Anno XII - Numero 55 - 27 luglio 2007 L’Intervista Parla il direttore Alain Lombard A Pag 2 La Storia dell’Opera Nata in un ristorante e rimasta incompiuta A Pag 6 Le Terme di Caracalla Alla scoperta del complesso termale insuperato per bellezza ed eleganza A Pag 8e9 Il Finale postumo L’ingrato lavoro di Franco Alfano A Pag 10 e 11 TURANDOT di Giacomo Puccini Turandot 2 Il Giornale dei Grandi Eventi Parla il direttore d’orchestra Alain Lombard vo prima, anche se n’avevo sentito parlare, ma mi ha molto impressionato vederlo lavorare. Ha un talento enorme. Si vede che gli studi musicali – si è diplomato in Clarinetto, n.d.r. – gli sono stati utili e che possiede una grande familiarità con le opere liriche, anche se si è formato al Piccolo Teatro di Milano come assistente di Strehler». Andrea Marini «Una Turandot senza tagli, con il secondo finale di Alfano» «S quadra vincente non si cambia», recitava un vecchio adagio. E questo suggerimento pare essere stato recepito dalla direzione artistica del Teatro dell’Opera, riproponendo, anche in questa stagione estiva alle Terme di Caracalla, Turandot di Giacomo Puccini, nell’allestimento dell’Opera di Roma che debuttò lo scorso anno. Confermata la regia del tedesco Henning Brockhaus e l’orchestra affidata al direttore francese Alain Lombard, il quale a Roma, oltre ad averla diretta, appunto, nella passata stagione estiva, ci si era cimentato al Costanzi nell’aprile del 2005. Una stagione quest’anno, che coincide con i 70 anni dell’Opera a Caracalla, che vi trovò la sua sede estiva per la prima volta nel 1937. Da allora questo è divenuto un appuntamento tradizionale, interrotto solo dal 1940 al 1944 per gli eventi bellici e dal 1994 al 2000 per problemi di conservazione del monumento. Il Maestro Lombard ha voluto, come lo scorso anno, riproporre Turandot con il secondo finale di Franco Alfano, il più corto. Come noto, infatti, l’opera rimase incompiuta alla morte di Puccini, avvenuta a Bruxelles sabato 29 novembre 1924. A terminarla fu chiamato Franco Alfano, il quale realizzò un primo finale, poi ridimensionato per andare incontro alla vocalità dei cantanti ed alle pressioni di Toscanini. «E’ un’opera verso la quale ho sempre un grande affetto», dice il maestro Lombard. L’ho diretta moltissime volte ed ho realizzato una incisione con Montserrat Caballe, Mirella Freni e Josè Carreras, che ha riscosso grandissimo successo». «Turandot è un’opera molto difficile. Si deve avere una orchestra grande e solida, poiché è una partitura estremamente raffinata, con l’uso di strumenti inconsueti come il gong. Come suo solito Puccini realizzò uno spartito molto preciso, con scritto tutto, dai tempi ad alcune note esplicative a margine. La musica, in alcuni punti – come con le tre maschere di Ping, Pong e Pang - è vicinissima a Gianni Schicchi. Personalmente adoro il brano delle “maschere” all’inizio del 2° ~ ~ La Copertina ~ ~ Leopoldo Metlicovitz: Particolare dello spartito per canto e piano edizione lusso, Milano, Ricordi, 1926. Il G iornale dei G randi Eventi Direttore responsabile Andrea Marini Direzione Redazione ed Amministrazione Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma e-mail: [email protected] Editore A. M. Stampa Tipografica Renzo Palozzi Via Vecchia di Grottaferrata, 4 - 00047 Marino (Roma) Registrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore Le fotografie sono realizzate in digitale con fotocamera Kodak Easyshare V705 Visitate il nostro sito internet www.giornalegrandieventi.it dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale atto, che considero una delle pagine più belle di Puccini». «Lavorando tante volte su quest’opera, ho pensato a ciò che Puccini voleva: fare un’opera importantissima, che rimanesse un capolavoro assoluto. Mi ha sempre stupito che essa arrivi dopo il Trittico (1918), il quale a mio avviso è di per se un capolavoro assoluto. Puccini aveva già toccato il tema, all’epoca in voga, dell’Orientalismo con Butterfly nel 1904 e l’ambientazione americana con La fanciulla del West (1910), ma egli volle ancora tornare su ambientazioni “esotiche”». L’opera anche questa volta sarà presentata in versione integrale con - come detto - il secondo finale di Alfano, senza il taglio che spesso viene eseguito dell’aria del soprano. «Il primo finale sarebbe stato troppo lungo e meno bello. Quella prima versione l’ho eseguita tre o quattro volte, ma continuo a preferire la seconda, meno lunga. Eviteremo un altro taglio considerato “tradizionale”, come quello delle “maschere” all’inizio del secondo atto». A Caracalla il Maestro Lombard ha esordito negli anni ‘80 con Aida. In questa cornice, prima della Turandot della scorsa stagione, sul podio era salito tre anni fa per Il Trovatore di Verdi. «L’acustica di Caracalla è sempre un problema, perché l’ambiente è vasto, dispersivo, soprattutto con questo nuovo palcoscenico non “avvolto”, come quello di molti anni fa, dai ruderi dalle torri del Caldarium. L’acustica non è quindi del tutto naturale, ma devo ammettere che negli ultimi anni con l’amplificazione si sono fatti miracoli». Di “finali”, oltre quelli di Alfano, n’esiste un altro, sempre commissionato da Casa Ricordi e realizzato da Luciano Berio, andato in scena a Los Angeles il 25 maggio del 2002. «Il finale di Berio lo conosco bene, l’ho studiato perché ad un certo punto ho pensato di cimentarmici. E’ fatto bene, ma è molto differente dal lavoro e dallo stile di Puccini. Con questa regia, molto classica, non sarebbe stato adatto». «Devo dire – continua il Maestro – che già lo scorso anno ero rimasto molto colpito dal regista tedesco Henning Brock e dallo splendido lavoro che ha fatto con quest’allestimento. Non lo conosce- Stagione estiva - Terme di Caracalla 27, 29 Luglio - 3, 5, 9 Agosto TURANDOT di Giacomo Puccini Alain Lombard Antonello Palombi, Giovanna Casolla, Mina Tasca, Cristina Ferri, Michail Ryssov Direttore Interpreti 8, 10, 11, 12, 14 Agosto PAGLIACCI di Ruggero Leoncavallo Hirofumi Yoshida Vincenzo La Scola, Maria Carola, Carlo Guelfi, Domenico Balzani Direttore Interpreti ROMEO E GIULIETTA suite (balletto) I prossimi titoli della Stagione 2007 al Teatro Costanzi 27 Novembre - 2 Dicembre MOSÈ IN EGITTO Direttore Interpreti di Gioachino Rossini Antonino Fogliani Michele Pertusi, Giorgio Surian, Anna Rita Taliento, Stefano Secco 21 - 30 Dicembre LA VEDOVA ALLEGRA di Franz Lehàr Daniel Oren Fiorenza Cedolins, Vittorio Grigolo, Markus Werba Direttore Interpreti ~~ La Locandina ~ ~ Terme di Caracalla, 27 luglio - 9 agosto 2007 TURANDOT Dramma lirico in tre atti e cinque quadri da una fiaba chinese teatrale tragicomica di Carlo Gozzi Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni Musica di Giacomo Puccini Prima rappresentazione: Milano, Teatro Alla Scala 25 aprile 1926 Direttore Maestro concertatore e Direttore Maestro del Coro Regia Scene e Costumi Movimenti Coreografici Disegno Luci Arturo Toscanini Alain Lombard Andrea Giorgi Hanning Brockhaus Ezio Toffolutti Maria Cristina Madau Alessandro Santini Personaggi / Interpreti Turandot (S) Calaf (T) Liù (S) Timur (B) Ping (Bar) Pong (T) Pang (T) Altoum (T) Mandarino (Bar) Il Principe di Persia Il clown Giovanna Casolla / Francesca Patanè (5, 9/8) Antonello Palombi / Worren Mok (9/8) Mina Tasca-Yamazaki / Cristina Ferri (5, 9/8) Michail Ryssov / Alfredo Zanazzo (5, 9/8) Filippo Bettoschi / Aldo Orsolini Mario Bolognesi Fernando Cordeiro Opa / Umberto Scalavino (5,9/8) Gianluca Breda Aurelio Cicero / Francesco Giannelli (5, 9/8) / Jean Mening Danzatori: Il boia Guido Pistoni / Gianni Martelletta (5/8) / Andrea Costa (11/8) Acrobati Cosimo De Bartolomeo, Francesco Palazzo ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Allestimento del Teatro dell’Opera di Roma Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 3 Turandot nel 70° dell’Opera a Caracalla L’azione si svolge a Pekino (così è riportato nel libretto originale, n.d.r.), al tempo delle favole ATTO PRIMO Calaf, sembra voler rinunciare, provocando lo scherno della Principessa, ma finalmente intuisce la risposta e dice felice: Turandot! Conquistando la vittoria. Turandot, ormai vinta ma non doma, si getta ai piedi del padre e lo supplica di non consegnarla allo straniero, ma per l’Imperatore la parola data è sacra. Turandot inveisce contro il Principe, dicendogli che così egli conquista una donna riluttante e piena d’odio. Calaf spiega che cerca una donna che lo ami e quindi la libera dall’impegno, proponendole a sua volta una nuova sfida: lui è pronto a morire se lei riuscirà prima dell’alba ad indovinare il suo nome. Il nuovo patto è accettato, mentre risuona solenne l’inno imperiale. La Trama Davanti alle mura e al palazzo imperiale di Pechino – Al tramonto, un Mandarino annuncia alla folla che il Principe di Persia, non avendo sciolto i tre enigmi proposti dalla bella principessa Turandot a tutti i principi che aspirano alla sua mano, sarà decapitato pubblicamente dal boia al sorgere della luna. La folla, eccitata, travolge un vecchio e la giovane Liù che per lui invoca subito soccorso. Un giovane accorre e riconosce nell’anziano il proprio padre Timur, Re tartaro spodestato. I due si abbracciano, ma il giovane Calaf lo prega di non pronunciare il suo nome, poiché ha paura dei regnanti cinesi, usurpatori del regno del padre. La schiava Liù è molto devota a Timur ed alla famiglia, in quanto un giorno Calaf nella reggia le sorrise. Intanto il boia Pu-Ti-Pao, affilando la lama, si prepara all’esecuzione del Principe di Persia. Ai primi chiarori lunari, su note lugubri, giunge il corteo che accompagna la vittima al supplizio. La folla, prima eccitata, si commuove per questo giovane ed invoca la grazia per il condannato. Nella pallida luce si presenta, glaciale, la principessa Turandot che impone di fare silenzio e con un gesto imperioso ordina al boia di giustiziare il Principe. Calaf è impressionato dalla magica bellezza della Principessa e decide di tentare la prova dei tre enigmi. Timur e Liù cercano di trattenerlo, ma lui si lancia verso il grande gong. Tre bizzarre figure lo fermano: si tratta dei ministri del Regno, Ping, Pong e Pang, i quali provano a dissuadere Calaf, descrivendo il rischio dell’impresa. Anche Timur, invocando la pietà filiale e la giovane Liù, disperata ed in lacrime per il proprio amore segreto, tentano di far ragionare Calaf, il quale, ormai in preda ad una sorta di delirio, percuote per tre volte il gong, invocando ogni volta Turandot, al cui nome Liù, Timur ed i tre ministri rispondono con «la morte!». ATTO SECONDO In un padiglione - E’ notte. Ping, Pong e Pang, chiusi nella loro tenda ripassano il protocollo nuziale e quello funebre per essere pronti ad ogni evenienza. Si lamentano che, come Ministri, devono accompagnare all’esecuzione troppe sfortunate vittime. Preferirebbero vivere tranquilli in campagna. Ma quando il sole sorge, si avviano ad assistere all’ ulteriore supplizio. Il piazzale della reggia con una grande scala dove è posto il trono imperiale - Tutto è pronto per il rito degli enigmi. L’imperatore Altoum invita il Principe ignoto a rinunciare, ma Calaf rifiuta tre volte. Il Mandarino (sulla stessa musica dissonante del primo atto, n.d.r.) bandisce la prova, mentre appare Turandot. La Principessa avanza guardando negli occhi