicepresidente della società, che vi lavorava
da quasi vent'anni.
«Richard Franklin? Sicuro che lo ricordo», disse subito
Edwards. «Era un ottimo collaboratore. Sapeva il fatto suo.
Non mi ha sorpreso che si mettesse in proprio.»
«Quando gli ha parlato l'ultima volta?»
«Dunque... mi faccia pensare. Si era trasferito a Denver, sa?
Dev'essere stato otto o nove anni fa. Stavamo lavorando... vediamo...
dunque nel '95, giusto? Credo che si trattasse di un
progetto...»
«Mi scusi, signor Edwards, lei sa se fosse sposato?»
Impiegò qualche istante a realizzare che lei gli aveva fatto
un'altra domanda. «Sposato?»
«Sì, era sposato?»
Edwards rise tra sé. «Impossibile. Eravamo tutti sicuri che
fosse gay...»
Jennifer si avvicinò la cornetta all'orecchio, nel dubbio di
non aver sentito bene. «Come ha detto? E' sicuro?»
«Non al cento per cento, è ovvio. Lui non ne parlò mai direttamente.
E noi non ci immischiammo più di tanto. La vita
personale di un uomo è affar suo, basta che sappia fare il
proprio mestiere. Noi abbiamo sempre lavorato così. La nostra
filosofia è sempre stata quella di badare ai risultati concreti.»
Jennifer non lo ascoltava quasi più.
«Il Wyoming ha fatto molta strada, ma non è San Francisco,
se mi capisce, e non è sempre stato facile. Ma le cose stanno
cambiando anche qui.»
«Andava d'accordo con tutti?» chiese lei allora, ricordando
quello che le aveva detto Jake Blansen.
«Assolutamente sì. Come ho detto, sapeva il fatto suo e gli
altri lo rispettavano per questo. Ed era anche simpatico. Una
volta ha regalato un cappello a mia moglie per il suo compleanno.
Lei non lo ha portato molto, sa come sono le donne...»
«E che mi dice degli operai dei cantieri? Andava d'amore e
d'accordo anche con loro?»
Interrotto di nuovo a metà frase, Clancy Edwards impiegò
qualche istante a riprendere il filo.
«Sì, certo, anche con loro. Come le ho detto, era simpatico
a tutti. Qualcuno forse storceva un po' il naso per... la sua vita
personale, ma tutti gli erano affezionati. Ci è spiaciuto quando
se n'è andato.»
Jennifer rimase zitta e Edwards si sentì in dovere di riempire
il silenzio.
«Posso chiederle il motivo di queste domande? Non è nei
guai, vero? Non gli è successo niente, spero.»
Jennifer cercava ancora di dare un senso alle informazioni
ricevute. «Riguarda un'indagine. Mi spiace, ma non posso dirle
altro», rispose. «Si ricorda di aver mai ricevuto una telefonata
dalla società J.D. Blanchard per una referenza?»
«Non mi ricordo, ma credo che il presidente lo sappia. Eravamo
ben disposti a fornire una raccomandazione. Come ho
detto, quel tipo era proprio in gamba...»
Jennifer posò lo sguardo sulle fotografie di Jessica. «Sa se
aveva l'hobby della fotografia?»
«Chi, Richard? Può darsi, ma non me ne ha mai parlato. Perché?»
«Niente di importante», rispose Jennifer, di colpo a corto di
domande. «Senta la ringrazio del tempo che mi ha dedicato,
signor Edwards. E' stato molto gentile. Posso chiamarla ancora
se avessi bisogno di altre informazioni?»
«Ma certo. Mi trova qui tutti i giorni fino alle sei. Da queste
parti abbiamo molto rispetto per le forze di polizia. Mio
nonno è stato sceriffo per... mah, credo per almeno vent'anni...»
Jennifer riagganciò mentre l'uomo stava ancora parlando,
poi scrollò la testa. Quello che aveva appena sentito non la
convinceva
affatto.
«Avevi ragione», disse Pete a Jennifer pochi minuti dopo con
aria confusa, perché il suo istinto femminile aveva visto giusto,
mentre lui aveva sbagliato tutto. «Sul tabulato c'è il numero di
telefono di un investigatore privato di Daytona.» Guardò l'annotazione
che si era scritto. «Richard ha telefonato tre volte alla
Groom's Investigations. Ho chiamato anch'io, e non mi ha
risposto nessuno, però ho lasciato un messaggio. Dev'essere
una piccola attività. Niente segretaria e sulla segreteria era registrata
una voce maschile.»
«La madre di Julie l'hai trovata?»
Pete scrollò il capo. «Sì, ho trovato il suo numero, ma non
ha risposto nessuno. Proverò un po' più tardi. Come va dalle
tue parti?»
Jennifer lo aggiornò sulla conversazione con Clancy
Edwards. Quando ebbe finito, lui si grattò la nuca. «Un gay,
eh?» Annuì come se la cosa non lo sorprendesse. «Me lo vedo.»
Jennifer ignorò il commento e riprese la scheda anagrafica.
«Proverò con la seconda società in elenco», disse. «E' passato
molto tempo da quando ha lavorato lì, ma spero che ci sia ancora
qualcuno che se lo ricorda. Poi con la banca di Denver
dove aveva il conto, oppure cercherò di cavare informazioni
dai suoi ex vicini di casa. Sempre ammesso che li trovi.»
«Mi sa che ti ci vorrà parecchio tempo.»
Lei annuì, la mente ancora assorta dalla sua telefonata con
Edwards. «Senti», disse, trascrivendo i dati essenziali dalla scheda
anagrafica, «mentre io mi occupo di questo, tu cerca di scoprire
qualcosa sulla sua infanzia. Qui dice che è nato a Seattle,
perciò chiama gli ospedali di lì e vedi se riesci a ottenere il suo
certificato di nascita. Magari possiamo capirci di più se risaliamo
alla sua famiglia..»
«Certo.»
«Ah... e continua anche a provare con l'investigatore privato
e la madre di Julie. Voglio parlare con loro.»
«D'accordo.»
Ci volle più tempo di quanto pensasse, ma alla fine Richard
uscì dal parcheggio del centro commerciale con una Pontiac
Trans Am verde del 1984. Si immise nel traffico, diretto verso
l'autostrada. A quanto poteva vedere, nessuno lo stava osservando.
Era ridicolo, pensò, che ancora oggi, con i tempi che correvano,
ci fosse chi lasciava le chiavi nel cruscotto. Ma le persone
non si rendevano conto che qualcuno avrebbe potuto approfittare
della loro stupidità? No, certo che no. Certe cose non
sarebbero mai capitate a loro. Il mondo era pieno di persone
come Pete Gandy; imbecilli ciechi e ottusi che ci lasciavano in
balia dei terroristi. Non solo per la loro stupidità, ma per la
scarsa vigilanza, la loro grassa e soddisfatta ignoranza. Da parte
sua non sarebbe mai stato così sconsiderato, ma non poteva
lamentarsi. Gli serviva una macchina, e quella era perfetta.
Le ore passavano lente.
Le telefonate fatte da Jennifer nel pomeriggio non l'avevano
condotta da nessuna parte. Trovare vicini di casa era stata
un'impresa - aveva dovuto convincere un impiegato della contea
a consultare l'archivio delle imposte patrimoniali per risalire
ai proprietari, poi cercare i loro numeri, il tutto sempre sperando
che non si fossero trasferiti - che le aveva preso più tempo
di quanto pensasse. In quattro ore era riuscita a parlare solo
con quattro persone che avevano conosciuto Richard Franklin.
Due ex vicini di casa e un paio di dirigenti che si ricordavano
vagamente di lui dall'anno in cui aveva lavorato per una
società di Santa Fé, nel New Mexico. Al pari di Edwards, tutti
le avevano ripetuto essenzialmente le stesse cose.
Era un tipo simpatico, amichevole, affidabile. Probabilmente
gay. E nessuno sembrava al corrente della sua passione per la
fotografia.
Jennifer si alzò dalla scrivania e attraversò l'ufficio per andare
a prendere l'ennesima tazza di caffè.
Chi è questo tizio? si chiese. E perché mai aveva la sensazione
che i suoi interlocutori telefonici stessero descrivendo
una persona diversa?
In un'altra parte del paese, l'agente investigativo Larry Cohen
si stava consultando con diversi colleghi.
Anche a loro quel nome risultava in qualche modo familiare,
ma non riuscivano a collocarlo in un contesto preciso. Uno
aveva addirittura rifatto le ricerche nell'archivio, convinto che
dovesse esserci qualche rapporto su di lui, ma senza risultati.
Tornò alla sua scrivania, accigliato. Ma perché quel nome diceva
qualcosa anche ai suoi colleghi? si chiese. Se l'uomo non
era mai stato arrestato e nessuno ricordava di aver avuto a che
fare con lui come testimone, da dove saltava fuori?
Balzò in piedi di colpo quando la risposta gli balenò alla mente.
Batté sui tasti del computer e scorse i dati che scorrevano
sullo schermo. Trovando conferma al suo sospetto, si alzò per
andare a parlare con un altro agente investigativo.
Seduto al suo posto, Pete aveva avuto più fortuna. Non gli
era stato difficile rintracciare informazioni sull'infanzia di
Franklin. Alquanto fiero di se stesso, stava per portare a Jennifer
i risultati, quando il telefono sul tavolo della collega squillò.
Lei alzò un dito per fargli segno di aspettare.
«Polizia di Swansboro», disse. «Parla l'agente Romanello.»
All'altro capo del filo, udì qualcuno schiarirsi la voce.
«Sono l'agente Larry Cohen.»
Jennifer si drizzò a sedere. «Oh... salve. Ci sono novità?»
«In un certo senso. Dopo la sua telefonata, ho fatto qualche
domanda in giro per il dipartimento finché mi è venuto in mente
in quale circostanza avevo sentito il nome di Richard Franklin.»
Fece una pausa. «E poi un nostro collega mi ha raccontato
di un caso che aveva seguito quattro anni fa, relativo a una
persona scomparsa.»
Jennifer prese una penna. «Jessica Franklin?»
Pete drizzò le orecchie sentendo pronunciare quel nome.
«No, non Jessica», rispose Cohen.
«Allora a chi si riferisce?»
«Richard Franklin.»
Jennifer esitò. «Come ha detto? Che cosa significa?»
«La persona scomparsa è Richard Franklin», rispose lui lentamente.
«Ma lui è qui.»
«Lo so. Però quattro anni fa è scomparso. Da un giorno all'altro
non si è più presentato in ufficio e, dopo una settimana
di assenza, la sua segretaria ci ha chiamato. Ho parlato con il
detective incaricato delle indagini. Mi ha detto che, a quanto
pareva, il tizio si era volatilizzato di colpo. A casa sua c'erano
dei vestiti sparsi sul letto e i cassetti erano stati rovistati. Mancavano
due valigie - la segretaria spiegò che erano quelle che
usava sempre per i viaggi di lavoro - e anche la sua macchina
era sparita. L'ultimo giorno in cui era stato visto aveva fatto un
prelievo a un bancomat.»
«Voleva scappare?»
«Così sembrava.»
«E perché?»
«Il detective non è riuscito a scoprirlo. Dai colloqui con i
conoscenti di Franklin non emerse niente di rilevante. Però
sostenevano
che non era tipo da prendere il volo così. Nessuno
riusciva a capirne la ragione.»
«Non aveva guai con la legge?»
«Il detective non ne scoprì nessuno. Non c'erano denunce
pendenti, come le ho già detto, non ha mai avuto problemi
con noi. E' come se all'improvviso avesse deciso di cambiare vita.»
Era la stessa idea che si era fatta Jennifer controllando l'estratto
conto.
«E perché la famiglia non denunciò la scomparsa?»
«Ecco, è questo il punto. Non c'era nessuna famiglia in senso
stretto. Il padre era deceduto, non c'erano fratelli, e la madre
era in una casa di cura per malattie mentali.»
Jennifer valutò le implicazioni di quelle notizie. «Ha qualche
informazione sul caso che potrebbe inviarmi?»
«Certo. Ho già tirato fuori la pratica. Posso spedirgliela domattina
per corriere.»
«Non potrebbe farmela avere via fax?»
«Sono molte pagine», disse lui, «ci vorrà almeno un'ora per
inviargliele tutte».
«Per favore», insistette lei. «Tanto starò qui tutta la notte,
probabilmente.»
«Va bene, allora. Mi dia il numero di fax.»
Oltre la finestra della cucina, l'oceano ardeva arancione, come
se fosse scoppiato un incendio sotto la superficie. A mano
a mano che le ultime tracce del giorno si spegnevano, la casa
diventava più buia. Il lampadario al neon splendeva fluorescente
con un debole ronzio.
Mike si avvicinò a Julie che osservava Singer sulla spiaggia.
Era sdraiato sulla sabbia, le orecchie dritte, la testa che si muoveva
di tanto in tanto da una parte all'altra.
«Hai voglia di mangiare?» le chiese.
«Non ho fame.»
Annuì comprensivo. «Come sta Singer?»
«E' tranquillo.»
«Allora non c'è nessuno là fuori», disse Mike. «Altrimenti
ce lo farebbe subito sapere.»
Julie annuì, poi si appoggiò a lui che la cinse con un braccio.
Morrison uscì dalla sua stanza per comunicare a Jennifer e
Pete la notizia.
«Si tratta del sangue di Andrea Radley, è confermato. Mi ha
appena telefonato il laboratorio. Non ci sono più dubbi.»
Lei lo udì appena; stava fissando la prima pagina del fax che
arrivava da Denver.
«E Johnson ha trovato un testimone», proseguì Morrison.
«Un barista del Mosquito Grave ha riconosciuto Andrea nella
foto e ha dato una descrizione perfetta di Richard Franklin. Ha
detto che quel tipo era odioso.»
Jennifer continuava a fissare quella pagina, senza curarsi delle
altre che stavano uscendo dal fax.
«Non è Richard Franklin», disse piano.
Morrison e Pete si voltarono nella sua direzione.
«Ma che cosa dici?» domandò il capitano.
«Il nostro uomo», spiegò lei con calma. «Non si chiama Richard
Franklin. Il vero Richard Franklin è scomparso quattro
anni fa. Ecco...» Mostrò il foglio ricevuto. C'era una fotografia
dello scomparso e, nonostante la grana sfocata della fotocopia,
la testa calva e i lineamenti marcati rendevano evidente
che non era la persona a cui stavano dando la caccia. «Il rapporto
è appena arrivato da Denver. Questo è Richard Franklin.»
I due uomini esaminarono la fotografia.
Poi Pete sbatté gli occhi, confuso. «Questo è Richard Franklin?»
ripeté.
«Sì.»
Tornò a fissare la foto. «Ma non gli assomiglia.»
Morrison guardò Jennifer negli occhi. «Vuoi dire che il nostro
uomo ne ha assunto l'identità?»
Lei annuì.
«Allora chi diavolo stiamo cercando?» chiese il capitano.
Jennifer rivolse lo sguardo lontano, oltre le finestre dell'ufficio.
«Non ne ho idea.»
37.
«Qualche idea?» chiese Morrison,
Era passata un'ora e, alla presenza di quasi tutti i suoi agenti,
non riusciva a mascherare la rabbia e la frustrazione. Avevano
riesaminato gli oggetti rinvenuti nell'abitazione, nella speranza
che potessero fornire qualche indizio sull'identità del sospetto,
ma senza esito. Anche un'ulteriore analisi delle telefonate
fatte era risultata vana.
«Le impronte? Potrebbero essere utili», suggerì Burris.
«Le stiamo confrontando. Ma se non è stato arrestato nel
North Carolina, non serviranno a niente. Ho parlato con il capo
della polizia del Colorado e faranno un confronto anche loro,
anche se non abbiamo la garanzia che il sospetto sia mai stato
a Denver.»
