Anno XII - Numero 55 - 27 luglio 2007
L’Intervista
Parla il direttore Alain Lombard
A Pag
2
La Storia dell’Opera
Nata in un ristorante
e rimasta incompiuta
A Pag
6
Le Terme di Caracalla
Alla scoperta del complesso
termale insuperato per
bellezza ed eleganza
A Pag
8e9
Il Finale postumo
L’ingrato lavoro
di Franco Alfano
A Pag
10 e 11
TURANDOT
di Giacomo Puccini
Turandot
2
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Parla il direttore d’orchestra Alain Lombard
vo prima, anche se n’avevo sentito parlare, ma mi ha molto
impressionato vederlo lavorare.
Ha un talento enorme. Si vede
che gli studi musicali – si è
diplomato in Clarinetto, n.d.r.
– gli sono stati utili e che possiede una grande familiarità con le
opere liriche, anche se si è formato al Piccolo Teatro di Milano
come assistente di Strehler».
Andrea Marini
«Una Turandot senza tagli,
con il secondo finale di Alfano»
«S
quadra vincente non
si cambia», recitava
un vecchio adagio. E questo suggerimento
pare essere stato recepito
dalla direzione artistica del
Teatro dell’Opera, riproponendo, anche in questa stagione estiva alle Terme di
Caracalla,
Turandot
di
Giacomo Puccini, nell’allestimento dell’Opera di Roma
che debuttò lo scorso anno.
Confermata la regia del tedesco Henning Brockhaus e
l’orchestra affidata al direttore francese Alain Lombard, il
quale a Roma, oltre ad averla
diretta, appunto, nella passata stagione estiva, ci si era
cimentato al Costanzi nell’aprile del 2005.
Una stagione quest’anno, che
coincide con i 70 anni
dell’Opera a Caracalla, che vi
trovò la sua sede estiva per la
prima volta nel 1937. Da allora questo è divenuto un
appuntamento tradizionale,
interrotto solo dal 1940 al
1944 per gli eventi bellici e
dal 1994 al 2000 per problemi
di conservazione del monumento.
Il Maestro Lombard ha voluto, come lo scorso anno,
riproporre Turandot con il
secondo finale di Franco
Alfano, il più corto. Come
noto, infatti, l’opera rimase
incompiuta alla morte di
Puccini, avvenuta a Bruxelles
sabato 29 novembre 1924. A
terminarla fu chiamato
Franco Alfano, il quale realizzò un primo finale, poi ridimensionato per andare
incontro alla vocalità dei cantanti ed alle pressioni di
Toscanini.
«E’ un’opera verso la quale ho
sempre un grande affetto», dice
il maestro Lombard. L’ho
diretta moltissime volte ed ho
realizzato una incisione con
Montserrat Caballe, Mirella
Freni e Josè Carreras, che ha
riscosso grandissimo successo».
«Turandot è un’opera molto difficile. Si deve avere una orchestra grande e solida, poiché è
una partitura estremamente raffinata, con l’uso di strumenti
inconsueti come il gong. Come
suo solito Puccini realizzò uno
spartito molto preciso, con scritto tutto, dai tempi ad alcune
note esplicative a margine. La
musica, in alcuni punti – come
con le tre maschere di Ping,
Pong e Pang - è vicinissima a
Gianni
Schicchi.
Personalmente adoro il brano
delle “maschere” all’inizio del 2°
~ ~ La Copertina ~ ~
Leopoldo Metlicovitz: Particolare
dello spartito per canto e piano
edizione lusso, Milano, Ricordi, 1926.
Il G iornale dei G randi Eventi
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Andrea Marini
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atto, che considero una delle
pagine più belle di Puccini».
«Lavorando tante volte su quest’opera, ho pensato a ciò che
Puccini voleva: fare un’opera
importantissima, che rimanesse
un capolavoro assoluto. Mi ha
sempre stupito che essa arrivi
dopo il Trittico (1918), il quale a
mio avviso è di per se un capolavoro assoluto. Puccini aveva già
toccato il tema, all’epoca in
voga, dell’Orientalismo con
Butterfly nel 1904 e l’ambientazione americana con La fanciulla del West (1910), ma egli
volle ancora tornare su ambientazioni “esotiche”».
L’opera anche questa volta
sarà presentata in versione
integrale con - come detto - il
secondo finale di Alfano,
senza il taglio che spesso
viene eseguito dell’aria del
soprano. «Il primo finale sarebbe stato troppo lungo e meno
bello. Quella prima versione l’ho
eseguita tre o quattro volte, ma
continuo a preferire la seconda,
meno lunga. Eviteremo un altro
taglio considerato “tradizionale”, come quello delle “maschere” all’inizio del secondo atto».
A Caracalla il Maestro
Lombard ha esordito negli
anni ‘80 con Aida. In questa
cornice, prima della Turandot
della scorsa stagione, sul
podio era salito tre anni fa
per Il Trovatore di Verdi.
«L’acustica di Caracalla è sempre un problema, perché l’ambiente è vasto, dispersivo,
soprattutto con questo nuovo
palcoscenico non “avvolto”,
come quello di molti anni fa, dai
ruderi
dalle
torri
del
Caldarium. L’acustica non è
quindi del tutto naturale, ma
devo ammettere che negli ultimi
anni con l’amplificazione si sono
fatti miracoli».
Di “finali”, oltre quelli di
Alfano, n’esiste un altro, sempre commissionato da Casa
Ricordi e realizzato da
Luciano Berio, andato in
scena a Los Angeles il 25
maggio del 2002. «Il finale di
Berio lo conosco bene, l’ho studiato perché ad un certo punto
ho pensato di cimentarmici. E’
fatto bene, ma è molto differente
dal lavoro e dallo stile di Puccini.
Con questa regia, molto classica,
non sarebbe stato adatto».
«Devo dire – continua il Maestro
– che già lo scorso anno ero rimasto molto colpito dal regista tedesco Henning Brock e dallo splendido lavoro che ha fatto con quest’allestimento. Non lo conosce-
Stagione estiva - Terme di Caracalla
27, 29 Luglio - 3, 5, 9 Agosto
TURANDOT
di Giacomo Puccini
Alain Lombard
Antonello Palombi, Giovanna Casolla,
Mina Tasca, Cristina Ferri, Michail Ryssov
Direttore
Interpreti
8, 10, 11, 12, 14 Agosto
PAGLIACCI
di Ruggero Leoncavallo
Hirofumi Yoshida
Vincenzo La Scola, Maria Carola,
Carlo Guelfi, Domenico Balzani
Direttore
Interpreti
ROMEO E GIULIETTA suite
(balletto)
I prossimi titoli della
Stagione 2007 al Teatro Costanzi
27 Novembre - 2 Dicembre
MOSÈ IN EGITTO
Direttore
Interpreti
di Gioachino Rossini
Antonino Fogliani
Michele Pertusi, Giorgio Surian,
Anna Rita Taliento, Stefano Secco
21 - 30 Dicembre
LA VEDOVA ALLEGRA
di Franz Lehàr
Daniel Oren
Fiorenza Cedolins, Vittorio Grigolo, Markus Werba
Direttore
Interpreti
~~
La Locandina ~ ~
Terme di Caracalla, 27 luglio - 9 agosto 2007
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
da una fiaba chinese teatrale tragicomica di Carlo Gozzi
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Prima rappresentazione: Milano, Teatro Alla Scala 25 aprile 1926
Direttore
Maestro concertatore
e Direttore
Maestro del Coro
Regia
Scene e Costumi
Movimenti Coreografici
Disegno Luci
Arturo Toscanini
Alain Lombard
Andrea Giorgi
Hanning Brockhaus
Ezio Toffolutti
Maria Cristina Madau
Alessandro Santini
Personaggi / Interpreti
Turandot (S)
Calaf (T)
Liù (S)
Timur (B)
Ping (Bar)
Pong (T)
Pang (T)
Altoum (T)
Mandarino (Bar)
Il Principe di Persia
Il clown
Giovanna Casolla /
Francesca Patanè (5, 9/8)
Antonello Palombi /
Worren Mok (9/8)
Mina Tasca-Yamazaki /
Cristina Ferri (5, 9/8)
Michail Ryssov /
Alfredo Zanazzo (5, 9/8)
Filippo Bettoschi /
Aldo Orsolini
Mario Bolognesi
Fernando Cordeiro Opa /
Umberto Scalavino (5,9/8)
Gianluca Breda
Aurelio Cicero /
Francesco Giannelli (5, 9/8) /
Jean Mening
Danzatori: Il boia Guido Pistoni / Gianni Martelletta (5/8) / Andrea Costa (11/8)
Acrobati Cosimo De Bartolomeo, Francesco Palazzo
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
3
Turandot nel 70° dell’Opera a Caracalla
L’azione si svolge a Pekino (così è riportato nel libretto
originale, n.d.r.), al tempo delle favole
ATTO PRIMO
Calaf, sembra voler rinunciare, provocando lo scherno
della Principessa, ma finalmente intuisce la risposta e
dice felice: Turandot! Conquistando la vittoria.
Turandot, ormai vinta ma non doma, si getta ai piedi
del padre e lo supplica di non consegnarla allo straniero, ma per l’Imperatore
la parola data è sacra. Turandot inveisce contro il Principe, dicendogli che così
egli conquista una donna riluttante e piena d’odio.
Calaf spiega che cerca una donna che lo ami e quindi la libera dall’impegno,
proponendole a sua volta una nuova sfida: lui è pronto a morire se lei riuscirà prima dell’alba ad indovinare il suo nome. Il nuovo patto è accettato, mentre risuona solenne l’inno imperiale.
La Trama
Davanti alle mura e al palazzo imperiale di Pechino – Al tramonto, un Mandarino annuncia alla folla che il Principe di Persia, non avendo sciolto i tre enigmi proposti dalla
bella principessa Turandot a tutti i principi che aspirano alla sua mano, sarà decapitato pubblicamente dal boia al sorgere della luna. La folla, eccitata, travolge un vecchio
e la giovane Liù che per lui invoca subito soccorso. Un giovane accorre e riconosce nell’anziano il proprio padre Timur, Re tartaro spodestato. I due si abbracciano, ma il giovane Calaf lo prega di non pronunciare il suo nome, poiché ha paura dei regnanti cinesi, usurpatori del regno del padre. La schiava Liù è molto devota a Timur ed alla famiglia, in quanto un giorno Calaf nella reggia le sorrise. Intanto il boia Pu-Ti-Pao, affilando la lama, si prepara all’esecuzione del Principe di Persia. Ai primi chiarori lunari, su
note lugubri, giunge il corteo che accompagna la vittima al supplizio. La folla, prima
eccitata, si commuove per questo giovane ed invoca la grazia per il condannato.
Nella pallida luce si presenta, glaciale, la principessa Turandot che impone di fare
silenzio e con un gesto imperioso ordina al boia di giustiziare il Principe.
Calaf è impressionato dalla magica bellezza della Principessa e decide di tentare
la prova dei tre enigmi. Timur e Liù cercano di trattenerlo, ma lui si lancia verso
il grande gong. Tre bizzarre figure lo fermano: si tratta dei ministri del Regno,
Ping, Pong e Pang, i quali provano a dissuadere Calaf, descrivendo il rischio dell’impresa. Anche Timur, invocando la pietà filiale e la giovane Liù, disperata ed in
lacrime per il proprio amore segreto, tentano di far ragionare Calaf, il quale, ormai
in preda ad una sorta di delirio, percuote per tre volte il gong, invocando ogni
volta Turandot, al cui nome Liù, Timur ed i tre ministri rispondono con «la
morte!».
ATTO SECONDO
In un padiglione - E’ notte. Ping, Pong e Pang, chiusi nella loro tenda ripassano il
protocollo nuziale e quello funebre per essere pronti ad ogni evenienza. Si lamentano che, come Ministri, devono accompagnare all’esecuzione troppe sfortunate
vittime. Preferirebbero vivere tranquilli in campagna. Ma quando il sole sorge, si
avviano ad assistere all’ ulteriore supplizio.
Il piazzale della reggia con una grande scala dove è posto il trono imperiale - Tutto è
pronto per il rito degli enigmi. L’imperatore Altoum invita il Principe ignoto
a rinunciare, ma Calaf rifiuta tre volte.
