editorialeeditoriale editorialeeditoriale editorialeeditor Iter: nel segno della varietà di Giulio Sardi Dopo il volume monografico, a cura di Roberta Bragagnolo, dedicato a Due secoli di vita teatrale ad Acqui, questo terzo numero di ITER riabbraccia la formula miscellanea. L’obiettivo è quello di conciliare tanti apporti nel segno della varietà. Nelle pagine che seguono troverete contributi disposti su un asse cronologico che dall’età antica e dalle vestigia romane giunge al momento della Liberazione. Gli articoli sono dedicati alla città di Acqui, ma anche ai paesi del circondario e dell’intera valle. Non solo. Anche nel taglio stilistico l’approccio adottato dai vari autori è diverso: il lettore troverà il più classico saggio scientifico, ricco di note e rimandi bibliografici che potrebbe essere parte di una pubblicazione universitaria, ma anche una sorta di “racconto di storia” che propone curiosità e aneddoti, che privilegia la narrazione alla documentazione. Anche nella misura il criterio è la discontinuità: pezzi minimi, della lunghezza di poche pagine, si alternano ad articolati approfondimenti da gustare a poco a poco. E poi, ancora, in alcune sezioni la rivista lascerà parlare direttamente le fonti, in altre le immagini. Ricerche fonti e immagini per un territorio Trimestrale Anno I, numero 3, ottobre 2005 Direttore Giulio Sardi Redazione Angelo Arata,Valentina Pistarino, Elisa Pizzala, Carlo Prosperi,Vittorio Rapetti, don Angelo Siri Segreteria di redazione Elisa Pizzala e Silvia Pastore Hanno inoltre collaborato Sergio Arditi, Giorgio Botto, Riccardo Brondolo, Mariangela Caramellino, Marco Francesco Dolermo, Elisabetta Farinetti, Maria Teresa Gastaldi, Valentina Isola, Francesca Lagomarsini, Paola Piana Toniolo, Pier Paolo Pracca, Ennio e Giovanni Rapetti, Luisa Rapetti, Massimo Rapetti, Pietro Reverdito, Gian Enrico Rusconi, Geo Pistarino,Vanghèlis Sakkàtos Progetto Grafico Paolo Stocchi e Guido Arditi Fotografie L’apparato iconografico, quando non prodotto dagli Autori dei saggi, attinge all’Archivio Iter.Altri contributi dall’Archivio storico Mario Barisone conservato presso lo Studio Fotografico Tronville, dall’Archivio Visma di Vesime, dall’Associazione Nazionale Divisione Acqui e dall’Istituto “Albe Steiner” di Torino Un ringraziamento per la collaborazione a Archivio Vescovile d’Acqui, Biblioteca Civica di Acqui Terme, Alberto Pirni, Piero Zucca Edito da Editrice Impressioni Grafiche Stampa Tipolitografia Impressioni Grafiche società cooperativa sociale, Acqui Terme (AL) Redazione via Carlo Marx 10- 15011 Acqui Terme (AL) Tel. 0144 313350 fax 0144313892 e-mail: [email protected] • www.eigeditrice.it © EIG 2005 ISSN 1825-6422 Registrazione n. 97 del Tribunale di Acqui Terme rilasciata in data 27 gennaio 2005 In copertina: Un’immagine di inizio Novecento del fotografo Mario Barisone (Studio Fotografico Tronville) Insomma: continua il tentativo di andare incontro alle propensioni dei nostri lettori che - è inevitabile avranno attese tra loro differenti (c’è chi ama il medioevo, chi è affascinato dal documento, chi si aspetta scritture divulgative, chi la prosa più ricercata...tutto è pienamente legittimo). La speranza: quella di ampliare il ventaglio degli interessi preferiti, portando chi legge su un nuovo terreno. Ovviamente solo metaforico. Il filo rosso che lega, infatti, tutti i contributi continua ad essere quello dell’identità; di una strada – o meglio – di un reticolo che unisce il territorio e diviene strumento di un lavoro condotto in sinergia. E il territorio, sulle pagine di questo numero e dei prossimi, ha modo di continuare a raccontarsi nel suo complesso, e di ricercare gli elementi di una ben precisa identità. È così che nasce, in chi scrive ma anche in chi scorre le pagine, il senso di una profonda appartenenza. Un valore forte e una ricchezza di cui essere consapevoli. Ricordi egiziani Nel luglio 1884 l’acquese Raffaele Ottolenghi (classe 1860, appartenente alla celebre famiglia che diede i natali anche a Jona e poi al conte Arturo) divenne vice-console italiano al Cairo. Fu l’inizio di una carriera diplomatica che portò il Nostro, da lì a due anni, a ricoprire la stessa carica a New York. Fu l’ennesimo viaggio di un giramondo poliglotta (oltre a inglese e francese conosceva bene le lingue antiche latina, greca ed ebraica). Egli, dopo aver percorso in lungo e in largo l’Europa (Germania, Svezia, Danimarca), fu poi richiamato dal fascino dei paesi lontani dell’Africa. È risaputo l’interesse di Raffaele Ottolenghi - un pensatore profondissimo nel ricordo che Carlo Chiaborelli vergò alla morte suicida del 1917 - nei confronti dei Falasha, gli ebrei etiopici, e nei riguardi del mondo orientale, cui dedicò saggi pubblicati in riviste e in volumi monografici (cfr. Voci d’Oriente, Firenze 1905; Lugano 1913). Fu però “La Gazzetta d’Acqui”, tra novembre e dicembre 1885, ad ospitare i suoi primi reportage, pagine freschissime, da una terra - quella in riva al Nilo - che senz’altro lo aveva affascinato e che Raffaele, a quel punto, voleva “raccontare” ai suoi concittadini. Attingiamo allora direttamente alla fonte. *** La gran fiera di Tantah, che conta fra le più celebri dell’Oriente, ricorre nel mese di agosto. Tantah è una città importante dell’Egitto, situata a un’ora e mezza di treno diretto dal Cairo, nel bel mezzo del Delta, fra i due rami del Nilo (di Rosetta e Damietta), capoluogo della provincia di Gharbiye. Partito la sera dal Cairo, in compagnia di un amico, giungemmo, fra i tepori caldi di uno splendido tramonto, fra il ringiovanire di questa terra riarsa, su cui già si riversavano le acque vivificatrici, alla stazione di Tantah.Vi fummo accolti con ospitalità meravigliosa da quell’ottimo gentiluomo che è il barone Ing. Guglielmo Castelnuovo, bel tipo di ex-ufficiale d’artiglieria, e reduce e ferito glorioso, di Mentana [1867; Garibaldi sconfitto dai Francesi], che là dimora in qualità di ingegnere capo del Catasto per la provincia di Gharbiye. Siccome la parte più bella e caratteristica della fiera si svolge la notte, così ci preparammo, dopo i primi saluti, ad andar girovagando. Prima, però, due parole di storia sull’origine di questa fiera, che rassomiglia come due gocce d’acqua a tutte le fiere del mondo. 4 Dunque, dovete sapere, che nel dodicesimo secolo nacque in Fez un gran santo detto Seyyd Ahmed El Bedawi (il Beduino): il quale un bel giorno ebbe la buona idea, di andare in pellegrinaggio alla Mecca; e quella anche migliore d’ammalarsi al ritorno, e d’andare a morire proprio in Tantah. La tradizione fa di questo guerriero del deserto un eroe, e il suo nome viene invocato dai combattenti, nei momenti del pericolo. Ma il più strano si è che, per un passaggio d’idee non facilmente esplicabile, egli è pure venerato dalle donne, che lui quasi Nume da ogni parte invocano, per averne la benedizione dei figli. Ne viene, che la fiera di Tantah è il convegno di tutte le donne sterili del mondo mussulmano, e, per naturale conseguenza, anche di molte altre, che, senza essere sterili desideran di vedersi dotate di più numerosa corona di vispi rampolli. È facile immaginarsi quanto sia interessante il concorso, di tante donne con siffatte buone intenzioni, tanto più che, sia detto tra parentesi, il mezzo impiegato generalmente ad ottenere la grazia è, nella sua semplicità, della massima efficacia. Ma ritorniamo al bravo nostro ospite, che si mette in quattro per ispiegarci ogni cosa e per farci divertire. Lo spettacolo di una sì variopinta folla, fra le strette vie di una città araba di provincia, fra quelle casucce di creta mezzo diroccate e sulle rive del canale, è già dì per sé stranissimo.Tutte le fogge del mondo mussulmano vi sono rappresentate, specialmente quelle della parte più debole del sesso debole. Ad ogni passo sorgono improvvisate baracche, con un po’ di lumi alla veneziana, entro cui qualche abile ballerina dà pubblico spettacolo della sua abilità.Vi son le sudanesi, nere come il carbone, dalle grandi labbra rosse, dal naso fo- rato da immensi orecchini, dalla voce chioccia e nasale, dalle mosse dure e rozze, e il pubblico è composto da loro compaesani, che osservan commossi la danza nazionale, che li richiama alle sabbie ed agli ardori del paese nativo. E, accanto ad esse, son pure bianchissime ragazze; forse già schiave di harem, dalle movenze tarde e pigre. Ma la più gran parte, son fellahine, contadine del paese, con vesti dai vari colori che hanno qualche somiglianza colle nostre montanare. Infine, la grande attrazione è formata dalle danzatrici di professione, per le quali la fiera costituisce una vera gara in cui tutte si contendono la palma. E fanno a chi più abbonda di strane movenze, o di voluttuosi atteggiamenti e giungono a tali esagerazioni di piegamenti e di provocante affanno, e riescono a contorcersi con sì meravigliosa elasticità, sporgendo e ritirando le varie parti del corpo, da eccitare la più grande meraviglia. S’avanzano appoggiate ad un bastone; e ballano con lumi posati sul capo, avanzandosi e ritirandosi, ed abbassandosi fino a terra e rialzandosi superbe, le narici frementi, gli occhi ebbri di piacere e di esaltazione, fra i suoni di una musica monotona ed eguale, e le grida del pubblico che segue con ansia la danza. Non senza interesse è l’aggiungere che i padroni delle più frequentate baracche son quasi tutti Greci che pur di far quattrini, si mutano in questi giorni in... (come devo dire) intraprenditori di pubblico piacere. Tale è la parte più interessante delle orgie [sic] notturne. Ma presso le danzatrici stanno pure i fedeli, che percorrono le strade pregando: e ad ogni istante s’arrestano e stretti in circolo, con grida d’ossessi, cogli occhi fuori dalle orbite, con movimenti affrettati e ondulanti del corpo si raccomandano al gran Santo. E per le strade girano i rivenditori ambulanti, che vi assordano con l’esaltare che fanno la loro merce, mentre i buoni negozianti vi guardano assonnati o non curanti dalle porte delle microscopiche botteghe, raggomitolati per terra, attendendo che entriate a comprare. Né meno interessanti sono i soliti rivenditori di acqua, con il loro grand’otre sulle spalle e le coppe d’ottone che fan risonare loro le mani. Ci accostammo a uno che c’invitava dicendo “fermati o straniero! Questa freschissima acqua che è dono del gran Sheik El Bedawi ti porgo nel suo santo nome”. Quest’acqua, infatti, raccolta di questi giorni in un gran pozzo che dal santo prende il nome, vi sta depositata sino al prossimo anno, e non si beve che durante la festa. Raffaele Ottolenghi Pubblicato su “La Gazzetta d’Acqui” del 28-29 novembre e 1-2 dicembre 1885 5 La Chiesa di Roma nel tempo degli Apostoli di Geo Pistarino La basilica di San Pietro in Acqui. Fronte. Nell’area cittadina di Acqui Terme, in Piazza Orto San Pietro, in prossimità della basilica dell’Addolorata, che fu la prima cattedrale d’Acqui, già dedicata a San Pietro, ad un paio di metri di profondità nel sottosuolo esiste il primo cimitero, in origine pagano, in cui neofiti Cristiani già nel I secolo presero ad inumare i loro defunti, costruendo una chiesetta, che assurse poi alla funzione di prima basilica cristiana della città tardo-antica e medievale. Qui, in occasione di scavi e restauri, compiuti in loco nel 1660, venne ritrovato un reperto archeologico, quanto mai interessante: una lapide sepolcrale in marmo bianco, con la seguente iscrizione: - P VII ID. MART. CUM GALBA AUGUSTO SUB CONSOLE DOMITIANO VICTIMA CUM MARCO QUINTE METELLE CADIS DE GREGE SIMONIS GEMINOS AGNOS TIBI CAESOS IN SUPERUM MENSAS SUSCIPE XPISTE DEUS 6 9 marzo Con Galba Augusto, essendo console Domiziano, o Quinto Metello, cadi vittima con Marco; gli agnelli gemelli del gregge di Simone, a te immolati, accogli nel banchetto celeste, o Cristo Dio. Il ritrovamento, con la trascrizione della lapide, venne annotato a pagina 56 del testo manoscritto del 1628, già esistente nell’archivio Vescovile d’Acqui, dell’opera del Vescovo Gregorio Pedroca, Solatia chronologica Sanctae Ecclesiae Aquensis, con la seguente annotazione: «Recentemente, nel corrente anno 1660, presso la chiesa di San Pietro fu ritrovata una lapide di colore bianco con questi versi (segue il testo qui sopra indicato)». Non sappiamo a chi risalga l’annotazione sul manoscritto del Vescovo Pedroca. Non può tuttavia escludersi che la si debba alla mano o al dettato del Vescovo in carica nel 1660: Giovanni Ambrogio Bicuti (1647-1675). Il testo della lapide venne edito per la prima volta nel 1770 da Cesare Orlandi, che la dice scoperta nel 1758, nel sito di cui sopra. Insorse allora una lunga discussione perché l’Impero di Galba, all’inizio dell’anno 69, non coincideva in alcun modo con il primo consolato di Domiziano, ricorrente nell’anno 71 (nel mondo romano gli anni s’indicavano con il nome dell’Imperatore e del Console, regnanti al principio di gennaio). La discussione si è protratta sino ad oggi, nessuno ricordando che l’Imperatore Domiziano, ucciso da una congiura di palazzo il 18 settembre 96, venne allora colpito dal Senato Romano con la damnatio memoriae, la quale implicava la cancellazione di tutti gli atti amministrativi da lui compiuti, come pure di tutte le cariche amministrative, da lui ricoperte, purché il titolo amministrativo non fosse contestuale con quello di Cesare o di Augusto, su cui si reggeva il sistema cronologico romano. Noi sappiamo che l’unico anno in cui Domiziano, all’inizio della propria carriera, era stato soltanto Console, fu il 69: il quale anno 69 venne perciò eliminato nella cronologia ufficiale del suo cursus honorum, in cui fu indicato come suo primo anno consolare l’anno 71, quando egli raggiunse il titolo di Cesare. Di qui il totale dissidio con l’anno d’impero di Galba. Riportandosi invece all’anno 69 il primo consolato di Domiziano (come effettivamente fu), la cronologia della lapide risulta perfetta: Fabio e Quinto Metello, immolati ad Acqui nel tempo di San Pietro e di San Paolo, sono i due unici martiri delle persecuzioni del tempo di Nerone e degli anni immediatamente successivi, dei quali si conosce il nome1. Sedeva allora sul soglio pontificale San Lino, primo successore di Pietro, secondo quanto già si legge nelle più antiche liste episcopali di Roma. Sarebbe stato proprio Lino Papa a stabilire che le donne entrassero in chiesa a capo velato: ordine che sopravvisse fino agli anni sessanta del XX secolo. Secondo la tradizione Papa Lino resse il pontificato in Roma negli anni 67-76, all’epoca della nostra lapide, durante il tempo degl’Imperatori Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano. Il quale Lino Papa non solo ordinò alle donne di entrare in chiesa con il capo coperto, come si è 1 GEO PISTARINO, Acqui antica e medievale, città dei Martiri e città del Vescovo, nella storia cristiana dell’Europa, Genova, 2004. 7 detto, ma prescrisse anche ai Sacerdoti l’uso del pallio: semplice striscia di lana bianca con la sovrastampa di croci nere, portata quasi come collana sui paramenti, ma in realtà simbolo della giurisdizione papale. Il nome di Papa Lino, un martire secondo la tradizione, è stato però espunto nel Calendarium Romanum, promulgato nel 19692. La Chiesa di quel tempo si reggeva su “Presbiteri” e “Vescovi”: originariamente appellativi sinonimi, ben presto però distinti nel significato che hanno tuttora. I Vescovi, capi della comunità, celebravano la messa ed amministravano i sacramenti; i Presbiteri, cioè i Sacerdoti, esercitavano quelle funzioni soltanto con il benestare dei Vescovi. Nell’apostolato operavano inoltre i “Diaconi” nell’amministrazione dei beni ecclesiastici e nell’assistenza di Vescovi e Preti; i “Profeti”, poi detti “Catechisti” o “Istruttori”, coadiuvati dai più giovani “Didascali”, ed i “Paracliti” per l’assistenza degl’infermi e dei poveri. Nella comunità romana, allora istituita da pochi anni, ma già bene organizzata, non mancavano tuttavia, proprio a causa della sua recente istituzione, coloro che tentavano di conciliare tendenze diverse, ed anche contrapposte. Papa Lino avrebbe avuto così i suoi problemi con le eresie, nel suo tempo, circolanti nell’ambito della rivelazione cristiana. Non esistono documenti oggettivi, che comprovino in sede scientifica la presenza di San Pietro a Roma, sulla quale si regge la struttura della nostra Chiesa in Occidente. Tuttavia poiché con la presenza di San Pietro in Roma è connaturata l’origine stessa della Chiesa romana, essa non può porsi in discussione. Ed infatti, secondo la tradizione, non mai smentita nel corso di venti secoli, San Pietro è sepolto nei sotterranei della basilica vaticana: le ossa, ritrovate in un ripostiglio, tolte dall’originaria edicola, per salvarle dalle infiltrazioni d’acqua, sono, secondo il responso di specialisti, quelle di un individuo di sesso maschile, robusto, piuttosto alto, di età fra i sessanta ed i settant’anni. San Pietro (originariamente Simone o Cefas, non essendo attivo al suo tempo il nome di Pietro), quale primo Vescovo di Roma e tutore della città, è sempre stato oggetto di venerazione da parte popolare. Ce ne offre testimonianza la statua bronzea, che domina la navata centrale della basilica vaticana. Secondo la tradizione più antica, essa sarebbe stata ricavata da una statua di Giove, per ordine di Papa Leone I il Grande (440-461). Secondo una tradizione più recente ed accreditata, si ritiene che essa sia opera di Arnolfo di Cambio, il grande scultore ed architetto che operò tra il 1265 ed il 1302 a Siena, a Perugia, a Viterbo, ad Orvieto, a Roma ed a Firenze.Tuttavia di recente anche questa tradizione è stata messa in dubbio in sede critica. Comunque è sempre stata forte la devozione dei Romani per questa presunta statua di San Pietro, intesa come quella in cui il Vicario di Cristo impartisce ai fedeli la solenne benedizione, tanto che il piede destro 2 FRANCESCO SCORZA BARCELLONA, Lino, Santo, in Enciclopedia dei Papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, I, 2000, pp. 194-197. 8 della statua risulta consunto per il tocco dei visitatori nel corso dei secoli. Secondo la grandiosa visione della storia dell’umanità del Padre della Chiesa Sant’Ireneo di Lione (circa 135/140-circa 200), autore della Dimostrazione della predicazione apostolica, nella lista dei Vescovi romani il successore di Lino fu Anacleto o Cleto, Santo (78-90). La commemorazione di Cleto/Anacleto è stata però espunta nel 1969 dal Calendarium Romanum per l’incertezza del giorno della sua deposizione e della sua effettiva condizione di martire3. Con Clemente I, già considerato il terzo Vescovo di Roma dopo San Pietro, i dati storici sono positivi4. Ireneo di Lione afferma che egli era stato a contatto con gli Apostoli, tanto che «la loro predicazione risuonava alle sue orecchie e la loro tradizione era davanti ai suoi occhi»; ed egli ricorda che durante il suo episcopato la Chiesa di Roma inviò ai Corinzi una lettera «per farli riconciliare, rinnovando la fede e la tradizione apostolica, da poco ricevuta». A Papa Clemente I sono attribuite le cosiddette Clementinae e venti Homiliae. Quanto mai importante è la sua Epistula ad Corinthios. Occasione della lettera, che si estende per 65 capitoli, fu la rivolta, «empia e sacrilega», che si verificò nella chiesa di Corinto «per opera di un piccolo numero di agitatori che hanno gettato il discredito sulla comunità». Questa lettera è un documento quanto mai importante nella storia della Chiesa cristiana sulla fine del I secolo. Oltre tutto questa lettera è la testimonianza sul martirio di San Pietro e di San Paolo, le «colonne più grandi e più giuste» della Chiesa, oltre ai quali perì «una grande quantità di uomini e di donne». Sembra trattarsi della persecuzione di Nerone, dal momento che queste vittime sono dette «le generose vittime della nostra generazione».Tutto ciò bene si concilia con le difficoltà in cui i Cristiani vennero coinvolti durante gli ultimi anni del regno di Domiziano (95-96) ed i primi anni di quello di Nerva (96-98). Le fonti storiche sui primi Cristiani in Roma, e sulla loro Chiesa in fase di costituzione, sono quanto mai scarse: per lo meno sino verso la fine del II secolo. Anche il grande Padre della storia ecclesiastica, Eusebio da Cesarea (circa 265-339/340), interessato soprattutto alla storia della Chiesa d’Oriente, fornisce solo occasionalmente dati utili a proposito Papa Clemente I 3 4 F. SCORZA BARCELLONA, Anacleto/Cleto, Santo, in Enciclopedia dei Papi cit., pp. 197-199. F. SCORZA BARCELLONA, Clemente I, Santo, in Enciclopedia dei Papi cit., pp. 199-212. 9 dell’Occidente, anche se si tratta sempre di dati importanti, come, ad esempio, le informazioni relative all’entità numerica della comunità cristiana in Roma. Senza gli scritti storici di Eusebio, tra cui la Historia ecclesiastica, a cui dedicò venticinque anni della sua vita, ben poco noi sapremmo dei primi secoli della storia cristiana. La sua non è soltanto un’opera storica degna di fede, ma spesso l’unica nostra fonte d’informazione. Vogliamo sottolineare il fatto, essenziale per il nostro tema, che in lui la civiltà ebraica e la civiltà cristiana per la loro origine sono al vertice della storia; il che risponde evidentemente alla realtà, per cui non è possibile tenere distinti, nel I secolo, la consistenza e le vicende delle due comunità. Comunque la lettera, che Paolo di Tarso inviò, intorno al 57, ai Cristiani di Roma, costituisce, per quanto si sa, il primo documento sicuro sull’esistenza d’una comunità cristiana di Roma. Una comunità che Paolo non ha fondato, non ha prima visitato e non conosce: ma «in ogni parte del mondo – egli dice ai neofiti romani – si parla della vostra fede. Voglio che voi sappiate questo, fratelli: già molte volte avevo deciso di venire a raccogliere anche tra voi qualche buon frutto, come l’ho ottenuto da altri popoli; ma fino a ora non mi è stato possibile. Il mio compito è di rivolgermi a tutti: ai popoli di civiltà greca e agli altri, alla gente istruita e agli ignoranti; e per quanto dipende da me, sono pronto ad annunziare il messaggio di Cristo anche a voi che siete in Roma» (8, 13-15). Quando Paolo scrive si trova in Grecia, a Corinto, dopo avere visitato l’Asia Minore. Forse Roma deve 10 essere per lui un punto base per la sua futura predicazione a tutti i pagani in Occidente, fino alla Spagna. La salvezza è per tutti: «Non vi è differenza fra chi è Ebreo e chi non lo è, perché il Signore è lo stesso per tutti, immensamente generoso verso tutti quelli che lo invocano» (10, 12). «Ora vi chiedo: Dio ha forse respinto il suo popolo? No! Io stesso sono israelita, discendente da Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha respinto il suo popolo, che aveva scelto e amato sin dall’inizio» (11, 1-2). «Mi rivolgo a voi, che non siete Ebrei, proprio perché sono stato inviato come apostolo. Cerco di fare onore a questo incarico (...). Se la primizia La basilica di San Pietro in Acqui. Particolare della zona absidale. del raccolto è consacrata a Dio, anche il resto gli è consacrato. Se la radice di un albero è consacrata a Dio, lo sono anche i rami. Ora, Israele è come un ulivo, al quale Dio ha tagliato alcuni rami. Al loro posto ha innestato te, che non sei Ebreo, e sei come un ulivo selvatico, e ti ha reso partecipe dell’abbondante linfa che sale dalle radici» (11, 13, 16-17). Roma contava a quel tempo una presenza di circa 50.000 Ebrei, i quali disponevano d’una dozzina di sinagoghe. Noi non sappiamo come vi si sia formata la comunità cristiana. Sembra che essa fosse costituita in parte da credenti di originaria fede ebraica ed in parte da credenti di originaria fede pagana, non sapendo noi però quale delle due componenti fosse la più numerosa. Probabilmente tuttavia i primi Cristiani vennero in Roma dalla Palestina, e furono in Roma accolti dalla comunità dei molti Ebrei, ivi già residenti. Al tempo di Paolo questi nuovi venuti ed i loro primi seguaci appartenevano in maggioranza agli strati inferiori della popolazione: piccoli artigiani e commercianti, operai, schiavi. Di qui tra loro, divisioni, incomprensioni, malintesi. Dobbiamo ricordare che per la storia del Papato tra il I ed il VI secolo le fonti sono rare: soprattutto non sono uniformemente distribuite, aumentando gradatamente a mano a mano che dalle origini della Chiesa di Roma si avanza nel tempo. Fonti rare sino verso la fine del secolo II: tali da lasciare interamente priva di notizie buona parte di quel periodo. Soltanto a partire dai primi anni del secolo III il quadro delle fonti comincia ad arricchirsi, non tanto però da non lasciare alcuni vuoti, diventando poi non solo più abbondanti, ma soprattutto più uniformemente distribuite. Si tratta in massima parte di fonti di carattere letterario, mentre soltanto a partire dall’inizio del III secolo si fanno più copiose le fonti archeologiche ed epigrafiche5. Un testo essenziale per la conoscenza della storia della comunità cristiana in Roma, ed in particolare per la serie dei suoi Vescovi, è il Liber pontificalis, contenente precise notizie sui Vescovi di Roma da Pietro a Stefano V (885-891): opera essenziale per la storia della comunità cristiana di Roma ed in particolare dei suoi Vescovi. Se, sulla base di una notizia dataci da Svetonio, sappiamo che al tempo dell’Imperatore Claudio i Giudei a Roma tra loro litigavano, impulsore Chresto (da rettificarsi in Christo), senza dubbio il primo documento sicuro sull’esistenza della comunità cristiana in Roma è rappresentato dalla lettera, già ricordata, che San Paolo inviò ai Cristiani di Roma intorno all’anno 57, per annunciare il suo arrivo. Egli arrivò qualche anno più tardi, nella primavera del 61, quale imputato in attesa di giudizio. Eusebio da Cesarea 5 Cfr. MARIA GABRIELLA ANGELI BERTINELLI, Le origini: l’età romana e tardoantica, in Il cammino della Chiesa genovese dalle origini ai giorni nostri, a cura di Dino Puncuh, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n.s., XXXIX (CXIII), fasc. II, Genova, 1999, pp. 33-75. Sulle fonti letterarie, oltre che documentarie, relative alla diffusione del cristianesimo tanto nella Liguria marittima quanto nell’Italia nord-occidentale cfr. ELEONORA SALOMONE GAGGERO, Nota bibliografica, in appendice a M. G. ANGELI BERTINELLI cit., p. 65. Quanto all’”edicola semidistrutta”, di cui a p. 168 del libro di Geo Pistarino, Acqui antica e medievale sopra citato, cfr. il comunicato L’Unitre adotta un affresco, a cura di Lionello Archetti Maestri, in «L’Ancora», 24 aprile 2005, p. 5. 11 grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro: non io però, ma la grazia di Dio che è in me» (Prima lettera ai Corinzi, 15, 910). «Fratelli santi, partecipi d’una vocazione celeste, fissate bene la mente in Gesù, l’apostolo e sommo sacerSarcofago collocato presso l’abside della Cattedrale di San Guido in Acqui. dote della fede che noi professiamo. Il quale è nella Historia Ecclesiastica fissa il marti- stato fedele a colui che l’ha costituirio di Pietro e Paolo tra il 64 ed il 67. to, così come lo fu Mosè in tutta la Paolo ha già lasciato scritto ai suoi sua casa. Ma, in confronto di Mosé, fedeli: «Ora voi siete il corpo di egli è stato giudicato degno di una Cristo e le sue membra, ciascuno per gloria tanto maggiore, quanto di un la sua parte. Alcuni perciò Dio li ha maggiore onore gode il costruttore posti nella Chiesa in primo luogo in confronto alla casa stessa. Ogni come apostoli, in secondo luogo casa infatti viene costruita da qualcucome profeti, in terzo luogo come no, ma colui che ha costruito tutto è maestri; poi vengono i miracoli, poi il Dio. In verità Mosé fu fedele in tutta dono di fare guarigioni, i doni di assi- la casa di lui come servitore, per renstenza, di governare, delle lingue. dere testimonianza di ciò che doveva Sono forse tutti apostoli? Tutti profe- essere annunziato più tardi. Cristo, ti? Tutti maestri? Tutti operatori di invece, lo fu in qualità di figlio, costimiracoli? Tutti possiedono doni di tuito sopra la sua propria casa. La sua fare guarigioni? Tutti parlano lingue? casa siamo noi» (Lettera agli Ebrei, 3, Tutti le interpretano?» (Prima lettera 1-6)6. ai Corinzi, 12, 27-30). Oggi dunque – è la sottintesa con«Io sono l’ultimo degli apostoli e non clusione di Paolo secondo gli esegeti sono degno neppure di essere chia- dei suoi scritti – facendo noi parte mato apostolo, perché ho perseguita- della creazione universale, dobbiamo to la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio seguire Cristo lungo la via tracciata però sono quello che sono, e la sua da Lui. 6 La Bibbia, Testo integrale CEI, realizzazione di Pietro Vanetti S.I., Roma-Milano, 1988, pp. 2072, 2075, 2165. Sulla storicità dei Vangeli cfr. CHAIM COHN, Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico, traduzione dal tedesco di Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, 2000. 12 COMUNITÀ MONTANA SUOL D’ ALERAMO Comuni delle Valli Orba, Erro, e Bormida di Spigno Comune di Acqui Terme Comune di Genova Comune di Mantova Acqui Terme, 26-30 ottobre 2005 Hotel Nuove Terme LA CENTRALITÀ DEL TERRITORIO Il Monferrato, porta d’Europa Quattro giorni di studio e confronto tra docenti degli atenei di Italia, Francia e Spagna, in preparazione del convegno dedicato all’identità del Monferrato e alla sua percezione a livello internazionale. Presentazione degli Stati Generali della Comunità Montana momento strategico per la crescita delle nostre terre Valerio Scepto: un ex schiavo in carriera di Valentina Pistarino L’iscrizione di Caio Valerio Scepto.Alla prima riga si può vedere la C retroversa (rovesciata), un simbolo che veniva usato dai Romani nell’onomastica dei liberti e delle liberte per indicare che erano appartenuti a una donna (va letta “Caiae” o “mulieris”, cioè “di donna”). 14 Riprendiamo l’appuntamento con la rubrica epigrafica focalizzata sulle iscrizioni romane del Museo Civico di Acqui Terme. Nel precedente articolo abbiamo fatto conoscenza con Erasto, schiavo di una grande casa, una domus di Aquae Statiellae: come abbiamo visto, aveva rivestito alte cariche nel collegio di culto degli schiavi di casa, nonché era stato abbastanza abbiente da poter acquistare e far incidere un piccolo cippo per una dedica votiva. Non sappiamo se Erasto abbia poi ottenuto la libertà, non ci sono pervenute altre iscrizioni con il suo nome. Se fosse riuscito a riscattarsi, sarebbe diventato un liberto (schiavo liberato). Ed è proprio di un ex schiavo che ci occuperemo questa volta, e cioè di Caius Valerius Sceptus, vissuto ad Acqui all’incirca nel primo secolo dopo Cristo. Grazie alla sua iscrizione sepolcrale siamo in grado di ricostruire gli avvenimenti più importanti della vita di questo liberto particolarmente fortunato. L’iscrizione Non si sa dove e quando è stata ritrovata l’iscrizione in esame, ma è già riportata nel foglio 56 del manoscritto del vescovo d’Acqui Gregorio Pedroca, datato al 1628. Il testo è inciso su di una lastra di marmo ora spezzata in due pezzi fortunatamente combacianti, che è stato possibile ricongiungere. Si nota però ancora la linea di frattura che corre verticalmente quasi al centro della lastra, che rende difficile (ma non impossibile) la lettura di alcune lettere. Infatti, con un po’ di pazienza si può leggere: C(aius) Valerius ((mulieris)) l(ibertus) Sceptus, VI vir Aug(ustalis) Flavialis sibi et Vettiae L(uci) f(iliae) Romulae, uxori v(ivus) f(ecit). Cioè: “Caio Valerio Scepto, liberto di donna, seviro Augustale Flaviale, ha fatto (questo monumento funebre) quando era ancora in vita, per sé e per la moglie Vettia Romula, figlia di Lucio (Vettio)”. Si data l’iscrizione alla seconda metà del I sec. d. C. La lastra marmorea era destinata al sepolcro di Caio Valerio Scepto e della moglie, già commissionata in vita secondo un uso adottato all’epoca da molte persone. Il monumento è molto curato, il testo è privo di errori e ben impaginato: al nostro liberto non dovevano mancare mezzi economici. Alla prima riga nella foto si vede una C rovesciata (detta “retroversa”), un simbolo che veniva usato dai Romani nell’onomastica dei liberti e delle liberte per indicare che erano appar- tenuti a una donna. Perciò la C retroversa va letta: mulieris, cioè “di donna”. Chi era Valerius Sceptus Sembra strano, ma dalle poche righe di quest’iscrizione possiamo ricostruire gli eventi cardine della vita di Valerius Sceptus. Questo infatti era lo scopo dell’epigrafe sepolcrale: i Romani desideravano lasciare traccia di ciò che erano stati, e questo non valeva solo per le persone importanti, ricche o che avevano avuto successo: anche i più umili ci raccontano “dalla tomba” tramite le loro epigrafi sepolcrali quello che erano stati, il mestiere che avevano svolto, persino se erano schiavi. Le loro testimonianze sono tanto più importanti perché si tratta di persone che non sono entrate nella Storia che si studia a scuola, eppure ci possono fornire molte informazioni sul vivere quotidiano dell’epoca romana. Per sapere quindi chi era questo nostro concittadino di quasi duemila anni fa possiamo procedere come in una Un “collega” di Valerio Scepto. Frammento marginale destro di lastra esposto al Museo Civico di Acqui. È possibile leggere: [- - -] Q(uinti) l(ibertus) / [- - -]us VI vir / [- - -]bus suis / [- - -] cum / - - - - - . 15 specie di indagine poliziesca, tramite tanti piccoli indizi. Il primo lo abbiamo già presente: la lastra marmorea e la sua accurata incisione indicano una certa spesa, se pure non ingentissima (un’alta stele marmorea con raffigurazioni, ad esempio, costava certo di più). Altro indizio: il nome stesso della persona: C(aius) Valerius ((mulieris)) l(ibertus) Sceptus, “Caio Valerio Scepto, liberto di donna”. Da qui apprendiamo che: • Valerio Scepto era un uomo libero, ma non era nato tale: era un liberto, un ex schiavo. • quando era schiavo, il suo nome era Sceptus. Infatti lo schiavo in genere aveva un solo nome, ma quando riacquistava la libertà, assumeva i tria nomina*, i 3 nomi che portavano gli uomini liberi. Il vecchio nome da schiavo diventava il cognome (ed ecco perché sappiamo come si chiamava Valerio Scepto quando era schiavo). • Scepto poteva essere un greco o comunque provenire dalla parte orientale dell’impero. Questo nome (o meglio cognome) è infatti grecanico (di origine greca), ma non è detto che il nostro liberto fosse per forza greco: era quasi una moda usare dei cognomi grecanici, erano scelti persino da uomini liberi. • il nome della patrona (ex padrona) di Valerio Scepto era Valeria. Il liberto infatti prendeva gli altri due elementi del nome dal padrone. Ne consegue che, anche se non è detto esplicitamente, possiamo ugualmente sempre dedurre il nome dell’ex proprietario/a del liberto o della liberta. • un parente, forse il padre o il fratello di Valeria si chiamava Caio di prenome. La donna romana non aveva 16 in genere prenomi, quindi il suo ex schiavo prendeva questo elemento onomastico da un parente dell’ex padrona. Proprio perché le donne non avevano prenome, si diceva genericamente “liberto di donna”, perché l’espressione “liberto di” (cosiddetto “patronato”) era seguita dal prenome dell’ex padrone. Questo valeva anche per il patronimico (cioè la formula “figlio di” + prenome del padre). Chi l’avrebbe detto che semplicemente dal nome si potessero fare tante deduzioni! Questo vale per tutti i Romani: nel proprio nome già dichiaravano la loro condizione sociale, di chi erano figli o da chi erano stati liberati, e spesso la loro provenienza geografica. Vita da liberti Da quanto emerge dall’iscrizione stessa, non solo gli uomini avevano diritto a possedere schiavi, ma anche le donne; del resto persino gli schiavi, se il padrone lo permetteva, potevano avere beni personali, tra cui anche schiavi. Questo creava una sorta di “gerarchia” anche nel mondo servile: essere schiavi dell’imperatore significava in genere essere ben più in alto degli schiavi di uomini comuni, per non parlare degli schiavi di proprietà di altri schiavi.Anche essere al servizio di una donna, in particolare per un servo uomo, significava in genere essere socialmente più debole. Nel caso di Valerio Scepto, forse è stato oggetto di maggior disprezzo quando era uno schiavo, ma una volta libero la sua carriera, che vedremo in seguito, non sembra averne risentito affatto. Ma in che modo riusciva a liberarsi legalmente uno schiavo romano? Doveva raccogliere la somma che costituiva il suo prezzo sul mercato (il servo era I colleghi di nella mentalità dei Romani un oggetto, una merce) e Valerio acquistare sé stesso dal proprio padrone. Questo Scepto (I) era possibile solo se il padrone permetteva allo schiavo di raccogliere una somma personale grazie Caio Valerio Scepto non è al proprio lavoro. Questo privilegio toccava ai servi l’unico seviro attestato ad Acqui. Nel 1869 si rinvendomestici e quelli incaricati di gestire le proprietà o ne presso il Seminario le attività economiche, (agricole, mercantili, manifatVescovile l’iscrizione di un turiere, ecc.) del padrone, e non, in genere, alla gran altro seviro Augustale massa di schiavi, quelli che lavoravano nelle cave, Flaviale, Lucio Vibullio nelle miniere, nei campi e nelle enormi manifatture, Montano. Possiamo leggee che il padrone neppure conosceva o quasi non re ancora il testo, riportasapeva di possedere. In realtà nessuna legge tutelava to nella raccolta ottocenteil servo nell’aspetto economico, perciò bisognava sca delle iscrizioni latine essere fortunati e trovare un padrone “magnaniCIL (Corpus Inscriptionum mo”. Alcune volte, però, più che di magnanimità si Latinarum), volume V, nr. trattava di convenienza: molti padroni agiati sicura7509, mentre del reperto mente ritenevano più conveniente un continuo epigrafico si sono perse le “ricambio” di schiavi, per evitare anche quel minimo tracce (pare addirittura di assistenza ai servi che invecchiavano (e all’epoca che sia stato riseppellito si era vecchi a quarant’anni), avendo oltretutto la subito dopo la scoperta). possibilità di comperare il nuovo schiavo con il Si tratta di un’iscrizione denaro del riscatto di un altro schiavo. Per altri servi funeraria destinata ad un la liberazione era inevitabile, avendo ben condotto sepolcro familiare in quanl’attività economica del dominus e avendo raccolto to posta da una donna, Pollia Marcella, per il una buona somma per sé; il proprietario li liberava padre Marco Pollio Certo, senza perderci troppo, perché il liberto rimaneva un liberto, per la madre ancora molto legato al suo patrono, come vedremo. Aufidia Titulla, un’ingePer non pochi padroni, poi, nella liberazione giocava nua, per il marito Lucio il fattore affettivo, il desiderio di ricompensare uno Vibullio Montano e per i schiavo fedele. Quante schiave, come emerge dalle quattro figli Lucio iscrizioni, sono Vibullio, Lucio Vibullio state liberate e (due figli con lo stesso sposate dai loro identico nome, uno potrebbe essere premorto, tratproprietari! Altandosi di un monumento l’epoca dell’impefunebre, ma non è detto), ratore Augusto Tito Vibullio e Procula (fine I sec. a.C.Vibullia. inizio I sec. d. C.) l’affrancamento (liberazione) degli Tre liberti greci ringraziano il patrono. schiavi aveva ragPilastrino marmoreo esposto al Museo Civico di giunto proporAcqui Terme. Il testo è il seguente: Genio / P(atroni) zioni preoccuN(ostri) / Thallus / Thallio / Agathio / lib(erti). Si tratta di una dedica votiva di tre liberti al Genio del patrono panti in una so(per la pratica dei culti domestici si veda l’articolo cietà che si basasullo schiavo Erasto nel primo numero della rivista). va sul lavoro ser- 17 vile, tanto che l’imperatore tentò di frenare il fenomeno attraverso una serie di leggi restrittive, tra cui una tassa sul riscatto del servo (pari al 5%, la cosiddetta vigesima libertatis), che doveva pagare il padrone, e un limite di età: lo schiavo da liberare doveva avere tra i diciotto e i trent’anni. Ma la legislazione augustea volta al mantenimento dell’ordine sociale fu un fallimento, e le leggi riguardanti i liberti non fecero eccezione. Vediamo nella pratica come avveniva la manomissione (liberazione). Le tre modalità principali erano: • per testamento: il padrone (o la padrona) indicava nel testamento quali schiavi voleva liberare dopo la sua morte. In questo modo ricompensava gli schiavi fedeli ma danneggiava i suoi eredi, che ereditavano meno “beni”; • per censimento: anche i Romani facevano una “denuncia dei redditi” ogni cinque anni, il censimento, appunto; in questa occasione alcuni proprietari preferivano liberare degli schiavi per non pagarvi sopra le tasse (potremmo dire modernamente che li “scaricavano dalle tasse”); • per vindicta (verga): in una sorta di suggestiva cerimonia il padrone conduceva lo schiavo da liberare davanti al magistrato (il pretore* a Roma, il quattuorviro o duoviro giuresdicente* nei municipi); una terza persona con alcune parole di rito contestava al dominus la proprietà dello schiavo e il magistrato, dandogli ragione prendeva una verga e la passava sulla testa dello schiavo, lo faceva ruotare su sé stesso e lo dichiarava libero; gli amici del nuovo liberto gli ponevano sul capo il berretto frigio (copricapo poi adottato durante la Rivoluzione francese per simboleggiare la ritrovata libertà). 18 C’erano poi altri modi di affrancare un servo, come ad esempio la manomissione per mensa: il padrone, di fronte ad un testimonio, invitava lo schiavo a sedersi a tavola con lui. Non conosciamo il modo in cui è stato affrancato Scepto, ma sappiamo che cosa lo attendeva nella sua nuova vita. Con il suo nuovo nome da libero, Valerio Scepto non si era svincolato del tutto dall’antica padrona. A meno che la patrona Valeria non l’abbia liberato per testamento,Valerio Scepto, come tutti i liberti, le doveva ancora dei servigi, e cioè l’obsequium e le operae. Il primo termine indicava l’ossequio che il figlio doveva ai genitori e il liberto al patrono, suo “papà” legale; tra i vari doveri c’era la salutatio, cioè la visita del mattino al patrono che accoglieva liberti e clientes (persone libere legate al dominus, suoi sostenitori in cambio di favori e protezione). Le operae erano invece prestazioni lavorative gratuite che il liberto doveva ancora all’ex padrone ogni anno, secondo gli accordi presi prima della manomissione. Non basta: il patrono aveva diritto ad una parte dell’eredità del suo ex schiavo. Prima di Augusto questo diritto spettava solo se il liberto non aveva lasciato discendenti diretti, ma dal I sec. d. C. la legislazione favorì ulteriormente i patroni: in caso di eredità ingenti, al figlio unico del liberto spettava solo la metà della sostanza paterna e il resto andava all’antico dominus, oppure, se morto, a suo figlio o suo nipote. Nel caso i figli del liberto fossero due, al patrono toccava 1/3 del patrimonio, e solo se i figli erano tre o più non dovevano dividerlo con l’ex padrone del padre. Tornando a Valerio Scepto, queste erano le sottili catene che ancora lo legavano all’ex padrona Valeria, ma non è tutto: non poteva arruolarsi nell’e- I colleghi di Valerio Scepto (II) sercito, non poteva intraprendere una carriera politica, e quel che è peggio, se avesse avuto dei figli durante la schiavitù, magari con una cumserva (compagna di schiavitù), il figlio sarebbe rimasto schiavo della padrona e avrebbe dovuto essere riscattato. Una sola nota positiva: i figli nati dopo l’affrancamento da donne liberte o libere erano completamente liberi, privi di obblighi e rispettati dalla società come se fossero stati discendenti di uomini liberi. Non pochi senatori e cavalieri di età imperiale discendevano, infatti, da liberti arricchiti. Che cosa poteva fare un liberto? I più avevano speso tutto quello che possedevano per affrancarsi, e così entravano a far parte della massa della plebe urbana, dei poveri che, come ci descrivono gli scrittori latini, abitavano in tuguri e vivevano alla giornata. Alcuni riuscivano in qualche modo a raccogliere del denaro per iniziare un’attività o comperarsi un pezzo di terra; altri, come i medici o gli artigiani, continuavano l’attività che esercitavano prima per conto del padrone, rimanendo in genere sempre legati a lui. Ben pochi avevano la fortuna di Trimalcione, liberto scaturito dalla fantasia dell’autore Petronio nel Satyricon (I sec. d. C.): liberato per testamento dal padrone, ne aveva per sua volontà ereditato le sostanze e, in seguito a imprese commerciali fortunate, era diventato ricchissimo. Valerio Scepto, da quanto vediamo dalla sua iscrizione funeraria, non arrivò a tali livelli ma certo, qualunque attività avesse intrapreso, si procurò una certa agiatezza. Prima di tutto sposò una donna libera,Vettia Romula, figlia di Lucio: che fosse una donna libera si capisce dal patronimico, che è proprio solo degli individui ingenui, cioè liberi fin dalla nascita. La legge Il Museo Civico di Acqui espone altre iscrizioni menzionanti seviri. In un caso siamo sfortunati, in quanto si conserva soltanto un frammento del testo e pertanto non conosciamo neppure il nome del seviro, tranne il patronato, Q(uinti) l(ibertus), liberto di Quinto (foto a pag. 15). Si trattava dunque di un ex schiavo come Valerio, forse vissuto poco dopo di lui (II sec. d. C., datazione desunta dalla forma delle lettere del testo (caratteri paleografici). L’altra epigrafe, una stele, riguarda invece l’ingenuo Marcus Valerius M(arci) f(ilius) Tromentina (tribu) Crescens. Questo conferma anche per la nostra città la compresenza di liberi ed liberti nei collegi sevirali. La ricca stele decorata di Valerius Crescens sarà prossimamente oggetto di particolare approfondimento. permetteva un simile matrimonio, ma di fatto era più facile che gli uomini sposassero delle liberte (in genere loro ex schiave) piuttosto che una donna libera sposasse un liberto, in quanto socialmente era pur sempre ritenuto degradante. Solo il rispetto sempre suscitato dal denaro poteva far passare in secondo piano la precedente vita servile di Valerio Scepto e rendere possibile un matrimonio con una libera, matrimonio che lo innalzò ulteriormente nella gerarchia sociale fino ad avvicinarlo agli ingenui, ai liberi. Ma ciò che ci segnala con più forza la fortuna di Scepto è l’indicazione nell’iscrizione della carica di seviro Augustale Flaviale. Si trattava di una carica religiosa prevista nell’ordinamento di ogni città romana fino alla fine del II sec. d. C., e poi scomparsa. I seviri, che costituivano un gruppo (un collegio) di sei uomini, liberi o liberti, dovevano occuparsi dell’organizzazione del culto degli imperatori morti, considerati dai Romani delle divinità, e 19 Glossario *pretore: magistrato che a Roma amministrava la giustizia. In realtà erano due: il pretore urbano si occupava delle controversie tra cittadini romani, il pretore peregrino giudicava i casi in cui erano implicati gli stranieri (peregrini). *quattuorviro/duoviro giurisdicente: magistrato locale eletto annualmente in ogni municipio e colonia romana insieme a un collega con analoghi poteri (per il principio della collegialità delle cariche), aveva le funzioni degli attuali sindaco e giudice. *tria nomina: i tre nomi che costituiscono l’onomastica dell’uomo libero. Si tratta del prenome (un nome personale che in età imperiale non aiutava più a distinguere le persone in quanto si limita ormai ad una decina di varianti, ad es. Marco, Lucio, Sesto, Quinto, Caio, ecc), del nome o gentilizio (il nome di famiglia) e del cognome (il nome personale vero e proprio). PER CHI VUOLE SAPERNE DI PIU’ Sull’iscrizione ELENA GIULIANO, Le epigrafi di Aquae Statiellae nel Museo Civico di Acqui Terme, Acqui Terme 2000, scheda 6 (CIL V 7511), pp. 41-42. Sui liberti JEAN ANDREAU, Il liberto, in (a cura di ANDREA GIARDINA) L’ uomo romano, Editori Laterza, Bari 1998, pp. 189-213. JÉRÔME CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma, Editori Laterza, Bari 19999. FRANÇOIS JACQUES – JOHN SCHEID, Roma e il suo Impero. Istituzioni, economia, religione, Edizioni Laterza, Bari 1992. Sul sevirato R. DUTHOY, La fonction sociale de l’Augustalité, in “Epigraphica”, 36, 1974, pp. 134-154. R. DUTHOY, Les Augustales, in ANRW (Aufstieg und Niedergang der römischen Welt), II, 16, 2, 1978, pp. 1254-1309. degli omaggi all’imperatore vivente e al suo Genius (entità spirituale, sorta di angelo protettore). I seviri facevano donazioni per cerimonie e statue o iscrizioni celebrative, perciò poteva diventare seviro solo un uomo abbastanza ricco. Erano i seviri stessi che sceglievano l’uomo adatto quando si liberava un posto, secondo modalità ancora ignote. Esistono seviri, seviri Augustali (per il culto di Augusto e della sua famiglia), seviri Augustali Claudiali (per l’imperatore Claudio, 41-54 d. C.) e seviri Augustali Flaviali (per gli imperatori Flavi, 69-96 d. C., cioè Vespasiano, Tito e Domiziano). Si ignora il perché non ci siano seviri per gli altri imperatori o perché non ci siano più segnalazioni dal III sec. in poi. Si suppone che l’istituzione di questa carica sia stata un modo per coinvolgere i liberti nella vita civile: non potevano rivestire magistrature, ma le città non potevano ignorare i loro patrimoni, soprattutto perché la cassa cittadina era vuota e veniva riempita dai magistrati stessi (presso i Romani non si era pagati per fare il sindaco, bensì si doveva pagare la città per diventarlo!). Ecco quindi che essere scelto come seviro era la conferma del successo di un liberto. Le eventuali ambizioni politiche di un liberto dovevano forzatamente essere riposte nei figli, e grazie a donazioni alla città, all’organizzazione di ludi (giochi) gladiatori o alla costruzione di edifici pubblici a proprie spese, l’ascesa alle massime cariche era assicurata. Eclatante il caso di Numerio Popidio Ampliato, ricco liberto che costruì un tempio a nome del figlio di sei anni e ottenne di farlo ammettere subito, nonostante il divieto della legge per la giovane età, al senato cittadino. Nel giro di una generazione l’onta della schiavitù scompariva, iniziava un’ascesa che poteva portare i discendenti di uno schiavo persino sul trono imperiale. La cavalcata dei Vizi: un modello catechetico per i semplici Villafranca Piemonte, cappella di Missione: particolare della Cavalcata dei Vizi di Aymo Dux. di Carlo Prosperi La cavalcata sfila nell’affresco sulla parete verso un’ampia gola di Leviatano: una catena sola avvince i Vizi nel corteo grottesco. Pietà dei padri che dai vecchi muri ci parla ancora e non ha più risposta ma nel silenzio umbratile si scrosta vittima inane della nostra incuria. 1 – Invisibilia enim ipsius [scil. Dei], a creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur: così san Paolo,1 le cui parole fissano la concezione platonico-cristiana del mondo come specchio o riflesso (umbra) di realtà sovrasensibili e divine, concezione che impronterà di sé gran parte della cultura medievale. Il divino, in altri termini, si riflette nel creato fino a farne “un immenso atto di parola”.2 Lo ribadirà in maniera esemplare Alano di Lilla in versi davvero ispirati: Omnis mundi creatura / quasi liber et pictura / nobis est in specu- 22 lum; // nostrae vitae, nostrae mortis, / nostri status, nostrae sortis / fidele signaculum. // Nostrum statum pingit rosa, / nostri status decens glosa, / nostrae vitae lectio; // quae dum primo mane floret, / defloratus flos effloret / vespertino senio.3 Nondimeno, a ben pensarci, qui i simboli hanno già perso la loro originaria verticalità.4 Il loro carattere trascendente e, per così dire anagogico, si è smarrito o diluito in una rete di “corrispondenze” affatto orizzontali, sicché ormai ci muoviamo nell’ambito di un immanentismo che, per quanto suggestivo, non ha più nulla di vertiginoso. I simboli si sono, per così dire, degradati ad analogie e la visione spirituale ha ormai ceduto il posto a quella morale (o moraleggiante). La natura, in altre parole, ci offre degli exempla, degli specchi in cui riconoscerci, da cui trarre lezioni di comportamento sulla base di talune scoperte affinità, laddove in origine il simbolo aveva ben altra portata gnoseologica, perché era un mezzo per guardare, sia pure in aenigmate, al divino. Ora, se “ le monde est un symbole”,5 tocca all’uomo scoprire il significato spirituale che latita in ogni realtà naturale. Nella natura come nella Scrittura – a dire di Origene – “si può mettere in relazione l’ambito del visibile con quello dell’invisibile, ciò ch’è manifesto con ciò ch’è occulto, il corporeo con l’incorporeo, e si può pensare che la stessa creazione del mondo sia stata fatta dalla sapienza divina con tale disposizione che essa, grazie alle cose stesse che servono d’esempio, ci istruisce sulle realtà invisibili, e dalle realtà terrene ci trasporta alle realtà celesti”6: agli archetipi cioè di platonica e plotiniana memoria. Plotino, in particolare, sostiene che, poiché il nostro universo esiste sul modello dell’universo intelligibile, “è necessario che lassù esista anzitutto l’Universo Vivente e che esso sia la totalità dei viventi, dal momento che esso è un essere perfetto […]. C’è evidentemente lassù anche una terra che non è deserta ma è più animata della nostra: essa ha in sé tutti quegli animali che quaggiù vengono detti terrestri e legati alla terra, nonché le piante che posseggono la vita; e lassù c’è anche il mare e ogni onda che scorre e vive tranquilla e tutti gli animali acquatici; ed anche la natura dell’aria fa parte dell’universo intelligibile ed esistono in essa tutti gli animali aerei che le corrispondono […]”.7 È quindi “lassù” che il nostro sguardo dovrebbe puntare qualora volesse bearsi della perfezione che difetta invece agli esseri di “quaggiù”, i quali – cose, animali o piante che siano – sono soltanto cifre allusive (umbrae o “umbriferi prefazi”, per dirla con Dante8) degli archetipi celesti. Altri- 1 Rm 1, 20 : “Ciò che Dio ha di invisibile, fin dalla creazione del mondo, si rende visibile all’intelletto attraverso le sue opere”. 2 U. ECO, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Milano 1987, p. 88. 3 Rhytmus alter, in PL 210, col. 579. “Ogni mondana creatura / quasi un libro o una pittura / è per noi come uno specchio; // di nostra vita, di nostra morte, / di nostro stato, di nostra sorte / fedele immagine. // La rosa in fiore sul mattino / che sfiorisce nel declino / languido del vespero // rappresenta il nostro stato, / ne è un commento appropriato, / di nostra vita interprete”.Traduzione nostra. 4 Sul simbolismo verticalizzante, si vedano G. DE CHAMPEAUX, S. STERCKX, I simboli del Medioevo, Milano 1981, pp. 185 ss. Per comprendere la degradazione implicita e conseguente alla perdità di verticalità, basta considerare l’interrogativa retorica di G. Bachelard ivi proposta:“ogni valorizzazione non è forse verticalizzazione?” 5 É. MÂLE, L’Art religieux du XIIIe siècle en France, Paris 1958, vol. I, p. 78. 6 ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, Roma 1976, p. 235. 7 PLOTINO, Enneadi, a cura di G. FAGGIN, Milano 1992,VI, 7, 12, p. 1233. 8 D. ALIGHIERI, Paradiso XXX, 78. 23 menti avviene quanto deprecato dal noto detto cinese: quando il saggio addita la luna, lo sguardo dello stolto si affisa al dito. Ebbene, è qui la ragione dei bestiari (e degli erbari, dei lapidari, etc.) così diffusi nel medioevo: essi vogliono aiutare a decifrare la realtà naturale, a leggere correttamente il grande libro della natura, cogliendo in esso – attraverso l’interpretazione simbolica - il riflesso della superna realtà spirituale. Dalle creature risalire al Creatore, dal bello profuso in natura al Bellissimo per antonomasia che ne è la ragione e la sorgente: questo è il processo che essi intendono innescare. Nel creato tutto – era questa la convinzione di Sant’Antonio e di San Francesco9 – parla di Cristo e delle verità cristiane: ogni creatura terrestre è segno o vestigio di Dio, creatio, quae, bene considerata, suum inspectorem transmittit ad sui Creatoris considerationem.10 Scala a Dio.11 Ma l’idea di un allegorismo universale era allora piuttosto comune. La troviamo enunciata anche da Riccardo di San Vittore: Habent corpora omnia ad invisibilia bona similitudinem.12 La troviamo, soprattutto, in quella che è stata definita “la charta fondamentale della cultura cristiana”,13 vale a dire nel De doctrina Christiana di sant’Agostino. Qui converrà soffermarsi per aggiungere al nostro discorso qualche ulteriore puntualizzazione. Sant’Agostino distingue nell’universo res (cose) e signa (segni), e del signum dà la seguente definizione: Signum est enim res, praeter speciem quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire.14 Di signa esistono due tipi: i signa naturalia (“quelli che, senza alcuna intenzionalità e volontà di significare, fanno conoscere, a partire da sé, qualcos’altro oltre sé, come il fumo significa il fuoco”15) e i signa data (“quelli che gli esseri viventi si scambiano gli uni con gli altri per far conoscere, per quanto è possibile, le emozioni del loro animo, i sentimenti, i pensieri”16), ad esempio le parole.Tra i segni intenzionali vi sono pure quelli divinitus data, cioè quelli della Scrittura, i quali a loro volta si distinguono in propria e traslata. “Li diciamo propri quando ne facciamo uso a significare le cose per le quali essi sono stati istituiti, come diciamo bovem e intendiamo l’animale domestico che, insieme con noi, tutti quelli che si esprimono in latino chiamano con questo nome. I segni sono traslati quando le cose che indichiamo col proprio nome vengono assunte per significare qualcos’altro: per esempio diciamo bovem e con queste due sillabe intendiamo l’animale che abitualmente chiamiamo con questo nome; ma con questo animale intendiamo anche chi predica il Vangelo, che la Scrittura ha Villafranca Piemonte, cappella di Missione: Aymo Dux, Cavalcata dei Vizi. Villafranca Piemonte, cappella di Missione: particolare della Cavalcata dei Vizi di Aymo Dux. significato, secondo l’interpretazione dell’apostolo, con le parole: «Non metterai la museruola al bue che trebbia»”.17 E commenta Zambon:“I ‘segni traslati’, quindi, non presuppongono più, come nella retorica classica, uno spostamento o una traslazione di senso, ma comportano invece una stratificazione di piani semantici: il primo significato, ossia (per Agostino) l’oggetto designato, diventa infatti a sua volta significante, come avviene nel caso del riferimento paolino al bue, simbolo dell’Evangelista”.18 Ma questo, ancora una volta, è possibile perché ogni cosa creata rimanda a realtà spirituali di cui essa è segno o simbolo: nulla vi è infatti nella natura che non sia orma o ombra del divino, che non ci parli del Creatore.19 Per questa ragione ogni realtà naturale può essere assunta ad divina mysteria significanda.20 La Scrittura fa largo ricorso ai signa translata ed è quindi necessario ad una corretta interpretazione dei medesimi la conoscenza di quelle discipline filologiche o scientifiche che possono fornire nozioni utili a decrittarne 9 Cfr. Laudes creaturarum:“frate Sole” – “bellu e radiante cum grande splendore” – in quanto, appunto, “pulcrior omnibus aliis creaturis” [più bello di tutte le altre creature, secondo la Compilatio Assisiensis] “porta significatione” di Dio , che è appunto il “solo Altissimo” (per questa interpretazione del terzo verso, si veda da ultimo G. POZZI, Il Cantico di Frate Sole di san Francesco, in Letteratura italiana. Le Opere, diretta da A. ASOR ROSA, I, Dalle Origini al Cinquecento; Torino 1992, p. 13). E Dante nel Convivio, III, XII, 7: “Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ’l sole”. 10 ANTONIO, Sermones cit. da F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico degli animali, Milano,Trento 2001, p. 145.“[…] creazione, che, se ben considerata, rimanda chi la osserva alla considerazione del suo Creatore”. È quanto si legge anche nel libro biblico della Sapienza, XIII, 1-9: “Davvero, profondamente stolti tutti gli uomini / che vivono nell’ignoranza di Dio, / e che, attraverso le cose visibili, non hanno riconosciuto Colui che è, / né hanno saputo riconoscere l’Artefice considerandone le opere”. 11 Secondo TOMMASO DA CELANO [Vita secunda sancti Francisci, in “Analecta franciscana”, X (1926), § 165], l’apprendimento intuitivo della gloria divina si compie in due modi diversi: o seguendo, per gradi, l’itinerario dal creato al creatore [in questo caso l’analogia facit de omnibus scalam qua pervenitur ad solium: “fa d’ogni cosa scala per cui si giunge alla soglia”] o captandone immediatamente, per intuizione estatica, la presenza nel creato [ibid., § 81]. 12 Benjamin maior, in PL 196, col. 90. “Ogni corpo visibile presenta una rassomiglianza con un bene invisibile”. 13 H.-I. MARROU, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1958, p. 413. 14 SANT’AGOSTINO, L’istruzione cristiana, a cura di M. SIMONETTI, Milano 1994, II, I, 1, pp. 74-75. “Segno è infatti una cosa che, oltre l’aspetto esterno che presenta ai sensi, fa venire in mente qualcos’altro a partire da sé”. 15 Cfr. ivi, II, I, 2: Naturalia sunt quae sine voluntate atque ullo appetitu significandi praeter se aliquid aliud ex se cognosci faciunt, sicuti est fumus significans ignem. 16 Cfr. ivi, II, II, 3: Data vero signa sunt quae sibi quaeque viventia invicem dant ad demonstrandos, quantum possunt, motus animi sui vel sensa aut intellecta quaelibet. 17 Ivi, II, X, 15 : Sunt autem signa vel propria vel translata. Propria dicuntur, cum his rebus significandis adhibentur propter quas sunt instituta, sicut dicimus bovem, cum intellegimus pecus quod omnes nobiscum latinae linguae homines hoc nomine vocant. Translata sunt, cum et ipsae res quas propriis verbis significamus, ad aliquid aliud significandum usurpantur, sicut dicimus bovem et per has duas syllabas intellegimus pecus quod isto nomine appellari solet, sed rursus per illud pecus intellegimus evangelistam, quem significavit scriptura interpretante apostolo dicens:“Bovem triturantem non infrenabis” [1, Cor. 9, 9]. I corsivi nel testo sono nostri, così come i termini latini che abbiamo lasciato per rendere più perspicuo il senso del discorso. 18 F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., p. 32. 19 Cfr. A. STRUBEL, “Allegoria in factis”et “allegoria in verbis”, in “Poétique”, 23, pp. 346 e nota. 20 SANT’AGOSTINO, Le lettere, a cura di L. CARROZZI, Roma 1969, I vol., LV, 7, 12, p. 465. 25 Grosso Canavese, cappella di S. Ferreolo: Virtù e Vizi. il significato preciso. Quando tali signa siano d’ordine naturale, soccorreranno le scienze naturali e la zoologia. Bestiari, erbari e lapidari ci consentono infatti di conoscere le varie nature degli animali o le proprietà delle erbe e delle pietre. A noi qui interessano soltanto gli animali; ora, non v’è dubbio che quando la Scrittura parla di essi, ne fa in genere delle immagini metaforiche, dei simboli, idonei appunto ad divina mysteria significanda. Per questo, anzi, ciò che conta nei bestiari non è tanto la veridicità scientifica delle informazioni che essi trasmettono, cioè la loro attendibilità naturalistica, quanto “la loro congruenza con gli insegnamenti rivelati, la loro qualità di cifre o di segni, la loro significatio […]”.21 Su questo Sant’Agostino ritorna più volte nelle sue 26 Enarrationes in Psalmos. Quando il Salmo 102, 5 – ad esempio – dice che “si rinnoverà come quella dell’aquila la tua giovinezza”, noi dobbiamo qui vedere soltanto una similitudine della resurrezione, a prescindere dalla verità della credenza relativa all’aquila. Lo stesso dicasi della leggenda sul pellicano che – secondo il Physiologus protocristiano22 – ucciderebbe i piccoli sfrontati per poi ridestarli a nuova vita tre giorni appresso, effondendo su di essi il proprio sangue: sarà vero, sarà falso, ma quel che importa è come si adatti perfettamente “a Colui [Cristo]che con il suo sangue ci ha ridato la vita”.23 Bisogna inoltre considerare l’ambivalenza simbolica di questi animali, che possono avere significati non solo diversi, sì anche contrari.24 Il leone, ad esempio, sta spesso a indicare l’orgoglio, ma può talora assurgere a simbolo di vigilanza, “onde il suo posto all’entrata dei palazzi (ad esempio l’Alhambra di Granada, XIII sec.); è anche la maestà, la monarchia temporale e figura con questo significato negli stemmi. Ma avversario dell’Acquario, cioè di Gesù Cristo, personifica l’eresia schiacciata dalla chiesa (leoni stilofori)”.25 Così dicasi per l’asino: associato, nell’antico Egitto, a Seth, l’assassino di Osiride, per neutralizzarne in modo magico il carattere malefico, al geroglifico che lo rappresentava “si aggiungeva il disegno di un coltello nella schiena”. I Greci lo associavano a Bacco, i Latini a Cerere o a Priapo, dio della fecondità. Un’incisione rinvenuta sul Palatino deride i cristiani come “adoratori di un asino crocifisso”.26 Nella Bibbia (Num. 22, 22 ss.) l’asina parlante di Balaam riconosce la volon- tà di Dio prima del padrone27 e a dorso di un’asina bianca lo stesso Gesù fa il suo ingresso in Gerusalemme. La tradizione28 – che si basa sul vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo – vuole l’asino e il bue come attributi di Gesù Bambino nel presepio. Eucherio di Lione e Isidoro di Siviglia scorgono nel bue il simbolo del popolo ebraico, nell’asino quello dei pagani. Nel De consolatione philosophiae di Boezio, a rappresentare il vizio dell’accidia e dell’inerzia spirituale, ricompare il motivo dell’asinus ad lyram29, un simbolo negativo già presente ad Ur, nell’antica Mesopotamia.30 “Nell’arte tedesca del Medioevo l’a[sino] viene perciò posto accanto all’apostolo Tommaso che indugiò a credere”.31 In questo senso è assunto spesso a simboleggiare anche il giudaismo (la Sinagoga). Nell’arte romanica è frequente l’alternarsi dell’asino con significazione ora positiva ora negativa.32 21 F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., p. 36. 22 Fisiologo, a cura di F. ZAMBON, Milano 1975, p.43. 23 SANT’AGOSTINO, Esposizioni sui Salmi, a cura di V.TARULLI, Roma 1971, vol. I, CI, 1, 8, p. 505. 24 Su questa ambivalenza (o polivalenza) dei simboli si veda O. BEIGBEDER, Lessico dei simboli medievali, Milano 1989, pp. 66-73, 173-190, etc. È stato Philip Wheelwright il primo a definire “plurisegno” il simbolo: cfr. J.-E. CIRLOT, Dizionario dei simboli, Milano 1985, p. 39. 25 L.THÉVENON, Iconografia del diavolo nella pittura gotica delle Alpi meridionali: la cavalcata dei Vizi, in “Alpi del Mare”, 2, 1993, p. 25. Ma cfr. pure H. BIEDERMANN, Enciclopedia dei simboli, Milano 1991, ad vocem, pp. 262-265. “Per lo più il leone rappresenta gli estremi: o, in senso positivo, come modello dell’uomo eroico, o, in senso negativo, come simbolo del mondo diabolico (Prima Lettera di Pietro 5, 8)”; G. DE CHAMPEAUX, S. STERCKX, I simboli cit., pp. 299 ss.; O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 173-190; E. URECH, Dizionario dei Simboli Cristiani, Roma 1995, pp. 147-149; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia cristiana, Milano 1995, pp. 196-199; J.-E. CIRLOT, Dizionario cit., pp. 282-283. 26 Ritrovamenti consimili si sono avuti a Roma, Napoli, Cartagine. Ma l’adorazione dell’asino fu dapprima rinfacciata agli Ebrei: cfr. O. BEIGBEDER, Lessico cit., p 61. 27 Il tema dell’asino che riconosce con prontezza la presenza di Dio ritorna in molte raffigurazioni di sant’Antonio da Padova, dinanzi al quale l’animale si inginocchiò perché il santo portava l’ostia consacrata: ibidem, p. 62. 28 Sempre la tradizione vuole che anche la fuga della sacra famiglia in Egitto avvenisse a dorso di un asino: cfr. O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 68-69. 29 Cfr. É. MÂLE, L’Art religieux cit. , p. 339. Il motivo avrà ampia fortuna nelle arti plastiche e figurative del Medioevo. 30 Ad Aulnay, sull’archivolto esterno della porta meridionale, un asino e un caprone, simboli rispettivamente della pigrizia e della lussuria, dicono messa per burla: O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 69-70. Sull’associazione pigrizia-lussuria, si veda ivi, p. 72. 31 G. HEINZ-MOHR, Lessico cit., pp. 61-62; G. HEINZ-MOHR, Lessico cit., pp. 59-62; O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 66-73. 