anno 2015
A cura di
Salvatore Ingrassia
Quaderni della Sussidiarietà
Sicilia: periferia e
risorsa dell’Europa
A cura di
Salvatore Ingrassia
Quaderni della Sussidiarietà
Sicilia: periferia e
risorsa dell’Europa
La Fondazione per la Sussidiarietà ha per obiettivo l’approfondimento culturale-scientifico e
la diffusione di una visione della società basata sulla centralità della persona e sul principio
di sussidiarietà, con particolare attenzione agli aspetti educativi connessi.
Con questo obiettivo, la Fondazione svolge un’intensa attività di formazione, pubblicazioni,
ricerca, convegni e seminari.
I Quaderni della Sussidiarietà affrontano temi di attualità in modo rigoroso e critico cercando di andare oltre i luoghi comuni e le letture ideologiche.
Questa pubblicazione si affianca alle altre curate dalla Fondazione, come la collana Punto
di fuga, i Rapporti sulla sussidiarietà e il quadrimestrale Atlantide.
Redazione: Emanuela Belloni
Progetto grafico: Maurizio Milani
ISBN 978-88-97793-15-1
© 2015
Fondazione per la Sussidiarietà, Milano
Sommario
Introduzione5
Salvatore Ingrassia
Omelia del Santo Padre Papa Francesco
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Campo Sportivo Arena in Località Salina (Lampedusa), 8 luglio 2013
Mare Nostrum. Migrazioni e responsabilità dell’Europa, il nostro compito
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Dialogo con monsignor Michele Pennisi
Mediterraneo migrante. Le responsabilità dell’Europa
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Dialogo con Rosario Sapienza
Sull’orlo dell’abisso. Presenza e testimonianza dei cristiani in Medio Oriente 23
Roberto Fontolan
Centri per gli immigrati – Normativa vigente e tutela dei diritti umani
31
Ignazio De Mauro
Immigrati in Sicilia: persone o business?
Claudio Saita
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Introduzione
Salvatore Ingrassia
Il presente quaderno raccoglie i testi degli interventi svolti all’interno del ciclo di incontri sul tema Sicilia: periferia e risorsa dell’Europa, promosso dalla
Fondazione per la Sussidiarietà a Catania fra novembre 2013 e aprile 2014.
All’origine della proposta sta l’omelia che Papa Francesco ha pronunciato
al Campo sportivo di Lampedusa l’8 luglio 2013 in occasione del suo primo
viaggio apostolico, colpito dai tanti migranti morti nei cosiddetti viaggi della
speranza.
Il primo contributo di questo quaderno è costituito proprio dal discorso del
Pontefice. “Nella letteratura spagnola – diceva il Papa – c’è una commedia di
Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha
ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti
e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno!”.
Nel suo intervento, monsignor Michele Pennisi, riporta quanto scritto dai Vescovi di Sicilia in un loro messaggio: “La gente di Lampedusa, alla quale va
la nostra gratitudine e la nostra ammirazione per l’instancabile apertura di
cuore nei confronti di quanti hanno cercato approdo tra loro, ha mostrato al
mondo il valore e l’efficacia dei gesti semplici e significativi del quotidiano: la
vicinanza, il soccorso, il pianto, la collera, la pazienza. E nello stesso tempo
ha dimostrato l’inutilità controproducente di talune risposte istituzionali che
non hanno contribuito a risolvere il problema, ma anzi hanno moltiplicato
il numero delle vittime. Di fronte a tanto dolore, che sembra non aver fine,
occorre cambiare atteggiamento a partire dalle nostre comunità e coinvolgendo quanti si sentono interrogati da questa sfida umanitaria”.
Questo passaggio fornisce la chiave di lettura con cui affrontare alcuni
degli interventi di seguito riportati. Emerge innanzitutto la posizione carica
di realismo della Chiesa di fronte a quanto è accaduto e accade, secondo
l’immagine cara a Papa Francesco della Chiesa come “ospedale da campo”:
innanzitutto rispondere, nell’immediato e per come è possibile, al dramma
umano di tante persone. Affiorano, nel contempo, i diversi atteggiamenti delle nostre popolazioni di fronte a questo fenomeno, come evidenziati
sia nell’intervento di monsignor Pennisi che in quello di Claudio Saita. Ed
emerge anche l’insufficienza di molte forme di risposta di tipo istituzionale,
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attraverso i vari centri per l’immigrazione predisposti dallo Stato. In questo
contesto, si colloca anche l’intervento di Ignazio De Mauro, che fornisce,
innanzitutto, un quadro delle varie tipologie di centri per l’immigrazione, dal
punto di vista della normativa, per poi evidenziare alcune criticità in merito
alla tutela dei diritti umani vigente lo Stato. “Ciò che non riesco a spiegarmi è come a persone alle quali viene salvata la vita con grande impegno e
abnegazione venga poi riservata un’accoglienza assolutamente inadeguata
e poco rispettosa della dignità che a ogni uomo non può non essere riconosciuta e che, quindi, va tutelata”.
Alzando lo sguardo, l’intervento di Rosario Sapienza aiuta a focalizzare alcuni elementi che in questi ultimi anni hanno portato a un’accelerazione del
fenomeno immigratorio. Nel suo intervento l’ipotesi di giudizio è che l’Unione
Europea abbia una responsabilità politica importante, in quanto ha creato
grandi aspettative nei confronti dei popoli dei Paesi dell’area Mediterraneo,
che poi non è stata in grado di (o ha preferito non) mantenere. “Il fenomeno
si è stabilizzato – afferma Rosario Sapienza – e noi non siamo all’altezza non
solo del ruolo che ci competerebbe come persone responsabili, non siamo
nemmeno all’altezza di persone che potrebbero gestirlo cavandone degli
utili: l’abbiamo trascurato, l’abbiamo lasciato crescere in maniera irrazionale
e oggi ce lo troviamo così com’è”.
Il superamento di un metodo fondato sulla cultura dell’emergenza migratoria è il profilo trattato dall’intervento di Claudio Saita. L’emergenza di un
fenomeno sempre più strutturale, infatti, alimenta da una parte il business
dell’emigrazione e dall’altro non stimola tutti quei necessari interventi innovativi affinché l’accoglienza possa generare una reale integrazione e inclusione sociale della persona migrante e del suo nucleo familiare.
Di fronte a quello che accade, qual è il nostro compito come cristiani? “È
importante innanzitutto – ribadisce monsignor Pennisi – dare sostegno ai
missionari che operano in questi Paesi o, con il volontariato internazionale,
è necessario aiutare queste persone a vivere in maniera dignitosa nei loro
Paesi d’origine”.
Tale aspetto viene approfondito da Roberto Fontolan, nel suo Sull’orlo dell’abisso. Presenza e testimonianza dei cristiani in Medio Oriente, intervento
che è stato promosso dal Centro Culturale di Catania ai primi di gennaio del
2013, che non si è svolto all’interno del ciclo di incontri della Fondazione, ma
è stato qui riportato in quanto aiuta a comporre un quadro di giudizio più
ampio.
Fontolan afferma che per le tribù arabe “la parola d’ordine è restaurare,
riportare il califfato. Il califfo è stato per secoli nell’Islam una sorta di imperatore, un’autorità nello stesso tempo religiosa e politica e il successore
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del profeta. I cristiani, per questi gruppi, diventano un ostacolo”. A distanza
di pochi mesi abbiamo assistito a fatti drammatici – massacri ed esecuzioni brutali – che non avremmo immaginato e che confermano quanto detto
allora.
In questi Paesi, come in Europa, la presenza dei cristiani è sempre stata un
fattore di instancabile costruzione di comunità umane e di pace. Anche gli
interventi qui raccolti evidenziano, in varie forme, come difendere la presenza viva della Chiesa – in qualunque situazione – possa significare contribuire
a porre le condizioni per la promozione e lo sviluppo integrale della persona
umana. Come si legge nell’incipit dell’enciclica Caritas in Veritate di Bendetto
XVI: “la carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua
vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale
forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera”.
Questa carità, carica di realismo, è il compito dei cristiani. Rispondendo
alla domanda: “Come dovrebbero essere trattate queste persone una volta
giunte in Italia?”, monsignor Michele Pennisi sostiene: “Credo che l’unica
maniera umana consista nel tentativo di integrarle sul territorio. Attraverso
strutture piccole, a misura d’uomo, in grado di far fronte alle esigenze di
tutti e ospitare, al massimo, una cinquantina di persone. Nei centri in cui
vengono accolti tutti insieme migliaia di profughi, è molto più difficile andare
incontro ai bisogni di ciascuno. Per far questo, è necessaria una rivoluzione
culturale. Anzitutto, a livello di mentalità comune, occorre, cioè, aprirsi alle
logiche dell’accoglienza e della solidarietà. Tale nuova cultura potrà, in seguito, trovare supporto nella politica. Ma pensare che tutto possa risolversi a
livello politico è un errore”.
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Omelia del Santo Padre Papa Francesco
Campo Sportivo Arena in Località Salina (Lampedusa),
8 luglio 2013
Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di
speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che
porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare,
a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta per favore. Prima
però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi,
abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze
di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro
viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un
esempio di solidarietà! Grazie! Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto, il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale.
Saluto cordialmente il sindaco signora Giusi Nicolini, grazie tanto per quello
che lei ha fatto e che fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani
che oggi, alla sera, stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di
abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più
dignitosa per voi e le vostre famiglie. A voi: o’scià!
Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei
proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.
«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il
peccato. «Dove sei Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso
il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si
ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma
semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone
la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di
sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello!
Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza!
Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al
mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E
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quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge
a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio.
Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a
te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto
migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante
volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio! E una
volta ancora ringrazio voi abitanti di Lampedusa per la solidarietà. Ho sentito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati
per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste
persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto
hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti
della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e
lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando
il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono:
«Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda
emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno
altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo
fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo
caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di
cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello
mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare
a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di
sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del
provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo
caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza
dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!
Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto.
«Adamo dove sei?», «Dov’è il tuo fratello?», sono le due domande che Dio
pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomi9
ni del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza
domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?»,
Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per
queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano
i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza
del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto
la capacità di piangere! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il
grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode
ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di
sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli
ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore
la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che
c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. «Chi ha
pianto?». Chi ha pianto oggi nel mondo?
Signore, in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo
perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo Padre
perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che
porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro
decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi
drammi. Perdono Signore!
Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?»,
«Dov’è il sangue di tuo fratello?».
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Mare Nostrum. Migrazioni e responsabilità
dell’Europa, il nostro compito
Dialogo con monsignor Michele Pennisi
Domanda. In questi ultimi anni la presenza degli immigrati è stata vista,
anche nel nostro territorio, essenzialmente con grande fastidio, come un fatto da cui difendersi: difendere la nostra identità culturale, difendere i nostri
posti di lavoro, etc. Più recentemente, ci si è accorti che la presenza degli
immigrati può diventare occasione per nuovi affari (come, ad esempio, ricevere finanziamenti per la costruzione di nuovi alloggi o per ospitalità presso
strutture alberghiere). Allora cambia l’atteggiamento formale per motivi
strumentali. In ogni caso, il rischio è quello di un cinismo diffuso e radicato,
una disumanizzazione dei rapporti. Alla luce della sua esperienza di Vescovo
in due diocesi della Sicilia, quali sono le sue preoccupazioni?
Michele Pennisi. Di fronte alla presenza degli immigrati provenienti dalle
sponde del Mediterraneo gli atteggiamenti presenti nelle nostre popolazioni
sono di tre tipi:
1. Il primo è un senso diffuso di fastidio e di ripulsa dovuto, almeno nella
maggior parte dei casi, non tanto a una mentalità marcatamente razzista e
xenofoba (che si incontra invece in alcune fasce della popolazione del Nord
influenzate dalla Lega), quanto a un ragionamento di tipo provinciale e utilitaristico soprattutto in questo momento di crisi. Si dice perché lo Stato deve
spendere soldi per accogliere queste persone quando invece potrebbe spenderli meglio per gli italiani che sono senza lavoro, per le persone licenziate,
per le fasce più povere della nostra popolazione.