Il Mandarino (sulla stessa musica dissonante del primo atto, n.d.r.) bandisce la
prova, mentre appare Turandot. La Principessa avanza guardando negli occhi
il nuovo pretendente e spiega le ragioni del suo comportamento: molti anni
prima il suo Regno fu invaso dai tartari ed una sua antenata cadde preda di
uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot ha giurato che mai si lascerà possedere da un uomo. La Principessa invita Calaf a rinunciare alla prova,
ma egli non vuole desistere. Il primo enigma viene proposto e Calaf lo risolve
senza tentennamenti: la speranza! Turandot scende la scala e si avvicina a lui
per il secondo enigma. Calaf pensa a lungo, ma poi risponde: il sangue!
La folla, sperando nel successo, esulta, ma Turandot la obbliga al silenzio e,
minacciosa, presenta il terzo enigma.
ATTO TERZO
Nel giardino della reggia - E’ una notte gravida di attesa ed in lontananza gli
araldi portano in giro l’ordine della Principessa: Questa notte nessun dorma
in Pechino! Il nome del principe ignoto deve essere scoperto. Calaf è sveglio
e pregusta il vittorioso bacio a Turandot, immaginandola liberata dal gelo dell’odio.
Giungono i Ministri che, per paura delle ire di Turandot, offrono a Calaf
donne bellissime, ricchezze e gloria in cambio del suo nome, ricevendone
però un secco rifiuto.
Intanto Timur e Liù, insanguinati e logori, vengono trascinati davanti ai tre
Ministri: sono sospettati di conoscere il nome del principe, visto che sono stati
notati parlare con lui.
Giunge Turandot. Liù, per cercare di salvare Timur, dice che solo lei conosce
il nome dello straniero, ma non lo rivelerà. Iniziano le torture, ma Liù resiste
e continua a tacere. Turandot è incredula: cosa dà tanto coraggio e forza alla
giovane schiava? Liù le risponde che è semplicemente l’amore. Turandot
resta turbata, ma poi ordina ai Ministri di carpire il segreto ad ogni costo.
Liù, conscia di non poter resistere, strappa il pugnale ad uno dei torturatori e
si uccide, cadendo ai piedi dell’amato Calaf. Con Timur e Calaf che compiangono Liù morta, si avvia il mesto corteo funebre.
(Fin qui l’opera che Puccini riuscì a portare a termine prima della morte, avvenuta a
Bruxelles il 29 novembre 1924)
———————————(Finale realizzato da Franco Alfano, sugli appunti pucciniani)
Uscita la folla, Turandot e Calaf rimangono soli. Calaf, con l’impeto della passione, bacia la principessa. Questa dapprima lo respinge, ma poi gli confessa
il “brivido fatale” e l’odio da cui fu colta la prima volta che lo vide ed anche
di essere orami travolta dalla passione. Ma, orgogliosa, lo supplica di non
umiliarla e di andarsene senza svelare il proprio nome. L’ignoto principe le
dice, però, di essere Calaf, figlio del re Timur.
Davanti al Palazzo Imperiale - E’ giorno. Tutti i dignitari ed una gran folla sono
davanti al trono dell’Imperatore. Squillano le trombe per annunciare l’arrivo di
Turandot, che annuncia di conoscere il nome dello straniero: il suo nome è Amore!
e, tra le grida di festa dei presenti, si abbandona nelle braccia di Calaf.
4
Turandot
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Stima e screzi con quello che sarà il direttore della prima assoluta di Turandot
Il difficile rapporto fra Puccini e Toscanini
F
u vera amicizia?
Difficile dire. Ma
certamente fu un
sodalizio destinato a
durare nel tempo e
soprattutto a sopravvivere ai protagonisti, quello
fra Giacomo Puccini e il
direttore
d'orchestra
Arturo Toscanini.
E' possibile che i due si
siano conosciuti nel gennaio
1890,
quando
Toscanini diresse Le Villi
al Teatro Grande di
Brescia.
A quell'epoca Puccini
aveva trentun'anni e ventidue ne aveva Toscanini,
che solo tre anni prima
aveva debuttato al Teatro
Carignano di Torino come
direttore
l'Edmea
di
Alfredo Catalani.
I rapporti formali fra i due
non dovettero durare a
lungo. Parlano chiaro le
missive inviate nel 1894,
quando Toscanini, già
dando del tu al maestro,
espresse commenti ostili
agli interpreti della Manon
che stava per dirigere al
Regio Teatro Nuovo di
Pisa.
E proprio mentre si contavano i bis per la Manon
pisana, Giacomo Puccini
concepiva la Bohème che
nel 1896 Toscanini avrebbe diretto in prima assoluta al Teatro Regio di
Torino, di cui era direttore
stabile.
Il compositore, in una
missiva all'editore Giulio
Ricordi, non voleva che il
suo ultimo lavoro debuttasse in quel teatro
«sordo», il cui direttore era
un «omaccio». Se, dunque
Puccini, evidentemente
nervoso per il prossimo
debutto,
definiva
il
Toscanini un «omaccio», si
è ipotizzato avesse già
avuto a che fare con le
mordaci arguzie del direttore. Ma Ricordi rimise
entrambi in riga, giacché
non solo l'opera si fece,
ma Puccini successivamente trovò il direttore
«gentilissimo» e «molto
intelligente».
Mentre i due ragionavano
di un esordio solo nel
ce perché tu hai sopra tutti
sul miglior allestimento
1910, con il debutto della
saputo comprendere tutto il
dell'opera, nella loro stoFanciulla del West al
mio spirito giovane e appasria è doveroso inserire la
Metropolitan House di
sionato di trent'anni fa».
cronaca rosa. All'epoca si
New York.
In questa occasione
diceva che Puccini fosse
Memorabile per entrambi
Puccini tornò dunque,
innamorato del soprano
grazie alla passionalità di
fu l'edizione di Manon
Cesira Ferrani, interprete
Toscanini, indietro nel
Lescaut
diretta
da
di Mimì, la
tempo fino
quale a sua
alla gestavolta
era
zione
di
invaghita di
M a n o n
To s c a n i n i ,
Lescaut fra il
fatto che si
1890 e il
rivelò irrile1892. Ma al
vante
nei
lontano
rapporti fra i
1893, anno
due musicidel debutto
sti.
di Manon,
Nel
1898,
tornò forse
quando
si
a n c h e
progettava il Giacomo Puccini
Toscanini,
Arturo Toscanini
debutto di
che a quelTosca, Puccini scrisse - con
l'epoca
lavorava
al
Toscanini al Teatro alla
molta "eleganza" - a
Politeama Garibaldi di
Scala alla fine del 1922.
Toscanini «ricordati che
Palermo e che avrebbe
«Mai e poi mai ho goduto
devi essere il suo sverginatotanto voluto dirigere la
tanto a sentire la mia musire». L'opera, come è noto,
prima di Manon Lescaut,
ca», scrisse Puccini all'adebuttò nel 1900 al Teatro
poi
eseguita
da
mico Riccardo SchnablCostanzi di Roma, diretta
Alessandro Pomé al
Rossi. Questa ripresa delda Mugnone e Toscanini
Teatro Regio di Torino.
l'opera giovanile del comdovette accontentarsi di
Quella volta Toscanini
positore lucchese, oltre a
dirigere due mesi dopo la
dovette accontentarsi di
costituire uno degli spetprima al teatro Alla Scala,
studiare sulla partitura,
tacoli di punta della stadi cui era direttore.
senza nemmeno poterla
gione meneghina, costituì
Lo stesso avvenne quattro
ascoltare.
forse il vero momento di
anni dopo,
Dunque, se
quando per
nel passato
la prima di
Puccini non
M a d a m a
a v e v a
Butterfly fu
risparmiato
scelto
il
le sue riserTeatro Alla
ve verso il
Scala
e
direttore
Cleofonte
rampante,
Campanini
ora Toscacome direttonini
non
lesinava crire, giacché
tiche verso i
To s c a n i n i
lavori pucaveva rotto i
ciniani,
rapporti con
come
la
il teatro milaRondine ed il Trittico, che
nese. Egli si dovette
intesa reciproca fra i due.
non erano affini al gusto
accontentare della prima
Scrive Puccini a Toscanini:
imasto più affine allo stile
a Buenos Aires. La rappre«tu mi hai dato la più grande
esotico e morboso del suo
sentazione milanese della
soddisfazione della mia vita!
protettore
giovanile
Butterfly fu un disastro,
La Manon nella tua interAlfredo Catalani.
mentre la sudamericana
pretazione è al di sopra di
Nonostante la collaborafu un successo: sebbene
quanto io pensai a quei tempi
zione, conveniente ad
l'opera fosse stata poi
lontani». E poi ancora:
entrambi, l'estetica di
riveduta da Puccini, lo
«Proprio ho sentito jersera
Puccini e Toscanini andastesso compositore attritutta l'anima tua grande e
buì il fiasco di Milano
va divergendo nel tempo.
l'amore per il tuo vecchio
all'assenza del Maestro.
E così, quando il composiamico e compagno nelle
Toscanini si riappropriò
tore, ormai gravemente
prime armi […]. Io sono feli-
ammalato, nel settembre
del 1924 chiese a
Toscanini di ascoltare la
Turandot che avrebbe suonato per lui, questi accondiscese, ma senza manifestare entusiasmo.
E, come è noto, quando
Turandot debuttò – postuma – il 25 aprile del 1926
al Teatro alla Scala di
Milano, Toscanini dirigendola interruppe la rappresentazione alla morte di
Liù, proprio nel punto in
cui il compositore l'aveva
lasciata incompiuta. Solo
il giorno dopo fu rappresentata conclusa con le
integrazioni di Alfano.
Puccini era morto il 29
novembre
1924
a
Bruxelles. Durante i solenni funerali a Milano, celebrati il 3 dicembre con
grande trasporto di folla
dal cardinale Tosi, l'orchestra della Scala diretta da
Toscanini
eseguì
il
Requiem dall'Edgar. Poi la
salma fu tumulata provvisoriamente nella Cappella
Toscanini nel Cimitero
Monumentale di Milano.
Due anni dopo, il 29
novembre 1926, il feretro
fu traslato a Torre del
Lago, dove il figlio
Antonio aveva fatto
costruire una cappella,
ricavandola da un corridoio della villa tanto
amata dal compositore.
Di quest'amicizia controversa restano le registrazioni
Di questo rapporto particolare restano la registrazione della Bohème voluta
da Toscanini nel 1946 per
il cinquantenario dell'opera con una memorabile
esecuzione trasmessa dal
vivo da New York, con la
sua NBC Symphony
Orchestra. Ed ancora, il
concerto dell'11 maggio
1946 per la riapertura
della Scala dopo i bombardamenti,
in
cui
Toscanini, rientrato in
Italia, volle inserire il
terzo atto di Manon
Lescaut.
Elena Cagiano
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
Antonello Palombi e Warren Mok
5
Giovanna Casolla e Francesca Patanè
L’astuto principe Calaf La crudele principessa
Turandot
I
nterpreteranno il ruolo di Calaf Antonello Palombi (27 e 29
luglio, 3 e 5 agosto) Warren Mok (9 agosto). Il tenore Antonello
Palombi ha debuttato in Madama Butterfly nel ruolo di Pinkerton.
Si è affermato poi nel repertorio lirico e lirico-spinto interpretando i
ruoli principali in Carmen, Nabucco, Don Carlo, Aida, Tosca, Fedora,
Norma, Turandot, La Fanciulla del West,
Manon Lescaut, Forza del Destino,
Otello e Andrea Chenier. Ha cantato nei
teatri più prestigiosi del mondo sotto
la direzione d’affermati registi.
Warren Mok è nato a Hong-Kong.
Dopo il debutto nel 1987 alla
Deutsche Opera di Berlino, ha cantato nei più importanti teatri sia europei
(Francia,
Italia,
Spagna,
Norvegia, Germania) che americani e
asiatici (Giappone, Cina, Corea,
Singapore). Nel vasto repertorio dell’artista spiccano i ruoli di Calaf
(Turandot), Cavaradossi (Tosca),
Radames (Aida), Don Carlo. Ha cantato sotto la direzione dei Maestri
Sinopoli, Lopez-Cobos, Palumbo,
Antonello Palombi
Guidarini, Olmi.