«Però ha assunto l'identità di Richard Franklin», protestò
Jennifer.
«Non ci sono prove che sia lui il responsabile della sua scomparsa.
Da quello che sappiamo, potrebbe esserne venuto a conoscenza
per caso e averne approfittato.»
«Ma...»
Morrison alzò le mani. «Teniamo aperte tutte le strade. Non
voglio dire che non sia implicato, ma non possiamo trascurare
niente. E poi non è questo il punto. Il punto è Andrea Radley...
quello che lui le ha fatto e quello che è capace di fare.
Che cosa sappiamo di quell'individuo con certezza? Romanello?
Facci una sintesi.»
Jennifer elencò quello che sapeva.
«E istruito. Probabilmente ha una laurea in ingegneria, il
che significa che ha frequentato un'università. Gli piace la
fotografia ed è bravo, ci si dedica da tempo. E' stato sposato
con una certa Jessica, ma di lei non sappiamo altro. Probabilmente
è psicopatico; ha seguito Julie fin dai primi tempi
della loro conoscenza e sembra confonderla con la moglie.
Le due donne si assomigliano molto e lui l'ha persino chiamata
con il nome dell'altra. A giudicare dalla complessità delle
sue operazioni economiche e societarie, sono quasi sicura
che abbia già avuto problemi con la giustizia. Probabilmente
è latitante, il che significa che ha esperienza nel nascondersi
alla polizia.»
Morrison annuì. «Pete? Tu che ne pensi?»
Lui ci rifletté un attimo. «E' più forte di quanto sembri. Solleva
pesi quasi quanto me.»
Gli altri agenti lo guardarono dubbiosi. «L'ho visto in palestra»,
disse Pete sulla difensiva.
Morrison sospirò, chiedendosi perché si fosse dato la pena
di interpellarlo. «Bene, ecco quello che faremo. Burris: vai
alla Blanchard e vedi se hanno una foto di questo tizio. Non
abbiamo molto tempo, ma voglio che compaia nel notiziario
della sera, se possibile. Chiamerò le emittenti televisive e spiegherò
la situazione. La foto deve essere pubblicata anche sul
giornale, quindi fate venire un giornalista, così possiamo controllare
le informazioni. Gli altri cerchino di immaginare dove
si può trovare il sospetto. Chiamate tutti gli alberghi e i
motel di Swansboro e di Jacksonville per sapere se qualcuno
che corrisponde alla descrizione si è registrato lì. So che è
improbabile,
ma non possiamo ignorare la possibilità di avercelo
proprio sotto il naso. Se non salta fuori niente, andrete in
coppia a controllare. E poi tornate in ufficio dopo il notiziario.
Saremo inondati di segnalazioni telefoniche e voglio che siate
tutti qui a rispondere. Bisogna cercare di scoprire dove è stato
visto oggi. Non ieri, né la settimana scorsa. Scarteremo i mitomani
e vedremo che cosa resta.»
Si guardò in giro. «E' tutto chiaro?»
Ci fu un generale mormorio di assenso.
«Allora, al lavoro.»
Sapendo che gli avrebbero dato la caccia nella zona di Swansboro,
lui aveva viaggiato per due ore in direzione nordest e si
era fermato in un motel malandato lungo l'autostrada, il genere
di posto dove i clienti pagano in contanti e non è richiesta
la registrazione.
Adesso, sdraiato a letto, fissava il soffitto.
Possono cercarmi dove gli pare, pensò, ma non mi troveranno.
Chissà se la polizia aveva scoperto che non era il vero
Richard Franklin. Fosse anche stato, non aveva importanza;
non c'era modo di collegarlo alla scomparsa di Franklin, né di
scoprire la sua precedente identità. La cosa più ardua era stata
trovare l'uomo giusto, uno senza famiglia, anche servendosi
dei computer delle varie biblioteche dov'era stato durante la
latitanza. Vagliare gli elenchi delle associazioni professionali
usando Internet era stato tedioso e lungo, ma non aveva perso
la pazienza, era rimasto ligio alla sua indagine, cercando l'uomo
perfetto da una città all'altra. Non aveva avuto altra scelta,
date le circostanze, e ricordava ancora il senso di sollievo e
soddisfazione
quando infine aveva fatto centro.
Aveva attraversato tre stati nel suo viaggio verso Denver;
poi passato tre settimane a studiare le abitudini dell'uomo.
Aveva seguito il vero Richard Franklin come aveva fatto con
Julie. Aveva scoperto che era basso e pelato, senza dubbio gay,
e che passava la maggior parte del tempo da solo. A volte si
tratteneva fino a tardi in ufficio e così una sera lo aveva seguito
mentre si avviava verso la sua macchina nel parcheggio buio,
la testa china a guardare le chiavi.
Franklin non lo aveva sentito avvicinarsi e lui gli aveva puntato
una pistola alla tempia.
«Fai esattamente come ti dico», aveva bisbigliato, «e resterai
vivo.»
Ovviamente era una menzogna, ma era servita allo scopo, si
disse. Franklin aveva fatto tutto quello che lui gli aveva chiesto
e aveva risposto a tutte le sue domande. Aveva prelevato i
contanti e fatto le valigie. Si era anche lasciato legare e bendare,
nella speranza che la sua collaborazione venisse ricompensata.
Aveva portato Franklin tra le montagne e poi gli aveva detto
di sdraiarsi sul ciglio della strada. Ricordava ancora le sue
implorazioni e come si fosse fatto la pipì addosso quando aveva
sentito lo scatto inconfondibile del cane della pistola.
Gli era venuto quasi da ridere di fronte alla debolezza dell'uomo,
alla sua piccolezza, pensando a quanto fossero diversi.
Quell'uomo era niente: un misero, insignificante nulla. Nella
sua situazione, lui avrebbe lottato o avrebbe cercato di scappare.
Franklin invece si era messo a piangere e tre ore più tardi
era sepolto in una tomba che non sarebbe mai stata scoperta.
Sapeva che, senza nessuno a sollecitare le indagini, la pratica
di Franklin sarebbe finita in fondo alla pila di quelle delle
persone scomparse e infine sarebbe stata dimenticata. E dal
momento che era scomparso, e non deceduto, era stato facile
assumerne l'identità. Da allora lui si era esercitato a non rispondere
al proprio nome e ormai, persino quando lo pronunciava
tra sé, gli risultava estraneo.
Aveva sistemato il vero Richard Franklin, concluse soddisfatto,
come aveva fatto con sua madre e suo padre. E i ragazzi
nella famiglia adottiva. E il suo compagno di stanza all'università.
E Jessica.
Socchiuse gli occhi.
Era venuto il momento di occuparsi di Mike.
Mabel era seduta al capezzale di Andrea quando arrivarono
i suoi genitori da Boone. Avevano affrontato un viaggio di sei
ore, tra lacrime e timori, e Mabel uscì dalla camera per lasciarli
soli con la figlia.
Mentre si sedeva in sala d'attesa, pensò a Mike e Julie, augurandosi
che fossero al sicuro. Dopo aver visto le ferite di Andrea
quando le infermiere le avevano cambiato le bende, aveva
capito con certezza che Richard Franklin era un mostro e
che loro due correvano un pericolo maggiore di quanto
immaginassero.
Topsail non era abbastanza lontano, si disse. No, dovevano
andarsene il più possibile lontano da Swansboro e restarci tutto
il tempo necessario. Bisognava riuscire a convincerli in qualche
modo.
Il commissariato di Swansboro rimase in piena attività per
tutta la sera. Dopo aver battuto gli alberghi, avevano individuato
dodici possibili sospetti e, con l'aiuto del dipartimento
della contea di Onslow, li avevano controllati uno per uno, ma
senza fortuna.
La J.D. Blanchard aveva fornito una foto molto chiara dell'indiziato
e Burris ne aveva fatto diverse copie e le aveva distribuite
alle emittenti televisive. Il servizio sull'aggressione di
Andrea Radley era stato trasmesso in apertura nei vari notiziari,
con l'immagine dell'indiziato e l'avvertenza che il soggetto
era considerato estremamente pericoloso. Veniva specificato
anche il modello e il numero di targa della sua macchina.
Come Morrison aveva previsto, le telefonate erano cominciate
a piovere subito dopo la messa in onda.
L'intero commissariato aveva risposto alle chiamate; erano
state vagliate le varie testimonianze e scartate quelle dei mitomani.
Alle due di notte, gli agenti avevano parlato con più di duecento
persone. Ma nessuno sembrava aver visto in giro il sospetto
quel giorno, né la sua auto.
Sfinito, Richard ripensò a Jessica mentre scivolava nel sonno.
La rivide quel giorno nel ristorante dove faceva la cameriera.
Mentre mangiava, i suoi occhi erano stati attratti dalla sua
graziosa figura. Lei lo aveva notato e gli aveva sorriso brevemente,
ricambiando lo sguardo; era tornato al ristorante all'ora
di chiusura e aveva atteso fuori dalla porta.
Era come se lei lo stesse aspettando: il modo in cui la luce
dei lampioni si rifletteva sui suoi lineamenti, mentre passeggiavano
per le strade di Boston... il modo in cui lo aveva guardato
quando erano a tavola, a cena... il fine settimana successivo
a Cape Cod, dove avevano camminato a lungo in riva al
mare e fatto un picnic sulla spiaggia... o un picnic e un volo in
mongolfiera... Jessica e Julie... così simili... - i suoi pensieri
di loro si fondevano, le immagini si sovrapponevano -Julie...
le sue lacrime mentre assisteva al Fantasma dell'Opera... il tocco
sensuale delle sue dita quando gli tagliava i capelli... la sua
commozione quando le aveva mentito a proposito della madre
morta all'improvviso... la sua espressione fiera quando lo aveva
presentato agli amici nel locale...
Dio, quanto l'amava... l'avrebbe sempre amata.
Un attimo dopo, il suo respiro si era fatto profondo e regolare.
38.
Il mattino successivo sul canale aleggiava una nebbia leggera
che si dissolse lentamente mentre il sole saliva sopra la
cima degli alberi. Un prisma di luce entrò dalla finestra del
commissariato, puntando verso la sua terza tazza di caffè.
Stavano dando la caccia a un fantasma, pensò Jennifer
sconfortata.
Non avevano niente, assolutamente niente su cui lavorare,
e l'attesa era la parte peggiore. Era tornata in ufficio dopo un
paio di ore di sonno, e ora rimpiangeva di averlo fatto. Non
le veniva in mente nessuna traccia da approfondire.
Le impronte non erano state d'aiuto; Morrison aveva deciso
di provare anche con l'archivio dell'FBI, ma gli avevano risposto
che, a causa dell'elevato numero di richieste da tutto il
paese, ci sarebbe voluta una settimana per avere una risposta.
Le telefonate continuavano ad arrivare, e lei rispondeva regolarmente.
Il servizio era stato trasmesso di nuovo quella mattina
- ed era in programma anche per mezzogiorno - ma, come
la notte precedente, non saltavano fuori notizie utili. Troppe
chiamate venivano da cittadini terrorizzati che volevano solo
essere tranquillizzati, o da altri che affermavano che il sospetto
stava circolando nel loro giardino. Anche i suoi colleghi
si erano presentati presto in ufficio e stavano seguendo diverse
piste, anche se dubitava che potessero trovare qualche indizio
significativo.
Era lo svantaggio di usare i media, considerò Jennifer. Sebbene
così fosse possibile ottenere informazioni valide, quelle
inutili erano garantite e intoppavano tutto il sistema.
Ma d'altrocanto, c'erano altre strade da percorrere? Restavano
le fotografie della valigetta, e non riusciva ancora a capire
perché si fosse fissata con quelle. Le aveva riguardate una
decina di volte, ma appena le rimetteva via, sentiva il bisogno
di esaminarle ancora.
Sfogliando le foto, rivide per l'ennesima volta le stesse immagini.
Jessica in giardino. Jessica su una veranda. Jessica seduta.
Jessica in piedi. Jessica sorridente. Jessica seria.
Posò le foto, irritata. Niente.
Un attimo dopo, il telefono tornò a squillare. Rimase in ascolto,
poi si accinse a rispondere. «Si, signora. Sono sicura che
non corre pericoli se va dal ferramenta...»
Quando Mabel lasciò l'ospedale di Wilmington, dov'era rimasta
a vegliare Andrea quasi tutta la notte, era un po' più fiduciosa
riguardo alle sue condizioni. Sebbene ancora non avesse
aperto gli occhi, poco prima dell'alba aveva mosso la mano
e i dottori avevano confermato ai genitori che era buon segno.
Dicendosi che per il momento non poteva fare altro che sperare,
la donna salì in macchina e tornò a Swansboro. Il sole del
mattino le bruciava gli occhi e faticava a concentrarsi sulla guida.
Le sue preoccupazioni per l'incolumità di Mike e Julie si
erano intensificate durante la notte insonne. Mi concederò un
sonnellino, decise, poi li raggiungerò per cercare di farli ragionare.
Richard si svegliò, si fece una doccia, poi salì sulla Pontiac
rubata. Due ore più tardi, dopo aver comprato una tazza di
caffè e qualche giornale lungo la strada, entrava a Swansboro,
con la sensazione di essere tornato a casa.
Portava calzoni di tela e una polo; con i capelli chiari e gli
occhiali, persino lui stentava a riconoscersi. Sembrava un qualunque
padre di famiglia, diretto al mare per il fine settimana.
Si chiese che cosa stesse combinando Julie in quel preciso
momento. Era sotto la doccia? Stava facendo colazione? E anche
lei stava pensando a lui? Sorrise mentre infilava le monetine
nel distributore automatico. Sapeva che, mentre quello di
Jacksonville era un quotidiano, il giornale di Swansboro usciva
solo due volte la settimana.
Si diresse verso un piccolo parco e si sedette su una panchina
vicino alle altalene. Aprì il giornale e si mise a leggere.
Non voleva che la sua presenza lì allarmasse i genitori dei bambini
che stavano giocando: la gente era diventata paranoica riguardo
agli adulti che si aggiravano nei parchi. Una reazione
comprensibile, si disse, visti i tempi.
Sulla prima pagina del giornale campeggiava la sua foto e lui
lesse con calma l'articolo. Forniva scarne informazioni che il
giornalista doveva aver raccolto direttamente dalla polizia, e un
numero di telefono da chiamare nel caso si avessero segnalazioni
da fare. Una volta finito di leggere, sfogliò le altre pagine,
cercando la notizia del furto dell'auto. Niente. Allora ricominciò
a leggere l'articolo, alzando gli occhi ogni pochi minuti.
Avrebbe aspettato tutta la giornata, se necessario, pensò. Non
aveva dubbi su chi lo avrebbe condotto da Julie e Mike.
Pete si avvicinò alla scrivania di Jennifer con l'aria esausta.
«Trovato niente?» gli chiese lei.
Scrollò il capo, trattenendo uno sbadiglio. «Un altro falso
allarme. E tu?»
«Non molto. Un altro testimone che ricordava di aver visto
Andrea e Richard al Mosquito Grove. Sono arrivate anche notizie
dall'ospedale. Andrea non è ancora fuori pericolo, ma i
medici sono ottimisti.» Fece una pausa. «Mi sono dimenticata
di chiedertelo prima, ma sei riuscito a parlare con l'investigatore
privato o con la madre di Julie?»
«Non ancora.»
«Perché non mi dai i loro numeri, che ci provo io?»
«E a che cosa serve? Sappiamo già perché è stato da lei.»
«E' vero. Ma non ho nient'altro da fare.»
Jennifer riuscì a mettersi in contatto con la madre di Julie,
ma una volta tanto Pete aveva avuto ragione. La telefonata non
le portò nessuna informazione nuova. La donna le confermò
che era stato da lei un tizio che si era presentato come vecchio
conoscente di Julie. Una settimana dopo aveva portato con sé
un amico che corrispondeva alla descrizione del sospetto.