Questo atteggiamento ha dato origine a un senso di disinteresse e di indifferenza, che ha fatto sì che qualcuno potesse continuare a correre sulla
spiaggia facendo finta di non accorgersi dei morti.
2. Il secondo atteggiamento è apparentemente favorevole alla loro accoglienza ma, in realtà, per motivi altrettanto utilitaristici, strumentali, che
possono sfociare nel cinismo di chi pensa di approfittare delle sventure altrui
per fare affari. Basta vedere gli affari che si fanno – per non andare troppo
lontani – al CARA di Mineo nel cosiddetto “villaggio della solidarietà” – con11
sorzio gestito da un importante imprenditore del Nord e da cooperative
legate a personaggi politici – in cui fornitori di servizi, alberghi che ospitano
immigrati o militari, hanno dei vantaggi economici, senza generalemnte preoccuparsi della qualità della vita degli immigrati. Vorrei segnalare come sia
a Lampedusa come al CARA di Mineo la Caritas viene tagliata fuori da ogni
forma di assistenza alle persone presenti nel Centro, così come da ogni forma di accompagnamento diretto o indiretto. Il Centro di accoglienza rischia
di divenire “affare di Stato”.
3. Il terzo atteggiamento è caratterizzato dalla accoglienza e dalla solidarietà nei confronti degli immigrati, visti come fratelli e sorelle in difficoltà da
amare e servire. Basta pensare ai soccorsi dati agli immigrati in difficoltà dai
pescatori, dai militari, dai medici, dai volontari, dalla gente comune a Lampedusa ma anche in diversi altri paesi della Sicilia, come a Scicli, Siracusa
e Catania, dove gente comune ha dato testimonianza di cosa può fare una
popolazione dal cuore aperto.
Noi vescovi di Sicilia abbiamo scritto in un recente messaggio: “La gente di
Lampedusa, alla quale va la nostra gratitudine e la nostra ammirazione per
l’instancabile apertura di cuore nei confronti di quanti hanno cercato approdo tra loro, ha mostrato al mondo il valore e l’efficacia dei gesti semplici e
significativi del quotidiano: la vicinanza, il soccorso, il pianto, la collera, la
pazienza. E nello stesso tempo ha dimostrato l’inutilità controproducente di
talune risposte istituzionali che non hanno contribuito a risolvere il problema, ma anzi hanno moltiplicato il numero delle vittime. Di fronte a tanto
dolore, che sembra non aver fine, occorre cambiare atteggiamento a partire
dalle nostre comunità e coinvolgendo quanti si sentono interrogati da questa
sfida umanitaria”.1
Ho parlato con alcuni medici e militari che hanno assistito i superstiti e che
hanno raccolto i cadaveri. Erano sconvolti. Anche loro hanno pianto e hanno
pregato. Si sono sentiti confortati dall’arcivescovo elemosiniere inviato da
Papa Francesco che, invece di starsene nell’ufficio vaticano a firmare pergamene delle benedizioni papali, è stato loro vicino con la preghiera e si è fatto
carico di aiuti concreti per i superstiti.
Per quanto riguarda le diocesi di Piazza Armerina e di Monreale posso citare
alcuni esempi. Ad Aidone, in una struttura di proprietà della diocesi, sono
ospitati dei minori che sono aiutati a integrarsi da alcune suore indiane, da
un mediatore culturale musulmano di origine africana che si chiama Abra1 Messaggio dei Vescovi siciliani riuniti a Siracusa nel 60° della Lacrimazione della Beata
Vergine Maria, in Avvenire, 114 ottobre 2013
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mo e che proviene dall’inferno di Rossano, dagli operatori, dai volontari, dai
membri della Fondazione Di Vincenzo legati al Rinnovamento nello Spirito,
dai vicini. La maggior parte di questi ragazzi stanno frequentando il locale
Istituto Professionale Agrario e alcuni altri, che hanno ottenuto delle “borse
lavoro”, sono occupati presso laboratori artigianali.
A Piazza Armerina alcune famiglie con bambini sono state accolte dalla Associazione “Don Bosco duemila” e sono state aiutate a integrarsi nel territorio.
Ho avuto modo di incontrarli più volte personalmente e ho battezzato alcuni
dei loro bambini. Per l’Epifania, in collaborazione con la Caritas diocesana,
abbiamo organizzato una cena per tutti gli immigrati presenti nel territorio
diocesano e ogni gruppo etnico ha avuto modo di esprimere con il canto e
la danza la propria cultura. Purtroppo bisogna dire che da parte dello Stato
ci sono ritardi di otto-dieci mesi nel rimborsare le spese, ma questo non ha
scoraggiato l’accoglienza.
A Partinico, nella diocesi di Monreale, in una struttura di proprietà di una
parrocchia, sono state accolte una trentina di donne, la maggior parte delle
quali aveva subito violenza. Sono state accolte e vengono assistite dagli
operatori dell’Associazione “Casa Famiglia Rosetta” fondata da padre Vincenzo Sorce. Io sono stato a visitarle appena arrivate e ho notato come diverse persone si sono mobilitate per dare loro degli aiuti materiali e sostegno
psicologico.
Domanda. Papa Francesco, nell’omelia a Lampedusa dell’8 luglio 2013,
diceva: “Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più
attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che
Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni
gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo,
si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito”. In altre parole,
invita ciascuno ad una assunzione di responsabilità. Quello che accade, ci
riguarda, ne siamo in qualche modo corresponsabili. Qual è il nostro compito
come cristiani?
Pennisi. La tragedia di Lampedusa ha fatto aprire gli occhi almeno per
qualche giorno sulla strage degli innocenti che in questi anni ha trasformato
il Mediterraneo in un grande cimitero e ha squarciato il fitto velo dell’indifferenza che accompagna da anni gli sbarchi dei migranti.
Durante la visita ad Limina dei vescovi della Sicilia occidentale, avvenuta nel
maggio scorso, abbiamo parlato a Papa Francesco del dramma dei migranti
morti in cerca di fortuna nel “mare nostrum”. Il Papa è rimasto molto colpito
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e ha deciso di dare un segnale forte! E questo segnale è stato la sua visita dell’8 luglio a Lampedusa. Si è trattato di un gesto di vicinanza, che ha
voluto anche risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si
ripeta.
Debbono risuonare ancora per ciascuno di noi le domande che il Papa, pellegrino a Lampedusa, stringendo il timone posto davanti all’ambone, diventato per l’occasione pulpito e balcone sul mondo, ha lanciato: “Adamo, dove
sei?” e “Caino, dov’è tuo fratello?”.
“Questa non è una domanda rivolta ad altri” ha aggiunto Papa Francesco
“è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e
sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma
hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano
comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà!”.
Ritorna ancora l’interrogativo del Papa: “Chi è il responsabile del sangue di
questi fratelli e sorelle?” Non possiamo anche noi, come gli abitanti di Fuente Ovejiuna, protagonisti di una commedia di Lope de Vega dire: “Nessuno”.
Papa Francesco ha posto anche un’altra domanda: “Chi di noi ha pianto per
questo fatto e per fatti come questo? Chi ha pianto per la morte di questi
fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca?
Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che
desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società
che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”.
Questi morti, e le migliaia che negli anni sono stati travolti in queste acque,
chiedono verità, giustizia e solidarietà.
È ora di abbandonare l’ipocrisia di chi continua a pensare che il fenomeno
migratorio sia un’emergenza che si auspica ancora di breve durata.
Il 3 ottobre ero presente nella Sala Clementina in occasione dell’udienza di
Papa Francesco al Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, quando
il Papa ha parlato di provare vergogna. Non è stato solo un atto di accusa
verso i responsabili diretti o indiretti di questa tragedia, ma anche un atto di
assunzione di responsabilità, di esame di coscienza, per tutti. Quando il Santo Padre ha parlato di vergogna, ha parlato di un sentimento che non può
non riguardarci tutti quanti, e che deve implicare un maggior impegno da
parte di tutti. Ci voleva, forse, questa immane tragedia, che ha fatto gridare al Papa “Vergogna!”, per scuoterci dalla futilità dei dibattiti politici e dalla
banalità dei piccoli problemi che spesso angustiano la nostra vita quotidiana.
Cosa fare?
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È importante, innanzitutto, dare sostegno ai missionari che operano in questi Paesi o, con il volontariato internazionale, è necessario aiutare queste
persone a vivere in maniera dignitosa nei loro Paesi d’origine. Di recente ho
incontrato in Terrasanta il Patriarca di Gerusalemme, che mi ha spiegato che
solo dalla Siria stanno transitando 800mila profughi verso la Giordania.
Verso coloro che sono sbarcati sulle nostre coste, il nostro compito di cristiani è quello dell’accoglienza, del prendersi cura, vincendo il muro dell’indifferenza, sullo stile del Buon Samaritano. Siamo chiamati a farci prossimi degli
altri, chiunque egli sia, da qualsiasi parte arrivi, qualsiasi problema porti,
qualsiasi sia la difficoltà. Siamo chiamati a fare e a far fare sempre il primo
passo verso uno stile di accoglienza e di misericordia, a guardare in chiunque bussa alla mia porta i tratti del Figlio Gesù: “Ero forestiero e mi avete
ospitato”.
Papa Francesco, nella sua visita a Lampedusa, ha voluto sottolineare la priorità fondamentale: un’accoglienza senza limiti che sia fondata sulla compassione del Buon Samaritano, sul “patire con’’ gli altri.
Credo che l’unica maniera umana per aiutare e accogliere queste persone
consista nel tentativo di integrarle sul territorio, attraverso strutture piccole,
a misura d’uomo, in grado di far fronte alle esigenze di tutti. Nei centri in cui
vengono accolti tutti insieme migliaia di profughi, è, infatti, molto più difficile andare incontro ai bisogni di ciascuno. Per far questo, è necessaria una
rivoluzione culturale, anzitutto a livello di mentalità comune. Occorre aprirsi
alle logiche dell’accoglienza e della solidarietà; tale nuova cultura potrà, in
seguito, trovare supporto nella politica, che non ha ancora provveduto a
sviluppare corrette politiche di accoglienza e integrazione, capaci di dare una
risposta virtuosa al fenomeno.
Dobbiamo riconoscere che tutto rimane ancora sotto il profilo dell’emergenza, e ogni emergenza miete le sue vittime.
Spetta alle autorità politiche e militari contrastare i mercanti di morte che,
impunemente, solcano il Mediterraneo vendendo sogni di libertà a ignari
migranti, traghettati verso l’Italia in condizioni di estremo pericolo, senza
alcuna sicurezza, facendosi pagare profumatamente.
Si deve poi evidenziare davanti al mondo la posizione cinica di un’Europa
che non si commuove neanche per i bambini senza vita sul molo di Lampedusa e sa dire solo che serve più dissuasione verso i migranti. Non possiamo
immaginare che tutto il peso dell’immigrazione debba gravare esclusivamente sulla Sicilia e sull’Italia, deve essere l’Europa a farsi carico di questo problema che non si esaurirà nel breve periodo. Bisogna impegnarsi a favorire
i ricongiungimenti familiari, chi, per esempio, sbarca in Sicilia per ricongiungersi con i suoi parenti che stanno in Germania, ha bisogno dello status di
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rifugiato, ma per ottenerlo, prima che le commissioni apposite decidano e
diano parere favorevole, passano spesso diversi mesi.
Se il sentimento collettivo di vergogna che in questi giorni tocca le nostre
coscienze – e di cui ci ha parlato Papa Francesco – servirà anche a cambiare le nostre leggi sugli stranieri, saluteremo questa svolta come un evento
positivo. “Ma non saremmo intellettualmente onesti – come ha scritto un
editorialista di Avvenire – se facessimo credere che l’abrogazione del reato di ‘clandestinità’ servirà a evitare tragedie come quella di Lampedusa…
il problema dei profughi è assai più complesso di quello delle norme che
regolano l’ingresso in Italia per motivi di lavoro o di studio. L’Italia è la porta
dell’Europa rivolta all’Africa. Il problema dei profughi dall’Africa è problema
europeo”.