Michail Ryssov e Alfredo Zanazzo
Timur, re dei Tartari
e padre di Turandot
L
a voce di Timur sarà quella dei basso Michail Ryssov (27, 29 luglio
e 3 agosto) e di Alfredo Zanazzo (5 e 9 agosto). Michail Ryssov è
nato nel 1893 in Crimea, nell’ex Unione Sovietica. Laureatosi presso il Conservatorio di Minsk, ha successivamente frequentato il Centro
di Perfezionamento del Teatro alla Scala di Milano. Canta nei maggiori
teatri del mondo e collabora con le migliori orchestre quali Berliner
Filharmoniker, Boston Symphony, City of Birmingham Symphony,
l’Orchestre National de Radio
France, Sydney Symphony,
Prague Chamber Orchestra,
dirette dai Maestri Sir Simon
Rattle, Miung-Wung Chung,
Ingo Metzmacher, Maxim
Shostakovich.
Nato ad Imperia, Alfredo
Zanazzo è stato allievo di
Bonaldo Giaiotti e dal 1981
canta nei più importanti teatri
del mondo, sempre in ruoli di
primo basso, secondo la tradizione italiana del bel canto. Al
Teatro dell’Opera di Roma è
stato Padre Guardiano in Forza,
Enrico VIII in Anna Bolena e, più
recentemente, Ferrando, Timur,
Ramfis. Tra le ultime esibizioni Michail Ryssov
in Turandot, quella dell’agosto 2005 all’Arena di Verona. Alfredo
Zanazzo ha ricevuto importanti premi durante la sua carriera, tra cui il
“Palcoscenico d’oro” ed il premio “Flamalgal” (1998), oltre al “Bellini” a
Villa Olmo, come miglior cantante belliniano del 1996.
Pagina a cura di Diana Sirianni - Foto Corrado M. Falsini
P
resteranno la voce a Turandot i soprano
Giovanna Casolla (27 e 29 luglio, 3 agosto) e
Francesca Patanè (5 e 9 agosto).
Giovanna Casolla si è diplomata in canto e pianoforte presso il Conservatorio di San Pietro in
Majella, a Napoli. In seguito ha continuato a
studiare canto con Michele Lauro e Walter
Ferrari, debuttando a Spoleto al “Festival dei
Due Mondi” nell’opera Napoli Milionaria di
Nino Rota, con la regia di Eduardo De Filippo. Giovanna Casolla
Fra i premi ricevuti il “Luigi Illica” del 1991 per l’interpretazione del repertorio “verista” e il Premio “Cilea” del 1996. Turandot occupa un posto particolarmente significativo nell’ambito del suo repertorio pucciniano. L’artista
ha, infatti, preso parte alla famosa produzione del Teatro Comunale di
Firenze nella Città Proibita di Pechino, diretta da Zubin Metha, con la regia
di Zhang Yimou. In Turandot si è esibita anche nel 1999 nella produzione
inaugurale del riaperto Liceu di Barcellona, poi nel 2006 presso il Teatro
Massimo di Palermo e infine lo scorso anno a Caracalla.
Francesca Patanè, proveniente da una illustre famiglia di musicisti italiani ed è cresciuta tra Berlino e New York. La sua preparazione musicale è
avvenuta presso la Manhattan School of Music. Dopo aver lavorato alcuni anni nel campo della moda come modella, è rientrata in Italia dove ha
partecipato al Concorso Voci Verdiane di Busseto ed ha seguito gli stage
del M° Carlo Bergonzi. La sua carriera come soprano lirico-spinto è iniziata a Torino con l’opera Adriana Leucovreur che l’ha vista acclamata protagonista sotto la direzione di Daniel Oren. Da allora si è specializzata nel
versante drammatico d’agilità diventando specialista nei ruoli quali Lady
Macbeth e Turandot. L’abbiamo vista al Teatro dell’Opera di Roma nell’aprile 2006, come protagonista in La leggenda di Sakùntala e lo scorso gennaio come Salome nell’omonima opera.
Mina Tasca Yamazaki e Cristina Ferri
La coraggiosa schiava
Liù, innamorata di Calaf
S
i alterneranno nel ruolo di Liù, i soprano Mina Tasca Yamazaki (27 e
29 luglio, 3 agosto) e Cristina Ferri (5 e 9 agosto). Mina Tasca
Yamazaki ha debuttato come Cio Cio San in Madama Butterfly al Teatro
Giglio di Lucca, specializzandosi in seguito in questo ruolo (proprio in questo ruolo, l’abbiamo vista a Caracalla nel luglio 2006). Tra i suoi ruoli preferiti anche quelli di Violetta ne La Traviata, di Mimì / Musetta ne La Bohéme,
di Donna Elvira nel Don Giovanni, di Liù nella Turandot, di Leonora ne Il
Trovatore, di Maddalena nell’Andrea Chenier e di Nedda in Pagliacci. Le sue
caratteristiche vocali e la sensibilità interpretativa la rendono una tra le migliori interpreti del
momento del repertorio drammatico.
Cristina Ferri, nata nel 1973, ha studiato pianoforte alla Scuola di Musica di Siena, diplomandosi in canto lirico nel 1995 presso l’Accademia
di Busseto. Ventunenne, ha debuttato ne L’amico
Fritz (Suzel) al Teatro Valli di Reggio Emilia con
l’Orchestra Toscanini, diretta dal M° Ranzani.
Nel luglio 1997 è stata segnalata come la più giovane promessa della lirica al concorso
Internazionale di Rocca delle Macie (Castellina
Cristina Ferri
in Chianti); ha poi vinto il primo premio del concorso Battistini di Rieti. Vincitrice di borsa di studio per la partecipazione ai
Corsi di perfezionamento con il soprano Magda Olivero a Torre del Lago
nel 2002, ha preso parte ai concerti estivi prodotti dal Festival Pucciniano. È
stata Liù nel 2003 nei teatri di Como, Brescia, Bergamo, Pavia e Cremona.
6
Turandot
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Storia dell’opera
In un ristorante milanese la nascita di Turandot
L
a composizione della Turandot,
ultima opera di Puccini, si svolse
tra il 1920 e il 1924, in quegli ultimi
quattro anni di vita del Compositore tristemente segnati dalla malattia che lo
condurrà alla morte. Dopo il successo del
Trittico nel gennaio 1919 al Costanzi di
Roma, Puccini si pose nuovamente con
l’aiuto del fedele amico Giuseppe Adami
alla ricerca di un soggetto per un’opera.
Determinante per la nascita della Turandot
fu però l’incontro con il giornalista Renato
Simoni nell’autunno del 1919 a Torre del
Lago, residenza amatissima dal Maestro,
dove si dedicava alla sua grande passione,
la caccia. Simoni, commediografo e critico
drammatico sensibilissimo e raffinato,
sembrò a Puccini il più adatto da affiancare Giuseppe Adami, Giacomo Puccini e Renato Simoni
ad Adami. L’intesa tra i due librettisti fu
subito cordiale e produttiva: la prima proposta fu un L’epistolario pucciniano è il testimone delle difficoltesto tratto dalla riduzione teatrale dell’Oliver Twist di tà incontrate durante i quattro anni dedicati alla
Dickens. L’opera, il cui titolo avrebbe dovuto essere Principessa cinese. Puccini fu a lungo indeciso se
Fanny, non piacque però a Puccini: l’ambientazione nello costruire l’opera in uno, due o tre atti. La versione
squallido clima dei sobborghi londinesi avrebbe potuto che né risultò fu quella in tre atti, ma il musicista
offrire solamente tematiche e situazioni già ampiamente sembrò più volte propendere per l’atto unico. Inoltre
utilizzate dal compositore, che invece aveva l’intenzione occorreva « lasciare un po’ da parte Gozzi e lavorare di
logica e fantasia». Il primo rimaneggiamento operato
di “tentare vie non battute”.
in quest’ottica dai librettisti, fu la trasformazione
Nata in un ristorante milanese
delle quattro maschere della commedia italiana preI biografi raccontano che la nascita della Turandot – senti nella fiaba - Tartaglia, Pantalone Truffaldino e
soggetto così “regale” - avvenne, invece, in circo- Brighella - nei tre ministri cinesi Ping, Pang e Pong.
stanza meno “nobile”: a tavola! Nel febbraio del 1920 L’altro cambiamento fondamentale fu l’introduzione
Puccini e Simoni erano in un ristorante milanese, per della figura di Liù, non presente nella favola di
ingannare il tempo in attesa che il Maestro prendes- Gozzi, con la funzione di umanizzare attraverso il
se un treno per Roma. Simoni disse: «E Gozzi? … se suo sacrificio la figura della Principessa.
ripensassimo a Gozzi?… una fiaba che fosse magari la Nella primavera del 1920 Puccini manifestava il suo
sintesi di altre fiabe più tipiche?… Non so… qualche cosa sconforto ad Adami: «metto le mani al piano e mi si
di fantastico e di remoto, interpretato con sentimento di sporcano di polvere! La scrivania mia è una marea di letteumanità e presentato con colori moderni?». Puccini fece re, non c’è traccia di musica. La musica? Cosa inutile. Non
il nome di Turandot e Simoni mandò immediatamen- avendo il libretto come faccio con la musica? Ho quel gran
te a prendere il volume nella sua biblioteca, in modo difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici buratche Puccini potesse portarlo con se in treno. La tini si muovono sulla scena…». Nel Natale dello stesso
Turandot di Carlo Gozzi, rappresentata per la prima anno i librettisti sottoposero il primo atto a Puccini,
volta a Venezia nel 1761 al teatro di San Samuele con ma l’iniziale giudizio fu negativo. Dopo alcune modila compagnia di Antonio Sacchi, affascinò subito il fiche, in cui si diminuirono molte cineserie, Puccini lo
compositore per il carattere orientaleggiante che approvò ed iniziò a strumentarlo. Nel 1921, a distanavrebbe potuto aprire più ampi e sfaccettati orizzon- za di un anno, il primo atto fu completato. Ben più
ti. Puccini iniziò immediatamente a documentarsi, faticosi, invece, furono gli altri due atti per i quali il
leggendo la versione in italiano del poeta Andrea Maestro fu spesso sul punto di abbandonare la comMaffei - noto come librettista di Verdi - basata sulla tra- posizione. L’11 dicembre 1922 amaramente scriveva
duzione in tedesco di Schiller. Puccini visionò anche ad Adami: «di Turandot niente di buono. Comincio a
riproduzioni sceniche e figurini di Max Reinhardt, il impensierirmi della mia pigrizia! Che io sia saturo di Cina
quale poco prima aveva curato la messa in scena della per aver fatto il primo e quasi il 2° atto? Il fatto sta che non
fiaba in Germania. Sull’argomento Puccini scrisse con entu- riesco ad attecchire niente di buono. Sono anche vecchio!
siasmo a Simoni: «…in Reinhardt, Turandot era una donnina Questo è sicuro…. A Milano deciderò qualcosa. Forse
piccola piccola; attorniata da uomini di donnina viperina e con un restituisco i soldi a Ricordi e mi liberi».
cuore strano di isterica. Insomma io ritengo che Turandot sia il I primi mesi del 1923 furono ancora molto difficili,
pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni di ma in primavera il compositore, rinfrancato nello spiGozzi. In fine: una Turandot attraverso il cervello moderno, il tuo, rito e con nuovo entusiasmo, si dedicò a strutturare e
musicare il secondo atto. Nel gennaio 1924 Puccini
d’Adami e il mio».
annunciò ad Adami l’inizio dell’orchestrazione del
Difficoltà dietro l’angolo
terzo atto. In aprile finalmente la composizione della
L’entusiasmo però era destinato ad essere frenato Turandot era a buon punto ed il compositore né diede
dall’effettiva difficoltà di ridurre la fiaba. ancora notizia ad Adami: «Penso ora per ora, minuto
per minuto a Turandot e tutta la mia musica
scritta fino ad ora mi pare una burletta e non
mi piace più».
Triste presagio
L’autunno di quello stesso anno - 1924 - fu
caratterizzato dall’incontro a Salsomaggiore
e dalla riappacificazione con Arturo
Toscanini, dopo lo screzio sorto a causa di
una incomprensione, quando in aprile il
direttore diede l’ordine di non ammetterlo
alla prova generale della prima esecuzione
postuma del Nerone di Boito al Teatro Alla
Scala. Pochi giorni dopo i due si incontrano
a Milano e Puccini fece ascoltare all’amico
ritrovato il terzo atto di Turandot, fino al
punto in cui Liù sacrifica la propria vita. Ad
esecuzione terminata Puccini disse a
Toscanini la frase che egli avrebbe dovuto
pronunziare davanti al pubblico se lui fosse stato nell’impossibilità di concludere l’opera: «E qui, signori, il
maestro è morto». Presagio sinistro. Il male alla gola,
manifestatosi già da parecchi mesi, iniziò ad aumentare ed in ottobre Puccini si era recato a Firenze per essere visitato. La diagnosi atroce fu cancro alla gola.