32 Cfr. H. BIEDERMANN, Enciclopedia cit., pp. 51-53; 27 La valenza polisemica delle res (e quindi dei signa) non è sfuggita a sant’Agostino: […] aliud atque aliud res quaeque significant, ut aut contraria aut tantummodo diversa significent. Contraria scilicet, cum alias in bono, alias in malo res eadem per similitudinem ponitur […]. Tale est etiam quod leo significat Christum, ubi dicitur: “Vicit leo de tribu Iuda” [Apoc. 5, 5]; significat et diabolum, ubi scriptum est: “Adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens circuit, quaerens quem devoret” [1 Ep. Pet. 5,8]”.33 Dipende dunque dal contesto. Come nel caso delle lettere dell’alfabeto, il cui valore dipende dal posto che occupano nelle parole.34 Ma qual è allora il rapporto tra i simboli e la realtà da essi adombrata? Su questo punto la concezione di Origene si differenzia notevolmente da quella di sant’Agostino: nel primo, infatti, il rapporto è di natura ontologica, “necessario, inscritto nella struttura stessa del cosmo”; nel secondo invece la relazione che s’instaura fra signum e res spiritualis (o archetipo) non è fisso, univoco e specifico, ma – come abbiamo già visto – da individuare di volta in volta, tenendo conto del contesto: al limite,“qualunque cosa può suggerire un paragone efficace o chiarire una dottrina oscura, tutto può diventare esempio e similitudine”.35 Se la simbologia zoologica origeniana è istituita da Dio stesso (allegoria in factis) , quella agostiniana è istituita dall’uomo (allegoria in verbis).36 Nel medioevo sarà soprattutto la teoria agostiniana ad affermarsi. C’è tuttavia un’altra concezione del simbolismo zoologico che trova la sua originaria formulazione nel corpus di scritti attribuito a Dionigi Areopagita e sarà più tardi ripresa e collegata alla materia dei bestiari da Giovanni Scoto Eriugena. Nella Scrittura vi sarebbero 28 due diverse varietà di simboli: i simboli somiglianti (come quelli che mirano a rappresentare gli angeli o la Tearchia stessa nelle forme più condecenti possibile: con figure sfolgoranti di luce o splendidamente abbigliate) ed i simboli dissomiglianti (esseri mostruosi, creature ignobili, incongrue et tenebrose dissimilitudines per dirla con Giovanni Scoto: è il caso del tetramorfo descritto da Ezechiele e dall’Apocalisse giovannea). Nel secondo caso, avremo delle allegorie, delle metafore, dei figmenta, escogitati dai “teologi” per significare realtà inintelligibili. Anche nelle più ripugnanti raffigurazioni animalesche si occultano delle verità spirituali, anzi tali simboli difformi sono paradossalmente superiori a quelli somiglianti, in quanto da un lato “garantiscono con i loro turpi enigmi la segretezza dei misteri divini e ne impediscono l’accesso ai profani o ai non iniziati”, dall’altro “la loro natura infima e spregevole ci fa misurare più facilmente la distanza che separa il simbolo dalla realtà simboleggiata, la creatura dal Creatore e, liberandoci da qualsiasi compiacimento antropomorfico, ci obbliga a staccarci dalle forme materiali per innalzarci alla contemplazione delle sostanze celesti”.37 La superiorità dei simboli dissomiglianti sugli altri è chiaramente connessa alla superiorità della teologia apofatica o negativa su quella catafatica o affermativa. Per Dionigi, infatti, laddove la teologia affermativa, nel suo tentativo di definire con santi e venerabili nomi l’essenza ineffabile di Dio, fallisce, quella negativa, che rinuncia a definirla, limitandosi a dire ciò che non è (Infinito, Invisibile, Incomprensibile, etc.)38, riesce invece ad accostarsi alla verità. Come dirà Giovanni Scoto, in divinis rebus la negazione è vera, mentre l’affermazione è metaforica.39 Nei simboli dissomiglianti e mostruosi il velo della natura si assottiglia al punto da lasciar filtrare, tra le maglie della sua estrema difformità, il trascendente, nel suo eccesso e nella sua oltranza.40 Nulla enim maior laus est ea que ex contrariorum comparatione assumitur.41 Per cui anche i simboli zoologici acquistano una loro dignità ed il bestiario, fra tutte le rappresentazioni simboliche di Dio, apparirà come la più alta e misteriosa: plus eum significat […] qui figuram bestialem ipsi circumdat, quam qui in humana effigie […] ipsum imaginat.42 2 – Nell’Alto Medioevo diversi bestiari, sulla scia del Physiologus, hanno dunque individuato natura e “costumi” degli animali, gettando così i presupposti di una singolare “teologia dei bestiari” che degli animali farà delle cifre di volta in volta morali e spirituali. Le nature degli animali sono considerate come delle cifre enigmatiche, allusive a piani ulteriori della realtà: quasi un alfabeto simbolico che ci permette di leggere nel libro della natura enigmi divini o infernali. Ed anche quando, nel XII e nel XIII secolo, il mondo fisico cesserà di essere un tenue e trasparente tessuto di simboli o di parvenze allegoriche, per rivelarsi un organico ed ordinato complesso di fenomeni permeato da un inesausto vigor, da una ratio che si esprime in leggi e forze di cui l’esperienza può fare tesoro, il simbolismo in qualche modo sussiste, magari cessando di scorgere nel mondo naturale un riflesso dell’aldilà, un’espressione visibile dell’invisibile, per diventare – 33 SANT’AGOSTINO, L’istruzione cristiana cit., III, XXIV, 36, pp. 214-217. “[…] i vari significati che una cosa ha possono essere o contrari tra loro o soltanto diversi. Sono contrari quando la medesima cosa esprime la somiglianza in senso sia positivo sia negativo. […] in questo senso il leone significa Cristo là dove è detto: Ha vinto il leone della tribù di Giuda’ e significa anche il diavolo là dove è scritto: Il vostro avversario, il diavolo, si aggira qual leone ruggente cercando chi divorare ”. Del resto, l’ambivalenza dei simboli è ben nota agli addetti ai lavori: essa deriva “dalla loro capacità di aprirsi simultaneamente agli aspetti opposti, maschile e femminile, superiore e inferiore, positivo e negativo, della realtà” (cfr. F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., p. 36; ma si vedano pure R. GUÉNON, Le Règne de la Quantité et les signes des Temps, Paris 1945 – in particolare il cap. XXX, Le renversement des symboles - ; M. ELIADE, Mefistophélès et l’androgyne, Paris 1962, cap.V ; L. BENOIST, Signes, symboles et mythes, Paris 1975, pp. 42-46). 34 SANT’AGOSTINO, Esposizioni sui Salmi, CIII, 3, 22: la pietra significat alia atque alia, sicut littera quo loco ponatur vide, ibi intellegis eius vim. 35 F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., pp. 37-38. 36 La distinzione fra le due allegorie si deve al Venerabile Beda. Cfr. H. DE LUBAC, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, Roma 1962-1971, II / 2, pp. 1202-1244; A. STRUBEL, “Allegoria in factis” cit., pp. 342357; F. ZAMBON, “Allegoria in verbis”: per una distinzione tra simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale, in Simbolo, metafora, allegoria, Padova 1980, pp. 73-106. 37 F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., p. 40. 38 San Francesco, ad esempio, nel capitolo conclusivo della Regula non bullata, per indicare l’inattingibile Iddio ricorre a ben sei epiteti negativi: immutabilis, invisibilis, inenarrabilis, ineffabilis, incomprensibilis, investigabilis: cfr. FRANCESCO D’ASSISI, Regula non bullata, XXXIII, II, in Die Opuscula, a cura di K. ESSER, Grottaferrata 1976. 39 J. SCOTI ERIUGENAE, Expositiones in ierarchiam coelestem,Turnholti 1975, II, 3, 526-527; II, 5, 1187-1188, pp. 34 e 52. 40 Per quest’ultima parte, cfr. in particolare F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., pp. 39-45. 41 J. SCOTI ERIUGENAE, Expositiones in ierarchiam coelestem cit., II, 2, 315-316, p. 28. “Non c’è lode maggiore di quella tratta dal paragone con cose contrarie”. 42 J. SCOTI ERIUGENAE, Expositiones in ierarchiam coelestem cit., II, 5, 1195-1201; 1206-1209, pp. 52-53. “Lo significa meglio chi lo riveste di sembianze bestiali di chi lo immagina in figura umana”. 29 L’Argentière La Bessée, chiesa di Sant’Apollinare: Vizi e Virtù. come già si è detto - un labirinto di analogie, una trama di corrispondenze che rimandano all’uomo – come in uno specchio – tratti della sua natura, emblemi delle sue qualità, metafore dei suoi sentimenti, immagini della sua condizione e presagi del destino – anche ultraterreno – che lo attende. I bestiari continueranno ad avere una loro fortuna in ambito letterario, nelle enciclopedie morali, nei trattati di araldica, ma le inverosimili credenze che per secoli avevano contraddistinto la fauna medievale si fissano col tempo in mere astrazioni emblematiche, sbiadiscono in cifre intellettualistiche o si estenuano in esangui esemplari di zoologia fantastica, che lasciano via via spazio ad una più scientifica disamina delle caratteristiche, delle abitudini e delle attitudini animalesche. “Repertorio quasi inesauribile di simboli, il mondo animale rappresenta il serbatoio cui attingere a piene mani non solo per descrivere genericamente la degradazione a livello subumano che le attitudini viziose producono nell’uomo43, ma anche per stabilire precise corrispondenze tra i singoli vizi ed i tratti fisiognomici e i comportamenti specifici di una determinata specie animale. L’operazione, avviata fin 30 Roubion, cappella di S. Sebastiano: Cavalcata dei Vizi (particolare con la bocca del Leviatano). dai primi secoli cristiani, parte dal presupposto che i costumi dell’uomo si rispecchino nei diversi animali; di qui la possibilità di scoprire tratti reali o immaginari delle diverse specie e di fissarli in topoi ben presto recepiti e trasmessi dai bestiari e dalle enciclopedie moralizzanti: il leone rappresenta la superbia, il lupo l’avarizia, la capra e la scimmia la lussuria, l’asino l’accidia, il maiale la gola, il cane l’invidia, l’orso l’ira”.44 Anche la favola ha contribuito, fin dall’antichità, a fissare una caratterizzazione antropomorfica degli animali, in quanto appunto personaggi umanizzati e psicologicamente tipizzati: la volpe rappresenta l’astuzia, il lupo l’avidità o la prepotenza, l’asino la stupidità, il leone la superbia, e via dicendo. E tanto le raffigurazioni artistiche quanto la tradizione favolistica o paremiografica hanno senza dubbio concorso a familiarizzare la gente comune con le significazioni simboliche degli animali. Per cui non deve affatto stupire che a cominciare dalla fine del XIV secolo nella pittura murale di pievi, chiese e cappelle – per lo più rurali – della Francia e di aree contigue come la Liguria, il Piemonte e la Valle d’Aosta45, per rammemorare ai fedeli i sette peccati capitali, si sia ricorsi con frequenza ad un modello figurativo, la cavalcata dei Vizi, che rappresenta sette personaggi, a cavallo ognuno di una bestia particolare, che si avviano in fila indiana, spesso incatenati fra loro e scortati da figure diaboliche, verso le fauci spalancate di un mostruoso Leviatano (l’inferno). A tutt’oggi sono una cinquantina gli esemplari individuati di questa tipica raffigurazione46, ma certamente dovevano essere assai più numerosi: alcuni sono definitivamente andati perduti nelle distruzioni delle cappelle, oppure cancellati dal tempo e dalle intemperie, mentre altri si trovano tuttora nascosti sotto gli spessi strati di calce con cui furono in seguito occultati a causa delle loro immagini non propriamente devozionali e forse divenute (o ritenute) prive di significato. Oltre tutto gli edifici affrescati con la cavalcata dei Vizi sono in genere di modeste dimensioni, per lo più a pianta rettangolare, talora absidati a “cul-de-four” (a quarto di sfera): cappelle isolate, parrocchiali da tempo non officiate, chiesette campestri. La cavalcata in molti casi era raffigurata sui muri esterni, proprio per consentire a quanti transitavano dinanzi alla chiesa di ricordarsi dei sette peccati capitali. Era chiaramente un monito e un invito alla penitenza. Essa si sviluppava spesso sul muro laterale nord, “lato dell’oscurità, del freddo e dunque destinato all’errore, al peccato, a Satana”. Ma, anche a causa dell’approssimativo orientamento di questi piccoli edifici, la regola non era dappertutto rispettata.47 Gli affreschi si trovano quindi altrettanto spesso sulle pareti interne, per lo più a sinistra, e da destra verso sinistra sfilano per lo più i Vizi, perché a sinistra è di norma situato l’inferno. «La gauche, la sénestre, est, on le sait, le côté mauvais depuis la plus haute Antiquité»48. Non è un caso, ad esempio, che Dante nella sua discesa all’Inferno si muova costantemente verso sinistra, mentre nell’ascendere al monte del Purgatorio segue puntualmente la destra. 43 E non dell’uomo soltanto, se nella rappresentazione della caduta degli angeli ribelli quale vediamo nella cappella di San Martino a Le Monetier-Les-Bains gli angeli malvagi sono metamorfosati in animali dall’aspetto caricaturale che sprofondano nella mostruosa gola del Leviatano. 44 A. SOLIGNAC, “Péchés capitaux”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique, XII, I, coll. 853-862, Paris 1937-1995 ; ma sul vario rapporto tra animali e vizi corrispondenti cfr. C. CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo. Con un saggio di JÉRÔME B ASCHET, Torino 2000, pp. 184 ss. ed anche Bestiari medievali, a cura di L. MORINI, Torino 1996 e R. NEWHAUSER, The Treatise on Vices and Virtues in Latin and the Vernacular (“Typologie des sources du Moyen Âge occidental”, 68), Brepols 1993. 45 In Val d’Aosta l’unico esemplare superstite è quello dell’Hospice di Leverogne, dove, accanto a quanto resta del corteo dei Vizi, sono affrescate les sept oeuvres de miséricorde corporelle: cfr. J. STÉVENIN, Hospitia: una catena di carità cristiana sul tratto valdostano della via Francigena,Aosta, s. d., p. 101;A. ROUX, La paroisse d’Arvier, son église, ses chapelles, ses cures, Aoste 1910, pp. 40-47. Sulla pittura valdostana gotica e tardogotica, cfr. R. PASSONI, La pittura in Piemonte e Valle d’Aosta nel Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, I, pp. 31 ss.; E. ROSSETTI BREZZI, La pittura in valle d’Aosta tra la fine del ’300 e il primo quarto del ’500, Firenze 1989. 46 Cfr. La rassegna proposta da M. ROQUES, Les peintures murales du Sud-Est de la France (XIIIe au XVIe siècle), Paris 1961; da integrare con quelle offerte da M. VINCENT-CASSY, Un modèle français: les cavalcades des sept péchés capitaux dans les églises rurales de la fin du XVe siècle, in Artistes, artisans et production artistique au Moyen Âge, a cura di X. BARRAL, Paris 1990, III, pp. 461-487 e da L.THÉVENON, Iconografia del diavolo cit. 47 Cfr. L. RÉAU, Iconographie de l’art chrétien. Introduction générale, Paris 1955, p. 70. Ma, mentre l’autore ritiene eccezionali le derogazioni al principio dell’orientamento, L. THÉVENON, [Où prier? Qui prier dans la montagne?, in Limites des territoires en Provence (atti delle terze giornate di Storia di Mouans-Sartoux, aprile 1986), Mouans-Sartoux 1987], nel passare in rassegna i luoghi di culto dell’antico vescovado di Glandève, rileva che più della metà non sono orientati, o perché la topografia fa aggio sulla simbolica o perché a volte incide la preesistente disposizione degli edifici limitrofi o circostanti. Cfr. pure L.THÉVENON, L’art du Moyen-âge dans les Alpes méridionales, Nizza 1983. 48 «La manca, la sinistra, è, come si sa, il lato malvagio fin dalla più alta antichità».Traduzione nostra. 31 Per lo stesso motivo la maggior parte dei gesti compiuti dai personaggi della cavalcata viene eseguita con la sinistra. Si tratta naturalmente di arte povera e fragile, almeno nella maggior parte dei casi. Povere erano infatti le comunità rurali o le confraternite che commissionavano gli affreschi. Il muro veniva preparato con uno strato di calcina sul quale l’artista tracciava, generalmente in bistro, l’abbozzo e quindi stendeva una o due mani di colore, sottolineando in bruno alcuni dettagli. Solo a cominciare dal 1515 si prese ad utilizzare un secondo strato di malta dopo l’abbozzo e si fece ricorso a colori ad olio, sì da rendere più brillante l’insieme. Qua e là, tuttavia, il muro mal bucato prima della seconda stesura presenta delle zone scoperte.49 Va da sé che più poveri erano i committenti, meno raffinate erano pure le tecniche usate. La maggior parte delle cavalcate è dipinta con tre colori di base in aggiunta al bianco: l’ocra-rosso, l’ocra giallo e il grigio. La preferenza, anche per motivi di economia, andava alle tinte scure o scialbe “che sono negative e implicano il pericolo, e il peccato in questo caso”. Il grigio e il nero in particolare evocano la disperazione e la morte. L’azzurro è assai raro, perché si ricavava dal lapislazzulo ed era quindi particolarmente costoso.50 Solo all’inizio del XIII secolo la lista dei sette peccati capitali soppianta le serie precedentemente in vigore. Evagrio Pontico, seguito da Cassiano, aveva infatti stabilito un elenco di otto “cattivi pensieri” (logismoi) che – secondo lui – costituivano “l’arsenale completo degli strumenti dei quali il diavolo si serve per stimolare le passioni del monaco, strappandolo a quella condizione di apateia che è il requisito indispensabile per il suo perfezionamento spirituale”.51 Si cominciava dalla gola, il più lieve ma anche il più subdolo dei vizi, poiché apriva la strada all’irruzione degli altri peccati carnali (nell’ordine: la lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza, l’accidia) che sono “stretti da una sorta di parentela e connessi e concatenati l’uno all’altro, cosicché l’esuberanza dell’uno costituisce il principio dell’altro”.52 La superbia e la vanagloria53 – peccati in certo qual modo più spirituali – nascevano invece dall’eliminazione dei vizi carnali: dal compiacimento derivante dalla constatazione dei propri progressi morali.Anche per san Gregorio i vizi sono tra loro congiunti da stretti vincoli di parentela e derivano l’uno dall’altro: la “regina dei vizi”, la “radice di tutti i mali”, è la superbia, da cui, a scalare, derivano la vanagloria, l’invidia, l’ira, la tristezza, l’avarizia, la gola e la lussuria. Ognuno di questi vizi è, per così dire, contenuto nel precedente. Proprio a questa idea di concatenazione, fatta propria da Giovanni Climaco, si ispirano con ogni evidenza le cavalcate dei Vizi, che presentano appunto dei personaggi l’un l’altro avvinti da una catena che li stringe al collo o passa per i colli delle loro cavalcature.54 Poiché frequente Prelles, cappella Saint-Jacques: Cavalcata dei Vizi (particolare con la Lussuria e l’Ira). 32 doveva essere all’epoca il transito per i paesi martoriati dalle guerre di prigionieri similmente incatenati, la comprensione della scena rappresentata era alla portata di chiunque, anche dei più semplici. Andora, chiesa di S. Giovanni: particolare superstite della Cavalcata dei Vizi . Più difficile era invece illustrare a dei montanari o a dei paesani piuttosto rozzi e ignoranti animali selvaggi di cui non avevano alcuna esperienza diretta. Come dare loro l’idea di un leone, di una scimmia, di un leopardo, cioè di quegli animali esotici che per inveterata tradizione rappresentavano alcuni dei vizi più importanti? L’artista, che a sua volta forse non conosceva sempre tali bestie, mirava più che altro a suscitare scioccanti impressioni di violenza e di ferocia, a prescindere da ogni verosimiglianza : come altrimenti spiegare certi leoni ricoperti di lunghi peli o talune belve con coda di scorpione o leopardi con attributi di gatto? Del resto, buona parte degli animali che fungevano da cavalcature erano noti, notissimi: a cominciare dal becco o dalla capra, per proseguire con il lupo, la volpe, il tasso, il cinghiale, e finire con il maiale, l’asino, il cane… L’idea di far cavalcare bestie di vario tipo, domestiche o selvatiche, esotiche o familiari o fantastiche, a umane personificazioni dei vizi si ritrova per la prima volta in un manoscritto francese del 1390 conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. In esso la Superbia è un re che monta un leone, l’Invidia un monaco che cavalca un cane, l’Ira una donna in groppa a un cinghiale, l’Accidia un villano appollaiato su un asino, l’Avarizia un mercante a cavallo di un tasso, la Gola un giovane in arcioni su di un lupo, la Lussuria una dama su una capra cornuta. Con qualche notevole variazione per quanto riguarda le cavalcature e l’ordine di successione, questa serie di Vizi ricorrerà in tutte le cavalcate, dopo che la scuola parigina sul finire del XII secolo havrà ridotto a sette il numero dei vizi principali, accorpando orgoglio e vanagloria nella superbia e sostituendo la tristezza con l’accidia.55 Quando poi nel 1215 il concilio Laterano IV renderà obbligatorie la confessione auricolare e l’annuale pratica della penitenza individuale56, i manuali di confessione 49 Così, ad esempio, nella chiesa di Sant’Apollinare ad Argentière. 50 Cfr. M. L. TIBONE, Bardonecchia. I percorsi della memoria,Torino 1995, p. 95. 51 C. CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., p. 182. 52 CASSIANO, Conlationes,V, 10, SC 42, p. 197. 53 P. MIQUEL, J. KIRKHMEYER, “Gloire (Vaine gloire)”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique,VI, coll. 494-505, Paris 1937-1995; M. G. MUZZARELLI, La vanagloria fra gusto e peccato negli ultimi secoli del Medioevo, in “Doctor Seraphicus”, XLV (1998), pp. 99-116. 54 Cfr. L. THÉVENON, Iconografia del diavolo cit., p. 23 : “È alla fine del XII secolo, a St Trophime di Arles, che risale la prima raffigurazione di una catena di dannati”. 55 Cfr. P. LOMBARDO, PL, LXXVI. 56 Cfr. R. RUSCONI, “Ordinate confiteri”. La confessione dei peccati nelle «Summae de casibus» e nei manuali per confessori (metà XII-inizi XIV secolo), in L’aveau. Antiquité et Moyen Âge. «Actes de la table organisée par l’École Française de Rome avec le concours du Cnrs et de l’Université de Trieste, Rome 28-30 mars 1984», Roma 1986, pp. 297-313 ; J. BOSSY, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna,Torino 1998. 33 prenderanno a proporre ai sacerdoti l’uso del settenario come griglia per l’esame dei peccati. Il successo del settenario fu però sancito dall’inserimento che ne fece Pier Lombardo nel quarto libro delle Sentenze, quantunque il teologo novarese gli affiancasse pure altri schemi, “tutti in qualche misura legittimati dall’autorità della Scrittura o dei Padri”.57 L’opera di Pier Lombardo fu fondamentale per l’istruzione teologica del clero. Ma i fedeli comuni, la gente semplice, non sarebbero stati in grado di penetrare le sottili disquisizioni dottrinarie che distinguevano i vizi (tendenze concupiscibili scaturite dal peccato originale) dai peccati (atti coscienti da esse derivati). Fu quindi decisiva la mediazione degli ordini mendicanti, che, per invitare i fedeli alla penitenza, ricorsero ad exempla, aneddoti spiccioli, paragoni attinti dai bestiari o dai Padri del Deserto (che avevano materializzato i peccati mediante animali selvaggi).58 Il francescano Bindo Schelmi da Siena, ad esempio, si servì delle tradizionali immagini del bestiario allegorico per descrivere la battaglia dichiarata dai vizi all’anima penitente: l’orso rappresenta la gola, il leone sta per la vanagloria, lo scorpione appiattato nella polvere indica l’avarizia.59 Ed Enrico di Susa propose dei vizi una successione nuova, che andava dal più grave al meno grave ed era facilmente memorizzabile grazie all’acronimo formato dalle loro iniziali: SALIGIA (cioè Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira, Accidia). L’ordine così delineato è appunto quello che si affermò – sia pure con varie eccezioni - nelle grottesche raffigurazioni a fresco della cavalcata dei Vizi, le quali nella loro concreta evidenza rendevano, per così dire, patenti agli occhi dei fedeli i rischi e la forza trascinante delle passioni. 34 Gli animali non costituivano più l’equipaggiamento del guerriero in lotta per il dominio dell’anima, bensì l’elemento trainante, il vettore passionale che, a seguito del peccato originale, adduce l’anima alla perdizione. « L’animal n’est pas ici l’équipement du guerrier psychomachique mais l’élément psychopompe du vice. Il est la pulsion, la passion, la tendance néfaste issue du péché originel qui pousse l’homme à la mort de l’âme. C’est le côté inné de la nature humaine concupiscible qui soude l’animal à son cavalier ».60 Tale rappresentazione non deriva dunque dalla Psychomachia di Prudenzio, dove sette vizi fondamentali (la veterum Cultura deorum, la Sodomita Libido, l’Ira, la Superbia, la Luxuria, l’Avaritia, la Discordia o Heresis), non tutti a cavallo ma accompagnati da altri vizi minori, sfidano a duello altrettante virtù61 (la Fides, la Pudicitia, la Patientia, la Mens Humilis, la Sobrietas, la Ratio, la Concordia) per contendersi il dominio dell’anima umana.62 O, meglio, non derivano soltanto dal poema prudenziano, almeno per quanto concerne le cavalcature animalesche: «Il s’agit plutôt – come ci ha comunicato Jérôme Baschet – […] d’une mise en image originale inspirée par les Encyclopédies morales qui fleurissent à partir du XIIIe siècle. On y trouve le thème des sept péchés capitaux (qui conduisent en enfer), des développements sur les caractéres de chaque vice, ses attributs, tandis que les Bestiaires ont depuis longtemps exposé les significations morales des animaux»63. Dalla Psychomachia, comunque, le cavalcate derivano qualche elemento. L’Ira, ad esempio, generalmente rappresentata da un giovane (più raramente da una donna) che, squarciata la veste, si trafigge il petto, ricalca uno stereotipo prudenziano.64 Inoltre, spesso la cavalcata dei Vizi non è raffigurata da sola: non è raro infatti che nel registro superiore della parete o sul muro di fronte compaiano le Virtù, che ad essi si contrappongono, e non solo visivamente.65 Nelle loro pose raccolte, ieratiche o solenni fanno da puntuale pendant al gesticolare scomposto e al dinamismo che anima il corteo dei Vizi.66 Non di rado ai Vizi fanno da antitesi le opere di misericordia puntualmente illustrate ed esemplifi- cate. Nel registro inferiore troviamo spesso anche le punizioni inflitte ai singoli peccati: le stesse, in genere, immaginate dall’Elucidarium o inventate dal Traité des peines d’Enfer di Vérard, pubblicato nel 1492.67 In alcuni casi, poi, le cavalcate dei Vizi si trovano inserite in complessi quadri figurativi che sono dei veri e propri catechismi illustrati, delle Bibbie per illetterati68: si vedano, per esempio, i cicli pittorici di chiese come San Bernardino di Albenga, la 57 CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., p. 207. 58 Cfr. M.VINCENT-CASSY, Les animaux et les péchés capitaux: de la symbolique à l’emblématique, ne Le monde animal et ses représentations au Moyen Âge (XIe-XVe), Actes du XVe congrès de la Société des historiens médiévistes de l’Enseignement supérieur public,Toulouse, mai 1984,Toulouse 1985, pp. 121-131. 59 C. DELCORNO, Eremo e solitudine nella predicazione dei Francescani, in “Lettere Italiane”, LIV (ottobredicembre 2002), 4, p. 510. 60 M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 467: «L’animale non è qui l’equipaggiamento del guerriero psicomachico ma l’elemento psicopompo del vizio. È la pulsione, la passione, la tendenza nefasta derivata dal peccato originale che spinge l’uomo alla morte dell’anima. È l’aspetto innato della natura umana concupiscibile che salda l’animale al suo cavaliere».Traduzione nostra. 61 Cfr. J. HOULET, Les combats des Vertue et des Vices, Paris 1969; L. BOLZONI, La battaglia dei vizi e delle virtù. Testi e immagini fra Tre e Quattrocento, in Ceti sociali ed ambienti urbani nel teatro religioso europeo del ’300 e del ’400,“Convegno del Centro di Studio sul Teatro Medievale e Rinascimentale,Viterbo 30 maggio-2 giugno 1985”,Viterbo 1986, pp. 116-123.. 62 Cfr. PRUDENZIO, Psychomachia, a cura di C. PROSPERI, con Introduzione di G. CASTELLI, Acqui Terme 2000. M. L.Tibone ha invece individuato nella cavalcata dei Vizi “un esempio di mistero drammatico, recitato nel ricordo delle visioni del monaco Ruybroek l’Ammirabile che aveva presentato i sette peccati capitali incarnati ciascuno da un demone nei suoi versi trecenteschi” (M. L. TIBONE, L. M. CARDINO, Susa e le sue valli. Storia e arte,Torino 1997, p. 214). 63 “Si tratta piuttosto […] di una raffigurazione originale ispirata dalle enciclopedie morali che fioriscono a partire dal XIII secolo.Vi si trova il tema dei sette peccati capitali (che conducono all’inferno), degli svolgimenti dei caratteri di ciascun vizio, dei suoi attributi, mentre i Bestiari hanno da gran tempo esposto i significati morali degli animali”.Traduzione nostra. 64 Cfr. PRUDENZIO, Psychomachia cit., vv. 109-177, pp. 38-45. Il gesto iroso di strapparsi (o di strappare) di dosso la veste, pur non ignoto ai classici (cfr. PROPERZIO, Elegie, II, V, 21; VIRGILIO, Eneide, VIII, 702; etc.), e ripreso da Giotto nella sua rappresentazione dell’Ira a Padova nella cappella degli Scrovegni, ci sembra piuttosto riferibile alla reazione sdegnata di Caifa dinanzi a Gesù che ribadisce di essere Figlio di Dio (MT, 26, 65; MC, 14, 63). 65 C. BLANCHARD, Les vertus et les vices, in “Bulletin de la Société d’études historiques des Hautes Alpes”, Gap 1920-1923. 66 Sulla rappresentazione dei Vizi e delle Virtù nel Medioevo cfr. A. KATZNELLENBOGEN, Allegories of the Virtues and Vices in Medieval Art from Early Christian Times to the Thirteenth Century, London 1935 (rist. anast., Toronto 1989); J. O’ REILLY, Studies in the Iconographie of the Virtues and Vices in the Middle Ages, New YorkLondon 1988. 67 Cfr. M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 465. 68 In fondo, l’uso delle immagini agli occhi di san Tommaso d’Aquino si giustifica proprio per ragioni del genere, vale a dire ad instructionem rudium [“per l’istruzione degli incolti”], oppure ut incarnationis mysterium et sanctorum exempla magis in memoria nostra maneant [“affinché il mistero dell’incarnazione e gli esempi dei santi persistano più a lungo nella nostra memoria”], e infine ad excitandum devotionis affectum [“a suscitare ardore devozionale”]: cfr. S. SETTIS, Iconografia dell’arte italiana, 1100-1500: una linea, in Storia dell’arte italiana. L’esperienza dell’antico, dell’Europa della religiosità, parte Ia, vol. III, Torino 1979, p. 223. Più semplicemente san Gregorio Magno: pictura in ecclesiis adhibetur, ut hi qui litteras nesciunt saltem in parietibus videndo legant, quae legere in codicibus non valent [“nelle chiese si fa ricorso alla pitura affinché, almeno guardando sulle pareti, gli illetterati leggano quanto non sono in grado di leggere nei codici”]. 35 Bastia di Mondovì, chiesa di S. Fiorenzo: Inferno. cappella di San Fiorenzo a Bastia di Mondovì, la chiesa di Montegrazie (Imperia)... Il fatto che siano per lo più dipinte su chiese campestri e che a personificare i Vizi siano quasi esclusivamente dei laici sta chiaramente a indicare la destinazione privilegiata di queste opere, che riproducono un modello catechetico per i semplici, per la gente incolta delle campagne. Almeno per quelle affrescate all’interno degli edifici sacri, si può presumere che il sacerdote o il predicatore giocassero poi un ruolo di rilievo, con le loro parole, nel renderle davvero parlanti e significative, nell’indirizzare gli auditori ad una corretta interpretazione delle immagini.69 “Mentre i fedeli ascoltavano la morale enunciata dal sacerdote, i loro sguardi scorrevano lungo le pareti della chiesa, rivolgendosi alle figure indicate dal predicatore, che parevano loro animarsi sotto la tremula luce delle candele, in quella penombra ondeggiante che conferiva loro l’effetto spettacolare paragonabile quasi ad una vera e propria animazione”.70 Ma come sono raffigurati questi Vizi? L’ambientazione è diabolica o infernale: la cavalcata – come già si è detto – si dirige verso la bocca beante del Leviatano, il mostro biblico71 della 36 famiglia dei sauri, ricoperto di squame verdastre, dall’immensa bocca zannuta “e tappezzata da una grossa lingua rossa”, il quale altro non è che una deformazione del coccodrillo descritto nel Libro di Giobbe. 72 Già nella mitologia fenicia esso occupava un posto di rilievo nel reame di Ade. È generalmente associato all’acqua di un lago o di una palude, sulla cui riva l’eroe giusto (San Giorgio ne è il prototipo) va per combatterlo. Il drago stesso è una mostruosa deformazione del coccodrillo. Ma non sono da escludere reminiscenze mitologiche, se è vero che nell’immagine del Leviatano “gli antichi Crono e Saturno, inghiottitori di uomini, si fondono con figure orientali, il Baal di Babele e il Moloch degli Ammoniti, in una sola immagine del diavolo divoratore di uomini, quale è mostrato, forse per la prima volta, nel Salterio di Utrecht, al Salmo 9”.73 In ogni caso, l’esito è grottesco, sospeso e oscillante tra il farsesco e il terrifico: un mostro famelico con le ingorde fauci spalancate, la gola scura e ignivoma, i denti aguzzi, l’occhio vitreo e livido, le narici sbuffanti.74 È una sorta di “gorgoneion” che può talora essere duplicato o triplicato a raffigurare l’inferno o almeno l’accesso ad esso. Mentre in altre rappresen- tazioni la gola infernale si può presentare frontalmente o rovesciata oppure in combinazione con una marmitta che occupa ora l’intero spazio tra le zanne del mostro, ora solo la parte centrale, nelle cavalcate dei Vizi, dove essa ha la funzione di stabilire un contatto tra un interno e un esterno, tra l’aldiquà delle occasioni peccaminose e l’aldilà dei castighi eterni quale esito consequenziale, essa è generalmente raffigurata di profilo. In tal modo si rimarca l’aspetto dinamico della rappresentazione.75 Presso la bocca spalancata del Leviatano, dei diavoli suonano il tamburino, la piva o il piffero (Clans, Roubion76, Grosso Canavese, Bastia Mondovì…) per dare il ritmo ed accelerare la cavalcata. O infelices peccatores venite ad choreas.Taratantara: recita, ad esempio, la scritta che a mo’ di fumetto esce di bocca ad un diavolo musicista a Bastia. Al primo si accompagnano altri diavo- 69 Non va dimenticato che, pur dopo la vittoria sulle più radicali correnti iconoclastiche, la Chiesa, per rintuzzare ogni degenerazione estetizzante o, peggio ancora, ogni sospetto d’idolatrica indulgenza, si premura di ribadire che il compito dell’arte in ambito religioso è quello di demonstrare invisibilia per visibilia. Nello stesso tempo si giustifica la funzione della raffigurazione allegorica, necessaria affinché mens nostra rapiatur spirituali effectu per contemplationem figuratae imaginis [“la mente nostra venga da spirituale effetto rapita mediante la contemplazione dell’immagine raffigurata”]: così almeno leggiamo nella lettera inviata dal pontefice Adriano I agli imperatori Costantino e Irene. Del resto, anche i Libri Carolini sive Caroli Magni capitulare de imaginibus, preoccupati del fatto che la bellezza o la mira quaedam deformis formositas ac formosa deformitas delle immagini (come dirà più tardi san Bernardo) possa suscitare nei fedeli ammirazione estetica più che non estatica devozione (o pio fervore) [materiarum qualitas habet venerationem, non fervor devotionis], confermano il prioritario valore della parola scritta nel trasmettere i valori della fede, prescrivendo che le immagini siano accompagnate da nomi, iscrizioni o cartigli. E non è un caso che questo capitulare dell’VIII secolo resti un solido punto di riferimento fino all’avanzato autunno del Medioevo: cfr. G. ROSATI, O. FERRARI, Il concetto di simbolo e allegoria nella trattatistica e nella letteratura sulle arti figurative dal Medioevo ai nostri giorni, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. XII, Novara 1981, p. 495. 70 C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte nelle contrade del Nord, Milano 2001, pp. 97-98. 71 Cfr. Psalm.104, 26; Is. 27, 1. 72 Job 41, 10-12 e 16: “Dalla sua bocca partono vampe, / ne scappan fuori scintille di fuoco. / Dalle sue narici esce un fumo, / come da una pignatta che bolla o da una caldaia. / L’alito suo accende i carboni / e una fiamma gli erompe dalla gola. / […] Quando si rizza tremano i più forti, / e dalla paura son fuori di sé”. Cfr. O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 197 ss., che collega le rappresentazioni del Leviatano alle grand’goules (maschere mostruose che ricordano la “bocca dell’Inferno”) del folklore francese.“La gola di Leviatano come porta e ricetto punitivo dell’Ade (os leonis) è diversamente interpretata: a volte come matrice di fiamme per una caldaia in cui ribollono i dannati, oppure la gola riceve direttamente [come nel nostro caso] i dannati (Libro d’Ore di Adelaide di Savoia, datato 1430). La gola del Leviatano che il Canavesio raffigurerà pure a Briga nel 1499 si ritrova nel Jugement dernier, mistero provenzale del sec. XV” (A. GRISERI, Jaquerio e il realismo gotico in Piemonte,Torino 1966, nota 115, p. 131). 73 H.WEIGERT, Medioevo cristiano, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. IV, Novara 1981, p. 279. 74 C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., p. 86. 75 Si vedano le belle e puntuali pagine dedicate all’argomento da J. BASCHET, Les justices de l’Au-delà. Les représentations de l’enfer en France et en Italie (XIIe-XVe siècle), Roma 1993, pp. 272 ss. Un bell’esempio di gola ignivoma di Leviatano è scolpito in un riquadro della valva sinistra del portale della parrocchiale di Rivalta Bormida: cfr.C. PROSPERI, G. L. RAPETTI BOVIO DELLA TORRE, Rivalta Bormida: vita e vicende di una villanova dalle origini alla fine del secolo XVIII,Acqui Terme 2004, p. 569 (ma si veda pure G. L. RAPETTI, E. CAVIGLIA, La Chiesa parrocchiale “San Michele Arcangelo” di Rivalta Bormida,Villanova Monferrato 1992). Una versione pittorica dello stesso soggetto si trova a Rossiglione Inferiore, nella cappella di San Bernardo: cfr. L. GALLARETO, Gli arcani dei simboli: pittura gotica e tardo-gotica nell’Alto Monferrato, in L. GALLARETO, C. PROSPERI (a cura di), Alto Monferrato tra Piemonte e Liguria, tra pianura e appennino. Storia arte tradizioni,Torino 1998, pp. 155-156; ma anche la scheda di S. REPETTO in S. ARDITI, C. PROSPERI (a cura di), Tra Romanico e Gotico. Percorsi di arte medievale nel millenario di San Guido (1004-2004) Vescovo di Acqui,Acqui Terme 2004, p. 283. 76 Degli affreschi di Roubion, nella cappella di San Sebastiano, è stato sottolineato lo stile popolare “naïf”, per cui più che altrove evidente è l’influenza provenzale; i personaggi sono “ben caratterizzati”, benché la loro espressività sia ottenuta con estrema parsimonia di mezzi: cfr. L. IMBERT, Les chapelles peintes du pays niçois, “Nice Historique”, 1947-1951; nonché PH. DE BEAUCHAMP, L’arte religiosa nelle Alpi Marittime. Architettura religiosa, dipinti murali e retabli, Aix-en Provence 1990, p. 78. 37 li, tutti agitati, che brandiscono forche, fiocine, picche o più semplicemente randelli e fruste. A Villafranca Piemonte i Vizi, tutti rappresentati da donne (del resto, i loro nomi latini sono tutti femminili), hanno ognuno un diavoletto di tenue tinta che li tira o sospinge verso la bocca dell’inferno. Ma per lo più i diavoli sono convenzionalmente neri o scuri, pelosi, con ali membranacee, becchi, unghie e artigli.77 Dinanzi all’inferno, a Villafranca, stazionano, nudi,Adamo ed Eva, a sottolineare lo stretto legame tra il peccato originale e le tendenze peccaminose che da allora albergano nell’intimo dell’uomo.78 Eccezion fatta per il caso di Villafranca e di Grosso Canavese, la maggior parte dei Vizi è rappresentata da uomini; una donna può prestare tutt’al più volto alla Lussuria, all’Accidia o all’Avarizia. Il corteo è quasi invariabilmente aperto da un sovrano (la Superbia è appunto la regina dei Vizi: initium omnis peccati, per dirla con sant’Agostino)79 coronato e talora munito di scettro; ma può pure essere un ricco signore, sontuosamente vestito, con una spada o un orifiamma o un falcone: tutti emblemi di vita nobiliare.A volte l’alta condizione è significata dai capelli biondi (è il caso di Briolet; e si ricordi il Manfredi dantesco:“biondo era e bello e di gentile aspetto”80), dagli abiti eleganti o dalla scarsella col denaro necessario ad un elevato tenore di vita. Cavalca il leone, re degli animali. La Superbia di Villafranca è una bionda regina coronata in eleganti vesti di porpora dai candidi risvolti, mentre quella di Grosso, preziosamente acconciata, oltre alla corona e allo scettro porta uno scudo su cui campeggia il suo nome. Segue in genere l’Avarizia (dalla quale - secondo Pier Lombardo81 - traggono origine tutti gli altri Vizi82), smagrita, scarna, austeramente vestita.A rappresentarla è di solito un mercante o un borghese in groppa ad una scimmia (perché scimmiotta la vita dei nobili o perché la scimmia è una vera e propria figura del diavolo, un simbolo dell’idolatria) o ad un tasso, un lupo, un drago (tutti animali crudeli e malefici: maleodorante, ladro, occultatore di carogne nella sua tana il primo, assunto - in versione femminile - il secondo a raffigurare la cupidigia da Dante o la rapacità dalla Bibbia, dalle favole, dalle fiabe). Stringe una borsa al petto ed ostenta un’aria inquieta. A Plampinet tiene un registro o un libro dei conti nella destra, mentre nel cartiglio che l’accompagna nella cavalcata di Villafranca si legge:“E mi trista avaricia vivo cativa / e bruta, co la borsa streta / cercando se a la rota”.83 La Lussuria è una ricca dama, di bei lineamenti, ben vestita, che a volte porta in capo un hennin84 (d’influenza fiamminga), dei veli o delle bende che ne raccolgono o fasciano la chioma ben acconciata, pettinata a puntino. Ha il “viso dipinto” o truccato con cura e si contempla in uno specchio. « L’acte sexuel est suggéré dans ces peintures par la robe toujours relevée. Il y a donc une opposition très nette entre Grosso Canavese, cappella di S. Ferreolo: particolare della Cavalcata dei Vizi. Plampinet, cappella Nôtre Dame des Graces: le Virtù e i Vizi. l’attitude hiératique du haut du corps et ce geste qui dévoile une cuisse à la nudité criminelle. Cette nudité de la cuisse est d’autant mieux mise en évidence que la jambe est couverte d’un bas jusqu’au genou ».85 La calza è generalmente di color verde o rosso. La Lussuria cavalca per lo più una capra o un becco86, raramente una scrofa o – come a Villafranca – un cin- 77 L’immagine del diavolo nelle sue mostruose e bestiali fattezze quale si sviluppa a partire dal XII secolo sembra ricalcare il classico modello del satiro, ma spesso lo zoccolo forcuto è rimpiazzato da zampe d’uccello. Più tardi (il primo esemplare è forse quello del Salterio di Esmond de Lari) si aggiungono, sulla base di suggestioni orientaleggianti ma non senza implicito rinvio alla primitiva condizione angelica del diavolo stesso – se pure in versione degradata e “notturna” - , ali di pipistrello: cfr. C.A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., pp. 87-92. 78 Sulle pregevoli pitture di Villafranca si era già soffermato P.TOESCA, Antichi affreschi piemontesi, in “Atti della Società Piemontese di Architettura e Belle Arti”, VIII, fasc. 1o, Torino 1910, definendoli “vigorosi di colore, espressivi e fini nel segno”; ma l’insigne studioso ne aveva indebitamente ritardata l’esecuzione, datandola alla fine del secolo. 79 Cfr. W. M. GREEN, Initium omnis peccati superbia”: Augustin on Pride as the First Sin, Berkeley Ca. 1949. Cfr. P.ADNÈS, “Orgueil”, in Dictionnaire de Spiritualité,Ascétique et Mystique,VI, coll. 907-933, Paris 1937-1995; TH. DEMAN, “Orgueil” in Dictionnaire de Théologie Catholique, XXII, coll. 1410-1434, Paris 1909-1972. La Superbia incoronata e abbigliata da regina di Villafranca Piemonte porta un cartiglio con la scritta: “Superbia sun principio del mal del / mondo chi me semea / si andaa in pro / fondo” (cfr. N. GABRIELLI, Aimone Duce pittore a Villafranca Sabauda, in “Studies in the History of Art dedicated to William E. Suida on his eightieth Birthday”, London, p. 24). 80 D. ALIGHIERI, Purgatorio, III, 107. 81 Ma il concetto è già paolino (I Tim. 6, 10) e su di esso fu costruito un acrostico (Radix / Omnium / Malorum / Avaritia) destinato a colpire l’avidità della Curia romana: cfr.W. MAP, Svaghi di corte, Parma 1990, vol. I, II, 17, pp. 232-233. L’avarizia afferma il suo primato a scapito della superbia tra XII e XV secolo, con il progressivo declino del Medioevo “feudale” e “gerarchico” a causa del crescente potere del denaro: cfr. J. HUIZINGA, Autunno del Medioevo, Firenze 1940, p. 29, nonché R. NEWHAUSER, Towards modus in habendo: transformation in the idea of avarice, in “Zeitschrift des Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte-Kanonistische Abteilung”, CVI (1989), pp. 1-22 e CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., pp. 96-100. 82 Cfr. CASAGRANDE, S. VECCHIO, I sette vizi capitali cit., p. 206; A. BEUGNET, “Avarice”, in Dictionnaire de Théologie Catholique, I, coll. 2623-2627, Paris 1909-1972. 83 N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., p. 24. 84 Nel 1429 a Parigi fra’ Riccardo faceva accendere dei falò per dare alle fiamme questi copricapi alla moda : cfr. Journal d’un bourgeois de Paris à la fin de la guerre de Cent ans, Paris 1881. 85 Cfr. M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 469 : “L’atto sessuale è suggerito in queste pitture dalla veste sempre rialzata.Vi è dunque un’opposizione assai netta tra l’attitudine ieratica della parte superiore del corpo e questo gesto che svela una coscia di criminosa nudità. Questa nudità della coscia è tanto più evidenziata dal fatto che la gamba è coperta di una calza fino al ginocchio” (traduzione nostra). In genere è la Lussuria stessa ad alzare la gonna per esibire la gamba nuda e calzata, ma in qualche caso la gonna si raccoglie da sola nell’inforcare l’arcione od è – come nella Chapelle Saint-Antoine di Clans …una minigonna: cfr. C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., p. 101. 86 Merita una segnalazione l’affresco della seconda metà del XV secolo che si vede nella cappella di Santa Croce a Mondovì Piazza: anche qui una donna dalle lunghe chiome bionde disciolte cavalca un caprone, ma l’animale in questo caso è acefalo ed è la stessa donna, personificazione della Sinagoga (cui trafigge il capo una spada impugnata dal braccio sinistro della croce vivente), a reggerne con la manca la testa, mentre nella dritta porta un vessillo rosso rigato di bianco (cfr. P. MALLONE, Predicatori e frescanti. Jacopo da Varagine e la pittura ligure-piemontese del Quattrocento, Savona 1999, pp. 105-108). 39 Leverogne (Valle d’Aosta): ospizio dei pellegrini (particolare degli Affreschi). ghiale.87 Solo dal 1540 la lussuria cominciò ad essere il peccato trattato con più attenzione nei manuali per confessori e penitenti, soppiantando l’avarizia.88 Nello stesso tempo l’asse della verità cristiana “dal piano delle forme teologiche” si spostò a quello della morale, soprattutto della morale sessuale89, cosicché i peccati di sensualità e di lussuria presero da quel momento ad acquistare un’importanza spropositata e prima sconosciuta, come d’altronde attesta la posizione non particolarmente rilevata di questo vizio nel corteo allegorico. L’Invidia mostra i suoi occhi o punta, livida e bieca, il dito sui suoi vicini, talora incrociando - nel gesto - le mani sul petto. È rappresentata da un personaggio smagrito dal rodio che lo divora90 e porta spesso una borsa alla cintola. Si tratta in genere di un borghese (o almeno per tale lo designa l’abbigliamento) mosso da un evidente complesso d’inferiorità nei riguardi degli aristocratici. I morsi dell’invidia sono suggeriti dalla presenza di un cane (o di uno sciacallo) che a volte ringhia minaccioso addentando un osso. «Le lévrier, animal favori des aristocrates, s’explique à la fois par le fait que l’envieux n’agit qu’envers ceux qui le dominent socialement mais aussi 40 par ce que la maigreur de l’envie est identique à celle de ces chiens».91 Nel santuario di Montegrazie l’Invidia è raffigurata da un giovane che rode un bastone sollevato con ambedue le mani all’altezza della bocca. La Gola è per lo più personificata in un ghiottone, grasso e adiposo, dalle guance flosce, che beve da una caraffa di vino e tiene un pollo o un cosciotto infilzato allo spiedo. Altre volte, invece della caraffa, stringe in mano un capace boccale. È in genere una donna bene in carne o un uomo maturo che dà l’impressione di essere un facoltoso paesano, abituato a nutrirsi abbondantemente, intemperante fino all’ubriachezza. Cavalca spesso un lupo o un porco, qualche volta una volpe o una tigre.92 L’Ira si pugnala di sua propria mano, secondo un cliché di ascendenza classica (ma non è estranea – come si è già detto - l’influenza della Psychomachia) che vuole l’iracondo preda del furor e di tendenze autodistruttive o semplicemente distruttive.93 Il gesto dell’uomo che si trafigge il petto o la gola con uno stocco o un pugnale non allude infatti solamente al suicidio, ma anche all’omicidio. A Grosso Canavese un diavoletto scompiglia dispettoso all’Ira la muliebre chioma raccolta in un lungo nastro bianco. L’emblema animalesco dell’ira è per lo più l’orso, ma non sono rari neppure la pantera e il leopardo. L’orso è l’animale feroce che nella Bibbia decima il gregge di Davide, il quale gli dà con successo la caccia, così come nell’iconografia cristiana del Medioevo san Gallo, san Corbiniano e sant’Erige.94 E lo stesso Dante fa riferimento a “colui che si vengiò con gli orsi” (Inf. XXVI, 24), cioè al profeta Eliseo sbeffeggiato per la sua tonsura e vendicato da due orse che sbranarono ben quarantadue dei suoi derisori.95 A Grosso Canavese, cappella di S. Ferreolo: particolare della Cavalcata dei Vizi: l’Ira. Roubion l’Ira brandisce, rivolgendoli contro di sé, due pugnali e cavalca un dragone. L’Accidia (o Pigrizia) chiude la sfilata ed è l’unico personaggio cencioso e trasandato, accasciato senza dignità sull’asino che lo porta. Mentre il modello manoscritto mostrava un paesano, qui per lo più è una donna a personificare l’Accidia. In un primo momento l’acedia – si veda Petrarca96 – era una sorta di malattia della volontà, un torpore dell’anima che impediva ai cristiani di pregare e di adempiere con slancio ai loro obblighi religiosi; ora è invece diventata svogliatezza fisica, mancanza di voglia di lavorare, pec- cato sociale, in primo luogo contro la famiglia, di cui la donna è custode. La sposa ha un ruolo essenziale nell’economia domestica: tra le sue mani la rocca con la lana sta appunto ad evidenziare l’importanza della sua attività lavorativa per stornare dalla casa la povertà. La donna pigra disattende a questo suo compito fon- 87 Qui la Lussuria, sospinta da una figura demoniaca con testa taurina, è contrassegnata dalla seguente scritta:“E mi miro speso per vezeme belo / con lo amore speso rio e sì / pianzo, luxuriando / soino como el porzo in lo fang[o]” (cfr. N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., p. 24). 88 Cfr. C. GINZBURG, Tiziano, Ovidio e i codici della figurazione erotica nel Cinquecento, in IDEM, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia,Torino 1986, pp. 133-157. 89 Cfr. TH. N. TENTLER, Sin and Confession in the Eve of Reformation, Princeton 1977, pp. 162-232; J. DELUMEAU, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Bologna 1987, pp. 775798; A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, pp. 508-519; CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., p. 219. 90 A Villafranca mastica una cannuccia, come indica pure il cartiglio che l’accompagna: “Invidia sun sempre dolente del ben de altri / roxiglo una petita bachetina / e ci semeglio al can quando i le / in la clyxina” (cfr. ibidem). Il demone che la ghermisce ha testa di lupo. L. DESBRUS, “Envie”, in Dictionnaire de Théologie Catholique,V, I, coll. 131-134, Paris 1909-1972 ; É. RANWEZ, “Envie”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique, IV, I, coll. 774-785, Paris 1937-1995. 91 Cfr. M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 470 : « Il levriero, animale favorito degli aristocratici, si spiega non solo col fatto che l’invidioso non agisce se non verso quanti lo dominano socialmente, ma anche col fatto che la magrezza dell’invidia è identica a quella di questi cani».Traduzione nostra. Cfr. Pure L. THEVENON, Iconografia del diavolo cit., p. 25. Sull’invidia si veda, poi, M. VINCENT-CASSY, L’envie au Moyen Âge, in “Annales E. S. C.”, XXXV (1980), pp. 253-271. 92 P. ADNÈS, “Gourmandise”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique, VI, coll. 612-622, Paris 1937-1995 ; C. N’DIAYE (a cura di), La gourmandise. Délices d’un péché (“Mutations / Mangeurs”, 140), Paris 1993 ; F. RIGOTTI, Del vizio della gola e di altri vizi, in « Intersezioni », XIX (1999), pp. 157-183.A Villafranca la sospinge un demone con ali di pipistrello e l’accompagna questa scritta :“Gula sum che beivo e sì mangio vo / lentera de bon, anchò de bon doman de / meglo, consumo la roba e se / vivo a dexhonor” (cfr. N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., pp. 23-24). 93 Cfr. M. BLAIS, La colère selon Sénèque et selon Saint Thomas, in “Laval Théologique et Philosophique”, XX (1964), pp. 247-290 ; M.VEGETTI, Passioni antiche : l’io collerico, in Storia delle passioni, a cura di S.VEGETTIFINZI, Roma-Bari 1995, pp. 39-73. 94 Cfr. L. THÉVENON, Iconografia del diavolo cit., p. 25. La scritta che la contraddistingue nella cavalcata di Villafranca è: “Ira son pina de grande mengramia / non cognosco raxon ma sun tuta vilana / amazo el corpo e se perdo la anima” (cfr. N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., p. 23). La scorta un demone con testa di cane. Cfr. H.-D. NOBLE, “Colère”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique, II, I, coll. 1054-1077, Paris 1937-1995. 95 Cfr. 2 Re, 2, 23-25. 96 F. PETRARCA, Secretum, II. Cfr. S. WENZL, “Acedia“ 700-1200, in “Traditio“, XXII (1966), pp. 73-102; R. JEHL, Melancholie und Acedia. Ein Beitrag zu Anthropologie und Ethik Bonaventuras, Paderborn 1984; TH.-M. HAMONIC, L’acédie et l’ennui selon saint Thomas, in L’ennui. Féconde mélancolie (« Mutations », 175), a cura di D. NORDON, Paris 1998 ; G. BUNGE, Akedia. Il male oscuro, Magnano 1999. 41 Pietro Guidi da Ranzo Avrieux, parrocchiale: particolare della settecentesca Cavalcata dei Vizi (con i rispettivi castighi infernali). damentale: di qui la povertà e la sciatteria delle sue vesti.97 Nella cappella di Horres dedicata a sant’Andrea l’Accidia è una “donna scarmigliata, con veste lacera ed una rocca da filare abbandonata, su una giovenca”.98 Tutti gli stati della società sono dunque rappresentati nella cavalcata dei Vizi, la cui fortuna, oltre che dalle numerose raffigurazioni a fresco, è attestata da un episodio significativo: quando Carlo VII il 13 novembre 1434 entrò in Parigi c’era “un cortège représentant les sept péchés montés à cheval et estaient habillés seloncq leurs propriétés”.99 Né si attenuerà con l’affermarsi di nuove griglie – più perfette e più sofisticate – escogitate dai chierici per agevolare il compito dei confessori.100 Ma è indubbio che all’inizio del XVI secolo il tema perde vigore.“A Roubion nel 1513, diventa una piacevole sfilata dai personaggi che hanno un’aria rilassata, quasi allegri! A Rezzo nel 1515, sotto il pennello del popolarissimo Pietro Guidi, originario di Ranzo nella stessa valle dell’Arroscia dove decora diversi edifici, i vizi e i loro animali volgono alla caricatura buffonesca: personaggi deformi che schiacciano sotto il loro peso dei piccoli animali tra i quali l’asino e il caprone con orecchi e corna smisurati, il leone ha l’aspetto di un giocattolo101, ecc... Questo tipo di raffigurazione dei vizi è abbandonato, ad eccezione di rare prolungazioni arcaizzanti come a Avrieux nella Maurienne dove, nelle pitture del XVII secolo in chiaroscuro, i vizi, con delle catene al collo, cavalcando i loro animali caratteristici, portano delle parrucche, pizzi, calze (da donna) e ampi cappelli con piume”.102 Il fatto è che la cavalcata dei Vizi corrisponde ad una religione materiale, esteriore e gestuale, quasi pelagiana, qual è quella dei cristiani del XV secolo, e per questo non a caso viene lasciata cadere – con le sue immagini - dopo il concilio di Trento. 42 Queyrières: Cavalcata dei Vizi (particolare). Figlio d’arte (il padre Giorgio decorò il protiro della chiesa di San Bernardo di Ponti di Pornassio), originario di Pieve di Teco, attivo in Liguria nella prima metà del XVI secolo (dal 1499 al 1503 ebbe bottega a Genova con Francesco Squarciafico), sembra avere assorbito la lezione dei maestri piemontesi operanti in zona, tanto che un critico (Boggero) lo ha definito “piemontesizzato”. È autore della Passione di Gesù che si trova nella navata del santuario di Nostra Signora delle Grazie a Montegrazie (Imperia) e del polittico (firmato Petrus Guidus pintor) di San Bernardino nel santuario della Natività o di Nostra Signora del Sepolcro a Rezzo, dove affresca pure l’arco trionfale e nel 1515 “le immagini didascaliche del Giudizio col Paradiso, del Purgatorio (quasi del tutto scomparse), dell’Inferno con una nuova cavalcata dei Vizi e della serie dei Mesi, prezioso documento etnografico” (Giacobbe). Nel 1537, sempre a Rezzo, decora una cappella dedicata alla Vergine Lauretana e l’oratorio dell’ospedale (con una Crocifissione al di sotto di un Cristo morto tra i simboli della Passione e, negli scomparti laterali, le immagini di Santa Margherita, San Bernardino da Siena, Sant’ Antonio Abate, San Giovanni Battista, San Francesco e Santa Lucia). La sua firma compariva sulla predella del polittico dipinto nel 1490 dai Biazaci: predella da lui evidentemente rifinita o rifatta in un secondo momento. 3– Non intendiamo qui soffermarci sul valore estetico di queste opere, che è piuttosto disuguale, perché, accanto ad artisti di rango come Aymo Dux, cui si deve la cavalcata affrescata a Villafranca Piemonte, e ad altri frescanti non privi di una certa vena poe- tica e narrativa come i fratelli Tommaso e Matteo Biazaci (o Biasiaci/Biasacci), originari di Busca e attivi a Montegrazie nel santuario di Nostra Signora delle Grazie, nella chiesa di San Bernardino ad Albenga e altrove103, o come Giovanni (Jean) Baleison di 97 A Villafranca l’abbraccia un diavolo e la scritta che l’accompagna dice:“E mi misera e trista: accida fazo asse / e cativi: metua trista in mezo de li rei miser / a chi segue li costumi mei” (ibidem). Sugli affreschi di Villafranca si veda pure O. SANTANERA, La pittura dal Duecento al Cinquecento, in AA.VV., Pittura a Villafranca Piemonte attraverso i secoli, Cavallermaggiore 1992, pp. 11-18. Su Dux Aymo cfr. pure M. DI MACCO, Dux Aymo, 1429, in E. CASTELNUOVO, G. ROMANO (a cura di), Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra, Torino 1979; E. ROSSETTI BREZZI, “Dux Aimone”, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLII, Roma 1993, pp. 240-241; N. GARAVELLI, Dux Aymo (1417-1444): ultime ricerche sui documenti d’archivio, in “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, LII, 2000, pp. 77-90. 98 M. MASSANO, M. L. MONCASSOLI TIBONE,Tre preziose cappelle. Bardonecchia da salvare, in “Piemonte vivo”, n. 1, febbraio 1985, p. 32. Sugli affreschi della valle di Susa cfr. E. ROSSETTI BREZZI, La pittura in Valle di Susa tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, in AA.VV., Valle di Susa. Arte e storia dall’XI al XVIII secolo, catalogo della mostra, pp. 181-203. 99 KERVIN DE LETTENHOVE, Bruxelles 1866 : “un corteo rappresentante i sette peccati a cavallo e abbigliati secondo le loro proprietà” . Cfr. M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 467. 100 Lo schema della cavalcata non è l’unico a rappresentare il settenario dei vizi: oltre ai modelli psicomachici, vi sono, ad esempio, quello dell’albero, del carro, dei gradoni (o dei gironi), etc., che possono tuttavia attenersi a raggruppamenti più complessi e numerosi. Dopo il Concilio di Trento, anche in Italia si imporrà lo schema catechetico Credo / Decalogo / Padre nostro: cfr. CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., pp. 217 ss. 101 Su Pietro Guidi di Ranzo e gli affreschi di Rezzo, cfr.A. GIACOBBE, La valle di Rezzo. Panoramica storica e presenze artistiche, 2o vol., Imperia 1993, pp. 247-261. Si vedano pure L. MAZZINO, G.V. CASTELNOVI, Il santuario di Montegrazie ad Imperia, Imperia 1967; F. BOGGERO, La pittura in Liguria nel Cinquecento, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 19882, I, p. 21; la scheda della De Floriani in G. ALGERI, A. DE FLORIANI, La pittura in Liguria. Il Quattrocento, Genova 1991, p. 513 e la scheda di M. BARTOLETTI, in La pittura in Italia cit., p. 739. 102 Cfr. L.THÉVENON, Iconografia del diavolo cit., p. 26. La maggior parte delle cavalcate reperibili in Italia, a cominciare da quella di Villafranca (riferibile alla prima metà del Quattrocento: cfr. N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., p. 85), è tuttavia del XV secolo o tutt’al più del primo Cinquecento, come quelle di Giaglione (Susa), di Melezet, di Millaurès, di Salbertrand (P.TOESCA, Antichi affreschi cit., p. 59; A. M. BRIZIO, La pittura in Piemonte dall’età romanica al Cinquecento,Torino 1942, p. 166) ; il ciclo di Leverogne è datato 1496: cfr. ivi, pp. 167 e 169. 103 Sui Biazaci si vedano P. ROTONDI, Per Tommaso e Matteo Biazaci da Busca, in “Rivista Ingauna e Intemelia”, XI, n. 1, 1956, pp. 24-26 e nn. 3-4, pp. 110-121; M. PEROTTI, Tommaso e Matteo Biazaci, in “Cuneo Provincia Granda”, XII (1963), n. 4, p. 15; P. TORRITI, “Biazaci, Tommaso e Matteo”, in Dizionario biografico degli italiani, IX, Roma 1968, pp. 301-302; M. P.ACQUARONE, Tommaso e Matteo Biazaci a Montegrazie e Piani d’Imperia, in “Argomenti di storia dell’arte”, Genova 1980, pp. 87-93; F. CATALANO, I Biasacci di Busca e la pittura tardogotica in Piemonte, in “Piemonte vivo”, 3, giugno 1980, pp. 43-47; M. PEROTTI, Cinque secoli di pittura nel Piemonte cispadano antico, Cuneo 1981, p. 99; E. ROSSETTI BREZZI, Percorsi figurativi in terra cuneese. Ricerche sugli scambi culturali nel Basso Piemonte,Alessandria 1985; F. BOGGERO, I “nuovi” affreschi di Tommaso e Matteo Biazaci nella chiesa di San Bernardino ad Albenga: dalla scoperta a un progetto di recupero conservativo, in Riabitat. Informazioni per il recupero,“Atti del convegno (Genova 1985)”, Genova 1986, pp. 37-40; G. RICCHIARDI, A. DE ANGELIS, A. SALOMONE, La chiesa parrocchiale di Sampeyre. Storia Arte e Fede, Busca 1987; A. GAGLIANO CANDELA, “Biazaci,Tommaso e Matteo”, in F. ZERI (a cura di), La pittura in Italia. Il Quattrocento, t. II, Milano 1987, pp. 584-585; G. ALGERI, A. DE FLORIANI, La pittura in Liguria cit., pp. 262-263; G. ROMANO (a cura di), Primitivi Piemontesi nei musei di Torino, Torino 1996; B. CILIENTO, Il ciclo di Tommaso Biazaci nella parrocchiale di Casteldelfino, in “Bollettino della Società per gli Stdi Storici ed Artistici della provincia di Cuneo”, n. 125, 2001, pp. 93-108; E. COTTURA, E. ROMANELLO, Affreschi di Tommaso e Matteo Biasacci in Valle Grana. Alcune annotazioni a margine della loro attività, in AA.VV., Valle Grana. Una Comunità tra arte e storia, Caraglio 2004, pp. 103-130. 43 Andagna, cappella di S. Bernardo: Cavalcata dei Vizi (particolare: la bocca del Leviatano). Demonte e Giovanni Canavesio di Pinerolo104, cui alcuni assegnano gli affreschi di San Fiorenzo a Bastia Mondovì105, opera più probabilmente dei fratelli Biazaci e di Giovanni Mazzucco106, molti sono tuttora anonimi o si devono a pittori di modesta levatura. E poi il discorso delle attribuzioni, delle committenze e delle date ci porterebbe assai lontano, in un terreno troppo ostico e spinoso.107 Preferiamo pertanto indugiare un po’ sugli esemplari a noi geograficamente più vicini, che sono quelli di San Rocco a Mombarcaro e il frammento testé scoperto (e segnalato) nella chiesa della Madonna del Carmine a Prunetto.108 Gli affreschi di Mombarcaro si devono ad Antonino Occello da Ceva, attivo nel 1532 nella cappella del castello di Monesiglio e l’anno prima a Mondovì nella cappella del Buon Gesù. In precedenza, nel 1523, aveva dipinto la parrocchiale di San Pietro a Mombarcaro, dove con tutta probabilità nella stessa occasione affrescò pure la cappella di San Rocco. Nella cavalcata dei Vizi, che muove da dritta verso manca, sulla parete sinistra, si nota la successione canonica: il corteo è aperto dalla Superbia rossovestita, con la spada in pugno, in groppa ad un fulvo leone; subito dopo viene l’Avarizia, che cavalca un levriero rosicchiante un osso, seguita a sua volta dalla Lussuria su di un caprone: la donna si specchia compiaciuta nella rotonda sfera che regge con la destra, mentre con la sinistra solleva maliziosa la gonna sulla gamba calzata di rosso Mombarcaro, cappella di S. Rocco: affreschi (con Cavalcata dei Vizi). Aymo Dux Formatosi a Pavia al tempo di Gian Galeazzo Visconti, diventa pittore di corte al servizio di Ludovico d’Acaja. A Pinerolo, tra il 1316-1317 esegue un imprecisato lavoro per il “castello nuovo” voluto da Filippo d’Acaia. Nell’autunno del 1317 Ludovico lo invia cum litteris a Milano. Nel 1418 il governatore d’Ivrea gli commissiona la realizzazione delle insegne di Amedeo VIII per il corteo funebre del marchese Teodoro II di Monferrato. Nel 1422 il pittore - de Papia ma abitante a Ivrea viene retribuito per un dipinto (purtroppo perduto) nel duomo di Ivrea, mentre nel 1429 lavora nella chiesa di Santa Maria Assunta a Macello. Non lungi di qui, a Pinerolo, in località Baudenasca, è registrato il 27 aprile 1433 come magister. Tra il 19 e il 23 maggio 1444 paga una taglia di dieci denari grossi per alcune proprietà (probabilmente una casa) nel frattempo comprate in Pinerolo. Dopo tale data, di lui non si fa più menzione. Suoi sono gli affreschi nella cappella di Missione di Villafranca Piemonte, databili al terzo/ quarto decennio del Quattrocento, ma tracce della sua attività sono state riscontrate anche a Pavia. Qualcuno infine ha visto la sua mano nella sala baronale del castello della Manta. Certamente suo è l’affresco con il Martirio di San Sebastiano che si trova a Pianezza nella chiesa di San Pietro. Rielaborazione al computer della Cavalcata dei Vizi (cappella dei S. Rocco a Mombarcaro) a cura di P. Friggeri. fino al ginocchio.Al centro, su di una pecora (o una scimmia?) fornita di collare, avanza l’Invidia, tutta vestita di rosso, che appunta malevola l’indice sul prossimo. La Gola è rappresentata da un uomo, in arcioni su un porco selvatico, che beve da una botticella. L’Ira, in groppa ad una lupa, si appresta a piantarsi un pugnale nel petto appositamente scamiciato. Chiude la sfilata, al solito, una sciatta Accidia su di un asino che procede indolente, a testa bassa, strigliato da un diavolo che l’incalza.All’estremità sinistra un altro diavolo scuro gli fa da pendant afferrando e tirando la catena che lega tra loro, al collo, i Vizi, per affrettarne l’inabissamento tra le fauci spalancate del Leviatano. La cappella doveva essere accessibile alla gente del popolo e ai pellegrini di passaggio, giacché da un lato vi troviamo raffigurati alcuni santi molto popolari 104 Sul Canavesio si vedano A. TARAMELLI, Gli affreschi del Canavesio in S. Bernardo di Pigna, in “L’Arte”, 1900, p. 168; G. BRÈS, Brevi notizie inedite di alcuni pittori Nicesi, p. 9, Nizza 1906; E. PACCHIAUDI, Il Santuario di Nostra Signora del Fontano, Bordighera 1912; G. BOREA, Les fresques de Jean Canavesi au sanctuaire de Nôtre-Dame de Fontan à la Briga, in “Annales de la Société des lettres, sciences et arts des Alpes Maritimes”, Nizza 1914-1915; M. FULCHERI, Giovanni Canavesio, Torino 1925; L. REGREZZA, Gli affreschi nel Convento dei Domenicani in Taggia: Giovanni Canavesio da Pinerolo, in “Comune di Genova”, febbraio 1927, p. 127; L. IMBERT, La chapelle de la Madonne des Fontaines à la Brigue et ses fresques, in “Nice Historique”, 1950; E. BREZZI, Precisazioni sull’opera di Giovanni Canavesio: revisioni critiche, in “Atti della Società Piemontese di Architettura e Belle Arti”, 1964; G. ROMANO, ad vocem, in Dizionario biografico degli italiani, XVII, Roma 1974, p. 728; P. BENOÎT AVENA, Simbolica storia e sapienza degli affreschi della Cappella Nôtre-Dame des Fontaines, La Brigue 1980; IDEM, (a cura di), Nôtre-Dame des fontaines: la Cappella Sistina delle Alpi Marittime, Borgo San Dalmazzo 1989; G. ALGERI, A. DE FLORIANI, La pittura in Liguria cit. pp. 499-500. 105 Cfr. P. FRIGGERI, La cappella di S. Rocco a Mombarcaro, Moretta, s. d.; L. GALLARETO,A. PREGLIASCO, Antichi affreschi gotici e monumenti rinascimentali di Langa, in G. L. BECCARIA, P. GRIMALDI, A. PREGLIASCO (a cura di), Langhe e Roero. Le colline della fatica e della festa. Storia Arte Tradizione,Torino 1995, pp. 76-77. 