SENTIRE A SCOLTARE
o n l i n e m u s i c magazine
DICEMBRE N.14
Boards Of Canada
Calla
Klaus Schulze
Red Crayola
Mi And L’au
Babyshambles
Stranglers
Silver Jews
sentireascoltare il diritto di rimanere in silenzio
in copertina
Silver Jews
il diritto di rimanere in silenzio
SentireAscoltare online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590
del 28/10/05
Editore Edoardo Bridda
Direttore responsabile Ivano
Rebustini
Provider NGI S.p.A.
Copyright © 2005 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.
La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare
sommario
4 News
8 Speciali
Boards Of C a n a d a , K l a u s S c h u l z e ,
Silver Jews , C a l l a . . .
34 Recensioni
61
65DaysOfS t a t i c . T h e B o y L e a s t L i k e l y
To, Kate B u s h , M i A n d L’ a u , K r a f t w e r k ,
Kill The Vu l t u r e s , B a b y s h a m b l e s …
6 1 Dal vivo
Interferenz e 2 0 0 5 , A n i m a l C o l l e c t i v e ,
Ardecore, G o ! Te a m , N i n a N a s t a s i a . . .
65 Rubriche
8
We Are De m o S i x R e d C a r p e t s , D e vocka…
Classic Re d C r a y o l a , P a v e m e n t ,
Orange Ju i c e , R . E . M . , I c e b u r n
Note a mar g i n e T h e S t r a n g l e r s
Cinema W i m We n d e r s - L’ a n i m a d e l
Blues, L’ar c o , T h e D e s c e n t , I F r a t e l l i
Grimm, Bro k e n F l o w e r s
Cose dell’a l t r o m o n d o J e n n i f e r D e l a n o
sui Tubi
Direttore
Edoardo Bridda
Direttore responsabile
Ivano Rebustini
Coordinamento
34
Antonio Puglia
Stefano Solventi
Staff
Valentina Cassano
Daniele Follero
Teresa Greco
Hanno collaborato
Gianni Avella, Marco Braggion, Michele
Casella, Antonello Comunale, Andrea Erra,
Andreas Flevin, Lorenzo Filipaz, Paolo
Grava (aka Neon Eater), Manfredi Lamartina,
Martino Lorusso, Carlo Pastore, Giulio
Pasquali, Marina Pierri, Michele Saran,
Michele Vaccari, Fabrizio Zampighi
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
Grafica
Paola Squizzato, Squp, Edoardo Bridda
67
sentireascoltare news
a cura di Daniele Follero
Dopo un periodo di allontanamento dal mercato discografico
ufficiale Prince ritorna sui binari delle major firmando per la
Universal-Motown, per la quale è stato già distribuito il prim o s i n g o l o ( Te A m o C o r a z o n ) , p e r o r a s c a r i c a b i l e s o l o d a l l a
rete…
Secondo un conteggio che la rivista Billboard pubblica ogni
fine anno, il gruppo che ha guadagnato di più in tour nel 2005
sono stati gli U2, con un incasso di circa 260 milioni di dollari
per un totale di 90 concerti, doppiando gli Eagles, piazzatisi
s e c o n d i c o n u n o s c a r t o d i q u a s i 1 5 0 m i l i o n i d i d o l l a r i ( 11 7 m i lioni incassati in 77 date). Seguono nella lista dei primi cinque
Prince
Neil Diamond, Kenny Chesney e Paul McCartney…
Comincia a prendere forma il prossimo album degli Audioslave, successore di Out Of Exile. La band ha registrato già due
brani e sta lavorando su un’altra ventina insieme al produttore Brendan O’Brien che in precedenza aveva già lavorato con
Soundgarden e Rage Against The Machine…
La Memphis Recording Service , etichetta indipendente entrata
in possesso delle matrici originarie del primo singolo di Elvis
Presley, lo ha ristampato in vinile e senza l’effetto di eco aggiunto nelle registrazioni della RCA. Il 45 giri That’s All Right
è compreso in un cofanetto che include anche un dvd e un libro
illustrato…
I Depeche Mode hanno confermato la loro presenza alla prossima edizione del festival di Benicassim, alla sua undicesima
e d i z i o n e e c h e s i t e r r à n e l l a c i t t a d i n a v i c i n a a Va l e n c i a t r a i l
20 e il 23 giugno 2006…
I New Order stanno lavorando a nuovo materiale per la colonna di Control, il film biografico di Anton Corbijn sulla vita di
Ian Curtis. Il bassista della band Peter Hook in un’intervista al
New Musical Express si è detto entusiasta dell’operazione: “E’
una grande idea quella di far fare ai Joy Division la colonna
sonora per un film sui Joy Division. Non ci era mai capitato di
farlo, in passato”…
I l p r o s s i m o 1 5 d i g e n n a i o i N e w Yo r k D o l l s e n t r e r a n n o i n s t u d i o
con Jack Douglas (che ha già lavorato con John Lennon, Aeros m i t h e g l i s t e s s i N e w Yo r k D o l l s ) p e r r e g i s t r a r e i l n u o v o a l b u m
sentireascoltare
dopo la reunion della band. Il
lavoro
in
studio
più
recente
della band di David Johansen
r i s a l e a l 1 9 7 4 ( To o M u c h To o
Soon)…
Bob Dylan si mette a fare il
DJ! A marzo
gramma
partirà
un
radiofonico
pro-
gestito
da lui, che andrà in onda sulla radio satellitare americana
P a r t i r à d a N e w Yo r k i l 1 4 f e b braio il tour mondiale di Cat
Power, che il mese successivo approderà in Europa…
Alex
James,
attualmente
im-
pegnato con i Wigwam, ha annunciato il ritorno sulle scene
Blur.
dei
James,
Damon
Blur
XM Network…
lavorando
pazione di membri di R.E.M. e
duro per riuscire a finire entro
Wilco. Ai compagni di Michael
la prossima estate il loro ulti-
Stipe, Peter Buck e Bill Rei-
mo album. Sarà il terzo della
flin si sono aggiunti anche al-
loro carriera e seguirà il for-
tri ospiti, tra cui John Moen e
t u n a t o C h u t e s To o N a r r o w d e l
Colin Meloy dei Decembrists,
2004…
John Wesley Harding e Kelly
Gli
Shins
stanno
H o g a n . L’ a l b u m è p r e v i s t o p e r
Albarn e Dave Rowntree sono
Gli Status Quo hanno cancel-
pronti a rientrare in studio già
lato tutte le date del loro tour
a partire da questo mese. Già
nel Regno Unito a causa di un
Gli Arcade Fire ripartono da
ultimato invece, Love Travels
problema di salute del chitar-
una chiesa. Il chitarrista Tim
At Illegal Speed, il nuovo la-
rista Rick Parfitt a cui è stato
Kingsbury
voro
della
diagnosticato un non precisa-
New
band Graham Coxon, del qua-
to male alla laringe. Le date
band ha di recente acquistato
le si sa già la data di pubbli-
non saranno recuperate…
una chiesa sconsacrata a sud
dell’ex
cazione.
chitarrista
Uscirà
prossimo
per
il
la
13
marzo
il 7 febbraio…
ha
Musical
dichiarato
Express
che
al
la
di Montreal, che verrà adibi-
Parlophone
Dopo una battaglia durata cin-
ta a studio per registrare (a
e sarà preceduto dal singolo
que anni il CBGB’s, storico lo-
partire
Standing On My Own Again, in
cale newyorchese, ha annun-
il nuovo album previsto per il
vendita dal 27 di febbraio…
ciato la definitiva chiusura per
2006…
già
da
questo
mese)
il 31 di ottobre del 2006. Hilly
8
dicembre. A 25
anni
dalla
Kristal, gestore del locale, è
Confermata
Lennon
molti
riuscito a strappare un accor-
vo album solista di David Gil-
ne hanno approfittato per ren-
do che posticipa la chiusura
mour per il 6 marzo. On An
dere tributo all’ex baronetto di
dello stabile di poco più di un
Island è il primo album solista
Liverpool, assassinato a New
anno (la chiusura era prevista
del chitarrista dei Pink Floyd
Yo r k n e l 1 9 8 0 . I M e r c u r y R e v,
per il 31 agosto 2005), e ha
dai
dal
anche
morte
di
John
palco
dello
Shepherd’s
nuo-
Face
del
volerlo
lontanissimo 1984, terzo del-
riaprire in un altro luogo. Le
la sua carriera in solitudine.
God, terminata in un’apoteosi
ricerche sono ancora in alto
Tra gli ospiti dell’album ci sa-
di commossi applausi, mentre
mare, ma spunta qualche ipo-
ranno
gli U2, da Civic Center di Har-
tesi:
Hoboken,
C r o s b y. I l d i s c o s a r à s e g u i t o
tford (Connecticut), oltre alla
nel New Jersey o addirittura
da un tour europeo che par-
già collaudata Instant Karma,
L a s Ve g a s ! . . .
tirà il 10 Marzo da Dortmund,
Empire
hanno
Time
Square,
di
di About
del
suonato
Bush
annunciato
tempi
l’uscita
si sono cimentati in una personalissima
gian Wood…
cover
di
Norwe-
Graham
Nash
e
David
in Germania, per approdare in
The Gun Album del collettivo
I t a l i a i l 2 4 e 2 5 m a r z o a l Te a -
The Minus 5 vedrà la parteci-
tro degli Arcimboldi di Milano
sentireascoltare e all’auditorium Parco della Musica di Roma il 26…
Potrebbero riunirsi gli Smiths? Per ora l’idea piace molto solo
all’ex bassista Andy Rourke, anche se qualcuno scommetterebbe di aver visto Morrissey e Johnny Marr cenare insieme…
L’ i d e a s a r e b b e r i f o r m a r e l a s t o r i c a b a n d i n g l e s e i n o c c a s i o n e
di un concerto benefico che lo stesso Rourke sta organizzando
a Manchester per il prossimo 28 gennaio. All’appello hanno già
r i s p o s t o C h a r l a t a n s , P e t e r H o o k d e i N e w O r d e r, B a d l y D r a w n
Arcade Fire
Boy e Mani degli Stone Roses…
L’ e x N i r v a n a C h r i s N o v o s e l i c s t a p e n s a n d o s e r i a m e n t e d i e n trare in politica. Dopo aver manifestato dichiaratamente le sue
idee politiche nel libro Of Grunge And Government, il bassista
ha di recente preso parte al dibattito sulla riforma elettorale di
Prince Edward Island, una provincia del Canada. Fa sul serio
o si fa solo un po’ di pubblicità? Intanto l’altro superstite della
band più famosa del grunge, Dave Grohl ha declinato cortesemente l’offerta di prendere parte al cast del film King Kong di
Peter Jackson nel ruolo di Satana…
S i n g o l a r e u s c i t a p e r l a D r a g C i t y. S i t r a t t a d i M r. J e w s , u n 7 ’ ’
attribuito ai Silver Palace, dietro cui si cela la tanto attesa e
fantomatica collaborazione tra David Berman dei Silver Jews
e Will Oldham. Sfortunatamente (ma poi mica tanto) si tratta
solo di uno scherzo di quei mattacchioni dell’etichetta di Chicago: due finte interviste in cui Oldham e Berman rispondono
alle domande attraverso clip dalle loro canzoni...
P a r e c h e l ’ u l t i m o a l b u m d e g l i Ye a h Ye a h Ye a h s s i a u n c o n c e p t
il cui tema principale è il gatto della cantante Karen O. Il trio
ha già terminato le registrazioni e il disco dovrebbe essere
pronto per marzo 2006, probabilmente seguito da un ep con il
resto del materiale…
I Rolling Stones suoneranno al prossimo Super Bowl, che si
terrà a Detroit il prossimo 5 febbraio. Saranno in buona (!)
c o m p a g n i a : P a u l M c C a r t n e y, B r i t n e y S p e a r s , A e r o s m i t h , B e y o n c e , K i d R o c k e N e l l y. L a b a n d d i M i c k J a g g e r e K e i t h R i c h a r d s
ha anche annunciato le date ufficiali del prossimo tour europeo, che partirà da Barcellona il 27 maggio. Unica data italiana, il 22 giugno al San Siro di Milano…
A Brooklyn, dal 18 novembre al 18 dicembre, la Brooklyn Fire
Proof Art Gallery ospita la mostra Series 4: vi partecipano, tra
gli altri, David Berman dei Silver Jews, Pall Jenkins dei Black
Heart Procession, Jason Molina dei Magnolia Electric Co.e Archer Prewitt. La mostra è dedicata alle opere d’arte visuale
di alcuni dei migliori musicisti di area indie-rock, e ad idearla
e’ stato John Darnielle, il leader degli statunitensi Mountain
Goats…
sentireascoltare
In periodo di reunion (dai Pink Floyd agli Who) almeno c’è
qualcuno, come Paul Weller, che si tiene alla larga da operazioni nostalgiche. “Riformare i Jam sarebbe come fare un del
triste cabaret” ha detto l’ex leader degli Style Council alla rivista Uncut…
I Goldfrapp e i Placebo si sono uniti ai Prodigy per rivestire il
ruolo di headliner nella prossima edizione del festival dell’Iso-
I Black Sabbath e i Sex Pistols saranno le prossime band
inglesi a entrare nella Rock’n’Roll Hall Of Fame, onore confe-
Paul Weller
la di Wight…
rito dall’industria del disco americano a band particolarmente
“meritevoli” (secondo una giuria di discografici), il cui album
d’esordio abbia compiuto almeno il venticinquesimo anno di
età…
Nonostante gli sforzi del mercato discografico e l’appoggio
delle istituzioni, il file sharing “illegale” supera ancora di parecchio quello “legale” (sui due aggettivi ci sarebbe da discutere..). Secondo una ricerca della Jupiter i pirati del download
sono più del triplo di chi scarica musica pagando…
Nuovo album per i Pet Shop Boys. Prodotto da Trevor Horn,
non se ne conosce ancora il nome, ma dovrebbe uscire ad aprile…
Glenn Hughes, in passato bassista e (sporadicamente) cantante dei Deep Purple comincerà a gennaio le registrazioni per
un nuovo album con la collaborazione dei due Red Hot Chili
Peppers John Frusciante e Chad Smith…
E ’ m o r t o To n y M e e h a n , b a t t e r i s t a e f o n d a t o r e d e g l i S h a d o w s ,
famosa band britannica, ultima a raggiungere un grande successo nel Regno Unito prima dei Beatles (Apache, nel 1960
rimase prima in classifica per 6 settimane)…
sentireascoltare speciale
Boards Of Canada
Da qualche parte …vicino a Inverness, Scozia
di Edoardo Bridda
La discografia dei Boards Of Canada non è che un mosaico di un’unica trama,
la sottile grana psichedelica di un unico streaming audiovisivo girato in
Super8. Ogni brano, ogni album è rappresentativo (e sostituibile) di un’unica idea musicale, esattamente quel modello che li ha resi così influenti per
la scena elettronica e l’hip-hop, la stessa visione d’immagini in suoni che
li accompagna fin dalla loro infanzia.
Mike Sandison e Marcus Eoin hanno circa sette anni quando iniziano a comporre musica
assieme. Lo negano tutt’ora fino alla morte,
ma sono sangue dello stesso sangue e la loro
casa, allora come oggi, è piena di giocattoli.
Pianoforti e chitarre sono facili da trovare
quanto i toys sotto il letto e, naturalmente,
non mancano né un registratore con il puntino
rosso talmente sbiadito da non essere più riconoscibile, né, al suo interno, un’altrettanto
macinata cassetta BASF grigia con la banda
bordeaux. La vita dei fratelli scorre pacifica
tra tv e campetto quando, tra il 1979 e il 1980,
in seguito a un profittevole impegno lavorativo
sentireascoltare
del padre che lavora nel campo dell’edilizia,
si trasferiscono per un anno a Alberta, in Canada.
Troppo giovani per andare al cinema e senza
alcun amico, decidono di passare il tempo davanti allo schermo e a furia di zapping, tra una
p u n t a t a d e L’ u o m o d a s e i m i l i o n i d i d o l l a r i e
una del Muppet Show , una trasmissione colpisce la loro attenzione, l’unica peraltro a non
essere svanita nella trasvolata: è il National
Film Board of Canada (noto anche come National Film Board), un format divulgato dall’organizzazione statale omonima per promuove le
risorse naturali del Paese la cui colonna so-
nora, interamente suonata ai
sintetizzatori, è (come la pellicola stessa) di quella pasta
tipica degli anni Settanta.
S o n o r i t à a b a s e d i Ta n g e r i n e
D r e a m , Va n g e l i s e J e a n M i chel Jarre e immagini girate
in super8 di sagome montane
e boschive riempiono così le
ore più mortifere del palinsesto televisivo, una noia mortale che per Mike e Marcus è
fascino puro.
Completamente stregati e di
ritorno con la famiglia a Edimburgo, il passo dalla fantasia
alla pratica è breve: diciott’anni di vita totali, trascorrono le
giornate per le strade e i cam-
bedroom artist di lì a venire)
non mancano di certo. Mike e
Marcus comprano un secondo
registratore con il quale incidere il risultato della riproduzione ottenuta con quello già
presente in casa; da una base
aggiungono, di volta in volta,
un arpeggio di chitarra, un
tocco di pianoforte, uno spezzone di audio televisivo e così
via, fino a che il registrato,
zeppo di fruscii e gracchi, è
più vicino all’estetica dell’Industrial di casa Throbbin’ Gristle che all’ambient music di
teutonica memoria, ma tant’è.
È il principio di una flebile
figura Boards Of Canada, un
pi a caccia di location e situazioni da catturare. Assieme a
loro, un gruppuscolo d’amici,
assistenti cameramen e aiuto regia; infine, da soli e at
home, le primissime agognate
sonorizzazioni.
miraggio che sembra destinato a dissolversi con la tempesta adolescenziale dietro l’angolo, l’High School.
I mezzi tecnologici all’epoca
scarseggiano, manca un multitraccia, indispensabile apparecchio per mescolare le
piste audio, ma gli escamotage (peraltro tipici di molti
I templari dell’Hexagon Sun.
Le primissime produzioni.
Ebollizione e curiosità caratterizzano il periodo scolastico; per i fratelli è tempo di
separarsi e interrompere il
sodalizio musicale per coltivare progetti diversi: Marcus
(come da manuale) si fa cat-
turare dal gruppo thrash metal di turno, mentre il fratello
forma una band strumentale
che fa largo uso di synth, tapes e percussioni. Il distacco
non dura che un paio d’anni:
sfogato a sufficienza, Marcus
è pronto per rientrare come
bassista nella band del fratello maggiore che, nel frattempo, si è specializzato nel musicare i filmati di un collettivo
di cui è promotore.
Caratterizzati
da
streaming
in Super8, fotografie ad alto
tasso psichedelico e sonorità
elettroniche soffuse e stranianti, le prime installazioni, a
cui collaborano un numero variabile di giovani artisti locali
(che supera abbondantemente la dozzina), sono centrate
sulla rappresentazione della
nostalgia, del ricordo e della
perdita. Probabilmente, sono
flussi di coscienza di quella
Generation E in dopo(s)ballo,
che stava promuovendo una
potente alternativa alla tradizione dopolavorista inglese
basata sui consueti pub a rit-
sentireascoltare mo rock (e hair metal), ma soprattutto costituiscono un terreno di grande creatività per
i ragazzi che sono anche dei
veri pionieri nella loro scuola.
Ma se tante idee e spine attaccate sono il sale della
creatività, è anche vero che
dinamiche e pressioni di gruppo, possono generare le più
nefaste entropie e così, separato tra spinte minimaliste,
pulsioni punk e tendenze hip
hop, il collettivo, almeno per
la sezione musicale, si riduce a tre membri, ovvero Mike,
Marcus e Chris, gli apostoli
più convinti del sintetico.
to fanciullesco, caratteristico
del loro sound maturo, è solo
un miraggio, o tutt’alpiù, una
carta nel mazzo. Le tracklist,
infatti, si caratterizzano per
involuti solipsismi tastieristici nella più tediata vena del
Va n g e l i s ( e p i ù i n d i e t r o d e l l a
kosmische musik tedesca) con
qualche
sprazzo
dell’Aphex
Tw i n
di
Selected
Ambient
Works Vol.1 (Warp, novembre
1992) o degli Autechre di Incunabula (Warp, novembre 1993)
a far da corredo. Come dire:
produzioni altamente trascurabili che, più che ben sperare, fanno temere per il peggio.
Mentre Richard D. James infi-
mesi dalla pubblicazione di Artificial Intelligence (la famosa
geografia di talenti mappata
dalla Warp nel 1993), Mike e
Marcus contano ancora i grani
del rosario.
Noncuranti della scena IDM
che si sta articolando attorno
a loro, pubblicano Hooper Bay
(Music 70, 1994), una raccolta di sghembe e interlocutorie
elegie in punta di piedi dedicate a un villaggio esquimese
chiamato
Naparagamiut.
Un’operazione simile a quella
compiuta – con le dovute proporzioni s’intende – dai Residents in Eskimo che culmina
nei negli otto minuti di Noa-
Pervasi da chissà quale credo, cristiano nei contenuti ma
decisamente ortodosso nella
forma, i tre iniziano una lunga gavetta di registrazioni e
performance live all’insegna
della multimedialità e dell’autoproduzione.
Organizzano
una
kermesse
ambient rave - Red Moon sotto il nome di Hexagon Sun,
un appuntamento estivo annuale organizzato assieme a
alcuni fedelissimi nella campagna scozzese (che pare si
tenga tutt’ora) e iniziano a
incidere le prime produzioni
per l’audience locale tramite
un’etichetta personale chiamata Music70.
Tra il 1987 e il 1993 si susseguono quattro cassette: Catalogue 3 (1987, il terzo di due
volumi mai pubblicati), Acid
Memories (1989), Closes Volume 1 (1993) e Play By Numbers (1994), tuttavia l’aspet-
lava le prime ficcanti produzioni e quei diavolacci elettronici
autori di Amber si piazzavano
come primi della classe seguiti a ruota dai più ammiccanti
Black Dog (poi Plaid e Balil), i
Boards Of Canada, a fronte di
scarse abilità sampledelicoritmiche e persistente chiodo fisso per mood ambientali,
brancolano tra le alghe come
ranocchi nello stagno. Del resto, non possono competere
né con il piglio ipnagogico del
capellone della Cornovaglia,
né fregiarsi dei climax tecnocratici dei mancuniani, limiti
che paiono già confinare un
flebile sound a un’altrettanto
ristretta cerchia di amici e
tak, una suggestiva sequenza
per xilofoni persi nella notte
siderale.
Benché la cassetta pare figlia
del classico brancolare senza
meta di color che son sospesi,
in verità rappresenta un passaggio del testimone: l’anno
successivo è la volta di Boc
Maxima (Music70, cassetta,
1995), una collezione che evidenzia sia una sintonizzazione con la scena elettronica
inglese e, specialmente, una
piccola grande svolta.
Tra sequenze oniriche (Wildlife Analisys), primi manifes t i ( E v e r y t h i n g Yo u D o I s A
Balloon), qualche accattivante settaggio di drum machine
(Chinook), nonché un pizzico di old skool Hip-Hop (nlogax), la raccolta sigla alcuni
brani che finiranno dritti nel
debutto Music Has The Right
To C h i l d r e n , u n f r u t t o c h e i l
c o n c i s o e m i r a t o Tw o i s m ( M u -
10 sentireascoltare
conoscenti.
Sixtyniner – Il periodo Skam
Records
Nel 1994, l’anno domini dell’uscita del secondo volume
ambient di James e parecchi
sic 70, 1995) cercherà di approfondire.
Una strada è dunque intrapresa, in quest’ultima autoproduzione brani come Sixtyniner,
Smokes Quantity e l’emblematica traccia omonima costituiscono a pieno titolo una prima
sintesi del BOC sound adulto,
un mondo sonoro in bilico costante tra mood ambientali (i
synth sibillini) e sinistre latitudini sottopelle (la riproduzione di vecchi nastri), breakbeat angelici (il risciacquo
primordiale) e sottili melodie
psichedeliche
(l’abbandono
della mente). Bontà che è già
buon pane per Sean Booth de-
la quale diventano highliners,
e con l’aiuto di Booth, Mike
e Marcus prendono parte agli
happening elettronici che contano: suonano a Londra assieme a Pan(a)sonic e Autechre
(luglio 1996) e al festival di
Phoenix (luglio 1997), ampliando così gli orizzonti fuori
dell’Isola. Partecipano infine
alla serie di 12’’ Mask, realizzata grazie una partnership
tra la Skam Records e la bavarese Musik Aus Strom, con
due tracce che s’avventurano
in percorsi molto distanti da
quelli intrapresi sinora. Tra
questi, se Korona (su Mask
100) è una trascurabile traccia
Amniotiche verità, avvistamenti di fanciulli sott’acqua
– La maturità
1 9 9 8 . L’ a n n o z e r o . L’ e n t r a t a
nella scuderia più rinomata
dell’IDM coincide con la realizzazione di un lunghissimo
M u s i c H a s T h e R i g h t To C h i ldren, che vede la luce il 20
aprile del 1998.
Nel panorama anglosassone,
l’album, uscito grazie a una
joint venture tra Skam e Warp
Records, si colloca come un
tardo tassello ambientale dell’ideologia
dell’etichetta
di
Sheffield, eppure dimostra di
possedere la potenza simbolica di un obelisco materializ-
gli Autechre, che dagli headquarters della mancuniana
Skam Records telefona personalmente al duo, sancendo
così la fine della prima parte di una gavetta durata quasi
dieci anni.
Eppure, se una porta si è
aperta, i difetti di forma non
mancano: molte sono le soluzioni prese maldestramente a
prestito dai compagni d’etichetta (come accade per le
linee autechriane di Oirectine
o i breakbeat rubati a AFX di
Basefree), troppe a dir il vero.
Debolezze che l’eppì Hi Score
(Skam, dicembre 1996), uscito
di lì a poco e con tracce già
presenti in Boc Maxima, non
fa che confermare (Chinook).
Per dei Boards Of Canada ben
poco inclini ad avvilirsi in studio di registrazione, del resto
è il momento di suonare dal
vivo e giocare su varie piazze. Agganciati alla Skam, per
techno à la Moby periodo Go!
(1991), con i nostri a far da
c u s t o d i d e l l a m e m o r i a d i Tw i n
P e a k s , Tr a p p e d ( d i C o l o n e l
Abrams) risulta invero curiosa
per una complicata ragnatela
di roland, synth angolari, trivelle ritmiche e fraseggi soul.
La traccia coincide con il debutto dei Boards come remixer
e,
contemporaneamente,
il
varo di una nuova ragione,
Hell Interface, un side-project
che se farà il paio (anche qualitativamente
parlando)
con
l’analogo progetto degli Autechre (Gescom), costituisce,
se non altro, il segnale più
evidente della maturazione di
Mike e Marcus sotto l’aspetto tecnico. Caratteristica che
va certamente annoverata tra
gli elementi essenziali di un
debutto in grande stile, che è
già nell’aria: nel febbraio del
1998 i fratelli firmano per la
Warp.
zatosi d’emblée nella campagna inglese.
È un lavoro che sublima anni
di ricerche, un compatto e
coerente flusso di coscienza di ricordi della pre-adolescenza, una sintesi di mito e
sottesi presagi, d’incanto e di
rarefazioni temporali.
Compreso il potenziale di un
mondo immaginifico, della savana amniotica e delle maree
al crepuscolo, i Boards Of
Canada siglano così l’apice
- tutt’ora insuperato - di una
personale poetica.
Remissaggi di brani già app a r s i s u B o c M a x i m a , Tw o i sm e Hi Scores si combinano
a altri di una sofisticazione
inedita; accanto alle trame lineari (seppur off-pitch) delle
migliori produzioni del passato, si manifestano complessi intrecci di voci e vocine,
sussurri e dialoghi televisivi
strappati al tempo, masse li-
s e n t i r e a s c o l t a r e 11
quide che vengono egregiamente scandite una varietà di
riff spezzati, dentelli metallici
e fruscii cosmici. Evidenze di
un lavoro timbrico che si riconduce all’alveo di un’ennesima spettacolare mutazione
del tessuto dell’Hip Hop che
dopo esser passato nell’acceleratore di particelle Jungle
e nella narcosi del Trip-hop,
trasfigura in senso angelico,
onirico e ultraterreno.
Alex Paterson aveva dimostrato come non ci fosse nessuna differenza di vedute tra
gli hippies e i Ravers, Aphex
Tw i n i n s e g n a t o c o m e s i p o t e va essere compositori classici
prendendo a prestito le mac-
stesso anno), stupendo l’uomo con due dignitosi inediti
(Happy Cycling e quel ragarock per guerre stellari chiamato Xyz) e una sorprendente
versione up-tempo di Aquarius
(gioiello taglia e cuci sampledelico di funky e voci di bambini) (6.8/10), il debutto riceve consensi crescenti fino a
trionfare nelle classifiche di
fine anno di NME, The Wire,
Jockey Slut, DJ Magazine.
Grazie a un contratto con la
M a t a d o r, l ’ a l b u m è d i s t r i b u i t o
negli USA (settembre 1998)
e con l’hype in forte crescita, nel febbraio successivo, è
nuovamente nelle indipendent
chart inglesi, dove rimane a
Star sotto il nome di Hell Interface, e il più discreto make up
per Mira Calix (Sandsings), ritornano nei negozi nel novembre del 2000 con In A Beautiful Place Out In The Country
(Warp, novembre 2000).
chine very cheap dell’Hip-Hop
(e smontando e rimontando
sintetizzatori), gli Autechre
azzerato lo scarto linguistico
tra i murales e le microchirurgie ritmiche, dunque i fratelli
scozzesi scovano uno stargate evocativo e personale in
un’infanzia tra Edimburgo, il
Canada naturalistico dei documentari e il pianeta Marte del
“c’è l’acqua sottosotto” e dei
marziani verde fluo. (7.6/10)
alte quote per parecchie settimane.
Il successo è inarrestabile:
in quegli stessi mesi, la popolare rivista NME inserisce
i Boards Of Canada nel gotha
neo psichedelico assieme a
Mercury Rev e Beta Band e da
lì ha luogo l’ennesimo bagno
di folla al Warp Records 10th
Birthday Party (con Autechre,
S q u a r e p u s h e r,
Aphex
Tw i n
e Mira Calix) e al lighthous e p r e s s o i l Ta m i g i a L o n d r a
(con, oltre i consueti, anche
Plaid e Prefuse 73).
gelico/onirico stream of consciousness, il duo valica le
pareti del subconscio approdando agli umori della riflessione adulta. In questo senso, se il pop - naturalmente
dilatato - della marittima Kid
F o r To d a y ( c o n t r a c c e d i P a n
American) rappresenta un evidente segnale, è la traccia
omonima l’effigie dello scarto
tematico.
Nei mesi successivi alla pubblicazione, mentre gli scozzes i r e m i s s a n o Ve g e t a r i a n S o u p
degli allora famosi Meat Beat
Manifesto (inserendo forzatamente carillon, vocine e spett r i d i Ta n g e r i n e l d u b - t e c h n o
robotico del gruppo che pare
non digerire bene l’intrusione) e partecipano alle session di John Peel (primo giugno 1998, pubblicazione su cd
per la Warp nell’ottobre dello
12 sentireascoltare
Tr e m e n d o u s Vo l c a n i c E x p l o sions Some Time Occur. Una
geografia d’ambienti psichici
e mentali
Occorreranno due anni per far
smaltire il boom mediatico ai
fratelli scozzesi, che dopo un
p e s s i m o r e m i x d i M i d a s To u c h
del gruppo two-step Midnight
L’ e p p ì ,
solo
apparentemente un’ovazione alla natura e
ai filmini del National Board,
rappresenta un celato concept
sulla strage di Mount Carmel
a W a c o , i n Te x a s , d o v e f u r o n o
uccisi dall’FBI 75 appartenenti della setta Branch Davidian.
Per Mike e Marcus, lungi dal
dare una svolta dark-ambient
alla loro carriera, è uno spartiacque importante: dall’an-
Tra vocalizzi vocoderati à la
Daft Punk, un tipico Tum Tum
Cha dell’Hip Hop e un sottile
sinfonismo à la Badalamenti
(sotto forma di pennellate di
synth che sanno di organi funebri), il brano bilancia perfettamente un format mai così
riconoscibile - pop come non
lo è mai stato - eppur vivo e
per nulla parco delle caratteristiche misteriose degli esordi.
Appetibilità che non sfuggirà
né ai fan sempre più numerosi
del gruppo, né al mercato dell a t e l e f o n i a . Te l e c o m I t a l i a ,
quell’anno,
commissionerà
la sonorizzazione di un spot
ai Boards Of Canada che per
l’occasione ripropongono Sixt e e n d a Tw o i s m . ( 7 . 1 / 1 0 )
Di questa ulteriore maturazione farà tesoro Geogaddi
(Warp / Self, febbraio 2002),
secondo album sulla lunga
distanza e caleidoscopio di
ventitrè spaccati tra natura e
contemplazione
sull’esistenza, altrettanti tasselli del BOC
pensiero sottoposti a sottili
strategie oblique.
Asciugato il volume acquatico
del precedente lavoro, forata
l’ovatta alinea, e usciti dal liquido amniotico della piscina
di Cocoon (e da quello non
meno mesmerico del festival
A l l To m o r r o w ’ s P a r t i e s d e l
2001), i fratelli scozzesi disegnano una variegata geografia
d’ambienti fisici e mentali che
si traduce nei giochi timbrici sulle voci, di ragazzi e ragazze, prese dalla radio come
d a l l a t v, d ’ i n d i v i d u i s c i o l t i i n
un’avvolgente pasta ritmica
che, di volta in volta, assume
le fragranze del soul-pop (Music Is Math, 1959) come dell ’ e t n i c a ( S u n s h i n e R e c o r d e r,
Opening The Mouth), del downtempo sincopato (Gyroscope)
come dell’aria orchestrata e
s y n t h - e t i c a ( Yo u C o u l d F e e l
The Sky), del carillon sfasato
(Dawn Chorus) come della piece concreta di field recording
( A I s To B A s B I s To C , T h e
Devil Is In The Details, Diving
Station). Il tutto condito, per
la gioia di Scientology (nonché dei fanatici che credono
alla cabalistica attorno alla
morte di McCartney), di una
serie di riferimenti alla matematica e allo spazio (Alpha
And Omega, Music Is Math, A
I s To B A s B I s To C , 1 9 5 9 … ) ,
sequenze e congetture avallate dai Nostri che rincarano la
dose tirando in ballo persino
la sequenza di Fibonacci.
Ben lontano dall’incarnare le
vesti di belzebù (ma sicura-
mente pronto a vendergli l’anima, come dire, Devil Is In The
Details), il secondogenito di
casa, ancor oggi venerato dai
fan occultisti (alcuni di loro
tenutari di website in tutto e
per tutto simili a quelli che
raccontano la “vera” storia dei
Beatles), è un prova frammentaria, con sicuramente alcuni
momenti poco incisivi, ma pienamente riuscita. È, in definitiva, una mappa d’immagini di
chi ha vissuto a sufficienza
per evocare il passato, anche
il più remoto, con la giusta
pacatezza e il proverbiale distacco. E proprio come le voci
dell’infanzia di Music Has The
R i g h t To C h i l d r e n s o n o c r e sciute e con esse è maturato
un diverso modo d’osservarle.
(7.1/10)
A Beautiful Day Out In The
C o u n t r y, f o r r e a l ?
Se occorrono ben tre anni per
dare un successore a Geog a d d y, p e r M i k e e M a r c u s l e
pause da un long playing e
l’altro non hanno mai costituito un problema. Da anni sono
richiesti come remixer e, anche questa volta, trascorrono
il tempo al bancone dello studio di registrazione. Nel 2004
rifanno lo smalto a Boom Bip
con Last Walk Around Mirror
Lake, un lavoro d’ordinanza
che non lascia alcuna scia
dietro di sé, ma quando pare
che la tv li stia assopendo,
i fratelli sbucano dal lago di
Lockness con due tra i migliori lifting di sempre: Dead Dogs
Tw o p e r i c L O U D D E A D e B r o ken Drum per Beck. E con il
prima a fregiarsi di una astuta
siringata di A Day In The Life
dei Beatles con il fantasma di
Beck dietro l’angolo, e il secondo a reinventare lo stesso
Hansen come avremmo sempre voluto sentirlo in Guero
(Beck stesso dichiarerà “è il
miglior remix che ho mai commissionato”) ogni dubbio sulla
forma dei Boards Of Canada è
sciolto mentre crescono le attese per una nuova fatica che
si preannuncia calibrata nei
suoni e fors’anche ricca d’innovazioni.
Campfire
Headphase
(Warp
/ Self, 17 ottobre 2005), con
la copertina caratterizzata da
una figura sbavata e consumata come se la pellicola si
fosse macchiata di un qualche
liquido fosforescente poi sbiadito, non conferma le aspettative che i remix avevano
paventato, tuttavia introduce
una piccola grande novità, le
chitarre.
Mike e Marcus hanno passato
gli ultimi due anni a provare
e riprovare riff e arpeggi alla
sei corde, ripensando il sound
alla luce di uno strumento appeso al muro dai tempi del
l i c e o . L’ a l b u m è u n a r i s p o sta ai loro quesiti ma anche
una
riapertura
all’acustico
come alle esterne, agli spazi bucolici dove le linee melodiche costeggiano i flussi
della coscienza delle speranze più che delle reminiscenze, delle immagini dei volti
che ancora devono venire al
mondo, piuttosto che quelli
c h e n o n c i s o n o p i ù . L’ i n i z i a le Chromakey Dreamcoat, tra
un grezzo arpeggio di chitarra
r e g i s t r a t o a l D AT e p o i m e s s o
in loop, l’avvicendarsi delle
consuete aperture acquatiche
e un drumming maggiormente
live rispetto agli standard, è
il principio di un nuovo corso.
Pur con qualche cassetta di
scrosci ancora sotto il letto, il
file canadese riapre sereno e
senza teoremi matematici: Satellite Anthem Icarus è indietronica di marca 2004 senza
troppi taglia e cuci, una melodia affogata nel gelato di una
psichedelia per sbuffi angelici e vocoder di pannacotta.
Niente più off-ptich spinti (tastiere opportunamente stonate) o bambini alieni (alienati)
in apnea, la paternità di Marcus sembra aver portato un
certo buonismo nelle melodie
geogaddiche, armonizzazioni
che nella sovraffollata glass a d i P e a c o c k Ta i l d e n o t a n o
maggior produzione, e qual-
s e n t i r e a s c o l t a r e 13
14 sentireascoltare
interviste
Klaus Schulze
Quando il rock si liberò delle chitarre
e diventò “cosmico”
di Daniele Follero
Quasi sessant’anni e una carriera più che trentennale. Dalla nascita dei Tangerine Dream e degli
Ash Ra Tempel all’era dell’informatica musicale,
passando per le incertezze degli anni’80. Piaccia
o no, Klaus Schulze ha occupato di prepotenza un
posto nella storia della musica. SentireAscoltare
intervista in esclusiva il padre della Cosmische
Musik.
Schulze durante una performance a Linz nel 1980
che dubbio. Si respirano momenti convincenti, come nella
cinematica Dayvan Cowboy (in
crescendo avvolgente), o nelle pennellate blu di Oscar See
Thorugh Red Eye (che sembra
rinfocolare la fiamma umorale
d i u n a K i d F o r To d a y ) ; t u t t a via, da altre parti (84 Pontiac
Dream e Hey Saturnday Sun),
in cotanta spazialità sonora,
l’aria che tira è quella patinata - ahinoi - della new age.
E se a quattordici anni dal
debutto chill-out degli Orb, il
leit motiv è sempre il medesimo - How Was The Sky When
W e W e r e Yo u n g ? - , i l l a v o r o
più lineare, massimalista e
arrangiato dei nostri è anche
il più debole: perso il lato
s c u r o d e l l a f o r z a ( Te a r s F r o m
The Compound Eye), Campfire
Headphase guadagna in colore ma in definitiva perde in
carenatura.
Per vie diverse, ma nello
stesso incrocio d’interrogativi, l’album porta con sé alcune delle perplessità del popolare fake che, per un po’ di
tempo, molti hanno pensato
essere l’album originale. Se
il falso denotava incertezza
ma grande passione per un
sound
comunque
stagionato, l’autentico pur compatto,
straordinariamente rifinito e
proiettato verso il presente
(la folktronica è uno dei piatti
forti dell’indie attuale), manca
di quella filigrana invisibile,
di quel brivido sottopelle, che
caratterizzava piccoli capolavori quali In A Beautiful Place
O u t I n T h e C o u n t r y, A q u a r i u s
(versione Peel Sessions) o
Sixtyten. (6.0/10)
Trentacinque anni fa usciva
Let It Be e si concludeva l’avventura dei Beatles, che aveva
rivoluzionato il rock in tutto e
per tutto, anzi, forse lo aveva inventato. Contemporaneamente veniva dato alle stampe
Electronic Meditation e si preparava un nuovo cambiamento epocale per la storia della
popular music: cominciava la
carriera di Klaus Schulze e dei
Ta n g e r i n e D r e a m e p r e n d e v a i l
via quel radicalismo elettronico che sconvolse non poco chi
ancora viveva con l’idea che
il rock fosse inscindibile dall’idea di fare musica con chi-
tarra, basso e batteria.
Corrieri
Cosmici
Te d e s c h i :
così vennero definiti quei musicisti che un giorno decisero di fare tabula rasa di tutte le esperienze musicali che
li avevano formati e cominciarono a manipolare i suoni
con sintetizzatori analogici e
moog, che divennero in seguito il segno distintivo di quella
generazione.
Ma la Cosmische Musik non
nasceva dal nulla. Il fascino
di certe esperienze “colte”
(le esperienze minimaliste di
L a M o n t e Yo u n g , R i l e y, G l a s s
e Reich) e la psichedelia; le
esperienze con le droghe allucinogene e il senso di “espansione” della mente che alla
fine degli anni sessanta aveva
influito fortemente anche sulle pratiche del fare musica, si
univa a un vertiginoso sviluppo delle tecnologie e alla diffusione degli strumenti di manipolazione e sinterizzazione
dei suoni.
In questo clima, che apriva le
porte al decennio più sperimentale del rock, la Germania,
confermando il suo secolare
approccio filosofico-spirituale
alla musica, dimostrava che
rock e avanguardia non erano poi vocaboli così antitetici
tra loro. Il kraut rock, al di là
del nome buffo, rappresentava
al meglio la via tedesca alla
popular
music,
accostando
Stockhausen, i Pink Floyd e
R i c h a r d Wa g n e r.
Klaus Schulze, insieme a Edg a r d F r o e s e d e i Ta n g e r i n e
Dream e Florian Fricke dei Popol Vuh può essere considerato tra i fondatori di questa
“scuola”, che raggiunse, dopo
un periodo di rodaggio, il suo
apice creativo attorno alla
metà degli anni ’70, quando
gli esperimenti dei primi anni
cominciarono a prendere forma e a riempirsi di contenuto,
per poi cadere in una sorta di
manierismo alla fine del decennio e scavarsi la fossa negli anni’80.
L’ i n t r o d u z i o n e d i t e m i r i c o n o scibili al posto degli interminabili tappeti sonori, le ritmiche
quasi dance che sostituiscono le atmosfere a-temporali e
oniriche, sono il segno di una
trasformazione
inesorabile,
piegata alle logiche di un mercato in forte espansione.
La lunga carriera di Schulze è testimone di tutti questi
cambiamenti: dai capolavori
degli esordi Irrlichte Cyborg
ai capitomboli di Body Love e
Aphrica, fino alle mastodontiche operazioni degli ultimi
anni (i 50 cd di musica inedita
di The Ultimate Edition) il musicista berlinese non si è mai
fermato, dimostrando oltre a
un’incredibile prolificità, anche una grande consapevolezza dei propri mezzi artistici e
un’ottima qualità compositiva.
Manuel Gottsching (Ash Ra
Te m p e l ) , B i l l L a s w e l l e S t e v e
Winwood sono solo alcuni dei
personaggi con cui il Nostro
ha collaborato. E poi, ve li ricordate gli Alphaville, icona
del pop anni’80? Era lui il coproduttore del progetto.
Quel berlinese venuto dallo
spazio - Intervista a Klaus
Schulze
Piaccia o no, Klaus Schulze è
entrato di diritto nella storia
della musica e avere l’opportunità di fare quattro chiacchiere con lui mi eccita e mi
disorienta allo stesso tempo.
Il rischio di perdermi nella storia ultra-trentennale di questo
giovane sessantenne, la paura di sentirmi troppo piccolo
di fronte a un colosso della musica, sono pensieri che
inevitabilmente mi pervadono.
Poi squilla il telefono: “Salve,
sono Klaus Schulze, vorrei
parlare con Daniele Follero”.
Per un attimo sprofondo in
una situazione assolutamente
surreale. Poi tiro il fiato: “salve Klaus, sono io…”
Sono passati più di trent’anni dalla nascita della Cosmische Musik. Cosa pensi sia
rimasto di quegli esperimenti nella musica elettronica di
oggi?
Penso soprattutto al “sequencing”, quella sorta di maniera
ipnotica di mettere in sequenza i suoni e l’approccio sperimentale nell’intervenire suoi
suoni. Oggi le manipolazioni
avvengono a qualsiasi livello,
noi all’epoca non avevamo le
a t t r e z z a t u r e ( c o m p u t e r, r y t h m
machines)
che
è
possibile
utilizzare oggi. Ciò che oggi
rimane di quelle esperienze
penso sia anche un certo “feeling” nell’approccio alla materia musicale.
Quali pensi siano state, in-
vece,
le
debolezze
della
“musica cosmica”?
Beh, ce ne sono molte! (ride).
Penso soprattutto alla maniera un po’ caotica di fare
musica che ci contraddistingueva. Allora, (mi riferisco
in particolare ai miei esordi
i n s i e m e a i Ta n g e r i n e D r e a m
con Electronic Meditation) più
che fare musica si stava provando a sperimentare nuove
sonorità. Per questo spesso
venivano fuori cose caotiche
e, a volte, anche un bel po’
noiose. Stavamo iniziando in
quel momento, non avevamo
mai fatto cose del genere e
non conoscevamo ancora il risultato che avremmo ottenuto.