il nuovo pretendente e spiega le ragioni del suo comportamento: molti anni prima il suo Regno fu invaso dai tartari ed una sua antenata cadde preda di uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot ha giurato che mai si lascerà possedere da un uomo. La Principessa invita Calaf a rinunciare alla prova, ma egli non vuole desistere. Il primo enigma viene proposto e Calaf lo risolve senza tentennamenti: la speranza! Turandot scende la scala e si avvicina a lui per il secondo enigma. Calaf pensa a lungo, ma poi risponde: il sangue! La folla, sperando nel successo, esulta, ma Turandot la obbliga al silenzio e, minacciosa, presenta il terzo enigma. ATTO TERZO Nel giardino della reggia - E’ una notte gravida di attesa ed in lontananza gli araldi portano in giro l’ordine della Principessa: Questa notte nessun dorma in Pechino! Il nome del principe ignoto deve essere scoperto. Calaf è sveglio e pregusta il vittorioso bacio a Turandot, immaginandola liberata dal gelo dell’odio. Giungono i Ministri che, per paura delle ire di Turandot, offrono a Calaf donne bellissime, ricchezze e gloria in cambio del suo nome, ricevendone però un secco rifiuto. Intanto Timur e Liù, insanguinati e logori, vengono trascinati davanti ai tre Ministri: sono sospettati di conoscere il nome del principe, visto che sono stati notati parlare con lui. Giunge Turandot. Liù, per cercare di salvare Timur, dice che solo lei conosce il nome dello straniero, ma non lo rivelerà. Iniziano le torture, ma Liù resiste e continua a tacere. Turandot è incredula: cosa dà tanto coraggio e forza alla giovane schiava? Liù le risponde che è semplicemente l’amore. Turandot resta turbata, ma poi ordina ai Ministri di carpire il segreto ad ogni costo. Liù, conscia di non poter resistere, strappa il pugnale ad uno dei torturatori e si uccide, cadendo ai piedi dell’amato Calaf. Con Timur e Calaf che compiangono Liù morta, si avvia il mesto corteo funebre. (Fin qui l’opera che Puccini riuscì a portare a termine prima della morte, avvenuta a Bruxelles il 29 novembre 1924) ———————————(Finale realizzato da Franco Alfano, sugli appunti pucciniani) Uscita la folla, Turandot e Calaf rimangono soli. Calaf, con l’impeto della passione, bacia la principessa. Questa dapprima lo respinge, ma poi gli confessa il “brivido fatale” e l’odio da cui fu colta la prima volta che lo vide ed anche di essere orami travolta dalla passione. Ma, orgogliosa, lo supplica di non umiliarla e di andarsene senza svelare il proprio nome. L’ignoto principe le dice, però, di essere Calaf, figlio del re Timur. Davanti al Palazzo Imperiale - E’ giorno. Tutti i dignitari ed una gran folla sono davanti al trono dell’Imperatore. Squillano le trombe per annunciare l’arrivo di Turandot, che annuncia di conoscere il nome dello straniero: il suo nome è Amore! e, tra le grida di festa dei presenti, si abbandona nelle braccia di Calaf. 4 Turandot Il Giornale dei Grandi Eventi Stima e screzi con quello che sarà il direttore della prima assoluta di Turandot Il difficile rapporto fra Puccini e Toscanini F u vera amicizia? Difficile dire. Ma certamente fu un sodalizio destinato a durare nel tempo e soprattutto a sopravvivere ai protagonisti, quello fra Giacomo Puccini e il direttore d'orchestra Arturo Toscanini. E' possibile che i due si siano conosciuti nel gennaio 1890, quando Toscanini diresse Le Villi al Teatro Grande di Brescia. A quell'epoca Puccini aveva trentun'anni e ventidue ne aveva Toscanini, che solo tre anni prima aveva debuttato al Teatro Carignano di Torino come direttore l'Edmea di Alfredo Catalani. I rapporti formali fra i due non dovettero durare a lungo. Parlano chiaro le missive inviate nel 1894, quando Toscanini, già dando del tu al maestro, espresse commenti ostili agli interpreti della Manon che stava per dirigere al Regio Teatro Nuovo di Pisa. E proprio mentre si contavano i bis per la Manon pisana, Giacomo Puccini concepiva la Bohème che nel 1896 Toscanini avrebbe diretto in prima assoluta al Teatro Regio di Torino, di cui era direttore stabile. Il compositore, in una missiva all'editore Giulio Ricordi, non voleva che il suo ultimo lavoro debuttasse in quel teatro «sordo», il cui direttore era un «omaccio». Se, dunque Puccini, evidentemente nervoso per il prossimo debutto, definiva il Toscanini un «omaccio», si è ipotizzato avesse già avuto a che fare con le mordaci arguzie del direttore. Ma Ricordi rimise entrambi in riga, giacché non solo l'opera si fece, ma Puccini successivamente trovò il direttore «gentilissimo» e «molto intelligente». Mentre i due ragionavano di un esordio solo nel ce perché tu hai sopra tutti sul miglior allestimento 1910, con il debutto della saputo comprendere tutto il dell'opera, nella loro stoFanciulla del West al mio spirito giovane e appasria è doveroso inserire la Metropolitan House di sionato di trent'anni fa». cronaca rosa. All'epoca si New York. In questa occasione diceva che Puccini fosse Memorabile per entrambi Puccini tornò dunque, innamorato del soprano grazie alla passionalità di fu l'edizione di Manon Cesira Ferrani, interprete Toscanini, indietro nel Lescaut diretta da di Mimì, la tempo fino quale a sua alla gestavolta era zione di invaghita di M a n o n To s c a n i n i , Lescaut fra il fatto che si 1890 e il rivelò irrile1892. Ma al vante nei lontano rapporti fra i 1893, anno due musicidel debutto sti. di Manon, Nel 1898, tornò forse quando si a n c h e progettava il Giacomo Puccini Toscanini, Arturo Toscanini debutto di che a quelTosca, Puccini scrisse - con l'epoca lavorava al Toscanini al Teatro alla molta "eleganza" - a Politeama Garibaldi di Scala alla fine del 1922. Toscanini «ricordati che Palermo e che avrebbe «Mai e poi mai ho goduto devi essere il suo sverginatotanto voluto dirigere la tanto a sentire la mia musire». L'opera, come è noto, prima di Manon Lescaut, ca», scrisse Puccini all'adebuttò nel 1900 al Teatro poi eseguita da mico Riccardo SchnablCostanzi di Roma, diretta Alessandro Pomé al Rossi. Questa ripresa delda Mugnone e Toscanini Teatro Regio di Torino. l'opera giovanile del comdovette accontentarsi di Quella volta Toscanini positore lucchese, oltre a dirigere due mesi dopo la dovette accontentarsi di costituire uno degli spetprima al teatro Alla Scala, studiare sulla partitura, tacoli di punta della stadi cui era direttore. senza nemmeno poterla gione meneghina, costituì Lo stesso avvenne quattro ascoltare. forse il vero momento di anni dopo, Dunque, se quando per nel passato la prima di Puccini non M a d a m a a v e v a Butterfly fu risparmiato scelto il le sue riserTeatro Alla ve verso il Scala e direttore Cleofonte rampante, Campanini ora Toscacome direttonini non lesinava crire, giacché tiche verso i To s c a n i n i lavori pucaveva rotto i ciniani, rapporti con come la il teatro milaRondine ed il Trittico, che nese. Egli si dovette intesa reciproca fra i due. non erano affini al gusto accontentare della prima Scrive Puccini a Toscanini: imasto più affine allo stile a Buenos Aires. La rappre«tu mi hai dato la più grande esotico e morboso del suo sentazione milanese della soddisfazione della mia vita! protettore giovanile Butterfly fu un disastro, La Manon nella tua interAlfredo Catalani. mentre la sudamericana pretazione è al di sopra di Nonostante la collaborafu un successo: sebbene quanto io pensai a quei tempi zione, conveniente ad l'opera fosse stata poi lontani». E poi ancora: entrambi, l'estetica di riveduta da Puccini, lo «Proprio ho sentito jersera Puccini e Toscanini andastesso compositore attritutta l'anima tua grande e buì il fiasco di Milano va divergendo nel tempo. l'amore per il tuo vecchio all'assenza del Maestro. E così, quando il composiamico e compagno nelle Toscanini si riappropriò tore, ormai gravemente prime armi […]. Io sono feli- ammalato, nel settembre del 1924 chiese a Toscanini di ascoltare la Turandot che avrebbe suonato per lui, questi accondiscese, ma senza manifestare entusiasmo. E, come è noto, quando Turandot debuttò – postuma – il 25 aprile del 1926 al Teatro alla Scala di Milano, Toscanini dirigendola interruppe la rappresentazione alla morte di Liù, proprio nel punto in cui il compositore l'aveva lasciata incompiuta. Solo il giorno dopo fu rappresentata conclusa con le integrazioni di Alfano. Puccini era morto il 29 novembre 1924 a Bruxelles. Durante i solenni funerali a Milano, celebrati il 3 dicembre con grande trasporto di folla dal cardinale Tosi, l'orchestra della Scala diretta da Toscanini eseguì il Requiem dall'Edgar. Poi la salma fu tumulata provvisoriamente nella Cappella Toscanini nel Cimitero Monumentale di Milano. Due anni dopo, il 29 novembre 1926, il feretro fu traslato a Torre del Lago, dove il figlio Antonio aveva fatto costruire una cappella, ricavandola da un corridoio della villa tanto amata dal compositore. Di quest'amicizia controversa restano le registrazioni Di questo rapporto particolare restano la registrazione della Bohème voluta da Toscanini nel 1946 per il cinquantenario dell'opera con una memorabile esecuzione trasmessa dal vivo da New York, con la sua NBC Symphony Orchestra. Ed ancora, il concerto dell'11 maggio 1946 per la riapertura della Scala dopo i bombardamenti, in cui Toscanini, rientrato in Italia, volle inserire il terzo atto di Manon Lescaut. Elena Cagiano Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot Antonello Palombi e Warren Mok 5 Giovanna Casolla e Francesca Patanè L’astuto principe Calaf La crudele principessa Turandot I nterpreteranno il ruolo di Calaf Antonello Palombi (27 e 29 luglio, 3 e 5 agosto) Warren Mok (9 agosto). Il tenore Antonello Palombi ha debuttato in Madama Butterfly nel ruolo di Pinkerton. Si è affermato poi nel repertorio lirico e lirico-spinto interpretando i ruoli principali in Carmen, Nabucco, Don Carlo, Aida, Tosca, Fedora, Norma, Turandot, La Fanciulla del West, Manon Lescaut, Forza del Destino, Otello e Andrea Chenier. Ha cantato nei teatri più prestigiosi del mondo sotto la direzione d’affermati registi. Warren Mok è nato a Hong-Kong. Dopo il debutto nel 1987 alla Deutsche Opera di Berlino, ha cantato nei più importanti teatri sia europei (Francia, Italia, Spagna, Norvegia, Germania) che americani e asiatici (Giappone, Cina, Corea, Singapore). Nel vasto repertorio dell’artista spiccano i ruoli di Calaf (Turandot), Cavaradossi (Tosca), Radames (Aida), Don Carlo. Ha cantato sotto la direzione dei Maestri Sinopoli, Lopez-Cobos, Palumbo, Antonello Palombi Guidarini, Olmi. Michail Ryssov e Alfredo Zanazzo Timur, re dei Tartari e padre di Turandot L a voce di Timur sarà quella dei basso Michail Ryssov (27, 29 luglio e 3 agosto) e di Alfredo Zanazzo (5 e 9 agosto). Michail Ryssov è nato nel 1893 in Crimea, nell’ex Unione Sovietica. Laureatosi presso il Conservatorio di Minsk, ha successivamente frequentato il Centro di Perfezionamento del Teatro alla Scala di Milano. Canta nei maggiori teatri del mondo e collabora con le migliori orchestre quali Berliner Filharmoniker, Boston Symphony, City of Birmingham Symphony, l’Orchestre National de Radio France, Sydney Symphony, Prague Chamber Orchestra, dirette dai Maestri Sir Simon Rattle, Miung-Wung Chung, Ingo Metzmacher, Maxim Shostakovich. Nato ad Imperia, Alfredo Zanazzo è stato allievo di Bonaldo Giaiotti e dal 1981 