106 Cfr. L. BERRA, L’Inferno pittorico della chiesa di San Fiorenzo di Bastia, in “Cuneo – Provincia Granda”,V, 3 (1956), pp. 31-40; IDEM, S. Fiorenzo di Bastia, in “Comunicazioni della Società di Studi storici, archeologici ed artistici per la Provincia di Cuneo”,VI (1934), pp. 7-15. Cfr. anche G. C. CHIECHIO, La Chiesa di S. Fiorenzo di Bastia; Cuneo 1887;A. GRISERI, Jaquerio e il realismo gotico in Piemonte,Torino 1966, pp. 96 ss.; G. RAINERI, Antichi affreschi del Monteregale, Cuneo 1965; IDEM, Ricerche iconografiche, in “Bollettino della Società di Studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo”, 1966, n. 55, p. 103; N. CARBONERI, Antologia artistica del Monregalese, Milano 1970, pp. 22-23; G. RAINERI, Gli affreschi di S. Fiorenzo di Bastia e la pittura murale gotica nel Monregalese, in “Bollettino della Società di Studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo”, 1971, n. 65; S. BAIOCCO, S. CASTRONOVO, E. PAGELLA, Arte in Piemonte. Il Gotico, Ivrea 2003, pp. 119-120. Ma si vedano soprattutto A. GRISERI, G. RAINERI, San Fiorenzo in Bastia Mondovì, Bastia Mondovì 1975;W. CANAVESIO (a cura di), Jaquerio e le arti del suo tempo,Torino 2000. Su Giovanni Mazzucco cfr. A. BAUDI DI VESME, Schede Vesme. L’arte in Piemonte, IV, Torino 1963-1982 e in particolare E. ROSSETTI BREZZI, Percorsi figurativi cit., pp. 111-112 e G. GALANTE GARRONE, Il recupero di una Madonna del Cinquecento, in G. GALANTE GARRONE, G. REVIGLIO DELLA VENERIA, La cappella di San Paolo a Mondovì Carassone, Torino 1986, p. 42, nota 11. 107 Il ruolo dei pittori era comunque ben delimitato. Negli atti del secondo concilio di Nicea si legge, fra l’altro: Non est imaginum structura pictorum inventio, sed ecclesiae catholicae probata legislatio et traditio […] consilium et traditio ista non est pictoris (eius enim sola ars est), verum ordinatio et dispositio patrum sanctorum [“La struttura delle immagini non va lasciata all’inventiva dei pittori, ma è riservata alla tradizione e alla comprovata legislazione della Chiesa cattolica … Codesta composizione, nella sua elaborazione narrativa, non è di pertinenza del pittore (cui spetta solo la tecnica), bensì dei santi padri”] (cfr. G. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Firenze 1757-1798, XIII, p. 672). 108 La scoperta è merito di Piero Friggeri, che ne ha dato notizia in un articolo sull’ “Unione Monregalese” del 4 gennaio 2001: cfr. P. FRIGGERI, Scoperto a Prunetto un simbolo del cristianesimo medievale. Lo stesso autore ci ha recentemente comunicato per telefono l’individuazione di un’ulteriore cavalcata dei Vizi a Lesegno, nell’oratorio di San Sebastiano. 45 Giovanni Baleison Nato a Demonte, fece il suo apprendistato a Saluzzo, forse alla scuola di Pietro da Saluzzo, ma è nel palazzo vescovile di Albenga, tra il 1459 e il 1466, che troviamo precise testimonianze della sua attività di pittore (Storie della Rivelazione). Forse è tra i collaboratori del frescante dell’ex oratorio di San Michele a Serravalle Langhe (1450-1460). Dipinge poi a Marmora nella cappella di San Sebastiano e quindi, tra il 1475 e il 1490, affresca Nôtre-Dame des Fontaines a La Brigue con il Canavesio, suo compagno di lavoro anche nella cappella di San Sebastiano a Saint-Étienne-de-Tinée. Lo ritroviamo in seguito (1480) a Lucéram, dove decora la cappella di Saint-Grat e quella di Nôtre-Dame de Bon Coeur. Nel 1481 si sposta a Venanson, dove firma gli affreschi di San Sebastiano, prima di trasferirsi a Celle di Macra per dipingervi la cappella. Del 1486 è la Madonna col Bambino raffigurata a Stroppo in Val Maira, sulla facciata di casa Sartorio. Qualcuno gli assegna pure gli Evangelisti di Villar San Costanzo. come Sant’Antonio Abate, San Sebastiano e San Rocco (santi taumaturghi e protettori contro le epidemie degli uomini e del bestiame) e dall’altro, in posizione centrale, vi è rappresentato il miracolo di Santo Domingo della Calzada (o di Tolosa)109, con San Giacomo che sorregge e salva un giovane pellegrino diretto a Santiago de Compostela e impiccato dal governatore della città perché accusato a torto di un furto all’osteria. Ora, è questo un miracolo legato al culto jacopeo e al pellegrinaggio devozionale che aveva per meta la Galizia o, in direzione opposta, Roma. La cappella, situata all’uscita del paese, su una via di notevole transito, fu più volte adibita a lazzaretto: pertanto i fedeli che vi stazionavano o che vi trascorrevano davanti potevano facilmente leggervi, al di là dei richiami devozionali, un invito a meditare sulle conseguenze rovinose del peccato, a fare un accurato esame di coscienza e a prepararsi in tal modo alla confessione. Le pitture parlavano in maniera immediata e comprensibile al cuore e alla coscienza degli idioti e dei semplici che ignoravano la scrittura: erano il loro linguaggio, il loro rudimentale catechismo. Attribuibile allo stesso pittore cevano è il frammento superstite di Prunetto, che si annida in basso, a destra dell’entrata, nella chiesa della Madonna del Carmine, sontuosamente illustrata dagli affreschi tardoquattrocenteschi di Segurano Cigna da Vicoforte.110 Ebbene, in questo scrigno di pitture, al posto del velario, si scorge, sia pure mutilo e sbiadito, un esemplare della Lussuria che sembra fedelmente ricalcare l’immagine già vista a Mombarcaro: su uno sfondo stampigliato a fiorami, la stessa donna, nella stessa positura, con la catena che le avvince il collo. Il medesimo volto tondeggiante, la chioma acconciata in maniera analoga. Manca il caprone, ma la disposizione della gamba sinistra e del Bessans, chapelle Saint’Antoine: Cavalcata dei Vizi (si noti la Lussuria con il tipico cappello a cono o hennin). Prunetto, chiesa del Carmine: residuo di Cavalcata dei Vizi. Foto di P. Friggeri. fondoschiena della Lussuria lasciano intuire la presenza – ora purtroppo svanita – di una simile cavalcatura. Resta da capire perché questo modello catechetico sia rimasto confinato all’area alpina e alle sue propaggini collinari111, senza interessare – almeno da noi in Italia – le regioni di pianura, dove invece si diffusero modelli iconografici alternativi, quali, ad esempio, i “Trionfi della Morte” e le “Danze macabre”.112 Maggiore apertura (e adesione) a influenze culturali nordiche da parte dell’area padana e di quella centroitaliana? O persistenza, in queste stesse aree, di un’eredità pagana contaminata dal messaggio salvifico di Cristo?113 Difficile dare una risposta soddisfacente, anche se la fortuna della cavalcata dei Vizi nel Monregalese, ad esempio, si può in parte spiegare con la diffusione in loco di libri come l’Aesopus moralisatus e l’Albertus Magnus, Libellus de natura animalium, con riproduzioni xilografiche di animali e di contadini non troppo diversi da quelli che vediamo negli affreschi di Bastia.114 109 Cfr. JACOPO DA VARAGINE, Leggenda aurea, Firenze 1984, I, p. 416. 110 Cfr. M. P. COSTA PIROVANO, Prunetto. Santuario della Madonna del Carmine. Itinerario storico-artistico, Mondovì 1999. 111 Fanno in parte eccezione le cavalcate di Grosso Canavese (cappella di San Ferreolo) e quella di Villafranca Piemonte (cappella di Missione), comunque di area piemontese, lontane dal confine lombardo. Le uniche tre regioni italiane interessate dal nostro modello iconografico sono – lo ribadiamo – la Liguria, il Piemonte, la Valle d’Aosta: un’area tutto sommato culturalmente e geograficamente omogenea, come attestano fra l’altro i versi di un poeta provenzale che si rivolge ad un amico piemontese: Ami, nósti parla soun tóuti dous roman; / Poudèn nous dire fraire e nous touca la man: / Toun Po, ma miéu Durènço, / Na tóuti dous d’un soulet mount, / Van abéura, l’un lou Piemount / E l’autro la Prouvènço [“Amico, le nostre favelle sono ambedue romanze, / possiamo chiamarci fratelli e toccarci la mano: / il tuo Po, la mia Durance, / nati ambedue da uno stesso monte, / vanno ad abbeverare l’uno il Piemonte, / l’altra la mia Provenza”: cfr. E. PORTAL, Antologia Provenzale, Milano 1911, p. 181 e C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., pp. 58-59. Sulla chiesa di San Ferreolo cfr. A. BELLEZZA PRINSI, La chiesa romanica di San Ferreolo a Grosso Canavese, in “Bollettino Parrocchiale di La Langa di Poirino”, maggio 1966;A. CAVALLARI MURAT, Lungo la Stura di Lanzo,Torino 1972, pp. 95-96; L. BARRA, Il corteo dei vizi e delle virtù nella cappella di san Ferreolo: storia e attualità, tesi di laurea, Istituto Superiore di Scienze Religiose, Torino, a. a. 1998-1999, relatore R. GAMERRO. Ringraziamo l’amico Lionello Archetti Maestri per il cortese aiuto. 112 Esempi di danza macabra non mancano, però, nemmeno nell’area interessata dalle cavalcate dei Vizi: si veda, ad esempio, “il ballo sfrenato cui deve sottomettersi un chierico indegno in balia di due scheletri che lo affrerrano per le mani” (M. PEROTTI, Repertorio dei monumenti artistici della provincia di Cuneo, vol. 1/c, Territorio dell’antica Marca saluzzese, quaderno n. 32, p. 293, Cuneo 1980) nella chiesa della Consolata a Saluzzo; ma più famosa ancora è la danza affrescata sulle quattro pareti della cappella di San Pietro a Macra, dove non vediamo solo un “nutrito assortimento” di personaggi (re, vescovi, monaci, dignitari, borghesi, uomini e donne comuni), ma anche l’ “irridente sceneggiata degli scheletri, che assumono gli atteggiamenti dei danzatori più festaioli, fino alla comica dello scheletro che, danzando sui trespoli, fa l’inchino quale estremo sberleffo ai vizi e alle colpe di tutti quei personaggi, che così vengono accompagnati al loro tragico destino” (C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., p. 107). 113 Sull’origine delle “Danza macabra” e del “Trionfo della Morte” non c’è accordo tra gli studiosi che - a cominciare da J. HUIZINGA, L’autunno del Medioevo, Firenze 1940 - se ne sono occupati, anche se, a dire di È MÂLE, L’art religieux en France à la fin du Moyen Âge, Paris 1922, p. 362, a ideare in Europa le danze macabre furono i francescani. 114 A stampare il primo fu de Vivaldis (Mondovì 1476), mentre il secondo (Mondovì 1508) fu edito dal Berruerio: cfr. A. GRISERI, Jaquerio cit., nota 120 alle pp. 132-133. 47 Tommaso e Matteo Biazaci (Biasacci): Sono due fratelli nativi di Busca, attivi fra Piemonte e Liguria nel trentennio che va dal 1465 al 1495. Lavorano dapprima a Marmora nella parrocchiale dei Santi Giorgio e Massimo (le figure di San Gregorio, San Martino e San Francesco che riceve le stigmate sono accompagnate da un’iscrizione in volgare: “Facendo male e sperando bene / il tempo passa e la morte viene. / MCCCCLIX Thomas de Buscha pinxit”) e a Savigliano, alla torre dell’orologio, subendo l’influenza dell’ambiente figurativo monregalese, in particolare di Antonio da Monteregale. A Savigliano, dove tornerà di frequente, Tommaso risulta domiciliato nel 1465. Qui i Biazaci dipingono la Vergine e San Giovanni Battista in preghiera, oltre a una pregevole Madonna col Bambino e un Cristo in gloria, nella chiesa di San Giovanni Battista. Affrescano quindi (ma per alcuni si tratterebbe di opere più tarde, degli anni novanta) la cappella di Santo Stefano e quella di San Sebastiano a Busca, nonché una casa in Valgrana (facciata dell’ospizio della Trinità). A Caraglio dipingono la cappella alla base del campanile nella chiesa di San Giovanni. Thomas de Biazacijs firma alcuni affreschi nella cappella di San Pietro a Macra. Di qui si spostano entrambi nella Valle Varaita (cappella dell’Annunziata a Chiot-Martin). A Sampeyre, nella parrocchiale, i due fratelli dipingono (prima del 1474) le Storie dell’infanzia di Cristo, ma sono attivi pure nel convento di San Bernardino ad Albenga e, a cominciare dal 1483, nel santuario di Nostra Signora delle Grazie a Montegrazie, in provincia di Imperia, dove affrescano dapprima i cicli delle Virtù e dei Vizi e in seguito le Storie della vita del Solva di Alassio, chiesa dell’Annunziata: particolare della Cavalcata dei Vizi: la Lussuria. Battista. A Tommaso, autore di una tavola (Madonna col Bambino in trono, 15 settembre 1478) conservata nella Galleria di Palazzo Bianco, a Genova, è pure attribuita l’Annunciazione dell’oratorio di Santa Croce e San Bernardino di Diano Castello. Secondo alcuni studiosi, è dei Biazaci la Cavalcata dei Vizi di Solva, nelle vicinanze di Alassio, e forse anche l’Annunciazione di Andagna, pur non essendoci riscontri documentari inoppugnabili. All’ultimo ventennio del secolo risalgono gli affreschi realizzati a Cuneo nel santuario della Madonna degli Angeli e forse anche la decorazione della cappella angioina di Borgo San Dalmazzo. Il 15 settembre 1488 Tommaso firma le pitture del santuario dell’Assunta ai Piani d’Imperia. In seguito gli artisti affrescano sia l’Assunta sulla facciata della parrocchiale di Rossana sia la Pietà all’esterno della chiesa di San Giuliano a Savigliano. Un polittico degli anni novanta ripropone l’iconografia mariana del 1478, “ma aggiornata sulla cultura rinascimentale lombarda di Giovanni Mazone” (CotturaRomanello). Aggiornato sui modelli lombardi è altresì il trittico quasi coevo della Madonna in trono con angeli tra San Giovanni Evangelista e Santo Stefano che si conserva a Palazzo Bianco. Ai primi anni novanta è poi riferibile la Madonna col Bambino affrescata nella pieve di Santa Maria a Beinette, probabilmente prima che i due artisti tornino a decorare la parrocchiale di Sampeyre (Scene della vita di Cristo, Crocifissione, Suicidio di Giuda, Deposizione) con soggetti chiaramente ispirati a Canavesio. Tommaso firma infine nel 1504 il ciclo affrescato nella parrocchiale di Santa Margherita a Casteldelfino. Giovanni Mazzucco È nominato a Mondovì in un contratto della seconda metà del XV secolo, dove si definisce la collocazione degli affreschi nella perduta chiesa di San Francesco. Un altro documento di Aix-enProvence nomina il pittore come padre di Domenico. Nel 1477 firma e data gli affreschi della chiesa di San Domenico in Peveragno, ma suoi sono pure quelli – meglio conservati – nella casa dei frati (convento dei domenicani) a Roccaforte Mondovì. Del 1491 è il ciclo – già firmato – nel santuario della Madonna del Bricchetto, presso Morozzo. Firmati e datati (1481) sono pure gli affreschi nella cappella del Santo Sepolcro a Piozzo. Gli viene infine attribuito il trittico della cappella di San Pietro in Roncaglia a Benevagienna. Questo pittore “monopolizzò l’ambiente artistico monregalese nell’ultimo quarto del XV secolo, con modi che, nell’ultima fase della sua attività, diventano sempre più ripetitivi” (Cottura-Romanello). Bibliografia [sul trionfo della morte]: G. VALLARDI, Trionfo della morte o danza macabra a Clusone. Dogma della morte a Pisogne, nella provincia di Bergamo, Milano 1859; G. KLEINERT, Über den Streit zwischen Leib und Seele: ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte der Visio Fulberti, Halle-Wittemberg 1880; W. FESHE, Der Ursprung der Totentänze: mit einem Anhang: der vierzeilige oberdeutsche Totentanztext, Codex Palatinus Nr. 314. 79a-80b, Halle 1907; W. STAMMLER, Der Totentanz: Enststehung und Deutung, Monaco di Baviera 1918; J. MIDGLEY CLARK, The Dance of Death in the Middle Ages and the Renaissence, Glasgow 1950; L. SPITZER, La danse macabre, in Mélanges de linguistique offerts à Albert Dauzat, Paris 1951; H. ROSENFELD, Der mittelalterliche Totentanz: Entstehung, Entwicklung, Bedeutung, Münster-Colonia 1954; C. SETTIS FRUGONI, Il testo dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti nella tradizione medievale italiana, “Atti dell’Accademia dei Lincei”, CCCLXV, s. VIII, f. XIII, Roma 1962; A. DEYERMOND, El ambiente social e intelectual de la Danza de la Muerte, in “Actas del III Congreso Internacional, celebrado en Mexico D. F., del 26 al 31 de Agosto de 1968, Mexico 1970; J. SAUGNIEUZ, Les danses macabres de France et d’Espagne et leurs prolongements littéraires, Lion-Paris 1972; A. TENENTI, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento (Francia e Italia), Torino 1977; [cfr. pure IDEM, L’antirinascimento, Milano 1989] ; PH. ARIÈS, L’homme devant la mort, Paris 1977; M. COLLINS, The Dance of Death in Book Illustration, Columbia 1978; F. KASTEN, Thema Totentanz: Kontinuität and Wandel einer Bildidee von Mittelalter bis heute, catalogo della mostra del Mannheimer Kunstverein 5 ottobre-9 novembre 1986, Mannheim 1986; J. BALTRUŠAITIS, Il Medioevo fantastico, Milano 1993; G. KAISER, Der tanzende Tod: mittelalterliche Totentänze, francoforte sul Meno 19964; V. INFANTES, Las danzas de la Muerte: génesis y desarrollo de un genero medieval (siglos XIII-XVII), Salamanca 1997; U. WUNDERLICH, Tanz in den Tod. Totentänze vom Mittelalter bis in die Gegenwart, Friburgo in Brisgovia 2001; H. F. MASSMANN, Literatur der Totentänze: mit einem Nachtrag Bibliographie der Totentänze der 1830-1976 von Rainer Taepper und einem Gesamtregister zu Massmann und Taepper von Hans Herbert Napp, Hildesheim-Olms, Zurigo-Nuova York 2002 (ed. or. Lipsia 1840). Giovanni Canavesio Estroso e geniale prete-pittore, nato con tutta probabilità a Pinerolo tra il 1425 e il 1430. Qui un documento del 1450 lo menziona infatti come Magister Johannes Canavexii pictor e lui stesso, a La Brigue, nella cappella di NôtreDame des Fontaines, si firmerà de Pinarolio; e poi, in un polittico di Albenga, per esteso Johannis de Canavexiis de Pinayrolo pinctor. Lascia traccia di sé negli affreschi della cappella di San Bernardino a Lusernetta, dove però si dispiega soprattutto il talento pittorico di Jacobino Longo. Ad Albenga, dove soggiorna nel 1472, dipinge una Maestà con San Giovanni, la Crocifissione nel palazzo comunale e infine l’insegna araldica sulla facciata dell’episcopio. Del 1482 è la Crocifissione nella sala capitolare del convento di Taggia. A Pigna rappresenta le Storie della Passione, gli Evangelisti e un Giudizio universale in San Bernardo. Nel 1491-92 lo troviamo quindi a La Brigue dove, oltre a eseguire una bella Madonna e Santi, affresca la cappella di Nôtre-Dame des Fontaines con quello che è il suo capolavoro (datato 12 ottobre 1492): le Storie della Passione e il Giudizio universale. Nel 1499 firma un polittico oggi conservato a Verderio Superiore, ma eseguito per San Dalmazzo a Pornassio, dove nel registro principale si vedono la Madonna col Bambino in trono fra i santi Giovanni Battista, Dalmazio, Michele e Pietro; in quello intermedio i Dottori della Chiesa; in quello superiore la Crocifissione fra le sante Caterina da Siena, Caterina d’Alessandria, Agata e Lucia; nel pilastrino sinistro i santi Lazzaro, Stefano, Nicola, Tobiolo e Antonio Abate; in quello destro i santi Martino, Lorenzo, Maddalena, Sebastiano e Bernardo da Mentone; nella predella scene dell’Infanzia di Cristo, tra i profeti Isaia e Ezechiele. Per la chiesa di San Michele a Pigna nel gennaio 1500 dipinge un polittico. Col Baleison passa poi in Francia, dove, oltre agli affreschi di San Sebastiano a Sain-Étienne-deTinée, decora con le Storie della Passione la cappella di Nôtre-Dame des Douleurs a Peillon. La chiesa di Sant’Antonio Abate in Acqui di Mariangela Caramellino Nella città di Acqui il culto di Sant’Antonio Abate è molto antico, e la sua attuale chiesa ha una storia ricca di avvenimenti che ne fanno parte integrante, e quindi si ritiene debbano essere conosciuti, anche se in estrema sintesi. Forse non tutti sanno che in epoca medievale la chiesa dedicata a questo Santo era situata in via alla Bollente: nelle sue vicinanze era eretto uno degli ospedali più antichi della città, detto “Ospedale Sant’Antonio De Balneo”, nel quale venivano ricoverati e curati i poveri infermi bisognosi delle acque termali. Sul fine del XIV secolo questo ospedale si chiamò Hospitale verberatorum (ospedale dei feriti). Già anticamente il Santo era venerato in diverse parti del mondo e vicino alle chiese a lui dedicate venivano spesso costruiti degli ospedali. Nel libro Antichità e Prerogative D’Acqui Staziella (la prima edizione risale al 1818-20), scritto da Guido Biorci, si legge, fra l’altro, che “nella chiesa di Sant’Antonio fu eretta la Confraternita dei Di- 50 sciplinanti verosimilmente sul fine del 14° secolo, cioè cent’anni dopo che queste confraternite cominciarono ad introdursi in Italia”: testimonianza questa della varia e fervida attività religiosa di quel luogo in quell’epoca. Anche nel libro Storia della Famiglia Caratti, edito a Novate Milanese nel 1988, si legge che “nel 1300 sorge ad Acqui la Confraternita di S. Antonio, detta anche dei Disciplinanti. Questa antica Confraternita officiava nella chiesa di S. Antonio che sorgeva un tempo sull’odierna via Bollente, anticamente Via dei Calderai o di S.Antonio, dalla parte del Corso Italia, all’altezza dell’ideale confluenza del prolungamento dell’attuale via Carducci con via Bollente”. Nella Pianta dimostrativa in misura della Città di Acqui, il cui originale si trova nell’Archivio di Stato di Torino1, datata 10 Dicembre 1823, si vede chiaramente che la chiesa era situata sulla via alla Bollente e confinava su due lati con le case del Ghetto degli Ebrei, mentre dall’altro lato si intravede un passaggio con relativo isolato che portava dritto sulla contrada nuova, di fronte all’attuale via Carducci: questo conferma quanto viene scritto nel libro della famiglia Caratti, sopra citato. Proseguendo per via alla Bollente verso la salita del Duomo, nelle immediate vicinanze del “passaggio con relativo voltone”, erano ubicati edifici pubblici, come sotto sarà precisato. Nel suddetto documento la chiesa veniva identificata con il n. 17 e con la seguente dicitura: “Chiesa di Sant’Antonio, ora magaz[en]o di legna, con voltone verso la Contrada Nuova, che dà l’accesso alla contrada di S. Antonio...”. La “Contrada nuova”, identificata con il n. 21, corrispondeva all’at1 tuale Corso Italia. La piazza, dove si trova la “Fontana dell’acqua bollente”, allora era denominata Piazza del Ghetto, e tutto intorno erano situate le case degli Ebrei. Nei primi anni dell’Ottocento la chiesa fu abbandonata e le confraternite furono costrette a cambiare sede: quella di Sant’Antonio, alla quale sul finire del ’500 era stata aggregata parte della Confraternita di Sant’Ambrogio, andò ad officiare nella chiesa di San Paolo, già dei Barnabiti (di questo argomento si parlerà più avanti). Nell’area primitiva della chiesa venne eretto il palazzo del Tribunale. Nel corso delle ricerche si è scoperto che, dove attualmente è situata la Procura della Repubblica, all’uscita di Via alla Bollente, è visibile sul muro, al di sopra delle colonne e del cancello, parte di una scritta che può essere interpretata e ricostruita con:“Civile Tribunale”. Dalla Pianta dimostrativa in misura della Città di Acqui, sopra citata, gli edifici confinanti con il suddetto cancello vengono identificati con i n. 18 e il n. 19.Al primo numero corrispondeva la “Casa dell’Ill.ma Città serviente per il tribunale di Prefettura”, al secondo numero, la “Casa dell’Arcipretura e di diversi altri Particolari”. La storia della chiesa e quella dell’ospedale ad un certo punto si dividono. Il Biorci scrive: “le memorie che si hanno dell’Ospedale vanno sino al 1445”. La storia della chiesa, intesa come luogo di culto, continua invece fino agli albori del XIX secolo, e poi passa all’attuale sito. Durante l’occupazione nel tempo napoleonico, i Francesi si appropriarono anche della chiesa di San Paolo, oggi di Sant’Antonio, e la adibirono ad usi Archivio di Stato di Torino, materie ecclesiastiche, cat. 37, ebrei, mazzo 5. 51 Particolare della controfacciata. Sulla tribuna l’organo Agati 1837. basso reddito sono nella possibilità di fare una spesa simile. In questa circostanza il Sig.Vescovo ha creduto a proposito di trasferire alla detta chiesa di S. Paolo la Confraternita, esistente nella stessa città sotto il titolo di S. Antonio Abate, la quale avrà un oratorio proprio. Di buon grado se si trasferiranno in detta chiesa di San Paolo, si impegneranno di fare le riparazioni e le spese necessarie per lo svolgimento del culto […]”2. Da questo periodo storico ha inizio l’attività religiosa nella sede attuale. militari. Il 17 Maggio 1809 le autorità francesi scrivono al vescovo della città comunicando le intenzioni di S.A. il Principe Ministro della Guerra in relazione alla suddetta chiesa: “[…] Conformemente alla decisione di S.A. il Principe Ministro della Guerra fu alla data dell’11 giugno 1807 rimessa per l’esercizio del culto al Sig. Vescovo la chiesa detta di S. Paolo nella città di Acqui. Siccome questa Chiesa è stata in passato per lungo tempo adibita ad usi militari, si trova di conseguenza in uno stato di decadimento, e le riparazioni superano la somma di 3900 Frs. I numerosi abitanti del quartiere della città, i quali necessitano assolutamente di questa chiesa, non possono, causa la loro miseria, spendere una tale somma, né il Comune, né il Vescovo a causa del 2 52 Come scrive Geo Pistarino nel testo intitolato Antiche Contrade di Acqui della Rivista di Storia Arte Archeologia per le Province di Alessandria e Asti:“[…] Acqui municipale romana e città vescovile medievale sono in realtà due entità tra loro distinte sul piano urbanistico, sociale, culturale, etico-religioso, addirittura territoriale”[…], e: “La città altomedievale si limitò, nel suo nucleo essenziale, all’odierno borgo o terziere della Pisterna”[…]. “Ad Acqui fu dunque lo spazio a monte della “Bollente”, fino all’odierna piazza della Conciliazione (progressivamente inclusa), il nucleo più antico della città, risalente nella sua configurazione demica all’alto medioevo”. In questo suggestivo borgo, e più precisamente sulla piazzetta M. D’Azeglio, si affaccia la chiesa dedicata a Sant’Antonio Abate. Come scrive mons.Galliano nel suo libro Acqui Terme e dintorni, essa sorge nel cuore della vecchia Pisterna e ne è un po’ il simbolo. Nella città sono molte le Archivio Vescovile di Acqui Terme, fald.37, cap.B, foglio 20, lettera originale in francese. persone che ancora ricordano quan- San Paolo ed ex Convento”). In queto amore e devozione ha ispirato sto luogo, sede di confraternite e questa chiesa nei tempi passati: il congregazioni, venivano celebrate luogo, fulcro della vita nell’età medie- funzioni religiose diverse, in commevale, è stato, in un passato più recen- morazione di Santi ed in particolare te, zona “aristocratica”, abitata dalle della Madonna del Carmine. famiglie dei nobili e delle persone più Nella Sacrestia sono stati ritrovati dei influenti della città. libretti stampati in Acqui nel 1903 Della chiesa parlano Gianni Rebora dalla Tipografia vescovile P. Righetti. In nella sua Guida storico - artistica - Una copertina si legge:“Regolamento delfinestra sulla città e Mons. Giovanni Galliano, già citato, nel suo libro Acqui Terme e dintorni. Anche nel volume Il Centro Storico di Acqui Terme, promosso dal Comune di Acqui e curato da Alberto Pirni, edito nel 2003 dall’editore De Ferrari, vengono riportati fatti ed avvenimenti che hanno Particolare della volta: Glorificazione della croce e dell’Eucarestia, affresco del XIX secolo interessato la chiesa, attribuito a Pietro Maria Ivaldi detto “il Muto”. e viene dato particolare risalto al patrimonio artistico in la Confraternita del Carmine detta essa contenuto. Nello stesso libro delle Carmelitane, canonicamente viene pubblicato il resoconto delle eretta in Acqui nella Chiesa di S. Anristrutturazioni con riferimenti al gra- tonio Abate con Rescritto della S. voso impegno economico. Congregazione in data 18 Giugno Inoltre, alla fine degli ultimi anni ’90, 1885, eseguito da S. E. Monsignor sull’argomento sono state fatte alcu- Vescovo della Diocesi con decreto in ne ricerche, dettagliate e cronologi- data 27 Giugno 1885”. che. L’articolo 1° del suddetto regolamenPur essendo più antica, la chiesa ha to recita: “È istituita in Acqui, nella assunto l’attuale denominazione sol- chiesa di S. Antonio Abate, sotto il tanto dai primi anni dell’800 (1809- titolo di N. S. del Carmine e sotto la 12), quando la Curia Capitolare di speciale protezione di S. Teresa, una Acqui cede ai confratelli di Sant’An- pia congregazione di donne e figlie tonio l’uso della chiesa di San Paolo, cattoliche, che unite in spirito algià sede dei Chierici Regolari di San l’Ordine Carmelitano cercheranno, Paolo, più comunemente detti nella pratica delle cristiane virtù e “Barnabiti” (il suo attuale epiteto è nell’osservanza del presente regola“Chiesa di Sant’Antonio Abate, già mento, di rendersi vere e degne figlie 53 di Maria V. del Carmine e di S.Teresa”. L’articolo 21 recita: “Le due feste principali della confraternita sono quella di N. S. del Carmine e quella di S.Teresa. Solennizzando già quella del Carmine nella stessa chiesa, sarà impegno delle Consorelle di solennizzare quella di S. Teresa colla maggior pompa possibile, preceduta da divota novena, con panegirico, processione e benedizione nel giorno solenne, ma più particolarmente dalle stesse consorelle colla comunione generale e con esercizi di pietà. Saranno parimenti celebrate con qualche distinzione le feste di S. Giuseppe Patrono speciale dell’Ordine Carmelitano, di S. Giovanni della Croce primo compagno di S. Teresa, che corre ai 24 novembre, e di Simone Stock che ricevette da Maria lo scapolare al dì 16 Maggio”3. Sant’Antonio Abate Sant’Antonio il Grande4, abate, nacque nel 251 a Coma sulla riva occidentale del Nilo da genitori cristiani di condizione assai agiata. Giovanissimo si sentì chiamato ad una vita di preghiera e solitudine. Rimasto orfano a soli 18 anni, si ritirò in luoghi desertici dell’Egitto dove attirò un numero sempre crescente di visitatori, specialmente di quelli che desideravano seguirne l’esempio. Questo lo indusse ad aprire il suo ritiro, che nei dintorni si popolò di eremiti, dei quali Sant’Antonio divenne padre e maestro. Non mancò di correre a soccorso e conforto dei Cristiani durante le persecuzioni di Massimino (a. 311) ad Alessandria e, ritornata la calma, riprese le sue austerità isolandosi del tutto presso il Mar Rosso. Morì nel 356 all’età di 105 anni: sin dal secolo V la tradizione liturgica fissava il giorno della sua morte al 17 gennaio. La vita di Sant’Antonio fu un tessuto di prodigi e di lotte col demonio che lo resero uno dei Santi più popolari dell’antichità. Prese viva parte alle vicende della Chiesa in Egitto, ma l’importanza maggiore del Santo è dovuta alla vita eremitica, che sotto il suo influsso assunse un nuovo indirizzo, quello cioè della costituzione delle comunità eremitiche. Fu venerato anche dalla Chiesa greca, ma fu in Occidente che il culto di Sant’Antonio prese grande sviluppo nel medioevo. Egli divenne il Santo del popolo, al quale si faceva ricorso nelle epidemie, specialmente contro l’Herpes Zoster, popolarmente detto “Fuoco di Sant’Antonio”. Numerose sono le confraternite sorte in suo onore: la principale è quella fondata in Francia, dove sono conservate le sue reliquie, e che è all’origine dell’ordine degli Antoniani, fondato nel 1095. Sono stati molti gli ospedali e i ritiri di mendicità a lui dedicati che, oltre alla ricchissima iconografia antoniana, stanno a dimostrare la straordinaria popolarità goduta in Occidente dal Santo eremita. 3 San Simone Stock Santo fu un carmelitano, vissuto tra il 1165 e il 1265: fu uno dei primi inglesi che entrarono nell’ordine carmelitano, di cui divenne il sesto generale nel 1247. In questa veste contribuì alla fondazione di conventi nelle principali città universitarie d’Europa: Cambridge, Oxford, Parigi e Bologna, e alla modifica della regola affinché i Carmelitani divenissero un ordine di frati mendicanti piuttosto che eremitici. Pur non essendo mai stato canonizzato ufficialmente, Simone è venerato dal suo ordine dal 1564 ed in certe diocesi è trattato come un santo canonizzato. Morì a Bordeaux (Enciclopedia dei Santi, p.715). 4 Dizionario Melzi Scientifico. 54 Nelle pitture è sempre rappresentato in aspetto senile, con lunga barba ed ampio saio con o senza cappuccio. Porta il bastone dell’eremita, spesso a forma di “T” (o Croce), il campanello, ed è seguito da un porcellino. La fiaccola o le fiamme rappresentano la sua protezione contro il “Fuoco di Sant’Antonio” e contro le malattie del bestiame. Nella cripta della Cattedrale si può vedere un bellissimo affresco che riproduce l’immagine del Santo, circondato dai simboli di fede che la Chiesa e la tradizione gli attribuiscono. Il culto popolare di Sant’Antonio Abate è uno dei più largamente ed intensamente diffusi, e dei più ricchi di manifestaEdicola lignea settecentesca contenente la statua della Madonna del Carmine. zioni. Nel giorno della sua festa, il 17 gennaio, ha luogo la benedizione degli animali domestici che vengono portati alla chiesa dai loro proprietari per essere benedetti 5. I Barnabiti La storia dei Padri Barnabiti, ossia i Chierici Regolari di San Paolo, inizia nella città di Acqui Terme sul principio del XVII secolo. La congregazione dei “Chierici regolari di San Paolo” fu fondata a Milano nel 1530 da Sant’Antonio Maria Zaccaria, patrizio milanese. La loro prima dimora fu presso la chiesa di Sant’Agostino, e furono approvati da papa Clemente VII il 18 febbraio 1533. Questi religiosi sono più comunemente conosciuti come “Barnabiti”, nome che deriva dalla chiesa di San Barnaba6, che fu la loro vera Casa Madre e dove essi si stabilirono definitivamente nel 1545 (prima furono a Santa Caterina dei Fabbri a Porta Ticinese, successivamente presso Sant’Ambrogio, nella casa lasciata libera dalle suore Angeliche di San Paolo, ordine religioso anch’esso fondato da Sant’Antonio Maria Zaccaria). Essi uscivano per le vie di Milano a predicare con la parola e con l’esempio di mortificazioni rigorose e pubbliche, a causa delle quali subirono diverse persecuzioni. La morte prematura del fondatore, e l’indole particolare delle prime persecuzioni, fecero sì che l’Ordine non avesse, nei primi tempi, un largo e rapido sviluppo. Soltanto dopo la 5 Enciclopedia Cattolica. 6 Barnaba fu discepolo di Gesù Cristo e compagno di S. Paolo. Il suo nome era Giuseppe, ma venne soprannominato Barnaba, cioè “figlio della profezia”. 55 L’altar maggiore con statua di Sant’Antonio Abate. metà del XVI secolo si ebbero le prime fondazioni in Italia, in Francia ed in Austria. Sulla fine del ’700 e nel primo ’800 i Barnabiti seguirono la sorte degli altri istituti religiosi e, con la soppressione napoleonica del 1810, non rimase che Sant’Alessandro di Milano. Alcuni anni dopo ebbe inizio la ripresa: attualmente l’Ordine ha diverse case in Italia ed in altre parte del mondo, ed i padri attendono al sacro ministero in parrocchie e santuari. Inoltre, si occupano in particolar modo dell’educazione della gioventù in oratori, convitti ed esternati. Questi religiosi dedicarono la loro vita alla predicazione, allo studio e, fin dall’inizio, alla formazione di ecclesiastici particolarmente destinati all’istruzione della gioventù. Ritornando all’attività di questi religiosi nella nostra città, si riporta quanto scrive il Biorci: “Il loro collegio deve la sua origine a Stefano De Levo figlio di Giambattista Levo, oriundo del luogo di Castelletto d’Erro, da cui fu lodevolmente coperta la carica di Commissario del Duca di Mantova di quà dal Tanaro” 7. In relazione alla famiglia De Levo, o Levo, o da Leva, o Leva, il Blesi, nel suo libro Acqui Città antica del Monferrato, scrive: “Discende esso sign. Gio. Battista dalla famiglia Levoi di Castelletto Val d’Erro, dove sono anco hoggi delli detti Levoi, parenti strettissimi del sodetto Signore, che fù il primo che si chiamasse da Leva”. “Lasciò dopò sè duoi figliuoli: Ottavio l’uno, e il Sig. Dottor Stefano l’altro, perfettissimo in molte virtù, e per le sue honorate qualità e belle maniere di procedere amato dalli Cittadini tutti. Fu fatto Vicario Generale Episcopale di Monsignor Illustrissimo San Giorgio, nel qual ufficio havendo tralasciato le allegrezze, spassi e conversazioni solite, e dattosi più alla gravità, cominciò a pigliarsi alquanto d’humor malinconico, qual accresciuto poi dall’inaspettata morte del fratello senza prole, dopo che havea di già sposata la Signora Violante, figliuola del Signor Conte Sebastiano Ferrari, le caggionò infermità tale, che ne’ più belli anni della sua vigorosa età le diede la morte, estinguendosi seco la sua famiglia nella città. Fece detto sig. Stefano diversi legati pii, che sono di molto sollevamento alli poveri e Religiosi, havendo principalmente lasciato buona parte del suo patrimonio alli Chierici Regolari di San Paolo decolato”8. 7 BIORCI, Antichità e prerogative di Acqui Staziella, cit., pag. 38. 8 Nel capitolo “I Barnabiti” del libro già citato, il Biorci sostiene che Sebastiano Ferraris o Ferrari fosse il genero di Stefano Leva, mentre secondo il Blesi il Ferrari era il padre della signora Violante, moglie di Ottavio, fratello di Stefano. Le ricerche, effettuate presso l’archivio comunale di Acqui Terme, hanno avvalorato la seconda tesi. 56 Stefano Levo, con suo testamento del 1591, lasciò la quarta parte della sua eredità, affinché fosse eretto il Collegio dei Padri Barnabiti nella città di Acqui. Il Capitolo Generale in quell’anno rifiuta l’offerta in quanto tali rendite non erano sufficienti a mantenere una comunità. Condizione necessaria era infatti l’esistenza di una chiesa con rendite tali da garantire la sussistenza dei religiosi in modo autonomo. Angelica Leva Beccaria, sorella di Stefano Leva, accrebbe la rendita del fratello fino a 400 crosoni9. Nel 1596 il Capitolo generale accetta l’eredità e nel 1597 il Sig. Roberto Roberti contribuisce alla causa dei Padri Barnabiti lasciando “tanti censi per il reddito di crosoni 25 purché i Barnabiti continuino ad abitare in Acqui”. Lo stesso anno il Sig. Angelo Pecorelli dona 300 scudi da pagarsi dai suoi eredi dopo la sua morte. Nel 1602 i Padri si stabiliscono nella casa dei Leva, ufficiando nella chiesa della Madonna della piazzetta: il Blesi la identifica con la chiesa di Santa Maria Rotonda, poi chiamata Santa Maria degli Angeli, la quale, per essere posta sopra la piazza de Blesi, ora dei Dottori, è anche detta Madonna della Piazza10. Nel 1608, avendo necessità di un più ampio spazio, i Padri Barnabiti, acquistarono la casa del conte Sebastiano Ferrari ed altre attigue, poste nel Borgo Pisterna, dove fondarono il Collegio, la Chiesa, che dedicarono a San Paolo, e, mentre si erigeva la chiesa, si servivano di quella dei Disciplinanti di S.Ambrogio11. Negli archivi acquesi esistono varie carte che documentano la presenza in Acqui dei Barnabiti, i quali svolgono anche attività agricole. Nel 1650 o 165312 papa Innocenzo X, con bolla papale, decretava la chiusura del Collegio in quanto troppo piccolo: il padre che vi presiedeva, d’ordine dello stesso pontefice, rassegnò il tutto nelle mani del Vescovo Bicuti, che, con autorizzazione della Santa Sede, assegnò il Collegio con il suo patrimonio al Seminario dei Chierici. A questo provvedimento seguì una supplica al fine di ottenere la riapertura, la quale avverrà nel 1682 con decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, che autorizzò il Vescovo a ristabilire il Collegio ed a fargli restituire i beni e i redditi. Nello stesso tempo vi si aprirono le pubbliche scuole e nel 1701 la chiesa fu riedificata con il sussidio della città. L’attività di insegnamento dei Padri durerà ininterrottamente fino al 1729, anno in cui vennero aperte le Scuole Regie e cessarono quelle dei Barnabiti, i quali comunque continuarono per anni a collaborare nell’inse- 9 Variante settentrionale di “Crocione”, nome della piastra vecchia di Spagna da 8 reali. 10 La chiesa o cappella di Santa Maria Rotonda fu di antica fondazione, anteriore alla costruzione della cattedrale. Questa cappella, insieme a quella di Sant’Ambrogio, era situata nell’allora epicentro civico, ed il significato del suo appellativo potrebbe derivare dalla struttura della fabbrica rotonda (almeno in origine). Quando fu inaugurata la nuova cattedrale nel 1067, la chiesa di Santa Mara Rotonda conobbe la parabola discendente: da chiesa, a semplice oratorio, fu trasformata o rifondata, dopo che nel 1528 fu costituita la Confraternita degli Angeli, la quale qui pose la propria sede. Attualmente l’antico oratorio, incluso nel palazzo di casa Beccaria, risulta adibito a laboratorio d’arte del legno con accesso da Piazzetta dei Dottori (G. PISTARINO, Sulle Antiche contrade di Acqui, cit., pagg. 99 - 103) . 11 Le Confraternite dei Disciplinanti erano erette presso la vecchia chiesa di Sant’Antonio, quindi si ipotizza che i Barnabiti trasferirono qui le loro funzioni religiose che prima erano officiate nella cappella della Madonna della Piazza o Santa Maria Rotonda. 12 Anno 1650 secondo l’attuale archivista dei Padri Barnabiti di Roma, anno 1653 secondo il Biorci. 57 gnamento13: un padre della suddetta Congregazione fu il primo professore di teologia nelle nuove scuole. Il padre Superiore del Collegio di San Paolo era deputato, insieme ad altre personalità, al governo del Monte di Pietà, la cui istituzione in Acqui fu promossa dal Cardinale Sangiorgio Vescovo e sostenuta da diversi citta14 dini con vari legati . I Barnabiti, ridotti nel numero, resteranno nella nostra città fino al 1795, quando, con l’arrivo dei Francesi, vennero allontanati: la chiesa venne utilizzata per usi militari e poi adibita a ricovero di attrezzi e magazzino. Come già detto, nei primi anni dell’800 la Curia Capitolare, dopo la delibera del governo francese, cede ai confratelli di Sant’Antonio l’uso della chiesa di San Paolo, che verrà riordinata: successivamente, verso la metà del secolo, verranno effettuati importanti lavori di ristrutturazione. Questa chiesa è sempre stata coinvolta negli avvenimenti che si sono susseguiti nel corso dei secoli, anche in periodi più recenti. Si legge sul settimanale della città,“L’Ancora” del 13 Luglio 1997: “[…] questa chiesa ha seguito tutte le vicende del borgo antico, vegliando sulle case e sulle famiglie. Durante i tristissimi giorni del 9 e 10 settembre 1943, nel disfacimento generale, questa chiesa ha spalancato le sue porte per accogliere, proteggere, indicare la strada della liberazione a centinaia di nostri giovani soldati, evacuati dalla caserma militare, ammassati in piazza San Guido, in procinto di essere deporta- ti nei campi di concentramento tedeschi. Ci vuole almeno una targa a ricordare questo fatto! E poi […] l’abbandono! [...]”. Successivamente sono state effettuate importanti opere di restauro sia alla struttura muraria che alle opere d’arte ed ai beni all’interno, però c’è ancora molto da fare: come in passato la chiesa ha seguito il destino del borgo che tutti oggi ammiriamo e frequentiamo. “L’Architettura dei Barnabiti nell’Acqui del XVII secolo”, testo di Valentina Parodi del 1997, fornisce importanti informazioni circa l’aspetto architettonico della costruzione. «Dalla ricerca, effettuata nell’archivio generalizio di Roma, presso il quale dopo la soppressione degli ordini ecclesiastici è stato portato il materiale delle confraternite soppresse – purtroppo gravato da notevoli lacune – è emersa una catalogazione sistematica di disegni architettonici, di rilievi e progetti, riguardanti chiese e collegi di tutto l’Ordine dal 1584 al 1912. Il volume molto consistente, curato dal padre Carlo Vercellone su invito del padre Generale Francesco Caccia, contiene molti disegni: nella quasi totalità si tratta unicamente di disegni di pianta a penna di inchiostro di colore seppia o nero, talvolta su cartoncini colorati. Molti disegni sono solo fogli o foglietti che indicano le variazioni da effettuarsi […]. L’orientamento non viene mai indicato e per desumerlo non si può fare altro che leggere le indicazioni ricava- 13 Conferma dall’Archivista dei Padri Barnabiti di Roma. 14 Alcune fonti riportano che i Monti di Pietà furono istituiti in Italia dai frati francescani nel XV secolo; secondo altre invece il primo istituto fu fondato, sempre dai frati francescani, nel 1358 a Firenze, ad opera di Francesco da Empoli. 58 Tela di incerta attribuzione. delle congregazioni. Si può definire pertanto questa saliente particolarità costruttiva di adeguamento: architettura barnabitica. In questa peculiarità di architettura barnabitica rientra in Acqui l’attuale chiesa di Sant’Antonio, già collegio e chiesa di San Paolo con Scuole. te dalle “Formule” o “Regole” risultanti da due documenti esistenti nell’Archivio Milanese di San Barnaba […]. I Barnabiti, da quanto risulta dal contenuto di attinenza alle costruzioni, rilevato dalle due “Formule”, davano maggior rilevanza all’individuazione di una architettura utile, poco dispendiosa, povera e semplice nell’immagine, ma funzionale e utile a seconda delle esigenze dei luoghi ai quali essa si adattava, indifferente allo stile “ufficiale” dell’epoca, solo privilegiando la ricerca di una precisa distinzione degli ambienti destinati al culto da quelli destinati all’uso secolare. Inoltre la caratteristica saliente era che le linee di costruzione erano malleabili ed adeguabili, e soprattutto integrabili nel rispetto delle tipologie degli edifici preesistenti, che venivano conglobati e modificati architettonicamente alle esigenze di vita clericale, di pubblica istruzione, di solidarietà infermieristica, di culto religioso Sono stati analizzati nel volume Caccia-Vercellone tre disegni che riguardano la Chiesa di San Paolo: “Il primo è uno schizzo generale, il secondo è la pianta della prima chiesa da ricavarsi nella casa del conte Sebastiano Ferraris, il terzo è corrispondente alla pianta della seconda chiesa, realizzata nel Settecento […]. Si tratta del progetto definitivo della chiesa ad aula unica, poligonale, centrale, con due cappelle laterali. L’area presbiterale, di limitate dimensioni, non presenta coro. L’accesso principale, unico, è ubicato centralmente nella facciata”.Anche se non previsto dall’ultimo progetto, la chiesa in effetti ha un coro con stalli di elegante fattura settecentesca. La “Ricerca sulla Chiesa di Sant’Antonio in Acqui Terme” compiuta dalla scuola media parificata “Maria Immacolata” di Acqui Terme”, fornisce importanti informazioni dal punto di vista artistico. «La facciata della chiesa, arricchita da un ricco frontale, risale probabilmente al 1701, quando la stessa viene riedificata. Sicuramente venne rimaneggiata nel 1812, al momento della decorazione con gli affreschi, al presente restaurati: al centro la Madonna del Carmine, ai lati Sant’Antonio Abate e San Paolo; i due riquadri al di sopra dei Santi contenevano delle citazioni oggi scompar- 59 Tela di incerta attribuzione. se. Il bel portale ha intagliato sui battenti le iniziali S ed A, con molta probabilità è quello dell’antica chiesa di Sant’Antonio “de Balneo”. All’interno la chiesa si presenta a navata unica con due cappelle laterali; la volta è a botte, mentre quella del coro è a crociera. Il campanile, con tre campane del XIX secolo a base quadrata, è situato sul lato del presbiterio. All’interno, addossata alla controfacciata, si trova la cantoria che presenta una balaustra con dei pannelli lignei settecenteschi al centro. L’organo venne costruito da Giosuè Agati di Pistoia nel 1837, e porta il numero d’opera 270 15. Una descrizione scientifica dell’organo è stata data da Giancarlo Bartagna, Antichi organi ad Acqui Terme, Acqui Terme, 1982 pag. 8 e segg. Sulla sinistra il pulpito ligneo del XVIII secolo, affiancato da una tela rappresentante San Francesco di Sales, della stessa epoca, anonima. La cappella laterale sinistra è dedicata a Santa Lucia e presenta un altare di scaiola del XVIII secolo, con il tabernacolo in legno intagliato dello stesso periodo.A destra: una tela raffigurante una Apparizione, analoga al quadro di San Francesco di Sales. La Cappella laterale destra è dedicata a santa Teresa; anche in questo caso l’altare è di scagliola e del XVIII secolo.Vi è pure un dipinto su tela – datato 1903 – raffigurante l’Assunta. All’angolo tra la parete destra ed il presbiterio, all’interno di un’edicola lignea in stile neogotico, protetta da vetri, è collocata la Madonna del Carmine, pregevole scultura in legno, settecentesca. La volta della navata racchiude in una cornice mistilinea la Glorificazione della croce e della eucarestia, affresco probabilmente del XIX secolo. L’altare, in marmo rosa e nero, porta sul retro la lapide che ricorda la consacrazione (1825), ed è fiancheggiata da una bella consolle in legno (XVIII secolo). Gli stalli del coro sono di elegante fattura settecentesca, ed i pannelli dello stesso sono simili nel disegno sia ai battenti del portale, sia a quelli della cantoria, sia del pulpito che del confessionale. Per questa evidente analogia stilistica potrebbe valere anche in questo caso l’ipotesi sulla provenienza, già espressa per il portale. Sul lato sinistro del coro una tela del XVIII secolo, raffigurante Santa Teresa d’ Avila: di fronte un analogo dipinto che rappresenta San Giovanni di Dio. Con ogni probabilità le due tele provengono dalla chiesa di Sant’Antonio “de Balneo”, in quanto raffigurano santi legati l’una al Carmelo e l’altro 15 All’interno della cassa, sulla parete sinistra, si trova affissa una composizione poetica a stampa, scritta in occasione della costruzione dell’organo. 60 all’assistenza ospedaliera. Anche in questo caso le tele sono anonime. La sacrestia è sistemata in un locale a sinistra del presbiterio ed è contigua all’abitazione del sacrestano. Tutto intorno tre armadi di legno intagliato, articolati in due corpi: le basi hanno pannelli simili a quelli già analizzati nella chiesa, mentre le parti superiori, che sono concluse da un ricco cornicione, presentano battenti con decorazioni molto più ricche. È possibile ipotizzare che l’adeguamento delle due parti di ogni armadio sia una operazione risalente all’epoca della nuova dedicazione della chiesa con elementi di diversa provenienza. Tutt’intorno tre cassapanche del XVIII secolo con gli stessi motivi decorativi ricorrenti all’interno della chiesa. Nella sacrestia sono pure conservati sei dipinti su tela, di cui i quattro ovali rappresentano santi dell’ordine del Carmelo»16. Una statua raffigurante Sant’Antonio Abate è posta in una nicchia sulla parete centrale del coro. Nella Sacrestia , ai lati di destra e di sinistra della porta di ingresso alla chiesa, sono posti due dipinti con cornice ottagonale i quali rappresentano l’uno il Cristo Benedicente con targa sottostante e con dicitura:“sum D. Costantini Di Castro Mortariensis Can.Reg.Lat. 1646”, e l’altro una Santa in preghiera, anch’esso con targa 1646. Sul n. 28 del settimanale “L’Ancora” del 14 luglio 2004 viene riportato che nel mese di maggio dello stesso anno si sono conclusi i lavori di restauro 16 Attualmente non tutte le opere d’arte sono al posto indicato nella ricerca in quanto rimosse per lavori di recupero e di ristrutturazione [n.d.r.] conservativo dei dipinti murali e degli stucchi della chiesa, e tra l’altro si legge:“Di particolare pregio l’affresco della volta centrale, opera del pittore Pietro Maria Ivaldi, detto il Muto. Nel corso delle indagini stratigrafiche, l’analogia stilistica, cromatica e, ancor più, quella relativa alla componente materica, ha permesso di stabilire che l’intero apparato decorativo, sottostante quello attuale, fosse opera di questo pittore. In fase di restauro, però, dopo aver provveduto alla conservazione dell’affresco, si è valutato (in accordo con gli Enti di Alta Sorveglianza preposti) di documentare quanto rimaneva della decorazione più antica e di recuperare quella più recente, presumibilmente realizzata intorno ai primi del Novecento”. Con questo itinerario storico si è cercato di collegare fra loro le notizie reperite in diverse fonti, esponendo in sintesi i passi ritenuti più interessanti. La chiesa è certamente un importante “testimone dei tempi” e non soltanto come bene architettonico; per questo è essenziale che vengano effettuati gli interventi conservativi, i quali necessitano del contributo e della generosità di persone e istituzioni. L’autrice ringrazia: Geo Pistarino, per la consulenza letteraria e per i testi messi a disposizione; Paola Piana Toniolo e Lionello Archetti Maestri per l’apporto di documenti indispensabili alla struttura del lavoro; padre Giuseppe Cagni, archivista della Casa Generalizia di Roma della Congregazione di S. Paolo; Carlo Prosperi e tutti gli addetti all’Archivio Vescovile per la collaborazione nella ricerca di documenti storici. Alla ricerca di Luchino Ferari, pittore del primo Cinquecento di Sergio Arditi Rocca Grimalda, Santa Limbania, Assunzione della Vergine. Abside centrale. Particolare: La Madonna nella mandorla. 62 Un interessante tassello della variegata realtà del rinascimento pittorico, che sta riemergendo in questi ultimi tempi, è apparso recentemente sulle pareti della sacristia della chiesa di San Francesco di Cassine, acquisendo risonanza sui mezzi di stampa locale. L’attribuzione di questo affresco a carattere votivo, che all’atto della scoperta ho colto in un lavoro di Luchino Ferari o Ferrari, mi ha suggerito di puntualizzare un breve intervento su questo artista ancora semisconosciuto. Il pittore resta a testimoniare in zona il passaggio tra il tardo gotico ed il rinascimento. In quest’ambito culturale segnarono il passo personalità come Martino Spanzotti, Macrino d’Alba, Gandolfino da Roreto, Gaudenzio e Defendente Ferrari, ma Luchino che porta lo stesso cognome di quest’ultimi e di cui non conosciamo eventuali rapporti di parentela, non rientra ancora fra le personalità che hanno raggiunto notorietà ed ancora assai limitati sono i riferimenti critico-bibliografici. Non che voglia supplire a questa carenza: con il presente contributo intendo solo aprire qualche nuovo spiraglio ponendo maggior attenzione su questa personalità. Auspico per il futuro una miglior fortuna critica per il merito evidente del pittore, confido nel ritrovamento di eventuali documenti biografici e nella scoperta o nel riconoscimento di opere la cui cronologia oggi è solamente confinata al secondo e terzo decennio del secolo XVI. Rocca Grimalda, Santa Limbania, Assunzione della Vergine, abside centrale: veduta d’nsieme. Il quadro dei luoghi e delle opere di Luchino Ferari, sia firmate, sia attribuite, è attualmente circoscritta a due località dell’Alto Monferrato, poste tra l’Orba e la Bormida: Rocca Grimalda e Cassine. I dipinti a Rocca Grimalda sono conservati nell’abside centrale e nell’absidina destra della chiesa di Santa Limbania. A Cassine gli affreschi sono variamente distribuiti nell’antica chiesa conventuale di San Francesco e nella sua sacristia. Inoltre, ancora in Cassine, in una cappella della cimiteriale chiesa di Santa Maria dei Servi. Per analizzare più dettagliatamente queste pitture, iniziamo il percorso partendo da Rocca Grimalda, ove nella chiesa di Santa Limbania l’intera abside centrale è occupata da un affresco, il maggiore per ampiezza ed impegno del nostro autore, seppure con scarti stilistici in alcune parti quali il Padre Eterno e l’apostolo all’estrema destra. Raffigura l’Assunzione della Vergine, attorniata da una raggiera che squarcia le nubi a forma di mandorla, alla maniera gotica. All’interno e all’esterno della mandorla sono dei cherubini ed oltre, nel cielo aperto, due gruppi ternari di angeli squillano le trombe. Superiormente, nel catino absidale, trionfa il Padre Eterno con le braccia aperte, ancora attorniato da due cerchie di nubi, prima rosse e poi bianche, come per la Vergine Assunta, attorno alla quale è aggiunto un ulteriore nimbo verde all’esterno. La parte inferiore della scena, immersa in un vasto paesaggio (la lezione di Leonardo è velatamente presente in un’accezione di chiara matrice lombarda), mostra gruppi di Apostoli, ancora in raggruppamento ternario, con un andamento ondeggiante del margine superiore che si staglia su uno sfondo di rocce immerse in un vasto paesaggio con alberi, castelli e villaggi, elementi questi già perfettamente aggiornati ai temi rinascimentali. Ibidem. Particolari: Apostoli (lato sinistro e destro). 63 Ibidem. Particolare: Viandate. Ibidem. Particolare: Tomba con epigrafe. Inoltre, sul lato destro dello spettatore, un viandante seduto su un tronco, facendosi solecchio, osserva l’evento miracoloso dell’Assunzione, lasciandosi alle spalle un sentiero che si protende su una lieve collinetta verso un favolistico castello turrito. Nella parte inferiore dell’abside, all’estrema sinistra sulla sponda del fiume, compare San Gerolamo, con il leone alle spalle, che adora il Crocefisso. Il fiume che scorre lento in questo paesaggio, con piccole imbarcazioni, potrebbe essere stato ispirato Ibidem. dai meandri dell’Orba che passa sotto Particolare: San Girolamo. la rocca di Castelvero, primo nucleo del borgo fortificato dove oggi sorge la chiesa di Santa Limbania.Tutta l’ampia vallata, con i suoi castelli è pervasa da liberi riferimenti che richiamano il paesaggio che si scorge proprio da questa altura rocciosa. Nel settore inferiore dell’affresco, al centro del sepolcro, compare la scritta: A[S]UMPCIO – MARIE – VIRGINI[S] 1526 – ULTIMO – SEPTE[M]BRIS – LUCHIN[US] – FERARI – DE CASTELACIO FACIEBAT Poco sopra il sepolcro è posta un’altura munita di castello, forse ancora riferimento a Castelvero per la centralità e preminenza nella composizione paesaggistica. Al centro dell’absidina destra della 64 stessa chiesa vi è un altro affresco, a carattere votivo, con la Madonna in trono col Bambino tra San Sebastiano e San Rocco, Santi che nella devozione popolare fungono da protettori contro la peste. Sul lato destro, assai ridipinti, sono San Paolo e un Santo Martire non identificato e sul lato sinistro forse Santa Chiara (ampiamente ridipinta per l’apposizione, sul lato destro, di una intitolazione successiva a Santa Maria Maddalena de Pazzi, così come dell’acciottolato di fondo) e San Francesco, quest’ultimo poco leggibile per la scarsa conservazione. Sono presenti tracce della cornice dipinta che suddivideva la partitura di un polittico. Lo scomparto centrale è oggi inserito in una cornice di marmo che racchiudeva una tela, successiva all’intervento del Ferari, inerente al marmoreo altare barocco oggi esistente che racchiude, nella parte inferiore, a modo di sepolcro, la statua lignea di Santa Limbania. L’intero ciclo pittorico, così come gli altri variamente presenti sulle pareti, Rocca Grimalda, Santa Limbania: Madonna in trono con Bambino, San Sebastiano e San Rocco. meriterebbe un’opera di restauro, necessaria sia per preservarne la conservazione già precaria per sollevamenti, efflorescenze e muffe, sia per chiarire la fase originaria essendovi numerosi interventi di ripresa pittorica ed integrazioni. Tra l’altro si nota che la parte inferiore degli angeli, con trombe, è stata alterata per la sovrapposizione di nuvole e lo zoccolo di base è completamente ridipinto. A Cassine, in San Francesco, compare un nucleo di affreschi del Ferari, tra cui un’altra pietra miliare della sua opera, poiché è firmata e datata dal pittore stesso nel 1532. In anni recenti, infatti, entro una cornice ad arabeschi, è emerso l’affresco della Madonna col Bambino tra San Pietro e San Gregorio Magno. Dipinto in controfacciata, è oggi relegato in un armadio sotto la cantoria settecentesca (1713) dell’organo situato sopra l’ingresso principale. L’immagine votiva fu commissionata da Antonio Bellosio nel 1532. In precedenza pareva leggersi che l’anno dell’esecuzione fosse il 1537: attualmente, in funzione dell’affresco recentemente emerso nella sacristia di San Francesco, si può assegnare allo stesso soggiorno del pittore nell’anno 1532, poiché il modo di scrivere la cifra finale è simile ad una zeta e la relativa abrasione del tratto orizzontale inferiore aveva generato l’equivoco interpretativo. Nella tabella ansata, posta alla base del dipinto, ora si leggerebbe: [15]32 4 SETTEMBRIS ANT[ONIUS] BELLOSIUS F[ACERE] F[ECIT] LUCHIN[US] FERARI F[ECIT] OP[US] La Vergine col Bambino di controfacciata, alla maniera di una sacra conversazione, viene rivelata allo spettatore dal sollevarsi di un rosso tendaggio e collocata in un ambiente campestre dal cielo terso: paesaggio appena accennato da uno spoglio alberello e dal prato erboso in primo piano. Ancora in San Francesco è dipinto ad affresco, a metà circa della navata sinistra, il polittico assai deteriorato e lacunoso di San Martino, recentemente restaurato. Cassine, S.Francesco: Madonna con Bambino, San Pietro e San Gregorio Magno. Cassine, San Francesco: Polittico di San Martino Appartenuto all’altare omonimo, nello scomparto centrale compare la scena con San Martino nell’atto di porgere il mantello al povero, affiancato da due personaggi in entrambi gli scomparti laterali: a destra del Santo titolare sono San Francesco e Sant’Ambrogio, a sinistra San Biagio e San Rocco. In alto il polittico è sovrastato da una lunetta con il Padre Eterno benedicente. La rarefatta atmosfera è interrotta in basso da un prato erboso con ciuffi d’erba dall’inconfondibile sigla grafica del Ferari: sono i medesimi ciuffi della vegetazione in Santa Limbania a Rocca Grimalda e quelli in controfacciata della stessa chiesa di Cassine. Nella seconda cappella della navata destra, già dedicata alla Maddalena, è riemerso, dietro la trafugata pala di San Giuseppe da Copertino, parte limitata di un affresco, ove al centro compare, ormai senza volto, la Maddalena stessa tra San Francesco ed un santo coronato, forse San Luigi re di Francia. Come accennato, l’ultima inaspettata scoperta è l’affresco collocato nella sacristia di San Francesco, rappresentante la Madonna col Bambino, San Matteo e San Bonaventura il cui cordone è sorretto dal Bimbo stesso.Ai piedi della Vergine è raffigurata una piccola immagine di un pellegrino (ancora alla maniera gotica), figura del committente, che una scritta frammentaria indica in un personaggio della famiglia Nerotto, effigiato tutto completamente nero, in sintonia con il nome stesso. La scritta frammentaria, non escludendo che dopo il restauro se ne possa ampliare il testo, attualmente si legge: …T[US] NEROT[US] F[ACERE] F[ECIT] 1532 L’opera, contornata da una cornice ad arabeschi, che ritengo appartenga alla mano di Luchino Ferari, presenta gravi dissesti all’intonaco e necessita di un intervento di restauro di consolidamento, mentre il colore ben conservato e protetto per quasi tre secoli, appare offuscato solo da polveri e da alcune macchie di calce. Si notano alcuni lembi marginali ricoperti da uno strato di sottile intonaco, da mettere in luce durante il prossimo restauro, per recuperare la completa estensione dell’affresco. Cassine, San Francesco: Madonna con Bambino, San Matteo e San Bonaventura. Particolare del committente in veste di pellegrino ed epigrafe frammentaria con data 1532. Nella pagina a fianco in alto a destra: Felizzano. Casa parrocchiale. Madonna con Bambino e angeli musicanti, opera di Gandolfino da Roreto Nella pagina a fianco: Cassine, Santa Maria dei Servi, Sant’Anna Metterza. Cassine, San Francesco, Madonna con Bambino, San Matteo e San Bonaventura Durante i lavori attualmente in corso per la realizzazione del Museo d’Arte Sacra di San Francesco, rimovendo un imponente armadio, è emerso il dipinto nascosto nell’oblio dal 1713, anno in cui furono eseguiti importanti lavori nella chiesa francescana. Nell’occasione si aggiunsero nella sacristia due grandi armadi per contenere gli arredi. L’affresco era parte integrante di un altare che, per far posto al nuovo armadio da collocarsi sul lato nord, fu trasferito sulla parete est ove esiste tuttora, sovrastato da un nuovo affresco con la stessa iconografia, di conseguenza databile al 1713. Nella chiesa cimiteriale di Cassine, dedicata a Santa Maria delle Grazie o dei Servi, poiché appartenne al convento dei frati Serviti, è collocato, nella seconda cappella sul lato destro, al centro di un altare barocco in stucco, l’affresco di Sant’Anna Metterza. Con un modulo compositivo a spiga, raffigura in alto Sant’Anna e sotto la Vergine che tiene in grembo il Bambino. La fronte ed il velo superiore di Sant’Anna sono opera di un intervento ricostruttivo dovuto ad un antico restauro, forse eseguito durante una probabile ricollocazione dell’affresco, appartenuto prima del 1578 ad una cappella campestre, preesistente alla chiesa servita. Già in passato attribuii a Luchino Ferari questa pittura ed oggi, alla luce della nuova scoperta in San Francesco, quest’ipotesi ne riesce rafforzata, come per gli altri affreschi frammentari non firmati, ancora in San Francesco e già descritti. Per quanto è emerso, l’artista di Castellazzo lascia i suoi lavori nel breve torno degli anni 1526/1532. Non conosciamo altro della sua pittura se non il suo orientamento rivolto a temi religiosi, ancora relegati in un ambito minore per il suo modesto richiamo, poiché riposti in edifici che non appartengono ai grandi circuiti tradizionali dell’arte, anche se non sono minori per la storia della pittura. Alcune citazioni particolari della pittura di Luchino Ferari appaiono derivare da alcune opere che Gandolfino da Roreto ha lasciato nell’area alessandrina. Mi riferisco alle opere quali la Madonna col Bambino e angeli musicanti con la tavola di Sant’Apollonia, appartenenti allo stesso smembrato polittico oggi nella casa parrocchiale di Felizzano e il polittico della Madonna in trono col Bambino fra i Santi Pietro e Dalmazzo in San Dalmazzo di Quargnento. Esaminando l’affresco nella chiesa di Santa Maria dei Servi di Cassine, lo accosterei, se pur con una certa cautela, proprio alle tavole di Gandolfino a Felizzano. La presenza del solito trono 67 Cassine, San Francesco. Madonna con Bambino, San Matteo e San Bonaventura Particolare: volto di San Matteo. sovrastato da un drappo teso, forse sorretto da una fune, del tipo di acconciatura dei capelli della Vergine e di Sant’Apollonia, dei loro visi con le strette e turgide labbra, del mantello stellato della Madonna (a Cassine per la scarsa conservazione sopravvive una sola stella e tracce di altre) è fonte di ispirazione per Luchino. Nell’affresco della sacristia di San Francesco si delinea, dietro la scena, una cortina o transenna, come quella nel polittico gandolfiano in San Dalmazzo di Quargnento. Stesso parapetto è riscontrabile egualmente a Rocca Grimalda nell’absidina destra di Santa Limbania. La cortina è un riferimento, che il pittore astigiano avrebbe tratto dalla cultura ferrarese e cremonese1. Il soggetto, che non a caso ricompare in Luchino Ferari, non è certamente estraneo anche a Macrino d’Alba: si vedano le Madonne col Bambino e Santi alla Pinacoteca Capitolina ed alla Certosa di Pavia. Il confronto tra Macrino e Gandolfino avvenne a partire dal 1493, quando ad Alba, in San Francesco, il giovane Gandolfino dipingeva per l’altare dei Falletti il polittico oggi alla Galleria Sabauda di Torino, ancora fortemente intriso di caratteri liguri - provenzali, e Macrino, appena rientrato in patria da Roma, eseguiva per la stessa chiesa il polittico, oggi parzialmente conservato a Francoforte sul Meno, allo Städelsches Kunstinstitut, in cui introduce le novità dell’Italia centrale2. In Macrino compare il drappo rigido dietro alla Vergine, così pure in altri lavori come il più tardo Sposalizio mistico di Santa Caterina in San Giorgio a Neviglie, perciò pare plausibile che questo elemento giunga a Gandolfino dal pittore di Alba. Il tema della tenda, presente nell’affresco di controfacciata in San Francesco di Cassine, viene ancora mutuato da Gandolfino da Roreto, come nella tavola di Sant’Eulalia, presso l’Istituto Bancario San Paolo di Torino, che a sua volta attinse dal Boccaccino nelle sue frequentazioni della città di Cremona3. Luchino predilige una variegata tavolozza cromatica con abiti rigonfi e vaporosi, marcati sulle pieghe da chiari guizzi ritorti, segno tipico della sua pittura. I volti dei Santi sono modellati sulle fisionomie, così come i voluminosi panneggi, riscontrabili ad esempio nel polittico di Gandolfino da Roreto in San Pietro di Savigliano, opera stilisticamente prossima alle due tavole di Felizzano. Non appare proprio un gran dislivello 1 S. BAIOCCO, Profilo di Gandolfino da Roreto, in G. ROMANO (a cura di), Gandolfino da Roreto e il Rinascimento nel Piemonte Meridionale, CRT,Torino 1998, p. 214. 2 E.VILLATA, Gian Giacomo de Alladio, detto Macrino d’Alba, in G. ROMANO (a cura di), Macrino d’Alba protagonista del Rinascimento piemontese, Editrice Artistica Piemontese, Savigliano 2001, p. 6 e p. 10. 3 S. BAIOCCO, Repertorio delle opere di Gandolfino da Roreto, in G. ROMANO (a cura di), Gandolfino op. cit, scheda 49, p. 317. 