È tempo che l’Unione Europea rompa gli indugi per una politica “comune”
nella gestione dei flussi migratori, che armonizzi le varie legislazioni nazionali, vada al di là della emergenza e veda gli Stati membri uniti in un’azione
di cooperazione allo sviluppo nei Paesi di provenienza.
È giunto il tempo di abbattere il muro dell’indifferenza e del cinismo.
E se può scoraggiarci la sfida di quanto c’è ancora da fare, ci può consolare quanto amava dire il beato Giuseppe Puglisi, sacerdote e martire vicino
alle sofferenze dei più poveri: “Se ognuno fa qualcosa allora possiamo fare
molto...”
Molto, non tutto. Il “molto” compiuto insieme sprona ad andare avanti senza
adagiarsi, perché “molto” ancora resta sempre da fare, specie in mezzo alla
gente, soprattutto fra i più poveri. Nessuna realtà può automaticamente e
quasi “magicamente” cambiare. Perché costruire il bene è impegnativo, e fa
appello alla responsabilità di tutti, al modo in cui ciascuno fa la sua parte,
nel poco come nel molto.
Come Chiesa siciliana dobbiamo forse maturare la consapevolezza che
abbiamo ricevuto dal Creatore una responsabilità grande, per il fatto che
ci troviamo nel cuore del Mediterraneo, a metà fra il continente africano e
quello europeo. Dobbiamo desiderare per la nostra Chiesa non solo la fedeltà al Vangelo, ma anche l’attenzione alla storia e alla geografia.
Nel messaggio rivolto dai vescovi delle Chiese di Sicilia2 abbiamo scritto:
“Invitiamo a vivere il prossimo Avvento come tempo di fraternità e di condivisione nella luce del mistero dell’Incarnazione. Solo facendoci prossimi ai
nostri fratelli ultimi, infatti, potremo dare un senso alla celebrazione liturgica del Figlio di Dio fatto uomo. Sarà un’occasione propizia per approfondire
la conoscenza del fenomeno migratorio, liberandosi da pregiudizi e luoghi
2 Cfr. nota 1.
16
comuni; per studiare forme possibili di aiuto e di solidarietà verso gli immigrati; per sollecitare interventi politici ai diversi livelli, che contribuiscano ad
affrontare realisticamente il problema e a elaborare soluzioni efficaci.
Gli innumerevoli morti (uomini, donne, bambini), che sono seppelliti nel
Mediterraneo con la loro speranza di vita e di libertà, scuotono le nostre coscienze con il loro grido di giustizia. Che il nostro silenzio e la nostra inerzia
non vanifichino il loro sacrificio”.
17
Mediterraneo migrante. Le responsabilità
dell’Europa
Dialogo con Rosario Sapienza
Domanda. Osservando questo grande flusso dei profughi, si ha sempre più
l’impressione che ciò che sta accadendo non sia un fenomeno episodico, ma
abbia la connotazione di un cambiamento epocale e non limitato nel tempo,
che tende a modificare il volto dei Paesi europei. Quali sono le ragioni – si potrebbe dire, qual è stato il detonatore – per cui, in questi ultimi anni e in questi ultimi mesi, abbiamo assistito ad una accelerazione di questo fenomeno?
Che cosa è accaduto e che cosa sta accadendo nei Paesi del Mediterraneo?
Rosario Sapienza. Le cause del fenomeno hanno avuto una evoluzione che
merita attenzione. Io ho cominciato a occuparmi di questo problema negli
anni Novanta, quando lavoravo come consulente, in particolare della Commissione Migrazioni dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa.
La Commissione, preoccupata del fatto che le migrazioni – una realtà già abbastanza emergente – potessero essere difficili da gestire visto l’avvicinarsi
del 1992 con la conseguente caduta delle frontiere tra gli Stati europei, si
chiedeva cosa sarebbe accaduto quando non ci sarebbero più stati controlli
alle frontiere interne e i profughi sarebbero dilagati nei territori dell’UE.
Mi ricordo, ho qui proprio il testo che scrissi allora, che il motivo principale
della situazione era ravvisato nello squilibrio demografico: si riteneva che le
popolazioni di questi Paesi avrebbero continuato a crescere con ritmi molto
superiori a quelli delle popolazioni europee e questo avrebbe dato luogo alle
migrazioni. La componente economica, che certamente c’è sempre stata,
veniva ritenuta dal punto di vista dell’identificazione dell’eziologia di questo
fenomeno come una componente secondaria.
Negli anni, però, questo tipo di squilibrio demografico, pur ancora esistente,
si è notevolmente attenuato; infatti, anche nei Paesi della sponda sud del
Mediterraneo, non c’è più questa esplosione demografica e gli stessi studiosi
hanno dovuto rivedere verso il basso le loro stime.
C’è invece, e comincia a diventare sempre più la causa principale dei flussi
migratori, un problema di carattere politico: la garanzia dei diritti.
Molte persone affermano di essere andate via dal loro Paese perché era un
Paese politicamente per loro inagibile. Ovviamente, soprattutto nell’ultimo
periodo, si sono venute a creare situazioni di conflittualità tali che spingono
18
le persone a fuggire cercando un posto dove avere una migliore garanzia per
la propria incolumità.
Fatto sta, comunque, che questo fenomeno non è più spiegabile con motivazioni congiunturali o, se lo è, questa spiegazione non ci soddisfa più. Sembra
che queste migrazioni, quale che ne sia la causa, si siano stabilizzate e siano
anzi un fenomeno in costante crescita.
Io, francamente, ho una spiegazione sulla quale lavoro da un po’ di tempo.
L’Unione europea ha creato delle aspettative, è andata a raccontare a queste
persone che di lì a poco si sarebbe costituito nell’area del Mediterraneo uno
spazio all’interno del quale era previsto che si circolasse, che ci fosse lavoro per tutti. Il presidente Prodi diceva che avremmo dato a queste persone
tutto ciò che l’Unione europea aveva rappresentato per noi, tranne le istituzioni. Poi, però, nel momento in cui queste persone ci hanno creduto e
hanno cominciato a circolare nel Mediterraneo, noi abbiamo detto: “Eh no!
Un momento! Non così” e abbiamo inventato “Frontex”, “Dublino 1”, “Dublino 2”, “Dublino 3”.
Quindi io sono convinto che l’UE abbia una reale responsabilità in tutto questo, se non giudiziariamente e giuridicamente, sicuramente una responsabilità politica importante. Ha impostato una politica mediterranea velleitaria e
forse anche inconsapevole, sicuramente a corrente alternata: all’inizio ci ha
creduto, poi l’ha lasciata perdere, poi ha detto: “La facciamo lo stesso ma la
facciamo come un pezzo della politica di vicinato”.
Sarkozy ha cercato spazi per la Francia inventando l’Unione per il Mediterraneo che poi diventa un progetto comune alla Germania della cancelliera Merkel e che, come tale, viene poi abbandonata perché non soddisfaceva più la
volontà egemonica della Francia e, in fondo, alla Germania non interessava…
I nostri dirimpettai non sono dei selvaggi, anzi tra loro ci sono persone di
grande cultura che capiscono, analizzano, e molti di quelli che migrano, lo
fanno in cerca di prospettive, anche semplicemente come una scommessa
sul proprio futuro.
Il fenomeno si è stabilizzato e noi non siamo all’altezza non solo del ruolo
che ci competerebbe come persone responsabili, non riusciamo nemmeno a
gestirlo cavandone degli utili: l’abbiamo trascurato, l’abbiamo lasciato crescere in maniera irrazionale e oggi ce lo troviamo così com’è.
Domanda. In questi ultimi anni – in Europa e nel nostro Paese in particolare – è mancata una politica rivolta ai Paesi extra-europei del bacino Mediterraneo. Ogni tanto, qualche Paese europeo si attiva, improvvisamente, per
aumentare la propria sfera di influenza al fine di acquisire posizioni strategi19
che in ambito economico (si pensi alla Francia in occasione della crisi libica,
alla ricerca di nuovi sbocchi nel mercato petrolifero). Quale politica verso i
Paesi del Mediterraneo bisogna allora chiedere al nostro Paese? Cosa chiedere, come siciliani, che venga messo in agenda, a livello istituzionale, dal
Parlamento europeo?
Sapienza. In realtà ci sono delle cose che possiamo fare da noi, a prescindere dal governo nazionale, a cui non possiamo credere che ci sostenga, ma
che almeno non ci ostacoli, perché potrebbe succedere anche questo.
Il diritto dell’UE permette, anzi incoraggia, la stipulazione di accordi tra entità territoriali infrastatuali, quindi per esempio le regioni, che possono non
solo beneficiare di sostegno comunitario nell’ambito della politica di coesione, ma possono diventare soggetti attivi in cooperazione, all’interno di aree
che si delimitano in maniera transfrontaliera: si chiamano GECT i gruppi
europei di cooperazione territoriale.
La Sicilia è particolarmente attiva in questo ambito ed è stata tra le prime
regioni italiane a costituire un GECT delle isole, insieme con Cipro, le Baleari, la Sardegna, facendo da capo-fila. I GECT hanno come obiettivo di creare
una nuova realtà di articolazione territoriale transfrontaliera e la regione
Sicilia è pioniera nella realizzazione di questi strumenti all’interno del Mediterraneo.
Allora la prima e unica cosa che possiamo chiedere al governo centrale è che
non ci ostacoli; la Regione siciliana ha rivendicato sempre, qualunque fosse
l’orientamento politico del suo governo, l’esercizio pieno dei propri poteri,
anche per quello che riguarda i rapporti internazionali.
In realtà né il governo nazionale né la Corte costituzionale ci hanno mai
lasciato uno spazio di reale autonomia. Peccato, perché la nostra posizione
al centro del Mediterraneo ci consentirebbe di fare qualcosa, ma non ci viene
lasciata mano libera.
Domanda. Quali potrebbero essere le potenzialità di questi GECT?
Sapienza. Per esempio un GECT come quello che si voleva fare (e io credo che alla fine sia stato questo il motivo per cui non è stato fatto), tra le
regioni francesi e le nostre regioni nord occidentali, avrebbe potuto gestire
tutta la questione della TAV, perché avrebbe potuto intestarsi un progetto
finanziato dall’Europa. Non mi interessa qui se la TAV si debba fare o no, mi
interessa ribadire che non era detto che la dovessero fare i governi. Quindi il
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problema è sempre lo stesso: l’Europa preme perché le regioni si attivino e i
governi, ovviamente, resistono.
Un GECT potrebbe gestire un progetto del genere, così come il GECT delle
isole potrebbe gestire queste problematiche migratorie attraverso accordi
o con la creazione di zone dove possano essere agevolati gli insediamenti.
Ovviamente, non può adottare norme perché non ne ha il potere, però può
gestire tutto quello che c’è da gestire dal punto di vista amministrativo. Potrebbe addirittura sostituirsi agli Stati nell’esercizio di alcuni poteri.
Domanda. Sono curioso di capire un po’ meglio alcuni problemi giuridici
legati all’arrivo degli immigrati in Sicilia. Quali problemi si pongono al riconoscimento dello status di rifugiato o altri?
Sapienza. Il riconoscimento dello status di rifugiato è un problema tuttora
aperto nella comunità internazionale. Fino a cinquanta-sessanta anni fa, il
quadro era sufficientemente chiaro: c’era (e c’è tutt’ora) una convenzione
stipulata nel 1951 che si occupava dei rifugiati e delle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato. A termini della convenzione il rifugiato
è chi, nel suo Paese di origine, fosse sottoposto o avesse fondato timore di
essere sottoposto a persecuzione, a motivo della sua appartenenza etnica,
delle sue idee politiche, e via dicendo. Il modello del rifugiato è, insomma,
Chopin, un grande intellettuale che scappa, oppure Nureyev.