canta nei più importanti teatri del mondo, sempre in ruoli di primo basso, secondo la tradizione italiana del bel canto. Al Teatro dell’Opera di Roma è stato Padre Guardiano in Forza, Enrico VIII in Anna Bolena e, più recentemente, Ferrando, Timur, Ramfis. Tra le ultime esibizioni Michail Ryssov in Turandot, quella dell’agosto 2005 all’Arena di Verona. Alfredo Zanazzo ha ricevuto importanti premi durante la sua carriera, tra cui il “Palcoscenico d’oro” ed il premio “Flamalgal” (1998), oltre al “Bellini” a Villa Olmo, come miglior cantante belliniano del 1996. Pagina a cura di Diana Sirianni - Foto Corrado M. Falsini P resteranno la voce a Turandot i soprano Giovanna Casolla (27 e 29 luglio, 3 agosto) e Francesca Patanè (5 e 9 agosto). Giovanna Casolla si è diplomata in canto e pianoforte presso il Conservatorio di San Pietro in Majella, a Napoli. In seguito ha continuato a studiare canto con Michele Lauro e Walter Ferrari, debuttando a Spoleto al “Festival dei Due Mondi” nell’opera Napoli Milionaria di Nino Rota, con la regia di Eduardo De Filippo. Giovanna Casolla Fra i premi ricevuti il “Luigi Illica” del 1991 per l’interpretazione del repertorio “verista” e il Premio “Cilea” del 1996. Turandot occupa un posto particolarmente significativo nell’ambito del suo repertorio pucciniano. L’artista ha, infatti, preso parte alla famosa produzione del Teatro Comunale di Firenze nella Città Proibita di Pechino, diretta da Zubin Metha, con la regia di Zhang Yimou. In Turandot si è esibita anche nel 1999 nella produzione inaugurale del riaperto Liceu di Barcellona, poi nel 2006 presso il Teatro Massimo di Palermo e infine lo scorso anno a Caracalla. Francesca Patanè, proveniente da una illustre famiglia di musicisti italiani ed è cresciuta tra Berlino e New York. La sua preparazione musicale è avvenuta presso la Manhattan School of Music. Dopo aver lavorato alcuni anni nel campo della moda come modella, è rientrata in Italia dove ha partecipato al Concorso Voci Verdiane di Busseto ed ha seguito gli stage del M° Carlo Bergonzi. La sua carriera come soprano lirico-spinto è iniziata a Torino con l’opera Adriana Leucovreur che l’ha vista acclamata protagonista sotto la direzione di Daniel Oren. Da allora si è specializzata nel versante drammatico d’agilità diventando specialista nei ruoli quali Lady Macbeth e Turandot. L’abbiamo vista al Teatro dell’Opera di Roma nell’aprile 2006, come protagonista in La leggenda di Sakùntala e lo scorso gennaio come Salome nell’omonima opera. Mina Tasca Yamazaki e Cristina Ferri La coraggiosa schiava Liù, innamorata di Calaf S i alterneranno nel ruolo di Liù, i soprano Mina Tasca Yamazaki (27 e 29 luglio, 3 agosto) e Cristina Ferri (5 e 9 agosto). Mina Tasca Yamazaki ha debuttato come Cio Cio San in Madama Butterfly al Teatro Giglio di Lucca, specializzandosi in seguito in questo ruolo (proprio in questo ruolo, l’abbiamo vista a Caracalla nel luglio 2006). Tra i suoi ruoli preferiti anche quelli di Violetta ne La Traviata, di Mimì / Musetta ne La Bohéme, di Donna Elvira nel Don Giovanni, di Liù nella Turandot, di Leonora ne Il Trovatore, di Maddalena nell’Andrea Chenier e di Nedda in Pagliacci. Le sue caratteristiche vocali e la sensibilità interpretativa la rendono una tra le migliori interpreti del momento del repertorio drammatico. Cristina Ferri, nata nel 1973, ha studiato pianoforte alla Scuola di Musica di Siena, diplomandosi in canto lirico nel 1995 presso l’Accademia di Busseto. Ventunenne, ha debuttato ne L’amico Fritz (Suzel) al Teatro Valli di Reggio Emilia con l’Orchestra Toscanini, diretta dal M° Ranzani. Nel luglio 1997 è stata segnalata come la più giovane promessa della lirica al concorso Internazionale di Rocca delle Macie (Castellina Cristina Ferri in Chianti); ha poi vinto il primo premio del concorso Battistini di Rieti. Vincitrice di borsa di studio per la partecipazione ai Corsi di perfezionamento con il soprano Magda Olivero a Torre del Lago nel 2002, ha preso parte ai concerti estivi prodotti dal Festival Pucciniano. È stata Liù nel 2003 nei teatri di Como, Brescia, Bergamo, Pavia e Cremona. 6 Turandot Il Giornale dei Grandi Eventi Storia dell’opera In un ristorante milanese la nascita di Turandot L a composizione della Turandot, ultima opera di Puccini, si svolse tra il 1920 e il 1924, in quegli ultimi quattro anni di vita del Compositore tristemente segnati dalla malattia che lo condurrà alla morte. Dopo il successo del Trittico nel gennaio 1919 al Costanzi di Roma, Puccini si pose nuovamente con l’aiuto del fedele amico Giuseppe Adami alla ricerca di un soggetto per un’opera. Determinante per la nascita della Turandot fu però l’incontro con il giornalista Renato Simoni nell’autunno del 1919 a Torre del Lago, residenza amatissima dal Maestro, dove si dedicava alla sua grande passione, la caccia. Simoni, commediografo e critico drammatico sensibilissimo e raffinato, sembrò a Puccini il più adatto da affiancare Giuseppe Adami, Giacomo Puccini e Renato Simoni ad Adami. L’intesa tra i due librettisti fu subito cordiale e produttiva: la prima proposta fu un L’epistolario pucciniano è il testimone delle difficoltesto tratto dalla riduzione teatrale dell’Oliver Twist di tà incontrate durante i quattro anni dedicati alla Dickens. L’opera, il cui titolo avrebbe dovuto essere Principessa cinese. Puccini fu a lungo indeciso se Fanny, non piacque però a Puccini: l’ambientazione nello costruire l’opera in uno, due o tre atti. La versione squallido clima dei sobborghi londinesi avrebbe potuto che né risultò fu quella in tre atti, ma il musicista offrire solamente tematiche e situazioni già ampiamente sembrò più volte propendere per l’atto unico. Inoltre utilizzate dal compositore, che invece aveva l’intenzione occorreva « lasciare un po’ da parte Gozzi e lavorare di logica e fantasia». Il primo rimaneggiamento operato di “tentare vie non battute”. in quest’ottica dai librettisti, fu la trasformazione Nata in un ristorante milanese delle quattro maschere della commedia italiana preI biografi raccontano che la nascita della Turandot – senti nella fiaba - Tartaglia, Pantalone Truffaldino e soggetto così “regale” - avvenne, invece, in circo- Brighella - nei tre ministri cinesi Ping, Pang e Pong. stanza meno “nobile”: a tavola! Nel febbraio del 1920 L’altro cambiamento fondamentale fu l’introduzione Puccini e Simoni erano in un ristorante milanese, per della figura di Liù, non presente nella favola di ingannare il tempo in attesa che il Maestro prendes- Gozzi, con la funzione di umanizzare attraverso il se un treno per Roma. Simoni disse: «E Gozzi? … se suo sacrificio la figura della Principessa. ripensassimo a Gozzi?… una fiaba che fosse magari la Nella primavera del 1920 Puccini manifestava il suo sintesi di altre fiabe più tipiche?… Non so… qualche cosa sconforto ad Adami: «metto le mani al piano e mi si di fantastico e di remoto, interpretato con sentimento di sporcano di polvere! La scrivania mia è una marea di letteumanità e presentato con colori moderni?». Puccini fece re, non c’è traccia di musica. La musica? Cosa inutile. Non il nome di Turandot e Simoni mandò immediatamen- avendo il libretto come faccio con la musica? Ho quel gran te a prendere il volume nella sua biblioteca, in modo difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici buratche Puccini potesse portarlo con se in treno. La tini si muovono sulla scena…». Nel Natale dello stesso Turandot di Carlo Gozzi, rappresentata per la prima anno i librettisti sottoposero il primo atto a Puccini, volta a Venezia nel 1761 al teatro di San Samuele con ma l’iniziale giudizio fu negativo. Dopo alcune modila compagnia di Antonio Sacchi, affascinò subito il fiche, in cui si diminuirono molte cineserie, Puccini lo compositore per il carattere orientaleggiante che approvò ed iniziò a strumentarlo. Nel 1921, a distanavrebbe potuto aprire più ampi e sfaccettati orizzon- za di un anno, il primo atto fu completato. Ben più ti. Puccini iniziò immediatamente a documentarsi, faticosi, invece, furono gli altri due atti per i quali il leggendo la versione in italiano del poeta Andrea Maestro fu spesso sul punto di abbandonare la comMaffei - noto come librettista di Verdi - basata sulla tra- posizione. L’11 dicembre 1922 amaramente scriveva duzione in tedesco di Schiller. Puccini visionò anche ad Adami: «di Turandot niente di buono. Comincio a riproduzioni sceniche e figurini di Max Reinhardt, il impensierirmi della mia pigrizia! Che io sia saturo di Cina quale poco prima aveva curato la messa in scena della per aver fatto il primo e quasi il 2° atto? Il fatto sta che non fiaba in Germania. Sull’argomento Puccini scrisse con entu- riesco ad attecchire niente di buono. Sono anche vecchio! siasmo a Simoni: «…in Reinhardt, Turandot era una donnina Questo è sicuro…. A Milano deciderò qualcosa. Forse piccola piccola; attorniata da uomini di donnina viperina e con un restituisco i soldi a Ricordi e mi liberi». cuore strano di isterica. Insomma io ritengo che Turandot sia il I primi mesi del 1923 furono ancora molto difficili, pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni di ma in primavera il compositore, rinfrancato nello spiGozzi. In fine: una Turandot attraverso il cervello moderno, il tuo, rito e con nuovo entusiasmo, si dedicò a strutturare e musicare il secondo atto. Nel gennaio 1924 Puccini d’Adami e il mio». annunciò ad Adami l’inizio dell’orchestrazione del Difficoltà dietro l’angolo terzo atto. In aprile finalmente la composizione della L’entusiasmo però era destinato ad essere frenato Turandot era a buon punto ed il compositore né diede dall’effettiva difficoltà di ridurre la fiaba. ancora notizia ad Adami: «Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più». Triste presagio L’autunno di quello stesso anno - 1924 - fu caratterizzato dall’incontro a Salsomaggiore e dalla riappacificazione con Arturo Toscanini, dopo lo screzio sorto a causa di una incomprensione, quando in aprile il direttore diede l’ordine di non ammetterlo alla prova generale della prima esecuzione postuma del Nerone di Boito al Teatro Alla Scala. Pochi giorni dopo i due si incontrano a Milano e Puccini fece ascoltare all’amico ritrovato il terzo atto di Turandot, fino al punto in cui Liù sacrifica la propria vita. Ad esecuzione terminata Puccini disse a Toscanini la frase che egli avrebbe dovuto pronunziare davanti al pubblico se lui fosse stato nell’impossibilità di concludere l’opera: «E qui, signori, il maestro è morto». Presagio sinistro. Il male alla gola, manifestatosi già da parecchi mesi, iniziò ad aumentare ed in ottobre Puccini si era recato a Firenze per essere visitato. La diagnosi atroce fu cancro alla gola. Come ultimo tentativo fu consigliata una cura presso una clinica specializzata in Belgio e Puccini si recò a Bruxelles per essere ricoverato. La sera del 28 novembre sopraggiunse una crisi cardiaca. Puccini lottò per la vita l’intera notte e il mattino successivo. Il 29 novembre 1924 verso mezzogiorno il cuore del maestro cessò di battere. Turandot, come il suo stesso creatore aveva funestamente previsto, era rimasta incompleta. Un finale postumo Gli editori di casa Ricordi, Clausetti e Valcarenghi, decisero allora di farla terminare dal musicista Franco Alfano. Questi pensò di utilizzare le trentasei pagine di abbozzi lasciati dal Maestro per il duetto e, nelle parti in cui gli schizzi non erano di aiuto, i temi precedentemente usati dal compositore all’interno dell’opera. Il lavoro, così completato, era pronto per andare in scena. Alla vigilia la recita rischiò, però, di essere annullata per un increscioso incidente diplomatico. Mussolini, in quei giorni a Milano, fu invitato alla “prima” dalla direzione della Scala. Il Duce impose come condizione che durante la serata fosse eseguito l’inno fascista in suo onore, dal momento che Toscanini nel 1923 si era rifiutato di eseguirlo davanti ad un gruppo di Camicie Nere. Ancora una volta Toscanini si oppose ed il Duce non prese parte alla “prima”. Il 25 aprile del 1926, dinanzi al commosso pubblico della Scala, la Turandot andò in scena. Il cast composto da Rosa Raisa nel ruolo di Turandot, Maria Bamboli in quello di Liù e Miguel Fleta in quello di Calaf, utilizzo le scene di Galileo Chini. Dopo la morte di Liù, Toscanini – come è noto - seguì la volontà di Puccini: interrompendo la musica e voltandosi verso il pubblico, con voce velata, disse: «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’arte». e poi: “viva Puccini!”