Mancando una tradizione non
potevamo prendere spunto da
esperienze simili. E’ attorno
al 1974 che la cosmische musik arriva ad acquisire consapevolezza dei propri mezzi
espressivi e raggiunge quasi
la perfezione.
Era anche un problema di
forma, di struttura?
Più che di forma, direi che
c’era soprattutto un problema
“drammaturgico”. Non sapevamo ancora come organizzare composizioni così lunghe.
All’inizio stavamo esplorando
nuovi strumenti, non eravamo consapevoli del risultato
e quello che ci interessava
era il puro effetto. Restavamo sorpresi perfino dall’atto
stesso di girare la manopola
di un Synth. Ma è la stessa situazione che ha vissuto la techno ai suoi esordi: oggi si ricerca la sofisticazione mentre
prima i musicisti cercavano
nuovi mondi sonori, avevano
le attrezzature a disposizione
e gli bastava questo. E’un po’
come quando i bambini vengono a contatto con qualcosa di nuovo e non sanno cosa
aspettarsi.
Molti ritengono Irrlicht il tuo
miglior lavoro di sempre. Ti
ha mai preoccupato l’idea di
non riuscire a ripetere quello
straordinario capolavoro?
Assolutamente no, anzi, mi
sentireascoltare 15
Schulze in una versione di cera...
sorprende un po’che la gente pensi questo. Quando penso ai miei lavori precedenti
li considero sempre nel contesto in cui sono stati creati
e questo mi permette di giudicarli in maniera più oggettiva possibile. In un disco come
Irrlicht oggi non posso evitare
di scorgere tanti punti deboli,
non lo rifarei, ma sono ancora
convinto che all’epoca avesse la sua ragion d’essere.
Al principio degli anni ‘70 le
possibilità, gli strumenti, erano limitati rispetto ad oggi e
questo fa onore a quel disco,
per quanto lo renda assolutamente irripetibile.
Cosa ricordi delle session in
studio per il primo album deg l i A s h R a Te m p e l ?
E’ stata veramente una specie
di jam-session “fricchettona”
(la risata scappa a entrambi).
16 sentireascoltare
Era la prima volta che provavamo in uno studio di registrazione professionale e non
avevamo la benché minima
idea di come si lavorasse in
uno studio.
Eravamo abituati a suonare
dal vivo. Ci guardammo in faccia e ci dicemmo: “ok, proviamo!”. Poi il tecnico ci ha fermato: “bene adesso ripetete
la prima parte”. E poi ancora
e ancora… E’stato davvero disorientante per noi lavorare in
quel modo. In ogni caso noi,
fuori dallo studio, abbiamo
poi registrato in presa diretta lo stesso materiale, consegnando il nastro al produttore, che si è preoccupato del
mixaggio.
Cosa diresti della collaborazione con Manuel Gottsching?
E’ sempre fantastico lavorare
con lui.
Cosa pensi dei suoi Cosmic
Jokers?
Non mi piace quella roba, penso siano stupidaggini. E’ musica piena di droghe, non mi
interessa affatto..
Credi che le esperienze con
le
droghe
possano
avere
qualche
importanza
nella
composizione musicale?
Dipende. Quando abbiamo cominciato, le esperienze con le
droghe erano abbastanza importanti per noi, perché sentivamo la necessità di uscire dalla realtà, di superare i
confini. In più, venivamo da
un’educazione
tradizionale
(non solo musicale): eravamo
normali musicisti che suonavano la batteria, la chitarra
e il basso. Per abbandonare
questa “normalità” pensavamo che anche l’uso di droghe
avesse
la
sua
importanza.
Nel momento in cui, però, si
riesce a uscire da questa dimensione è importante usare
il proprio potere senza farsi
troppo “aiutare”. Con un uso
reiterato le droghe perdono
di senso, come nel caso dei
Cosmic Jokers: ognuno suona
per conto suo, senza pensare a cosa stanno facendo gli
altri. Non penso sia un buon
esempio di musica, questo.
1970: Electronic Meditation
c o n i Ta n g e r i n e D r e a m p u ò
essere considerato l’inizio
della carriera sia tua che
loro. Come consideri la storia musicale di quella band?
Hai ancora qualcosa da condividere con loro, musicalmente parlando?
P e n s o c h e l a s t o r i a d e i Ta n g e rine Dream abbia subito rapidi
cambiamenti già dopo qualche
anno dagli esordi, soprattutto
dovuti a vari cambi di formazione. E’ stato negli anni ’80,
però, che le nostre strade si
sono separate inesorabilmente: io all’epoca ero ancora interessato a composizioni lunghe e di ampio respiro mentre
i Ta n g e r i n e D r e a m h a n n o c o minciato
a
interessarsi
al
mercato musicale americano e
alle musiche da film e i loro
dischi sono diventati inevitabilmente più “commerciali”. In
America devi seguire determinate regole e questo a me non
interessa per niente. Non ho
mai voluto suonare in America e anche per questo la mia
musica ha avuto successo in
Europa e non negli U.S.A.
Gottsching ha affidato uno
dei suoi capolavori, E2-E4,
allo Zeitkratzer Ensemble.
Hai mai pensato di far eseguire un tuo lavoro per orchestra (Irrlicht, per esempio) a
un ensemble orchestrale?
Ve r a m e n t e n o . I m i e i l a v o r i
sono molto basati sul sound
complessivo, che costruisco
in studio e non penso sia particolarmente interessante farli eseguire da altri, come se
fossero messi in partitura.
Pensi che esista qualche relazione tra la musica classica (o “colta” che dir si voglia) e il rock?
N o . L’ u n i c a c a r a t t e r i s t i c a c h e
hanno in comune questi due
ambiti è quella di appartenere
in maniera molto generica alla
categoria “musica”. Il rock è
una musica concepita per il
corpo, laddove la musica cosiddetta “classica” appartiene
alla sfera mentale, non solo in
senso intellettualistico.
Beh, però i valzer di Johann
Strass nascono per il ballo,
quindi per il corpo…
Già, ma per vecchi corpi (gran
risata)…
E’ stato davvero importante
Richard Wagner per la tua
musica?
Certo! E’uno dei primi musicisti a comporre in senso
multimediale. Il suo concetto
di opera totale (può piacere
o no) riusciva a mettere insieme straordinariamente diversi mezzi espressivi. Trovo straordinario anche il suo
modo di comporre alcune parti vocali, specialmente quelle
femminili: mi fanno veramente
accapponare la pelle!
C’è un particolare aspetto
della musica di Wagner che
ti interessa?
Quel particolare modo di costruire le melodie che viene
normalmente chiamato Leitmotiv e che stravolge il concetto di tema che si trova fino a
Beethoven. Il Leitmotiv è una
melodia, ma non è “concreta”
e questo lo rende particolarmente misterioso.
Pensi che i 50 cd di The Ultimate Edition possano davvero aggiungere qualcosa alla
tua discografia, o sono solo
un feticcio per fan e collezionisti?
Penso che siano come una
sorta di diario di venti e più
anni di carriera. I fan sono
sempre alla ricerca di esecuzioni dal vivo o comunque in
presa diretta e questo mi sembra un buon modo di venirgli
incontro con materiale inedito. E’importante per avere un
quadro più completo della mia
produzione musicale, ma non
può sostituire la discografia
ufficiale. Diciamo pure che
più che di una raccolta si tratta di un complemento alla mia
discografia.
Tu h a i l a v o r a t o c o n m e t o d i d i
registrazione e produzione
del suono sia analogici sia
digitali e questo dualismo è
ben rappresentato in tutta la
tua produzione. Segui qualche criterio estetico nella
scelta di suoni analogici o
digitali quando componi?
Dipende molto dalla musica
che sto componendo in quel
preciso momento e dal suono di cui ho bisogno. Non mi
interessa molto se sia creato
in analogico o digitale. Oggi,
ad esempio, lavoro molto con
i software, anche per una questione di praticità.
Cosa pensi della New Age?
E’ solo una moda?
E’orribile! Dolce ed esoterica, ma di un esoterismo molto “americano”. C’è gente che
pensa che per rilassarsi e calmarsi ha bisogno di ascoltare
quella roba. Ma è una stupidaggine! C’è molta musica, in
questo senso, molto più “new
age”, ma che non è considerata tale.
Cosa pensi di etichette tedesche di musica elettronica
come Monika Records, Staubgold, Sonig e di band come
i Mouse On Mars?
Ah, li trovo molto divertenti!
E anche interessanti. Si può
dire
che
rappresentano
la
terza generazione di musicisti elettronici tedeschi. Trovo molti di questi lavori troppo commerciali per me, ma ci
sono alcune idee da non sottovalutare.
Cosa diresti del tuo ultimo
album, Moonlake, uscito da
poco?
Oh, è molto bello! (ride) Non
c’è molto da dire in proposito, visto che è stato composto
nello stato emozionale in cui
ho sempre registrati i miei dischi, quindi per me è un disco
del tutto normale, anche se mi
piace particolarmente perché
è l’ultimo: mi affeziono sempre di più all’ultimo album che
incido, nel momento in cui lo
faccio!
Un’ultima
domanda.
Dopo
anni di intensa attività artistica, c’è ancora musica nel
futuro di Klaus Schulze? Hai
qualche progetto?
Al momento no, perché sono
ancora convalescente dopo un
periodo in cui sono stato poco
bene. Per ora non ho programmi, ma appena starò meglio
rimetterò piede nel mio studio di per registrare qualcosa, magari un nuovo album o
qualcosa del genere. Ad ogni
modo spero che ci sia ancora musica nel futuro di Klaus
Schulze e, soprattutto… buona musica.
sentireascoltare 17
monografia
Silver Jews
Il diritto di rimanere in silenzio
di
Antonio Puglia
Tra lo-fi, folk, alt. country e quintali di poesia sgangherata, la
carriera della (non) band dell’ultimo anti-eroe indie, David Berman
(non)
Strana creatura, i Silver Jews
di David Berman. Un’entità
sfuggente, atipica anche per
la loro culla, quel bizzarro e
sono emerse personalità forti come Will Oldham, Stephen
Malkmus, Beck; gente che,
partita imboccando percorsi
alternativi a quelli tradizionali del music business (quando non decisamente in rottura con essi), col passare del
tempo si è “arresa” all’idea di
carriera, anche con successo.
In questo contesto, David Ber-
che, anche se saltuariamente,
lo obbliga a stare sotto i rif l e t t o r i . N o n è u n a r o c k s t a r, f i guriamoci. Non è un hobo nato
c o m e i l P r i n c e B i l l y. N o n è u n
eroe indie come Malkmus, né
un loser eccellente come Lou
B a r l o w. L o p o t r e m m o p i u t t o sto chiamare poeta, e a volte
anche lui ama definirsi così;
nel 1999 ha pubblicato una
frastagliato universo lo-fi che
nei primi ’90 vide fiorire Royal
Trux, Palace, Sebadoh e mille altri. Un panorama musicale improbabile, da cui tuttavia
man (o più brevemente DCB)
resta
un’eccezione.
Non
è
certo uno a cui piace stare al
centro dell’attenzione, anzi.
Eppure ha scelto un mestiere
raccolta di scritti (Actual Air)
e si è detto che per un certo
periodo abbia anche insegnato letteratura americana; nessuna meraviglia che invece di
“Sono il tiro che mia madre ha
giocato al mondo; diciassette dottori non sono riusciti a
decidere se dovessi fare parte del gioco o meno” (Send In
The Clouds – 1998)
18 sentireascoltare
andare in giro a promuovere i
dischi preferisca dedicarsi ai
reading. Eppure per lui la musica è sempre stata una cosa
seria, quasi un’esigenza vitale: basta buttare un occhio ai
suoi testi ironici e poeticissimi, buffi e profondi al tempo
stesso, per rendersene conto.
Questi paradossi non devono
stupire: sin dagli inizi, la storia dei Silver Jews si è basata
sugli sforzi, apparentemente opposti e inconciliabili, di
passare inosservati e al contempo di affermare la propria
esistenza. Basti pensare che
Berman ha speso metà degli
anni ’90 tentando di spiegare
che i Silver Jews non erano un
side project dei Pavement, e
nonostante ciò, buona parte
della notorietà della band è
dipesa proprio da questo beffardo equivoco.
In effetti, era ancora il 1989
quando tre studenti dell’Università della Virginia misero
su una band informale chiamata Ectoslavia; trasferitisi
a N e w Yo r k , B e r m a n , S t e p h e n
Malkmus e Bob Nastanovich
continuarono
a
improvvisare canzoni nell’appartamento
che dividevano, registrandole con mezzi di fortuna dopo
lunghe giornate di lavoro (i
primi due come guardiani in
un museo, il terzo come autista di un bus navetta): erano nati i Silver Jews, a quello
stadio niente più che un gioco
tra amici. Una concezione di
band che negli anni non è poi
cambiata tanto: nonostante il
crescente interesse intorno a
Berman a causa della Pavement-connection, i Joos sono
sempre rimasti una piccola famiglia, intima e riservata. Un
approccio più professionale,
l’aiuto di preziosi collaboratori e un’ispirazione sempre più
vivida hanno solo contribuito
ad elevare esponenzialmente la qualità dei dischi, senza influire sull’atteggiamento
di Berman nei confronti dello
show-biz.
Pur mantenendo un basso pro-
filo, i Silver Jews hanno finito per mostrare tutta l’urgenza
di comunicare la propria esistenza, e questo perché sono
stati anzitutto la finestra da
cui il loro creatore si è affacciato per raccontare il mondo.
Un mondo in cui “gli alberi
hanno la silhouette di Abramo Lincoln”, “gli uccelli della
Virginia volano in tre come le
coriste”, “i professori di latino puzzano sempre di piscio”,
“i treni attraversano il mare”
e “i vestiti di velluto servono a far scorrere via la pioggia”. A partire dal 1996 con
The Natural Bridge, Berman
ha messo a punto una poetica
personalissima, una weltanschauung densa di riflessioni
immaginifiche sulla realtà circostante, su rapporti interpersonali, sull’amore, sulla vita
e sulla morte; il tutto condito
da uno humour surreale, sardonico e beffardo, che nella
maggior parte dei casi cela
un profondo disagio esistenziale (si è saputo che DCB è
stato un aspirante suicida).
In altre parole le canzoni dei
Silver Jews ci forniscono un
ritratto unico dell’uomo, delle
esperienze e dei luoghi in cui
è vissuto, con spaccati singolari della provincia americana di fine millennio (Virginia,
Te x a s , K e n t u c k y , Te n n e s s e e ) .
Oggi, parte della poesia forse
si è persa: abbiamo un Berman sposato, ottimista, non
più depresso, che ha addirittura trovato il piacere di suonare “loud” abbandonando in
parte le sonnolente cadenze
country folk. “Fino a Bright
Flight - 2001 - avevo concepito i miei dischi come lettere d’addio, adesso vivo per il
presente” (da un’intervista a
Blow Up #90, novembre 2005).
Un presente in cui, siamo sicuri, David continuerà a fare
dischi come ha sempre fatto,
e chissà, forse si arrenderà
anche lui all’idea di carriera…
riservandosi comunque il diritto di rimanere in silenzio.
Don’t talk to me about work
– Due chiacchiere con David
Berman
Domanda ovvia ma inevitabile: cosa hai fatto negli ultimi quattro anni?
L’ u l t i m o d i s c o ( B r i g h t F l i g h t )
è uscito nell’ottobre del 2001.
Mi sono sposato nell’ottobre
2002. Tutti i miei album precedenti sono usciti in ottobre.
Perché? Da giovane ho letto
questo passaggio di Nietzche
ed mi è sempre rimasto in testa
(letteralmente: “it became one
of the sentences spraypainted
on the dry bone walls of my
m i n d ” n d r. ) “ P e r i m i e i l e t t o ri più selezionati vorrei dire
qualcosa anche su ciò che
voglio veramente dalla musica. Deve essere piacevole e
intensa, come un pomeriggio
di ottobre. Deve essere unica,
lasciva e tenera, e come una
donna raffinata ed elegante,
piena di malizia e grazia…”
(dall’Ecce Homo).
I n a s t r i d i Ta n g l e w o o d N u m bers si sono miracolosamente salvati dall’incendio che
l’estate scorsa ha distrutto
gli Easley-McCain studios di
Memphis. Credi nel Fato?
E’ un po’ infelice credere che
tutto ciò che fai è deciso dal
Fato. A volte succedono cose
che ti danno la possibilità di
dire “questo doveva accadere”, e in un contesto creativo ciò può essere piuttosto
demoralizzante:
“Se
questo
doveva accadere come posso
dire di essere completamente
padrone di ciò che faccio?”. E’
come attaccare se stessi.
La prima cosa che viene fuor i d a l l ’ a s c o l t o d i Ta n g l e w o o d
Numbers è che oggi i Silver
Jews suonano più “rock” che
mai. E’ dipeso dai musicisti
con cui hai lavorato stavolta
o da influenze particolari?
Penso dipenda dalla musica
che ho ascoltato in macchina
durante il 2004. Ho ricominciato a sentire musica ad alto
volume, il mio stile di guida
è diventato più aggressivo e
spietato e mi sono reso con-
s e n t i r e a s c o l t a r e 19
to che lentamente, col tempo, ero diventato insensibile
alla capacità che ha la musica di suscitare grandi ondate
di emozioni. Così ho suonato a tutto volume Jo Jo Gunne, Bloodrock, UFO e Hairy
Chapter (tutte band hard rock
anni’70, ndr). Ho anche ascoltato un po’ del rap che proviene da “Cashville”: Haystak
a n d A l l - S t a r n o w. R e s p e c t .
Tu t t o q u e s t o s u o n a p r o p r i o
come una sorta di nuovo iniz i o p e r t e . Tu t t a v i a , s a p r e s t i
trovarmi dei punti in comune
tra questo disco e il precedente, Bright Flight?
Soltanto ovvietà, come il nome
dell’autore e la sequenzialità.
Penso che tw#s più che altro
si faccia notare per l’assenza
di legami con il suo predecessore.
Com’è stato lavorare di nuovo con Bob Nastanovich (ex
percussionista
dei
Pavement, ndr)? Non abbiamo sue
notizie da un bel po’. Come
se la passa?
Bob ha scelto di fare una vita
tranquilla. Il suo sorriso allegro e il modo in cui spazza industriosamente la strada
gli hanno fatto guadagnare il
rispetto di tutta la comunità in cui vive, ed è piuttosto
frequente che un mercante
indaffarato si fermi e offra a
Bob un nichelino scintillante,
che “mister Bob” (lo chiamano
così) lascia cadere con orgoglio nelle tasche con un gran
battito di ciglia.
Nelle nuove canzoni Stephen
(Malkmus) non canta, si limita a suonare la chitarra. E’
come se fosse un “semplice”
musicista nella band, anche
se il suo stile resta sempre
in primo piano. E’ ancora un
partner speciale per te?
Sì. Mi piace pensare alla nostra relazione come quella tra
quarterback e ricevitore nel
football americano. Ci deve
essere una certa intesa tra
i giocatori perché riescano i
lanci lunghi, ed è un po’ quello che ci succede in studio.
20 sentireascoltare
Sotto la sigla Silver Jews
sono passati tanti musicisti
diversi. Oltre a quelli con
cui hai già lavorato, ci sono
dei musicisti con cui ti piacerebbe collaborare in futuro?
Mi piace molto il gruppo che
abbiamo adesso. Forse dovrei
richiamare i ragazzi di The
Natural Bridge… Comunque il
nostro roster è questo. Non
ho intenzione di rimpiazzare
nessuno all’interno di questa
organizzazione.
Che musica hai ascoltato negli ultimi mesi?
Il nuovo disco di Bobby Bare
S r. s u D u a l t o n e ( T h e M o o n
Was Blue, gennaio 2005) è un
documento
impressionante,
e quando ti trovi davanti alla
g r a n d e z z a d i Va n L e a r R o s e
di Loretta Lynn (Interscope,
2004) e delle ultime cose pubblicate da Johnny Cash ti rendi finalmente conto che, quand o s e i c o u n t r y, è u n a c o s a c h e
ti porti fin dentro la tomba.
Avremo mai la possibilità di
leggere Actual Air anche in
Europa?
La traduzione avviene quando qualcuno dell’altra lingua
lo decide. Non posso impedire a nessuno di tradurre le
mie poesie, come potrei? Una
squadra speciale di Nobel che
sgombera uno squat olandese? E’ una domanda interessante.
In una recente intervista,
quando ti è stato chiesto
cosa pensassi delle poesie
d i J e f f Tw e e d y e B i l l y C o r gan, hai detto che loro erano
musicisti
professionisti ancora prima di essere
scrittori professionisti. Ti
consideri più uno scrittore
professionista o un musicista professionista? E cosa
significa
“professionista”
per te, in ogni caso?
Penso a me stesso come un
“portatore di significato” (significance provider). E’ un
termine che ho sentito dire a
Grant Morrison durante una
conferenza. Penso che “pro-
fessionista” sia un termine
comune che indica “ciò che fai
nella vita”.
La storia dei Silver Jews è
sempre
stata
strettamente
legata alle vicende della tua
vita, alle tue scelte, come
una sorta di tua questione
privata. Arriverà il momento in cui la band prenderà il
controllo e diventerà un business?
La band assumerà tanto controllo quanto il mondo è disposto a darne (decliniamo ogni
responsabilità circa l’igiene
urbana e cose del genere). Gli
ultimi eventi nella selezione
naturale hanno dimostrato che
la mutazione chiamata “business” è diventata un adattamento necessario, e così, anche se con riluttanza…
- Significa che finalmente vi
metterete a fare concerti?
(Come da copione, David non
risponde a questa domanda,
ndr).
Dai vostri esordi c’è stato
sicuramente un cambiamento - diremmo una crescita nella storia dei Silver Jews.
Quando ti sei accorto che la
band poteva essere qualcosa
di diverso da tre amici che
registrano canzoni in un appartamento?
Nel 1996 The Natural Bridge
è arrivato al diciassettesimo
posto nella classifica degli
album dell’anno del Melody
M a k e r. A q u e l t e m p o l a c o s a
mi ha mandato fuori di testa.
Guardando
indietro,
qual
è il tuo disco preferito dei
Jews?
Probabilmente Crooked Rain,
Crooked Rain.
Dicci qualcosa che non hai
ancora fatto e qualcosa che
vorresti fare in futuro.
Vo g l i o s o l o c h e c i s i a u n f u t u ro. Non voglio che questa vita
finisca.
Prologo: Canzoni da un appartamento (1991/ 1992)
Le prime uscite a nome Silver
Jews sono esattamente quello
che Berman, Malkmus e Nastanovich promettono sin dall’inizio:
tre amici che strimpellano allegramente in una stanza, niente di più, niente di meno. Nel 1993 la Drag City (guidata dal
lungimirante e coraggioso Dan Koretsky) tiene a battesimo la
“band” dando alle stampe l’EP Dime Map Of The Reef, seguito
dall’ineffabile 7” The Silver Jews & Nico (questo edito dalla
Chunk Records), fino al mini The Arizona Record. Si tratta per
lo più di registrazioni in bassissima fedeltà risalenti al biennio
‘91/92, periodo in cui due terzi del gruppo erano alle prese con
Slanted & Enchanted.
Il paragone con le coeve produzioni dei Pavement è, appunto,
inevitabile: se il grado di amatorialità ed insana incoscienza
è all’incirca lo stesso (tanto che a volte è difficile distinguere
trai due gruppi, vedi The War In Apartment 1812), dalle parti
dei Jews l’approccio compositivo è ancora più frammentario
e aleatorio: non canzoni, piuttosto ritornelli abbozzati, spesso improvvisati sul momento; la poetica visionaria e assurda
di Berman è ancora tutta da venire, così come la vena pop di
Malkmus (che sboccia altrove), mentre Nastanovich conferisce
quel grado di simpatica amatorialità al tutto.
Tra le prime apparizioni del demenziale jingle jangle malkmusiano (Canada, Sabellion Rebellion, Jackson Nightz) e del tetro
solipsismo di Berman (Walnut Falcon), in questa messe sgangherata si possono trovare comunque episodi esplicativi come
l a d i v e r t e n t e p a r o d i a j a z z d i O l d N e w Yo r k , S e c r e t K n o w l e d g e o f
The Backroads (in multiproprietà con i Pavement, che la suoneranno in una Peel Session) e la psichedelia spacey di Bar
Scene From Star Wars. Da notare che a questo stadio Malkmus
e Nastanovich erano nascosti dietro gli alias Hazel Figurine e
Bobby N. Come se ci si potesse sbagliare..
Starlite Walker (Drag City / Domino, 1994)
“In ventisette anni ho bevuto cinquantamila birre / che si inf r a n g o n o c o n t r o d i m e c o m e i l m a r e c o n t r o u n m o l o ” ( Tr a i n s
Across The Sea)
Dopo le prove generali degli Ep, il primo vero album dei Silver
Jews esce nell’autunno del 1994. La stagione del lo-fi sembra
ormai agli sgoccioli: Beck è in heavy rotation su Mtv e gli stessi Pavement, i re della scena, hanno cominciato a prendere
le distanze dal movimento con Crooked Rain, Crooked Rain.
Accompagnato dai soliti Malkmus e Nastanovich (più il loro
nuovo batterista Steve West, a rendere ancora più pesante
la “sudditanza”), Berman entra nei leggendari Easley-McCain
di Memphis per uscirne con quel mucchio di canzoni che form a n o S t a r l i t e Wa l k e r. C a n z o n i c o u n t r y - f o l k p e r l a p r e c i s i o n e ,
ripassate attraverso la tipica dis-grazia dei sodali; anche se
lo stile di scrittura rivendica una sua indipendenza, l’associazione col gruppo di Stockton è ancora inevitabile: si vedano le
sconclusionatezze strumentali in The Moon Is The Number 18,
l’andamento alla Fall di Pan American Blues o il gigioneggiare
imperterrito dei coretti in Living Waters, per non parlare dello
stile vocale di David, ancora influenzato dall’amico Stephen.
Nonostante ciò, i Silver Jews cominciano a rivelare un’identità
più certa: lo dimostra Trains Across The Sea, la prima composizione memorabile di DCB, che inaugura qui la sua poetica
surreale, e New Orleans, il prototipo delle ballate crepuscolari
di lì a venire. E andando avanti, è proprio un bell’ascoltare:
A d v i c e To T h e G r a d u a t e , T i d e To T h e O c e a n s ( e n t r a m b e c o n
il leader dei Pavement ben in evidenza), Rebel Jew sono tutti episodi melodicamente ineccepibili (alla voce Beatles vs.
sentireascoltare 21
Ve l v e t U n d e r g r o u n d ) , v e n a t i d i u n f a s c i n o r u r a l e c h e r i c h i a m a
i primissimi R.e.m. di dieci anni prima (anche nella grafica di
copertina), passati attraverso l’estetica amatoriale e naif dei
propri tempi.
Oggi si può pensare a questo disco come a un’appendice in
chiave folk di quel piccolo capolavoro che è Crooked Rain,
Crooked Rain o, più semplicemente, uno dei segreti meglio custoditi del suo periodo. (7.3/10)
The Natural Bridge (Drag City / Domino, 1996)
“No, non voglio morire davvero / Voglio solo morire nei tuoi
o c c h i ” ( H o w To R e n t A R o o m )
Se Starlite Walker aveva mostrato cosa fossero i Silver Jews
in un “vero” studio per un “vero” disco, The Natural Bridge va
anche oltre. A buon diritto, è lecito credere che Berman si fosse ampiamente stufato delle continue associazioni del suo progetto con i Pavement, e così, approfittando dei sempre più frequenti impegni dei compari, scrive un pugno di ballad con quei
pochi accordi che conosce, ci butta dentro quintali di poesia
sgangherata e ispiratissima, le arrangia al volo e le registra
c o n a l t r i q u a t t r o m u s i c i s t i s e m i - s c o n o s c i u t i ( M a t t H u n t e r, R i a n
M u r p h y, P e y t o n P i n k e r t o n , M i c h a e l D e m i n g ) . N e v i e n e f u o r i u n o
stile musicale che, per quanto classico e ortodosso rispetto
alla sregolatezza del passato, consente al Nostro di dedicarsi
al meglio alla scrittura.
Il risultato è il più bel disco di Berman come autore e compositore. È qui che troviamo il prototipo della ballata à la Silver
J e w s , H o w To R e n t a R o o m : g i r o a r m o n i c o s e m p l i c i s s i m o , d o l e n t e c a d e n z a c o u n t r y, v o c e s t r a s c i c a t a s e m p r e s u l f i l o d e l l a
stonatura e un verso che ti colpisce a primo ascolto (“No, I
don’t really wanna die / I only wanna die in your eyes”); un
incipit folgorante, che sarà una caratteristica costante dei dischi successivi dei Joos. Per il resto, The Natural Bridge è
un lavoro straordinariamente compatto, che da un lato paga
il dovuto dazio alle colonne portanti del songwriting folk (lo
spirito di Dylan aleggia inevitabilmente su quasi tutte le tracc e , c o s ì c o m e q u e l l o d i N e i l Yo u n g - I n s i d e T h e G o l d e n D a y s
O f M i s s i n g Yo u – o a n c h e d e i p r i m i R . e . m . – D a l l a s ) , d a l l ’ a l t r o
crea atmosfere dense di un minimalismo teso e spettrale (quasi
post, come in Ballad Of Reverend War Character), per un esito
analogo a quello coevo dell’amico Will Oldham e i suoi Palace.
Su tutto, l’inconfondibile stile lirico di Berman, che rende queste elementari country songs dei deliziosi quadretti densi di un
esistenzialismo disincantato, colmi di uno humour sardonico e
amarissimo (vedi la drammaticità di Frontier Index, la filosofia
naif di Black And Brown Shoes, la toccante sincerità di Pretty
Eyes).
Insomma, un album talmente riuscito che il suo esterrefatto
autore lo vedrà scalare le classifiche indie di fine anno. E’ uff i c i a l e : S i l v e r J e w s a r e h e r e t o s t a y. ( 8 . 0 / 1 0 )
American Water (Drag City/ Domino, ottobre 1998)
“Nel 1984 fui ricoverato per essermi avvicinato alla perfezione
/ Dopo aver cazzeggiato in giro per l’Europa, hanno dovuto ricredersi” (Random Rules)
Per il successore di Natural Bridge, DCB inverte parzialmente
la rotta: convoca nuovi musicisti (Tim Barnes, l’ex Royal Trux
Mike Fellows, Chris Stroffolino) e, sorpresa, richiama in squadra l’amico Stephen. Un ritorno al passato? Quasi: la nuova
22 sentireascoltare
formula dei Jews, per quanto riporti in azione la coppia Malkmus-Berman, risente inevitabilmente delle esperienze maturate
d a i d u e n e l p o s t - S t a r l i t e Wa l k e r. I l p r i m o , r e d u c e d a l l a p r o gressiva “normalizzazione” dei Pavement, comincia a sentire
bisogno di respirare aria nuova; il secondo, ormai sicuro delle
proprie capacità di autore e interprete, non teme più il confronto con la “grande madre” di Stockton e sceglie di avvalersi di
un partner musicale d’eccezione.
A dirla tutta, nell’ideale rincorsa Silver Jews / Pavement, stavolta il risultato si ribalta. American Water non solo rivela la
completa maturazione del progetto di Berman come entità a sé
stante, ma mostra un valore aggiunto anche rispetto al gruppo
di Malkmus. Se la calligrafia è quella già incontrata in Natural
Bridge (Random Rules, classica album opener che si avvale di
un arrangiamento strepitoso con sfumature alla Oldham, o la
crepuscolare We Are Real), Stephen s’inserisce tra le pieghe,
con la voce e ancor più con la chitarra (protagonista assoluta
nella strumentale Night Society e in Like Like The The Death),
mettendo in luce tutte le potenzialità di un tandem formidabile.
In certi episodi inevitabilmente l’orecchio riporta ai tardi Pavement (vedi l’incedere ubriaco di Federal Dust, o Blue Arrangements, che pare fare il verso alla Something beatlesiana), ma
in più di uno è facile riscontrare una freschezza, una realizzazione che manca agli ultimi lavori di Malkmus e soci (su tutti
la strepitosa People). Non sarà un caso se lo stesso Stephen
r e s t e r à a l l a l u n g a d e l u s o d a l “ s u o ” Te r r o r T w i l i g h t ( r e a l i z z a t o
poco dopo questo disco) perché “non era altrettanto ispirato
come American Water”; e ascoltando Send InThe Clouds, Smit h & J o n e s F o r e v e r, B u c k i n g h a m R a b b i t e T h e W i l d K i n d n e s s
viene proprio voglia di dargli ragione: neanche da solista riuscirà a trovare un socio come DCB. Il quale a sua volta mette
da parte il cupo esistenzialismo del disco precedente in favore
di un beffardo nonsense, che alleggerisce i toni senza perdere
in profondità (le già citate We Are Real, Random Rules e Send
In the Clouds, tutte dei classici bermaniani): l’ulteriore pregio
di un album che ancora oggi è uno dei picchi del cantautorato
indie pop. (7.7/10)
Bright Flight (Drag City / Domino, ottobre 2001)
“Andremo a vivere a Nashville, e lì farò carriera / scrivendo canzoni tristi per poi essere pagato in base alle
l a c r i m e ” ( Te n n e s s e e )
Aria di cambiamenti in casa Silver Jews. La Pavement connection è ormai un ricordo sbiadito (Malkmus ha appena iniziato
l’avventura solista con i Jicks), così come gli anni del lo-fi
e d e l l e s c o r r i b a n d e i n d i e t r a L o u i s v i l l e , D a l l a s , N e w Yo r k e
i l N e w J e r s e y. D C B s i è t r a s f e r i t o n e l l a c i t t à d e i s u o i s o g n i ,
quella Nashville che per lui rappresenta un porto ideale, non
solo da un punto di vista musicale: nel suo futuro prossimo,
d o p o l ’ a ff e r m a z i o n e c o m e s c r i t t o r e c o n A c t u a l A i r, c ’ è a n c h e i l
matrimonio e una vita più o meno stabile. Insomma, si chiude
una stagione. Il Nostro se ne rende pienamente conto e scrive
quello che potremmo chiamare il disco “definitivo” dei Silver
Jews; nel senso che Bright Flight, in maniera più o meno conscia, conclude quel ciclo che si era aperto con Starlite Walker
e aveva visto la partecipazione alterna degli amici Pavement.
Per l’occasione, Berman lascia ancora una volta Stephen a
c a s a e r e c l u t a p r o f e s s i o n i s t i c o m e i d u e L a m b c h o p To n y C r o w e
Paul Niehaus e Cassie Marret, cantante country-punk destinata
sentireascoltare 23
a diventare la sua compagna di vita.
Il processo di maturazione è dunque completo: la tetra desolazione di Natural Bridge e la frizzante ironia di American Water
vengono qui metabolizzate e cristallizzate nell’ideale dimensione del tipico Nashville sound; una scelta che, per quanto convenzionale, definisce inequivocabilmente l’essenza “classica”
del songwriting strampalato di DCB. Non è quindi un caso che
la veste tradizionale calzi a pennello a queste composizioni, in
assoluto tra le più ispirate del Nostro: dall’ironica riflessione
sulla creazione e sulla morte di Slow Education (“When God
was young, he made the wind and the sun / and since then, it’s
been a slow education”), allo sguardo sornione verso il futuro
d i Te n n e s s e e ( “ M a r r y m e , l e a v e K e n t u c k y , c o m e t o Te n n e s s e e ” )
ritroviamo l’intero universo di Berman, il quale adesso guarda
alla vita con cauto ottimismo, senza rinunciare a quel disincantato sarcasmo che lo ha sempre accompagnato.
E se I Remember Me e Horseleg Swastikas sono tipiche ballad country da “scazzo sul divano” (I’m drunk on a couch in
Nashville /… I’m like a rabbit freezing on a star), a far da contraltare ci pensano l’honky tonk sbarazzino di Let’s Not And
Say We Did (con Cassie al controcanto) e il buffo numero da
c l o s i n g t i m e F r i d a y N i g h t F e v e r, m e n t r e i n Ti m e W i l l B r e a k T h e
World e nella strumentale Transylvania Blues fa capolino un
inedito mood desertico à la Giant Sand / Calexico.
La malinconica Death Of An Heir Of Sorrows (I wish I had a
thousand bucks / I wish I was the Royal Trux) è l’epitaffio che
chiude idealmente un album che sa tanto di lettera d’addio.
Dopo Bright Flight, sarà tutt’altra musica. (7.5/10)
Tanglewood Numbers (Drag City / Domino, 18 ottobre 2005)
“Dov’è la busta di carta che avvolge il liquore / nel caso in cui
dovessi aver bisogno di vomitare”(Punks In The Beerlight)
Quattro anni: una gestazione insolitamente lunga per un disco
dei Silver Jews. Da quel poco che ci è dato sapere, nel frattempo David Berman si è felicemente sposato con Cassie Marret,
mettendo da parte la musica per dedicarsi ai suoi amati reading
(nonché alla trasposizione sulle scene di Actual Air); soltanto
a fine del 2004 ha cominciato a raccogliere le idee per l’atteso
ritorno della sua creatura, radunando tra gli altri vecchi amici
come Stephen Malkmus, Bob Nastanovich e Will Oldham. Dopo
alcune peripezie in fase di post produzione - si è persino vociferato che il master fosse andato perso nell’incendio che a
inizio estate ha distrutto gli storici Easley-McCain Studios di
M e m p h i s - e c c o f i n a l m e n t e Ta n g l e w o o d N u m b e r s , u n a s o r t a
di nuovo inizio per il progetto di DCB, soprattutto alla luce
dell’alone di ineluttabile “morte annunciata” che avvolgeva il
precedente Bright Flight.
E se ovviamente non possiamo che rallegrarci del fatto che
(ipse dixit) “i Silver Jews esisteranno finché almeno due di noi
continueranno a camminare su questa terra”, è subito evidente
che ci troviamo di fronte a un gruppo sostanzialmente diverso
da quello che conoscevamo, e ciò non dipende soltanto dai mus i c i s t i c o i n v o l t i . L’ i n i z i a l e P u n k s I n t h e B e e r l i g h t m e t t e s u b i t o
le carte in tavola: David Berman ha scoperto il gusto di suonare ad alto volume, dedicandosi a una scrittura prettamente
rock: echi di Paisley Underground, aperture seventies, chitarre
capricciose e ruvide, scrittura agile come non mai; dello stesso
tenore le successive Sometimes a Pony Gets Depressed (con
un Malkmus mai tanto velvettiano) e K-Hole. Gli arrangiamenti
rimangono chiaramente votati al country (vedi il banjo o gli
24 sentireascoltare
efficaci inserti di violino di Paz Lechantin), così come lo stile
lirico del Nostro, sempre pungente e surreale (“Where does an
animal sleep when the round is wet?”); ma in generale sono i
toni ad inasprirsi e ad assumere diverse sfumature; perfino la
gamma vocale di David risulta più varia, grazie anche all’efficace controcanto della moglie in più occasioni.
Alla lunga il disco soffre un po’ degli ospiti illustri, ma non
potrebbe essere altrimenti: come in precedenza, Nastanovich,
Malkmus e un redivivo Steve West ai tamburi tingono di Pavem e n t e p i s o d i c o m e H o w C a n I L o v e Yo u I f Yo u W o n ’ t L i e D o w n
( a m a r c o r d d i S t a r l i t e Wa l k e r ) , T h e P o o r, T h e F a i r & T h e G o o d
e Farmer ’s Hotel (entrambe infiorettate da un Malkmus in stato
di grazia); dal canto loro Sleeping Is The Only Love e I’m Gett i n g B a c k I n t o G e t t i n g B a c k I n t o Yo u ( c o n u n o s q u i s i t o c a m e o
d i B o b b y B a r e J r. ) s o n o b a l l a t e c h e c i r e s t i t u i s c o n o i l B e r m a n
di un tempo, anche se la conclusiva There Is A Place mette definitivamente in chiaro che il passato è solo un ricordo. Forse
resta un po’ di rimpianto da parte nostra, ma, come ci ha detto
l o s t e s s o D C B : “ Vo g l i o s o l o c h e c i s i a u n f u t u r o . N o n v o g l i o c h e
questa vita finisca”. E a noi tutto sommato va benissimo così.
(6.6/10)
sentireascoltare 25
monografia
Calla
Dalla canzone alla sperimentazione, andata e ritorno
di Lorenzo Filipaz
Anima darkwave in un corpo slowcore. Il percorso di una band che dopo aver
viaggiato per grandi praterie sonore ritorna al songwriting, fra frontiera
e mura urbane…
I Calla sono la fusione di due
nuclei compiutasi nello spazio
che intercorre fra una dimensione domestica, volta al paes a g g i o r u r a l e ( Te x a s ) , e q u e l la urbana e cosmopolita per
a n t o n o m a s i a d i N e w Yo r k . S u
queste coordinate psicogeografiche si sviluppa l’identità
sonora del gruppo.
In principio, a.d. 1992, ci
sono i Fallen Vlods: duo elettro-acustico indirizzato ver-
26 sentireascoltare
so la sperimentazione sotto
la guida di Sean A. Donovan,
subito titolari di una label –
la EachHundreds – dedita ai
suoni di frontiera. Accanto a
loro sorge poco dopo (’93) The
F a c t o r y P r e s s , d i A u r e l i o Va l le e Peter Gannon, sbilanciati
invece verso un rock ad alto
contenuto “sabbioso” (il loro
unico album The Smoky Ends
Of A Burnt Out Day - uscito
postumo nel ’98 per la ND vedeva Kid Congo Powers e
M a t t Ve r t a - R a y a l l a p r o d u z i o ne, ndr), minimo comun denominatore delle due esperienze
il percussionista, batterista,
nonché electronic programmer Wa y n e B . M a g r u d e r.
Entrambi i progetti ebbero orig i n e i n Te x a s : i F a c t o r y P r e s s
a Denton, quasi contemporaneamente ai Bedhead (di Dallas, poche miglia più a sud,
ndr), e i Fallen Vlods ad Austin, in una scena che di lì a a
poco vide sorgere gruppi come
A m e r i c a n A n a l o g S e t , A n d Yo u
Will Know Us By The Trail
Of Dead e poi Explosions In
T h e S k y. M a a m b e d u e i g r u p p i
mossero ben presto verso New
Yo r k , d o v e s i d i s s o l s e r o g r o s somodo nel ’96. Nella Grande Mela i nostri protagonisti
trascorsero un lasso di tempo
seguitando per le loro rispett i v e s t r a d e ; c o s ì m e n t r e Va l l e
transitò per gruppi garage e
r o c k a b i l l y, D o n o v a n p r o s e g u ì
la sua formazione classica
organizzando le Simultaneity
Series per trenta musicisti,
collaborando col S.E.M. En-
Sul finire del ’97 decisero in
fine di riunire le forze (Gannon fiancheggiava il gruppo
senza prendervi parte a pieno
titolo) spinti dalle motivazion i p i ù d i s p a r a t e : m e n t r e Va l le (chitarra, voce) aspirava a
fondere “un suono vintage con
influenze moderne” rientrando nell’alveo di un songrwriting “altro” che guardava a
To m W a i t s c o m e a i J e s u s A n d
Mary Chain passando per Lee
Hazelwood, Donovan (basso)
si interessava alla “manipolazione del timbro attraverso lo
spazio” incarnando l’anima più
trico” guidato dal basso di Donovan e dai sample industriali
d i M a g r u d e r. I l d i s c o - r e g i strato nel ’98 - uscì nel ’99,
giusto in tempo per rientrare
nel novero dei dischi più suggestivi e fascinosi degli anni
’90, forte della totale libertà
concessagli dalla belga Sub
Rosa, l’etichetta che forse più
di ogni altra si è dimostrata in
sintonia con l’anima dei tre.
semble di Petr Kortik e diven-
sperimentale
tando animatore degli eventi
organizzati al Guggenheim, al
Lincoln Center e alla Carnegie
Hall (per le sue più che eccellenti partecipazioni rimandiam o a l s i t o d e l l a Yo u n g G o d ) .
Magruder invece divenne rinomato sessionman on-stage
p e r W i n d s o r F o r t h e D e r b y,
Robert Hampson (Loop, Main)
e Bowery Electric con i quali
registrò il loro secondo album
B e a t ( K r a n k y, 1 9 9 6 ) .
gruppo. Magruder invece (batteria), ambendo ad “integrare
elettronica, triggers e samples
in un formato rock” si poneva
come ideale medium fra i due
compagni, avvicinando in parte il gruppo al post-rock e alla
glitch. Il loro self-titled debut
si presenta come la risultante sorprendentemente esatta
di queste tre linee: frammenti
soffocati di ballata drop-out si
perdono in un suono “volume-
sertica con quella cosmica,
non potè non scatenare l’infa-
all’interno
del
Quel suono fatto di lontani
echi industriali proiettati in
una dimensione dilatata, fusione della suggestione de-
tuazione di uno come Michael
Gira che mise immediatamente i Calla sotto contratto per
l a s u a Yo u n g G o d . M a q u a l cosa nel frattempo era cambiato, la dimensione live con
la quale si ritrovarono a confronto dopo il debutto alterò il
perfetto equilibrio del disco:
erano pur sempre un gruppo
rock - per quanto di frontiera
- e il rock dal vivo necessi-
sentireascoltare 27
ta di un frontman, ruolo che
quasi immancabilmente spetta al vocalist. Gira, intuendo
le potenzialità compositive di
Va l l e , s p i n s e n e l l a s u a d i r e zione
completando
l’opera.
