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Iter:
nel segno
della
varietà
di Giulio Sardi
Dopo il volume monografico, a cura
di Roberta Bragagnolo, dedicato a
Due secoli di vita teatrale ad Acqui,
questo terzo numero di ITER riabbraccia la formula miscellanea.
L’obiettivo è quello di conciliare tanti
apporti nel segno della varietà.
Nelle pagine che seguono troverete
contributi disposti su un asse cronologico che dall’età antica e dalle vestigia romane giunge al momento
della Liberazione. Gli articoli sono
dedicati alla città di Acqui, ma anche
ai paesi del circondario e dell’intera
valle.
Non solo. Anche nel taglio stilistico
l’approccio adottato dai vari autori è
diverso: il lettore troverà il più classico saggio scientifico, ricco di note e
rimandi bibliografici che potrebbe
essere parte di una pubblicazione
universitaria, ma anche una sorta di
“racconto di storia” che propone
curiosità e aneddoti, che privilegia la
narrazione alla documentazione.
Anche nella misura il criterio è la discontinuità: pezzi minimi, della lunghezza di poche pagine, si alternano
ad articolati approfondimenti da
gustare a poco a poco.
E poi, ancora, in alcune sezioni la rivista lascerà parlare direttamente le
fonti, in altre le immagini.
Ricerche fonti e immagini per un territorio
Trimestrale
Anno I, numero 3, ottobre 2005
Direttore Giulio Sardi
Redazione Angelo Arata,Valentina Pistarino,
Elisa Pizzala, Carlo Prosperi,Vittorio Rapetti,
don Angelo Siri
Segreteria di redazione
Elisa Pizzala e Silvia Pastore
Hanno inoltre collaborato Sergio Arditi,
Giorgio Botto, Riccardo Brondolo, Mariangela
Caramellino, Marco Francesco Dolermo,
Elisabetta Farinetti, Maria Teresa Gastaldi,
Valentina Isola, Francesca Lagomarsini, Paola
Piana Toniolo, Pier Paolo Pracca, Ennio e
Giovanni Rapetti, Luisa Rapetti, Massimo
Rapetti, Pietro Reverdito, Gian Enrico Rusconi,
Geo Pistarino,Vanghèlis Sakkàtos
Progetto Grafico
Paolo Stocchi e Guido Arditi
Fotografie L’apparato iconografico, quando
non prodotto dagli Autori dei saggi, attinge
all’Archivio Iter.Altri contributi dall’Archivio
storico Mario Barisone conservato presso lo
Studio Fotografico Tronville, dall’Archivio Visma
di Vesime, dall’Associazione Nazionale Divisione
Acqui e dall’Istituto “Albe Steiner” di Torino
Un ringraziamento per la collaborazione a
Archivio Vescovile d’Acqui, Biblioteca Civica di
Acqui Terme, Alberto Pirni, Piero Zucca
Edito da Editrice Impressioni Grafiche
Stampa Tipolitografia Impressioni Grafiche
società cooperativa sociale, Acqui Terme (AL)
Redazione via Carlo Marx 10- 15011 Acqui
Terme (AL) Tel. 0144 313350 fax 0144313892
e-mail: [email protected] • www.eigeditrice.it
© EIG 2005
ISSN 1825-6422
Registrazione n. 97 del Tribunale di Acqui
Terme rilasciata in data 27 gennaio 2005
In copertina:
Un’immagine di inizio Novecento del fotografo
Mario Barisone (Studio Fotografico Tronville)
Insomma: continua il tentativo di
andare incontro alle propensioni dei
nostri lettori che - è inevitabile avranno attese tra loro differenti
(c’è chi ama il medioevo, chi è affascinato dal documento, chi si aspetta scritture divulgative, chi la prosa
più ricercata...tutto è pienamente
legittimo).
La speranza: quella di ampliare il
ventaglio degli interessi preferiti,
portando chi legge su un nuovo terreno.
Ovviamente solo metaforico.
Il filo rosso che lega, infatti, tutti i
contributi continua ad essere quello
dell’identità; di una strada – o
meglio – di un reticolo che unisce il
territorio e diviene strumento di un
lavoro condotto in sinergia.
E il territorio, sulle pagine di questo
numero e dei prossimi, ha modo di
continuare a raccontarsi nel suo
complesso, e di ricercare gli elementi di una ben precisa identità.
È così che nasce, in chi scrive ma
anche in chi scorre le pagine, il
senso di una profonda appartenenza. Un valore forte e una ricchezza
di cui essere consapevoli.
Ricordi
egiziani
Nel luglio 1884 l’acquese
Raffaele Ottolenghi (classe
1860, appartenente alla celebre
famiglia che diede i natali anche
a Jona e poi al conte Arturo)
divenne vice-console italiano al
Cairo. Fu l’inizio di una carriera diplomatica che portò il Nostro, da lì a due
anni, a ricoprire la stessa carica a New
York. Fu l’ennesimo viaggio di un giramondo poliglotta (oltre a inglese e francese conosceva bene le lingue antiche
latina, greca ed ebraica). Egli, dopo
aver percorso in lungo e in largo
l’Europa (Germania, Svezia, Danimarca),
fu poi richiamato dal fascino dei paesi lontani dell’Africa.
È risaputo l’interesse di Raffaele Ottolenghi - un pensatore
profondissimo nel ricordo che Carlo Chiaborelli vergò alla
morte suicida del 1917 - nei confronti dei Falasha, gli ebrei
etiopici, e nei riguardi del mondo orientale, cui dedicò saggi
pubblicati in riviste e in volumi monografici (cfr. Voci
d’Oriente, Firenze 1905; Lugano 1913).
Fu però “La Gazzetta d’Acqui”, tra novembre e dicembre
1885, ad ospitare i suoi primi reportage, pagine freschissime, da una terra - quella in riva al Nilo - che senz’altro lo
aveva affascinato e che Raffaele, a quel punto, voleva “raccontare” ai suoi concittadini.
Attingiamo allora direttamente alla fonte.
***
La gran fiera di
Tantah, che
conta fra le
più celebri
dell’Oriente,
ricorre nel
mese di
agosto.
Tantah è
una città
importante
dell’Egitto, situata a
un’ora e mezza di
treno diretto dal
Cairo, nel bel mezzo
del Delta, fra i due
rami del Nilo (di
Rosetta e Damietta),
capoluogo della provincia di Gharbiye.
Partito la sera dal Cairo, in
compagnia di un amico, giungemmo,
fra i tepori caldi di uno splendido tramonto, fra il ringiovanire di questa
terra riarsa, su cui già si riversavano le
acque vivificatrici, alla stazione di
Tantah.Vi fummo accolti con ospitalità
meravigliosa da quell’ottimo gentiluomo che è il barone Ing. Guglielmo
Castelnuovo, bel tipo di ex-ufficiale
d’artiglieria, e reduce e ferito glorioso,
di Mentana [1867; Garibaldi sconfitto
dai Francesi], che là dimora in qualità
di ingegnere capo del Catasto per la
provincia di Gharbiye. Siccome la
parte più bella e caratteristica della
fiera si svolge la notte, così ci preparammo, dopo i primi saluti, ad andar
girovagando. Prima, però, due parole di
storia sull’origine di questa fiera, che
rassomiglia come due gocce d’acqua a
tutte le fiere del mondo.
4
Dunque, dovete sapere, che nel dodicesimo secolo nacque in Fez un gran
santo detto Seyyd Ahmed El Bedawi (il
Beduino): il quale un bel giorno ebbe la
buona idea, di andare in pellegrinaggio
alla Mecca; e quella anche migliore
d’ammalarsi al ritorno, e d’andare a
morire proprio in Tantah.
La tradizione fa di questo guerriero
del deserto un eroe, e il suo nome
viene invocato dai combattenti, nei
momenti del pericolo. Ma il più strano
si è che, per un passaggio d’idee non
facilmente esplicabile, egli è pure venerato dalle donne, che lui quasi Nume
da ogni parte invocano, per averne la
benedizione dei figli.
Ne viene, che la fiera di Tantah è il
convegno di tutte le donne sterili del
mondo mussulmano, e, per naturale
conseguenza, anche di molte altre,
che, senza essere sterili desideran di
vedersi dotate di più numerosa corona di vispi rampolli. È facile immaginarsi quanto sia interessante il concorso,
di tante donne con siffatte buone intenzioni, tanto più che, sia detto tra
parentesi, il mezzo impiegato generalmente ad ottenere la grazia è, nella sua
semplicità, della massima efficacia.
Ma ritorniamo al bravo nostro ospite,
che si mette in quattro per ispiegarci
ogni cosa e per farci divertire. Lo spettacolo di una sì variopinta folla, fra le
strette vie di una città araba di provincia, fra quelle casucce di creta mezzo
diroccate e sulle rive del canale, è già
dì per sé stranissimo.Tutte le fogge del
mondo mussulmano vi sono rappresentate, specialmente quelle della parte più debole del sesso debole. Ad
ogni passo sorgono improvvisate baracche, con un po’ di lumi alla veneziana, entro cui qualche abile ballerina dà
pubblico spettacolo della sua abilità.Vi
son le sudanesi, nere come il carbone,
dalle grandi labbra rosse, dal naso fo-
rato da immensi orecchini, dalla voce
chioccia e nasale, dalle mosse dure e
rozze, e il pubblico è composto da
loro compaesani, che osservan commossi la danza nazionale, che li richiama alle sabbie ed agli ardori del paese
nativo.
E, accanto ad esse, son pure bianchissime ragazze; forse già schiave di
harem, dalle movenze tarde e pigre.
Ma la più gran parte, son fellahine, contadine del paese, con vesti dai vari
colori che hanno qualche somiglianza
colle nostre montanare. Infine, la grande attrazione è formata dalle danzatrici di professione, per le quali la fiera
costituisce una vera gara in cui tutte si
contendono la palma. E fanno a chi più
abbonda di strane movenze, o di voluttuosi atteggiamenti e giungono a tali
esagerazioni di piegamenti e di provocante affanno, e riescono a contorcersi con sì meravigliosa elasticità, sporgendo e ritirando le varie parti del
corpo, da eccitare la più grande meraviglia. S’avanzano appoggiate ad un
bastone; e ballano con
lumi posati sul capo, avanzandosi e ritirandosi, ed abbassandosi fino a terra e
rialzandosi superbe, le narici frementi,
gli occhi ebbri di piacere e di esaltazione, fra i suoni di una musica monotona ed eguale, e le grida del pubblico
che segue con ansia la danza. Non
senza interesse è l’aggiungere che i
padroni delle più frequentate baracche
son quasi tutti Greci che pur di far
quattrini, si mutano in questi giorni in...
(come devo dire) intraprenditori di pubblico piacere. Tale è la parte più interessante delle orgie [sic] notturne.
Ma presso le danzatrici stanno pure i
fedeli, che percorrono le strade pregando: e ad ogni istante s’arrestano e
stretti in circolo, con grida d’ossessi,
cogli occhi fuori dalle orbite, con
movimenti affrettati e ondulanti del
corpo si raccomandano al gran Santo.
E per le strade girano i rivenditori
ambulanti, che vi assordano con l’esaltare che fanno la loro merce, mentre i
buoni negozianti vi guardano assonnati o non curanti dalle porte delle microscopiche botteghe, raggomitolati
per terra, attendendo che entriate
a comprare.
Né meno interessanti sono i
soliti rivenditori di acqua, con il
loro grand’otre sulle spalle e le
coppe d’ottone che fan risonare
loro le mani. Ci accostammo a
uno che c’invitava dicendo “fermati
o straniero! Questa freschissima
acqua che è dono del gran Sheik El
Bedawi ti porgo nel suo santo nome”.
Quest’acqua, infatti, raccolta di questi
giorni in un gran pozzo che dal santo
prende il nome, vi sta depositata sino
al prossimo anno, e non si beve che
durante la festa.
Raffaele Ottolenghi
Pubblicato su “La Gazzetta d’Acqui”
del 28-29 novembre e 1-2 dicembre 1885
5
La Chiesa
di Roma
nel tempo
degli Apostoli
di Geo Pistarino
La basilica
di San Pietro
in Acqui.
Fronte.
Nell’area cittadina di Acqui Terme, in Piazza Orto San Pietro, in
prossimità della basilica dell’Addolorata, che fu la prima cattedrale d’Acqui, già dedicata a San Pietro, ad un paio di metri di profondità nel sottosuolo esiste il primo cimitero, in origine pagano,
in cui neofiti Cristiani già nel I secolo presero ad inumare i loro
defunti, costruendo una chiesetta, che assurse poi alla funzione di
prima basilica cristiana della città tardo-antica e medievale.
Qui, in occasione di scavi e restauri, compiuti in loco nel 1660,
venne ritrovato un reperto archeologico, quanto mai interessante:
una lapide sepolcrale in marmo bianco, con la seguente iscrizione:
- P VII ID. MART.
CUM GALBA AUGUSTO SUB
CONSOLE DOMITIANO
VICTIMA CUM MARCO QUINTE
METELLE CADIS
DE GREGE SIMONIS GEMINOS
AGNOS TIBI CAESOS
IN SUPERUM MENSAS SUSCIPE
XPISTE DEUS
6
9 marzo
Con Galba Augusto, essendo
console Domiziano,
o Quinto Metello, cadi vittima
con Marco;
gli agnelli gemelli del gregge di
Simone, a te immolati,
accogli nel banchetto celeste, o
Cristo Dio.
Il ritrovamento, con la trascrizione
della lapide, venne annotato a pagina
56 del testo manoscritto del 1628, già
esistente nell’archivio Vescovile d’Acqui, dell’opera del Vescovo Gregorio
Pedroca, Solatia chronologica Sanctae
Ecclesiae Aquensis, con la seguente
annotazione: «Recentemente, nel
corrente anno 1660, presso la chiesa
di San Pietro fu ritrovata una lapide di
colore bianco con questi versi (segue
il testo qui sopra indicato)». Non sappiamo a chi risalga l’annotazione sul
manoscritto del Vescovo Pedroca.
Non può tuttavia escludersi che la si
debba alla mano o al dettato del
Vescovo in carica nel 1660: Giovanni
Ambrogio Bicuti (1647-1675).
Il testo della lapide venne edito per la
prima volta nel 1770 da Cesare
Orlandi, che la dice scoperta nel
1758, nel sito di cui sopra. Insorse
allora una lunga discussione perché
l’Impero di Galba, all’inizio dell’anno
69, non coincideva in alcun modo con
il primo consolato di Domiziano,
ricorrente nell’anno 71 (nel mondo
romano gli anni s’indicavano con il
nome dell’Imperatore e del Console,
regnanti al principio di gennaio).
La discussione si è protratta sino ad
oggi, nessuno ricordando che l’Imperatore Domiziano, ucciso da una
congiura di palazzo il 18 settembre
96, venne allora colpito dal Senato
Romano con la damnatio memoriae, la
quale implicava la cancellazione di
tutti gli atti amministrativi da lui
compiuti, come pure di tutte le cariche amministrative, da lui ricoperte,
purché il titolo amministrativo non
fosse contestuale con quello di
Cesare o di Augusto, su cui si reggeva il sistema cronologico romano.