. Subito scrosciarono gli applausi, mentre il sipario calava. Dalla sera successiva le recite proseguirono con il finale realizzato da Alfano. C.C. Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 7 Le origini dell’opera Turandot, dalla favola di Gozzi all’opera di Puccini L a prima della Turandot pucciniana risale al 25 aprile 1926. Siamo a Milano, al Teatro alla Scala, l’autore è morto da quasi due anni senza riuscire a terminare l’opera; altri porteranno a compimento la sua ultima fatica. Ma come è arrivata in Europa la storia della gelida principessa di Cina che ha affascinato Puccini? I suoi natali sul continente risalgono al veneziano Carlo Gozzi (1720-1806). Figlio di un’aristocratica famiglia in gravi difficoltà economiche fu il fondatore, insieme con il fratello Gasparo, di una delle istituzioni più conservatrici del Settecento italiano: l’Accademia dei Granelleschi di Venezia. Le sue posizioni conservatrici lo videro contrapporsi al pensiero illuminista e alle scelte artistiche dei contemporanei Goldoni e Chiari, innovatori importanti della Commedia dell’Arte e spesso portatori sulla scena anche di argomenti realistici d’ambientazione popolare e borghese. Nel 1762 Gozzi scrisse la favola teatrale di Turandot traendone l’argomento fiabesco dal ciclo persiano delle Mille e una notte e più precisamente da La storia del principe Calaf e della principessa di Cina. In questa prima trasposizione occidentale, coerentemente all’epoca storica in cui essa è prodotta, troviamo accanto ai personaggi principali anche la presenza delle più importanti maschere italiane: Tartaglia, Pantalone e Truffaldino. Il lavoro gozziano è un continuo alternarsi di passione e gioco sospesi fra realtà e irrealtà, atmosfera quotidiana e fantasia esotica. Probabilmente le maschere avevano il compito di creare un legame tra il pubblico veneziano e l’Oriente fittizio rappresentato sulla scena. Saranno proprio quelle Puccini nel 1923 in una delle ultime immagini atmosfere esotiche, evocatrici di mondi lontani, ad affascinare Puccini. Nel passaggio dalla favola all’opera il compositore fu però chiamato a risolvere più di un problema. Ad esempio, la presenza delle maschere, nel momento storico in cui compone Puccini, ha perso la sua valenza. Vanno quindi trasformate nel contrario di ciò che rappresentavano per Gozzi: non un ponte tra Occidente e Oriente ma un elemento propriamente cinese. Nascono così i tre dignitari di corte, dal nome un po’ faceto Ping, Pong, Pang, modellati sul genere dei fools shakesperiani, che assolvono alla funzione di commento ironico e disincantato, a volte cinico, della realtà che li circonda. Inoltre perché l’intera struttura reggesse, Puccini fu costretto a concentrarsi sulle linee essenziali della vicenda e a trascurare gli intrecci secondari della fiaba. La crudeltà di Turandot dovette quindi essere spiegata e riequilibrata. Fu necessario trasformare la Principessa da esecutrice tragica di un destino di vendetta, (quello che si rifà alla violenza subita dalla sua antenata Lo-uling), in un personaggio capace di esprimere un sentimento psicologicamente più sfaccettato, come quello della paura del maschio dominatore. Turandot non è infatti la vittima di un trauma ancestrale, da lei usato come pretesto, bensì una donna che vuole fare di se stessa un monumento di virtù. Fuggire l’uomo vuol dire conservare la purezza. Ignorare il sesso, la cui conoscenza porta alla perdita dell’innocenza, è certamente un metodo tra i più efficaci per evitare il confronto con l’umanità maschile. In virtù di una simile necessità Puccini e i suoi librettisti Carlo Gozzi introdussero il personaggio della sciava Liù che funziona da elemento patetico e permette, con il suo suicidio d’amore, lo “sgelamento” di Turandot. La soluzione degli enigmi da parte di Calaf e la morte della schiava fanno così convergere l’apparato simbolico della vicenda verso l’inevitabile discesa dell’algida principessa al livello degli uomini e verso il consueto lieto fine, per quanto amaro, delle favole. L’umanizzazione di Turandot è compiuta. E’ pur vero che Puccini morì subito dopo aver scritto il suicidio di Liù e che il trionfante finale con la principessa innamorata è opera di Alfano. In sordina possiamo legittimamente domandarci se il Maestro, avendone avuta la possibilità, avrebbe scelto lo stesso epilogo. Maria Elena Latini Le Opere di Giacomo Puccini e le loro prime esecuzioni Le Villi (31.5.1884 Teatro dal Verme, Milano) Le Villi [rev] (26.12.1884 Teatro Regio, Torino) Edgar (21.4.1889 Teatro alla Scala, Milano) Edgar [rev] (28.2.1892 Teatro Communale, Ferrara) Manon Lescaut (1.2.1893 Teatro Regio, Torino) La Bohème (1.2.1896 Teatro Regio, Torino) Tosca (14.1.1900 Teatro Costanzi, Roma) Madama Butterfly (17.2.1904 Teatro alla Scala, Milano) Madama Butterfly [rev] (28.5.1904 Teatro Grande, Brescia) Edgar [rev 2] (8.7.1905 Teatro Colón, Buenos Aires) Madama Butterfly [rev 2] (10.7.1905 Covent Garden, Londra) Madama Butterfly [rev 3] (28.12.1905 Opéra Comique, Parigi) La Fanciulla del West (10.12.1910 Metropolitan Opera, New York) La Rondine (27.3.1917 Opéra, Monte Carlo) Il Trittico: (Il tabarro - Suor Angelica - Gianni Schicchi) (14.12.1918 Metropolitan Opera, New York) Turandot (25.4.1926 Teatro alla Scala, Milano) Turandot 8 Il Giornale dei Grandi Eventi Tra gli antichi ruderi si legge ancora la sua passata gra Le Terme di Caracalla, lo stabilimento termale più C on gli imponenti ruderi che sfiorano anche i trenta metri e conservano perfettamente la struttura originale scevri da rimaneggiamenti di epoche successive, le Terme di Caracalla costituiscono uno dei più grandi complessi termali dell’antichità, secondo per dimensioni solo allo stabilimento di Diocleziano - di circa un secolo posteriore - e forse a nessun altro per il fasto delle sue decorazioni, oggi purtroppo in parte perdute o disperse. Furono fatte costruire interamente dall’Imperatore a partire dal 212 d.C., in un quartiere periferico nella parte meridionale della Città, abbellita dai Severi con la via Nova tracciata in direzione delle nuove Terme a partire dal Septizodium, un grandioso ninfeo a più piani, simile alla scena di un teatro ellenistico, innalzato sulle pendici sud-occidentali del Palatino come monumentale quinta all’inizio della Via Appia. L’approvvigionamento idrico era assicurato da un ramo speciale dell’acquedotto dell’Aqua Marcia, chiamato Aqua Nova Antoniniana, che, oltrepas- sava la Via Appia sul cosiddetto “Arco di Druso”, poco prima della Porta San Sebastiano. Novemila operai per più di cinque anni lavorarono per sbancare le pendici dell’Aventino e realizzare un’enorme piattaforma quadrangolare di più di 300 metri di lato – che obliterò una ricca domus d’età adrianea con pavimenti a mosaico e affreschi di II stile alle pareti - sulla quale costruire, sopra i sotterranei per i magazzini, servizi ed impianti, il grande corpo centrale in opera cementizia con rivestimento di mattoni. Il cantiere si prolungò fin dopo la morte di Caracalla (217 d.C.), quando gli ultimi imperatori della dinastia, Elagabalo e Alessandro Severo, completarono il recinto esterno. Comprese da Aureliano all’interno delle mura e restaurate anche da Diocleziano, Costantino – un’iscrizione ce lo conferma - e Teodorico, le Terme funzionarono fino al 537 d.C. quando Vitige, re degli Goti, durante l’assedio di Roma, tagliò gli acquedotti al fine di prendere la città per sete. Da quel momento il complesso fu abbando- Ricostruzione del Frigidarium delle Terme di Caracalla nato perché troppo esposto ad attacchi esterni e lontano dal centro cittadino dove si andavano concentrando gli abitanti per paura degli invasori, divenendo cimitero per i pellegrini ammalati e ricoverati nel vicino Xenodochium dei Santi Nereo e Achilleo. Nel Medioevo le Terme diventarono una preziosa cava di materiali da costruzione e per un riuso di prestigio: capitelli figurati troviamo reimpiegati nel duomo di Pisa e nella chiesa di Santa Maria in Trastevere a Roma. Gli scavi del Cinquecento per volere di Paolo III Farnese riportarono in luce statue e gruppi scultorei colossali, perlopiù copie di originali ellenistici, che finirono nelle grandi collezioni di antichità del tempo, come quella Farnese, oggi ammirabile al M u s e o Archeologico Nazionale di Napoli: basti citare il celebre Toro Farnese, una “montagna di marmo” con il supplizio di Dirce che celava un sofisticato impianto idraulico per rendere ancora più realistica l’ambientazione pastorale dell’episodio, la Flora e l’Eracle in riposo, riferibile ad un capolavoro bronzeo di Lisippo, che faceva pendant con l’Ercole Latino, ora nella Reggia di Caserta, a testimoniare l’attaccamento dei Severi a questa divinità riecheggiata anche in uno dei capitelli del Frigidarium. Ma anche i centri storici delle città italiane si arricchirono di arredi provenienti dalle Terme: nel salotto buono di Firenze, in piazza Santa Trinità, si erge – dal 1563 per volere di Cosimo I de’ Medici una delle altissime colonne di granito che decoravano la Natatio, mentre le Mitreo, precisando le piante dei diversi ambienti. Eccezionali ritrovamenti sono avvenuti anche in anni recenti come la statua di Artemide esposta dal 1997 nell’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano. La vita alla Terme due splendide vasche pure di granito grigio del Frigidarium furono riutilizzate dal Rainaldi come fontane in piazza Farnese a Roma. Alla prima metà dell’Ottocento risalgono la scoperta nella palestra ed il distacco dei mosaici con atleti e giudici di gara, oggi ricomposti nel loro assetto originario in Vaticano presso il Museo Gregoriano Profano. Da allora continue campagne di scavo, hanno contribuito alla conoscenza del monumento, rivelando gli ambienti sotterranei ed il Le Terme erano aperte all’intera popolazione (comprese donne, liberti e schiavi, sebbene in orari e settori distinti) di giorno e talvolta anche alla luce delle fiaccole. Pur nel chiasso che derivava dalla frequentazione giornaliera di più di 9000 persone, andare alle Terme significava ritemprare