La telefonata all'investigatore privato, invece, rimase senza
risposta.
Ancora niente anche sul fronte delle impronte digitali.
Senza nuove informazioni, lei era al punto di partenza e
questo la irritava. Quell'uomo era ancora in città? si chiese.
Non lo sapeva. Che cosa avrebbe fatto? Non lo sapeva. Stava
dando la caccia a Julie? Era probabile, ma non ne aveva la
certezza. C'era sempre la possibilità che, essendo ricercato
dalla polizia, avesse preferito andarsene per ricominciare da
un'altra parte, come del resto aveva già fatto in passato.
Il problema era che lui era diventato Richard Franklin a
tutti gli effetti, considerò poi. Nella sua abitazione non c'era
niente di personale, a parte i vestiti, le macchine fotografiche
e le fotografie. Quest'ultime non le dicevano niente, se non
che era un bravo fotografo. Potevano essere state scattate
ovunque, in qualsiasi momento e dato che le sviluppava da
solo, non si poteva nemmeno risalire a un laboratorio...
Il corso dei suoi pensieri si bloccò, mentre la risposta cominciava
a formarsi nella mente.
Ovunque, in qualsiasi momento?
Un bravo fotografo?
Attrezzatura fotografica costosa?
Un suo laboratorio di sviluppo?
Non era un semplice hobby per lui, si ripeté. D'accordo,
questo lo sapeva già. Che altro? Fissò il mucchio di foto sulla
sua scrivania. Era un'attività a cui si dedicava da molto tempo.
Anni. Il che significava...
Che forse usava la stessa attrezzatura anche prima di chiamarsi
Richard Franklin, concluse.
«Pete», chiamò di scatto, «le macchine fotografiche sono qui
o ce le hanno alla scientifica?»
«Quelle di Franklin? Sono qui, le abbiamo portate ieri...»
Balzò in piedi e si avviò verso la stanza dove venivano conservate
le prove.
«Dove vai?»
«Credo di aver trovato un modo per scoprire l'identità del
nostro uomo.»
Pete la seguì perplesso mentre attraversava a grandi passi la
stazione di polizia.
«Vuoi dirmi che succede?» chiese Pete.
Jennifer firmò il modulo di consegna del materiale e lo porse
al collega addetto alla custodia delle prove.
«Le macchine fotografiche», rispose, «gli obbiettivi. Sono
apparecchi costosi, giusto? E come hai detto tu, le foto possono
essere state scattate in qualsiasi momento. Magari proprio
con queste macchine.»
Pete scrollò le spalle. «Immagino di sì.»
«Non capisci che cosa significa?» gli domandò. «Il fatto che
lui possa aver avuto da sempre queste macchine fotografiche?»
«No. Non capisco.»
L'altro agente intanto aveva posato un contenitore di piasti- -li i
ca sul bancone.
Julie lo prese, tornando subito verso la sua scrivania.
Un minuto dopo Pete Gandy la guardava confuso e affascinato,
mentre esaminava il retro della macchina fotografica.
«Hai un cacciavite piccolo?» chiese lei.
«A che ti serve?»
«Devo togliere questa parte.»
«Perché?»
«Sto cercando il numero di serie.»
«Perché?» ripeté lui.
Jennifer era troppo occupata a rovistare nei cassetti per rispondere.
«Al diavolo!» esclamò.
«Potrebbero avercene uno quelli della manutenzione», suggerì
Pete, senza capire ancora a che cosa potesse servirle quel
numero.
Lei lo guardò con gratitudine.
«Sei un genio!» esclamò.
«Davvero?»
Un quarto d'ora dopo, Jennifer aveva l'elenco dei numeri di
serie. Ne diede la metà a Pete e tenne l'altra metà per sé, cercando
di non lasciarsi andare all'entusiasmo.
Chiamò il servizio informazioni, chiese i numeri di telefono
delle ditte che producevano apparecchiature fotografiche, poi
chiamò la prima. Dopo aver spiegato che le serviva verificare
il nome e l'indirizzo del proprietario di un certo pezzo, dettò
all'impiegato il numero di serie.
«Appartiene a Richard P. Franklin...» le disse l'impiegato
dopo un po'.
Ripeté l'operazione con gli altri pezzi finché, alla quarta telefonata,
le venne fornito un nome diverso.
«La macchina fotografica è registrata a nome di Robert
Bonham di Boston, Massachusetts. Le serve l'indirizzo?»
Con mano tremante, Jennifer annotò l'informazione.
Morrison la guardò serio. «Sei sicura che sia lui?»
«A quel nome sono intestati quattro pezzi diversi dell'attrezzatura
e, secondo i registri della casa costruttrice, non risultano
rubati. Sono pronta a scommettere che è lui.»
«Che cosa posso fare per aiutarti?»
«Nel caso ci fossero problemi con la polizia di Boston, vorrei
che lei intervenisse.»
Morrison annuì. «D'accordo.»
Jennifer non incontrò problemi. Il primo agente che le rispose
al telefono fu in grado di darle le informazioni che cercava.
«Robert Bonham è ricercato per essere interrogato sulla
scomparsa di sua moglie, Jessica Bonham, avvenuta quattro anni
fa», disse.
Richard si spostò su un'altra panchina. Non voleva alimentare
qualche sospetto restando fermo in un posto troppo a lungo.
Si chiese che cosa stesse facendo lei ancora in casa, ma aveva
imparato a essere paziente molto tempo prima e, dopo un'altra
occhiata alle finestre, tornò a sollevare il giornale. Aveva letto
tutti gli articoli almeno tre o quattro volte, se non di più. Conosceva
a memoria la programmazione di tutti i cinema, sapeva
che il centro comunale offriva lezioni di computer gratuite
per anziani, però il giornale era perfetto per proteggere il suo
viso dalla curiosità dei passanti.
Non si preoccupava di essere scoperto; nessuno avrebbe pensato
di cercarlo proprio lì ed era fiducioso nell'efficacia del suo
travestimento. E poi aveva messo l'auto nel parcheggio di un
supermercato lì vicino e avrebbe potuto raggiungerla facilmente,
se necessario.
Era certo che non ci sarebbe voluto ancora molto.
Un'ora più tardi, mentre il fax sputava le ultime pagine del
rapporto che stava arrivando da Boston, Jennifer si sedette alla
scrivania preparandosi a una dolorosa ma inevitabile telefonata.
«Pronto?»
«Elaine Marshall?»
«Sì? Chi parla?»
«Sono l'agente Jennifer Romanello. Chiamo dal commissariato
di polizia di Swansboro.»
«Swansboro?»
«E una cittadina del North Carolina», spiegò Jennifer. «Mi
chiedevo se poteva dedicarmi un momento del suo tempo.»
«Non conosco nessuno nel North Carolina.»
«Chiamo a proposito di sua sorella Jessica», disse lei.
La linea rimase muta per un po'.
«L'avete trovata?» La voce era flebile, come se la donna si
aspettasse il peggio.
«Mi spiace, no. Ma mi chiedevo se poteva darmi qualche
informazione su Robert Bonham.»
Appena ebbe pronunciato il nome, udì Elaine Marshall trattenere
il fiato di scatto.
«Perché?»
«Perché lo stiamo cercando.»
«A causa di Jessica?»
«No», rispose Jennifer. «E' ricercato per un altro caso.»
Ancora una lunga pausa.
«Ha ucciso qualcuno, vero?» disse Elaine senza enfasi. «A
Swansboro.»
Jennifer esitò. «Potrebbe dirmi qualcosa su di lui?»
«E' un pazzo», rispose lei. Il tono di voce era asciutto, come
se si sforzasse di trattenersi. «Tutti avevano paura di lui, compresa
Jessica. E' violento e pericoloso... ed è furbo. Jessica provò
a scappare una volta. La picchiava. Una sera lei è andata al
supermercato
e da allora non l'abbiamo più vista. Sicuramente è
stato lui, ma non l'hanno mai ritrovata.»
Scoppiò a piangere. «Oddio... è stato così difficile... non
può immaginare cosa si prova a non sapere... cioè, a non avere
la certezza... Lo so che non c'è più, però esiste ancora un
piccolo barlume di speranza e uno ci si aggrappa... si cerca di
tirare avanti, ma poi succede qualcosa e tutto torna vero...»
Jennifer l'ascoltò singhiozzare.
«Com'era lui all'inizio della loro storia?» le chiese gentilmente,
dopo un momento.
«Che importanza ha? Senza dubbio ha fatto tutto ciò di cui
lo sospettate. E' malvagio...»
«La prego», insistette Jennifer. «Vogliamo catturarlo.»
«E crede che questo le servirà? No. Noi lo abbiamo cercato
per anni. Abbiamo assunto investigatori privati, abbiamo fatto
in modo che la polizia continuasse a svolgere indagini...» Si
interruppe.
«Lui è qui adesso», disse Jennifer. «E vogliamo assicurarci
che non scappi. Per favore, può dirmi com'è andata?»
Elaine Marshall fece un profondo sospiro, cercando le parole
giuste.
«Esattamente come ci si può immaginare... è una vecchia
storia no?» Il suo tono era velato di tristezza. «Era bello e affascinante
e fece a Jessica una corte serrata finché lei gli cadde
ai piedi. All'inizio sembrava carino e ci piacque. Si sposarono
sei mesi dopo che avevano cominciato a frequentarsi, ma con
il matrimonio le cose cambiarono. Lui diventò molto possessivo
e non voleva nemmeno che Jessica ci telefonasse. Dopo un
po' di tempo lei non usciva più di casa e nelle rare occasioni in
cui la vedevamo era sempre piena di lividi. Cercammo di convincerla
a lasciarlo, però ci volle molto tempo prima che ci desse
retta.»
«Ha detto che Jessica era scappata una volta...»
«Alla fine aveva capito di doverlo fare. Per un paio di giorni,
lui si comportò come se nulla fosse successo. Cercò di farsi
dire da noi dov'era andata, e fingemmo di non saperne niente.
In realtà non era così. Lei era a Kansas City, un posto lontano
dove poter ricominciare. Invece lui la rintracciò. Non so
come ci sia riuscito, ma la trovò e la riportò a casa. Mia sorella
sembrava rassegnata. Non so come spiegarlo, era come se
quell'uomo esercitasse un potere assoluto su di lei. Voglio dire,
il suo sguardo era morto... come se sapesse che non sarebbe
mai potuta fuggire... Ma un paio di settimane dopo la mamma
e io siamo andate a casa loro e l'abbiamo trascinata via. Jessica
tornò ad abitare con i miei genitori. All'inizio era a pezzi,
però dopo un po' ci sembrò che cominciasse a riprendersi. Invece
poi, una sera, andò al supermercato e non tornò più.»
Dopo aver riagganciato, Jennifer rimase a lungo a pensare a
quella telefonata. Nelle orecchie le risuonavano ancora le parole
di Elaine Marshall.
Lui la rintracciò.
Mabel si alzò dal letto e fece una doccia. Nonostante la stanchezza,
il pensiero di quei due ragazzi in pericolo le aveva impedito
di dormire bene. Doveva parlare con loro di persona,
perché capissero la gravità della situazione, si disse di nuovo.
Prese le chiavi della macchina e uscì di casa, ma in quel momento
le tornarono in mente le parole pronunciate da Julie in
negozio prima di andare via con Mike,
E se ci seguisse?
Si bloccò sul vialetto. E se Richard aveva in mente di seguirla
fino a Topsail? si chiese. Se la stava spiando in quel momento?
Si guardò in giro. La strada era vuota, ma non si sentiva tranquilla.
né era disposta a correre rischi. Girò sui tacchi e rientrò in
casa.
Dopo aver studiato le informazioni su Robert Bonham e aver
fatto altre telefonate, compresa una seconda a Elaine Marshall,
Jennifer stilò un resoconto di un paio di pagine. Poi parlò con
Pete, spiegandogli che cosa aveva intenzione di fare e insieme
andarono da Morrison.
Il capitano prese il rapporto che gli porgeva Jennifer, lo esaminò
velocemente, poi alzò gli occhi su di lei.
«Puoi confermare quello che hai scritto?»
«Sì. C'è da fare ancora qualche telefonata, ma abbiamo verificato
tutto il resto.»
Morrison si appoggiò allo schienale. Rimase in silenzio per
un istante, cercando di assorbire la gravità della situazione.
«Come vorresti procedere?»
Jennifer si schiarì la gola. «Finché non lo rintracciamo, credo
sia meglio che Pete vada a stare nella casa dove si trovano
Mike e Julie. Non vedo alternative. Se quello che abbiamo saputo
è vero, quest'individuo è capace di tutto.»
Lui la guardò intensamente.
«Credi che loro saranno d'accordo?»
«Sì», rispose Jennifer. «Ne sono sicura.»
«Li informerai per telefono?»
«No. Ritengo sia più convincente andare a parlare con Julie
di persona.»
Morrison annuì. «Se lei accetta, vi do l'autorizzazione.»
Pochi minuti più tardi, Jennifer e Pete salirono in macchina.
Nessuno dei due fece caso alla Pontiac verde che si immise
nel traffico dietro l'autopattuglia.
39.
«Si chiama Robert Bonham», cominciò Jennifer. «Ha preso
l'identità del vero Richard Franklin, che è scomparso da tre anni.»
«Non capisco», mormorò Julie.
Mike le strinse la mano. «Com'è possibile?»
Erano seduti nella cucina della casa al mare di Henry. Pete,
nella parte del poliziotto silenzioso, stava appoggiato al bancone.
Jennifer voleva partire dal principio, dal momento che loro
non erano al corrente delle indagini. Procedendo passo passo
avrebbe limitato le domande e inoltre sarebbe riuscita a far capire
meglio la gravità della situazione.
«Il vero Richard Franklin non era sposato e a parte la madre,
deceduta in un ospizio l'anno scorso, non aveva altri parenti
che potessero notare che la sua tessera sanitaria era tornata
in uso. E dato che era catalogato tra le persone scomparse,
e non defunte, nessuno si è mai insospettito.»
Mike la guardò. «Pensate che Robert Bonham lo abbia ucciso?»
Più che una domanda era una constatazione.
Jennifer prese tempo. «A giudicare dalle informazioni che
abbiamo raccolto su di lui, sembra probabile.»
«Gesù...»
Julie guardò fuori dalla finestra, di colpo attonita. Sulla spiaggia
vide una coppia di anziani fermarsi davanti alla casa. L'uomo
si chinò a raccogliere una conchiglia e la mise in un sacchetto
di plastica, poi si incamminò di nuovo.
«Ma chi è Robert Bonham?» chiese. «E come fate a sapere
che questo è il suo vero nome?»
«Lo abbiamo ricavato dal numero di serie delle macchine
fotografiche. Le ha registrate molti anni fa. Era l'unico legame
con il suo passato, ma una volta trovato il nome e la città
di provenienza, è stato facile risalire a tutto il resto.» Jennifer
consultò gli appunti. «E' cresciuto nei sobborghi di Boston.
Era figlio unico. Il padre, alcolizzato, lavorava in un'industria
chimica, la madre era casalinga. La sua famiglia era
conosciuta dalla polizia perché vi si erano verificati diversi
episodi di abuso e maltrattamento... fino alla morte del padre.»
Dopo aver spiegato le circostanze del decesso dell'uomo,
indicò un punto sul foglio. «Ho parlato con uno degli
agenti che seguirono il caso. Adesso è in pensione, ma ricordava
bene la vicenda. Mi ha detto che nessuno credeva al suicidio
di Vernon Bonham, ma che siccome non c'erano prove,
e quell'uomo non era esattamente un marito e padre modello...
avevano lasciato perdere. Secondo lui il bambino aveva
chiuso la porta del garage e aveva riacceso il motore dopo che
Vernon era svenuto.»