68 Savigliano, San Pietro. Polittico. Particolare della predella: Sant’Antonio Abate, opera di Gandolfino da Roreto. Notizie bibliografiche fra l’affresco gandolfiano della Madonna della barca nell’ex chiesa di San Giovanni ad Asti, e quelli di Luchino nella sacristia di Cassine e nell’absidina minore di Santa Limbania in Castelvero. Non è dunque un paradosso che un linguaggio per alcuni aspetti meno evoluto non sia di buon livello, poiché la lezione di Gandolfino è assicurata. Le composizioni ferariane delle scene votive hanno al centro la Vergine, assisa su di un semplice trono, a volte un lineare scranno sovrastato da un rigido drappo senza ornamenti. Una delle sigle inconfondibili del Ferari sono gli acciottolati su cui si ergono i troni della Vergine (nell’absidina destra a Rocca Grimalda, nella sacristia di San Francesco e in Santa Maria dei Servi a Cassine) in sostituzione di pavimenti con tarsie marmoree come nelle pale aggiornate all’architettura rinascimentale. Più sovente le scene poggiano su prati erbosi. Sono queste raffigurazioni quelle di un mondo rurale allineato alla committenza di questi luoghi, un mondo non del tutto estraneo ad artisti come Macrino d’Alba o Gandolfino da Roreto. Questo fenomeno per quanto riguarda il Ferari non è ancora emerso degnamente, ma già ne sono stati delineati alcuni risvolti da Roberto Benso: “E tuttavia questo retaggio tradizionale appare adeguato, forse anche alle intenzioni dei committenti, ad un tipo di società elementare, culturalmente attardata, chiusa in un persistente conservatorismo”4. Un esempio della stessa maniera la ritroviamo in un altro affresco di anonimo più o meno coevo, di altra buona mano e simile impostazione, posto nella cappella di San Rocco a Carcare, in cui si respira un’analoga semplice tersa atmosfera, una concezione di spazio agreste rarefatto. Tutto ciò non va inteso come discriminante negativa nei confronti di una più evoluta cultura cittadina, ma quale indicazione della realtà nella quale operava il nostro Luchino Ferari, pittore di Castellazzo Bormida. 4 R. BENSO, Rocca Grimalda: chiesa di Santa Limbania, Sezione pittorica scheda n. 55, in S. ARDITI; C. PROSPERI (a cura di), Tra Romanico e Gotico, percorsi di arte medievale nel millenario di San Guido (1004-2004) Vescovo di Acqui, Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2004, p. 373. C. SPANTIGATI, in A.A.V.V., Provincia di Alessandria, Alessandria s.d.; IDEM, Guida breve al patrimonio artistico delle province piemontesi, pp. 9-22; G. CUTTICA DI REVIGLIASCO, Per un repertorio della pittura murale fino al 1500, in A. FUMAGALLI, G MULAZZANI, G. CUTTICA DI REVIGLIASCO, La pittura delle pievi nel territorio di Alessandria dal XII al XV secolo, Alessandria 1983, pp, 163164; E. BENSO, Gli affreschi di Santa Limbania a Rocca Grimalda, in “Urbs silva et flumen”, I (1988), n.1, pp. 21-24; IDEM, La chiesa monumentale di Santa Limbania. Tradizione ed arte nella storia di Rocca Grimalda, “In Novitate”, 1989, n.8, pp. 7-20; S. ARDITI, Santa Caterina e le altre chiese di Cassine, in L. GALLARETO e C. PROSPERI (a cura di) Alto Monferrato tra Piemonte e Liguria tra pianura e appennino. Storia arte tradizioni, Omega Edizioni, Torino 1998, pp. 373-383; G. GALLARETO, Gli arcani dei simboli: pittura gotica e tardo-gotica nell’Alto Monferrato, in Alto Monferrato cit, pp. 156-157; C. PROSPERI, Dal rinascimento al Barocco: vagando e divagando su e giù per il Monferrato e dintorni, in Alto Monferrato cit., pp. 240-243; L. BARBA, Pievi e chiese romaniche dell’Alto Monferrato Ovadese, Ovada 1999, pp. 21-23; S. ARDITI, Cassine: chiesa conventuale di San Francesco, Schede edifici n.13, in S. ARDITI e C. PROSPERI (a cura di), Tra Romanico e Gotico, percorsi di arte medievale nel millenario di San Guido (1004-2004) Vescovo di Acqui, Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2004, pp.101-106; R. BENSO, Rocca Grimalda: chiesa di Santa Limbania, sezione pittorica scheda n.55, in Tra Romanico e Gotico cit, pp. 372379. La polverina del rubacuori * di Paola Piana Toniolo * Ovvero gli usi diversi di un unico prodotto: la polvere d’osso di morto. La volta scorsa abbiamo incontrato una ricetta più o meno farmaceutica; questa volta è cambiata la funzione, non la materia. Che a Marcantonio Tardito di Roccaverano piacessero le ragazze non poteva stupire nessuno, ma che lui potesse piacere follemente a loro, questa, sì, poteva sembrare una cosa strana! Eppure... Quella sua madre, o matrigna che fosse, la Maria, la vedova di Arrietto Tardito, sapevano tutti che era una “fattucchiera”, e chissà quali incantesimi aveva insegnato al giovanotto! E i suoi amici? Se lo tenevano caro e ne raccoglievano le confidenze, ma stavano anche attenti che le loro sorelle non si facessero abbindolare... Ne raccoglievano le confidenze, appunto, e gli incantesimi di Marcantonio, secondo noi, stavano proprio tutti lì, nel suo sapersi rendere interessante agli occhi dei coetanei e nel saper vendere la propria immagine, facendo credere di possedere un incantesimo d’amore cui nessuna ragazza avrebbe potuto resistere. Perché erano tempi quelli, in cui si credeva, eccome, agli incantesimi, e c’erano i furbi e gli ingenui, come sempre. Peccato che, esagerando le sue manovre a cavallo tra superstizione e sacrilegio, il rubacuori fosse poi finito nelle maglie del tribunale ecclesiastico! *** 70 Sulla storia di questo personaggio abbiamo trovato solo i verbali di due interrogatori del 16982, quelli di Antonio Gasco e di Giovanni Battista Barbero, due giovani di Roccaverano, entrambi forniti di sorelle che avevano suscitato l’interesse del Tardito, convocati in canonica dall’arciprete del posto per rispondere alle domande di un delegato del Tribunale Vescovile, il quale era stato inviato lì per indagare sul ritrovamento in chiesa di una polvere misteriosa. Sono interrogatori brevi. Le risposte sono chiare e precise; nel caso di Antonio, in particolare, appaiono piuttosto stringate all’inizio e poi più esplicative, come se il giovane avesse acquisito via via più sicurezza, forse nel sentirsi coinvolto solo come testimone, e semmai come accusatore, e non come complice. Con lui l’inquirente parte un po’ da lontano, chiedendogli se conosce Maria Tardita di Roccaverano, ma tosto giunge al punto: Marcantonio gli ha mai mostrato una polvere involta in una carta? In caso affermativo, vedendola, sarebbe in grado di riconoscerla? Così Antonio racconta che nei giorni intorno alla Pentecoste erano andati, lui e l’amico, a sentir messa nella chiesa di San Giovanni, la parrocchiale vecchia, ormai divenuta chiesa cimiteriale3. In quella occasione l’amico gli aveva mostrato appunto una polvere, dicendogli che l’avrebbe posta sotto la tovaglia dell’altare della Madonna del Rosario «acciò restasse nel tempo si diceva messa»4. Ritornando però poi per prenderla, non ve la aveva più ritrovata. L’interrogante fa allora presentare al giovane un pacchettino di carta con dentro una polvere, che egli riconosce con sicurezza e senza dubbio alcuno come quella in questione, nonostante, dice, in precedenza l’avesse vista avvolta in uno straccio. Ma a cosa avrebbe dovuto servire quella polvere? Sappia o non sappia la risposta, è dal testimone che l’inquirente deve avere delucidazioni, e Antonio spiega che Marcantonio gli aveva confidato che «se ne voleva poi servire per farsi correre appresso delle garzone» e che ad insegnargli l’incantesimo era stata la madre, «la quale ne sapeva molte di simili fatuchiarie». Per convalidare poi la sua affermazione, Antonio aggiunge che un giorno l’amico si era precipitato in casa sua pretendendo a tutti i costi di avere dei capelli di sua sorella: diceva di volerli intrecciare con i suoi e «poi gettarli giù dall’acqua», con lo scopo ancora una volta di «farsela correr a dietro». Senza scomporsi, l’interrogante vuole ora sapere «che polvere fosse quella che li mostrò», vale a dire di quali componenti fosse fatta. «Il medesimo Marc’Antonio mi disse che haveva preso un osso di morto in San Gioanni la prima festa di 2 Archivio Vescovile di Acqui Terme, fondo Roccaverano, faldone Processi. 3 «L’antica parrocchiale di San Gioanni Battista si conservi ben coperta e ben serrata et vi si celebri molte volte per l’anime de defunti». Archivio Vescovile di Acqui, Relazione della visita compiuta alla diocesi di Acqui nel 1577 dal visitatore Apostolico, Mons. Gerolamo Ragazzoni,Vescovo di Bergamo, c. 64v, trascrizione a cura di Paola Piana Toniolo. 4 Si trattava di una procedura tutt’altro che inusuale nel caso si volesse far assumere una valenza miracolistica a una cosa qualsiasi. I sacerdoti, che lo sapevano, controllavano sempre con attenzione l’altare, le tovaglie e in genere tutti gli strumenti usati per le diverse cerimonie. 71 Pe n t e c o s t e , che l’haveva pestato e ridotto in una polvere; anzi mi mostrò il sasso con che lo pistò», è la risposta. Stupore, un po’ di imbarazzo, ma anche una certa dose di ammirazione sembrano trasparire dalle parole di Antonio, che si sofferma anche sul sasso usato per la bisogna, un oggetto sacrato dall’utilizzo per l’incantagione. Nessun commento, invece, da parte dell’autorità ecclesiastica: se una tomba era stata violata, c’era allora più confidenza di oggi con cadaveri, ossa, sepolcri, basti pensare all’uso ed abuso delle reliquie5, e ciò che realmente interessa è se Marcantonio ha avuto ancora occasione di parlare della polvere con l’amico e cosa eventualmente si siano detti. Ma i due non si sono più incontrati, si sono rivisti solo quella mattina, quando Antonio era stato fermato dall’arciprete per la convocazione e l’altro, che aveva assistito alla scena, l’aveva poi interrogato sull’accaduto, esclamando infine minaccioso: «Qualcheduno vole pigliarsi qual- 5 72 ch’archibuggiata!», dimostrandosi dunque un giovane di caldi spiriti, e non solo in campo amoroso... Quanto è venuto a sapere basta all’inquirente, che congeda il testimone dopo avergli fatto firmare la deposizione, naturalmente con un segno di croce. Il giovane però, presa confidenza, aggiunge un’informazione spontanea: il giorno prima di quello in cui l’amico aveva messo la polvere sull’altare, gliela aveva affidata in prestito perché la facesse vedere ad alcune ragazze, «le quali non volevano credere, benché io gli la havessi detto». Una di queste è la sorella di Giovanni Battista Barbero. È questo il motivo per cui il secondo giovane è coinvolto nella faccenda e subisce l’interrogatorio, confermando anche nei particolari quanto l’autorità era venuta a sapere in precedenza, sia sulle intenzioni sia sulle azioni di Marcantonio e dello stesso Antonio. Ma fermiamoci un attimo su alcune delle affermazioni del giovane: «Mi disse che detto Marc’Antonio se ne voleva servire per tirar adosso ad una mia sorella per farsela correr adietro»; «io viddi benissimo quando gliela diede per mostrarla a noi, perché era poco discosto»: parole rivelatrici della strategia conquistatrice, più o meno consapevole, del nostro, dove contava assai di più il far sapere dell’incantesimo che l’incantesimo in se stesso: era importante, cioè, che la Interessante, in proposito, la lettura di J. BENTLEY, Ossa senza pace, Milano 1988. ragazza sapesse di essere oggetto di attenzioni particolari perché potesse a sua volta guardare con maggiore interesse lo spasimante, e se non lei, le altre almeno, prese da un po’ di gelosia! Ma poi Marcantonio non aveva mai usato quella polvere: messala sull’altare, non l’aveva più ritrovata, e possiamo benissimo immaginare con quanta incredula apprensione, quanti sospetti e quanta rabbia. Siamo all’ultimo atto dell’interrogatorio. L’inquirente fa portare alcune polveri e invita anche questo secondo giovane a riconoscere quella da lui veduta, cosa che viene compiuta senza esitazione, indicando con precisione quella ritrovata sull’altare e consegnata al Tribunale. Peccato che a questo punto non ci sia possibile sentire la voce di Marcantonio, la cui figura ci si era rivelata, già da quanto detto, di un certo rilievo. Purtroppo la parte che ci è rimasta dell’azione giudiziaria riguarda solo l’escussione dei due testimoni, è comunque sufficiente a farci un po’ meditare sul valore dell’essere e dell’apparire, del credere e del far credere, e su quanto, in fondo, mutati i tempi, i luoghi e gli oggetti d’uso, gli uomini siano sempre uguali a se stessi. Roccaverano: chiesa di San Giovanni. 73 Jules Michelet ad Acqui (giugno 1854) traduzione e note di Maria Teresa Gastaldi Manuel de Diéguez, in una recensione (Combat, 16.4.1959) alla prima edizione integrale del Journal, scriveva:“...voici un homme pour lequel le monde est perdu s’il n’est pas fixé par l’écriture! pour lequel la parole fonde l’existence”. Non sapremmo trovare citazione migliore per introdurre questo scritto: Michelet prendeva nota di tutto. Ci vollero la pazienza e la dedizione della moglie Athénaïs per ricomporre, lui morto, quelle migliaia di fogli, così preziosi ad intenderne la complessa personalità e a ripercorrerne gli itinerari fisici e spirituali. E ci volle poi, nel secolo scorso, la cura assidua di due curatori per redigerne l’edizione completa. Sono pagine che hanno la freschezza e l’immediatezza delle parole che giungono al labbro e alla penna senza riflessioni; ma che pongono anche tanti problemi di sistemazione storica e di interpretazione. Nelle note (con numerazione araba), senza ovviamente la pretesa di offrirne un’edizione critica, s’è voluto affrontare qualche problema esplicativo: e dobbiamo anzitutto ringraziare il prof. Gianni Rebora, attuale direttore-medico delle Terme d’Acqui, e Lionello Archetti Maestri per i preziosi contributi e i consigli offertici. Michelet compie tre viaggi in Italia: nel 1830, nel 1838 e 74 nel 1853-54: è alla fine di quest’ultimo, dopo aver trascorso l’inverno a Nervi, che giunge alle Terme di Acqui da Torino, quivi indirizzato da medici amici, tra cui certamente Gioacchino Valerio; si tratterrà dal 5 al 30 giugno 1854, per partire poi, felicemente ristabilito, via TorinoChambéry-Ginevra, per Parigi, dove alloggerà per qualche tempo presso il genero Dumesnil. Le note all’originale francese sono in caratteri romani, accorpate a fondo articolo. 5 Lunedì Comprato il baule, consegnato il baule armadio. Viaggio da Torino fino ad Alessandria gradevole e rapido1; da Alessandria ad Acqui, assai penosoI. Cortese accoglienza del direttore, il sig. cavalier Ganone2, visita del medico. Una sorta di debolezza improvvisa mi impedisce di scendere. Bella camera e terrazzo3, bella verzura, ombra, prato. Sonno di dodici ore. 6 Martedì Nient’altro che riposo assoluto. Un’occhiata a Marie Stuart. Lunghe piogge. Visitato il Fontanino (d’acqua Riteniamo fondamentali, ad un più approfondito studio su M. e l’Italia, le seguenti opere: J.MICHELET, Journal, a c. di P.Viallaneix, poi P.Digeon, 4 voll., Paris, 1959-76 (per Acqui, il t. II, 1962). Gabriel MONOD, Michelet et l’Italie, in Jules Michelet... Etudes sur sa vie, Paris, 1905. Theodora SCHARTEN, Les voyages et les séjours de Michelet en Italie. Amitiés italiennes, Paris, 1934. Teresa DI SCANIO, Bibliographie de Michelet en Italie, Firenze, 1969. fredda), la stretta valle del Ravanasco. Il medico, sig. Granetti4, consiglia un bagno misto5 (non bere ancora). La sera, bellissima passeggiata sul ponte e verso la città. Natura poco generosa, tuttavia: colline calcaree, chiuse a circolo. Ma la Bormida non è priva di grazia: le sue rive di una fresca verzura. Un raggio pallido e delicato di sole al tramonto dorava leggermente le scure rovine nere dell’antico acquedotto romano. La pioggia era appena cessata e tutto era già asciutto. La serata mi sembrava incantevole, forse a causa di quella incantevole e così cara compagnia6. Malato e fra tante incertezze per il futuro, tuttavia mi sentii felice. 1 In ferrovia; la tratta Alessandria–Acqui era in quegli anni in costruzione (v. 12 e 23 Giugno) 2 Non s’è trovata menzione di lui nelle pubblicazioni d’epoca. 3 Era la camera con terrazzo all’estremità di uno dei bracci dello stabilimento per i civili, eretti nel 1826 da Carlo Felice. 4 Il dr. Lorenzo Granetti, chirurgo della Real Casa, autore dei Cenni sulle Terme d’Acqui e sulla lebbra, pp. 262,Torino, 1841, e della Guida pratica dei balneanti alle Terme di Acqui e prospetto delle principali malattie..., Torino, 1853, partecipò a Parigi nel 1851 al Congresso di medicina Omeopatica, disciplina che esercitò apertamente all’ospedale Cottolengo. 5 Plinio Schivardi in Guida ai Bagni d’Acqui, Milano, 1873, p.42, ci inforna a tal riguardo che si mescolavano le acque della fonte solforosa fredda (l’attuale ‘acqua marcia’) a quelle calde dei laghi onde ottenere una temperatura di circa 28°-29° R. 6 Il M. era accompagnato dalla seconda moglie, la giovanissima Athénaïs Mialaret, sposata nel 1849. 75 8 Giovedì 7 Mercoledì Alle 7 primo bagno, misto. Nessun’impressione sgradevole. Due pasti, alle 10 e alle 5. Dopo il bagno, andiamo a vedere da vicino i pilastri dell’acquedotto. Letto Granetti, Les bains romains7. Percepii chiaramente ciò che potrebbero essere dei bagni veramente popolari. Se il pianeta ripara se stesso (vedi Laplace), non contiene forse i mezzi per riparare il piccolo pianeta uomo, ahimè, già così deteriorato, che porta nel sangue la diffusione delle antiche malattie (peste, lebbra, sifilide, ecc.)?! Scrivo a Valerio, il medico8. Nelle regioni alpine come al mare, questo paese ha dei lebbrosi (Le lépreux de la cité d’Aoste9; vedi anche Granetti, initio10). La sera, passeggiato sui prati, scendendo lungo la Bormida. Coricato dopo il bagno e pranzato in camera. Mi trovo meglio con queste due innovazioni. Andiamo a vedere, ad Acqui, la BollenteII e la cattedrale. La cattedrale chiaramente negletta, trascurata. Ma la Bollente, che potrebbe essere un vero tempio di carità, non è meno abbandonata nel suo misero ghetto ebreo11. Forza e impeto di questa bella fonte. Il direttore ci mostra le fonti dello stabilimento; danno quasi seicento litri al minuto in ogni stagione12. Scavando le fondamenta dello stabilimento dei poveri, si è reso necessario soffocare e domare una quantità di fonti simili; tutta la zona ribolliva. Lo stabilimento romano esisteva ancora, trecento anni fa, quando fu ricoperto da uno smottamento della montagna13. Il sig. CavourIII presenta un progetto per ingrandire lo stabilimento (dei ricchi), utilizzare la Bollente, ecc. La sera, passeggiato lungo il bosco che costeggia il fiume risalendone il corso. La profonda solitudine mi faceva credere di essere sulle rive di un fiume dell’America interna. È il carattere di questi fiumi del Piemonte, senza barca né comunicazioni a causa delle loro numerose cascatelle14. Ciò stupisce soprattutto a Torino; una città così grande, un fiume così solitario! Bella e 7 Non ci risulta uno scritto con questo titolo. Si riferisce probabilmente ad una delle opere citate alla nota 4. 8 Il medico Gioacchino Valerio: gli scriverà anche il 22. 9 Si riferisce all’opera di Xavier De Maistre. 10 V. nota 4 al 6 Giugno. 11 È infatti solo del 1879 la fontana monumentale dell’architetto Cerutti. 12 Lo Schivardi (cit., p.27) nota come le valutazioni del regime delle acque varino vistosamente nelle testimonianze di vari autori (Bertini, Ratti, Lesne...). Il dr. Rebora ritiene invece che la portata si sia sempre aggirata intorno ai 400 litri/m. 13 In realtà, non si trattava della costruzione romana ma di un edificio medioevale (c. 1480) distrutto dalla frana nel 1679. 14 Con chutes il M. allude al corso torrentizio della Bormida, segnato, a dirla con termine dialettale, da frequenti ravözze. 76 dolce serata, armonica e in così grande armonia di cuore. Alcune greggi, alcuni bambini intenti a sorvegliarle, erano i soli esseri viventi. La cittadina, all’orizzonte, non dava idea di vita. Il ponte stretto e dritto15, che attraversa il fiume in linea retta, appare in tutta evidenza una semplice via di comunicazione; lo si direbbe un servitore che va diritto al suo lavoro16. La sola attrattiva del paesaggio sta nelle rovine romane che, tagliando obliquamente il fiume, hanno, nella loro oscura e cupa vetustà, un aspetto più animato, più umano, meno meccanico. Il loro effetto morale è tanto più grande quanto più si avverte che esse scompariranno e lasceranno allora il paesaggio qual è, vale a dire mediocre e d’effetto monotono. Possa Acqui allora divenire quello che potrebbe essere: un doppio anfiteatro17 di bagni popolari, lungo le due rive del fiume, uno dei grandi centri della fraternità italiana! Lo stato di sofferenza civilizza, addolcisce gli uomini, apre i loro cuori, li dispone a benigni sentimenti. I Piemontesi in particolare hanno bisogno di vedere molti Italiani, di prendere coscienza della grande patria. È qui che sarebbe necessaria una biblioteca comune, dei corsi e soprattutto una musica popolare. Scritto alla sig.ra Poux. 9 Venerdì La mia piccola cara andò coraggiosamente a bere da sola il suo bicchier d’acqua con un libro in mano. Io presi il mio terzo bagno. Alle 11 salimmo sulla collina che sta oltre lo smottamento18. Di là si vede la città da dietro e, a destra, si intravede una cascatella della Bormida che spiega molto bene la sua perfetta solitudine. Si avvicinava il temporale. La mia amata credeva di sentir l’odore dei serpenti e delle bisce; questi animali devono vivere volentieri nelle fessure di queste colline calcaree. Rientrammo ed ella dormì un poco sul canapé. Letto Ausonio Franchi19, Introduction philosophique et religieuse. Che il socialismo non è per niente il cristianesimo, lo dice, prima, Daniel Stern20 (riprendendolo da me?). A cena, il professore21 fa molti complimenti; nuovo commensale, aria protettiva. La sera, bellissima passeggiata alla porta di Acqui. Il lungo e stretto viale di platani22 giganteschi che risale la Bormida verso occidente; serata mirabilmente armonica e che termina in una completa armonia di cuore. 15 Il ponte Carlo Alberto era stato inaugurato dal sovrano nel 1847; appariva stretto al M. in quanto mancavano le due corsie pedonali realizzate a sbalzo in epoca posteriore. La scena idilliaca precedente trova riscontro in stampe d’epoca. 16 “besogne”nel testo: indica un lavoro duro, che non concede distrazioni, e che quindi ben s’attaglia al paragone. 17 Cfr. 26 giugno. 18 Si può dedurre che seguano la passeggiata Bellavista o quella del monte Stregone. 19 A.Franchi, pseudonimo di don Cristoforo Bonavino (Pegli,1821-Genova,1895), libero pensatore, sospeso a divinis dopo l’adesione al razionalismo e al socialismo, fondò il giornale La Ragione.V. nota 41 al 16 giugno. 20 Pseudonimo di Marie C. S. de Flavigny, contessa di Agoult. 21 Si tratta, probabilmente, del prof. Rovida, di cui v. a domenica 11 22 Il viale è la lea che fiancheggiava corso Savona e le mura della città, servendo altresì da schermo alle manovre militari. 77 10 Sabato 12 Lunedì Visita del medico, il quale mi informa che si vuol cedere Acqui a una compagnia anglo-piemontese23. Grande pioggia e sole. Passeggiato da solo; la campagna pareva fumare.Alle 3 la mia amata va a bere; saliamo al punto panoramico della casa abbandonata. Letto un poco di Fourier24, volume I, sull’anima del pianeta, le piccole anime della Natura defunte, le metempsicosi. Risalendo dopo la cena, un Francese in esilio mi offre il suo giornale. Risaliamo la strada lastricata che domina la Bormida; dolcissima conversazione, armonie religiose della sera. Nel bagno leggo MignetV, così vero nel dettaglio, così falso nell’insieme! Letto anche cenni su Shah Milh27 (vedi biblioteca britannica). Incontrato il sig. Mézaise28, il quale mi racconta le sue avventure di Bruxelles, Jersey, Nice. Il direttore mi presta il rapporto di Correnti29 sulla ferrovia e le acque. Tortona è più urgente di Acqui poiché il commercio di Tortona si volgerebbe verso la Lombardia, invece di scendere verso Genova. Il governo, cedendo la ferrovia e le acque ad una compagnia, si riserva di ingrandire a suo piacimento lo stabilimento dei militari e quello degli indigenti30. Ci vorrebbero delle borse [di soggiorno] per ogni regione d’Italia, dieci ai Lombardi, sei ai Toscani, ecc., in base alla popolazione. 11 Domenica Bagno raddoppiato nel tempo e nella forza; l’acqua fredda presa dal Fontanino; bevuto acqua tiepida nel bagno. Alle 3, andiamo a bere al Fontanino. Il direttore, poi il professor RovidaIV (Milano) mi danno La Bollente25, che riporta il simpatico articolo del Diritto26.Triste e brutta serata: la mia amata si annoia. Carattere selvaggio degli armenti; un piccolo bue dà una cornata ad un cavallo. 13 Martedì Intenso dolore allo stomaco dalle 9 a mezzogiorno, passa stando a letto. Fatto visita al professor Rovida. Il direttore mette il sig. Mézaise, di Caen, al tavolo accanto al nostro. Operazione del giovane, a seguito di 23 Lo Schivardi (cit., p.15), parla di manovre del Saracco nel 1864 con capitali esteri, in specie di un Melhado di Londra. 24 Passeggiata sulla sninistra del Ravanasco. Charles Fourier (1772-1837) col suo settimanale Il Falansterio e l’organizzazione societaria che vi propone, si colloca tra gli utopisti del primo ‘800, teorici di un’armonia universale, tanto cari al M. 25 La Bollente uscì per la prima volta ad Acqui tra il 1852 e il 1856. 26 Allude verosimilmente al giornale fondato da Agostino Depretis nel 1848. 27 Identità problematica; azzardando, si potrebbe pensare a “Salt Milh”, il sale, emblema di rigenerazione spirituale. 28 Pierre Mézaise, scienziato del primo ‘800, si occupò in particolare della chimica delle mele e del sidro. 29 Il milanese Cesare Correnti, esule dopo il 1849, partecipò alla vita politica del Regno di Sardegna. Per la questione della ferrovia, v. P. SCHIVARDI, cit., p.13. 30 Lo Schivardi ci informa (cit., p.13) che “colla costruzione dello stabilimento dei poveri si fece una terza ripartizione della R. Fabbrica...e così si ebbe uno stabilimento detto civile, uno pei poveri, il terzo pei militari”. Ne conseguirono così tre amministrazioni con tre direttori sanitari diversi. Giova notare che lo Schivardi stesso, direttore dei Bagni e corrispondente di società mediche estere, è autore di un opuscolo (Aix ed Acqui, Milano, 1870) in cui traccia, all’indomani dell’annessione di Aix-les-Bains alla Francia, un interessante confronto tra le proprietà delle acque e le strutture delle due città termali. 78 un’ernia31 (aggravata da una doccia?). Muore alle 11 di sera. Scrivo per ringraziare il direttore de La Bollente. Affrancato la lettera ad Acqui e passeggiato sulla strada per Alessandria e al cimitero degli Ebrei32. 14 Mercoledì Il direttore33 ci mostra lo stabilimento degli ottanta poveri (in tutto seicento all’anno). Ogni mattina pesa il pane, la carne, assaggia il vino, ecc. Estrema pulizia, tuttavia piccoli cortili senza alberi, né terrazze, né logge comuni. Piscine comuni come a Loèche34, in cui entrano vestiti di lunghe camicie. Si cambiano le lenzuola ogni otto giorni, le camicie due volte alla settimana. Pane bianco, carne e brodo, due bottigliette di vino al giorno. Le piscine comuni potrebbero essere ingrandite, per gli esterni. Il direttore aggiunge sempre otto poveri agli ottanta ospiti. Ci dice che c’erano molte più guarigioni tra i poveri che tra i ricchi. Ciò è dovuto alla dieta dei poveri, molto più regolata. Gli altri cercano solo divertimento, avventure galanti, caffè, liquori, gelati. Dimenticano la cura oppure la ostacolano. Visita del sig. Granetti, il quale permette i fanghi alle gambe per domani. Elogio dell’omeopatia che, afferma, non mischia i medicinali,utilizzandone solo uno alla volta e non affatica, usando una dose leggera la cui efficacia è ulteriormente aumentata dalla triturazione e dallo sfregamento elettrico: Più la dose è leggera, più ci si allontana dalla materia e più questa azione è efficace. Forza e salute decisamente migliorate, sembra: cosa di cui approfittai… Meglio nel fisico e meglio nel cuore. 15 Giovedì (Corpus Domini) Ma il 15, grande disturbo. I fanghi mi avevano dato forti nausee. Alle 2, il bagno mi ristabilisce. Triste sensazione per la rapida sepoltura (dopo solo venti ore) che ha avuto luogo nella serata di ieri; al ritorno dalla passeggiata, vedemmo le confraternite di Acqui, nel loro strano costume, che sfilavano sul ponte, rapide, noncuranti. I pettegolezzi di Acqui sui tre medici. Il cappellano scontento per il moribondo con la bottiglia in 31 L’eventualità che si trattasse di un fanghino, vista la frequenza di ernie strozzate causate dallo sforzo notevole cui si sottoponevano gli addetti al recupero subacqueo dei fanghi, può essere plausibile. 32 In effetti la strada per Alessandria passava, a quell’ epoca, accanto al cimitero ebraico, là dove questo si trova tuttora. 33 Si potrebbe pensare al cav. dr. Luigi Ivaldi, del quale lo Schivardi (cit., p.63) dice che [1873] “da molti anni dirige lo stabilimento dei poveri”, e che “dal 1862 in poi ha pubblicato importanti rendiconti”. Dallo stesso Schivardi (p.64) apprendiamo che le “mute” cominciavano con il 1° maggio e terminavano a fine settembre, e duravano 20 giorni. 34 Leukerbad, o Loèche les Bains, in Vallese, dove il M. potrebbe aver soggiornato. 79 tasca: Bacco e Venere. Visita della sig.ra Gallo. I nobili fanno una partita durante la sepoltura35.Alla processione di Acqui, il vescovo, un tempo giudice della città, fa portare davanti a sé la spada36. 16 Venerdì Lo spettacolo di questa cittadina, o meglio di questa accolita mondana, mi ricordò le tante scene di durezza, di indifferenza e di leggerezza di cui sono stato testimone a diciotto anni nella casa di cura in cui ho soggiornato a quell’epoca37. Là in più c’erano i pazzi, ma qui c’è più follia: follia senza forza, che deriva unicamente dall’inoperosità, dal vuoto estremo dello spirito. In compenso abbiamo fatto diverse bellissime passeggiate di cui conserverò il ricordo. Avantieri, ci inerpicammo e seguimmo anche per un buon tratto la strada lastricata, da questo lato del fiume, in faccia ad Acqui38. Raggiungemmo sommità selvagge, boscose, da cui scoprimmo, dal lato più ripido della collina, la valle del Ravanasco. Scesi molto lentamente verso il fiume e verso la notte, in uno stato d’animo religioso, felice e malinconico che divenne triste quando, dalle rovine romane, vedemmo le confraternite sfilare a passo di carica sul ponte39. Ieri, 15 sera, [Athénaïs] molto irritata dalle critiche di coloro che non amano che si voglia restare soli. Salimmo dietro lo stabilimento, per una strada assai malagevole, alla parrocchia dove certamente è stato sepolto quel povero giovane40.Di là si vede il Monviso, bene come da Torino41. La morte, le Alpi, questi grandi pensieri, questi grandi argomenti ci fecero tornare meno turbati dalle miserie che avevamo lasciato in basso.Queste ritorneranno sovente. Il mondo detesta coloro che non gli appartengono. Nobili, ricchi, preti, riconoscono istintivamente coloro il cui cuore sta con il popolo. Tutto ciò è bene, è giusto. Accetto volentieri l’odio dei miei nemici naturali; Dio ci 35 La sepoltura è certamente quella del giovane morto la sera del 13. L’inumazione poche ore dopo il decesso si può giustificare sia colla calura ormai estiva, sia col fatto che il giorno 15 ricorreva la festività del Corpus Domini; il risentimento nei confronti della noncuranza dei ricchi gaudenti si inquadra nelle propensioni politiche del M. 36 Quest’usanza si protrasse ancora fino a non molti decenni orsono (1958). 37 Il padre di M. fu contabile di una casa di cura dal 1814 al 1818. 38 Molto probabilmente si tratta della vecchia strada per Cavatore, lastricata, più volte nominata dal M. (v., ad es., 10.VI) 39 Il portamento dei devoti e delle compagnie religiose, già stigmatizzato nelle note precedenti per la sostanziale indifferenza alla triste cerimonia della sepoltura del giovane, assume qui una colorazione ironico-grottesca. 40 Dal contesto, appare molto probabile si tratti della chiesa di Lussito; a render plausibile l’identificazione del giovane morto con un fanghino si aggiungerà che da questo borgo proveniva tradizionalmente gran parte degli addetti a questa mansione. 41 M., dopo l’inverno trascorso a Nervi, aveva soggiornato a Torino nella primavera di quell’anno, accolto da Brofferio, dai Valerio e da Ausonio Franchi, esponenti della sinistra anticlericale; pare che l’incontro con M. “contribuisse a rafforzare l’orientamento della Ragione [diretto dal Franchi] che diede sempre grande risalto al problema sociale” (cfr. Angiola Ferraris, in Storia di Torino,VI,Torino, 2000, p.728). 80 guardi solo dai malintesi dei nostri, dall’ingiustizia degli amici! Contro questo male, l’unico reale, Egli ci darà come rifugio l’amore disinteressato per il bene, il pensiero del bene sovrano; è lui stesso, in questo caso, la grande ricompensa42. Questa mattina, fango per i piedi, bagno alle 2: è il regime invariabile. Il sig. Granetti venne la sera, molto sonnacchioso, e disse che avremmo cambiato solo lunedì. Visita del sig. Bataglia43, avvocato a Milano, giornalista, direttore de L’Echo de la Bourse (assomiglia a Guépin44). Quasi terminato Marie Stuart. Salito dal lato molto scosceso che domina la riva sinistra del Ravanasco45, pendio molto scuro a quest’ora. La mia amata battezza le minestre e le creme dello stabilimento con il nome molto indovinato di ravanasquettes. Riceve tramite mio cugino la lettera di suo fratello che lascia la Luisiana e l’insegnamentoVI. 17 Sabato Scritto ad AlfredVII (500 franchi) e a Valerio (per Ginevra)46; spedisco solo il 19. Fango e bagno. Passeggiato, la sera, con la sig.ra Gallo lungo la Bormida. La mia amata, non potendo ottenere da lei una sola parola francese, si mette a parlare italiano.Valanga di nuovi malati. 18 Domenica. Fango e bagno. Passeggiato con il sig. Mézaise. Ricevuto una lettera da Quinet47, il quale ammette che bisogna guardarsi dallo scoraggiare la Francia. I funamboli: la ragazzina faceva trepidare; aveva una paura mortale dipinta sul viso, essendo caduta, l’altro giorno, da una corda che saliva al campanile di Acqui. Attraverso la terrazza, inaspettatamente, arriva il sig. avvocato Braggio, che, l’indomani, mi invia tredici bottiglie; ne accetto due. Il sig. Lavisaro48, redattore de La Bollente. Il sig. Granetti ordina alla mia amata per la sua insonnia, globuli di caffè49, di noci di galla, ecc. 19 Lunedì Per la prima volta scendo al mattino, per subire il seppellimento nei fanghi fino a tutta la coscia. Abilità e pulizia, intelligenza del primo dei fangaroli, 42 Osservazioni come queste, oltre che indicare chiaramente il temperamento e l’umore politico del nostro, richiamano lo stile ispirato della Montagna. 43 Michele Battaglia (1800-1870), segretario della Camera di Commercio di Milano, fonda nel 1936 l’Eco della Borsa. 44 Il dr. Ange Guépin, di Nantes, ammiratore e compagno di lotta di M. Fu elemento particolarmente rappresentativo del milieu sociale della provincia francese. 45 Verso il Cartino. 46 Alfred Dumesnil (1821-1894), genero di M. di cui aveva sposato la figlia di primo letto; professore al Collège de France, fu segretario di Lamartine. L’accenno ad uno dei Valerio, ci fa pensare ad un rapporto ormai stretto sia con il giornalista (Lorenzo) che con il medico (v. nota del 7 Giugno). 47 Edgar Quinet (1803-1875), collega di M. al Collège, subì anch’egli la reazione bonapartista. Scrisse una storia della Rivoluzione e fu deputato progressista e anticlericale. L’astio antinapoleonico tuttavia non fa velo al suo patriottismo. 48 Si può ipotizzare un refuso che rimandi a Giacinto Lavezzari (1815-1888), a lungo alla guida della Gazzetta d’Acqui. Autore di una Guida ai bagni d’Acqui,Acqui, 1869, che contiene un interessante “Prospetto statistico delle malattie curate nel 1868” del dr. D. De-Alessandri; il Lavezzari potrebbe quindi esser stato anche giornalista della Bollente durante il primo periodo di pubblicazione di questo giornale (v. n. all’11 Giugno). 49 Il dr. Granetti era, come s’è visto, sostenitore delle cure omeopatiche. 81 Tomasini50 (d’inverno si guadagna da vivere con la caccia: uccelli, non selvaggina di grossa taglia). Ripreso la lettura dell’Histoire de la loterie. La sera, triste confidenza della sig.ra Gallo. Visita del sig. avvocato SaraccoVIII, deputato. Gli riferisco quanto mi aveva detto il sig. Granetti, che un tempo, quarant’anni fa, i bagni erano gratuiti; c’era una piscina comune e, tutt’intorno, alberghi51. La piscina è tuttora comune a Loèche, nel Vallese: tutte le malattie della pelle si immergono insieme nove ore al giorno. Inoltre, un tempo, all’entrata di Acqui, c’era un altro bacino comune, derivato dalla Bollente, dove le donne lavavano52. 20 Martedì A destra i fanghi salivano fino al fegato. Benessere assoluto; una sorta di abbraccio materno della natura che avvolge e riscalda il suo figliolo ferito, ferito dal lavoro e dal tempo. Mi metto a meditare su questa forza stupefacente. Da noi si attribuisce un potere curativo al fango di Parigi; questo non può non essere elettrico, se l’estrema triturazione elettrizza. Il fango dello stabilimento di Acqui, composto per metà di silice, per un quarto di ossido di allumina, per un decimo di carbonato di calce, di trentadue millesimi di materia organica, infine di solfato di calce, di magnesio, di soda (pochissimo ferro, pochissimo zolfo)53, il fango, dicevo, dello stabilimento, trae senza dubbio la sua forza singolare dall’elettrizzazione continua che gli danno le sorgenti. Le si vede sgorgare a fatica attraverso il fango, il quale in realtà non è altro che un detrito della montagna. È evidente come l’acqua colpisca senza sosta il fango sottoterra, la forza di aprirsi e dare passaggio. La scossa con cui Hahnemann54 elettrizza i suoi medicinali, l’acqua la fornisce di continuo a questa silice disciolta. Essa colpisce incessantemente questi atomi di pietra focaia. Comunica loro non una fermentazione (l’odore sarebbe ben diverso), ma una vera vivificazione. Nella fermentazione nascono molti esseri viventi; questo fango non fermentato, ma vivificato, sembra divenire esso stesso un essere di grado inferiore; inorganico e incapace di vivere per suo conto, tanto meglio si presta a comunicare quanto c’è in lui di vitale alla vita ferita dell’uomo. Chi può dire con quante scosse successive, quanti sforzi e vittorie quest’acqua, dopo aver perforato la montagna, arriva allo strato sottile che finisce per dominare? Come materiali sempre rinnovati dei fanghi, essa porta la montagna stessa, che scioglie in polvere, in atomi; che demolisce nel sottosuolo procurandone enormi frane, come quella che annientò, trecento anni fa55, l’antico stabilimento 50 Filippo MEDA, nell’ opuscolo “Le Terme di Acqui, Acqui, 1916 (in cui ricorda diffusamente il soggiorno del M. conseguente ad una “artrite poliarticolare”), ritiene che si tratti di un nome di battesimo,Tomasino (pp.30-31). 51 Dal riscontro con le testimonianze di autori e visitatori del primo Ottocento, compreso il francese Lesne, e con il materiale iconografico d’epoca, non c’è conferma a questa affermazione. C’era, per contro, in antico, una vasca vicino alla Bollente in cui la gente poteva bagnarsi. 52 Si tratta della Molinetta, all’entrata di Acqui verso via Goito. 53 Le indicazioni, per quanto approssimative, corrispondono grossomodo a quelle fornite dallo Schivardi (cit., p.39). 54 Il medico Christian Hahnemann (1755-1843) fu un precursore degli studi omeopatici. 55 In realtà, meno di duecento: v. nota 12 all’ 8 giugno. 82 romano. Aspettando nuove valanghe di terra, la vigna, fra miseri boschi, copre le sommità delle colline; dà vini bianchi dolci dal forte sapore di silice, più caldi che gradevoli. Diverse persone notarono che uscendo dai fanghi si era un poco ebbri56. Ciò non stupisce, sapendo che anche parecchie fonti dei villaggi vicini danno una sorta di ebbrezza. Questo fango è, credo, un fenomeno rarissimo. Chiedere a Lefebvre che cosa sono i fanghi vulcanici d’Islanda, quelli di Saint-Amand57. Gli Antichi hanno avuto torto a considerare tali luoghi sacri? Lo sono, senza alcun dubbio. Sono le vie tramite le quali la vita materna della terra comunica ancora con i suoi figli, ne rianima le forze esaurite, ne solleva la prostrazione, restituisce loro ardore e speranza, facendoli partecipi della sua immortalità, per quanto la loro natura lo permetta. Gli Antichi ebbero torto ad adorarvi una ninfa locale; noi vi veneriamo la ninfa universale, l’amorosa Provvidenza, la forza d’amore che sembra voler sempre salire verso di noi, dal profondo dell’esistenza, benedirci e rianimarci. Vera fonte dell’eterna giovinezza, soprattutto per i poveri, cui una vita sobria e regolare permette di approfittare di tutti i suoi benefici! Se questo luogo è unico sul globo terrestre, come molti credono, come osare farne un monopolio? Come intromettere il fisco tra l’uomo e la natura, proibire, in realtà, questo beneficio alla massa dei poveri, che hanno molti più malati e che ivi guariscono molto meglio dei ricchi, come proibirlo ai soli che ne approfittano veramente? 21 Mercoledì Ieri sera, facciamo assaggiare il vino di Acqui58 ai sigg. Mézaise e Bataglia, Rovida, due Milanesi. Ricevuto una lettera da Alfred. La mia amata è scontenta del bagno di acqua dolce. Fanghi: quasi bene come ieri, sensibile vivificazione nella prima mezz’ora: rimasi tre quarti d’ora; abilità e gentilezza, rapidità di Tomasini, vero scultore di tipo egizio. La dolcezza del seppellimento. Terra mater, parola di significato profondo. Questa bara di marmo è come una culla per un malato, un giaciglio in cui inumarsi allo scopo di vivere. La tomba, la bara, la terra gettata su di voi, tutto ciò non ha nulla di triste. È una tomba piena di speranza. Potessimo giungere con la stessa disposizione all’altra tomba, quella che guarisce definitivamente59. Ieri, nessuna riflessione. Era troppo perfetta l’identificazione tra me e la natura; non mi distinguevo da essa in nulla. Miracoli più che biblici. La terra stessa dice ai paralitici: Alzatevi e camminate. 56 Il dr. Gianni Rebora, attuale direttore medico delle Terme, fa notare che il fango, a quell’epoca applicato in sedute molto più lunghe (v. 21 giugno) e in maggior quantità, provocava una sorta di shock favorendo come reazione la produzione di ormoni e di endorfine: ne conseguiva, e in parte lo si nota anche oggi, una sensazione di benessere. 57 Del Lefebvre è difficile l’identificazione; Saint-Amand (Nord) è una stazione termale di acque solfato-calciche. 58 Trattasi, probabilmente, delle due bottiglie donate dall’ avv. Braggio (v. 18 giugno) 59 Quella che potrebbe apparire una nota ironica, è in realtà una conferma della visione teosofica della natura cara al M. 83 Camminano, sostenuti improvvisamente dalla possente mano materna60. Che spettacolo se, alzandosi la superficie della terra, scorgessimo l’immenso lavoro che le acque fanno sotto di essa! Omnia sub magna labentia flumina terra…IX I fiumi ne sono la parte meno curiosa. Quale maggiore interesse in quelle deboli fonti, che la natura intride lentamente delle forze vivificatrici contenute in certi minerali o comunicate loro dall’elettrizzazione dovuta all’eterno movimento! Qui Baden, qui Barèges, là Acqui o Karlsbad. Campi, boschi, prati, sparite! Lasciateci vedere il sotterraneo laboratorio della grande madre universale, i suoi lavori ignorati per rianimare, guarire, ristabilire i suoi figli, annullare il male che l’uomo fa all’uomo, risanare le ferite, combattere insomma la guerra tramite forze di amore e di pace. I bei versi di Virgilio, di cui ho citato il primo, i bei versi di Byron: Non vivono questi monti e queste grotte piangenti? Non c’è sentimento nelle loro lacrime silenziose?61 - questi versi, come sono inadeguati di fronte a questa realtà grandiosa e toccante della maternità della natura, nella sua preparazione delle acque salutariX! 22 Giovedì Avantieri, solo al bagno, fui violentemente colpito al cuore da un pensiero, da un’ipotesi dolorosa che mi attraversò la mente (il giorno in cui ella perdette sangue). Il sig. Granetti dice che non è che la rottura di piccole vene, allorché vengono a seccarsi; bisogna applicarvi continuamente della malva. Ricevuta lettera da Valerio il medico e risposto. Scritto a Charles e Poret62. Ieri sera, con un tempo assai fresco, forte vento, temporale imminente, andiamo con la sig.ra Gallo ad affrancare le nostre lettere ad Acqui. Mi presta Leopardi, l’amante appassionato della morteXI. Grande poeta. Influenza morbosa? Insegnateci piuttosto la resurrezione. Tuttavia l’amore per la morte è così sincero qui e così profondo che da questa cenere (1836) dovettero sortire sforzi disperati. L’Italia, così ben stabilita al fondo della morte, vi ha trovato una forza di azione. Pochi anni dopo, le bandiereXII… Questa mattina, quaranta minuti di fango, la testa un poco annebbiata; l’altro ieri è stato coperto il fegato, ieri la milza, oggi il ventre63. Disputa tra Tomasini ed il vecchio fangarolo; è forse la rivalità tra i vecchi fanghini che si tramandano il lavoro di padre in figlio ed i nuovi venuti. Tomasini fa parte di questi ultimi; è entrato qui, lui e i suoi, venti anni fa64. Ha fatto studi di filosofia, dice il direttore, il quale lo 60 Anche qui notiamo come la rimembranza evangelica si fondi sincretisticamente e senza sforzo nella religiosità naturalistica del nostro. 61 G.BYRON. The Island, II, 16: “Live not the Stars and Mountains? Are the Waves/ Without a spirit? Are the dropping caves/ Without a feeling in their silent tears?” 62 Hector Poret era uno dei suoi più vecchi amici. 63 Pratica oggi da tempo in disuso; non a caso, il leggero ottundimento (v. 20 giugno). 64 F. MEDA, (op.cit., pp.35-40) tratta a lungo di queste lotte corporative tra vecchie famiglie di fanghini e nuovi assunti. 84 ha fatto nominare dalla direzione portiere dello stabilimento. Ha possedimenti per 25.000 franchi. Dei suoi due figli uno sarà notaio, l’altro fangarolo. La sera, passeggiato con il sig. Mézaise e la sig.ra Gallo sulla strada selciata che sale. 23 Venerdì Tre quarti di fango; molto bene. Ricevuto Les Vaudois dal sig. MeilleXIII, ministro del culto65, tramite il sig. Oliva, fratello della sig.ra Mancini. Il Diritto inserisce l’appello di Victor Hugo per la sottoscrizione in favore degli esuli. Leopardi ha un dolore di una fissità terribile, che non si smentisce mai, nemmeno alle nozze della sorella: Tu auras des fils misérables ou lâches66. Ella preferisce che siano miserabili. Visto ad Acqui il sig. Lavenari, che lavora da due anni alla preparazione della ferrovia. Scritto a Lefebvre. 24 Sabato Quaranta minuti; benissimo. Qualunque ne sarà il risultato, mi rallegrerò sempre di aver rivendicato per i poveri, per tutti. Evidentemente nessuno ci pensava. Perlomeno si limiterà il monopolio67 con un capitolato d’oneri, che imponga alla compagnia una piscina comune per i poveri. Ricevuto i versi del sig. professor Rovida, di Milano, e del sig. Biorci68, di Acqui. Rientrato a mezzogiorno e conversato intimamente. Ogni giorno la sento più perfetta69; ogni cosa, persino le letture apparentemente più lontane, aumenta il mio attaccamento. Chiacchierato stamattina con Tomasini. Gli consiglio di fare i suoi figli chimici, farmacisti, ecc. Leopardi: né Dio, né la patria; né l’una né l’altra delle grandi consolazioni. L’Italia c’è tuttavia, grande e sublime, ma un’Italia senza speranza. Infelice piccola creatura, così grande nello spirito e così sfavorita, nata nel deserto dell’aristocrazia. Non sospetta nemmeno [l’esistenza del]le sorgenti, le fontane, la terra promessa della fraternità futura. Non ne conosce neppure il nome. AlfieriXIV gli ha inaridito la Francia, che per tanti Europei rappresenta un valore fondamentale ed è un dono di Dio. MontiXV gli ha infamato la Rivoluzione, gli ha indicato in essa il bruciante pandemonium ove si 65 Jean-Pierre Meille (1817-1887) fondò i primi giornali valdesi ed in particolare l’Echo des Vallées Vaudoises. 66 In Nelle nozze della sorella Paolina, vv. 16-17: “O miseri o codardi/ Figliuoli avrai. Miseri eleggi.” In realtà, come si vede, la scelta è suggerita dal poeta. 67 La cosa, che preoccupava il M. (v. 20 giugno), andò in porto il giorno stesso (v. 26 giugno). 68 Cfr. D. BIORCI, I miei trent’anni,Torino, 1859, pp. 166-168: la poesia (Epitre) in francese, retorica e declamatoria, dedicata al M. è ivi riprodotta per intero:“Illustre Professeur, dont les nobles travaux/ des plus hardis auteurs te mettront au niveau,/ avec un oeil perçant, un ton ferme et sévère...”(cortese segnalazione del prof. C. Prosperi). 69 Manuel de Diéguez scrive di Athénaïs: “elle qui fut pourtant l’objet de la dévotion sensuelle la plus dévorante de la part de l’historien flamboyant des délires révolutionnaires”. 85 ode la tartarea tromba [in it.]. È arrivato nudo e privo delle idee vivificatrici del tempo, portando in eredità null’atro che un lenzuolo funebre, una lampada d’alabastro in una tomba… Sviluppa fino in fondo la parola di Brutus che muore senza speranza; la più bella certamente è: Il pensiero dominante [in it.]. Riesumarsi. Singolare impressione quando ci si riesuma, quando ci si rialza da questo sepolcro temporaneo, quando questa forma bianca esce dalla massa informe, informe e oscura, d’aspetto funereo, ma per nulla malevola, al contrario: dolce e simpatica. Mi ha riconciliato con un’idea penosa: la terra, supremo letto di riposo. Ricevuto lettere da Valerio, sig.ra Poux, sig.ra Pappot. Passeggiato ad Acqui con la sig.ra Gallo ed il sig. Mézaise. 25 Domenica Vado ai fanghi troppo presto e ne sono piuttosto scontento. La sig.ra Gallo vuol portare sua figlia a Filadelfia per farle studiare medicina. Il sig. Mézaise ci mostra delle foto di Hugo e della sua famiglia, che mi commuovono assai (il vendicatore!). Iniziato Les Vaudois di Muston70. Scritto a Valerio per ottenere i posti71. Passeggiato con il sig. Mézaise risalendo la Bormida. Facciamo, tutti e tre, un mazzo di fiori di campo per la sig.ra Gallo. 26 lunedì Resto ai fanghi a lungo; mi ci trovo benissimo subito. Quiete singolare, quello che i mistici avrebbero chiamato uno stato d’animo adatto alla preghiera.Avvertii un sentimento di riconoscenza per la materna bontà della natura che si sforza di arrivare a me dal profondo delle cose e di guarire ciò che è frutto della mia volontà mal governata, voglio dire un ardore sconsiderato per il lavoro. Il direttore ci informa che la legge che fa di Acqui un monopolio è passata sabato. Scrivo a Valerio e Brofferio per il sig. Mézaise. Tra uno scritto e l’altro, e senza motivazione, vivo sentimento d’amore per colei che, silenziosa, lavorava accanto a me. Leopardi dedica i suoi primi versi a Monti! (volume III, p. 327). Scrive una leggenda di santi (volume II, p. 185). Loda Gesù Cristo per aver per primo biasimato il mondo, distruttore di virtù. Anch’egli condanna l’uomo civile come uomo mondano. Con tutto ciò non una parola di cattolicesimo, non una di liberazione: né passato, né avvenire! L’Italia sembra essere per lui un sigillo inviolato. La sera, salito con il sig. Mézaise alla chiesetta della montagna72. Già si miete il frumento nei luoghi ben riparati. In lontananza, il tappeto verde delle alture si tinge di giallo. Scritto sull’album della sig.ra Gallo; ricevuto la visita di un anziano soldato dell’esercito d’Italia, il sig. Carazzi, di Acqui73. 70 Alexis Muston (1810-1888), pastore valdese e intellettuale, scrisse “L’ Israël des Alpes. Histoire des Vaudois...”,1851. 71 Probabilmente, gli chiede di prenotargli da Torino il viaggio di ritorno colla posta da Susa a Lanslebourg. 72 Con tutta probabilità, la chiesa di Lussito. 73 Con “esercito d’Italia” allude all’esercito napoleonico; il Regno d’ Italia non comprendeva il Piemonte. Si tratta comunque di un cognome acquese, probabilmente errata trascrizione di Caratti. 86 L’aspetto severo di questi luoghi li investe di un’aura morale.Vi si va solo consapevolmente. Non sono queste [solo] acque nascoste che sono passate sopra strati di minerali e ne trasportano i principi indeboliti; non sono luoghi di giochi, di rovina, di veglia, di indigestioni e di malattie, di intrighi effimeri e vergognosi, senza passione, senza amore (la moglie del generale e il console R. ad Acqui), luoghi impuri ed empi (nulla di più empio che il mancare di rispetto alla terra, questa divinità salvatrice, alla natura). Veri luoghi di riviviscenza, di religione, d’amore. Ricordo delle belle religioni che onorarono il fuoco centrale in queste acque calde o queste sorgenti di fuoco. Guardate il povero Parcès74 che, dal profondo dell’India, ritorna con un così lungo viaggio ai fuochi di Bakou, alle sorgenti di nafta: legittimo riconoscimento del grande operaio interno che ci ha fatto questa terra e la continua nel laboratorio sotterra- neo. L’India vi cerca luce, aiuto per preparare il cibo. Il Cinese, che vive sulla pubblica piazza alla luce del gas ardente (in tale paese, diecimila pozzi salini forniscono sale e cottura del sale, cottura di alimenti, illuminazione); e c’è di più, a volontà, scavano piccoli pozzi di fuoco per cucinare questi alimenti75. Riconoscenza della Persia per il fuoco in generale. Agni76, questo buon compagno di vita, questo fedele amico del focolare, questo Prometeo caritatevole che prepara, trasforma per la nostra debolezza l’alimento della vita, non mi stupisco di vedere, nel Rig Véda, non solo l’uomo, ma la donna tesserne la lode insiemeXVI, dedicargli l’inno che gli è dovuto: dolce alimentatore di vita, caro legatario d’amore! Se si esclude una congestione polmonare all’età di trent’anni, non ero mai stato malato. Ma il 2 Dicembre, dopo la mia Histoire de 9377, fortemente provato, non costretto a letto ma ogni 74 Allude certamente ad un mito della tradizione indù. 75 V. testo e nota 40 dell’articolo seguente “Le terme e il divino....” 76 Agni è una delle più importanti divinità induiste, dio del fuoco, messaggero degli dei, spirito della vita. 77 Si tratta del tomo VI della Histoire de la Révolution, che riguarda gli avvenimenti dal novembre 1792 al marzo 1793. 87 giorno più debole. Contro l’umidità di Nantes, il clima secco di Nervi non era stato sufficiente78. Nella primavera del 54, a Torino, prescritto Acqui. L’asciutto e serio monte Cerrat79. È questa l’Italia? Boschi miseri, la Bormida solitaria: percorso di cascatelle, niente barche. Quel poco di caratteristico della regione è dovuto all’acquedotto romano, che sparirà un giorno. Stabilimento duraturo che esisteva ancora trecento anni fa80 (ma la montagna, il lavorìo…). Lo stabilimento su una riva, la città sull’altra. Città murata (un tempo il vescovo giudice); bel viale di platani solitari e la superba Bollente, abbandonata, limpida; lo stabilimento sulla riva destra e il suo Fontanino d’acqua fredda. Forte odore di zolfo81, boschetti, lucciole alate [sic]. Una salita dietro. Case abbandonate (sull’altro lato il Ravanasco), del tutto solitarie, sgradevoli alla vista: intrighi impuri, effimeri, senza passione, del momento, di pura animalità.A lato, la casa dei poveri. Un tempo netto punto di separazione82. Solo per questo la vita era meno mondana, le sofferenze moralizzate. Non si osava tanto gioire davanti ai poveri e, volenti o nolenti, si era informati della loro miseria. Guariscono molto di più83; quindi la casa è loro, la fonte è loro.Ah! se sulle due rive, ci fosse un anfiteatro84, un centro di fraternità italiana… I bagni sono accessori. Ma l’essenziale è che bisogna entrare nella terra, essere inumati, esumati. Dietro lo stabilimento, uno strano lago85. Sabbie spesse di un grigio nerastro, in cui numerose piccole sorgenti si sforzavano di uscire tutte bulicanti. Molte avrebbero voluto lanciare piccoli getti, ma erano ostacolate, emergendo solo attraverso questa vagliatura. Quel che io vedevo in superficie, accade dappertutto al di sotto. Quando lo stabilimento romano andò distrutto e lo smottamento ricoprì una vasta superficie, tutta la zona ribolliva. Si dovettero soffocare innumerevoli piccole fonti. Le si soffocò per un certo tempo.Tuttavia esse persistono, minano incessantemente i 78 In effetti, il 18 novembre 1853, M., (che da tempo era depresso per gli avvenimenti politici e per la destituzione dal Collège de France), sentendosi sempre più stanco e malato, decide di lasciare Nantes e di svernare a Nervi. Recatosi poi a Torino il 20 aprile, sarà, con tutta probabilità Gioacchino Valerio a consigliargli, dopo un consulto, le terme di Acqui. 79 Questo toponimo, certo di un’altura dei dintorni, potrebbe essere riferito ad una collina coperta di cerri. 80 V. nota al 20 giugno. 81 Infatti la fonte fredda è molto più solforosa. 82 Di questa disposizione logistica dà conto lo Schivardi (cit., pp. 61 sgg.); fu Carlo Alberto nel 1847 a erigere il nuovo Stabilimento dei Poveri. 83 È, questo, un motivo curioso sul quale M. insiste ripetutamente sia qui (v.14 e 20 giugno), sia nella Montagne (cit., p.76). 84 V. all’8 giugno. 85 Non è altro che il lago dei fanghi. 88 NOTE luoghi, non solo preparano futuri smottamenti, ma portano costantemente la montagna verso il basso. 27 Martedì Partenza del sig. Mézaise e della sig.ra Gallo; si portano via i libri. Sudorazioni eccessive, dolore alla coscia sinistra. Temporale abortito. Fatto visita ad Acqui al sig. Biorci, figlio dello storico di Acqui, poeta italo-francese86. Ricevuto visita del direttore, il quale ha prestato le mie Légendes87 alla signora, che le presta al Russo. I giornali annunciano la vittoria dei Turchi a Silistra, prima dell’arrivo degli AngloFrancesi, ritirata dei RussiXVII. Ricevuto La Revue de Bordeaux : articolo su Les Femmes88 del sig.André LavertujonXVIII. 28 Mercoledì Ultimo fango.Tomasini si raccomanda al sig. Cantù89. Compresi i tre momenti del fango: 1° I primi dieci minuti: quiete e beatitudine, l’abbraccio materno della terra. 2° Il quarto d’ora seguente: profondo assorbimento che vi penetra con i suoi spiriti vivificanti; si reagisce senza dubbio, ma senza accorgersene. 86 Allude, con una certa ironica enfasi, ai versi che il Biorci gli aveva dedicato (v. 24 giugno) 87 Sono le Légendes démocratiques du Nord, uscite nel gennaio di quell’anno, che riunivano due precedenti pubblicazioni riguardanti la Polonia, la Russia e i Principati danubiani. 88 Les Femmes de la Révolution, libretto del M. pubblicato in quei mesi. 89 Lo Schivardi (cit., p.27) parla di un prof. Cantù che rettifica le analisi delle acque del Fontanino fatte da Ferrario nel 1841; ma qui potrebbe trattarsi semplicemente di un fanghino di sua fiducia al quale Tomasini affida M. per le ultime applicazioni. I Michelet arriva ad Acqui, cittadina termale situata nei pressi di Alessandria, con l’intenzione, già espressa a Nervi, di farvi bagni di fango. II La Bollente è una fonte bulicante di acqua calda che scaturisce, nella città stessa di Acqui, e che si può ammirare ancora oggi, trasformata in armoniosa fontana. III Si sa che Cavour, nel 1854, è a capo del governo sardo. IV Cesare Rovida, professore di matematica al Liceo di Milano, scrive una lettera a Michelet, annunciando al suo “vicino di tavolo” che gli trasmette un numero de La Bollente, “foglio periodico piemontese, che parla dell’onore che l’illustre Michelet fa in questi giorni alle terme di Acqui, con la sua presenza” (A. 4740, pièce 36). V Michelet legge o rilegge senza dubbio l’Histoire de la Révoultion, pubblicata da Mignet nel 1824. VI Tancrède Mialaret, nato in Luisiana e sistemato dal padre, nel 1840, dai Gesuiti, a Cincinnati. VII Lettera a A. Dumesnil, datata del giorno stesso: Se non vi ho scritto, caro amico, come vi avevo promesso, è perché sono stato come prostrato dal trattamento energico che subisco qui per il doppio effetto delle acque minerali e dei bagni di fango caldo.Tutto ciò è fortificante per l’avvenire, ma per il momento si è sfiniti; si vive in una sorta di sogno. Da quindici giorni non tengo in mano una penna…In effetti è la prima volta, da tantissimi anni, forse dalla mia nascita, che sono veramente inoperoso… VIII Giuseppe Saracco, nato nei pressi di Acqui (1821-1907), avvocato a Torino, dove ha difeso, nel 1849, con Brofferio e Franchini, la causa del generale Ramorino, siede in Parlamento, nelle fila del centro-sinistra. IX VIRGILIO, Georgiche, IV, 366. X Ne La Montagne (I,9), Michelet svilupperà questo canto di gratitudine di cui il Journal del 20 e 21 giugno offre il preludio. XI Nato a Recanati, nelle Marche (1798-1837), Giacomo Leopardi pubblica, nel 1831, i suoi famosi Canti e, nel 1835, due Canti funebri, ai quali pensa forse, in modo più particolare, Michelet. XII Queste bandiere sono le bandiere del Risorgimento. XIII Giovanni-Pietro Meille, pastore valdese, ha da poco fondato a Torino, nel 1852, La Buona Novella, giornale di ispirazione protestante. XIV Vittorio Alfieri, nato ad Asti (1749-1803), che si può considerare il primo poeta italiano di gusto romantico e, a questo titolo, il precursore di Leopardi, è stato educato nella cultura francese (non è forse di madre francese?). Legge i filosofi francesi. È in Francia che fa stampare le sue tragedie. È all’influsso francese che deve quella raffinatezza, quell’eleganza, quella distinzione che non sembrano prive, agli occhi di Michelet, di una certa aridità mondana. XV Vincenzo Monti, nato ad Alfonsine (17541828), poeta epico e drammatico, fu il caposcuola del neo-classicismo. A partire dal 1796, consacra la sua poesia all’ispirazione rivoluzionaria, quindi diviene il protetto di Napoleone, che fa di lui, nel 1806, lo “storiografo del regno”. XVI Michelet si spiegherà meglio ne La Bible de 89 l’Humanité ( I, 2° parte, capitolo V), ove sottolineerà l’importanza del ruolo della donna nella vita religiosa persiana. XVII La Turchia ha dichiarato guerra alla Russia nel novembre 1853; la Francia e l’Inghilterra l’hanno imitata nel marzo 1854. In aprile, i Russi, che hanno passato il Danubio, assediano Silistra. In giugno, lo sbarco del corpo di spedizione francoinglese, la minaccia austriaca e la resistenza turca costringono l’esercito russo a evacuare i principati rumeni. È allora che gli Alleati decidono di portare la guerra in Crimea. XVIII André Lavertujon, nato a Périgueux nel 1827, fa parte dal luglio 1849 al dicembre 1851 del comitato democratico socialista e collabora a diversi giornali parigini. Dopo il colpo di stato del 2 dicembre, viaggia nei principati danubiani. Rientrato in Francia, scrive ne La Gironde, di cui diventa, nel 1855, il capo redattore. In sintonia con Michelet, entra in relazioni epistolari con lui a partire dal 1857. XIX Una lettera indirizzata a Dumesnil il 17 giugno annunciava e spiegava la partenza di Michelet:”Parto di qui il 30 giugno. Mi fermo qualche giorno a Ginevra per gli Archivi e il mio XVIe siècle. Sarò a Parigi molto probabilmente verso il 13 luglio e lì mi ristabilirò definitivamente presso di voi.” 3° L’ultimo: il sudore, che ha già iniziato ad inondarvi, diviene sovrabbondante. Le parti non coperte sono in un vero e proprio bagno di vapore. Fanno dimenticare quelle che sono sotto la terra. Questa terra secca, duttile, pulitissima, in realtà scorre via facilmente con un po’ d’acqua. Uscite splendenti di una luce di giovinezza; gli anni e i dolori sembrano restare sul fondo della vasca. Temporale e tempesta affettiva; dolore alla coscia sinistra, per un poco assai forte. La sera, fatto il giro di Acqui. Perso la visita del sig. Saracco. Ricevuto lettera dalla sig.ra Duclos. Ritornati con una serata bellissima, felici della nostra tempesta passeggera; le lucciole illuminano il giardino. 29 Giovedì Niente più fanghi e ciononostante affaticamento, sogni laboriosi. Grande calore. La sera, visita del sig. Biorci, il mio poeta90. LUGLIO 1° Sabato Partiti da AcquiXIX per Chambéry, con Le Duché, ingegnere francese stabilitosi ad Acqui. Cena dai Valerio. Partiti da Susa alle 10 di sera (dodici cavalli), raggiunta la cima91 alle 4, fatto colazione alle 6 a Lanslebourg. 90 V. 24 e 27 giugno 91 Il valico del Moncenisio, ormai facilmente percorribile in carrozza grazie alla strada napolenica. È interessante notare come il 3 luglio, a Chambéry, M. rievochi in un lungo excursus il passaggio delle Alpi con i toni e le immagini che caratterizzarono tutta la letteratura di viaggio dei secoli precedenti e romantica in particolare; soffermandosi poi a considerare con affettuosa simpatia i costumi e le condizioni economiche e sociali della Liguria e delle regioni alpine che ha appena lasciato. 90 LE TERME DI ACQUI Fanghi e bagni terapeutici, piscine riabilitative e percorsi idrovascolari, cure inalatorie, insufflazioni endotimpaniche, irrigazioni vaginali ed altri presidi della tradizione termale acquese accanto al miglior benessere con fanghi estetici al viso e al corpo, massaggi e dermocosmesi con creme prodotte dalla nostra acqua, linfodrenaggio meccanico e manuale, idromassaggi ed altri moderni trattamenti per soddisfare i bisogni di salute e bellezza di ogni età. Le TERME DI ACQUI, aperte tutto l’anno e con ampia disponibilità d’orario, Vi attendono nei rinnovati Stabilimenti di cure “REGINA” e “NUOVE TERME” attigui ai rispettivi Alberghi qui sopra menzionati. TERME DI ACQUI SpA Piazza Italia n. 1 - 15011 ACQUI TERME (AL) tel. 0144 324390 - fax 0144 356007 e-mail: [email protected] web-site: www.termediacqui.it Le terme e il divino. Allegorie e cultura delle acque dagli antichi a Jules Michelet di Riccardo Brondolo A chi capitasse di lasciarsi andare -durante gli ozi di una vacanza démodée, o tra le more di una cura termale- a considerare le terme come categoria storico-letteraria e -perché no- filosofica, si presenterebbero, facilmente individuabili e sostenute da ricorrenti richiami, due linee di sviluppo. Infatti, sia attraverso l’osservazione degli elementi naturali originari (grotte-acque-fonti), trasfigurati in luoghi di culto e mutatisi via via in manufatti termali, sia secondando un’attenzione semantica al mutarsi della nomenclatura attinente a quei luoghi, alla gestualità, ai riti loro associati, siamo per un verso condotti a seguire la vicenda del concetto vita-morte-resurrezione attraverso l’elemento equoreo dalle civiltà cino-indo-persiane, alle filosofie presocratiche, ai miti classici, al cristianesimo, ai tempi nostri; parallelamente, ma anche in qualche modo all’interno di quell’evoluzione, va delineandosi emblematicamente ai nostri occhi, attraverso le valenze attribuite ai bagni termali e alla loro istituzione, quell’evoluzione dello spirito umano che, dal secolo XVIII al XX, prende i nomi di 92 Illuminismo e di Romanticismo, fino ad estenuarsi nelle fughe verso l’esotismo orientale. In questo senso, il processo sinusoidale della storia, col suo succedersi di periodi sentimentali e razionalistici, trova conferma, e le terme possono così assumere il valore di un’istituzione-topos (certo, una tra le tante!) attraverso la quale, vero simbolo guida, si può seguire lo sviluppo dello spirito e delle vicende dell’uomo. Vediamo di chiarire. Considerata universalmente l’acqua come principale dei quattro elementi, quello che, indispensabile al seme e al suo schiudersi, presiede alla vita in ogni suo stadio, nel mondo occidentale possiamo notare come, al soprannaturale antropomorfo dell’ antichità ad essa collegato (divinità dei fiumi, ninfe delle fonti, eroi divinizzati grazie all’immersione) fece riscontro la riproduzione nostalgica che (come habitus mentale e soprattutto in campo artistico-figurativo) di quell’eredità realizzò il mondo rinascimentale1; ma, dopo il rappel à l’ordre razionalistico dell’Illuminismo, con curiosità ammirata sì per la scienza antica ma con corrosiva ironia per il mito e la superstizione, la sensibilità si biforca: e se da un lato, in campo artistico-figurativo (Winckelmann), si va sostituendo all’antropomorfismo antico una nuova “archeologia della nostalgia”2 che idealizza e racchiude in un rigore assoluto quel patrimonio di forme ed immagini legato alle ninfe e a Nettu- no, assistiamo per contro, a partire dalla metà del Settecento, in una prospettiva più vasta e in ispecie letteraria, alla trasfigurazione romantica della simbologia delle acque. Per cui, mutati e trasmutati i luoghi di richiamo e seduzione dal sud-est classico al nord-ovest del revival celtico e barbarico del Romanticismo (con i torrenti in piena, le brume ossianiche, tra i pozzi e i fiumi di Camelot, le sfuggenti paludi di Avalon e le acque fascinose e perditrici della Lorelei) si giungerà via via, con i grandi poeti dell’Ottocento, ad una contaminazione di simboli classici e romantici, fino a riprendere col Decadentismo, sullo scorcio del secolo, le vie di fuga dell’Oriente; oppure con il culto, proprio dei tempi nostri, dell’acqua come manifestazione prima delle forze della Gran Madre, contemplate visivamente e teorizzate nelle dottrine scientologiche, del New Age, e ossessivamente proposte fin nei loro risvolti deteriori e commerciali. Un sito mediatico annuncia oggi: “Il new age scopre la piscina.Arriva in Italia lo yoga da praticare in acqua”3. In tal modo il cerchio si chiude ed è con una certa tristezza che constatiamo come dalle terme calde di Imera e Segesta, create dalle ninfe per Ercole, dalle Termopili riscaldate dal corpo ardente del mitico eroe, dal bagno tepido di Cencree, da cui traeva ristoro Elena, siamo passati alla fitness della piscina. Ma ogni epoca ha gli dei e le acque che si è guadagnata. 1 Si veda, in proposito ed in ambito locale, il Ninfale d’Idralea, proposto recentemente negli Atti del convegno su Letteratura e Terme, tenutosi in Acqui, a cura di Carlo Prosperi, nel maggio 2004 (Ovada, 2005, p. 85 sgg.). 