Noi sappiamo che l’unico anno in cui
Domiziano, all’inizio della propria
carriera, era stato soltanto Console,
fu il 69: il quale anno 69 venne perciò
eliminato nella cronologia ufficiale
del suo cursus honorum, in cui fu indicato come suo primo anno consolare l’anno 71, quando egli raggiunse il
titolo di Cesare. Di qui il totale dissidio con l’anno d’impero di Galba.
Riportandosi invece all’anno 69 il
primo consolato di Domiziano (come effettivamente fu), la cronologia
della lapide risulta perfetta: Fabio e
Quinto Metello, immolati ad Acqui
nel tempo di San Pietro e di San
Paolo, sono i due unici martiri delle
persecuzioni del tempo di Nerone e
degli anni immediatamente successivi, dei quali si conosce il nome1.
Sedeva allora sul soglio pontificale
San Lino, primo successore di Pietro,
secondo quanto già si legge nelle più
antiche liste episcopali di Roma.
Sarebbe stato proprio Lino Papa a
stabilire che le donne entrassero in
chiesa a capo velato: ordine che
sopravvisse fino agli anni sessanta del
XX secolo.
Secondo la tradizione Papa Lino
resse il pontificato in Roma negli anni
67-76, all’epoca della nostra lapide,
durante il tempo degl’Imperatori
Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano. Il quale Lino Papa non solo
ordinò alle donne di entrare in chiesa con il capo coperto, come si è
1 GEO PISTARINO, Acqui antica e medievale, città dei Martiri e città del Vescovo, nella storia cristiana
dell’Europa, Genova, 2004.
7
detto, ma prescrisse anche ai Sacerdoti l’uso del pallio: semplice striscia di lana bianca con la sovrastampa di croci nere, portata quasi come
collana sui paramenti, ma in realtà
simbolo della giurisdizione papale. Il
nome di Papa Lino, un martire secondo la tradizione, è stato però espunto nel Calendarium Romanum, promulgato nel 19692.
La Chiesa di quel tempo si reggeva
su “Presbiteri” e “Vescovi”: originariamente appellativi sinonimi, ben
presto però distinti nel significato
che hanno tuttora. I Vescovi, capi
della comunità, celebravano la messa
ed amministravano i sacramenti; i
Presbiteri, cioè i Sacerdoti, esercitavano quelle funzioni soltanto con il
benestare dei Vescovi. Nell’apostolato
operavano inoltre i “Diaconi” nell’amministrazione dei beni ecclesiastici e nell’assistenza di Vescovi e Preti; i
“Profeti”, poi detti “Catechisti” o
“Istruttori”, coadiuvati dai più giovani
“Didascali”, ed i “Paracliti” per l’assistenza degl’infermi e dei poveri.
Nella comunità romana, allora istituita da pochi anni, ma già bene organizzata, non mancavano tuttavia, proprio a causa della sua recente istituzione, coloro che tentavano di conciliare tendenze diverse, ed anche contrapposte. Papa Lino avrebbe avuto
così i suoi problemi con le eresie, nel
suo tempo, circolanti nell’ambito
della rivelazione cristiana.
Non esistono documenti oggettivi,
che comprovino in sede scientifica la
presenza di San Pietro a Roma, sulla
quale si regge la struttura della
nostra Chiesa in Occidente. Tuttavia
poiché con la presenza di San Pietro
in Roma è connaturata l’origine stessa della Chiesa romana, essa non può
porsi in discussione. Ed infatti, secondo la tradizione, non mai smentita
nel corso di venti secoli, San Pietro è
sepolto nei sotterranei della basilica
vaticana: le ossa, ritrovate in un ripostiglio, tolte dall’originaria edicola,
per salvarle dalle infiltrazioni d’acqua, sono, secondo il responso di
specialisti, quelle di un individuo di
sesso maschile, robusto, piuttosto
alto, di età fra i sessanta ed i settant’anni.
San Pietro (originariamente Simone
o Cefas, non essendo attivo al suo
tempo il nome di Pietro), quale primo Vescovo di Roma e tutore della
città, è sempre stato oggetto di venerazione da parte popolare.
Ce ne offre testimonianza la statua
bronzea, che domina la navata centrale della basilica vaticana. Secondo
la tradizione più antica, essa sarebbe
stata ricavata da una statua di Giove,
per ordine di Papa Leone I il Grande
(440-461). Secondo una tradizione
più recente ed accreditata, si ritiene
che essa sia opera di Arnolfo di
Cambio, il grande scultore ed architetto che operò tra il 1265 ed il 1302
a Siena, a Perugia, a Viterbo, ad Orvieto, a Roma ed a Firenze.Tuttavia di
recente anche questa tradizione è
stata messa in dubbio in sede critica.
Comunque è sempre stata forte la
devozione dei Romani per questa
presunta statua di San Pietro, intesa
come quella in cui il Vicario di Cristo
impartisce ai fedeli la solenne benedizione, tanto che il piede destro
2 FRANCESCO SCORZA BARCELLONA, Lino, Santo, in Enciclopedia dei Papi, Istituto della Enciclopedia Italiana,
I, 2000, pp. 194-197.
8
della statua risulta consunto per il
tocco dei visitatori nel corso dei
secoli.
Secondo la grandiosa visione della
storia dell’umanità del Padre della
Chiesa Sant’Ireneo di Lione (circa
135/140-circa 200), autore della Dimostrazione della predicazione apostolica, nella lista dei Vescovi romani il successore di Lino fu Anacleto o Cleto,
Santo (78-90). La commemorazione
di Cleto/Anacleto è stata però espunta nel 1969 dal Calendarium Romanum
per l’incertezza del giorno della sua
deposizione e della sua effettiva condizione di martire3.
Con Clemente I, già considerato il
terzo Vescovo di Roma dopo San
Pietro, i dati storici sono positivi4.
Ireneo di Lione afferma che egli era
stato a contatto con gli Apostoli,
tanto che «la loro predicazione
risuonava alle sue orecchie e la loro
tradizione era davanti ai suoi occhi»;
ed egli ricorda che durante il suo
episcopato la Chiesa di Roma inviò ai
Corinzi una lettera «per farli riconciliare, rinnovando la fede e la tradizione apostolica, da poco ricevuta».
A Papa Clemente I sono attribuite le
cosiddette Clementinae e venti Homiliae. Quanto mai importante è la
sua Epistula ad Corinthios. Occasione
della lettera, che si estende per 65
capitoli, fu la rivolta, «empia e sacrilega», che si verificò nella chiesa di
Corinto «per opera di un piccolo
numero di agitatori che hanno gettato il discredito sulla comunità».
Questa lettera è un documento
quanto mai importante nella storia
della Chiesa cristiana sulla fine del I
secolo.
Oltre tutto questa lettera è la testimonianza sul martirio di San Pietro e
di San Paolo, le «colonne più grandi e
più giuste» della Chiesa, oltre ai quali
perì «una grande quantità di uomini
e di donne». Sembra trattarsi della
persecuzione di Nerone, dal momento che queste vittime sono dette
«le generose vittime della nostra
generazione».Tutto ciò bene si concilia con le difficoltà in cui i Cristiani
vennero coinvolti durante gli ultimi
anni del regno di Domiziano (95-96)
ed i primi anni di quello di Nerva
(96-98).
Le fonti storiche sui primi Cristiani in
Roma, e sulla loro Chiesa in fase di
costituzione, sono quanto mai scarse:
per lo meno sino
verso la fine del II
secolo. Anche il
grande Padre
della storia
ecclesiastica,
Eusebio da
Cesarea (circa
265-339/340),
interessato
soprattutto alla
storia della
Chiesa
d’Oriente,
fornisce
solo occasionalmente
dati utili a
proposito
Papa Clemente I
3
4
F. SCORZA BARCELLONA, Anacleto/Cleto, Santo, in Enciclopedia dei Papi cit., pp. 197-199.
F. SCORZA BARCELLONA, Clemente I, Santo, in Enciclopedia dei Papi cit., pp. 199-212.
9
dell’Occidente, anche se si tratta
sempre di dati importanti, come, ad
esempio, le informazioni relative
all’entità numerica della comunità
cristiana in Roma.
Senza gli scritti storici di Eusebio, tra
cui la Historia ecclesiastica, a cui dedicò venticinque anni della sua vita, ben
poco noi sapremmo dei primi secoli
della storia cristiana. La sua non è
soltanto un’opera storica degna di
fede, ma spesso l’unica nostra fonte
d’informazione. Vogliamo sottolineare il fatto, essenziale per il nostro
tema, che in lui la civiltà ebraica e la
civiltà cristiana per la loro origine
sono al vertice della storia; il che
risponde evidentemente alla realtà,
per cui non è possibile tenere distinti, nel I secolo, la consistenza e le
vicende delle due comunità.
Comunque la lettera, che Paolo di
Tarso inviò, intorno al 57, ai Cristiani
di Roma, costituisce, per quanto si
sa, il primo documento sicuro sull’esistenza d’una comunità cristiana di
Roma. Una comunità che Paolo non
ha fondato, non ha prima visitato e
non conosce: ma «in ogni parte del
mondo – egli dice ai neofiti romani –
si parla della vostra fede. Voglio che
voi sappiate questo, fratelli: già molte
volte avevo deciso di venire a raccogliere anche tra voi qualche buon
frutto, come l’ho ottenuto da altri
popoli; ma fino a ora non mi è stato
possibile. Il mio compito è di rivolgermi a tutti: ai popoli di civiltà greca
e agli altri, alla gente istruita e agli
ignoranti; e per quanto dipende da
me, sono pronto ad annunziare il
messaggio di Cristo anche a voi che
siete in Roma» (8, 13-15).
Quando Paolo scrive si trova in
Grecia, a Corinto, dopo avere visitato l’Asia Minore. Forse Roma deve
10
essere per lui un punto base per la
sua futura predicazione a tutti i pagani in Occidente, fino alla Spagna. La
salvezza è per tutti: «Non vi è differenza fra chi è Ebreo e chi non lo è,
perché il Signore è lo stesso per
tutti, immensamente generoso verso
tutti quelli che lo invocano» (10, 12).
«Ora vi chiedo: Dio ha forse respinto
il suo popolo? No! Io stesso sono
israelita, discendente da Abramo,
della tribù di Beniamino. Dio non ha
respinto il suo popolo, che aveva scelto e amato sin dall’inizio» (11, 1-2).
«Mi rivolgo a voi, che non siete Ebrei,
proprio perché sono stato inviato
come apostolo. Cerco di fare onore
a questo incarico (...). Se la primizia
La basilica
di San Pietro
in Acqui.
Particolare
della zona
absidale.
del raccolto è consacrata a Dio,
anche il resto gli è consacrato. Se la
radice di un albero è consacrata a
Dio, lo sono anche i rami. Ora,
Israele è come un ulivo, al quale Dio
ha tagliato alcuni rami. Al loro posto
ha innestato te, che non sei Ebreo, e
sei come un ulivo selvatico, e ti ha
reso partecipe dell’abbondante linfa
che sale dalle radici» (11, 13, 16-17).
Roma contava a quel tempo una presenza di circa 50.000 Ebrei, i quali
disponevano d’una dozzina di sinagoghe. Noi non sappiamo come vi si sia
formata la comunità cristiana. Sembra che essa fosse costituita in parte
da credenti di originaria fede ebraica
ed in parte da credenti di originaria
fede pagana, non sapendo noi però
quale delle due componenti fosse la
più numerosa. Probabilmente tuttavia
i primi Cristiani vennero in Roma
dalla Palestina, e furono in Roma
accolti dalla comunità dei molti
Ebrei, ivi già residenti. Al tempo di
Paolo questi nuovi venuti ed i loro
primi seguaci appartenevano in maggioranza agli strati inferiori della
popolazione: piccoli artigiani e commercianti, operai, schiavi. Di qui tra
loro, divisioni, incomprensioni, malintesi.
Dobbiamo ricordare che per la storia del Papato tra il I ed il VI secolo le
fonti sono rare: soprattutto non
sono uniformemente distribuite, aumentando gradatamente a mano a
mano che dalle origini della Chiesa di
Roma si avanza nel tempo. Fonti rare
sino verso la fine del secolo II: tali da
lasciare interamente priva di notizie
buona parte di quel periodo. Soltanto a partire dai primi anni del
secolo III il quadro delle fonti comincia ad arricchirsi, non tanto però da
non lasciare alcuni vuoti, diventando
poi non solo più abbondanti, ma
soprattutto più uniformemente distribuite. Si tratta in massima parte di
fonti di carattere letterario, mentre
soltanto a partire dall’inizio del III
secolo si fanno più copiose le fonti
archeologiche ed epigrafiche5.
Un testo essenziale per la conoscenza della storia della comunità cristiana in Roma, ed in particolare per la
serie dei suoi Vescovi, è il Liber pontificalis, contenente precise notizie sui
Vescovi di Roma da Pietro a Stefano
V (885-891): opera essenziale per la
storia della comunità cristiana di Roma ed in particolare dei suoi Vescovi.
Se, sulla base di una notizia dataci da
Svetonio, sappiamo che al tempo
dell’Imperatore Claudio i Giudei a
Roma tra loro litigavano, impulsore
Chresto (da rettificarsi in Christo), senza dubbio il primo documento sicuro
sull’esistenza della comunità cristiana
in Roma è rappresentato dalla lettera, già ricordata, che San Paolo inviò
ai Cristiani di Roma intorno all’anno
57, per annunciare il suo arrivo. Egli
arrivò qualche anno più tardi, nella
primavera del 61, quale imputato in
attesa di giudizio. Eusebio da Cesarea
5 Cfr. MARIA GABRIELLA ANGELI BERTINELLI, Le origini: l’età romana e tardoantica, in Il cammino della Chiesa
genovese dalle origini ai giorni nostri, a cura di Dino Puncuh, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n.s.,
XXXIX (CXIII), fasc. II, Genova, 1999, pp. 33-75. Sulle fonti letterarie, oltre che documentarie, relative alla
diffusione del cristianesimo tanto nella Liguria marittima quanto nell’Italia nord-occidentale cfr. ELEONORA
SALOMONE GAGGERO, Nota bibliografica, in appendice a M. G. ANGELI BERTINELLI cit., p. 65. Quanto all’”edicola semidistrutta”, di cui a p. 168 del libro di Geo Pistarino, Acqui antica e medievale sopra citato, cfr. il
comunicato L’Unitre adotta un affresco, a cura di Lionello Archetti Maestri, in «L’Ancora», 24 aprile 2005,
p. 5.
11
grazia in me non è stata
vana; anzi ho faticato
più di tutti loro: non io
però, ma la grazia di
Dio che è in me» (Prima
lettera ai Corinzi, 15, 910).