Come ultimo tentativo fu consigliata una cura presso
una clinica specializzata in Belgio e Puccini si recò a
Bruxelles per essere ricoverato. La sera del 28 novembre
sopraggiunse una crisi cardiaca. Puccini lottò per la vita
l’intera notte e il mattino successivo. Il 29 novembre 1924
verso mezzogiorno il cuore del maestro cessò di battere.
Turandot, come il suo stesso creatore aveva funestamente
previsto, era rimasta incompleta.
Un finale postumo
Gli editori di casa Ricordi, Clausetti e Valcarenghi, decisero allora di farla terminare dal musicista Franco
Alfano. Questi pensò di utilizzare le trentasei pagine di
abbozzi lasciati dal Maestro per il duetto e, nelle parti in
cui gli schizzi non erano di aiuto, i temi precedentemente usati dal compositore all’interno dell’opera. Il lavoro,
così completato, era pronto per andare in scena. Alla
vigilia la recita rischiò, però, di essere annullata per un
increscioso incidente diplomatico. Mussolini, in quei
giorni a Milano, fu invitato alla “prima” dalla direzione
della Scala. Il Duce impose come condizione che durante la serata fosse eseguito l’inno fascista in suo onore,
dal momento che Toscanini nel 1923 si era rifiutato di
eseguirlo davanti ad un gruppo di Camicie Nere.
Ancora una volta Toscanini si oppose ed il Duce non
prese parte alla “prima”.
Il 25 aprile del 1926, dinanzi al commosso pubblico
della Scala, la Turandot andò in scena. Il cast composto
da Rosa Raisa nel ruolo di Turandot, Maria Bamboli in
quello di Liù e Miguel Fleta in quello di Calaf, utilizzo
le scene di Galileo Chini. Dopo la morte di Liù,
Toscanini – come è noto - seguì la volontà di Puccini:
interrompendo la musica e voltandosi verso il pubblico, con voce velata, disse: «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’arte». e poi: “viva Puccini!”.
Subito scrosciarono gli applausi, mentre il sipario calava. Dalla sera successiva le recite proseguirono con il
finale realizzato da Alfano.
C.C.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
7
Le origini dell’opera
Turandot, dalla favola di Gozzi
all’opera di Puccini
L
a prima della Turandot
pucciniana risale al 25
aprile 1926. Siamo a
Milano, al Teatro alla Scala,
l’autore è morto da quasi
due anni senza riuscire a terminare l’opera; altri porteranno a compimento la sua
ultima fatica. Ma come è
arrivata in Europa la storia
della gelida principessa di
Cina che ha affascinato
Puccini? I suoi natali sul
continente risalgono al
veneziano Carlo Gozzi
(1720-1806). Figlio di un’aristocratica famiglia in gravi
difficoltà economiche fu il
fondatore, insieme con il fratello Gasparo, di una delle
istituzioni più conservatrici
del Settecento italiano:
l’Accademia dei Granelleschi
di Venezia. Le sue posizioni
conservatrici lo videro contrapporsi al pensiero illuminista e alle scelte artistiche
dei contemporanei Goldoni
e Chiari, innovatori importanti della Commedia
dell’Arte e spesso portatori
sulla scena anche di argomenti realistici d’ambientazione popolare e borghese.
Nel 1762 Gozzi scrisse la
favola teatrale di Turandot
traendone l’argomento fiabesco dal ciclo persiano
delle Mille e una notte e più
precisamente da La storia del
principe Calaf e della principessa di Cina. In questa prima
trasposizione occidentale,
coerentemente all’epoca storica in cui essa è prodotta,
troviamo accanto ai personaggi principali anche la
presenza delle più importanti maschere italiane:
Tartaglia, Pantalone e
Truffaldino. Il lavoro gozziano è un continuo alternarsi
di passione e gioco sospesi
fra realtà e irrealtà, atmosfera quotidiana e fantasia esotica. Probabilmente le
maschere avevano il compito di creare un legame tra il
pubblico veneziano e
l’Oriente fittizio rappresentato sulla scena.
Saranno proprio quelle
Puccini nel 1923 in una delle ultime immagini
atmosfere esotiche, evocatrici di mondi lontani, ad affascinare Puccini.
Nel passaggio dalla favola
all’opera il compositore fu
però chiamato a risolvere
più di un problema. Ad
esempio, la presenza delle
maschere, nel momento storico in cui compone Puccini,
ha perso la sua valenza.
Vanno quindi trasformate
nel contrario di ciò che rappresentavano per Gozzi:
non un ponte tra Occidente
e Oriente ma un elemento
propriamente
cinese.
Nascono così i tre dignitari
di corte, dal nome un po’
faceto Ping, Pong, Pang,
modellati sul genere dei fools
shakesperiani, che assolvono alla funzione di commento ironico e disincantato, a volte cinico, della realtà
che li circonda.
Inoltre perché l’intera struttura reggesse, Puccini fu
costretto a concentrarsi sulle
linee essenziali della vicenda e a trascurare gli intrecci
secondari della fiaba. La
crudeltà di Turandot dovette
quindi essere spiegata e
riequilibrata. Fu necessario
trasformare la Principessa
da esecutrice tragica di un
destino di vendetta, (quello
che si rifà alla violenza subita dalla sua antenata Lo-uling), in un personaggio
capace di esprimere un sentimento psicologicamente
più sfaccettato, come quello
della paura del maschio
dominatore. Turandot non è
infatti la vittima di un trauma ancestrale, da lei usato
come pretesto, bensì una
donna che vuole fare di se
stessa un monumento di
virtù. Fuggire l’uomo vuol
dire conservare la purezza.
Ignorare il sesso, la cui conoscenza porta alla perdita
dell’innocenza, è certamente
un metodo tra i più efficaci
per evitare il confronto con
l’umanità maschile. In virtù
di una simile necessità
Puccini e i suoi librettisti
Carlo Gozzi
introdussero il personaggio
della sciava Liù che funziona da elemento patetico e
permette, con il suo suicidio d’amore, lo “sgelamento” di Turandot. La soluzione degli enigmi da parte di
Calaf e la morte della schiava fanno così convergere
l’apparato simbolico della
vicenda verso l’inevitabile
discesa dell’algida principessa al livello degli uomini e verso il consueto lieto
fine, per quanto amaro,
delle favole.
L’umanizzazione di Turandot è compiuta.
E’ pur vero che Puccini
morì subito dopo aver
scritto il suicidio di Liù e
che il trionfante finale con
la principessa innamorata è
opera di Alfano. In sordina
possiamo legittimamente
domandarci se il Maestro,
avendone avuta la possibilità, avrebbe scelto lo stesso
epilogo.
Maria Elena Latini
Le Opere di Giacomo Puccini
e le loro prime esecuzioni
Le Villi (31.5.1884 Teatro dal Verme, Milano)
Le Villi [rev] (26.12.1884 Teatro Regio, Torino)
Edgar (21.4.1889 Teatro alla Scala, Milano)
Edgar [rev] (28.2.1892 Teatro Communale, Ferrara)
Manon Lescaut (1.2.1893 Teatro Regio, Torino)
La Bohème (1.2.1896 Teatro Regio, Torino)
Tosca (14.1.1900 Teatro Costanzi, Roma)
Madama Butterfly (17.2.1904 Teatro alla Scala, Milano)
Madama Butterfly [rev] (28.5.1904 Teatro Grande, Brescia)
Edgar [rev 2] (8.7.1905 Teatro Colón, Buenos Aires)
Madama Butterfly [rev 2] (10.7.1905 Covent Garden,
Londra)
Madama Butterfly [rev 3] (28.12.1905 Opéra Comique,
Parigi)
La Fanciulla del West (10.12.1910 Metropolitan Opera,
New York)
La Rondine (27.3.1917 Opéra, Monte Carlo)
Il Trittico: (Il tabarro - Suor Angelica - Gianni Schicchi)
(14.12.1918 Metropolitan Opera, New York)
Turandot (25.4.1926 Teatro alla Scala, Milano)
Turandot
8
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Tra gli antichi ruderi si legge ancora la sua passata gra
Le Terme di Caracalla, lo stabilimento termale più
C
on gli imponenti
ruderi che sfiorano
anche i trenta metri
e conservano perfettamente la struttura originale scevri da rimaneggiamenti di
epoche successive, le
Terme di Caracalla costituiscono uno dei più grandi
complessi termali dell’antichità, secondo per dimensioni solo allo stabilimento
di Diocleziano - di circa un
secolo posteriore - e forse a
nessun altro per il fasto
delle sue decorazioni, oggi
purtroppo in parte perdute
o disperse. Furono fatte
costruire
interamente
dall’Imperatore a partire
dal 212 d.C., in un quartiere periferico nella parte
meridionale della Città,
abbellita dai Severi con la
via Nova tracciata in direzione delle nuove Terme a
partire dal Septizodium, un
grandioso ninfeo a più
piani, simile alla scena di
un teatro ellenistico, innalzato sulle pendici sud-occidentali del Palatino come
monumentale quinta all’inizio della Via Appia.
L’approvvigionamento
idrico era assicurato da un
ramo speciale dell’acquedotto dell’Aqua Marcia,
chiamato Aqua Nova
Antoniniana, che, oltrepas-
sava la Via Appia sul cosiddetto “Arco di Druso”,
poco prima della Porta San
Sebastiano. Novemila operai per più di cinque anni
lavorarono per sbancare le
pendici dell’Aventino e
realizzare un’enorme piattaforma quadrangolare di
più di 300 metri di lato –
che obliterò una ricca
domus d’età adrianea con
pavimenti a mosaico e
affreschi di II stile alle pareti - sulla quale costruire,
sopra i sotterranei per i
magazzini, servizi ed
impianti, il grande corpo
centrale in opera cementizia con rivestimento di
mattoni. Il cantiere si prolungò fin dopo la morte di
Caracalla (217 d.C.), quando gli ultimi imperatori
della dinastia, Elagabalo e
Alessandro Severo, completarono il recinto esterno.
Comprese da Aureliano
all’interno delle mura e
restaurate
anche
da
Diocleziano, Costantino –
un’iscrizione ce lo conferma - e Teodorico, le Terme
funzionarono fino al 537
d.C. quando Vitige, re degli
Goti, durante l’assedio di
Roma, tagliò gli acquedotti
al fine di prendere la città
per sete. Da quel momento
il complesso fu abbando-
Ricostruzione del Frigidarium delle Terme di Caracalla
nato perché troppo esposto
ad attacchi esterni e lontano dal centro cittadino
dove si andavano concentrando gli abitanti per
paura degli invasori, divenendo cimitero per i pellegrini ammalati e ricoverati
nel vicino Xenodochium dei
Santi Nereo e Achilleo.
Nel Medioevo le Terme
diventarono una preziosa
cava di materiali da costruzione e per un riuso di prestigio: capitelli figurati troviamo reimpiegati nel
duomo di Pisa e nella
chiesa di Santa Maria in
Trastevere a Roma. Gli
scavi del Cinquecento per
volere di Paolo III Farnese
riportarono in luce statue
e gruppi scultorei colossali, perlopiù copie di originali ellenistici, che finirono nelle grandi collezioni
di antichità
del
tempo,
come quella
Farnese, oggi
ammirabile al
M u s e o
Archeologico
Nazionale di
Napoli: basti
citare il celebre
Toro
Farnese, una
“montagna di
marmo” con il
supplizio di
Dirce che celava un sofisticato impianto
idraulico per rendere
ancora più realistica l’ambientazione pastorale dell’episodio, la Flora e
l’Eracle in riposo, riferibile
ad un capolavoro bronzeo
di Lisippo, che faceva pendant con l’Ercole Latino,
ora nella Reggia di
Caserta, a testimoniare
l’attaccamento dei Severi
a questa divinità riecheggiata anche in uno dei
capitelli del Frigidarium.
Ma anche i centri storici
delle città italiane si arricchirono di arredi provenienti dalle Terme: nel
salotto buono di Firenze,
in piazza Santa Trinità, si
erge – dal 1563 per volere
di Cosimo I de’ Medici una delle altissime colonne di granito che decoravano la Natatio, mentre le
Mitreo, precisando le
piante dei diversi ambienti. Eccezionali ritrovamenti sono avvenuti anche in
anni recenti come la statua
di Artemide esposta dal
1997 nell’Aula Ottagona
delle
Terme
di
Diocleziano.