Julie ascoltava con un senso crescente di nausea. «E la madre?»
mormorò.
«Morì per un'intossicazione da farmaci meno di un anno dopo.
Anche stavolta, un caso controverso di suicidio.»
Jennifer fece una pausa a effetto, poi proseguì.
«Negli anni successivi Robert passò da una famiglia adottiva
all'altra, senza mai fermarsi troppo a lungo nello stesso
posto. Non abbiamo accesso alla sua cartella presso il tribunale
dei minori, perciò non possiamo sapere che cosa abbia
combinato in quel periodo, ma quando era all'università venne
sospettato di aggressione violenta nei confronti del suo ex
compagno di stanza. Costui lo aveva accusato di avergli rubato
dei soldi, ma lui aveva negato tutto. Pochi mesi più tardi,
il giovane venne colpito con una mazza da golf dopo essere
uscito dalla casa della sua ragazza e passò tre settimane
in ospedale. Sebbene avesse accusato Robert Bonham, non
furono raccolte prove sufficienti per incriminarlo. Un anno
dopo lui si laureò in ingegneria.»
«Gli consentirono comunque di restare all'università?» chiese
Mike.
«Non credo che avessero altra scelta, non essendoci prove a
suo carico.» Jennifer fece una pausa. «In seguito non ci sono
altre notizie per parecchi anni. Forse si è trasferito in un altro
stato, oppure si è tenuto fuori dai guai, non lo sappiamo ancora.
Le informazioni successive risalgono al 1994, quando sposò
Jessica.»
«Che cosa ne è stato di lei?» chiese Mike incerto, come se
non fosse sicuro di voler sentire la risposta.
«La donna risulta scomparsa dal 1998», disse Jennifer. «Era
tornata a vivere con i genitori e l'ultima volta che qualcuno la
vide, fu al supermercato. Un testimone ricordava di aver notato
l'auto di Robert Bonham nel parcheggio, ma nessun altro ne
sapeva niente. Scomparve quella stessa sera.»
«Il che significa che lui l'ha uccisa», disse Mike.
«E' quello che credono la sua famiglia e la polizia di Boston»,
rispose Jennifer.
Mike e Julie si guardarono, entrambi pallidi per lo sgomento.
L'aria intorno a loro era diventata opprimente, soffocante.
«Ho parlato con la sorella di Jessica», proseguì Jennifer lentamente,
«ed è in parte per questo che sono venuta qui. Mi ha
detto che una volta sua sorella provò a scappare. Attraversò
mezzo paese, ma Robert riuscì a rintracciarla.»
Fece una pausa per lasciare loro il tempo di assimilare
quell'informazione.
«Non so se ne siete al corrente, ma Robert
Bonham... il nostro Richard... ha lasciato il lavoro un mese
fa. A casa sua abbiamo trovato delle tue foto, Julie. Centinaia
di scatti. A quanto pare, ti ha seguito ovunque e a tutte le ore
dal giorno in cui siete usciti insieme per la prima volta. E si è
dato anche da fare per scavare nel tuo passato.»
«Che cosa intendi?» chiese lei, sconvolta.
«Quando ti ha detto di essere andato al funerale della madre,
in realtà si è recato a Daytona per scoprire notizie su di te.
Aveva assunto un investigatore privato perché raccogliesse
informazioni sul tuo conto... tua madre ce l'ha confermato per
telefono. E' chiaro che ti è stato dietro fin dall'inizio.»
Come un cacciatore con la preda, pensò Julie sentendo un
nodo in gola.
«Ma perché proprio io?» domandò. «Perché ha scelto me?»
Il suo tono era lamentoso, come quello di un bambino sull'orlo
del pianto.
«Non lo sappiamo», rispose Jennifer. «Ma voglio mostrarvi
questa.»
Oh, no, ancora? Che cosa c'è adesso?
Jennifer estrasse una foto dalla cartelletta e la fece scivolare
sul tavolo. Era quella che aveva trovato sul comodino in camera
da letto. Mike e Julie la guardarono, poi tornarono ad alzare
gli occhi.
«Incredibile, vero? E' Jessica. Ecco... guardate qui.»
Anche se le faceva venire i brividi sulla schiena, Julie tornò
a guardare la foto e notò il particolare che stava indicando Jennifer.
Al collo della ragazza era appeso il ciondolo che Richard...
Robert... le aveva regalato.
«Jessica Bonham», bisbigliò, ricordando all'improvviso le
iniziali che vi erano incise dentro. «J. B.»
Alle sue spalle, Mike trattenne il fiato.
«So che è dura», disse Jennifer, «ma c'è un altro motivo che
ci ha spinto a venire qui. Alla luce di quanto accaduto ad Andrea
e probabilmente a Jessica, oltre che al vero Richard Franklin...
vorremmo che l'agente Gandy si fermasse qui con voi per
un paio di giorni.»
«Qui in casa?» chiese Mike.
«Se siete d'accordo.»
Julie aveva ancora gli occhi sbarrati, mentre Mike lanciò
un'occhiata alla figura imponente di Pete. «Sì», disse, «credo
che sia una buona idea.»
Pete uscì per andare a prendere la valigia che aveva portato
con sé e Jennifer lo accompagnò approfittandone per guardarsi
in giro.
«E' sempre così tranquillo da queste parti?» chiese.
«Immagino di sì», rispose il collega.
Lei scrutò le altre case. C'erano poche auto parcheggiate lungo
il vialetto, le solite station-wagon e una Pontiac Trans Arti
verde, un modello sportivo che lei stessa aveva desiderato quando
andava a scuola. Sei macchine in tutto e questo significava
che meno di un quarto delle case era occupato. Non era un fatto
troppo rassicurante, pensò, ma di sicuro meglio che restare
in città.
«E tu starai sveglio tutta la notte?» domandò a Pete.
«Sì», disse lui, richiudendo il portabagagli. «Dormirò qualche
ora di mattina. Tu intanto tienimi aggiornato sulle indagini.»
«Non appena scoprirò qualcosa, te lo farò sapere.»
Lui annuì, poi aggiunse dopo un istante: «Senti, so che dobbiamo
agire così, ma credi davvero che sia ancora da queste
parti? Oppure pensi che si sia dato alla fuga?»
«Sinceramente, penso che sia nei paraggi.»
Pete lanciò un'occhiata lungo la strada. «Anch'io.»
Quella notte, Julie non riuscì a dormire.
Le onde si infrangevano sulla spiaggia con ritmo regolare.
Prima di infilarsi nel letto Mike aveva socchiuso la finestra e
non appena si era addormentato, lei si era alzata per chiuderla,
girando bene la maniglia. Da sotto la porta filtrava una lama
di luce dalla cucina. Pete aveva passeggiato per la casa in
precedenza, ma da un paio d'ore sembrava essersi seduto tranquillo.
Nonostante il suo comportamento dei giorni precedenti, Julie
era contenta che fosse lì. Non solo era grande e grosso, ma
soprattutto portava la pistola.
Da dietro la duna Richard osservava la luce gialla dietro la
finestra della casa sulla spiaggia.
Era irritato dalla presenza dell'agente Gandy, ma sapeva che
la polizia non era in grado di fermarlo. né potevano riuscirci
Mike o Singer. Lui e Julie erano fatti l'uno per l'altra e avrebbe
superato tutti gli ostacoli che si frapponevano alla loro felicità.
Tutto il resto erano solo inconvenienti, poco più fastidiosi
del dover cambiare aspetto oppure rubare un'auto. O ricominciare
daccapo, pensò.
Si chiedeva dove sarebbero finiti dopo aver lasciato il North
Carolina. Supponeva che a Julie potesse piacere San Francisco,
con i suoi bistrò e i suoi panorami sul Pacifico. Oppure
New York, dove avrebbero avuto a disposizione i migliori cartelloni
teatrali. O magari Chicago, con la sua animazione e la
sua fremente vivacità.
Sarebbe stato meraviglioso, si disse. Magico.
Buonanotte, le augurò con un sorriso. Dormi bene e sogna
un nuovo futuro, perché domani notte comincerà.
40.
L'atmosfera era languida la sera successiva. Soffiava una brezza
costante e l'oscurità del cielo era stemperata da un velo di
nubi. L'oceano era calmo, le onde lambivano la riva. Un odore
intenso di salsedine permeava la foschia.
Avevano finito di cenare da un'ora e Singer stava in piedi accanto
alla porta sul retro, scodinzolando. Julie andò ad aprirgli
l'uscio, poi lo guardò scendere i gradini e scomparire nel
buio della spiaggia.
Non le piaceva separarsi da lui - nonostante la presenza di
Mike e di Pete, si sentiva più sicura quando Singer era al suo
fianco - ma sapeva che il cane aveva bisogno di correre, e la
notte era il momento migliore. Anche la mattina presto poteva
lasciarlo andare liberamente, ma durante il giorno c'erano
troppe persone in giro per mandarlo fuori senza guinzaglio.
Anche lei aveva avuto una mezza idea di uscire a prendere
una boccata di aria fresca - in compagnia dei suoi cavalieri,
naturalmente
-, ma poi ci aveva rinunciato. Senza dubbio Mike
e Pete le avrebbero risposto che era più prudente non farlo.
Peccato, si disse ora.
A interrompere la monotonia della giornata c'erano state solo
le telefonate di Emma, di Henry e di Mabel. Tutte le comunicazioni
erano state brevi, in effetti non c'era molto da dire,
ma Mabel li aveva informati che la sera prima Andrea era
uscita dal coma. Sebbene fosse ancora confusa e disorientata,
i medici erano ottimisti sulle sue condizioni. E la polizia
avrebbe potuto interrogarla entro un paio di giorni.
Anche Jennifer Romanello aveva chiamato per aggiornarli;
era riuscita finalmente a contattare l'investigatore privato che
aveva indagato nel passato di Julie e, dopo un debole tentativo
di nascondersi dietro il segreto professionale, l'uomo aveva
spiattellato tutto. Aveva anche fornito come prova una bolletta
su cui compariva un paio di volte il numero di casa del suo
cliente.
Sfortunatamente, non avevano ancora trovato nessuna traccia
di Richard. O Robert, chiunque fosse, pensò lei.
Richiuse la porta e attraversò il salotto diretta verso la cucina,
dove Mike stava lavando i piatti. Pete invece era ancora seduto
al tavolo, impegnato in un solitario. Ne aveva fatti un centinaio
da mezzogiorno, per passare il tempo e non essere d'impiccio,
anche se a intervalli regolari andava fuori a controllare
la situazione.
«Il campo è libero», era diventata la sua nuova frase preferita.
Julie si mise alle spalle di Mike, cingendolo da dietro con le
braccia, e lui voltò la testa.
«Ho quasi finito», le disse. «Dov'è Singer?»
Prese uno strofinaccio e cominciò ad asciugare i piatti. «L'ho
fatto uscire.»
«Di nuovo?»
«Sai che non è abituato a stare rinchiuso.»
«Stai ancora pensando a quello che ci ha riferito Jennifer?»
«Sì. A quello che ha fatto in passato. A come ha ridotto Andrea.
A dove può essere adesso. Al perché ha scelto proprio
me. Tutte le volte che sentivo parlare di maniaci molestatori,
mi sembrava sempre che ci fosse un qualche motivo, contorto,
ma logico. Come nei casi di quelli che perseguitano i divi del
cinema, oppure gli ex mariti o gli ex fidanzati. Ma noi siamo
usciti solo un paio di volte e ci conoscevamo appena. Vorrei
capire che cosa è stato a provocare la sua reazione.»
«E' un pazzo», rispose Mike. «Non credo che riusciremo mai
a trovare una spiegazione.»
Dal suo punto di osservazione dietro la duna, lui guardò Julie
aprire la porta per lasciare uscire Singer. Con la luce alle
spalle, sembrava un angelo, pensò, eccitato all'idea di quello
che stava per succedere.
Il giorno prima, dopo averli localizzati, aveva parcheggiato
l'auto nel vialetto di una casa in vendita. Sebbene molte abitazioni
che sorgevano lungo la spiaggia in quel periodo fossero
chiuse, quella sembrava disabitata da parecchio tempo. Un rapido
giro di osservazione aveva rivelato un sistema di allarme
per l'appartamento ma non per il garage sottostante, ed era riuscito
a forzare senza troppa difficoltà la serratura con un cacciavite
che era nel cassetto del cruscotto. Poi aveva preso dal
bagagliaio la chiave inglese.
Aveva dormito su un polveroso materasso gonfiabile trovato
su uno scaffale, e poi in cantina aveva scovato un piccolo
frigorifero portatile. Sebbene fosse pieno di muffa, serviva al
suo scopo e nel pomeriggio era andato a comprare quello che
gli occorreva.
Adesso doveva solo aspettare che Singer si allontanasse sulla
spiaggia. Sapeva che Julie lo avrebbe lasciato uscire, l'aveva
fatto già la sera prima e probabilmente anche quella precedente.
Le persone stressate in genere si rifugiano nelle abitudini e nella
routine, sperando di mantenere una parvenza di ordine nel
loro mondo.
Singer intanto era sparito.
Accanto a lui c'erano quattro hamburger che quel pomeriggio
aveva acquistato nel supermercato accanto al ferramenta.
Li aveva sbriciolati e avvolti nella pellicola trasparente. Prese
quel pacchettino e cominciò a strisciare nell'erba verso la scala
posteriore della casa.
«Odio questo maledetto gioco», disse Pete. «Non si vince
mai.»
Mentre riponeva i piatti nella credenza in salotto, Julie diede
un'occhiata al tavolo. «Metti il sette rosso sotto l'otto nero.»
Pete sbatté gli occhi, in difficoltà. «Dove?»
«L'ultima colonna.»
«Oh, certo. Ecco fatto.»
Immerso di nuovo nel gioco, Pete chinò la testa concentrato.
Mike sciacquò l'ultimo piatto e tolse il tappo dal lavandino,
poi guardò fuori dalla finestra. Con il lampadario della cucina
che si rifletteva sul vetro, tutto quello che riusciva a vedere era
la propria immagine riflessa.
Scartò la carne e la sparse sui gradini che scendevano verso
la spiaggia. Era certo che Singer l'avrebbe vista prima degli altri,
quindi non si preoccupava che potessero notarla.
Non sapendo con esattezza quanto pesasse il cane, vi aveva
aggiunto una certa quantità di polvere, ma senza esagerare. Non
voleva rischiare che Singer la annusasse un paio di volte e poi
la lasciasse lì, insospettito dall'odore amaro.
No, doveva essere prudente. Quel grosso danese lo aveva
morso già una volta e non voleva assaggiare di nuovo i suoi denti.
Allora Julie lo aveva fermato, ma non si illudeva che l'avrebbe
rifatto. Inoltre, doveva ammettere che Singer lo turbava, c'era
qualcosa in quell'animale di poco... canino, di quasi... umano,
non sapeva come spiegarlo. Ma intuiva che, finché il cane
era tra i piedi, Julie avrebbe potuto fare resistenza.
Tornò strisciando verso il suo nascondiglio e rimase in attesa.
Mike e Julie erano seduti sul divano in salotto e guardavano
Pete Gandy continuare imperterrito a perdere un solitario dopo
l'altro.
«Ti ho mai raccontato della lettera che mi ha scritto Jim?»
chiese Julie. «Quella che mi è arrivata a Natale subito dopo la
sua morte?»
Le sembrava di essere sul punto di fare una confessione.
Un'ombra le oscurò il volto e Mike capì che era esitante.
«Mi avevi accennato qualcosa, ma niente di più.»
Julie annuì, poi si appoggiò contro di lui, che le cinse le spalle
con un braccio.
«Non devi parlarmene, se non ti va», disse.
«No, credo che dovresti sapere», gli rispose. «In un certo
senso penso che parlasse di noi due.»