«Fratelli santi, partecipi
d’una vocazione celeste, fissate bene la
mente in Gesù, l’apostolo e sommo sacerSarcofago collocato presso l’abside della Cattedrale di San Guido in Acqui.
dote della fede che noi
professiamo. Il quale è
nella Historia Ecclesiastica fissa il marti- stato fedele a colui che l’ha costituirio di Pietro e Paolo tra il 64 ed il 67. to, così come lo fu Mosè in tutta la
Paolo ha già lasciato scritto ai suoi sua casa. Ma, in confronto di Mosé,
fedeli: «Ora voi siete il corpo di egli è stato giudicato degno di una
Cristo e le sue membra, ciascuno per gloria tanto maggiore, quanto di un
la sua parte. Alcuni perciò Dio li ha maggiore onore gode il costruttore
posti nella Chiesa in primo luogo in confronto alla casa stessa. Ogni
come apostoli, in secondo luogo casa infatti viene costruita da qualcucome profeti, in terzo luogo come no, ma colui che ha costruito tutto è
maestri; poi vengono i miracoli, poi il Dio. In verità Mosé fu fedele in tutta
dono di fare guarigioni, i doni di assi- la casa di lui come servitore, per renstenza, di governare, delle lingue. dere testimonianza di ciò che doveva
Sono forse tutti apostoli? Tutti profe- essere annunziato più tardi. Cristo,
ti? Tutti maestri? Tutti operatori di invece, lo fu in qualità di figlio, costimiracoli? Tutti possiedono doni di tuito sopra la sua propria casa. La sua
fare guarigioni? Tutti parlano lingue? casa siamo noi» (Lettera agli Ebrei, 3,
Tutti le interpretano?» (Prima lettera 1-6)6.
ai Corinzi, 12, 27-30).
Oggi dunque – è la sottintesa con«Io sono l’ultimo degli apostoli e non clusione di Paolo secondo gli esegeti
sono degno neppure di essere chia- dei suoi scritti – facendo noi parte
mato apostolo, perché ho perseguita- della creazione universale, dobbiamo
to la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio seguire Cristo lungo la via tracciata
però sono quello che sono, e la sua da Lui.
6 La Bibbia, Testo integrale CEI, realizzazione di Pietro Vanetti S.I., Roma-Milano, 1988, pp. 2072, 2075,
2165. Sulla storicità dei Vangeli cfr. CHAIM COHN, Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico, traduzione dal tedesco di Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, 2000.
12
COMUNITÀ MONTANA
SUOL D’ ALERAMO
Comuni delle Valli Orba, Erro, e Bormida di Spigno
Comune di Acqui Terme
Comune di Genova
Comune di Mantova
Acqui Terme, 26-30 ottobre 2005
Hotel Nuove Terme
LA CENTRALITÀ
DEL TERRITORIO
Il Monferrato, porta d’Europa
Quattro giorni
di studio e confronto
tra docenti degli atenei
di Italia, Francia e Spagna,
in preparazione del
convegno dedicato
all’identità del Monferrato
e alla sua percezione
a livello internazionale.
Presentazione degli
Stati Generali della
Comunità Montana
momento strategico per la
crescita delle nostre terre
Valerio Scepto:
un ex schiavo
in carriera
di
Valentina
Pistarino
L’iscrizione di Caio
Valerio Scepto.Alla
prima riga si può vedere
la C retroversa (rovesciata), un simbolo che
veniva usato dai Romani
nell’onomastica dei liberti e delle liberte per indicare che erano appartenuti a una donna (va
letta “Caiae” o “mulieris”,
cioè “di donna”).
14
Riprendiamo l’appuntamento con la rubrica epigrafica focalizzata sulle iscrizioni romane del Museo Civico di Acqui Terme.
Nel precedente articolo abbiamo fatto conoscenza con
Erasto, schiavo di una grande casa, una domus di Aquae
Statiellae: come abbiamo visto, aveva rivestito alte cariche nel
collegio di culto degli schiavi di casa, nonché era stato abbastanza abbiente da poter acquistare e far incidere un piccolo
cippo per una dedica votiva. Non sappiamo se Erasto abbia
poi ottenuto la libertà, non ci sono pervenute altre iscrizioni
con il suo nome. Se fosse riuscito a riscattarsi, sarebbe diventato un liberto (schiavo liberato). Ed è proprio di un ex schiavo che ci occuperemo questa volta, e cioè di Caius Valerius
Sceptus, vissuto ad Acqui all’incirca nel primo secolo dopo
Cristo. Grazie alla sua iscrizione sepolcrale siamo in grado di
ricostruire gli avvenimenti più importanti della vita di questo
liberto particolarmente fortunato.
L’iscrizione
Non si sa dove e quando è stata
ritrovata l’iscrizione in esame, ma è
già riportata nel foglio 56 del manoscritto del vescovo d’Acqui Gregorio
Pedroca, datato al 1628.
Il testo è inciso su di una lastra di
marmo ora spezzata in due pezzi fortunatamente combacianti, che è stato
possibile ricongiungere. Si nota però
ancora la linea di frattura che corre
verticalmente quasi al centro della
lastra, che rende difficile (ma non
impossibile) la lettura di alcune lettere. Infatti, con un po’ di pazienza si
può leggere:
C(aius) Valerius ((mulieris)) l(ibertus)
Sceptus,
VI vir Aug(ustalis) Flavialis
sibi et
Vettiae L(uci) f(iliae) Romulae, uxori
v(ivus) f(ecit).
Cioè: “Caio Valerio Scepto, liberto di
donna, seviro Augustale Flaviale, ha
fatto (questo monumento funebre)
quando era ancora in vita, per sé e
per la moglie Vettia Romula, figlia di
Lucio (Vettio)”.
Si data l’iscrizione alla seconda metà
del I sec. d. C. La lastra marmorea era
destinata al sepolcro di Caio Valerio
Scepto e della moglie, già commissionata in vita secondo un uso adottato
all’epoca da molte persone. Il monumento è molto curato, il testo è privo
di errori e ben impaginato: al nostro
liberto non dovevano mancare mezzi
economici.
Alla prima riga nella foto si vede una
C rovesciata (detta “retroversa”), un
simbolo che veniva usato dai Romani
nell’onomastica dei liberti e delle
liberte per indicare che erano appar-
tenuti a una donna. Perciò la C retroversa va letta: mulieris, cioè “di
donna”.
Chi era Valerius Sceptus
Sembra strano, ma dalle poche righe di
quest’iscrizione possiamo ricostruire
gli eventi cardine della vita di Valerius
Sceptus. Questo infatti era lo scopo
dell’epigrafe sepolcrale: i Romani desideravano lasciare traccia di ciò che
erano stati, e questo non valeva solo
per le persone importanti, ricche o
che avevano avuto successo: anche i
più umili ci raccontano “dalla tomba”
tramite le loro epigrafi sepolcrali quello che erano stati, il mestiere che avevano svolto, persino se erano schiavi.
Le loro testimonianze sono tanto più
importanti perché si tratta di persone
che non sono entrate nella Storia che
si studia a scuola, eppure ci possono
fornire molte informazioni sul vivere
quotidiano dell’epoca romana.
Per sapere quindi chi era questo nostro concittadino di quasi duemila anni
fa possiamo procedere come in una
Un “collega” di Valerio Scepto.
Frammento marginale destro di lastra esposto al Museo Civico di Acqui.
È possibile leggere:
[- - -] Q(uinti) l(ibertus) / [- - -]us VI vir / [- - -]bus suis / [- - -] cum / - - - - - .
15
specie di indagine poliziesca, tramite
tanti piccoli indizi. Il primo lo abbiamo
già presente: la lastra marmorea e la
sua accurata incisione indicano una
certa spesa, se pure non ingentissima
(un’alta stele marmorea con raffigurazioni, ad esempio, costava certo di
più).
Altro indizio: il nome stesso della persona: C(aius) Valerius ((mulieris)) l(ibertus) Sceptus, “Caio Valerio Scepto,
liberto di donna”. Da qui apprendiamo che:
• Valerio Scepto era un uomo libero,
ma non era nato tale: era un liberto,
un ex schiavo.
• quando era schiavo, il suo nome era
Sceptus. Infatti lo schiavo in genere
aveva un solo nome, ma quando
riacquistava la libertà, assumeva i tria
nomina*, i 3 nomi che portavano gli
uomini liberi. Il vecchio nome da
schiavo diventava il cognome (ed
ecco perché sappiamo come si chiamava Valerio Scepto quando era
schiavo).
• Scepto poteva essere un greco o
comunque provenire dalla parte
orientale dell’impero. Questo nome
(o meglio cognome) è infatti grecanico (di origine greca), ma non è
detto che il nostro liberto fosse per
forza greco: era quasi una moda
usare dei cognomi grecanici, erano
scelti persino da uomini liberi.
• il nome della patrona (ex padrona)
di Valerio Scepto era Valeria. Il liberto infatti prendeva gli altri due elementi del nome dal padrone. Ne
consegue che, anche se non è detto
esplicitamente, possiamo ugualmente sempre dedurre il nome dell’ex
proprietario/a del liberto o della
liberta.
• un parente, forse il padre o il fratello di Valeria si chiamava Caio di prenome. La donna romana non aveva
16
in genere prenomi, quindi il suo ex
schiavo prendeva questo elemento
onomastico da un parente dell’ex
padrona. Proprio perché le donne
non avevano prenome, si diceva
genericamente “liberto di donna”,
perché l’espressione “liberto di”
(cosiddetto “patronato”) era seguita
dal prenome dell’ex padrone.
Questo valeva anche per il patronimico (cioè la formula “figlio di” +
prenome del padre).
Chi l’avrebbe detto che semplicemente dal nome si potessero fare tante
deduzioni! Questo vale per tutti i
Romani: nel proprio nome già dichiaravano la loro condizione sociale, di
chi erano figli o da chi erano stati liberati, e spesso la loro provenienza geografica.
Vita da liberti
Da quanto emerge dall’iscrizione stessa, non solo gli uomini avevano diritto
a possedere schiavi, ma anche le donne; del resto persino gli schiavi, se il
padrone lo permetteva, potevano avere beni personali, tra cui anche schiavi.
Questo creava una sorta di “gerarchia” anche nel mondo servile: essere
schiavi dell’imperatore significava in
genere essere ben più in alto degli
schiavi di uomini comuni, per non parlare degli schiavi di proprietà di altri
schiavi.Anche essere al servizio di una
donna, in particolare per un servo
uomo, significava in genere essere
socialmente più debole. Nel caso di
Valerio Scepto, forse è stato oggetto
di maggior disprezzo quando era uno
schiavo, ma una volta libero la sua carriera, che vedremo in seguito, non
sembra averne risentito affatto.
Ma in che modo riusciva a liberarsi
legalmente uno schiavo romano?
Doveva raccogliere la somma che
costituiva il suo prezzo sul mercato (il servo era
I colleghi di
nella mentalità dei Romani un oggetto, una merce) e
Valerio
acquistare sé stesso dal proprio padrone. Questo
Scepto (I)
era possibile solo se il padrone permetteva allo
schiavo di raccogliere una somma personale grazie
Caio Valerio Scepto non è
al proprio lavoro. Questo privilegio toccava ai servi
l’unico seviro attestato ad
Acqui. Nel 1869 si rinvendomestici e quelli incaricati di gestire le proprietà o
ne presso il Seminario
le attività economiche, (agricole, mercantili, manifatVescovile l’iscrizione di un
turiere, ecc.) del padrone, e non, in genere, alla gran
altro seviro Augustale
massa di schiavi, quelli che lavoravano nelle cave,
Flaviale, Lucio Vibullio
nelle miniere, nei campi e nelle enormi manifatture,
Montano. Possiamo leggee che il padrone neppure conosceva o quasi non
re ancora il testo, riportasapeva di possedere. In realtà nessuna legge tutelava
to nella raccolta ottocenteil servo nell’aspetto economico, perciò bisognava
sca delle iscrizioni latine
essere fortunati e trovare un padrone “magnaniCIL (Corpus
Inscriptionum
mo”. Alcune volte, però, più che di magnanimità si
Latinarum), volume V, nr.
trattava di convenienza: molti padroni agiati sicura7509, mentre del reperto
mente ritenevano più conveniente un continuo
epigrafico si sono perse le
“ricambio” di schiavi, per evitare anche quel minimo
tracce (pare addirittura
di assistenza ai servi che invecchiavano (e all’epoca
che sia stato riseppellito
si era vecchi a quarant’anni), avendo oltretutto la
subito dopo la scoperta).
possibilità di comperare il nuovo schiavo con il
Si tratta di un’iscrizione
denaro del riscatto di un altro schiavo. Per altri servi
funeraria destinata ad un
la liberazione era inevitabile, avendo ben condotto
sepolcro familiare in quanl’attività economica del dominus e avendo raccolto
to posta da una donna,
Pollia Marcella, per il
una buona somma per sé; il proprietario li liberava
padre Marco Pollio Certo,
senza perderci troppo, perché il liberto rimaneva
un liberto, per la madre
ancora molto legato al suo patrono, come vedremo.
Aufidia Titulla, un’ingePer non pochi padroni, poi, nella liberazione giocava
nua, per il marito Lucio
il fattore affettivo, il desiderio di ricompensare uno
Vibullio Montano e per i
schiavo fedele. Quante schiave, come emerge dalle
quattro figli Lucio
iscrizioni, sono
Vibullio, Lucio Vibullio
state liberate e
(due figli con lo stesso
sposate dai loro
identico nome, uno potrebbe essere premorto, tratproprietari! Altandosi di un monumento
l’epoca dell’impefunebre, ma non è detto),
ratore Augusto
Tito Vibullio e Procula
(fine I sec. a.C.Vibullia.
inizio I sec. d. C.)
l’affrancamento
(liberazione) degli
Tre liberti greci ringraziano il patrono.
schiavi aveva ragPilastrino marmoreo esposto al Museo Civico di
giunto proporAcqui Terme. Il testo è il seguente: Genio / P(atroni)
zioni preoccuN(ostri) / Thallus / Thallio / Agathio / lib(erti). Si tratta di
una dedica votiva di tre liberti al Genio del patrono
panti in una so(per la pratica dei culti domestici si veda l’articolo
cietà che si basasullo schiavo Erasto nel primo numero della rivista).
va sul lavoro ser-
17
vile, tanto che l’imperatore tentò di
frenare il fenomeno attraverso una
serie di leggi restrittive, tra cui una
tassa sul riscatto del servo (pari al 5%,
la cosiddetta vigesima libertatis), che
doveva pagare il padrone, e un limite
di età: lo schiavo da liberare doveva
avere tra i diciotto e i trent’anni. Ma la
legislazione augustea volta al mantenimento dell’ordine sociale fu un fallimento, e le leggi riguardanti i liberti
non fecero eccezione.
Vediamo nella pratica come avveniva
la manomissione (liberazione). Le tre
modalità principali erano:
• per testamento: il padrone (o la
padrona) indicava nel testamento
quali schiavi voleva liberare dopo la
sua morte. In questo modo ricompensava gli schiavi fedeli ma danneggiava i suoi eredi, che ereditavano
meno “beni”;
• per censimento: anche i Romani
facevano una “denuncia dei redditi”
ogni cinque anni, il censimento,
appunto; in questa occasione alcuni
proprietari preferivano liberare degli
schiavi per non pagarvi sopra le tasse
(potremmo dire modernamente che
li “scaricavano dalle tasse”);
• per vindicta (verga): in una sorta di
suggestiva cerimonia il padrone conduceva lo schiavo da liberare davanti
al magistrato (il pretore* a Roma, il
quattuorviro o duoviro giuresdicente* nei municipi); una terza persona
con alcune parole di rito contestava
al dominus la proprietà dello schiavo
e il magistrato, dandogli ragione
prendeva una verga e la passava sulla
testa dello schiavo, lo faceva ruotare
su sé stesso e lo dichiarava libero; gli
amici del nuovo liberto gli ponevano
sul capo il berretto frigio (copricapo
poi adottato durante la Rivoluzione
francese per simboleggiare la ritrovata libertà).