La vita alla Terme
due splendide vasche
pure di granito grigio del
Frigidarium furono riutilizzate dal Rainaldi come
fontane in piazza Farnese
a Roma. Alla prima metà
dell’Ottocento risalgono la
scoperta nella palestra ed
il distacco dei mosaici con
atleti e giudici di gara,
oggi ricomposti nel loro
assetto originario in
Vaticano presso il Museo
Gregoriano Profano. Da
allora continue campagne
di scavo, hanno contribuito alla conoscenza del
monumento, rivelando gli
ambienti sotterranei ed il
Le Terme erano aperte
all’intera
popolazione
(comprese donne, liberti e
schiavi, sebbene in orari e
settori distinti) di giorno e
talvolta anche alla luce
delle fiaccole. Pur nel chiasso che derivava dalla frequentazione giornaliera di
più di 9000 persone, andare
alle Terme significava
ritemprare il corpo e contemporaneamente divertirsi negli ambienti sontuosamente decorati (di marmi
colorati, stucchi, mosaici e
sculture) che regalavano
alla gente comune l’impressione di trovarsi in una lussuosa residenza imperiale.
L’entrata odierna corrisponde all’ingresso centrale di destra e consiglia un
percorso pressoché uguale
a quello previsto in antico,
che immetteva nel quartiere
degli
spogliatoi
(Apodyterium, dove per
pochi soldi si potevano
lasciare i vestiti e ricevere
un asciugamano. Da qui si
passava direttamente alla
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
9
Luoghi nascosti e purtroppo non visitabili
andezza
ù bello dell’antichità I Sotterranei ed il Mitreo
palestra per riscaldarsi con
esercizi sportivi e giochi nel
grande cortile scoperto, dal
bel pavimento a mosaico
policromo con motivo a
dischi e girali vegetali
all’intorno e squame al centro, delimitato su tre lati da
un portico di colonne in
giallo antico, coperto a
volta, mentre sull’altro lato
si aprivano cinque ambienti, di cui il centrale absidato,
per attività ginniche indoor.
Uscendo dalla palestra l’utente poteva ammirare nel
grande emiciclo le realistiche immagini dei gladiatori
e degli atleti più famosi dell’epoca immortalati in un
tappeto musivo oggi ricomposto ai Musei Vaticani. Da
li ci si poteva recare per la
sauna al Laconicum (una
sorta di bagno turco a pianta ellissoidale) od entrare,
attraverso passaggi stretti e
obliqui per evitare la dispersione del calore, nel
Caldarium, la grande sala
circolare del diametro di 34
metri, coperta da una cupola di poco inferiore a quella
del Pantheon. La riscaldava
un potente impianto a hypocaustum (con aria calda
insufflata sotto il pavimento attraverso le suspensurae), bracieri in bronzo ma
anche il calore del sole che
fino al tramonto entrava
dalle immense finestre ad
arco. Il Caldarium era collegato al Tepidarium, una pic-
cola sala quadrata con due
vasche ai lati, la quale,
come prescritto dalla medicina, consentiva al corpo di
adattarsi gradualmente alla
escursione termica del
Frigidarium. Questo, era
costituito dalla sala più fresca e grandiosa delle
Terme, con i suoi 58 metri
di lunghezza per 24 di larghezza, la cui complessa
architettura fu anche ammirata e ripresa da Giuliano
da Sangallo e dal Palladio,
che vi si ispirò nelle sue
chiese veneziane, ricostruita da Viollet Le Duc, e
riproposta nelle magniloquenti stazioni ferroviarie
delle metropoli americane.
Completata
da
due
ambienti laterali, comunicanti con le palestre, in cui
si trovavano probabilmente
le due vasche di piazza
Farnese, la basilica era
coperta da una maestosa
volta a triplice crociera
sostenuta da otto pilastri
fronteggiati in origine da
altrettante colonne di granito dai capitelli mirabilmente intagliati nel marmo
bianco con figure e simboli
divini in gran parte conservati. Colonne di granito, di
cui l’unica superstite fu
portata a Firenze, movimentavano, insieme a
gruppi scultorei entro nicchie ed ai mosaici che dovevano creare un effetto iridescente riflettendosi nell’acqua, le facciate interne della
Natatio, una rettangolare
piscina a cielo aperto profonda circa un metro, cui
sia accedeva scendendo
una scalea dal Frigidarium. Si
poteva così concludere
degnamente la giornata alle
terme con una nuotata distensiva e un bagno di sole
nelle terrazze sopra le palestre, decorate dagli splendidi mosaici con Thiasos marino animato da Nereidi, tritoni, delfini e mostri acquatici
cavalcati da eroti che ancora
oggi possiamo apprezzare.
Marina Piranomonte
Soprintendenza Archeologica di Roma
Direttrice complesso Terme di Caracalla
U
n percorso affascinante per comprendere il funzionamento della
complessa macchina delle Terme
è la discesa nei sotterranei, una rete vasta
ed articolata di ambienti di servizio che la
Soprintendenza sta recuperando. Un
dedalo di grandi gallerie selciate, larghe
ed alte più di 6 metri e foderate in laterizio, consentiva il transito dei carri con i
carichi di legname verso gli enormi depositi, precauzionalmente ventilati, con una
capacità tale da rendere autosufficienti
per alcuni mesi i forni e le caldaie dell’impianto di riscaldamento che consumavano 10 tonnellate di legna al giorno.
Nelle strutture di costruzione trovava
posto anche il sistema idraulico. La luce e
l’aria che penetravano in questi spazi da
lucernari, consentivano la frequentazione
da parte degli addetti alle varie funzioni,
non ultima quella della macinatura del
grano nel coevo mulino ad acqua scoperto durante gli sterri degli inizi del
Novecento al pari del Mitreo, il maggiore
di Roma. Il santuario dedicato al culto di
Mitra, antica divinità solare di origine
persiana venerata soprattutto dagli eserciti
come salvifica, è formato da una serie di
cinque ambienti introdotti da soglie in travertino. La caratteristica più interessante
del santuario per la sua unicità è la fossa
posta al centro della stanza, collegata attraverso una scaletta e uno stretto corridoio
alla sacrestia al di là della nicchia di fondo,
Il Mitreo con la fossa sanguinis
che doveva accogliere la solita immagine
del dio tauroctono. Era destinata forse a
un’apparizione spettacolare dalla botola o
più probabilmente al sacrificio del toro che
veniva ucciso su una grata in ferro posta
sopra la buca, dentro la quale si trovava,
vestito con una toga candida, l’iniziato,
pronto a ricevere il rigenerante bagno di
sangue dell’animale. Tale interpretazione
ben si collega alla religiosità di Caracalla,
“padre degli eserciti”, e della sua famiglia
volta a un sincretismo che accomunava
divinità classiche e orientali in un unico
culto.
Mar. Pir.
DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA
di Giosue Carducci
Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve.
Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, dal reclinato
capo de i figli :
A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.
se ti fu cara su 'l Palazio eccelso
l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l'evandrio colle, e veleggiando a sera
tra 'l Campidoglio
Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch'a più ardua sfida
levansi enormi .
e l'Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);
«Vecchi giganti, - par che insista irato
l'augure stormo - a che tentate il cielo? »
Grave per l'aure vien da Laterano
suon di campane.
Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose :
religïoso è questo orror : la dea
Roma qui dorme.
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco,
nume presente.
Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l'Appia via.
14 e 24 Aprile 1877 - Dalle “Odi Barbare” – Libro Primo, IV
Turandot
10
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Le invettive del Maestro sulle speculazioni milanesi
E Mascagni disse:
«Lasciate Turandot com’è!»
“P
iango la perdita del caro
Giacomo, che amai con
affetto di fratello, con
ammirazione
di
discepolo.
Accolgano il conforto del rimpianto
universale per l’uomo dalla sua
opera fatto immortale”. Così il 29
novembre 1924 da Vienna, dove
si trovava per una serie di concerti, Mascagni scriveva ad
Elvira Puccini. Poche ore prima
a Bruxelles l’amico Giacomo si
era spento, distrutto dal tumore
alla gola.
La morte del grande collega e
amico con il quale aveva in gioventù condiviso sogni e sofferenze, scosse profondamente il compositore livornese, il quale nelle
lettere di quel periodo si espresse
con forti accenti polemici.
Vale la pena leggere ad esempio
quella inviata il 4 dicembre alla
figlia Emy: «…non so dirti quale
colpo sia stato per me l’annunzio
improvviso della morte di Puccini.
Avevo notizie abbastanza buone:
ero tranquillo il giorno; prima
avevo avuto tali notizie favorevoli,
che con vera commozione avevo
telegrafato
all’Ambasciatore
d’Italia a Bruxelles pregandolo di
portare all’amico carissimo il mio
saluto ed augurio. E invece..... E
quale morte terribile, povero
Giacomo! Io sono ancora molto
impressionato e non riesco a rimettermi. Non posso crederci ancora. E
sono anche molto addolorato ed
avvilito che quei bottegaî dei
Milanesi hanno già iniziato una
speculazione su Puccini. Mentre la
famiglia voleva che la salma andasse a Lucca, i bravi (?) milanesi
l’hanno voluta a Milano.... e
Toscanini ha messo a disposizione
la tomba della propria famiglia....
Sono cose che fanno male.... Ed
intanto si sta già preparando la
speculazione sull’opera postuma.
Prima con Boito, ora con
Puccini!... Ho avuto molto dispiacere nell’apprendere, da un telegramma dell’Avv. Belli, che lo stesso Belli, unitamente a Gasco,
abbiano affacciato l’idea di far ter-
minare a me la Turandot. Meno
male che, in una intervista che ebbi
qui col corrispondente della
“Tribuna”, espressi già il mio pensiero in proposito. Peccato che la
“Tribuna” non l’abbia riportato
esattamente, ma in ogni modo si
capisce che io ho detto che l’opera
deve essere eseguita così come si
trova, anche se incompiuta: non si
deve ripetere lo sconcio commesso
col Nerone (l’opera che Boito
lasciò incompiuta e che fu portata a termine da Tommasini e
Smareglia sotto la supervisione
di Toscanini, n.d.r.), tanto più
che, per Puccini, sarebbe ancora
una profanazione, perché Puccini è
stato un vero e grandissimo musicista e non uno stitico che aspettava sempre l’aiuto e l’elemosina di
qualcuno, e che in vita non la
trovò.... e l’ha trovata dopo
morto....».
La morte di Liù è già un finale
Mascagni, dunque, riteneva che
Turandot dovesse rimanere
Puccini e Mascagni ai funerali di Ruggero Leoncavallo
come l’aveva lasciata Puccini.
Una scelta dettata in lui dal
rispetto nei confronti dell’amico, ma suggerita anche da considerazioni di tipo drammaturgico: la morte di Liù è già di per
sé un “finale”, lascia la storia fra
Calaf e Turandot sospesa, ma
chiude coerentemente l’opera.
Ma a proposito di Mascagni,
può essere interessante riportare ancora la seguente lettera
inviata il 22 dicembre alla figlia:
«…io sono veramente sorpreso di
tutta la speculazione che in Italia si
fa sopra la sventura: la morte di
Puccini ha svegliato nuove cupidigie e nuovissime ambizioni: la città
di Milano vuole avere il monopolio
delle salme degli uomini illustri.
Hai letto il discorso del Sindaco
Mangiagalli sul feretro di
Puccini?... Non si può andare più
in là in materia di speculazione e di
réclame: ha detto che Verdi morì e
fu sepolto in Milano; e, dopo Verdi,
Boito morì e fu sepolto in Milano;
ed oggi, per quanto Puccini sia
morto all’estero, Milano ha la gloria di avere la sua salma.... Alla
larga di questi necrofori jettatori!
Mi aspettavo che continuasse, con
l’augurio (?) di avere in Milano
tutti i morti illustri, anche se la
loro morte avviene lontana dalla.....
necropoli lombarda..... Da Roma, il
Marchese Monaldi mi perseguita
con lettere e telegrammi per avere
da me una prefazione al libro che
egli scrisse sopra Puccini, e del
quale sta preparando la seconda
edizione, in occasione della morte
del Maestro. Insomma, si specula
in modo indegno; e non si capisce
che io non intendo di prestarmi a
questo basso giuoco. E non rispondo neppure: sono nauseato! [...]».
Roberto Iovino
Franco Alfano, autore del finale postumo
Storia di un compositore incompreso
F
ranco Alfano visse in un momento storico dominato dalla confusione - si pensi ai due conflitti mondiali - che non lasciò molto spazio alle sue aspirazioni di operista, ostacolate dalla difficoltà di trovare
libretti corposi, con intrecci affascinanti e coinvolgenti.