2 Sono debitore dell’espressione al bel titolo di J. BOARDMAN, Archeologia della nostalgia-Come i greci reinventarono il loro passato, Milano, 2004. 3 www.blubleu.it 93 Acqua e fuoco: ministri di alchimie celesti e naturali Volendo seguire comunque la prima traccia di cui s’è parlato, accenneremo solo per sommi capi alla presenza e alla funzione dell’acqua e del fuoco nelle civiltà primitive, nelle religioni (animismo, panteismo...) e nei sistemi filosofico-religiosi dell’antichità. Basterà, qui, qualche riferimento e qualche immagine. Nel mondo antico, l’azione terapeutica dei due elementi, rivolta sia al corpo sia allo spirito, tende costantemente a farsi simbologia lustrale: l’azione risanatrice e benefica dell’acqua e del calore viene cioè in qualche modo superata dal valore catartico che assume il passaggio attraverso l’acqua ed il fuoco. Nell’antica Cina del Tao, proclama Lao - Tze:“La suprema bontà somiglia all’acqua: con tutti in pace ed a tutti giovevole. Essa dimora in basso, dove l’uomo sdegna stare...”; e ancora: “L’uomo saggio ama l’acqua”. Significativa, nello stesso ambito, anche questa testimonianza-insegnamento di Confucio: un giorno il maestro e i suoi discepoli passeggiavano nei pressi della Gola Lu, che era attraversata da un fiume così turbolento e pieno di rocce, rapide e cascate che nessun pesce o tartaruga poteva nuotarvi.Videro un vecchio nella corrente del fiume, poi lo videro inabissarsi. Confucio inviò i suoi studenti verso valle, affinché tentassero di trarre l’uomo in salvo dal torrente, ma con loro grande sorpresa il vecchio emerse d’un tratto dall’acqua e raggiunse saldamente la riva. Confucio domandò all’anziano gentiluomo come fosse sopravvissuto alla furia del fiume ed egli rispose:“So come calarmi in un vortice discendente e come uscire in un vortice ascendente. Seguo la via dell’acqua e non faccio nulla per oppormi. La sua natura è la mia stessa natura”. Parabola simile ci propone il Budda: un bovaro in autunno fece attraversare il Gange all’armento: prima i tori, poi le vacche e i buoi, quindi i giovenchi, e poi i deboli vitelli; e tutti quanti arrivarono salvi all’altra sponda. V’era poi un tenero vitellino appena nato, e lui pure attraversò le acque e giunse salvo.Anche in questo passo sono evidenti funzioni e simbologia dell’acquafiume: per chi fa la buona scelta di un rischio temporalmente misurabile, e affronta un passaggio difficile, c’è il sicuro approdo ad una dimensione superiore, ultratemporale, eterna.4 Un’immagine sorella troviamo in una tanka giapponese di Otomo Yakamochi: “Sappi che tutto / in questa vita è vano; di monti e fiumi / contempla la bellezza: / là è la vera via”. Del resto, lo 4 In epoca moderna, poi, a nessuno sfugge il significato -pur diversamente simbolico, tra prova fisica e pratica tradizionale- delle nuotate di Mao nello Yang-Tze-Kiang. 94 scintoismo, col suo culto degli antenati, prevedeva riti di purificazione, e una vasca d’acqua per i lavaggi rituali stava avanti il tempio. Nella Persia del primo millennio a C. il culto di Mitra deifica la luce che, accompagnandosi al calore, presiede tramite le acque alla vegetazione e alla crescita; ma nella terra di Zoroastro l’energia creatrice è rappresentata piuttosto dal fuoco, e i templi del Fuoco sono frequenti in quelle regioni. In India invece, nell’India dei Veda, nella rivelazione brahamiana degli Upanishad e nelle formule evocatrici dei Mantra, è invece l’acqua a rappresentare l’elemento di culto fondamentale, soprattutto nei riti di vegetazione e di fertilità. Gli inni-preghiera dei Rig-veda si rivolgono a Indra, il dio della guerra, del tuono e del fuoco, ma anche della pioggia fecondatrice e, come tale, capace di ridare vita agli eroi caduti in battaglia e fecondità alla terra intristita: incontreremo ampia traccia del fascino di queste pratiche religiose, basate sul dualismo morterisurrezione, nell’Occidente contemporaneo e, soprattutto, nella poesia di T. S. Eliot. Sarà in ogni caso illuminante notare come il fuoco e l’acqua continuino nell’India contemporanea a rappresentare la catarsi e il passaggio vita-morte-resurrezione con i riti del rogo dei cadaveri sulle rive del Gange: alle cui acque le ceneri purificate dal fuoco vengono affidate per fare rientrare il defunto nella Pace Ineffabile della Natura rinnovellantesi. Spostandoci ad ovest, e considerando negli stessi secoli le filosofie presocratiche, notiamo come per Talete il nutrimento di tutte le cose è umido. “La terra sta sopra l’acqua”: per cui, l’acqua è il principio che sorregge la terra. Più attento al divenire delle cose, Eraclito nei suoi Aforismi sostiene che “non è possibile discendere due volte nello stesso fiume; per la velocità del movimento, tutto si disperde e si ricompone nuovamente, tutto viene e va”. Per Empedocle la nascita e la fine delle cose si spiega con l’interazione dei quattro elementi; Democrito affina il discorso e assegna al moto vorticoso degli atomi il generarsi e il perire dei mondi; ma Orazio, tra gli ultimi epigoni democritei, a colmare i suoi desideri invoca una fonte d’ acqua perenne, e sacrifica alla fons Bandusiae, presenza divina che vuol garantirsi amica5. Non è difficile, del resto, riscontrare la pregnanza della simbologia delle acque e delle terme nel mondo classico. La personificazione degli elementi naturali era comune nell’Ellade e nella penisola italica: sorgenti, polle e corsi d’acqua, investiti o meno di un riscontro mitologico, ma comunque legati al sostentamento di una comunità, bastavano ad indicare una presenza del divino. “Di conseguenza questi luoghi venivano abitati come minimo da una ninfa ad hoc, se non da un dio”6. Le grotte, le cavità sotterranee percorse dalle acque, propiziano le effusioni amorose, la fecondazione, presiedono alla gestazione e alla nascita come l’alvo materno e, popolate di pesci, ne rac- 5 Non sarà fuor di luogo accennare qui a quell’inno latino alla fecondità che è il Pervigilium Veneris, tutto pervaso dell’umidità generatrice portata dalle “nubi primaverili” alla terra:“La pioggia del Cielo fluì nel grembo alla Sposa ferace/ per fondersi al suo gran corpo e nutrire ogni frutto”. 6 J. BOARDMAN, cit, p. 102. 95 colgono la simbologia di vita che sarà ripresa dal cristianesimo; con il doppio spacco di entrata (morte, inumazione) ed uscita (risurrezione) sono figurazione emblematica (e lo ritroveremo evidenziato in Michelet) del processo di rigenerazione cui s’affidano le venturose credenze dell’uomo. La divinità, la ninfa o il gigante - eroe potevano poi modificare in favore dell’uomo l’idrologia preesistente: è il caso del prosciugato padule di Tempe, del lago di Copaide, di quello d’Averno, delle terme di Imera e di Segesta; e nella fonte Ortigia, fatta sgorgare dalle ninfe presso Siracusa per compiacere Artemide, vivono, significativamente, i pesci sacri.7 Con lo spiritualismo cristiano la funzione lustrale delle acque tende a farsi vieppiù simbolica, passando dal battesimo per immersione del Cristo e dei primi credenti, alla semplice abluzione di parte del capo del bimbo, all’aspersione della bara del defunto quale salvacondotto per la Gerusalemme celeste prima dell’ “In Paradisum deducant te angeli”. È comunque sempre e ben perspicua la funzione dell’acqua benedetta quale lavacro del corpo-materia dalle scorie del peccato e del corruttibile, e parimenti come fecondo mezzo di rigenerazione. In questo senso, esemplare la funzione delle acque che mondano Dante nei riti lustrali del Paradiso terrestre e che al contempo gli consentono il passaggio all’esperienza eccezionale della pace perfetta (si rammenti il parallelismo con la Shantih buddista) dei Cieli, senza dimenticare come poco prima, nel canto XXVI, la più alta voce poe- tica del Medioevo cristiano abbia ripreso dalle Scritture orientali, per il lussurioso Daniello, l’antica funzione purificatrice del fuoco:“Poi s’ascose nel foco che gli affina”. In epoca medioevale fioriscono poi credenze e leggende nell’Europa settentrionale, sulle quali, per intenderci, non è il caso qui di soffermarsi, vista la larga - anche se discutibile - divulgazione e contaminazione che hanno nel tempo nostro, tramite media cinematografici: basterà qui ricordare, per tenerci aderenti al nostro assunto, che la rigenerazione dei valorosi morti in battaglia avviene nelle acque tra le quali appare e si dilegua la mitica Avalon. In epoca moderna, il discorso e le sue figurazioni si fanno più articolati: dalla metà del Settecento le acque termali ed i fanghi si propongono così come sintesi emblematica tra le due Weltanschauung, quella sturmeriana-romantica che richiama le valenze simboliche del fuoco, e quella classica ben rappresentata dalla calma delle acque: la lenta e impercettibile ma infallibile azione di queste, opposta ai vistosi, rumorosi, imprevedibili effetti del fuoco. Nel Goethe del periodo weimariano (1775-85) (che assumiamo come guida a questa sensibilità e a questa visione filosofica), notiamo come, alla creazione artistica tumultuosa, orgiastica e “vulcanica”, ma caotica e imprecisa del periodo sturmeriano, si contrapponga un operare che decanta quei sensi e sentimenti, li riordina procedendo lento, impercettibile, ma con sviluppo sicuro: proprio 7 Sulla funzione pratica delle terme e sulla loro importanza come fatto di costume in Roma, si rimanda ai saggi di F. PIZZIMENTI e di F. BERTINI in Letteratura e terme, a c. di C. Prosperi, cit., p.7 sgg. 96 secondo lo stesso procedere delle acque sotterranee sulla roccia ignea, con un “nettunismo” interiore. Da qui l’invito -costante da allora nelle opere del nostro- a lasciarsi avvolgere e compenetrare dalla serenità impassibile della Natura, ad abbandonarsi, inconsci e fiduciosi, a Lei:“Avvolge l’uomo nell’oscurità ed eternamente lo spinge alla luce. Lo rende soggetto alla terra, tardo e pesante, e sempre lo riscuote... Non le si estorce mai alcun dono che essa non dia volontariamente... Mi ha condotto in questo mondo e me ne farà uscire. Mi affido a lei. Può fare di me quello che vuole. Non odierà l’opera sua...”.8 All’interno di questa concezione, è frequentemente riscontrabile nelle sue opere poetiche come Goethe intenda l’uomo costantemente legato all’acqua: si veda Alla luna: “Questo cuore in fiamme, che tu conosci così mutevole, lo tieni avvinto alla corrente, quando essa, nella desolata notte invernale si gonfia di morte, o nella stupenda vita primaverile sgorga intorno ai virgulti...”. Il richiamo ed il fascino esercitato in lui dalle dottrine orientali si avverte poi nel Canto di Maometto e nel successivo Canto degli spiriti sull’ac- qua: entrambi sono concepiti sullo spunto di un versetto del Corano che afferma: “La nostra vita presente è nient’altro che acqua”. E Goethe conclude: “Anima dell’uomo, come somigli all’acqua!”.9 Anche Novalis, in quegli stessi anni, avverte potente il richiamo delle teosofie orientali: per i Discepoli di Sais la Natura ed i suoi rapporti con l’uomo sono misteriosamente prossimi alla rivelazione a Sais, nell’Oriente ricco e favoloso, sulla terra delle antiche civiltà, presso il simulacro della divinità, di Isis misteriosa: e Giacinto, che desiderava ardentemente attingere l’anima della natura, dopo fatiche e peripezie s’imbatte in una fonte cristallina che tra tanti fiori scorre in una valle: guidato amabilmente da questi e dal rio, giunge alla sacra dimora. Sollevato il velo della dea di Sais il neofita scopre, a seconda delle versioni, la sua sposa o semplicemente se stesso. È anche qui che il destino dell’uomo si compie, con moto che diremmo circolare, attraverso le acque10. Ma la pagina in cui l’eredità dell’antico Oriente è più vivamente percepita, per cui più chiaro appare il significato 8 W.GOETHE (- G.Ch.TOBLER?), Inno alla Natura, capi 17, 27, 30.V. anche, qui, la nota 40. 9 Bisognerà tuttavia notare come la divinità della Natura G. la colga esplicitata nello spettacolo sublime e ineffabile, nell’immane, insondabile e pur tangibilissima potenza e grandezza della montagna: scalato il Brocken, scriverà a Carlotta von Stein che “sull’altare del diavolo[reminiscenza del passo evangelico del Cristo tentato nel deserto e portato sul monte “altum valde”] ho offerto al mio Dio il più caro ringraziamento”. E si veda anche il Saggio sul granito. La stessa propensione troveremo in Michelet, in particolare appunto nell’opera poetico-teosofica La Montagna. Del resto, acqua e fuoco operano e hanno operato nelle viscere del monte, e sono colti come propaggini operative della divinità, di cui l’uomo, saggio o ispirato, si giova. 10 Ricorderemo ancora, tra le tante voci dell’epoca, il canto di Corinna (M.me DE STAËL, Corinna, o l’Italia, XIII, 4°) nelle campagne di Napoli: “Scorgo il lago d’Averno, vulcano spento, le cui onde ispiravano terrore; l’Acheronte e il Flegetonte che una fiamma sotterranea fa ribollire... il fuoco, questa vita divorante che crea il mondo e lo consuma... Un Tritone ha sommerso in queste onde il Troiano temerario che osò sfidare gli dei del mare col suo canto...In mezzo a questi dirupi terribili, antichi testimoni della creazione, si vede una montagna nuova che il vulcano ha fatto sorgere. Qui la terra è tempestosa come il mare...”. Creazione, morte, ed eterno ritorno per acqua e fuoco. 97 simbolico di catarsi e di rigenerazione affidato alle acque, la troviamo nell’età nostra. Nel poemetto The Waste Land (1922) T. S. Eliot presenta la tragica situazione di una civiltà ferita (la nostra), desolata nelle sue rovine, per la quale l’unico rimedio sembra poter sussistere nel richiamo ad un Rito di Vegetazione, già ripreso nella leggenda del Graal dalla tradizione indiana dei Veda. La figura del Re Pescatore (si rammenti: il pesce, simbolo ancestrale della vita, è associato nell’iconografia catacombale al Cristo) è quella di un re ferito, che ha perso la virilità dalla quale dipende la vita e lo sviluppo del suo popolo. Solo con un rito che ne recuperi la fertilità potrà rivegetare anche la sua terra. Con un linguaggio immaginifico, con una secchezza ispirata di parole che procedono per fulminanti accostamenti e citazioni, Eliot si rifà agli Upanishad e ai Mantra attraverso i quali ci si rivolgeva a Indra, per ottenere la grazia, il miracolo della pioggia fecondatrice: ma perché la preghiera venga esaudita occorre il sacrificio, la catarsi, come per noi la croce di Cristo: ecco quindi il richiamo al Sermone del fuoco del Budda, corrispettivo del discorso della Montagna, con l’accettazione del fuoco che brucia il peccato, i beni materiali e che da ardore erotico e fiamma distruggitrice si fa simbolo dell’amore puro. Appare così significativa la citazione dantesca di Arnaud Daniel, del fuoco affinatore, e dell’ardore lussu- rioso di Agostino che si fa amore cristiano. Più oltre, Eliot richiama un altro rito propiziatore di pioggia, per cui tra i popoli orientali perseguitati dalla siccità il fantoccio del Re di maggio, o Spirito della vegetazione, veniva affogato: ed ecco i versi famosi in cui Fleba il fenicio, nella sua Morte per acqua, viene spolpato fino alle ossa dai flutti e dalle correnti sottomarine: destino comune ad ogni uomo per “bello e ben fatto” che sia stato11. Anche qui il parallelismo col sacrificio riparatore del Cristo è evidente. Sono comunque il fuoco e l’acqua, suo contrario, ad assumersi simbolicamente il ruolo vendicatore del peccato e catartico della rigenerazione: questo è del tutto evidente nell’ultima parte del poemetto, Così parlò il tuono. Vediamone qualche passo rivelatore: “Una sorgente / una pozza tra la roccia /...se vi fosse almeno il suono dell’acqua /...sulla roccia / ...sui tumuli smossi /...ossa rinsecchite /...Solo un gallo si ergeva sul colmo del tetto / nel bagliore di un lampo. Poi un’umida folata / portatrice di pioggia /...Ed ecco parlò il tuono...”.Il Gange in secca, le foglie afflosciate, la jungla appiattita in silenzio attendono la rivelazione e la liberazione. E il pescatore può rimettersi sulla proda a pescare, l’incantesimo del male è vinto: è l’acqua, la pioggia che può operare il miracolo della risurrezione, della vita dei pesci nel fiume e degli animali sulla terra, dopo che il lampo, 11 A proposito del Marinaio Fenicio annegato, in una nota al verso 48 l’Eliot ne denuncia la trascrizione dalla Canzone di Ariele nella Tempesta (I, 2, 398 sgg.): lo spirito dell’aria si rivolge a Ferdinando e gli parla del corpo di suo padre creduto morto affogato. Ad evidenziare la sorprendente compresenza nella commedia più ispirata e “magica” di Shakespeare di quanto stiamo via via annotando sulla funzione alchemica dell’ acqua, quale elemento rigeneratore che impreziosisce la materia peritura dell’uomo, riportiamo qui tutto il passo: “Giace tuo padre sotto cinque tese d’acqua / delle sue ossa si van facendo coralli/ son perle ora quelli che già furono i suoi occhi; / nulla è in lui che perir possa / che il mare non lo vada cangiando / in qualcosa di singolare e prezioso”. 98 il fuoco, ha purificato le scorie di una civiltà in rovina; mentre quel gallo sul tetto richiamava drammaticamente il gallo di Pietro, nel momento più oscuro dell’abbandono e della morte. I versi con cui si conclude La terra desolata hanno tutto il sapore, il senso di un Upanishad, di un invito alla pace ineffabile, raggiungibile attraverso l’offerta di sè, la compassione, il controllo delle passioni. Ma il valore simbolico delle acque, che danno morte, purificazione, rigenerazione è il fulcro di tutto il discorso; che giunge ancora, turbatore ed affascinante, fino alle nostre generazioni. Scienza e culto delle acque tra Illuminismo e Romanticismo Abbiamo veduto affollarsi ed aggregarsi finora, sulla traccia della memoria, pensieri ed immagini che hanno accompagnato per tre millenni la vicenda nostra di umani, curiosi e timorosi, fidenti e sospesi di fronte al vario proporsi e mutarsi delle forze e delle opere naturali: ma è proprio quest’ultima pagina col motivo del viaggio verso l’antica sapienza orientale, e, più velato simbolicamente, con quello del viaggio sotteso all’immagine del fiume-corrente, che siamo richiamati a quel secondo filone di indagine, più particolarmente termale, di cui s’era detto all’inizio. Incontriamo, infatti, ben diffuso nella letteratura europea del XVIII e del XIX secolo, il ricorrente tema del Grand Tour, del viaggio (per conoscere e riconoscere prima e per fuggire ed obliare poi) verso l’Italia, la Grecia e l’Oriente. Nelle pagine di questi viaggiatori il tema delle acque si può cogliere più perspicuamente (e con maggiore attinenza per noi) nel suo risvolto termale: e lo si può fare notando, attraverso i giudizi, le sfumature, i valori che va assumendo questo simbolo guida, il diverso procedere ed atteggiarsi dello spirito razionale e sentimentale caratteristico dei due secoli. S’è pensato così, per non appesantire troppo il discorso, di prendere due campioni del gusto e dell’attenzione razionalistica del secolo dei Lumi, uno all’elitario proporsi, l’altro al compiersi dell’Illuminismo in una mentalità ormai diffusa e per certi versi popolare; e di far seguire a questi l’analisi di passi di altri due autori che si collocano grossomodo nella parabola ottocentesca del Romanticismo. Per entrambe le sensibilità e i momenti storici, una voce inglese e una francese, tenuto conto di come il Viaggio in Italia e in Grecia sia stato istituzionalizzato come must aristocratico-borghese soprattutto in queste due nazioni. I due francesi, poi, a diverso titolo e con differenti motivazioni, hanno soggiornato presso le Terme di Acqui. È opportuno notare subito come non sia raro che le due sensibilità, i due secoli “l’un contro l’altro armato”, si intreccino e contraddicano, nelle prove, riprove e riprovazioni cui gli spiriti più profondi sottopongono 99 le loro esperienze: e ancor citiamo, uno per tutti, Goethe, testimone sommo di quella lotta e compenetrazione di ragione e sentimento12. Ma è indubbio che nel secolo del Win- ckelmann l’attenzione è volta principalmente alle terme e ai bagni dell’antichità come monumento e impresa edilizia, più che come luogo di cura; ed è facile constatare come, fra i seguaci di Cartesio e di Voltaire, l’elemento irrazionale, mitologico, fantastico che si associa alle terme venga sì percepito e ricordato, ma ironizzandoci su o addirittura ridicolizzando la credenza e i suoi adepti. E veniamo appunto al primo dei nostri testimoni: nelle Letters from several parts of Europe and the East, pubblicate anonime a Londra nel 1753, ma opera del dr. Maihows, l’autore, dopo aver descritto con dovizia di particolari le Terme di Caracalla e di Diocleziano, si sofferma sul loro approvvigionamento notando come “gli acquedotti dai quali erano alimentate” fossero “in genere opere più imponenti e costose delle terme stesse”13: che è un bell’esempio di attento pragmatismo economico britannico. Più oltre, parlando del lago d’Averno e del “bagno della Sibilla”, il Maihows dopo aver descritto ed esaminato puntigliosamente le proprietà e i “si dice” dei luoghi, aggiunge :“Sia che tutte le storie (stories) riguardanti questi posti siano da ricondurre alla fantasia o a favole, rimane certo che nulla, lì, si presta a supportare quanto di favoloso e romantico abbiamo sentito su di essi”14. Lo stesso interesse puramente documentario riserva alla Piscina Mirabilis di Baia; e la stessa attenzione scientifica, di fronte alla grande abbondanza d’acque presso Frascati e Tivoli, è rivolta all’uso 12 Se nel Viaggio in Italia egli riserba alle Terme di Caracalla e a quelle di Selinunte un’attenzione artistica o scientifica, in ogni caso piuttosto distaccata, si osservi quanto scrive dopo aver visitato Pozzuoli (1 marzo 1787): “Sotto il cielo più puro, il terreno più infido. Rovine d’un’opulenza appena credibile, tristi, maledette. Acque bollenti, zolfo, grotte esalanti vapori... lande deserte e malinconiche, ma alla fine una vegetazione lussureggiante, che si solleva sopra tutte le cose morte, in riva ai laghi e ai ruscelli... Così siamo continuamente palleggiati fra le vicende della natura e della storia. Si vorrebbe meditare, ma non ci sentiamo capaci... Ma fra tanta ebbrezza non ho mancato di fare alcune osservazioni (trad. di E. Zaniboni, Firenze, 1948). 13 Letters..., cit., II, pag. 58. 14 Ivi, pag. 128. Si noti, a questo proposito, come l’aggettivo “romantico” venga qua usato ancora nel suo generico significato di pittoresco, bizzarro; senz’alcuna aderenza al valore che, di lì a pochi anni, andrà assumendo quel termine nella sensibilità e nelle coscienze dell’età nuova. (Cfr. M.PRAZ, La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, 1942, 1966, Introduzione). 100 che si fa di quelle per gli organi idraulici e per i loro effetti scenografici. Appena cinquant’anni dopo, nel clima romantico del primo Ottocento, di quei monumenti si tende invece a trascurare il valore artistico considerato per sè; e, smarrito altresì lo stimolo all’approfondimento scientifico delle loro funzionalità, essi si presentano piuttosto al viaggiatore e sulle sue pagine con il fascino malinconico della poesia delle rovine. Ce lo testimonia Lady Sydney Morgan, una viaggiatrice irlandese liberal che visitò l’ Italia nel 1819, lasciandoci nel suo Italy15 un’affascinante testimonianza del clima del nostro primo Risorgimento oltre che, beninteso, della sensibilità con cui gli stranieri guardavano ai monumenti, alla gente e al paesaggio di questa penisola. Tra le tante sue annotazioni, consideriamo qui quelle riguardanti i luoghi considerati più sopra dal Maihows; vedremo così come l’atteggiamento di una viaggia- trice imbevuta sì del sapere e della dottrina del secolo dei Lumi, venga altresì pervaso dall’ormai diffusa temperie romantica. Eccola aggirarsi rapita nei dintorni di Napoli, Baia, Pozzuoli, da Cuma alle pendici del Vesuvio: con un residuo di interesse culturale non può esimersi, presso il lago d’Averno, di annotare come “i bagni di vapore di San Germano si ritiene siano efficacissimi nella cura dei reumatismi...”16, ribadendo poco più oltre che, presso la Solfatara, si trovano “dei bagni più efficaci di quelli di San Germano, che ci è stato riferito, vengono impiegati con successo nelle affezioni polmonari”; per aggiungere però: “Ma argomenti di ricerca scientifica e di studi d’antiquaria sono tanto estranei al disegno di quest’opera quanto alle conoscenze della sua autrice.Essi trovano ampia trattazione nelle opere degli scienziati o nelle guide di viaggio, dove trovano vasta trattazione: tanto che la ripetizione di quei dettagli sarebbe tanto pretestuosa che superflua.”17 Il suo interesse, la prospettiva da cui si pone sono altri.A colpire il suo sguardo e a commuovere il suo spirito sono piuttosto “...le superbe rovine delle Terme [presso Pozzuoli] e del tempio d’Apollo che... destano le fantasticherie dell’immaginazione”18; e sul cratere del Vesuvio scorge “...la natura solitaria e sublime nel procedere impo- 15 Lady MORGAN, Italy, Colburn, London, 1821, 2 voll. Nelle citazioni che seguono, ci rifacciamo tuttavia alla traduzione francese (L’Italie/ par lady Morgan, Dufart, Paris, 1821, 4 tomi), in quanto accessibile in biblioteche piemontesi. 16 L’Italie, cit., IV, p.174. 17 Ibidem, p.175. E tuttavia non rinuncia a dire la sua; e lo fa secondo canoni spregiosi dell’accademismo settecentesco:“È di moda denigrare l’architettura di Napoli e di fare eco all’osservazione laconica di un moderno viaggiatore francese: “Qui, non un briciolo di buona architettura!”. Ma se l’architettura non è buona, essa è originale, talora pittoresca, talora grottesca, ma mai priva di qualità che agiscano sull’immaginazione, tranne quando le sue pesanti imitazioni si rifanno allo stile greco (Ibidem., p.176). Chiaramente, per lady Sydney il neoclassicismo è ben morto! 18 Ibidem, p.135 101 nente di uno dei suoi più profondi misteri”19. L’aura romantica che sorrade le terme e i templi coinvolge tutto lo scenario naturale, quasi ci trovassimo presi nelle descrizioni di un romanzo gotico alla Radcliffe: “Una delle colline di Posillipo è particolarmente romantica e solitaria. È una costiera coperta di una vegetazione fitta e abbondante, costeggiata da cespugli e arbusti, tappezzata di clematidi e caprifogli, e ombreggiata da grandi olmi e querce maestose: termina di colpo sul bordo di un precipizio, in una piccola radura davanti alla capanna di un eremita, o, perlomeno, alla cella che un eremita avrebbe potuto costruire con le sue stesse mani. Mirti e lauri escono dalle sue crepe e l’edera che la ricopre scende fin sull’ingresso in festoni fantastici. L’interno corrisponde all’aspetto agreste e romantico dell’esterno; i muri umidi sono rischiarati debolmente da una piccola finestra centinata, seminascosta dalla vegetazione. Da quest’apertura appare, al disotto, una scena magica: è la caverna di uno stregone, la grotta di una sibilla, meravigliosa a contemplarsi, impossibile a descriversi... Il punto su cui cade lo sguardo dello spettatore, è rischiarato da lampade sospese alla volta delle rocce; esse gettano sulle mura massicce una luce dorata che cade con effetto ancor più affascinante sui gruppi in movimento che passano con fretta silenziosa attraverso questa galleria sotterranea.Talvolta i raggi scendono sur una processione di monaci che accompagna con torce e crocifisso un cadavere scoperto nella bara; altre volte sul contadino di Pozzuoli vestito a festa che porta panieri al mercato o che conduce muli carichi; altre ancora sulla carrozza inglese o sul calesse napoletano 19 Ibidem, p.150. 20 Ibidem, p.171-172. 102 con i loro numerosi e grotteschi carichi. L’occhio si turba soffermandosi su questo panorama mutevole e magico...20. “Mutevole e Magico”: ecco la cifra della sensibilità romantica. Se le testimonianze del Maihows e della Morgan ci hanno guidato nella ricognizione del cangiarsi del gusto su una traccia “termale” piuttosto distaccata e letteraria, ben più esclusiva e coinvolgente quella traccia emerge dalle notazioni di Jean-Charles Lesne e di Jules Michelet: e si tratta proprio delle terme acquesi. Le prime due erano voci dell’Illuminismo e del Romanticismo nella loro prima stagione; nei due viaggiatori francesi incontriamo invece testimonianza della piena, consapevole, diffusa filosofia dei lumi nel funzionario napoleonico, e del maturo romanticismo, sfuggente verso approdi decadenti, nello storico-poeta. Jean-Charles Lesne, funzionario napoleonico al seguito dell’Armée ed ispettore degli ospedali militari, opera nei dipartimenti di Marengo e di Montenotte tra il 1806 e il 1811. Dell’attenzione particolare che riserva alle terme acquesi, ed in specie ai padiglioni riservati all’Esercito, ci testimonia una sua operetta, recentemente tradotta in italiano21, nella quale possiamo notare diffusamente la cultura ed il metodo illuministici che caratterizzano l’approccio (e il conseguente giudizio) al fenomeno ed all’istituzione termale. L’attenzione del curioso, attento osservatore, e lo scrupolo del savant si notano già nel breve excursus storico in cui rileva come le Aquae Statiellae giocarono fin dall’antichità la loro rinomanza sul doppio registro di richiamo mondano e di solacium per i sofferenti22. I pilastri e gli archi dell’acquedotto sono descritti minuziosamente; accanto all’interesse per l’archeologia idraulica, si fa strada via via, nel prospettarsi dell’intero sito termale, uno scrupolo a definirne sia pure per sommi capi le vicende tettoniche; ed emerge costante l’attenzione dell’enciclopedico per la mineralogia, la botanica, l’entomatologia. Nel considerare i due “laboratori” delle forze naturali, le terme cioè, e la Bollente, sottolinea, riguardo quest’ultima, l’utilità sociale dell’acqua calda per il riscaldamento e gli usi domestici di cui beneficiano i meno abbienti; mentre l’orografia delle pendici del monte Stregone, intorno alla quale aleggiano leggende e favole23, gli offre spunto per palesare il suo atteggiamento scettico e critico sulle credenze del buon tempo antico. Credenze che tenta di sfatare anche a proposito di certe febbri ricorrenti, imputate da alcuni alla stagnazione delle acque della Bormida Atteggiamento questo che non gli impedisce tuttavia di constatare, enfatizzandoli, i portentosi benefici delle acque e dei fanghi, riconducendoli, beninteso, a principi scientificamente definibili; e di sottolineare la grande utilità di un potenziamento delle strutture termali, di cui si potrebbero giovare soprattutto le truppe. Ma l’attenzione del Lesne è anche rivolta alle classi più umili, ai diseredati, ai pezzenti: come a chi è più ligio alle cure e meno corroso dalla vita viziosa e mondana. In questo il nostro funzionario napoleonico è in singolare sintonia con le propensioni civili e umanitarie -cinquant’anni dopo- del suo conterraneo Michelet: la sua filantropia illuministica si spinge anche oltre il mero ambito termale, quando consiglia nuove colture agricole (come quella della canna), il miglioramento delle acque potabili, la realizzazione di fontane e di nuovi viali alberati che contribuirebbero al refrigerio estivo, consigliando per questi ultimi non i romantici tigli, ma i gelsi, fonte di altre preziose utilizzazioni. 21 J.-CH. LESNE, Notice historique et statistique sur la ville d’Acqui, con trad. a fronte, Acqui T., 2004. 22 “È noto l’uso frequente che [i Romani] facevano dei bagni, e le terme che il tempo ha risparmiato ci ricordano il loro lusso in questo genere di stabilimenti così come la loro grandezza. Così le acque termali di Acqui, le cui virtù principali risultano ben evidenti, dovettero ben presto attirare la loro attenzione, e richiamare una folla di gente ricca, voluttuosa o sofferente...” (LESNE, cit., p.48-50). 23 Ad es., a proposito di una casa smottata a valle per “ più di trecento passi” e rimasta intatta, con fondamenta, animali e persone. Ed a proposito del mutato corso della Bormida, aggiunge che “...si tratta di un avvenimento comune, poco interessante e che non ha bisogno di uno sconvolgimento per verificarsi...”(Ibidem, p.104-106). 103 Jules Michelet tra mito e storia Siamo così giunti alla testimonianza che in questa sede ci sta più a cuore: e vedremo via via come il resoconto delle cure acquesi, il diario di quel mese di giugno del 1854, ed infine la trasfigurazione poetica che Jules Michelet fa di quell’esperienza ci confermino l’attitudine nuova, tutta permeata dalla partecipazione sentimentale propria della stagione storico-letteraria24, con cui anche il cimento termale viene vissuto e risentito. Ma l’approccio al personaggio, e il rilievo della sua testimonianza, meriteranno una misura e -come dire- un inquadramento più attenti e circostanziati. Certo, non ci porterà questo a soffermarci, in questa sede, sulla sua vita e a ripercorrere le vicende, colorite o drammatiche, delle sue opere e del suo pensiero: ma occorrerà pure trascegliere, per aderenza al discorso che veniamo concludendo, quelle particolarità, quei momenti di debolezza e quelle contraddizioni del suo porsi ed operare in seno alla storiografia dell’Ottocento, che ne contrassegnano il traboccante empito romantico; e, insomma, quella che il Croce definì, in questo storico, “sublime puerizia del sogno poetico”. Jules Michelet (1798-1874), figlio di un tipografo parigino, si laurea a 21 anni con due tesi, di storia e di filosofia, ma il lavoro manuale nell’imprimerie paterna ne ha segnato profondamente l’adolescenza: lui stesso afferma che “prima di far libri ne ho “composti” materialmente: ho messo insieme delle lettere prima di comporre idee”, e da questa esperienza di lavoro manuale trarrà e conserverà per tutta la vita un “ardent amour pour le peuple”25. Questo cordiale sentimento, che ha certo la sua matrice nell’aura postrivoluzionaria in cui è cresciuto, è altresì alla base del rapporto di odioamore che s’appunta con passionalità da un lato contro la Chiesa e dall’altro verso il Cristianesimo; egli passa, infatti, dall’educazione sentimentale nutrita tra gli inchiostri volteriani e rivoluzionari alla conversione e al battesimo nel 1816, per tornare poi, dopo gli studi storici, ad una posizione anticlericale che assume i toni più roventi negli scritti del 1842-43: I Gesuiti e Il 24 Sono, in Italia, gli anni dei portenti romantico-rivoluzionari cantati dal Carducci. 25 W. MATURI (Interpretazioni del Risorgimento, Torino, 1962, p.481) rammenta il motto del M. per cui “ il vero insegnamento è una forma superiore di amicizia”. 104 prete, la donna, la famiglia. In seguito mantiene tuttavia viva una tenera venerazione per il verbo evangelico, considerando appunto il Cristianesimo, con la Riforma, e la Rivoluzione come le tre tappe fondamentali della Storia. Atteggiamenti che come si nota tengono molto delle reazioni umorali e della percezione sentimentale individuale confrontate con l’esame delle vicende storiche. Questa mutevolezza, questa scarsa propensione alla coerenza delle proprie idee all’interno della ricerca storica la si nota ancora, ed in termini assolutistici, nel giudizio sul Medio Evo, nei confronti del quale aveva nutrito prima del 1842 la stessa affettuosa propensione del Sismondi e, in genere, della storiografia romantica; per farne poi il nemico numero uno, colle prime infatuazioni populistiche e gli entusiasmi socialisteggianti:“Il nemico è il passato, il barbaro Medio Evo, l’a- mico è l’avvenire”. La stessa instabilità di giudizio cogliamo dopo il fallimento della rivoluzione del ’48, che ridimensiona in lui la fede nel popolo, sostituita dal ritorno all’idealizzazione romantica dell’eroe, delle grandi individualità come motore della storia. Del resto l’instabilità dell’uomo, la fragile complessione del suo fisico e del suo temperamento (con i disturbi che spesso ci fanno pensare a reazioni psicosomatiche) si notano nei pesanti effetti che hanno su di lui le avversità: sia quando, sospeso nel 1849 e destituito nel ’51 dall’insegnamento al Collège de France per il troppo aperto appoggio dato alla rivoluzione del ’48, si ammala seriamente26; sia quando, dopo la débacle della Francia della Comune, inizia per lui quel rapido decadimento che in pochi anni lo porterà alla morte27. Abbiamo fin qui insistito sulle debolezze del tessuto propriamente storiografico del nostro, 26 E ci vorranno i fanghi acquesi per “rigenerarlo”. 27 È interessante seguire, a proposito delle critiche appuntabili al Michelet, come reagirono gli storici italiani contemporanei dell’Antologia alla sua filosofia della storia e a quel primato -o ruolo privilegiatoche questi assegna alla Francia nella storia del progresso umano; in ispecie Gabriele Pepe ritiene il suo metodo “basato su astrazioni metafisiche”, inteso a raccogliere i soli fatti accordantisi con teorie preconcepite, e ne critica “la parzialità indiscreta di amor proprio”. Questa ostilità degli storici italiani dell’epoca risorgimentale per lo sciovinismo gallico -tracce del quale, per il vero, troviamo in quegli anni persino nella critica piuttosto stizzosa del pur “milanesissimo” Stendhal al misogallismo dell’Alfieri (v. Roma Napoli Firenze, 2 Aprile)- viene ribadita nella critica di Vincenzo Gioberti alla tesi del primato francese, propria del Guizot e del Michelet, cui questi oppone il “Primato morale e civile degli Italiani”: opera che, a sua volta, parrà al Croce “quasi un delirio” (v. B.CROCE, Storia della storiografia italiana del sec. XIX, Bari, 1947, I, p.145). Gioverà comunque ricordare che lo stesso Croce, citando il Michelet, avverte nel suo metodo qualcosa di malfermo e di fantastico e parla della sua storia come di “battaglie di fantasime” in una “lotta della fatalità con la libertà” (CROCE, cit., p.35); e, in Teoria e storia della storiografia (Bari, 1973, p.253-4) vede nell’ “ideale democratico” del Michelet una di quelle tendenze della storiografia nostalgica “al cui servigio si piegavano i racconti”. Del resto già il TAINE fece notare come M. sia poeta più che storico, e poeta romantico, lirico: e la sua fraseologia, il suo stile, siano emozionali, ispirati; e anche di recente A. LAGARDE e L. MICHARD (XIXe Siècle, Paris, 1967, p.363) puntano il dito sulle sue contraddizioni: per cui, ad una ricerca puntigliosa delle fonti, tien dietro poi un infiammarsi dell’immaginazione che lo porta a procedere talora “à la légère”, a fidarsi troppo del suo istinto; scartando -come già notavano i nostri storici- quelle testimonianze che possano contraddire il suo disegno. Da noi, oggi, le parole meglio riassuntive sul personaggio M. e sulle attenzioni da lui dedicate all’Italia riteniamo di indicarle nello splendido saggio di F.VENTURI “L’Italia fuori d’Italia” (in Storia d’Italia, 3,Torino, 1973. pp. 1209-12 e 1382-86): dopo aver fatto notare che, esaminando i rapporti dell’ Italia con la Francia già all’ epoca di Carlo VIII M. aveva individuato con acume non lo “lo scontro di due nazionalità, ma di una forza politica e militare (la Francia) e d’una civiltà (l’Italia)”(p.1385),Venturi non può però che definire “arcaica la visione storica e politica di M.” nei confronti dell’ Italia:“M. guarda agli italiani come a fossili del mondo classico”(p.1211), accodandosi almeno in parte al Lamartine; per ribadire tuttavia (e non è cosa da poco) che talora troviamo in lui “una delle più straordinarie visioni dell’Italia ottocentesca”(pp. 1384-85). 105 ma lo si è fatto ad arte, per rendere perspicue quell’umoralità e quella cordiale propensione a investirsi dei drammi e delle conquiste del popolo, che meglio lo caratterizzano nel suo tempo; non taceremo certo i suoi meriti di erudito, la sua ricerca puntigliosa di fonti e documenti inediti per le sue grandi Histoires (H. romaine, H. de France, H. de la Révolution), il suo sguardo scrutatore, diremmo a 360 gradi, di tutti gli aspetti economici, politici, sociali e morali (“tout est mêlé a tout”); e ancora la sua simpatia cordiale verso l’argomento trattato a garanzia di un sicuro esercizio storiografico, lo stile colorito e realistico nel rievocare fatti e personaggi, la propensione a riconoscere, nel procedere della storia, accanto al concetto di sviluppo privilegiato dal secolo dei lumi, l’idea nuova di un progresso che porti alla liberazione di tutta l’umanità: tutte qualità che ne fanno sorprendentemente, almeno in una certa misura ed entro certi limiti, un crociano ante litteram: e non a caso, la sua traduzione della Scienza Nuova del Vico (1827) e la lettura di Herder sono le basi su cui nasce la sua filosofia della Storia. Ma è proprio il suo stile palpitante, la sua sensibilità immaginifica, il suo dialogo entusiasmante con i morti che egli fa rivivere sui terreni inesplorati delle Archives Nationales28, quel suo ossessivo intendere la Storia come Resurrezione della vita integrale del passato, per la quale lui stesso si fa apostolo-sciamano e parla di una sorta di operazione “magica”, in cui ammette di non poter essere imparziale “tra il male ed il bene”; e poi quel suo irriflessivo e generoso mescolarsi alle lotte politiche, quel suo alternare e sostituire al rigore della ricerca storica certa idealizzazione delle Scienze Naturali29 e certe fughe nei territori onirici delle teosofie orientaleggianti, già intrise di decadentismo: son tutte queste qualità e disposizioni che, se da un lato gli consentono di vedere, con dono e maestria divinatori, cose che non s’erano svelate ad altri e di saperle rendere con potenza magica d’eloquio, d’altro canto gli fan perdere serenità di giudizio e ne impoveriscono le qualità critiche necessarie al vero storico. Ed è proprio in questa sensibilità composita e contraddittoria dell’uomo e dello studioso, in queste aperture all’irrazionale, accostato in uno strambo partenariato alla scienza, che si colloca e prende luce l’esperienza termale acquese di Michelet nel 1854. Michelet ad Acqui: la prosa poetica di un diario “Tale fu la Terra per me nella sua bontà d’Acqui, tale la vidi salire in forma di vapore e di liquido attraverso il divino fango che mi salvò...” Cosi Michelet ne La Montagne30. Gli replica Flaubert, appena letta l’opera, nel marzo del 1868: “Jamais, je crois, je n’ai lu quelque chose qui m’ait pénétré plus profondé- 28 M. scriverà in La Montagna (trad. it. di C. Gazzelli, Genova, 2001, p. 79-80): ”I morti, con cui avevo parlato così a lungo, mi attiravano verso di loro...”. 29 Si vedano, in proposito, le prose poetiche, pervase di una religiosità naturalistica de L’Insetto, L’Uccello, Il Mare, La Montagna: opere profondamente influenzate dalla seconda moglie, la giovanissima Athénaïs, da lui sposata nel 1849. 30 V. La Montagna, cit., pag. 81. 106 ment que les Bains d’Acqui”31. In queste due citazioni cogliamo a volo quale rilievo ebbia avuto per il nostro quel mese trascorso nella cittadina termale, il Giugno del 1854. Dopo le disavventure personali, susseguitesi all’odioso avvento di Napoleone III, con la destituzione dal Collège de France e una profonda crisi depressiva, una malattia almeno in parte psicosomatica mina la salute di Michelet: nell’autunno del 1853 fugge le brume di Nantes e decide di passare l’inverno a Nervi, “compagno del ramarro su quell’arida costa”; ma né la dolcezza del clima né l’amenità del paesaggio riescono a scuoterlo dal profondo languore cui s’andava abbandonando. Un medico amico, forse Gioacchino Valerio di Torino, nella primavera successiva, gli consiglia le terme di Acqui come rimedio estremo. Se dobbiamo credere a quanto scriverà anni dopo, i medici, quasi avessero funzione di oracolo, sentenziano con eloquio ispirato: “Rientri in seno alla terra. Inumato nella terra che brucia, rivivrà”. E il grande malato aggiunge: “Il luogo funebre e salutare, in cui si viene sepolti, è Acqui nel Monferrato”. La grande allegoria della malattia morte/apparente – rigenerazione - resurrezione, che il Michelet celebra quale attore e spettatore ad un tempo sul sito termale acquese, verrà celebrata, con un linguaggio ispirato ed immaginifico, in un capitoletto di quella sorta di poema in prosa, tra diario di viaggio e celebrazione filoso- Il ponte Carlo Alberto nel 1862. fico-poetica della Natura, che è La Montagne32: opera già tradotta in italiano, con una bella prefazione di Rigoni Stern, pochi anni addietro; ma a noi piace seguire quel moderno Pilgrim Progress sulle tracce delle pagine molto più numerose, ricche ed immediate degli appunti raccolti dal nostro in quell’occasione33: ed è anche per questo che se n’è prodotta, qui avanti, la prima traduzione italiana annotata. Sono spesso, a dire il vero, parole in libertà, da cui l’autore poté poi cogliere e sviluppare allusioni e rimandi. Un procedere per anacoluti, fitto di ripetizioni, di cesure, in cui si passa da brani di raffinato abbandono poetico, a suggestioni fulminee, a tratti prosastici, a brevi accenni di cronaca familiare, a riferimenti talora criptici e insondabili: ma proprio in questo procedere estemporaneo sta la freschezza e la ricchezza singolare della testi- 31 Lettera da Parigi, un mercoledì del febbraio-marzo 1868. 32 V. nota 28. 33 Si tratta di Le Journal de Michelet, pubblicato postumo dalla moglie nel 1888: l’opera vide però la prima edizione integrale in 4 voll. a c. di P.Viallaneix, poi di P. Digeon, a Parigi, tra il 1959 e il 1976. Il testo che riguarda il soggiorno acquese (II tomo, 1962), è compreso tra il 5 giugno e il 1°luglio 1854. Dell’argomento s’è interessata per sommi capi ERIKA DENICOLAI in una tesi (Jules Michelet ad Acqui Terme, pp. 34, Università di Pavia, Fac. di Lettere, corso di laurea in Lingue Moderne) discussa nell’anno accademico 2003-04. 107 monianza. È chiaro che ci troviamo di fronte ad un personaggio in cui una certa fragilità psicologica è venata talora da sbalzi da psicopatico34: ma tale è la sottile follia del genio, e, in questo caso, del genio romantico. Ad una prima lettura, distaccata e piuttosto superficiale, saltano all’occhio motivi eterogenei; tra questi, la convinzione e la militanza politica socialistica, ispirata chiaramente alle dottrine del Saint-Simon e del Proudhon ed in genere alla sensibilità umanitaria così diffusa nella gauche del tempo. Così (7.VI.1854) annota: “Percepii chiaramente ciò che potrebbero essere dei bagni veramente popolari”;“Possa Acqui divenire... uno dei grandi centri della fraternità italiana”(8.VI); “la Bollente...potrebbe essere un vero tempio di carità” (ivi); “ci vorrebbero delle borse di soggiorno per ogni regione d’Italia”(12.VI); “Se questo luogo è unico sul globo terrestre... come osare farne un monopolio?”(20.I); “Qualunque ne sarà il risultato, mi rallegrerò sempre di aver rivendicato [queste cure] per i poveri, per tutti”. Questo motivo diventa addirittura ossessivo quando Michelet insiste, facendoci sorridere, sul fatto che le cure spettano prima di tutto ai poveri in quanto “c’erano molte più guarigioni tra i poveri che tra i ricchi”(14.VI); per abbandonarsi poi ad un veemente argomentare contro la vita mondana alle terme, contro i clienti abbienti: i quali però non osavano, qui, “gioire davanti ai poveri [i quali, peraltro] guariscono molto di più; quindi la casa è loro, la fonte è loro”(26.VI). Ed un brivido di cristiana pietà si fa subito denuncia sociale di fronte alla ragazzina funambola “caduta da una corda che saliva al campanile di Acqui”(18.VI)35. L’attenzione alle miserie umane è anche spesso alla base dei suoi interessi letterari: così, la vita e il pensiero del Leopardi, che legge qui per la prima volta, destano in lui sincera Veduta di Acqui a metà ’800 commozione . E se la concezione materialistica del Leopardi non può non contrastare con il suo fondamentale idealismo: “...Leopardi, l’amante appassionato della morte. Grande poeta. Influenza morbosa? Insegnateci piuttosto la resurrezione”(22.VI), subito dopo aggiunge: “Tuttavia da questa cenere (1836) dovettero sortire sforzi disperati: L’Italia [...]vi ha trovato una forza di azione”(ivi). La citazione di quella data 1836- è rivelatrice: è la data della Ginestra, il canto in cui il recanatese sviluppa liricamente la concezione per cui l’umanità, solo dopo aver rinuncia36 34 Il 6 giugno, appena giunto ad Acqui, si sente “malato... e felice”; il 13 annota: “Forza e salute decisamente migliorate, sembra: cosa di cui approfittai... Meglio nel fisico e meglio nel cuore.”. Sensibilissimo agli umori della moglie e alla meteorologia, ne subisce gli influssi: v. il 28 giugno: “Temporale e tempesta affettiva; dolore alla coscia sinistra... Ritornati con una serata bellissima, felici della nostra tempesta passeggera”. 35 In La Montagna (cit., p. 76), dopo aver ribadito che i poveri “guariscono prima e in maggior numero che non i malati ricchi” a causa del loro regime di vita sobrio e regolare, afferma: “Guariscono: questa parola mi colpiva. È qualcosa che dà loro un autentico diritto: l’acqua, la sorgente, è loro”. 36 V. alle date 22, 23, 24, 26.VI. 108 to alla speranza nella Metafisica, e dalle ceneri di questa desolata rinuncia, richiamate da quelle del Vesuvio, potrà superare gli odi e perseguire una nuova fraternità universale. Toccare il fondo, quindi, per risorgere: abbiamo visto, e vedremo, come si tratti di un tema caro al nostro; ma del pessimismo leopardiano Michelet darà una spiegazione piuttosto curiosa, attribuendolo anche alle cattive letture degli scrittori italiani contemporanei: “Alfieri gli ha inaridito la Francia, che per tanti europei rappresenta un valore fondamentale ed è un dono di Dio37. Monti gli ha infamato la Rivoluzione...” tanto che “è arrivato nudo e privo delle idee vivificatrici del tempo”(24.VI). L’attenzione del visitatore non trascura poi la cronaca acquese ed in particolare i lavori per la ferrovia, uno dei mostri sacri dell’età carducciana e delle “magnifiche sorti e progressive” (12 e 23.VI). Così come la cultura e le conoscenze scientifiche, esigenza ineludibile del secolo, lo portano a sforzarsi di rendere in qualche modo concepibile il sublime che s’annida nelle viscere del monte e vapora dall’intero sito. Lo vediamo così intento ad informarsi con il direttore della composizione delle acque, dei fanghi, della struttura delle Terme e della loro storia (8.VI); eccolo tutto preso ad analizzare, con un’attenzione naturalistica che ricorda i lavori scientifici di Goethe, la composizione e l’azione del “fango raro” di Acqui (20.VI), mescolando, come il grande tedesco, scienza, filosofia e poesia; ed ancora a riferire, con puntigliosa memoria, le progressive immersioni nel fango (22, 23, 24.VI), per riassumerne infine (28.VI), fattane esperienza diretta, le tre fasi operative e benefiche: “Compresi i tre momenti del fango... i primi dieci minuti... il quarto d’ora seguente... l’ultimo: il sudore... Uscite splendenti di una luce di giovinezza: gli anni e i dolori sembrano restare sul fondo della vasca”. All’ interno di questa propensione vanno infine considerate le conversazioni col dottor Granetti sulle cure omeopatiche:“Più la dose è leggera, più ci si allontana dalla materia e più l’azione è efficace” (14.VI): e verrebbe davvero da chiedersi con Luisella Battaglia se “anziché leggere il Michelet naturalista come un tardo epigono del romanticismo ottocentesco, non sia possibile vedere nella sua opera la prefigurazione di questioni che sono oggi di pertinenza della bioetica”38. Ma queste sono questioni accessorie. Ad una lettura più raccolta, ad un esame più attento e approfondito, tutto il Diario si rivela permeato dalla sensibilità e dalle forme del pieno, maturo romanticismo. Si vedano queste descrizioni di una passeggiata serale lungo il bosco che costeggia la Bormida, in cui il paesaggio e lo stato d’animo paiono influenzarsi vicendevolmente: “La profonda solitudine mi faceva credere di essere sulle rive di un fiume dell’America interna... bella e dolce serata, armonica e in così grande armonia di cuore. Alcune greggi, alcuni bambini intenti a sorvegliarle, erano i soli esseri viventi” (8.VI); “Triste e brutta serata: la mia amata si annoia. Carattere selvaggio degli armenti; un piccolo bue dà una cornata a un cavallo”(11.VI). La trasposizione è in certi casi anche più esplicita “L’aspetto severo di questi luoghi li 37 Cfr. nota 27: si notino le stesse argomentazioni in Stendhal. 38 L. BATTAGLIA, introd. a: J. Michelet, La Montagna, cit., p. 23. 109 investe di un’aura morale”(26.VI). In questo contesto, la fortuita presenza nel paesaggio di un elemento che richiama un topos del sentire romantico, la poesia delle rovine, col suo corteggio di meditazioni sulla caducità delle cose umane a contrasto con le imperiture forze della Natura, s’inserisce con drammatica pertinenza: “La Bormida non è priva di grazia: le sue rive di una fresca verzura. Un raggio pallido e delicato di sole al tramonto dorava leggermente le scure rovine nere dell’ antico acquedotto romano”(6.VI);“Il solo effetto del paesaggio sta nelle rovine romane... [ed] è tanto più grande quanto più si avverte che esse scompariranno”(8.VI); “La Bormida solitaria... quel poco di caratteristico della regione è dovuto all’acquedotto romano che sparirà un giorno”(26.VI). Lo spleen romantico si carica di tratti impressionistici quando, la vigilia del Corpus Domini, “dalle rovine romane vedemmo le confraternite nel loro strano costume sfilare rapide e noncuranti, a passo di carica, sul ponte”39 al seguito di un funerale. Ed anche le descrizioni della “negletta Cattedrale” e della “superba Bollente abbandonata” rientrano in questo gusto melanconico del perituro, percepibile un po’ ovunque nell’Italia, “terra dei morti”. Un profondo spirito religioso (beninteso: di una religiosità naturale, animi- stica), del resto, presiede ad ogni pagina. Dopo aver meditato sulla metempsicosi, sulle “piccole anime della natura defunte”, risalendo la Bormida coll’amata si sprofonda nelle “armonie religiose della sera”(10.VI); dopo essersi arrampicato su “sommità selvagge e boscose” ne ridiscende in uno stato d’animo religioso, felice e malinconico”(16.VI); e meditando sulla sua esperienza termale si chiede “Gli Antichi hanno avuto torto a considerare tali luoghi sacri? Lo sono, senza dubbio. Sono le vie tramite cui la vita materna della terra comunica ancora con i suoi figli... Gli Antichi ebbero torto ad adorarvi una ninfa locale: noi vi veneriamo la ninfa universale, l’amorosa Provvidenza... che sembra salire verso di noi a benedirci e rianimarci”(20.VI)40. Siamo immersi, quindi, in “quello che i mistici avrebbero chiamato uno stato d’animo adatto alla preghiera...”, in questi luoghi pieni “di religione”, nei quali il fuoco gioca un ruolo concomitante a quello dell’acqua:“Ricordo delle belle religioni che onorarono il fuoco centrale in queste acque calde o in queste sorgenti di fuoco” (26.VI). E c’è da chiedersi a qual punto avrebbe condotto l’accesa fantasia di Michelet la vista della fiamma che brucia in continuazione tra le rocce di Pietramala, sull’Appennino bolognese: quella così suggestivamente descritta qualche decennio prima da Stendhal41. 39 Si confronti questo passo con la descrizione della grotta dell’eremita, nell’Italy della Morgan (v. nota 20). 40 C’è una rispondenza singolare tra i pensieri e financo le espressioni di Michelet a questo riguardo e gli scritti di Goethe del periodo weimariano, quando, senza nulla perdere dell’esperienza romantica, questi la integra con studi di carattere scientifico-filosofico. L’analisi chimica del “rarissimo” fango acquese, l’abbandono alla Natura come ad una “buona madre” , i bagni percepiti come esperienza religiosa, sia nel Diario che nella Montagna trovano frequenti riscontri nell’ Inno alla Natura, nel Saggio sul granito, in Viaggio invernale nell’Harz, nello Studio su Spinoza. Citeremo qui un solo esempio, in cui si insiste sulla liceità di un abbandono fiducioso alla Natura: “Mi affido a lei. Può far di me quello che vuole. Non odierà l’opera sua”(Goethe, Inno alla Natura).“Cara madre comune! Da te vengo, a te ritorno... Siamo in buone mani” (M., La Montagna). “Questa massa informe, informe ed oscura, ma per nulla malevola, anzi, dolce e affettuosa (M., Diario). 41 Stendhal, Roma..., cit., 19 gennaio. Del suo rapporto religioso con le forze e gli elementi naturali M. dà più organica, letteraria immagine nelle ispirate pagine della Montagna (v. le pp. 77,79 e 80 dell’ed. cit.). 110 È all’interno di questo clima ispirato e religioso che riemerge, leit motiv insistente e celebrato in varie figurazioni, il tema antico della rigenerazione attraverso l’affondamento nelle acque e nel fango che abbiamo seguito fin qui dalle sue tracce più antiche. E di quell’archeologia ritroviamo forme e figure che hanno patente riscontro nella realtà attuale. Nelle note del 21 Giugno, il fanghino che lo ha curato è visto da Michelet come un “vero scultore di tipo egizio”: figurazione in cui si colgono, chiaramente allusi, i traslati vasca-sarcofago, fango-imbalsamatura, corpo-mummia: elementi tutti che dispiegano una lotta vincente contro il tempo e la morte. Alla stessa simbologia accenna subito oltre: “Questa bara di marmo è come una culla per un malato, un giaciglio in cui inumarsi allo scopo di vivere. La tomba, la bara, la terra gettata su di voi, tutto ciò non ha nulla di triste. È una tomba piena di speranza”. Esplicitamente il 24 scrive:“Riesumarsi. Singolare impressione quando ci si riesuma, quando ci si rialza da questo sepolcro temporaneo”. E di “esumazione” parla anche il 26: dopo aver definito la terra “questa divinità salvatrice”, si rivolge alle terme acquesi dalle quali sta per congedarsi come a “veri luoghi di riviviscenza, di religione, d’amore.” Del resto, fin dall’inizio, la cura termale richiamava, nello stanco e malato scrittore, le forme arcaiche di un rito da accettare e subire con fidente speranza: il 19 leggiamo:“Per la prima volta scendo al mattino, per subire il seppellimento nei fanghi fino a tutta la coscia”. E il 22, dopo aver letto Leopardi, si rammarica che questi non abbia intra- visto, magari attraverso le alchimie termali, la via di una “resurrezione”. Una resurrezione, si badi, cui si giunge per gradi, attraverso un processo rigenerativo progressivo, corrispondente e parallelo al lavorio lento e Gli archi romani come li vede il Michelet. misterioso delle sostanze contenute nei fanghi e nelle acque: “A destra i fanghi salivano fino al fegato. Benessere assoluto; una sorta di abbraccio materno della natura che avvolge e riscalda il suo figlio ferito”(20.VI). Si conclude così, con l’alta poesia di Eliot e la preziosa testimonianza che abbiamo sott’occhio, il percorso di una credenza e di un mito: che, giunto secondo un procedere spaziale dall’oriente ai nostri lidi occidentali42, e cresciuto nel tempo col suo fantasioso emergere dalla preistoria fino alle esplicazioni scientifiche dell’età nostra, non ha perso nulla, cammin facendo, del suo fascino consolatorio e curativo e della potenza arcana che gli deriva dall’esser parte del “sotterraneo laboratorio della grande madre universale”. 42 D.H.LAWRENCE, Viaggio in Italia, trad. it., Roma, 1984, p.137:“Quando si viaggia... si deve puntare all’ovest...il pensiero di camminare verso ovest è esaltante... È come se i due poli magnetici del nostro spirito fossero situati a sud-ovest e a nord-est, con il polo positivo a sud-ovest, sotto il tramonto”. 111 Jules Michelet ad Acqui. La simbologia del fango di Pierpaolo Pracca e Francesca Lagomarsini Nel libro La Montagna, recentemente tradotto in italiano, dalla casa editrice Il Melangolo, lo storico e naturalista francese J. Michelet, in un paragrafo intitolato Acqui, La Bollente celebra le virtù taumaturgiche dei fanghi acquesi, grazie ai quali ritrova la salute dopo un periodo di malattia. Quest’opera, al pari degli altri libri di Michelet pubblicati a partire dal 1856 (L’uccello, L’insetto, Il mare), è annoverabile tra i libri di viaggio ed è un’allegoria del rapporto uomo/natura. Nel paragrafo citato, Michelet accenna alla malattia che nel 1853, durante un soggiorno italiano, a Nervi, lo costrinse a beneficiare di una vacanza ed in particolare di una cura a base di fanghi ad Acqui Terme, città che lo storico definisce (…) luogo funebre e salutare in cui si viene sepolti (…), situata in una (…) piccola regione antica e selvaggia (…). Acqui diventa pretesto per la descrizione e l’esaltazione delle proprietà chimiche e fisiche della sua terra, enormi proprietà terapeutiche, alle quali lo storico si affida su consiglio dei medici: (…) La sentenza fu questa: “Rientri in seno alla terra. Inumato nella terra che brucia rivivrà” (…). 112 Il soggiorno acquese rappresenterà per Michelet l’abbraccio con la Terra che significherà anche contemplazione delle acque, dei fiumi presenti sul territorio (la Bormida) ma soprattutto della fonte della Bollente. Michelet compie una ricostruzione storica dell’utilizzo della celebre fonte e, dopo essersi soffermato sulla descrizione del complesso termale, allora diretto dal Cav. Garrone, si dedica alla riflessione sulla cura del fango sviscerandone, oltre gli aspetti medici, anche quelli più psicologici e simbolici. Lo storico/naturalista svela l’affascinante mistero del sottosuolo delle colline intorno alla Bormida, percorse in profondità da acque calde termali; Michelet esprime la suggestiva sensazione che le innumerevoli sorgenti sotterranee conferiscano una fervida vitalità al terreno: (…) sulle colline, dappertutto, si ha la sensazione che qualcuno, mal sepolto, si agiti, sussulti sotto i nostri piedi (…). Sarà la cura dei fanghi, in voga nell’Europa del tempo, a rappresentare la possibilità di un contatto intimo e profondo con la terra. Il personaggio che, come Caronte, traghetta lo scrittore verso gli inferi dei fanghi acquesi, è il signor Tomasini, uomo colto (aveva studiato filosofia) e fangarolo per tradizione familiare, la cui abilità colpisce piacevolmente Michelet e che infittisce, con il racconto della sua vita, l’alone magico che avvolge il rituale della graduale sepoltura. Essere sepolti nel fango dell’acqua termale diventa, così, l’essere risucchiati, uno sparire che ricalca il rito funebre conducendo alle profondità del mondo sotterraneo in una sorta di ripiegamento su se stessi che riporta l’uomo ad uno stadio fetale. Michelet si spinge, poi, alla descrizione delle sensazioni che questo ritorno alla Terra scatena nel suo animo tra cui, soprattutto, il pacificarsi della mente che diventa in grado di esaminare se stessa ed il legame tra vita e morte. Da questo meta-pensiero si passa poi all’oblio delle idee, in una dolce, soffusa dimenticanza che conduce alla completa identificazione con la terra con la quale si stabilisce, secondo l’autore, uno scambio di natura: (…) io ero la terra e la terra era uomo. Essa aveva preso su di sé la mia infermità, il mio peccato; io, diventando terra, ne avevo preso la vita, calore, giovinezza (…). Michelet appare come ispirato narratore della terra e al pari di W. Blake, che parlò di argilla materna (The matern cloy) ed H.Thoreau, che in Civil disobedience, definì la palude il midollo della terra, propone di venerare il fango in quanto summa di proprietà 113 curative e sintesi alchemica degli elementi (terra, acqua, fuoco, aria). Per Michelet il fango è la materia che tra tutte merita di essere valorizzata. Esso è l’espressione più genuina della fecondità. Dai bagni limacciosi di Acqui, egli trae ispirazione per riflessioni che esulano dalle semplici considerazioni mediche fino a spaziare in ambiti che potremmo definire mitico/simbolici. Michelet descrive un senso di sicurezza nell’immergersi nella mota agitata dalle bolle. Il calore, l’avviluppamento nel fango diventano un’occasione di riflessione filosofico/esistenziale. Di fronte al limo nero di Acqui, Michelet celebra con spirito romantico il ritorno alla madre terra anelando il raggiungimento di una sacra unità con il cosmo. Il fango esprime, così, il connubio sostanziale della terra e dell’acqua; per Michelet il contatto con il limo ci aiuta a partecipare alle forze vegetanti e rigeneratrici della terra: (…) questa terra la sentivo molto carezzevole e compassionevole mentre riscaldava il suo piccolo ferito (…) penetrava infatti con i suoi spiriti vivificanti, entrava dentro di me e si mescolava in me, insinuava dentro di me la sua anima (….). È evidente l’identificazione profonda dell’autore con la terra, che diventa completa al punto che si avverte una totale caduta dei confini tra l’io ed il mondo: (…) non mi riusciva più a distinguermi da lei. All’ultimo quello che di me rimaneva scoperto, quello che lei non copriva, il viso, lo sentivo importuno. Il corpo sepolto era felice, ed io ero io. Talmente forte era il connubio, fra me e la terra! (…) Da questo scambio e contatto profondo Michelet afferma di avere recuperato salute, giovinezza e vita. È plausibile ritenere che lo storico francese, in queste riflessioni sul rituale del fango, abbia voluto fare riferimento all’antico rituale dell’incubazione1 dove il fedele o il malato veniva fatto distendere a terra, per sfruttarne le energie vitali ed i poteri curativi. Michelet ricerca la fusione con la natura assecondando il desiderio di sfuggire alla situazione particolare e di reintegrarsi con il cosmo attraverso un processo di spersonalizzazione. Nei frequenti bagni di fango, egli matura la convinzione, che la terra lo possa conoscere nel senso cosmico, carnale della parola fino ad arrivare ad una fusione totale con l’elemento materiale. Il contatto tra il corpo e il fango caldo produce il dipanamento di una 1 L’incubazione svolse un ruolo importante nel culto di Asclepio dove oltre all’esposizione alla terriera aggiunta quella al sole ed alle fonti d’acqua. 114 forza misteriosa, che si esprime attraverso un venir meno della propria individualità. Si tratta di una morte temporanea in cui il morire presuppone una resurrezione: in questo caso morte e resurrezione sono il risultato dell’abbandonarsi alla natura con il conseguente sentirsi assimilato ad un tutto dal cui contatto può scaturire una nuova conoscenza. Attraverso questo rito metamorfico l’autore esprime una tensione tipicamente romantica, che consiste nel desiderio di superare lo iato tra sé e il cosmo2. Il ribollire senza posa del fango è per Michelet la voce della physis, simbolo di un’eternità vivente nella quale può essere scorta la dialettica materiale della vita e della morte, laddove la morte scaturisce dalla vita e viceversa. Immergersi nel fango bollente di Acqui non significa solo curare la malattia fisica, ma scoprire la lentezza sospesa ed addormentata della terra 2 che pare poter divenire eterna. L’immersione nel fango delle terme significa estinguere la separazione tra l’io ed il mondo e fare così ritorno al seno di una madre non più matrigna ma finalmente materna ed accogliente: (…) La Natura, dimenticata per l’accanito lavoro che così ciecamente eludeva la felicità, non era troppo in collera con me. Con infinita dolcezza mi aveva riaperto le braccia e mi aspettava… Possa io esserne degno, attingere alle sue correnti e con animo più fecondo, entrare a far parte della sua santa unità! (…) Bibliografia: J. MICHELET La Montagna, Il Melangolo, Genova 2005. Si ricordino gli scritti di Hölderlin su Empedocle. 115 Abbasso il re: un anarchico a Morsasco di Ennio e Giovanni Rapetti Maggio 1898. Manifestazione a Milano. 