il corpo e contemporaneamente divertirsi negli ambienti sontuosamente decorati (di marmi colorati, stucchi, mosaici e sculture) che regalavano alla gente comune l’impressione di trovarsi in una lussuosa residenza imperiale. L’entrata odierna corrisponde all’ingresso centrale di destra e consiglia un percorso pressoché uguale a quello previsto in antico, che immetteva nel quartiere degli spogliatoi (Apodyterium, dove per pochi soldi si potevano lasciare i vestiti e ricevere un asciugamano. Da qui si passava direttamente alla Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 9 Luoghi nascosti e purtroppo non visitabili andezza ù bello dell’antichità I Sotterranei ed il Mitreo palestra per riscaldarsi con esercizi sportivi e giochi nel grande cortile scoperto, dal bel pavimento a mosaico policromo con motivo a dischi e girali vegetali all’intorno e squame al centro, delimitato su tre lati da un portico di colonne in giallo antico, coperto a volta, mentre sull’altro lato si aprivano cinque ambienti, di cui il centrale absidato, per attività ginniche indoor. Uscendo dalla palestra l’utente poteva ammirare nel grande emiciclo le realistiche immagini dei gladiatori e degli atleti più famosi dell’epoca immortalati in un tappeto musivo oggi ricomposto ai Musei Vaticani. Da li ci si poteva recare per la sauna al Laconicum (una sorta di bagno turco a pianta ellissoidale) od entrare, attraverso passaggi stretti e obliqui per evitare la dispersione del calore, nel Caldarium, la grande sala circolare del diametro di 34 metri, coperta da una cupola di poco inferiore a quella del Pantheon. La riscaldava un potente impianto a hypocaustum (con aria calda insufflata sotto il pavimento attraverso le suspensurae), bracieri in bronzo ma anche il calore del sole che fino al tramonto entrava dalle immense finestre ad arco. Il Caldarium era collegato al Tepidarium, una pic- cola sala quadrata con due vasche ai lati, la quale, come prescritto dalla medicina, consentiva al corpo di adattarsi gradualmente alla escursione termica del Frigidarium. Questo, era costituito dalla sala più fresca e grandiosa delle Terme, con i suoi 58 metri di lunghezza per 24 di larghezza, la cui complessa architettura fu anche ammirata e ripresa da Giuliano da Sangallo e dal Palladio, che vi si ispirò nelle sue chiese veneziane, ricostruita da Viollet Le Duc, e riproposta nelle magniloquenti stazioni ferroviarie delle metropoli americane. Completata da due ambienti laterali, comunicanti con le palestre, in cui si trovavano probabilmente le due vasche di piazza Farnese, la basilica era coperta da una maestosa volta a triplice crociera sostenuta da otto pilastri fronteggiati in origine da altrettante colonne di granito dai capitelli mirabilmente intagliati nel marmo bianco con figure e simboli divini in gran parte conservati. Colonne di granito, di cui l’unica superstite fu portata a Firenze, movimentavano, insieme a gruppi scultorei entro nicchie ed ai mosaici che dovevano creare un effetto iridescente riflettendosi nell’acqua, le facciate interne della Natatio, una rettangolare piscina a cielo aperto profonda circa un metro, cui sia accedeva scendendo una scalea dal Frigidarium. Si poteva così concludere degnamente la giornata alle terme con una nuotata distensiva e un bagno di sole nelle terrazze sopra le palestre, decorate dagli splendidi mosaici con Thiasos marino animato da Nereidi, tritoni, delfini e mostri acquatici cavalcati da eroti che ancora oggi possiamo apprezzare. Marina Piranomonte Soprintendenza Archeologica di Roma Direttrice complesso Terme di Caracalla U n percorso affascinante per comprendere il funzionamento della complessa macchina delle Terme è la discesa nei sotterranei, una rete vasta ed articolata di ambienti di servizio che la Soprintendenza sta recuperando. Un dedalo di grandi gallerie selciate, larghe ed alte più di 6 metri e foderate in laterizio, consentiva il transito dei carri con i carichi di legname verso gli enormi depositi, precauzionalmente ventilati, con una capacità tale da rendere autosufficienti per alcuni mesi i forni e le caldaie dell’impianto di riscaldamento che consumavano 10 tonnellate di legna al giorno. Nelle strutture di costruzione trovava posto anche il sistema idraulico. La luce e l’aria che penetravano in questi spazi da lucernari, consentivano la frequentazione da parte degli addetti alle varie funzioni, non ultima quella della macinatura del grano nel coevo mulino ad acqua scoperto durante gli sterri degli inizi del Novecento al pari del Mitreo, il maggiore di Roma. Il santuario dedicato al culto di Mitra, antica divinità solare di origine persiana venerata soprattutto dagli eserciti come salvifica, è formato da una serie di cinque ambienti introdotti da soglie in travertino. La caratteristica più interessante del santuario per la sua unicità è la fossa posta al centro della stanza, collegata attraverso una scaletta e uno stretto corridoio alla sacrestia al di là della nicchia di fondo, Il Mitreo con la fossa sanguinis che doveva accogliere la solita immagine del dio tauroctono. Era destinata forse a un’apparizione spettacolare dalla botola o più probabilmente al sacrificio del toro che veniva ucciso su una grata in ferro posta sopra la buca, dentro la quale si trovava, vestito con una toga candida, l’iniziato, pronto a ricevere il rigenerante bagno di sangue dell’animale. Tale interpretazione ben si collega alla religiosità di Caracalla, “padre degli eserciti”, e della sua famiglia volta a un sincretismo che accomunava divinità classiche e orientali in un unico culto. Mar. Pir. DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA di Giosue Carducci Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino le nubi: il vento dal pian tristo move umido: in fondo stanno i monti albani bianchi di neve. Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti e de le madri le protese braccia te deprecanti, o dea, dal reclinato capo de i figli : A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo. se ti fu cara su 'l Palazio eccelso l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro l'evandrio colle, e veleggiando a sera tra 'l Campidoglio Continui, densi, neri, crocidanti versansi i corvi come fluttuando contro i due muri ch'a più ardua sfida levansi enormi . e l'Aventino il reduce quirite guardava in alto la città quadrata dal sole arrisa, e mormorava un lento saturnio carme); «Vecchi giganti, - par che insista irato l'augure stormo - a che tentate il cielo? » Grave per l'aure vien da Laterano suon di campane. Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli quinci respingi e lor picciole cose : religïoso è questo orror : la dea Roma qui dorme. Ed un ciociaro, nel mantello avvolto, grave fischiando tra la folta barba, passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco, nume presente. Poggiata il capo al Palatino augusto, tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia, per la Capena i forti omeri stende a l'Appia via. 14 e 24 Aprile 1877 - Dalle “Odi Barbare” – Libro Primo, IV Turandot 10 Il Giornale dei Grandi Eventi Le invettive del Maestro sulle speculazioni milanesi E Mascagni disse: «Lasciate Turandot com’è!» “P iango la perdita del caro Giacomo, che amai con affetto di fratello, con ammirazione di discepolo. Accolgano il conforto del rimpianto universale per l’uomo dalla sua opera fatto immortale”. Così il 29 novembre 1924 da Vienna, dove si trovava per una serie di concerti, Mascagni scriveva ad Elvira Puccini. Poche ore prima a Bruxelles l’amico Giacomo si era spento, distrutto dal tumore alla gola. La morte del grande collega e amico con il quale aveva in gioventù condiviso sogni e sofferenze, scosse profondamente il compositore livornese, il quale nelle lettere di quel periodo si espresse con forti accenti polemici. Vale la pena leggere ad esempio quella inviata il 4 dicembre alla figlia Emy: «…non so dirti quale colpo sia stato per me l’annunzio improvviso della morte di Puccini. Avevo notizie abbastanza buone: ero tranquillo il giorno; prima avevo avuto tali notizie favorevoli, che con vera commozione avevo telegrafato all’Ambasciatore d’Italia a Bruxelles pregandolo di portare all’amico carissimo il mio saluto ed augurio. E invece..... E quale morte terribile, povero Giacomo! Io sono ancora molto impressionato e non riesco a rimettermi. Non posso crederci ancora. E sono anche molto addolorato ed avvilito che quei bottegaî dei Milanesi hanno già iniziato una speculazione su Puccini. Mentre la famiglia voleva che la salma andasse a Lucca, i bravi (?) milanesi l’hanno voluta a Milano.... e Toscanini ha messo a disposizione la tomba della propria famiglia.... Sono cose che fanno male.... Ed intanto si sta già preparando la speculazione sull’opera postuma. Prima con Boito, ora con Puccini!... Ho avuto molto dispiacere nell’apprendere, da un telegramma dell’Avv. Belli, che lo stesso Belli, unitamente a Gasco, abbiano affacciato l’idea di far ter- minare a me la Turandot. Meno male che, in una intervista che ebbi qui col corrispondente della “Tribuna”, espressi già il mio pensiero in proposito. Peccato che la “Tribuna” non l’abbia riportato esattamente, ma in ogni modo si capisce che io ho detto che l’opera deve essere eseguita così come si trova, anche se incompiuta: non si deve ripetere lo sconcio commesso col Nerone (l’opera che Boito lasciò incompiuta e che fu portata a termine da Tommasini e Smareglia sotto la supervisione di Toscanini, n.d.r.), tanto più che, per Puccini, sarebbe ancora una profanazione, perché Puccini è stato un vero e grandissimo musicista e non uno stitico che aspettava sempre l’aiuto e l’elemosina di qualcuno, e che in vita non la trovò.... e l’ha trovata dopo morto....». La morte di Liù è già un finale Mascagni, dunque, riteneva che Turandot dovesse rimanere Puccini e Mascagni ai funerali di Ruggero Leoncavallo come l’aveva lasciata Puccini. Una scelta dettata in lui dal rispetto nei confronti dell’amico, ma suggerita anche da considerazioni di tipo drammaturgico: la morte di Liù è già di per sé un “finale”, lascia la storia fra Calaf e Turandot sospesa, ma chiude coerentemente l’opera. Ma a proposito di Mascagni, può essere interessante riportare ancora la seguente lettera inviata il 22 dicembre alla figlia: «…io sono veramente sorpreso di tutta la speculazione che in Italia si fa sopra la sventura: la morte di Puccini ha svegliato nuove cupidigie e nuovissime ambizioni: la città di Milano vuole avere il monopolio delle salme degli uomini illustri. Hai letto il discorso del Sindaco Mangiagalli sul feretro di Puccini?... Non si può andare più in là in materia di speculazione e di réclame: ha detto che Verdi morì e fu sepolto in Milano; e, dopo Verdi, Boito morì e fu sepolto in Milano; ed oggi, per quanto Puccini sia morto all’estero, Milano ha la gloria di avere la sua salma.... Alla larga di questi necrofori jettatori! Mi aspettavo che continuasse, con l’augurio (?) di avere in Milano tutti i morti illustri, anche se la loro morte avviene lontana dalla..... necropoli lombarda..... Da Roma, il Marchese Monaldi mi perseguita con lettere e telegrammi per avere da me una prefazione al libro che egli scrisse sopra Puccini, e del quale sta preparando la seconda edizione, in occasione della morte del