Il compositore nasce a Napoli l’ 8 Marzo 1875. Studia al
Conservatorio S. Pietro a Maiella e si perfeziona poi in
composizione a Lipsia. Nel 1896, alla ricerca di un
ambiente culturalmente più stimolante, si trasferisce a
Berlino dove la vita musicale si nutre di interessanti scoperte stilistiche.
Nel 1899 è a Parigi per mettere in scena due balletti presso le «Folies Bergères» e dove comincia a scrivere l’opera
Resurrezione, portata poi a termine tra Mosca e Napoli.
Gli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, dopo la morte di
Wagner nel 1883, musicalmente erano stati espressione
di un forte scossone stilistico di cui Alfano è testimone.
Egli, insieme con la sua generazione, sentì la necessità
di un rinnovamento nel campo del teatro lirico ormai
da tempo sclerotizzato, nonché l’esigenza di spaziare
anche nel mondo della musica sinfonico-strumentale.
Resurrezione, il suo più valido successo, è un lavoro che
rivela una grande vena teatrale oltre ad una naturale
forza di linguaggio, entrambe preferite all’uso di melodie facilmente memorizzabili. Le pagine della sua
musica risultano quindi molto dense sinfonicamente e
spesso di difficile comprensione. Il principe Zilah, sua
seconda opera, è un esempio di tale difficoltà d’ascolto.
Si tratta di un lavoro interessante dal punto di vista
musicale, affiancato però da un libretto mediocre.
Nonostante gli insuccessi, Alfano continuò a lavorare
freneticamente fra le due guerre. Ragguardevole la sua
produzione di musica da camera: sonate per violino e
Franco Alfano
per violoncello e il Quartetto n° 2, ricco di contenuti
poetici e di sonorità dolci e mediterranee.
La sua opera maggiore è La Leggenda di Sakùntala, di cui
scrive personalmente il libretto, in prosa e non in versi,
tratta dal dramma di Kalidasa:
Abhijnanasakuntala risalente al 400 a.C. circa. . L’azione,
ambientata nell’India primordiale. Testo e musica sono
nell’opera fortemente compenetrati e l’orchestrazione
raggiunge uno sfarzo lussureggiante. La prima rappre-
sentazione è al Teatro Comunale di Bologna, il 10
dicembre del 1921, ma la partitura originale andò
distrutta durante la seconda Guerra mondiale. Sarà
Alfano stesso a strumentarla nuovamente, sulla base
della riduzione per canto e pianoforte, riproponendola
nel 1952 al Teatro dell’Opera di Roma.
Intraprende anche la carriera di insegnante: docente di
composizione e direttore del Conservatorio di Bologna
tra il 1916 e il 1923, diventerà poi direttore del Liceo
Musicale di Torino, carica che manterrà fino al 1939.
Tra le tappe più importanti della sua vita c’è, paradossalmente, proprio l’incontro con un grande libretto di
cui è chiamato a musicare il finale. Nel 1925 infatti, su
richiesta di Toscanini, la famiglia Puccini e l’editore
Ricordi lo invitano a terminare la Turandot, capolavoro
incompiuto di Puccini, morto l’anno precedente. Si tratta di un lavoro delicato: musicologi e musicisti hanno
gli occhi puntati sul risultato.
A questa parentesi seguono, tra il 1940 e il 1942, la
Sovrintendenza al Teatro Massimo di Palermo e la cattedra di Studi per il teatro lirico al Conservatorio di
Roma. Ultimo incarico della carriera didattica è la direzione del Liceo Musicale di Pesaro dal 1947 al 1950.
Il suo ultimo lavoro è il Cyrano de Bergerac del 1936.
Critica e pubblico ne apprezzano la ritrovata sobrietà
dell’orchestra.
Franco Alfano muore a San Remo, quasi dimenticato, il
27 Ottobre 1957.
Ma. E. La.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
11
Le due versioni del finale postumo dell’opera
L’ingrato compito di Alfano: finire Turandot
L
a sera del 25 aprile 1926 va in
scena al Teatro
alla Scala di Milano la
prima rappresentazione assoluta di Turandot
di Giacomo Puccini.
Appena conclusa la
scena dello straziante
corteo funebre per Liù,
la musica si interrompe
e Arturo Toscanini, dal
podio, con una voce
resa incerta dall’emozione, si rivolge al pubblico trepidante:
«Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto. La morte in
questo caso è stata più
forte dell’arte».
Dopo qualche istante di
stupore, gli spettatori
prorompono in fragorosi applausi, gridando
«Viva Puccini!».
Toscanini aveva deciso
per la “prima”- come
volontà espressagli da
Puccini - di onorare in
questo modo la memoria del compositore,
terminando l’esecuzione nel punto esatto in
cui la mano del “Lucchese” si era fermata.
(Il compositore era
morto in seguito a complicazioni post-operatorie
nel
1924
a
Bruxelles, dove si era
recato per curare un
cancro all’esofago).
Peraltro,
lo
stesso
Toscanini era stato,
insieme ai parenti del
musicista e alla Casa
Ricordi, fra coloro che
avevano
fortemente
voluto che Turandot
venisse completata da
un altro compositore.
Infatti, sebbene nella
musica strumentale un
lavoro
incompiuto
possa esercitare un
indiscutibile fascino e
mantenere comunque
inalterato il suo impatto comunicativo, nel
teatro musicale, soprattutto a partire da quello
tardo
ottocentesco,
una grave mutilazione
Secondo Teodoro Celli,
invece, il compositore
avrebbe voluto ritornare al tema inserito nel
concertato finale del
primo atto, che sembra
già ispirato al
tema del mare
nel Tristano.
Delle 375 battute scritte da
Alfano, appena
97 sono quelle
originali
di
Puccini, desunte dalla sua
bozza, e precisamente: l’inizio del duetto
Principessa di
gelo fino all’aria
Del primo pianto, di cui il
materiale tematico era solo
La scelta cadde
accennato. Gli
su Alfano
stessi
cenni
s o m m a r i
Fu invece il
riguardavano il
compositore
tema degli ottonapoletano
ni che introduFranco Alfano,
cono il secondo
allora cinquan- Manifesto di Turandot di Leopoldo Metlicovitz
quadro e la
tenne, che, seppure dopo molte per- va operare, 36 fogli ripresa del tema del
plessità, accettò il gra- pentagrammati conte- Nessun dorma nel coro
voso compito, che pure nenti gli appunti per il finale.
gli avrebbe dato quella finale di Turandot, a cui
Le due versioni
duratura fama che le contava di lavorare
sue altre opere, come durante la convalescen- Il lavoro di Alfano fu
Resurrezione (1904) o La za. Quando Alfano li completato e consegnaleggenda di Sakuntala prese in esame, si trovò to nel gennaio 1926 e
(1921), non sarebbero di fronte un materiale Ricordi ne stampò uno
confuso, pieno di can- spartito per canto e piariuscite a procurargli.
Compositore di rilievo, cellature, tagli e som- noforte. Questa edizioartista esuberante ed marie, quasi incom- ne rappresenta una
entusiasta, Alfano si prensibili, annotazioni vera rarità, di cui esiera formato sulle orme come «qui trovare la stono solo 12 copie in
di Puccini, del quale melodia tipica vaga tutto il mondo. Infatti
era anche divenuto insolita» oppure «Poi venne ben presto ritiraamico personale. Era Tristano…».
ta dal mercato: Toscaanch’egli un composi- Quest’ultima frase è nini la rifiutò con la
tore legato alla Casa stata variamente inter- motivazione che in essa
secondo vi fosse «troppo Alfano e
Ricordi e si era affer- pretata:
mato con discreto suc- Mosco Carner, grande poco Puccini».
cesso qualche anno biografo di Puccini, Le discussioni e i maluprima con l’opera La egli avrebbe voluto mori non mancarono,
Leggenda di Sakuntala, inserire in quel punto ma alla fine la volontà
anch’essa di ambienta- un intermezzo orche- dello scorbutico ed
zione orientale, che tut- strale, che avrebbe inflessibile
direttore
tavia il pubblico stava rievocato la magica d’orchestra prevalse e
già dimenticando. I atmosfera dell’opera 107 battute di Alfano
nel vennero tagliate impiecommittenti del lavoro wagneriana
pensarono che l’india- momento del bacio di tosamente, conducenna Sakuntala sarebbe Calaf.
do alla stesura di una
come la mancanza del
finale poteva mettere in
seria discussione la
fruibilità di un’intera
opera.
Lasciare in sospeso il
corso dell’azione di Turandot,
avrebbe, però,
fatto traballare
le colonne portanti dell’intera
struttura musicale e drammatica dell’opera.
I primi compositori che vennero
contattati furono
Riccardo Zandonai
e
Pietro
Mascagni, i quali
però declinarono
l’offerta.
potuta efficacemente
diventare sorella della
cinese Turandot.
Puccini aveva portato
con sé, nella clinica di
Bruxelles dove si dove-
seconda versione della
partitura.
Le parti tagliate non
erano state scritte a
caso da Alfano ed
erano funzionali a rendere con gradualità e
penetranza psicologica
il progressivo mutamento interiore di
Turandot, come per i
fondamentali momenti
successivi al bacio di
Calaf o alla rivelazione
del nome del principe.
Toscanini, tuttavia, da
grande
conoscitore
della
vocalità, era
anche consapevole che
l’impegno richiesto ai
cantanti nell’esecuzione della prima versione
sarebbe stato eccessivo.
Fu questa, probabilmente, la motivazione
della sua impuntatura.
La prima versione di
Alfano fu riesumata
solo nel 1982, in forma
d’oratorio, alla Barbican Hall di Londra,
dopo il ritrovamento
della partitura negli
archivi Ricordi e da
allora è stata ripresa in
diverse occasioni, l’ultima delle quali al
Teatro del Giglio di
Lucca, nel 2003.
Alfano ebbe la sfortuna
di nascere in un
momento di crisi del
melodramma,
dove,
per giunta, giganteggiava la figura di
Puccini. Il suo carattere
sanguigno e indipendente non gli consentiva di inseguire i gusti
del pubblico ed egli
cercò
pertanto
di
imporre una sua idea
di teatro musicale.
Morì quasi dimenticato
dalla critica, ricordato
solo per il suo lavoro di
completamento
di
Turandot, che, pur
essendo stato compiuto
con scrupolo e sensibilità, venne bistrattato
da direttori d’orchestra
e critici musicali.
A. C.
12
Turandot
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Il reliquiario pucciniano: la vi
Nell'antica torre di guardia n
un vero colpo al
cuore visitare la
Villa Puccini di
Torre del Lago, il luogo
dove furono scritte
diverse opere come
Manon Lescaut, lavoro
che diede finalmente il
successo al compositore
lucchese, ma anche La
Bohème, Tosca, Madama
Butterfly, La Fanciulla del
West, La Rondine e Il
Trittico ed in parte
Turandot.
Probabilmente è una
delle case-museo meglio
tanto più perché incontaminato dall'arroganza di
quegli zelanti museologi
abilissimi nello spersonalizzare qualsiasi antichità.
Il figlio di Puccini,
Antonio, e poi la nipote,
Simonetta, si sono occupati per una vita di
ricomporre e dedicare
esclusivamente
alla
memoria del musicista,
questo
"Sancta
Sanctorum".
Entrando nel salotto,
ancora immutato a
distanza di oltre ottan-
conservate in Italia sicuramente una tra le
più dense di vibrazioni che testimonia, con
un'immediatezza
impressionante, la personalità del geniale compositore e il gusto della
sua epoca.
Le case-museo dei grandi artisti sono talvolta
deludenti, ridotte magari come il famoso «coltello di Napoleone», del
quale si diceva che la
lama fosse stata cambiata perché rotta e il manico sostituito con uno
nuovo, perché tarlato.
Villa Puccini è invece
carica, sovraccarica di
ricordi personalissimi, di
oggetti che spaziano
dalle decorazioni, rutilanti di smalti, conferite
al Maestro, fino ai ruvidi
e screpolati stivaloni da
caccia, che era solito
indossare durante le battute.
E' un luogo magico,
t’anni, è facile immaginare Giacomo Puccini,
seduto al pianoforte illuminato dai candelieri,
mentre lavora sul pentagramma fumando innumerevoli sigarette, come
in quella fotografia abusata come souvenir dai
diversi negozi del piccolo borgo.