Negli anni abbiamo assistito a una esplosione della categoria del rifugiato e
la giurisprudenza di molti Paesi, più illuminati del nostro (nel senso che sono
arrivati qualche anno prima dove poi è arrivato anche il nostro Stato), hanno
riconosciuto la possibilità di attribuire lo status di rifugiato a persone che
erano perseguitate per vari altri motivi. Siccome bisogna essere appartenenti a un gruppo che è identificato come oggetto di persecuzione, l’espressione
inglese è singled out for prosecution; la giurisprudenza canadese prima e
poi quella inglese (e poi l’ha fatto anche la giurisprudenza italiana) sono arrivate a riconoscere che una donna, che fuggisse dal Paese nel quale viveva
per sottrarsi a una mutilazione genitale per ragioni rituali, è riconosciuta
appartenente a un gruppo particolare – il gruppo delle donne che rifiutano
la mutilazione genitale – e quindi le poteva essere riconosciuto lo status di
rifugiata. In realtà lei non era stata perseguitata, aveva dovuto fuggire per
non sottoporsi a questa pratica che riteneva ignominiosa; quindi la categoria
si è dilatata, ma il discorso riguarda sempre singoli individui.
Accanto a questi fenomeni che una giurisprudenza più attenta ha permesso di includere, c’è poi l’enorme fenomeno di chi scappa da una situazione
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oggettivamente invivibile, per esempio chi fugge da un disastro naturale
oppure chi fugge da quelli che si chiamano, purtroppo con un’espressione
che è molto cinica, disastri costruiti dall’uomo, man-made disasters, quindi
guerre civili o situazioni di sistematica violazione dei diritti umani.
La categoria del rifugiato non comprende, generalmente, chi cerca semplicemente situazioni economiche migliori. Se c’è chi lascia il suo Paese solo
per cercare condizioni di vita migliori, cosa in sé legittima, quello non è un
rifugiato.
A ciò si aggiunga che oggi questa procedura è diventata particolarmente
complessa perché gli Stati europei si sono dotati di un sistema di riparto di
competenze per cui, una volta riconosciuto lo status di rifugiato da parte di
uno Stato europeo, si pone il problema della libera circolazione di questa
persona all’interno dell’Unione. Il rifugiato è, infatti, una persona protetta; il
rifugiato gode, almeno in teoria, di tutta una serie di agevolazioni delle quali
non gode il migrante “qualunque”.
22
Sull’orlo dell’abisso. Presenza e
testimonianza dei cristiani in Medio Oriente
Roberto Fontolan
Cosa è stato il 2013 per l’Iraq, per i cristiani iracheni?
Il 2013, scrive la Repubblica [dopo la strage di Baghdad del Natale 2013,
ndr], è stato l’anno più cruento per loro. Oltre 6.650 le persone uccise,
secondo una stima di una agenzia francese: violenze a sfondo religioso che
hanno portato a una impressionante diminuzione dei cristiani in Iraq. Si calcola che dal 2003, cioè in dieci anni, anno dell’arrivo dell’esercito americano,
i cristiani sono passati da un milione e mezzo all’attuale mezzo milione.
Ed ecco cos’è stato il 2013 per i cristiani in Egitto, secondo un rapporto della
Ong francese che si chiama Porte aperte: la terra delle piramidi nel 2013 è
stata la prima al mondo per numero di atti violenti di persecuzione, 167, e
per numero di distruzioni e chiusure di chiese, 492.
E per la Siria, cos’è stato il 2013? Questo Paese è ormai al terzo posto nel
mondo, secondo gli ultimi rapporti internazionali, per le violenze anche di
tipo religioso. Prima in assoluto viene la Corea del nord, seconda la Somalia.
In Siria, dove fino a tre anni fa i cristiani vivevano nella più totale tranquillità, il 2013 è condensato in questo dato: 1213 persone uccise, il doppio
rispetto alla seconda classificata che è la Nigeria.
In Nigeria, infatti, c’è una situazione molto difficile per i cristiani, a causa
della presenza di gruppi estremisti di Boko Haram; ebbene, nel 2013 in Siria
sono morti per cause violente il doppio dei cristiani uccisi in Nigeria. La Siria
è stata la quarta per fatti violenti di persecuzione, contati in 83 episodi e
terza per la distruzione delle chiese, 78.
Questo è stato il 2013 per i nostri fratelli cristiani che vivono in questi tre
Paesi. E questo è il contesto in cui queste persone vivono, in cui queste comunità storiche, millenarie, ormai vivono da anni.
Che cosa sta succedendo in questa vecchia regione chiamata Medio Oriente?
Dobbiamo fare alcuni passi indietro.
Nel 1979 succede un fatto molto importante per il mondo musulmano.
L’ayatollah Ruhollah Khomeini, che abitava in esilio a Parigi, ritorna tra folle
osannanti nel suo Paese, l’Iran. È il segno che qualcosa sta cambiando in
modo definitivo, è uno dei turning point della storia, come dicono gli analisti,
uno dei grandi momenti in cui la storia cambia. Nel 1979 finisce un regi23
me sostenuto dagli Stati Uniti e dai Paesi occidentali, il regime dello Scià di
Persia, e inizia un altro regime, un regime musulmano, un regime islamico,
che poi è anche un regime sciita. Quel momento rappresenta un momento
chiave per tutto il mondo musulmano. Le grandi masse, che si consideravano vittime della storia e dei grandi tradimenti perpetrati a loro danno dai Paesi occidentali, vivono quest’episodio come il grande momento di un riscatto
possibile. I manifesti di Khomeini, che era uno sciita, in un Libano che allora
era totalmente a maggioranza sunnita – cioè la componente maggioritaria
del mondo islamico che odia in modo viscerale e totale gli sciiti considerandoli eretici – osannavano Khomeini, erano appesi in tutte le strade di Beirut,
che erano strade sunnite, perché Khomeini rappresentava il riscatto, la possibilità che l’Islam riguadagnasse lo splendore dei secoli passati. In particolare la vicenda di Khomeini risveglia in tantissime masse del mondo arabo
l’idea che l’Islam abbia una possibilità di vittoria sull’Occidente.
Tutto ciò ha spaventato, invece, i regimi e i governi di ispirazione sunnita
perché Khomeini era diventato molto popolare tra i loro sudditi pur appartenendo a un Paese – cioè a un mondo, a una cultura, a una storia, a una
tradizione – completamente diversa da quella araba, com’è la tradizione
persiana, e pur appartenendo a una minoranza religiosa considerata, all’interno dell’Islam, una minoranza da annientare; però la popolarità del leader
e di questo nuovo governo iraniano si diffonde con una velocità incredibile.
I discorsi di Khomeini venivano sentiti in tutte le radio di questo sterminato
mondo arabo, in particolare il Medio Oriente, che soffriva le grandi frustrazioni dovute alle vicende legate alla Prima e Seconda guerra mondiale, al
problema di Israele, alle guerre Israelo-Palestinesi, etc.
La rivoluzione khomeinista ha spaventato molto le maggioranze del potere
sunnita e i governi dell’Arabia Saudita, dell’Iraq e tutti i regimi del Golfo;
questa novità era una minaccia per quegli assetti di potere tradizionali, per
le tradizioni, per il mondo sunnita. I sunniti, infatti, pur avendo grandi poteri, grandi ricchezze, pur essendo la grandissima maggioranza non riuscivano
a vincere la battaglia, a riscattare il mondo arabo dalle frustrazioni dei secoli
precedenti, come narrava un libretto scritto alcuni anni fa da un giornalista
libanese che si intitolava L’infelicità araba (il giornalista è stato poi fatto saltare su una autobomba a Beirut, ndr).
Questo è il momento storico in cui comincia a diventare evidente, in epoca
moderna (perché era una situazione che non si conosceva negli anni precedenti), la frattura sciiti/sunniti che diventa poi concreta nei milioni di morti
della guerra tra Iraq e Iran. Noi ricordiamo molto l’Iraq per la guerra del
Golfo del 1991 e quella del 2003, ma Iran e Iraq hanno vissuto quasi otto
terribili anni di guerra, condotta con migliaia di giovani, bambini, ragazzini
che andavano al fronte completamente disarmati e si scontravano al confine.
24
Era certamente una guerra tra la rivoluzione khomeinista e un Paese come
quello di Saddam Hussein, all’epoca fortemente sostenuto dall’Occidente
che, a sua volta, aveva paura di quella rivoluzione, ma nel frattempo comincia a incendiarsi anche il conflitto tra sunniti e sciiti.
Sono partito da Khomeini perché questo conflitto tra sunniti e sciiti è quello
che domina in questo momento in tutto il Medio Oriente, si ripercuote in tutta questa regione, è continuato per trenta, quaranta anni, assumendo varie
forme.
Quello che vediamo oggi in Siria è un aspetto, una fase di questo conflitto.
Questo in termini macro, perché tutti questi Paesi normalmente hanno una
grandissima maggioranza sunnita e una minoranza sciita, anche in diversi
Paesi del Golfo, vale a dire gli Emirati Arabi, Oman, Bahrein, etc.
C’è una sostanziale maggioranza sciita in Iraq al governo, supportato in
questi decenni dagli americani e dall’Occidente, è un governo sciita e questo
spiega il grandissimo odio dei sunniti verso questo governo. Quando a noi
arrivano le notizie di stragi a Mosul o Baghdad, si tratta delle milizie sunnite
che attaccano quelle sciite.
Ci troviamo di fronte a situazioni paradossali in questa vicenda, come l’assalto a quella che è stata città simbolo della guerra del Golfo per gli americani, dal 2003, che è Falluja, conquistata dalle milizie di Al Qaeda; abbiamo
vissuto dieci anni di guerra per poi ritornare al punto di partenza, e forse
addirittura peggio che al punto di partenza. Questo è il conflitto macro che è
in corso in tutti questi Paesi.
In Libano è in corso questo tipo di conflitto perché il presidente libanese è
filo-sunnita ma la maggioranza del Paese è sciita; nel Libano non si fanno
censimenti dal 1961-1962, se si facessero l’equilibrio del Paese verrebbe
del tutto scardinato. Non è possibile in Libano affrontare i numeri reali delle
componenti religiose; in quel Paese c’è un esercito, quello degli Hezbollah,
che è addirittura molto più consistente, molto più organizzato, dell’esercito
“regolare” libanese.
In Siria abbiamo il governo della famiglia Assad – prima il padre, il famigerato Hafiz e adesso il figlio Bashar – una famiglia che appartiene a una
confessione di tipo sciita, gli Alawiti, un insieme di tradizioni, storia religiosa
che si mescolano anche con fattori etnici, clanici, familiari, etc.
L’Iran sostiene Assad. Il Libano, la parte di Hezbollah, sostiene Assad. I
ribelli sono sunniti. La componente moderata, liberale, è chiaramente in
difficoltà a vantaggio delle milizie fondamentaliste. Queste milizie sono sostenute da Paesi come Qatar, Arabia Saudita, Turchia; o almeno questa è la
convinzione diffusa in molte capitali.
25
Ma all’interno di questo scenario c’è un’altra vicenda importante che è quella
dell’Islam, in particolare all’interno del mondo sunnita: questi decenni hanno
visto il crescere, il dilagare, in alcuni Paesi, del fenomeno che noi chiamiamo
fondamentalismo, che ha preso varie forme. C’è una forma fondamentalista che abbiamo conosciuto negli anni scorsi, che ci è sembrata, in un certo
senso, più accettabile, come quella dei fratelli musulmani in Egitto, o come
quella del partito Ennahda (della rinascita) in Tunisia.
C’è invece un fondamentalismo che è diventato guerra santa, Jihad, e che
ha preso le forme della vera e propria battaglia, con uno sterminato numero
di milizie, gruppi, partiti, combattenti di ogni tipo, di ogni fazione, di ogni
foggia.
Tutte queste spinte portano a una esasperazione del conflitto e della violenza perché all’interno del mondo sunnita, e più in generale all’interno del
mondo islamico, in questi trent’anni si è polverizzato, si è frammentato
l’assetto religioso e sociale e quindi ogni gruppo, ogni clan, ogni partito, ogni
tribù è portata ad armarsi, a conquistare territorio, a fare della forza il suo
modo di essere nel presente.