C o s ì i n S c a v e n g e r s ( Yo u n g
God, 2001) le chitarre finirono in primo piano e inevitabilmente riemersero i retaggi
della scena texana, Bedhead
in testa, anche se decisamente superati grazie al carico di
charme cosmico-desertico che
i Calla si portavano appresso
e alla loro totale estraneità
dalle pastoie emo. La cesura
con
l’esperienza
precedente non era infatti ancora così
netta e l’apporto di Donovan
e Magruder si rese ancora determinante a conferire al disco quell’immaginifico allure
dei grandi spazi nonché gli
accenti sperimentali collusi
– quantomeno stilisticamente - con l’elettronica downtempo. A riprova della vitalità
di questa duplice attitudine i
Calla offrirono i loro repertorio in pasto ai remix di amici
e non in Custom (Quatermass,
2001), dall’altro lato, spinti
dalla critica - specialmente
europea (in quanto è a questa
che la produzione li spingeva a
rivolgersi) - che li voleva eredi di Badalamenti, Morricone
e delle grande colonne sonore
da “panoramica”, iniziarono a
prestare i loro brani ai commenti sonori di cortometraggi,
incamminandosi su una strada
che li porterà a far parte della soundtrack The Manchurian
Candidate di Jonathan Demme
(2004) e a partecipare attivamente alla colonna sonora del
film Satellite (2004).
Rinfocolarono intanto i progetti collettivi, i Fallen Vlods
si ripresentarono come Crumbles Recovery (EachHundreds, 2000), Wayne Magruder
avviò il progetto personale
tenEcke e il “fiancheggiatore” Gannon fondò i Murcov
con Daphne Gere (sua futura
moglie). I particolari interessi
sperimentali dei vari membri
28 sentireascoltare
si dirottarono quindi su queste valvole di sfogo lasciand o a Va l l e i l c a m p o l i b e r o . N e
c o n s e g u ì u n d i s c o , Te l e v i s e ,
uscito per i tipi della Quatermass nel 2003 (etichetta
diversa ad ogni disco, a testimonianza di un continuo
desiderio di cambiar pelle)
che presenta un mood nuovamente rivoluzionato. Sulla
falsariga di Fear Of Fireflies,
ballata che lasciava intravedere un grande songwriting,
Va l l e s c r i s s e u n a m a n c i a t a d i
canzoni decisamente più standardizzate rispetto alla precedente produzione, con un suono meno elaborato ma dotate
di una comunicativa indubbia
- S t r a n g l e r e Te l e v i s e d s u t u t te - figlia più della darkwave
urbana che dello slowcore rurale. Inevitabilmente il loro
pubblico
s’ingrossò
guadagnando al gruppo un successo
inedito ma fruttando anche un
equivoco: la loro nuova lettera pervasa dall’affascinant e v o c e d i Va l l e , s o s p e s a f r a
torpore erotico e disperazione autocompiaciuta, unita alla
frequentazione della nascente next big thing della Grande Mela, gli Interpol, avvicinò pericolosamente i Calla ad
un pubblico estraneo a quello abituale, molto più attento
a l l ’ h y p e ( t r a s f o r m a n d o Va l l e
quasi in un idolo per ragazze) e quindi molto impaziente,
poco propenso alla lente seduzioni in punta di voce. Ne
derivarono gig confusionarie,
laddove la loro musica (anche
in questa nuova veste) necessitava di silenzio e attenzione,
come testimonia l’EP acustico
uscito in tiratura limitata nello
stesso anno. Forse anche per
adattarsi a questo nuovo pubblico Gannon entrò nel gruppo
in pianta stabile a partire dal
2 0 0 4 e Va l l e i n i z i ò a s c r i v e r e
pezzi sempre più wave e semp r e m e n o s l o w, f i n o a l l ’ a b b a n dono di Donovan quest’anno
che ha deciso di proseguire
nello sviluppo dei suoi interessi in ambito sperimentale
al di fuori della band.
Con il presente Collisions uscito per la prestigiosa Beggar ’s Banquet e recensito su
S A 11 - e c o n l a n u o v a f o r m a z i o n e Va l l e - M a g r u d e r - G a n n o n ,
ritornano in pratica gli originari Factory Press, completando idealmente un ciclo che
li riconsegna nuovamente alla
canzone dopo averli trasportati per grandi praterie sonore…
Self-Titled (Sub Rosa, 1999)
Il debutto dei Calla è una pietra scura, incrostata di polvere,
sabbia e detriti da lavorazione industriale. Suoni dolcemente
introversi, sperduti in labirinti di triggers al ritmo martellante di percussioni autarchiche programmate, fra i quali a volte
sbuca una voce larvale a intonare sommesse giaculatorie private. Disco per le ore piccole, nelle dichiarazioni degli stessi
musicisti, giocato su quella tenue luce che non si spegne mai
neanche a notte fonda, che impasta residui di subconscio con
pezzetti di realtà cruda e livida.
L’ e n g i n e e r i n g è a ff a r e d i S e a n D o n o v a n , a l l i e v o i d e a l e d i
Stockhausen e Feldman, con il supporto sporadico di Magruder ed – esternamente – di Peter Mavrogeorgis. Il suono è una
questione interna al gruppo quindi, un suono che va ben oltre
una semplicistica bassa fedeltà, soffermandosi aleatoriamente
sull’imperfezione a dargli volume e anima, forte di una consolidata esperienza avanguardistica che lambisce appena i moduli
del rock (principalmente nel velluto darkwave della song più
tradizionale del lotto, Trinidad, e nel chiaro omaggio a Waits,
Custom Car Crash), includendo altresì accenti mai banali da
soundtrack non solo occidentale (Juneci suggerisce il nome
d i Te i j i I t o ) . U n g r a n l a v o r o d i s p e r i m e n t a z i o n e s u l l e m a s s e
sonore, quasi studi da Dolby Surround, nell’accostare echi incredibilmente lontani (di basso) a rumori incredibilmente vicini
(i triggers) per delineare grandi spazialità attraverso il suono.
Un Midwest dell’anima fatto di non-luoghi notturni (Elsewhere)
dove ogni tanto si vede spuntare l’aurora (Only Drowning Men).
(8.0/10)
Scavengers (Young God, 2001)
La dimensione concertistica è sempre stata conflittuale per i
Calla. Il loro primo repertorio fatto di sfumature di suono e di
crepuscoli di canzoni, perfettamente a suo agio nel catalogo
“di frontiera” Sub Rosa, trovava non poca difficoltà nella mess a i n s c e n a d a l v i v o c o n s t r u m e n t a z i o n e t r a d i z i o n a l e . L’ a s s e t t o
è cambiato di conseguenza, concretizzandosi nel ritorno alle
chitarre e a batteria e basso non programmati, con il patrocinio
di Mr Gira in cabina di produzione. Mutamento che si dispiega
in tutta la sua portata fin dalla prima canzone: Fear Of Fireflies (un instant-classic del loro repertorio live) colpisce immediatamente nel mostrarsi come l’inattesa trasposizione della
loro peculiare ricerca sonora nelle strutture tradizionali della
ballata, così come Tijerina (forse il loro apice di carriera) traspone nella scienza del riff la loro sperimentazione “spaziale”
giocata sul contrasto lontano/vicino.
La prima parte del disco fino a The Swarm punta direttamente
e deliberatamente al cuore dell’ascoltatore con il canto stras c i c a t o , m a o r a m o l t o p i ù c h i a r o , d i A u r e l i o Va l l e e c o l s u o
particolare modo di intrecciarsi alle chitarre e alla “polvere di
suono”. Molti ne hanno parlato come di rockabilly dilatato e
screpolato (sicuramente i Gun Club e i Leaving Trains più rilassati non saranno del tutto alieni ai Nostri) ma la voce e le par o l e d i Va l l e , p i ù c h e r i f l e t t e r e l ’ e p i c a d e l W e s t , s i r i a l l a c c i a n o
più volentieri alla desolazione post-paisley di Kendra Smith,
Mazzy Star e affiliati (fino a Codeine, Galaxie 500 e i conterranei Bedhead soprattutto), e nondimeno all’estetica malinconica
e torbida – sottilmente vampiresca – dell’UK post-new wave:
dai fratelli Reid dei Jesus And Mary Chain, a Neil Hailstead e
M y B l o o d y Va l e n t i n e . M a n t e n e n d o s e m p r e t o n a l i t à f i o c h e , a l l e
sentireascoltare 29
volte vigorose ma mai violente, delicate ma dal retrogusto ferino, come mani sul corpo di un amante perduto e immaginario.
Purtroppo l’ultima parte dell’album scade nella prolissità e in
episodi dozzinali, facendo perdere qualche punto al disco altrimenti all’altezza dell’esordio – per quanto molto differente.
In questo senso meglio l’edizione americana, con la breve A
Fondness For Crawling e la bella cover di Promenade degli
U2, rispetto a quella europea con la buona ma prescindibile
cover di Dear Mary della Steve Miller Band e con gli insostenibili dodici minuti di Subterrain. (7.8/10) alla prima versione e
(7.5/10) alla seconda.
Intermezzo #1: Remixes
Poco dopo l’uscita di Scavengers, la Quatermass licenzia un
album di remix intitolato Custom: i primi pezzi non sono proprio
esaltanti con i loro lunghi prolegomeni elettronici (totalmente
fuori luogo) nei quali indulgono persino gli stessi Calla nel
loro auto-remix iniziale; tantomeno pregevole si direbbe l’int e r v e n t o d e i Ta r w a t e r s u u n m a t e r i a l e d e l i c a t o c o m e T i j e r i n a .
In generale il repertorio dei Calla viene qui totalmente defraudato di tutta la suggestione sonora di cui è intriso, trasformato in un mucchio di scheletri impersonali e freddi. Gli episodi
migliori sono quelli dove il remixer accosta i brani minori a
ritmi inconsueti (Metrotech, Datach’i) o dove il suono rimane
grossomodo inalterato per quanto crashato (Couch nel remix
n°2 di Fear Of Fireflies). In conclusione Custom si dimostra un
prodotto ovviabile addirittura per i completisti, alla luce anche
dell’estraneità dei Calla dal risultato finale (non a caso il materiale più interessante sono le due tracce live che concludono
la versione cd).
I Calla a loro volta si dilettano nell’arte del remix con risultati forse discutibili, ma testimoniando ancora una volta il loro
interesse negli aspetti più tecnici della produzione del suono.
A subire il loro trattamento sono i gruppi più affini per spirito:
Windsor For The Derby e PSI Performer nel 2001, e Silva e
Couch (ai quali restituiscono il “favore”)nel 2002. Da segnalare
nel 2001 anche l’inizio della pubblicazione di cd-r promozionali
con brevi registrazioni live: Performance NYTX (EacherHundreds; 2001) rivanga la doppia anima “geografica” del gruppo, con
l ’ a c c o s t a m e n t o d i d u e p e r f o r m a n c e , u n a a N e w Yo r k e l ’ a l t r a
i n Te x a s .
Cominciano anche le risposte concrete alla loro tanto decantata attitutine cinematografica. Alcuni loro brani vengono utilizzati per il commento sonoro di due corti: Freunde The Whiz
K i d s d i J a n K r ü g e r ( 2 0 0 1 ) e B u l l e t I n T h e B r a i n d i D a v i d Vo n
Acken (2002).
30 sentireascoltare
Calla / Walkmen Split CD (Troubleman; novembre 2002)
Dopo Scavengers qualcosa stava cambiando nella politica dei
Calla, lo si evinceva principalmente dalle frequentazioni: se
prima si facevano accompagnare da artisti come Flux Information Science - dal chiaro background orientato verso “altri-suoni” – ora si presentavano a braccetto con gente come Interpol e
Walkmen, intraprendendo una strada che li porterà a comparire
n e l l a c o m p i l a t i o n Ye s N e w Yo r k ( V i c e ; G i u g n o 2 0 0 3 ) a c c a n t o a
tipi come Strokes, Radio 4, Rapture, LCD Soundsystem… Non
proprio il loro contesto più congeniale, quantomeno all’epoca
dell’uscita di questo split. I Walkmen sono infatti ben lontani
dal competere con i Calla, con la loro formula piacevole ma
piuttosto mediocre, tutta orientata verso gli U2 appena appena
restaurati.
Il nostro gruppo invece propone qui in anteprima Don’t Hold
Yo u r B r e a t h , u n o d e i f u t u r i c l a s s i c i d e l l o r o n u o v o a l b u m d a l
caratteristico andamento a respiro affannoso, desolante ma avv o l g e n t e . Ve r o m o t i v o d ’ i n t e r e s s e p e r q u e s t o c d è l ’ a l t r a t r a c c i a , M o t h e r S k y, u n p e z z o d e i C a n i l q u a l e – o l t r e a d i l l u s t r a re meglio, come ogni cover per loro esplicita ammissione, il
mosaico di influenze dei Calla – lancia un ulteriore rimando
all’amico e mentore Robert Hampson che con i suoi Loop già
ne aveva proposto una versione quasi quindici anni prima. Ma
i l p r e s e n t e b r a n o , p e r q u a n t o Va l l e r i e s c a a c a m u f f a r s i i n m o d o
convincente da Damo Suzuki, viene scippato ai legittimi proprietari per diventare una delle distintive tinte della tavolozza
Calla. Per la precisione, un’evoluzione del loro tipico andamento minaccioso, dapprima mutuato dal piglio a la Waits in
b r a n i c o m e C u s t o m C a r C r a s h e S l u m C r e e p e r. ( 6 . 7 / 1 0 )
Televise (Quartermass/Arena Rock, 2003)
E’ probabile - e, ci tengo a rimarcarlo, dico probabile - che la
qualità dei dischi dei Calla sia decresciuta in valore a partire
dall’omonimo esordio. Il loro secondo cd - Scavengers - subiva forse troppo le intrusioni in sede di regia del grande “guru”
Michael Gira; esso segnava però una svolta nelle strategie
sonore del gruppo definendosi come iniziale tappa d’avvicinamento ai metodi della forma canzone più involuta e concettuale
(sebbene non poi così distante dal solipsismo creativo degli
esordi).
Te l e v i s e c o n d u c e f i n a l m e n t e t u t t i i f a n s d e l g r u p p o t e x a n o a d
una visione compiutamente “pop” del complesso mondo poetico
dei Calla, solitaria e traumatica terra di nessuno interiore.
L a v o c e d i A u r e l i o Va l l e m e d i a , i n S t r a n g l e r ( l ’ o p e n i n g t r a c k ) ,
il Robert Smith dei medi ‘80 - gli album psichedelici dei Cure o
se preferite, Wish - con certe appena più tarde malinconie pop
d a s h o e g a z e r s ( v e d i p r i m i R i d e ) . L’ i n f l u e n z a d e i J o y D i v i s i o n
e di quella quiet disperation anglosassone così profondamente
loro (nella ultima svolta “pop”, soprattutto) sembra essere ancora determinante per i nostri. Ed è ciò che accade in Pete the
K i l l e r, p a g i n a p r e g n a d ’ u n a ff l a t o l i r i c o d e p r e s s o e m e l a n c o l i co dove persino certe dilatazioni psicotrope alla Spiritualized
trovano posto.
Altrove aleggiano gli umori più acidi delle lisergie anni ‘60: Customized - complice l’uso dell’echoplex - abusa d’effetti stranianti (ad imitazione dei nastri “rovesciati” di tanta psichedelia britannica sixties) e li integra perfettamente in una sorta
di talking song per l’era del post trip hop. Stupenda è anche
s e n t i r e a s c o l t a r e 31
Quick as it comes, vicina - nell’incipit maggiormente - alle
svenevolezze della Hope Sandoval solista. E forse, almeno in
questo caso, non sarebbe scorretto parlare di dream pop iperdepresso.
A u r e l i o Va l l e , Wa y n e B . M a g r u d e r e S e a n D o n o v a n h a n n o s a p u to far loro l’ “espressionismo” dark dei Joy Division costruendo, su tali presupposti armonici, una forma sonora tanto austera quanto comunicativa (in tal senso, fra i suoi capolavori, il
disco annovera la coda strumentale di Carrera).
C h i u d o n o i l l a v o r o d u e p e r l e d e l c a l i b r o d i Te l e v i s e d e S u r f a c e
Scratch: esercizio d’incalzante e mobilissimo hard rock evoluto
ed emotivo la prima (con inflessioni, anche qui, psichedeliche);
dolce e tremula ballata sospesa fra luce ed ombra la seconda.
Non estranea ad eventi di pathos intenso e rattenuto alla Big
S t a r, l ’ a r t e d e i C a l l a c o n s i s t e s e m p r e p i ù n e l m e d i a r e g l i s t i l i
pop depressivi degli ‘80 dark con quelli sixties psichedelici. Il
gruppo tiene perciò pienamente fede a ciò che promise quando
ancora si chiamava Factory Press. (7.0/10) (Massimo Padalino)
Intermezzo #2: Singles, demos & live recordings
P o c o p r i m a d e l l ’ u s c i t a d i Te l e v i s e d v i e n e p u b b l i c a t o l ’ I n s o u n d
To u r S u p p o r t N o . 2 2 ( 2 0 0 2 ) , r a c c o l t a d i l i v e p e r f o r m a n c e s n o n
particolarmente eccezionali, inframezzate da “cartoline audio”
di vari luoghi che la band ha toccato durante la tourneé europea del 2000 (tra i quali pure una da Cagliari e una da Sassari
- n o n s a p p i a m o m o l t o d e l l e e v e n t u a l i o r i g i n i i t a l i a n e d i Va l l e
ma curiosamente Calla in sardo e spagnolo hanno lo stesso
significato: stare zitti. ndr), niente più che brevi istantanee
di baldorie, scherzi, scazzi. Uno dei motivi della nostra menz i o n e s o n o l e c o v e r, L o n g L o n g L o n g d i G e o r g e H a r r i s o n e
H a r v e s t M o o n d i N e i l Yo u n g : l a p r i m a - n e l l a v e s t e i n c u i è q u i
presentata - fa sobbalzare intravedendovi i Calla trenta anni
prima della loro formazione, la seconda è rimarchevole perché
illustra una ahinoi abituale situazione concertistica del gruppo, incorniciata com’è dal cicaleccio indifferente del pubblico;
colpisce però il modo in cui i Calla si trovino a proprio agio
in questa atmosfera, quasi il brusìo fosse un sound effect per
arricchire il pezzo di alienazione. Maggior motivo d’interesse sono comunque le quattro tracce demo che aprono il disco
– A s t r a l , M o n u m e n t , D o n ’ t H o l d Yo u r B r e a t h , P e t e T h e K i l l e r
– non solo come anteprima dell’album. Con la registrazione
leggermente imperfetta, la voce non in autotune, i riverberi
dissonanti, la strutturazione delle canzoni più studiata (con la
dialettica basso-chitarra decisamente più ficcante) e le tipiche
bave di suono del gruppo - senza quindi la robusta produzione
sottilmente mainstream-oriented di Chris Zane – le canzoni si
rivelano qui essere decisamente all’altezza se non superiori al
repertorio di Scavengers, peccato.
La ricerca di comunicativa – specie in Europa - da parte del
gruppo si evidenzia anche con l’inedito ricorso ai singoli e ai
videoclip (pubblicati solo in Inghilterra), che escono al seguito
d e l l e c a n z o n i p i ù r a d i o - f r i e n d l y d e l l o t t o : S t r a n g l e r e Te l e v i sed. Lo Strangler EP emerge particolarmente perché sul “lato
B” presenta due straordinari live-medley registrati per la BBC,
S l u m C r e e p e r / L o v e O f I v a h e Te l e v i s e d / M o t h e r S k y , s p e c i e
in quest’ultimo caso notevole per il vigore dell’interpretazione,
p e r i l s e t t a g g i o e l ’ i n t e r p l a y. R a g g u a r d e v o l e a n c h e u n a d e l l e
b - s i d e s d e l Te l e v i s e d E P : T r i n i d a d c o n i n c o d a l a s o r p r e n d e n t e -
32 sentireascoltare
mente squillante cover di I Shall Be Released di Dylan.
Continua la pubblicazione di cd-r live promozionali, come i
due Miscellaneous EP usciti in tiratura limitata di 200 copie
numerate (2003; il secondo registrato in radio a Milano e dal
vivo a Biella). Buoni tutti e due - certamente superiori alle registrazioni per il disco Insound – ma chiaramente destinati ai
collezionisti. Entrambi sono peraltro segnati dal finale remix
di Mayzelle da parte di Mr Hampson / Main – ancora lui! – una
distesa ambient popolata da microbi di beats e sinewaves nel
complesso moderatamente pallosa.
Altra storia per l’Acoustic EP uscito in 250 copie (sempre nel
2 0 0 3 ) c h e p r e s e n t a Va l l e s o l i s t a i n t e n t o a t o r n i r e p r e z i o s e e
suadenti alternate takes dei loro successi con in più splendenti
c o v e r ( f o r s e l e m i g l i o r i a n o m e C a l l a ) d i W a i t s ( Ye s t e r d a y I s
Here), Springsteen (State Trooper) ed Echo & The Bunnymen
(Ocean Rain).
Prosegue pure l’attività profilmica e dopo la partecipazione al
corto Kairos di Shanti Thakur (2003) e dopo aver prestato Traff i c S o u n d a C i n d e r d r i f t d i A n d r e w W. F l o r e s ( 2 0 0 3 ) e A s t r a l a l
remake di The Manchurian Candidate di Demme (2004), scrivono per la prima volta dei pezzi su commissione per Satellite di
Jeff Winner (2004). Questo lavoro frutterà il cd-r Collisionworks
(300 copie – esaurite) che oltre a presentare in anteprima
il nuovo cavallo di battaglia It Dawned On Me – poi incluso
in Collisions – sfodera quattro abbozzi strumentali piuttosto
a n o n i m i , b e n l o n t a n i d a l l e s u g g e s t i o n i d i u n a Ta r a n t u l a , p i ù
un “demolition remix” dell’imminente album. Insomma proprio
quando le virtù cinematografiche della loro musica iniziano ad
ottenere un riconoscimento professionale, le loro facoltà “descrittive” sembrano andare in pensione… Determinante, molto
probabilmente, la progressiva perdita di interesse nel progetto
di Donovan, il più impegnato nella definizione “spaziale” del
suono che lascia il gruppo agli inizi del 2005.
I Calla sono stati poi interpellati per il film Ben And Holly (Kurt
H a a s , 2 0 0 4 ) m e n t r e A u r e l i o Va l l e h a s c r i t t o d e l l e l i b e r e i m provvisazioni per Egoshooter (Becker & Schwabe, 2004), film
tedesco che vede anche la partecipazione della leggenda rock
Nikki Sudden.
Nell’autunno 2005 arrica Collisions
( v e d i r e c e n s i o n e s u S A 11 ) .
s e n t i r e a s c o l t a r e 33
recensioni
Mi and L’Au
S/t (Young God Records / Goodfellas, 22 novembre 2005)
Nel cuore di cemento di Brooklyn (NYC) Michael Gira e
l a s u a Yo u n g G o d R e c o r d s h a n n o r i t a g l i a t o u n q u a d r a t o
naturale che non sfugge alle stagioni, ma permane in
una sorta di epoca inattuale che, pure, è calata completamente nel presente e nei suoi fermenti. Creatore di un
paradosso temporale quasi senza precedenti, l’ex Swan
gestisce questo parco giochi dell’alt.folk tirando fuori
dalla terra, di volta in volta, germogli come Banhart,
A k r o n / F a m i l y e M i a n d L’ A u p e r p o i v e d e r l i c r e s c e r e e
maturare sotto i suoi occhi. Primaverile il primo, autunnali i secondi, il duo composto da Mira e Laurence (lui
francese e lei finlandese) è stato invece capace di scrivere un disco dalla qualità decisamente invernale.
Le canzoni dell’ album, Self-Titled, sono intarsiate nel ghiaccio e nella neve. Sono
state scritte in un casolare nei boschi finlandesi, dove la coppia si è ritirata a vivere
e comporre in solitudine, nutrendosi di frugalità e amore. Gli arrangiamenti rispecchiano a dovere il loro stile di vita e la poetica quasi esistenziale che ne deriva,
congelati, come sono, nei fraseggi in punta di piedi di una chitarra, di alcuni archi, e,
soprattutto, di due voci che intrecciano versi soffici sulle parole degli strumenti eloq u e n t i . N e l l a b a i t a n o r d i c a d i M i a n d L’ A u n o n è c o n c e s s o a l c u n o s p a z i o a l l ’ e c c e s s o ,
alle emozioni forti, ai colpi di testa: la tracklist scorre omogenea, sognante; i brani, tutti bellissimi, non soffrono di frammentarietà né di intensità alterna - piuttosto
compongono insieme, uno dopo l’altro, in parata, un intarsio monocromatico (bianco) ed intenso. Mai come in questa sede è difficile privilegiare alcuni episodi sonori
rispetto ad altri: sicuramente danze sottili come I’ve Been Watching, Nude oppure
Boxer meritano una breve menzione, eppure anch’essi vanno catturati e goduti nella
dimensione totale di un lavoro che, senza esagerare, suona suggestivo, evocativo e
potente come poche altre uscite del 2005.
Mira e Laurence, una di quelle piante che il freddo denuda per rendere quasi più
maestose, hanno conquistato un angolo luminoso nel piccolo impero di Gira. Le etic h e t t e l a s c i a n o i l t e m p o c h e t r o v a n o : c h e s i t r a t t i d i p r e - w a r, d i w e i r d o d i f r e a k - f o l k
non è importante; i giorni e le notti reinventati dal duo, come quelli di diamante della
m u s a Va s h t i B u n y a n , r o m p o n o l e r e g o l e i n c l e m e n t i d e l t e m p o . ( 7 . 7 / 1 0 )
Marina Pierri
sentireascoltare 34
3EEM – Essence of 3EEM
(Smallvoices, 2005)
A due anni dalla loro ufficiale
nascita i torinesi 3EEM si presentano finalmente al pubblico. Un disco non certo di facile
impatto, complesso, dispersivo a volte, ma interessante, non c’è che dire. Il verde
pisello della sobria copertina poco dice sulla ricchezza
di contenuti che la musica di
questo trio dimostra già a un
primo ascolto di possedere.
Le differenti esperienze musicali dei singoli membri sono
testimoni
della
promiscuità
m e s s a i n g i o c o . Va l e r i o Z u c ca (aka Abstract Q) e Fabrizio Buzzoni, rispettivamente
agli electronics e alla chitarra
crescono musicalmente negli
anni ’80 con la band crossover
Nasty Nurses, influenzata da
F a i t h N o M o r e e N a k e d C i t y.
Zucca passerà attraverso le
esperienze più diverse, dalla
psichedelia dei Disoriente, al
duo jungle-ambient Abstract
Quadrant, attivo anche in ambito cinematografico.
Ai due si aggiunge la chitarra elettrica di Danilo Corgnati, passato per varie punk
band cittadine per approdare
al grunge dei Mayflowers and
Mantras, con gruppi di riferimento come Nirvana e Screaming Trees.
Il risultato di questa commistione, Essence Of 3EEM, sta
però al rock come gli Scorn di
Mick Harris stanno ai Napalm
Death (cioè, molto, ma molto
poco). Sonorità elettroniche
molto tendenti all’ambient (a
volte ricordano gli Orbital) si
mescolano alla chitarra e al
sax con un approccio che richiama un modo di produrre e
un sound tipicamente laswelliani (Reverse). Ma in questo
disco non è difficile riconoscere anche echi di cosmiche
musik che aleggiano tra i bran i : n o n s o l o Ta n g e r i n e D r e a m ,
ma anche spunti di kraut rock.
Come nel caso della conclusiva 24 Apes, ventiquattro
minuti di deliri cosmico-elet-
tronici, schizzetti psichedelici e ritmiche cangianti, che
passano dall’ambient-dub al
trip hop. Su questi paesaggi
sonori i fraseggi di sax e gli
arpeggi di chitarra disegnano
figure che si mimetizzano nei
suoni elettronici creando impasti timbrici affascinanti.
Nella grandiosa costruzione
trovano spazio anche sprazzi di pseudo rythm’n’blues (In
The Beginning It Was An Accordion) e di uno strano free
jazz mescolato alla techno
(Kinfu).
Un’altra bella sorpresa nostrana in questo 2005 piacevolmente “italiano”. (7.5/10)
Daniele Follero
65 Daysofstatic - One Time
For All Time (Monotreme/
Ghost, 2005)
Il nuovo album dei
65 Daysofstatic conferma ancora una
volta la bontà di un progetto in
grado di ridisegnare le coordinate della musica moderna.
L’ i n i z i a l e D r o v e T h r o u g h G h o s t s To G e t H e r e è u n m a n i f e sto programmatico d’intenti:
atmosfera in crescendo, tastiere che cantano di dolcezza e malinconia e ritmi che
sembrano sempre sul punto di
esplodere. Ma è solo un antipasto della furia che verrà.
Il pezzo successivo, se possibile, inasprisce ancora di
più tutti gli elementi presenti
nella traccia d’apertura, cercando di segnare una sottile linea di demarcazione che
separa il passato recente dal
qui e ora del nuovo lavoro. La
già vigorosa batteria di Await
Rescue, infatti, viene dopata
ulteriormente dai violentissimi innesti drum’n’bass, potenziando così la riuscita di un
brano che aveva comunque
dalla sua il privilegio delle
note più emotive mai sentite
in queste latitudini sonore.
W e l c o m e To T h e T i m e s è i n vece il prototipo del post-rock
più tradizionale, grazie a un
arrangiamento
maggiormente “suonato” rispetto agli al-
tri episodi, ma non per questo
meno coinvolgente.
I 65daysofstatic agiscono in
un territorio che li vede signori e padroni incontrastati,
come d’altronde aveva notat o p r o p r i o J o h n P e e l . L’ u n i c o
– piccolo – appunto che si può
muovere alla band è di non
aver innovato abbastanza il
proprio suono, limitandosi ad
estremizzare le formule che
hanno caratterizzato il precedente The Fall Of Math. Ma
la materia trattata è comunque ottima e abbondante, e
basterebbero i cinque minuti dell’aggressiva 65 Doesn’t
U n d e r s t a n d Yo u p e r e s a l t a r e
ed esaltarsi con una band incredibile, cui manca solo la
parola per riuscire finalmente
a conquistare il mondo. E non
è detto che un giorno non sarà
così. (7.5/10)
Manfredi Lamartina
AA.VV. - This Bird Has Flown:
A 40th Anniversary Tribute To
The Beatles’ Rubber Soul (Razor & Tie, 25 ottobre 2005)
Il 3 Dicembre 1965 usciva
Rubber Soul, il famoso “album
della svolta” dei Beatles. Nel
quarantesimo
anniversario
la Razor & Tie pubblica uno
speciale tributo in cui protagonisti dell’indie (o quasi)
interpretano ossequiosamente l’intera scaletta del disco.
Viene subito da pensare: l’ennesimo omaggio ai Fab Four
di cui forse si poteva anche
fare a meno? Dubbio più che
legittimo, a cui si somma la
doverosa cautela - da parte
di chi ascolta e talvolta anche
da parte di chi suona - con cui
ci si appresta a questo tipo di
operazioni.
Va
quindi
preventivamente
detto che This Bird Has Flown
nulla
aggiunge
all’originale
né a quanto si sapesse già dei
soggetti implicati, quindi non
va oltre la semplice - e tiepida - idea del tributo; chiarito questo punto, il dischetto è l’occasione per misurare
sia il grado di “beatlesianità”
sentireascoltare 35
delle
personalità
coinvolte
nel progetto, sia le doti mimetiche dei più coraggiosi
del lotto. Alla categoria fan
ossequiosi appartengono The
D o n n a s , R h e t t M i l l e r e Yo n d e r
Mountain String Band, che rileggono i brani assegnati con
un piglio tra il didascalico e
il filologico che tuttavia regge
bene l’ascolto; tra i più spericolati citiamo il buon Sufjan
Stevens, che offre di gran
lunga la prova migliore trasfigurando a modo suo (cioè
tingendola di folk pop psichedelico / garage) l’originariamente innocua What Goes On,
e gli immarcescibili Cowboy
Junkies, che rendono Run For
Yo u r L i f e b l u e s , s p o r c a e c a t tiva come l’avrebbe voluta Lou
Reed. Deludono un po’ i Fiery
Furnaces, dalla cui temeraria Norwegian Wood in salsa
California ‘67 ci si aspettava
qualcosa di più, e ancor di più
i L o w, c o n u n a N o w h e r e M a n
– ahinoi – piuttosto scialba;
palma della discordia alla Mic h e l l e r e g g a e d i B e n H a r p e r,
seguita a ruota dalla If I Needed Someone lounge di Nellie
M c K a y, c h e c i s a r e m m o v o l e n tieri risparmiati. (5.0/10)
tura incisiva e appassionata
che pure ci si aspetterebbe.
Se le influenze più palesi a
monte sono ristrette al circolo Molina-Oldham ed alle
loro innumerevoli trasformazioni
onomastico/sonore,
a
valle vengono in mente nomi
valenti e più “recenti” come
gli Zephyrs, cui si accostano
facilmente per delicatezza e
dolcezza della sezione vocale
e ritmica. Le pretese sono poche e questo va probabilmente
a vantaggio della band, ma la
pena espressa in toni volutamente low-key di pezzi come
Blood And Marrow o Fathers
And Sons non colpisce veramente il segno, scivolando,
piuttosto, lieve e un tantino
annacquata per i canali auditivi. E se in altre zone della
tracklist sicuramente i pianoforti o la voce strascicata di
Olof Gidlof fanno egregiamente la loro parte (molto belle
For All The Marbles, Over The
Trenches o Heart Tremor), è
pur vero che al di là di una
certa, innegabile, qualità di
fondo, le sensazioni suscitate
complessivamente dall’ascolto di This Is Where Our Hearts
Collide sono tiepide. (6.0/10)
Antonio Puglia
Marina Pierri
Amandine - This Is Where
Our Hearts Collide (Fat Cat /
Wide, 19 settembre 2005)
L’ o t t i m a
etichetta
inglese
Fat Cat - la stessa dell’ultim a Va s h t i B u n y a n e d e g l i A n i mal Collective, per intenderci
- propone da diversi anni uno
dei migliori roster tendenzialmente alt.folk in circolazione
e fa per questo da autentico
marchio di garanzia. E’ comprensibile dunque che davanti
alla sua ultima creatura, This
Is Where Our Hearts Collide
degli illustri sconosciuti svedesi Amandine, ci si metta all’ascolto con fiducia e impazienza. Le aspettative però
vengono leggermente deluse.
Il chamber pop/folk del debutto del quartetto, per quanto
piacevole o gradevole, manca
spesso e volentieri della scrit-
36 sentireascoltare
Bachi da Pietra – Tornare
nella terra (Wallace / Audioglobe, 2005)
Musica strana quella dei Bachi da Pietra: parte al rallentatore e ti prende alle spalle senza nemmeno che tu te
ne accorga. Violenta, benché
contenuta nei volumi, capace
di instillare un’inquietudine
sfocata e di imporre all’ascoltatore un viaggio che parte
dalla terra e scava nell’anima,
nel fango dei ricordi, nelle
profondità del cuore. Una musica che sceglie come idioma
ufficiale un blues primordiale
appena elettrificato e che ne
estremizza il fluire rendendolo monocromatico, ossessivo,
lento e inesorabile, simile a
un sussurro sorpreso dal male
di vivere.
Titolari
del
progetto
sono
quel Bruno Dorella di cui ormai a fatica si seguono le
vicissitudini artistiche tanto
sono numerose – ex Wolfango, ora Ronin, Ovo, nonché
primo cittadino dell’etichetta
Bar La Muerte – e Giambeppe
Succi, per dieci anni colonna
portante dei Madrigali Magri.
Una collaborazione che sa di
artigianale e mirato, almeno
nei suoni, dal momento che
il motore del gruppo risiede
esclusivamente nella batteria
del primo e nella chitarra del
secondo.
Del resto non serve altro,
dal momento che l’obiettivo è
quello di veicolare una musica
umorale e diretta, avvolgente
ma minimale, strutturata su
un cantato appena accennato
e una chitarra che dal blues
riprende attitudine più che
grammatica: sei corde che rilasciano sprazzi di inquietudine – Solare – o che magari cedono ad un battere di rullante
anoressico - Aprile D.C. – e
ad atmosfere ipnotiche (Primavera del sangue). Tra riff
quasi improvvisati e a piatti
che vibrano nel vuoto si inerpicano i testi di Succi, poesie
angoscianti e carnali che raccontano di esistenze fallite,
illusioni svanite, vita e morte, spaccati di un’etica della
disperazione figlia di brumosi
scenari autunnali e giornate
senza sole.
Tra i cattivi maestri del gruppo inevitabile citare l’ex Bad
Seeds Hugo Race, profeta tutt’ora insuperato di certo blues
ruvido ed oscuro, anche se
ad alcune derive di impianto
jazzistico dell’australiano, i
Bachi da Pietra preferiscono
secchezze
formali
reiterate
e assenze strumentali. (6.7 /
10)
Fabrizio Zampighi
Blown Paper Bags - Arm Your
Cameras (Suiteside / Goodfellas, 2005)
Sette pezzi per 23 minuti, refrattari alle etichette: fin dal
brano di apertura, Blown Manifesto (titolo programmatico), siamo spinti in un frullatore che miscela riff brevi e
nervosi, sonorità analogiche
(con abbondante uso di Moog
e Korg), cori urlati, groove
veloci, estetica lo-fi (per impacchettare il tutto). Genovesi, formatisi nel 2004, i Blown
Paper Bags hanno alle spalle
variegate esperienze e partecipazioni con gruppi della loro
città; non solo: pur essendo
alla prima pubblicazione - Arm
Yo u r C a m e r a s è i l l o r o e s o r dio per la Suiteside -, vantano
già alcune apparizioni sul palco con gruppi come El Guapo,
Experimental Dental School,
Mae Shi, JohnWayne Shot Me,
Karate, Xiu Xiu.
Political Dance (il brano più
lungo) è caratterizzato da un
suono tipicamente analogico
usato per i riff che sono la
carta d’identità del pezzo. E
se Panda Gang porta in primo
piano un coro ritmato, sostituito nel finale da un secco riff
di chitarra, nel pezzo successivo (Spell Athlete!) siamo di
nuovo all’ascolto di differenti,
brevi spunti ritmici e melodici accostati per dare forma a
una composizione che ipnotizza. European Secret Service
e P a s s M y Ta p e ( t o D F A ) s e guono la linea del brano precedente, mentre una nuova
sorpresa arriva dal pezzo che
chiude il cd (Double Dragon
On The Dancefloor), animato
da uno spirito funky con cui
si scontra una chitarra che fa
rimbalzare poche note psichedeliche.
Si prova una specie di spaesamento di fronte ai continui cambi di direzione e all’assenza
di una struttura riconoscibile
(difficile parlare di canzone),
una sensazione riconducibile all’attitudine punk/hip-hop
che i Blown Paper Bag mettono in campo nell’assemblare il
materiale sonoro. Allo stesso
tempo, la presenza di sonorità e suoni così diversi regala
appigli e punti di riferimento
a ogni possibile diverso fruitore (purché abbia la pazienza
di aspettare che arrivi il suo
turno). Il giudizio è positivo:
sia i pezzi brevi, sia quelli più
lunghi trasmettono le tanto
attese “good vibrations”; sarà
interessante ascoltare i Blown
dal vivo e alla prova del secondo lavoro in studio.
M e r i t a u n c e n n o l a c o v e r, c h e
permette di comprendere a
quali “cameras” faccia riferimento il titolo dell’album: la
figura ritratta è un mix del Balilla che iniziò una rivolta lanciando un sasso contro l’armata austriaca (Genova, 1746) e
del contestatore che scagliò
il cavalletto della macchina
fotografica contro Berlusconi
verso la fine del 2004. Anche
questo è un Blown Manifesto.
(6.7/10)
Andrea Erra
Françoiz Breut - Une Saison
Volée (Bella Union / Tot Ou
Tard, 2005)
U n e S a i s o n Vo l é e , u n a s t a gione rubata o potremmo dire,
per esprimere meglio il senso di questo nuovo album di
Françoiz Breut, una stagione
“presa in prestito”. Certamente il fascino di queste 15 tracce è rappresentato da numerosi rimandi al passato, sia
nelle melodie, sia negli strumenti utilizzati. Quando parlo
di passato alludo soprattutto
ad una sorta di velo creato
dal tempo, una sovrapposizione di texture che dà spessore alle composizioni, rendendole morbide ma compatte, e
ispirando un certo senso di
accoglienza e sicurezza. Le
stagioni da cui si attinge non
sono solo identificabili con
una lontananza temporale, ma
anche territoriale, linguistica
ed infine umorale. I sentimenti
- talvolta melanconici, talvolta energici - percorrono l’album come se si trattasse di un
pezzo di terra segnato da vari
confini e soggetto ai cambiamenti del giorno e della notte, come un microcosmo dove
ogni canzone porta con sé il
senso ambiguo delle frontier e . U n e S a i s o n Vo l é e è i l t e r z o
album della cantante francese, attiva già dalla metà degli
anni Novanta, dopo esperienze professionali e private in
continua evoluzione (l’esordio
con Dominique A., Calexico,
Kat Onoma). Françoiz si affida alla scrittura di molteplici
autori e arrangiatori, che compongono per lei brani originali e rivisitazioni di classici,
come la bellissima interpretazione, trascinata ed ipnotica,
di La Premiere Bonheur Du
Jour , resa all’epoca famosa
d a F r a n ç o i s e H a r d y.
L’ e s t r e m a v a r i e t à d i c o l l a boratori, molti dei quali non
nuovi alla voce di Françoiz,
ha portato ad una analoga diversità di suoni, di scritture e
di lingue utilizzate. Sono infatti presenti nell’album brani
in francese come in inglese,
spagnolo e italiano, tutti accomunati da quel suo modo
particolarissimo di cantare,
che rende irrilevante qualsiasi diversità - per così dire
- spazio temporale. Grazie al
suo utilizzo della voce, quasi fosse uno strumento, anzi
uno “strumento per parlare”, il
senso delle frasi che canta ne
guadagna, rimanendo comunque secondario al loro suono.
Françoiz, oltre che cantante,
è una eccellente disegnatrice
con un taglio quasi infantile;
al disegno si dedica quanto,
se non forse più che alla musica, ed è per questo che le sue
capacità evocative, sviluppate
con l’attività di illustratrice,
sono sempre molto evidenti
nelle sue interpretazioni canore. Infatti, pur non essendo
autrice dei brani che canta,
Françoiz li interpreta proprio
come se fosse farina del suo
sacco, con la disinvoltura ed
il coinvolgimento propri di chi
parla di qualcosa di personale. Sembrerebbe che persino
il tono della sua voce sia mutuato dall’esercizio di raccontare favole (illustrate da lei)
sentireascoltare 37
recensioni
Babyshambles
Down In Albion (Rough Trade / Self, 2005)
Maledetti londinesi! Quelli che se li metti davanti alla
telecamera per la prima volta già ballano e cantano
c o m e c o n s u m a t e s t a r. Q u e l l i c h e f a n n o d i s p e r a r e i p a r rucchieri che è quarant’anni che, come automi, eseguono lo stesso taglio. Quelli che anarchici oggi (e neopsichedelici domani) si vendono al primo discografico
per un tozzo di pane dopodomani. Quelli che chiamano
i sanitari al singolare. Quelli che, in definitiva, working
class e ignoranti come capre, dal campetto dietro casa
te la menano e te la suonano masticando corde e suonando bacon, triturando pelli e percuotendo polli.
C’era un aspetto che rendeva i Libertines accattivanti e odiosi allo stesso tempo: la
capacità di tradurre la lascivia del punk in storie di vita sconclusionate eppur abilmente giocate sul filo di una ubriacante e sonnolenta strada pop. Qualunquismi e ritornelli buttati là nel più ruffiano e trasandato dei modi, che convergevano verso uno
stile che acciuffava per i capelli la sguattera dell’avanspettacolo per farla roteare in
una confusione di sberle e carezze, di rattoppi di spilla e biasciar di caramella.
P e t e D o h e r t y, p o s t - s c a r a m u c c e c o n B a r a t , p o s t - b a c i o g a y c o n E l t o n J o h n , p o s t - s e s s o
e droga con Kate Moss, riparte proprio da queste coordinate tracciando la strada dei
Babyshambles verso il raccordo chiamato Exile On Main Street e incarnando così,
anche musicalmente, il personaggio mediatico che s’è costruito negli ultimi mesi.
Da questi presupposti il menù viene da sé: fatto salvo un manipolo di brani maggiormente convenzionali strofa ritornello (8 Dead Boys su tutti), il resto sono canzoni
abbozzate, bassi profili urbani (Back From The Dead), umori da post-sbronza, anthem senza eiaculazione (Fuck Forever), serenate Mersey Beat (What Katy Did Next),
amati ‘50, fisarmoniche dylaniane (Loyalty Song) e (persino …ma non ci stupiamo per
nulla) reggae chitarra/voce scritti in carcere (Pentonville). Con tutto ciò, tanto punk
infilzato qua e la come un porcello allo spiedo e un inseguir canovacci mai scritti per
chitarre, bassi e batterie.
In cabina di regia Mick Jones lavora in background e miracoleggia in superficie, lasciando che il ragazzone incarni il legno betulla della marionetta, scambiando sorrisi
con l’ottimo chitarrista Patrick Walden e tendendo sempre i brandelli del giornale ben
appiccicati. Il risultato? È elementare …piacevolmente qui e ora punk. (6.8/10)
Edoardo Bridda
sentireascoltare 38
al suo unico
rende le sue
figlio. Questo
interpretazioni
intime e suadenti. Une Saison
Vo l é e è u n a l b u m c h e , p u r f a cendo affidamento a strategie
largamente collaudate nella
musica che va dagli anni ’50
agli anni ’70, si mette in gioco
nel tentativo di trascinare nel
presente uno spirito assopito,
nel rischio di mettere faccia a
faccia diversi modi di pensare
la musica e, infine, nell’osare l’azzeramento di quel tabù
territoriale che sono i confini
geografici.