18
C’erano poi altri modi di affrancare un
servo, come ad esempio la manomissione per mensa: il padrone, di fronte
ad un testimonio, invitava lo schiavo a
sedersi a tavola con lui. Non conosciamo il modo in cui è stato affrancato
Scepto, ma sappiamo che cosa lo
attendeva nella sua nuova vita. Con il
suo nuovo nome da libero, Valerio
Scepto non si era svincolato del tutto
dall’antica padrona. A meno che la
patrona Valeria non l’abbia liberato per
testamento,Valerio Scepto, come tutti
i liberti, le doveva ancora dei servigi, e
cioè l’obsequium e le operae. Il primo
termine indicava l’ossequio che il figlio
doveva ai genitori e il liberto al patrono, suo “papà” legale; tra i vari doveri
c’era la salutatio, cioè la visita del mattino al patrono che accoglieva liberti e
clientes (persone libere legate al dominus, suoi sostenitori in cambio di favori e protezione). Le operae erano invece prestazioni lavorative gratuite che il
liberto doveva ancora all’ex padrone
ogni anno, secondo gli accordi presi
prima della manomissione. Non basta:
il patrono aveva diritto ad una parte
dell’eredità del suo ex schiavo. Prima
di Augusto questo diritto spettava
solo se il liberto non aveva lasciato
discendenti diretti, ma dal I sec. d. C. la
legislazione favorì ulteriormente i
patroni: in caso di eredità ingenti, al
figlio unico del liberto spettava solo la
metà della sostanza paterna e il resto
andava all’antico dominus, oppure, se
morto, a suo figlio o suo nipote. Nel
caso i figli del liberto fossero due, al
patrono toccava 1/3 del patrimonio, e
solo se i figli erano tre o più non dovevano dividerlo con l’ex padrone del
padre.
Tornando a Valerio Scepto, queste
erano le sottili catene che ancora lo
legavano all’ex padrona Valeria, ma non
è tutto: non poteva arruolarsi nell’e-
I colleghi di
Valerio Scepto (II)
sercito, non poteva intraprendere una
carriera politica, e quel che è peggio,
se avesse avuto dei figli durante la
schiavitù, magari con una cumserva
(compagna di schiavitù), il figlio sarebbe rimasto schiavo della padrona e
avrebbe dovuto essere riscattato. Una
sola nota positiva: i figli nati dopo l’affrancamento da donne liberte o libere
erano completamente liberi, privi di
obblighi e rispettati dalla società come
se fossero stati discendenti di uomini
liberi. Non pochi senatori e cavalieri di
età imperiale discendevano, infatti, da
liberti arricchiti.
Che cosa poteva fare un liberto? I più
avevano speso tutto quello che possedevano per affrancarsi, e così entravano a far parte della massa della plebe
urbana, dei poveri che, come ci descrivono gli scrittori latini, abitavano in
tuguri e vivevano alla giornata. Alcuni
riuscivano in qualche modo a raccogliere del denaro per iniziare un’attività o comperarsi un pezzo di terra;
altri, come i medici o gli artigiani, continuavano l’attività che esercitavano
prima per conto del padrone, rimanendo in genere sempre legati a lui.
Ben pochi avevano la fortuna di
Trimalcione, liberto scaturito dalla fantasia dell’autore Petronio nel Satyricon
(I sec. d. C.): liberato per testamento
dal padrone, ne aveva per sua volontà
ereditato le sostanze e, in seguito a
imprese commerciali fortunate, era
diventato ricchissimo.
Valerio Scepto, da quanto vediamo
dalla sua iscrizione funeraria, non arrivò a tali livelli ma certo, qualunque
attività avesse intrapreso, si procurò
una certa agiatezza. Prima di tutto
sposò una donna libera,Vettia Romula,
figlia di Lucio: che fosse una donna
libera si capisce dal patronimico, che è
proprio solo degli individui ingenui,
cioè liberi fin dalla nascita. La legge
Il Museo Civico di Acqui espone altre
iscrizioni menzionanti seviri. In un caso
siamo sfortunati, in quanto si conserva
soltanto un frammento del testo e pertanto non conosciamo neppure il nome
del seviro, tranne il patronato, Q(uinti)
l(ibertus), liberto di Quinto (foto a pag.
15). Si trattava dunque di un ex schiavo
come Valerio, forse vissuto poco dopo di
lui (II sec. d. C., datazione desunta dalla
forma delle lettere del testo (caratteri
paleografici). L’altra epigrafe, una stele,
riguarda invece l’ingenuo Marcus
Valerius M(arci) f(ilius) Tromentina
(tribu) Crescens. Questo conferma anche
per la nostra città la compresenza di liberi ed liberti nei collegi sevirali. La ricca
stele decorata di Valerius Crescens sarà
prossimamente oggetto di particolare
approfondimento.
permetteva un simile matrimonio, ma
di fatto era più facile che gli uomini
sposassero delle liberte (in genere
loro ex schiave) piuttosto che una
donna libera sposasse un liberto, in
quanto socialmente era pur sempre
ritenuto degradante. Solo il rispetto
sempre suscitato dal denaro poteva
far passare in secondo piano la precedente vita servile di Valerio Scepto e
rendere possibile un matrimonio con
una libera, matrimonio che lo innalzò
ulteriormente nella gerarchia sociale
fino ad avvicinarlo agli ingenui, ai liberi.
Ma ciò che ci segnala con più forza la
fortuna di Scepto è l’indicazione nell’iscrizione della carica di seviro
Augustale Flaviale. Si trattava di una
carica religiosa prevista nell’ordinamento di ogni città romana fino alla
fine del II sec. d. C., e poi scomparsa. I
seviri, che costituivano un gruppo (un
collegio) di sei uomini, liberi o liberti,
dovevano occuparsi dell’organizzazione del culto degli imperatori morti,
considerati dai Romani delle divinità, e
19
Glossario
*pretore: magistrato che a Roma
amministrava la giustizia. In realtà
erano due: il pretore urbano si occupava delle controversie tra cittadini
romani, il pretore peregrino giudicava i casi in cui erano implicati gli
stranieri (peregrini).
*quattuorviro/duoviro giurisdicente: magistrato locale eletto
annualmente in ogni municipio e
colonia romana insieme a un collega
con analoghi poteri (per il principio
della collegialità delle cariche),
aveva le funzioni degli attuali sindaco e giudice.
*tria nomina: i tre nomi che costituiscono l’onomastica dell’uomo
libero. Si tratta del prenome (un
nome personale che in età imperiale non aiutava più a distinguere le
persone in quanto si limita ormai ad
una decina di varianti, ad es.
Marco, Lucio, Sesto, Quinto, Caio,
ecc), del nome o gentilizio (il nome
di famiglia) e del cognome (il nome
personale vero e proprio).
PER CHI VUOLE SAPERNE DI PIU’
Sull’iscrizione
ELENA GIULIANO, Le epigrafi di
Aquae Statiellae nel Museo Civico
di Acqui Terme, Acqui Terme 2000,
scheda 6 (CIL V 7511), pp. 41-42.
Sui liberti
JEAN ANDREAU, Il liberto, in (a cura
di ANDREA GIARDINA) L’ uomo
romano, Editori Laterza, Bari
1998, pp. 189-213.
JÉRÔME CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma, Editori Laterza,
Bari 19999.
FRANÇOIS JACQUES – JOHN SCHEID,
Roma e il suo Impero. Istituzioni,
economia, religione, Edizioni
Laterza, Bari 1992.
Sul sevirato
R. DUTHOY, La fonction sociale de
l’Augustalité, in “Epigraphica”, 36,
1974, pp. 134-154.
R. DUTHOY, Les Augustales, in
ANRW (Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt), II, 16, 2,
1978, pp. 1254-1309.
degli omaggi all’imperatore vivente e al
suo Genius (entità spirituale, sorta di
angelo protettore). I seviri facevano
donazioni per cerimonie e statue o
iscrizioni celebrative, perciò poteva
diventare seviro solo un uomo abbastanza ricco. Erano i seviri stessi che
sceglievano l’uomo adatto quando si
liberava un posto, secondo modalità
ancora ignote. Esistono seviri, seviri
Augustali (per il culto di Augusto e della
sua famiglia), seviri Augustali Claudiali
(per l’imperatore Claudio, 41-54 d. C.)
e seviri Augustali Flaviali (per gli imperatori Flavi, 69-96 d. C., cioè Vespasiano,
Tito e Domiziano). Si ignora il perché
non ci siano seviri per gli altri imperatori o perché non ci siano più segnalazioni dal III sec. in poi. Si suppone che
l’istituzione di questa carica sia stata un
modo per coinvolgere i liberti nella vita
civile: non potevano rivestire magistrature, ma le città non potevano ignorare
i loro patrimoni, soprattutto perché la
cassa cittadina era vuota e veniva riempita dai magistrati stessi (presso i
Romani non si era pagati per fare il sindaco, bensì si doveva pagare la città per
diventarlo!). Ecco quindi che essere
scelto come seviro era la conferma del
successo di un liberto. Le eventuali
ambizioni politiche di un liberto dovevano forzatamente essere riposte nei
figli, e grazie a donazioni alla città, all’organizzazione di ludi (giochi) gladiatori o
alla costruzione di edifici pubblici a proprie spese, l’ascesa alle massime cariche
era assicurata. Eclatante il caso di
Numerio Popidio Ampliato, ricco liberto che costruì un tempio a nome del
figlio di sei anni e ottenne di farlo
ammettere subito, nonostante il divieto
della legge per la giovane età, al senato
cittadino. Nel giro di una generazione
l’onta della schiavitù scompariva, iniziava un’ascesa che poteva portare i
discendenti di uno schiavo persino sul
trono imperiale.
La cavalcata
dei Vizi:
un modello
catechetico
per i semplici
Villafranca Piemonte,
cappella di Missione:
particolare della
Cavalcata dei Vizi
di Aymo Dux.
di Carlo Prosperi
La cavalcata sfila nell’affresco
sulla parete verso un’ampia gola
di Leviatano: una catena sola
avvince i Vizi nel corteo grottesco.
Pietà dei padri che dai vecchi muri
ci parla ancora e non ha più risposta
ma nel silenzio umbratile si scrosta
vittima inane della nostra incuria.
1 – Invisibilia enim ipsius [scil. Dei], a creatura mundi, per ea quae facta
sunt, intellecta, conspiciuntur: così san Paolo,1 le cui parole fissano la
concezione platonico-cristiana del mondo come specchio o riflesso (umbra) di realtà sovrasensibili e divine, concezione che impronterà di sé gran parte della cultura medievale. Il divino, in altri termini, si riflette nel creato fino a farne “un immenso atto di parola”.2
Lo ribadirà in maniera esemplare Alano di Lilla in versi davvero ispirati: Omnis mundi creatura / quasi liber et pictura / nobis est in specu-
22
lum; // nostrae vitae, nostrae mortis, /
nostri status, nostrae sortis / fidele signaculum. // Nostrum statum pingit rosa, /
nostri status decens glosa, / nostrae vitae
lectio; // quae dum primo mane floret, /
defloratus flos effloret / vespertino senio.3
Nondimeno, a ben pensarci, qui i simboli hanno già perso la loro originaria
verticalità.4 Il loro carattere trascendente e, per così dire anagogico, si è
smarrito o diluito in una rete di “corrispondenze” affatto orizzontali, sicché ormai ci muoviamo nell’ambito di
un immanentismo che, per quanto
suggestivo, non ha più nulla di vertiginoso. I simboli si sono, per così dire,
degradati ad analogie e la visione spirituale ha ormai ceduto il posto a quella morale (o moraleggiante). La natura,
in altre parole, ci offre degli exempla,
degli specchi in cui riconoscerci, da cui
trarre lezioni di comportamento sulla
base di talune scoperte affinità, laddove in origine il simbolo aveva ben altra
portata gnoseologica, perché era un
mezzo per guardare, sia pure in aenigmate, al divino.
Ora, se “ le monde est un symbole”,5
tocca all’uomo scoprire il significato
spirituale che latita in ogni realtà naturale. Nella natura come nella Scrittura
– a dire di Origene – “si può mettere
in relazione l’ambito del visibile con
quello dell’invisibile, ciò ch’è manifesto
con ciò ch’è occulto, il corporeo con
l’incorporeo, e si può pensare che la
stessa creazione del mondo sia stata
fatta dalla sapienza divina con tale disposizione che essa, grazie alle cose
stesse che servono d’esempio, ci
istruisce sulle realtà invisibili, e dalle
realtà terrene ci trasporta alle realtà
celesti”6: agli archetipi cioè di platonica
e plotiniana memoria. Plotino, in particolare, sostiene che, poiché il nostro
universo esiste sul modello dell’universo intelligibile, “è necessario che
lassù esista anzitutto l’Universo Vivente e che esso sia la totalità dei viventi, dal momento che esso è un essere
perfetto […]. C’è evidentemente lassù
anche una terra che non è deserta ma
è più animata della nostra: essa ha in sé
tutti quegli animali che quaggiù vengono detti terrestri e legati alla terra,
nonché le piante che posseggono la
vita; e lassù c’è anche il mare e ogni
onda che scorre e vive tranquilla e
tutti gli animali acquatici; ed anche la
natura dell’aria fa parte dell’universo
intelligibile ed esistono in essa tutti gli
animali aerei che le corrispondono
[…]”.7 È quindi “lassù” che il nostro
sguardo dovrebbe puntare qualora
volesse bearsi della perfezione che
difetta invece agli esseri di “quaggiù”, i
quali – cose, animali o piante che siano
– sono soltanto cifre allusive (umbrae
o “umbriferi prefazi”, per dirla con
Dante8) degli archetipi celesti. Altri-
1 Rm 1, 20 : “Ciò che Dio ha di invisibile, fin dalla creazione del mondo, si rende visibile all’intelletto
attraverso le sue opere”.
2 U. ECO, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Milano 1987, p. 88.
3 Rhytmus alter, in PL 210, col. 579. “Ogni mondana creatura / quasi un libro o una pittura / è per noi
come uno specchio; // di nostra vita, di nostra morte, / di nostro stato, di nostra sorte / fedele immagine.
// La rosa in fiore sul mattino / che sfiorisce nel declino / languido del vespero // rappresenta il nostro
stato, / ne è un commento appropriato, / di nostra vita interprete”.Traduzione nostra.
4 Sul simbolismo verticalizzante, si vedano G. DE CHAMPEAUX, S. STERCKX, I simboli del Medioevo, Milano
1981, pp. 185 ss. Per comprendere la degradazione implicita e conseguente alla perdità di verticalità, basta
considerare l’interrogativa retorica di G. Bachelard ivi proposta:“ogni valorizzazione non è forse verticalizzazione?”