Mike rimase in silenzio, aspettando che proseguisse. Per un
attimo, lei guardò verso la cucina, poi girò la testa e i loro occhi
si incontrarono. La sua voce era tenera.
«La lettera si riferiva soprattutto a Singer. Jim spiegava perché
mi aveva regalato un danese; non voleva che rimanessi sola,
e siccome sapeva che non avevo famiglia, aveva pensato che un
cane così affettuoso potesse farmi compagnia. Aveva ragione.
Poi, alla fine, mi ha scritto che voleva che io tornassi a essere felice.
Che dovevo trovare qualcuno che mi rendesse felice.»
Fece una pausa, con un sorriso mesto, il primo dopo chissà
quanto tempo.
«Ecco perché credo che parlasse di noi due. Io so che tu mi
ami, e anch'io ti amo... e tu mi fai felice, Mike. Nonostante
quest'incubo orribile, mi hai reso felice lo stesso. Volevo dirtelo.»
Quelle parole erano un po' stonate nella loro situazione; Mike
non sapeva che cosa l'avesse spinta a pronunciarle proprio in
quel momento. Sembrava quasi che lei cercasse un modo carino
per dirgli addio. La strinse a sé.
«Anche tu mi hai reso felice, Julie», le disse. «E hai ragione,
ti amo.»
Lei gli posò una mano sulla gamba. «Senti, non sto dicendotelo
perché voglio troncare la nostra storia, niente affatto.
Ma solo perché non so come avrei affrontato le ultime settimane
senza di te. E mi spiace di averti trascinato in questa brutta
avventura.»
«Non devi dispiacerti di niente...»
«Invece sì. Tu eri l'uomo giusto per me fin dal principio e
credo che Jim cercasse di dirmi proprio questo nella sua lettera.
Ma per molto tempo io sono stata cieca e non me ne sono
accorta. Se gli avessi dato ascolto, non ci sarebbe mai stato nessun
Richard. E voglio che tu sappia che ti sono grata, non solo
per aver sopportato tutto questo, ma anche per il fatto che
sei qui con me adesso.»
«Non avrei potuto fare altro», mormorò lui.
Era disteso nell'erba a scrutare i gradini. Trascorsero diversi
minuti prima che scorgesse un movimento nel buio vicino alle
dune.
Singer sbucò dal nulla, ciondolando il testone da una parte
all'altra. Il colore indefinito della sua pelliccia e il suo sguardo
acceso gli davano un aspetto quasi spettrale. Continuò ad avanzare
in direzione dei gradini, sempre sotto il suo occhio vigile.
Quando li aveva quasi raggiunti, rallentò, poi si fermò. Sollevando
leggermente il naso, rimase a osservarli, senza avvicinarsi
ulteriormente.
Avanti, pensò lui, che aspetti? Singer però non si muoveva.
Ora cominciava a innervosirlo. Mangia, lo esortò mentalmente.
Trattenne il fiato. L'aria trasportava fin lì il rumore delle onde
che si infrangevano sulla sabbia e la brezza muoveva i fili
d'erba. In cielo, una stella cadente lasciò la sua scia bianca.
Alla fine, Singer avanzò.
Era un movimento esitante, ma inequivocabile, e il suo muso
si protese in avanti, come se finalmente avesse avvertito l'odore
della carne. Fece un secondo passo, un terzo, finché si
fermò sopra i pezzetti di hamburger. Abbassò il naso per fiutare,
poi lo alzò di nuovo, come se si chiedesse se fossero proprio
per lui.
Da lontano giunse il rombo fioco del motore di un peschereccio.
Singer allora chinò il muso e cominciò a mangiare.
A Swansboro, l'agente Jennifer Romanello trascorse la serata
a raccogliere tutte le notizie possibili sull'inafferrabile Robert
Bonham.
In precedenza, il capitano l'aveva chiamata nel suo ufficio.
Non sapeva bene che cosa aspettarsi, ma con sua sorpresa, dopo
aver chiuso la porta, lui l'aveva elogiata per il lavoro svolto.
«Non possiamo allenare l'istinto di un poliziotto, ma ci fa
comodo che almeno qualcuno dei nostri ce l'abbia. Pete Gandy
esagera nel pensare che la mafia stia per arrivare in città, però
ha ragione di credere che Swansboro stia cambiando, come il
resto del mondo», aveva detto il capitano. «Vorremmo tutti che
questa rimanesse una sonnolenta cittadina di provincia, e per
la maggior parte del tempo lo è, tuttavia i delitti possono essere
compiuti anche nei posti tranquilli.»
Jennifer era rimasta in silenzio, mentre il suo superiore la
guardava. «Tu hai capito fin dall'inizio che quel tizio era pericoloso
e hai fatto un ottimo lavoro raccogliendo informazioni
e soprattutto scoprendo la sua vera identità. E' stato tutto merito
tuo.»
«Grazie, signore», aveva risposto lei.
Poi, temendo di essersi ammorbidito troppo, lui l'aveva congedata;
con un'aria spazientita, come se si chiedesse che cosa
ci facesse ancora lì seduta nel suo ufficio, le aveva indicato la
porta.
«Adesso torna al lavoro», aveva latrato. «Voglio sapere qual'è
la molla che fa scattare il nostro uomo. Scoprirlo potrà renderci
più facile la sua cattura.»
«Sissignore», aveva risposto Jennifer, e quando era uscita
dall'ufficio con gli occhi degli altri poliziotti puntati su di lei,
aveva dovuto fare uno sforzo di volontà per trattenere un sorriso
di soddisfazione.
Adesso, mentre eseguiva gli ordini del capitano - stava rileggendo
i documenti spediti da Boston e prendendo contatti
con altre persone che avevano conosciuto Robert Bonham
- la voce di Burris che parlava animatamente al telefono la indusse
ad alzare gli occhi. Lo vide annuire energicamente e
prendere appunti prima di riattaccare. Poi si alzò, con in mano
il foglietto che aveva scarabocchiato, e andò da lei.
«E' appena arrivata una chiamata», disse. «La sua auto è stata
individuata nel parcheggio dell'ospedale Onslow di Jacksonville.»
«Bonham è ancora da quelle parti?»
«Probabilmente no. Tutte le sere il custode fa il giro del parcheggio
e annota i numeri di targa: sembra che la macchina sia
lì dal giorno in cui tu e Gandy siete stati a casa del sospetto.
L'uomo dice di aver sentito le notizie al telegiornale solo ieri,
e oggi ha deciso di informare la polizia.»
Questo spiegava come mai nessuno avesse trovato la macchina.
«Non ha visto Bonham lasciare il parcheggio?»
«No. La polizia di Jacksonville gli ha mostrato una sua foto,
ma lui non l'ha riconosciuto. Adesso vado sul posto a fare qualche
domanda. Può darsi che qualcun altro l'abbia visto dirigersi
da qualche parte. Vieni con me?»
Jennifer ci pensò su. Lì in ufficio non stava concludendo
niente, ma non era sicura di dove l'avrebbe portata la pista dell'auto.
Certo, pensò, potevano trovare un testimone che l'aveva
visto posteggiare la macchina, e poi? Quello che dovevano
scoprire era dove si trovasse adesso.
«No», rispose, «preferisco restare qui a riesaminare le carte.
Magari mi è sfuggito qualcosa».
Sebbene i tendoni coprissero quasi tutte le finestre, quella
del salotto era aperta e Richard la fissò in cerca di ombre. A
parte lo sciabordio delle onde, non si sentiva altro rumore. Anche
l'aria adesso era immobile, come per partecipare alla sua
trepida aspettativa.
Tra poco Julie sarebbe andata ad aprire la porta posteriore;
in genere non lasciava Singer fuori per più di venti minuti e lui
voleva vedere la sua faccia quando lo chiamava. Guardando
verso la casa, si permise di sperare che l'avrebbe perdonato per
quello che era stato costretto a fare.
Lui l'avrebbe consolata, ma in un momento successivo, dopo
che la bruttura fosse finita, quando fossero stati solo loro
due, così come doveva essere.
Singer salì i gradini fino alla veranda, poi tornò verso la spiaggia
a camminare in cerchio, la lingua di fuori. Cominciò a trottare,
come se volesse scrollarsi via il dolore dall'addome.
Aveva già cominciato ad ansimare.
Jennifer era china sul dossier di Jessica, chiedendosi come
avesse fatto il marito a rintracciarla. Ci era riuscito attraverso
la carta di credito? Improbabile, si disse. A meno che non conoscesse
qualcuno nelle forze dell'ordine era poco plausibile.
Allora come? Forse qualcuno della sua famiglia l'aveva chiamata
e lui in qualche modo era riuscito a risalire al numero di
telefono. Era possibile - molti buttano via le bollette dopo averle
pagate - e gli sarebbe bastato guardare le chiamate interurbane
che erano elencate. Ma per farlo avrebbe dovuto rovistare
tra i rifiuti... oppure entrare in casa dei parenti di lei quando
non c'era nessuno.
Lo aveva fatto con Julie, ricordò, perciò...
Si domandò se anche Topsail fosse in un altro distretto telefonico
rispetto a Swansboro. In quel caso doveva avvisare
Henry, Emma e Mabel di non telefonare a Mike e Julie... e, se
lo avevano già fatto, di bruciare le bollette non appena le avevano
pagate.
La sua mente tornò a focalizzarsi sull'auto.
Non era sorpresa dal fatto che lui l'avesse abbandonata, era
logico, ma da quel momento in poi doveva essersi servito di un
altro mezzo di trasporto. Un taxi? Valutò l'idea, poi la scartò.
Era abbastanza furbo da sapere che il punto di salita e quello
di discesa venivano registrati e, a giudicare dalla facilità con cui
aveva fatto perdere le proprie tracce in passato, era evidente
che non avrebbe mai commesso un simile errore.
I
Quindi, considerò, se era ancora in zona e stava cercando
Julie, come si muoveva?
Mentre tamburellava con il dito sull'elenco telefonico, vide
Morrison attraversare l'ufficio. «Capitano?» lo chiamò.
Lui la guardò, sorpreso. «Pensavo fossi andata con Burris a
ispezionare l'auto abbandonata.»
«Ci avevo pensato, ma...»
«Cosa?»
«Dove si trova precisamente l'ospedale? In centro o in periferia?»
«Proprio in centro. Perché?»
«E che cosa c'è intorno? Lei ci è mai stato?»
«Certo, molte volte. Ci sono diversi ambulatori medici, distributori
e un centro commerciale.»
«Il centro commerciale è molto vicino?»
«Sull'altro lato della strada.» Morrison fece una pausa. «A
che cosa stai pensando?»
«Mi chiedevo se si fosse procurato un altro mezzo. Secondo
lei è possibile che abbia rubato una macchina?»
Il capitano sollevò le sopracciglia. «Controllerò. Lasciami fare
una telefonata.»
Jennifer annuì e prese le chiavi della macchina di servizio.
«Dove vai?» le chiese Morrison.
«Penso che andrò all'ospedale, per vedere se hanno trovato
qualcosa di interessante. Se ottiene qualche notizia su una macchina
rubata, me lo faccia sapere subito, va bene?»
«Puoi contarci.»
Julie si avvicinò alla finestra e appoggiò il viso sul vetro, scrutando
la spiaggia.
«Hai sentito abbaiare Singer?» chiese a Mike.
Lui la raggiunse. «No. Non dev'essere ancora tornato.»
«Da quanto tempo è fuori?»
«Non da molto. Sono sicuro che arriverà da un momento all'altro.»
Julie annuì. In lontananza, vedeva le luci di un peschereccio
al largo. Sebbene la spiaggia fosse buia, era quasi sicura di poter
scorgere Singer.
«Sarà meglio che vada fuori a chiamarlo.»
«Vuoi che lo faccia io?»
«No. Ho bisogno di prendere una boccata d'aria fresca.»
Pete la seguì con lo sguardo mentre apriva la porta.
Si sporse in avanti quando la vide comparire dietro il vetro
della finestra, il viso illuminato. Comprese con improvvisa certezza
che non avrebbe mai amato nessuno quanto lei.
Poi Mike entrò nell'immagine, guastando tutto prima che
entrambi sparissero di nuovo. Lui scrollò il capo, indispettito.
No, non aveva rimpianti per quello che gli sarebbe presto accaduto,
si disse.
Rimase in attesa, prevedendo le mosse di Julie. Tra un istante,
pensò, avrebbe sentito la sua voce riecheggiare nell'aria salmastra.
Con un po' di fortuna, forse si sarebbe avventurata fino
alla spiaggia, ma non ci contava troppo. No, avrebbe solo
chiamato il cane, che non avrebbe risposto.
Singer sarebbe rimasto lì dov'era.
Julie continuò a chiamare nel buio per tre minuti buoni, spostandosi
dalla porta all'estremità della veranda, finché Mike la
raggiunse.
«Non è ancora tornato?» le chiese.
Scrollò la testa. «No. E non riesco nemmeno a vederlo.»
Lui scrutò da una parte all'altra. «Vuoi che vada a cercarlo?
Forse non ti sente per via delle onde.»
Lei sorrise. «Grazie.»
Mike scese i gradini. «Torno tra un paio di minuti.»
Un attimo dopo, Julie sentì la sua voce che chiamava ripetutamente
Singer.
41.
Jennifer Romanello faceva del suo meglio per concentrarsi sulla
strada. La mancanza di sonno degli ultimi giorni si faceva sentire
e gli occhi le bruciavano. Stava meditando di fermarsi a bere
un caffè, quando la radio gracchiò nell'abitacolo. Riconoscendo
la voce del capitano, prese il ricevitore.
«Forse abbiamo trovato qualcosa», la informò Morrison.
«Ho appena sentito la polizia di Jacksonville, dov'è stato denunciato
il furto di un'auto dal parcheggio del centro commerciale
lo stesso giorno della scomparsa del nostro uomo. E
intestata a Shane Clinton, residente a Jacksonville.»
«Può darmi l'indirizzo?»
«Sì... Melody Lane al numero 412.»
«Di che modello si tratta?»
«Una Pontiac Trans Am del 1984. Verde.» Recitò il numero
di targa, poi aggiunse: «Ho fatto diramare una segnalazione
con priorità assoluta».
Lei ne prese nota mentalmente. «Ha già parlato con il proprietario?»
«No, ma abita vicino all'ospedale. Vuoi il suo numero di telefono?»
«Sì, grazie.»
Morrison glielo comunicò e Jennifer lo imparò a memoria,
poi decise di recarsi sul posto.
I piedi di Mike affondavano nella sabbia mentre avanzava lungo
la spiaggia. Alle sue spalle, Julie era in piedi sulla veranda, la
sua figura sempre più piccola a mano a mano che si allontanava.
«Singer!» chiamò ancora una volta.
I suoi occhi si stavano abituando all'oscurità e scrutavano
le dune, in cerca del cane. Sapeva che a volte Singer le superava
per esplorare il territorio intorno alle case, ma era strano
che dopo tutto quel tempo non fosse ancora tornato indietro.
Si portò le mani alla bocca per chiamare più forte, quando
scorse un'ombra alla sua sinistra, nei pressi di una scala. Si avvicinò,
aguzzando la vista, poi riconobbe la forma nella sabbia.
Si voltò e gridò in direzione di Julie: «L'ho trovato!»
Avanzò ancora di un paio di passi. «Che stai facendo qui?
Avanti, torniamo a casa.»
Singer agitava debolmente la coda e Mike lo sentì emettere
una specie di guaito. Il cane ansimava visibilmente, con la lingua
di fuori, alzando e abbassando il petto con ritmo serrato.
«Guarda, sei sfinito...» cominciò a dire lui, ma sentendo un
altro guaito, si bloccò.
«Stai bene?» chiese.
Il cane rimase immobile.