Françoiz Breut è aldilà di tutto questo, e ad indicarlo è
proprio il trasporto della sua
interpretazione (vedi le bellissime La Certitude e Km 83),
che trascina in un lunghissimo
viaggio a mezz’aria senza trovare ostacoli. Non è casuale
che il suo talento - e quello
delle persone di cui si circonda - abbia ormai abbattuto il limite della Francia, per
andare ad incantare un altro
continente grazie alla recente
tournèe in Arizona, America,
Te r r a . ( 7 . 0 / 1 0 )
Andreas Flevin
Thomas Brinkmann - Lucky
Hands (Max Ernst / Audioglobe, novembre 2005)
Il nome di Brinkmann è di
quelli che m’intrigano. Ok,
non sono un fan né del genere né della persona. E, a dirla
tutta, gli entusiasmi suscitati qualche anno fa (1999) da
Klick - con le sue “variations”
su “locked grooves” e scratch di saporiti vinili seventies
da consumarsi caldi e tirati
sul dancefloor - non è che li
abbia proprio condivisi. Tuttavia, quell’attitudine alla ricerca, alla sperimentazione
sul materiale tecnico e sonoro
(ad esempio escogitando un
turntable con un pick-up per
canale), mi sembra come minimo meritevole di curiosità e
rispetto. Si aggiunga poi che
questo Lucky Hands è preceduto dalla fama di lavoro più
accomodante e meno dance-
oriented, ed ecco perché non
ho potuto fare a meno di metterci il naso. Riscoprendo innanzitutto il gusto di: alzare il
volume. Sì, perché il suono si
definisce chiaro, essenziale,
nel segno di pulsazioni ritmiche asciutte e una parsimoniosa successione di espedienti,
riuscendo ipnotico e scoppiettante, algebrico ma organico,
con quell’aria da imitazione
robotica in differita dalla cuspide settanta/ottanta.
Prima che possiate pensare a
Rockets e David Zed(mea culpa), sintonizzatevi senz’altro
sulla pulsazione dritta infestata di droni birboni e clash
ferrosi di Jacknot, oppure sui
l i q u o r i s p a c e y d i T h i r t y, o m e glio ancora sui Kraftwerk versione popcorn e virus funk
dell’iniziale Drops. E’ un fare
sul serio giocando, o viceversa. É una danza intelligente,
una strategia di scherzi molto
competenti, marchiati di sorprendente
autoironia
(come
q u a n d o c i t a S u n s h i n e O f Yo u r
Love nella stolida Work) e intuizioni genialoidi (come gli
Smiths immersi in brume Dep e c h e M o d e d i T h e M o r e Yo u
Ignore Me, The Closer I Get).
Il buon Thomas si cimenta anche in un reading flemmatico,
molto tedesco, nel funk industrial-minimale di Maschine,
ma se c’è da cantare è meglio
affidarsi a TBA (al secolo Tusia Beridze), brava a gestire
ad esempio il languore alieno in quella specie di narcosi
reggae che risponde al nome
di Margins. Ci sono anche dei
riempitivi, certo, specie nella
seconda metà del programma
(il giochicchiare ozioso di Bd a y, l e s c o n t a t e z z e d a n c e d i
C Black R – che pure parte
in sella ad un bel funk colloso), e non sembra poi quella
gran cosa il sample di Django Reinhard avvolto da sottili
ma impellenti percussioni nella conclusiva Charleston (da
un’idea di Marco “Tuscania”
Palmieri). Però, tirate le somme, è un disco autorevole e di-
vertente, senza che un aspetto soverchi mai l’altro, anzi
stemperandosi in un equilibrio
affascinante. (6.7/10)
Stefano Solventi
Daniele Brusaschetto – Mezza Luna Piena (Bar La Muerte
/ Bosco Rec. / Audioglobe,
2005)
Qualcuno lo definisce il Battiato del 2000, qualche altro
lo riconduce direttamente a
certa scena post-industrial.
Paragoni scomodi, non c’è che
dire. Ma Daniele Brusaschetto
non è uno sprovveduto, assolutamente.
Dieci anni sulle scene, una
carriera discografica cominciata nel 1997 con Bellies/
Pance (che si avvale dell’aiuto di etichette come Snowdonia ed RRR Records) e proseguita sotto il segno delle
collaborazioni.
Nel 2001 si siede alla batteria Bruno Dorella (Ovo, Ronin
e Bachi da Pietra) e di lì a
poco seguiranno tour in Europa e Stati Uniti. Si spiega
così l’interesse di un’etichetta come Bar La Muerte, poco
avvezza ad arruolare cantautori. Ma forse è proprio l’etichetta “cantautore”, e quello
che essa comporta a livello musicale, che sta stretta
a B r u s a s c h e t t o . L’ a t t e n z i o n e
per il sound va di pari passo con l’interesse per i testi,
pungenti, complessi e quasi
mai banali.
Se
qualche
confronto
può
essere fatto con il cantante
catanese è proprio nella costruzione delle liriche e delle
melodie vocali: uso di vocaboli in apparenza poco “musicali” e parti cantate che si
trascinano al limite della declamazione e che, però, nel
risultato finale si avvicinano
più allo stile di Cristiano Godano dei Marlene Kuntz che
a quello dell’autore di Fetus
e L’ E r a D e l C i n g h i a l e B i a n co. Daniele non è il classico
cantautore
pseudo-romantico-sentimental-esistenzialista
s e n t i r e a s c o l t a r e 39
che imbraccia dylanianamente la chitarra e canta, magari
arricchendo il tutto con qualche arrangiamento di contorno. La musica rappresenta un
lavoro fondamentale nelle sue
canzoni e si sente: grande attenzione ai suoni elettronici
e alle atmosfere ambient (la
strumentale conclusiva Stella
stellina); tentativi riusciti di
immersione nell’electro (Ciao
bellissima, In limitato contorno, strani incroci tra Subsonica e Kraftwerk); momenti più
pop (Vita sulla terra) ed echi
di Nine Inch Nails (Stupido ma
sincero, Criptico) si alternano
all’intimismo di Bandieralvento.
Mezza Luna Piena, quinto album della sua carriera da solista, si gioca un bel po’ di
j o l l y, a v v i a n d o u n p e r c o r s o
verso un moderato sperimentalismo che potrebbe ancora
dare buoni frutti e che, se non
altro, lo accosta a quell’alveo
di musicisti e label nostrane
(l’elenco sarebbe lunghissimo) che sta reinventando la
musica italiana. (7.5/10)
Daniele Follero
The Chap – Ham (Lo Recordings , 20 giugno 2005 )
Te n e n d o p r e s e n t e l ’ a l l u v i o n e
continua e incessante di nuove uscite discografiche, sarebbe un vero peccato lasciarsi sfuggire questo secondo
disco dei Chap, soprattutto in
virtù del fatto che Ham ha tutte le sue cose al posto giusto:
arrangiamenti variegati, melodie frizzanti, umore divertito,
citazionismo post moderno e
una sciccosa supponenza che
si manifesta in tutta la sua
coolness già dalla tigre mascherata in copertina.
I
quattro
londinesi
(Claire
Hope, Johannes von Weizsäck e r, P a n o s G h i k a s a n d K e i t h
Duncan) sono gli evidenti continuatori di una corposa tradizione, che partendo dai Beach Boys, e continuando con
g r u p p i c o m e B l u r, B e t a B a n d ,
Supergrass, ecc. ha lavorato
40 sentireascoltare
sulle “good vibrations” della
pop rock music, senza dimenticare il lato più riflessivo e
melanconico, quindi senza diventare goliardici ed effimeri.
Da parte loro, i quattro ci mettono gli ormai inevitabili ed
enciclopedici riferimenti musicali. Uno stile che è un raffinato amalgama di tanti elementi passati, e che sballotta
il disco da un estremo all’altro, sempre operando però su
una base che è essenzialmente elettro rock.
Il tessuto elettronico non è
mai invadente, le trame glitch
mai fini a se stesse e sempre
alla ricerca di un dialogo con
l e c h i t a r r e ( A u t o W h e r e To ,
I Am Oozing Emotion), altre
volte la ritmica è ironicamente dance (Woop Woop e Long
Distance Loving) mentre non
mancano i momenti più rock,
dove pulsazioni elettro e chitarra distorta trasportano i
Chap dalle parti degli El Guapo (Now Woel, Arts Centre).
Il pregio maggiore del disco è
proprio quello della varietà, il
suo alternare momenti frenetic i a l l a Ta l k i n g H e a d s ( B a b y I ’ m
Hurt’n) ad altri di languida ed
accorata introspezione (Woop,
The Premier At Last, Clissold
Park). Il sipario si chiude con
una presa in giro di Emerson
L a k e A n d P a l m e r, c h e è a n c h e
una manifestazione di intenti:
“Modernisation is what we’re
about / Without warning you’ll
suddenly run out and cry /
Goodbye” (7.0/10)
Antonello Comunale
Dirty Three - Cinder (Touch &
Go / Wide, novembre 2005)
I soliti Dirty Three, quel loro
manifestarsi come una catastrofe in corso, densi e volatili, impalpabili e immanenti. In
Cinder – il loro settimo album
lungo - si avverte però l’intenzione di mettere a punto il
meccanismo, di fare un passo
significativo verso una specie di “pienezza essenziale”:
sembra in effetti il disco di
una band che sfoglia il proprio
ventaglio espressivo sapendo
di non poter aggiungervi altro,
quindi ci medita sopra, mette
il freno agli eccessi, spoglia
il suono, lo riempie di tremori e memorie, allestendo un
programma (fin troppo) lungo,
ipnotico e narcotico, quasi ti
volesse accompagnare in un
sonno che sogna la feroce insensatezza del quotidiano. Le
canzoni sono quasi sempre naturalmente - mute, frames
più o meno brevi pasturati a
folk
crudo,
dall’asciuttezza
affilata. Canzoni in cui può
capitare che barbagli melodici (la mesta Michele, la soffice Dream evie) gravitino tra
dolcezza e malanimo, tra calore e sgomento, nell’agile e
austero svolgersi di timbri e
dinamiche. Ma ogni indizio di
calore e/o conforto è destinato ad infrangersi in un vasto disegno di desolazione: le
chitarre covano minacce postfolk, il drumming possiede una
calligrafia secca e vibrante, il
piano palpita in territori perlopiù dimessi ( la toccante Last
dance), il violino o la viola
si aggirano con misurata ma
sempre accesa apprensione.
Spuntano a tratti mandolini,
chitarre
Calexico
(nel
wes t e r n m a l f e r m o d i To o s o o n ,
too late), chitarre “sitareggianti” e cornamuse (gli strani
incroci arabo/irlandesi di Doris), c’è anche gradita ospite
la voce inconfondibile di Chan
“Cat Power” Marshall (quella
setosa dissolutezza) nella laconica Great waves: ma sono
scosse che servono vieppiù
a sottolineare il senso di irreversibile afflizione, perché
poi torni a confrontarti con
quelle ballad amarognole ( la
dimessa It happened, la strugg e n t e E m b e r, l a s b i g o t t i t a I n
fall), tra le tensioni oblique e
le rumbe diafane (Ever since),
tra blues radenti e ombrosi (i
rigurgiti On the beach di Sad
Jexy), in un buio attonito e
spettrale (quella Rain on che
rimanda al Jason Molina più
desolato).
Più
interessante
sembrano le ibridazioni stilistico/atmosferiche
tentate
nella già citata Doris e nella title track (giapponeseria
western tra sbuffi di violino
e frinire di chitarre), o la disarticolazione ritmica che fa
somigliare She passed trough
ad una marionetta The Books.
Soprattutto per questi ultimi
episodi il disco è meritevole
di attenzione, ma nel complesso mi sento di definirlo un
lavoro di transizione, prima di
ogni altra cosa utile ad Ellis
e compagni per mappare intenzioni, sviluppi, possibilità.
Pure se, ne sono certo, farà la
gioia dei non pochi fans dello
sporco trio. (6.4/10)
Stefano Solventi
Dungen - Ta Det Lugnt (Memphis Industries-Cooperative
Music / V2)
Gustav Ejstes, polistrumentista e figlio ribelle di una famiglia di musicisti classici, è attivo da ormai quattro anni . Nel
2001 esordiva con un album
omonimo al quale ha fatto seguito Stadsvandringar (2002),
prodotto da un’etichetta personale, la Subliminal Sounds,
sotto l’egida dell’amico Stef a n K é r y . C o n Ta D e t L u g n t , l a
one man band dello svedese
- che canta il linguaggio del
rock nella lingua madre - è finalmente in grado di segnare
il colpaccio.
Un album folgorante fin dall’iniziale e garagista Panda
(lungo chorus spaccacuore,
batteria rimbombante, organetti crepitanti, chitarre cosmiche
in
jamming
acido),
dove non mancano il power
folk (Festival) e il jazz (quello spacey di Lejonet & Kulan
e quello un po’ Canterbury di
Ta D e t L u g n t ) , l ’ a c i d r o c k d a l le volute vertiginose à la Can
( O m D u Vo r e E n Va k t h u n d ,
Bortglömd) e quello più caciarone che vuol anche dire hard
r o c k ( Ta D e t L u g n t ) . I n f i n e , i n
tanta prog attitude c’è, e non
poteva non esserci, un tour de
force a base di barocchismi e
agganci alla tradizione svedese chiamato Du E För Fin
För Mig un pentolone per spezie Lennon “I Am the Walrus”,
melodie per saghe nordiche e
bolge chitarristiche rockadeliche anni ’70.
Di Dungen colpisce soprattutto l’alchimia tra scrittura
sciolta (al limite dell’ingenuità) e surreali aperture folk
come acid-rock, un linguaggio
che si avvale di una stratosferica produzione, dinamica
e magmatica …proprio come
se i settanta tutti pelle e parrucconi si riavvolgessero nei
sessanta dei cugini hippie
illuminati, con gli Hell’s Angels ancora fuori dalla porta.
(6.9/10)
Michele Saran
Earth - Hex: Or Printing in
the Infernal Method (Southern
Lord / Wide, 20 settembre
2005)
Anno dei ritorni, grandi e piccoli, questo 2005. Alla fine
è tornato pure lui, ‘Sua Drone-ità’ Dylan Carlson, dopo
le varie avvisaglie in forma
di (scarsissime) registrazioni
live. Si cianciava piuttosto del
penultimo Pentastar (SubPop,
1996), quel suo istillare dubbi circa il possibile proseguo
creativo degli Earth, ma pure
caparbio nello spostare i registri - tramite ponti mobili
verso generi collegati - nella
direzione del fascino atmosferico, più che nei magmi monolitici di suoni scavanti.
La smentita/conferma di tali
dubbi è dunque arrivata con il
suo ultimo parto, Hex e relativo sottotitolo (già da qui qualche affinità col predecessore),
secondo tributo sui generis da
parte del chitarrista-compositore. Diciamolo subito, perché
la storia è palese: se Pentastar era un permeato dal pensiero della psichedelia acid/
stoner-derivata, Hex si rifugia
in
atmosfere
desertico-sergioleonesche, texarcane, vagamente hard-southern. Accanto al duo portante chitarra
(ovviamente Carlson, anche
al
banjo)-batteria
(di
nuovo Adrienne Davies), anche
basso (John Schuller), pedal
steel, trombone e campane tubolari (Steve Moore) fanno la
loro parte.
Questa filologia roots sfoggia
tutta la sua solennità all’ascolto delle quattro dilatazioni
strumentali di media durata (7
minuti e rotti a testa), in cui
fraseggi melodici di chitarra scurissima sono plasmati
come dal vento che soffia in
lande desolate (The Dire and
Ever Circling Wolves), suddivisi in sorta di strofa e chorus (Lens of Unrectified Night,
Land of Other Order), o parti d’inizio-chiusa e variazione centrale, insieme a visioni
Gelb-iane spartite con buon
equilibrio tra gli strumenti di
corredo (An Inquest Concern i n g Te e t h ) .
E poi i quadri di breve durata. Mirage, l’incipit, attacca
ampio tra colpi solenni di chitarra e vento tutt’intorno, The
Dry Lake, il più ambizioso, è
un’oasi color pece di musique
concrete ambientale, in cui
sembrano far comparsa indefinita fantasmi antichi (invocazioni acute, note sparse,
nitriti in lontananza). In Left
in the Desert, altro intermezzo ventoso, fa apparire il miraggio dello stesso Carlson
- quello del tempo che fu -,
attraverso un esile feedback
e sbatacchiamenti di campanacci.
Come dei Bardo Pond a imitare i Calexico, passando per il
vaglio Sabbath-iano, e con la
direzione artistica dei Codeine. E’ il disco (il quinto) più
esplicito di Carlson, e non il
più diretto: forme ben salde,
un po’ telefonate, crosta melodica (arida nel migliore dei
casi) insistita fino ai fasti della pura scenografia, anche se
d’innegabile buon gusto, e con
un tatto western drammatizzato che evita qualche luogo
c o m u n e d i t r o p p o . L’ a r t w o r k centrato - è a cura di Stephen
sentireascoltare 41
recensioni
Kate Bush
Aerial (Emi, 2005)
Altopiano di Ukok, regione degli Altai, tra la Mongolia e
la Cina. Tremila metri di altitudine, l’aria è sottile. Nel
sarcofago di epoca scizia, perfettamente conservato in
una bolla di ghiaccio, riposa il corpo di una donna giovane e bella, vissuta duemila e cinquecento anni fa. La
Principessa dei Ghiacci. Ma la vera scoperta è un’altra:
le mani bianche e affusolate stringono un pacchettino
quadrato. (…)
L’ a r c h e o l o g o s i e d e i n p o l t r o n a d a v a n t i a l c a m i n o a c c e so, nel ballon c’è un dito di Armagnac. Non ha detto a
nessuno di quel pacchettino. Ascolta. Il fuoco scalda,
scalda l’Armagnac, ma l’aria comincia a farsi sottile, come sull’altopiano di Ukok,
regione degli Altai, tra la Mongolia e la Cina, tremila metri di altitudine.
Tutto è perfetto. Troppo. La voce algida. Il pianoforte essenziale. La batteria (quanto
l’avranno studiato, quel primo colpo?). Le raffinate orchestrazioni. Anche gli uccellini
sono comandati a bacchetta: l’archeologo, che si è versato un altro dito di Armagnac
e ha cominciato a ridere da solo, pensa, o forse lo sta dicendo ad alta voce, che di
solito un animal collective non è così disciplinato. Adesso anche la principessa sta
ridacchiando, ma forse è colpa o merito dell’Armagnac, e se non è così, poteva decidersi prima, non aspettare la fine del secondo cd. (…)
L’ a r c h e o l o g o s i s v e g l i a d a v a n t i a l c a m i n o . S p e n t o . A l l a b o t t i g l i a d i A r m a g n a c . Vu o ta. La funzione “repeat” lo riporta alla realtà. Legge gli appunti presi la sera prima:
“Dovevo essere ubriaco”. Ascolta. King Of The Mountain (chi sarà mai? il padre della
Principessa? suo marito?) alla fine è una palla. Bertie (sembra che il principino si
chiamasse così) è folk e Rinascimento, cerchio e botte, ma almeno l’amor di madre
scioglie il ghiaccio. E rotto il ghiaccio, come suol dirsi, le cose migliorano, grazie
anche alla cenerentola Mrs. Bartolozzi, incantata dalla lavatrice (l’archeologo è a
sua volta incantato dalla voce e dal pianoforte, un incanto che si ripresenterà, ridestandolo da un breve pisolino, nella Coral Room).
In casi come questi il vecchio Pioneer a doppio caricamento (pure lui un pezzo di
archeologia) è l’ideale, e senza soluzione di continuità si scivola dal pianoforte agli
uccellini in fila per sei col resto di due del Prelude: “Che disciplina, cazzo!”, si ripete
l’archeologo prima di riaddormentarsi. Lo ridesta un ritmo sostenuto (finalmente) e
latineggiante, la voce della Principessa è appoggiata da quella pure principesca di
u n u o m o ( g l i s e m b r a d i r i c o n o s c e r e M r. G a r y B r o o k e r, i l l e a d e r d e i P r o c o l H a r u m , g i à
dispensatore qui e là di piccole magie d’Hammond): al ritmo sostenuto e latineggiante di Sunset, l’archeologo balla come un orso con le dita nel miele, si ricorda una
certa Babooshka e sorride.
Non riderà più verso la fine, quando la noia l’assale e la nostalgia gli fa desiderare
Wuthering Heights. Ma qui le cime non sono tempestose, solo freddo e ghiaccio: la
Principessa gli ha giocato un brutto scherzo. (6.5/10)
Ivano Rebustini
sentireascoltare 42
O ’ M a l l e y. ( 6 . 2 / 1 0 )
Michele Saran
Field Music - Self Titled
(Memphis Industries /Cooperative, agosto 2005)
Cosa combinano assieme i new
wavers Peter Brewis e Barry
H y d e d e i F u t u r e h e a d s , To m
English dei Maximo Park assieme a alcuni amici del nord
est nel covo della Memphis Industries (quella che ha recent e m e n t e p r o d o t t o G o ! Te a m e
Dungen)?
Quanti pensano a un gruppo
post-emul o neo-neo-neo-psichedelico, saranno probabilmente delusi poiché i ragazzi,
appendendo giacche e cravatte al muro, hanno deciso di
trarre ispirazione proprio da
quel che i punk e i wavers originari avevano odiato di più:
la terra di mezzo del prog con
il vezzo della melodia perfetta.
Per la serie niente sesso siamo inglesi, via trascuratezza
e pressappochismo, e dentro
la Great English Tradition pescando trote Genesis e merluzzi Caravan, riavvolgendo il
mulinello fino ai salmoni Beatles con la zampa. Un biglietto
da visita che lo scorso giugno
prendeva il nome di Shorter
S h o r t e r, t i p i c a m a r c e t t a a l l ’ i n glese, e assieme, il classico
espediente per farcire strofe
e ritornelli con gli arrangiamenti più disparati tra i quali,
tra archi e citazioni multiple,
quelli di Abbey Road e del
buon Peter Gabriel dei vecchi
tempi della genesi.
Ma se in brani come If Only
The Moon Were Up (cambi funabolici di tempo, chitarrine
country swing, pianoforte da
English Garden), Pieces (ancor più matematico rincorrere
scampoli di stili e accordature
vocali) e soprattutto in Luck
Is A Fine Thing e 17, l’omaggio Foxtrot si fa sperticato, i
falsetti del cantante già amato dai Tv On The Radio, non
sono i soli a dominare il platt e r. C u r i o s o e f r e s c o i l r i c h i a -
mo alle influenze sopraccitate
alla luce della consueta tradizione wave, noto punto di partenza anche per i Field Music
c h e , a l l a n e v r a s t e n i a Ta l k i n g
Heads (giusto per citare un
gruppo a caso), preferiscono
intelligentemente (come direbbe Gordon Sumner) il melody
making dei cristallini XTC.
E tutto ciò si traduce in acidi lattiginosi, anfetamine di
Drums And Wires, chitarrine
tirate eppure tutt’altro che
ringhiose, riff di piano come
p i a c e r e b b e r o a To n y B a n k s ,
sofisticazioni leziose che tentano di sublimare le carte del
prog e del pop inglesi, manna che quasi giunge con Like
W h e n Yo u M e e t S o m e o n e E l s e
dove il bilanciamento tra melodia e arrangiamento manca
di un soffio il miracolo.
L’ a l b u m s t u p i s c e s o p r a t t u t t o
nella prima tornata di brani
dove i fasti, anche tra vaudeville The Kinks, paiono quelli
delle migliori annate; eppure la mandibola si ricompone quando tanta perfezione
formale va a collimare con la
stucchevolezza, come accade con le pallottole a salve di
Y o u ’ r e S o P r e t t y e G o t To G e t
The Nerve (con ritornelli ripetuti all’infinito), che frenano
gli entusiasmi e rendono al
contempo più agile l’inquadramento generale del lavoro.
È un discreto esercizio di stile
il lavoro dei Field Music… cert o c h e a l m e n o u n a T i m e Ta b l e
ce la potevano regalare. Per
le canzoni è ancora presto.
(6.5/10)
Edoardo Bridda
Gaudi & Antonio Testa - Continuum (em:t records, 2005)
Paesaggi sonori in continuo
divenire, sonorità elettroniche
(analogiche e digitali) che incontrano strumenti tradizionali, ritmi ipnotici e trascinanti.
Continuum è questo e molto
di più: è uno sguardo intelligente (ma che non si compiace di sé) e a 360 gradi sulle
possibilità che offre la musica
“globalizzata”. In linea con la
produzione ambient-elettronica della em:t records, Continuum ci offre tutto il bagaglio
dei suoi autori: il dub (chi ricorda gli esordi ragamuffin di
Gaudì?) e la sapienza combinatoria del Dj-remixer (Gaudì
ha lavorato per artisti come
Lamd, 1 Giant Leap, Simple
Minds e Ojos De Bruio), tessiture ambient (caratteristiche
della produzione musicale di
A n t o n i o Te s t a ) .
Va l o r e a g g i u n t o è l a r i c e r c a d i
suoni etnici, con l’utilizzo di
strumenti tipici di tradizioni
musicali lontane da quella occidentale (dove si incontrano
il percorso già evidente nelle
precedenti produzioni di Gaudì e quello di etnomusicologo
d i Te s t a ) . F o n d a m e n t a l e p e r l a
buona riuscita del disco è poi
la riconoscibilità dell’apporto
dei due compositori, dei loro
gusti e delle loro competenze
all’interno di tutti i pezzi che
compongono il cd: ogni traccia ha così una sua fisionomia
ben riconoscibile e ci propone
nuovi spunti e nuovi orizzonti.
I brani sono in realtà due sequenze (la prima composta
dalle tracce da 1 a 5, la sec o n d a d a 7 a 11 ) d i v i s e d a l l a
traccia 6 (non a caso intitolata Interlude). Prologue - Helictite Labyrinth presenta subito il mondo che stiamo per
esplorare: un suono lontano appena percebile - in loop (il
Labyrinth del titolo) è la base
(anche ritmica) su cui si innestano rumori e suoni evocativi di paesaggi lontani e sconosciuti, preludio a Deimos’
Prophecy che ci offre i primi
spunti dub. Con Night Watch
le cadenze reggae prendono
il sopravvento insieme a una
colorazione rumoristica, ma
Dawn Cliffs II Risveglio delle pietre ci riporta di colpo
a un’atmosfera sognante di
echi, in cui si ritagliano un
posto brevi spunti martellanti, che nella seconda parte del
pezzo lasciano il campo a un
sentireascoltare 43
recensioni
Fursaxa
Lepidoptera (ATP Recordings/Goodfellas, 26 luglio 2005)
Prima o poi si dovrà dare ai Bardo Pond il credito che
gli spetta, se non altro perché hanno fatto da ponte tra
le diverse istanze psichedeliche dei primi anni ‘90 e la
contemporanea ondata wild-folk. A questo giro, i fratelli Gibbons prendono sotto la propria ala protettiva
u n a c o n c i t t a d i n a d i P h i l a d e l p h i a , Ta r a B u r k e , i n a r t e
Fursaxa, già sponsorizzata da Kawabata Makoto (Acid
M o t h e r s Te m p l e ) e T h u r s t o n M o o r e ( c h e h a d i s t r i b u i t o
uno dei suoi dischi con la Ecstatic Peace).
Lepidoptera non si allontana dai lavori precedenti, ma si
muove con più agilità tra le fitte trame di una folk music
alterata, disturbata, costantemente erosa da elementi lisergici. Quella di Fursaxa è
una musica che può attrarre e respingere in egual misura e che, se da un lato poggia
le sue fondamenta nella tradizione folk, mira continuamente ad affrancarsene. Una
Va s h t i B u n y a n c h e r a g g i u n t a S k y e p r o s e g u e e n o n t o r n a p i ù i n d i e t r o , f i n o a d a r r i v a r e
in estasi ai deserti dell’anima e alle cicatrici interiori di Nico.
Questa è un po’ la sua condanna artistica, quella di non poter andare oltre Marble
Index, ma stiamo parlando, comunque, di traguardi notevoli. In sede produttiva, lei e
i fratelli Gibbons non hanno la creatività di John Cale, ma usano bene le loro carte.
L’ o r g a n o d e l l ’ i n i z i a l e F r e e d o m e i l f l a u t o a l l a H a n g i n g R o c k d i P u r p l e F a n t a s y a l l e s t i s c o n o s u b i t o u n a s c e n o g r a f i a s u g g e s t i v a , s o l e n n e e d i l a t a t a . L e s u c c e s s i v e Ve l a d a ,
Karma e Pyrachanta sono i tipici madrigali in cui si è specializzata la Burke, a metà
tra il panteismo religioso della Kendra Smith post Opal e l’umore decadente e ieratico dei canti di Hildegard von Bingen (una delle influenze maggiori per sua stessa
ammissione). Neon Lights espande ulteriormente questa prassi e riverbera ipnoticamente le parti vocali, mentre in Poppy Opera sono le chitarre ad essere trattate come
materiale da modulare progressivamente, fino a quando non rimane che un ronzio ad
accompagnare il canto solitario.
Tutto il disco ha l’umore solenne dei canti medievali ed è costruito con pochi tocchi
strumentali: Russian Snow Queen fa fede solo ad un tappeto di farfisa, mentre gli
o t t o m i n u t i d i Ty r a n n y s o n o s c a n d i t i p r i n c i p a l m e n t e d a l l e n o t e r e i t e r a t e d e l l ’ o r g a n o , a
cui si aggiungono flauto e ovattate percussioni tribali nel crescendo finale. Si chiude
il sipario nella conclusiva Una De Gato, che affoga tutto nel chitarrismo noise dei
Gibbons.
In sintesi, un disco solenne e ammaliante al tempo stesso, che migliora ulteriormente
lo standard della ballata psichedelica, vero trademark di Fursaxa. Un’opera notevole,
soprattutto per gli amanti del genere. (7.3/10)
Antonello Comunale
sentireascoltare 44
unico riff. Micro-Evolution è il
continuo mutare timbrico di un
riff e dell’accompagnamento
di batteria (quasi un gioco in
stile minimalista).
Interlude chiude la prima parte
di questa sequenza/suite con
un tappeto sonoro sospeso, a
cui si contrappone la precisione ritmica di Dub Hypnosis, con cui si apre la seconda
sequenza. Bass Instinct tiene
fede al suo nome grazie al riff
di basso che sostiene tutta
la traccia e porta all’ascolto
di Space-Mind Continuum; No
Escape ripropone la cifra stilistica di Micro-Evolution.
Epilogue - After The Plunge
chiude la seconda sequenza:
come nel brano di apertura, un
suono e una voce evocativi di
mondi lontani fanno da base
a una variegata tavolozza di
suoni/rumori, che conducono
alla fine di questo viaggio musicale.
Un cd da ascoltare comodamente seduti in poltrona, a
occhi chiusi, ma con l’immaginazione pronta a offrirci paesaggi magici, oppure da vivere lasciando vibrare il corpo
al ritmo pulsante del dub, o
ancora ad alto volume fino a
saturare l’ambiente con la ricchezza dei suoni. (7.5/10)
Andrea Erra
Gravenhurst - Fires In Distant Buildings (Warp / Self,
28 ottobre 2005)
N i c k Ta l b o t , l e a d e r d e l t r i o
Gravenhurst, sarebbe un ragazzo qualunque se non fosse
per un certo indiscutibile talento di alt-folker e per un’insana attrazione verso il lato
oscuro dei sentimenti umani.
Non gli si può negare di avere una poetica molto precisa,
un insieme di temi privilegiati
e sviluppati sul filo del rasoio
di una affettività/sensibilità
morbosa e irrisolta.
La sua discografia è minuta,
ma di valore: dapprima, meno
c h e v e n t e n n e , Ta l b o t f o n d a
una piccola casa discografica
(la Silent Age Records) a Bri-
stol, città da cui proviene. Nel
2003 fa uscire il suo primo lavoro, Flashlight Seasons. Un
anno dopo, ingaggiato dalla
illustre Warp Records nonostante una sostanziale divergenza di genere rispetto al
roster dell’etichetta, pubblica
uno stupendo Ep noir-folk, che
va sotto il nome di Blackholes
In The Sand e che gli vale una
certa attenzione.
All’alba della terza ed ultima
uscita dei Gravehurst, Fires In
Distant Buildings, la scrittura
di Nick non appare sostanzialmente modificata rispetto
agli album precedenti. È solida, intensa, grandguignolesca
e dolente come e più di sempre. Al centro del mondo della
band e del suo giovane leader ci sono ancora una volta
le circostanze scomode dello
stupro,
dell’assassinio,
del
suicidio: argomenti tabù che
avvolgono nel buio tutti e tre
i dischi, facendo di canzoni
d’eccezione come la cover di
Diane degli Hüsker Dü oppure
le autografe Emily o Blackholes In The Sand (tutte presenti
nell’omonimo eppì) delle autentiche “murder ballads” tra
Nick Cave e Nick Drake, art i s t i c o n c u i Ta l b o t c o n d i v i d e ,
evidentemente, più del nome
di battesimo. Le nuove Nicole e Cities Beneath The Sea,
l’autolesionista Animals o la
e c c e l l e n t e T h e Ve l v e t C e l l quest’ultima appena meno folk
del solito - non suonano meno
minacciose.
N i c k Ta l b o t è u n ’ a r t i s t a e c l e t tico del calibro di Arrington de
Dionyso, che pure per molti
versi ricorda, e dando tempo
al tempo si farà certamente
notare per personalità e doti
compositive. Per il momento, contratto per Warp nonostante, l’occhialuto fondatore
dei Gravenhurst rimanda allo
stereotipo del ragazzo seduto nella propria classe, dietro
il proprio banco; quell’adolescente cupo che disegna teste
mozzate mentre l’insegnante
è voltata verso la lavagna,
quello ingaggiato senza esitazioni nella triplice lotta contro
i suoi ormoni, i suoi fantasmi
ed il mondo torbido e sbagliato. Non è sicuro che ci piacerà vederlo risolversi, venire a
patti con la sua paura, diventare adulto. Perciò, per ora,
non resta che godere delle sue
prolifiche storture. (7.2/10)
Marina Pierri
Hello Daylight – Gemma (Acid
Soxx, 2006)
Bella scoperta gli Hello Daylight, non solo per i sostenitori accaniti delle mescolanze stilistiche, gli amanti del
non-genere o i figli legittimi
del meltin’ pot, ma soprattutto
per chi, della cosiddetta musica “alternativa”, apprezza la
creatività, il coraggio e la voglia di spingersi oltre i facili
confini espressivi della moda
stagionale. Che ci crediate e
meno, pur frutto – e sembra
quasi un paradosso dirlo – di
continui rifacimenti, Gemma
racchiude in sé quello che un
album indie dovrebbe sempre
possedere: personalità, identità e autenticità.
È così allora che linee melodiche sottratte all’universo
effimero dei New Romantic si
fondono all’elettronica nordica e al crooning (April Come),
psichedelia morbida e chitarre acustiche costituiscono
il giusto background sonoro
agli echi Spiritualized (Soft
Medea), e un ribollire ritmico inarrestabile e un ripetersi tematico al sintetizzatore
rendono Big Mistake uno dei
passaggi obbligati di tutto il
pacchetto.
Il resto del programma scorre
che è un piacere, tra drum ’n’
bass frenetici e parti vocali
dai corposi sapori espansivi
– Mr Nowhere Song, Winters
Ta l e - i n f e r m i t à e l e t t r o n i c h e
di matrice Blues Explosion e
vie di fuga a metà strada tra
Notwist e Ian Curtis – Nation a l G a l l e r y, G y p s y L i k e Yo u partiture à la Bjork da tastiera
Bontempi e musiche corali dal
sentireascoltare 45
vago sapore rétro (The Inmate
Song, Urethra).
Tutto il materiale è condito da
campionamenti salva-spazio,
distese di rumori di fondo, coloriture melodiche inaspettate
e, dulcis in fundo, una ghost
track che nei quattro minuti
di durata si diverte a giocherellare tra piacevoli mutazioni
stilistiche (una fertilità creativa generalizzata confermata
anche dalla traccia video Cuore di cane allegata al cd).
Se volessimo cercare un possibile contraltare stilistico a
Gemma lo troveremmo probabilmente in Days Before The
D a y d e i m a r c h i g i a n i Yu p p i e
Flu, un’opera figlia della stessa stratificazione e complessità di questo secondo episodio a nome Hello Daylight.
(7.3/10)
Fabrizio Zampighi
I Refuse It! – Cronache del
Videotopo (Wide, 2005)
1982: in Italia esplode il fenomeno dell’hardcore, che mette
in gioco, estremizzandoli, gli
ultimi scampoli di un punk che
ormai, dopo aver rivoluzionato il rock, lasciava il posto
al gran calderone della new
wave. Nell’hardcore lo spirito punk sembra rinnovare il
suo potere alternativo dando i
suoi ultimi colpi di coda.
L’ I t a l i a
in
questo contesto
vive anni di rivalsa, tira fuori gli “attributi” che aveva tenuto nascosti negli anni precedenti e gode della la sua
stagione punk più autentica,
tanto che si può parlare senza indugio di “scena”, anzi di
“scene italiane”, che ruotano
attorno al fenomeno dei centri
sociali autogestiti, spesso di
m a t r i c e a n a r c h i c a . A To r i n o i
Negazione, i Randagi , i Contropotere a Napoli: rappresentano solo alcuni esempi di
stretto legame tra band e centri sociali, una regola più che
un’eccezione
all’epoca.
Un
periodo, quello dei primi anni
Ottanta, di forti estremismi,
premessa al piccolo boom di
46 sentireascoltare
fine decennio: l’eroina impera, il punk ha fatto terra bruciata di ideologie e ricerca
musicale, il nichilismo del no
future comincia a lasciare il
posto a un anarchismo tanto
estremo quanto ingenuo, a cui
si accosta un esistenzialismo
post-adolescenziale che esaurirà in pochi anni la sua carica
propulsiva, per trasformarsi in
qualcos’ altro. Emblematico il
caso di Neffa, ex batterista
dei Negazione, ma sono molti
i protagonisti della scena hardcore-punk italiana che dalla
fine del decennio in poi sono
naufragati verso ambiti molto
diversi dal loro background.
Il reggae e l’hip hop sono risultati i generi di approdo più
diffusi.
I n q u e s t a s t o r i a a n c h e l a To scana ha avuto il suo ruolo.
La “scena” toscana, per circa un lustro ha ruotato attorno al Granducato Hardcore,
gruppo di band hardcore più
o meno ortodosse (CCM, Ward o g s , P u t r i d F e v e r, Tr a u m a tic, Juggernaut e altri) tra cui
spiccavano, per fantasia e un
approccio per niente straight
edge, gli I Refuse It!
Difficile rinchiudere musicalmente Stefano Bettini e compagni nelle griglie dell’hardcore, tanto è variegato il loro
sound, in cui confluiscono
accenni di funk, spigolature
post-punk e ritmi sincopati che
quasi preludono alla no wave.
Un’esperienza durata quattro
anni, dal 1983 al 1987, che rischiava di rimanere nelle mani
di pochi collezionisti o amanti
del genere, che di quell’epoca
hanno conservato i feticci.
La Wide, grazie all’indubbio
interesse del suo fondatore,
Sandro Favilli, ex bassista del
gruppo, ripubblica, in Cronache dal Videotopo, tutta la discografia del gruppo toscano,
dagli esordi su cassetta ai vari
(pochi) 7 e 12 pollici e i brani
sparsi. Il punk dissacrante di
Mira il tuo popolo; le registrazioni incerte e grezze di Nuove dal fronte; gli esperimenti
con lingue improbabili come il
russo (Chocu Umeret) o idiomi
inventati (Hit’N’Run Attack),
l’hc più canonico di Agguato
e Fuggi fuggi; le composizioni più articolate dell’ultimo
periodo della band (Cronache
del Videotopo, Questo è l’Inferno…questa è Eleusi, la bellissima Paradiso Zero). Tutta
racchiusa in 25 brani la storia di una band che ha saputo
con arditezza introdurre sax,
tastiere, piffero e armonica in
un genere assolutamente allergico alla sperimentazione.
Che gli esperimenti non vadano sempre a buon fine, beh…è
da metterlo in conto.
Un (8.0/10) pieno all’operazione, che restituisce un pezzo di storia della musica che
rischiava di finire definitivamente nel dimenticatoio. La
band non va oltre una seppur
piena sufficienza.
Daniele Follero
Jackson And His Computer
Band – Smash (Warp / Universal, novembre 2005)
La contaminazione e decostruzione del suono techno da parte della Warp e di poche altre
e t i c h e t t e ( R a s t e r - N o t o n , D FA )
continua senza sosta. Rinnovare il beat più antisperimentale della storia (ossia l’odioso quattro quarti della cassa)
non è (stata) impresa facile.
Se da un lato si costruiscono mondi sonori minimalisti e
alienanti (vedi ad esempio gli
Autechre), dall’altro si tenta
di importare nel suono electro
una contaminazione massimalista che attinge da varie culture musicali o da altri mondi
sonori (vedi la deriva concreta dell’ultimo Herbert o dei
Matmos).
In quest’ultimo magma si tuffa a capofitto un parigino di
26 anni: Jackson Forgeaud.
Educato a suon di folk e blues
dalla madre cantante (Paula
Moore, che compare in ben
quattro
tracce
dell’album),
l’enfant prodige riesce a mescolare la sensibilità melodi-
ca del suo retroterra francese (già compagno di studio di
M r. O i z o e r e m i x a t o r e d i M 8 3
e Air) con le più recenti sonorità electro.
Il disco è un miscuglio divertito e divertente di brevi
samples vocali à la Daft Punk
(Utopia, Rock On), di electro
hip-hop apocalittico e minimale (con l’aiuto di Mike Ladd in
TV Dogs), un improbabile mix
tra Coldcut e Boards Of Canada (Hard Tits), un accenno a ritmi anni novanta semiDepeche Mode incrociati con
b r e v i a l l u s i o n i i n d u s t r i a l ( Te e n
Beat Ocean), una ripresa visionaria del jazz piùsbilenco
d i q u e l p a z z o d i A m o n To b i n
(in Tropical Metal), una sonorizzazione di una partita a
qualche videogame (Moto) e
un omaggio al padre di tutto il
r o a s t e r Wa r p : A p h e x Tw i n ( i n
Radio Caca).
La prima prova della Computer
Band risulta essere un inevitabile contenitore di contraddizioni che riflettono lo stato
dell’elettronica
contemporanea: lo smarrimento davanti
alla troppa informazione. Il
pregio del disco sta nella sua
(non ancora completa) capacità di organizzare il caos.
Un buon punto di partenza
su cui (de)costruire il futuro.
(7.6/10)
Marco Braggion
Kraftwerk - Minimum Maximum
(Emi / Astralwerks, giugno /
dicembre 2005)
In un periodo in cui le reunion
illustri sono la norma piuttosto che l’eccezione, quello dei
Kraftwerk è stato sicuramente
uno dei ritorni più graditi degli ultimi due anni. Dopo dischi e apparizioni pubbliche
somministrate con il contagocce nei passati tre lustri,
R a l f H u t t e r, F l o r i a n S c h n e i der e compagni sono tornati
i n g r a n d e s t i l e p r i m a c o n To u r
De France – Soundtracks, poi
con un tour mondiale che, a
partire dal 2004, ha toccato
una quindicina di Paesi (tra
cui l’Italia per due volte). Ed
ecco quindi puntuale Minimum
Maximum, due cd e un dvd che
immortalano le più di due ore
di spettacolo dei simbionti di
Düsseldorf.
Operazione nostalgia? Nient’affatto. In tempi in cui è diventato normale vedere simultaneamente in azione Pixies,
Slint, Pink Floyd, Gang Of
Four e Cream in una sorta
di azzeramento temporale, i
Kraftwerk hanno saputo fare
la differenza, offrendo quella che è sì una celebrazione,
ma non una semplice istantanea del bel tempo che fu.
Nell’epoca in cui l’I-pod ha
preso il posto del pocket calc u l a t o r, i m e n m a c h i n e s o n o
hic et nunc, apparentemente
immutabili, statici eppure immersi nella dinamicità dei nostri giorni. Da sempre pionieri
della multimedialità, hanno allestito uno show accuratissimo (di cui si può godere ogni
dettaglio nel bellissimo dvd),
in cui il repertorio trentennale
risulta eccezionalmente coeso in virtù di efficaci ripartizioni tematiche (si veda tutta
la parte dedicata a Computer
World) e di sapienti accostamenti (la sequenza micidiale
Autobahn / The Model / Neon
Lights / Radioactivity / Trans
Europe Express); e così brani anche distanti tra loro nel
tempo sono riportati in una dimensione inedita, un universo
automatico fatto di autostrade, ferrovie, corse in bicicletta, luci al neon, calcolatrici, cifre digitali. Insomma,
un doppio live che vale più di
qualsiasi best of.
Il merito di questo nuovo successo non va ricercato tanto
nell’indiscutibile
abilità
dei
Nostri in fase di mix e rielaborazione, quanto nell’eccezionale dote che ha reso
immortali i loro capolavori:
il saper permeare romanticamente ogni opera di un’estetica precisa, che ne definisse
forma, sostanza e identità.
In Minimum Maximum i mae-
stri dell’elettronica raccontano sostanzialmente sé stessi,
mostrando come la loro musica sintetica riesca ancora a
suonare fresca e attuale nell’era automatizzata che stiamo vivendo.
D’altronde, se i Kraftwerk oggi
vengono omaggiati persino da
insospettabili come U2 (che
hanno ripreso Neon Lights) e
C o l d p l a y ( l a c u i Ta l k h a r i p o r tato in auge il riff di Computer
Love) ci sarà anche un perché. (7.8/10)
Antonio Puglia
Daniel Lanois - Belladonna
(Anti / Alternative Distribution Alliance, 12 luglio 2005)
La carriera del Lanois produttore è delle più avvincenti e
storicizzate. La lasciamo a chi
di dovere. Il Lanois compositore-interprete, meno noto e
forse un po’ bistrattato, ha
saputo dare alla luce piccoli tesori dal valore autentico. Dapprima (Acadie - Opal,
1989) bozzettista sonoro alle
prese con stili e prestiti tradizional-popolari, ma pure rimescolati col fare dello stilista astratto, non lontano da
certe obliquità Brian Eno ; poi
cantautore maggiormente ligio
alle convenzioni, ma parimenti emozionale, quasi combattivo (For The Beauty Of Wynona
- Wa r n e r, 1 9 9 3 ) . I n f i n e p e r f o r mer di tenerezze in forma di
ballad-cocktail (Shine - Anti,
2003).