Eppure si può dire che c’è un orizzonte comune in tantissimi di questi gruppi: il grande sogno di gran parte di queste entità, politico-religiose e militari
nello stesso tempo, è di dare instaurazione della grande “umma” musulmana, la comunità di credenti, l’instaurazione temporale del grande impero
musulmano, il ritorno del Califfato.
Le grandi tribù arabe di quella che poi divenne l’Arabia Saudita combatterono contro i turchi durante la Prima guerra mondiale (ricordate tutti il film
Lawrence d’Arabia che è un pezzo di storia del cinema ma anche della storia
vera) per questo ideale arabo-musulmano; qui si tocca un’altra questione, la
questione degli Arabi e dei Turchi, una ulteriore complicazione.
Per tutti questi gruppi la parola d’ordine è restaurare il califfato. Il califfo è
stato per secoli nell’Islam una sorta di imperatore, un’autorità nello stesso
tempo religiosa e politica e il successore del profeta.
I cristiani, per questi gruppi, diventano un ostacolo; infatti, è vero che i cristiani hanno vissuto da secoli in queste terre ancora prima dell’Islam, come
ad esempio il caso chiarissimo dell’Egitto “copto”, che significa sostanzialmente egiziano.
Si può dire che l’arabità e l’Islam sono arrivati in Egitto su un terreno preesistente; però ho notato, con grande preoccupazione, una novità: mai avevo
sentito, per esempio in Egitto, considerare estranei i cristiani, anche nei periodi più bui. Non avevo mai sentito, trovato, letto questo concetto, perché
in qualche modo nella storia di tutte queste regioni la presenza dei cristiani
26
era un fatto assodato: c’erano come parte “naturale” del panorama.
Nell’Egitto di questi ultimi quattro-cinque anni, da quando è scoppiata la
primavera araba, ho cominciato a leggere i proclami con cui venivano rivendicati gli attentati: facevano riferimento all’estraneità dei cristiani in quella
regione, “nella nostra terra”, una innovazione molto pericolosa.
I cristiani hanno sempre vissuto una situazione difficile ma raramente è
stata teorizzata la loro scomparsa, raramente è stata teorizzata l’estraneità
delle comunità cristiane da queste terre, e questo è un fatto molto particolare e molto “moderno”.
A noi sembra di ritornare alla storia medievale con le guerre del Cinquecento
o del Seicento o, ancora prima, alle crociate. In realtà una parte dell’islam
moderno pensa questo, vuole questo, cerca questo.
C’è chi pensa – come lo “Stato islamico dell’Iraq e della grande Siria”, che
adesso è vincente in quella parte di Siria verso l’Iraq – che in un territorio
governato dalla legge islamica non possano esserci che islamici.
Allora si capisce che per i cristiani è diventato tutto molto difficile, c’è una
logica, una filosofia, una strategia, che diventa anche strategia militare di
eliminazione dei cristiani da queste terre; non si può dire che non c’è.
Ci sono alcuni gruppi, alcune fazioni, alcune entità, alcuni soggetti che praticano questa strategia perché vogliono restaurare il califfato, vogliono ritornare alla grandezza dell’Islam del passato.
C’è un fatto molto interessante in questo dramma che stiamo vivendo: tutte
queste spinte stanno provocando delle tensioni enormi dal punto di vista
geografico. Per esempio in Iraq che è molto grande, la parte nord è dominata storicamente, da sempre, dai Curdi che sono una entità diversa rispetto a
tutte queste storie che ho raccontato, sono sostanzialmente un popolo, una
grande etnia. Sono sunniti in gran parte ma in loro l’elemento religioso non
è così caratterizzante l’identità come lo è per altri.
Al tempo della prima guerra del Golfo, una delle prime cose che fecero gli
occidentali, dal punto di vista militare, era la no-fly zone. Siccome si diceva
che Saddam Hussein avesse perseguitato in modo particolare i Curdi, allora
gli Occidentali decisero una sorta di protezione e quindi gli aerei dell’aviazione irachena non potevano volare su quella parte di Iraq perché era sorvegliata dalla difesa aerea degli Occidentali. Da quel momento per i Curdi, che
da secoli erano l’unica etnia a non avere un proprio Stato, questo Kurdistan
iracheno è diventato “il” Kurdistan.
Oggi, a distanza di vent’anni dalla prima guerra del Golfo e dopo tutto quello
che è successo, l’Iraq è diviso in tre zone:
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- una zona nord che è il Kurdistan, dove vige una autonomia che è pressoché una indipendenza, non è formalmente uno Stato indipendente ma è
come se lo fosse, perché si può entrare solo con il permesso delle autorità
curde;
- al centro c’è una grandissima fascia sunnita, un po’ mista con gli sciiti, cioè
Baghdad e tutta la parte centrale;
- il sud è completamente sciita.
Una persona molto saggia, un cardinale del Vaticano che ha seguito molto
queste vicenda mi diceva: gli americani finita la guerra cosa faranno? Daranno le chiavi dell’Iraq agli sciiti di Teheran e poi se ne andranno; perché
questo è il grande timore dei sunniti e cioè che l’Iraq – o meglio, quello che
resta dell’Iraq, tolto il terzo settentrionale che ormai è Kurdistan – diventi un
Paese praticamente governato dagli sciiti, quindi dall’Iran.
La recrudescenza di tutte queste morti che ci sono state, le stragi terrificanti, efferate che ci sono state in questi anni, nelle zone sciite a opera dei
sunniti e in quelle sunnite a opera degli sciiti, è dovuto a questo.
Ma la cosa a cui prestare attenzione è che il tema del Kurdistan si sta allargando.
La parte nord della Siria, che confina a nord con la Turchia e a est con l’Iraq,
è già una provincia autonoma curda, perché anche in Siria c’erano i Curdi; i
Curdi siriani sono alleati dei Curdi iracheni.
In Turchia, Diyarbakir è la capitale storica dei Curdi, cosa che genera terrore
nelle comunità turche, perché se questo Kurdistan di fatto, se non di diritto,
continua a radicarsi, a consolidarsi anche in zona turca, la Turchia perderà di
fatto un pezzo di territorio a vantaggio dei Curdi. Lo stesso fenomeno si sta
verificando in diversi Paesi.
Un’analista americana ha recentemente affermato che la Siria in pochi anni
verrà frantumata in almeno sette o otto Stati, quanti saranno gli emirati
delle fazioni che in questo momento si stanno combattendo sul territorio.
Rimarrà una piccola porzione di territorio alawita e poi il resto sarà diviso
nelle altre fazioni.
Quindi c’è una tensione fortissima, anche sul piano geo-politico, e tutta questa vicenda porterà molto probabilmente a grandi cambiamenti.
Intanto l’instabilità di tutta questa regione andrà avanti per anni, la rivista
The Economist, parlando di Israele e Palestina, era uscita con una copertina
titolata La guerra dei 60 anni. In Israele la situazione non è mai stata regolata, non è mai stata definita e parliamo di un conflitto aperto, dal 1948 in
avanti quando ci fu la prima guerra arabo-israeliana.
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Ecco dove vivono questi nostri fratelli cristiani, ecco dove è stato rapito il
giornalista Domenico Quirico, ecco dove sono state rapite le dodici suore di
Malula, un piccolissimo villaggio siriano di circa 2mila abitanti dove si parla
ancora l’aramaico e oggetto di continue incursioni, occupazioni, conquiste,
sequestri.
In generale, ormai, abbiamo capito dalla storia moderna che non esistono i
buoni e i cattivi; le colpe, le responsabilità, le violenze di oggi si mescolano.
Il problema dei cristiani è che non sono solo l’oggetto, il bersaglio fisico di
alcuni gruppi, di alcune milizie, che ne vogliono la scomparsa; la vita dei
cristiani in tutte queste regioni è sempre stata difficile, sono sempre stati
una minoranza, a partire dal VII secolo dopo Cristo, e quindi hanno sempre
vissuto i grandi ondeggiamenti della storia.
Per farvi capire quanto è dura, dovreste andare a Cipro, che è a 80 chilometri dal Libano. Cipro ha una storia molto interessante perché la parte nord è
stata invasa 37 anni fa dall’esercito turco, per vicende legate alle ex colonie
britanniche e alle grandi tensioni che c’erano tra i gruppi greco-ciprioti e
turco-ciprioti. In questi 37 anni di occupazione, dei 515 monumenti cristiani – conventi, chiese, cimiteri, scuole – non è rimasto più niente. La Chiesa
cipriota, che minuziosamente aggiorna questo elenco di distruzioni, giorno
dopo giorno, ha pubblicato diversi cataloghi in cui oggetti, monumenti meravigliosi, dai monasteri del 1500 completamente affrescati alla povera lapide
di un cimitero cristiano sono stati tutti distrutti.
Andare dentro Cipro nord è una lezione di vita veramente interessante.
Come se ci fosse stato un bombardamento atomico selettivo che ha colpito
solo la croce cristiana...
È una prospettiva fantascientifica: un mondo che minuziosamente cancella
ogni possibilità di visibilità della croce, con una perizia, con una sistematicità che fa veramente impressione e non si può parlare solo di un particolare
odio anti cristiano, entrano in gioco fattori nazionali, nazionalistici, storie
complesse. E Cipro appartiene completamente all’Europa, è un Paese dei 27
dell’unione europea, che a turno ha anche la presidenza dell’Europa. Eppure
nessuno in Europa si occupa di questa vicenda.
Il grande tema di tutte queste vicende è certamente “cosa possiamo fare
noi”, e noi veramente possiamo fare molto poco. Non possiamo illuderci da
questo punto di vista. Sono processi lunghissimi.
Ad esempio in Egitto, il giorno dopo che Mubarak è andato via, tutte le
diplomazie occidentali, tutti i media occidentali hanno cominciato a dire: ci
vogliono i partiti, ci vogliono le elezioni, ci vuole la democrazia, ci vogliono i
tribunali, come se un Paese come quello nel giro di un mese fosse in grado
29
di funzionare come la Francia, la Gran Bretagna, etc. C’è un fattore tempo,
che è impressionante, che si gioca in queste vicende. Pensiamo cos’ha voluto dire per i nostri Paesi edificare le costituzioni, la democrazia, le regole, le
istituzioni.
Noi però quando succede una cosa come quella che è accaduta in Egitto,
siamo tutti addosso, come a dire “adesso dovete fare questo”, “dovete fare
quello”, “dovete andare alle elezioni”, come se le elezioni fossero la soluzione
del problema egiziano.
Eppure si è visto cosa succede quando si va alle elezioni in un certo modo e
in un certo contesto: in Algeria nel 1993, il FIS, il Fronte Islamico di Salvezza, aveva vinto le elezioni, cioè le elezioni le hanno vinte quelli che avrebbero ucciso la democrazia. Questo conflitto non ha soluzione, in Algeria infatti
non è stato risolto, c’è stata una guerra che ha portato via 250mila morti.
Il tema della presenza cristiana in questi posti è un tema enorme e ha
bisogno di tutta la nostra attenzione, questo lo possiamo fare. Possiamo
certamente anche aiutare materialmente, mandare dei soldi quando ce li
chiedono. Ma lì, come ci diceva un sacerdote gesuita ad un recente Meeting
di Rimini, i soldi arrivano, il problema è che loro si sentono soli, loro vivono soli. E questa è la grande domanda che ci dobbiamo fare noi cristiani da
questa parte del Mediterraneo.