5
É. MÂLE, L’Art religieux du XIIIe siècle en France, Paris 1958, vol. I, p. 78.
6 ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, Roma 1976, p. 235.
7 PLOTINO, Enneadi, a cura di G. FAGGIN, Milano 1992,VI, 7, 12, p. 1233.
8 D. ALIGHIERI, Paradiso XXX, 78.
23
menti avviene quanto deprecato dal
noto detto cinese: quando il saggio
addita la luna, lo sguardo dello stolto si
affisa al dito.
Ebbene, è qui la ragione dei bestiari (e
degli erbari, dei lapidari, etc.) così diffusi nel medioevo: essi vogliono aiutare a decifrare la realtà naturale, a leggere correttamente il grande libro
della natura, cogliendo in esso – attraverso l’interpretazione simbolica - il
riflesso della superna realtà spirituale.
Dalle creature risalire al Creatore, dal
bello profuso in natura al Bellissimo
per antonomasia che ne è la ragione e
la sorgente: questo è il processo che
essi intendono innescare. Nel creato
tutto – era questa la convinzione di
Sant’Antonio e di San Francesco9 –
parla di Cristo e delle verità cristiane:
ogni creatura terrestre è segno o
vestigio di Dio, creatio, quae, bene considerata, suum inspectorem transmittit ad
sui Creatoris considerationem.10 Scala a
Dio.11
Ma l’idea di un allegorismo universale
era allora piuttosto comune. La troviamo enunciata anche da Riccardo di
San Vittore: Habent corpora omnia ad
invisibilia bona similitudinem.12 La troviamo, soprattutto, in quella che è stata
definita “la charta fondamentale della
cultura cristiana”,13 vale a dire nel De
doctrina Christiana di sant’Agostino.
Qui converrà soffermarsi per aggiungere al nostro discorso qualche ulteriore puntualizzazione. Sant’Agostino
distingue nell’universo res (cose) e
signa (segni), e del signum dà la seguente definizione: Signum est enim res,
praeter speciem quam ingerit sensibus,
aliud aliquid ex se faciens in cogitationem
venire.14 Di signa esistono due tipi: i
signa naturalia (“quelli che, senza alcuna intenzionalità e volontà di significare, fanno conoscere, a partire da sé,
qualcos’altro oltre sé, come il fumo
significa il fuoco”15) e i signa data
(“quelli che gli esseri viventi si scambiano gli uni con gli altri per far conoscere, per quanto è possibile, le emozioni del loro animo, i sentimenti, i
pensieri”16), ad esempio le parole.Tra i
segni intenzionali vi sono pure quelli
divinitus data, cioè quelli della Scrittura,
i quali a loro volta si distinguono in
propria e traslata. “Li diciamo propri
quando ne facciamo uso a significare le
cose per le quali essi sono stati istituiti, come diciamo bovem e intendiamo
l’animale domestico che, insieme con
noi, tutti quelli che si esprimono in
latino chiamano con questo nome. I
segni sono traslati quando le cose che
indichiamo col proprio nome vengono
assunte per significare qualcos’altro:
per esempio diciamo bovem e con
queste due sillabe intendiamo
l’animale che abitualmente chiamiamo con questo nome; ma
con questo animale intendiamo
anche chi predica il Vangelo, che
la Scrittura ha
Villafranca Piemonte,
cappella di Missione:
Aymo Dux, Cavalcata dei Vizi.
Villafranca Piemonte, cappella di Missione:
particolare della Cavalcata dei Vizi
di Aymo Dux.
significato, secondo l’interpretazione
dell’apostolo, con le parole: «Non
metterai la museruola al bue che trebbia»”.17 E commenta Zambon:“I ‘segni
traslati’, quindi, non presuppongono
più, come nella retorica classica, uno
spostamento o una traslazione di
senso, ma comportano invece una
stratificazione di piani semantici: il
primo significato, ossia (per Agostino)
l’oggetto designato, diventa infatti a
sua volta significante, come avviene nel
caso del riferimento paolino al bue,
simbolo dell’Evangelista”.18
Ma questo, ancora una volta, è possibile perché ogni cosa creata rimanda a
realtà spirituali di cui essa è segno o
simbolo: nulla vi è infatti nella natura
che non sia orma o ombra del divino,
che non ci parli del Creatore.19 Per
questa ragione ogni realtà naturale può
essere assunta ad divina mysteria significanda.20 La Scrittura fa largo ricorso ai
signa translata ed è quindi necessario
ad una corretta interpretazione dei
medesimi la conoscenza di quelle discipline filologiche o scientifiche che possono fornire nozioni utili a decrittarne
9 Cfr. Laudes creaturarum:“frate Sole” – “bellu e radiante cum grande splendore” – in quanto, appunto,
“pulcrior omnibus aliis creaturis” [più bello di tutte le altre creature, secondo la Compilatio Assisiensis]
“porta significatione” di Dio , che è appunto il “solo Altissimo” (per questa interpretazione del terzo
verso, si veda da ultimo G. POZZI, Il Cantico di Frate Sole di san Francesco, in Letteratura italiana. Le Opere,
diretta da A. ASOR ROSA, I, Dalle Origini al Cinquecento; Torino 1992, p. 13). E Dante nel Convivio, III, XII, 7:
“Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ’l sole”.
10 ANTONIO, Sermones cit. da F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico degli animali, Milano,Trento 2001, p. 145.“[…]
creazione, che, se ben considerata, rimanda chi la osserva alla considerazione del suo Creatore”. È quanto si legge anche nel libro biblico della Sapienza, XIII, 1-9: “Davvero, profondamente stolti tutti gli uomini
/ che vivono nell’ignoranza di Dio, / e che, attraverso le cose visibili, non hanno riconosciuto Colui che è,
/ né hanno saputo riconoscere l’Artefice considerandone le opere”.
11 Secondo TOMMASO DA CELANO [Vita secunda sancti Francisci, in “Analecta franciscana”, X (1926), § 165],
l’apprendimento intuitivo della gloria divina si compie in due modi diversi: o seguendo, per gradi, l’itinerario dal creato al creatore [in questo caso l’analogia facit de omnibus scalam qua pervenitur ad solium: “fa
d’ogni cosa scala per cui si giunge alla soglia”] o captandone immediatamente, per intuizione estatica, la
presenza nel creato [ibid., § 81].
12 Benjamin maior, in PL 196, col. 90. “Ogni corpo visibile presenta una rassomiglianza con un bene invisibile”.
13 H.-I. MARROU, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1958, p. 413.
14 SANT’AGOSTINO, L’istruzione cristiana, a cura di M. SIMONETTI, Milano 1994, II, I, 1, pp. 74-75. “Segno è
infatti una cosa che, oltre l’aspetto esterno che presenta ai sensi, fa venire in mente qualcos’altro a partire da sé”.
15 Cfr. ivi, II, I, 2: Naturalia sunt quae sine voluntate atque ullo appetitu significandi praeter se aliquid aliud ex
se cognosci faciunt, sicuti est fumus significans ignem.
16 Cfr. ivi, II, II, 3: Data vero signa sunt quae sibi quaeque viventia invicem dant ad demonstrandos, quantum
possunt, motus animi sui vel sensa aut intellecta quaelibet.
17 Ivi, II, X, 15 : Sunt autem signa vel propria vel translata. Propria dicuntur, cum his rebus significandis adhibentur propter quas sunt instituta, sicut dicimus bovem, cum intellegimus pecus quod omnes nobiscum latinae linguae homines hoc nomine vocant. Translata sunt, cum et ipsae res quas propriis verbis significamus, ad aliquid
aliud significandum usurpantur, sicut dicimus bovem et per has duas syllabas intellegimus pecus quod isto nomine appellari solet, sed rursus per illud pecus intellegimus evangelistam, quem significavit scriptura interpretante
apostolo dicens:“Bovem triturantem non infrenabis” [1, Cor. 9, 9]. I corsivi nel testo sono nostri, così come i
termini latini che abbiamo lasciato per rendere più perspicuo il senso del discorso.
18 F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., p. 32.
19 Cfr. A. STRUBEL, “Allegoria in factis”et “allegoria in verbis”, in “Poétique”, 23, pp. 346 e nota.
20 SANT’AGOSTINO, Le lettere, a cura di L. CARROZZI, Roma 1969, I vol., LV, 7, 12, p. 465.
25
Grosso Canavese, cappella di S. Ferreolo: Virtù e Vizi.
il significato preciso. Quando tali signa
siano d’ordine naturale, soccorreranno
le scienze naturali e la zoologia.
Bestiari, erbari e lapidari ci consentono
infatti di conoscere le varie nature
degli animali o le proprietà delle erbe e
delle pietre.
A noi qui interessano soltanto gli animali; ora, non v’è dubbio che quando la
Scrittura parla di essi, ne fa in genere
delle immagini metaforiche, dei simboli, idonei appunto ad divina mysteria
significanda. Per questo, anzi, ciò che
conta nei bestiari non è tanto la veridicità scientifica delle informazioni che
essi trasmettono, cioè la loro attendibilità naturalistica, quanto “la loro congruenza con gli insegnamenti rivelati, la
loro qualità di cifre o di segni, la loro
significatio […]”.21 Su questo Sant’Agostino ritorna più volte nelle sue
26
Enarrationes in Psalmos. Quando il
Salmo 102, 5 – ad esempio – dice che
“si rinnoverà come quella dell’aquila la
tua giovinezza”, noi dobbiamo qui
vedere soltanto una similitudine della
resurrezione, a prescindere dalla verità
della credenza relativa all’aquila. Lo
stesso dicasi della leggenda sul pellicano che – secondo il Physiologus protocristiano22 – ucciderebbe i piccoli
sfrontati per poi ridestarli a nuova vita
tre giorni appresso, effondendo su di
essi il proprio sangue: sarà vero, sarà
falso, ma quel che importa è come si
adatti perfettamente “a Colui [Cristo]che con il suo sangue ci ha ridato
la vita”.23
Bisogna inoltre considerare l’ambivalenza simbolica di questi animali, che
possono avere significati non solo
diversi, sì anche contrari.24 Il leone, ad
esempio, sta spesso a indicare l’orgoglio, ma può talora assurgere a simbolo di vigilanza, “onde il suo posto all’entrata dei palazzi (ad esempio
l’Alhambra di Granada, XIII sec.); è
anche la maestà, la monarchia temporale e figura con questo significato
negli stemmi. Ma avversario dell’Acquario, cioè di Gesù Cristo, personifica l’eresia schiacciata dalla chiesa
(leoni stilofori)”.25 Così dicasi per l’asino: associato, nell’antico Egitto, a Seth,
l’assassino di Osiride, per neutralizzarne in modo magico il carattere malefico, al geroglifico che lo rappresentava
“si aggiungeva il disegno di un coltello
nella schiena”. I Greci lo associavano a
Bacco, i Latini a Cerere o a Priapo, dio
della fecondità. Un’incisione rinvenuta
sul Palatino deride i cristiani come
“adoratori di un asino crocifisso”.26
Nella Bibbia (Num. 22, 22 ss.) l’asina
parlante di Balaam riconosce la volon-
tà di Dio prima del padrone27 e a
dorso di un’asina bianca lo stesso
Gesù fa il suo ingresso in Gerusalemme. La tradizione28 – che si basa sul
vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo
– vuole l’asino e il bue come attributi
di Gesù Bambino nel presepio.
Eucherio di Lione e Isidoro di Siviglia
scorgono nel bue il simbolo del popolo ebraico, nell’asino quello dei pagani.
Nel De consolatione philosophiae di
Boezio, a rappresentare il vizio dell’accidia e dell’inerzia spirituale, ricompare il motivo dell’asinus ad lyram29, un
simbolo negativo già presente ad Ur,
nell’antica Mesopotamia.30 “Nell’arte
tedesca del Medioevo l’a[sino] viene
perciò posto accanto all’apostolo
Tommaso che indugiò a credere”.31 In
questo senso è assunto spesso a simboleggiare anche il giudaismo (la
Sinagoga). Nell’arte romanica è frequente l’alternarsi dell’asino con significazione ora positiva ora negativa.32
21 F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., p. 36.
22 Fisiologo, a cura di F. ZAMBON, Milano 1975, p.43.
23 SANT’AGOSTINO, Esposizioni sui Salmi, a cura di V.TARULLI, Roma 1971, vol. I, CI, 1, 8, p. 505.
24 Su questa ambivalenza (o polivalenza) dei simboli si veda O. BEIGBEDER, Lessico dei simboli medievali,
Milano 1989, pp. 66-73, 173-190, etc. È stato Philip Wheelwright il primo a definire “plurisegno” il simbolo: cfr. J.-E. CIRLOT, Dizionario dei simboli, Milano 1985, p. 39.
25 L.THÉVENON, Iconografia del diavolo nella pittura gotica delle Alpi meridionali: la cavalcata dei Vizi, in “Alpi
del Mare”, 2, 1993, p. 25. Ma cfr. pure H. BIEDERMANN, Enciclopedia dei simboli, Milano 1991, ad vocem, pp.
262-265. “Per lo più il leone rappresenta gli estremi: o, in senso positivo, come modello dell’uomo eroico, o, in senso negativo, come simbolo del mondo diabolico (Prima Lettera di Pietro 5, 8)”; G. DE CHAMPEAUX,
S. STERCKX, I simboli cit., pp. 299 ss.; O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 173-190; E. URECH, Dizionario dei Simboli
Cristiani, Roma 1995, pp. 147-149; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia cristiana, Milano 1995, pp. 196-199;
J.-E. CIRLOT, Dizionario cit., pp. 282-283.
26 Ritrovamenti consimili si sono avuti a Roma, Napoli, Cartagine. Ma l’adorazione dell’asino fu dapprima rinfacciata agli Ebrei: cfr. O. BEIGBEDER, Lessico cit., p 61.
27 Il tema dell’asino che riconosce con prontezza la presenza di Dio ritorna in molte raffigurazioni di
sant’Antonio da Padova, dinanzi al quale l’animale si inginocchiò perché il santo portava l’ostia consacrata: ibidem, p. 62.
28 Sempre la tradizione vuole che anche la fuga della sacra famiglia in Egitto avvenisse a dorso di un
asino: cfr. O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 68-69.
29 Cfr. É. MÂLE, L’Art religieux cit. , p. 339. Il motivo avrà ampia fortuna nelle arti plastiche e figurative del
Medioevo.
30 Ad Aulnay, sull’archivolto esterno della porta meridionale, un asino e un caprone, simboli rispettivamente della pigrizia e della lussuria, dicono messa per burla: O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 69-70.
Sull’associazione pigrizia-lussuria, si veda ivi, p. 72.
31 G. HEINZ-MOHR, Lessico cit., pp. 61-62; G. HEINZ-MOHR, Lessico cit., pp. 59-62; O. BEIGBEDER, Lessico cit.,
pp. 66-73.
32 Cfr. H. BIEDERMANN, Enciclopedia cit., pp. 51-53;
27
La valenza polisemica delle res (e
quindi dei signa) non è sfuggita a
sant’Agostino: […] aliud atque aliud
res quaeque significant, ut aut contraria
aut tantummodo diversa significent.