Con un’inconsueta pausa di
soli due anni, il Nostro si ripropone
poeta
ambientale,
stavolta
tutto
strumentale,
con un album discretamente
i m p r e c i s o . D u s t y, a d e s e m p i o ,
è una semplicissima vignetta per sola chitarra, mentre
Panorama è un inno di steel
guitar tra vibrati impercettibili, Sketches rotea placida tra
mugugni di chitarra, batteria
mareggiante e synth ovattati,
e Flametop Green propone un
onirismo sensuale e dolente
Durutti Column, con docile accompagnamento di piano.
sentireascoltare 47
recensioni
Kill The Vultures
Self Titled (Jib Door, 2005)
Un altro disco che rivoluzionerà l’hip-hop, un’altra band
che mette in discussione la stabilità della musica afroa m e r i c a n a c o n t e m p o r a n e a . L’ e s o r d i o d e i K i l l T h e Vu l t u res non scende a compromessi, e fa ancora una volta
storcere il naso ai puristi (ma ce ne sono ancora??).
Questa volta non sono i bianchi a sradicare la musica
“nera”, a naturalizzarla, come è stato per i cLOUDDEAD.
I quattro musicisti americani mettono in campo un meticciato musicale che fonde jazz, rock e hip-hop radicale partendo da un rapping inconfondibilmente black.
Fiati, percussioni, contrabbasso e poca elettronica: la
fisicità del sound davisiano incontra ancora una volta il ghetto e si riscopre assolutamente in continuità con la contemporaneità afro-americana, stupenda attualizzazione
di una storia lunga un secolo, cominciata nel mitico quartiere di Storyville, a New
Orleans e proseguita con una impressionante soluzione di continuità fino ai giorni
nostri.
Campionamenti, ma anche musica suonata. E’ questa la linfa vitale dei diretti eredi
d i J o h n C o l t r a n e e d e i P u b l i c E n e m y, d e l f r e e j a z z e d i J a m e s B r o w n .
Poco più di trenta minuti che bastano a far gridare al miracolo e tracciano la nuova
strada della black music e non solo.
La litania di Good Intentions basterebbe da sola a testimoniare le volontà programmatiche dei Kill The Vultures: un contrabbasso minimale sullo sfondo, flebili suoni
di tromba che contrappuntano un rapping insolito, appena accennato, quasi recitato
e una batteria che fa da sfondo più che da sostegno ritmico. Roba da fare arrossire
t u t t o i l W u Ta n g K l a n !
La stessa struttura si ripete in The Vultures, ma in maniera ancora più insistente,
claustrofobica, mentre in 7-8-9 compare addirittura una chitarra distorta e la batteria
s e m b r a s c i m m i o t t a r e g l i S t o o g e s . L’ i m p a t t o è s e m p r e v i o l e n t i s s i m o , u n s e n s o d i v u o to pervade ogni brano come a voler evidenziare una dimensione percussiva (fisica,
ancora una volta), che se ne sbatte dei “riempimenti” tipicamente pop. Una musica
che è sempre, anche e soprattutto politica, alla faccia dell’intrattenimento.
Il pianoforte di Beasts Of Burden, con il suo andamento darkeggiante mette quasi i
brividi e richiama alla mente addirittura sprazzi di sound 4AD.
Niente appare superfluo in questo disco, tutto ha il suo perché, come succede per
tutta quella musica che prima o poi passerà alla storia. (8.0/10)
Daniele Follero
sentireascoltare 48
Difficile dire dove Lanois voglia andare a parare, stavolta.
Di sicuro l’unisono tra vibrafono, tastiere e gorgheggio
catatonico di Oaxaca (ancora
Eno dietro l’angolo) non aiuta molto, e nemmeno la svolta
mariachi della parte centrale
Agave. Così come non aiutano i riempitivi (Desert Rose),
le pallide imitazioni di Frittke
(The Deadly Nightshade) e di
F r i s e l l ( Te l c o ) , l e i n c u r s i o n i
nello ska (Frozen). Nemmeno
la chiusa, l’ambient aeriforme
c o n f l a n g e r o f f u s c a n t e d i To dos Santos riesce ad aggiungere alcunché al già poco.
Con il piano di Brad Mehldau
e la batteria da Brian Blade
(già in Shine), è la meno convincente dimostrazione delle
potenzialità di Lanois. C’è la
sua tipica cura professionale,
e una dosata cornice strumentale, ma l’album in sé si basa
su un vignettismo davvero monotono e incompiuto, per di più
triviale nell’uso delle stereofonie e degli effetti sul suono
e altamente volatile nella consistenza delle composizioni.
Da perdersi, senza il rischio
di non tornare. (5.1/10)
Michele Saran
Macromeo – s/t (Aiuola Dischi, dicembre 2005)
Tutto è così semplice: Bologna,
un’amicizia
fruttuosa,
un’etichetta pregevole e, soprattutto, un ragazzo con delle buone idee supportate da un
certo talento. Così si potrebbero descrivere brevemente
le circostanze che hanno reso
possibile il debutto su Aiuola Dischi di Michele Stefani,
alias Macromeo.
Supportato e prodotto dalle
teste calde di Riotmaker (leggasi - gli Amari) e registrato
in casa, il self-titled in questione è una buona via di mezzo tra produzione fine e verve
D I Y: e ff e t t i v i n t a g e c h e v a n no dal delicato al volutamente invadente, forma-canzone a
360°, motivi ultrapop nella veste rigorosamente naif di tra-
dizione Aiuola, testi italiani
ora divertenti, ora un pochino
commoventi.
Del resto, come nel caso del
vicino Grand Master Mogol,
forse l’aspetto più interessante di questo piccolo lavoro
d’esordio è proprio l’intimità
della scrittura, che ingrandisce, con la lente di una sensibilità volutamente esibita, le
insicurezze che si ritrovano in
Tutto è così semplice e Tutto Inutile. Anche se a dir la
verità verrebbe quasi da dire
a Macromeo che non è stato
affatto tutto inutile, perchè se
queste canzoni tonde e sincere nascono dai suoi otto volanti emotivi come tutto lascia credere, allora è valsa la
pena di sfidare certe altezze
(6.5/10)
Marina Pierri
The Mass – Perfect Picture Of
Wisdom & Boldness (Monotreme, 2005)
La Monotreme si conferma etichetta interessante e da seguire nelle sue incursioni ed
escursioni, soprattutto in ambito metal, dove con la parola
metal si comincia a intendere
un linguaggio compositivo e
non più un genere.
Nulla dei Mass fa pensare al
manierismo metallaro che pure
non cessa di circolare. Eppure
Perfect Picture Of Wisdom &
Boldness è un album intriso di
metal dall’inizio alla fine: rocciosi riff di chitarre, abbondanza di effetti di compressione e distorsione, batteria
veloce e “pesante”, voce roca.
E’ la combinazione di questi
elementi che allontana molto i Mass dal genere “metal”.
Un approccio che rigetta sia
i semplici schemi formali del
black e del death, sia i vuoti
virtuosismi kitsch alla Dream
T h e a t e r,
reinterpretando
il
progressive nella sua versione più dura.
Gli impasti timbrici che derivano da un attento e preciso
inserimento dei fiati hanno lo
stesso senso che avevano nei
Rolling Stones dei primi ’70 e
cioè quello di dare più groove:
sembrerà strano, ma il sax di
Matt Waters riesce a dialogare benissimo con la chitarra di
To m O ’ D o n n e l l , t a n t o d a e n trare perfettamente nell’amalgama metallico.
Una band al livello dei migliori Cynic, che sfodera un ventaglio di influenze che va dai
C r a d l e O f F i l t h a i Vo i v o d , p a s sando per i Metallica di fine
’ 8 0 e l o s t o n e r. N i e n t e d i r i v o luzionario dunque, ma quando
tra i suoni imponenti di Cloven Head si ascolta il sax per
la prima volta l’effetto è piacevolmente spiazzante.
Brani lunghissimi (quasi tutti
appena sotto i dieci minuti)
ognuno dei quali è un concentrato di episodi musicali che
confluiscono l’uno nell’altro:
momenti di calma che ricordan o i To r t o i s e e g l i S l i n t ( M e d i tation On The Some Carcass)
si alternano a violente scariche in stile black norvegese
modello Dimmu Borgir (Little
Climbers Of Nifelheim). Il tutto strutturato, manco a dirlo,
con tempi dispari e frequenti
cambi di tempo, guidati dalla
b a t t e r i a d i Ty l e r C o x .
Troppo poco estremi per interessare ad artisti d’avanguardia tipo Zorn, troppo estremi
per chi non mastica metal.
Forse non hanno davanti la
più facile delle carriere, ma
di sicuro meritano notorietà.
(7.5/10)
Daniele Follero
Mazarin - We’re Already There
(Bella Union-Cooperative Music / V2, 2005)
Te r z o c a p i t o l o p e r M a z a r i n e
c’è da giurare che la mente
del suo ideatore, quel Quantin
Stoltzfus che militava nelle
fila drone-psych dei philadelphiani Azusa Plane (in qualità
di batterista), abbia finalmente trovato quel che cercava.
Con
questo
We’re
Already
There, uscito dopo una lung a p a u s a d i r i f l e s s i o n e ( A Ta l l
Ta l e S t o r y l i n e r i s a l e a l 2 0 0 1 ) ,
sentireascoltare 49
il cantautore insegue, ancora
una volta, il personale percorso dreampop d’ascendenza
electro-psichedelica occupandosi per la prima volta dell’intero ciclo creativo/produttivo.
Ne esce un album compatto e
coeso, studiato in ogni particolare, dalla vena lo-fi che
non disdegna il Big Beat, soprattutto: aritmeticamente (?)
e lisergicamente pop. Brani
strumentali come Schroed(er)
/ I n g e r, t u t t o s u o n e t t i d l i n d l o n oscillanti, e sezione ritmica
gelatinosa, esprimono gracilità melodica in appassionanti
quadrature armoniche, mentre
Kenyan Heat Wave (ManitobaCaribou ringrazia), pungolano
il retrò tra tastierini lounge e
spartani ritmi cadenzati.
L’ a n i m a d e l c a n t a u t o r e e m e r g e
prorompente in Another One
G o e s B y, m i s c e l l a n e a e l e c t r o lo-fi, negli incensi electro di
T h e N e w A m e r i c a n A p a t h y, n e l
rieccheggio Apples In Ster e o d i A t 1 2 To 6 . n e l g a r a g e beat con coda psichedelica di
I ’ l l S e e Yo u I n T h e E v e n i n g ,
e
nella
Elephant6-oriented
Louise (con Jeff Mangum in
palmo di mano). Manca forse
un pizzico di personalità nella
scrittura …ma che signorilità
nelle citazioni e che produzione popadelica! (6.3/10)
Michele Saran
Milaus - JJJ (Black Candy,
novembre 2005)
Domanda: come fare del buon
indie rock nell’anno del signore
2005 (quasi 2006)? Risposta:
pagando pegno con passione.
Un esempio? JJJ dei Milaus.
Non so se i cinque ragazzi
valtellinesi saranno d’accordo, ma in questo loro terzo
lavoro mi sembrano emergere
tanto i pregi quanto i limiti di
una situazione – non la loro
in particolare, ma in generale - senza sbocco per quanto
piacevole, coinvolgente seppure formattata su idee già
piuttosto logore. Intendiamoci, si tratta di un buon disco.
Che trasuda entusiasmo nudo
50 sentireascoltare
e crudo, capace di presentarsi affilato e beffardello in So
beautiful, di regalare buone
intuizioni come gli stranianti
pigolii sintetici e il violoncello grattugia-ombre nello scazzo pavementiano di Attitude to
the funny things, di sbandierare un’ispirazione struggente
come nell’indolenzita Traffic
(cantata col sottile abbandono
del miglior Corgan), scuotendosi con un’energia talmente ben meditata da sembrare
grezza, come nel blues-funk
nervoso di It’s a miracle!!!,
con quei cigolii di violino, il
clarinetto diabolico e il finale
innodico/distorto.
Tuttavia,
non
puoi
fare
a
meno di avvertire la stanchezza “estetica” della formula, ad esempio degli spigoli ritmici & chitarre radenti
à la June of ‘44 nell’iniziale
She’s back (cantata con elegante doglianza Polvo), o del
siparietto dEUS di As I used
to be, o della misteriosa enf a s i To r t o i s e n e l f o s c o c a r i l lon di It’s coming (dove Fabio
Magistrali
allestisce
rumori
da poltergeist sotto sedativo).
Tutte soluzioni valide e funzionali, certo, sulle quali però
persiste un senso d’arredo
modulare, di lezione imparata
e (ben) applicata, in ragione
del quale finisci per ascoltare
con quel po’ di distacco che
gambizza il trasporto nella
culla. Con tutto ciò, non può
passare sotto silenzio il modo
in cui la cassa in quattro Rapture-style di Searching in all
love songs sdilinquisca in una
lunga dissolvenza sanguigna,
fino ad incarnare un toccante
intimismo soul. O come la title track congedi l’ascoltatore
stemperando onirici sdrucciolamenti Flaming Lips e accorati crepuscoli Wilco. Insomma, bravi son bravi, i Milaus.
Se sapranno smarcarsi dalle
predilezioni e puntare dritti a
se stessi, potranno aspirare
ad una qualche forma di grandezza. (6.8/10)
Stefano Solventi
Mr. Bizarro & The Higway
Experience - Hello Hell
(Midfinger, 2005)
C’è questa band che è davvero interessante. Più che altro
è l’ennesima, intrigante incarnazione del rock ‘n’ roll. Di un
certo gusto d’oggi, quello che
ripesca elementi della vecchia
roba grezza dei Settanta con
piglio amorevole e incazzat o , i n s o m m a : i l Ve c c h i o N u o v o
Rock. A modo loro. Si chiaman o M r. B i z a r r o & T h e H i g h w a y
Experience, un nome che non
significa niente, ma che fa la
sua porca figura.
Spieghiamoci. Il batterista è
quello che oggi ha sostituito
Dario Perissuti negli One Dimensional Man. Perciò ci siamo con il tiro. Ma non basta.
Sono praticamente la versione
aggiornata dei Queen Of The
Stone Age, o forse il superamento in chiave easy stoner degli International Noise
C o n s p i r a c y, o a n c o r a i l n o i s e
core dei già citati ODM, privato del nichilismo assassino
del cantante Pierpaolo Capovilla e mischiato alla carnalità
assassina degli Ikara Colt. O,
più semplicemente, i Mr Bizarro & The Highway Experience,
post-stoner-indie-glam-rock
d a Ve n e z i a .
È come se questi cinque trasferissero all’istrionismo un
suono core lisergico, mantenendone intatta la fisicità.
Anzi, accentuandola, erigendola quasi a importante cifra
della matrice stilistica. Non
c’è assenza che si contempli:
ogni nota è presa in mano e
lavorata alla massima intensità; le strutture sono semplici, eppure non c’è niente che
risulti sotto tono, tutti in fila
compatti a passo di marcia
verso una dimensione musicale che mischia - in una sintesi
strabordante, ma lucida - l’eccesso della fisicità. E allora
scopami di qui e prendimi di là
e alla fine ci sono queste canzoni che ti gonfiano il cervello e fanno esplodere le vene,
tanta è la voglia di mangiarsele dal vivo in una fantastica cornice, dove tutti siano in
mezzo alla bolgia a scatenarsi come leoni appena liberati
dalla gabbia.
Mi sbaglierò, ma con i Bizarro e il loro Hello Hell è tornato quello che da queste parti
mancava da un po’. Lo spettacolo. E visto che è interamente scaricabile, gratis, da
m i d f i n g e r. n e t , n o n r e s t a c h e
cliccare senza sensi di colpa.
Spettacolare! (7.2/10)
Carlo Pastore
Nada e Massimo Zamboni
- L’apertura (EDEL, novembre
2005)
Ta n t o s o r p r e n d e n t e e b e l l o f u i l
tour imbastito da Nada e Zamboni la scorsa stagione, che
certo meritava una testimonianza discografica. Naturalm e n t e m a n c a a q u e s t o L’ a p e r tura la “presenza” scenica
della cantante toscana, corpo
da bambola tenera e sciroccata, logora e sensuale, folle e
bambina, bella di vita ormai
sbrigliata, irrecuperabile. Se
volete, una Marianne Faithful
nostrana, e senza paura di
esagerare. Zamboni invece,
penso lo sappiate, sul palco è
uno inversamente proporzionale alla densità di quello che
suona: se solo potesse, se ne
starebbe volentieri dietro le
quinte a ordire i suoi incubi e
i suoi stupori sonici. Ma a noi
sta bene così, e a Nada credo
pure, visto come le sue canzoni – sette su undici in scaletta
– si giovano di quelle rifrazioni sintetiche, di quell’ululato “interiore” di chitarra, dei
ruggiti e degli ologrammi. Interferenze estetiche che ben
si sposano con la poetica da
“malanima”,
traslandola
su
un piano di allarmante attualità. Più che emblematiche in
questo senso Chiedimi quello
che vuoi e Tutto l’amore che
mi manca, dove l’asprezza accorata della cantautrice trova
carburante e comburente nei
bassi turgidi, nelle trame ra-
denti e scabre di tastiere e
chitarre, oppure – soprattutto – quando nella conclusiva
Le mie madri la teatralità si
consuma visionaria e febbricitante tra robotici tribalismi e
pulsazioni motorizzate.
I pezzi firmati Zamboni a loro
volta guadagnano in fisicità, s’inclinano blues con fare
ombroso e acido (Da solo),
masticano punk la desolante
afflizione (Ultimo volo America, che nell’originale era allucinata profezia), sottolineano l’ebbrezza sofferta della
questione (Miccia prende fuoco, con breve intro - recitato
dallo stesso chitarrista - che
rafforza i sospetti di “dedica
nascosta” al Ferretti). Resta
da dire di quella Trafitto che,
d a b u o n f a n t a s m a C C C P, è
uno schiaffo teso e cupo, mitigato però da una certa dose
di saggezza, l’invettiva resa
più vulnerabile e passionale
da una Nada ben calata nella
parte (di alter-ego di Zamboni, come un tempo Ferretti).
Bel disco in definitiva. Ben
registrato, ben suonato, ben
interpretato. (7.1/10)
Stefano Solventi
Need New Body – Where’s
Black Ben? (5 Rue Christine /
Wide, 2005)
I Need New Body al terzo album incarnano come non mai il
loro nomen-omen: necessitano di un nuovo corpo ma tentennano indecisi nella scelta,
trasformandosi più o meno
deliberatamente
in
spiritelli dispettosi che possiedono
ora uno ora un altro cadavere, senza mai trovare appagamento. Unico tratto comune
a spuntare da tutti i pezzi di
Where’s Black Pen i folti baffi di Frank Zappa, a sostituire
le jam kraut-psych del primo
disco (più vicino alla precedente esperienza Bent Leg
Fatima) e ad ulteriore evoluzione degli spunti melodici e
dell’ampliamento a nuovi stili
(come il bluegrass e l’electro)
che già s’affastellavano in
UFO (File13, 2003).
Ma la schizofrenia si estende qui anche alla scelta dello
stile parodistico, ora cercando di far coincidere Zappa con
Beck ( Brite Tha’ Day , So St
Rx), ora abbandonandosi ad
un comedy-punk idealmente
compreso fra Minutemen, Fugazi ed Edie Sedgwick ed El
Guapo sul fronte più moderno
( M a g i c K i n g d o m , To t a l l y P o s
Paas , Mouthbreaker ), ora gigionegiando in un easy-bop
tipo versione faceta di Sun Ra
(Inner Gift, Badoosh+Seagull
War=Die)
ora
cazzeggiando
fra recuperi post-electroclash
in odor di Juan MacLean (e ci
verrebbe da citare i nostrani
Faresoldi), fino a puntare a
brevi centrifughe parossistiche à la Oneida (Pax-N-Half,
Juvie Girlz/Ghost Of Bistro/
Hairfunny ). Ne risulta un
confusionario e generalistico
zapping fra generi incongrui,
impressione sollecitata anche
dalla brevità dei brani e dalla mania dello stacchetto. Un
pasticcio che nel complesso
lascia un po’ l’amaro in bocca dopo le passate improvvisazioni “incredibly strange
psych” ma anche a fronte di
alcuni episodi veramente riusciti nel sincretismo fra capra
e cavoli, perle di un linguaggio nuovo che installa strutture rock e country su scheletri
di suoneria da cellulare come
Eskimo (ricordare i Residents
è pleonastico).
Con questo pot-pourri i Need
New Body sembrano aggiornare lo spirito zappiano all’epoca dell’emul-rock, a meno che
non si siano trasformati a loro
volta in un’emulazione di Zappa. Misteriose scatole cinesi
della ripetizione post-postmoderna che di sicuro non ci faranno perdere il sonno alla
notte. (6.3/10)
Lorenzo Filipaz
One Starving Day - Broken
Wings Lead Arms To The Sun
(Planaria Recordings, novembre 2005)
Da un po’ di tempo stiamo assi-
sentireascoltare 51
recensioni
Shout Out Louds
Howl Howl Gaff Gaff (Capitol / Budfox, settembre 2005)
A volte succede il miracolo: un semplice disco indiepop,
per lo più influenzato da un certo numero di altri dischi
indiepop, ti parla. Ti mette all’angolo, ti afferra, ti fa
ballare. E quando ha finito di scuoterti, di riempirti,
sembra quasi chiederti di investigare la sua algebra sonora solo apparentemente decifrabile, di comprendere il
suo teorema.
E’ così che, armati di pazienza, curiosità e costanza
si penetra in Howl Howl Gaff Gaff, il lavoro di debutto
degli svedesi Shout Out Louds. Un lavoro molto più intenso, pregnante e significativo di quanto ci potrebbe
aspettare. E’ vero, le canzoni di questo disco (che è un
disco, come si dice, “di canzoni”) non sono particolarmente differenti quanto a forma e sostanza dai momenti più tondi ed efficaci di certa
discografia di Bright Eyes, dagli anthems casalinghi dei Lucksmiths o dalle nenie
sincopate dei Belle & Sebastian; ma dopo avere saltato per mesi su pastiches d’ecc e z i o n e c o m e 1 0 0 ° , Ve r y L o u d o P l e a s e , P l e a s e , P l e a s e , f r a m m e n t i c o l o r a t i p e r f e t t a mente colorati e compiuti, ci si accorge di avere realmente a che fare con i pezzi di
un puzzle. Dunque, sembra quasi necessario tirare ancora una volta fuori la vecchia,
abusata ma sempre affascinante etichetta di “concept album”: sciogliendo il rebus
composto dal nome della band, il nome del disco – un non-sense quasi onomatopeic o - e d i t e s t i t a n t o d e i p e z z i g i à c i t a t i ( Ve r y L o u d è i l r a c c o n t o d i u n a r e l a z i o n e t r a
una persona che parla troppo ed una che è decisamente stanca di parlare) quanto
di There’s Nothing (“there are words that never should be said, but there’s nothing
I can do about it ‘cause the words are always in my head”) oppure la programmatica
Oh, Sweetheart (“whatever I said, I didn’t mean it; whatever I said, I take it back”)
viene fuori una piccola opera sulla non-comunicazione, o piuttosto sulla non-comunicabilità.
In altre parole, è come se il disco intero degli Shout Out Louds fosse un cubo di Rubik
che confonde e ricompone nient’altro che la sensazione spiacevole di voler davvero
gridare a squarciagola quello che si prova - anche se ogni volta viene fuori non meno
sconnesso e confuso di un qualsiasi howl howl gaff gaff. (7.2/10)
Marina Pierri
sentireascoltare 52
stendo alle evoluzioni di molti
gruppi che partendo dall’hardcore, emanano la loro musica
verso lidi che si possono definire progressive-rock. Il passato recente, con l’affermarsi
di gente come Cave-in e Isis
e Pelican , sembra voler dire
questo e i nostrani One Starving Day vogliono confermare
la “tendenza” (anche se è giusto ricordare che i il gruppo
nasce ben prima dell’affermarsi del genere), registrando un
disco di progressive-core, ma
non temano i puristi: non stiamo parlando di pirotecniche
frasi in controtempo, febbrili
e spastiche (quelle lasciamole
a i M a r s Vo l t a … ) , m a d i m u s i ca che dal progressive prende
l’ estetica della suite (quindi brani lunghi e multiformi)
e certe partiture elettroniche
che ammiccano, omaggiano il
prog cosmico dei primissimi
anni ’70 dei più primitivi Ash
R a Te m p e l , i Ta n g e r i n e D r e a m
“meditativo-elettronici”
ed
Amon Duul I/II.
Questi i suoni che un ascolto attento suggerisce, poiché
- occorre dirlo - la prima impressione che suscita Broken
W i n g s L e a d A r m s To T h e S u n
è di un incontro / scontro tra
Neuroris
e
Godspeed
Yo u !
Black Emperor (gente comunque non lontana dal prog..),
post-rockismo d’antan (A Minor
Forest),
nuova
scuola
hard-core statunitense (Isis in
testa) e disperazione Swansiana.
Ma al di là dei riferimenti stilistici, un disco è prima di
tutto un’esperienza, e quella
dei OSD è esperienza sonora allo stato puro: il gruppo
di Pasquale Foresti (ideatore
del progetto nel lontano 1997)
emana dolore e oppressione,
estasi
psichedelica
corrosa
dalla sofferenza, un mantrico
urlo liberatorio in crescendo
doom-neurisis-iano ( Leave),
trafitto da violini gotici (l’eccezionale apertura di Black
Star Aeon ), trialismi sciamanici (Secret Heart) visioni
nebbiose della Chicago post
(Fate Drainer) e rintocchi di
piano gravi come un dolore
solenne (Silver Star Domain).
La fine di qualcosa che amavamo, il presagire sofferente
delle conseguenze: un telo
nero chiude lo scenario. Tutto
questo è qui, in questi solchi
trafitti dal dolore. (7.0/10)
Gianni Avella
The Psychic Paramount – Gamelan Into The Mink Supernatural (No Quarter / Goodfellas, 19 settembre 2005 )
Forse qualcuno ricorderà una
band
sconosciuta,
chiamata Psychic Paramount, che
tre anni fa fece alcune date
in Italia, di supporto a gente
come Suicide e Dat Politics.
La band in questione si presenta alla sua prima uscita
ufficiale solo quest’anno, con
questo Gamelan Into The Mink
Supernatural, un disco che si
prende con ferocia il proprio
spazio tra i migliori debutti
dell’anno.
P r o v e n i e n t i d a N e w Yo r k , s o n o
in qualche modo la continuazione degli indimenticati Laddio Bolocko, band di culto della scena math rock anni ’90,
che vanta almeno un disco
imprescindibile come Strange
Warnings. Chiusa quell’esperienza, il chitarrista Drew St.
Ivany e il bassista Ben Armstrong decidono di mettersi in
proprio. Per il tour di tre anni
fa reclutano come batterista
l ’ e x N m p e r i g n , Ta t s u y a N a k a tani, trovando poi la line-up
d e f i n i t i v a c o n J e f f C o n a w a y,
già nei Sabers (band con un
disco su Neurot).
Il risultato finale è un’enfatizzazione spregiudicata degli elementi più ritmici e rumorosi dei Laddio Bolocko,
che lascia perdere del tutto
le componenti jazz, per un
accelerazione continua, stordente, maniacale, che non dà
respiro. Nonostante questo,
la musica dei newyorkesi, almeno concettualmente, è più
vicina al prog e allo space
rock, che non al noise delle
band su Load (Lightning Bolt,
Noxagt, Sightings), anche se
qualche inevitabile punto in
comune si può facilmente rintracciare. Il brano d’apertura,
Megatherion, tasta il terreno
sommergendo la melodia, sotto una nebulosa di distorsioni mandate in reverse, in una
maniera non dissimile dai My
B l o o d y Va l e n t i n e .
Ma
è
solo
l’introduzione,
perché il brano successivo,
Para5, incalza con veemenza
attraverso un furibondo tappeto percussivo e una chitarra in
primo piano che parla gli argomenti classici dell’hard anni
’70, dai Blue Cheer agli Mc5.
Echoh Air è solo un oasi di
calma apparente, con minacciose mareggiate di feedback
chitarristico
che
preparono
l’excursus di X-Visitations, un
brano degli Hawkwind brutal i z z a t o d a i B o r e d o m s . L’ i n t e ro canovaccio del disco viene riassunto nella conclusiva
title track, che parte quieta
e ragionata come se uscisse
dalle mani dei King Crimson,
per poi andare rapidamente
a perdersi in una tempesta di
distorsioni da cui non si esce
che con le orecchie a pezzi.
Gli Psychic Paramount sono
encomiabili. Portano tutti gli
strumenti alla pazzia e fanno rumore per il puro piacere di farlo, ma facendo bene
attenzione a non perdere le
tracce di un ipotetico discorso
melodico. La colonna sonora
ideale per le prossime Guerre
Stellari. (7.3/10)
Antonello Comunale
Psycho Sun – Silly Things
(Urtovox / Audioglobe, 2005)
L’ i m m a g i n a r i o c h e p r e n d e c o r po tra queste tredici canzoni
degli Psycho Sun è lo stesso
di un famoso videoclip che
qualche anno fa spopolava tra
l e f r e q u e n z e d i M t v. E r a u n
brano dei Something Corporate, in cui la band suonava
il più classico dei giri rock in
quattro quarti all’interno della
sentireascoltare 53
scuola dei sogni, composta da
professori fessi e polverosi,
fighe da capogiro e libri che
finivano immancabilmente sulla testa del secchione quattrocchi-brofoloso-magrolino.
Un grande party rock’n’roll in
cui si celebrava la felicità di
essere adolescenti in un mondo di plastica che, diciamo la
verità, sa come far divertire i
propri abitanti.
I suoni di Silly Things sembrano affacciarsi sulla scena
indie italiana con lo stesso
senso di meraviglia descritto
in precedenza, con in più la
necessaria voglia di cazzeggio che il rock certe volte richiede per potersi esprimere
nel migliore dei modi. Considerando poi il ritardo perfetto
con cui si presentano – un disco garage-pop-rock che arriva quando la spinta propulsiva degli ex Libertines sembra
presagire un imminente arresto per mancanza di carburante – saremmo quasi tentati di
gridare al capolavoro. Perché
gli Psycho Sun mostrano una
buona vena compositiva che
riesce ad incastrarsi nella testa, come ogni canzone pop
degna di questo nome.
D’altronde il lato più orecchiabile del gruppo è quello che
dà i risultati migliori. Time è
una zattera che si inoltra in
un ambiente fatto di melodie
dolcissime che poi esplodono
in una cascata di chitarre dis t o r t e . A b o u t Yo u r M a n s e m bra un bel reperto che proviene dagli anni Settanta. Ben
And Cicely è il pezzo più bello
della raccolta, in grado presagire un futuro di tutto rispetto
per la band pugliese. Quando invece il ritmo accelera gli
Psycho Sun si limitano a urla
e schitarrate come un gruppo
punk qualsiasi, senza deludere i fan del genere ma senza neanche colpire chi cerca
qualcosa di più di un semplice
“one-two-three-four”.
Ma Silly Things suona comunque discretamente fresco e
soprattutto sincero. E poi è
54 sentireascoltare
difficile non premiare la faccia
tosta di un gruppo disposto a
copiare col sorriso sulle labbra il leggendario arpeggio di
W i s h Yo u W e r e H e r e d e i P i n k
Floyd (nel brano Something
Is Happening) nell’anno della
storica reunion. Stiano però
tranquilli i fan di Roger Waters: a parte l’introduzione, il
resto del pezzo vaga in situazioni che non hanno nulla a
che fare con il complesso inglese. (6.5/10)
Manfredi Lamartina
The Raveonettes – Pretty In
Black (Columbia / The Orchard, 2005)
Genuino. E’ questo ciò che
pensi ad ogni singolo ascolto
di Pretty In Black, ultimo lavoro del duo danese (ormai con
f i s s a r e s i d e n z a a N e w Yo r k )
formato da Sune Rose Wagner
e Sharin Foo. Il nuovo e secondo album dei Raveonettes
si lascia in parte alle spalle le
sonorità garage di Chain Gang
Of Love del 2003 (espansione
di Whip It On EP datato 2002)
per andare a pescare direttamente dal miglior rock originario targato anni ’50. Alla base
di questo cambiamento non c’è
una rivoluzione (i tratti somatico-stilistici della band sono
sempre quelli), ma una più
ambiziosa ricerca del suono e
la missione - più estetica che
sostanziale, si veda anche la
copertina in stile fifties- di ripercorrere a ritroso la storia
del rock fino agli albori.
“Genuino” in tal senso. Canzoni come Here Comes Mary e
R e d Ta n s e m b r a n o a r r i v a r e d i rettamente dal 1957 senza accusare “il colpo” di un gap di
oltre 40 anni; giungono a noi
pulite, lineari e fresche. E’
proprio Sune a evidenziare il
distacco dai lavori precedenti: “Ho realizzato che per la
gente deve esser stato difficile ascoltare album di un’ora
circa basato su tre accordi in
un’unica
chiave”.
Conclude
Sharin: “Dovevamo fare qualcosa di nuovo, di diverso per
questo album, per noi stessi
e la nostra sanità”. Più chiari
di così!
Per Pretty in Black The Raveonettes hanno detto no a distorsioni e riverberi, lasciando molto più spazio alla vena
cantautorale del frontman e
sostituendo a hit radiofoniche delle ballad che riescono
a scomodare i nomi più celebri del panorama rock e folk a
stellestrisce. E’ il caso della
traccia che chiude l’album If
I W a s Yo u n g , c h e q u a s i c o m muove nella sua candida rassegnazione (and all I have is
memories of a life / I once held
dear-and all the lights are out
tonight / oh how I wish I wasn’t here) e di The Heavens,
che sembra un pezzo scritto e
musicato direttamente da Re
Elvis in persona.
Un’altra prova è la schiera di
guest star che hanno collaborato all’album. E’ doveroso
iniziare la lista da Moe Tucker
d e i Ve l v e t U n d e r g r o u n d , c h e
suona la batteria in diverse
c a n z o n i , t r a l e q u a l i Yo u S a y
Yo u L i e e O d e T h e H e a v e n s ; v i
è poi Martin Rev direttamente dai Suicide per apportare
la sua decennale saggezza e
competenza in Uncertain Times, e compare addirittura
l ’ a t t e m p a t a R o n n i e S p e c t o r,
v o c e d i O d e To L . A . P e r l a c o ver di My Boyfriend’s Back i
Nostri si sono avvalsi direttamente di Richard Gottehrer
- tra l’altro produttore dell’album - per ridar lustro ad
una gemma della musica degli
anni sessanta a ben 42 anni di
distanza.
Te c h n i c o l o r : q u e s t o è i n d u b biamente l’aggettivo più appropriato per definire Pretty
In Black; dopo il Black & White style dei lavori precedenti
Sune e Sharin confezionano
un album stilisticamente impeccabile, ricercato, compiendo un triplo salto mortale in
avanti. (7.5/10)
M i c h e l e Va c c a r i
Rogue Wave - Descended Like
Vultures (Sub Pop / Audioglobe, 21 novembre 2005)
Impossibile
parlare
di
una
band come i Rogue Wave senza
involontariamente citare quegli Shins venuti a galla a fine
2 0 0 3 c o n l ’ o t t i m o C h u t e s To
Narrow , sia per ragioni strettamente pratiche - entrambi
incidono per la Sub Pop - sia
per le evidenti affinità di stile
che accomunano i due gruppi.
Un amore per un pop a colori
e con la P maiuscola, che se
per questi ultimi significa intessere musica della porta accanto, di inclinazione pressoché acustica e tutto sommato
piuttosto contenuta nei toni,
per i Nostri vuol dire giocare
con dinamiche ampie e suoni
eterei, chitarre fuzzeggianti
ed echoes espansivi.
Chi conosce la band, di Descended Like Vultures parla,
forse non a torto, come una
via di mezzo tra i Fleetwood
M a c , N e i l Yo u n g e i M y B l o o d y
Va l e n t i n e , a n c h e s e s i n t e t i z zare in due parole una formula
musicale dallo spettro stilistico tanto ampio ci pare piuttosto riduttivo.
Meglio sarebbe affrontare i
brani del disco uno ad uno, lasciandosi magari cullare dalla
ritmica pacata e le stilettate
in distorsione di Bird On The
Wire, ondeggiando il capo al
refrain rubato ai R.E.M. di Publish My Love, scivolando tra
i rapidi arpeggi di chitarra e
i coretti lisergici di Catform.
L’ o p e r a r a c c o g l i e s p u n t i d i
ottima qualità, equamente distribuiti tra ballate suadenti
e r i p a r t e n z e q u a s i s h o e g a z e r,
parentesi acustiche e pop magniloquente, melodie che talvolta richiamano le malincon i e d e l g i à c i t a t o N e i l Yo u n g
(come nel caso di Medicine
Ball ) o che mostrano di apprezzare la lezione dei Mojave 3 (California).
Quella del secondo episodio a
nome Rogue Wave è una molteplicità di aromi dal fascino
immediato e persistente, un
vissuto musicale che potrebbe
apparire persino pretenzioso,
non fosse sorretto da un consistente lavoro di produzione,
pregevoli doti compositive e
una forte autocoscienza. Un’
autocoscienza che permette
ai quattro musicisti americani di concepire con chitarra,
basso, sintetizzatore, wurlitzer e batteria un’idea di pop a
metà strada tra college radio
e sonorità indie, richiami al
grunge più melodico e velleità
psichedeliche.(6.9/10)
Fabrizio Zampighi
Shooting At Unarmed Man
- Soon There Will Be Shooting
At Unarmed Men (Too Pure/
Self, 2005)
In un momento in cui etichettare una band come perfetto
esempio di indie rock potrebbe portare a seri abbassamenti delle vendite, gli Shooting
At
Unarmed
Man
scelgono
volontariamente
di
impelagarsi in un suono fra il lo-fi
dei Pavement ed il punk dei
M c L u s k y. E d i n f a t t i i l t e r z e t t o
intestatario del progetto vede
affiancati Jon Chapple, Simon
Alexander e Steve Morgan,
tutti decisi a rendere sbilenchi e ubriachi i brani inclusi
nel loro album d’esordio. Tra
una ballata un po’ stonata,
qualche urletto da live esagitato e chitarrine oblique che
hanno fatto la fortuna delle
band statunitense di metà anni
novanta, il disco scorre bene
senza riuscire ad esaltare né
annichilire; ma per superare una semplice sufficienza,
gli Shooting At Unarmed Man
avrebbero davvero bisogno di
sconvolgere radicalmente la
loro musica. (5.0/10)
Michele Casella
Carlo Spera &
- Sto correndo
2005 )
Stereonoise
(Videoradio,
Progetto coraggioso quello di
Carlo Spera & Stereonoise,
stando a quanto riportato sul
l o r o S i t o U ff i c i a l e : “ L’ i d e a è
quella di dare un nuovo contri-
buto alla musica italiana fondendo influenze musicali che
vanno dal Jazz al Blues, dall’elettronica anni ’80 alle nuove tendenze del techno pop e
dell’improvvisazione
elettronica, dal rock progressivo alla
psichedelia, fino ad arrivare
alla canzone d’autore”.
Alcuni di questi elementi li
troviamo nelle 15 tracce di Sto
correndo:breakbeats e spunti
elettronici incontrano il suono jazz della tromba di Mario
Massa, la voce di Carlo Spera offre brevi melodie (a volte quasi dei recitati), mentre
al chitarrista Maurizio Marzo
spetta il compito di agganciare le sonorità progressive,
funky e rock.
La produzione è buona: suoni
puliti e sempre ben bilanciati permettono di apprezzare i
diversi apporti rintracciabili
nelle singole tracce; la cura e
la brillantezza del suono conferiscono al tutto una patina
pop.
Certo l’idea che sta alla base
del lavoro è coraggiosa, ma
non facile da mettere in pratica senza rischi che, in questo
caso, si traducono in una mancanza di originalità (nei testi
e negli apporti della voce) e
in una sensazione di “già sentito” dovuta al ripetersi di alcune sonorità elettroniche.
Tutto funziona meglio nei brani più veloci e in quelli più
curati nelle sonorità, nei momenti in cui interviene la voce
della tromba o la chitarra ad
animare il sound.
A scapito del lavoro va anche la sua lunghezza totale e
quella dei singoli brani: meglio sarebbe stato concentrarsi su un numero minore di
tracce più brevi, ampliando la
timbrica usata.
Insomma un’opera prima che
lancia una bella sfida senza
riuscire a vincerla del tutto;
l’obbiettivo – arduo – di unire
tutti gli elementi musicali che
dovrebbero creare il suono
degli Stereonoise viene perseguito senza provare fino in
sentireascoltare 55
fondo a sperimentare.
Per chi volesse farsi un’idea
sul sito è posssibile ascoltare
alcuni mp3. (6.2/10)
Andrea Erra
Starsailor – On The Outside
(Emi, 17 ottobre 2005)
A quattro anni dal debutto, il
momento magico degli Starsailor è ormai un ricordo, anche
se Walsh e amici hanno assaporato il successo anche oltreoceano grazie al singolone
s p e c t o r i a n o F o u r To T h e F l o o r .
Il terzo disco della band di
Wigan viene così registrato a
Los Angeles con Rob Schnapf
(co-produttore, tra gli altri, di
Elliott Smith), con l’intenzione dichiarata di dare una sterzata al loro percorso. Dopo le
afflizioni folk di Love Is Here
e le ambizioni produttive di
S i l e n c e I s E a s y, g l i S t a r s a i l o r
cercano di reinventarsi come
rock band, inasprendo i toni e
cercando un mordente che latitava dalla loro musica.
In The Crossfire sfoggia da
subito un suono corposo e aggressivo; un brano con una
certa personalità (non a caso
è il singolo apripista), ma attenzione, gli ingredienti sono
comunque quelli noti: liriche
tormentate, rabbia adolescenziale (alla Creep) e piglio da
melodramma (“I don’t see myself when I look in the mirror
/ I see what I should be”). Un
vestito nuovo per la solita cerimonia, in pratica; non basta rivestire di psichedelia le
solite ballatone o cavalcate,
magari mettendoci dentro un
po’ di groove, si rischia solo
di fare ulteriori danni, come
nello pseudo-grunge di Faith
Hope Love o nello psych di
marca Six By Seven / Spiritualized Way Back Home (con
bello sfoggio di artifici di produzione vecchi di una decina
d’anni); vanno un po’ meglio
In My Blood, Get Out While
Y o u C a n e K e e p U s To g e t h e r
(prima di scivolare pericolosamente dalle parti della Pride
degli U2), che rispolverano lo
56 sentireascoltare
spleen buckleyano degli esordi, ma è un film già visto. Le
vibrazioni soul di I Don’t Know
e White Light finiscono per risultare quantomeno piacevoli,
ma non si può aggiustare un
giocattolo già rotto. Almeno,
non stavolta. (4.0/10)
Antonio Puglia
Velma - La Pointe Farinet,
2949 m. (Monopsone / Wide,
ottobre 2005)
Coloro che hanno apprezzato i
t r e a l b u m l i c e n z i a t i d a i Ve l m a
dal ’97 al 2003, e in genere
tutti gli inveterati amanti del
trip-hop, non faranno fatica
ad innamorarsi di questo La
Pointe Farinet, 2949 m. Non
un passo indietro, non un cedimento rispetto ai dettami
del genere – le trame apocalittiche, l’angoscia oppiacea,
la voce aliena e monocorde.
Nessun timore di obsolescenza, anzi. C’è un più deciso lavoro sulla fibra sintetica, che
crepita e sfrigola, spampana
farragini e vapori fiabeschi,
mastica una tensione corrosiva popolando di graffi western i margini delle canzoni
(piuttosto azzeccata la scelta
del guru electro Locust - al
s e c o l o M a r k Va n H o e n - a l l a
produzione). Un impasto frastagliato che non si affronta
a cuor leggero, che non ha alcuna intenzione di affrancarsi
(di affrancarti) dalla consapevolezza d’un mondo tragico.
E che tuttavia abbaglia con
quei cromatismi densi, seducendo col folto sovrapporsi di
trasparenze androidi e brume
industrial.
Non è solo questo. E’ che la
compagine di Losanna assorbe tutto ciò che confina con
la propria premessa poetico/
estetica al modo di una spugna radioattiva, che sia il tipico torpore angoscioso circ a T h o m Yo r k e ( t r a i f r u s c i i
sintetici e le pelli spazzolate
di Sleeping Underwater), che
siano certe cosmiche alienazioni Air (quelli più krauti in
N o R i s k To B e Ta k e n e q u e l l i
delle vergine suicidi in 100%
Sure), che siano quei vamp
plastici modello Art of Noise
e quei coretti da Beta Band
sotto anestesia (nell’iniziale
32 Offices). E tutto si tiene,
pesantemente,
febbrilmente,
ma in fondo con naturalezza.
Se meritano poi un minimo di
rilievo la presenza di Dälek in
Vo i c e s O f T h e E t h e r ( i n s i d i o samente post-electro) e la curiosa cover di Metropolis dei
Motorhead (sempre in chiave
Air-Massive Attack), va invece ben rimarcata la stupenda
coppia finale Private Perfection e Run, la prima una lunga processione di cineserie e
grugniti, arpeggi ripescati dai
Radiohead periodo The Bends
e folate The Edge, la seconda una sorprendente, fragile
bossa per chitarra acustica,
voce e piano, il pathos che si
coagula come in certi languidi
disarmi dEUS. Bravi quindi i
Ve l m a , a b b a s t a n z a c o c c i u t i d a
coinvolgere, magari non sorprendenti però intensi. Credibili anacoreti del trip-hop.
(6.8/10)
Stafano Solventi
Martha Wainwright – Self
Titled (V2, 2005)
Dici Wainwright e pensi Rufus.
Dici “sorella di Rufus” e pensi
che non sarà mai al livello del
fratello. D’altronde è sempre
la solita storia. Per un artista è dura resistere al peso
delle influenze musicali, che
ogni anno fanno più vittime
del virus dei polli. Figuriamoci se poi le lunghe ombre dei
paragoni scomodi te le ritrovi
addirittura dentro casa. Difficile quindi che la più piccola
della famiglia Wainwright possa sfuggire al gioco al massacro del “chi ricorda che cosa”.
Ta n t o p i ù c h e q u e l c o g n o m e è
universalmente
riconosciuto
come garanzia di qualità.
Il problema, però, è che questo disco di Martha Wainwright
soffre delle aspettative che
inevitabilmente ha generato.