Alle pareti, sotto gli eleganti festoni déco, pendono alcuni eccellenti
ritratti del padrone di
casa, che mostrano un
placido e malinconico
signore di bell'aspetto,
dall'atteggiamento disinvolto.
Le tappezzerie sono
ancora quelle originali, i
paralumi, un po' tarlati,
gli stessi da cui filtrava
la luce che illuminava il
notturno lavoro di composizione.
Nel caminetto in stile
liberty, ricoperto da piastrelle provenienti dalle
E'
Manifatture di Borgo
San Lorenzo, opera di
quel Galileo Chini che
firmò anche le scene
della prima rappresentazione di Turandot, ardeva
il fuoco intorno al quale
Puccini si riuniva con i
numerosi amici, scelti fra
pittori, poeti, aristocratici e borghesi vicini di
casa, tutti animati dall'amore per il gioco, la caccia, le spettacolari mangiate e la goliardica
atmosfera propria dell'amicizia maschile.
L'arredamento ospita
pezzi di mobilio Tiffany
e Bugatti di pregio; tra le
suppellettili spicca il prezioso paravento giapponese (donato al compositore dal governo del Sol
Levante dopo il trionfo
di Butterfly), che fu rubato nel 1994 e fortunatamente ritrovato, sebbene
in pezzi, qualche tempo
dopo.
Accanto ai soprammobili di gusto eclettico, trovano posto le bacheche
che conservano lettere di
celebri cantanti e direttori d'orchestra. Leggendo
quei biglietti di auguri,
congratulazioni, resoconti di trionfali prime, si
aprono cento finestre
sulle vite di tanti altri
artisti, eredi di una grandissima e rimpianta tradizione lirica.
Le ultime testimonianze
In una vetrina, è esposta
la maschera mortuaria
di Puccini, presa sul
letto
di
morte
a
Bruxelles, che mostra il
suo viso segnato dalla
sofferenza, con le narici
affilate e le palpebre
appena socchiuse.
Nel frastuono evocativo
di questi oggetti parlanti, il sepolcro di Puccini,
posto proprio nella
parete alle spalle del
pianoforte, è forse la
cosa che meno gli
appartiene. Il freddo
marmo della sua tomba
scuote meno degli ultimi fogli da lui scritti sul
letto dell'ospedale di
Bruxelles, con cui, ridotto al silenzio dall'operazione alla gola, comunicava con parenti e amici
che venivano a visitarlo.
Dopo la morte del
padre, avvenuta il 29
novembre 1924, Antonio
Puccini, l'unico figlio
del Maestro, fece ricavare una cappella all'interno della villa, dove il 29
novembre 1926, fu trasportata la salma del
compositore che per due
anni era stata tumulata
nella Cappella Toscanini
al
Cimitero
Monumentale
di
Milano. In seguito, nella
piccola cappella della
villa, ricavata in un corridoio, vi hanno trovato
sepoltura i familiari.
Questo piccolo mausoleo bianco, opera di
Vincenzo Pilotti, ospita
pregevoli sculture di
Antonio Maraini. Di
Gastronomia: una rice
Le “folaghe a
Un classico della
C
ome per i tournedau alla Rossini,
così esiste una gustosa ricetta la
cui paternità e attribuita al compositore lucchese: “Le folaghe alla
Puccini”. Questa preparazione fa parte a
pieno titolo delle ricette tradizionali
della cucina lucchese, nota per utilizzare alimenti "poveri", trasformati in squisiti manicaretti.
La folaga è un palmipede color nero
ardesia, dal corpo robusto, capace di
nuotare a lungo sott'acqua, che vive in
quasi tutti i laghi o le paludi. Al pari
della quasi totalità degli animali acquatici, non è tenuta in grande considerazione dai gastronomi; anzi, spesso la
sua carne è disprezzata per un certo
sapore di pesce, dovuto alla sua dieta,
tant'è vero che qualche cacciatore, dopo
averla abbattuta al termine di un difficile appostamento, preferisce regalarla.
La sua carne, pur non toccando i vertici
della prelibatezza, è bianca, delicata,
tanto che la Chiesa la
di magro. A Capalbio,
ra come il grande M
prepararle per gli ami
di caccia a Torre del L
raccomandava di tratt
«Per prima cosa le folag
ciò si ottiene togliendo lo
il grasso adiposo tutto,
gambe, che getterete. D
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
13
illa-museo di Torre del Lago
nacque il rifugio di Puccini
Adolfo De Carolis,
sono, invece, la vetrata
sopra l'altare ed il
mosaico.
La passione venatoria
e l'amore per la natura
Nel giugno 1891, su consiglio dell'amico conte
Eugenio
Ottolini,
Giacomo Puccini prese in
affitto sul lago di
Massaciuccoli quella che
diverrà il nucleo della
futura villa: una vecchia
torre di guardia con tre
semplici ambienti al
piano superiore ed una
stalla al piano terra. (Era
stata costruita quasi un
secolo prima come villino di caccia per la sorella
di Napoleone Bonaparte,
Elisa Baciocchi, principessa di Lucca e
Piombino).
Da questo momento,
Torre del Lago divenne
per lui il rifugio ispiratore per gran parte delle
sue opere.
Con i proventi del successo di Manon e Bohème,
tta del Compositore
lla Puccini”
cucina lucchese
annovera tra i cibi
, le cucinano ancoMaestro era solito
ici dopo le battute
Lago. Così Puccini
tarle.
ghe vanno spellate e
oro le penne, la pelle,
amputando testa e
Dopo averle lavate,
mettetele in fusione per almeno 12 ore in
acqua al 60%, aceto al 40%, insieme alle
erbe odorose. Quando sarà il momento, fatele rosolare in poco olio con un pizzico di sale
e pepe. Allorché tutto il liquido spurgato
sarà evaporato (la carne dovrà risultare bene
abbronzata), aggiungete un battuto fine di
cipolla. sedano, carota, prosciutto. Come la
cipolla imbiondirà, versatevi dentro la conserva di pomodoro diluita in abbondante
acqua tiepida, portando a cottura a fuoco
lentissimo…dovrà essere quasi un sobbollire. Quando poi il sugo avrà preso corpo,
diverrà denso, vuol dire che ci siamo.
Mentre le folaghe verranno gustate quale
delizioso secondo piatto, l'intingolo potrete
usarlo per saltarci le tagliatelle, spolverando
poi con formaggio pecorino stagionato».
Alcune fonti tramandano una speciale
salsa d’accompagnamento insaporita
con filetti d’acciuga, salmone affumicato tritato, uova di pesce, olio e limone.
Lav. Fan.
Puccini acquistò definitivamente la torre dal proprietario,
il
conte
Grottanelli, e la fece trasformare in un sobrio villino di impianto cubico,
simmetrico, dotato dei
comfort più moderni per
l'epoca, come il telefono e
i termosifoni. Il giardino,
circondato da palmizi e
aiuole arricchite da pietre
di forma bizzarra, era
all’epoca – oggi vi è un
grande piazzale pubblico
- direttamente lambito
dalle acque del lago;
appena fuori del cancello
il compositore ormeggiava i barchini con cui compiva le inebrianti scorribande venatorie per le
paludi e gli acquitrini.
La caccia e il contatto con
la natura ebbero sempre
per Puccini grandissima
importanza e costituivano per lui una sorta di
ricarica mentale e spirituale. Ecco come il
Maestro descrive il suo
eremo lacustre: «Gaudio
supremo, paradiso, eden,
empireo, turris eburnea, vas
spirituale, reggia... abitanti
120, 12 case. Paese tranquillo, con macchie splendide fino al mare, popolate di
daini, cignali, lepri, conigli,
fagiani, beccacce, merli,
fringuelli e passere. Padule
immenso. Tramonti lussuriosi e straordinari. Aria
maccherona d'estate, splendida di primavera e di
autunno».
Nella villa-museo, la sala
dei fucili è ancora stipata
di trofei di caccia, di armi
dalle fogge più varie, di
equipaggiamento impermeabile per la battute in
barca. Gli stivali e gli
scarponi ingrassati sono
in un angolo, quasi pronti per essere indossati.
Anche in questa stanza si
immagina
facilmente
Puccini, nella fredda luce
dell'alba, mentre dall’attaccapanni mette in spalla i fucili ed in tasca le
munizioni più adatte,
magari accennando fra sé
una melodia appena
composta durante la
notte.
Puccini visse in quella
casa per oltre trent'anni,
fin quando, nel 1921, i
rumori e le esalazioni di
una torbiera aperta nei
pressi, non scacciarono,
insieme agli uccelli
acquatici, anche il compositore, che fu costretto
a trovare un nuovo rifugio a Viareggio. A nulla
valsero le sue proteste
con le autorità.
Possiamo immaginare il
dolore e la rabbia di
Puccini, così geloso della
propria quiete e amante
della natura, oltraggiato
dall'avanzare del progresso industriale.
Le ultime polemiche
Secondo
Simonetta
Puccini, nipote del
Maestro,
quell'offesa
oggi si ripete con la
costruzione, a fianco del
vecchio teatro, della
nuova imponente struttura lignea dalle torri
svettanti, che ha indubbiamente
un
forte
impatto sul quieto scenario naturale del lago.
Il nuovo progetto è stato
deciso per celebrare, nel
2008, il 150° anniversario della nascita del
compositore. «Non sono
contraria all'idea della
costruzione del teatro specifica
Simonetta
Puccini - che doveva essere
realizzato in pineta già
all'epoca di mio nonno.
Sono contraria alla scelta
del luogo, qui, accanto alla
villa. In questo modo si
distrugge completamente
quel poco che rimane della
Torre del Lago di Puccini».
A qualche tempo fa risale una mostra fotografica, organizzata dalla
stessa discendente, volta
ad evidenziare i mutamenti che, nel tempo, a
partire dal 1930, con la
costruzione del piazzale
antistante la villa, hanno
progressivamente snaturato un luogo che
Puccini aveva scelto proprio perché selvaggio e
incontaminato. Anche
Italia Nostra ha mosso
durissime contestazioni
alla nuova struttura, e il
clamore è stato tale da
costringere il Ministro
dei Beni Culturali a chiedere un'istruttoria alla
Direzione Generale per i
Beni Architettonici e
Paesaggistici.
Andrea Cionci
Turandot
14
Il
Giornale dei Grandi Eventi
L’esotismo ed il pittoresco in Puccini e Debussy
L’uso della Scala Pentatonica
per evocare l’Oriente
P
oco sembra accomunare due compositori
quasi
coetanei come Puccini
(1858-1924) e Debussy
(1862-1918). Il primo,
ultimo grande rappresentante della linea di
compositori
italiani
dedicatisi esclusivamente, o quasi, all’opera lirica; il secondo, nemico
giurato dell’opera italiana e compositore di
un’unica opera i cui
punti di riferimento
sono
Wagner
e
Mussorgskij.
Eppure
entrambi, ancor più di
altri compositori contemporanei, hanno subito profondamente il
fascino dell’esotismo e
in
particolare
dell’Estremo Oriente.
Oltre a Madama Butterfly
(1904) e a Turandot (rimasta incompiuta alla
morte di Puccini), anche
La fanciulla del West
(1910) rivela un interesse
per una cultura extra
europea. La moda dilagante dell’esotismo nel
corso di tutto l’Ottocento
si riflette però in musica
ai primi del secolo successivo sotto la sua
forma più specifica:
nella moda per il
Giappone e per l’Oriente
in generale. Forse più di
qualsiasi altro compositore, Debussy si è
immerso nel mondo del
giaponismo, circondandosi di oggetti o stampe
che talvolta ha scelto
come frontespizio di
alcune delle sue partiture più illustri, come La
mer (1905), in cui nulla vi
è di orientale nella
sostanza.
In termini specificamente musicali l’influenza
del
Giappone
e
dell’Estremo Oriente si
riflette nell’uso frequente della scala pentatonica, cioè corrispondente
ai tasti neri della tastiera.
Claude Debussy
Nella prima delle tre
Estampes per pianoforte
(1903), non a caso intitolata Pagodes, Debussy
affida la mano destra e
in parte anche la sinistra,
esclusivamente ai tasti
neri. Vi sono rari precedenti, come lo “Studio
sui tasti neri” op.10, n.5
di Chopin. Ma in questo
caso non è presente
alcun elemento di esotismo, per via della chiara
affermazione della tonalità maggiore di Sol
bemolle. Nel caso di
Debussy, invece, l’omaggio all’Oriente è evidente non solo dal titolo del
primo brano, Pagodes, o
da quello della raccolta,
che allude alle stampe
giapponesi, ma, come
avviene nella Butterfly e
Turandot, dallo stile stesso della musica. Tutto il
brano fa uso non solo
della scala pentatonica,
ma di una successione
di note da essa ricavata
che si ripete sempre
identica,
salvo
nel
ritmo, come nella musica tradizionale cinese o
giapponese, o nella
musica indonesiana.