Contraria scilicet, cum alias in bono, alias
in malo res eadem per similitudinem
ponitur […]. Tale est etiam quod leo
significat Christum, ubi dicitur: “Vicit leo
de tribu Iuda” [Apoc. 5, 5]; significat et
diabolum, ubi scriptum est: “Adversarius
vester diabolus tamquam leo rugiens circuit, quaerens quem devoret” [1 Ep. Pet.
5,8]”.33 Dipende dunque dal contesto.
Come nel caso delle lettere dell’alfabeto, il cui valore dipende dal posto
che occupano nelle parole.34
Ma qual è allora il rapporto tra i simboli e la realtà da essi adombrata? Su
questo punto la concezione di
Origene si differenzia notevolmente
da quella di sant’Agostino: nel primo,
infatti, il rapporto è di natura ontologica, “necessario, inscritto nella struttura stessa del cosmo”; nel secondo
invece la relazione che s’instaura fra
signum e res spiritualis (o archetipo)
non è fisso, univoco e specifico, ma –
come abbiamo già visto – da individuare di volta in volta, tenendo conto
del contesto: al limite,“qualunque cosa
può suggerire un paragone efficace o
chiarire una dottrina oscura, tutto può
diventare esempio e similitudine”.35 Se
la simbologia zoologica origeniana è
istituita da Dio stesso (allegoria in factis) , quella agostiniana è istituita dall’uomo (allegoria in verbis).36 Nel medioevo sarà soprattutto la teoria agostiniana ad affermarsi.
C’è tuttavia un’altra concezione del
simbolismo zoologico che trova la sua
originaria formulazione nel corpus di
scritti attribuito a Dionigi Areopagita e
sarà più tardi ripresa e collegata alla
materia dei bestiari da Giovanni Scoto
Eriugena. Nella Scrittura vi sarebbero
28
due diverse varietà di simboli: i simboli
somiglianti (come quelli che mirano a
rappresentare gli angeli o la Tearchia
stessa nelle forme più condecenti possibile: con figure sfolgoranti di luce o
splendidamente abbigliate) ed i simboli
dissomiglianti (esseri mostruosi, creature ignobili, incongrue et tenebrose dissimilitudines per dirla con Giovanni
Scoto: è il caso del tetramorfo descritto da Ezechiele e dall’Apocalisse giovannea). Nel secondo caso, avremo
delle allegorie, delle metafore, dei figmenta, escogitati dai “teologi” per
significare realtà inintelligibili. Anche
nelle più ripugnanti raffigurazioni animalesche si occultano delle verità spirituali, anzi tali simboli difformi sono
paradossalmente superiori a quelli
somiglianti, in quanto da un lato
“garantiscono con i loro turpi enigmi
la segretezza dei misteri divini e ne
impediscono l’accesso ai profani o ai
non iniziati”, dall’altro “la loro natura
infima e spregevole ci fa misurare più
facilmente la distanza che separa il
simbolo dalla realtà simboleggiata, la
creatura dal Creatore e, liberandoci
da qualsiasi compiacimento antropomorfico, ci obbliga a staccarci dalle
forme materiali per innalzarci alla contemplazione delle sostanze celesti”.37
La superiorità dei simboli dissomiglianti sugli altri è chiaramente connessa alla superiorità della teologia apofatica o negativa su quella catafatica o
affermativa. Per Dionigi, infatti, laddove
la teologia affermativa, nel suo tentativo di definire con santi e venerabili
nomi l’essenza ineffabile di Dio, fallisce, quella negativa, che rinuncia a definirla, limitandosi a dire ciò che non è
(Infinito, Invisibile, Incomprensibile,
etc.)38, riesce invece ad accostarsi alla
verità. Come dirà Giovanni Scoto, in
divinis rebus la negazione è vera, mentre l’affermazione è metaforica.39 Nei
simboli dissomiglianti e mostruosi il
velo della natura si assottiglia al punto
da lasciar filtrare, tra le maglie della sua
estrema difformità, il trascendente, nel
suo eccesso e nella sua oltranza.40
Nulla enim maior laus est ea que ex contrariorum comparatione assumitur.41 Per
cui anche i simboli zoologici acquistano una loro dignità ed il bestiario, fra
tutte le rappresentazioni simboliche di
Dio, apparirà come la più alta e misteriosa: plus eum significat […] qui figuram bestialem ipsi circumdat, quam qui in
humana effigie […] ipsum imaginat.42
2 – Nell’Alto Medioevo diversi bestiari, sulla scia del Physiologus, hanno dunque individuato natura e “costumi”
degli animali, gettando così i presupposti di una singolare “teologia dei
bestiari” che degli animali farà delle
cifre di volta in volta morali e spirituali. Le nature degli animali sono considerate come delle cifre enigmatiche,
allusive a piani ulteriori della realtà:
quasi un alfabeto simbolico che ci permette di leggere nel libro della natura
enigmi divini o infernali. Ed anche
quando, nel XII e nel XIII secolo, il
mondo fisico cesserà di essere un
tenue e trasparente tessuto di simboli o di parvenze allegoriche, per rivelarsi un organico ed ordinato complesso di fenomeni permeato da un
inesausto vigor, da una ratio che si
esprime in leggi e forze di cui l’esperienza può fare tesoro, il simbolismo in
qualche modo sussiste, magari cessando di scorgere nel mondo naturale un
riflesso dell’aldilà, un’espressione visibile dell’invisibile, per diventare –
33 SANT’AGOSTINO, L’istruzione cristiana cit., III, XXIV, 36, pp. 214-217. “[…] i vari significati che una cosa
ha possono essere o contrari tra loro o soltanto diversi. Sono contrari quando la medesima cosa esprime la somiglianza in senso sia positivo sia negativo. […] in questo senso il leone significa Cristo là dove
è detto: Ha vinto il leone della tribù di Giuda’ e significa anche il diavolo là dove è scritto: Il vostro avversario, il diavolo, si aggira qual leone ruggente cercando chi divorare ”. Del resto, l’ambivalenza dei simboli è ben
nota agli addetti ai lavori: essa deriva “dalla loro capacità di aprirsi simultaneamente agli aspetti opposti,
maschile e femminile, superiore e inferiore, positivo e negativo, della realtà” (cfr. F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., p. 36; ma si vedano pure R. GUÉNON, Le Règne de la Quantité et les signes des Temps, Paris 1945
– in particolare il cap. XXX, Le renversement des symboles - ; M. ELIADE, Mefistophélès et l’androgyne, Paris
1962, cap.V ; L. BENOIST, Signes, symboles et mythes, Paris 1975, pp. 42-46).
34 SANT’AGOSTINO, Esposizioni sui Salmi, CIII, 3, 22: la pietra significat alia atque alia, sicut littera quo loco
ponatur vide, ibi intellegis eius vim.
35 F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., pp. 37-38.
36 La distinzione fra le due allegorie si deve al Venerabile Beda. Cfr. H. DE LUBAC, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, Roma 1962-1971, II / 2, pp. 1202-1244; A. STRUBEL, “Allegoria in factis” cit., pp. 342357; F. ZAMBON, “Allegoria in verbis”: per una distinzione tra simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale, in
Simbolo, metafora, allegoria, Padova 1980, pp. 73-106.
37 F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., p. 40.
38 San Francesco, ad esempio, nel capitolo conclusivo della Regula non bullata, per indicare l’inattingibile
Iddio ricorre a ben sei epiteti negativi: immutabilis, invisibilis, inenarrabilis, ineffabilis, incomprensibilis, investigabilis: cfr. FRANCESCO D’ASSISI, Regula non bullata, XXXIII, II, in Die Opuscula, a cura di K. ESSER, Grottaferrata
1976.
39 J. SCOTI ERIUGENAE, Expositiones in ierarchiam coelestem,Turnholti 1975, II, 3, 526-527; II, 5, 1187-1188,
pp. 34 e 52.
40 Per quest’ultima parte, cfr. in particolare F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico cit., pp. 39-45.
41 J. SCOTI ERIUGENAE, Expositiones in ierarchiam coelestem cit., II, 2, 315-316, p. 28. “Non c’è lode maggiore di quella tratta dal paragone con cose contrarie”.
42 J. SCOTI ERIUGENAE, Expositiones in ierarchiam coelestem cit., II, 5, 1195-1201; 1206-1209, pp. 52-53. “Lo
significa meglio chi lo riveste di sembianze bestiali di chi lo immagina in figura umana”.
29
L’Argentière La Bessée, chiesa di Sant’Apollinare: Vizi e Virtù.
come già si è detto - un labirinto di
analogie, una trama di corrispondenze
che rimandano all’uomo – come in
uno specchio – tratti della sua natura,
emblemi delle sue qualità, metafore
dei suoi sentimenti, immagini della sua
condizione e presagi del destino –
anche ultraterreno – che lo attende. I
bestiari continueranno ad avere una
loro fortuna in ambito letterario, nelle
enciclopedie morali, nei trattati di araldica, ma le inverosimili credenze che
per secoli avevano contraddistinto la
fauna medievale si fissano col tempo in
mere astrazioni emblematiche, sbiadiscono in cifre intellettualistiche o si
estenuano in esangui esemplari di
zoologia fantastica, che lasciano via via
spazio ad una più scientifica disamina
delle caratteristiche, delle abitudini e
delle attitudini animalesche. “Repertorio quasi inesauribile di simboli, il
mondo animale rappresenta il serbatoio cui attingere a piene mani non
solo per descrivere genericamente la
degradazione a livello subumano che le attitudini viziose producono nell’uomo43, ma
anche per stabilire precise
corrispondenze tra i singoli
vizi ed i tratti fisiognomici e i
comportamenti specifici di
una determinata specie animale. L’operazione, avviata fin
30
Roubion, cappella di S. Sebastiano:
Cavalcata dei Vizi (particolare con la bocca
del Leviatano).
dai primi secoli cristiani, parte dal presupposto che i costumi dell’uomo si
rispecchino nei diversi animali; di qui
la possibilità di scoprire tratti reali o
immaginari delle diverse specie e di
fissarli in topoi ben presto recepiti e
trasmessi dai bestiari e dalle enciclopedie moralizzanti: il leone rappresenta la superbia, il lupo l’avarizia, la capra
e la scimmia la lussuria, l’asino l’accidia, il maiale la gola, il cane l’invidia,
l’orso l’ira”.44
Anche la favola ha contribuito, fin dall’antichità, a fissare una caratterizzazione antropomorfica degli animali, in
quanto appunto personaggi umanizzati e psicologicamente tipizzati: la volpe
rappresenta l’astuzia, il lupo l’avidità o
la prepotenza, l’asino la stupidità, il
leone la superbia, e via dicendo. E
tanto le raffigurazioni artistiche quanto la tradizione favolistica o paremiografica hanno senza dubbio concorso
a familiarizzare la gente comune con le
significazioni simboliche degli animali.
Per cui non deve affatto stupire che a
cominciare dalla fine del XIV secolo
nella pittura murale di pievi, chiese e
cappelle – per lo più rurali – della
Francia e di aree contigue come la
Liguria, il Piemonte e la Valle d’Aosta45,
per rammemorare ai fedeli i sette peccati capitali, si sia ricorsi con frequenza ad un modello figurativo, la cavalcata dei Vizi, che rappresenta sette personaggi, a cavallo ognuno di una bestia
particolare, che si avviano in fila indiana, spesso incatenati fra loro e scortati da figure diaboliche, verso le fauci
spalancate di un mostruoso Leviatano
(l’inferno).
A tutt’oggi sono una cinquantina gli
esemplari individuati di questa tipica
raffigurazione46, ma certamente dovevano essere assai più numerosi: alcuni
sono definitivamente andati perduti
nelle distruzioni delle cappelle, oppure
cancellati dal tempo e dalle intemperie, mentre altri si trovano tuttora
nascosti sotto gli spessi strati di calce
con cui furono in seguito occultati a
causa delle loro immagini non propriamente devozionali e forse divenute (o
ritenute) prive di significato. Oltre tutto gli edifici affrescati con la cavalcata
dei Vizi sono in genere di modeste
dimensioni, per lo più a pianta rettangolare, talora absidati a “cul-de-four” (a
quarto di sfera): cappelle isolate, parrocchiali da tempo non officiate, chiesette campestri.
La cavalcata in molti casi era raffigurata sui muri esterni, proprio per consentire a quanti transitavano dinanzi
alla chiesa di ricordarsi dei sette peccati capitali. Era chiaramente un monito e un invito alla penitenza. Essa si sviluppava spesso sul muro laterale nord,
“lato dell’oscurità, del freddo e dunque destinato all’errore, al peccato, a
Satana”. Ma, anche a causa dell’approssimativo orientamento di questi piccoli edifici, la regola non era dappertutto rispettata.47 Gli affreschi si trovano quindi altrettanto spesso sulle
pareti interne, per lo più a sinistra, e da
destra verso sinistra sfilano per lo più
i Vizi, perché a sinistra è di norma
situato l’inferno. «La gauche, la sénestre, est, on le sait, le côté mauvais
depuis la plus haute Antiquité»48. Non
è un caso, ad esempio, che Dante nella
sua discesa all’Inferno si muova costantemente verso sinistra, mentre
nell’ascendere al monte del Purgatorio segue puntualmente la destra.
43 E non dell’uomo soltanto, se nella rappresentazione della caduta degli angeli ribelli quale vediamo
nella cappella di San Martino a Le Monetier-Les-Bains gli angeli malvagi sono metamorfosati in animali dall’aspetto caricaturale che sprofondano nella mostruosa gola del Leviatano.
44 A. SOLIGNAC, “Péchés capitaux”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique, XII, I, coll. 853-862,
Paris 1937-1995 ; ma sul vario rapporto tra animali e vizi corrispondenti cfr. C. CASAGRANDE, S.VECCHIO,
I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo. Con un saggio di JÉRÔME B ASCHET, Torino 2000, pp. 184 ss.
ed anche Bestiari medievali, a cura di L. MORINI, Torino 1996 e R. NEWHAUSER, The Treatise on Vices and Virtues
in Latin and the Vernacular (“Typologie des sources du Moyen Âge occidental”, 68), Brepols 1993.
45 In Val d’Aosta l’unico esemplare superstite è quello dell’Hospice di Leverogne, dove, accanto a quanto resta del corteo dei Vizi, sono affrescate les sept oeuvres de miséricorde corporelle: cfr. J. STÉVENIN, Hospitia:
una catena di carità cristiana sul tratto valdostano della via Francigena,Aosta, s. d., p. 101;A. ROUX, La paroisse
d’Arvier, son église, ses chapelles, ses cures, Aoste 1910, pp. 40-47. Sulla pittura valdostana gotica e tardogotica, cfr. R. PASSONI, La pittura in Piemonte e Valle d’Aosta nel Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento,
I, pp. 31 ss.; E. ROSSETTI BREZZI, La pittura in valle d’Aosta tra la fine del ’300 e il primo quarto del ’500, Firenze
1989.
46 Cfr. La rassegna proposta da M. ROQUES, Les peintures murales du Sud-Est de la France (XIIIe au XVIe siècle), Paris 1961; da integrare con quelle offerte da M. VINCENT-CASSY, Un modèle français: les cavalcades des
sept péchés capitaux dans les églises rurales de la fin du XVe siècle, in Artistes, artisans et production artistique
au Moyen Âge, a cura di X. BARRAL, Paris 1990, III, pp. 461-487 e da L.THÉVENON, Iconografia del diavolo cit.