Ti immagini brani talmente
recensioni
The Boy Least Likely To
The Best Party Ever (Too Young To Die, 2005)
Prendete due ragazzi provenienti dalla annoiata provincia inglese, fate pure che siano appassionati del pop
stralunato e casalingo delle indie britanniche degli ’80
(C86, Sarah, Postcard), metteteci anche un bel debole
per classici della letteratura per l’infanzia come Winnie
The Pooh. Fatto? Ok, ora chiudeteli in una stanza con
gli strumenti più disparati (xilofoni, banjo, percussioni,
armoniche etc), spruzzate nell’aria molecole di spensieratezza e giocosità (anche LSD va benissimo), e avrete
T h e B e s t P a r t y E v e r, i l v o s t r o d i s c o d i i n d i e p o p f a t t o
in casa.
No, non è una puntata di Art Attack, ma ci somiglia parecchio. Già , perché ai nostri Pete Hobbs e Jof Owen da Wendover in Buckinghamshire, in arte The Boy Least
L i k e l y To , d i c e r t o n o n d i f e t t a n o f a n t a s i a , c r e a t i v i t à e u n a s a n a a t t i t u d i n e l u d i c a .
U s c i t o s o l t a n t o i n U K p e r l a l o r o To o Y o u n g To o D i e , q u e s t o d e b u t t o n o n h a a n c o r a
avuto una distribuzione vera e propria, ma è già un piccolo fenomeno che ha fatto
drizzare le orecchie ai più attenti seguaci del pop indipendente, e non è difficile
capire il perché. A partire dall’artwork fino ai titoli dei brani, viene evocato tutto un
immaginario che va dai racconti per bambini agli Smiths, dalle festicciole a scuola
a i c u l t i p o p - d a - c a m e r e t t a Va s e l i n e s e P a s t e l s , d a l l o z u c c h e r o f i l a t o e p a l l o n c i n i a i
viaggi spaziali di Barrett, in una girandola di stili, melodie e arrangiamenti eccentrici
il giusto, ma mai sopra le righe.
Ecco quindi snocciolate una dopo l’altra - come le m&m’s - canzoncine che trattano,
con candore infantile misto a humour quasi demenziale, la perdita dell’innocenza, la
paura di crescere (Fur Soft As Fur), perfino della morte (Sleeping With A Gun Under
My Pillow), tutto però affrontato con una certa vena surreale, in chiave giocosa e
vagamente psichedelica.
Almeno metà di queste canzoni, in un mondo ideale, sarebbero dei singoli perfetti:
vedi Monsters (un incubo infantile come l’avrebbero visto dieci anni fa i Folk Implosion), o Paper Cuts (che singolo in effetti lo è davvero, e giustamente), o le scintille
Go Betweens di Be Gentle With Me e il ritornello-tormentone I’m Glad I Hitched My
A p p l e W a g o n To Y o u r S t a r ( s c i o c c a , c a r a m e l l o s a e i r r e s i s t i b i l e c o m e u n a s i g l a d e i
cartoni), per poi ritrovare in I See Spiders When I Close My Eyes quella naiveté mista all’ironia agrodolce di Morrissey - come altro definireste un verso come: “I’d love
to go to S.Francisco, but I’m too afraid to fly” - che si poteva incontrare nei Belle
& Sebastian di un tempo (evocati esplicitamente anche in Hugging My Grudge e The
B a t t l e O f T h e B o y L e a s t L i k e l y To ) .
Insomma, uno di quei dischetti che nasce per pochi intimi (alla Tigermilk, per intenderci), da cui, chissà, potrebbe scaturire prima o poi un universo a parte. Semplicemente delizioso. Occhio al livello del diabete, però. (7.2/10)
Antonio Puglia
sentireascoltare 57
belli da farti male ma ti ritrovi
un pugno di pezzi che vagano nel deja-vu folk-pop. Senti
il bisogno di esplorare nuove
prospettive e nuovi significati della parola “emotività” ma
dallo stereo esce soltanto una
bella voce. Vuoi riscoprire un
suono che sappia essere fedele cronista dei tuoi stati
d’animo ma poi ti rimangono
semplici giri di chitarra acustica tra le mani. Ad esempio,
Bloody Motherfucking Asshole
– una specie di Bella stronza
al maschile – sembra la solita filippica anti-fidanzato declinata al tempo del folk. The
M a k e r, d i c o n t r o , è p i ù s o b r i a
nelle sonorità, e proprio per
questo ha un esito migliore.
Il risultato, alla fine, è una
mezza delusione. Soprattutto
perché l’autrice dimostra a volte – sarebbe stupido non riconoscerlo – di avere comunque
ereditato il gene Wainwright,
come nel caso della deliziosa
tenerezza di These Flowers.
Solo che, presa dalla furia di
mettere sul fuoco quanta più
carne possibile, non è riuscita a mantenere ferma la barra sull’obiettivo di sempre:
emozionare. Diluire quindi in
sessanta minuti il proprio talento non è una mossa raccomandabile, specie quando le
atmosfere dei pezzi si assomigliano pericolosamente. È
come voler fare una cena per
venti persone solo con un po’
di zuppa. Se allunghiamo il
brodo con acqua abbondante
magari riusciamo a garantire
venti porzioni uguali, ma difficilmente i nostri ospiti ne apprezzeranno lo sforzo.
Se invece avesse giocato di
sottrazione l’album ne avrebbe tratto giovamento. Così
non è stato, e, benché la sufficienza sia raggiunta, si prospetta purtroppo una sconfitta
– seppur di misura – non solo
nel confronto col fratello (presente in Bring Back My Heart,
una delle canzoni migliori del
lotto), ma anche con altre cantautrici che negli ultimi tempi
58 sentireascoltare
hanno colpito come e più di
quanto abbia fatto Martha. Il
riferimento è per Liz Janes e
Hanne Hukkelberg, che senza
la stessa copertura mediatica
garantita alla Wainwright hanno saputo – loro sì – emozionare e coinvolgere.(6.0/10)
Manfredi Lamartina
We Are Scientists - With Love
And Squalor (Virgin / Emi, 17
ottobre 2005)
Insomma, ai We Are Scientists, prodotto mediatico confezionato alla perfezione a partire dalla bella presenza dei
componenti fino alla leziosità
dell’artwork, non manca niente per vendere, e bene se n’è
accorta l’industria vera e propria, dal momento che il debutt o d e l l a b a n d è m a j o r, Vi r g i n ,
per la precisione. (5.8/10)
Marina Pierri
A quest’ora dovremmo essere stanchi delle band come i
We Are Scientists. La fabbrica di NME e del circuito pseudo punkfunk anglo-americano
continua a sfornare pacchetti
sonori analoghi in tutto e per
tutto a With Love And Squalor da almeno due anni - se
pensiamo che l’ A.D di gene-
White Hassle – Your Language
(Fargo / Self, 2005)
re è stato il 2003 con l’uscita
di Echoes dei Rapture, lavoro che si è fatto seguire da
una schiera praticamente infinita di epigoni. Proporne una
lista è pleonastico, ma tanto
per fare qualche nome: Moving Units, Editors, Killers,
Chikinki ed in tutta probabilità un’altra quindicina di formazioni di ventenni agguerriti
di cui si è già persa traccia e
memoria. Date queste premesse, il giudizio deve slittare
dal numero - indiscutibilmente
alto - di prodotti per lo più appetibili che cavalcano l’onda
fortunata del post-punk, alla
qualità.
Il trio di Brooklyn, NYC (ma
và?),
non
propone
assolutamente niente di nuovo. Le
canzoni sono dinamiche, piacevoli, ben prodotte, del tutto
integrate nel “movimento” di
cui rispettano con tanta puntigliosità i requisiti. Gli arrangiamenti
sono
squisitamente
analogici,
M T V- f r i e n d l y,
catchy come in Cash-Cow; il
cantato scimiotta spesso, in
maniera peraltro piacevole,
gli Hot Hot Heat, come in Worth The Wait; i testi sono universali e qua e là molto ben
scritti - In Action e This Scene
Is Dead su tutti.
tradizionale; ma da qui a considerarlo - come fa qualcuno
- un brutto disco ce ne passa. Perché il nuovo episodio
a nome White Hassle è tutto
fuorché
brutto,
nonostante
proponga musica alla good old
boys e non aggiunga molto in
termini di ricerca ad un genere ormai legato al mondo dei
ricordi; palesi senza vergogna
gli evidenti antecedenti stilistici e dichiari apertamente le
proprie infatuazioni.
Merito delle potenzialità melodiche e dell’immediatezza
dei brani, di una tendenza ad
occuparsi di poche cose ma
nel modo giusto, del suo destreggiarsi abilmente tra i richiami estetici più evidenti e
quelli meno noti. Tra i primi il
country e il blues, spina dorsale nonché minimo comune
denominatore del disco mentre nella seconda categoria
rientrano il Beck di Odelay
e i Modern Lovers del disco
d’esordio.
E’ proprio questo, forse, il
valore
aggiunto
dei
White
Hassle, il saper fondere armoniosamente suoni tradizionali e elementi musicali più
recenti,
approccio
classico
alla melodia e toni irriverenti, nell’ottica di una proposta
Yo u r L a n g u a g e n o n s a r à f o r s e
un capolavoro di originalità e
coraggio, non avrà magari la
fortuna di rientrare nella top
ten di fine anno e con ogni
probabilità non muoverà a stupore gli ascoltatori più scafati
con il suo roots-rock piuttosto
recensioni
Wilco
Kicking Television: Live in Chicago (Nonesuch, novembre
2005)
Questo doppio live dei Wilco ha tutta l’aria di voler chiarire a critica e fans lo stato dell’arte della band. Scossa
da importanti cambi di formazione – alle chitarre ci sono
Nels Cline e Pat Sansone, mentre Mikael Jorgensen si
occupa di pianoforte e tastiere – e più ancora dalla svolta “poetica” ed estetica (nel segno dell’eredità lasciata
da “prezzemolo” O’Rourke) degli ultimi due lavori,
Tw e e d y e s o c i s e m b r a n o a v e r d e f i n i t i v a m e n t e e s a u r i t o
l’aura no depression di antica memoria Uncle Tupelo. Si
r i f l e t t o n o a n z i s e m p r e p i ù n e i t r a v a g l i e s i s t e n z i a l i d e l l e a d e r, i l c u i l a c o n i c o i n t i m i smo conserva vivaddio quel taglio genuino e visionario, quella delicatezza fragile e
o m b r o s a c h e s a f a r s i c a r i c o d i i s t a n z e “ e p o c a l i ” s e n z a i n c i a m p a r e n e l l a r e t o r i c a . Ve r o
e proprio manifesto di questo disagio, Ashes Of American Flags è uno dei pezzi cardine del live act, con la chitarra come una crepa nel cuore, l’onirico languore delle
tastiere, tutto un sogno seventies trafitto dal mesto, struggente assolo di chitarra.
Quanto al resto, sappiate che su ventitrè pezzi in scaletta soltanto sei non fanno
p a r t e d e l d i t t i c o Ya n k e e H o t e l F o x t r o t / A G h o s t I s B o r n : s e n o n s i t r a t t a d i u n ’ a b i u r a
delle vecchie cose, le somiglia abbastanza. A parte questo, occorre dire che le tracce sono rese con trasporto e professionalità, riarrangiando quel poco che occorre,
talora concedendo qualche preziosismo sonico (la misteriosa luminosità del synth ad
i n t r o d u r r e I A m T r y i n g To B r e a k Y o u r H e a r t o l e b r u m e i n d u s t r i a l n o i s e d a c u i s o r g e
Wishful Thinking), irrobustendo le trame come da copione (ad esempio la divertita ebbrezza country-funk di I’m the man who loves you e l’intrigante vaudeville di
Hummingbird). Si dimostrano abili i Wilco – ma non è una sorpresa - sia quando c’è
da mordere il freno (la dolente tenerezza di Via Chicago, la fragranza minstrel folk
- r i s p o l v e r a t a d a M e r m a i d A v e n u e - d i O n e B y o n e e A i r l i n e To H e a v e n ) s i a q u a n d o
va sbrigliata l’elettricità (la chitarra che divora spazio emotivo in coda a Muzzle of
b e e s , l ’ a r t p u n k p a r o s s i s t i c o d i K i c k i n g Te l e v i s i o n ) . M e g l i o a n c o r a s e q u e s t o c a p i t a
nel volgere della stessa canzone, come nella delicatezza melò di At least that’s what
you said, squadernata in un crescendo elettrico esplosivo.
Il canzoniere è di tutto rispetto, ti molla una carezza e un ceffone, un ceffone e una
carezza, così fino a quella Comment - cover di Charles Wright – che chiude in una
luce sì speranzosa ma in cuor proprio dimessa. Forse troppo. Già, perché qui sta forse l’unico rischio ravvisabile nell’entità Wilco: che in quel disarmo si esauriscano e
alla lunga ci esauriscano, che da loro non ci si possa attendere altro che l’ennesima
variazione della stessa accorata disanima. Ma è un rischio che vale la pena correre.
(7.1/10)
Stefano Solventi
sentireascoltare 59
musicale varia, orecchiabile e
mai noiosa. A dimostrarlo gli
ammiccamenti alla Nashville
tutta stivali e cappelloni di
H a l f w a y d o n e W i t h T h e To u r ,
l’armonica
blues
di
Vo d k a
Ta l k i n ’ – u n a s o r t a d i v i a d i
mezzo tra il già citato Beck
e la Not Fade Away dei Rolling Stones , i toni semiseri
e s c r a t c h a n t i d i Yo u r L a n g u a g e e Yo u ’ d B e S u r p r i s e d - J o nathan Richman impegnato a
giocare con mixer e piatti , la
dolcezza malinconica di ballate come Neon, Not The Night, il Bob Dylan più ritmico di
Sweet Eloise.
Una raccolta di brani che forse non farà dei newyorkesi la
next big thing di turno o degli
idoli stagionali del popolo indie ma che crediamo riveli una
band capace di confezionare
musica coinvolgente e gradevole, fatta con pochi mezzi ma
inaspettatamente lucida.
(6.3/10)
Fabrizio Zampighi
Wooden Wand And The Vanishing Voice – Buck Dharma
(5Rue Christine/Goodfellas,
13 Settembre 2005 )
Il 2005 è stato un anno cruciale per James Thot, in arte
Wooden Wand. La chiusura
della
P o l y a m o r y,
l’etichetta
che nell’ormai lontano 1996
allestì in modo spartano con
To v a h O ’ R o u r k e ( m o g l i e d i
John Olson dei Wolf Eyes e
motore creativo dei Dead Machines), ha coinciso quest’anno con il passaggio a 5Rue
Christine. Un po’ come andare ad incidere per una major
per uno cresciuto a cassette e
CDRs. In aggiunta a questo, ci
sono state una serie di ristampe, che hanno reso la reperibilità di alcuni dischi (Xiao in
particolare) qualcosa di meno
avventuroso.
Molti hanno parlato di freefolk, ma più che imparentati
a free-formers come No Neck
Blues Band o Sunburned Hand
Of The Man, Wooden Wand And
t h e Va n i s h i n g Vo i c e s e m b r a n o
60 sentireascoltare
più interessati a proseguire
la stagione acida degli anni
’60, virandola verso un gotico
americano sudista che li differenzia dagli altri. Il sogno lisergico dei Jefferson Airplane
e dei Grateful Dead affogato
nelle paludi blues e gospel di
New Orleans.
Buck Dharma è il primo lavoro
ad avere una distribuzione degna di questo nome e come biglietto da visita non potrebbe
essere più riuscito. E’ in pratica un riassunto delle puntate precedenti, che assembla
un’ora scarsa di musica onirica e visionaria (1). Parte
con Hideous Whisker & His
Woman, uno strumentale trattenuto e abbozzato, che non
sa decidersi se farsi canzone
o improvvisazione per poi immergersi, con Rot On, nei loro
tipici corridoi a base di chitarre riverberate. Il mantra acido
di Risen From The Ashes è un
po’ la continuazione della magnifica Cariboe Christ In The
G r e a t Vo i d p r e s e n t e s u X i a o .
La voce di Satya Sai Baba declama carismatica su un tappeto di chitarre wah wah che
pur non avendo la stessa magia di Jerry Garcia, lo prend o n o a m o d e l l o . L’ o n i r i s m o
del disco non viene mai meno,
anche nelle successive Satya
Sai Scupetty Plays “Reverse
Jam Band” e Steven The Harvester Presides O’er The Din
Of The-The Cups che evocano
gli incubi ambientali dei Pink
Floyd di Ummagumma.
Owl Fowl ha un finale da rituale pagano, che fa venire
in mente la collaborazione tra
Michael Gira e Dan Matz, mentre I Am The One I Am & He
Is the Caretaker Of My Heart
è un po’ la loro White Rabbit,
con Satya Sai Baba, impegnata a recitare la parte di uno
stravolto incrocio tra Grace
Slick e Ella Fitzgerald. Chiudono il disco due gemme nere:
il folk apocalittico di Spear Of
Destiny e la misteriosa e cerimoniale Wicked World che
scioglie Bob Dylan nell’acido
e ne fa danzare lo scheletro
su percussioni voodoo.
La musica di Wooden Wand And
t h e Va n i s h i n g Vo i c e t r a s f o r m a
il sogno hippie in un bad tripping, facendo più di qualche
riferimento agli archetipi della musica americana. Adesso
che hanno una distribuzione
migliore, potrebbero anche essere il passo successivo agli
Animal Collective e ai gruppi
s u Yo u n g G o d R e c o r d s , m a s i
sa… nemo propheta in patria.
(7.8/10)
Antonello Comunale
Yo La Tengo - Prisoners Of
Love: A Smattering Of Scintillating Senescent Songs 19852003 (Beggars Banquet – Matador / Self, 22 marzo 2005)
Ammirati quest’estate al festival Frequenze Disturbate di
U r b i n o , g l i Y o L a Te n g o p o s so essere considerati i portabandiera del rock alternativo americano. Alla soglia del
ventennio di carriera i coniugi
Ira Kaplan e Georgia Hublay
danno alle stampe su Matador una raccolta che tenta di
ricostruire la storia del loro
progetto attraverso una quarantina di pezzi (la versione
limitata contiene un terzo CD
di outtakes), impresa come
sempre ardua, a maggior ragione per una band che non ha
mai avuto cadute di tono e crisi creative e nella cui produzione non è facile individuare
degli hit single.
Si va dal suono velvettiano
di Shaker al velluto sonico di
From A Motel 6, dalla sognant e l o w - f i s o n g D i d I Te l l Y o u
alla soffice The Summer (pezzo uscito come unico originale
nella raccolta di cover Fakebook). Al tourbillon estatico
d i f e e d b a c k d i B a r n a b y, H a r dly Working si contrappone
la gemma acustica Stockholm
Syndrome, arricchita dal falsetto del bassista James McN e w . G l i Y o L a Te n g o h a n n o
esplorato ogni anfratto della musica indie senza cadere nella banalità, assimilando
spesso il suono del momento per darne un’interpretazione personale e sperimentale.
M e m o r a b i l i N u c l e a r Wa r, c o v e r d i S u n R a u s c i t a i n i z i a l m e n t e i n q u a t t r o v e r s i o n i d i ff e r e n t i , l ’ o r g a n o d i A u t u m n S w e a t e r ( c h e a p p a r e i n u n r e m i x d i K e v i n S h i e l d s ) e B l u e L i n e S w i n g e r, c a m a leontica suite ricca di cacofonie e riverberi, inno al rumore che chiudeva Electr-O-Pura.
Un album da procurarsi se si ha premura di gustare in un sol boccone l’evoluzione della band
dal 1986 a oggi, da affiancare magari a Human Amusements At Hourly Rates dei Guided By
Vo i c e s ( c h e c o n i N o s t r i e i S e b a d o h f o r m a n o l a “ s a c r a t r i a d e d e l l ’ i n d i e r o c k ” ) . F o r s e m e g l i o
mettersi a caccia dei singoli dischi in offerta o usati. Io consiglio di iniziare a scoprirli attraverso l’esordio Ride The Tiger o I Can Hear The Heart Beating As One, senza fretta.(6.0/10)
Paolo Grava
Animal Collective
dal vivo
Animal Collective - Circolo
degli Artisti, Roma (3 novembre 2005)
Curiosità,
impazienza,
euforia.
Queste
le
sensazioni dominanti, stasera. La più
sorniona e animalesca band
psichedelica
del
momento
inaugura il passaggio in Italia
proprio qui, nella Capitale.
Parliamo di quattro storti personaggi di casa a Brooklyn (o
più o meno sparsi per il mondo), di quattro selvaggi ragazzi bianchi che per la prima volta si ritrovano sul palco
tutti insieme, di quattro figure primitive, dai tratti sfocati, senza maschere e travestimenti (come molti, in realtà,
si aspettano): gli Animal Collective.
Introdotti da un prescindibile
Geoff Farina in versione so-
sentireascoltare 61
litaria e acustica (con conseguente evasione del pubblico
verso l’esterno) e dal comizio
musical-politico degli Evens di
Ian Mckay ed Amy Farina, tra
il rispetto per l’uomo Fugazi e
l’insofferenza per certi discorsi propagandistici (“Shut up
and play!”, grida una ragazza di Chicago dal fondo della
sala), i Nostri s’impossessano
del palco e dell’attenzione di
tutti i presenti con il loro folk
ancestrale, con le loro cavalcate lungo savane sterminate
di giochi di voci, intrecci psichedelici, furore ritmico, in
un continuum che non prevede
interruzioni di sorta (se non in
un paio di occasioni, ma giusto perché l’aria inizia a mancare).
Lo sciamano Geologist, con
la sua luce da minatore sulla
fronte - insieme vezzo e necessità -, è alla guida di una
trance che snocciola tutto l’ultimo Feels, dall’iniziale Banshee Beat alla scorribanda rumorista di The Purple Bottle,
fino alla convulsa Grass, senza dimenticare alcuni classici
d i S u n g To n g s ( L e a f H o u s e ,
We Tigers).
Il set è assieme rinascita collettiva e esperienza catartica,
luminescente impasto di suoni
e visioni che i Nostri, animati da una pulsione vitale che
pare inesauribile, articolano
in una trama che lascia ampi
margini
all’improvvisazione.
Un approccio liberatorio e ossessivo, che tuttavia - soprattutto nei cambi di tempo e nei
rilasci lisergici (ne è testimonianza più compiuta la tappa
bolognese il giorno seguente)
- lascia intravedere una certa asprezza, ovvero, il prezzo
da pagare per un praticantato
live latitante.
Il bilancio è comunque positivo per gli Animali delle voci
e delle vociaccie, delle chitarre e distorsori: ci mostrano
l’anticamera di un mondo che
appartiene all’essere umano,
ma di cui non possiede ormai alcun ricordo. La natura
62 sentireascoltare
e la modernità come vorremmo
coesistessero sempre. Gran
t a l e n t o . L’ e s p e r i e n z a a r r i v e rà.
Va l e n t i n a C a s s a n o e E d o a r d o
Bridda
Inteferenze 2005 – New Arts
festival (1 / 2 / 3 settembre 2005 – San Martino Valle
Caudina)
Sarà la formula gratuita, sarà
la stupenda cornice di un paes e c o m e S a n M a r t i n o Va l l e
Caudina, va da sé che il festival di new-arts Interferenze
cresce anno dopo anno. Giunta ormai alla terza edizione, la
manifestazione, che si è svolta in diverse location ubicate
nel suggestivo scenario dell’area dell’exMulino (zona Capofiume), anche quest’ anno
promette e conferma un cast
d’eccezione, sia per la sezione audio che installazioni,
video, conferenze, workshop,
software art.
Se la presenza dell’artista
russo Alexei Shulgin, coadiuvato da Alessandro Ludovico
di Neural, è il fiore all’occhiello dell’area tematica dedicata alle software-arts, e la
nutritissima area dedicata ai
vari tipi di installazioni (dove
svetta la presenza del collettivo milanese di architetti,
designers, media artists Limiteazero con l’opera Min_mod
e dell’artista finlandese Kati
Åberg con la video-installazione Emotions in Man) è come
sempre campo che convoglia
fascino e curiosità, il clou
delle tre serate sono le performance live, che tra luci ed
ombre riscaldano l’infreddolito pubblico per un assaggio
anticipato dell’inverno (campano-elettronico) che verrà.
La defezione forzata Nous
(ovvero Marco Messina e Meg)
permette al duo partenopeo
Frame di dilungarsi in una ottima
performance,
guastata
però da qualche piccolo contrattempo tecnico che ne vieta una finale degno. Problemi
che fortunatamente lasciano il
campo all’incubo Lynch-iano
della norvegese Maja Ratkje
e del collega (per la parte visual) Hc Gilje: un susseguirsi
di umori calmo/nervosi violentati da power-elettronics e
voce trattata alle macchine.
Il secondo giorno si apre con
la serietà di Mass (Mario Masullo) e lo stato di grazia di
Populous , ma il bello arriva
con trio all-female Midaircondo, una sorta di Laurie Anderson al cubo che dopo l’eccellente presenza al Sonar di
Barcellona deliziano i presenti
con una variegata formula tra
acustico (vedi la presenza dei
fiati), elettronico ed intrecci
vocali à la Bjork aneroide. Al
solito impeccabile e sospeso
tra groove minimal/metropolitani il set di Jan Jelinek , che
apre ideologicamente quello
che si è rivelato il valore aggiunto dell’intera sezione live
del festival: la prima assoluta
del progetto Initials BB, sigla dietro la quale si celano
Thomas Brinkmann e Natalie
Beridze (aka Tba). Peccato
però che il buon Thomas, protagonista unico del set con la
graziosa Natalie relegata alla
mera presenza scenica, scambi la cittadina campana per
la riviera romagnola, sciorinando due ore di manieristica
techno che sì rapisce il pubblico ma non allontana l’idea
di pochezza complessiva (cafona secondo molti) del tedesco in veste live. D’altronde
Brinkmann è cosi, prendere o
lasciare!
Deludenti le pose anni ’80 degli Slow Motion ed ineccepibile il dj set Ilic, che chiude ed
archivia l’ennesimo successo
di un festival la cui crescita
esponenziale lo pone tra i più
riusciti dello stivale.
Gianni Avella
Ardecore - Bronson (Ravenna,
23 novembre 2005)
Ardecore non è semplicemente
una passeggera quanto temporanea infatuazione per la tradizione degli stornelli romani,
di una Roma povera ma piena
d’orgoglio, quella dei reietti,
dei dimenticati, dei colpevoli
di troppo amore.
Dalla puntigliosa operazione
di rinnovamento – tutti i brani
in scaletta appartengono alla
tradizione musicale capitolina
- nascono struggenti episodi
di denuncia sociale – Come
te posso amà -, suite dilatate
a ff o l l a n o i l D e t o u r, u n m i n u scolo cineclub nel cuore di
Roma. Un’unica sala con settanta posti a sedere, il resto
in piedi, tutti in attesa della
luminescenza vocale di Nina
Nastasia. Ed eccola sbucare
dal camerino e attraversare
il corridoio di gente,che l’accoglie con un applauso scrosciante. Una sedia e un mi-
una voce – quella di Giampaolo Felici - che strappa il cuore
in mille pezzettini.
che sfiorano territori jazz – la
straziante Lupo de ’ fiume arrangiamenti quasi bandistici
(La Popolana).
Al centro musicisti capaci di
trovarsi a memoria, dal piglio
sicuro e la solida presenza
on stage, padroni di un background stilistico che parte dal
folk del De Andrè meno etnico
e arriva a toccare mondi a prima vista irraggiungibili come
quello degli spirituals.
crofono, questo è il suo palco.
Minuta e vestita di nero, senza
quella tipica treccia sul capo,
ma con la fluente chioma corvino sciolta sulle spalle, che
le incornicia il viso diafano.
Timidamente imbraccia la sua
chitarra.
Nina Nastasia
come del resto non rappresenta un revival nobile e edulcorato di certo folk rionale tutto
gnocchi e fettuccine. Ardecore è sinonimo di blues, musica
dell’anima, impatto emotivo
totale e destabilizzante, mediato tutt’al più da qualche
strumento
contrabbasso,
chitarra, sassofono, xilofono,
fisarmonica batteria - e da
Questa
l’impressione
dopo
averli ascoltati al Bronson di
Ravenna. Una band compatta,
dalla performance live intensa e senza fronzoli, capace
di raccontare l’’essere umano
declamandone le solitudini, le
insicurezze, le tensioni religiose, il coraggio di continuare a vivere anche nei momenti
più difficili. Storie di disperazione, storie di umili e lavoratori, canzoni d’amore strazianti, vibranti spezzoni di scenari
popolari. Murder Ballads le
definirebbe il buon Nick Cave,
che sottolineano un universo
di riferimento parte integrante
Fabrizio Zampighi
Nina Nastasia - Cineclub
Detour, Roma (11 dicembre
2005)
Non arrivano a un centinaio i
fortunati che, in una fredda e
umida domenica di dicembre,
Questa sera è sola: lei, la sua
voce, la sua musica. Con un
sorriso appena abbozzato, ammette di suonare per la prima
volta in un cinema. Location
insolita, vero, ma perfetta per
serbare e custodire germogli di un’incantevole fulgore
come Dogs (Socialist, 1999,
r i s t a m p a To u c h & G o / W i d e ,
giugno 2004), The Blackened
A i r ( To u c h & G o / W i d e , a p r i l e
2 0 0 2 ) e R u n To R u i n ( To u c h &
sentireascoltare 63
Go / Wide, giugno 2003). Tre
piccoli, riservati album tenuti in piedi da pochi e semplici elementi (una chitarra, un
pianoforte, un violino), che
in questa occasione poggiano esclusivamente sulla morbidezza del suo canto, sulla
linearità e sobrietà di cui è
maestra.
Brani come Stormy Weather e
Judy’s In The Sandbox sono
zucchero filato di folk fumoso
c h e s i s c i o g l i e i n b o c c a , To o
Much In Between è un veleno
di mestizia che si mescola al
s a n g u e d e l l a v i t a , Yo u , H e r
And Me è una marcia sussurrata che si gonfia di dolore,
Regrets è un vellutato sfarfallio jazzistico per sola chitarra, con un falsetto che si libra
in aria e bruscamente si piega
su se stesso, lama tagliente e
affilata che infilza il cuore.
Angelica nella sua oscurità,
la sua grazia ha intorpidito
gli occhi di tutti, infondendo
un calore di cui si sentiva il
bisogno. E dopo poco più di
un’ora, Nina si dilegua così
com’è stata accolta: veloce e
discreta, tra gli applausi del
pubblico.
Va l e n t i n a C a s s a n o
The Go! Team, Locanda Atlantide, Roma (3 dicembre 2005)
Una scossa di chiassoso entusiasmo arriva finalmente a
scuotere il Bel Paese, in un
inverno gelido che ancora si
stropiccia gli occhi e si stiracchia le ossa. Dopo la languida
pacatezza dream pop di Her
S p a c e H o l i d a y, o v v e r o M a r c
Bianchi (un godibile intrattenimento di chitarra minimale, semplici beat elettronici e
loop di archi), fischio di trombe e largo ai sei giovanissimi
di Brighton, Regno Unito. Sorridenti e colorati, interscambiabili agli strumenti come le
f i g u r i n e P a n i n i , i G o ! Te a m s i
lanciano in una corsa a perdifiato nel guazzabuglio dell’
a l b u m d i d e b u t t o ( T h u n d e r,
Lighting, Strike), trascinando
con loro un pubblico - nume-
64 sentireascoltare
roso e ben disposto - preso
letteralmente d’assalto. Non
risparmiano le energie, non
lesinano un solo brano (da
Panther Dash a Bottle Racket), esaltati come sono da
quel diavolo nero di Ninja MC
al microfono, che sembra avere polmoni d’acciaio, tanto si
dimena frenetica nel suo completino da ragazza pon pon. E
non è un caso che sia riuscita
a strappare in più di un’occasione un timido coro dalle
ugole dei presenti, frastornati
da un’ora di hip hop sgangherato, con ben due batterie a
tenere un ritmo spasmodico e
incalzante, ché rimanere fermi e impassibili é pura utopia
(Ladyflash e Junior Kickstart
gli apici).
Un’invasione
di
allegria
e
buon umore, con conseguente e visibile soddisfazione di
tutti, ma se proprio vogliamo
fargli le pulci allora diciamo
pure dei volumi troppo alti
della strumentazione, del suono - certo a sorpresa - saturo
e potente delle chitarre, quasi una voglia di strafare che
ha penalizzato non poco le
voci (valore aggiunto nel disco). Colpa del fonico o meno,
i l c o l l e g e p a r t y d e i G o ! Te a m
funziona, devono solo macinare un po’ di strada insieme.
Va l e n t i n a C a s s a n o
we are demo
a cura di Stefano Solventi
Capita spesso che i demo siano pervasi da una smaccata,
flagrante voglia di emulazione. E’ naturale. Anzi, per molti versi è un percorso opport u n o . Ta n t o , a n c h e n e l l ’ i p o t e s i
estrema di un tasso imitativo
da cover band, resterà sempre
una differenza, non solo qualitativa (e mica per forza alla
meno) ma anche sostanziale.
Proprio quello scarto è il terreno (vergine?) dove piantare – volendo e se esistono - i
semi della propria singolarità.
Prendete i Six Red Carpets,
ad esempio. Non fanno mistero di guardare al rock - senza neanche troppe pretese
alternative - di Radiohead e
Smashing Pumpkins, condito
aggiungo io da un essenziale turgore White Stripes e da
bave dark-psych vagamente
Placebo. Ne risultano le tre
tracce di Upon, A Ring, che
confermano questa programmatica sudditanza, bazzicando però brumosi territori wave
(l’angolosa veemenza della title track, tra vampe elettriche
e aspersioni apocalittiche The
Bends), irrisolte tensioni lo-fi
(l’indolenza Pavement, gli arpeggi pixiani, la psych avariata di Love Amphetamine) e una
verve fiabesca e pazzoide di
stampo Elf Power (la levigata
drammaticità, le allucinazioni
liquide dei synth e la percussività radente della conclusiva
A n i w a y ) . Vo g l i o d i r e , l ’ i n e v i t a bile tributo da pagare ai propri modelli/idoli non è – non
deve essere sentito come – un
limite. Non necessariamente,
a l m e n o . Va v i s s u t o c o m e v i e ne, una tappa prima di qualcos’altro. I Six Red Carpets
sembrano averlo capito bene.
Unico appunto, la voce: lascia
intravedere capacità considerevoli (una fibra irrequieta &
indolenzita), ma occhio alla
pronuncia. Oppure – perché
no? - si faccia un pensierino
a l l ’ i t a l i a n o . Vo t o : 6 . 5 / 1 0
Potremmo fare considerazioni analoghe anche per i Devocka. Anzi, di più. Questo
quartetto da Ferrara - due
anni di vita che stanno fruttando l’imminente debutto in
lungo - mi fa pervenire un ep
omonimo con cinque tracce
toste, wave ghignante su cui
imperversa il recitato aspro di
F a b i o I g o r To s i . F a n n o p e n s a re a una versione adrenalinica
dei Diaframma più bruschi (la
wave marziale di Gracili istanti, decorata di arpeggi e incandescenze Echo & the Bunnymen) oppure ad un Giorgio
Canali colto da feroce rigurgito CCCP (il noise al guinzaglio, i sussulti dell’invettiva,
il basso stolido dell’iniziale
Controllo).
Devocka
rimanda all’atroce Alex di Arancia
Meccanica, perché in tal modo
l’ineffabile drugo usava chiamare le ragazze-pollastrelle
da spiumare. Ragione sociale
che ben s’accorda con la parossistica crudezza di Insane
(l’unico brano in inglese, dove
Dead Kennedys, Killing Joke e
Richard Hell sembrano un conato solo) e coi singulti marziali di Nota uniforme, sorta
di noise-punk come lo avrebbe
potuto intendere un Jim Morrison. In entrambe balenano
squarci di angosciosa pensosità, che prendono forma di
sardonica ballata in Marzo, tra
incendi di corde e basso effettato, una bella voce femminile
al controcanto e quel chorus
che a dirla tutta tradisce ovvietà folk come certi spompi
Modena City Ramblers. Sono
lanciati, hanno una bella personalità, insomma ci credono.
Vo t o : 6 . 9 / 1 0
Proseguiamo il discorso coi
Te n i a , i l c u i e p P a r e t i d i l a n a
potete liberamente scaricare
dal loro sito (vedi nella sezione link) con tanto di copertina
ad alta risoluzione. Tre pezzi
intensi che mirano al bersaglio
del blues psych italico, ovverosia secondo le rivisitazioni
romantiche, languide, inquiete, veementi, nevrotiche che
ne hanno dato Afterhours e
Marlene Kuntz. Naturalmente
la situazione è un po’ più complessa, c’è da fare i conti con
quello scarto, quella peculiarità irriducibile di cui dicevamo, ciò che in fondo rende interessante la questione. Detto
infatti che Polistirolo è scossone post-punk solcato da una
bella vena noir e ossuta giga
di chitarre, nella ballata Dossi artificiali il tipico andamento Marlene sembra sfaldarsi tra il piglio art-rock delle
corde (che sembrano sfuggire
al corpo stesso della canzone) e quel bridge che spalanca irose acidità, peccato
solo che la melodia non brilli
anzi rischi di somigliare ad un
sentireascoltare 65
l e m m e c a n t i l e n a r e Ve r d e n a .
Gioiellino stilistico è quindi
Ancora sotto vetro, plausibile
anello di congiunzione tra la
compagine di Agnelli e i migliori Tiromancino, e se non ci
credete beccatevi la disinvolta convivenza tra spossatezza reggae e liquori soul-rock,
tra quei vocalizzi parossistici
e il caracollare opalino degli umori seventies. Confesso
di aspettarmi molto da loro.
Vo t o : 7 . 1 / 1 0
Completiamo il quartetto con
una svolta decisa. Il progetto
Electro Plastic Box – moniker
di Robert Nava, manipolatore di tastiere e batterie sintetiche – sboccia con disarmante anti-tempismo rispetto
allo tsunami electroclash di
qualche stagione fa. Tuttavia,
quel cocciuto solipsismo che
rischia di esserne il principale difetto è in qualche modo
la sua salvezza, sfociando in
una cifra espressiva efficace,
essenziale, senza sbrodolamenti. Al buon Robert insomma interessa di più consumare
un rito ludico/meditativo attorno alle possibilità residue del
genere che non inchinarsi al
tal guru o al talaltro santone.
Ok, a volte sembra un po’ gli
Ya z o o i n v e n a d i f a n f a l u c h e ,
un Moroder teutonizzato, dei
Visage marziali (si veda Fish
& Chips), altrove dei Kraftwerk formato videogame, un
Hancock electro che spande
arzigogoli e singulti (Electric
Potato). Ma l’impronta più profonda la imprime quell’impasto
di ammiccamenti e minacce,
ghigni
e
spernacchiamenti,
crepitii e vapori che struttura la breve Pop-Corn Chips
(uno sfarfallio fuori fase, una
tranqui-dance
aeriforme)
e
la conclusiva Electro Plastic
Box, funk sforbiciato da minutaglie sintetiche, inturgidito
da un groove gommoso che ne
fa esperienza quasi tattile, da
bambino nella stanza dei gioc h i . Vo g l i a d i s t u p o r e e i n s i dia, frammenti di rappresentazione che smazzano l’astratto
66 sentireascoltare
e il concreto, l’uno sempre più
nel corpo dell’altro. E’ troppo
presto (il progetto nasce solo
l’estate scorsa) e troppo poco
per giudicare, ma quel che
s ’ i n t r a v e d e è b u o n o . Vo t o :
6.7/10
classic
Red Crayola
La Parabola del Signore dei Pastelli
di Martino Lorusso
Autentico e incompreso iniziatore della psichedelia americana negli anni
’60, figura di spicco del post punk inglese, spirito guida dell’intellighenzia post rock di Chicago, Mayo Thompson è uno dei personaggi più illuminanti
e trasversali della storia del rock . Una lunga storia quella dei Red Crayola, raccontata dal suo stesso ideatore con passione e lungimiranza.
«Mi stai chiedendo se il rock
mi abbia salvato la vita o semplicemente me l’abbia resa più
semplice
e
interessante?…
beh, fondamentalmente penso
che non ci sia differenza tra le
due cose!» (Mayo Thompson)
Confrontandolo
alla
mastodontica mole di produzione
artistica - laddove per “arte”
si intenda la costante ricerca
di un prodotto sperimentale
e
all’avanguardia,
pertanto
di complessa e a tratti ostica
fruizione -, Mayo Thompson
si presenta come un personaggio alquanto presente a sé
stesso, dotato di un aplomb
discreto e minimale, raffinato
nell’aspetto,
assolutamente
cordiale nel modo di offrire la
sua comunicazione all’altro…
una
comunicazione
calda,
piacevole, spunto di interessanti flashback che abbracciano, in una visione grandangolare, oltre trentacinque anni
di onorata carriera.
Stupisce più d’ogni altra cosa
l’umiltà con la quale Mayo,
mente affascinante, instancabilmente volta ad un costante
superamento delle dimensioni
già esplorate (per ripartire
sentireascoltare 67
con slancio ugualmente denso
d’energia e carico di stimoli
verso nuove mete), si pone nei
confronti
dell’interlocutore,
che senza accorgersene si ritrova perfettamente a proprio
agio e libero da ogni timore
reverenziale di sorta.
Una dote che rende ancor
più apprezzabile una figura la cui sola spinta vitale,
mai esauritasi, come dimostra l’immane attività, sarebbe bastata per emergere tra
molti, destinati a differenti
esiti: dall’elementare dispendio d’energie, a un’irrazionale
ed
inconsapevole
autodistruzione, entrambi estremi di
una condizione d’artista forse
non più padrone di sé, in balia
dell’esterno o della sua stessa
personalità, in una sperimentazione decostruttiva, la cui
fine viene scritta in anticipo.
Rivoluzione trasparente: i
primi indelebili solchi tracciati nell’arabile terra del
rock, tra attitudine freak e
avanguardia
Difficile pensare a un gruppo
che abbia incarnato ed espresso
così
perfettamente
l’idea di “psichedelia” come i
Red Crayola, pur senza definirsi pretenziosamente psichedelico, per il semplice fatto
di suonare fuori tono, servirsi
di insoliti ammenicoli in guisa di strumenti o seguire una
ferrea dieta di sostanze in
grado di aprire le porte della
percezione. La band di Mayo
Thompson, il solo elemento
stabile di un nucleo (originariamente
formato
anche
dal bassista Frederick Barthelme e dal batterista Steve
Cunningham) che ha mutato
incessantemente
forma
per
quasi quattro decenni e intorno al quale ha ruotato un
collettivo di oltre cento musicisti, è stata senza dubbio
una delle realtà più originali
emerse dall’America dei tardi
anni ’60; a suo modo unica, al
più avvicinabile per peculiarità stilistica, carica innovati-
68 sentireascoltare
va/rivoluzionaria/dissacrante
e - duole dirlo - scarsa considerazione tra i contemporan e i , a n o m i q u a l i Ve l v e t U n derground, Captain Beefheart,
Frank Zappa, dai quali tuttavia il texano ha sempre preso
le distanze. «In realtà non ci
siamo mai considerati parte
dell’underground o della controcultura di cui loro erano i
fieri portavoce, non volevamo
essere
catalogati,
eravamo
dei cani sciolti e del resto anche la gente ci percepiva divesamente… come autentici
“weirdos”, tipi davvero strani… a differenza di chi era
“professionalmente
freak”,
tipo Zappa». D’altra parte è
indubbio
come
l’esperienza
dei Crayola si sia dispiegata
lungo traiettorie parallele a
quelle tracciate dai suddetti
personaggi,
condividendone
anche aspetti musicali, incarnando la medesima aura mitologica, muovendosi con lo
stesso spirito precursore di
tempi & mo(n)di musicali, pur
senza mai intersecarle. Forse
anche per il nomadismo fisico
(e intellettuale) di Thompson,
mai del tutto a suo agio in un
continente, quello americano,
incapace di dare gli stessi input e stimoli culturali di un
Europa sicuramente più vicina
alla sua sensibilità artistica;
né autenticamente in grado,
d’altra parte, di recepire un
output così in anticipo rispetto ai tempi e alle realtà
coeve, perfino quelle legate
all’etichetta che ha messo sul
mercato i primi due straordinari lavori della band.
La presenza dei pastelli rossi
nel roster dell’International
Artists di Lelan Rogers, infatti,
appare quanto meno singolare
se si confronta la loro proposta musicale con quella degli
altri gruppi che hanno inciso
per la storica label texana - a
cominciare dai 13th Floor Elevators - certamente più legati
a un retroterra garage rock, a
“form(ul)e tipicamente stone-
siane/beatlesiane”, meno disposti a un’effettiva manipolazione della materia sonora.
Caratteristiche
chiaramente
riscontrabili nella musica dei
Crayola,
autentici
pionieri
nel rivoluzionare la struttura
stessa della canzone rock sin
dalle fondamenta, dilatando
lo spazio della composizione,
scardinando la sequenza strofa-ritornello-bridge-strofa
in favore di soluzioni meno
costrittive, includendo suoni
realizzati da chiunque e con
qualunque
strumento/oggetto/metodo. «Non penso che i
Red Crayola abbiano distrutto
qualcosa o screditato qualcuno… abbiamo semplicemente
utilizzato i linguaggi musicali
esistenti, del resto nessuno ci
ha chiesto di inventare nulla;
la musica è un “fatto materiale” e non c’è modo di decostruire, scomporre un fatto
materiale… abbiamo manipolato gli idiomi e giocato con le
forme ma il nostro scopo non
era certamente quello di distruggere».
Concettualmente simile alle
Mother ’s Auxiliary di Zappa,
la Familiar Ugly dei texani è
una banda sconfinata di personaggi - per inciso non solo
musicisti - costruita intorno a
uno zoccolo duro, costantemente in progress e destinata
a svolgere i compiti più disparati, dal semplice lavoro
manuale alle scorribande rumoristiche sul palco. «Se si
presentava la possibilità la
Familiar Ugly si esibiva, rivelandosi per quello che era: io
dicevo “andiamo ragazzi facciamo un po’ di rumore!” e nessuno si tirava indietro. Abbiamo cominciato come una sorta
di progetto aperto perché ci
sembrava il modo migliore per
avere la massima libertà espressiva. Le alternative non
avrebbero funzionato e non
erano da prendere in considerazione per me».