Maestro. Insomma, si specula in modo indegno; e non si capisce che io non intendo di prestarmi a questo basso giuoco. E non rispondo neppure: sono nauseato! [...]». Roberto Iovino Franco Alfano, autore del finale postumo Storia di un compositore incompreso F ranco Alfano visse in un momento storico dominato dalla confusione - si pensi ai due conflitti mondiali - che non lasciò molto spazio alle sue aspirazioni di operista, ostacolate dalla difficoltà di trovare libretti corposi, con intrecci affascinanti e coinvolgenti. Il compositore nasce a Napoli l’ 8 Marzo 1875. Studia al Conservatorio S. Pietro a Maiella e si perfeziona poi in composizione a Lipsia. Nel 1896, alla ricerca di un ambiente culturalmente più stimolante, si trasferisce a Berlino dove la vita musicale si nutre di interessanti scoperte stilistiche. Nel 1899 è a Parigi per mettere in scena due balletti presso le «Folies Bergères» e dove comincia a scrivere l’opera Resurrezione, portata poi a termine tra Mosca e Napoli. Gli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, dopo la morte di Wagner nel 1883, musicalmente erano stati espressione di un forte scossone stilistico di cui Alfano è testimone. Egli, insieme con la sua generazione, sentì la necessità di un rinnovamento nel campo del teatro lirico ormai da tempo sclerotizzato, nonché l’esigenza di spaziare anche nel mondo della musica sinfonico-strumentale. Resurrezione, il suo più valido successo, è un lavoro che rivela una grande vena teatrale oltre ad una naturale forza di linguaggio, entrambe preferite all’uso di melodie facilmente memorizzabili. Le pagine della sua musica risultano quindi molto dense sinfonicamente e spesso di difficile comprensione. Il principe Zilah, sua seconda opera, è un esempio di tale difficoltà d’ascolto. Si tratta di un lavoro interessante dal punto di vista musicale, affiancato però da un libretto mediocre. Nonostante gli insuccessi, Alfano continuò a lavorare freneticamente fra le due guerre. Ragguardevole la sua produzione di musica da camera: sonate per violino e Franco Alfano per violoncello e il Quartetto n° 2, ricco di contenuti poetici e di sonorità dolci e mediterranee. La sua opera maggiore è La Leggenda di Sakùntala, di cui scrive personalmente il libretto, in prosa e non in versi, tratta dal dramma di Kalidasa: Abhijnanasakuntala risalente al 400 a.C. circa. . L’azione, ambientata nell’India primordiale. Testo e musica sono nell’opera fortemente compenetrati e l’orchestrazione raggiunge uno sfarzo lussureggiante. La prima rappre- sentazione è al Teatro Comunale di Bologna, il 10 dicembre del 1921, ma la partitura originale andò distrutta durante la seconda Guerra mondiale. Sarà Alfano stesso a strumentarla nuovamente, sulla base della riduzione per canto e pianoforte, riproponendola nel 1952 al Teatro dell’Opera di Roma. Intraprende anche la carriera di insegnante: docente di composizione e direttore del Conservatorio di Bologna tra il 1916 e il 1923, diventerà poi direttore del Liceo Musicale di Torino, carica che manterrà fino al 1939. Tra le tappe più importanti della sua vita c’è, paradossalmente, proprio l’incontro con un grande libretto di cui è chiamato a musicare il finale. Nel 1925 infatti, su richiesta di Toscanini, la famiglia Puccini e l’editore Ricordi lo invitano a terminare la Turandot, capolavoro incompiuto di Puccini, morto l’anno precedente. Si tratta di un lavoro delicato: musicologi e musicisti hanno gli occhi puntati sul risultato. A questa parentesi seguono, tra il 1940 e il 1942, la Sovrintendenza al Teatro Massimo di Palermo e la cattedra di Studi per il teatro lirico al Conservatorio di Roma. Ultimo incarico della carriera didattica è la direzione del Liceo Musicale di Pesaro dal 1947 al 1950. Il suo ultimo lavoro è il Cyrano de Bergerac del 1936. Critica e pubblico ne apprezzano la ritrovata sobrietà dell’orchestra. Franco Alfano muore a San Remo, quasi dimenticato, il 27 Ottobre 1957. Ma. E. La. Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 11 Le due versioni del finale postumo dell’opera L’ingrato compito di Alfano: finire Turandot L a sera del 25 aprile 1926 va in scena al Teatro alla Scala di Milano la prima rappresentazione assoluta di Turandot di Giacomo Puccini. Appena conclusa la scena dello straziante corteo funebre per Liù, la musica si interrompe e Arturo Toscanini, dal podio, con una voce resa incerta dall’emozione, si rivolge al pubblico trepidante: «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’arte». Dopo qualche istante di stupore, gli spettatori prorompono in fragorosi applausi, gridando «Viva Puccini!». Toscanini aveva deciso per la “prima”- come volontà espressagli da Puccini - di onorare in questo modo la memoria del compositore, terminando l’esecuzione nel punto esatto in cui la mano del “Lucchese” si era fermata. (Il compositore era morto in seguito a complicazioni post-operatorie nel 1924 a Bruxelles, dove si era recato per curare un cancro all’esofago). Peraltro, lo stesso Toscanini era stato, insieme ai parenti del musicista e alla Casa Ricordi, fra coloro che avevano fortemente voluto che Turandot venisse completata da un altro compositore. Infatti, sebbene nella musica strumentale un lavoro incompiuto possa esercitare un indiscutibile fascino e mantenere comunque inalterato il suo impatto comunicativo, nel teatro musicale, soprattutto a partire da quello tardo ottocentesco, una grave mutilazione Secondo Teodoro Celli, invece, il compositore avrebbe voluto ritornare al tema inserito nel concertato finale del primo atto, che sembra già ispirato al tema del mare nel Tristano. Delle 375 battute scritte da Alfano, appena 97 sono quelle originali di Puccini, desunte dalla sua bozza, e precisamente: l’inizio del duetto Principessa di gelo fino all’aria Del primo pianto, di cui il materiale tematico era solo La scelta cadde accennato. Gli su Alfano stessi cenni s o m m a r i Fu invece il riguardavano il compositore tema degli ottonapoletano ni che introduFranco Alfano, cono il secondo allora cinquan- Manifesto di Turandot di Leopoldo Metlicovitz quadro e la tenne, che, seppure dopo molte per- va operare, 36 fogli ripresa del tema del plessità, accettò il gra- pentagrammati conte- Nessun dorma nel coro voso compito, che pure nenti gli appunti per il finale. gli avrebbe dato quella finale di Turandot, a cui Le due versioni duratura fama che le contava di lavorare sue altre opere, come durante la convalescen- Il lavoro di Alfano fu Resurrezione (1904) o La za. Quando Alfano li completato e consegnaleggenda di Sakuntala prese in esame, si trovò to nel gennaio 1926 e (1921), non sarebbero di fronte un materiale Ricordi ne stampò uno confuso, pieno di can- spartito per canto e piariuscite a procurargli. Compositore di rilievo, cellature, tagli e som- noforte. Questa edizioartista esuberante ed marie, quasi incom- ne rappresenta una entusiasta, Alfano si prensibili, annotazioni vera rarità, di cui esiera formato sulle orme come «qui trovare la stono solo 12 copie in di Puccini, del quale melodia tipica vaga tutto il mondo. Infatti era anche divenuto insolita» oppure «Poi venne ben presto ritiraamico personale. Era Tristano…». ta dal mercato: Toscaanch’egli un composi- Quest’ultima frase è nini la rifiutò con la tore legato alla Casa stata variamente inter- motivazione che in essa secondo vi fosse «troppo Alfano e Ricordi e si era affer- pretata: mato con discreto suc- Mosco Carner, grande poco Puccini». cesso qualche anno biografo di Puccini, Le discussioni e i maluprima con l’opera La egli avrebbe voluto mori non mancarono, Leggenda di Sakuntala, inserire in quel punto ma alla fine la volontà anch’essa di ambienta- un intermezzo orche- dello scorbutico ed zione orientale, che tut- strale, che avrebbe inflessibile direttore tavia il pubblico stava rievocato la magica d’orchestra prevalse e già dimenticando. I atmosfera dell’opera 107 battute di Alfano nel vennero tagliate impiecommittenti del lavoro wagneriana pensarono che l’india- momento del bacio di tosamente, conducenna Sakuntala sarebbe Calaf. do alla stesura di una come la mancanza del finale poteva mettere in seria discussione la fruibilità di un’intera opera. Lasciare in sospeso il corso dell’azione di Turandot, avrebbe, però, fatto traballare le colonne portanti dell’intera struttura musicale e drammatica dell’opera. I primi compositori che vennero contattati furono Riccardo Zandonai e Pietro Mascagni, i quali però declinarono l’offerta. potuta efficacemente diventare sorella della cinese Turandot. Puccini aveva portato con sé, nella clinica di Bruxelles dove si dove- seconda versione della partitura. Le parti tagliate non erano state scritte a caso da Alfano ed erano funzionali a rendere con gradualità e penetranza psicologica il progressivo mutamento interiore di Turandot, come per i fondamentali momenti successivi al bacio di Calaf o alla rivelazione del nome del principe. Toscanini, tuttavia, da grande conoscitore della vocalità, era anche consapevole che l’impegno richiesto ai cantanti nell’esecuzione della prima versione sarebbe stato eccessivo. Fu questa, probabilmente, la motivazione della sua impuntatura. La prima versione di Alfano fu riesumata solo nel 1982, in forma d’oratorio, alla Barbican Hall di Londra, dopo il ritrovamento della partitura negli archivi Ricordi e da allora è stata ripresa in diverse occasioni, l’ultima delle quali al Teatro del Giglio di Lucca, nel 2003. Alfano ebbe la sfortuna di nascere in un momento di crisi del melodramma, dove, per giunta, giganteggiava la figura di Puccini. Il suo carattere sanguigno e indipendente non gli consentiva di inseguire i gusti del pubblico ed egli cercò pertanto di imporre una sua idea di teatro musicale. Morì quasi dimenticato dalla critica, ricordato solo per il suo lavoro di completamento di Turandot, che, pur essendo stato compiuto con scrupolo e sensibilità, venne bistrattato da direttori d’orchestra e critici musicali. A. C. 12 Turandot Il Giornale dei Grandi Eventi Il reliquiario pucciniano: la vi Nell'antica torre di guardia n un vero colpo al cuore visitare la Villa Puccini di Torre del Lago, il luogo dove furono scritte diverse opere come Manon Lescaut, lavoro che diede finalmente il successo al compositore lucchese, ma anche La Bohème, Tosca, Madama Butterfly, La Fanciulla del West, La Rondine e Il Trittico ed in parte Turandot. Probabilmente è una delle case-museo meglio tanto più perché incontaminato dall'arroganza di quegli zelanti museologi abilissimi nello spersonalizzare qualsiasi antichità. Il figlio di Puccini, Antonio, e poi la nipote, Simonetta, si sono occupati per una vita di ricomporre e dedicare esclusivamente alla memoria del musicista, questo "Sancta Sanctorum". Entrando nel salotto, ancora immutato a distanza di oltre ottan- conservate in Italia sicuramente una tra le più dense di vibrazioni che testimonia, con un'immediatezza impressionante, la personalità del geniale compositore e il gusto della sua epoca. Le case-museo dei grandi artisti sono talvolta deludenti, ridotte magari come il famoso «coltello di Napoleone», del quale si diceva che la lama fosse stata cambiata perché rotta e il manico sostituito con uno nuovo, perché tarlato. Villa Puccini è invece carica, sovraccarica di ricordi