L’interesse di Debussy –
come poi di altri compo-
sitori del
Novecento
- per la
m u s i c a
orientale è
stato fortemente stim o l a t o
dalle orchestre
di
gamelan
delle isole
di Giava e
Bali,
che
egli ebbe
occasione
di ascoltare
rispettivam e n t e
durante le
Esposizioni
Universali
di
Parigi
del 1889 e
del 1900. La predilezione
per le scale non europee
si manifesta anche nel
suo legame con la musica spagnola (La soirée
dans Granade, La sérénade
interrompue, La puerta del
vino tra i pezzi pianistici,
o Ibéria dalle Images per
orchestra), ma si cristallizza nell’uso delle scale
pentatoniche (tasti neri)
e esatoniche (per toni),
già in parte usate dai
compositori russi. Anche
Puccini a sua volta ha
subito l’influenza dell’oriente, in parte mediata
dall’influsso del suo collega francese. Adottando
la scala esatonica ne La
fanciulla del West il tono
di esotismo necessario al
soggetto ambientato in
California è stato così
garantito.
Dopo
la
Butterfly, la nuova opera
di Puccini testimonia di
una continuità di interesse per il “non europeo”, essendo ambientata nella patria di
Pinkerton, di cui la stessa Butterfly include l’inno nazionale.
L’uso sistematico che
fece Debussy della scala
per toni in Pelléas et
ritroveranno fino a
Mélisande, la cui prima
Stravinskij, e non solo in
precede di due anni
Petruska, quasi interaquella della Butterfly, è
mente strutturato su
certamente stato un fatquesta dialettica. Le intetore determinante nella
razioni tra questa caratscelta stilistica pucciniateristica di scrittura con
na adottata per la sua
il mondo dell’Estremo
opera “americana”. Del
Oriente sono molteplici
resto va notato che nele sfoceranno nelle Trois
l’opera di Debussy la
poésies de la lyrique japoscala per toni è frequennaise (1913) o nell’opera
temente combinata con
Le Rossignol (1914) dello
frammenti della scala
stesso
compositore
pentatonica, certamente
russo. In quest’ultima le
per suggerire un “esotievocazioni di Cina e
smo immaginario” legaGiappone si fondono
to al luogo indeterminanell’impiego spesso carito dell’azione del dramcaturale della scala penma di Maeterlinck.
tatonica,
che
nella
Dunque i legami tra l’oButterfly caratterizzava i
pera di Debussy e quelle
personaggi giapponesi e
di Puccini non sono cerin seguito definirà l’amtamente casuali. Ma
bientazione cinese di
mentre nel caso di
Turandot. Il canto dell’uPuccini le scelte stilistisignuolo
meccanico
che sono dovute ai soginviato dall’Imperatore
getti da lui prescelti, per
Debussy l’impiego
delle
scale non europee va spesso
oltre la semplice volontà di
evocare il pittor e s c o
dell’Oriente. La
scala pentatonica si ritrova in
numerosi brani
pianistici i cui
titoli non evocano necessariamente
un
contesto orientale (Reflets dans
Giacomo Puccini
l’eau, prima delle
del Giappone all’ImpeImages, o Voiles, La fille
ratore della Cina è affiau cheveux de lin, dal
dato al suono nasale delprimo libro dei Preludi).
l’oboe che esegue ostinaIl suo impiego è suggeritamente una banale
to dalla specificità della
melopea pentatonica.
tastiera del pianoforte,
La dimensione caricatucon la sua opposizione
rale che in Puccini carattra tasti bianchi e neri,
terizzava in parte i
anche se la scala pentaparenti di Cio-Cio-San
tonica è talvolta traspoviene
usata
da
sta sui tasti bianchi,
Stravinskij per alludere
come in“General Lavine”
alla
meccanizzazione
excentrique dal secondo
della natura da parte
libro dei Preludi. Le condell’uomo.
seguenze stilistiche di
questa opposizione si
Angelo Cantoni
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
15
In 15 magiche serate fino al 19 agosto
4 titoli per il Festival Puccini
nell’estate di Torre del Lago
P
unta su due nuove produzioni e la ripresa di
due memorabili allestimenti il calendario del
Festival Puccini 2007, in15
rappresentazioni dal 20 luglio
al 19 agosto 2007 presso il
Gran Teatro all’aperto di Torre
del Lago Puccini.
Nuove produzioni per
Madama Butterfly scene e
costumi di Ugo Nespolo regia
di Stefano Vizioli, e La
Rondine scene e costumi di
Nall, regia di Lorenzo Amato
(al suo debutto nell’opera lirica). Riproposta, invece, per
due grandi allestimenti La
Bohème con scene e costumi
di Jean-Michel Folon, regia di
Maurizio Scaparro e Tosca
con scene e costumi firmati da
Igor Mitoraj, regia di Mario
Corradi,
Un cartellone, questo del 53°
Festival Puccini – festival che
dal 2000 al 2007 ha prodotto e
coprodotto ben 15 nuovi allestimenti – capace di distinguersi per qualità e per il fortunato progetto “Scolpire
l’Opera” che ha consentito di
combinare il linguaggio universale ed immortale della
musica di Puccini, con quello
dell’arte contemporanea, proponendo allestimenti non tradizionali.
L’inaugurazione il 20 luglio è
stata affidata, al nuovo allestimento di Madama Butterfly
(20, 29 luglio - 3, 19 agosto).
Sul podio lo statunitense
Laurence Gilgore, direttore
del Connecticut Grand Opera.
Protagonista il soprano russo
Elmira Veda, mentre il tenore
trevigiano Fabio Sartori veste i
panni di Pinkerton. Luca
Salsi, applaudito lo scorso
anno nello stesso ruolo, è
Sharpless, mentre per Suzuki
la voce è quella di Renata
Lamanda.
Tosca (21, 28 luglio - 4, 9, 18
agosto), nell’apprezzato allestimento della scorsa stagione, vedrà protagonista
Antonia Cifrone, a cui si alternerà Maria Mastino (9 e 18
agosto). Nel ruolo del pittore
Cavaradossi
il
tenore
Marcello Giordani apprezzatissimo nell’edizione 2006 e
Appuntamenti musicali
Flamenco e Beethoven
in settembre all’Auditorium
B
eethoven si fa in nove per il settembre dell’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia. Dopo l’appuntamento del “K
festival” dedicato a Mozart, quest’anno la ripresa dei concerti sarà dedicata al compositore tedesco ed alle sue sinfonie. Dal
3 al 27 settembre, infatti, l’orchestra ed il coro dell’Accademia eseguiranno le nove sinfonie. Sul podio “bacchette” prestigiose,
come Kurt Masur, Georges
Prêtre, Marek Janowski.
Caratteristica di questi concerti di settembre, i prezzi
particolarmente contenuti
ed una attenzione ai giovani
con meno di 30 anni, per i
quali è stato predisposto un
biglietto a soli 8 euro od un
abbonamento per i 5 concerti a partire da 20 euro. La
rassegna inizierà lunedì 3 e
martedì 4 settembre con la
Nona Sifonia diretta da
Kurt Masur.
Sempre all’Auditorium Parco della Musica, ma organizzato
dalla Fondazione Musica per Roma, dall’Ambasciata di
Spagna e dall’Istituto Cervantes, dal 12 al 23 settembre si terrà
il festival “Flamenco” dedicato alla musica ed alla ritmata
danza spagnola.
L. Fa.
Stefano Secco (9 e 18 agosto).
Il ruolo di Scarpia sarà di
Giorgio Surian, che proprio a
Torre del Lago nel 2004 ha
debuttato nel ruolo. Sul podio
torna la direttrice canadese
Keri Lynn Wilson.
La Bohème (27 luglio - 5, 11,
17 agosto), titolo pucciniano
più rappresentato al mondo,
torna nell’affascinante lettura
di Jean-Michel Folon. La “gelida manina” sarà quella di
Norma Fantini, affiancata nel
ruolo da Maria Luigia Borsi
(11,17 agosto). Musetta sarà
Donata
D’Annunzio
Lombardi a cui si alternerà
Chun Yu Xu (11,17 agosto)
allieva dell’Accademia di Alto
Perfezionamento per voci pucciniane diretta da Mirella Freni.
Nel ruolo di Rodolfo
Massimilano Pisapia, mentre
quello di Marcello sarà di
Gabriele Viviani (27 luglio e 5
agosto) e Marzio Giossi (11, 17
agosto). Schaunard sarà interpretato
da Alessandro
Luongo
e
Giovanni
Guagliardo (11 e 17 agosto).
Sul podio l’americano Stewart
Robertson, direttore artistico
dell’Opera di Miami.
Infine, dopo 19 anni torna a
Torre del Lago una delle opere
a torto relegate tra i titoli
minori di Puccini: La Rondine
(10-16 agosto). Sul podio il
maestro Alberto Veronesi, che
del Festival è direttore artistico e che dirigerà un cast di
interpreti tutti al debutto in
questo titolo. Magda sarà il
soprano bulgaro Svetla
Vassileva, Ruggero verrà
interpretato da Roberto
Aronica, mentre Marzio
Giossi sarà Rambaldo, Maya
Dashuk Lisette, ed Emanuele
Giannino Prunier.
La stagione 2007 è il preludio al
grande appuntamento del 2008,
nel 150°anniversario della
nascita di Puccini, che vedrà
anche l’inaugurazione del
Nuovo Gran Teatro, in grado di
accogliere 3200 spettatori.
Fran. Pic.
In Libreria
Puccini e la sua grande
attenzione per la scena
U
n’attenzione quasi maniacale per i
particolari, era quella che Puccini
riservava alle proprie opere. Dalle
partiture, ricche di indicazioni e dense di note
a margine, fino all’interessamento alle scenografie, ai dettagli della scena. Spazi, quelli
d’ambientazione, sempre riconoscibili, mai generici, come
ogni altro elemento visivamente inconfondibile. Una
tale ricchezza di elementi,
capaci di essere il tema, il soggetto di una fortunata mostra
“La scena di Puccini” organizzata tra il settembre 2003 ed il
gennaio 2004 nell’ambito delle
celebrazioni del Centenario di
Butterfly nel complesso monumentale di San Micheletto a
Lucca. Del successo dell’esposizione ne rimane un ricchissimo catalogo disponibile in
libreria, edito dalla Maria Pacini Fazi Editore
di Lucca, particolarmente interessante poiché,
oltre al copioso apparato iconografico (385
illustrazioni a colori), approfondisce i rapporti del Compositore con scenografi come quel
Galileo Chini, che proprio della prima di
Turandot firmo le scene divenute talmente
“icone” di quest’opera da essere scelte dalla
Liebig come soggetti per le famose figurine.
Ma c’è anche una visione delle opere pucciniane attraverso le immagini di quel principe del
pennello che fu Adolf Hoenstein, autore dei
più noti manifesti e cartoline, divenute
anch’esse simbolo delle singole opere nell’immaginario collettivo.
Così, la certosina attenzione di Puccini per questi diversi aspetti del contorno visivo alle sue
note, viene messa a fuoco attraverso i diversi studi scenografici, figurini, bozzetti e fotografie
dell’epoca messi a confronto.
Ne esce, oltre che la dimostrazione di come Puccini curasse in
alcuni casi pure l’impianto
generale delle proprie opere,
anche l’attenzione personale
prestata dal Compositore per gli
allestimenti dei suoi lavori a
Lucca tra il 1891 ed il 1924. Un
fatto che sfata, almeno nella
sfera musicale, il controverso rapporto che
avrebbe avuto con la propria Città, dove in
realtà vi furono rappresentate quasi tutte le
opere con esiti trionfali, dall’Edgar nel 1891 alla
presenza di Giulio Ricordi, alla Bohème con la
direzione di Leopoldo Mugnone nello stesso
anno del debutto torinese ed ancora nell’anno
della prima esecuzione, il 1900, la Tosca.
La scena di Puccini
a cura di Vittorio Fagone e Vittoria Crespi Morbio
pp. 424, f.to 24x27, 385 ill. col.
Euro 60,00
Mic. Mar.
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