«Singer?» lo chiamò ancora.
Si inginocchiò accanto a lui e gli mise una mano sul petto:
il cuore batteva veloce e lo sguardo era appannato. Singer non
reagiva alla sua carezza, e fu allora che Mike si accorse che
una delle zampe posteriori era scossa da un tremito incontrollato.
Pete Gandy raggiunse Julie sulla veranda.
«Che succede?» chiese.
Lei si voltò. «Aspetto che Mike e Singer tornino a casa.»
Pete annuì e rimasero in silenzio a guardare la spiaggia. Julie
si domandava dove fossero finiti, quando udì Mike che la
chiamava. La sua voce aveva un tono spaventato. Un attimo
dopo, lo vide comparire sulla sabbia sotto di lei.
«E' Singer!» gridò. «Gli è successo qualcosa! Vieni!»
Julie impiegò qualche istante a registrare le parole, e sbatté
gli occhi, confusa.
«Che vuoi dire?» chiese poi, allarmata.
«Non lo so! Sbrigati!» urlò Mike di rimando.
Lei obbedì, il petto attanagliato da una morsa.
«Aspetta», le disse Pete, cercando di afferrarla per un braccio.
Julie però lo aveva già superato, e lui indugiò qualche istante,
chiedendosi se fosse il caso di seguirli.
«Merda», borbottò alla fine, scendendo verso la spiaggia.
Richard li osservò correre tra le dune. Mentre si allontanavano,
avvertì dentro di sé l'adrenalina che entrava in circolo.
La caccia era cominciata.
Una volta che furono scomparsi dalla vista, superò con cautela
la duna e, restando nell'ombra, si avvicinò alla casa, stringendo
in mano la chiave inglese.
Ansimando per stare al passo con Mike, Julie sentiva crescere
il panico. Alle sue spalle, udiva la voce di Pete che la chiamava,
pregandola di tornare in casa.
Un attimo dopo, scorse il corpo di Singer adagiato sulla sabbia.
Si precipitò da lui tremando. Quando il poliziotto li raggiunse,
lei e Mike erano chini sul cane.
«Che succede?» chiese Pete affannosamente.
«Singer? Che cosa c'è, cucciolo?» stava dicendo Julie
affettuosamente,
accarezzandogli il dorso.
Nessuna risposta. Lei guardò Mike con un'espressione infantile,
gli occhi che lo imploravano di dirle che non c'era
niente di cui preoccuparsi, che i suoi timori erano infondati.
«Perché non si muove?» chiese Pete.
«Mike?» domandò lei.
«Non lo so», mormorò lui. «L'ho trovato così...»
«Forse è stanco», buttò lì Pete, ma un'occhiata di Mike lo
fulminò.
«Che cosa gli è successo?» singhiozzò Julie, disperata. «Aiutalo!»
Mike sollevò delicatamente il muso di Singer dalla sabbia.
«Avanti, alzati, vecchio mio...»
Il collo di Singer era rigido e il suo respiro affannoso accelerò,
come se il movimento gli causasse dolore. Quando guaì,
gli riadagiò a terra la testa. Pete osservava la scena ammutolito,
sentendosi confuso quanto loro.
«Dobbiamo fare qualcosa!» gridò Julie.
Il suo grido angosciato riscosse Mike, spingendolo a prendere
in mano la situazione. «Pete... torna a casa e vedi se riesci
a chiamare un veterinario.»
«Ma non dovrei lasciarvi da soli...»
«Vai!» gridò Mike. «E sbrigati!»
«Ma...»
«Vai e basta!»
«Va bene, va bene.» Un attimo dopo correva a perdifiato
nell'oscurità; i lamenti di Julie che arrivavano fin lì gli mettevano
le ali ai piedi.
Jennifer aveva appena superato il limite urbano di Jacksonville,
quando si rese conto che un pensiero recondito la tormentava.
La sensazione era cominciata pochi minuti dopo che
Morrison l'aveva informata via radio, ma ancora non era riuscita
a capire l'origine del suo disagio.
Le sfuggiva un dettaglio importante, si disse. Ma quale?
Davanti a lei, la strada era sgombra e sembrava dividere il
mondo in due. Il motore rombava mentre teneva il piede schiacciato
sull'acceleratore. La linea di mezzeria scivolava sotto le
ruote come un nastro fosforescente.
Non riguardava l'auto rubata... oppure sì? E in tal caso...
Non riusciva ad afferrarlo, ma era lì. Un pensiero che si agitava
nel suo inconscio desideroso di riaffiorare.
D'accordo, si disse, torniamo di nuovo ai fatti. Lui ha abbandonato
la sua auto. Giusto. L'altra macchina è stata rubata
più o meno all'ora in cui poteva essere arrivato a Jacksonville.
Giusto. Una coincidenza... no, quasi di sicuro è l'autore del
furto. Giusto.
Che cosa le aveva riferito il capitano? si chiese poi. La marca
e il modello dell'auto, il nome del proprietario, il suo indirizzo.
Le ultime due informazioni non le dicevano niente, ma
la marca e il modello, invece?
Una Pontiac Trans Am verde, si ripeté.
L'auto che avrebbe desiderato quando andava a scuola...
Corrugò la fronte, domandandosi perché mai le fosse venuta
in mente quell'idea.
Dalla veranda, sentiva Julie piangere per il suo cane. Per un
attimo si fermò ad ascoltare, mosso da un impulso di compassione.
Sapeva che sarebbe stato doloroso per lei, certo, ma sentirla
per davvero... la sua paura, la sua disperazione... lo impressionava
più profondamente di quanto avesse previsto.
Non voleva sconvolgerla, e rimpiangeva che quello fosse stato
l'unico modo. Ma non aveva avuto scelta, pensò. Era stato
costretto a farlo. Se Singer fosse stato un cane docile, affettuoso,
lui non gli avrebbe mai fatto del male. Ma Singer era confuso
e impetuoso quanto lei.
Il pianto di Julie si fece più forte, più disperato e terribile.
Soffriva per lei e avrebbe voluto scusarsi, ma ci avrebbe pensato
in seguito, si disse, quando fosse stata in grado di vedere
oltre il dolore e di capire che lui aveva agito per il loro bene.
Magari poteva regalarle un altro cane, una volta che le cose
si fossero sistemate. Pur non avendolo mai desiderato per sé,
decise che poteva farlo per lei. Ne avrebbero scelto insieme uno
e lei si sarebbe dimenticata di Singer. Potevano andare al canile
a prendere un cane a cui piacesse fiutare come faceva Singer.
Oppure avrebbero sfogliato gli annunci sul giornale per
trovare chi vendeva cuccioli e avrebbero portato a casa quello
che giudicavano migliore.
Sì, pensò, un altro cane. Un cane migliore. Lo avrebbe fatto
per lei, quando tutto fosse finito. Le sarebbe piaciuto. L'avrebbe
resa felice, ed era questo che aveva sempre desiderato
per lei. La felicità.
Adesso che si sentiva di nuovo tranquillo, i singhiozzi di lei
gli sembravano più distanti.
Sulla spiaggia, scorse un movimento improvviso. Si ritrasse
in un angolo, appostandosi nell'ombra.
Pete Gandy salì di corsa le scale, attraversò la veranda, superò
la porta e raggiunse la cucina. Spalancò con tale foga l'antina
del mobiletto su cui era appoggiato il telefono da rischiare
di romperla e afferrò l'elenco.
«Avanti, avanti», borbottò, mentre sfogliava freneticamente
le pagine, cercando il veterinario più vicino.
Trovò la sezione giusta e cominciò a scorrere i nomi, doveva
trovare qualcuno in grado di gestire un'emergenza.
Vide che la clinica veterinaria più vicina si trovava a Jacksonville,
a trenta minuti di distanza, ma lui sapeva con assoluta
certezza che il cane non avrebbe resistito tanto a lungo.
Che cosa devo fare? si chiese febbrilmente. Che cosa faccio
adesso?
Si costrinse a mettere ordine tra i propri pensieri caotici.
Alla fine decise di provare a chiamare a casa i veterinari elencati
sulla guida, dato che era troppo tardi per trovare aperti gli
ambulatori. Era l'unica possibilità di salvezza per Singer. Ma
in questo modo avrebbe dovuto cercare i numeri di telefono a
uno a uno.
E il tempo era agli sgoccioli.
Jennifer si era fermata a un semaforo rosso nel cuore di Jacksonville.
Tecnicamente si stava dirigendo verso l'indirizzo del
proprietario dell'auto per scambiare due chiacchiere con lui,
ma i suoi pensieri giravano ancora intorno al problema della
Pontiac Trans Am verde.
L'auto che avrebbe desiderato quando andava a scuola...
Aveva pensato la stessa cosa di recente, ma dove? Al commissariato?
No, negli ultimi due giorni non si era quasi mai
alzata dalla scrivania. A casa? No, neppure lì. E
dove, allora?
Scattò il verde e lei scrollò la testa, mentre l'auto si rimetteva
in moto.
Dove sono stata? si chiese ancora. Solo a parlare con Julie e
Mike, quando ho lasciato Pete...
Pete Gandy scorreva avanti e indietro le pagine della guida telefonica,
e la sua irritazione aumentava di minuto in minuto. C'erano
indicati più di una decina di veterinari, ma in maggioranza
abitavano a Jacksonville, troppo distanti per essere d'aiuto.
Alla fine trovò quello che cercava. Linda Patinson abitava a
Sneads Ferry, a dieci minuti da lì.
Prese il telefono, compose il numero e nell'agitazione sbagliò.
Riattaccò e fece un profondo respiro per calmarsi. Tranquillo,
si disse. Se do l'impressione di essere pazzo, lei non mi aiuterà.
Rifece il numero e attese che qualcuno rispondesse.
Uno squillo.
Due.
«Avanti...»
«Che aspetti...»
Udì uno scatto e una voce femminile molto giovane. «Pronto?»
«Buonasera, sono l'agente Pete Gandy, della polizia di Swansboro.
Mi spiace disturbarvi a quest'ora, ma posso parlare con
la dottoressa Linda Patinson, la veterinaria?»
All'altro capo del filo ci fu una pausa, poi la voce rispose, in
tono circospetto: «Sono io».
«Senta, mi serve il suo aiuto. Il nostro cane sta male. Ha le
convulsioni e non riesce più a muoversi.»
«Per le emergenze c'è la clinica di Jacksonville.»
«Lo so. Ma non credo che possa farcela ad arrivare fin lì...
Trema tutto e respira molto velocemente. Il cuore gli batte forte
e non riesce nemmeno a sollevare la testa.»
Pete continuò a descrivere le condizioni di Singer meglio
che poteva e, quando ebbe finito, Linda Patison ebbe un attimo
di esitazione. Sebbene ancora relativamente inesperta aveva da poco terminato gli studi - si rendeva conto che era
un caso grave, non solo per il tono angosciato dell'uomo, ma
soprattutto per i sintomi che le aveva elencato.
«Ha mangiato qualcosa di strano? Insetticida, veleno per topi?»
«Non che io sappia. Stava bene fino a un'ora fa.»
«Che cane è?»
«Un danese.»
Linda Patinson era ancora incerta. «Potrebbe fare in modo
di caricarlo in macchina e portarlo al mio studio? Io sarò lì tra
dieci minuti. E' proprio in fondo alla strada...»
«Lo troverò. Grazie.»
Una manciata di secondi più tardi, Pete uscì sulla veranda.
Richiudendosi la porta alle spalle, non fece caso all'ombra che
avanzava verso di lui.
Julie accarezzava teneramente Singer, con la mano che le tremava.
«Perché ci mette tanto?» disse in tono supplichevole. «Che
cosa sta facendo?»
Mike non rispose, sapendo che in realtà stava parlando tra
sé, ma cercò di nuovo di tranquillizzarla.
«Vedrai che ce la farà», sussurrò.
Singer ansimava più forte e aveva le pupille dilatate. La lingua
era coperta di granelli di sabbia e con ogni respiro emetteva
un guaito.
«Resisti, piccolo», lo implorò Julie. «Ti prego... mio Dio...
ti prego...»
Sulla veranda, Pete non sapeva che cosa l'avesse fatto voltare.
Lo struscio della suola delle scarpe sul pavimento di legno,
forse, oppure il movimento quasi impercettibile delle ombre
create dalla luce gialla del portico. Non si trattava solo di intuizione,
ne era certo. In quel momento, stava pensando al veleno
e alle sue terribili conseguenze; nel suo inconscio non c'era
spazio per elaborare nient'altro, se non le mosse immediatamente
successive.
Però capì, prima ancora di vedere l'uomo, che qualcuno
avanzava verso di lui e stava per chinarsi istintivamente, quando
sentì un colpo violento alla testa.
Una fitta di dolore lancinante, poi un lampo accecante che
subito si spense in tenebra.
«Vado a vedere che cosa fa Pete», disse Mike. «Non capisco
perché ci metta tutto questo tempo».
Julie lo udì appena, ma assentì, le labbra serrate.
Lui si voltò e si avviò verso casa.
Richard fissava il corpo riverso dell'agente. Brutta faccenda,
certo, ma necessaria e a suo modo inevitabile.
E poi, ovviamente, c'era il fatto che Pete aveva la pistola. Il
resto era venuto da sé. Per un attimo, dopo aver sfilato l'arma
dalla fondina, considerò l'ipotesi di sparargli un colpo in testa,
ma poi ci ripensò. Non aveva niente contro Pete Gandy. Era
solo un poliziotto che faceva il suo mestiere.
Si stava dirigendo verso la scala quando scorse Mike che si
avvicinava dalla spiaggia. Lanciando un'occhiata al corpo sul
pavimento, capì che l'altro l'avrebbe visto all'istante. La sua
mente si mise al lavoro per risolvere il problema e poi lui si
accovacciò,
in attesa.
Mentre guidava a tutta velocità verso la casa sulla spiaggia,
Jennifer continuava a comporre il numero di telefono. Prima
aveva trovato occupato; adesso non le rispondeva nessuno. Il
telefono continuava a suonare a vuoto e ormai aveva la sensazione
che fosse successo qualcosa di terribile. Prese la radio e
chiamò rinforzi, ma mentre parlava si rese conto che nessuno
sarebbe arrivato lì prima di lei.
42.
Mike alzò la testa giusto in tempo per vedere una figura che
si lanciava verso di lui dalla cima delle scale.
L'impeto dell'attacco lo fece cadere all'indietro; la sua testa
batté contro i gradini, mentre un corpo gli piombava addosso
schiacciandogli la cassa toracica e facendogli conficcare un spigolo
nella parte bassa della schiena.
Il dolore era lancinante. Mike non vedeva niente, ma capì
che stava scivolando per le scale sulla schiena, a testa in giù,
e ogni sobbalzo era come una martellata sulle costole, finché
la sua testa toccò la sabbia e si fermò di colpo, il collo piegato
malamente. Sopra di lui, qualcuno gli metteva le mani al
collo e cominciava a stringere. I piedi dell'uomo erano piantati
nella sabbia e il suo peso gli opprimeva il petto.
La stretta sul collo aumentò e si sentì assalire dalla nausea e
da una nuova ondata di dolore. Faticava persino ad aprire gli
occhi, ma quando vide in faccia l'aggressore, che era Richard,
la sua mente si schiarì di colpo.
Julie! tentò di gridare. Scappa!
Dalla bocca però non gli uscì neppure un suono. La mancanza
di ossigeno gli stava indebolendo il corpo e la mente.
Mentre cercava di riprendere fiato, afferrò istintivamente le mani
dell'uomo e provò a staccarle da sé, ma la stretta rimaneva
micidiale.
Si dibatté furiosamente, colpendolo in viso, senza riuscire a
liberarsi. Ogni cellula del suo corpo chiedeva ossigeno. Agitava
le gambe, cercando di buttare a terra l'altro, che però rimaneva
saldamente su di lui. Provò a muovere la testa di lato, ma
questo sembrò solo aumentare la pressione delle mani.