personalissimi, di oggetti che spaziano dalle decorazioni, rutilanti di smalti, conferite al Maestro, fino ai ruvidi e screpolati stivaloni da caccia, che era solito indossare durante le battute. E' un luogo magico, t’anni, è facile immaginare Giacomo Puccini, seduto al pianoforte illuminato dai candelieri, mentre lavora sul pentagramma fumando innumerevoli sigarette, come in quella fotografia abusata come souvenir dai diversi negozi del piccolo borgo. Alle pareti, sotto gli eleganti festoni déco, pendono alcuni eccellenti ritratti del padrone di casa, che mostrano un placido e malinconico signore di bell'aspetto, dall'atteggiamento disinvolto. Le tappezzerie sono ancora quelle originali, i paralumi, un po' tarlati, gli stessi da cui filtrava la luce che illuminava il notturno lavoro di composizione. Nel caminetto in stile liberty, ricoperto da piastrelle provenienti dalle E' Manifatture di Borgo San Lorenzo, opera di quel Galileo Chini che firmò anche le scene della prima rappresentazione di Turandot, ardeva il fuoco intorno al quale Puccini si riuniva con i numerosi amici, scelti fra pittori, poeti, aristocratici e borghesi vicini di casa, tutti animati dall'amore per il gioco, la caccia, le spettacolari mangiate e la goliardica atmosfera propria dell'amicizia maschile. L'arredamento ospita pezzi di mobilio Tiffany e Bugatti di pregio; tra le suppellettili spicca il prezioso paravento giapponese (donato al compositore dal governo del Sol Levante dopo il trionfo di Butterfly), che fu rubato nel 1994 e fortunatamente ritrovato, sebbene in pezzi, qualche tempo dopo. Accanto ai soprammobili di gusto eclettico, trovano posto le bacheche che conservano lettere di celebri cantanti e direttori d'orchestra. Leggendo quei biglietti di auguri, congratulazioni, resoconti di trionfali prime, si aprono cento finestre sulle vite di tanti altri artisti, eredi di una grandissima e rimpianta tradizione lirica. Le ultime testimonianze In una vetrina, è esposta la maschera mortuaria di Puccini, presa sul letto di morte a Bruxelles, che mostra il suo viso segnato dalla sofferenza, con le narici affilate e le palpebre appena socchiuse. Nel frastuono evocativo di questi oggetti parlanti, il sepolcro di Puccini, posto proprio nella parete alle spalle del pianoforte, è forse la cosa che meno gli appartiene. Il freddo marmo della sua tomba scuote meno degli ultimi fogli da lui scritti sul letto dell'ospedale di Bruxelles, con cui, ridotto al silenzio dall'operazione alla gola, comunicava con parenti e amici che venivano a visitarlo. Dopo la morte del padre, avvenuta il 29 novembre 1924, Antonio Puccini, l'unico figlio del Maestro, fece ricavare una cappella all'interno della villa, dove il 29 novembre 1926, fu trasportata la salma del compositore che per due anni era stata tumulata nella Cappella Toscanini al Cimitero Monumentale di Milano. In seguito, nella piccola cappella della villa, ricavata in un corridoio, vi hanno trovato sepoltura i familiari. Questo piccolo mausoleo bianco, opera di Vincenzo Pilotti, ospita pregevoli sculture di Antonio Maraini. Di Gastronomia: una rice Le “folaghe a Un classico della C ome per i tournedau alla Rossini, così esiste una gustosa ricetta la cui paternità e attribuita al compositore lucchese: “Le folaghe alla Puccini”. Questa preparazione fa parte a pieno titolo delle ricette tradizionali della cucina lucchese, nota per utilizzare alimenti "poveri", trasformati in squisiti manicaretti. La folaga è un palmipede color nero ardesia, dal corpo robusto, capace di nuotare a lungo sott'acqua, che vive in quasi tutti i laghi o le paludi. Al pari della quasi totalità degli animali acquatici, non è tenuta in grande considerazione dai gastronomi; anzi, spesso la sua carne è disprezzata per un certo sapore di pesce, dovuto alla sua dieta, tant'è vero che qualche cacciatore, dopo averla abbattuta al termine di un difficile appostamento, preferisce regalarla. La sua carne, pur non toccando i vertici della prelibatezza, è bianca, delicata, tanto che la Chiesa la di magro. A Capalbio, ra come il grande M prepararle per gli ami di caccia a Torre del L raccomandava di tratt «Per prima cosa le folag ciò si ottiene togliendo lo il grasso adiposo tutto, gambe, che getterete. D Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 13 illa-museo di Torre del Lago nacque il rifugio di Puccini Adolfo De Carolis, sono, invece, la vetrata sopra l'altare ed il mosaico. La passione venatoria e l'amore per la natura Nel giugno 1891, su consiglio dell'amico conte Eugenio Ottolini, Giacomo Puccini prese in affitto sul lago di Massaciuccoli quella che diverrà il nucleo della futura villa: una vecchia torre di guardia con tre semplici ambienti al piano superiore ed una stalla al piano terra. (Era stata costruita quasi un secolo prima come villino di caccia per la sorella di Napoleone Bonaparte, Elisa Baciocchi, principessa di Lucca e Piombino). Da questo momento, Torre del Lago divenne per lui il rifugio ispiratore per gran parte delle sue opere. Con i proventi del successo di Manon e Bohème, tta del Compositore lla Puccini” cucina lucchese annovera tra i cibi , le cucinano ancoMaestro era solito ici dopo le battute Lago. Così Puccini tarle. ghe vanno spellate e oro le penne, la pelle, amputando testa e Dopo averle lavate, mettetele in fusione per almeno 12 ore in acqua al 60%, aceto al 40%, insieme alle erbe odorose. Quando sarà il momento, fatele rosolare in poco olio con un pizzico di sale e pepe. Allorché tutto il liquido spurgato sarà evaporato (la carne dovrà risultare bene abbronzata), aggiungete un battuto fine di cipolla. sedano, carota, prosciutto. Come la cipolla imbiondirà, versatevi dentro la conserva di pomodoro diluita in abbondante acqua tiepida, portando a cottura a fuoco lentissimo…dovrà essere quasi un sobbollire. Quando poi il sugo avrà preso corpo, diverrà denso, vuol dire che ci siamo. Mentre le folaghe verranno gustate quale delizioso secondo piatto, l'intingolo potrete usarlo per saltarci le tagliatelle, spolverando poi con formaggio pecorino stagionato». Alcune fonti tramandano una speciale salsa d’accompagnamento insaporita con filetti d’acciuga, salmone affumicato tritato, uova di pesce, olio e limone. Lav. Fan. Puccini acquistò definitivamente la torre dal proprietario, il conte Grottanelli, e la fece trasformare in un sobrio villino di impianto cubico, simmetrico, dotato dei comfort più moderni per l'epoca, come il telefono e i termosifoni. Il giardino, circondato da palmizi e aiuole arricchite da pietre di forma bizzarra, era all’epoca – oggi vi è un grande piazzale pubblico - direttamente lambito dalle acque del lago; appena fuori del cancello il compositore ormeggiava i barchini con cui compiva le inebrianti scorribande venatorie per le paludi e gli acquitrini. La caccia e il contatto con la natura ebbero sempre per Puccini grandissima importanza e costituivano per lui una sorta di ricarica mentale e spirituale. Ecco come il Maestro descrive il suo eremo lacustre: «Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, turris eburnea, vas spirituale, reggia... abitanti 120, 12 case. Paese tranquillo, con macchie splendide fino al mare, popolate di daini, cignali, lepri, conigli, fagiani, beccacce, merli, fringuelli e passere. Padule immenso. Tramonti lussuriosi e straordinari. Aria maccherona d'estate, splendida di primavera e di autunno». Nella villa-museo, la sala dei fucili è ancora stipata di trofei di caccia, di armi dalle fogge più varie, di equipaggiamento impermeabile per la battute in barca. Gli stivali e gli scarponi ingrassati sono in un angolo, quasi pronti per essere indossati. Anche in questa stanza si immagina facilmente Puccini, nella fredda luce dell'alba, mentre dall’attaccapanni mette in spalla i fucili ed in tasca le munizioni più adatte, magari accennando fra sé una melodia appena composta durante la notte. Puccini visse in quella casa per oltre trent'anni, fin quando, nel 1921, i rumori e le esalazioni di una torbiera aperta nei pressi, non scacciarono, insieme agli uccelli acquatici, anche il compositore, che fu costretto a trovare un nuovo rifugio a Viareggio. A nulla valsero le sue proteste con le autorità. Possiamo immaginare il dolore e la rabbia di Puccini, così geloso della propria quiete e amante della natura, oltraggiato dall'avanzare del progresso industriale. Le ultime polemiche Secondo Simonetta Puccini, nipote del Maestro, quell'offesa oggi si ripete con la costruzione, a fianco del vecchio teatro, della nuova imponente struttura lignea dalle torri svettanti, che ha indubbiamente un forte impatto sul quieto scenario naturale del lago. Il nuovo progetto è stato deciso per celebrare, nel 2008, il 150° anniversario della nascita del compositore. «Non sono contraria all'idea della costruzione del teatro specifica Simonetta Puccini - che doveva essere realizzato in pineta già all'epoca di mio nonno. Sono contraria alla scelta del luogo, qui, accanto alla villa. In questo modo si distrugge completamente quel poco che rimane della Torre del Lago di Puccini». A qualche tempo fa risale una mostra fotografica, organizzata dalla stessa discendente, volta ad evidenziare i mutamenti che, nel tempo, a partire dal 1930, con la costruzione del piazzale antistante la villa, hanno progressivamente snaturato un luogo che Puccini aveva scelto proprio perché selvaggio e incontaminato. Anche Italia Nostra ha mosso durissime contestazioni alla nuova struttura, e il clamore è stato tale da costringere il Ministro dei Beni Culturali a chiedere un'istruttoria alla Direzione Generale per i Beni Architettonici e Paesaggistici. Andrea Cionci Turandot 14 Il Giornale dei Grandi Eventi L’esotismo ed il pittoresco in Puccini e Debussy L’uso della Scala Pentatonica per evocare l’Oriente P oco sembra accomunare due compositori quasi coetanei come Puccini (1858-1924) e Debussy (1862-1918). Il primo, ultimo grande rappresentante della linea di compositori italiani dedicatisi esclusivamente, o quasi, all’opera lirica; il secondo, nemico giurato dell’opera italiana e compositore di un’unica opera i cui punti di riferimento sono Wagner e Mussorgskij. Eppure entrambi, ancor più di altri compositori contemporanei, hanno subito profondamente il fascino dell’esotismo e in particolare dell’Estremo Oriente. Oltre a Madama Butterfly (1904) e a Turandot (rimasta incompiuta alla morte di Puccini), anche La fanciulla del West (1910) rivela un interesse per una cultura extra europea. La moda dilagante dell’esotismo nel corso di tutto l’Ottocento si riflette però in musica ai primi del secolo successivo sotto la sua forma più specifica: nella moda per il Giappone e per l’Oriente in generale. Forse più di qualsiasi altro compositore, Debussy si è immerso nel mondo del giaponismo, circondandosi di oggetti o stampe che talvolta ha scelto come frontespizio di alcune delle sue partiture più illustri, come La mer (1905), in cui nulla vi è di orientale nella sostanza. In termini specificamente musicali l’influenza del Giappone e dell’Estremo Oriente si riflette nell’uso frequente della scala pentatonica, cioè corrispondente ai tasti neri della tastiera. Claude Debussy Nella prima delle tre Estampes per pianoforte (1903), non a caso intitolata Pagodes, Debussy affida la mano destra e