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Centri per gli immigrati – Normativa vigente
e tutela dei diritti umani
Ignazio De Mauro
Premessa
L’Unione degli Ordini Forensi della Sicilia si occupa da anni del compito
dell’Avvocatura nella difesa dei diritti umani e ha organizzato diversi momenti di approfondimento culturale e di formazione su questo tema, in
particolare il convegno internazionale sul tema «Professione forense e diritti
umani», tenutosi a Catania nei giorni 8 e 9 luglio 2011, nella consapevolezza
«che gli avvocati dovranno volare alto come gli aquiloni ergendosi secondo un’espressione già entrata nel linguaggio della deontologia ufficiale, a
“custodi dei diritti”. Questo è quel che consegue dall’entrata in vigore – il 1°
dicembre 2009 – del Trattato di Lisbona dal quale è posta una sfida irrinunciabile a un ceto che, per vincerla, dovrà prima di tutto migliorare se stesso
sia culturalmente che eticamente».3
L’opportunità di partecipare al “Progetto Lampedusa” per l’Unione degli
Ordini Forensi della Sicilia ci consente di passare dallo studio del fenomeno
migratorio all’azione a tutela dei diritti di quanti affrontano i pericoli di un
lungo viaggio in mare per sfuggire non solo alla povertà, ma, soprattutto, a
situazioni di gravissimo pericolo per la loro integrità fisica e non solo.
Ho chiesto di occuparmi in questa sede delle varie strutture nelle quali i
migranti vengono accolti e/o ospitati per tentare di verificare se le modalità
di tale ospitalità siano effettivamente rispettose, sia dal punto di vista del
diritto che di fatto, dei loro diritti fondamentali.
Ciò anche considerando il fatto che non sono riuscito a reperire dati ufficiali
(non esistendo sul sito del Ministero dell’Interno) in merito al periodo intercorrente fra il salvataggio in mare dei migranti e la definizione della loro
condizione amministrativa, con l’espulsione, quando ne sussistono i presupposti, ovvero con la concessione dello status di rifugiato, quando la relativa
richiesta è esitata positivamente dalla competente commissione.
I centri per l’immigrazione
In considerazione del fatto che, spesso, da parte dei “non addetti ai lavori”
3 Umberto Vincenti, premessa al Codice dei diritti umani e fondamentali, 2011, Edizioni
Plus.
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si fa un po’ di confusione sulle varie tipologie di centri per l’immigrazione,
di recente oggetto di numerosi articoli di stampa, non possiamo che partire
dalle definizioni che di tali centri vengono date ufficialmente dal suddetto
Ministero nel suo sito istituzionale.
Le strutture che accolgono e assistono gli immigrati irregolari sono distinguibili in tre tipologie:
Centri di accoglienza (CDA)
Centri di accoglienza richiedenti asilo (CARA)
Centri di identificazione ed espulsione (CIE)
Centri di Accoglienza (CDA): sono strutture destinate a garantire un
primo soccorso allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale. L’accoglienza nel centro è limitata al tempo strettamente necessario per
stabilire l’identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per
disporne l’allontanamento.
I Centri attualmente operativi sono:
- Agrigento, Lampedusa – 381 posti (Centro di primo soccorso ed Accoglienza)
- Cagliari, Elmas – 220 posti (Centro di primo soccorso ed Accoglienza)
- Caltanissetta, contrada Pian del Lago - 360 posti (CDA)
- Lecce – Otranto (Centro di primissima accoglienza)
- Ragusa – Pozzallo (Centro di primo soccorso ed Accoglienza) – 172 posti
Centri Accoglienza Richiedenti Asilo (CARA): sono strutture nelle quali
viene inviato e ospitato per un periodo variabile di 20 o 35 giorni lo straniero
richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto
al controllo di frontiera, per consentire l’identificazione o la definizione della
procedura di riconoscimento dello status di rifugiato.
I centri attualmente operativi sono:
- Bari Palese, Area Aeroportuale – 744 posti
- Brindisi, Restinco – 128 posti
- Caltanissetta, Contrada Pian del Lago - 96 posti
- Crotone, Località Sant’Anna – 875 posti
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- Foggia, Borgo Mezzanone – 856 posti
- Gorizia, Gradisca d’Isonzo – 138 posti
- Roma, Castelnuovo di Porto – 650 posti
- Trapani, Salina Grande – 260 posti
Vengono utilizzati per le finalità sia di Centri di Accoglienza (CDA) che di
Centri di Accoglienza per richiedenti asilo (CARA), i Centri di Ancona, Bari,
Crotone, Brindisi, Foggia.
Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE): così denominati con
decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, sono gli ex “Centri di permanenza
temporanea ed assistenza”, strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati
all’espulsione. Previsti dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98,
come modificato dall’art. 12 della legge 189/2002, tali centri si propongono
di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione da parte delle Forze dell’Ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari.
Il decreto-Legge n. 89 del 23.6.2011, convertita in Legge n. 129/2011,
proroga il termine massimo di permanenza di stranieri in tali Centri dai 180
giorni (previsti dalla Legge n. 94/2009) a 18 mesi complessivi.
Attualmente i Centri operativi sono 13:
- Bari Palese, Area Aeroportuale – 196 posti
- Bologna, Caserma Chiarini – 95 posti
- Brindisi, Loc. Restinco – 83 posti
- Caltanissetta, Contrada Pian del Lago – 96 posti
- Catanzaro, Lamezia Terme – 80 posti
- Crotone, Sant’Anna – 124 posti
- Gorizia, Gradisca d’Isonzo – 248 posti
- Milano, via Corelli – 132 posti
- Modena, Località Sant’Anna – 60 posti
- Roma, Ponte Galeria – 360 posti
- Torino, Corso Brunelleschi – 180 posti
- Trapani, Serraino Vulpitta – 43 posti
33
- Trapani, Loc. Milo – 204 posti
L’operatività dei centri e la loro capienza può essere soggetta a variazioni in
relazione a eventuali lavori di manutenzione, ordinaria e straordinaria.
I Centri sono pianificati dalla direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo; sono gestiti a cura delle Prefetture-Utg tramite convenzioni con enti, associazioni o cooperative aggiudicatarie di appalti del servizio.
Le prestazioni e i servizi assicurati dalle convenzioni sono:
* Assistenza alla persona
* Ristorazione
* Servizio di pulizia ed igiene ambientale
* Manutenzione della struttura e degli impianti
Normativa vigente
I) I Centri di accoglienza (CDA) non richiedono, a mio avviso, ulteriori
approfondimenti, in quanto, come detto, devono solo dare una prima accoglienza agli immigrati irregolari, in attesa che essi siano destinati per le ragioni che appresso specificheremo, ai CIE o ai CARA, a seconda che debbono
essere espulsi o che la loro richiesta di asilo necessiti di essere istruita.
È notorio come le condizioni di vita nei CDA siano spesso disumane e come
la durata della permanenza da parte dei migranti in tali strutture sia spesso
incompatibile con le loro caratteristiche e la mancanza di adeguata assistenza per gli stessi migranti.
Peraltro non posso non sottolineare come la normativa in proposito sia
estremamente carente.
II) Passando a esaminare i Centri di accoglienza richiedenti asilo
(CARA) è, innanzitutto, necessario chiarire in cosa consiste il diritto di asilo.
Può richiedere asilo nel nostro Paese il cittadino straniero che ha il fondato
timore di essere perseguitato nel suo Paese di origine per motivi di:
- razza: si riferisce, in particolare, a considerazioni inerenti al colore della
pelle, alla discendenza o all’appartenenza a un determinato gruppo etnico;
- religione: include le convinzioni ateiste e la partecipazione/astensione a/
da riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte;
- nazionalità: non si riferisce esclusivamente alla cittadinanza ma anche,
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più semplicemente, all’appartenenza a un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o la
sua affinità con la popolazione di un altro Stato;
- particolare gruppo sociale: è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale
per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta
a rinunciarvi;
- opinione politica: si riferisce, in particolare, alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali
persecutori e alle loro politiche o ai loro metodi, indipendentemente dal fatto
che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti
concreti.
A questi fini, però, è necessario che i responsabili della persecuzione o del
danno grave nel Paese di provenienza dello straniero siano:
- lo Stato;
- i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente
del suo territorio;
- anche soggetti non appartenenti allo Stato qualora, però, quest’ultimo si
rifiuti di fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi.
Ai fini della valutazione del riconoscimento dello status di rifugiato, gli atti di
persecuzione devono:
- essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali;
- costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il
cui impatto sia grave al punto da esercitare sulla persona un effetto analogo
alla violazione dei diritti umani fondamentali.
Possono, a titolo esemplificativo, essere ritenuti atti persecutori:
- gli atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;
- i provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziaria,
discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;
- le azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;
- il rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione
sproporzionata o discriminatoria;
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- gli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro
l’infanzia.
L’esame della domanda di protezione internazionale è effettuato su base
individuale dalle Commissioni Territoriali istituite nelle seguenti sedi: Gorizia,
Milano, Roma, Foggia, Siracusa, Crotone, Trapani, Torino, Bari e Caserta.
È prevista, principalmente, la valutazione:
- di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d’origine;
- della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente, che deve anche rendere noto se ha già subito o rischia di subire
persecuzioni o danni gravi;
- della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente,
in particolare la condizione sociale, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in
base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave.
L’esame svolto in cooperazione con il richiedente riguarda tutti gli elementi
significativi della domanda.
Il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo
di subire danni gravi.
Il riconoscimento dello status di rifugiato dà diritto a un permesso di soggiorno di durata quinquennale. Dopo almeno cinque anni è possibile richiedere la cittadinanza italiana.
La legge tutela l’unità del nucleo familiare dei beneficiari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiario. I familiari che hanno individualmente diritto allo status di protezione internazionale hanno i medesimi diritti
riconosciuti a familiare titolare dello status.
L’art. 20 del D.lgs. 28.1.2008 n. 25 individua i casi in cui un richiedente asilo
va ospitato presso un CARA, specifica quali sono i suoi diritti e fissa alcuni
criteri di massima ai quali tali strutture si devono attenere:
«1. Il richiedente non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua
domanda.
2. Il richiedente è ospitato in un centro di accoglienza richiedenti asilo nei
seguenti casi:
a) quando è necessario verificare o determinare la sua nazionalità o identità, ove lo stesso non sia in possesso dei documenti di viaggio o di identità,
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ovvero al suo arrivo nel territorio dello Stato abbia presentato documenti
risultati falsi o contraffatti;
b) quando ha presentato la domanda dopo essere stato fermato per aver
eluso o tentato di eludere il controllo di frontiera o subito dopo;
c) quando ha presentato la domanda dopo essere stato fermato in condizioni
di soggiorno irregolare;
[d) quando ha presentato la domanda essendo già destinatario di un provvedimento di espulsione adottato ai sensi dell’art. 13, comma 2, lettera a e
b, del D.lgs. 25.7.1998 n. 286, ovvero di un provvedimento di respingimento ai sensi dell’art. 10 del D.lgs. 25.7.1998 n. 286, anche se già trattenuto
in uno dei centri di cui all’art. 14 del medesimo decreto legislativo.] (Lettera
soppressa dall’art. 1, comma 1 lett. d) D.lgs. 3.10.2008 n. 159).
3. Nel caso di cui al comma 2, lettera a, il richiedente è ospitato nel centro
per il tempo strettamente necessario agli adempimenti ivi previsti e, in ogni
caso, per un periodo non superiore ai 20 giorni. Negli altri casi il richiedente
è ospitato nel centro per il tempo strettamente necessario all’esame della
domanda innanzi alla commissione territoriale e, in ogni caso, per un periodo non superiore a 35 giorni. Allo scadere del periodo di accoglienza al richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo valido tre mesi,
rinnovabile fino alla decisione della domanda.
4. La residenza nel centro non incide sull’esercizio delle garanzie inerenti
alla sua domanda, né sulla sfera della sua vita privata, fatto salvo il rispetto delle regole di convivenza prevista nel regolamento di cui al comma 5,
che garantiscono comunque la facoltà di uscire dal centro nelle ore diurne.
Il richiedente può chiedere al Prefetto un permesso temporaneo di allontanamento dal centro per un periodo di tempo diverso o superiore a quello di
uscita, per rilevanti motivi personali o per motivi attinenti all’esame della
domanda, fatta salva la compatibilità coi tempi della procedura per l’esame
della domanda. Il provvedimento di diniego sulla richiesta di autorizzazione
all’allontanamento è motivato e comunicato all’interessato ai sensi dell’art.
10, comma 4.