E il dolore...
Aria, aria. Era tutto quello a cui riusciva a pensare, mentre
cercava la faccia di quel bastardo, mirando agli occhi. Con le
mani ad artiglio, centrò il bersaglio per un istante, prima che
l'altro spostasse la testa, sfuggendo alla sua portata.
Fu allora che Mike capì che stava per morire.
In preda al panico, tornò ad afferrare le mani che lo soffocavano,
tirando e graffiando, e stavolta trovò un pollice e cominciò
a storcerlo con tutta la forza che gli rimaneva.
Sentì uno schiocco, ma l'altro non mollava. Tirando più forte,
il pollice si curvò all'indietro in modo innaturale. L'altro allentò
la presa, la bocca contorta in una smorfia di dolore, e si
piegò in avanti.
Fu tutto quello che gli serviva. Scalciando e dimenandosi,
Mike sentì finalmente un filo d'aria passargli per la gola. Afferrò
i capelli di Richard con la mano libera e lo colpì alla schiena
con le ginocchia, sbilanciandolo. L'uomo si staccò da lui e
cadde a terra.
Ansimando, Mike si allontanò dai gradini e avanzò carponi
nella sabbia, ma si sentiva esausto. Respirava a fatica,
la gola ancora stretta. Richard si rialzò per primo e, con un
movimento brusco, gli diede un calcio violento nelle costole,
e poi un altro. Mike ricadde sulla schiena e batté di nuovo
la testa. Un dolore accecante lo avvolse, togliendogli il
respiro.
Pensò a Julie.
Julie...
Barcollando a quattro zampe, si lanciò verso l'avversario, che
lo prese a calci. Mike sentiva i colpi, ma continuava ad avanzare,
deciso ad afferrarlo per il collo. Era quasi riuscito a sopraffarlo,
quando sentì qualcosa di duro che gli premeva sull'addome
e poi udì una specie di scoppio attutito.
Inizialmente non avvertì nulla, ma poi fu come se il suo addome
prendesse fuoco e un dolore incandescente si propagò
in tutte le direzioni, risalendo la spina dorsale. Sbatté gli occhi,
scioccato, senza riuscire ad articolare suono. Il movimento delle
sue gambe si arrestò, il suo corpo si indebolì e l'altro lo scaraventò
lontano.
Quando si toccò il ventre, Mike lo sentì viscido e umido. Alla
luce fioca della veranda il sangue sembrava l'olio del motore
che si raccoglie sotto una macchina. Non capiva da dove venisse
quel sangue, ma quando Richard si rialzò, gli vide in mano
la pistola.
L'uomo rimase a guardarlo e Mike rotolò via...
Devo alzarmi... devo farcela... devo avvertire julie...
Sapeva che sarebbe andato da lei e doveva impedire che accadesse.
Doveva salvare Julie. Cercò di superare il dolore, di
pensare alla mossa successiva... Un altro calcio lo colpì alla testa.
Rotolò a pancia in giù sulla sabbia, il sangue si allargava in
una pozza sotto di lui. Si portò una mano sul ventre, mentre
sentiva la vita scivolare via. «Julie!» gridò, ma la sua voce era
solo un rantolo.
Come sono debole... sfinito... devo salvarla... devo proteggerla...
Un'altra botta in testa e tutto scomparve.
Era in piedi sopra Mike, gli occhi dilatati, il respiro corto,
pieno di energie come mai prima. Le mani gli prudevano, le
gambe gli tremavano, ma i sensi! Oh, com'erano vivi! Gli sembrava
di sperimentare un mondo che non aveva mai conosciuto.
Vista e udito erano amplificati e avvertiva il minimo movimento
dell'aria sulla sua pelle. Era una sensazione inebriante.
Era diverso che con Pete, pensò. O da com'era stato con il
vero Richard Franklin. O persino con Jessica. Si era difesa, ma
non così. Jessica era morta per mano sua, ma lui non aveva provato
un senso di vittoria, di trionfale conquista. Soltanto il dispiacere
che si fosse condannata a quella fine.
No, stanotte si sentiva infaticabile, invincibile. Aveva una
missione, e gli dei erano con lui.
Ignorando il dolore al pollice, si voltò e si incamminò lungo
la spiaggia. Alla sua sinistra, le dune chiare erano coperte di erba
e di edera; le onde rotolavano a riva senza fine. Era una notte
splendida. Nell'ombra più avanti distingueva la sagoma di
Julie china sul cane. Singer doveva essere già morto, o agonizzante.
Saremo da soli, pensò. Nessun'altra complicazione. Nessuno
ci fermerà.
Accelerò l'andatura, eccitato all'idea di vederla. Senza dubbio
lei avrebbe avuto paura di trovarselo davanti. Probabilmente
avrebbe reagito alla stessa maniera di Jessica, quando lo
aveva trovato ad aspettarla in macchina fuori dal supermercato.
Aveva cercato di spiegarsi, di farle capire, ma lei aveva lottato,
lo aveva graffiato e così le aveva stretto le mani intorno
alla gola finché aveva strabuzzato gli occhi. Sapeva che era stata
lei a costringerlo, a obbligarlo, per le sue egoistiche ragioni,
a far sfumare il loro futuro insieme.
Ma adesso avrebbe trattato Julie con la pazienza che meritava.
Le avrebbe parlato con calma e, una volta che avesse compreso
la vera natura del suo amore, una volta che si fosse convinta
che aveva fatto tutto questo per lei... per loro... si sarebbe
arresa. Magari sarebbe rimasta in collera per Singer, ma
alla fine lui sarebbe riuscito a consolarla e a farle capire perché
non avesse avuto scelta.
Gli sarebbe piaciuto portarla in camera da letto, dopo, ma
sapeva di non averne il tempo. Più tardi, una volta lontani da
li, si sarebbe fermato in un motel, avrebbe fatto l'amore con lei
e poi avrebbero avuto una vita intera insieme per rifarsi del
tempo perduto.
«Stanno arrivando, piccolo», mormorò Julie. «Saranno qui
tra poco e ti porteranno dal dottore, va bene?»
Le lacrime le appannavano la vista. Le condizioni di Singer
peggioravano: aveva chiuso gli occhi e respirava velocemente,
ansimando ed emettendo una specie di rantolo stridulo
- come l'aria che esce da un piccolo foro in un materassino
- che non aveva niente di naturale. Adesso non gli tremavano
soltanto le gambe, ma tutto il corpo. Sotto la sua mano,
Julie sentiva i muscoli irrigidirsi, come nel tentativo di
sfuggire alla morte.
Singer guaì e lei gli parlò con la voce carica di terrore. Lo
accarezzava, soffriva con lui, provava la sua stessa agonia.
«Non puoi lasciarmi. Ti prego...»
Dentro di sé gridava a Pete e Mike di sbrigarsi, che non c'era
più tempo. Anche se erano passati solo pochi minuti, le sembrava
un'eternità e temeva che il cane non sarebbe riuscito a
resistere ancora a lungo.
«Singer... puoi farcela... non mollare. Ti prego...»
Stava per mettersi a chiamare a gran voce Pete e Mike, quando
le parole le morirono sulle labbra.
Inizialmente, rifiutò di credere a quello che vedeva e provò
a chiudere gli occhi per scacciare l'immagine. Ma quando li riaprì,
capì che era tutto vero.
Anche se i capelli erano di un colore diverso, anche se portava
gli occhiali e non aveva più i baffi, lo riconobbe immediatamente.
«Ciao, Julie», disse lui.
Jennifer saettava in mezzo al traffico, schivando le altre macchine
con il lampeggiante acceso. Con gli occhi fissi sulla strada,
stringeva così forte il volante che le mani le dolevano.
Dieci minuti, pensava. Ancora dieci minuti.
Julie lo fissava trattenendo il fiato, mentre tutti i tasselli andavano
al loro posto.
Era lì, comprese con orrore. Aveva fatto del male a Singer.
Aveva fatto del male a Pete. Aveva fatto del male a Mike.
Oddio, Mike...
E adesso era venuto da lei.
Si stava avvicinando lentamente.
«Tu...» fu l'unica parola che riuscì a pronunciare.
Un sorriso fugace gli passò sul viso. Naturale, sembrava voler
dire, chi altri stavi aspettando? Si fermò a pochi passi e, dopo
averla guardata negli occhi per un istante, posò lo sguardo
sul cane.
«Mi spiace per Singer», disse a bassa voce. «So quanto gli
volevi bene.»
Parlava come se fosse del tutto estraneo alla faccenda.
Un'espressione
addolorata gli attraversò il volto, quasi si trovasse al
funerale di un caro amico.
Julie venne assalita da una nausea improvvisa, ma ricacciò
indietro la bile, sforzandosi di conservare un briciolo di autocontrollo.
Cercando di pensare che cosa poteva fare. Di capire
che cosa fosse successo a Mike.
Oddio, Mike.
«Dov'è Mike?» domandò, al tempo stesso ansiosa e timorosa
di scoprirlo. Fece di tutto per mantenere la voce calma.
Lui alzò lo sguardo, la stessa triste espressione di prima. «E'
finita, ormai», disse sbrigativo.
Quelle parole la colpirono come un pugno e cominciarono
a tremarle le mani.
«Che cosa gli hai fatto?» singhiozzò.
«Non importa.»
«Che cosa gli hai fatto!?» urlò, incapace di controllarsi.
«Dov'è?»
Fece un passo verso di lei, la voce sempre gentile. «Non ho
avuto scelta, Julie. Lo sai. Lui ti manipolava e non potevo permetterlo.
Ma adesso sei al sicuro. Mi prenderò cura di te.»
Fece un altro passo e lei slittò all'indietro sulla sabbia, separandosi
da Singer.
«Non ti amava, Julie», disse lui. «Non quanto ti amo io.»
Mi ucciderà, pensò lei. Ha ucciso Mike e Singer e Pete e
adesso ucciderà anche me. Cominciò ad alzarsi in preda a un
terrore crescente, mentre lui si avvicinava inesorabile. Glielo
leggeva negli occhi, sapeva perfettamente che cosa le avrebbe
fatto.
Mi ucciderà, ma prima mi violenterà...
Quella consapevolezza la paralizzò quasi, poi una voce dentro
di lei gridò: scappa! E lei reagì istintivamente.
Partì senza voltarsi indietro, i piedi che scivolavano sulla sabbia.
Lui non cercò di fermarla. Sorrise, invece, sapendo che comunque
non poteva andare da nessuna parte. Si sarebbe sfinita,
poi il terrore l'avrebbe immobilizzata. Si infilò la pistola
nella cintura e cominciò a correrle dietro con calma, tanto
per non perderla di vista e poterla raggiungere al momento giusto.
Mike entrava e usciva dallo stato di incoscienza. Intrappolata
da qualche parte tra la realtà e il sogno, la sua mente alla
fine riconobbe il fatto che stava perdendo molto sangue.
E che Julie aveva bisogno di lui.
Scosso da un violento tremito, provò lentamente ad alzarsi.
Julie cercava di mantenere un'andatura costante mentre correva
verso le luci dell'unica casa che sembrava abitata. Sentiva
le gambe pesanti e le pareva di non spostarsi dal punto in
cui era. Le luci si avvicinavano, ma non riusciva mai a raggiungerle.
No, si disse, no! Non mi prenderà. Ce la farò e troverò aiuto.
Mi metterò a gridare e qualcuno chiamerà la polizia e...
Ma le gambe... i polmoni le bruciavano... il cuore le batteva
forte...
Era solo il terrore a farla muovere.
Mentre correva a più non posso, lanciò un'occhiata di sfuggita
alle proprie spalle. Nonostante il buio, vide che lui guadagnava
terreno.
Non ce la farò, comprese di colpo.
Adesso procedeva barcollando. Aveva i crampi alle caviglie
e faticava a reggersi in piedi.
E lui era sempre più vicino...
Dove sono tutti? Aiuto!
Aveva l'agghiacciante certezza che il rumore delle onde
avrebbe coperto le sue grida. Qualche passo ancora e tornò a
guardarsi alle spalle. Ancora più vicino.
Adesso sentiva i suoi passi.
Non ce la faccio più...
Girò verso le dune, sperando di trovare un nascondiglio da
quella parte.
Vedeva i suoi capelli agitati dal vento. Era vicino, sembrava
bastasse allungare una mano per toccarli.
C'era quasi, pensò, ma all'improvviso lei cambiò direzione
e si arrampicò sulle dune. Colto di sorpresa, inciampò, ma si
riprese subito e ricominciò l'inseguimento, scoppiando a ridere.
Che indole! Che volontà! Era in tutto e per tutto una sua pari.
Gli venne voglia di battere le mani per la felicità.
Julie intravide una casa dietro le dune, ma arrampicarsi sulla
sabbia era quasi impossibile; i piedi scivolavano, doveva usare
le mani per stare in equilibrio e quando arrivò in cima le
gambe le tremavano per lo sforzo.
Rimase un attimo a osservare l'edificio: costruito su pilastri,
aveva molto spazio coperto sotto, ma pochi nascondigli. La casa
vicina, invece, sembrava avere una struttura più articolata e
decise di dirigersi lì.
In quel momento, però, si sentì afferrare. Lui la bloccò da
dietro come un giocatore di football e lei perse l'equilibrio e
cadde sul pendio sabbioso.
L'uomo la raggiunse subito e la prese per un braccio, aiutandola
a rialzarsi.
«Sei proprio un trofeo ambito», le disse, sogghignando
mentre riprendeva fiato. «L'ho capito fin dal primo momento.»
Julie si divincolò dalla stretta e sentì le sue dita stringersi attorno
al braccio.
«Non fare così», le disse. «Non vedi che questa è l'unica conclusione
possibile e naturale delle cose?»
Agitò il braccio. «Lasciami!» gridò.
Lui strinse le dita, facendole male. Poi sogghignò beffardo,
come per dire: Vedi che è inutile?
«Sarà meglio che andiamo», suggerì con tutta calma.
«Io non vado da nessuna parte con te!»
Si divincolò nuovamente, riuscendo finalmente a liberarsi
dalla sua presa, ma prima che potesse allontanarsi, lui le diede
una spinta, facendola cadere di nuovo. La guardò, scrollando
lentamente il capo.
«Stai bene?» le chiese. «Mi spiace di averlo fatto, ma dobbiamo
parlare.»
Variare? Vuole parlare?
Vai al diavolo.
Julie si rialzò cercando di scappare, ma l'afferrò per i capelli
e li tirò con forza.
Lo sentì scoppiare in una risata inconsulta.
«Perché rendi tutto così difficile?» le disse.
Sulla spiaggia, Mike cercava di rialzarsi, di raggiungere le
scale, lottando contro la nausea e il dolore, la mente ancora
confusa.
Alzarmi... chiamare la polizia... aiutare Julie... ma che male...
lo sparo... male... dove sono... questo rimbombo... il dolore...
arriva a ondate... le onde... l'oceano... Julie... devo aiutarla...
Fece un passo.
Poi un altro.
Julie si dibatteva disperatamente, colpendolo sul petto e sulla
faccia. Lui le tirò di nuovo i capelli, facendola gridare.
«Perché continui a resistermi?» chiese, la voce e l'espressione
calme, come se parlasse con un bambino ribelle. «Non capisci
che è finita? Adesso ci siamo solo noi due. Non hai motivo
di comportarti in questo modo.»
«Lasciami!» gridò lei. «Stammi lontano.»
«Pensa a tutto quello che potremo fare insieme», le disse.
«Siamo fatti della stessa pasta, sai. Siamo due sopravvissuti.»
«Non faremo niente insieme!» gridò di nuovo. «Ti odio!»