116 Gli archivi storici sono l’anima di ogni Comunità. Essi non sono un insieme di vecchia carta polverosa. Sono vivi ed hanno continuamente qualcosa da raccontarci. Sono inesauribili. Gli archivi ci raccontano di uomini, di donne, di carestie, d’inondazioni, di fame, ma il loro vero fascino trae origine dalla peculiarità che hanno solo gli archivi delle piccole comunità: quella di parlare di gente comune. Nei libri di storia e negli Archivi di Stato esistono i nomi dei potenti, di coloro che hanno dominato la storia, non sempre quelli della gente comune, mentre gli archivi delle piccole comunità conservano i nomi di tutti, quindi anche di chi non solo non ha fatto la storia, ma anche e soprattutto di chi ha “subito” le decisioni dei potenti. Noi vorremmo, nei nostri studi, dedicarci soprattutto a loro, alla gente nata, vissuta, morta senza apparentemente lasciare traccia. Re Umberto I Tra le tante “Storie di gente comune” che abbiamo incontrato nel corso dei nostri studi ci ha molto incuriosita quella di Clemente Armano, morsaschese coinvolto in uno dei fatti più gravi dell’inizio del secolo scorso: il regicidio di Umberto I. La storia di Clemente Armano l’abbiamo incontrata casualmente, sfogliando un antico giornale edito nella nostra città “La Gazzetta d’Acqui”, conservato nella Biblioteca d’Acqui, la “Fabbrica dei libri”. Leggiamo, infatti, sul n. 32 de “La Gazzetta d’Acqui” dell’11 - 12 agosto 1900 una notizia che ha attratto la nostra attenzione: il titolo del trafiletto è “Un anarchico condannato dal tribunale d’Acqui”. Nel citato articolo leggiamo: “Il giorno 6 corrente per citazione direttissima, compariva davanti al nostro Tribunale un certo Armanno (sic) Clemente di Morsasco d’anni 37 […]”. Cerchiamo di capire di chi stava parlando il nostro cronista. Consultando l’archivio storico del Comune di Morsasco, abbiamo trovato interessanti riscontri nei registri delle nascite. Le notizie reperite nell’archivio storico comunale hanno fatto rivivere il nostro “anarchico”. Armano Clemente nacque il giorno “diecinove” di giugno dell’anno 1863, alle sette del mattino a Morsasco da Bartolomeo e Maria Antonia Pesce, entrambi contadini, padrino Giuseppe Armano e madrina Barbara Cerruti, contadini. Fu battezzato nello Nacque a Torino nel 1844 da Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide d’Absburgo. Comandò la 16ª divisione durante la guerra d’Indipendenza del 1866, distinguendosi nella battaglia di Custoza. Si sposò con la cugina Margherita. Abitò dapprima a Napoli, per sottolineare l’avvicinamento tra Nord e Sud, e poi dal 1870 a Roma. Salito al trono alla morte del padre (gennaio 1878), si adoperò per rinsaldare i legami tra la dinastia e il paese, e fu per questo indicato con il soprannome di «Re Buono». Egli cercò di influire sugli orientamenti dei governi succedutisi dopo il 1878, favorendo le tendenze moderate. Fu incline all’amicizia con la Germania e l’Austria – Ungheria, e alla Triplice Alleanza, e poi alla politica di espansione coloniale intrapresa da Crispi. Propenso, negli anni che seguirono la sconfitta di Adua e la caduta definitiva di Crispi (1896), a una linea di rafforzamento dell’autorità della Corona e delle prerogative regie, approvò la politica conservatrice e autoritaria di Di Rudinì e del Pelloux. Questo atteggiamento provocò un crescente distacco tra la parte più liberale dell’opinione pubblica e il Re, soprattutto dopo la dura repressione dei moti popolari di Milano del maggio 1898 da parte del generale BavaBeccaris. Umberto I, che già in precedenza era stato oggetto di due falliti attentati anarchici (il primo il 17 novembre 1878 a Napoli, per mano di Giovanni Passanante, ed il secondo il 22 aprile 1897 a Roma, ad opera di Pietro Acciarino), venne assassinato a colpi di rivoltella da Gaetano Bresci. Le barricate di Milano rimosse dai soldati. Maggio 1898. stesso giorno dal prevosto don Gio. Batta Gianotti, parroco di Morsasco dal 1845 al 1890. Egli nacque molto probabilmente nella cascina Bertoldone, posta sui confini di Morsasco verso Prasco: lo troviamo, infatti, citato nello Stato Generale di tutte le famiglie residenti nel comune di Morsasco al 1 ottobre 1900” come residente in tale cascina, proprietà della famiglia Armano da tempo immemorabile. L’articolo prosegue spiegando gli accadimenti: “[...] la sera del 31 luglio 118 mentre si trovava sul treno in prossimità della stazione di Prasco, fatta l’apologia del regicidio di Monza, soggiungeva che nei panni dell’uccisore Bresci egli sarebbe stato capace di fare altrettanto”. Come è noto Gaetano Bresci aveva ucciso il 29 luglio il re Umberto I. A seguito di tale evento, la situazione socio – politica in Italia fu fortemente turbata. Il senatore Saracco, successore del Pelloux, fu incaricato di formare un governo che includesse rappresentanti di tutti i gruppi (tranne l’estrema sinistra) in modo da normalizzare gradatamente la vita politica italiana. Purtroppo questo non fu sufficiente: oltre al regicidio il malcontento sfociò nello sciopero generale di Genova del gennaio 1901. È in questa atmosfera che maturò la nostra vicenda. L’articolo .prosegue: “L’esame dei testi assodò il fatto in modo indubbio, per cui il procuratore del Re Sig. conte Suman chiedeva la condanna dell’Armanno a mesi 12 di detenzione e a L. 1000 di multa. E il Tribunale, pronunciando la sentenza, applicava la pena richiesta. Ottima fu l’impressione prodotta nella cittadinanza da questa giustizia pronta ed energica”. Con ogni probabilità Armano scontò il carcere e pagò la pesantissima multa. Dopo il carcere tornò a Morsasco. Continuando le ricerche lo troviamo infatti citato nel censimento del 1911 abitante nella cascina Bertoldone e proprietario di una parte della cascina stessa, divisa con i Gaetano Bresci fratelli Giacomo e Giovanni. Morì nel suo paese celibe, poco prima del coinvolgimento dell’Italia nella prima guerra mondiale, il 15 aprile 1915. Una vita anonima come molte altre, ma che ad un certo punto ha incrociato quella dei potenti. Clemente Armano da Morsasco ne uscì con le ossa malconce, ma questo gli ha permesso di avere un piccolo posticino nella storia locale. Nacque a Coniano in provincia di Firenze e morì suicida nel carcere di Santo Stefano dove stava scontando la condanna all’ergastolo. Operaio tessitore, emigrato in America aderì ai movimenti anarchici d’ispirazione bakuniniana. Tornò in Italia in un periodo in cui la vita del paese era stata turbata da conflitti sociali e da tentativi di involuzione autoritaria dello Stato. Di questa situazione si faceva, a torto o a ragione, risalire la responsabilità alla monarchia. Furono questi i motivi che lo spinsero a compiere il 29 luglio 1900 nei pressi della Villa Reale di Monza l’attentato ad Umberto I. Il generale Fiorenzo Bava-Beccaris Nacque a Fossano, in provincia di Cuneo, nel 1831, e morì a Roma nel 1924. Fece una brillante carriera militare: nel 1882 fu promosso Maggiore Generale, successivamente comandante del VII e III corpo d’armata, poi, nominato commissario straordinario della provincia di Milano, il 7 maggio 1898 ebbe l’incarico di reprimere i moti popolari scoppiati nella città per il rincaro del pane. Eseguì l’ordine ricevuto con un po’ troppo “zelo”, infatti organizzò una repressione che provocò numerose vittime. Nello stesso anno fu nominato senatore. Lo sdegno per un tale “premio” fu enorme in larghi strati della popolazione. 1914: i “gesti bianchi” ad Acqui di Marco Francesco Dolermo Adieu, la raquette sonore Les cris anglais, les gestes blancs! Le seul jeu de ce jaune octobre Est de s’embrasser sur les bancs Roger Allard Anni Trenta, Villa Santa Caterina. Il titolo trae ispirazione dal volume di Gianni Clerici, I gesti bianchi. Londra 1960 - Costa Azzurra 1950 - Alassio 1939, Milano, Baldini & Castoldi, 1995. I “gesti bianchi” sono gli eleganti movimenti dei giocatori dei primordi di bianco vestiti celebrati dai versi di Allard. 120 «È un gioco che non mi piace e non capisco», ebbe a commentare in un pomeriggio dei primi anni Trenta dalla terrazza del circolo Parioli a Roma, Mussolini. «Forse non vi piace, perché non lo capite», ribattè prontamente Augusto Turati, presidente degli internazionali di tennis di Roma. Sta di fatto che, pochi giorni dopo, il custode del Parioli veniva chiamato a dirigere la costruzione di un 1 campo da tennis a villa Torlonia . Era lo stesso dirigen1 L’aneddoto è tratto da GIANNI CLERICI, 500 anni di tennis, Mondadori 2004, p. 241. Le informazioni di carattere generale riguardanti il tennis sono state tratte ancora da 500 anni di tennis vera e propria Bibbia del tennis. Gianni Clerici,“osservatore” dei maggiori tornei internazionali per La Repubblica, è il noto commentatore, assieme a Rino Tommasi, delle trasmissioni tennistiche di Sky. Una cartolina di fine anni Trenta dei campi da tennis dei Bagni. I giocatori sono tutti rigorosamente vestiti di bianco. Ringrazio il nobiluomo Filippo Lingeri per la gentile concessione dell’immagine. te consultato per la costruzione dei due campi da tennis a fianco dell’albergo Regina di Acqui? Nel 1935, infatti, nell’ambito della ristrutturazione di Vecchie e Nuove Terme, il valente gestore Michetti, che segnò l’epoca d’oro delle Terme acquesi che si aprirono alla2 vita mondana in stile “belle époque” , volle che due campi da tennis in terra rossa venissero approntati, secondo le norme del Federazione Italiana Tennis, nell’area che separava l’albergo Regina dalla piscina edificata nel 1932. Costati 5.000 lire ciascuno, il progetto venne sottoposto alla consulenza di un dirigente del tennis club Parioli di Roma3. Vennero inaugurati nell’estate di quell’anno, come si può leggere su Il Giornale d’Acqui dell’8 giugno 1935: Campi di tennis. “I campi di tennis alle Antiche Terme sono completati e si può giocare da domani. Le prenotazioni per il gioco si ricevono presso l’incaricato addetto alla sorveglianza dei campi. Sono stati istituiti speciali abbonamenti che possono acquistarsi 4 presso la biglietteria della piscina” . Non si trattava, tuttavia, dei primi campi da tennis costruiti ad Acqui. Il gioco del tennis, infatti, brevettato il 23 febbraio 1874 da Walter Compton Wingfield, fece la sua comparsa in Italia nel 1878, a Bordighera, frutto, non tanto di anglofilia quanto del colonialismo inglese che in quegli anni veniva a svernare in Riviera e che ivi trasportò la magica cassa con quattro racchette, la rete, i due pali di sostegno e dodici palle che costituiva il famoso “set” Wingfield. Il primo club tennistico indigeno sarebbe sorto due anni più tardi, nel 1880, Anni Trenta, Villa Santa Caterina. 2 Per un approfondimento rimando a ROBERTO CARTOSIO, Le Terme di Acqui dalla fine dell’Ottocento alla II guerra Mondiale, tesi di laurea, università degli studi di Torino, facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 1998-1999, relatore professore Gian Carlo Jocteau. 3 Archivio del Comune di Acqui, Lavori pubblici, Fabbricati di proprietà comunale, faldone 574, fascicolo 13, 1935 Costruzione di campi da tennis nelle vecchie terme. Contiene due planimetrie dei campi. 4 La voce che negli anni Trenta la nazionale di tennis si fosse recata ad Acqui per svolgere una serie di allenamenti presso i campi delle Terme non ha trovato conferma nei documenti d’archivio, cartacei e fotografici. 121 Un’altra immagine di fine anni Trenta. Sullo sfondo dietro i campi si può notare il trampolino della piscina. Leggermente spostato sulla sinistra il fabbricato del Kursal che fungeva da spogliatoio per i giocatori. Il piccolo spogliatoio ancor oggi visibile, venne unito più tardi, dopo la demolizione dell’edificio del Kursaal. Intorno vi erano giardini all’italiana delimitati in ordinate aiuole, non prato all’inglese, per evitare come temeva il dirigente del Parioli, che l’erba si propagasse nel recinto di gioco. L’immagine è tratta dall’archivio storico fotografico Bonelli di Acqui. a Torino, dove i “pionieri” del gioco non pochi sorrisi dovettero far nascere sul viso di spettatori abituati al più virulento pallone al bracciale5. Ad Acqui il gioco del tennis fece la sua comparsa relativamente tardi - del resto l’associazione italiana tennis venne istituita a Roma solo nell’aprile 1894 -, nell’immediata vigilia della prima guerra mondiale. La Gazzetta d’Acqui del 7-8 marzo 1914 in un breve trafiletto, Lawn-tennis6, rendeva noto che “Lunedì s’incomincia a giocare al tennis. La direzione dell’Acqui Club sta preparando un ottimo campo di gioco, e arredandolo di buone racchette. Gli allenamenti incominciano alle 16,30”. Lo stesso giornale il 4-5 aprile in un secondo intervento sempre titolato Lawn-tennis, informa che “Il nuovo campo di gioco sarà inaugurato subito dopo Pasqua e 5 Sulla tradizione nel Piemonte del pallone al bracciale e, sua evoluzione, del pallone elastico, rimando a ANDREA MERLOTTI (a cura di), Giochi di palla nel Piemonte Medievale e Moderno, Centro studi storici-etnografici museo storico-etnografico “A.Doro”, Rocca de’ Baldi, 2001, in collaborazione con la Società per gli studi storici e artistici della provincia di Cuneo. 6 Il termine lawn-tennis indica il tennis giocato su erba, superficie sulla quale nacque e si sviluppò il gioco.Tale superficie si impose oltreché in terra d’Albione in tutte le colonie britanniche e anche sul costa orientale degli Stati uniti d’America. Sul continente europeo prevalse invece la terra rossa, ma la definizione rimaneva quella di lawn-tennis. Nel caso specifico di Acqui, le fonti nulla ci dicono sulla superficie. Stante le difficoltà di mantenere un prato sul quale giocare, è probabile che si trattasse di un fondo in terra grigia. Un’altra immagine di fine anni Trenta relativi ai campi dei Bagni. Umberto Barberis, Enrico Colla e Giovanni Pastorino. Si notino i due giovani raccattapalle scalzi. Sui campi si poteva entrare solo con le scarpe da ginnastica e non tutti i fanciulli, come ricorda Umberto Barberis, ne avevano un paio. Per non rovinare il campo, pertanto, dovevano accedervi a piedi scalzi. 122 Il Garden-tennis di Santa Caterina. Berta Milani, Luisetta Piola, la signora Arkel, Maria Teresa Morelli, Maria Pia Piola,Augusto Galliani. La famiglia Piola era solita invitare amici e conoscenti e intrattenerli “scambiando” qualche colpo. Le racchette, come ricorda l’avvocato Enrico Piola, che ringrazio per la squisita gentilezza, erano Persenico, azienda tra le prime a produrre attrezzi tennistici in Italia. riuscirà splendido. Per ora gli allenamenti hanno luogo in una spianata del campo”. Di questo primo campo da tennis, oggi non rimane più traccia, ma, in base al alcune testimonianze7, doveva trovarsi nei prati dove l’Acqui Club di calcio all’epoca giocava, nei pressi della zona dell’odierno asilo Moiso, un tempo nota come “i prati della Luisa”. Più tardi, nel 1927, un campo in terra grigia venne costruito8 in zona Bagni, al centro, come ricorda l’avvocato Enrico Piola, dell’attuale piscina comunale, poi cancellato nel 1932 a seguito della costruzione della medesima e sostituito con i due in terra rossa di cui si è scritto all’inizio. Giacomo Piola ne volle uno in terra grigia fin dagli inizi degli anni Trenta9 dove si giocò sino alla vigilia della guerra. Sempre in quegli anni ne vennero edificati altri in terra grigia, oggi non più esistenti, alla Platona di proprietà della famiglia Prencipe-Reimandi, e a villa Murialdi in regione Monterosso. Nel 1947, la famiglia Cavo acquistò La Gioiosa dove esisteva già un campo da tennis che Giuseppe Cavo ampliò per renderlo regolare. Oggi il campo, recentemente I campi privati Negli anni Trenta alcune benestanti famiglie acquesi vollero dotare le proprie residenze estive di un campo da tennis. A Santa Caterina il senatore La Gioiosa: in primo piano il campo da tennis. Ringrazio la famiglia Ivaldi, in particolar modo la signora Gabriella Cavo-Ivaldi. 7 Mi riferisco ad alcune testimonianze raccolte dal documentalista della biblioteca civica di Acqui, Lionello Archetti Maestri e dalla signora Patti Perelli. 8 Archivio del Comune di Acqui, Lavori pubblici, Fabbricati di proprietà comunale, faldone 574, fascicolo 13, 1927 Costruzione di un campo da tennis nelle vecchie terme. Sfortunatamente di questo court, come di quello del 1914, non è stata rintracciata alcuna documentazione fotografica. 9 Come riferitomi dall’avvocato Enrico Piola, fratello dell’indimenticato Vittorio, era costituito da terra grigia mista a sabbia che una volta bagnata ne favoriva la stabilità e la compattezza. 123 Anni Trenta. Luisetta Piola, moglie del senatore Giacomo, in gonna lunga bianca. Sullo sfondo il rullo che serviva per livellare il campo situato in Santa Caterina presso la Residenza estiva della famiglia Piola. . ristrutturato, sul quale chi scrive ha avuto il piacere di giocare più volte, presenta una superficie di resina verde che ne rende il gioco particolarmente veloce. Il tennis come opera d’arte: il campo di Villa Ottolenghi Nel 1955 il conte Astolfo Ottolenghi volle che un campo da tennis venisse edificato all’interno del complesso artistico di villa Monterosso. Venne contattata la Morgan Contracting & Engineering Co. Ltd, ditta inglese di Newcastle, costruttrice di un campo tipo “Morgan”. Era costituito da un impasto catramoso colorato di verde. Il fondo risultava poroso e non richiedeva manutenzione particolare, soprattutto le frequenti innaffiature necessarie invece per i campi in terra Il campo da tennis di villa Ottolenghi. Sullo sfondo la casa degli artisti.Al suo interno, a sinistra del pian terreno, era collocato lo spogliatoio. rossa. Unica controindicazione, come sottolineava il 18 ottobre 1954 in una lettera al conte Astolfo, il marchese Ambrogio D’Oria che ne aveva uno uguale nella sua residenza di Montaldeo presso Ovada, era forse una troppo veloce consunzione delle palle e un rimbalzo leggermente superiore a quello che avveniva sui tradizionali campi in terra rossa. Non era duro, ma come sugli odierni campi in cemento, la scivolata non10 era consentita . Un particolare dell’ingresso del campo di villa Ottolenghi. Un draghetto, opera dei maestri scultori Mario e Ernesto Ferrari, metteva in guardia dal giocar male! Un’altra immagine di Monterosso. Sullo sfondo la villa. Si noti, a destra del campo, il “muro” contro il quale allenarsi. Oggi, non più curato come un tempo, scomparso il colore verde, il terreno di gioco presenta un principio di sbrecciamento del fondo bituminoso. Un altro particolare del campo di villa Ottolenghi. Un anemometro, opera dei maestri Ferrari, per verificare la velocità del vento che poteva disturbare il gioco. 10 La presente ricerca doveva limitarsi a tutti gli anni Quaranta del Novecento. Una eccezione, data la particolarità, viene fatta per il court di villa Ottolenghi. Per le notizie riguardanti il terreno di gioco, tratte dall’archivio Ottolenghi, ringrazio la gentile contessa Cecilia Lenherr-Ottolenghi. Il campo che utilizzava materiali sintetici all’avanguardia attirò le attenzioni, tra gli altri, del principe Franco Lanza di Scalea di Palermo e della nota famiglia di industriali italiani, Barilla. 125 T’vighe sa fim? Lè u iè ca’ mia Raccontare il passato ai giovani di Elisabetta Farinetti Sono stata insegnante di lettere per quasi quarant’anni. Erano i primi anni ’90 quando la mia vita mutò la sua rotta: avevo lasciato l’insegnamento ma non si era esaurito il mio interesse per il mondo giovanile che aveva improntato tutta la mia esistenza. I giovani erano sempre stati e rimanevano al centro del mio interesse. Quando tornai ad Orsara, che è il mio luogo natale, per molti mesi all’anno, non ritrovai il paese nel quale avevo trascorso la mia infanzia. Il mondo era cambiato rapidamente e, in particolare, il paese aveva mutato connotazione nell’aspetto e nelle scelte di vita: quasi tutta la popolazione a poco a poco si era trasferita nei due condomini costruiti ai piedi della collina, si spostava in auto, frequentava i supermercati e i giovani passavano le serate del sabato nei pub o nelle discoteche delle città vicine. Non fumavano più i camini e, spesso, i bidoni dei rifiuti traboccavano di vecchie masserizie inutilizzabili fra cui non era difficile intravedere fotografie di signori baffuti e di donnone vestite a festa. Per una persona della mia generazione era constatare da vicino la radicale e definitiva trasformazione della società contadina povera e laboriosa, che era quella in cui ero nata e vissu- 126 ta, nella cosiddetta società dei consumi. Fu una constatazione sofferta perché sentivo che i pochi giovani rimasti rifiutando i soprannomi di famiglia, omologando completamente le loro scelte ai modelli offerti dai mezzi di comunicazione di massa, stavano cancellando un passato la cui povertà era vista come una vergogna di cui liberarsi e sul quale era urgente indurli a soffermarsi. Sentivo che non sarebbe stata un’impresa facile. Provai a sondare qua e là cercando di proporre ai giovani delle iniziative che li inducessero a crearsi degli interessi nel luogo in cui vivevano, ma troppo forti erano ormai gli stimoli che provenivano da fuori, per cui fu inevitabile desistere. Ma la mia non fu una resa, cambiai soltanto strada e accantonai per un po’ il problema. Era il 1991. Cominciai a far girare la voce che avrei organizzato una mostra di vecchie foto. La gente rispose con entusiasmo e dai cassetti uscirono delle meraviglie inaspettate. Il Comune mi prestò i locali, e sulla locandina che disegnò mio figlio Alberto, dedicai ai giovani una poesia in dialetto “Na quintùla” per sottolineare indirettamente che, comunque, stavo pensando a loro. Scrissi, però, la traduzione in italiano, perché anche il dialetto era diventato obsoleto. Da quella mostra all’ideazione del Museo il passo fu breve, anche se la gestazione durò parecchi anni. Non ero più sola. Per la gente della mia generazione e anche per le poche persone rimaste di quella precedente fu una gioia rispolverare con me che li interrogavo, i vecchi ricordi, consegnare in mani sicure la sacralità di oggetti che avevano fatto parte del loro passato, raccontarmi vite lonta- ne, affidarmi perfino…le loro ricette di cucina. Non chiedevo di meglio. E mentre la mia scrivania si riempiva di appunti e il mio cortile somigliava sempre più al deposito di un rigattiere, lavoravo ai fianchi le Amministrazioni comunali perché mi concedessero in uso i locali inutilizzati dell’ex Scuola elementare. Il Comune rispose positivamente nel 1996 e si cominciò ad abbozzare il Museo con le donazioni di amici meravigliosi alcuni dei quali, ora, purtroppo, non ci sono più. Prendeva forma un’idea con i gioghi e l’aratro, il vaglio e le falci, le brente, le imbottigliatrici, il quarto e il bagnau.Tanti capi di biancheria, oggetti di uso domestico dimenticati, libri come il Gelindo o messali, vecchi quaderni di scuola, immagini commemorative, bandiere di leve, oggetti incredibili come il cesto con cui i ragazzi di leva andavano a cantare le uova, un semicupo di zinco, un mastello di legno, due culle, giocattoli sinistrati e perfino un girello di legno appartenuto ad una signora che ormai aveva quasi novant’anni, furono messi al sicuro dal disinteresse dei futuri eredi o dalle offese del tempo. Era fatta. Avevamo il nostro Museo. Amici che mi avevano affiancata in questa lunga fase preliminare, si tassarono con me ( 50.000 lire per 22) e costituimmo l’Associazione Ursaria Amici del Museo che, nel 1998, cominciò a pubblicare quadrimestralmente il giornalino 127 l’ORSO con cui cominciammo a dar voce anche alle memorie tramandate oralmente o attraverso polverosi documenti. E i destinatari del nostro discorso? Per lungo tempo rimasero a guardare tenendosi a debita distanza. Ma oggi il vicepresidente dell’Associazione è un giovane, il primo in assoluto ad essersi mostrato sensibile al problema e, dallo scorso anno, nell’ORSO, dopo una coraggiosa proposta dell’attuale Presidente dell’Associazione, c’è un inserto interamente gestito da giovanissimi. Un po’ di strada è stata percorsa. In questi ultimi anni il Museo si è arricchito, tanto che ora i locali dell’ex Scuola Elementare gli vanno stretti, ed è diventato un riferimento culturale nella zona facendosi promotore di pubblicazioni ed iniziative volte alla valorizzazione del territorio, ad approfondimenti di storia locale e allo studio del fenomeno 128 dell’emigrazione che nei secoli scorsi ha portato tanti Orsaresi in Argentina. Siamo entrati nel circuito dei Musei della Provincia di Alessandria e della Regione Piemonte ed abbiamo ottenuto una visibilità superiore a qualsiasi aspettativa. Ma l’intento originale non era quello di dare un piccolo lustro al nome di Orsara, bensì quello di narrare il passato remoto e insegnare a rispettarlo a quanti non l’hanno conosciuto. Perché solo con la consapevolezza del proprio passato si può costruire un futuro di più ampio respiro, si può dar vita ad una società multietnica in cui ognuno conservi le proprie peculiarità. Oggi non possiamo dire di essere riusciti a trasmettere ai giovani la fierezza delle loro radici e a costituire per loro un polo culturale alternativo, ma abbiamo fatto qualche passo avanti. Sappiamo che il discorso è lungo e i tempi sono difficili. Le lusinghe dell’oggi sono allettanti e la televisione è la vera maestra di vita. Ma noi abbiamo gettato un seme e continuiamo a raccontare la storia di esistenze lontane, di gente laboriosa ed onesta, di povertà dignitose, di famiglie numerose ed unite, di un tempo ricco di virtù, che non deve essere dimenticato e che merita rispetto e un consapevole ricordo. Un tempo in cui il mondo era piccolo e trovare la strada di casa era facile: “ t’vighe sa fim? Lè u iè ca’ mia”. “Il mondo contadino e il Museo di Orsara” di Luisa Rapetti Opera polivalente è “Il mondo contadino e il museo di Orsara” di E. FARINETTI, B. RICCI, G. VACCA, poiché possiede i tratti specifici del documentario etnostorico e, insieme, svolge efficacemente funzione di guida, grazie all’agile scrittura ed all’originale corredo fotografico, per chi desideri visitare virtualmente il museo contadino di Orsara Bormida. Infatti la struttura tematica del volumetto veicola e valorizza le categorie identitarie e specifiche della civiltà contadina,vera ricchezza locale: il lettore è condotto, attraverso la cultura materiale e il dialetto, alla riscoperta del “patrimonio genetico” inscritto nel vissuto quotidiano e nella memoria di nonni e padri. Nel mondo contadino ormai scomparso c’è innanzitutto la terra, e il lavoro della terra. Nella policoltura di sussistenza il piccolo appezzamento familiare imponeva a tutti, dall’alba a mezzogiorno (fé la matinä), il duro lavoro manuale “di zappa e vanga”: nelle vigne addossate alle colline e negli orticelli del Rovanello, ma anche nei campi di meliga e di grano della Piana, dissodati con l’impiego dell’aratro tirato dal bue. Grano e granoturco (ra melia) venivano raccolti a mano; nelle vigne si avviava la potatura (pué) in inverno, per impalare (ancarasé) le viti a febbraio; da marzo si spollonava (scarsuré) e si correva ad irrorare le viti di verderame (dé ir verdräm) e di zolfo ad ogni rintocco del campanone; i tralci troppo cresciuti si legavano e rilegavano (arlié ir vi) e a settembre la vendemmia, la vinificazione, la torchiatura imponevano una prolungata mobilitazione generale. “Rapulé i sccianc d’San Martèin” ossia raccogliere i racimoli dimenticati sui tralci affinché nulla andasse perso era l’attività che concludeva il ciclo agricolo dell’anno. Poi c’erano la casa e la famiglia patriarcale dove i vecchi, che godevano del rispetto incondizionato dei giovani, avevano l’ultima parola nelle decisioni importanti. Casolari sparsi nella campagna e casupole in pietra addossate alla rocca erano tutto il paese, e nessuno era mai solo. In ogni casa il centro della vita era la cucina riscaldata dal camino; ma nelle serate invernali ci si riuniva tra vicini al caldo, nelle stalle, e si vegliava ascoltando le storie di Gelindo o dell’Ebreo Errante dall’affabulatore occasionale, riparando attrezzi, facendo la maglia (scapein) e il cucito. La vita aspra si imparava ad affrontarla già da bambini quando, rubando tempo al lavoro, si andava per nidi, si faceva a gara a tirar di fionda, a palle di neve, a riconoscere i versi degli uccelli, le specie delle piante, le orme di animali. Da grandi poi, la precarietà del quotidiano era superata trasformando le occasioni di lavoro comunitario in festa: la battitura del grano era seguita dalla cena comunitaria; la vendemmia e la pigiatura dell’uva si svolgevano fra canti e scherzi; la sfogliatura della meliga sull’aia era conclusa dal ballo a suon di fisarmonica; alla macellazione del maiale “antra ciäv dl’invern”, seguiva la polentata con interiora dell’animale e abbondanti libagioni di vino novello con parenti ed amici. Le feste del calendario - Natale, Pasqua, Carnevale, San Martino Patrono - esprimevano doppia “sacralità”: religiosa, “come Dio comanda” e gastronomica, poichè il cibo – la gallina cui veniva tirato il collo, gli agnolotti serviti nel vino migliore- era segno della benevolenza del Cielo e di vita. La Divisione Acqui a Cefalonia. Un caso esemplare di resistenza militare di Gian Enrico Rusconi Le foto d’epoca relative a questo contributo e al successivo sono parte della collezione Hermann Frank Meyer. 130 Sono maturi i tempi per il pieno riconoscimento della specificità della resistenza dei militari contro i tedeschi, immediatamente dopo l’8 settembre 1943. Si tratta di una resistenza che presenta tratti peculiari rispetto alle altre forme di azione civile e politica, che si registrano nel paese. Ma l’allargamento del concetto di resistenza sino a comprendere senza reticenze quella dei militari implica una più articolata e qualificata definizione del concetto stesso di resistenza. Lo scontro dei militari con i tedeschi si manifesta in una pluralità di forme e di intensità sul territorio nazionale, nei Balcani, in Grecia, in Albania, nell’Egeo ecc. e nel comportamento della massa dei soldati, internati in Germania, che non cedono alle pressioni di aderire alla Repubblica sociale italiana (per essi Alessandro Natta ha coniato in tempi non sospetti l’espressione “l’altra resistenza”). Questo comportamento ha una sua specificità che va ricercata lungo tre coordinate: • una sofferta rielaborazione della propria lealtà istituzionale; • una rapida ma conflittuale ri-definizione del nemico nel tedesco exalleato; • una difficile prestazione militare quando c’è ed è possibile. La lealtà istituzionale dei militari verso il re o verso la patria ( ma questa è una distinzione che andrebbe criticamente riesaminata) non riproduce una automatica fedeltà al giuramento o l’obbedienza agli ordini superiori che sono per lo più tardivi, problematici e sempre inadeguati alla situazione. La lealtà si esprime in valori di etica militare più profondi: l’onore del soldato del non cedere le proprie armi o l’ autonomia di azione e l’efficienza della propria unità. Queste virtù militari si ritrovano a Cefalonia, che diventa così esemplare, anche se la particolare sua situazione non esaurisce la fenomenologia e la problematica dei comportamenti delle truppe d’oltremare. “Decideste consapevolmente il vostro destino. Dimostraste che la Patria non era morta.Anzi con la vostra decisione ne riaffermaste l’esistenza. Su queste fondamenta risorse l’Italia. Questa scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza di un’Italia libera dal fascismo”. Con queste espressioni qualche anno fa il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha inteso onorare i caduti della Acqui a Cefalonia, riconfermando nel contempo espressamente il ruolo dei militari nella guerra di liberazione nazionale. Quella di Ciampi è stata vista come un’operazione di “politica della storia”, legittima dal punto di vista politico, che tuttavia, accanto a consensi, solleva critiche da parte di studiosi e pubblicisti che danno una interpretazione molto diversa del comportamento della Divisione Acqui. Basti dire che uno studioso come Sergio Romano ha definito Cefalonia “una pagina nera della storia militare italiana”. Come è possibile registrare giudizi così contrastanti? In realtà le due posizioni appena ricordate, soprattutto quando sono riprese polemicamente, non fanno giustizia al comportamento del comando e dei soldati della Acqui tra l’8 e il 22 settembre 1943. Confermano che la questione della qualità e della natura della resistenza militare è ancora aperta. La prima affermazione (Cefalonia “primo atto della Resistenza che libera dal fascismo”) non coglie a sufficienza la motivazione della reazione anti-tedesca della Acqui, rispetto ad altre reazioni sul territorio nazionale o nella stessa area balcanica. La seconda formula, che considera Cefalonia “un episodio di imprevidenza militare”, pone invece l’attenzione su altri aspetti della vicenda: la turbolenza e l’insubordinazione della truppa e di alcuni ufficiali che avrebbe indotto il Comando ad una decisione avventata e suicida. Ma anche questa è una lettura parziale, fatta in polemica contro l’enfasi della sinistra sul cosiddetto ‘referendum’ della 131 truppa che sarebbe stato alla base dell’inizitiva militare. Non coglie la complessità del processo decisionale che consente alla fine al comandante Antonio Gandin di portare in battaglia un’unità fortemente motivata e ricompattata. Anche se inadeguata alla prova sul campo. In una situazione eccezionale come quella di Cefalonia a metà settembre 1943 l’esplosione di una crisi disciplinare non può essere un criterio discriminante di giudizio. È importante ricordare che l’8 settembre è una cesura che rompe ogni automatismo militare. Impone al soldato una scelta “politica” nel senso autentico della parola: l’identificazione del nemico. Anche se, in questa identificazione, alcuni contenuti politici che per noi sono ovvi (antifascismo, liberazione del paese in prospettiva democratica) non sono e non possono essere riconosciuti nei protagonisti di allora – quantomeno 132 nel senso che noi oggi diamo a quei contenuti. Il discorso si allarga così al badoglismo, forse studiato troppo esclusivamente nell’ottica dei vertici istituzionali e nelle polemiche politiche interne, e meno nei processi di identificazione dei militari nei Balcani e in Grecia. I costi altissimi che la Acqui paga con il massacro dei suoi uomini (come del resto i disastri subiti da altre unità nell’area balcanica) non sono imputabili alla decisione di resistere ai tedeschi sul campo - come ritengono alcuni critici, ma si iscrivono in una logica politica più ampia che esula dall’orizzonte dell’unità militare dislocata nell’isola ionica. È l’anomalo stato di ostilità dell’Italia contro la Germania, dal punto di vista politico e del diritto internazionale, che getta la Acqui in un abisso di violenza tra ex-alleati senza precedenti. Da un lato, verso gli italiani c’è lo stigma del tradimento e dell’ammutinamento, dall’altro nei tedeschi c’è un comportamento che si configura come crimine di guerra. Della vicenda della Acqui vorrei qui ricordare il punto di partenza spesso trascurato nelle narrazioni correnti, che insistono soprattutto sulle fasi finali dello scontro con i tedeschi e sul massacro che ne segue. Invece è il punto di partenza che consente un confronto con altre esperienze di resistenza militare. All’annuncio dell’armistizio, l’obiettivo primario delle truppe italiane in Grecia, in Albania e nei Balcani è il rimpatrio. È un’operazione militare, logistica e politica, straordinariamente impegnativa. Per intenderci, siamo agli antipodi della sciagurata immagine popolare del “tutti a casa”. Il ritorno in patria è previsto dagli accordi armistiziali con gli anglo-americani, ma non è mai stato affrontato in termini operativi. In compenso si fanno vivi subito i tedeschi, con la loro offerta di rimpatriare quelle truppe italiane che cedono le armi. Ma quali armi? Con che criterio? Con quali garanzie? E’ in questa ottica che la trattativa iniziata dal Comando della Acqui con i tedeschi (interpretando alcune iniziali direttive centrali) appare legittima e ragionevole. Sostenere - come fanno alcuni critici oggi - che la negoziazione fosse un errore politico, morale o militare, e che quindi l’immediata apertura delle ostilità contro i tedeschi fosse l’unica scelta politicamente e militarmente corretta - è una valutazione che ha una sua giustificazione. Soprattutto alla luce della tragedia finale. Ma questo giudizio non tiene conto affatto delle chances reali che l’unità italiana ha di imporsi sui tedeschi, in un contesto geografico che è sotto il loro controllo totale. E senza alcuna garanzia di aiuto da parte dell’Italia. Va aggiunto che a Cefalonia si è istaurato un clima di leale collaborazione tra italiani e tedeschi, grazie al personale impegno del generale Gandin. Proprio per questo diventa significativo e decisivo il mutamento di atteggiamento e comportamento del comandante quando, dalla dinamica stessa della trattativa, matura gradualmente la decisione di combattere gli ex-alleati. Questi diventano nemici da contrastare attivamente, non solo perché non danno garanzia alcuna di effettuare il rimpatrio, che era all’origine del negoziato, ma perché esigono un disarmo che via via si presenta come incondizionato, contrario all’onore e alla sicurezza dei soldati. Su questo sfondo, la decisione del comandante Gandin di combattere i tedeschi, facendo assumere alla sua Divisione un altissimo rischio, è encomiabile proprio perché ponderata. Fatte queste premesse generali, elenchiamo i punti che qualificano in modo ancora più specifico la vicenda della Acqui a Cefalonia: • la piena legittimità della trattativa con i tedeschi dopo l’8 settembre, in ottemperanza all’obiettivo del rientro in patria. • la crisi disciplinare che investe la Divisione a vari livelli e che pone al comando seri problemi di controllo e gestione della situazione. • il lento processo di trasformazione del tedesco da alleato a nemico. • la compressione temporale della crisi di 14 giorni in due fasi: la trat- 133 tativa (9-14 settembre) e la battaglia accompagnata dal massacro (15-22), cui segue l’eliminazione degli ufficiali. • le difficili e ambigue comunicazioni con il Comando direttamente superiore ad Atene e con il Comando supremo in Italia. • l’atteggiamento incerto, indifferente e sospettoso degli angloamericani. Se il rientro ordinato in patria è l’obiettivo primario delle truppe italiane dislocate nei Balcani e in Grecia, appare subito evidente l’assenza di mezzi e di risorse per l’operazione. Ne approfittano i tedeschi per negoziare il rimpatrio delle truppe italiane con il loro disarmo. In realtà nelle disposizioni del comando supremo germanico non c’è alcuna indicazione operativa di “rimpatrio” degli italiani, ma semplicemente del loro “allontanamento” dalle aree strategicamente importanti. Questo vale innanzitutto per le isole ioniche Corfù e Cefalonia. I tedeschi dunque simulano di trattare su un ritorno in patria degli italiani sapendo che non sarà realizzato. Rimane un margine di dubbio per i comandi locali, diretti interlocutori degli italiani, che in un primo momento potrebbero aver pensato di trattare davvero su un punto (il rimpatrio) la cui realizzazione non sarebbe stata di loro competenza. Questo sembra il caso del comandante del XXII corpo dei Gebirgsjaeger Hubert Lanz, diretto interlocutore della Acqui. Questo dettaglio conferma che la dinamica iniziale dell’episodio di Cefalonia va ricercata nel rapido deteriorarsi del rapporto di fiducia tra i tedeschi e gli italiani. Così si spiega non solo l’atteggiamento personale 134 del comandante ma lo sviluppo oggettivo della vicenda che trasforma a tutti i livelli il tedesco da alleato a nemico, riassorbendo le divergenze e le turbolenze che avevano segnato per alcuni giorni i rapporti interni alla divisione. Nei giorni cruciali dal 9 al 13 settembre, quando Roma/Brindisi tace o manda segnali non sufficientemente chiari, di fronte all’ingiunzione tedesca di cedere le armi in maniera concordata, a chi deve obbedire il generale Gandin? Non dimentichiamo che i suoi diretti superiori (il comando dell’XI armata a Atene, il comando dell’VIII corpo d’amata armata ad Agrinion) invitano di fatto ad evitare inutile spargimento di sangue. Il comando della Acqui, iniziando trattative autonome con i tedeschi, rimanendo in contatto con Brindisi per ordini più precisi, fa una scelta che può apparire attendista, ma è sostenuta di fatto da buone ragioni. Da parte tedesca infatti l’iniziale disponibilità a lasciare agli italiani parte delle dotazioni della Divisione nasce dalla consapevolezza dei comandi locali di non essere in grado di contrastare con successo il relativamente forte contingente italiano sull’isola nel caso che questo facesse resistenza. Il negoziato è tortuoso.A ogni incontro sembra che le cose cambino, come pure le scadenze degli accordi via via presi e poi disdetti. Gandin sembra disposto ad abbandonare le batterie fisse sull’isola, ma a conservare sino all’ultimo (sino all’imbarco) tutte le armi pesanti mobili. Rompe gli indugi quando i tedeschi esigono il disarmo tout court degli italiani, la loro concentrazione in alcune determinate località, mentre si rivela inconsistente la loro promessa di un sollecito imbarco per l’Italia. L’ipotesi di un rientro eventuale per ferrovia via Grecia,Albania, Jugoslavia in Italia settentrionale (in quella che sarà la Repubblica sociale italiana) altera completamente i termini della trattativa che viene definitivamente interrotta. Se il patriottismo anti-tedesco di assonanza risorgimentale e della Grande Guerra, ricordato da alcune (postume) testimonianze, fornisce la cornice ideale della ritrovata armonia tra comando e truppe, le vere ragioni di tale convergenza sono radicate nella situazione contingente del presente. I tedeschi diventano nemici perché alla fine esigono un disarmo contrario all’onore e alla sicurezza dei soldati. Insisto nel sottolineare che l’alternativa iniziale per gli italiani non è: trattare con i tedeschi con la cessione delle armi oppure combatterli con le armi in pugno (come avrebbero affermato gli ufficiali sostenitori della lotta antitedesca intransigente, in polemica contro la presunta cedevolezza del loro comandante). Il vero dilemma iniziale è: il ritorno in patria lo si ottiene sopraffacendo la debole guarnigione tedesca sull’isola o con un negoziato onorevole, che consente di conservare parte delle armi? Quest’ultima è l’ipotesi nutrita per alcuni giorni dal generale comandante Gandin. Per il resto, non solo il comando, ma gli stessi ufficiali che lo criticano, spingendolo alla intransigenza con i tedeschi, sanno benissimo che i loro 135 soldati sono disposti a combattere non già per puro amor di patria o per obbedienza al re, ma perché vogliono tornare a casa in sicurezza. Secondo questa interpretazione, non c’è una contraddizione tra la trattativa e il principio della autonomia d’azione dell’unità militare. E il comandante Gandin decide la resistenza armata, non già sotto la pressione dei sostenitori della immediata lotta antitedesca, bensì dopo la constatazione che i tedeschi non intendono affatto trattare, ma imporre la loro volontà. Nel frattempo arrivano anche chiare ed esplicite direttive del Comando supremo. Così il 14 settembre Gandin stila un comunicato ufficiale ai tedeschi che dice che la divisione “teme di essere disarmata contro tutte le promesse o di essere lasciata sull’isola come preda per i greci o peggio di non essere portata in Italia, ma sul continente greco per combattere contro i ribelli”. La divisione quindi intende rimanere sulle proprie posizioni finché non riceve assicurazione di poter conservare le proprie armi e di consegnare le artiglierie solo all’imbarco. “Se ciò non accadrà conclude Gandin - la divisione preferirà combattere piuttosto che subire l’onta della cessione delle armi”. Se ci mettiamo in questa ottica, la lunga e irrisolta controversia storiografica, se e quando da Brindisi arrivino ordini inequivoci di resistere attivamente ai tedeschi (se l’11 o tra il 13/14 settembre), si relativizza davanti al fatto che il Comando supremo italiano da Brindisi in ogni caso non è in grado né di intervenire in aiuto della Acqui né di rimpatriarla, lasciando così che i soldati a Ce- 136 falonia si facciano fantasie sull’intervento degli inglesi. La Acqui è comunque sola. E il comportamento del suo Comando, se considerato in tutto il suo sviluppo, non mi pare censurabile né con gli argomenti di chi avrebbe voluto un attacco immediato alla guarnigione tedesca in assenza di serie prospettive di sostegno dalla madrepatria né, all’opposto, con le ragioni di chi nella ponderata e psicologicamente sofferta decisione finale di dare battaglia ha visto solo avventurismo e cedimento alle turbolenze di alcuni reparti . È stata a mio avviso una decisione meditata di un comandante in una situazione eccezionalmente difficile. L’idea che la resistenza militare a Cefalonia sia impolitica o apolitica in quanto risponde ad un criterio di lealtà istituzionale e quindi a valori quali onore, obbedienza, patria, che non hanno nulla a che vedere con la “resistenza politica” - è un’ idea sbagliata o, più benevolmente, ingenua. In realtà negli autori che la sostengono c’è spesso un sentimento o risentimento ideologico che equipara resistenza e “comunismo”. O più semplicemente c’è la polemica contro la letteratura resistenziale di sinistra, vissuta (a torto o a ragione) egemonica. Non solo i valori sopra ricordati onore del soldato, amor di patria intesa come comunità autonoma nelle proprie decisioni - sono politici in ogni caso, ma lo diventano in modo drammatico in Italia con l’8 settembre 1943. Mettono in gioco il senso della propria identità e appartenenza non in termini astratti ma esistenziali. Discriminano, costringono a schierarsi, creano “il nemico” che ci nega tali valori. Non c’è nulla di più “politico” che l’identificazione del nemico da combattere. E nel settembre 1943 a Cefalonia il nemico diventa il tedesco per le ragioni dette sopra. Il concetto di lealtà istituzionale, che una certa letteratura celebrativa tende a presentare come impolitico, tipico del militare, implica una scelta politica che nel settembre 1943 contiene tratti che possono dirsi “antifascisti”, ovviamente nel significato ristretto che questo termine ha nell’ambiente militare. In questo senso anche il governo Badoglio si presenta – innanzitutto agli angloamericani – come “antifascista”. Reciprocamente “fascista” è semplicemente chi non riconosce il nuovo governo e sta dalla parte dei tedeschi. È difficile capire se a Cefalonia ci fosse un antifascismo politicamente più qualificato. La questione è collegata anche alla natura dei rapporti di alcuni ufficiali della Acqui con i partigiani “ribelli” o comunisti dell’isola già in quei giorni – rapporti di cui Gandin non poteva non essere al corrente. L’unico punto fermo in quei giorni di settembre è che antifascismo è un modo di dire lotta ai tedeschi. Nella vicenda c’è un episodio molto significativo. Nella mattinata del 13 settembre, in un momento critico sia del confronto con le armi in pugno sia delle trattative, Gandin riceve la visita di due ufficiali dell’aviazione, un tedesco e un italiano, latori di un messaggio personale di Mussolini (una testimonianza parla addirittura di una lettera autografa). Il duce, appena liberato dal Gran Sasso e riparato a Vienna, raccomanda a Gandin di passare dalla parte tedesca e della (costituenda) Repubblica sociale ita- liana e lo invita ad un incontro. L’invito viene lasciato cadere. L’episodio (sul quale abbiano scarse anche se attendibili informazioni) conferma da un lato l’immagine di “tedescofilo” di cui il generale gode e quindi dell’aspettativa che possa essere pro-Mussolini, ma dall’altro, conferma il suo nuovo atteggiamento. Non sappiamo quanto questo atteggiamento sia motivato da convincimenti personali, dalla ferma fedeltà al re o dalla volontà di non abbandonare i suoi uomini. Politicamente parlando, Gandin interpreta la linea Badoglio/Ambrosio. A fronte degli errori catastrofici del governo nazionale, questa affermazione può suonare il contrario di un complimento e merita una precisazione. Gandin è badogliano nel senso che inizialmente mira a riguadagnare per la sua divisione una posizione di non-belligeranza rispetto ai tedeschi, con i quali è in buone relazioni e in stretto contatto operativo. Specularmente nei confronti degli ex-nemici angloamericani e nei partigiani greci ha un atteggiamento più riservato, che diventerà più aperto soltanto con il deteriorarsi della situazione. Ma una volta constatata l’impossibilità di un accordo onorevole con i tedeschi, la sua determinazione a combatterli rappresenta una via d’uscita alternativa alla sindrome della resa senza condizioni ai tedeschi che caratterizza quasi tutti i comandi italiani dopo l’8 settembre Gandin non è, quindi, né il generale democratico ante litteram né il comandante insicuro, oscillante, travolto dai subalterni e dalle circostanze e riscattato solo dal sacrificio finale quale è descritto da molta lettera- 137 tura. Tale, del resto, non appare ai suoi interlocutori tedeschi, che lo vedono piuttosto come un tenace, puntiglioso, diffidente negoziatore, che alla fine si trasforma in risoluto avversario, responsabile di quello che loro appare come l’ammutinamento della Acqui. Gandin è preso tra il senso di responsabilità che sente verso i suoi uomini e il lealismo che prova verso i tedeschi, con i quali ha sempre avuto ottimi rapporti. La sua decisione finale appare ragionevolmente ponderata. Non è guidata dallo spirito di immolazione o dalla pura obbedienza agli ordini bensì da un calcolo di rischio - un azzardo forse - in circostanze estreme. Un patriottismo ragionato. I limiti del generale comandante sono piuttosto di carattere tattico- 138 strategico, di guida delle operazioni militari. Durante la battaglia, che dura con intensità intermittente dal 15 al 22 settembre, gli italiani soccombono davanti alla superiore capacità di combattimento, di manovra, alla qualità delle armi dei tedeschi, davanti alla superiorità dei comandanti tedeschi rispetto ai colleghi italiani e al ricorso massiccio e sistematico all’arma aerea. Ma una diversa dislocazione delle truppe italiane e una diversa conduzione della loro azione avrebbe forse sortito sul campo un effetto meno fallimentare. È noto che soltanto dopo il 9 e 10 settembre - tardivamente rispetto al processo di dissoluzione dell’esercito – il governo Badoglio invita alla resistenza attiva contro il tedesco, rimanendo tuttavia reticente su come considerare dal punto di vista del diritto internazionale l’ex-alleato germanico. Se e come dichiarare guerra alla Germania. Questa approfitta di questa reticenza non solo per accusare di tradimento l’Italia, ma per dichiarare “ammutinate” le truppe che a Cefalonia resistono all’ingiunzione del disarmo, disattendendo presuntivamente gli ordini della XI armata (da cui gerarchicamente dipendono) che si è arresa. Persino gli anglo-americani danno questa interpretazione. Nell’incontro a Malta con la delegazione italiana del 29 settembre ( quindi a tragedia conclusa a Cefalonia, di cui le autorità italiane sono al corrente) Eisenhower affronta con una punta polemica la questione dello status giuridico internazionale dei prigionieri italiani in mano tedesca, provocando una impacciata reazione italiana. Il Verbale dell’incontro riferisce innanzitutto le parole di Eisenhower: “Desidero sapere se il governo italiano è a conoscenza delle condizioni fatte dai tedeschi ai prigionieri italiani in questo intervallo di tempo in cui l’Italia combatte (de facto) la Germania senza averle dichiarato guerra”. La domanda genera qualche perplessità nei rappresentanti italiani - dice il Verbale - perché inizialmente non viene capita. Dopo alcune consultazioni il generale Ambrosio, capo di stato maggiore generale, dichiara: “Sono sicuro che i tedeschi li considerano come partigiani”. “Quindi passibili di fucilazione?” ribatte il generale Eisenhower. “Senza dubbio” conferma Ambrosio. Conclude allora Eisenhower:“Dal punto di vista alleato la situazione può andare bene anche così, ma per difendere questi uomini, nel senso di farli divenire combattenti regolari, sarebbe assai più conveniente per l’Italia dichiarare guerra alla Germania”. La scena appena descritta è amaramente istruttiva. Colpisce in particolare la laconica battuta “senza dubbio” di Ambrosio in risposta al quesito di Eisenhower se gli italiani prigionieri siano formalmente passibili di fucilazione. In fondo sarà la stessa posizione sostenuta dai tedeschi, in particolare dal generale Lanz direttamente responsabile dell’azione di rappresaglia a Cefalonia, davanti al tribunale di Norimberga! C’è da chiedersi se, giorni prima, quando lo stesso Ambrosio con i suoi radiomessaggi incitava Gandin a resistere ai tedeschi con le armi, era consapevole del destino cui mandava incontro i soldati della Acqui. È comprensibile l’amarezza dei commentatori e degli storici italiani, soprattutto dell’ambiente militare, per la passività degli anglo-americani di fronte alla situazione della Acqui. Qualcuno vi ha visto l’intenzione inglese di disgregare quanto restava dell’esercito italiano o la cinica indifferenza per una resa dei conti tra gli ex-alleati dell’Asse. Forse più semplicemente per gli anglo-americani il dramma di Cefalonia, periferico dal punto di vista strategico, si è consumato in tempi troppo rapidi e in una logica politica troppo confusa per suscitare la loro attenzione. D’altra parte, l’atteggiamento del governo Badoglio (e del Re in persona) è prodotto da un lato dalla precedente assurda attesa/pretesa di poter sottrarre l’Italia senza danni all’alleanza militare tedesca e, dall’altro, dall’ambiguità degli impegni verso gli anglo-americani nel contesto della firma dell’armistizio. La 139 preoccupazione dominante ed esclusiva della monarchia per il riconoscimento della continuità istituzionale è pagata con la totale impotenza politica e operativa. E la Acqui ne sopporta i costi peggiori. La fusione dei motivi antifascista e antitedesco è tipico della storiografia resistenziale anche e soprattutto a proposito di Cefalonia. Roberto Battaglia nella sua classica Storia della Resistenza italiana dedica un paio di pagine significative alla Acqui nella prima edizione (1953) e soprattutto nella seconda (1964) con espressioni diventate poi canoniche nella sinistra. Ma il motivo antitedesco era già dominante nei primi tentativi compiuti dal Regno del Sud di usare Cefalonia per rafforzare, presso la mo- desta parte di opinione pubblica italiana che riusciva a raggiungere, e soprattutto presso gli anglo-americani, la sua rilegittimazione in chiave anti-tedesca. La nota di elogio alla divisione Acqui del governo Badoglio del 23 maggio 1944 non è un semplice atto dovuto, ma lo sforzo di accreditare la primogenitura dell’esercito regio nella lotta di liberazione contro la Germania. Ma l’operazione di continuismo dell’istituto monarchico e dell’esercito regio non poteva scrollarsi di dosso la corresponsabilità dello stesso governo Badoglio nella pessima gestione proprio della vicenda di Cefalonia. Una variante diversa è offerta dopo il 1945 con il rientro dei protagonisti della Acqui sopravvissuti, tra cui gli ufficiali che avevano criti- cato violentemente Gandin vantandosi di averlo alla fine spinto alla lotta. Alcuni di essi avevano nel frattempo fatto l’esperienza della resistenza con i partigiani greci ed avevano abbracciato posizioni politiche di orientamento comunista. Presentandosi come i “banditi della Acqui” mirano ora a riqualificare politicamente in senso nazional-popolare la lotta antitedesca. È questa interpretazione che viene codificata appunto nel libro sopra ricordato di Battaglia. Riprendendo la citatissima (ma forse apocrifa) dichiarazione di Gandin “per ordine del comando supremo e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la divisione Acqui non cede le armi”, lo storico sottolinea “che è una formula da annotare perché è già tipica della Resistenza italiana in cui l’elemento legale (gli ordini del governo legittimo) si trova sempre costantemente vicino all’elemento nuovo e rivoluzionario: la volontà popolare. Così al termine della nostra storia della Resistenza troveremo abbinati i due elementi nei proclami insurrezionali del CLNAI”. Accanto a questa linea interpretativa è viva anche la preoccupazione per la continuità storica del patriottismo. Un comunicato del 13 settembre 1945 del già menzionato governo Parri afferma che “la Acqui rappresenta la continuità tra l’epopea della prima guerra mondiale e quella dell’attuale guerra di liberazione”. Lungo questo orientamento si muoveranno tutte le successive prese di posizioni ufficiali, sempre più assorbite dalla dimensione sacrificale dell’eccidio per mano nazista, sotto il segno del patriottismo espiativo, accompagnate per altro (ma questo lo sapremo molti anni dopo) da un benevolo atteggiamento verso la nuova Germania federale per quanto riguarda la sollecitazione a indagare sui colpevoli. Per il resto, tutti i politici, da Moro a Pertini, danno il loro contributo alla celebrazione del ricordo di Cefalonia sulla stessa falsariga, sino all’encomio solenne del 1993 del ministero della difesa in occasione del Cinquantenario che parla di “impeto di sublime dedizione alla Patria, ispirata alla legge del dovere e dell’onore ed a insopprimibile fremito di libertà, rinnovando le gesta degli eroi del risorgimento”. Retorica a parte, questa versione canonica di Cefalonia solleva il dissenso dei sostenitori della tesi di “Cefalonia, pagina nera della storia militare italiana”. Essi non contestano certamente l’eroismo personale dei soldati, ma criticano le modalità della decisione del comando della Acqui. In particolare accusano il generale Gandin di essere stato un cattivo comandante perché ha condotto i suoi uomini ad un inutile sacrificio, cedendo alle minacciose pressioni di alcuni suoi subalterni. Si è comportato come uno di “quei pastori che rincorrono il gregge per non abbandonarlo sino a precipitare con esso nel dirupo”. 142 Questa affermazione, che riprende argomenti già sostenuti nell’immediato dopoguerra, ha due punti deboli. Innanzitutto dà per implicito senza offrire cioè un’adeguata argomentazione - che sarebbe stato meglio comunque che la Acqui cedesse le armi come la grande maggioranza delle altre unità in Grecia e nei Balcani. Evitare un inutile spargimento di sangue sarebbe stato il primo comandamento dell’esercito italiano d’oltremare. In secondo luogo non prende in considerazioni i motivi per cui “il gregge dei soldati” vuole combattere, escludendo pure che il suo movente sia lo spirito patriottico risorgimentale. In effetti Cefalonia è un episodio bellico straordinariamente motivato a livello di truppa presso entrambi i campi avversi. Tra gli italiani si registra un forte risentimento anti-tedesco, mentre tra le truppe tedesche (molte austriache) domina incontrastato, anzi promosso dall’alto, un sentimento anti-italiano con il ritornello ossessivo del tradimento, su cui ritorneremo. Non è facile dare una etichetta univoca e sintetica al comportamento “bellicoso” degli italiani della Acqui, perché è un convergere di motivazioni diversamente declinate a seconda dei diversi gradi gerarchici. Abbiamo già detto dei valori del patriottismo tradizionale come l’orizzonte culturale naturale entro cui si muovono i militari, gli ufficiali innanzitutto. Ma nel comportamento complessivo degli uomini in quei giorni di settembre c’è altro: un istinto collettivo di sicurezza che diventa volontà di rischio, sino all’azzardo. Quegli uomini sfatano la leggenda che “gli italiani non si battono”, sorprendendo i tedeschi che reagiscono con brutalità. Su questo sfondo si relativizza anche l’episodio della consultazione della truppa, salutata (a sinistra) come una innovativa “rottura dell’autoritarismo militare” e condannata (a destra) come episodio di “sovietismo” e cedimento demagogico. In realtà, se si esaminano con attenzione i pochi materiali testimoniali che abbiamo a disposizione, entrambe le affermazioni appaiono insostenibili. La rapida consultazione di alcuni reparti (nella notte tra il 13 e 14 settembre) è un gesto irrituale da parte di un comandante, sensibile verso i sentimenti della truppa in una situazione eccezionale. Ma la decisione di interrompere le trattative con i tedeschi e di prepararsi all’azione di guerra è già praticamente maturata sulla base di altre ragioni (lo conferma del resto esplicitamente nella sua memoria il console fascista che scrive “senza nemmeno aspettare l’esito di questo curioso sistema di votazione, si preordina tutto per un combattimento”). Rimane la gravità degli atti di violenta insubordinazione verificatasi in alcuni reparti della Acqui (e riportati da tutti i testimoni) ma, avendo scartato le sanzioni disciplinari, al comandante non resta che una qualche forma di ricupero del consenso e dell’emotività della truppa. Il punto è perché i soldati si comportano in questo modo bellicoso. L’innegabile montante risentimento anti-tedesco ha poco a che vedere con il patriottismo risorgimentale o del Piave. La spiegazione va ricercata nella volontà di tornare in patria con le armi e quindi di combattere chiunque si oppone: appunto i tedeschi ex-alleati. Questo atteggiamento si scontra per alcuni giorni con il comportamento del comandate Gandin che ritiene di raggiungere lo stesso obiettivo del rimpatrio senza spargimento di sangue. Discorso diverso merita la motivazione degli ufficiali (innanzitutto dei reparti di artiglieria) che creano quelli che nella letteratura saranno chiamati (con approvazione o con disapprovazione) i “fatti compiuti” di ostilità contro i tedeschi. Considerati eroi da alcuni storici, questi ufficiali sono visti da altri, ancora oggi, come teste calde che si sono spinte ad inaccettabili atti di provocazione, sedizione e prevaricazione sul comandante in capo. In realtà, anche qui, la documentazione a nostra disposizione ci mette davanti ad un caso estremo di conflittualità e tensione all’interno della Acqui, di un contrastato processo decisionale il cui esito finale tuttavia rimane imputabile al comandante in capo. Infatti soltanto dopo la verifica puntigliosa delle mancanza di garanzie tedesche, Gandin arriva alla conclusione che l’intesa onorevole con gli ex-alleati è impossibile e annuncia che la Acqui preferisce combattere anziché subire il disonore del disarmo. Rimane un ultimo motivo che spiega la durezza dello scontro e la ferocia della vendetta tedesca. I tedeschi erano convinti che alla fine gli italiani avrebbero ceduto o fatto solo finta di resistere, non essendo considerati dei grandi combattenti. Invece questa volta gli uomini della Acqui a Cefalonia combattono con determinazione, sfatando l’antica leggenda che “gli italiani non si battono”. 143 Proseguono le indagini sulla strage della Divisione Acqui attuata a Cefalonia dalle truppe di occupazione tedesca di Vanghelis Sakkatos traduzione di Massimo Rapetti (pubblicato su Eleftherotipia di lunedì 1 Agosto 2005) Nel 1943 a Cefalonia i soldati tedeschi delle forze di occupazione appartenenti alla Wehrmacht giustiziarono a sangue freddo i militari italiani della Divisione Acqui, in seguito alla sollevazione antifascista di questi ultimi. Lo spregevole crimine è inserito nella memoria storica con la definizione di eccidio. Negli anni ’60 nuovi elementi costrinsero le autorità giudiziarie dell’allora Repubblica Federale Tedesca a procedere al riesame del dossier per individuare e punire i colpevoli. Avviata nel 1964 e proseguita fino al 1968 ad opera della Procura di Dortmund, l’istruttoria è ripresa nel 2001 nell’ambito del riesame e delle indagini sui nuovi elementi concernenti i crimini di massa attuati dai nazisti. A capo dell’istruttoria e dell’attività d’investigazione si trova il procuratore superiore Ulrich Maass, direttore del servizio centrale del Land del Nord Reno-Westfalia, a Dortmund per questi processi. Seguendo da anni il caso, il giornalista e scrittore Vanghèlis Sakkàtos ha intervistato il dott. Maass ad Argostoli in merito all’andamento e alle risultanze delle inchieste. 144 Il procuratore Ulrich Maass intervistato da Vanghèlis Sakkàtos ad Argostoli nel giugno 2005. Quando e per quale motivo ha avviato l’istruttoria sullo sterminio dei soldati italiani della Divisione Acqui? «Il concetto di sterminio (Ausrottung) è un’espressione tipicamente nazionalsocialista e al momento non si trovano nazionalsocialisti nella lista degli indagati.Tuttavia continueremo di buon grado a combattere le ingiustizie del nazionalsocialismo. L’istruttoria fu avviata dalla Procura di Dortmund nel 1964-68. Io l’ho ripresa nel settembre del 2001 e da allora la dirigo. Le motivazioni sono costituite da elementi, fatti e prove emersi di recente». Finora quanti uomini della Wehrmacht, all’epoca dei fatti operativi a Cefalonia e oggi ancora in vita, ha interrogato? «I militari ancor vivi, e che allora si trovavano proprio a far parte delle truppe germaniche stanziate nell’isola, oggi vivono in Austria, Germania, Italia e in altri paesi. Ritengo che siano state acquisite le deposizioni di circa 400 di essi. Personalmente ho provveduto ad interrogarne circa un centinaio». Quante testimonianze scritte ha ricevuto con l’assistenza giudiziaria della Procura di Cefalonia e quante deposizioni verbali ha registrato lei stesso qui nell’isola? «Le risposte alle sue due domande si equivalgono. Io ho assunto agli atti le deposizioni di 25 persone. Di queste alcune sono state interrogate dalla Polizia locale e da quella di Atene. 1 Come lei certamente sa, alcune mediante procuratori, altre attraverso giudici locali e, infine, alcune grazie al mio viaggio nell’isola. Oggi1, ad esempio, ho assistito alla deposizione di testimoni fino alle ore 13.00». Quando pensa che possa essere celebrato il processo? «La domanda è formulata molto bene. Un procedimento avviato a livello centrale per noi significa un’azione giudiziaria e questa può aver luogo solo in presenza degli imputati. Sul piano individuale, in quanto persone, è possibile determinarne le responsabilità e accertarli quali responsabili di azioni concrete. In generale occorrerà tener presente che questi orribili crimini nazisti avvenuti nell’isola, nel complesso, sono qualificati come “anonimi”. Con buona probabilità duemila soldati tedeschi giunsero a Cefalonia dopo un servizio di breve durata nella Grecia continentale e presero parte a crimini di guerra, come l’esecuzione di prigionieri. Non è accertata la loro partecipazione personale, tuttavia ad un certo livello non la possiamo escludere. E questo elemento – la partecipazione personale – dovrà essere da noi dimostrato. Rispondendo nello specifico alla sua domanda, sono in grado di dirle che esiste la possibilità, in breve tempo, Si tratta del 9 giugno 2005. 145 procedimento d’inquisizione delle due persone di cui stiamo parlando». I testimoni ascoltati in questa sede saranno chiamati a deporre anche durante lo svolgimento dell’azione giudiziaria in Germania? forse quest’anno, di formulare un’accusa contro due militari tedeschi. Quando ciò potrà avvenire? Probabilmente allorché il tribunale avrà predisposto tutto il materiale». Questi sono gli ufficiali bavaresi che presero parte all’esecuzione degli ufficiali italiani presso la Casetta rossa di Capo San Teodoro. «È assolutamente corretto. Lei dispone di buone informazioni. Ho avviato l’azione a carico di questi due uomini sulla base di di elementi per il procedimento centrale e in seguito ho rinviato la pratica ai miei colleghi della Baviera. Questo perché sono responsabile soltanto per il mio Land federale del Nord Reno-Westfalia. Potrei istruire indagini anche nel luogo dei crimini, a Cefalonia, però qui non ho completa giurisdizione. Tuttavia non potrei perseguirli neppure nella loro località di residenza, perché anche lì non ho alcuna autorità». Per questo sono venuti a svolgere indagini qui a Cefalonia il procuratore di Monaco e un ispettore di Polizia? «Sì. Sono al corrente della visita che il collega della Procura di Monaco e l’ufficiale della Polizia Criminale della Baviera hanno compiuto nell’isola, dove pure hanno svolto interrogatori e raccolto deposizioni, per il regolare 2 146 Miei i corsivi. (N.d.T.) «Questo dipende dalle valutazioni della corte. Più correttamente è vincolato agli impegni del tribunale competente nell’ambito delle audizioni dei testimoni. Io poi ritengo probabile benché non sia di mia competenza – che depongano i testimoni greci. Non so se rilasceranno i loro interventi in tribunale in Germania, oppure se deporranno in Grecia, forse qui ad Argostoli». Per quali ragioni il procedimento di inquisizione dei responsabili ha subito un tale ritardo e quale significato assume ormai un processo penale contro di loro? «Posso spiegare il ritardo. In Germania, per lo meno nell’Ufficio di cui naturalmente a quell’epoca non facevo parte perché ero studente, vennero a conoscenza dei crimini di Cefalonia, per la prima volta, nel 1964. Personalmente ne presi coscienza nel 2001, circa 4 anni fa, e cominciai ad occuparmene da allora, come ho già detto, con l’istruttoria. Sono stati necessari due anni per formulare accuse concrete contro i due uomini che successivamente ho rinviato alle autorità bavaresi. È molto2 tardi perché possa accadere realmente qualcosa che faccia luce sul problema, 62 anni dopo i fatti o dopo il fatto di maggior rilievo; tuttavia secondo me non è troppo tardi. Per quel che concerne il significato del processo penale, dico che tanto questo quanto l’istruttoria che sto coor- dinando, certamente rendono queste tematiche maggiormente conosciute presso l’opinione pubblica. E il processo penale, infine, sta a significare che agli accusati, qualora condannati seppur con tale ritardo – ed il ritardo è grande – sarà inflitta una giusta pena». Quale valenza attribuisce a questo procedimento penale? «Se con procedimento penale non intende il processo penale ma un’istruttoria, allora sarà necessario che mi ripeta. Penso che stiamo portando avanti un regolare lavoro di indagine relativo a persone anziane che hanno partecipato qui ad atti punibili penalmente, e ad essi sarà necessario comminare delle pene. Naturalmente si tratta di un imperativo morale: stiamo riesaminando i fatti avvenuti nell’isola. Il mio pensiero va inoltre all’opinione pubblica mondiale, agli studiosi ed in particolare agli storici. Dovremo rivedere gli elementi, organizzarli e valorizzarli, mettendoli a disposizione dei ricercatori così che possa sussistere una più ampia base per successivi studi scientifici. Un presupposto per me naturale, ed è per questo che lavoro in modo diverso da uno storico, è che l’ingiustizia deve essere documentata qua. Anche rendendo note su scala più ampia le azioni già conosciute». Spero che dall’istruttoria emergano elementi concreti.Anche in Germania possediamo testimonianze serie. Le verificheremo confrontandole con informazioni di carattere storico, con altre ricavabili da documenti del periodo dell’occupazione tedesca e da carte verosimilmente trovate nell’isola e all’estero. Abbiamo raccolto moltissimo materiale, e procedendo ad un esame incrociato, con ogni probabilità potremo ricavarne una documentazione che ci consentirà di celebrare il processo. Giacché senza gli autori reali ed accertati, può essere stato chiunque, uno o l’altro. Ed è opportuno ribadire apertamente questo aspetto, in particolare quando si tratta di ufficiali. Uno e l’altro, in qualità di comandanti di compagnia, si trovavano a Troianata nella circostanza specifica. Essi hanno impartito l’ordine di far fuoco sugli italiani ai loro soldati che impugnavano le armi e di cui probabilmente non è più possibile accertare l’identità. In questa circostanza, chi ha dato l’ordine viene per primo perseguito in giudizio e, dato che è vivo, sarà condannato». Quali sono le persone responsabili di queste azioni? «Conosciamo tutte le unità militari, conosciamo i nomi di molti militari, ho a mia disposizione tutti i documenti. Però in concreto non so chi, chi personalmente, imbracciando un mitra ha sparato su un gruppo di italiani uccidendoli. Questo è un problema su cui sto riflettendo, e qui a Cefalonia ho raccolto valide deposizioni di testimoni. 