5. Con il regolamento di cui all’art. 38 sono fissate, le caratteristiche e le
modalità di gestione, anche in collaborazione con l’ente locale, dei centri di
accoglienza richiedenti asilo, che devono garantire al richiedente una ospitalità che garantisca la dignità della persona e l’unità del nucleo familiare. Il
regolamento tiene conto degli atti adottati dall’ACNUR, dal Consiglio di Europa e dall’Unione Europea. L’accesso alle strutture è comunque consentito
ai rappresentati dell’ACNUR, agli avvocati e agli Organismi ed Enti di Tutela
dei rifugiati con esperienza consolidata nel settore, autorizzati dal Ministero
dell’Interno.».
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III) I Centri di identificazione ed espulsione: sono strutture destinate
al trattenimento degli stranieri extracomunicati irregolari e destinati all’espulsione. Previsti dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98,
come modificato dalla L. 125/2008 e da ultimo dalla L. 94/2009, tali centri si
propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio
e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell’ordine, dei
provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari.
Nei CIE lo straniero viene trattenuto, stante l’impossibilità di esecuzione immediata dell’espulsione disposta con accompagnamento alla frontiera o del
respingimento, per uno dei seguenti motivi:
- necessità di accertamenti supplementari circa l’identità o la nazionalità del
soggetto;
- necessità di acquisizione dei documenti di viaggio;
- indisponibilità del vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo;
- necessità di soccorrere lo straniero (art. 14, comma 1, T.U.).
Oltre a questi casi a seguito del combinato esposto di altri artt. del T.U., lo
straniero viene trattenuto presso i CIE;
- in attesa di riconoscimento dello status del rifugiato nei soli casi previsti
dall’art. 21 D.lgs. 25/2008;
- in attesa della decisione dell’Autorità Giurisdizionale per concedere il nulla
osta all’espulsione dell’immigrato sottoposto al procedimento penale (art.
13, comma 3);
- se ha commesso i reati previsti dai commi 5 ter e quater dell’art. 14 e si
ha l’obbligo del trattenimento (art. 14, comma 5 quinquies);
- in attesa di convalida del provvedimento di accompagnamento immediato
alla frontiera.
L’autorità competente a disporre il trattenimento è il Questore incaricato
dell’esecuzione dell’espulsione o del respingimento.
Il Questore del luogo in cui si trova il centro deve trasmettere copia degli
atti al Giudice di Pace territorialmente competente per la convalida, senza ritardo e comunque entro le 48 ore dall’adozione del provvedimento (art. 14,
comma 3, T.U.). Entro 48 ore il Giudice deve convalidare il provvedimento.
Se questi due termini di 48 ore più 48, non vengono osservati il provvedimento perde efficacia.
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La convalida comporta la permanenza nel centro per un periodo complessivo
di 30 giorni. La permanenza deve comunque limitarsi al tempo strettamente necessario, in ragione dei principi di adeguatezza e proporzionalità fra la
misura restrittiva e le esigenze di disciplina e controllo dell’immigrazione.
Infatti la proroga del trattenimento deve essere eccezionalmente e ampiamente motivata.
Con la legge 94/09 i tempi sono stati ancora aumentati. Infatti viene previsto che, trascorsi gli ulteriori 30 giorni, in caso di mancata cooperazione al
rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi, il Questore possa chiedere al Giudice di Pace la proroga del trattenimento per un periodo ulteriore
di 60 giorni. Qualora non sia possibile procedere all’espulsione in quanto,
nonostante che sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, persistono le
condizioni precedenti, il Questore può chiedere al Giudice un ulteriore proroga di 60 giorni. Il periodo massimo complessivo di trattenimento non può
comunque essere superiore a 180 giorni.
All’interno dei CEI il Questore, avvalendosi della Forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente
dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura nel caso questa
venga violata.
Quindi nel CIE:
- non ci si può allontanare, anche se lo straniero può essere autorizzato
dal Giudice, sentito il Questore, e allontanarsi dal Centro per il tempo strettamente necessario, con accompagnamento, nei casi di imminente pericolo
di vita di un familiare o convivente o in altri gravi casi eccezionali;
- esiste la libertà di colloquio all’interno del Centro e con visitatori provenienti dall’esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, con
i Ministri di Culto, con i rappresentanti consolari;
- esiste la libertà di corrispondenza, anche telefonica con l’esterno;
- vengono rispettati i diritti fondamentali della persona, fermo restando
l’assoluto divieto per lo straniero di allontanarsi dal Centro;
- viene rispettata la dignità umana;
- vengono assicurati i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la libertà di culto nei limiti previsti dalla Costituzione.
Il CIE può funzionare anche tramite convenzioni con altre amministrazioni dello Stato, con gli Enti Locali, con i proprietari o concessionari di aree,
strutture e altre installazioni.
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Criticità riscontrate in merito alla tutela dei diritti umani dei migranti nei
centri per l’immigrazione
In occasione di precedenti incontri sul tema che stiamo trattando anche
oggi mi è accaduto di sentire i racconti dei salvataggi in mare di migranti da
parte del personale delle Capitanerie di porto e della Guardia Costiera, sia
prima che dopo l’inizio dell’operazione Mare nostrum.
Ciò che non riesco a spiegarmi è come a persone alle quali viene salvata la
vita con grande impegno e abnegazione venga poi riservata un’accoglienza
assolutamente inadeguata e poco rispettosa della dignità che a ogni uomo
non può non essere riconosciuta e che, quindi, va tutelata.
Non è accettabile continuare a sentir parlare di emergenza immigrati, in
quanto da molti anni dal Medio oriente e dall’Africa, a eccezione dei mesi più
freddi, in particolare la Sicilia è destinazione privilegiata per tanti disperati
che scappano da situazioni in cui sono vittime di guerra e persecuzioni, o,
quantomeno, vivono in condizioni di estremo disagio e grande povertà.
Basti pensare, ad esempio, ai modi estremamente approssimativi con i quali
si procede all’accoglienza nei confronti dei minori non accompagnati, in
mancanza di qualsivoglia banca-dati di posti disponibili.
È, quindi, innanzitutto necessario potenziare e riqualificare la rete dei centri
di prima accoglienza, che, come quello di Lampedusa, riescono a rispondere
all’enorme domanda della quale devono farsi carico solo grazie ai sacrifici
degli operatori, in strutture spesso inadeguate per dotazioni e insufficienti
per dimensioni.
Se le difficoltà operative dei centri di accoglienza sono comunque, in qualche modo, giustificabili a motivo della imprevedibilità dei numeri di migranti
da accogliere e se eventuali condizioni non ottimali di accoglienza sono (di
solito), limitate a un breve periodo, la situazione dei CIE e dei CARA, ove i
migranti stazionano per molti mesi, spesso (nella media) per più di un anno,
in condizioni che, dall’ampia rassegna stampa che ho avuto modo di consultare, non sembrano essere pienamente rispettose dei diritti umani fondamentali, non può essere in alcun modo giustificata.
In realtà per i CIE (ove vengano trattenuti i clandestini che attendono l’esecuzione del provvedimento di espulsione di cui ciascuno di essi è destinatario) il problema è già costituito dalla vigente normativa, che trattiene in una
condizione di sostanziale detenzione (per come l’ho descritta in precedenza)
degli esseri umani che non hanno commesso alcun reato, se non cercare
una vita migliore, ma che non possono richiedere l’asilo politico, non sussistendo nel loro Paese d’origine le condizioni all’uopo richieste, ovvero non
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avendo subito atti che giustificano tale richiesta.
La cosa più rispettosa dei loro diritti, visto che devono essere comunque
espulsi, è di accelerare i tempi di attuazione di tale provvedimento, evitando le innumerevoli proroghe del loro trattenimento nel CIE, consentite dalla
normativa che ho richiamato in precedenza.
In merito alle condizioni di vita nei CIE vale quanto appresso andrò a dire
sui CARA, con le ovvie differenze conseguenti al fatto che dai CIE non è consentito uscire nelle ore diurne.
Passando all’esame delle condizioni di vita nei CARA, il primo problema che
va segnalato è quello del loro sovraffollamento, causato soprattutto dalla
durata del procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato, conseguenza dell’inadeguato numero di commissioni deputate all’esame delle
domande di asilo.
A prescindere dal loro sovraffollamento, le strutture destinate a “Centri di
Accoglienza per i Richiedenti Asilo” sono spesso di dimensioni tali da non
consentire un adeguato controllo di ciò che accade al loro interno, come
pure di offrire opportunità adeguate di preparazione, ad esempio, all’inserimento nel mondo del lavoro, una volta riconosciuto il diritto all’asilo.
Credo che il CARA più grande d’Italia sia quello di Mineo (in provincia di Catania), che ospita circa quattromila richiedenti asilo.
I giornali locali e nazionali denunciano fenomeni di delinquenza quali lo
spaccio di droga e lo sfruttamento della prostituzione (dentro e fuori dal
centro), l’impossibilità di controlli seri sulla identità degli ospiti, fra i quali
pare vi siano molti minori non censiti come tali, episodi di violenza e minacce fra gruppi di etnie diverse, e così via.
Non v’è dubbio che la minor durata del procedimento di esame della domanda di asilo ridurrebbe notevolmente il problema, ma non basta, è indispensabile trovare forme più adeguate di accoglienza, coinvolgendo le forze del
privato-sociale tanto attivo nel nostro Paese, in applicazione del principio di
sussidiarietà spesso richiamato a sproposito in questo campo.
Ritengo sia giusto citare l’appello fatto da Papa Francesco alle realtà locali
della Chiesa, che spesso hanno la disponibilità di strutture di accoglienza
quali conventi, istituti, etc., attualmente poco utilizzati.
A tale appello la risposta di parroci e religiosi è stata che tali strutture non
sono adeguate alla normativa molto rigorosa che vige nel nostro Paese.
Possiamo davvero credere che un istituto religioso privo di ascensore o nel
quale non c’è il bagno per disabili non sia adeguato ad accogliere dei migranti o, peggio, è meno adeguato dei Centro di prima accoglienza di Lam41
pedusa o del CARA di Mineo?
In attesa che la questione dei cosiddetti “standard” sia risolta dal nostro
legislatore, non posso che concludere con le parole di monsignor Michele
Pennisi, Vescovo di Monreale, il quale, alla domanda «Come dovrebbero essere trattate queste persone una volta giunte in Italia?, ha risposto: «Credo
che l’unica maniera umana consista nel tentativo di integrarle sul territorio.
Attraverso strutture piccole, a misura d’uomo, in grado di far fronte alle esigenze di tutti e ospitare, al massimo, una cinquantina di persone. Nei centri
in cui vengono accolti tutti insieme migliaia di profughi, è molto più difficile andare incontro ai bisogni di ciascuno. Per far questo, è necessaria una
rivoluzione culturale. Anzitutto, a livello di mentalità comune, occorre, cioè,
aprirsi alle logiche dell’accoglienza e della solidarietà. Tale nuova cultura
potrà, in seguito, trovare supporto nella politica. Ma pensare che tutto possa
risolversi a livello politico è un errore».
Mi sembra che le prospettive aperte da monsignor Pennisi consentano di affrontare seriamente la questione dell’accoglienza dei migranti per due ordini
di ragioni:
- innanzitutto in quanto si tratta di una questione di fronte alla quale ciascuno di noi è chiamato a chiedersi quale contributo può dare;
- ma, soprattutto, in quanto al centro della questione vengono posti i migranti, i loro bisogni e la loro reale possibilità di integrazione al fine di dare
il loro contributo alla nostra società e non la mera convenienza economica
dei gestori dei centri, per i quali spesso il valore di ogni ospite coincide con
la somma che percepiscono per ogni giorno in più in cui rimane presso la
struttura stessa.
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Immigrati in Sicilia: persone o business?
Claudio Saita
Il primo riferimento è al concetto di Papa Francesco di “periferie dell’umano”
come luoghi dove, nella manifestazione del dolore e della difficoltà, si rende più
chiaro quale sia il destino dell’uomo e della comunità. È nella periferia, cioè nella “sutura della ferita” (S. Zizek) che si manifesta la possibilità della comprensione dell’identità propria e altrui e la costruzione di una risposta comune.