47 Cfr. L. RÉAU, Iconographie de l’art chrétien. Introduction générale, Paris 1955, p. 70. Ma, mentre l’autore
ritiene eccezionali le derogazioni al principio dell’orientamento, L. THÉVENON, [Où prier? Qui prier dans la
montagne?, in Limites des territoires en Provence (atti delle terze giornate di Storia di Mouans-Sartoux, aprile 1986), Mouans-Sartoux 1987], nel passare in rassegna i luoghi di culto dell’antico vescovado di
Glandève, rileva che più della metà non sono orientati, o perché la topografia fa aggio sulla simbolica o
perché a volte incide la preesistente disposizione degli edifici limitrofi o circostanti. Cfr. pure L.THÉVENON,
L’art du Moyen-âge dans les Alpes méridionales, Nizza 1983.
48 «La manca, la sinistra, è, come si sa, il lato malvagio fin dalla più alta antichità».Traduzione nostra.
31
Per lo stesso motivo la maggior parte
dei gesti compiuti dai personaggi della
cavalcata viene eseguita con la sinistra.
Si tratta naturalmente di arte povera e
fragile, almeno nella maggior parte dei
casi. Povere erano infatti le comunità
rurali o le confraternite che commissionavano gli affreschi. Il muro veniva
preparato con uno strato di calcina sul
quale l’artista tracciava, generalmente
in bistro, l’abbozzo e quindi stendeva
una o due mani di colore, sottolineando in bruno alcuni dettagli. Solo a
cominciare dal 1515 si prese ad utilizzare un secondo strato di malta dopo
l’abbozzo e si fece ricorso a colori ad
olio, sì da rendere più brillante l’insieme. Qua e là, tuttavia, il muro mal
bucato prima della seconda stesura
presenta delle zone scoperte.49 Va da
sé che più poveri erano i committenti, meno raffinate erano pure le tecniche usate. La maggior parte delle
cavalcate è dipinta con tre colori di
base in aggiunta al bianco: l’ocra-rosso,
l’ocra giallo e il grigio. La preferenza,
anche per motivi di economia, andava
alle tinte scure o scialbe “che sono
negative e implicano il pericolo, e il
peccato in questo caso”. Il grigio e il
nero in particolare evocano la disperazione e la morte. L’azzurro è assai
raro, perché si ricavava dal lapislazzulo
ed era quindi particolarmente costoso.50
Solo all’inizio del XIII secolo la lista dei
sette peccati capitali soppianta le serie
precedentemente in vigore. Evagrio
Pontico, seguito da Cassiano, aveva
infatti stabilito un elenco di otto “cattivi pensieri” (logismoi) che – secondo
lui – costituivano “l’arsenale completo
degli strumenti dei quali il diavolo si
serve per stimolare le passioni del
monaco, strappandolo a quella condizione di apateia che è il requisito indispensabile per il suo perfezionamento
spirituale”.51 Si cominciava dalla gola, il
più lieve ma anche il più subdolo dei
vizi, poiché apriva la strada all’irruzione degli altri peccati carnali (nell’ordine: la lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza, l’accidia) che sono “stretti da una
sorta di parentela e connessi e concatenati l’uno all’altro, cosicché l’esuberanza dell’uno costituisce il principio
dell’altro”.52 La superbia e la vanagloria53 – peccati in certo qual modo più
spirituali – nascevano invece dall’eliminazione dei vizi carnali: dal compiacimento derivante dalla constatazione
dei propri progressi morali.Anche per
san Gregorio i vizi sono tra loro congiunti da stretti vincoli di parentela e
derivano l’uno dall’altro: la “regina dei
vizi”, la “radice di tutti i mali”, è la
superbia, da cui, a scalare, derivano la
vanagloria, l’invidia, l’ira, la tristezza, l’avarizia, la gola e la lussuria. Ognuno di
questi vizi è, per così dire, contenuto
nel precedente. Proprio a questa idea
di concatenazione, fatta propria da
Giovanni Climaco, si ispirano con ogni
evidenza le cavalcate dei Vizi, che presentano appunto dei personaggi l’un
l’altro avvinti da una catena che li
stringe al collo o passa per i colli delle
loro cavalcature.54 Poiché frequente
Prelles, cappella Saint-Jacques:
Cavalcata dei Vizi (particolare con la Lussuria e l’Ira).
32
doveva essere all’epoca il transito per
i paesi martoriati dalle guerre di prigionieri similmente incatenati, la comprensione della scena rappresentata
era alla portata di chiunque, anche dei
più semplici.
Andora, chiesa di S. Giovanni:
particolare superstite della Cavalcata dei Vizi .
Più difficile era invece illustrare a dei
montanari o a dei paesani piuttosto
rozzi e ignoranti animali selvaggi di cui
non avevano alcuna esperienza diretta.
Come dare loro l’idea di un leone, di
una scimmia, di un leopardo, cioè di
quegli animali esotici che per inveterata tradizione rappresentavano alcuni
dei vizi più importanti? L’artista, che a
sua volta forse non conosceva sempre
tali bestie, mirava più che altro a suscitare scioccanti impressioni di violenza
e di ferocia, a prescindere da ogni
verosimiglianza : come altrimenti spiegare certi leoni ricoperti di lunghi peli
o talune belve con coda di scorpione
o leopardi con attributi di gatto? Del
resto, buona parte degli animali che
fungevano da cavalcature erano noti,
notissimi: a cominciare dal becco o
dalla capra, per proseguire con il lupo,
la volpe, il tasso, il cinghiale, e finire con
il maiale, l’asino, il cane…
L’idea di far cavalcare bestie di vario
tipo, domestiche o selvatiche, esotiche
o familiari o fantastiche, a umane personificazioni dei vizi si ritrova per la
prima volta in un manoscritto francese del 1390 conservato alla Biblioteca
Nazionale di Parigi. In esso la Superbia
è un re che monta un leone, l’Invidia
un monaco che cavalca un cane, l’Ira
una donna in groppa a un cinghiale,
l’Accidia un villano appollaiato su un
asino, l’Avarizia un mercante a cavallo
di un tasso, la Gola un giovane in arcioni su di un lupo, la Lussuria una dama
su una capra cornuta. Con qualche
notevole variazione per quanto riguarda le cavalcature e l’ordine di successione, questa serie di Vizi ricorrerà in
tutte le cavalcate, dopo che la scuola
parigina sul finire del XII secolo havrà
ridotto a sette il numero dei vizi principali, accorpando orgoglio e vanagloria nella superbia e sostituendo la tristezza con l’accidia.55 Quando poi nel
1215 il concilio Laterano IV renderà
obbligatorie la confessione auricolare
e l’annuale pratica della penitenza individuale56, i manuali di confessione
49 Così, ad esempio, nella chiesa di Sant’Apollinare ad Argentière.
50 Cfr. M. L. TIBONE, Bardonecchia. I percorsi della memoria,Torino 1995, p. 95.
51 C. CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., p. 182.
52 CASSIANO, Conlationes,V, 10, SC 42, p. 197.
53 P. MIQUEL, J. KIRKHMEYER, “Gloire (Vaine gloire)”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique,VI,
coll. 494-505, Paris 1937-1995; M. G. MUZZARELLI, La vanagloria fra gusto e peccato negli ultimi secoli del
Medioevo, in “Doctor Seraphicus”, XLV (1998), pp. 99-116.
54 Cfr. L. THÉVENON, Iconografia del diavolo cit., p. 23 : “È alla fine del XII secolo, a St Trophime di Arles,
che risale la prima raffigurazione di una catena di dannati”.
55 Cfr. P. LOMBARDO, PL, LXXVI.
56 Cfr. R. RUSCONI, “Ordinate confiteri”. La confessione dei peccati nelle «Summae de casibus» e nei manuali
per confessori (metà XII-inizi XIV secolo), in L’aveau. Antiquité et Moyen Âge. «Actes de la table organisée par
l’École Française de Rome avec le concours du Cnrs et de l’Université de Trieste, Rome 28-30 mars
1984», Roma 1986, pp. 297-313 ; J. BOSSY, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti
nell’Europa moderna,Torino 1998.
33
prenderanno a proporre ai sacerdoti
l’uso del settenario come griglia per
l’esame dei peccati. Il successo del settenario fu però sancito dall’inserimento che ne fece Pier Lombardo nel
quarto libro delle Sentenze, quantunque il teologo novarese gli affiancasse
pure altri schemi, “tutti in qualche
misura legittimati dall’autorità della
Scrittura o dei Padri”.57 L’opera di Pier
Lombardo fu fondamentale per l’istruzione teologica del clero. Ma i fedeli
comuni, la gente semplice, non sarebbero stati in grado di penetrare le sottili disquisizioni dottrinarie che distinguevano i vizi (tendenze concupiscibili
scaturite dal peccato originale) dai
peccati (atti coscienti da esse derivati).
Fu quindi decisiva la mediazione degli
ordini mendicanti, che, per invitare i
fedeli alla penitenza, ricorsero ad
exempla, aneddoti spiccioli, paragoni
attinti dai bestiari o dai Padri del
Deserto (che avevano materializzato i
peccati mediante animali selvaggi).58 Il
francescano Bindo Schelmi da Siena,
ad esempio, si servì delle tradizionali
immagini del bestiario allegorico per
descrivere la battaglia dichiarata dai
vizi all’anima penitente: l’orso rappresenta la gola, il leone sta per la vanagloria, lo scorpione appiattato nella
polvere indica l’avarizia.59 Ed Enrico di
Susa propose dei vizi una successione
nuova, che andava dal più grave al
meno grave ed era facilmente memorizzabile grazie all’acronimo formato
dalle loro iniziali: SALIGIA (cioè Superbia,
Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira,
Accidia). L’ordine così delineato è
appunto quello che si affermò – sia
pure con varie eccezioni - nelle grottesche raffigurazioni a fresco della
cavalcata dei Vizi, le quali nella loro
concreta evidenza rendevano, per così
dire, patenti agli occhi dei fedeli i rischi
e la forza trascinante delle passioni.
34
Gli animali non costituivano più l’equipaggiamento del guerriero in lotta per
il dominio dell’anima, bensì l’elemento
trainante, il vettore passionale che, a
seguito del peccato originale, adduce
l’anima alla perdizione. « L’animal
n’est pas ici l’équipement du guerrier
psychomachique mais l’élément psychopompe du vice. Il est la pulsion, la
passion, la tendance néfaste issue du
péché originel qui pousse l’homme à
la mort de l’âme. C’est le côté inné de
la nature humaine concupiscible qui
soude l’animal à son cavalier ».60 Tale
rappresentazione non deriva dunque
dalla Psychomachia di Prudenzio, dove
sette vizi fondamentali (la veterum
Cultura deorum, la Sodomita Libido, l’Ira,
la Superbia, la Luxuria, l’Avaritia, la
Discordia o Heresis), non tutti a cavallo
ma accompagnati da altri vizi minori,
sfidano a duello altrettante virtù61 (la
Fides, la Pudicitia, la Patientia, la Mens
Humilis, la Sobrietas, la Ratio, la
Concordia) per contendersi il dominio
dell’anima umana.62 O, meglio, non
derivano soltanto dal poema prudenziano, almeno per quanto concerne le
cavalcature animalesche: «Il s’agit plutôt – come ci ha comunicato Jérôme
Baschet – […] d’une mise en image
originale inspirée par les Encyclopédies morales qui fleurissent à partir du
XIIIe siècle. On y trouve le thème des
sept péchés capitaux (qui conduisent
en enfer), des développements sur les
caractéres de chaque vice, ses attributs, tandis que les Bestiaires ont
depuis longtemps exposé les significations morales des animaux»63.
Dalla Psychomachia, comunque, le
cavalcate derivano qualche elemento.
L’Ira, ad esempio, generalmente rappresentata da un giovane (più raramente da una donna) che, squarciata la
veste, si trafigge il petto, ricalca uno
stereotipo prudenziano.64 Inoltre,
spesso la cavalcata dei Vizi non è raffigurata da sola: non è raro infatti che
nel registro superiore della parete o
sul muro di fronte compaiano le Virtù,
che ad essi si contrappongono, e non
solo visivamente.65 Nelle loro pose
raccolte, ieratiche o solenni fanno da
puntuale pendant al gesticolare scomposto e al dinamismo che anima il corteo dei Vizi.66 Non di rado ai Vizi fanno
da antitesi le opere di misericordia
puntualmente illustrate ed esemplifi-
cate. Nel registro inferiore troviamo
spesso anche le punizioni inflitte ai singoli peccati: le stesse, in genere, immaginate dall’Elucidarium o inventate dal
Traité des peines d’Enfer di Vérard, pubblicato nel 1492.67 In alcuni casi, poi, le
cavalcate dei Vizi si trovano inserite in
complessi quadri figurativi che sono
dei veri e propri catechismi illustrati,
delle Bibbie per illetterati68: si vedano,
per esempio, i cicli pittorici di chiese
come San Bernardino di Albenga, la
57 CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., p. 207.
58 Cfr. M.VINCENT-CASSY, Les animaux et les péchés capitaux: de la symbolique à l’emblématique, ne Le monde
animal et ses représentations au Moyen Âge (XIe-XVe), Actes du XVe congrès de la Société des historiens
médiévistes de l’Enseignement supérieur public,Toulouse, mai 1984,Toulouse 1985, pp. 121-131.
59 C. DELCORNO, Eremo e solitudine nella predicazione dei Francescani, in “Lettere Italiane”, LIV (ottobredicembre 2002), 4, p. 510.
60 M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 467: «L’animale non è qui l’equipaggiamento del guerriero psicomachico ma l’elemento psicopompo del vizio. È la pulsione, la passione, la tendenza nefasta derivata dal peccato originale che spinge l’uomo alla morte dell’anima. È l’aspetto innato della natura umana
concupiscibile che salda l’animale al suo cavaliere».Traduzione nostra.
61 Cfr. J. HOULET, Les combats des Vertue et des Vices, Paris 1969; L. BOLZONI, La battaglia dei vizi e delle virtù.
Testi e immagini fra Tre e Quattrocento, in Ceti sociali ed ambienti urbani nel teatro religioso europeo del ’300 e
del ’400,“Convegno del Centro di Studio sul Teatro Medievale e Rinascimentale,Viterbo 30 maggio-2 giugno 1985”,Viterbo 1986, pp. 116-123..
62 Cfr. PRUDENZIO, Psychomachia, a cura di C. PROSPERI, con Introduzione di G. CASTELLI, Acqui Terme 2000.
M. L.Tibone ha invece individuato nella cavalcata dei Vizi “un esempio di mistero drammatico, recitato nel
ricordo delle visioni del monaco Ruybroek l’Ammirabile che aveva presentato i sette peccati capitali
incarnati ciascuno da un demone nei suoi versi trecenteschi” (M. L. TIBONE, L. M. CARDINO, Susa e le sue
valli. Storia e arte,Torino 1997, p. 214).