147 Luoghi e persone: segni della memoria Le vicende della resistenza ad Acqui e nell’Acquese di Vittorio Rapetti Acqui Terme - 25 aprile 2002 – portici di fronte al Liceo Classico. Orazione al 57° anniversario della Liberazione: due figure “storiche” dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI): Carlo Gilardenghi , presidente dell’Istituto Storico della Resistenza di Alessandria Bartolomeo Ivaldi “Tamina”, partigiano della “Viganò”. 148 Elaborazione e costruzione della memoria Tale processo si intreccia con l’ideologia e la prassi politica e sociale, oltre che riflettersi nelle varie forme di manifestazione artistica (dalla musica al cinema, dalla letteratura al teatro, dalla pittura alla scultura). Forme che, nel caso specifico, hanno visto come autori anche gli stessi protagonisti delle vicende storiche: si pensi alle espressioni culturali elaborate durante gli anni della resistenza (canti, poesie, lettere...), ai romanzi e film del neorealismo, alla memorialistica che sta vivendo una nuova stagione, sollecitata dalla rinnovata attenzione per i “testimoni” diretti e per il loro vissuto. Questo intervento si accompagna alla presentazione di alcune delle immagini - e delle relative ricostruzioni - degli 11 luoghi di memoria resistenziale di Acqui e di alcuni dei paesi dell’Acquese. La mostra, proposta ad Acqui in occasione del 25 aprile 2005, sarà nuovamente visibile ad ottobre, in coincidenza con la presentazione dei lavori elaborati dagli studenti delle scuole elementari e medie. In questo senso si tratta di un lavoro ancora “aperto”. I materiali della mostra sono stati raccolti e organizzati da Roberto Rossi, Renato Pesce e Massimo Sarpero del Centro culturale “A.Galliano” in collaborazione con l’ANPI e con il coordinamento dei comuni dell’Acquese e la commissione docenti di storia. Il dovere della memoria è diventato motivo di riflessione e discussione su tanti piani diversi: vale per le memorie personali e familiari (chi non conserva gelosamente l’album fotografico dei nonni?), vale in modo ancor più complesso e non meno profondo per le memorie collettive. Nel caso della seconda guerra mondiale e della lotta di resistenza, le vicende hanno assunto dimensioni così diffuse e radicali da rappresentare una vera e propria “svolta” nelle società e nelle memorie individuali (“niente potrà essere come prima”, “nessuno può dire di non esser stato coinvolto”), toccando valori di fondo nel campo civile e nella mentalità. E’ quindi evidente che in casi del genere le memorie siano oggetto di un importante processo di rielaborazione culturale. 1 Il processo della memoria e l’“impegno a non dimenticare”, quindi, non sono soltanto “pensieri”, ma di fatto si basano su una serie di iniziative, dalle più semplici alle più raffinate, che intendono principalmente rispondere ad una esigenza: non perdere le tracce di quanto è accaduto, non smarrire il senso degli avvenimenti, rinnovare la comunicazione su fatti e valori che in queste vicende si sono messi in gioco. Ovviamente, questo comporta anche un processo di selezione ed elaborazione dei fatti (alcuni diventano subito emblematici, altri assumono rilevanza successivamente, altri vengono rimossi o taciuti, altri semplicemente si perdono…). Tutto questo per la Resistenza è sicuramente avvenuto ed il processo è ancora in atto: in molti paesi della zona vi sono lapidi, cippi, iscrizioni che ricordano protagonisti e fatti. In Acqui, il tradizionale corteo dell’ANPI, ripreso quest’anno in forma unitaria, si snoda lungo ben 11 tappe corrispondenti ad altrettanti episodi e vicende tra le molte avvenute in città. C’è però da notare come questo processo di costruzione della memoria non sia affatto scontato: per altre vicende tragiche come la deportazione di militari ebrei, civili, militanti politici o per fenomeni storici di grande rilievo come l’emigrazione, la memoria collettiva ha operato pochissimo e ha prodotto segni molto limitati e comunque “lontani da noi”, nonostante tali fenomeni abbiano effettivamente segnato le nostre popolazioni2. 1 Sulla complessità e le reticenze di questo “passaggio di memorie” circa le vicende belliche e resistenziali abbiamo discusso nel saggio “Tra storia e attualità. La resistenza e la memoria” in “Iter” n.1/2005. 2 Emblematico il titolo della raccolta di memoria curato da un piemontese deportato a Mauthausen, responsabile dell’ANED: F. BARUFFI, Laggiù dove l’offesa (rivisitando i luoghi della memoria), Ramolfo, Carrù, 2001. 149 Questo può essere dipeso proprio dalla mancanza di luoghi fisici sul territorio capaci di richiamare quelle vicende, ma alcuni studiosi hanno parlato di mancata “assunzione di responsabilità del passato” o di una vera e propria rimozione.3 Tornando alla resistenza, nell’arco di 60 anni si sono registrate diverse fasi, scandite anche dalla evoluzione politica italiana e locale. In generale negli anni ’50 e ’60 si assiste ad una riduzione di interesse (che alcuni interpretano come una vera e propria messa ai margini delle lotte partigiane); alla rinnovata attenzione manifestata negli anni ’70-’80, segue un nuovo affievolimento tra la metà degli anni ’80 e ’90, che si intreccia in misura crescente con il dibattito sul revisionismo storico e la messa in discussione della resistenza (in chiave politica più che storica). A livello più semplice, “popolare”, se nell’immediata fase successiva alla lotta di liberazione c’è il desiderio di ricordare vicende ben presenti agli abitanti di un territorio, negli anni successivi comincia la preoccupazione della “perdita della memoria”, il valore della resistenza sembra affievolirsi, le manifestazione registrano un calo di partecipazione e di entusiasmo, i giovani paiono estranei. Negli ultimi anni ci si accorge che i testimoni diretti si riducono e affiora un nuovo interesse per il loro ascolto. Nel contempo si coglie abbastanza facilmente come la memoria affidata solo al ricordo delle persone non sia sufficiente, né sempre idonea per aiutare chi non c’era a capire. Pur avendo tanti strumenti a disposizione, non è scontato oggi conoscere fatti, comprendere processi, cogliere 3 150 significati, rendere onore (questo stesso intervento non ha altri scopi). Peraltro nell’arco di 60 anni il processo di elaborazione dei segni di memoria è stato certo significativo. Esaminiamone alcuni tratti, confidando che questo possa servire ad ulteriori recuperi e riflessioni. I segni “semplici”: le lapidi Proprio per la necessità di essere concreti e visibili, il recupero della memoria opera attraverso segni che si legano ad un territorio. Nomi e fatti. Questo è il primo livello, più diretto, potremmo anche dire più “popolare” dei segni e luoghi di memoria. Non a caso essi sono rappresentati da semplici lapidi (molto simili a quelle dei cimiteri) che ricordano un nome e una data, e in una breve epigrafe ricordano il fatto e pochi essenziali particolari. In genere sono i segni “poveri” che a breve distanza dalla vicenda fissano il ricordo nel luogo preciso. Ad Acqui è il caso, ad esempio, delle due lapidi dedicate al giovane studente Giuseppe Oddone e al soldato Natalino Testa. La prima -accanto alla foto- riporta solo il nome, la data “16-3-1945” e la dicitura “martire patriota”. La seconda inserisce qualche elemento biografico (data e luogo di nascita), il nome di battaglia “Carlino”, l’epigrafe “qui trucidato dai fascisti” e la data dell’esecuzione sommaria del partigiano. In questa lapide compare anche la “firma”: il CLN di Acqui. Appunto: fatti e nomi, luoghi e responsabilità. Il tutto su un quadretto di marmo collocato nel cortile dell’expoliteama Garibaldi. Precisione e immediatezza, senza problema di visi- F. CIUFFI, La memoria e i luoghi, in “Quaderno di storia contemporanea” Isral, n.34/2003, pp.79-97. bilità (al punto che ben pochi acquesi ne conoscono l’esistenza). La stessa sobrietà caratterizza le altre lapidi che in diversi punti della città di Acqui, così come in diversi paesi dell’acquese, ricordano le fucilazioni e gli scontri tra partigiani e nazifascisti: del tutto simili a quelle dei caduti delle varie guerre collocate sotto i portici della casa municipale o all’ingresso del cimitero (in qualche caso aggiunte sulle stesse lastre che ricordano i caduti del ’15-’18), con le diciture “patriota”, “partigiano”, “soldato”, “alpino”, marinaio”, “carabiniere”, ecc…. Forse, non casualmente, a introdurre una delle interpretazioni della resistenza come “secondo risorgimento”. Tra queste lapidi troviamo però un paio di inconsueti tipi di caduti, quelli “civili” e i “deportati”, ebrei e no. A rammentare che questa guerra ebbe anche una caratteristica tutta diversa dalla precedenti: non solo “totale” per il coinvolgimento delle popolazioni civili accanto ai militari, ma anche con obiettivi del tutto nuovi : gli ebrei e gli oppositori politici, non combattenti uccisi in “fatti d’arme”, ma inermi liquidati. La deportazione degli ebrei nei campi nazisti è segnalata ad Acqui da una targa anch’essa collocata sotto i portici Saracco. E tutto ciò ricorda pure un altro fatto inedito o almeno ormai disperso nella memoria di quasi un secolo e mezzo di storia (ai tempi dell’invasione napoleonica): l’occupazione straniera e la crisi di una appartenenza civile e nazionale (peraltro da poco raggiunta). Se ci si sofferma, proprio queste lapidi danno un senso di straniamento, un po’ diversamente da quelle della grande guerra, che forse suscitano un sentimento di appartenenza: la guerra è una tragedia, la deportazione un mistero, un buco nero. La lapide collocata nel cortile all’ingresso dell’ex-politeama Garibaldi, ricorda l’uccisione del partigiano Natalino Testa. Per il 2 settembre 1944 “Carlino” aveva progettato un piano di fuga per alcuni suoi compagni catturati dai fascisti ed obbligati a vestire la divisa della guardia repubblichina. Con il loro aiuto pensava poi di approvvigionarsi di armi. Forse per caso, destò sospetto in alcuni ufficiali repubblichini che stavano transitando in corso Bagni. La perquisizione lo trovò in possesso di un’arma: senza alcun interrogatorio, venne messo contro la parete del cortile del cinema e fucilato dagli stessi ufficiali, in quanto sembra che nessuno dei soldati abbia obbedito all’ordine di fuoco contro il partigiano.A “Carlino” venne intitolato un distaccamento e poi una delle brigate della XVI divisione Garibaldi “Viganò.” GIUSEPPE ODDONE La piccola lapide, posta in via Cassino sulla parete esterna dell’edificio che ospitava la scuola Media “Pascoli”, ricorda un giovane studente genovese di origini acquesi. Nel ’44 Oddone aveva aderito ai gruppi d’azione patriottica (G.A.P.) operanti nella periferia del capoluogo ligure (Sestri Ponente). In missione ad Acqui, nel marzo del 1945, fu intercettato sul treno proveniente da Genova a seguito di una delazione. Fermato da militi della guardia fascista repubblichina in via Cassino e trovato in possesso di un’ arma, senza alcun processo, fu passato per le armi sul posto. 151 Il “recupero della memoria”: informazioni e significati Sono significative le numerose epigrafi che richiamano proprio il senso del sacrificio compiuto “per la libertà e l’onore della patria”. Certo non a caso, l’espressione “martiri della libertà” è una costante nella memoria della resistenza, con l’uso di un termine religioso (e già ampiamente impiegato nel linguaggio risorgimentale) a significare un valore altissimo del sacrificio di sé: per gli ideali, per la fede, per la propria dignità, per la libertà di tutti, per la giustizia... nella lotta all’oppressione, all’ingiustizia, alla sopraffazione, alla violenza estrema, ma anche nel far fronte alla paura costante nella vita quotidiana, indotta da una occupazione brutale, dal timore di angherie, soprusi, delazioni, deportazioni..., dalla precarietà di tutti i riferimenti istituzionali. Talora compare l’aggettivo “gloriosi” che accompagna la parola “martiri”. Tracce di una religiosità laica, in un linguaggio volto a sostenere e rinforzare il senso della memoria e a collegare sofferenza e gloria. Così troviamo nella lapide sull’edificio della ex-scuola media “Bella”, dove venivano interrogati e torturati i partigiani catturati e presso cui vennero fucilati 5 partigiani nel gennaio 1944 da parte delle SS. Nella stessa lapide troviamo anche un tratto collettivo, che accomuna tanti sacrifici individuali, oltre ad un richiamo esplicito all’occupante tedesco, che ad Acqui era stato pesantemente presente (con l’impianto di diverse postazioni, un comando della Wehrmacht e delle SS, la requisizione di case, alberghi e mezzi di trasporto e avendo imposto un controllo marcato della città, insieme alla Guardia Repubblicana di Salò). Luoghi e segni “complessi”: persone e vicende di valore simbolico Di genere diverso sono i luoghi rappresentati dalla toponomastica che si riferisce ad alcuni protagonisti della resistenza e dell’antifascismo acquese: dal corso Viganò, che ricorda Guido Ivaldi, uno dei primi capi del movimento partigiano acquese, a via Casagrande che fa memoria dell’operaia acque- A ricordo degli ebrei acquesi deportati nei campi di concentramento nazisti. 25 aprile 1980 152 Le due lapidi e la targa, collocate sotto i portici Saracco, ricordano i caduti civili e i deportati acquesi nei Lager tedeschi. Altri caduti, militari e partigiani, sono ricordati sulle lapidi del cimitero cittadino. E’ questo il testo della lapide collocata sul fronte dell’edificio della Scuola Media “G.Bella”, che ospitava uno dei presidi nazifascisti della città, dove si tenevano interrogatori e torture di quanti erano arrestati. Ad Acqui, nel gennaio ’44, si ebbero le prime fucilazioni. In seguito ad una soffiata, un nucleo di partigiani fu catturato a Perletto. Tradotti in Acqui, sotto l’accusa di essere collaboratori col nemico, furono prima torturati per giorni e giorni: le loro grida di dolore si diffondevano nelle strade vicine. Processati dal tribunale speciale delle S.S. tedesche, vennero fucilati il 23 gennaio nel cortile. Dalle loro estreme lettere, pur nella tragicita’ e nel dolore dell’ora, traspare il radicamento della lotta per la liberta’ nella coscienza popolare. La lapide, sbiadita da parecchi anni, è stata restaurata nel 2005 a cura del sindacato pensionati SPI. se uccisa dagli squadristi fascisti ad Acqui nel 1921. In questi casi, come per gran parte delle vie intitolate a personaggi di rilievo locale, il richiamo memoriale è però assai scarso, in quanto questi segni-luoghi non offrono informazioni specifiche. Nel caso della Casagrande, nella via omonima, troviamo però un bassorilievo realizzato dai ragazzi della scuola media cittadina, che ci segnala una significativa rivisitazione di questa memoria nel corso degli anni ’80. Nel percorso cittadino e nei paesi della zona troviamo segni e luoghi di livello più complesso. L’ampia lapide presso la casa natale di Aureliano Galeazzo, in salita Duomo ad Acqui, riassume i tratti essenziali dell’intera vicenda resistenziale del giovane partigiano ucciso a Volpara nel rastrellamento del dicembre 1944. Accanto alla foto e al nome di battaglia “Michel”, compare l’onorificenza (medaglia d’oro al valore militare) riconosciuta per il sacrificio “cosciente” ed eroico, che salvò la vita degli altri partigiani del reparto. Eroismo e coraggio sono qui collegati con l’altruismo e così ben motivati dallo svolgimento dei fatti, oltre che resi ufficiali dall’ono- rificenza. In questo caso, rispetto al luogo ciò che prevale è proprio il messaggio, espresso dalla testimonianza del giovane e spiegato per esteso dalla lapide. È invece proprio il luogo a fornire lo spunto per un altro importante segno di memoria, riguardante la resistenza acquese: la lapide e la targa in vicolo della Pace ricordano la casa di incontro del CLN cittadino ed i suoi componenti. Un doppio segno, che risale all’immediato dopoguerra e alla fine degli anni ’80, sta a rimarcare il valore simbolico dell’unità antifascista e vede la “firma” congiunta di CLN, Comune e ANPI. L’intreccio con le vicende e i simboli militari Diversamente complessi sono i segni che ricordano un luogo particolare della resistenza acquese: la caserma Cesare Battisti dove si consumò il primo tragico episodio della resistenza militare all’occupazione nazista e si espresse anche in forma spontanea la reazione all’occupante e la solidarietà 153 GUIDO IVALDI “Viganò” fu uno dei primi protagonisti e promotori dell’organizzazione del movimento partigiano subito dopo l’8 settembre 1943. Proveniente dalle file dell’organizzazione clandestina del PCI, già all’indomani dell’armistizio si adoperò per costituire in Acqui Terme il primo nucleo del Comitato di Liberazione Nazionale. Salito sulle colline dell’acquese, attorno a Piancastagna, con Valter Fillak,Agostani,“Ardesio,” ed Edmondo Tosi, contribuì alla organizzazione del primo raggruppamento che divenne poi la III Brigata Liguria. “Viganò” operò come anello di congiunzione tra le nascenti formazioni partigiane piemontesi e liguri: con lui collaborò il col. Giuseppe Thellung “Duilio”, per organizzare il reperimento e l’invio di viveri e materiale dal CLN di Acqui prima alla banda di Fillak e poi alla Benedicta. Il 16 maggio 1944 “Viganò” venne arrestato e imprigionato prima in città e poi nel Cuneese, dove subì lunghi interrogatori, pesanti torture e ricatti, senza nulla rivelare dell’attività di resistenza iniziata ad Acqui. Il 6 luglio venne fucilato a Borgo San Dalmazzo. A “Viganò” fu intitolata la 79^ brigata Garibaldina, successivamente diventata la XVI divisione che liberò nell’aprile del 1945 la città di Acqui. 154 Bassorilievo che ricorda Angela Casagrande (collocato nella via a lei dedicata), la giovane operaia venne uccisa nel 1921 durante l’attacco di una squadra fascista di Alessandria, durante un comizio in piazza Addolorata. Il pannello è stato elaborato nel 1984 da studenti e insegnanti della classe 3a B della scuola media “G.Bella”, sotto la direzione del prof.Vittorio Zitti. ai soldati italiani da parte della popolazione civile del quartiere della Pisterna4. Nel voltone d’ingresso alla caserma, lungo corso Roma, lapidi e cippi ricordano nel complesso la vicenda dei reparti militari nelle diverse guerre, ma un particolare cippo (nell’adiacente cortile) dedicato all’artigliere conte Arturo Ottolenghi, riannoda la vicenda militare e resistenziale anche a quella della presenza ebraica in Acqui. Ancora legata alle vicende propriamente militari è l’originale formella collocata presso l’ingresso centrale del Duomo di Acqui: essa riproduce l’icona di Nikolaevka, ricordando la tragedia dell’Armir ed il sacrificio di tanti alpini e artiglieri anche della nostra zona. Un segno di memoria fortemente connotato in senso religioso sia per il soggetto sia per la collocazione, che apre un capitolo ancora poco raccontato: la vita spirituale di soldati e partigiani durante la guerra. Un altro segno di memoria, anch’esso piuttosto recente, è il monumento ai caduti della divisione Acqui a Cefalonia: a differenza degli altri segni, esso è riferito ad un episodio di 4 Si vedano in proposito le testimonianze raccolte da G.SARDI, Acqui, 9 settembre 1943.L’assalto alla caserma d’artiglieria, in “Iter” 1/2005. Fu nel corso dei grandi rastrellamenti di novembre 1944 che venne ucciso un giovane partigiano acquese, già studente al liceo Doria di Genova: AURELIANO GALEAZZO “ Michel” L’azione tedesca riguardò diverse zone tra Piemonte Liguria e intedeva accerchiare e distruggere le formazioni partigiane. Erano due divisioni tedesche, e vennero da ogni parte, distruggendo tutto ciò che incontravano, spargendo terrore e morte, aizzando bande di prigionieri mongoli contro la popolazione. Nella Val Staffora, dove la pressione fu maggiore, i partigiani dovettero presto ripiegare dopo una accanita resistenza, e altrettanto furono costretti a fare i reparti della zona di Mongiardino, Grondona, Borassi e Roccaforte. Il Comando partigiano inviò a tutti i distaccamenti l'ordine di celarsi nelle grotte, nei rifugi, nelle gallerie, nei crepacci, dovunque ci fosse un riparo: era l'unica possibilità di scampare al gigantesco rastrellamento ad anello. Il gruppo in cui si trovava Aureliano, quindici uomini al comando di “Tigre”, si sganciò da Mongiardino e andò alla Rocchetta, dove si unì ad altri venticinque uomini guidati da “Terzo” e dal Commissario Moro. Il giorno dopo, 18 dicembre, i comandanti decisero di portare in salvo il reparto a Volpara, un paesino di poche case situato su di un'altura isolata. La povera gente del villaggio li aiutò come meglio poté, sfamandoli e offrendo loro ospitalità; il parroco, don Felice, accolse una parte degli uomini nel campanile, e gli altri trovarono riparo dal freddo nel fieno di una cascina. Passarono alcuni giorni, altri venti partigiani, che erano riusciti a sfuggire al rastrellamento, giunsero a Volpara; sembrava davvero che i tedeschi non avrebbero mai scoperto quel rifugio. Il 23 dicembre, nelle prime ore del pomeriggio,Aureliano entrò nella botteguccia del calzolaio, per farsi riparare uno stivale. Mentre l'uomo lavorava in un angolo, si sedette accanto alla porta, lo Sten appoggiato al muro. Improvvisamente sentì un rumore di passi che salivano dalle prime case del paese; si alzò a guardare, appoggiando il viso al vetro della porta. Erano tedeschi, che salivano in silenzio, allineati contro i muri! E i compagni, su nella cascina, non lo sapevano, sarebbero stati colti di sorpresa! Afferrò lo Sten, aprì la porta e uscì nella neve. La sparatoria divampò fulminea.Aureliano cadde subito, le gambe stroncate da una raffica; un tedesco lo raggiunse e lo finì con un colpo di pistola. Messi in allarme dagli spari; tutti gli altri partigiani poterono salvarsi.Tre giorni ancora, e sarebbe stato Natale. L'ultimo Natale di guerra. grande rilievo della vicenda resistenziale militare, sia per la dimensione, sia per le modalità, sia per il momento in cui si verificò (all’indomani dell’armistizio)5, ma rimanda ad un luogo lontano e ad una vicenda sostanzialmente “altra” rispetto alla città. Infatti, il legame principale è il nome del reparto militare e la presenza di tre militari della “Acqui” provenienti dalla zona, tra cui l’acquese capitano Verrini (cui è stata intitolata anche una via cittadina). E’ l’unico segno resistenziale rivisitato in questi anni dalla memoria cittadina ufficiale con grande evidenza, anche in relazione all’omonimo premio storiografico, al gemellaggio con la cittadina di Argostoli (capoluogo dell’isola di Cefalonia), al conferimento della cittadinanza onoraria alla Divisione Acqui, al brano musicale degli Yo-Yo Mundi dedicato ai “Ribelli della Acqui”, alla ricerca storica avviata nelle scuole sulla memoria dei reduci di Cefalonia. 5 Sulla “Divisione Acqui”, un sintetico bilancio ed una aggiornata bibliografia in M.RAPETTI, Cefalonia 1943, in “Quaderno di storia contemporanea”, 37/2005. Presso il Vicolo Pace, la lapide posata nel 1987 amplia il contenuto della targa in bronzo posata nel 1945 da Comune, ANPI, CLN, ricordando il luogo d’incontro del Comitato di Liberazione acquese.Tra il settembre ed il novembre 1943, Guido Ivaldi, Giovanni Pesce, Emilio Diana Crispi Armando Zunino Guido Garbarino, Tommaso e Giandomenico Sutto, Giovanni Filippetti ,Antonio Grattarola si incontrarono per dare avvio al processo di unità delle forze antifasciste acquesi. Il primo incontro avvenne nell’ufficio di direzione del teatro Garibaldi di proprieta’ di Zunino. Il C.L.N. acquese venne ufficialmente insediato da Carlo Ronza, rappresentante del C.L.N. provinciale, all’inizio di novembre del 1943. Da allora si riuni’ clandestinamente in Vicolo Pace.A liberazione avvenuta, il 26 aprile 1945, alle ore 10, il C.L.N. si insediò in municipio e prese in consegna l’amministrazione del comune.Verso mezzogiorno venne affisso in città il primo manifesto per comunicare alla popolazione le disposizioni del C.L.N., che resse il governo acquese fino all’elezione del primo sindaco nel novembre del 1945. Partigiani, soldati e “civili”: la resistenza come fenomeno popolare Segni di memoria di varia complessità, riguardanti fatti collettivi, si ritrovano in molti paesi della zona Acquese: scontri militari, rastrellamenti e fucilazioni sono infatti ricordati a Ponzone e Cassinelle, Malvicino e Bistagno, Rivalta e Visone, Ponti e Morbello, Cassine e Malvicino, Roccaverano La complessità maggiore si incontra al sacrario di Piancastagna. Frutto di una elaborazione assai lunga nel tempo e risultato dello sforzo congiunto di più comuni e istituzioni pubbliche e private, questo luogo di memoria condensa il richiamo al territorio specifico ove avvenne un episodio militare rilevante, con l’intento di offrire un vero e proprio spazio organizzato, esclusivamente dedicato alla memoria e alla riflessione. Alle lapidi si affiancano i bassorilievi di diversi artisti che richiamano fatti, ma soprattutto illustrano aspetti essenziali di tutta la vicenda resistenziale: agli aspetti “militari” si affiancano così le altre dimensioni della resistenza: la collaborazione dei contadini, il ruolo delle donne, il servizio svolto dai sacerdoti, il dramma dei 156 deportati. Qui sta la differenza rispetto alle lapidi tipiche delle prime fasi della elaborazione della memoria resistenziale: il passaggio dall’avvenimento al fenomeno, in cui il singolo episodio si può inserire e comprendere. Emerge l’affermazione essenziale della natura “popolare” della resistenza, intesa non solo nei suoi momenti di scontro armato e di organizzazione politica di singoli gruppi, ma più ampiamente come opposizione morale, come solidarietà a chi combatte per tutti e a chi è ingiustamente offeso, come rifiuto della guerra, come difesa dalla prepotenza... Il contesto fisico e quello naturale entrano poi a pieno titolo nel messaggio che si intende trasmettere: la ricerca di una convivenza civile senza guerra, nella libertà, nella giustizia. Il caso di Piancastagna è ancora singolare e significativo per una rispondenza assai forte tra il sacrario posto all’ingresso dell’abitato ed altri due luoghi centrali del paese: la piazza (dedicata ai “martiri della libertà”) e la chiesa parrocchiale (che contiene diversi riferimenti alle vicende della resistenza). Non quindi un semplice ricordo di una azione militare seppur rilevante, ma il rimando ad un tessuto umano e sociale che fu parte attiva nel sostegno alla resistenza (dal parroco a molti abitanti del luogo). La caserma “Cesare Battisti” ospitava il II reggimento artiglieria di corpo d’armata. Il 9 settembre 1943 il presidio, lasciato senza disposizioni, assediato, dopo una strenua difesa, si arrende alle truppe tedesche, che concentrano i soldati italiani per avviarli alla stazione. La popolazione civile reagisce, cercando di far fuggire i soldati: donne e uomini si frappongono al cordone di guardia, così i soldati si dirigono in maggior parte verso il borgo Pisterna e in via Nizza. La immediata solidarietà degli acquesi fornisce loro abiti civili e protezione per la fuga. Quello degli artiglieri e dei civili è considerato il primo atto di resistenza ai nazisti ad Acqui. Nella ex-caserma “C.Battisti” nell’atrio accanto a due affusti e al bassorilievo, le lapidi ricordano i militari caduti. Il cippo collocato nel cortile della ex-caserma ricorda il conte Arturo Ottolenghi. La formella collocata all’inizio della navata centrale della cattedrale di Acqui, riproduce una icona russa, la “Madonna di Sruschewo”. Donata dai reduci del 2° artiglieri, fa memoria della tragedia dell’ARMIR. Il rapporto tra segni e luoghi di memoria La maggior aderenza del “segno di memoria” al fatto specifico cui si riferisce rende il segno stesso molto chiaro e concreto, ma lo può rendere anche poco visibile. E’ chiaro che un segno di memoria collocato in città è assai più visibile di uno collocato in campagna o in mezzo ai boschi. Per questo, alcuni dei segni collocati su territori disabitati o in luoghi distanti dai centri principali richiedono un impegno ulteriore perché siano visitati, devono perciò avere caratteristiche di attrazione e di fruibilità da poter segnalare e facilitare una “visita mirata” e devono comunque essere sostenuti da un’opera di informazione o di indagine storica rivolta a portare alla luce testimonianze inedite e interpretazioni più approfondite. Facciamo riferimento a due casi significativi, peraltro assai diversi tra loro: il luogo memoriale della Benedicta e il convegno storico di Malvicino. Negli ultimi anni la discussione sul recupero del sito resistenziale della Benedicta ha ben evidenziato questo rapporto tra evidenza del segno e luogo ove è collocato: da un lato l’esigenza di Il monumento ai caduti di Cefalonia lungo corso Bagni, ricorda l’eccidio della Divisione Acqui nel settembre 1943, considerato uno dei primi episodi di resistenza militare al nazifascismo. PIANCASTAGNA - IL SACRARIO CHE COMMEMORA I CADUTI DELLA BATTAGLIA DI DEL 10 OTTOBRE 1944. In questo scontro persero la vita il capitano Domenico Lanza “Mingo”, decorato con la medaglia d’oro della resistenza, tre partigiani ignoti, i partigiani Giovanni Tagliafico,Antonio Deluiso, Otello Deluiso, Libero Agulini, tutti ricordati nella lapide posta all’ingresso. Il sacrario presenta 4 pannelli, con bassorilievi bronzei dedicati alle donne della resistenza, all’aiuto delle popolazioni contadine ai partigiani, all’aiuto dei religiosi nella resistenza, ai deportati della resistenza, alla battaglia di Piancastagna ed al sacrificio di “Mingo” donati da varie amministrazioni. Davanti all’altare del sacrario vi è una tomba nella quale sono depositate le spoglie di un partigiano ignoto caduto nella battaglia del 10 ottobre 1944, insieme a 3 teche contenenti la terra dei luoghi delle altre battaglie riferite allo stesso rastrellamento dell’ottobre 1944. 157 rinnovare la memoria di uno degli episodi più emblematici della lotta di resistenza tra Piemonte e Liguria 6, dall’altro l’esigenza di salvaguardare l’ambiente naturale in cui questo luogo di memoria è situato (il parco delle capanne di Marcarolo). Proprio l’equilibrio tra queste due esigenze ha prodotto una soluzione che potrà valorizzare entrambe le dimensioni (quella memoriale e quella naturalistica), resa possibile da uno specifico progetto promosso dall’Associazione Memoria della Benedicta. Il successo dell’operazione richiederà poi un efficace supporto informativo e logistico e l’inserimento di questo luogo di memoria in un percorso scolastico. Ovviamente questo raccordo scuola-territorio diventa un passaggio cruciale per il recupero ed il rinnovo della memoria ed il senso stesso della conservazione dei luoghi di memoria. Un altro e diverso caso significativo in quest’ambito è stato proposto lo scorso agosto a Malvicino, attraverso un convegno storico che ha rivisitato la memoria di un generoso sacerdote partigiano, don Icardi7, e del rastrellamento tedesco che coinvolse direttamente ben 45 famiglie del paese e prolungò i suoi effetti sino alle vicende di Santa Giulia. Una semplice lapide ricorda in paese il sacrificio di un ragazzo-partigiano, Roberto Di Ferro, detto “Balletta”; un serio momento di studio e di riflessione, sostenuto da testimonianze locali anche inedite, è servito a rinnovare il significato di quelle vicende8. Il caso del “monumento alla resistenza” di Acqui Quando i segni sono collocati in luoghi che richiamano direttamente un fatto e questo luogo è di buona evidenza, lo scopo della costruzione del segno è meglio raggiunto: l’avvio di recupero della memoria o l’indagine su di essa può “funzionare” più facilmente. Facciamo l’esempio forse più evidente della zona (e che tante polemiche ha suscitato in città in questi anni): il monumento alla resistenza di Acqui. Si tratta di un segno assai consistente: un’alta stele, opera artistica lineare e ricca di simbologia, che in un luogo specifico ed in un momento preciso (Acqui, il 25 aprile 1945) ricorda la resistenza come fenomeno più vasto nello spazio (di cui son stati protagonisti tanti popoli diversi, significati dalle scritte in otto lingue) e nel tempo (“Ora e sempre resistenza”), a rimarcare l’attualità di quella memoria e a richiamare che lo spirito e il processo resistenziale non possono considerarsi conclusi in un passato pur glorioso, ma continuano a renderci attenti alle situazioni di oppressione e ingiustizia presenti oggi. Un invito esplicito quindi a una “memoria del presente” e al conseguente impegno etico e civile. La collocazione originaria del monumento, inaugurato nel 1975 per il 30° anniversario della liberazione, era legata ad un dato altamente simbolico: “i giardini della vecchia Posta”, accanto al Liceo Classico, erano stati infatti il 6 Vedi la recente pubblicazione Benedicta 1944. L’evento la memoria, Alessandria 2004. 7 Vedi in proposito il saggio di B.CHIARLONE, Don Italicus, prete guerrigliero e patriota, in “Iter”/1, pp.64-77. 8 Il convegno di Malvicino organizzato dalla parrocchia e dal comune, ha visto gli interventi di don A.Siri, mons. G. Galliano, P. Reverdito, R. Chiarlone,A. Icardi, la partecipazione delle istituzioni del territorio e le rappresentanze dell’ANPI alessandrina e ligure, accanto a molte persone del paese. 158 luogo di incontro tra le colonne partigiane che da diverse direzioni erano entrate in Acqui, occupato la piazza centrale della città, mentre le truppe tedesche e fasciste si erano sganciate verso Alessandria, dopo la trattativa con i comandanti partigiani e la mediazione del Vescovo di Acqui, tramite don Galliano. Un luogo certo ottimo per lo scopo di sollecitare la memoria, proprio perchè ad “alta visibilità”: un monumento isolato, lungo una delle vie principali, in giardini pubblici frequentati, dove la gente facilmente si può soffermare. Appare evidente che - con lo spostamento attuato alcuni anni fa - la “potenza” del segno è venuta meno, proprio per lo sfumarsi del valore simbolico del luogo e per la ridotta visibilità/fruibilità del monumento stesso nella nuova posizione. Inoltre, l’idea di avvicinare in uno stesso “parco della rimembranza” molti dei diversi monumenti cittadini dedicati ai caduti, finisce per trasformare il monumentosegno in una proposta di tipo museale: un museo nel senso tradizionale del termine, ancorché all’aperto, svolge la funzione di raccogliere e riproporre oggettireperti di un passato (ormai concluso) da conoscere e studiare, ma assai meno funge da “recupero vitale della memoria”: se il monumento funge da elemento di costruzione di una identità civile attuale, il museo tende a presentare le tracce di una identità passata (quand’anche non si riduca a rassegna per nostalgici o magazzino per studiosi). Prima e oltre la retorica: funzione e limite del mito resistenziale Molti dei luoghi resistenziali ricordano fatti di violenza e di morte, che assurgono a simboli di sacrificio, di riscatto, di liberazione per gli altri. E’ evidente il messaggio: “caduto per la libertà”. Libertà di chi? Sua, ma soprattutto di chi è restato in vita e di quanti son venuti dopo.Altrettanto chiara e forte la preghiera dei partigiani cattolici “ribelli per amore”. Insomma, in tanti di questi segni e anche di tante testimonianze scritte e orali, si registra il tipico “rovesciamento”, che risente molto della logica cristiana (o più genericamente religiosa): il morire per vivere, la lotta per raggiungere la pace, il sacrificio di qualcuno per la vita di molti, l’oscurità dell’uno per la libertà di tutti, la sofferenza presente in vista di una felicità prossima. Ma c’è anche una logica più laica, legata al rapporto tra generazioni, al senso dell’onore, al dovere di riscattarsi da una “colpa col- Il monumento alla Resistenza di Acqui Terme.Voluto dalla amministrazione municipale e dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia; su progetto del professor Caldini, fu realizzato dal maestro Ferrari; collocato nei giardini accanto al Liceo Classico, venne inaugurato nel 1975, nel 30° della liberazione dall’allora sindaco R. Salvatore. L’epigrafe “ora e sempre resistenza” è espressa in otto lingue. 159 La lapide marmorea commemora Ludovico Ravera ed è posta sulla parete del Vecchio Mulino di Ponzone dove il partigiano perse la vita il 19 settembre 1944. Il giovane partigiano si trovava quel giorno di vedetta attendendo le segnalazioni provenienti da altri compagni appostati sulla torre di Cavatore che avrebbero annunciato l’arrivo dei tedeschi. Non appena vide il segnale convenuto, Ravera si precipitò in paese ad avvertire tutti gli uomini e i compagni dell’imminente arrivo dei tedeschi; quando egli si trovò nei pressi del mulino incontrò una pattuglia di soldati tedeschi, giunti a Ponzone senza essere individuati, che lo colpirono a morte. Di quella circostanza si deve ricordare il comportamento esemplare della madre (Ambrogina Ravera) e della Zia del partigiano, che con il dolore nel cuore non riconobbero di fronte ai soldati tedeschi il loro caro, risparmiando così il paese dalle rappresaglie. Oltre alle lapidi commemorative, il Comune di Ponzone ha reso onore alla figura della madre Ambrogina Ravera, intitolandole un premio riservato alle donne ponzonesi che si sono distinte nel mondo del lavoro, nella famiglia o nel volontariato. Qui a fianco il Monumento dedicato a Lodovico Ravera nei pressi della Pro loco di Ponzone inaugurato dall’amministrazione comunale il 23 Marzo 1983. 160 lettiva”. Significativa in questo senso l’epigrafe posta sulla lapide inaugurata a Strevi proprio nell’aprile del 2005, forse il più recente dei “segni di memoria” della nostra zona; essa recita: “Vi sono sacrifici che riscattano le debolezze e gli errori di una intera generazione e che indicano quale sia la via da seguire per l’avvenire”. Con diverse modalità culturali e varia intensità, gran parte dei protagonisti hanno effettivamente vissuto queste logiche, animati da una spinta etica, da una ideologia politica, da una speranza religiosa, senza le quali non avrebbero potuto reggere le fatiche, le ansie, i rischi per sé e per i familiari. Ma proprio i segni e luoghi di memoria e la loro successiva elaborazione tendono a voler dare una risposta sicura (impressa nel marmo), quasi rassicurante, alle domande angosciose che molti si sono posti nel mezzo delle vicende della guerra e poi dopo:“ma servirà a qualcosa?” ,“ma è il caso di rischiare?”, “non è meglio attendere e non compromettersi?”, “ma, ne è valsa la pena?”, “forse non è meglio dimenticare tutto?”, “e oggi, che significa tutto ciò?”,... Per questo, sovente si osserva (talora giustamente) che nella memoria della resistenza è subentrata una pesante connotazione retorica, o che una lotta collettiva è divenuta la bandiera solo di qualcuno: ciò ha finito per allontanare molti e rendere magari ripetitivi e formalmente rituali i gesti della memoria. Questo processo – che di fatto caratterizza gran parte degli anniversari civili odierni – a nostro avviso può essere reversibile, a condizione che si riprenda a riflettere sul senso profondo delle poche parole che si leggono sulle lapidi, conoscendone un po’ meglio il contesto effettivo. Per certi aspetti la resistenza è stata trasformata in un “mito”; forse questo si è pensato necessario proprio per favorirne la memoria. Recentemente questo mito positivo è stato a volte rovesciato. In entrambi i casi, la riduzione della resistenza a mito non basta, non rende ragione di quanto è accaduto, dei motivi profondi di quella lotta e tanto meno di quanti ci hanno speso un pezzo di vita o la vita intera. Per questo occorre entrare nel merito, in quelli che sono stati i valori di quelle vicende complesse, valori molteplici e diversi.Anche i segni sono molteplici e diversi: alcuni sono impressi sulle lapidi, altri parlano dalla poesia e dai testi narrativi e memoriali, altri incidono sulla politica e sulle regole sociali. Per questo, il legame tra resistenza e Costituzione è stato un dato oggettivo e resta un elemento di forte significato: la riduzione della resistenza a mito rischia di trascinare nell’ambito del mito anche la Costituzione. L’attualizzazione della resistenza può certo prestarsi a diverse interpretazioni, ma se è fatta a partire dai segni e I ruderi della località Cascina Bardana dove vennero uccisi 4 partigiani Bistagno – La lapide ricorda i molti caduti nella guerra e nella lotta partigiana, tra cui le numerose vittime dei bombardamenti aerei. luoghi di memoria, e attraverso una loro corretta presentazione, può diventare un’operazione culturale e civile significativa. I grandi valori sono passati attraverso persone, gesti, situazioni in larga parte quotidiane e Su segnalazione di spie locali il 2 febbraio 1945 i repubblichini e alcuni soldati tedeschi operarono un’azione di rastrellamento nei pressi del paese di Morbello alle Cascine Bardana e Maccarina. Proprio nella prima località sorpresero 4 partigiani (Giacomo Buzzone, Nicolò Dagnino, Paolo Ottonello, Pietro Risso, “Katiuscia”); furono fucilati immediatamente ed i loro cadaveri lasciati in loco. Soltanto dopo un paio di giorni, alcuni residenti delle case attorno, saputo della presenza dei cadaveri li deposero in casse di legno costruite artigianalmente e li trasportarono nel Cimitero di Morbello Piazza per dare loro una degna sepoltura. 161 nascoste, prima e oltre il momento eclatante dello scontro armato. Si pensi in particolare al ruolo decisivo delle donne: protagoniste spesso ignorate, ma decisive, che hanno sopportato un carico enorme di fatiche, rischi, sofferenze, violenze. Sono i protagonisti stessi a richiamarci con i loro racconti, magari molto dettagliati, ad un orizzonte più largo dei singoli episodi, per dirci di aspirazioni, di desideri, ideali e sogni, ma anche di rispetto e solidarietà vissute, di dialoghi ed eroismi, di silenzi e sopportazioni, di miserie e incoerenze, di compromessi e paure, di ingenuità e furberie. Rinnovare la memoria dei segni e dei luoghi può oggi forse permetterci di rielaborare in modo meno “mitico” la vicenda resistenziale, di scoprirne le complessità e -proprio attraverso di esse- coglierne nuovamente il profondo valore di impegno civile. Una memoria “difficile” Ma tutto ciò non è affatto scontato, anzi presenta diversi tipi di difficoltà. In primo luogo per una lenta ma incisiva trasformazione culturale, che ci ha fatto passare dal primato della memoria orale al predominio della memoria scritta con un “un progressivo allenta- mento della memoria e ad una sua riorganizzazione”9. Processo ancor più evidente e accelerato nelle nuove generazioni che stanno crescendo nella comunicazione “immediata” resa possibile dall’elettronica: insieme agli enormi vantaggi della velocità e della quantità di informazioni, ciò pone non pochi problemi alla percezione della profondità storica e allo strutturarsi della relazione durevoli e coerenti tra passato e presente. Il secondo ordine di difficoltà è legato al fatto che la memoria della resistenza torna a far discutere e su di essa si sono riaperti molti dibattiti. Alcuni sono frutti di una storiografia più attenta che si giova anche di nuovi archivi, altri esprimono il riemergere di una “memoria divisa” anche tra gli stessi partigiani militanti in formazioni di diverso orientamento o che manifestano le tensioni interne alle stesse bande rispetto alle “regole” che l’organizzazione del movimento partigiano imponeva10.Altre difficoltà, infine, sono più legate alle polemiche politiche attuali e ad un uso perlomeno disinvolto di testimonianze e vicende particolari. E proprio in questo caso risulta evidente che le vicende del 1943-45 -e più ampiamente quelle del secondo conflitto mondiale - restano un “luogo” di tensione non ancora risol- 9 Per una discussione sui problemi connessi al passaggio di memoria riferito ai luoghi resistenziali, si veda l’intervento di R. BOTTA. I luoghi della memoria - esperienze e problemi, al convegno dallo stesso titolo (Alessandria, ottobre 2004). Il testo integrale in www.isral.it . L’autore evidenzia anche la necessità di una legislazione che assicuri la tutela e la valorizzazione dei luoghi della memoria della guerra, della resistenza e della deportazione. 10 Va ricordato che la costituzione delle bande partigiane fu un impegno molto difficile, anche per la presenza di elementi che non intendevano sottostare a disposizioni e ordini di altri o che utilizzavano la copertura del partigianato per compiere ruberie o violenze. Pochi episodi, ma tali da compromettere in alcune zone il rapporto di collaborazione tra i partigiani e la popolazione contadina e da costruire talora un’immagine banditesca (il che incise sulle vicende dell’epoca e ancor più sulla memoria successiva); ciò portò da parte dei comandi partigiani a definire regole molto dure, che implicavano anche la pena di morte nei confronti dei partigiani che infrangevano tali norme. Per un riferimento a vicende delle nostre zone si vedano le testimonianze riportate in F. SASSO, Folgore.Il Biondino. Storia di una partigiano, Grifl, Rocchetta Cairo , 2000 e le molte opere curate da R.Amedeo delle formazioni autonome delle Langhe. Sul dibattito interno agli stessi eredi della resistenza si veda ad esempio U. FINETTI, La Resistenza cancellata, Ares, Milano, 2004, G. BOCCA, Partigiani della montagna, Feltrinelli, Milano, 2004. 162 BANDITA DI CASSINELLE segni e luoghi di memoria del rastrellamento dell’ottobre ‘44. “Alla fine di settembre del ‘44 la divisione partigiana era in piena fase organizzativa. L’andamento favorevole delle operazioni militari alleate degli ultimi mesi diffondeva un clima di generale ottimismo, perciò nessuno pensava all’eventualità di un rastrellamento, così che i movimenti di truppe tedesche che si cominciarono a notare nell’ovadese venivano interpretati come i primi segni di una probabile ed imminente ritirata germanica. Il 7 ottobre alle cinque di mattina, la formazione G.L. di “Luciano”, confinante con quella garibaldina, venne attaccata con forza a Bandita di Cassinelle, con numerose perdite sia tra i civili che tra i partigiani. Nei giorni successivi altre battaglie si ebbero a Olbicella e Piancastagna. Il monumento riporta sulla lapide marmorea i nomi dei caduti elencati come segue: Andreutti Giorgio (Partigiano),Cartosio Domenico (Civile), Cartosio Giovanni Battista (Civile),Costantini Oronzo (Partigiano),Ivaldi Giuseppe (Partigiano), Guala Domenico (Civile), Manna Giacomo (Partigiano), Niusti Giustina (Civile), Repetto Giuseppe (Partigiano), Ugalia Adolfo (Partigiano).Vi è inoltre un targa commemorativa al partigiano Luciano Scassi fucilato nella cittadella di Alessandria che faceva parte della divisione GL. Bassorilievo in bronzo collocato sull’esterno della chiesa, commemora i partigiani caduti a Bandita di Cassinelle il 7 ottobre 1944. ta, non solo per quegli avvenimenti in sé, ma per quanto accaduto dopo ed anche per il senso diffuso di una mancata giustizia per le vittime11. Si pensi alla diversità rispetto alla memoria ‘pacificata’ della “grande guerra” 1915-18; anche in quella vicenda non pochi erano i motivi di contraddizione (una guerra insensata e durissima per gli uomini al fronte, le carneficine e le decimazioni, le diserzioni e i processi militari, la condotta degli ufficiali superiori, i vergognosi profitti di guerra, le promesse non mantenute di terra per i soldati-contadini...). Di fatto la successiva rielaborazione retorica della guerra, su cui tanto fece gioco il fascismo, riuscì a restituire una memoria sostanzialmente condivisa di quella orrenda e “inutile” carneficina, riproposta come “ultima tappa del risorgimento nazionale” o comunque come vicenda comune e significativa nel processo di costruzione dell’identità nazionale. Ma in quel caso il meccanismo era più semplice: il “nemico” esterno e ben identificato; mentre il caso della resistenza ci sbatte in faccia una serie di contrasti interni violenti e rapidissimi: l’alleato che diventa nemico e viceversa, il soldato che diventa sbandato, il partigiano che è bollato come “bandito e traditore”, il fascista che per 20 11 Molteplici gli episodi di brutale repressione nazifascista che non hanno avuto alcun rilievo giuridico nel dopoguerra, che hanno portato alcuni storici a parlare di “stragi dimenticate” e di “mancata Norimberga italiana”.Per una quadro generale vedi: M. FRANZINELLI, Le stragi nascoste, Mondatori, Milano 2002, F. GIUSTOLISI, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma, 2004. Sugli eccidi tra Piemonte e Liguria un importante contributo storico e giuridico è proposto dal procuratore capo presso la Procura militare di Torino: P. PAOLO RIVELLO, Quale giustizia per le vittime dei crimini nazisti ? L’eccidio della Benedicta e la strage del Turchino tra Storia e Diritto, Giappichelli,Torino, 2002. 163 Un esemplare di francobollo della RSI stampato nel 1944, con il timbro in sovrimpressione del CLN, e la dicitura “Patrioti Valle Bormida”. anni ha rappresentato lo Stato e ora ne ha creato un altro in lotta col precedente, che perseguita e tortura altri italiani e li consegna al nazista invasore. Per entrambi è importante la “patria”, ma essa assume connotati del tutto differenti: se per i repubblichini è l’impegno a salvarne l’onore rispetto al tradimento verso i tedeschi, per gli altri è il luogo – da costruire - della libertà, del rispetto, della giustizia. E proprio in nome della stessa “patria” si combatte una lotta brutale, che ha alcuni tratti della “guerra civile”. Significativo in questo senso il testo della lapide che a Cassinelle ricorda il rastrellamento nazifascista dell’ottobre 1944 e lo scontro con la brigata G.L.: “Nessuna pietà. E’ il comando dei barbari che coi soldati della libertà uccisero vecchi e donne non piegati alla tirannide. Insieme qui caddero invocando la patria del popolo, l’Italia libera e giusta”. E poi tanti fattori di “ombra”, di non detto (che gli stessi protagonisti a tratti sembrano voler lasciare nell’oblio, “perché non è ancora tempo …”, “perchè poi le cose sono andate in un certo modo …”). Insomma una lacerazione profonda e molto varia, ma che implica anche un giudizio chiaro sul fascismo ed una conseguente presa di posizione; e ciò nei fatti pone le basi per una memoria “a pezzi” e che ha fatto parlare in tempi recenti di una vera e propria “guerra di memoria”12. “Sono oggi in atto due usi completamente diversi della memoria, uno molto pericoloso e l’altro invece molto positivo. Da un lato la memoria collettiva viene sempre più adoperata e anche costruita come strumento di quelle terribili passioni della ‘politica dell’identità’ che per definizione si contrappongono le une alle altre, fino ai fondamentalismi e alle guerre etniche; dall’altro, invece, la stessa memoria diventa strumento di coscienza civile del presente”13. Da qui si comprende l’importanza e la complessità di elaborare una memoria collettiva, e ciò ha inciso sullo stesso processo di costruzione di segni di memoria e di valorizzazione dei “luoghi di memoria”. La società locale sente il dovere della memoria? E così si apre un problema del tutto attuale e che non riguarda solo le vicende resistenziali. I luoghi della memoria possono essere molteplici, dai più semplici ai più complessi, ma tutti concorrono a definire un territorio, esprimendo una memoria collettiva, prospettando una identità sia a chi vive in quel luogo stabilmente, sia a chi vi passa. Le trasformazioni sociali, culturali, urbanistiche in atto mettono però in discussione questo rapporto luogo-memoria-identità, al punto che 12 Cfr. F. FOCARDI, La guerra della memoria. La resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, 2005; vedi anche M. TARCHI, Fascismo.Teorie, interpretazioni e modelli, Laterza, 2003. 13 A. ROSSI DORIA, Memoria e storia. Il caso della deportazione, Rubettino, 1998. Uno studio molto approfondito è proposto da C. VERCELLI, Tanti Olocausti. La deportazione e l’internamento nei campi nazisti, Giuntina, Firenze. L’autore coordina il progetto didattico Usi della storia, usi della memoria presso l’isituto di studi storici “G.Salvemini” di Torino. 164 “non si riescono più a decifrare i segni e i messaggi di una storia comune e dei rapporti tra gli esseri umani che lo hanno attraversato e modellato”. Allora il “luogo di memoria” diventa un “non luogo”: i non luoghi “condannano l’individuo alla solitudine, all’anonimato, all’assenza di relazioni con gli altri”14 . Istituzioni, scuola, forze culturali hanno il compito di non perdere la memoria dei luoghi, proprio per evitare che essi si trasformino in “non luoghi”: non si tratta ovviamente di bloccare ogni cambiamento e di “ingessare” il territorio, fissandolo in una determinata situazione; piuttosto si tratta dell’attenzione a non eliminare i luoghi di memoria, di conservarli all’interno della trasformazione, per non smarrire il significato che essi rappresentano. Occorre la consapevolezza che ogni intervento sul territorio va a incidere sulla costruzione della memoria e della identità collettiva. Quindi va governato. La cura materiale e l’informazione, il “passaggio di memoria” tra le generazioni e l’opera di conoscenza-educazione intorno ai segni-luoghi della memoria, dicono quindi della intensità con cui una società locale sente il dovere della memoria, ne percepisce il valore, attribuisce un significato vivo e attuale ai fatti ricordati dal segno. È piuttosto evidente che – almeno ad Acqui - la scarsa cura per questi segniluoghi resistenziali ci segnali un notevole distacco da questa memoria e da ciò che essa rappresenta, ma ci dice pure della trasformazione in atto riguardo ai segni stessi, oltre che della percezione generale del fenomeno resistenziale e più in generale del passato collettivo. Sommando i due fenomeni si può forse affermare che – se non del tutto tagliato - il filo della memoria rispetto alla resistenza acquese si è assai assottigliato. Al punto che gran parte degli abitanti hanno poca conoscenza della esistenza stessa di questi segni, e tanto più degli episodi che essi ricordano. E questo è ancor più rimarchevole considerando che Acqui e l’Acquese sono stati un territorio di notevole rilievo per la resistenza ligure-piemontese, molteplici gli episodi, numerose le persone direttamente coinvolte nelle vicende resistenziali, molte quelle che collaborarono. Se la miglior visibilità può aiutare l’opera di recupero della memoria, è comunque cruciale – specie per i più giovani o per quanti vengono da fuori – la domanda sul segnoluogo che ci si trova di fronte. L’attenzione ai segni e l’interesse a porre la domanda sul senso di quel segno resta la sfida culturale, civile ed educativa che abbiamo tutti davanti. Va in questa direzione l’avvio di un progetto di centro documentazione sulla resistenza nell’acquese che dovrà coinvolgere tutte le istituzioni presenti sul territorio e dare seguito alla convergenza maturata quest’anno in occasione del 60° della liberazione. Raccolta materiali, ma anche valorizzazione di un percorso didattico-culturale per la città e i paesi della zona, per conoscerne i segni e le vicende che ad essi si riferiscono. 14 M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernit, Eleutherà, Milano 1993. 165 Scheda 1 DOCUMENTI E TESTIMONI per conoscere le vicende della resistenza locale * Segnaliamo alcuni testi scritti da protagonisti diretti della resistenza nella nostra provincia, che propongono una importante documentazione ANGELO MEZZO, Chiusura del cinquantenario della liberazione. 19451995, ANPI, Comitato provinciale di Alessandria, 4° quaderno, Alessandria 1996; Celebrazione del trentacinquennale della liberazione 1945-1980, ANPI, Comitato provinciale di Alessandria, 3° quaderno,Alessandria 1980 GIOVANNI SISTO, Quel tragico ottobre 1944. Bandita di Cassinelle. Olbicella di Molare. Piancastagna di Ponzone, Amministrazione provinciale di Alessandria, 1987 WILLIAM VALSESIA, La provincia di Alessandria nella resistenza,Alessandria, 1980, prefazione di Davide Lajolo Una significativa raccolta di testimonianze dei protagonisti della resistenza in provincia di Alessandria è pubblicata sul numero speciale della rivista “La provincia di Alessandria” n.1/1980 Un ricordo sintetico di uno dei protagonisti in: mons. GIOVANNI GALLIANO, Acqui Terme e dintorni, IV ed.Asti, 2003, nel capitolo dedicato alla lotta di liberazione. 166 Alle vicende della resistenza e di uno dei protagonisti locali, GIOVANNI PESCE “Visone”, medaglia d’oro e sua moglie Nori, staffetta partigiana, è dedicato il film di Marco Pozzi,Senza Tregua,Sharada, Roma 2004. Tra le diverse pubblicazioni a carattere memorialistico, la ricostruzione di uno dei protagonisti principali: “MAURI” ENRICO MARTINI, Con la libertà e per la libertà, SEI, Torino, 1947; recente la riedizione di GINO MILANO, Nebbia sulla Pedaggera, Carcare, Magema Edizioni, 2005, sulle vicende della 1a Divisione Langhe. A carattere documentario e memorialistico su una formazione autonoma che operò nel nicese è il testo di RENZO AMEDEO, Storia partigiana della Divisione Autonoma XV “Alessandria”, Mondovì,1983. Centrato sul rapporto tra religione e resistenza è il libro di memorie di COSTANZA NERVI, 1944 con fede nella resistenza, Ovada, s.d., dedicato alle figure di Teresa Bracco e Paola Nervi. Un efficace ricostruzione della vicenda umana e familiare della resistenza tra Val Bormida e Liguria è offerto da D.LA CORTE, Diventare Uomo. La resistenza di Balletta, (ed.Total Print, Genova, sd), con prefazione di Alessandro Natta, dedicato a uno dei partigiani più giovani, il quidicenne Roberto Di Ferro di Malvicino, toturato e ucciso dalla SS il 28 marzo 1945, medaglia d’oro al valor militare. * Una ricostruzione storiografica accurata in P.MORETTI-C.SIRI, Il movimento di liberazione nell’Acquese, Cuneo, L’arciere, 1984. * Un quadro più generale è proposto da G.PANSA, Guerra partigiana tra Genova e il Po.La resistenza in provincia di Alessandria, Bari, Laterza, 1967. * Un quadro sintetico delle vicende resistenziali e del contesto socio-politico è proposta da G.SUBBRERO-R.BOTTA, La provincia di Alessandria in guerra e nella resistenza, pubblicato nel 1996 a cura dell’amministrazione provinciale e dell’ISRAL, in occasione del conferimento della medaglia d’oro al valor militare per l’attività partigiana alla Provincia di Alessandria da parte del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Sintesi analoga per l’astigiano si trova sul sito dell’Istituto storico della resistenza di Asti (www.israt.it). Strumento indispensabile per ricerche specifiche è il lavoro di L.LORENZINI, Bibliografia sulla resistenza di provincia di Alessandria,ISRAL,1981,studi e ricerca/3. * Sulla resistenza nella zona nicese, che tocca diversi paesi collegati all’Acquese e sull’esperienza della “zona libera” di Nizza, una articolata ricognizione storiografica ed una ampia bibliografia sono presenti in due volumi collettivi Contadini e partigiani.Atti del convegno storico del 1984, (Ed. Dell’Orso, 1986) e Fascismo di provincia: il caso di Asti.Atti del convegno storico del 1988 (Ed. L’Arciere, 1990), entrambi a cura dell’ISTITUTO PER LA STORIA DELLA RESISTENZA DI ASTI. V.R. Scheda 2 STORICO-DIDATTICA PERCORSI DELLA MEMORIA: IL DIBATTITO E LE REALIZZAZIONI SUI “LUOGHI DI MEMORIA” La necessità di “non dimenticare” la resistenza ha portato alla costruzione di molti “luoghi di memoria” e di strumenti culturali e didattici in molti luoghi, in Italia e all’estero. Monumenti e musei, lapidi in cimiteri e per le vie delle città, sacrari e spazi attrezzati, percorsi fisici tra colline e montagne e itinerari virtuali sui libri, cd, siti web, biblioteche e istituti culturali. Tutti volti a conservare tracce e documenti di questa memoria, così da rinnovarla, da permettere di studiarla nei suoi molteplici aspetti, da proporla ai più giovani. Il tutto anche per fronte all’insulto del tempo e all’oblio, quando non anche alla rimozione o alle forme di interessato revisionismo. Un impegno culturale e civile molto importante, ma anche sottoposto a tante fragilità, incertezze, stanchezze, specie quando in gioco sono vicende dolorose e valori forti, talora scomodi. Il nuovo interesse per la storia oggi sovente si tinge di curiosità e nostalgie per il “buon tempo andato”, chiede “leggerezza” e rassicurazione, in cerca di “qualcosa di diverso” più che di un impegno alla riflessione e alla messa in discussione. A questo va aggiunto, per il caso specifico della resistenza, la crisi dell’antifascismo registratasi in questi anni. Proprio l’interrogativo sul senso del “fare memoria” oggi e sulla funzione degli strumenti utili a ciò, ha avviato in questi anni un significativo dibattito sui “luoghi di memoria”, anche considerando l’impiego di risorse culturali ed economiche che essi richiedono. Lo scorso ottobre si è tenuto ad Alessandria il primo convegno nazionale dedicato ai “luoghi della memoria”, promosso dall’Associazione Memoria della Benedica e dall’ISRAL. D’altra parte, proprio tale dibattito ha portato alla luce tentativi e realizzazioni molto interessanti, che propongono modalità nuove sia sotto il profilo culturale che didattico: un rapporto più intenso con i luoghi fisici della memoria, recupero delle memorie orali e scritte, elaborazioni e allestimenti multimediali, visite guidate improntate alla scoperta e alla riflessione, più che al “consumo” di ricordi o alla retorica di certe celebrazioni (vedi scheda 3). Così, accanto agli strumenti e alla documentazione raccolti dagli Istituti per la storia della resistenza (nel nostro caso il riferimento va a quelli di Alessandria, Asti, Cuneo, Genova), in diverse località si sono organizzate proposte di “museo diffuso” e di attualizzazione dei temi resistenziali. Il recupero di un luogo di memoria si è così intrecciato con l’elaborazione di percorsi culturali, sovente “rovesciando” la destinazione iniziale: da strutture militari o teatro di violenza a luoghi che ne vogliono offrire una visione critica ed una riflessione sulle oppressioni di oggi. V.R. Per conoscere meglio il recupero della Benedicta visita il nostro sito www.benedicta.org Laghi della Lavagnina: trasporto a valle dei caduti per i funerali. 167 Scheda 3 DIDATTICA DAI LUOGHI DELLA VIOLENZA ALLA SCUOLA DI PACE alcune esperienze di recupero della memoria Una delle proposte più emblematiche è la “PARCO STORICO E SCUOLA DI PACE DI MONTE SOLE”, sulle colline bolognesi nei pressi Marzabotto,in una zona teatro di una spaventosa strage nazifascista dell’ottobre ’44 (oltre 900 persone uccise, in maggioranza donne e bambini) giunta al culmine di quella strategia della “dominazione del terrore” messa in atto dopo il settembre del ’43 da tedeschi e repubblichini. L’area del massacro non venne più riabitata ed ora è destinata ad una serie di esperienze educative rivolte al dialogo tra popoli e culture diverse,al valore della riconciliazione, con una particolare attenzione alle persone che hanno vissuto situazioni di guerra e violenza su fronti contrapposti: da qui la proposta dei “campi di pace” tra giovani italiani e tedeschi, tra israeliani e palestinesi, tra donne della exJugoslavia. La fondazione della scuola di pace ha tratto ispirazione e sostegno anche dall’opera di Giuseppe Dossetti, partigiano cattolico, poi figura centrale della assemblea costituente, politico e poi monaco. Le proposte didattiche sono consultabili su www.montesole.org. 168 IL MUSEO DELLA REPUBBLICA PARTIGIANA DI MONTEFIORINO, dedicato alla storia della prima repubblica partigiana costituitasi in Italia nel giugno del 1944 nell’area del modenese, collocato in una rocca medioevale incendiata dai nazisti, ora sede del comune; è qui approfondita la vicenda delle “zone libere” costituitesi in repubbliche partigiane nel 1944. In Piemonte ricordiamo la repubblica di Alba, quella di Nizza, quella dell’Ossola, le aree delle valli Susa, Maira e Varaita. IL MUSEO CERVI, a Gattatico (Reggio Emilia): la casa dei 7 fratelli fucilati dai fascisti nel dicembre 1943 è divenuta luogo della memoria della vita familiare, della vita nelle campagne e dell’antifascismo emiliano.Ancora legato al luogo di una strage nazifascista è il MUSEO STORICO DELLA RESISTENZA DI SANT’ANNA DI STAZZEMA. IL CAMPO DI COLFIORITO in Umbria, un campo di concentramento fascista vicino Perugia divenuto luogo dedicato all’esperienza della deportazione e dell’internamento civile in Italia (fenomeno diffuso ma assai poco noto).Ancora sul dramma della deportazione razziale e politica è il MUSEO DEL DEPORTATO DI CARPI E IL CAMPO DI FOSSOLI, presso Modena, ove era collocato uno dei campi di concentramento e transito verso i lager tedeschi. Il carcere della Gestapo in via Tasso a ROMA divenuto sede del MUSEO DELLA LIBERAZIONE. Gli ITINERARI LETTERARI DI DAVIDE LAJOLO a Vinchio (AT) che uniscono intorno alla figura del partigiano-scrittore-politico la riscoperta dei luoghi della comunità locale: museo multimediale, museo della vite e del vino, centro culturale, itinerari tra vigne e boschi con incontri teatrali e letterari. Il settecentesco “palazzo dei Quartieri militari” si è da poco trasformato in “MUSEO DIFFUSO DELLA RESISTENZA, DELLA DEPORTAZIONE, DELLA GUERRA, DEI DIRITTI E DELLA LIBERTÀ” di Torino , ospita anche l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea e l’archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza. Una interessante evoluzione da luogo a museo innovativo è costituita dal MUSEO AUDIOVISIVO DELLA RESISTENZA DELLE PROVINCE DI MASSA CARRARA E LA SPEZIA: costruito a Fosdinovo in una colonia partigiana presso Sarzana, ripropone con i moderni linguaggi e strumenti multimediali le vicende resistenziali vissute in questi luoghi. http://www.museodellaresistenza.it Un quadro delle proposte storiche e didattiche riguardanti i temi della resistenza nella storia contemporanea si trova in www.istoreco.re.it,sito dell’ Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea di Reggio Emilia,che dispone di una documentazione impo- nente (oltre 100.000 documenti, fototeca e biblioteca specializzata) e ha avviato progetti di ricerca europei, con particolare collegamento con la Germania (mostre e pubblicazioni bilingui). Tra Piemonte e Liguria sono ancora da segnalare: LA SCUOLA DI PACE DI BOVES, presso Cuneo, paese oggetto di una tremenda repressione nazista, ed il progetto dei “sentieri della libertà” del cuneese; l’istituto “P.Fornara”, CASA DELLA RESISTENZA DI FONDOTOCE, nel novarese l’associazione Comitato resistenza Colle del Lys il “Museo integrato della resistenza” di Imperia. È infine da notare come diverse realtà locali hanno trasformato la memoria dei luoghi e la ricerca di documenti in efficaci prodotti multimediali; è il caso ad esempio della Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca che ha curato il cd-rom dedicato alla Resistenza in Val Chisone e alla storia della formazione partigiana che operò in zona. Un’ampia rassegna sulla didattica della resistenza sul sito dell’Istituto Nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia www.novecento.org/ novecento V.R Scheda 4 STORIOGRAFIA E DIDATTICA I LUOGHI DELLA MEMORIA E LE TESTIMONIANZE DEI PROTAGONISTI AL PREMIO ACQUI STORIA 2005 Numerosi i volumi presentati al Premio Acqui Storia di quest’anno dedicati ai temi della guerra, della resistenza e della deportazione.Tra questi alcuni trattano esplicitamente dei “luoghi di memoria” e la memoria di testimoni. Molto significativo ci è parso quello di ERMANNO GORRIERI E GIULIA BONDI, Ritorno a Montefiorino. Dalla resistenza sull’Appennino alla violenza del dopoguerra, (Il Mulino, 2005). Il primo autore fu comandante partigiano e poi tra i fondatori della CISL, studiosi di problemi sociali, scomparso lo scorso anno; il manoscritto è raccolto e rielaborato dalla nipote, che offre così anche il segno importante del passaggio di memoria tra le generazioni. Il testo offre una ricostruzione ed una discussione lucida sulle lotte partigiane e sulle interpretazioni della resistenza e dell’immediato dopoguerra. Di rilievo la riflessione sull’uso della violenza, sulla sua legittimità di fronte all’oppressione: quale misura e quale tipo di violenza sono necessarie e inevitabili? A questo lavoro si collega anche la Guida storica del Museo della Repubblica partigiana di Montefiorino curata da CLAUDIO SILINGARDI (ed. ArteStampa, 2005) che introduce ad un percorso di memoria ricco e accurato. Di interesse per la nostra zona è il volume di ANTONELLA FERRARIS, L’esercizio della memoria. Uomini comuni nella seconda guerra mondiale, (ISRAL - Le Mani, 2005), che presenta la storia di due soldati italiani: Pietro Ferraris, che scelse la strada delle formazioni partigiane, e Vittorio Bernini, che dopo l’8 settembre fu deportato dai tedeschi. Il volume è costruito per l’uso didattico e riporta i documenti personali, un diario dei protagonisti e le interviste ai familiari, intrecciando vicende generali e particolari con l’uso di diverse fonti. Una accurata ricerca archivistica e documentaria sui testimoni è proposta da MIMMO FRANZINELLI, Ultime lettere dei condannati a morte e di deportati della resistenza. 