Esemplificative dell’attitudine
realmente psichedelica della
band, le free form freak-out
del primo epocale The Parable of Arable Land (IA, 1967)
sono magma ribollente di vibrazioni cacofoniche che investono l’ascoltatore, spesso
con violenza inaudita, e dal
quale spontaneamente emerge
il suono “organizzato” delle
canzoni. Similmente a una
scultura liberata dal blocco di
marmo grezzo che l’avvinghia,
la musica si aggrega e prende
vita dall’energia primigenia
del rumore, per poi esserne
nuovamente risucchiata in un
progressivo frantumarsi dei
legami che ne reggevano la
costruzione razionale/armonica. A distinguere l’approccio
dei Red Crayola da quello
di
altre
bande
psichedeliche
dell’epoca
è
proprio
l’importanza & il ruolo attribuiti al fattore rumore, allorché da semplice contorno/
contrasto o intermezzo, diviene esso stesso elemento
centrale della composizione,
all’interno del quale si fanno
largo faticosamente strutture
canoniche e tonali. Eppure è
un elemento mai sopito del
tutto, che attende felino sullo
sfondo per tirare la zampata
al momento più opportuno e
inaspettato. Altro tratto distintivo è la disposizione dei
pastelli alla contaminazione e
apertura verso linguaggi altri
dalla musica pop(ular): il filo
che lega talune intuizioni con
i poemi elettronici di Edgar
Va r e s e e l a m u s i c a a l e a t o r i a d i
John Cage è tutt’altro che sottile e trascurabile (si ascoltino
per esempio la free form freak
out che segue Pink Stainless
Ta i l e l a s t o r i c a I o n i s a t i o n
del parigino), né va sminuito
chiamando in causa il rigore
scientifico e l’approccio sistemico di quei pionieri della
sperimentazione: ci troviamo
chiaramente di fronte a contesti, background e percorsi
formativi distanti anni luce e
dunque non direttamente confrontabili.
Enfatizzare
però
l’aspetto
dissacrante del’opera, ergendolo a valore assoluto della
stessa vorrebbe dire adombrare la bellezza di sei canzoni altrettanto eccentriche
ed emozionanti: a cominciare dall’incalzante Hurricane
Fighter Plane, propulsa da tre
note di basso ripetute e percussioni squinternate, agitata
da un pulviscolo vorticoso di
rumorini in cui galleggia un
organo liquido in stile Wright
(sarebbe interessante sapere,
tra Pink Floyd e Red Crayola,
chi abbia influenzato l’altro).
E non si finirà mai di tessere
l’elogio di Transparent Radiation, anthem lisergico il cui
potenziale psichedelico sarà
messo in luce e (di)spiegato
- vent’anni dopo - nella cover degli inglesi Spacemen 3
(splendida come l’album che
la contiene: Perfect Prescription, Glass 1987). Si tratta
probabilmente del brano più
importante di tutta la psichedelia americana, di cui sono
presenti alcuni dei tratti archetipici: chitarre in reverse,
voci/strumenti e rumori che
viaggiano in libertà da un canale
all’altro,
sottoposti
a
frequenti alterazioni di tono/
timbro/volume,
un’armonica
chiesastica che giunge a toccare
l’empireo.
Sembrano
animate dallo stesso spirito dionisiaco le progressioni nevrotiche di War Sucks,
veemente invettiva contro la
g u e r r a , e P i n k S t a i n l e s s Ta i l ,
in cui si consuma il rito orgiastico tra suono & rumore, in
un continuo, animalesco e liberatorio (com)penetrarsi dei
due elementi. La title track,
sinfonia cacofonica di clangori, stridii, fischi, urla, voci
fuori campo, strumenti struprati selvaggiamente e chi più
ne ha più ne metta è il preludio al rilascio tensionale che
sancisce/scandisce il ritorno
dal viaggio, Former Reflections Enduring Doubt, epifanica presa di coscienza del
cambiamento. «Eravamo per-
sentireascoltare 69
fettamente
consapevoli
che
stavamo cambiando le cose,
che stavamo creando una musica diversa dal blues revival… per carità, non ho nulla
contro il blues, lo adoravo anche io quando ho iniziato ma
non avevo nessuna intenzione
di suonarlo, volevo creare
qualcosa di mai udito prima»
Le benedizioni non bastano:
dai viaggi nella California di
John Fahey al naufragio commerciale dell’influente God
Bless
L’ a t t i v i t à c o n c e r t i s t i c a d e l c o l lettivo si divide tra concorsi
per band emergenti e festival
di nicchia, tra cui vanno citati
i trip californiani dell’Angry
A r t s a l Ve n i c e P a v i l i o n e d e l
Berkley
Folk
Festival
(entrambi risalenti all’estate del
1967),
le
cui
sconvolgenti
performance
sono
immortalate nel doppio album Live
1 9 6 7 ( D r a g C i t y, 1 9 9 8 ) . N e l
secondo disco compare anche
una lunga e ipnotica jam con
J o h n F a h e y, u n o d e i p o c h i a r tisti realmente apprezzati dal
gruppo. «Non ci piaceva nulla
di quello che si sentiva in giro
all’epoca, detto francamente.
Restammo molto delusi dal
primo album dei Grateful Dead
da cui ci aspettavamo qualcosa di nuovo… quando andammo in California, l’unica
musica che volevamo ascoltare era quella di John Fahey
e ci proposero di incontrarlo
per lavorarci insieme, fu fantastico! Registrammo un doppio album con lui a Berkley…
la International Artists venne
a sapere la cosa e si impuntò
per averlo prima del nostro rit o r n o i n Te x a s . C o n m o l t a r i luttanza lo spedimmo e - non
si sa come - l’etichetta perse
i m a s t e r, c o n n o s t r o g r a n d e
rammarico…»
Se qualcuno, compresi i discografici della IA, può attendersi una normalizzazione del
suono dopo un esordio così bizzarro, chiaramente si sbaglia
70 sentireascoltare
di grosso: il successivo Coconut Hotel si avventura lungo
sentieri ancor più impervi, al
punto di essere categoricamente rifiutato dall’etichetta
texana, per andare alle stampe
solo trent’anni più tardi (nel
1 9 9 5 ) , g r a z i e a l l a D r a g C i t y.
L’ a l b u m è u n c a m p i o n a r i o d i
stranezze, dai famigerati onesecond pieces ai monologhi di
feedback, passando per quadretti concréti, escursioni folkpsych per chitarre acustiche e
improvvisazioni al pianoforte.
«Un pezzo di un secondo è il
più compresso istante che si
può ottenere da una composizione coerente: un suono,
due suoni, quattrocentomila
o infiniti suoni concentrati
nell’arco di un secondo - che è
una microporzione del brano.
Ve n n e r o f u o r i d a l l a n o s t r a a m mirazione per Cage e la sua
opera… evidentemente c’era
ancora qualcosa da fare in
quella direzione; i one-secondpieces pongono anche delle
domande
all’artista:
“messi
all’inizio del disco fungono
da introduzione alla prima
canzone, posti dopo la prima
canzone rappresentano la sua
conclusione o l’annuncio della
seconda?” oppure “quanto silenzio devo lasciare prima e
dopo i pezzi?”. Se pure questi
dettagli possono sembrare banali, oltre alla struttura interna, modificano la percezione
dell’opera… certo, dietro di
loro c’è un concetto ma io ho
sempre creduto che “la musica
è l’idea”»
Chiamando in causa la musica
delle Accademie, i Red Crayola si chiedono, come altri
complessi rock dell’epoca - si
pensi a Zappa o ai Pink Floyd
di Ummagumma -, se sia possibile (e attraverso quali dinamiche) applicare alla musica pop le pregevoli intuizioni
maturate negli ambienti colti.
Se gli esiti non sempre corrispondono a quelli auspicati
e spesso le sperimentazioni
restano fini a sé stesse, tal-
volta le idee si concretizzano
in composizioni inaudite. Accade di frequente nel successivo God Bless The Red Krayola And All Who Sail With It
(IA, 1968), realizzato dopo la
dipartita di Barthelme a cui
s u b e n t r a i l v a l i d i s s i m o To m m y
S m i t h . L’ a l b u m r a c c o g l i e v e n ti brevi affreschi dalle tinte
variegate
e
profetiche
ma
ben
lontane
dall’apocalisse
della parabola - spostandosi
il fuoco sulla forma canzone,
di cui vengono esplorate possibilità & confini. Senza voler nulla togliere all’unicità
dell’esordio, God Bless riesce
ad essere ancor più antesignano e influente per le generazioni future, pur non configurandosi come progetto organico e
u n i t a r i o . P r o g r e s s i o n i j a z z y,
ritmiche spezzate o ipnotiche,
coretti
sgangherati,
chitarrine sghembe, numeri da cabaret, pastiche dada, continui
cambi di registro… in queste
tracce così slegate possiamo
trovare i semi di tante esperienze a venire: dal kraut rock
alla new wave, dal post rock
al cantautorato lo-fi. «Molti
ravvisano in God Bless delle
somiglianze tra i Red Crayola
e la scena rock tedesca degli
anni ’70. In realtà noi abbiamo
iniziato a suonare prima dei
Faust, dei Can e di altri gruppi krautrock… non conoscevamo né ascoltavamo quella musica. Sicuramente esiste una
relazione tra noi e loro ma
ritengo sia puramente casuale, abbia a che fare con le
idee che si trovano alla base
dell’espressione
musicale
piuttosto che con il modo di
realizzarle e suonare. Ci sono
diverse cose che ci separano
da loro… prendiamo i Can, li
trovo sicuramente meravigliosi ma alcune loro composizioni sono costruite su una nota
di basso ripetuta all’infinito, è
un concetto estremo e interessante che può rivelarsi utile
ma a volte può essere anche
limitante, quel tipo di cose
personalmente mi andavano
strette»
Com’è
consuetudine
nella
storia della musica, le grandi rivoluzioni spesso passano inosservate agli occhi dei
contemporanei,
per
essere
comprese nella loro reale portata solo a distanza di anni; e
nella statistica che raccoglie i
gruppi dissolti dall’insuccesso
commerciale figurano anche i
Red Crayola.
Mayo Thompson però è un tipo
che non si piega facilmente e
due anni dopo lo ritroviamo
in sala prove con l’intento di
incidere il suo primo album
solista, questa volta circondato da un nugolo di artisti
appartenenti proprio a quella
polverosa tradizione musicale
con cui i Crayola avevano giocato al tiro al piattello nei
primi due dischi: la leggenda
di Houston Frank Davis, Roger
D r. R o c k e t R o m a n o e l a s u a
band, e altri personaggi del
giro country/blues. Tuttavia
C o r k y ’ s D e b t To H i s F a t h e r ,
prodotto dalla piccola e prematuramente
fallita
Te x a s
Revolution, non giunge nei
negozi prima della fine degli
anni ’80, quando la label inglese Glass si adopera per la
sua
pubblicazione.
Ristampato dalla Drag City nel ’95,
Corky’s resta l’album più accessibile di Thompson, alternando morbide canzoni d’amore
velate di psichedelia a blues
elettrici e pianismi boogie da
locale fumoso.
Gli slogan del soldato: dall’incontro con l’arte concettuale inglese alla traversata
dell’Oceano, inseguendo la
nuova onda
Mente straordinariamente ricettiva e animata da una curiosità sconfinata, il texano
entra in contatto proprio in
quegli anni con un gruppo di
artisti concettuali londinesi
a t t i v i a n c h e a N e w Yo r k , g l i
Art & Language. Dalla collaborazione nascono svariati progetti (non solo musicali) tra
cui Corrected Slogans (Music
Language, 1976), un’opera di
meta-musica che lascia convergere l’eclettismo stilistico
di Mayo con l’ideologia pro-
fessata dal collettivo, in un
confronto dialettico che si
articola lungo venti scarne
composizioni,
ciascuna
arrangiata per voce(/ i) & uno
strumento. I testi, cantati tanto da soprano quanto da amatori poco intonati, scanditi a
mo’ di filastrocca o recitati
alla maniera di spoken word,
fanno riferimento a tematiche
di natura filosofica, politica e
sociologica. «In genere io mi
occupavo della musica e loro
scrivevano le lyrics… con gli
Art & Language ci interrogavamo su questioni interessanti tipo: “chi è il musicista”,
“cos’è la musica” e soprattutto “quando… è la musica”, in
quale momento avviene l’atto
creativo».
La necessità di interagire in
maniera più diretta con i nuovi
collaboratori spinge il texano
a volare oltreoceano per sbarcare nella vivacissima Londra,
dove nel 1978 con il batterista
Jesse Chamberlain riforma i
Red Crayola. In quel momento la metropoli vive nel fermento sollevato dalla nuova
sentireascoltare 71
onda: la rivoluzione punk ha
cambiato il modo di approcciarsi
all’esperienza
artistica, percepire l’atto creativo
e comunicare con il pubblico;
è uno sconvolgimento che ha
già imboccato la via del tramonto ma le cui conseguenze
sono
destinate
a
protrarsi
negli anni a venire: l’idea del
“tutti possono farlo” ha indotto molti ragazzi a concepire
la musica come forma di espressione & prosecuzione del
proprio Sé, e aperto le porte
a un’invasione di gruppi dalle
sonorità
spesso
divergenti,
eppure guidati da un comune
sentire. Proprio nel periodo
di crescita esponenziale della
new wave, Thompson inizia a
frequentare alcuni musicisti
inglesi per poi entrare in contatto con la Radar Records di
A n d r e w L a u d e r, c h e - i r o n i a
della sorte - ha appena ristampato i primi due lavori della
band per il mercato britannico, probabilmente riconoscendo in essi i prodromi di quanto sta creando l’esuberante
scena nazionale. «A proposito del rapporto con gli artisti
della new wave… più che una
comunione di idee si trattava
di un comune “sentire”. David Thomas ne è la testimonianza diretta… erano molte di
più le cose su cui eravamo in
disaccordo di quelle su cui la
pensavamo alla stessa maniera. Posso identificare delle
categorie o delle caratteristiche filosofiche descrittivamente accurate da applicare
alla musica punk che è una
“chiesa larga”: ci sono diversi tipi di punk, dai Sex Pistols, a un estremo, ai Desperate Bycycles, all’altro… e
nel mezzo un’intera gamma di
artisti new wave. Autedeterminazione, spirito d’iniziativa,
autoproduzione,
quindi
un’
attitudine
“do
it
yourself”
[…] all’epoca importava molto l’idea di ciò che la gente
stesse facendo, di cosa fosse
buono, bello e virtuoso… in
definitiva di cosa valesse la
72 sentireascoltare
pena fare. Quel modo di essere aveva a che fare con il
“dire di no”, o il “dire di sì a
qualcos’altro”, con l’idea di
“alternativo”… ci si chiedeva
cosa permettesse all’artista
la scelta di un’alternativa al
comune
sentire/agire.
Allo
stesso tempo esistevano delle
difficoltà e tutta una serie di
problematiche legate al punk,
che tirava in gioco l’identità
sociale, sessuale, ecc… ma
all’epoca io ero fuori da tutto questo, non appartenevo
a nessuna comunità di quella
chiesa. Svolgevo delle attività,
avevo dei progetti, e in essi è
possibile individuare ciò che
dividevo con quelle persone…
che ovviamente non erano tenute ad avere i miei stessi
punti di vista: ero americano,
di un’altra generazione, avevo
dieci anni più di loro, valori
differenti, un modo diverso di
apprendere e fare le cose….
dovevamo solo suonare e se
c’era il giusto feeling tra di
noi,
accadeva
qualcosa
di
unico e irripetibile ma le cose
potevano anche non funzionare».
S o l d i e r Ta l k ( R a d a r , 1 9 7 9 ) è
l’opera più a fuoco di questa
seconda fase dei Red Crayola,
esala l’afflato psichedelico in
favore di un’urgenza espressiva di i(n)spirazione punk,
sostenuta da ospiti del calibro della sassofonista Lora
Logic (X-Ray Spex, Essential
Logic) e dei Pere Ubu - quasi al completo. Lo spettacolo
messo in scena è una nevrosi
che brucia progressivamente
ogni sinapsi, tra ritmi forsennati e sconnessi, tagliati
a fette da chitarre affilatissime (On the Brink, Conspiration Oath, la splendida X),
marcette da sagra dei funghi
allucinogeni (march no.12 e
no.14), isteriche copule progpunk (Letter-Bomb) e jam improvvisate da reduci di guerra
i m p a z z i t i ( S o l d i e r Ta l k , D i s c i pline). Il cambio di ritmo alla
fine di An Opposition Spokes-
man, che in una manciata di
secondi, da free-jazz si fa
kraut-motoristico per detonare in un’esplosione punk finale, da solo vale l’acquisto
dell’album.
Materiale infiammabile: dall’esperienza di produttore per
l a R o u g h Tr a d e a l l e c o l l a b o razioni con la scena free-jazz
tedesca
La
congiuntura
è
favorevole perché Thompson possa
mettersi in gioco anche su
altri
fronti:
parallelamente
all’esperienza Crayola, il Signore
dei
Pastelli
intraprende una frenetica attività di
produttore per la storica Rough
Trade, che gli procurerà non
poche soddisfazioni. I migliori
dischi del post-punk britannico pubblicati dall’etichetta inglese tra il ’78 e l’81 accrediteranno il texano al banco di
regia: Monochrome Set, Stiff
Little Fingers, Raincoats, The
F a l l , C a b a r e t Vo l t a i r e , J a m e s
“ B l o o d ” U l m e r, B l u e O r c h i d s ,
Scritti Politti. «Cercavo di
carpire il sound naturale di un
gruppo ed evidenziarne i tratti
distintivi, se potevo fornire
una prospettiva in grado di indirizzare i musicisti nelle proprie scelte lo facevo, anche se
il mio lavoro consisteva principalmente nell’assicurarmi che
quella musica finisse su nastro. Sono orgoglioso di tutti i
dischi e gli artisti che ho prodotto, dagli Stiff Little Fingers
di Inflammable Material alle
Raincoats, da Mark E. Smith
& T h e F a l l a i C a b a r e t Vo l t a i r e
di Nag Nag Nag. Rimasi un po’
deluso da Lawrence Hayward
dei Felt, gli missai il disco ma
lo rifiutò perché riteneva che
la sua voce non fosse sufficientemente in primo piano e
quindi fui costretto a rifare il
mix… in generale il suo comportamento da popstar mi lasciò piuttosto perplesso perché
non lo immaginavo così, ma
il disco era il suo e naturalmente dovevo adeguarmi! C’è
solo un album la cui produzi-
one è stata assolutamente
deludente per me ed è quello
dei The Chills, perché fondamentalmente a loro il disco
non piaceva, non erano felici
di suonarlo ma lo produssi
ugualmente… finito il missaggio praticamente fuggii dallo
studio, il giorno dopo ero già
f u o r i c i t t à ! Ve r s o l a f i n e d e g l i
anni ’80 le cose si erano fatte
troppo complicate e non ero
più in grado di stare al banco
di produzione, gli studi si iniziavano a riempire di strumenti
sempre più complessi, macchinari che automatizzavano molti processi, enormi computer…
in realtà amo indiscriminatamente tutti i mezzi di produzione e le tecnologie disponibili
e se si presenta l’opportunità
di utilizzarne una non mi tiro
Trade, 1981), sorta di rivisitazione pop degli Slogans, e
Black Snakes (Rec Rec / Pure
Freude, 1983), che sposta
le coordinate verso ritmi più
f u n k y, q u a s i a ’ l a M a t e r i a l .
E’ un periodo quanto mai prolifico per Thompson che con
Ravenstine e il ritrovato Jesse
Chamberlain sforna un altro
mini album, Three Songs On A
T r i p To T h e U n i t e d S t a t e s A n d
Bismarkstrasse, 50 (Reccomended / Pure Freude, 1983),
inciso in Germania - sua nuova dimora - e comprendente
versioni live di brani estratti
d a S o l d i e r Ta l k e d a i l a v o r i
realizzati con Baldwin & soci;
oltre a tre nuovi pezzi, tra cui
è opportuno segnalare quantomeno l’inedita vena darkwave di Caribbean Postcard.
indietro ma io ero legato a
un’altra idea di produttore,
anche più “romantica”, se così
si può dire…»
Sempre attivo all’interno della Rough Trade come produttore, il texano indossa con
perfetto aplomb anche l’abito
del manager: sarà proprio lui
a presentare il “regista delle
libertà” Derek Jarman agli
Smiths, pubblicandone i primi video. Le nuove frequentazioni tedesche si collocano
anche nel giro avant jazz,
vecchio pallino di Mayo, risolv e n d o s i n e l l ’ a l b u m M a l e f a c t o r,
Ade (Glass, 1989), cui prende
parte tra gli altri il maestro
dell’improvvisazione Rüdiger
Carl (COWWS Quintet).Prova
esemplare di eclettismo & capacità di rielaborazione, la
raccolta è un pregevole tentativo di contaminare idiomi ben
distanti (& distinti), come acc a d e i n E x p r e s s e F r a n z Vo n
Assisi, stralunate canzoncine
scandite da balbettii robotici
di clarinetto, trombone e batteria. Altre perle sono custodite nel blues devitalizzato
di Baby Jesus Frog e nella
marcetta demente per psicopatici in libera uscita Blue
Jeans; piuttosto insolite ma
altrettanto degne d’attenzione
le manipolazioni elettroniche
incise sull’altra facciata del
lp (effetti, tape loop…). «Malefactor è essenzialmente un
Con alcuni artisti new wave
sorge un’affinità destinata a
sfociare spontaneamente in
un rendez-vous con i Crayola: è il caso di Gina Birch
(Raincoats) e Epic Soundtracks (Swell Maps), che dopo
aver suonato in Microchips &
Fish(*1979) - primo 12” della
Rough Trade - diventeranno
membri effettivi della band. Il
lato A dell’EP è un ballabile
strapazzato da chitarre atonali, sorta di punk-funk ante litteram dai toni raccapriccianti
(al punto da indurre il compianto John Peel ad azzardare
previsioni infauste sulle sorti
dell’etichetta!). Le incursioni
nei territori della danza postmoderna continuano con il singolo Born in Flames(*1981),
synth pop mandato in orbita
dagli
acuti
anfetaminici
di
Lora Logic, subito eletto ad
anthem da discoteca alternativa.
Si arricchisce di nuova linfa
anche l’esperienza con i teorici dell’Art & Language, grazie
agli album Kangaroo? (Rough
lavoro di studio… oltre al pittore Albert Oehlen era coinvolto un musicista free-jazz,
Rüdiger Carl… suonò delle
linee di clarinetto su un tape
recorder e noi le manipolammo, rigirandole e rivoltandole
da capo a piedi così da poterle utilizzare in diverse tracce.
Eravamo molto soddisfatti del
risultato finale… fu anche la
prima volta che utilizzai delle
drum machine al posto della
batteria»
La gente è pronta: dall’avventura con la scena avant
rock di Chicago alle fatiche
dell’ultimo entusiasmante
tour mondiale
Lasciato lo zampino in altri
dischi dell’intellighenzia germanica, all’inizio degli anni
’90 il fondatore dei Crayola
pone termine alle sue peregrinazioni europee per fare
ritorno in patria, mosso dalla
ricerca di nuovi stimoli e forse
subodorando aria di cambiamento. La nuova destinazione
non è esattamente l’arido Sud
che gli ha dato i natali bensì svariate miglia più a nord - la
ventosa Chicago, il cui sfaccettato sottobosco musicale
sta iniziando proprio allora a
parlare una lingua comune e
acquistare una sorta di unità
d’ intenti che indurrà la stampa specializzata a definire
una “scena” locale. A trainare
il carrozzone post rock chicagoano, una serie di personaggi
dall’indubbio talento, curiosi
divoratori di ogni musica possibile, animati da uno spirito
D . I . Y. d i a s c e n d e n z a p u n k m a
di ben più larghe vedute, tra
cui
il
chitarrista/produttore
Steve Albini, John McEntire
(batterista/percussionista dal
tocco inconfondibile), il jolly
Jim O’Rourke e il compagno di
merende David Grubbs. Proprio quest’ultimo, da sempre
grande estimatore dei pastelli
(per i quali nutre la stessa riverenza che un musicista può
avere nei confronti di chi lo
ha indotto a imbracciare per
sentireascoltare 73
la prima volta lo strumento),
introduce Thompson nel giro.
«Non li conoscevo ma avevo
ascoltato alcuni dei loro dischi, con David Grubbs avevo un
amico in comune che mi chiese
di produrre un album degli
Squirrel Bait ma all’epoca ero
in Inghilterra e la cosa non si
fece. Un giorno David mi chiamò al telefono, si presentò e
mi chiese se potevamo vederci
per fare quattro chiacchiere;
quando lo incontrai a Chicago
ci fu subito una grande affinità tra noi e lo stesso accadde
con McEntire e gli altri… anche perché loro conoscevano
bene la nostra musica e io
apprezzavo molto il fatto che
fossero intenzionati a creare
qualcosa di nuovo. Registrai
un demo con sei canzoni che
David fece ascoltare ai tipi
della Drag Cirty» La storica
label indipendente non esita
a prendersi l’onere (e l’onore)
di ristampare buona parte del
materiale inciso dal texano,
oltre a dargli la possibilità di
ritornare in studio.
La prima nuova uscita sulla
lunga distanza è l’omonimo The
Red Krayola(DC, 1994), che
annovera tra i credits anche
i l t a l e n t o d e l l a s e i c o r d e To m
Wa t s o n ( S l o v e n l y, O v e r p a s s ) e
l’artista visuale Stephen Prin a . L’ a r i a c h e t i r a t r a q u e s t e
diciassette tracce (tutte sotto i
tre minuti) è frizzante, pregna
di tensione (positiva) e vivace
quanto quella che si respira
negli incontri improvvisati - a
casa, in studio, nei club - tra
i musicisti coinvolti… amici
prima di tutto, ragazzi a cui
piace bere una birra, attaccare gli amplificatori e tirare
fuori l’anima dai loro strumenti. E’ un clima rilassato &
fecondo - a suo modo simile
a quello dei lontani & utopici
anni ’60 -, che tira fuori il lato
più creativo di Thompson, ben
percepibile nella lucentezza
accecante di episodi come
Book Of Words - irresistibile
nel suo (s)rotolarsi umorale
74 sentireascoltare
tra coretti e chitarrine pruriginose -, l’arrembante People
Get Ready (The Train’s Not
Coming), il raga trasfigurato
di I Knew It, e 101st, di cui
entusiasma l’interplay voce/
chitarre/batteria. La scrittura
resta a fuoco anche quando i
toni si fanno più dimessi: in
P e s s i m i s t r y, c h e i m p l o d e p r o prio sul punto di prendere il
volo, nelle sinistre (Why) I’m
So Blasé e The Big Macumba,
nella sonnolenza oppiacea di
S u d d e n l y.
Il successivo mini Amor &
Language (DC, 1995) riunisce
una pletora di ospiti illustri
tra cui il leggendario George
Hurley
(Minutemen,
fIREHOSE), subito reclutato come
nuovo batterista della band.
Trattatello di morbida psichedelia, l’album smussa molti
spigoli & asperità del suono
Krayola, preferendogli superfici più levigate che utilizzano
materiali tradizionali, dal folk
al country-blues. Spostando
l’accento sulla melodia, in un
confronto dialettico con il ritmo, che possa generare forme/
strutture allo stesso tempo
ricercate
&
fruibili,
Hazel
(DC, 1996) è la naturale prosecuzione del discorso intrapreso due anni prima, la vetta
più alta raggiunta dal texano
d a i t e m p i d i S o l d i e r Ta l k ; u n
cammeo avant-pop che mostra
ancora una volta come Thompson sappia recepire gli input
più disparati senza cadere
nella facile (e comoda) tentazione di adattarvisi, riproponendoli
pedissequamente,
quanto piuttosto manipolandoli, rigirandoli tra le dita e
premendoli nella formina della
sua spiccata personalità. Tipico esempio ne è la gemma
dell’album, Duke Of Newcastle, un reggae trasfigurato che
narra la marcia di un soldato
cristiano: della musica in levare resta solo l’afflato corale, bianca è invece la leggerezza delle voci. I duetti con
Grubbs
sprigionano
incanto
ad ogni nota e hanno l’aria
del passaggio di consegne dal
maestro all’allievo: alla levità wyattiana di I’m So Blasé
fanno da contraltare il folk
magmatico di Larking e gli incastri chitarristici di Another
Song, Another Satan. Il tocco
dell’intellighenzia
chicagoana si sente particolarmente
nelle reiterazioni di Duck &
Cover e nelle distorsioni posthardcore di GAO, altro vertice dell’album, come pure
nell’umorale
alt.country
di
Falls (commovente l’assolo finale di banjo) e nella cameristica We Feel Fine. Il rumorismo
post rock trova infine un punto di contatto con l’attitudine
psichedelica
di
Thompson
nell’elettronica cheap di Boogie e in Father Abrahm, moderna free form freak-out che
fornisce anche l’assist per il
lavoro seguente.
Ultimo tassello del trittico su
D r a g C i t y, F i n g e r p a i n t i n g ( D C ,
1999) è una via di mezzo tra
un divertissment e un tentativo di misurarsi con il passato, nella fattispecie provando a disseppellire lo scheletro
del leggendario The Parable
Of Arable Land per impiantargli un corpo nuovo e ricamarci
intorno un abito altrettanto
stravagante.
Naturalmente
questa volta il campionario di
suoni & rumorini viene generato (anche) da mezzi più
moderni e teconologici - a
partire da una drum machine
che appare/scompare dal mix
in maniera più o meno casuale -, oltre ad essere in parte
estrapolato da vecchie registrazioni. «Ci chiedevamo: “è
possibile ripetere la struttura
di Parable ora? In che modo
possiamo approcciarci a quel
materiale sonoro in questo
momento e quali possono essere gli effetti su di noi e
sull’ascoltatore?”
Avevamo
dei pezzi non utilizzati in Parable, dato che all’epoca la IA
ci aveva chiesto solo sei delle
dieci canzoni che avevamo
scritto, e quindi recuperammo
i restanti per farne uso in Fin-
gerpainting. La cosa curiosa
è che quei brani avevano una
struttura piuttosto semplice,
basata su tre accordi, anche
perché
all’epoca
le
nostre
capacità tecniche erano piuttosto limitate… è chiaro che
rispetto a Parable cambiavano
sostanzialmente le condizioni produttive ma noi abbiamo
sempre puntato a lavorare con
le migliori tecnologie disponibili, e non per feticismo… Steve Albini è uno fissato per la
tecnologia [ride], un lunatico
dell’analogico - Dio lo benedica! è un uomo straordinario -,
lui usa valvole, microfoni vecchio stile e tutto un armamentario di strumenti vintage. E’
un piacere collaborarci, è un
gentiluomo… conosci il disco
A m o r & L a n g u a g e ? L’ h a m i s sato lui, l’unico motivo per cui
non ho voluto che comparisse
nei credits è perché aspettavo
quel giorno da una vita e così
gli ho semplicemente detto
“grazie”! [ride]»
Anche nel maelstrom cacofonico di Fingerpainting si
(ri)compongono
pseudo-canzoni, dai titoli spesso strampalati tipo Sow With an Abbess’s Bonnet Is Sitting on
Four Rock-Objects and Singing oppure Out of a Trombone
That Is Divided Lengthways by
a Partition of Gold Sou, la lunga suite che chiude l’album.
Curioso notare l’affinità di
alcuni brani (Bed Medicine,
Te a r s F o r E x a m p l e ) c o n i d e liri metropolitani dei primi
Suicide e dei Can più acidi,
d’altra parte in queste tracce il cerchio si chiude: i Red
Crayola che nella loro opera
pioneristica hanno inlfuenzato
dapprima i krautrocker e di riflesso i complessi new wave
più radicali, entrambi ispirazioni dirette per le eminenze
grige del post rock, infine recuperano le proprie origini in
un percorso a ritroso compiuto
proprio al fianco della loro ultima discendenza generazionale, quella rappresentata da
Grubbs & soci.
Tra singoli, apparizioni come
ospite in svariati dischi e compilation, due nuove produzioni - il mini Blues Hollers &
Hellos (DC, 2000) e la colonna sonora Japan in Paris in
L.A. (DC, 2004) - e la raccolta
Singles(DC, 2004), la carriera
di Thompson approda all’oggi,
a questo 2005 segnato da
una mai così frenetica attività concertistica che ha toccato gli USA, l’Europa - con
un’indimenticabile
parentesi
italiana - e il Giappone. Una
carriera, durata quasi quattro lustri, senza essere il
benchè minimo intaccata dalla polvere dell’oblio, né minata dall’insidia del deja vu
e dell’inaridimento; piuttosto
tesa al continuo sperimentare, rimescolare, ribollire che
diviene testimonianza tangibile di ciò che potenzialmente
un essere umano produca, utilizzando in modo costruttivo
la sua facoltà razionale, partendo da presupposti animati da uno spirito conoscitivo
così puro da rendere anche
l’assunzione di incentivi sintetici, miccia positiva, piuttosto che pericolo estemporaneo o latente. «Ci considerano
tutti un gruppo d’avanguardia,
in effetti forse lo siamo stati,
visto che avevamo delle teorie, dei progetti, un programma
ma ora in America non esistono più le condizioni perché
ci sia l’avanguardia, forse in
Europa sono ancora presenti
ma da noi l’avanguardia è diventata “ufficiale” negli anni
’60 e a mano a mano che diveniva pubblica io smettevo di
pensare in quei termini… ho
prodotto degli album destinati
a persone che naturalmente
avevano bisogno di dare un
nome alle cose, di etichettarle, catalogarle e così è accaduto. A volte i nomi erano
adeguati alla nostra proposta
musicale altre volte no… ho
anche iniziato a pensare che
un giorno avrei dovuto rac-
contare la vera storia di quel
periodo, ma sapevo che anche
se lo avessi fatto nessuno mi
avrebbe creduto e avrei suscitato solo ilarità, e ad ogni
modo dubito che queste informazioni potrebbero mai interessare a qualcuno… non
ho mai pensato che la musica
potesse rivoluzionare il mondo, le implicazioni sociali del
suonare
rock’n’roll
restano
legate alla “grande famiglia”
del rock’n’roll… so già quale
sarà la prossima domanda:
mi chiederai se il rock abbia
almeno salvato la mia vita o
quantomeno me l’abbia resa
più interessante… beh, la risposta è affermativa e fondamentalmente penso che non
ci sia differenza tra le due
cose!»
(si ringrazia Mimma Schirosi
per la preziosa collaborazione)
sentireascoltare 75
note a margine
a cura di Giulio Pasquali
The Stranglers
Anni Bui
Gli anni bui degli Stranglers, ovvero l’oscurità nella quale è piombato negli ultimi 15 anni uno dei gruppi di spicco del punk/new wave, dopo cambi
di formazione e alterne vicende che ne hanno segnato irrimediabilmente la
storia.
“Bui”, in un certo senso, gli
Stranglers lo sono sempre
stati. Già agli esordi, secondo
i testimoni dei loro primi concerti, “emanavano dal palco un
senso di minaccia”, che negli
anni darà vita a un curriculum
fatto di risse, incidenti, date
annullate e pubbliche prese
furono anche arrestati, vedi
Nice In Nice, da Dreamtime).
Il nero entrerà di prepotenza
nel loro immaginario (diventando tra l’altro il colore unico dei loro abiti) col terzo album, Black And White (1978),
e con il brano Meninblack, dal
successivo The Raven (1980),
riose che secondo la leggenda
urbana rapiscono le persone
e le fanno sparire per conto
del governo. O degli extraterrestri, secondo la versione
accettata dal gruppo, che all’argomento dedicherà il successivo The Gospel According
To T h e M e n i n b l a c k ( 1 9 8 1 ) i l
di posizione di consiglieri comunali, degno dei Sex Pistols
(storici, tra gli altri, i disordini all’università di Edimburgo, a Lisbona e a Nizza, dove
che darà loro un soprannome
che si porteranno dietro a lungo, sebbene in realtà la canzone parlasse degli “uomini in
nero” americani, figure miste-
quale, con i cognomi dei musicisti cambiati in “in black”
nei credits, consacrerà il soprannome.
76 sentireascoltare
Ma non è in questo senso che
parliamo di anni “bui”: vogliamo parlare dell’oscurità nella
quale è piombato negli ultimi 15 anni uno dei gruppi di
spicco del punk/new wave che
negli anni ‘80 aveva ottenuto,
sebbene a fasi alterne, alcuni
buoni successi commerciali.
A parte la notizia di qualche
mese fa sul Mucchio Selvaggio che annunciava un ritorno
in grande stile da tempo immemore, dal ‘ 90 in poi pochissime sono state le notizie
a proposito del gruppo. Il che
è piuttosto strano, se si considerano i burrascosi esordi,
costellati non solo dagli incidenti durante i concerti, ma
anche da un gran numero di
scandali e polemiche di varia
natura.
Turbini che hanno messo più
volte a repentaglio la carriera del gruppo la cui musica,
nata in epoca punk, in realtà
si allargava tanto nel passato, con le tastiere doorsiane
di Greenfield e l’ariosità sixties, quanto nel presente, con
la grinta punk e lo spirito oltraggioso dei testi; e pure nel
futuro, in quanto già si intravedevano strutture complesse
ed un grado di elaborazione
che proiettava il punk oltre
se stesso, verso la New Wave
(se questa parola, dopo esser
finita a designare sia i Pere
Ubu che i Duran Duran, ha ancora un senso).
Un passaggio questo, che la
musica inglese dell’epoca dovrà in parte proprio al loro The
Raven (1979), uno dei capolavori della band, che abbandona alcuni dei marchi di fabbrica della prima fase (organetto
doorsiano, basso esplosivo,
voce grottesca e beffarda), a
favore di un suono maggiormente articolato.
Ma dicevamo del 1990: un
anno centrale nella storia del
gruppo, non solo per l’uscita
del decimo album in studio,
10 per l’appunto (per inciso,
peggior disco fino a quel pun-
to della loro carriera, proprio
come il precedente Dreamtime), e per l’abbandono del
cantante e chitarrista Hugh
Cornwell (che lascia all’indomani del concerto inciso sull’album Saturday Night, Sunday Morning), ma soprattutto
perché si colloca esattamente
nel mezzo della storia della
band,
dall’organico
“classico”, al giorno d’oggi.
La stranezza della storia degli Stranglers sta nel diverso
peso che hanno avuto certi
anni rispetto ad altri.
Fatti salvi i primi tre anni della gavetta, l’incontro tra Hugh
Cornwell e Jet Black (batteria), e il contratto discografico, i dischi “storici”, sono
stati incisi nell’arco di cinque
anni, dal 1977 al 1981: Rat-
tus
Norvegicus
(1977),
No
More Heroes (1977), Black
And White(1978), The Raven
(1979), The Gospel According
To T h e M e n i n b l a c k ( 1 9 8 1 ) , e
La Folie (1981); poi, nel 1982,
il cambio di casa discografica, otto anni di relativa tranquillità (a parte le liti interne, in particolare le tensioni
tra Cornwell e il bassista Jean
Jacques Burnell) fatta di pop
(i tuttavia ancora belli Feline
del 1983 e Aural Sculpture del
1984) e infine la caduta plateale dei succedanei Dreamtime (1986) e 10 (un disco studiato a tavolino per sbancare
gli USA che si traduce in un
fiasco totale).
I primi 15 anni della band formano già una carriera fatta e
finita, eppure ve ne sono altrettanti dalla sostituzione di
sentireascoltare 77
Hugh Cornwell con Paul Roberts alla voce e John Ellis
alla chitarra, non certo da applauso.
Con la nuova formazione gli
Stranglers
inaugurano
nel
1992, la terza generazione
con In The Night, un album
che sembrerebbe possedere
le carte giuste fin dal titolo
(letto dopo il nome del gruppo risultava “Stranglers In
The Night”), che non lesina un
a s s o i n a p e r t u r a ( T i m e To D i e ,
un western con base dance ai
livelli dei vecchi Stranglers),
non facendosi mancare nemmeno il (disgustoso) “ratto
norvegese” del primo album.
Tuttavia i difetti sono dietro
l’angolo: il canto di Roberts,
tra alti e bassi, non possiede
il carisma di Cornwell, anzi,
oltre a Ian Mc Culloch degli
Echo & the Bunnymen, tocca
p e r s i n o l e c o r d e d i To n y H a d ley degli Spandau Ballet (!)…
stilisticamente e a livello di
produzione, il platter avvicenda certo pop anni ‘80 e suoni
mainstream (per esempio nelle distorsioni delle chitarre),
canzoni non proprio incisive, che nelle tronfie Heaven
Or Hell e Grand Canyon raggiungono picchi in negativo
assoluti (si ascoltino versi
“seri” quali “guardo i giornali
e non credo a ciò che leggo”
, o“Grand Canyon, lo spazio
tra di noi mi spezzerà il cuore”). Altri brani, come Laug h i n g A t T h e R a i n , T h i s To w n
e Southern Mountain prodotti
diversamente avrebbero avuto
78 sentireascoltare
qualche chance in più. Never
See si salva ma il problema
è un altro: se in passato era
difficile catalogare lo stile dei
Nostri, ora la difficoltà maggiore è trovare in loro la personalità.
Tra il 1994 e il 1995, in piena
esplosione brit-pop, il nome
Stranglers torna a far parlare
i media: una delle varie “big
things” della stampa inglese
è un gruppo quasi completamente femminile, le Elastica, il quale prima racconta in
un’intervista di essersi formato grazie a un annuncio (sullo stesso giornale) nel quale
si cercavano “appassionati di
Stranglers e Wire”, e poi pub-
blica due canzoni plagiando le
stesse band. Nessun dubbio:
il giro di basso di Waking Up è
identico al riff di No More Heroes (nemmeno la più ignota,
perché non Peaches, a quel
punto?), e anche il tribunale
ne è convinto: obbliga le giovani a corrispondere alle band
scopiazzate parte dei guadagni dei brani.
In qualche modo, gli Stranglers tornano in classifica…
Il 1995 è anche l’anno dell’abbandono temporaneo di Jet
Black, che rientrerà dopo l’album About Time (dello stesso
anno, e il relativo tour). Il disco trova i favori della critica,
tuttavia è una raccolta di brani mediocri. Al solito l’iniziale Golden Boy (Gianni Rivera
non c’entra nulla...), un rock
nel più classico Stranglers
style, conferma la tradizione
anni ‘90: il primo brano è sempre il migliore.
Da ricordare il singolo Lies
And Deception, un valzer delicato dal ritornello easy considerato un piccolo classico di
q u e s t i a n n i , e P a r a d i s e R o w,
che ricorda i Doors come non
mai. Per il resto, le solite
canzoncine, con l’eccezione
di She Gave It All e Lucky Finger la cui debolezza compositiva è compensata dalla buona
performance strumentale.
Due anni dopo, è la volta di
Written In Red (1997), che da
un lato presenta i soliti difetti, ma dall’altra mostra a tratti
una ricerca più consapevole
e mirata rispetto alle “ameri-
canate” di In The Night. Anche in questo caso, buone le
recensioni, ovvero buona la
p r i m a Va l l e y O f t h e B i r d s , c h e
forte del riff preso di peso da
No More Heroes, vuole forse
essere una risposta alle Elastica. Il resto dell’album, infatti, è disseminato di piccoli
e grandi autoplagi: In A While presenta più di uno spunto da The Raven, Silver Into
Blue vede Roberts copiare
Cornwell, Joy De Viva, ricorda la struttura del classico
Who Wants The World?. Per
quanto riguarda la ricerca di
cui si diceva essa funziona
soprattutto a livello di produzione (Blue Sky e Summer In
The City), quanto alle canzoni buona Daddy’s Riding The
Range, un elaborato tempo di
valzer “nascosto” nello stile
d i G o o d b y e To l o u s e ( m a n o n a
quei livelli).
Per i Nostri che ci credono,
insistono e dichiarano “non
puoi fermarti, perché se ti fermi mentalmente sei morto”, è
l’ennesimo timbro del cartellino, ma piuttosto che limitarsi a un’intensa attività live,
nel 1998, a solo un anno di
distanza, pubblicano Coup De
Grace.
Due album così ravvicinati
non li pubblicavano dal 1984
(e i risultati erano stati ben
altri), e in mezzo c’era stato anche il live con gli archi
Friday the Thirteenth; tuttavia, se la scarsa ispirazione
poteva far temere la scomparsa dell’Universo, in realtà la
dati argentini seppelliti senza
nome nelle Falklands), c’entra
poco con lo stile del gruppo,
ma anche qui gli arrangiamenti rendono bene. Il resto sono
lentacci, pallide reminescenze vecchi Stranglers, melodie
s c i o c c h e ( Yo u D o n ’ t T h i n k T h a t
W h a t Yo u ’ v e D o n e I s W r o n g ) e
una title track à la Ramones
l e n t i ( t i p o P e t S e m a t a r y, p e r
capirci).
Ciliegia sulla torta un libretto
che accompagna i non eccelsi
testi ( con non eccelse né utili
spiegazioni): praticamente un
manuale boy-scout con tanti
saluti all’ironia di un tempo.
Nel 2000 anche il chitarrista
John Ellis lascia, a rimpiaz-
te in gioco la band.
Rispetto all’ultima foto di copertina (Aural Sculpture) la
formazione s’è allargata a
cinque, quei volti pur torvi e
meno minacciosi di un tempo
(persino l’irrequieto Burnell
ha un’aria più matura) hanno prodotto – e diciamolo, finalmente, - un album fresco,
compatto e grintoso con un ritrovato gusto per l’ironia.
Più inquietante degli sguardi
fotografati è il fatto che gli
Stranglers siano tornati allo
stile degli album pre-The Raven, facendo dimenticare le
produzioni anonime, quando
non ruffiane, dei dischi seguenti a Aural Sculpture (e
non solo post-Cornwell).
Norfolk Coast ha dato ragione
alla caparbietà degli Stranglers.
raccolta non è più brutta delle
precedenti. E comunque, per
non sbagliarsi, lo sforzo successivo giunge soltanto sei
anni dopo.