in parte anche la sinistra, esclusivamente ai tasti neri. Vi sono rari precedenti, come lo “Studio sui tasti neri” op.10, n.5 di Chopin. Ma in questo caso non è presente alcun elemento di esotismo, per via della chiara affermazione della tonalità maggiore di Sol bemolle. Nel caso di Debussy, invece, l’omaggio all’Oriente è evidente non solo dal titolo del primo brano, Pagodes, o da quello della raccolta, che allude alle stampe giapponesi, ma, come avviene nella Butterfly e Turandot, dallo stile stesso della musica. Tutto il brano fa uso non solo della scala pentatonica, ma di una successione di note da essa ricavata che si ripete sempre identica, salvo nel ritmo, come nella musica tradizionale cinese o giapponese, o nella musica indonesiana. L’interesse di Debussy – come poi di altri compo- sitori del Novecento - per la m u s i c a orientale è stato fortemente stim o l a t o dalle orchestre di gamelan delle isole di Giava e Bali, che egli ebbe occasione di ascoltare rispettivam e n t e durante le Esposizioni Universali di Parigi del 1889 e del 1900. La predilezione per le scale non europee si manifesta anche nel suo legame con la musica spagnola (La soirée dans Granade, La sérénade interrompue, La puerta del vino tra i pezzi pianistici, o Ibéria dalle Images per orchestra), ma si cristallizza nell’uso delle scale pentatoniche (tasti neri) e esatoniche (per toni), già in parte usate dai compositori russi. Anche Puccini a sua volta ha subito l’influenza dell’oriente, in parte mediata dall’influsso del suo collega francese. Adottando la scala esatonica ne La fanciulla del West il tono di esotismo necessario al soggetto ambientato in California è stato così garantito. Dopo la Butterfly, la nuova opera di Puccini testimonia di una continuità di interesse per il “non europeo”, essendo ambientata nella patria di Pinkerton, di cui la stessa Butterfly include l’inno nazionale. L’uso sistematico che fece Debussy della scala per toni in Pelléas et ritroveranno fino a Mélisande, la cui prima Stravinskij, e non solo in precede di due anni Petruska, quasi interaquella della Butterfly, è mente strutturato su certamente stato un fatquesta dialettica. Le intetore determinante nella razioni tra questa caratscelta stilistica pucciniateristica di scrittura con na adottata per la sua il mondo dell’Estremo opera “americana”. Del Oriente sono molteplici resto va notato che nele sfoceranno nelle Trois l’opera di Debussy la poésies de la lyrique japoscala per toni è frequennaise (1913) o nell’opera temente combinata con Le Rossignol (1914) dello frammenti della scala stesso compositore pentatonica, certamente russo. In quest’ultima le per suggerire un “esotievocazioni di Cina e smo immaginario” legaGiappone si fondono to al luogo indeterminanell’impiego spesso carito dell’azione del dramcaturale della scala penma di Maeterlinck. tatonica, che nella Dunque i legami tra l’oButterfly caratterizzava i pera di Debussy e quelle personaggi giapponesi e di Puccini non sono cerin seguito definirà l’amtamente casuali. Ma bientazione cinese di mentre nel caso di Turandot. Il canto dell’uPuccini le scelte stilistisignuolo meccanico che sono dovute ai soginviato dall’Imperatore getti da lui prescelti, per Debussy l’impiego delle scale non europee va spesso oltre la semplice volontà di evocare il pittor e s c o dell’Oriente. La scala pentatonica si ritrova in numerosi brani pianistici i cui titoli non evocano necessariamente un contesto orientale (Reflets dans Giacomo Puccini l’eau, prima delle del Giappone all’ImpeImages, o Voiles, La fille ratore della Cina è affiau cheveux de lin, dal dato al suono nasale delprimo libro dei Preludi). l’oboe che esegue ostinaIl suo impiego è suggeritamente una banale to dalla specificità della melopea pentatonica. tastiera del pianoforte, La dimensione caricatucon la sua opposizione rale che in Puccini carattra tasti bianchi e neri, terizzava in parte i anche se la scala pentaparenti di Cio-Cio-San tonica è talvolta traspoviene usata da sta sui tasti bianchi, Stravinskij per alludere come in“General Lavine” alla meccanizzazione excentrique dal secondo della natura da parte libro dei Preludi. Le condell’uomo. seguenze stilistiche di questa opposizione si Angelo Cantoni Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 15 In 15 magiche serate fino al 19 agosto 4 titoli per il Festival Puccini nell’estate di Torre del Lago P unta su due nuove produzioni e la ripresa di due memorabili allestimenti il calendario del Festival Puccini 2007, in15 rappresentazioni dal 20 luglio al 19 agosto 2007 presso il Gran Teatro all’aperto di Torre del Lago Puccini. Nuove produzioni per Madama Butterfly scene e costumi di Ugo Nespolo regia di Stefano Vizioli, e La Rondine scene e costumi di Nall, regia di Lorenzo Amato (al suo debutto nell’opera lirica). Riproposta, invece, per due grandi allestimenti La Bohème con scene e costumi di Jean-Michel Folon, regia di Maurizio Scaparro e Tosca con scene e costumi firmati da Igor Mitoraj, regia di Mario Corradi, Un cartellone, questo del 53° Festival Puccini – festival che dal 2000 al 2007 ha prodotto e coprodotto ben 15 nuovi allestimenti – capace di distinguersi per qualità e per il fortunato progetto “Scolpire l’Opera” che ha consentito di combinare il linguaggio universale ed immortale della musica di Puccini, con quello dell’arte contemporanea, proponendo allestimenti non tradizionali. L’inaugurazione il 20 luglio è stata affidata, al nuovo allestimento di Madama Butterfly (20, 29 luglio - 3, 19 agosto). Sul podio lo statunitense Laurence Gilgore, direttore del Connecticut Grand Opera. Protagonista il soprano russo Elmira Veda, mentre il tenore trevigiano Fabio Sartori veste i panni di Pinkerton. Luca Salsi, applaudito lo scorso anno nello stesso ruolo, è Sharpless, mentre per Suzuki la voce è quella di Renata Lamanda. Tosca (21, 28 luglio - 4, 9, 18 agosto), nell’apprezzato allestimento della scorsa stagione, vedrà protagonista Antonia Cifrone, a cui si alternerà Maria Mastino (9 e 18 agosto). Nel ruolo del pittore Cavaradossi il tenore Marcello Giordani apprezzatissimo nell’edizione 2006 e Appuntamenti musicali Flamenco e Beethoven in settembre all’Auditorium B eethoven si fa in nove per il settembre dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Dopo l’appuntamento del “K festival” dedicato a Mozart, quest’anno la ripresa dei concerti sarà dedicata al compositore tedesco ed alle sue sinfonie. Dal 3 al 27 settembre, infatti, l’orchestra ed il coro dell’Accademia eseguiranno le nove sinfonie. Sul podio “bacchette” prestigiose, come Kurt Masur, Georges Prêtre, Marek Janowski. Caratteristica di questi concerti di settembre, i prezzi particolarmente contenuti ed una attenzione ai giovani con meno di 30 anni, per i quali è stato predisposto un biglietto a soli 8 euro od un abbonamento per i 5 concerti a partire da 20 euro. La rassegna inizierà lunedì 3 e martedì 4 settembre con la Nona Sifonia diretta da Kurt Masur. Sempre all’Auditorium Parco della Musica, ma organizzato dalla Fondazione Musica per Roma, dall’Ambasciata di Spagna e dall’Istituto Cervantes, dal 12 al 23 settembre si terrà il festival “Flamenco” dedicato alla musica ed alla ritmata danza spagnola. L. Fa. Stefano Secco (9 e 18 agosto). Il ruolo di Scarpia sarà di Giorgio Surian, che proprio a Torre del Lago nel 2004 ha debuttato nel ruolo. Sul podio torna la direttrice canadese Keri Lynn Wilson. La Bohème (27 luglio - 5, 11, 17 agosto), titolo pucciniano più rappresentato al mondo, torna nell’affascinante lettura di Jean-Michel Folon. La “gelida manina” sarà quella di Norma Fantini, affiancata nel ruolo da Maria Luigia Borsi (11,17 agosto). Musetta sarà Donata D’Annunzio Lombardi a cui si alternerà Chun Yu Xu (11,17 agosto) allieva dell’Accademia di Alto Perfezionamento per voci pucciniane diretta da Mirella Freni. Nel ruolo di Rodolfo Massimilano Pisapia, mentre quello di Marcello sarà di Gabriele Viviani (27 luglio e 5 agosto) e Marzio Giossi (11, 17 agosto). Schaunard sarà interpretato da Alessandro Luongo e Giovanni Guagliardo (11 e 17 agosto). Sul podio l’americano Stewart Robertson, direttore artistico dell’Opera di Miami. Infine, dopo 19 anni torna a Torre del Lago una delle opere a torto relegate tra i titoli minori di Puccini: La Rondine (10-16 agosto). Sul podio il maestro Alberto Veronesi, che del Festival è direttore artistico e che dirigerà un cast di interpreti tutti al debutto in questo titolo. Magda sarà il soprano bulgaro Svetla Vassileva, Ruggero verrà interpretato da Roberto Aronica, mentre Marzio Giossi sarà Rambaldo, Maya Dashuk Lisette, ed Emanuele Giannino Prunier. La stagione 2007 è il preludio al grande appuntamento del 2008, nel 150°anniversario della nascita di Puccini, che vedrà anche l’inaugurazione del Nuovo Gran Teatro, in grado di accogliere 3200 spettatori. Fran. Pic. In Libreria Puccini e la sua grande attenzione per la scena U n’attenzione quasi maniacale per i particolari, era quella che Puccini riservava alle proprie opere. Dalle partiture, ricche di indicazioni e dense di note a margine, fino all’interessamento alle scenografie, ai dettagli della scena. Spazi, quelli d’ambientazione, sempre riconoscibili, mai generici, come ogni altro elemento visivamente inconfondibile. Una tale ricchezza di elementi, capaci di essere il tema, il soggetto di una fortunata mostra “La scena di Puccini” organizzata tra il settembre 2003 ed il gennaio 2004 nell’ambito delle celebrazioni del Centenario di Butterfly nel complesso monumentale di San Micheletto a Lucca. Del successo dell’esposizione ne rimane un ricchissimo catalogo disponibile in libreria, edito dalla Maria Pacini Fazi Editore di Lucca, particolarmente interessante poiché, oltre al copioso apparato iconografico (385 illustrazioni a colori), approfondisce i rapporti del Compositore con scenografi come quel Galileo Chini, che proprio della prima di Turandot firmo le scene divenute talmente “icone” di quest’opera da essere scelte dalla Liebig come soggetti per le famose figurine. Ma c’è anche una visione delle opere pucciniane attraverso le immagini di quel principe del pennello che fu Adolf Hoenstein, autore dei più noti manifesti e cartoline, divenute anch’esse simbolo delle singole opere nell’immaginario collettivo. Così, la certosina attenzione di Puccini per questi diversi aspetti del contorno visivo alle sue note, viene messa a fuoco attraverso i diversi studi scenografici, figurini, bozzetti e fotografie dell’epoca messi a confronto. Ne esce, oltre che la dimostrazione di come Puccini curasse in alcuni casi pure l’impianto generale delle proprie opere, anche l’attenzione personale prestata dal Compositore per gli allestimenti dei suoi lavori a Lucca tra il 1891 ed il 1924. Un fatto che sfata, almeno nella sfera musicale, il controverso rapporto che avrebbe avuto con la propria Città, dove in realtà vi furono rappresentate quasi tutte le opere con esiti trionfali, dall’Edgar nel 1891 alla presenza di Giulio Ricordi, alla Bohème con la direzione di Leopoldo Mugnone nello stesso anno del debutto torinese ed ancora nell’anno della prima esecuzione, il 1900, la Tosca. La scena di Puccini a cura di Vittorio Fagone e Vittoria Crespi Morbio pp. 424, f.to 24x27, 385 ill. col. Euro 60,00 Mic. Mar.