1943-45, (Mondatori,2005) che raccoglie biografie e testi di 140 vittime del nazifascismo, presentandone con chiarezza gli ideali religiosi,morali e politici. Un saggio introduttivo illustra il metodo e le fonti, affrontando il senso delle testimonianze proposte, discutendo anche il nodo dei caduti della RSI. Sulle vicende della Divisione Acqui due recenti pubblicazioni hanno riproposto la memoria di testimoni: VANGHELISI SAKKATOS – MASSIMO RAPETTI, Cefalonia 1943. L’eccidio della Divisione Acqui e la Resistenza greca nei ricordi di un ragazzo, Acqui T., EIG, 2004, e ISABELLA INSOLVIBILE, La Resistenza di Cefalonia tra memoria e storia, Quaderni ANRP 12/2004. Sulle vicende della deportazione legate al nostro territorio ricordiamo ALBERTO PICCINI, I confini dei lager. Testimonianze di deportati liguri, Milano, Mursia 2004; CARLO LAJOLO, Morte alla gola. Memoria di un partigiano deportato a Mauthausen, Acqui T., EIG, 2003 169 Scheda 5 STORIOGRAFIA, DIDATTICA E DIVULGAZIONE VICENDE E DOCUMENTI IN MOSTRA Le mostre storiche - didattiche a partire dagli anni ’80 hanno acquistato un rilievo significativo nello sforzo di riproporre pubblicamente a molte persone le vicende resistenziali con linguaggi più vari e moderni, ed insieme raccogliere e divulgare i risultati e gli approcci più aggiornati della storiografia (tipico è il recupero della cultura popolare e materiale, della quotidianità, della storia orale, della varietà dell’esperienza resistenziale, …). Basata su una ricca documentazione fotografica commentata, la mostra dell’ANPI provinciale di Alessandria ”Antifascismo Resistenza Deportazione. L’Italia dal 1918 al 1945” offre un percorso storico molto ampio sull’origine del fascismo, la guerra, le vicende partigiane. L’uscita dal “mito resistenziale” diventa evidente, anche grazie alla presentazione diretta di documenti e immagini, volta a stimolare una acquisizione più personale ed una elaborazione del giudizio: “Non si vuol solo invitare a guardare, ma a leggere e meditare” si afferma nella introduzione alla Mostra perma- 170 nente della resistenza nell’astigiano; il catologo - curato da G. BOSCHIERO e L. LAJOLO per il Comune di Asti - riproduce testi e mappe relative alle vicende e alle diverse formazioni partigiane della provincia. Di notevole raffinatezza artistica è il catalogo che riproduce la mostra regionale elaborata in occasione del 50° anniversario della liberazione: Con le armi, senza le armi. Partigiani e resistenza civile in Piemonte (1943/1945) a cura di CLAUDIO DELLAVALLE (Agorà, Torino, 1995). La mostra è ora disponibile on-line su: www.Novecento.org Diverse mostre curate dall’ Istituto Storico di Alessandria sono state dedicate all’eccidio della Benedicta (uno degli episodi più tragici della resistenza tra Piemonte e Liguria) elaborate in occasione della visita di Pertini nel 40° anniversario: “Benedicta 1944” e “Un luogo chiamato Capanne”, (si veda “La Benedicta 1944-1984”, supplemento a “La provincia di Alessandria” gennaio 1984), mentre è in allestimento una serie strumenti multimediali in relazione alla nuova sistemazione del sacrario promossa dall’Associazione Memoria della Benedicta (vedi “Benedicta 1944. L’evento, la memoria”, testo e DVD,Alessandria, 2004). Di carattere generale è la mostra curata dall’ UFFICIO STORICO DELL’ESERCITO, La partecipazione delle Forze Armate alla guerra di liberazione e alla resistenza 1943-1945, presentata dal Comando RFC Interregionale Nord, in occasione del 60° anniversario; essa illustra il ruolo ed il contributo dell’esercito italiano alle varie fasi della lotta armata contro il nazifascismo dopo l’8 settembre e introduce la vicende degli internati militari italiani nei lager tedeschi. BANDO DI CONCORSO per gli studenti delle scuole, elementari, medie e superiori del distretto scolastico di Acqui e per gli studenti universitari In occasione del 60° anniversario della Liberazione, il coordinamento dei Comuni dell’Acquese, d’intesa con l’ANPI, ed in collaborazione con la commissione distrettuale docenti di storia e con l’ISRAL, con il patrocinio della Provincia di Alessandria, bandisce un concorso rivolto agli studenti delle scuole del distretto scolastico di Acqui e agli studenti universitari. Per il testo completo del bando e per le modalità di partecipazione, rivolgersi alle direzioni scolastiche o alla commissione distrettuale docenti di storia, presso l’ITIS di Acqui Terme. EDITRICEIMPRESSIONIGRAFICHE NARRA TIVA STORIA ARTE T ERRITO RIO PERSON E & LUO GHI TESTIM ONIANZ E PERCOR SI DIDA TTICI ATTRAV ERSO Ieri • oggi • domani l’identità e il territorio LE NOS TRE CO LLANE AGLI ABBONATI DI ITER, ACQUISTANDO DIRETTAMENTE IN CASA EDITRICE, SCONTO DEL 20% SU TUTTI I TITOLI Nello spirito della liberazione Un reparto della 2a Divisione Langhe sfila per Via Roma a Torino all’indomani della liberazione.Alla guida è il comandante “Morgan”. Pietro Reverdito è il quinto della fila di destra. La foto venne pubblicata in prima pagina sul giornale torinese “L’Opinione” nell’edizione di sabato 5 maggio 1945 (a firma del fotografo Moisio). 172 di Pietro Reverdito La testimonianza che segue è parte di una più ampia riflessione condotta dall’autore sull’esperienza vissuta in prima persona, come partigiano. Il testo è stato mantenuto nella forma originale (con l’aggiunta di alcune note esplicative redazionali), per non perdere la intensità del racconto. Esso ci offre così non solo un’appassionata espressione degli ideali che hanno motivato e sostenuto il protagonista, ma anche una interpretazione ricca di tanti elementi che ci aiutano a comprendere meglio il senso della vicenda resistenziale. Il testo si articola in due passaggi, il primo dedicato ai primi momenti della resistenza in zona, il secondo all’epilogo della esperienza partigiana nella primavera del ’45. V.R. 1943: nasce la resistenza 25 luglio 1943: come un fulmi“È ora di finirla!”. Lo pensano i soldati obbligati a combattere dei ‘nonnemici’. Lo sentono i giovani e i giovanissimi stufi del clima di falsità e arroganza. Lo dimostrano gli operai e contadini che si ribellano a ingiustizie e spogliazioni. “È ora di finirla!”. È la chiara volontà di molti, di troppi italiani, esasperati ormai da tre anni di guerra. L’impero si è dissolto. Nella steppa russa s’è gelato lo spirito di grandiosità dei capi dell’Asse. La ‘quarta sponda’ s’è mutata in pista di lancio per lo sbarco alleato in Sicilia. Gli ‘otto milioni di baionette’1 hanno dimostrato che la guerra vera è un’altra cosa. Lo spirito indomito dei giovani è mutato solo nella direzione della scelta. ne a ciel sereno avviene la defenestrazione di Mussolini2. In realtà era nell’aria. Da tempo. Nelle città, nei paesi, ovunque appare un segno del “fascio littorio”, esso viene spezzato, abbattuto, denigrato. È la rabbia di chi ha sofferto, di chi s’è sentito preso in giro, condotto alla berlina... È la rabbia di chi ha fame: di giustizia e di pane. È anche il tempo delle facili e troppo rapide conversioni. Più nessuno è fascista.3 Non il podestà, non il segretario politico, non il milite della M.V.S.N.4 Sono tutti convertiti, rinsaviti e vivi. I più “battaglieri” sfogheranno la loro rabbia dopo l’8 settembre 1943, data che impegna gli italiani in una scelta definitiva.5 L’italiano vero riprende la lotta per la difesa della propria famiglia e per un 1 Si tratta di espressioni usate dalla propaganda fascista: la ‘quarta sponda’ indicava il nord Africa e la nostra colonia in Libia, mentre gli ‘otto milioni di baionette’ volevano rappresentare la potenza militare italiana ed il valore attribuito alla guerra da parte del regime. 2 Si riferisce alla decisione del re Vittorio Emanuele III di “licenziare” Mussolini come capo del governo (togliendogli l’incarico che gli aveva affidato ben 21 anni prima, dopo la marcia su Roma), dopo che il Gran Consiglio del Fascismo aveva approvato un ordine del giorno contrario al Duce. Mussolini sarà arrestato dai carabinieri e portato in diverse località segrete e infine sul Gran Sasso, da dove verrà liberato agli inizi di settembre dai paracadutisti tedeschi e italiani, quindi condotto in Germania. Lì Hitler, che già aveva ordinato l’occupazione dell’Italia, lo convincerà a dar vita alla repubblica di Salò per sostenere la presenza tedesca e la lotta contro i partigiani. 3 In effetti la struttura del partito fascista, che nel 1941 raccoglieva in Italia ben 4 milioni di iscritti ed era presente in modo capillare su tutto il territorio, nell’estate del ’43 parve dissolversi, mentre non si segnalarono movimenti a favore di Mussolini tra luglio e settembre ’43. 4 Erano tra le espressioni visibili dell’autorità istituzionale e politica del regime fascista: il podestà (nominato dal governo) aveva sostituito il sindaco (eletto dai cittadini); il segretario politico era il responsabile politico del “fascio” locale (l’unica forma di organizzazione politica permessa durante il regime), la MVSN (Milizia Volontaria per la Salvezza Nazionale) era l’organizzazione paramilitare fascista, in cui erano confluite le “squadre d’azione”, rispondeva direttamente al Duce e costituiva una specie di esercito parallelo, volto soprattutto al controllo del territorio e alla segnalazione di eventuali atteggiamenti o iniziative antifasciste. 5 È la data dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati. Lo sbandamento dell’esercito, l’arrivo dei tedeschi e la successiva nascita della repubblica di Salò (ed in particolare la pubblicazione dei “bandi di leva” che obbligava i coscritti ad arruolarsi nell’esercito repubblichino, comandato dal maresciallo Graziani) porranno molti giovani nel dilemma di una scelta comunque molto rischiosa. La organizzazione della repubblica di Salò, nel corso dell’inverno ’43-’44, riporta alla luce la struttura fascista ed il controllo di gran parte del territorio e della popolazione nel nord Italia. 173 Partigiani della Val Bormida, provenienti dalla zona di Spigno, primavera 1945 (foto Sicco). È una delle numerose immagini che ritraggono i giovani partigiani con le armi, quasi a mimare un assalto. La giovane età di molti (alcuni neppur ancora di leva) e l’inesperienza militare fu all’origine di diverse imprudenze.Ad esempio, la partecipazione alle feste di paese facilitò riconoscimenti e delazioni, mentre le foto in alcuni casi divennero strumenti in mano alla polizia fascista per individuare i partigiani o le loro famiglie. dare un senso alla vita. L’italiano vero diventa partigiano: si oppone ai nazifascismi, per i quali è solo un ribelle, un “bandito”. Ma i “ribelli” sono sempre più numerosi e organizzati. I “banditi” conducono sovente colpi di mano efficaci e proficui. Cadono nelle loro mani depositi di armi che, in aggiunta al materiale degli aviolanci alleati, permettono la costituzione di nuove bande organizzate. Bande che, con il tempo, si trasformano in distaccamenti, brigate e divisioni. I nazi-fascisti ne sono sconcertati. Le feroci rappresaglie che seguono non sortiscono risultati pratici. I giovani hanno trovato la giusta via della collina e della montagna. Le donne e gli anziani si impegnano in compiti ardui e pericolosi: informazioni preziose e indispensabili rifornimenti di viveri giungono continuamente agli uomini che vivono alla macchia. In particolare è la schiera contadina che si accolla il peso maggiore ed il rischio più gravoso del mantenimento e della protezione delle formazioni partigiane. Ogni giorno che passa nasconde un’insidia. Ogni movimento di armati cela un pericolo. Ogni atto di difesa è dimostrazione di forza. Ogni attacco partigiano è un colpo inferto al nemico. Non si parla di vittoria, ma si sente che vittoria sarà. La difesa di Roma, gli eccidi di Cefalonia prima e poi di Boves6, la difesa ad oltranza di molti presìdi sono prova di italianità, baluardo contro l’inciviltà, speranza in un domani migliore, certezza di una forza morale che redime una società travagliata. 1943: tutti insieme, nel rischio e accompagnati dal coro della morte, corriamo verso la vita: una vita più degna, più giusta, che abbia il senso del rispetto e della libertà. 6 Cefalonia e Boves sono i primi due episodi della lotta di resistenza italiana, nel settembre del 1943. Il primo riguarda la vicenda della Divisione Acqui, mentre il secondo si svolge presso Cuneo, teatro di un eccidio consumato dai nazisti ai danni della popolazione civile con l’incendio del paese. (Per una sintesi vedi: www.storia900bivc.it/pagine/boves.html). 174 La liberazione 12 aprile 1945: l’ultimo combattimento sulla langa di Roccaverano. Oltre tre ore di fuoco. Sono impegnate forze della divisione “San Marco” provenienti da Spigno, Mombaldone, Montechiaro e Ponti7. Contrapponiamo le “bande” di Enrico, Franco, Milan e Morgan8. Morti e feriti fra le file repubblichine. Dario, il nostro mitragliere, cade fulminato dopo averci protetti - con le scariche del suo “bren” – nel momento cruciale del combattimento. Gli eroi muoiono così 20 aprile: sulla Langa c’è sentore di novità. I capi partigiani i rincorrono per continui abboccamenti. Noi giovani abbiamo la primavera nel sangue: la “nostra” primavera. Finalmente! D’incanto sparisce la stanchezza, svanisce la fame, si dimentica la vendetta … quella che covava dentro per quella “spiata”, per quella delazione … No. Non ci si pensa più. 21 aprile: Ci siamo. L’ultimo sforzo. Partiamo felici, ma con le armi pronte. Il mio paese ci accoglie con un amplesso patetico. Non si canta più. Si piange di commozione. Mamma, anche tu! Ci sono proprio tutti: Pinìn, Guglielmo, il “capo”, Moreto; anche Tumliìn, che pochi mesi prima mi paralva di “libertà” e di “rivoluzione”. Di repubblichini nemmeno l’ombra. 22 aprile: ore 19. Allarme! Tedeschi e fascisti, evacuata la riviera di Ponente, si dirigono verso Acqui, con intenzioni minacciose. Contro la mia Acqui, la nostra Acqui. Partiamo in 26. All’altezza 7 È una delle formazione dell’esercito di Salò che controlla la Valle Bormida, insieme alla “Monte Rosa”, con basi a Savona e Altare, comandata dal generale Farina. Negli ultimi mesi di guerra in parte si trasferirà ad Acqui, nella zona Bagni, presso le Terme Militari. 8 Le bande a cui si fa riferimento facevano parte della “Divisione autonoma Langhe”, guidata da “Mauri”. Esse prendono il nome dai loro comandati. In altri casi il nome dei reparti era dedicato alla memoria di qualche comandante partigiano ucciso (come nel caso di Viganò, Oreste, Mingo per quanto riguarda le formazioni garibaldine) ...tanti sono caduti sul campo, per un domani migliore. Per tutti. Pietro Reverdito (“Pedrìn”), Nasce a Mombaldone nel 1927. Giovane studente presso il Liceo-Ginnasio acquese condivide con altri coetanei la crescente opposizione al fascismo e alla guerra. Nel ’44 partecipa alla formazione GL che opera nella zona di Ponzone. Dopo il rastrellamento nazifascista dell’ottobre, passa in Val Bormida con la formazione guidata da “Morgan”, inquadrata nella 2a Divisione autonoma Langhe, con essa partecipa a numerose azioni. Dopo la liberazione si dedica all’impegno educativo come maestro elementare, operando per 40 anni in Val Bormida. Sposato con Maria Argentina Cavallero, papà di Gianluigi, è grande appasionato di sport, calciatore e giocatore di pallone elastico, poi dirigente della locale Polisportiva Montechiaro. Si dedica alla vitivinicoltura biologica insieme alla famiglia. Acqui Terme, aprile 2005: Convegno studentesco su “la memoria della resistenza: incontro con i testimoni”, il maestro Pietro Reverdito è al tavolo insieme a mons. Giovanni Galliano e al prof. Mario Mariscotti, con il preside Ferruccio Bianchi, il sindaco Aureliano Galeazzo e il prof.Vittorio Rapetti. del km. 54 sulla statale n.30, ci imbattiamo nella prima colonna tedesca. Il nostro Elio spiana il suo “bren” e una secca raffica inchioda il primo automezzo. Ne scendono tre ufficiali tedeschi vocianti e urlanti, che teniamo sotto il tiro delle nostre automatiche. Ma, per cose più grandi di noi, potranno rimettersi in marcia. Sono cinquemila armati, che vanno a intasare la nostra Acqui. Cosa succederà?9 23-24-25 aprile: Da dove escono tutti questi tedeschi? Intervallata di poche ore una colonna segue l’altra. Quante armi! Le avessimo avute noi... Per ore intere le forze dell’armata tedesca e repubblichina di stanza in Liguria ci sfilano davanti. Visi scarni, sorrisi spenti, occhi infossati. Per una vittoria che non sarà più. Ogni tanto passa un gruppetto più chiassoso che, nel vederci, ci lancia irriverenti epiteti. Sono le “ausiliarie”. “Tu, bionda, quella bomba a mano...”. Non se ne dà per inteso: vorrebbe lanciarla contro di noi. Qualcuno, con le maniere forti, la dissuade. Fa più schifo che pena. Ma anche pena. 26-27 aprile: Ho tempo di rimanere con gli amici, i parenti, i conoscenti. Mi piace sentir parlare tutti: da tempo non provavo tanta tenerezza. Sono tutti per strada o raccolti sulla piazza del paese. Anche coloro che erano al di là della barricata cominciano a uscire di casa. Chi in modo timido, chi con la boria di prima. Non sarebbe il caso. Ma noi siamo diversi da loro: vogliamo essere migliori. “Ludovico” e “Piana”, “Pantera” e “Sole”, il nostro “Dario” e tanti altri sono caduti sul campo di battaglia, per un domani migliore. Per tutti. 28 aprile: Finalmente ti rivedo, Acqui. E gli occhi si fanno subito più lucidi. Non sono tra i tuoi “liberatori” e me ne dispiace. Più titoli e meriti li vantano “Mancini” e i suoi ragazzi.Tu, Acqui, mi sei debitrice di alcuni sogni della mia prima giovinezza, smarriti tra i flutti di un mare in tempesta. 9 La Val Bormida e la statale Savona-Acqui-Alessandria era un passaggio particolarmente strategico tra Liguria e pianura padana: nella prima fase (’43-’44) considerato essenziale per i rifornimenti verso la Liguria, ove si temeva uno sbarco alleato; nell’ultima fase per il deflusso delle truppe nazifasciste dalla costa verso le aree interne dove era previsto l’ultimo concentramento di forze. Le colonne cui si riferisce la testimonianza transiteranno senza scontri per la valle e per la città di Acqui in base all’accordo con i comandanti partigiani. Subiranno solo un mitragliamento non concordato da un caccia brasiliano lungo la strada tra Acqui e Strevi. Le truppe tedesche si arrenderanno ad Alessandria e quelle repubblichine a Valenza. 176 recensionirecensioni DAVIDE LAJOLO, Quadrati di fatica. Poesie (1936-1984), Diffusione Immagine Ed.,Asti, 2005 “Non sono poeta, Pier Paolo, / non ho timbro per il ritmo, / anche se tu mi insegnavi / i tuoi versi, / sempre sicuro e ferito / dalle tue parole scritte”. Così Davide Lajolo nel suo Dialogo con Pier Paolo morto, una lirica a due voci che fa parte della settima parte (Lettere agli amici) della raccolta postuma delle sue poesie inedite testé pubblicata a cura dell’Associazione culturale “Davide Lajolo onlus” di Vinchio. Pier Paolo è, ovviamente, Pasolini, forse uno degli interlocutori privilegiati di Lajolo, che vedeva in lui, nel poeta “ricco di intelligenza, di furore / e di strazi”, l’“alfiere dell’età del pane come oro”, una scomoda voce profetica. Ebbene, secondo noi vi sono due modi d’intendere i versi summenzionati: si potrebbe, infatti, pensare a un vezzo retorico, a una professione di modestia mutuata dai poeti crepuscolari del primo Novecento, ma, più probabilmente, Lajolo vuole qui rimarcare la distanza che separa la sua poesia da quella, appunto,“profetica” del cantore della religione del nostro tempo e delle ceneri di Gramsci. Perché Pasolini è un erede dei poeti-vati chiamati dalle Muse “ad evocar gli eroi”, a interpretare la storia per additare ai suoi contemporanei la retta via da seguire verso “magnifiche sorti e progressive”. E non importa che, il più delle volte, la voce profetica del poeta che grida nel deserto rimanga inascoltata; anzi, per certi versi proprio questo – di essere incompreso o inascoltato – è il destino normale dei profeti. Il loro “grido” è scandaloso e per questo ha di solito “sapor di forte agrume”. Ora, il “grido”, la forza provocatoria di una poesia che denuncia pubblicamente le magagne della società e “le più alte cime più percuote”, non sono da tutti e richiedono un armamentario retorico particolarmente agguerrito, una impostazione vocale non comune. Lajolo sente di non avere frecce del genere nel suo turcasso: altri, del resto, sono i suoi modelli. Per dimostrarlo, partiremo, allora, proprio dalla sezione delle Lettere agli amici, aperta, non a caso, da una poesia dedicata a Ungaretti, il quale con “voce roca” e “calda di fiato” gli sussurra all’orecchio: “Porto sulle spalle / i miei versi / - strano bagaglio - / di una vita / schiarita di luce / subito sepol- 177 recensionirecensionirecensionirecensioni ta / dalle ombre”. E non sai dire se, a questo punto, si tratti di una citazione o di una invenzione: se, cioè, i versi in questione siano di Ungaretti o di Lajolo. Ma non ha importanza: quel che conta è notare che dal poeta dell’ Allegria l’autore di Poesia come pane (e di queste liriche che abbracciano – pressappoco – l’arco temporale di un’intera esistenza) deriva gran parte della sua tecnica versificatoria, l’essenzialità espressiva, i versicoli scarni e nervosi, l’incisività delle metafore, la volontà di “torcere il collo all’eloquenza” (giusta la raccomandazione di Verlaine), anche se proprio in queste Lettere agli amici, dove la sintassi stessa si fa talora più articolata, il tono più alto, il discorso acquista respiro e si anima di una inconsueta sostenutezza oratoria.Tanto che non vanno certo ricercate qui le prove più persuasive e riuscite del nostro poeta, per quanto nel suo sforzo o nella sua ansia di rendere per verba le qualità espressive, plastiche e pittoriche, degli amici artisti egli pervenga talora ad esiti di notevole efficacia. Come per Ungaretti, anche per Lajolo la poesia è anzitutto espressione immediata di stati d’animo, “allegria di naufragi”, “grumo di sogni” e voce degli affetti. E come al poeta di Alessandria d’Egitto, così al giovane intellettuale contadino di Vinchio è la guerra a rivelarsi decisiva - prova del fuoco, battesimale – per l’ispirazione poetica. In questo caso è la guerra civile spagnola, prima ancora dell’esperienza balcanica, a forgiare l’uomo e il poeta Davide Lajolo, a fargli toccare con mano la differenza tra le mistiche aberrazioni della retorica fascista e la traumatica, degradante realtà delle trincee, dove egli si ritrova, ungarettianamente,“Buttato a terra / nel fango / tra gli sterpi della strada”, tra compagni massacrati, “sotto l’immenso tempio del cielo / dove si sono spente le stelle”. L’urgenza espressiva, la tensione vitalistica, l’orrore della violenza (rimarcata anche qui dalla scansione degli aggettivi-participi, dall’evidenza data ai particolari più sconvolgenti) sono gli stessi che drammaticamente innervano la prima lirica ungarettiana. Magari sfrondati dell’ansia di assoluto e del sostrato orfico che caratterizzano Il porto sepolto. E con in più una singolare capacità di far parlare le cose, di renderle per così dire eloquenti nel loro strazio espressionistico: dagli ulivi che “gemono / stracciati / dalle pallottole esplosive” al “tronco / scortecciato”, dalla terra “squarciata” di un cimitero all’ “autocarro sventrato”, dal “balocco portafortuna” che “dondola ridendo / nella bocca sgangherata” ai pali del telefono divelti (“alberi senza radici”). Forse qui, in queste dolenti immagini di cose violentate, in cui l’uomo può rispecchiare (e riconoscere) ad un tempo tutta la sua follia e la sua stessa precarietà, la sua “creaturalità”, sta forse il tratto più originale di queste prime liriche di Lajolo, che, per il resto, al suo modello deve pure l’afflato nostalgico, con la struggente sovrapposizione del paesaggio monferrino a quello che ha sotto gli occhi (“Le onde s’increspano: / disegnano filari di viti potate / nella mia terra”) o l’evocazione affettuosa dei volti amati (la moglie, la figlia). Inganni consolatori della memoria, pietosi escamotages dell’immaginazione. La stessa memoria, però, rivela la sua ambigua natura di “farmaco” quando, al ritorno dal fronte, avvelena al poeta la gioia degli affetti ritrovati: “Anche il sole porta nel tramonto / il tuo sangue – compagno caduto - // Nella notte la luna ha il tuo volto / illuminato di pallore”. Dopo l’8 settembre Lajolo, ritornato a Vinchio, matura pian piano la tormentata decisione di “voltare gabbana”:“Strappate le spalline / incomincia l’esilio / tra l’angoscia sorda / delle case. // Paura e rimorso / pungono gli 178 recensionirecensionirecensionirecensioni occhi / come punte di spilli”. È un periodo di esilio, di solitudine, di macerazione e di attesa, in cui, al solito, il poeta – che porta dentro “gelata retorica / di morte” - ricorre alla natura per attingervi le cifre veraci della sua interiorità. Si veda, ad esempio, questo splendido campione (Un fossile):“La pioggia insiste / in agonia di parole / che non ascolto. // Batte sulle foglie / secche. // Il cuore è un fossile / che mi porto dentro / come memoria”. Il dettato sembra ulteriormente scarnirsi, scavando in se stesso con furore allitterante, quasi per inseguire “l’armonia” (altra spia ungarettiana) che il poeta sente sfuggirgli. Ma dal silenzio e dal ripensamento delle vicende vissute viene infine la risposta alle sue perplessità, al rodìo interiore che lo assillava rendendolo “irato e scontroso” (“Riemergono i volti / dei morti compagni: / sì, con loro ho creduto / ubbidito / combattuto. // Lui ci misurava dai garretti / il prete ci benediva / il re ci mandava [a] morire: Savoia!”). Ed è significativo che la resipiscenza passi attraverso un tacito confronto con l’immagine paterna, anzi attraverso un intimo rispecchiamento nel “padre / contadino”, sul collo del quale “la pelle / ha fatto quadrati / di fatica” (di qui viene appunto il titolo della raccolta). Come se, approfondendo nella figura del genitore la sua lettura della realtà, il poeta vi trovasse la forza e il coraggio della verità, il legame che lo unisce davvero alla “patria” contadina. È così che nel dolore portato e sopportato “con accanita serenità” (“perché la sofferenza / edifica dentro / l’uomo”) egli scopre la sua vera identità, prima irretita e mistificata dagli idòla fori e dagli idòla theatri del regime. Quindi nasce la decisione di arruolarsi tra i partigiani, di cui Ulisse (sarà il suo nome di battaglia) diventerà uno dei comandanti. E rinasce, di conseguenza, la voglia di cantare, nonostante “la sventura”,“per la letizia / di domani”. Il poeta partigiano muta pelle, come le bisce, e cambia dunque anche la natura del suo canto:“Non più mughetti / non più la tenera poesia / dell’infinito. / Ora mi richiama il grido / della gazza ladra / abitatrice predona / di questi boschi. // Ora ho in gola l’urlo della vita, / braccato dalla morte. / Ora so perché porto il fucile”. L’acquisita consapevolezza induce il poeta a uscire dal suo isolamento e ad assumere – sul modello quasimodiano – una veste meno individualistica e un tono meno concentrato. La sua lirica si fa più espansiva e dialogica, percorsa da una ventata di shelleyana vitalità, nella certezza di una primavera che non potrà più essere lontana. Così c’è più spazio per i sentimenti, per gli affetti familiari, per una nuova “tenerezza” che per esprimersi appieno ha talora bisogno di attingere a paradigmi mitici, a “fiabe lontane”. Nello stesso tempo, quasi a bilanciare il richiamo tra sensuale e sentimentale del penchant privato, si fanno sentire le esigenze dell’uomo pubblico che “mastica politica e utopia”, dell’uomo di partito affascinato dall’imponenza della rivoluzione cinese, ma anche preoccupato della svolta autoritaria che il suo stesso partito sembra ad un certo punto assecondare, soffocando ogni libertà di dibattito.Vengono poi gli anni dello sconcerto,“tempi / di spari isolati / e ragazzi abbandonati nel sangue / sui marciapiedi della metropoli”,“mentre la viltà è l’edera / che si aggrappa ai nuovi palazzi, / dormitori orrendi / abusivi e malfermi, / dove l’uomo intristisce / senza poesia / e senza passione”. Sono i cosiddetti “anni di piombo”, anni di “atroci dubbi su tutto”, ma il poeta e il politico Davide Lajolo ed altri come lui, nel nome dei martiri crocifissi “ai pali del telegrafo”, non crede all’utilità o all’opportunità di rinnegare la sua 179 recensionirecensionirecensionirecensioni militanza e seguita ad “attendere che fioriscano i lillà / e sul verde spunti il rosso / dei rododendri”. E, a dire il vero, dal nostro punto di vista, non è questa fedeltà a disturbare, perché il poeta non coltiva certo “il mito dell’infallibilità” e nella sua ostinata fede (che si declina anche in devozione fraterna agli amici scrittori, agli uomini di cultura da lui amati e frequentati) non ha nulla da spartire con gli “assassini della ideologia”. Se mai, a disturbare è altro: è l’adesione a versioni di parte (come l’attribuzione ai fascisti dell’uccisione del fratello di Pier Paolo Pasolini) o a ricostruzioni di comodo della verità (quale nell’uccisione a più mani, complottarda, dello stesso Pier Paolo), non suffragate da prove o addirittura contro l’evidenza delle prove raccolte. Qui si ravvisa l’eco di una ideologia dura a morire, che si ergeva, nella sua presunzione, a sfidare (e rimuoverere) la repulsiva caparbietà dei fatti. Non è questo, d’altronde, il Lajolo che preferiamo, cioè il poeta dall’anima contadina che continua fino all’ultimo a dire sì alla vita, a vagheggiare “il ritorno / nel verde selvaggio dei boschi / nelle distese di vigne sulle colline” o “il tempo delle more / della strada di San Michele, / dei bossoli di seta / che si facevano farfalle / quando – bambino - / dormiva / coi bachi sulle stadere”, quello che, tornato a casa dopo la morte della moglie, scopre che “gli oggetti / non hanno dimenticato / lo scorrere della sua mano / il palpito delle sue dita”. Dopo gli esordi ungarettiani, sono questi versi, dove fermenta una montaliana “resistenza” (la stessa della “fragile piantina” donatagli – par di capire – dalla figlia e quindi “disseccata / tra le carte / nell’aula dei discorsi / di Montecitorio”) all’edacità del tempo, al rovinoso consumarsi delle cose, all’entropia senza rimedio se non il fragile paravento della memoria tenace, del cuore affettuoso; sono questi – dicevamo – i versi che più ci persuadono. Insieme – s’intende – alla discrezione davvero esemplare dei disegni di Eugenio Guglielminetti che li corredano. CARLO PROSPERI 180 recensionirecensionirecensionirecensioni GIANNI REPETTO, Il vecchio della Fuìa, Ovada 2004. È il romanzo del ritorno, questo: tant’è vero che viene spontaneo identificare nel protagonista – semplicemente indicato con G. – lo stesso autore, reduce da anni di esilio in altre regioni dove la sua professione d’insegnante lo ha portato; ma, a ben guardare, il tema del ritorno è solo l’occasione estrinseca, se vogliamo il pretesto, su cui s’innerva un racconto d’altra natura, fatto di varie storie, di “fóre”, di affabulazioni imbastite ad arte non solo per difendersi dal fascino del mirum e dal tremendum misterium di cui il sacro è portatore, sì anche per “ridisegnare l’etica del mondo”. È dunque, in primo luogo, un ritorno alle origini mitiche, alle ragioni primigenie della narrazione e, sotto questo aspetto, anche un vichiano ritorno all’infanzia, alle radici personali e popolari che giustificano sì nobile assunto. Di qui la necessità di individuare anzitutto il depositario della memoria collettiva, la Musa ispiratrice, figlia appunto di Mnemosyne, la dea della memoria, per impetrarne l’investitura ufficiale a “cantore” e insieme l’autorizzazione a dare – come Adamo - un nome alle cose,“ri-significando” in tal modo il mondo. L’assunto – come si vede – è nobile e nello stesso tempo ambizioso. Ma la vocazione viene da lontano, come, del resto, i modelli. Il trisnonno di G. era uno straordinario affabulatore, che andava “a contare le fóre” di cascina in cascina e il padre stesso “aveva elaborato un suo stile narrativo che non aveva niente da invidiare al migliore neorealismo”. Da lui G. avrebbe voluto apprendere “il segreto del saper raccontare”. Il lievito dello stupore infantile fa il resto, al punto che la realtà non raccontata sembra meno vera (e meno bella) agli occhi del protagonista. Ebbene, per meritare il privilegio di diventare a sua volta affabulatore, G. deve affrontare un lungo e faticoso viaggio iniziatico, una sorta di ascensione, che è anche un’immersione nella natura.A guidarlo sono gli spiriti dei suoi antenati. Il figliol prodigo si lascia subito avvincere dal piacere estetico che gli viene dal contatto diretto con l’antica madre, dalla contemplazione dei “suoi” boschi, dalla “sovrumana bellezza” dei luoghi e dei paesaggi: è l’armonia del sensibile a conquistarlo, a ridestare in 181 recensionirecensionirecensionirecensioni lui “il senso del magico e del sacro” che resiste tenace soprattutto tra coloro che devono lottare per sopravvivere, tra quegli eroici contadini – gli “ultimi dei becélli” – che ancora si ispirano “all’etica del lavoro”, mentre ormai tutt’intorno trionfa “l’etica del divertimento” e nuovi barbari, reciso ogni legame con la tradizione, invadono e deturpano senza pietà il territorio, compromettendone gli antichi equilibri. G. si ribella alla “maledetta voglia” dell’uomo, maldestro apprenti sorcier,“di fare meglio di Dio”, e avverte il bisogno di disincrostarsi degli effetti (perversi) della cultura dell’umanizzazione. Per questo il suo viaggio verso la Fuìa si può pure leggere come una sorta di rigenerazione, come un processo cioè che passa attraverso una morte rituale e la successiva rinascita. Lungo la via lo sorprende infatti un violento temporale che lo sfinisce e lo porta alle soglie dell’incoscienza e dell’abbandono. Sarà poi la vista provvidenziale di un tetto rosso di tegole, in lontananza, a ridargli energie bastanti a rianimarlo: il resto lo farà l’ospitalità premurosa di Francesco e di Teresa. Francesco è anche la musa (e insieme l’autorità esemplare, il custode della tradizione) di cui G. andava inconsciamente in cerca. Da lui riceve – novello Mosé – le tavole della nuova (o antica?) legge che, raccontando, dovrà trasmettere agli altri uomini. Non è un caso che l’incontro tra lui e Francesco avvenga sulla montagna, in una notte di fulmini e di tuoni. La notte si consuma davanti al fuoco in racconti e rievocazioni che costituiscono una sorta di epos degli erga (opere) e delle hemerai (giorni), ma anche dell’immaginario contadino (e popolare), con le sue storie di spiriti e di “masche” che sanciscono in qualche modo la contiguità tra naturale e sovrannaturale e attestano l’irruzione devastante del numinoso nella quotidianità più umile e più trita. Il racconto è anche un mezzo per difendersene, per esorcizzarne la paura. O per ricondurre a mitici archetipi episodi e scoppi di efferata crudeltà altrimenti inspiegabili. Sfilano, dunque, nelle pagine del romanzo, che sempre più si definisce come un contenitore di racconti, figure indimenticabili di narratori, macchiette paesane, personaggi svirgoli e stravaganti che ci riportano al tempo (mitico) dei carrettieri, dei minatori, dei cercatori di funghi, dei giocatori di morra, degli eremiti, dei mediconi, dei partigiani. Un mondo che sembrava dissolto, una civiltà mortalmente tentata dalle sirene urbane della fabbrica, del (falso) benessere consumistico, del “progresso”, tornano così a rivivere e ci ripropongono, in forma appunto di apologo e di racconto, un modello alternativo di vita che può sembrare (e per certi aspetti è) fortemente inattuale, ma è l’unico che, con la sua naturale religiosità, con il suo senso della misura, può farci ritrovare un rapporto più sereno con noi stessi e con la natura, salvandoci dalla deriva del nichilismo non meno che dai rischi dell’alienazione. Che sono poi i frutti proibiti dell’albero della scienza (e della tecnologia), il naturale portato della hybris umana. Questo però non vuol dire che Repetto abbia una visione idillica e idealizzata del mondo contadino; no, egli è ben consapevole degli inenarrabili sacrifici compiuti giorno dopo giorno per generazioni dai nostri avi semplicemente per sopravvivere, ma in quella parola,“sacrifici”, c’è un senso che basta a spiegarli, a giustificarli. Sacrificio vuol dire 182 recensionirecensionirecensionirecensioni “compiere un’azione sacra”, nel tentativo di adeguarsi a una realtà superiore, che ci comprende e ci giustifica. Non a caso, egli sostiene la necessità di “dimenticare di essere un uomo”, per assecondare armoniosamente il destino. Un amor fati, questo, che è l’essenza stessa del mondo contadino: un mondo che non ha mai pensato di sovrapporsi alla natura e non ha mai aspirato ad imporsi ad essa. Della natura, se mai, il contadino ha tutt’al più cercato il governo, tanto che ci sono nel libro varie pagine dedicate, appunto, al governo del fuoco, delle bestie, del bosco, dei fiumi, della montagna: dove “governo” sta per cura e “governare” vuol dire prendersi cura. Il contadino si sente legato alla terra in un rapporto di odio-amore, di collaborazione e di sfida che si può riassumere in un’espressione emblematica: “culto del lavoro”. E se lavorare stanca – come ben sapeva Pavese -, nondimeno è dal lavoro che nascono le grandi cose. L’ozio è visto come un peccato, come un tradimento, e la natura non dimentica i tradimenti: prima o poi si vendica. Mentre soltanto con una cura assidua e fedele si può sperare di domarla. È questa, in sintesi, la morale, anzi la sapienza (in contrapposizione alla scienza strumentale dell’homo faber) di cui Repetto intende farsi portavoce. E il suo è senz’altro un messaggio coraggioso e controcorrente, che per certi versi si può condividere; un po’ meno quando, capovolgendo il progetto leopardiano di una società a misura d’uomo, presume o pretende di azzerare la centralità dell’uomo in una devozione assoluta alla natura che farebbe tabula rasa di ogni criterio etico ed estetico. Perché se la natura è bella, tale è agli occhi dell’uomo; e se c’è un discrimine tra bene e male, chi, se non l’uomo, può riconoscerlo? Un assoluto naturale – per dirla con Hegel – sarebbe come la notte in cui tutte le vacche sono grigie. Messaggio a parte, tuttavia, il romanzo - che è sostanzialmente un Bildungsroman - ha delle pagine molto belle, che trascorrono senza sforzo dall’epico al lirico, dal racconto mimetico, ricco di deittici e di frasi idiomatiche, alla descrizione del paesaggio (con spunti di sublime dinamico veramente superbi), all’evocazione – tra mitica e fiabesca – di luoghi e di figure che sono in qualche modo consustanziali all’immaginario dell’autore ed hanno quindi risonanze favolose, quasi venissero da un “altro” tempo o da un “altro” mondo. Sortilegi dell’infanzia. E se talora l’unità sembra difettare, come se lo scrittore faticasse a tenere insieme una sì eterogenea messe di argomenti, a garantirla provvede il Leit-motiv della pioggia, che in un’incredibile serie di variazioni, alla stregua di una ininterrotta sinfonia, accompagna da cima a fondo il racconto. È ad un tempo pioggia fecondatrice, liquido amniotico e vitale, e acqua lustrale, lavacro battesimale che favorisce e sanziona la rigenerazione spirituale del protagonista, chiamato – ora che ha finalmente trovato il “baricentro” necessario alla sua vita, anzi l’agognata “misura che gli facesse cogliere fino in fondo il significato della sua identità” - a riconsacrare il mondo e a diffondere la buona novella. Quanto ai modelli letterari, si potrebbero azzardare i nomi di London e di Sgorlon, quello almeno de Il trono di legno, ma senza dimenticare i classici greci, la narrativa verista e neorealista nostrana. E in filigrana, sullo sfondo, la misura epica di taluni romanzi di Melville e di Conrad, declinata però in chiave strapaesana, come, del resto, testimonia l’impasto linguistico, pregno di succhi vernacolari e denso di colore locale. CARLO PROSPERI 183 appuntidiviaggioappuntidi UN’ESTATE D’ARTE È stata un’estate davvero eccezionale per l’arte nel territorio dell’acquese. Già da un po’ di tempo siamo abituati ad esposizioni di qualità nella nostra zona, ma questa volta si è trattato di ben tre mostre, tutte apprezzate dalla critica, oltre che da un gran numero di visitatori, svoltesi all’incirca nello stesso periodo (tra metà luglio e l’inizio di settembre), e tutte nel raggio di una ventina di chilometri: quale migliore occasione, dunque, per passare una giornata visitando tranquilli paesini, passeggiando per i loro centri storici, lungo un itinerario tra dolci colline, e godendo anche di “tappe artistiche”? Iniziamo quindi il nostro itinerario, che si snoderà tra Acqui, Ponzone e Cavatore, in ordine cronologico per quanto riguarda gli artisti celebrati. Si parte da un appuntamento ormai tradizionale, una garanzia dell’estate acquese, l’antologica allestita dalla Galleria Bottega d’Arte Repetto e Massucco nelle sale del Liceo Saracco. Curata anche quest’anno da Vittorio Sgarbi, ormai abitueè di questa zona, riguardava Aroldo Bonzagni (Cento/Ferrara 1887 – 1918 Milano), uno dei protagonisti dell’arte italiana di inizio ‘900. La mostra ha pre- 184 sentato sessanta opere e venticinque cartoline e illustrazioni a colori dell’autore. Le opere, dipinti ad olio su tela e cartone, tempere, acquarelli e tecniche miste, sono state prestate dalla Galleria d’arte moderna Aroldo Bonzagni di Cento, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, dal Museo d’Arte Moderna e Contemporanea «Filippo De Pisis» di Ferrara. Bonzagni studiò all’Accademia di Brera, insieme a Carlo Carrà,Achille Funi, Aldo Carpi, Leonardo Dudreville, Anselmo Bucci e Carlo Erba. Amico di Boccioni, firmò la prima edizione del “Manifesto dei pittori futuristi” (1910), per poi allontanarsene. Dipinse scene di vita e del costume del suo tempo, interpretati con spiccato sentimento satirico, ma alla sua attività di pittore affiancò anche quella di disegnatore e illustratore (cartelloni pubblicitari, illustrazioni di libri, figurini di moda, caricature di taglio politico) per “L’Avanti della Domenica” e le riviste più note dell’epoca, realizzando tavole e vignette di feroce satira politica. Tra le opere esposte ad Acqui, segnaliamo in particolare la Danzatrice, i diversi Trattenimenti di Molinari, Il tram di Monza e la Macchina da corsa, oltre al delicato Aroldo Ginetta e Popi. Nel suo saggio introduttivo al catalogo, Sgarbi lo definisce significativamente “Il Toulouse Lautrec italiano” e ne sottolinea la particolare dimensione drammatica, che iniziò con una visione disincantata della belle époque, per giungere poi ad una visione tragica della vita. Colpito dall’epidemia di febbre spagnola, il 30 dicembre 1918 Bonzagni si spegne a Milano, a soli 31 anni, proprio mentre sta preparando una sua importante mostra personale. La mostra viene ugualmente allestita l’anno dopo da Vittorio Pica e si tiene alla Galleria Pesaro di Milano. Lo stesso anno viene inaugurato al Cimitero Monumentale di Milano il monumento in omaggio a Bonzagni realizzato nel marmo dallo scultore Adolfo Wildt, grazie ad una appuntidiviaggioappuntidi sottoscrizione effettuata fra gli amici artisti, primo sottoscrittore Arturo Toscanini. Nel 1923 si tenne una sua importante mostra voluta dal Comune di Milano nella Stanza degli Assi del Castello Sforzesco. Ma l’opera più importante per l’artista venne realizzata dalla sorella Elva nel 1959 quando a Cento fondò La Galleria d’Arte Moderna a lui dedicata, grazie alle prestigiose opere del fratello e di altri artisti a lui legati, che ella raccolse per la città natale dell’artista. Durante la sua “estate acquese”, Vittorio Sgarbi ha visitato (pur mentre l’allestimento era ancora “in progress”) anche un’altra notevole antologica, la seconda del nostro itinerario, in Casa Gatti a Ponzone. Dedicata ad Alessandro Viazzi (Alessandria 1873 - Genova 1956), alessandrino di nascita ma ponzonese di adozione, ed eloquentemente sottotitolata “Le radici”, questa esposizione è stata importante soprattutto in quanto espressione della volontà della comunità e dell’amministrazione di voler attribuire un giusto riconoscimento ad un artista forse non abbastanza conosciuto. Attraversando le quattro sale dedicate all’esposizione si nota subito, quasi con stupore, l’impegno profuso dall’amministrazione comunale di Ponzone, con la collaborazione dell’Associazione Diomira di Montechiaro d’Acqui per l’allestimento, e di Debora Colombo per la cura del catalogo, nel voler organizzare un evento di grande interesse: non ci si aspettava davvero un’esposizione di una così vasta e varia produzione artistica, come ammesso dai numerosi visitatori e dallo stesso Sgarbi. L’esposizione, comprendente 84 opere tutte provenienti da prestatori privati, inizia con una sala di ritratti di famiglia, in cui spiccano i tanti dedicati all’adorata moglie Adalgisa, contornati da cavalletti e strumenti originali del pittore, oltre che teche con schizzi giovanili e riviste illustrate dall’autore, gentilmente prestati dai suoi eredi tuttora residenti tra Genova e Ponzone. Si prosegue con un settore dedicato alla grafica: manifesti autografi, commissionati dall’Unione Agraria o da ditte private (notevole quello della Fiera equina di Alessandria, con in primo piano uno dei famosi cavalli dell’artista), e numerosi disegni d’accademia. Viazzi infatti non era, come si può pensare, un “pittore di provincia”: aveva frequentato con profitto l’Accademia Albertina, perfezionandosi all’Accademia di Brera ed all’Istituto di Belle Arti di Firenze, diventando amico di artisti del calibro di Pellizza da Volpedo e Morbelli - di cui sono state esposte due cartoline autografe -, e di Gaetano Previati, uno dei teorizzatori del Divisionismo, con cui intratteneva una fitta corrispondenza (una lettera di Previati è stata esposta in mostra). Le sue opere sono state molto apprezzate anche quando era ancora in vita, 185 appuntidiviaggioappuntidi in numerose esposizioni sia a Genova che a Milano. Viazzi ha poi realizzato diverse opere di soggetto sacro, spesso in luoghi a noi vicini: la pala d’altare nella Parrocchiale di Pietra Marazzi, raffigurante la Vergine con ai piedi S. Alessandro e S. Boniforte (qui esposta, insieme ad altre opere di soggetto sacro), gli affreschi per la chiesa di Mombaruzzo, gli affreschi della cupola del Duomo di Ovada (1899), la decorazione interna della parrocchia di Caldasio, le pitture che decorano le pareti laterali del coro della chiesa parrocchiale di Lussito e rappresentanti il Transito di San Giuseppe e l’Apparizione del Sacro Cuore alla Beata Margherita Alacoque (1904), e la facciata dalla stessa chiesa, rappresentante la Vergine in trono. L’esposizione si conclude con un ricco repertorio di dipinti di paesaggi e vedute che molti visitatori avranno riconosciuto: Alessandria e il Tanaro, Cremolino con la Bruceta, e tanti scorci di Ponzone, sia del paese che della campagna circostante. Il nostro itinerario si conclude infine a Cavatore, a Casa Felicita, con l’ultima antologica, quella di Francesco Tabusso (Sesto San Giovanni), con le sue “favole”. Dopo esposizioni come Armando Donna, Mario Calandri e Giacomo Sof- 186 fiantino, Cavatore ha riproposto un importante evento culturale rendendo omaggio ad uno dei maggiori artisti italiani del Novecento. La mostra, allestita, come detto, nella suggestiva Casa Felicita, nel centro del borgo, non a caso è stata intitolata “Fiabe a colori”: ha infatti raccolto, accanto a incisioni e acquarelli, i fogli più belli disegnati dal maestro negli ultimi anni, alcuni ispirati ad Andersen e alle leggende di fate e masche della sua terra, il Piemonte. Tabusso da anni racconta il mondo contadino dei campi e delle cascine, il rincorrersi delle stagioni, non perdendo mai la sintonia con quella natura che spesso è il suo motivo conduttore. In alcune opere come Zucca gialla, Il pittore e la modella, Odalisca, primeggiano colori come il bianco, il giallo, il rosso, quasi volessero rappresentare l’anima stessa dell’immagine in un idea di movimento elegante e sinuoso. In ogni schizzo traspira l’attenzione posta anche al più insignificante cambiamento esterno, al trasuda- re della terra, al volo libero degli uccelli che popolano il bosco, ai colori dei frutti, delle foglie, degli alberi. Di qui nascono litografie come Autunno, o incisioni come Inverno, Primavera, Estate, in cui si colgono la poesia e la morbidezza delle stagioni. Allo stesso modo apprezza il variopinto mondo dei circhi da cui nascono allegri capolavori come Tiro a segno e Il Circo, o mestieri quasi scomparsi come i caldarrostai che, immortalati in una invernale xilografia, sembrano vogliano riscaldare con il rosso della fiamma che arde sotto il pentolone anche colui che ammira l’opera . Descritto dagli amici più cari come un artista sregolato, burlone e raffinato, capace di immortalare un mondo in festa con un segno, Francesco Tabusso è oggi pittore affermato, apprezzato nelle più prestigiose rassegne internazionali. VALENTINA ISOLA ELISA PIZZALA brevibrevibrevibrevibrevi Corisettembre 2005 Si è svolta nei giorni 16, 17 e 18 settembre, ad Acqui, la XXIX edizione di Corisettembre, alla quale – con le voci acquesi – hanno preso parte i cori “Le Chardon” di Torino, “Gli amici della montagna” di Varese, i cantori dell’ “Hirondelles” di Aosta, il coro polifonico “Gaffurio” di Ostia. Nell’ambito della manifestazione anche i festeggiamenti del quarantennale della Corale “Città di Acqui Terme”, organizzatrice dell’evento musicale. conferenza tenuta da Gianluigi Mattietti (Università di Cagliari), e hanno avuto per protagonisti: Roberto Prosseda (pianoforte), il Duo Alterno, formato dal soprano Tiziana Scandaletti, e dal pianista Riccardo Piacentini, e infine il duo di Claudio Merlo (violoncello) e Roberto Beltrami (pianoforte). La festa di ITER Teatro Garibaldi: de profundis Festival di musica contemporanea C’era anche il compositore ottantenne Aldo Clementi alle due giornate musicali in suo onore allestite l’otto e il nove ottobre nell’ambito del Festival “Omaggio a ...”. Quattro gli appuntamenti musicali dedicati al repertorio contemporaneo, suddivisi tra Biblioteca Civica e Aula dell’Università. I concerti sono stati introdotti da una rivista – è così finita nel peggiore dei modi. Sono ripresi, a fine settembre, i lavori di demolizione del Teatro “Garibaldi”,dopo il ritiro – da parte della direzione regionale del Ministero per i Beni Culturali – dell’avvio di procedimento di vincolo. A difendere il Garibaldi, durante l’estate, si erano levate insieme a quelle di molti acquesi – anche le voci di Vittorio Sgarbi e del regista acquese Beppe Navello. La vicenda tormentata del teatro acquese per eccellenza – alla cui genesi e alle cui stagioni (sino agli anni Quaranta) avevamo dedicato un congruo numero di pagine sul passato numero della nostra Anche l’assessore regionale per la cultura Gianni Oliva (per la prima volta ad Acqui nelle vesti di amministratore) e l’assessore provinciale Rita Rossa hanno voluto prendere parte, il 5 settembre, alla presentazione del secondo numero di “ITER”, allestita nel chiostro di San Francesco. Sul palco con Roberta Bragagnolo, autrice della tesi di laurea da cui il volume ha avuto origine, il regista Beppe Navello. Il pomeriggio culturale – cui hanno preso parte anche il presidente di Alexala Gianfranco Ferraris e l’on. Lino Rava per l’Ass. Alto Monferrato – si è poi concluso con un brindisi presso l’Enoteca Regionale di Acqui Terme. 187 brevibrevibrevibrevibrevi Estate acquese (e anticipazioni per l’inverno) Anche quest’anno, presso il Teatro Aperto di Piazza Conciliazione, una ricca estate di spettacoli. In palcoscenico la danza (con uno strepitoso Andrè de la Roche interprete di Don Chisciotte, ma non sono mancate le proposte interessanti fornite dalle tante compagnie italiane e internazionali; ospite di una serata anche Roberto Bolle), la lirica (con La Traviata di Giuseppe Verdi), il jazz (con Jiggs Whigham e Andrea Dulbecco, e una trascinante Lillian Bouttè ), e le musiche della tradizione locale. Da segnalare, poi, la serata con gli autori del dialetto (accompagnati dalle musiche de “Gli amis”, nel chiostro di San Francesco) il 28 agosto, e l’inaugurazione del Teatro Romano, a ridosso della Bollente con Arlecchino/Ferruccio Soleri il 17 agosto A fine ottobre, invece, la presentazione ufficiale della stagione “Sipario d’Inverno” avrà come ospite d’onore Gabriele Lavia, che proporrà una scelta delle liriche e delle prose di Giacomo Leopardi. 188 Grognardo e il torrente Visone L’allestimento di un’area didattico-ecologica in Grognardo ha sollecitato l’Associazione “Vallate Visone e Caramagna” a promuovere un convegno dedicato al torrente Visone e al gambero di fiume. La giornata di studi si è svolta il 3 settembre presso “Il Fontanino”. All’incontro hanno partecipato docenti universitari, esperti della Provincia e amministratori della zona. Conferenze e presentazioni Ricco il calendario di eventi. In settembre ospiti della città termale: Serena Zoli (autrice, per Longanesi, de La generazione fortunata) e Daniela Padoan (Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Majo, saggio Bompiani) nell’ambito di due incontri promossi dall’ “Acqui Storia”. Da registrare, inoltre, le conferenze del ciclo “D’Autunno alle Terme”, allestite per gli ospiti presso la sala dello Stabilimento “Regina” (relazioni di Gianni Rebora, Riccardo Brondolo, Carlo Prosperi) e gli appuntamenti della Scuola di Alta Formazione Filosofica tenutisi presso le sale di Palazzo Robellini dal 12 al 14 ottobre (lezioni di Domenico Venturelli, Roberto Gatti, Gerardo Cunico, Francesco Ghia,Alberto Pirni, Anna Czajka, Francesca Menegoni). Purgatorio: di nuovo in viaggio con Dante Sono ripresi in data 10 ottobre gli appuntamenti del lunedì con la Lectura Dantis, in questa nuova stagione dedicata alla seconda cantica. Letture e musiche (quelle di Silvia Caviglia, proposte dal Duo “Le armonie di Ariel”, con i cori curati da Annamaria Gheltrito, e il coordinamento dei commentatori a cura di Carlo Prosperi) insieme per percorrere in ogni serata la distanza di tre canti. Inizio alle 21, con ingresso libero. Ai tre appuntamenti di ottobre: il 10 (canti I-III), il 17(canti IV-VI), e il 24 (canti VII-IX), seguiranno le date di novembre: il 7 (canti X-XII), il 14 (canti XIII-XV) e il 21 (canti XVI-XVIII). brevibrevibrevibrevibrevi Malvicino, la strage evitata e un prete partigiano Si è tenuta domenica 21 agosto, a Malvicino, una giornata di memoria e di studi a ricordo della strage scampata dal paese nell’estate del 1944, quando un rastrellamento tedesco fece 42 ostaggi. Era la rappresaglia che seguiva il rapimento di tre tedeschi della TODT da parte dei partigiani della zona. Gli eventi successivi portarono poi all’incendio di Santa Giulia, roccaforte partigiana, alla morte di Teresa Bracco e a quella – mesi dopo – di Don Italicus, il prete Virginio Icardi, parroco di Squaneto, cui Bruno Chiarlone ha dedicato un contributo nel primo numero di “ITER”. allievi ( più di 120) delle scuole di Monesiglio, Monastero Bormida, Bubbio, Dego, Spigno Monferrato. Erano presenti alla manifestazione i presidenti delle Comunità Montane “Suol d’Aleramo” e “Delle Valli”, rappresentanti delle associazioni culturali GRIFL di Cairo, “Visma” di Vesime, del parco regionale ligure di Piana Crixia, redattori del settimanale “L’Ancora”, di ITER, responsabili editoriali della casa editrice EIG, che ha donato alle scuole alcuni volumi del libro Tra Romanico e Gotico. torio medioevale, rinascimentale e barocco, nel pomeriggio, nel chiostro dell’ex convento, hanno avuto luogo le prove del concorso. Cassine: Medioevo e Rinascimento Continua l’opera di recupero a beneficio degli storici strumenti della Diocesi. A Ponti il Mentasti 1884 Mola 1933, restaurato da Italo Marzi, è stato inaugurato il 27 settembre. Da registrare gli innumerevoli concerti organistici tenutisi nei mesi estivi a Ricaldone, Melazzo,Terzo, Trisobbio, Molare, Ovada, Acqui (Oratorio di S.Antonio Abate e Duomo). Si è svolta, all’inizio di settembre, la tradizionale “Festa Medioevale”, quest’anno dedicata ai cavalieri templari. Domenica 9 ottobre, sempre nei pressi del complesso monumentale di San Francesco, ha avuto svolgimento la V edizione del Festival di Danza antica. Dopo le lezioni dedicate nel mattino al reper- L’estate degli organi Figure che scompaiono Merana, un concorso per le scuole Venerdì 10 giugno, a Merana, si è concluso, con una cerimonia di premiazione, il concorso riservato agli alunni delle scuole dell’obbligo dal titolo “Una foto, una storia”. Alla festa hanno preso parte Durante l’estate sono venute meno alla città d’Acqui le figure del prof. Luigi Merlo, educatore e uomo di cultura, caro a generazioni di allievi, e quella del notaio Ernesto Cassinelli, presidente della Cantina dei Viticoltori dell’Acquese. Entrambi ricoprirono la carica di sindaco del nostro municipio. 189 brevibrevibrevibrevibrevi Feste in biblioteca Sabato 24 settembre, presso la Biblioteca “La Fabbrica dei Libri” di via Maggiorino Ferraris, si è tenuta la Festa dei Lettori. Nel programma del pomeriggio la presentazione del progetto “Nati per leggere”, una anticipazione della Lectura Dantis – Il Purgatorio, l’incontro con lo scrittore per ragazzi Pier Domenico Baccalario, e poi il suggello del brindisi finale. Domenica 25, a Racconigi, ha avuto svolgimento la Festa regionale, animata dalle Biblioteche del Piemonte. Promozione del territorio La Langa adottata dai francesi: dopo gli eventi parigini del novembre 2004, la promozione del territorio nell’area transalpina ha vissuto due ulteriori momenti di eccellenza nell’ambito del “Prix de la Presse” (23 giugno, sempre nella capitale: erano presenti giornalisti di tutta europa) e poi della manifestazione “Terres à vins, terres à livres” organizzata ad inizio ottobre ( sabato 1 e domenica 2) nella Valle della Loira. Cavatore e la pietra La pietra di Cavatore alla ribalta continentale nell’ambito del REPS (Rete Europea Pietra a Secco). A settembre un tavolo di lavoro nel piccolo centro colli- 190 nare ha riunito operatori del settore e amministratori di Francia, Grecia, Galles, Svezia, Spagna e , ovviamente, Italia. L’idea comune? Quella di partire dal patrimonio e dal contesto delle tipicità edilizie locali per promuovere lo sviluppo economico, turistico e culturale. San Giorgio Scarampi: una piccola Atene in collina L’oratorio di Santa Maria fucina di musiche e di iniziative culturali.Tra estate e autunno, nei tradizionali appuntamenti della domenica pomeriggio recital pianistici, musiche folkloriche del Vietnam, repertori da camera, brani medioevali, che hanno accompagnato mostre di artisti e iniziative di riscoperta storica promosse dalla Scarampi Foundation. Gli appuntamenti proseguiranno anche nel mese di dicembre. Santo Stefano Belbo per Pavese Nel pomeriggio di domenica 25 settembre, presso la casa natale dello scrittore, si è svolta la cerimonia di premiazione della XVI edizione del concorso di pittura “Luoghi, personaggi e miti pavesiani”. Alla manifestazione hanno partecipato 83 artisti italiani e stranieri. Nel corso delle manifestazione il Maestro Piero Ruggeri, è stato insignito – nel corso della manifestazione, condotta dal prof. Luigi Gatti – del premio “Una vita per l’arte”. Il trenta di ottobre, sempre a Santo Stefano, la IX edizione del premio di scultura. I bandi dei concorsi e le segnalazioni degli eventi vanno comunicati all’indirizzo e-mail della rivista [email protected]. Oppure spediti o consegnati direttamente presso la redazione, nella sede dell’Editrice Impressioni Grafiche, Via Carlo Marx 10, Acqui T. (Al), tel.0144.313350, fax. 0144.313892. concorsiconcorsiconcorsi PREMIO “GUIDO CORNAGLIA POESIA & SPORT” È fissato alla data del 30 novembre 2005 il termine ultimo di presentazione delle opere per questo concorso, suddiviso in due sezioni: A: liriche a carattere sportivo inedite in italiano; B: liriche a carattere sportivo in vernacolo, cui va unita traduzione. Le opere (massimo due per sezione, ognuna in quattro copie) vanno inviate alla segreteria del Concorso nazionale “Premio Guido Cornaglia - Poesia & Sport” presso Comune di Ricaldone, Via Roma 6, 15010 Ricaldone ( Al). L’iscrizione è gratuita. In palio in ogni sezione premi di 500, 250 e 150 euro per i tre migliori classificati. I risultati saranno resi noti a partire dal 15 dicembre; i migliori elaborati saranno premiati nel corso di una cerimonia che si terrà a Ricaldone, presso la Cà di Vein della Cantina Sociale, il 13 gennaio. La manifestazione è patrocinata dai Municipi di Acqui Terme e Ricaldone, dalla Comunità Collinare e dalla Cantina di Ricaldone, dalla Comunità Montana Suol d’Aleramo, dalla Provincia di Alessandria e dal mensile “Acqui Sport”. INFO Ulteriori informazioni al sito: www.premioguidocornaglia.com e ai numeri telefonici 0144.74120, 0144.55215, 333.1251351oppure scrivendo alla e-mail [email protected] I PREMIATI DEL CONCORSO REGIONALE DI POESIA DIALETTALE SAN GUIDO D’AQUOSANA Sono Giuseppina Mina (con la poesia I Taijarin, sez. A, tema enogastronomico) e Domenico Bisio di Fresonara (con la lirica Pasqua – sez.B – tema libero) i vincitori dell’edizione 2005 del Concorso regionale di Poesia Dialettale indetto dalla Confraternita dei Cavalieri di San Guido d’Aquosana. La premiazione si è tenuta il 2 ottobre (giorno della Festa del Rosario), presso la sala d’onore di Palazzo Robellini. Altri riconoscimenti sono andati ad Albina Zabaldano di Cantarana (La sfeuja – II premio sez.A), a Domenico Marchelli di Nizza Monfer- rato (La belecauda – III premio sez.A), a Paolo De Silvestri (Masche, II premio sez. B) e Antonio Tavella di Racconigi (Entravisa, III premio sez. B). I premi speciali “Mario Merlo” sono stati aggiudicati a Paolo De Silvestri (per Pulenta) e a Giuseppe Accossato di Genova (per Nosgnor). I PREMIATI DEL II CONCORSO D’ORGANO S. GUIDO D’AQUESANA Questi i migliori musicisti espressi dal premio musicale, tenutosi a Bubbio nel maggio scorso. Sezione diplomati: Rodolfo Bellatti (Campomorone, Genova), punti 98/100 I premio; Alberto Brigandì (Reggio Calabria), II premio. Sezione allievi:Simone Quaroni (Pavia),II premio; Matteo Venturino (S. Miniato, Pisa), III premio. La giuria, presieduta dalla prof.ssa Ivana Valotti (Conservatorio di Milano), era formata dal M°. Giuseppe Gai (Conservatorio di Alessandria), dal M° Massimo Nosetti (Conservatorio di Cuneo), dal M° Federico Vallini (Conservatorio di Cosenza), dal M° Luca Verardo (titolare dell’organo di S. Pietro in Voghera). I PREMIATI DEL XVII CONCORSO NAZIONALE PER GIOVANI PIANISTI DI TERZO È Michele Montemurro, da Chiavenna (Sondrio), un allievo delle prestigiose scuole pianistiche di cui sono titolari Franco Scala e Paolo Bordoni, il vincitore del Premio Pianistico “Terzo Musica - Valle Bormida” 2005. Alle piazze d’onore Viller Valbonesi ( Alfonsine, Ravenna) e Diego Maria Maccagnola (Cremona), rispettivamente II e III premio. Ad incaricarsi del giudizio una commissione di assoluta qualità, presieduta dal M° Riccardo Risaliti (già docente al “Verdi” di Milano), e composta dalla prof.ssa Maria Teresa Carunchio (Conservatorio “Rossini” di Pesaro), dal M° Sergio Marengoni (“Verdi” di Milano), dal M° Lorenzo Di Bella (già vincitore del concorso in una delle passate edizioni, oggi direttore artistico dell’Accademia delle Marche), e dal M° Enrico Pesce. Tra i migliori delle categorie inferiori vanno 191 concorsiconcorsiconcorsi segnalati i nomi di Alessandro Falossi (Milano) nella categoria A, e di Norberto Diale (Torino) nella categoria B. La manifestazione ha avuto luogo a Terzo nel maggio scorso. Presidente della Repubblica è dedicato alla memoria della “Divisione Acqui” e al suo eroico sacrificio nell’isola greca di Cefalonia, nel mese di settembre 1943. PREMIO GOZZANO 2005 I VINCITORI DEL PREMIO ACQUI STORIA XXXVIII EDIZIONE Si terrà sabato 29 ottobre, presso il Teatro Ariston di Acqui Terme la premiazione dell’“Acqui Storia”. Se lo sono aggiudicati, per la sezione scientifica, Gabriele Hammermann, con il volume Gli internati militari in Germania 1943-1945 (Il Mulino) e, per la sezione divulgativa, Federico Rampini, con il saggio Il secolo cinese (Mondadori). A Corrado Augias il Premio “La storia in TV”. Nella giuria dell’“Acqui Storia”: Guido Pescosolido (presidente sezione scientifica), Cesare Annibaldi, Camillo Brezzi, Antonio De Francesco, Umberto Levra, Andrea Mignone, Nicoletta Morino; Ernesto Auci (presidente sezione divulgativa), Roberto Antonetto, Pierluigi Battista, Riccardo Chiaberge, Elio Gioanola,Alberto Masoero,Adriana Ghelli. Il premio, indetto da Regione Piemonte, Provincia di Alessandria,Comune di Acqui,Fondazione della Cassa di Risparmio di Alessandria e Terme di Acqui, sotto l’alto patronato del a b b o n a r s i Questi i vincitori del Premio Gozzano di Terzo 2005, cui hanno partecipato oltre 380 concorrenti da tutta Italia e dall’estero (Francia,Belgio, Olanda e Inghilterra): Sezione A, poesia edita in Italiano: Maura Del Serra - Congiunzioni, Editrice Petite Plaisance - Firenze; Sezione B, poesia inedita in Italiano: Liliana Zinetti- “Per le parole dissipate” Casazza (Bg); Sezione C, racconto inedito in Italiano: Paolo Rendini- “Le nuvole nel camino e la scuola di ricamo” - Leivi (Ge). La premiazione si è tenuta sabato 15 ottobre presso la sala Benzi di Terzo. Tra le novità di quest’anno vi è la pubblicazione da parte della casa editrice Impressioni Grafiche di un volume che raccoglie le poesie e i racconti vincitori delle prime cinque edizioni. a tramite versamento postale sul numero di c/c 19702141 intestato a IMPRESSIONI GRAFICHE, via Carlo Marx, 10 - 15011 Acqui Terme (AL) (nella causale specificare Abbonamento per 4 numeri a ITER) - L’abbonamento per 4 numeri è di € 30 - L’abbonamento sostenitore per 4 numeri è di € 50 Ogni abbonato riceverà in omaggio, col primo numero della rivista, il libro “6 novembre 1994 Voci nella pioggia” di Maurizio Neri, 100 interviste ad alessandrini nel decennale dell’alluvione Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista al n° di fax 0144 313892 o per posta al seguente indirizzo: Impressioni Grafiche, via Carlo Marx 10 - 15011 Acqui Terme (AL) Per informazioni: Redazione di Iter • tel. 0144 313350 • fax 0144 313892 • e-mail: [email protected]