Oggi l’Europa, in profonda crisi d’identità, rischia di rimuovere le sue radici
e il suo ruolo storico di “faro” nel campo dei diritti umani e di far prevalere
dentro se stessa quella che Zygmunt Bauman ha definito, in un suo libro
relativamente recente,4 “la cultura del negozio”. I diritti inalienabili della
persona all’interno di questo paradigma relazionale divengono oggetto di
scambio – in quanto beni “misurabili” – con altri beni oggetto d’interesse
diffuso, quali quelli economici o criminali delle lobbies o cosche organizzate
anche su base internazionale.
Una delle conseguenze più significative dell’egemonia della cultura dello
scambio negoziale è l’abbandono del Mediterraneo, porta dell’Europa ma,
soprattutto, spazio fondativo di essa, idea unificante della storia europea e
della sua prospettiva di sviluppo. Un “mare nostrum” sempre più considerato
come “lago” interno dei Paesi europei rivieraschi, frontiera da difendere più
che luogo osmotico d’incontro. Questa brutale riduzione politica e culturale
del Mediterraneo rappresenta la metafora di un baricentro continentale sempre più spostato nel Nord dell’Europa che guarda agli equilibri di bilancio e al
risanamento finanziario come la dimensione prevalente oggetto di cura e di
negoziazione fra i Paesi partners, per assicurare non la rinascita, ma la mera
sopravvivenza dell’Europa nello scacchiere mondiale come area degli “affari”
guidata sostanzialmente dalla Germania.
Abbiamo avuto occasioni recenti di riflessione su questo argomento sia per
gli interventi del Papa che di altri illustri uomini di Chiesa e di scienza. Mi
riferisco in modo particolare al precedente incontro da noi organizzato il 28
novembre 2013 con monsignor Michele Pennisi e Rosario Sapienza sul tema:
“Mare Nostrum: migrazioni e responsabilità dell’Europa. Il nostro compito”.
Desidero qui ricordare brevemente, come in una sorta di breve antologia,
alcune sottolineature che ci possono aiutare nella comprensione del tema
dell’incontro odierno proposto dalla Fondazione per la Sussidiarietà.
4 Z. Bauman, Danni collaterali: diseguaglianze sociali nell’età globale, Laterza, Roma-Bari
2014.
43
Un deficit culturale
L’omelia del Papa in occasione dell’ennesima immane tragedia di Lampedusa
dell’ottobre 2013 – tragedia peraltro velocemente rimossa dall’opinione pubblica e dai mass media. In quella circostanza il Papa fra l’altro affermava:
“Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al
mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E
quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge
a tragedie come quella a cui abbiamo assistito”.
In altre parole, Papa Francesco nella circostanza citata non si è limitato a
esprimere dolore o sdegno per quella che ha definito “la globalizzazione
dell’indifferenza” ma ha chiaramente espresso quale sia il punto di svolta
della questione, il metodo da seguire per affrontare il problema dei migranti
in fuga dalla guerra e dalla fame e dalla malattia: una piena assunzione di
responsabilità da parte dei popoli e dei governi europei, troppo distratti dai
pur urgenti problemi di risanamento economico-finanziari. L’intervento del
Pontefice a Lampedusa ha messo il bisturi sul deficit culturale del pensiero
strategico dei governanti europei, denunciandone non solo il corto respiro
ma un sostanziale tradimento delle radici e della storia europea e un triste
abbandono del pensiero dei suoi padri fondatori.
L’intervento di S.E. monsignor Pennisi è stato particolarmente lucido nella
classificazione delle tipologie rilevabili delle azioni messe in atto per affrontare il fenomeno non più con modalità emergenziali ma strutturali che è utile
riprendere nella sua tassonomia anche per le sue implicazioni culturali e
operative sul piano sociale.
Il primo è un lavoro culturale e sociale da sviluppare e da intensificare da
parte dei soggetti più consapevoli sia in ambito ecclesiale che laico, per
correggere e contribuire a far superare quel senso diffuso di fastidio, talvolta di ripulsa, se non addirittura di manifesto razzismo o xenofobia che si
manifesta in diversi strati della società italiana. Questi stati d’animo e prese
di posizione, latenti o manifesti, spesso sollecitati e incoraggiati da taluni
soggetti politici, hanno avuto un oggettivo sviluppo nella situazione dell’attuale crisi che favorisce l’instaurarsi di sentimenti di paura, d’insicurezza e di
rinserramento nell’ambito delle proprie mura.
Il timore di essere “invasi” nasconde talvolta sentimenti di “rancore”, indicatore molto chiaro dell’incapacità di una società chiusa nell’ambito delle proprie mura di accogliere, innanzitutto chi è marginale, nelle periferie all’interno di essa. Questo deficit intra moenia ovviamente tende a implementare la
cultura del “respingimento” nei confronti di chi giunge nel nostro spazio vitale da territori più o meno lontani. Questo atteggiamento culturale, in alcune
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circostanze eclatanti, si è manifestato anche come plateale indifferenza di
fronte allo scenario della morte di migranti i cui cadaveri allineati – come ad
esempio sulla spiaggia della città di Catania – non hanno impedito a qualche
sportivo di continuare tranquillamente la sua corsa mattutina, lanciando una
distratta e fugace occhiata a quei poveri morti.
L’industria della solidarietà
Le vite spezzate dei migranti di tutte le età entrano a far parte dunque dei
nostri scenari globalizzati (Appadurai), come quelle dei soggetti più marginali delle nostre città del nostro “arredo urbano”. La morte come il dolore
diventano elementi della nostra vita quotidiana talmente ricorsivi da essere
alla fine rimossi e resi di fatto invisibili ai nostri occhi. Sotto questo profilo è
interessante notare come questo processo di rimozione si coniuga e per certi
versi favorisce un atteggiamento apparentemente favorevole all’accoglienza
delle persone migranti, ma per motivi utilitaristici, strumentali, che possono sfociare nel cinismo di chi pensa di approfittare delle sventure altrui per
lucrare sulla disperazione e sul bisogno. Un’industria della solidarietà pronta
a cogliere le opportunità offerte dal traffico degli esseri umani da una parte
e dall’incapacità strutturale dello Stato italiano e dei Paesi europei di voler
affrontare il tema dell’immigrazione in modo non emergenziale. Il business
evidentemente fiorisce sul terreno dell’emergenza e non della risposta strutturale! I riferimenti, naturalmente, possono essere molteplici sul territorio
siciliano e ampiamente noti agli addetti ai lavori sia per quanto riguarda le
strutture di prima accoglienza sia di piccole che di grandi dimensioni, alcune delle quali poco gestibili e controllabili proprio per il numero di persone
migranti che ospitano, ovvero luoghi di gravi conflitti facilmente presumibili
per la provenienza etnica degli immigrati.
Il terzo atteggiamento profondamente diffuso nella società italiana e nella nostra regione siciliana è quello caratterizzato dalla accoglienza e dalla
solidarietà nei confronti degli immigrati considerati non in modo pietistico
come fratelli e sorelle in difficoltà da amare e servire. Basta pensare ai soccorsi dati agli immigrati in difficoltà dai pescatori, dai militari, dai medici, dai
volontari, dalla gente comune a Lampedusa, ma anche in diversi paesi della
Sicilia, come a Scicli, Siracusa e Catania dove ci sono state e ci sono molte
persone comuni che hanno dato e danno testimonianza di cosa può fare una
popolazione dal cuore aperto e generoso.
A conferma della correlazione precedentemente analizzata fra dimensione dell’accoglienza intra ed extra moenia, molti di questi volontari religiosi
e laici di varia provenienza ed estrazione culturale sono persone da anni
comunque impegnate a sostenere e per quanto possibile risolvere disagi e
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sofferenze di giovani e adulti delle nostre città, spesso in modo silenzioso e
trascurato dalle amministrazioni pubbliche e dai massmedia. Molti di questi
soggetti, oltre che proficuamente impegnati nella prima che nella seconda
accoglienza, hanno sviluppato una riflessione strutturata sui modelli d’accoglienza, sugli standard della medesima, sui metodi e sulle pratiche educative
e sugli strumenti che possano facilitare l’integrazione e l’inserimento lavorativo. La Sicilia, sotto questo profilo – come è spesso accaduto nel corso della
sua storia –, è terra dove si consumano autentici misfatti ma anche – fortunatamente – dove si realizzano esperienze d’eccellenza ed esemplari sotto
molti profili.
Conclusioni
Ritorna ancora l’interrogativo del Papa: “Chi è il responsabile del sangue di
questi fratelli e sorelle?” e questo lo chiediamo a noi stessi all’inizio della
stagione che vedrà sicuramente un incremento degli sbarchi nel 2014 (sono
già più di 10mila dall’inizio dell’anno gli immigrati sbarcati in Sicilia a fronte
dei circa 900 dello scorso anno).
Ritorna ancora la terribile domanda di Papa Francesco: “‘Chi di noi ha pianto
per questo fatto e per fatti come questo?, Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca?
Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che
desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?’. Siamo una società
che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”.
Questi morti, e le migliaia che negli anni sono stati travolti in queste acque,
chiedono verità, giustizia e solidarietà.
Da dove ripartire allora? Noi pensiamo che la polarizzazione proposta dal
tema rappresenti l’alternativa secca anche per rivisitare il sistema che ruota
intorno al fenomeno migratorio: il sistema giuridico – frammentato e confuso – che in questo caso ci costringe a citare l’espressione di Wheeler: “l’era
che verrà ci mostrerà il caos dietro la legge”; il sistema della prima e della
seconda accoglienza dei minori, i percorsi per la conquista dell’autonomia,
gli interventi di inclusione sociale e lavorativa, la rete degli interventi per
i rifugiati e richiedenti asilo, gli interventi di formazione e riqualificazione
delle figure professionali di sistema (educatori, mediatori, tutori, orientatori,
docenti e altri ancora).
Ripartire dalla centralità della persona probabilmente è l’unica possibilità
riordinatrice di un sistema complesso che il business ha reso drammaticamente complicato, un groviglio ingiusto e dissipatore di risorse umane e
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materiali. È dunque possibile un nuovo inizio mentre si è all’opera?
Il nostro lavoro vuole tentare di sviluppare una riflessività su dimensioni di
ordine giuridico e pratiche esperienziali dalle quali possa scaturire una nuova
expertise, non più di carattere emergenziale ma più strutturata anche sotto
il profilo culturale.
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Quaderni della Sussidiarietà
1. Famiglia e DiCo: una mutazione antropologica? - AA.VV. (2007)
2. Il rischio di educare nella scuola - a cura di Mario Riboldi (2007)
3. Persona e Stato - AA.VV. (2007)
4. Questioni di biopolitica - AA.VV. (2008)
5. Una scuola che insegna a ragionare: il metodo dell’esperienza a cura di Alessandra Casetta e Francesco Valenti (2008)
6. Coscienza religiosa e cultura moderna: percorsi della ragione
e dell’istruzione - a cura di Alessandra Casetta e Francesco Valenti (2009)
7. La rivincita della responsabilità. A proposito della nuova legge
sul federalismo fiscale - a cura di Luca Antonini (2009)
8. La consegna tradita. Riflessioni sul senso della storia - a cura di
Gianfranco Dalmasso (2009)
9. Il lavoro: l’esperienza dell’io in azione - a cura di Mario Mezzanzanica
e Giorgio Vittadini (2010)
10. Verso un (quasi) mercato dell’istruzione? Riflessioni, esperienze
e proposte per il sistema scolastico italiano (2010)
11. Realismo, ideologia e scetticismo nella scuola e nell’educazione
- a cura di Francesco Valenti (2010)
12. E l’esistenza diventa una immensa certezza - a cura di
Costantino Esposito (2012)
13. Dialogo intorno al volume Esperienza elementare e diritto (2012)
14. Dialoghi sul welfare - a cura di Guido Canavesi (2015)
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20158 Milano
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Sicilia: periferia e risorsa dell`Europa