L’ a l b u m p a r t e c o l s o l i t o c o l po di classe per poi peggiorare immediatamente e riprendendosi soltanto alla fine.
Un classico canovaccio, nel
quale troviamo un gusto per
certo easy listening rétro (ma
Bacharach era stato usato meglio ai tempi di Walk On By),
qualche sperimentazione etno
techno indiana prima che andasse di moda (God Is Good),
echi Primal Scream (No Reason), e valzer con tocchi swing
(In The End).
Il rétro funziona in Known
Only Unto God, nella quale gli
archi accompagnano una tipica melodia inglese d’altri tempi (e un testo dedicato ai sol-
zarlo Baz Warne che esordisce dal vivo con la band …
in Kossovo! Già, perché, in
questi ultimi anni, il lavoro
(ahem, l’attività) live ha portato gli Stranglers a suonare
all’estero per le forze armate britanniche come, prima
di loro, avevano fatto nientemeno che Marlene Dietrich
e Marylin Monroe per quelle
USA. Certo una caratteristica
insolita nella biografia di un
gruppo punk, non meno enigmatica dell’aver prodotto in
passato un disco che attribuiva la scrittura della Bibbia
agli extraterrestri.
Ma se queste notizie dal fronte paiono inchiodare il gruppo a un destino parodistico,
secondo soltanto a quello dei
Simple Minds (tanto per rimanere nella New Wave), Norfolk
Coast, uscito nel 2004, rimet-
sentireascoltare 79
classic
album
perfettamente armonici alla
normalità. E intanto, in virtù di questo, covare idee ed
energia per garantirsi un futuro da “outsiders integrati”.
Lottare da dentro e di fianco e
in obliquo. Accanto.
I Pavement, da Stockton, California: cinque studenti univers i t a r i i n v a s a t i d i Ve l v e t U n d e r ground, Replacements e Sonic
Yo u t h ( t r a g l i a l t r i ) . L a n o t i z i a
del loro “split” mi lasciò stranito, tuttavia per nulla sorpreso. E’ facile dirlo oggi, ma
Te r r o r T w i l i g h t – a p a r t i r e d a l
titolo – mi suonò proprio come
un canto del cigno. E non perché sia un disco stanco o arreso: semmai il lavoro di una
band che fa il punto della situazione e scopre di avere già
Pavement – Terror Twilight
(Matador, 1999)
Avete presente il video alternativo di Major Leagues?
Mi riferisco a quello più accattivante e “potabile”, con la
band colta in rilassante scazzo durante una pazzoide partitella a minigolf. Se la band
ostenta l’aspetto trasandato/
trasognato di sempre (forse
più di sempre), Stephen Malkmus fa lo sbruffone narciso su
collinette erbose, languido il
suo sguardo in camera, l’aria
complice al punto da imbar a z z a r t i . L’ e ff e t t o d ’ i n s i e m e è
più buffo che beffardo, tutto
sommato innocuo, amichevole. Ecco, guardando e riguardando quel clip credo di aver
capito un paio di cose sui Pavement: che quel loro impeto
amarognolo e angoloso, quel
disarmante tour de force antistilistico, quel loro ridendo &
sferzando, non era altro che
una mascherata, un necessario dispositivo d’autodifesa.
Offrire il minor profilo possibile. Esercitare una strategia
defilata da consapevolissimi
perdenti. Muoversi rasoterra,
80 sentireascoltare
oltrepassato il traguardo, quas i s e n z a a c c o r g e r s e n e . Vo g l i o
dire, questo disco non è una
vetta, è una collina: ma che
bel paesaggio, che colori, che
luce morbida, che aria tiepida
e tremolante. Prodotto da un
Nigel Godrich reduce dai fasti
Radiohead e Beck, dipana un
programma lisergico e svagato: folk psichedelico, quadretti
venati di nostalgia, meditazioni irrequiete e vibranti, ballate in bilico sul collasso emotivo. Episodi come Folk Jam,
Speak, See, Remember o Billie sbandierano una profusione di stilemi blues e folk che
- per quanto sottoposti a perturbazioni asprigne – spostano l’iconoclastia su posizioni
ben più concilianti. Sembrano
aver capito, i cinque ormai ex
ragazzi, il rischio di suonare
a vuoto in uno scenario apparentemente inscalfibile. Sembrano seduti sulle macerie immaginarie di un incantesimo
che sanno bene di non poter
demolire.
E,
naturalmente,
non sono felici.
Da cui quel vago, opalino,
persistente sentore di nostalgia. Se Cream Of Gold compie
doveroso omaggio all’altare
del post-grunge, il resto del
programma bazzica territori
decisamente meno vigorosi.
Praticamente un festival delle
ballate sull’orlo di acidule visioni: le meditazioni BeatlesByrds dell’iniziale Spit On A
S t r a n g e r, i l c a r a c o l l a r e t r a s l u cido di Ann Don’t Cry – dalle
vaghe ascendenze Lou Reed
- o la malinconia obliqua di
The Hexx in cui la scia dei Big
Star incrocia quella irrequiet a d e i Te l e v i s i o n . E p p o i M a j o r
Leagues, certo: aromi country a speziarne l’inquietudine
dissimulata, una tenera, accomodante mestizia. Il clip alternativo di questa canzone fu
realizzato perché quello “ufficiale” si rivelò ostico per gli
s t a n d a r d M T V, c o l s u o g r a n u loso pseudo-amatoriale dove
un ragazzo munito di enormi
cuffie canticchia il pezzo assistendo ad incontri di wrestling
di serie zeta. Per questo fu
deciso di correre ai ripari, e
meno male. Tra i due video
corre infatti uno iato estetico
nel quale (consapevolmente?)
si rivela la “funzione” di questo disco: mitigare la minaccia, differire la beffa, disinnescarsi per segnare i confini di
una nuova appartenenza. Mimetizzarsi per non farsi vedere (prendere) più. Ciao ciao.
Ecco perché la genialoide allegria di …And Carrot Rope
- fantasmi vaudeville, sciocchezze rag, scorribanda beat,
centrifuga Kinks, Lennon/McCartney e Pixies - ti congeda
con una stringente uggiolina
nel cuore. Che nessun Malkmus solista o Preston School
of Industry – per quanto dignitosi e anche buonissimi – potranno mitigare.
Stefano Solventi
Orange Juice - The Glasgow
School (Domino, 2005)
Strano il destino degli Orange Juice, capostipiti del pop
scozzese e misconosciuti precursori di suoni che diverranno
in seguito familiari con Aztec
Camera, Smiths, Pastels, la
C86 e la Creation.
La
compilation
The
Glasgow
School documenta i loro primi passi con la label Postcard
Records di Alan Horne, etichetta
scozzese
dalla
vita
esigua, per cui incisero anche
Josef K e gli australiani Go
Betweens.
Nella Glasgow del ’79 Edwyn
Collins e soci (con un passato
come band punk, i Nu-Sonics,
a partire dal 1976) formatisi
a l l a s c u o l a d i Ve l v e t , B y r d s ,
della psichedelia pop dei ’60
e del soul di Stax e Motown,
fanno il loro esordio con una
serie di fulminanti 45 giri, che
fondono pop e jingle jangle,
funk e white-soul, con una
vena
melodica
prorompente e inconfondibile. Del punk
abiurano la degenerazione nel
machismo e l’imperizia tecnica, ponendosene in antitesi
fin dal nome (autoironico e in
odor di psichedelia) scelto.
Preparano un album (Onwards And Upwards) e un singolo (Wan Light) per la Postcard
nel 1981, ma sono convinti
da un produttore a cercare
u n c o n t r a t t o c o n u n a m a j o r, e
trovano la Polydor disponibile. Le cose non vanno come
sperato e l’album viene rimaneggiato per uscire ripulito
n e i s u o n i c o n i l t i t o l o d i Yo u
C a n ’ t H i d e Yo u r L o v e F o r e v e r
( P o l y d o r, 1 9 8 1 ) , c u i s e g u i r a n no una manciata di dischi, con
cui gli Orange Juice conosceranno anche un breve successo commerciale. Il gruppo poi
si scioglie agli inizi del 1985
e Collins prosegue, tra alti
e bassi, una propria carriera
solista.
The Glasgow School racco-
glie i primi quattro singoli,
le B-sides e l’album Onwards
And Upwards (uscito solo nel
1992), più il raro Blokes On
45; tutto materiale prima difficilmente reperibile, se non in
un paio di compilation ormai
fuori catalogo.
La miscela di pop e northern
soul, grezzo e anfetaminico,
pone le basi del suono indie-pop a venire; Falling And
Laughing, il primo 45 giri, è
puro jingle jangle, con un basso pulsante e un mood oscuro
velvetiano, tra spleen e disperazione. Blue Boy e il retro
Love Sick sono gioiellini funky
e pop-soul, adeguatamente riscaldati dal crooning di Collins. Il lato più funkeggiante
del gruppo sarà poi successivamente esplorato nei dis c h i p e r l a P o l y d o r, R i p I t U p
( P o l y d o r, 1 9 8 2 ) s u t u t t i .
Il chitarrismo che farà la fortuna tra gli altri del giovanissimo Roddy Frame e dei suoi
Aztec Camera parte da qui,
da queste talentuose tracce,
grezze ma irripetibili. Le melodie in stato di grazia di queste canzoni sono pura essenza
pop, così difficili da scrivere,
dono riservato a pochi eletti,
quali gli Orange Juice furono.
Alla “scuola di Glasgow” Collins e compagni furono maestri
per le band a venire, creando un’ ideale staffetta, che
da loro è passata negli anni
di mano in mano, dai Jesus &
M a r y C h a i n a i Te e n a g e F a n club, dai Delgados ai Belle &
Sebastian, fino agli ultimissimi Franz Ferdinand, tra gli
ideali continuatori di quella
fervida scena pop.
davanti al mare capisce che
solcarlo non significa capirne il segreto; infine, perché
la notizia dell’aneurisma che
colse Berry tre giorni più tardi m’insinuò il sospetto d’aver
assistito a qualcosa di irripetibile. Invece, per fortuna,
B e r r y s i r i p r e s e i n f r e t t a . To r nò a suonare e lo fece fino al
’97, l’anno in cui abbandonò
la band e l’attività. In tempo
comunque per porre la firma
su New Adventures In Hi-Fi,
ultimo opus dei R.E.M. in formazione originale: non è l’unico motivo che rende speciale
questo disco, alieno alla curva evolutiva del gruppo, come
una parentesi aperta e subito
richiusa, l’estemporanea di un
eccesso di vita.
Fu registrato perlopiù durante
i sound check di Seattle, Philadelphia, Boston, Phoenix,
Detroit, Memphis, Atlanta, insomma dove li portava l’Aneur y s m To u r ( n o t a r e l ’ e s o r c i s t i c o
umorismo). Al bisogno, andava
bene anche il camerino, come
nel caso della strumentale Zit h e r, u n m i r a g g i o d e s e r t i c o
che fa pensare a dei Calexico
n e l t o r p o r e d e l r i s v e g l i o . Vo lendo, potremmo considerare
New Adventures una sorta di
diario, dalla calligrafia impulsiva e imperfetta, i contorni
rabberciati, la voce di Stipe
costantemente sul punto di
capitolare. Un cogliere l’estro
al volo, senza preclusioni né
riguardi, ancora caldo del suo
habitat naturale. Forse per
questo - perché non si aspettava dalla band più celebre e
ricca una partita tanto scabra
Te r e s a G r e c o
R.E.M. – New Adventures In
Hi-Fi (Warner, 1996)
Non scorderò quella sera al
Palasport di Casalecchio. Per
una serie di ragioni: perché
era la prima volta che vedevo
i R.E.M.; per la faccia sbigottita di Gaetano Curreri (sì, il
leader degli Stadio) alla fine
del concerto, la faccia di chi
sentireascoltare 81
- il mondo rimase interdetto.
Qualcuno parlò di crisi, altri
– tra cui molti colleghi – la
buttarono sull’etica professionale (!) gridando al peccato
d’incompiutezza. Cazzate.
Innanzitutto,
su
quattordici tracce almeno cinque sono
clamorose: il folk saltellante
d i N e w Te s t L e p e r , v a l z e r c h e
scivola su spuma di chitarra,
singulti jingle-jangle e una
perenne insidia elettrica; il
conato Paisley coi distorsori a
manetta di So Fast, So Numb;
l a t r e p i d a E - B o w T h e L e t t e r,
allucinazione
di
mellotron,
moog e sitar elettrificati (!) cui
Patti Smith nientemeno presta
voce iconica e laconica; l’iniziale How The West Was Won
And Where It Got Us, oppiaceo errebì tra intrecci di corde, synth, piano, cori western
e bozouki; e infine Electrolite, perché questa tenerezza
macchiata d’inquietudine, la
fragranza
sconcertante
del
violino e del banjo, la semplicità con cui le percussioni, la
chitarra ed il piano trascinano
quel boccio di melodia, tutto è
viva carne R.E.M..
Il resto del programma regala
trasporto e divertissement in
egual misura, dal glam torrido
di Departure e The Wake Up
Bomb al romanticismo strizzacuore di Be Mine, dal cuore tra le rapide di Bittersweet
Me al ring allarmante di Leave, dagli arzigogoli per fuzz
& farfisa di una scriteriata
Binky The Doormat fino alle
torride fatamorgane di slide
e hammond in Low Desert. Di
ogni strumento, di ogni voce,
la fibra naif e il fantasma distorto, la grana verace e l’eco
gelida.
Insomma,
i
R.E.M.
sembrano consumare un rito
di passaggio verso dove non
potranno essere più gli stessi, sapendo bene tanto l’inevitabilità dei cambiamenti che
i costi da pagare. Quindi ci
regalano una confessione febbrile, mostrandoci la potenza
conseguita dal loro fare rock
assieme agli ultimi brandelli
82 sentireascoltare
di – ingenua, rude, toccante
- immediatezza. Per tutto ciò,
amo irrimediabilmente questo
disco. E lo odio.
Stefano Solventi
Iceburn - Hephaestus (Revelation Records, 1993)
L’ h a r d c o r e p u n k a m e r i c a n o
attraversa nei primi anni ‘90
una fase di profondo rinnova-
mento. Dopo anni senza novità sostanziali se non in fatto
di potenza e velocità, s’intravede un futuro per un suono
ormai imbalsamato, vincolato
da cliché e fondamentalismo
attitudinale.
A indicare una delle vie di
svolta erano stati, nel decennio
precedente,
Minutemen
e NoMeansNo, introducendo
influenze jazz e dimostrando
una perizia tecnica inconsueta per un genere i cui tratti distintivi sono l’impatto sonoro
e il messaggio da trasmettere.
Le bands più originali di quello che verrà chiamato posthardcore
provengono
dalle
metropoli della costa est, ma
il gruppo destinato a produrre
il lavoro più coraggioso è di
di Salt Lake City e si chiama
Iceburn.
Il nome è un ossimoro e tale
è il contenuto contrastante di
Hepheatus: hardcore progressivo, jazz-punk, la freddezza
dell’avanguardia
infiammata
dall’urgenza espressiva. Un
concept album monumentale,
chei supera abbondantemente
i 70 minuti, composto da quattro movimenti a rappresentare i quattro elementi natura-
li dell’antichità (fuoco, terra,
aria e acqua). Le illustrazioni di Rich Jacobs e il titolo
preso dal nome del dio greco
del fuoco potrebbero far pensare a dei nostalgici del vecchio prog rock, o al massimo
a dei metallari colti, non ad
un power trio che naviga tra i
generi senza gettare l’ancora
in nessun porto, ma facendo
incetta di idee e suggestioni.
Hepheatus è il risultato di un
cannibalismo sonoro che ricorda i primi PIL e le bands
No Wave, i Naked City e i God,
musica morbosa e ibrida, rumore bianco e energia black.
ll lavoro si sviluppa attraverso crescendo sonici e cambi imprevedibili, momenti di
quiete interrotti da sconquassi emo-core e rifferama hard
rock. In certi momenti il suono
è sporco come il miglior grunge, in altri siamo sprofondati
in una illlimitata suite psichedelica, il drumming è ora galoppante, ora caotico. La voce
intona nenie ipnotiche, viene
sommersa dal suono magmatico per poi riemergere in urla
prorompenti e virtuosimi assortiti, tra schitarrate atonali
e basso frenetico.
Non è proprio il tipico disco
che ci si può aspettare dalla
Revelation Records, nel cui
catalogo è custodito il sacro
verbo dello straight edge a
stelle e strisce, dai Gorilla
Biscuits ai Judge. All’epoca
i riscontri della critica sono
soddisfacenti ma non quelli
del pubblico, che preferisce
rivolgersi ai più rassicuranti
Q u i c k s a n d e I n t o A n o t h e r.
Gentry Densley e compagni,
consapevoli del proprio status di band di culto, negli album successivi vireranno decisamente verso il free jazz
e l’avanguardia, diventando
l’Iceburn Collective, composto da 2 chitarre, 2 bassi e 3
fiati.
Paolo Grava
rubrica la sera della prima
a c u r a d i Te r e s a G r e c o
W i m We n d e r s
L’ a n i m a d e l b l u e s
d i Te r e s a G r e c o
The Soul Of A Man: l’anima del blues nelle vicende di tre musicisti che ne
hanno fatto la storia. Wim Wenders e il suo appassionato viaggio attraverso
le radici del suono afroamericano.
“Queste canzoni significavano tutto per me. Sentivo che
c’era più verità in loro che
in qualsiasi altro libro avessi
letto sull’America, o in qualsiasi film avessi mai visto.
Ho tentato di descrivere, più
come in una poesia che in un
documentario, ciò che più mi
ha commosso delle loro musiche e delle loro voci”. Wim
Wenders
La musica, primissimo amore
di Wim Wenders, non è mai
stata, nel suo cinema, elemento accessorio e mero accompagnamento, ma ha assunto
un preciso ruolo culturale, nel
momento stesso in cui è diventata il referente significativo
di una generazione, nata dopo
la seconda guerra, che ha saputo riconoscere una propria
identità comune nel rock, a
prescindere dalla nazionalità
di appartenenza. Ecco allora
gli omaggi musicali del regista
tedesco nei primi corti realizzati (Rolling Stones, Dylan,
H e n d r i x , Va n M o r r i s o n ) , p o i
nei lungometraggi via via è
t o c c a t o a K i n k s , C h u c k B e r r y,
Can, Ry Cooder (memorabile
la sua soundtrack per Paris,
Te x a s , 1 9 8 4 ) , U 2 , N i c k C a v e ,
sentireascoltare 83
Blind Willie Johnson (Chris Thomas King)
Lou Reed, la musica cubana (Buena Vista Social Club,
1999), i Madredeus (Lisbon
S t o r y, 1 9 9 4 ) ; f i n o a l l ’ a p p r o do al blues, in tempi recenti,
come personale esplorazione
dell’America: “Il blues mi ha
preparato a farmi salvare dal
rock. Quando avevo quindici anni ho scoperto che tutto
viene dal blues, anche il rock.
Il blues è più definito… un
po’ come il cinema noir di una
volta rappresenta la parte più
bassa e disperata dell’umanità”.
Il film The Soul Of A Man
(2003), quarto dei sette capitoli di una storia del blues
per immagini, (The Blues, serie ideata da Martin Scorsese), è il personale omaggio di
Wenders a tre musicisti che
ne hanno fatto la storia: Blind
Willie Johnson, Skip James, J.
B . L e n o i r. L a f o r z a e s p r e s s i v a
del blues e la conservazione
della memoria storica sono i
temi portanti di questo docufilm, che è un appassionato
atto d’amore nei confronti della musica delle radici.
Si alternano rare immagini
84 sentireascoltare
d’archivio e ricostruzioni in
b/n, registrazioni d’epoca e
reinterpretazioni del repertorio dei tre bluesmen da parte di musicisti contemporanei
(Beck, Marc Ribot, Lou Reed,
Garland Jeffreys, Cassandra
Wilson, Nick Cave And The
B a d S e e d s , Ve r n o n R e i d , t r a
gli altri); poi interviste, documentari, estratti da film (il
primo film di Wenders, Summer In The City del 1970, sull e t r a c c e d i J . B . L e n o i r, v e r a
ossessione del regista), in un
dolente viaggio personale e
storico, attraverso le matrici
della cultura afroamericana.
Il film ricostruisce fedelmente,
nella prima parte, attraverso
la fiction, la vita e le storie
di Johnson e James, a cavallo
tra gli anni ’20 e i ’30, per poi
diventare documentario puro,
con testimonianze e immagini
d’epoca, nell’ultima parte.
Blind Willie Johnson (interpretato dal bluesman Chris
Thomas King), texano, è il
narratore del film: suonatore
di strada e nelle chiese, chitarrista slide, bluesman puro
e dalle solidi radici spirituali
(sua The Soul Of A Man), incide alcune canzoni per la Columbia alla fine degli anni ’20,
fondendo gospel e blues.
Skip James (Keith B. Brown)
rappresenta l’anima più drammatica del blues del Delta,
(ispirerà
Robert
Johnson);
incide per la Paramount, poi
fallita a causa della Depressione, agli inizi degli anni ‘30,
ragion per cui i suoi dischi
non sono mai stati pubblicati.
Si ritira per 30 anni, diventando un pastore battista; torna
d’attualità nei ’60 con il recupero (da parte di John Fahey
tra gli altri) della tradizione
americana e del blues acustic o d e g l i e s o r d i ( P e t e S e e g e r,
Dylan, la scena folk), tornando a esibirsi.
I n f i n e J . B . L e n o i r, i n c u i c o n v i vono l’anima del blues elettrico e lo showman; il regista ce
lo mostra in alcuni rari filmati
di due documentaristi e appassionati, mai andati in onda
sulla tv svedese. Incide nei
’50 e nel decennio successivo, è impegnato nelle lotte per
i diritti civili dei neri ameri-
Skip James (Keith B. Brown)
cani, muore tragicamente alla
fine degli anni ‘60; è stato riscoperto da John Mayall (che
gli ha dedicato la canzone The
Death Of JB Lenoir ) e da tutta
la scena blues inglese.
Proprio gli anni ‘60 sono protagonisti delle immagini d’archivio, dai discorsi di Martin
Luther King, a John Mayall in
concerto, dalle manifestazioni contro il razzismo, ai cortei
del Ku Klux Klan, da Skip James al festival di Newport nel
‘64 con Son House e Bukka
White, ai Cream alla Royal Albert Hall nel 68 che coverizzano I’m So Glad di Skip James,
proprio per raccogliere fondi per il bluesman malato di
tumore … Si comprende così
quanto il rock debba al blues
e quanto ne sia stato profondamente influenzato.
“Questi tre grandi autori sono
vissuti e morti poverissimi,
volevo in un certo senso restituire loro il dovuto. Ma volevo
anche far capire come tanta
musica di oggi nasca da lì, da
quelle battute ”.
Le storie private e umane, la
musica e la vita, inserite nel
contesto storico-sociale dei
musicisti, sono ricostruite filologicamente, con stile documentaristico, laddove manca il
materiale originale. Ripercorriamo quindi le storie dei protagonisti: il cantore di strada
Willie Johnson alla fine degli
anni ‘20, uno stranito Skip James alla sua prima session di
registrazione nel 1931, il suo
abbandono per lo spiritual e
la fede. Ne risulta un ibrido,
tra esigenze documentaristiche e di finzione, dal montaggio agile, dall’ impianto narrativo (la voce off di Jackson
fa da guida per tutto il film),
raccontato con partecipazione
e passione.
Musica profana e spirituale
allo stesso tempo, uno stato
d’animo dello spirito, il blues
è visto sia come aspirazione a
una vita migliore, anche metafisica, sia come mezzo per
solidarizzare nelle profonde
ingiustizie sociali. Il Wenders
manieristico e deludente da
troppi anni a questa parte ritrova quindi se stesso, in un
film in cui ripercorre le radici
delle sue passioni di sempre.
“Non potrò mai dimenticare
la prima volta che ascoltai
Leadbelly cantare CC Rider:
schizzai in uno stato di trance. Come molte persone della
mia generazione, ero cresciuto ascoltando soprattutto rock
and roll, ma in quel solo istante compresi da dove arrivasse
tutto quello che mi piaceva”.
(Martin Scorsese)
sentireascoltare 85
Broken Flowers (di Jim Jarmusch – USA, 2005)
C’era da aspettarselo che si sarebbero incontrati. Due personalità, similmente sopra le righe e piene di una stessa, malinconica e amara, ironia. Bill Murray e Jim Jarmusch hanno due
caratteri che fanno rima e, indipendentemente dalle rispettive
carriere, lo si era capito benissimo già dall’episodio di Coffee
And Cigarettes, intitolato Delirio, dove un Murray più stralunat o d e l s o l i t o d u e t t a v a c o n G Z A e R Z A d e l W u Ta n g C l a n .
Le cronache hanno poi decretato ufficialmente il successo della
coppia, quando allo scorso Festival di Cannes Broken Flowers
si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria. Il film, interamente costruito sulla figura del protagonista, è una deliziosa
commedia con retrogusto amaro e disincantato, come è sempre
più raro vederne al giorno d’oggi. Dedicato a Jean Eustache,
perché “La maman et la putain è il più bel film sulla mancata
comunicazione tra uomo e donna”, il film narra la storia di un
uomo spento, Don Johnston (“con la T” come ripete a tutti quelli che quando sentono il suo nome, fanno un sorriso pensando
al protagonista di Miami Vice) che in un salotto anonimo e freddo, passa le giornate immobile a vedere Le ultime avventure di
D o n G i o v a n n i , c l a s s i c o d e l 1 9 3 4 d i A l e x a n d e r K o r d a . L’ a r r i v o d i
una lettera rosa, non firmata, che gli comunica l’esistenza di
un figlio avuto con lui a sua insaputa, incomincia a corrodere
la patina gelida della sua esistenza.
E’ il dramma di un uomo senza legami, ingrigito dai suoi successi nel lavoro e da una serie indefinita di relazioni sentimentali accese e spente come degli interruttori. Il suo vicino
di casa, appassionato di gialli, decide di preparagli un piano
di azione per smuoverlo dal suo languore. Don farà visita alle
donne con cui aveva avuto una relazione in passato, e che più
probabilmente avrebbero potuto avere un figlio da lui.
Il film si trasforma di conseguenza in un road movie: un viaggio nell’America di provincia, quella dei piccoli centri, diversi
l ’ u n o d a l l ’ a l t r o . L’ o c c h i o d i J a r m u s c h h a u n a l e g g e r e z z a n e l l a
descrizione di questa piccola America di periferia, che lo può
accomunare solo a Frank Capra. Di suo ci mette l’ironia, così
sottile e profonda, che te ne accorgi sempre un momento dopo.
Inevitabilmente, lo sguardo si sposta anche sulla donna contemporanea. Quattro piccoli ritratti che hanno la poesia di un
R a y m o n d C a r v e r. S h a r o n S t o n e , s v a m p i t a e s e x y, c o n u n a f i g l i a
“Lolita”, di nome e di fatto; Frances Conroy congelata nell’idea
della brava moglie e sposata con un imbolsito uomo qualunque;
Jessica Lange stravagante, affermata in un improbabile lavoro di comunicazione con gli animali e una feroce, disillusa e
irriconoscibile Tilda Swinton che chiude il quadretto a suon di
heavy metal, Harley Davidson e pugni in faccia.
La parentesi al cimitero per trovare la quinta possibile madre,
si trasforma in un canto poetico e melodrammatico sulla solitudine di quest’uomo. Solo e sempre più triste, Don acquisisce
la consapevolezza che un legame con qualcuno e un figlio sono
condizioni necessarie e non accessorie per la vita di un uomo.
Il finale, su cui taccio, è probabilmente uno dei più belli mai
visti al cinema.
Alla fine, la filosofia del film Jarmusch ce la consegna attrav e r s o l e p a r o l e d i M u r r a y, c h e a c c e n t u a a n c o r a d i p i ù l ’ i m p e n e trabile solitudine dello sguardo mostrata in Lost In Translation:
“Il passato è passato, il futuro non è ancora qui, e non lo posso
controllare: e quindi immagino che si tratti soltanto di questo…
del presente”.
Antonello Comunale
86 sentireascoltare
L’Arco (di Kim Ki-Duk – Corea del Sud, 2005)
Il nuovo lavoro di Kim Ki-Duk, girato in velocità per essere
pronto a Cannes, dà ragione a quanti vedevano nell’ultimo corso del regista coreano, sempre più rarefatto e simbolico, il segno di una possibile involuzione verso il manierismo autoriale.
L’ A r c o è u n f i l m c h e r i p r e n d e q u a s i t u t t i i t o p o i d e l l ’ a u t o r e , m a
manca il bersaglio sistematicamente, evitando di sviluppare in
profondità le fin troppe metafore che produce.
La storia del vecchio pescatore, che accudisce una bambina
dall’età di sei anni per poi sposarla al compimento della maggiore età, fa ovviamente scivolare lo sguardo su una storia
che si lega al tanfo della pedofilia, tema in qualche modo già
affrontato in Samaria. Del resto la protagonista è la stessa, la
s p l e n d i d a H a n Ye o - r e u m c h e c o n u n a s e r i e d i s g u a r d i e s o r r i s i
complici, intriga tutti gli avventori del peschereccio perso nel
mezzo del mare. I riferimenti spaziali sono quelli tipici di Kim
Ki-Duk: un isolamento forzato che ci estrania dal resto del
m o n d o ( L’ i s o l a e P r i m a v e r a , e s t a t e , a u t u n n o … ) e c i c h i u d e n e l
nostro individualismo. I gesti, i pensieri e le azioni si caricano
allora di significati e diventano archetipi, come nel pagano (e
un po’ ridicolo) rituale finale.
Il problema è che queste metafore sono le stesse di sempre
e l’autore coreano le aveva sviscerate a più riprese con ben
altro ardore. Lo stesso dicasi del simbolico arco, strumento,
al tempo stesso, di offesa e melodia, nonché unico mezzo di
comunicazione tra il vecchio idealista e il resto del mondo. In
Ferro 3 erano stati sufficienti una mazza da golf e un pugno di
case vuote per mettere in scena il blocco della comunicazione
e la chiusura in se stessi.
S p e r i a m o c h e L’ A r c o r i m a n g a u n e p i s o d i o i s o l a t o i n u n a f i l m o grafia che fino ad ora non aveva avuto nessun segno di stanca
e cedimento.
Antonello Comunale
The Descent (di Neil Marshall – GB, 2005)
Era ormai da troppo tempo che il genere horror non produceva
opere che avessero il coraggio di osare, di rompere i tabù, di
violentare lo spettatore proprio nelle sue paure più profonde.
L’ h o r r o r, q u e l l o v e r o , n o n è u n a f a c c e n d a p e r t e e n - a g e r c o m plessati o ragazzine annoiate. Per usare le parole di Brian
De Palma: “Il genere horror è una forma molto filmica. Di certo è la cosa più prossima al cinema puro che abbiamo oggi”.
Deve esserne cosciente il britannico Neil Marshall, che con
The Descent firma la sua seconda regia (il suo primo film, Dog
Soldiers è passato inosservato finendo direttamente nel circuito home video) e riporta finalmente i canoni del genere ad un
livello alto, lontano anni luce da tutta l’immondizia che siamo
costretti a sorbirci di questi tempi.
La storia è semplice, come si compete ad un film destinato a
diventare un cult movie del genere. Sei amiche, appassionate
di sport estremi, decidono di dedicarsi all’esplorazione di una
grotta persa da qualche parte nei monti Appalachi. Scendono
in profondità, si immergono nei cunicoli, poi, ad un certo punto, si perdono. Marshall è molto abile nel tratteggiare i personaggi: sei donne, l’una diversa dall’altra, che si completano a
vicenda e mostrano altrettanti modi di declinare la femminilità
contemporanea.
Il film poi decide di giocare la carta del massacro sociale. Gettate nell’inferno, le sei donne diventano individualiste; lasciano emergere gli elementi più biechi del loro essere e smettono
sentireascoltare 87
di fare gruppo. Ognuna decide di tenersi un pezzo di corda per
sé e di non condividerlo, fino a quando un ulteriore salto di
qualità nel dramma che stanno vivendo non arriva ad azzerare
ogni pensiero. Nella seconda parte, quando entrano in campo
gli oscuri abitanti delle grotte, si vira sensibilmente verso il
gore, arrivando a lambire – come giustamente sottolinea Eman u e l a M a r t i n i - l ’ h o r r o r c u p o e d e ff e r a t o d i C l i v e B a r k e r. L a
misura della diversità rispetto ai film contemporanei è proprio
nell’uso del sangue, che prelude ed è successivo ai momenti
di pura brutalità, quando per continuare ad esistere si diventa
tutti bestie.
The Descent non si discosta più di tanto dalla tradizione del
genere, anzi, si fa vanto di esserne la vera continuità. I richiami più espliciti sono per Un tranquillo week-end dipaura, come
lascia intendere subito la citazione iniziale delle rapide. Ma è
tutto il new horror degli anni ‘70 ad essere omaggiato e preso
a modello. Quello che rende il film a suo modo originale ed
inedito è la claustrofobica scenografia, fatta di grotte, anfratti,
cunicoli e laghi di sangue. Onore al merito per lo scenografo
Simon Bowles, che ha usato la stessa grotta artificiale, costruita ai Pinwood Studios, riadattandola poi di volta in volta,
per farla sembrare sempre diversa.
D o p o T h e D e s c e n t c ’ è g i à c h i p a r l a d i n e w n e w h o r r o r, n e l l a
speranza che la pellicola di Marshall sia il preludio a una nuova ondata paragonabile a quella degli anni ’70, quando girare
un horror era prima di tutto un atto politico, di eversione e di
denuncia. Se il mercato smettesse di premiare teenage slasher
post-Scream e remake americanizzati di horror nipponici, allora ci si potrebbe dedicare a qualcosa di più forte, visionario e
potente. Ma come accadde nei ‘70, è più facile che la spinta
all’innovazione venga dai casi isolati, costruiti con pochi soldi
e molte idee.
Antonello Comunale
I Fratelli Grimm e l’incantevole strega (di Terry Gilliam – Repubblica Ceca / USA 2005)
I F r a t e l l i G r i m m è i l t i p i c o p r o d o t t o f a n t a s y, c h e q u e l l i d e l l a
Miramax stanno cercando di venderci a tutti i costi, dopo i successi di Harry Potter e del Signore degli Anelli. In pratica, un
film pop-corn per famiglie, con attori famosi, ironia da quattro
soldi, qualche momento pauroso (ma non troppo…) e il lieto
fine per uscire dal cinema con il sorriso. Io dico che questa discutibile prassi sta mostrando il segno, e costringere un artista
come Gilliam a tutto questo è un delitto concepibile solo da una
coppia di produttori cafoni.
Sì, perché il film in questione vanta una firma d’élite: quella
dell’ex Monty Python, autore di film di culto come Brazil, e Il
barone di Munchausen, che ha sempre lavorato per un cinema
radicalmente opposto ai dettami edulcorati della “Disney Productions”. Gilliam è il deus ex machina di un mondo drogato
( P a u r a e d e l i r i o a L a s Ve g a s ) , a n a r c h i c o , u m o r i s t a , a l l u c i n a t o ,
lisergico. Lui il film lo voleva fare a sua immagine e somiglianza: se proprio Matt Damon deve essere il protagonista, perché
non mettergli un naso finto?
Le vicissitudini produttive del film sono state molto travagliate e gli scontri con i fratelli produttori Weinstein intensi, se è
v e r o q u e l l o c h e è p o i t r a p e l a t o : i m p o s i z i o n e d i D a n a H e a d e y,
88 sentireascoltare
mentre Gilliam voleva Samantha Morton; imposizione di Matt
Damon (sul naso finto si è già detto); licenziamento del direttore della fotografia, Nicola Pecorini, giudicato troppo lento.
Che Gilliam si sia dovuto piegare a questi e altri diktat è cosa
che si capisce benissimo dal film che è arrivato nelle sale. Del
resto doveva pur uscire dall’impasse produttivo in cui si era
perduto (Lost in La Mancha) andando dietro al progetto di The
Man Who Killed Don Quixote.
A conti fatti, il film ha i suoi punti di forza soprattutto nelle
splendide suggestioni visive, che prendono da Dorè, Friederich, Fussli, e illustrano perfettamente i diversi riferimenti fiabeschi, inseriti qua e là a mo’ di citazioni sparse: Cappuccetto
Rosso, Biancaneve, la Bella addormentata nel bosco, e così
via. Tutto è però piatto e prevedibile, in un film che al posto di
unire Tim Burton (Sleepy Hollow) e Monica Bellucci (come sempre ingessata come una statua) avrebbe dovuto ritrovare un
l e g a m e p i ù d i r e t t o c o n i r a c c o n t i d i A n g e l a C a r t e r. N o n o s t a n t e
tutto, le ellissi stordenti di Gilliam non mancano: un cavallo
che mangia in un sol colpo una bambina o un omino-biscotto
di fango, che rapisce occhi e bocca ad un’altra bambina, in un
a l l u c i n a n t e e p i s o d i o a m e t à t r a S h r e k e S v a n k m a j e r.
Per Gilliam, il momento del riscatto e della libertà creativa sembra però essere già giunto con il nuovo Tideland, film a basso
costo e girato in completa autonomia subito dopo i Grimm, che
comincia adesso a fare il giro dei festival.
Antonello Comunale
sentireascoltare 89
rubrica cose dell’altro mondo
a cura di Ivano Rebustini
Per “Inter-visti”, Neon Eater a colloquio con il socievole cantante
dei Jennifer Delano Sui Tubi. E poi: “Inaudito” propone il coraggioso progetto dell’inedito duo Pedrini & Bianconi; “Incredibles News”
fa uno scoop preannunciando il ritorno di “Ziggy”; Damon Albarn si
racconta come un gorilla(z) a “Parole in libertà”.
INTER-VISTI
Jennifer Delano Sui Tubi
Quattro filastrocche prese in prestito dalla seconda guerra mondiale.
di Neon Eater
I J e n n i f e r D e l a n o S u i Tu b i s o n o l a c r e a t u r a d e l c a n t a n t e / p i o v r a G i o v a n n i P a o l o G a s t a l d e l l o ,
napoletano disintossicato a Pesaro, perdutamente innamorato dei mattoni nomadi.
- A n z i t u t t o u n a p u r a c u r i o s i t à : c o m e m a i s i e t e d i B o l o g n a e n o n d i Tr e v i s o ?
Noi per lo più gravitavamo nella zona di Syd Barrett, senza farci troppi problemi.
- Come mai ascolti Marcella unplugged?
Guarda, è un grande punto interrogativo, dal vivo la piccola dimensione di Isacco Clava è la
testimonianza incredibile del nostro primo incontro e ha una potenza notevole!
- Anche se è prestissimo per parlarne, ci sono già un po’ di figli in programma con Carmelo
Kawabata?
Forse non proprio... Ho sentito l’esigenza dirompente di stare al confine tra sogno e incubo una
volta ogni quindici giorni.
- Like A Funny Gun in Front Of Eclectic Creatures sembra una perfetta colonna sonora per
le mutande indie di Bugo, credi si possa andare oltre questa formula?
Se per psichedelia intendiamo la solita reiterazione di recensioni oniriche ed eteree per far
90 sentireascoltare
piacere ai giornalisti, soprattutto per l’assenza di filtri e
condizionamenti incoraggianti, l’album è concepito come
un incubo, fa palpitare il cuore, va bene comunque, anzi!
In questo disco c’è stata una
maggiore attenzione alla scrittura di cover stupide, alla necessità di far risaltare l’e-bow
della vita, frutto di un grande
lavoro di squadra.
- Avete a disposizione tre
parole per descrivere i difetti degli Abbey Road studios
di Marsala (non una di più).
Condizionamenti,
muscoli,
lungaggini.
- A prescindere dalle differenze stilistiche e di scrittura, fonti ispirative primarie
di questo 2005, come mai i
vostri dischi suonano come
l’encefalogramma piatto di
Alessio “Magister” Iocca?
Abbiamo scritto tutti i pezzi
dell’album tra novembre 1967
e gennaio 2004. Li abbiamo
registrati a dischi concentrici
nei fine settimana, tra mattoni che si stagliano sul prato
arso dai tubi di scappamento e l’aria irrespirabile delle
braccia di Liviano Fasolo, per
un totale di novanta giorni di
sorrisi e sedici anni di fiabe
visionarie. Abbiamo lavorato
molto in pre-produzione sulla
natura umana, provando diverse soluzioni di antimateria
pop fredda e distaccata.
- “Milano è una città che ti
chiede di andare oltre la cover band”: questo è il parere
work in progress che va per
la maggiore, quando s’interrogano i residenti post rock
della metropoli lombarda.
Tramite Massimo Mos, avevo
scelto una crisi cupa da cui
non sapevo più come uscire,
nonostante ottimi dee jay e
ispiratissimi personaggi fuori
da ogni contesto. Ma se entri in un qualsiasi negozio di
dischi, è molto più probabile trovare il primo degli Slim
che non qualcosa degli Slint,
o sbaglio?
- Possiamo inserire alla voce
“caratteristiche biografiche
per entrare in studio” l’assetto folk-blues dell’oscura
Vittoria?
Siamo sicuramente in crescit a . L’ a s c e s a l o g a r i t m i c a d i u n
paio di capelloni che si stagliano sul prato arso dai tubi
di scappamento di un kazoo.
Almeno così mi auguro.
- Che mi raccontate del quid
espressivo/artistico
peculiare dell’amarezza ebbra e
del desolante malanimo dell’
italiano all’estero?
F o n t i i s p i r a t i v e ? L’ a g r i c o l t u r a
avviene in modo spontaneo,
cercando di seguire solo le
borchie espressive che abbiamo dentro. Almeno, questo è
quello che avevamo in mente
noi... Penso non ci sia niente di più cattivo di Domenico
Modugno.
- Perché vi siete fatti le ossa
con concerti al CGBG’S?
Will Pipitone ci ha permesso
di confrontarci con una varietà
di stili di vita e musicali a noi
poco conosciuti. Tutto questo
è frustrante, come le unghie
d e i p i e d i d i N e i l Yo u n g .
- Come siete entrati in contatto con Jeff Buckley e Nick
Drake?
Abbiamo passato un periodo
splendido, degno di un film di
Polanski, nel quale abbiamo
dilatato l’interplay e la potenza espressiva che caratterizzano il dopo-eiaculazione dei
puberi.
- Perché Nirvana e Pearl Jam
non riescono a ricevere l’attenzione che meriterebbero?
Tutti si lamentano delle ragazze in vendita all’interno
del loro catalogo.
- Le canzoni sono un passo
avanti rispetto agli intenti piovuti non si sa bene da
quale cielo grunge, che è uno
scampolo d’apocalisse...
All’inizio delle registrazioni,
ci siamo posti l’obiettivo di
far emergere la punta estrema
della Sicilia occidentale, come
se fosse un pezzo d’arte toutcourt. Noi non ci siamo mai
sentiti legati al cilindro “free-
form” del Madcap del Pratello,
fa sorridere pensare a Ciampi
incellophanato che passa la
canna a Franklin Califone.
s e n t i r e a s c o l t a r e 91
INAUDITO
Pedrini & Bianconi - Canzoni stonate (Autotune Records, 2005)
Omar e Francesco hanno coraggio da vendere: rinunciando per una volta al magico correttore
d’intonazione che più di un “aiutino” ha dato, dà e darà ai cantanti meno dotati del mondo intero, se escludiamo forse la Groenlandia, l’ex leader dei Timoria e il leader dei Baustelle hanno
inciso un disco che annuncia i propri intenti sin dal titolo, preso in prestito da una canzone di
Gianni Morandi. Pubblicato da un’etichetta nata per questo cd (e quindi destinata a morte sicura), il cui nome rimanda inequivocabilmente al prezioso prodotto di Antares, l’album ci propone
Pedrini e Bianconi senza veli insieme a un nugolo di ospiti, uomini e donne, che hanno invece
preferito il quasi anonimato delle iniziali. Tra i brani, nei quali piacevolissimo è il contrasto fra
vocalità lo-fi e iperproduzione delle basi, spiccano Come una bambola, che Francesco canta
i n s i e m e a u n a c e r t a P. P. , e l a c o v e r - e s e g u i t a d a O m a r c o n E . C . - d i F o r e s t e r i n c à , c e l e b r e
b r a n o c h e h a c o n q u i s t a t o i l t e r z o p o s t o a l F e s t i v a l d e l l a c a n z o n e d i C a r u g a t e . ( i . r. )
INCREDIBLES NEWS
La notizia che Bob Dylan ha firmato un contratto principesco con l’emittente americana XM Sat e l l i t e p e r f a r e i l c o n d u t t o r e r a d i o f o n i c o h a m e s s o a s o q q u a d r o n o n s o l o i f a n c l u b d i M r. Z i m m e r m a n n , m a a n c h e e s o p r a t t u t t o g l i s t a f f d e l l e m a g g i o r i r a d i o e t v s p e c i a l i z z a t e i n m u s i c a . M t v,
per esempio, è già corsa ai ripari, assicurandosi un vee jay d’eccezione come David Bowie, che
p e r l ’ o c c a s i o n e s i r i p r o p o r r à n e i p a n n i d i Z i g g y ( “ Ve l v e t O l d m a n ” i l t i t o l o d e l c o n t e n i t o r e ) . I n
Italia si fa quel che si può, e così la Rock Tv del figlio di Adriano Galliani, Gianluca, ha offerto a
F r a n c e s c o G u c c i n i l a c o n d u z i o n e d i u n a r u b r i c a s u i v i n i , b e ff a r d a m e n t e i n t i t o l a t a “ O s t i ” . ( i . r. )
PA R O L E I N L I B E R T À
Damon Albarn : “ Che cos’è un insulto? Pensare “diavolo sporco”. Cos’è un forno? Cucinare
con. Cos’è una ferita? Il morso. Che cosa è strano? Problema, sorpresa. Quand’è che la gente
impreca? Lavoro odioso. Cosa mi viene in mente di duro? Roccia, lavoro. Chi è un gorilla intell i g e n t e ? I o ” . ( i . r. )
92 sentireascoltare
Scarica

Scarica pdf - SentireAscoltare