Le tirò un'altra volta i capelli, con più forza, costringendola
in ginocchio. «Non dire così.»
«Ti odio!» ripeté lei.
«Guarda che parlo sul serio», disse lui, la voce più bassa, minacciosa.
«So che sei sconvolta, ma non voglio farti del male,
Jessica.»
«Io non sono Jessica!»
A metà della scala, Mike cadde in ginocchio, ma continuò a
trascinarsi avanti. Con una mano a reggersi il ventre, afferrò la
ringhiera e si tirò su.
Era quasi in cima e riusciva a vedere Pete, a faccia in giù sulla
veranda, con una pozza di sangue intorno alla testa.
Ancora due passi e fu sul pianerottolo, poi avanzò verso l'entrata.
Senza la ringhiera non riusciva neanche a reggersi in piedi,
ma tenne gli occhi fissi sulla porta e si concentrò su quello
che doveva fare.
Lui la guardò, l'espressione incuriosita come se non avesse
capito le sue parole. Sbatté le palpebre, poi inclinò la testa di
lato; sembrava un bambino piccolo che guarda la propria immagine
riflessa allo specchio.
«Che cosa hai detto?»
«Io non sono Jessica!» ripeté lei urlando.
L'uomo si portò la mano libera dietro la schiena e un attimo
dopo lei vide la pistola.
Mike arrivò alla maniglia e la girò, perdendo l'equilibrio
quando l'uscio si spalancò.
Il telefono, pensò. Devo arrivare al telefono prima che sia
troppo tardi.
Fu allora che udì qualcuno precipitarsi dentro dalla porta
d'ingresso che dava sul fronte della casa. Alzò gli occhi e provò
un impeto di sollievo.
«Julie ha bisogno di aiuto», disse con voce roca. «Giù sulla
spiaggia...»
Scioccata dalle brutte condizioni di Mike, Jennifer si avvicinò
e lo aiutò a mettersi seduto. Poi prese il telefono e compose
il numero del pronto intervento. Quando sentì il primo
squillo, gli passò la cornetta.
«ce la fai a chiedere che mandino un'ambulanza?» domandò.
Mike annuì, respirando a fatica mentre si portava la cornetta
all'orecchio. «Pete... fuori...»
Lei corse verso la porta di servizio. Sulla veranda, scorse Pete
e per un attimo pensò che fosse morto. Poi si chinò su di lui
e lo vide muovere un braccio. Udì un gemito.
«Non muoverti», gli disse. «Sta arrivando l'ambulanza.»
Poi si alzò e scese al volo i gradini.
Richard le puntò la pistola alla tempia e Julie rimase paralizzata.
La sua espressione calma era sparita; sembrava che avesse
perso il contatto con la realtà. Si capiva dal modo in cui la
guardava, dal suo respiro affannoso.
«Io ti amo», disse, «ti ho sempre amato».
Non muoverti, pensò lei. Se lo fai, ti ammazza.
«Ma tu non mi dai modo di dimostrartelo.» La tirò per i capelli,
avvicinandole l'orecchio alla bocca.
«Dillo. Di' che mi ami.»
Rimase zitta.
«Dillo!» gridò lui e Julie trasalì per la furia del suo tono. Era
feroce, quasi bestiale. Sentiva il calore del suo respiro sulla guancia.
«Ti ho dato una possibilità e ti ho anche perdonato per quello
che mi hai fatto! Per quello che mi hai costretto a fare. Adesso
dillo!»
Il terrore si impossessò di lei, salendole dal petto alla gola e
propagandosi alle membra.
«Ti amo», gemette, sull'orlo del pianto.
«Dillo in modo che possa sentirlo. Come se lo pensassi.»
Cominciando a piangere, lei ripeté: «Ti amo».
«Ancora.»
Piangendo più forte: «Ti amo».
«Di' che vuoi venire via con me.»
«Voglio venire via con te.»
«Perché mi ami.»
«Perché ti amo.»
E come in sogno, all'improvviso ebbe una visione: in lontananza
qualcuno era spuntato da una duna, e stava venendo di
corsa in suo soccorso.
Mentre la visione prendeva forma davanti ai suoi occhi, Julie
scorse Singer balzare ringhiando contro l'uomo, e azzannargli
il braccio destro.
Lui cadde di lato, trascinandola con sé. Tirava il braccio, per
liberarlo, ma il cane non mollava la presa, agitando la testa da
una parte all'altra con tutte le forze che gli restavano. L'uomo
cominciò a gridare di dolore e lasciò cadere la pistola.
Ora era sdraiato di schiena e lottava per impedire a Singer
di azzannarlo alla gola. La faccia contorta in una smorfia, tentava
di respingerlo con una mano, mentre con l'altra cercava la
pistola. Julie, fino a quel momento paralizzata dal terrore, lanciò
un grido acuto e trovò la forza di alzarsi e scappare.
Sapeva di non avere molto tempo, mentre si arrampicava a
tentoni per la duna.
Alle sue spalle, la mano dell'uomo trovò la pistola e le sue
dita si strinsero intorno al calcio.
Si udì una detonazione nel buio. Singer guaì, era un lamento
sofferto e prolungato.
«Singer!» urlò Julie. «Oddio... noooo!»
Un altro sparo e un altro guaito, stavolta più debole. Voltandosi
a guardare, vide l'uomo spostarlo da sopra di sé e rimettersi
in piedi.
Cominciò a tremare in maniera incontrollata.
Singer ora era riverso su un fianco e cercava di rialzarsi, ringhiando
e mugolando, contorcendosi dal dolore, con il sangue
che macchiava la sabbia.
In lontananza si sentiva l'urlo delle sirene.
«Dobbiamo andare», le disse lui. «Non abbiamo più molto
tempo.»
Julie rimase immobile a fissare Singer.
«Subito!» tuonò l'uomo. Si avvicinò afferrandola di nuovo
per i capelli e cominciò a tirare, ma lei si mise a scalciare e a
urlare, nel disperato tentativo di sottrarsi.
In quel momento una voce risuonò in cima alla duna.
«Fermo!» intimò Jennifer Romanello.
L'uomo si girò e puntò la pistola verso di lei, sparando all'impazzata;
un attimo dopo, emise un sospiro soffocato. Avvertì
un dolore bruciante al petto, mentre le orecchie gli si
riempivano di un frastuono insopportabile. Di colpo la pistola
era troppo pesante. Sparò di nuovo, mancò il bersaglio
e avvertì un'altra sensazione bruciante alla gola, che lo fece
barcollare all'indietro. Sentiva il sangue che gli riempiva i
polmoni, il rantolo del suo respiro. Non riusciva a deglutire,
era pieno di quel liquido caldo e denso. Avrebbe voluto tossire,
sputare verso l'agente, ma stava perdendo le forze velocemente.
La pistola gli sfuggì di mano e cadde in ginocchio,
con la mente che cominciava ad annebbiarsi. Soltanto
la felicità per Julie, per noi due... Le ombre intorno a lui si facevano
più scure, svanendo a poco a poco. Si voltò verso Julie
e tentò di parlarle, ma la sua bocca non riusciva a formare
le parole.
Però continuava ad aggrapparsi al suo sogno, il suo sogno
di una vita con lei, la donna che amava. Julie, pensò, mia dolce
Jessica...
Poi cadde in avanti sulla sabbia.
Julie si girò verso Singer.
Era sempre sdraiato su un fianco e ansimava con la bocca
aperta. Lo raggiunse di corsa e si chinò accanto a lui, sforzandosi
di guardarlo attraverso il velo di lacrime.
Quando gli mise la mano sulla testa, lui guaì e gliela leccò.
«Oh... tesoro», singhiozzò lei.
Perdeva sangue da due profonde ferite. Julie posò il capo
sul suo corpo e Singer guaì di nuovo. Aveva gli occhi sbarrati
e spaventati, e quando cercò di alzare la testa emise un lamento
straziante che le spezzò il cuore.
«Non muoverti... Adesso ti porto dal veterinario, d'accordo?»
Sentiva il suo respiro sfiorarle la pelle, breve e superficiale.
Lui la leccò di nuovo e lei lo baciò.
«Sei così bravo. Sei stato coraggioso... molto coraggioso...»
Lui la fissava e guaì di nuovo. Julie trattenne un singhiozzo.
«Ti voglio bene, Singer», mormorò, e sentì i suoi muscoli finalmente
rilassarsi.
«E tutto a posto, tesoro. Non devi più lottare. Grazie a te
sono salva. Puoi dormire adesso...»
Epilogo.
Julie andò in camera da letto e accese la luce; Mike era in
cucina a preparare da mangiare.
Erano passati quasi due mesi da quella terribile notte sulla
spiaggia. E ogni particolare di quei drammatici momenti le era
rimasto scolpito nella mente, ma gli avvenimenti immediatamente
successivi erano confusi. Ricordava vagamente che Jennifer
Romanello l'aveva aiutata a tornare indietro, che gli infermieri
avevano prestato i primi soccorsi a Mike e a Pete, che
la casa si era riempita a poco a poco di gente; a quel punto la
vista le si era annebbiata e poi c'era stato il buio.
Si era risvegliata all'ospedale, dove si trovavano anche Pete
e Mike. Pete era guarito in pochi giorni, mentre le condizioni
di Mike erano state critiche per una settimana. Una volta superata
la crisi, aveva cominciato a migliorare ma era rimasto ricoverato
ancora quasi un mese. Julie lo aveva assistito per tutto
il tempo, seduta al suo capezzale, stringendogli la mano e
parlandogli anche quando dormiva.
La polizia le aveva fatto altre domande, erano saltate fuori
altre cose sul passato di quell'uomo, ma a lei non interessava
più. Richard Franklin era morto - non era mai riuscita a
pensare a lui come Robert Bonham - e questo era ciò che contava.
Anche Singer se n'era andato.
In seguito Linda Patinson, la veterinaria, le aveva detto che
gli era stato dato del veleno per topi, una dose sufficiente a uccidere
sei cani in pochi minuti. «Non capisco proprio come abbia
fatto a muoversi e poi ad aggredire un uomo adulto», aveva
osservato. «E' stato un miracolo.»
Però lo aveva fatto, pensò Julie. E mi ha salvato.
Il giorno in cui avevano seppellito Singer in giardino, cadeva
una pioggia leggera sul gruppetto di persone radunatesi lì
per dare l'ultimo, affettuoso saluto al danese che era stato per
tanti anni compagno di vita di Julie e, alla fine, il suo angelo
custode.
Le settimane successive alla dimissione di Mike dall'ospedale
trascorsero in un lampo. Ormai lui si era praticamente trasferito
da Julie, pur tenendo ancora il suo appartamento, dove
andava di rado. E lei era grata della sua compagnia, anche perché
sapeva sempre indovinare quando aveva bisogno di coccole
e quando invece sentiva il bisogno di starsene per conto suo.
Ma la sua vita non sarebbe più tornata come prima; la casa
era troppo vuota, gli avanzi venivano buttati nella spazzatura,
e lei non inciampava più continuamente nel suo cane. A volte
aveva l'impressione che Singer fosse ancora vivo, le sembrava
di coglierne il movimento con la coda dell'occhio. Quando le
capitava, si voltava di colpo a guardare, ma non c'era niente.
Una volta, aveva avvertito un odore che era inconfondibilmente
il suo. Era come quando le si accucciava vicino dopo aver giocato
tra le onde... si era alzata dal divano per scoprirne la fonte,
ma l'odore era svanito nell'aria. E un'altra volta, a notte fonda,
aveva provato l'impulso di alzarsi e andare in salotto. Sebbene
la casa fosse buia, lo aveva sentito bere dalla sua ciotola
in cucina. Quel rumore le aveva fatto balzare il cuore in gola,
ma era solo un'illusione.
Finché, una notte, sognò Singer con Jim. Camminavano insieme
in un campo, dandole la schiena, e lei correva per cercare
di raggiungerli. In sogno, li chiamava e loro si fermavano
voltandosi a guardarla. Jim sorrideva; Singer abbaiava. Avrebbe
voluto avvicinarsi, ma non riusciva a muoversi. Loro la guardavano
con la testa inclinata nello stesso modo, la stessa espressione
negli occhi, lo stesso alone di luce alle spalle. Poi Jim mise
una mano sul dorso di Singer, che di nuovo abbaiò felice,
come per dirle che era giusto così. Invece di andarle incontro,
si erano voltati di nuovo e lei li aveva guardati allontanarsi, mentre
le loro sagome a poco a poco si fondevano in una sola.
E il mattino dopo, quando si svegliò, Julie prese la foto di
Singer che teneva sul comodino. Soffriva ancora guardandola,
ma non le veniva più da piangere. Dietro alla cornice c'era la
lettera scritta da Jim. La sfilò e, mentre il sole del mattino scaldava
la camera, la lesse di nuovo, soffermandosi sulle ultime righe.
E non preoccuparti. Dovunque io sia, veglierò su di te. Sarò
il tuo angelo custode, amore mio. Potrai sempre contare su di
me, io ti proteggerò.
Alzò lo sguardo al cielo fuori dalla finestra, con gli occhi
umidi di commozione.
Sì, pensò, lo hai fatto.
Nota dell'autore.
La genesi di un romanzo è sempre un processo misterioso
e delicato. Spesso si parte da una vaga idea di fondo o, come
nel mio caso, da un tema. Per questo romanzo ho scelto i temi
dell'amore e del pericolo; in altre parole, volevo scrivere
una storia in cui due personaggi credibili si innamorano, ma
con l'aggiunta di elementi di suspense e di rischio che mettessero
in grave difficoltà i protagonisti. Non ricordo in che
occasione mi fosse venuta in mente una storia simile, ma pensavo
che mi sarei divertito a cimentarmi con un genere per me
del tutto nuovo.
Accidenti, se mi sbagliavo.
O meglio, scrivere il romanzo è stato divertente, ma il successivo
lavoro di editing si è rivelato di gran lunga il più laborioso
che avessi mai intrapreso. Dalla prima stesura a quella
definitiva il dattiloscritto è stato sottoposto a otto revisioni,
prima che il mio editor e io fossimo soddisfatti del risultato.
Volevamo un'opera che rispettasse le premesse di essere prima
di tutto una storia d'amore e, secondariamente, in maniera
subdola ma incalzante, un thriller avvincente.
In vita mia credo di aver letto almeno duemila romanzi gialli
e, pur avendovi spesso incontrato personaggi che si innamorano,
non ne ho mai trovato nessuno in cui l'elemento di
suspense fosse secondario rispetto al rapporto sentimentale.
La ragione è presto detta: più una cosa fa paura, più acquista
importanza nello svolgersi della narrazione. La sfida di questo
romanzo era proprio trovare il giusto equilibrio tra questi due
elementi e modellare la trama di conseguenza, in modo che il
lettore non perdesse mai di vista la sua caratteristica di fondo:
come ho detto, una storia d'amore tra due persone normali il
cui destino si incrocia con la persona sbagliata. Anche se visto
così sembra semplice, riuscirci mi è costato molte notti insonni.
Inoltre, ho sempre amato i romanzi dove comparivano dei cani,
e mi sembrava che la storia a cui questa volta avevo pensato
fosse adatta per inserirne uno con la dignità di personaggio a pieno
titolo. Sono debitore a tutti quegli scrittori che, prima di me,
hanno seguito questa idea, anche perché mi hanno regalato ore
di appassionante lettura. In particolare vorrei ricordare il racconto
di Cathy Miller intitolato «Delayed Delivery», pubblicato
nella raccolta Chicken Soup for the Pet Lover's Soul (a cura di
Jack Canfield, Mark Victor Hansen, Marty Becker e Carol Kline),
che mi ha ispirato il prologo del libro. Vorrei ringraziare
l'autrice - e i curatori - per avermi fatto sgorgare una lacrima
dagli occhi.
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Quando ho aperto gli occhi