63 “Si tratta piuttosto […] di una raffigurazione originale ispirata dalle enciclopedie morali che fioriscono a partire dal XIII secolo.Vi si trova il tema dei sette peccati capitali (che conducono all’inferno),
degli svolgimenti dei caratteri di ciascun vizio, dei suoi attributi, mentre i Bestiari hanno da gran tempo
esposto i significati morali degli animali”.Traduzione nostra.
64 Cfr. PRUDENZIO, Psychomachia cit., vv. 109-177, pp. 38-45. Il gesto iroso di strapparsi (o di strappare) di
dosso la veste, pur non ignoto ai classici (cfr. PROPERZIO, Elegie, II, V, 21; VIRGILIO, Eneide, VIII, 702; etc.), e
ripreso da Giotto nella sua rappresentazione dell’Ira a Padova nella cappella degli Scrovegni, ci sembra
piuttosto riferibile alla reazione sdegnata di Caifa dinanzi a Gesù che ribadisce di essere Figlio di Dio (MT,
26, 65; MC, 14, 63).
65 C. BLANCHARD, Les vertus et les vices, in “Bulletin de la Société d’études historiques des Hautes Alpes”,
Gap 1920-1923.
66 Sulla rappresentazione dei Vizi e delle Virtù nel Medioevo cfr. A. KATZNELLENBOGEN, Allegories of the
Virtues and Vices in Medieval Art from Early Christian Times to the Thirteenth Century, London 1935 (rist. anast.,
Toronto 1989); J. O’ REILLY, Studies in the Iconographie of the Virtues and Vices in the Middle Ages, New YorkLondon 1988.
67 Cfr. M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 465.
68 In fondo, l’uso delle immagini agli occhi di san Tommaso d’Aquino si giustifica proprio per ragioni del
genere, vale a dire ad instructionem rudium [“per l’istruzione degli incolti”], oppure ut incarnationis mysterium et sanctorum exempla magis in memoria nostra maneant [“affinché il mistero dell’incarnazione e gli
esempi dei santi persistano più a lungo nella nostra memoria”], e infine ad excitandum devotionis affectum
[“a suscitare ardore devozionale”]: cfr. S. SETTIS, Iconografia dell’arte italiana, 1100-1500: una linea, in Storia
dell’arte italiana. L’esperienza dell’antico, dell’Europa della religiosità, parte Ia, vol. III, Torino 1979, p. 223. Più
semplicemente san Gregorio Magno: pictura in ecclesiis adhibetur, ut hi qui litteras nesciunt saltem in parietibus videndo legant, quae legere in codicibus non valent [“nelle chiese si fa ricorso alla pitura affinché, almeno
guardando sulle pareti, gli illetterati leggano quanto non sono in grado di leggere nei codici”].
35
Bastia di Mondovì,
chiesa di S. Fiorenzo:
Inferno.
cappella di San Fiorenzo a Bastia di
Mondovì, la chiesa di Montegrazie
(Imperia)... Il fatto che siano per lo più
dipinte su chiese campestri e che a
personificare i Vizi siano quasi esclusivamente dei laici sta chiaramente a
indicare la destinazione privilegiata di
queste opere, che riproducono un
modello catechetico per i semplici,
per la gente incolta delle campagne.
Almeno per quelle affrescate all’interno degli edifici sacri, si può presumere
che il sacerdote o il predicatore giocassero poi un ruolo di rilievo, con le
loro parole, nel renderle davvero parlanti e significative, nell’indirizzare gli
auditori ad una corretta interpretazione delle immagini.69 “Mentre i fedeli
ascoltavano la morale enunciata dal
sacerdote, i loro sguardi scorrevano
lungo le pareti della chiesa, rivolgendosi alle figure indicate dal predicatore,
che parevano loro animarsi sotto la
tremula luce delle candele, in quella
penombra ondeggiante che conferiva
loro l’effetto spettacolare paragonabile quasi ad una vera e propria animazione”.70
Ma come sono raffigurati questi Vizi?
L’ambientazione è diabolica o infernale: la cavalcata – come già si è detto –
si dirige verso la bocca beante del
Leviatano, il mostro biblico71 della
36
famiglia dei sauri, ricoperto di squame
verdastre, dall’immensa bocca zannuta
“e tappezzata da una grossa lingua
rossa”, il quale altro non è che una
deformazione del coccodrillo descritto nel Libro di Giobbe. 72
Già nella mitologia fenicia esso occupava un posto di rilievo nel reame di
Ade. È generalmente associato all’acqua di un lago o di una palude, sulla cui
riva l’eroe giusto (San Giorgio ne è il
prototipo) va per combatterlo. Il drago stesso è una mostruosa deformazione del coccodrillo. Ma non sono da
escludere reminiscenze mitologiche,
se è vero che nell’immagine del Leviatano “gli antichi Crono e Saturno, inghiottitori di uomini, si fondono con
figure orientali, il Baal di Babele e il
Moloch degli Ammoniti, in una sola
immagine del diavolo divoratore di
uomini, quale è mostrato, forse per la
prima volta, nel Salterio di Utrecht, al
Salmo 9”.73 In ogni caso, l’esito è grottesco, sospeso e oscillante tra il farsesco e il terrifico: un mostro famelico
con le ingorde fauci spalancate, la gola
scura e ignivoma, i denti aguzzi, l’occhio vitreo e livido, le narici sbuffanti.74
È una sorta di “gorgoneion” che può
talora essere duplicato o triplicato a
raffigurare l’inferno o almeno l’accesso ad esso. Mentre in altre rappresen-
tazioni la gola infernale si può presentare frontalmente o rovesciata oppure
in combinazione con una marmitta
che occupa ora l’intero spazio tra le
zanne del mostro, ora solo la parte
centrale, nelle cavalcate dei Vizi, dove
essa ha la funzione di stabilire un contatto tra un interno e un esterno, tra
l’aldiquà delle occasioni peccaminose
e l’aldilà dei castighi eterni quale esito
consequenziale, essa è generalmente
raffigurata di profilo. In tal modo si
rimarca l’aspetto dinamico della rappresentazione.75
Presso la bocca spalancata del Leviatano, dei diavoli suonano il tamburino, la
piva o il piffero (Clans, Roubion76,
Grosso Canavese, Bastia Mondovì…)
per dare il ritmo ed accelerare la cavalcata. O infelices peccatores venite ad
choreas.Taratantara: recita, ad esempio,
la scritta che a mo’ di fumetto esce di
bocca ad un diavolo musicista a Bastia.
Al primo si accompagnano altri diavo-
69 Non va dimenticato che, pur dopo la vittoria sulle più radicali correnti iconoclastiche, la Chiesa, per
rintuzzare ogni degenerazione estetizzante o, peggio ancora, ogni sospetto d’idolatrica indulgenza, si premura di ribadire che il compito dell’arte in ambito religioso è quello di demonstrare invisibilia per visibilia.
Nello stesso tempo si giustifica la funzione della raffigurazione allegorica, necessaria affinché mens nostra
rapiatur spirituali effectu per contemplationem figuratae imaginis [“la mente nostra venga da spirituale effetto rapita mediante la contemplazione dell’immagine raffigurata”]: così almeno leggiamo nella lettera inviata dal pontefice Adriano I agli imperatori Costantino e Irene. Del resto, anche i Libri Carolini sive Caroli
Magni capitulare de imaginibus, preoccupati del fatto che la bellezza o la mira quaedam deformis formositas
ac formosa deformitas delle immagini (come dirà più tardi san Bernardo) possa suscitare nei fedeli ammirazione estetica più che non estatica devozione (o pio fervore) [materiarum qualitas habet venerationem,
non fervor devotionis], confermano il prioritario valore della parola scritta nel trasmettere i valori della
fede, prescrivendo che le immagini siano accompagnate da nomi, iscrizioni o cartigli. E non è un caso che
questo capitulare dell’VIII secolo resti un solido punto di riferimento fino all’avanzato autunno del
Medioevo: cfr. G. ROSATI, O. FERRARI, Il concetto di simbolo e allegoria nella trattatistica e nella letteratura sulle
arti figurative dal Medioevo ai nostri giorni, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. XII, Novara 1981, p. 495.
70 C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte nelle contrade del Nord, Milano 2001, pp. 97-98.
71 Cfr. Psalm.104, 26; Is. 27, 1.
72 Job 41, 10-12 e 16: “Dalla sua bocca partono vampe, / ne scappan fuori scintille di fuoco. / Dalle sue
narici esce un fumo, / come da una pignatta che bolla o da una caldaia. / L’alito suo accende i carboni / e
una fiamma gli erompe dalla gola. / […] Quando si rizza tremano i più forti, / e dalla paura son fuori di
sé”. Cfr. O. BEIGBEDER, Lessico cit., pp. 197 ss., che collega le rappresentazioni del Leviatano alle grand’goules (maschere mostruose che ricordano la “bocca dell’Inferno”) del folklore francese.“La gola di Leviatano
come porta e ricetto punitivo dell’Ade (os leonis) è diversamente interpretata: a volte come matrice di
fiamme per una caldaia in cui ribollono i dannati, oppure la gola riceve direttamente [come nel nostro
caso] i dannati (Libro d’Ore di Adelaide di Savoia, datato 1430). La gola del Leviatano che il Canavesio raffigurerà pure a Briga nel 1499 si ritrova nel Jugement dernier, mistero provenzale del sec. XV” (A. GRISERI,
Jaquerio e il realismo gotico in Piemonte,Torino 1966, nota 115, p. 131).
73 H.WEIGERT, Medioevo cristiano, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. IV, Novara 1981, p. 279.
74 C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., p. 86.
75 Si vedano le belle e puntuali pagine dedicate all’argomento da J. BASCHET, Les justices de l’Au-delà. Les
représentations de l’enfer en France et en Italie (XIIe-XVe siècle), Roma 1993, pp. 272 ss. Un bell’esempio di
gola ignivoma di Leviatano è scolpito in un riquadro della valva sinistra del portale della parrocchiale di
Rivalta Bormida: cfr.C. PROSPERI, G. L. RAPETTI BOVIO DELLA TORRE, Rivalta Bormida: vita e vicende di una villanova dalle origini alla fine del secolo XVIII,Acqui Terme 2004, p. 569 (ma si veda pure G. L. RAPETTI, E. CAVIGLIA,
La Chiesa parrocchiale “San Michele Arcangelo” di Rivalta Bormida,Villanova Monferrato 1992). Una versione
pittorica dello stesso soggetto si trova a Rossiglione Inferiore, nella cappella di San Bernardo: cfr. L.
GALLARETO, Gli arcani dei simboli: pittura gotica e tardo-gotica nell’Alto Monferrato, in L. GALLARETO, C. PROSPERI
(a cura di), Alto Monferrato tra Piemonte e Liguria, tra pianura e appennino. Storia arte tradizioni,Torino 1998,
pp. 155-156; ma anche la scheda di S. REPETTO in S. ARDITI, C. PROSPERI (a cura di), Tra Romanico e Gotico.
Percorsi di arte medievale nel millenario di San Guido (1004-2004) Vescovo di Acqui,Acqui Terme 2004, p. 283.
76 Degli affreschi di Roubion, nella cappella di San Sebastiano, è stato sottolineato lo stile popolare
“naïf”, per cui più che altrove evidente è l’influenza provenzale; i personaggi sono “ben caratterizzati”, benché la loro espressività sia ottenuta con estrema parsimonia di mezzi: cfr. L. IMBERT, Les chapelles peintes du
pays niçois, “Nice Historique”, 1947-1951; nonché PH. DE BEAUCHAMP, L’arte religiosa nelle Alpi Marittime.
Architettura religiosa, dipinti murali e retabli, Aix-en Provence 1990, p. 78.
37
li, tutti agitati, che brandiscono forche,
fiocine, picche o più semplicemente
randelli e fruste. A Villafranca Piemonte i Vizi, tutti rappresentati da
donne (del resto, i loro nomi latini
sono tutti femminili), hanno ognuno
un diavoletto di tenue tinta che li tira
o sospinge verso la bocca dell’inferno.
Ma per lo più i diavoli sono convenzionalmente neri o scuri, pelosi, con ali
membranacee, becchi, unghie e artigli.77 Dinanzi all’inferno, a Villafranca,
stazionano, nudi,Adamo ed Eva, a sottolineare lo stretto legame tra il peccato originale e le tendenze peccaminose che da allora albergano nell’intimo dell’uomo.78
Eccezion fatta per il caso di Villafranca
e di Grosso Canavese, la maggior
parte dei Vizi è rappresentata da uomini; una donna può prestare tutt’al più
volto alla Lussuria, all’Accidia o
all’Avarizia. Il corteo è quasi invariabilmente aperto da un sovrano (la
Superbia è appunto la regina dei Vizi:
initium omnis peccati, per dirla con
sant’Agostino)79 coronato e talora
munito di scettro; ma può pure essere
un ricco signore, sontuosamente vestito, con una spada o un orifiamma o
un falcone: tutti emblemi di vita nobiliare.A volte l’alta condizione è significata dai capelli biondi (è il caso di
Briolet; e si
ricordi il Manfredi dantesco:“biondo
era e bello e
di gentile
aspetto”80),
dagli abiti eleganti o dalla
scarsella col
denaro
necessario ad un elevato tenore di
vita. Cavalca il leone, re degli animali.
La Superbia di Villafranca è una bionda
regina coronata in eleganti vesti di
porpora dai candidi risvolti, mentre
quella di Grosso, preziosamente acconciata, oltre alla corona e allo scettro porta uno scudo su cui campeggia
il suo nome.
Segue in genere l’Avarizia (dalla quale
- secondo Pier Lombardo81 - traggono
origine tutti gli altri Vizi82), smagrita,
scarna, austeramente vestita.A rappresentarla è di solito un mercante o un
borghese in groppa ad una scimmia
(perché scimmiotta la vita dei nobili o
perché la scimmia è una vera e propria
figura del diavolo, un simbolo dell’idolatria) o ad un tasso, un lupo, un drago
(tutti animali crudeli e malefici: maleodorante, ladro, occultatore di carogne
nella sua tana il primo, assunto - in versione femminile - il secondo a raffigurare la cupidigia da Dante o la rapacità dalla Bibbia, dalle favole, dalle fiabe).
Stringe una borsa al petto ed ostenta
un’aria inquieta. A Plampinet tiene un
registro o un libro dei conti nella
destra, mentre nel cartiglio che l’accompagna nella cavalcata di Villafranca
si legge:“E mi trista avaricia vivo cativa
/ e bruta, co la borsa streta / cercando
se a la rota”.83
La Lussuria è una ricca dama, di bei
lineamenti, ben vestita, che a volte
porta in capo un hennin84 (d’influenza
fiamminga), dei veli o delle bende che
ne raccolgono o fasciano la chioma
ben acconciata, pettinata a puntino. Ha
il “viso dipinto” o truccato con cura e
si contempla in uno specchio. « L’acte
sexuel est suggéré dans ces peintures
par la robe toujours relevée. Il y a
donc une opposition très nette entre
Grosso Canavese, cappella di S. Ferreolo:
particolare della Cavalcata dei Vizi.
Plampinet, cappella
Nôtre Dame des Graces:
le Virtù e i Vizi.
l’attitude hiératique du haut du corps
et ce geste qui dévoile une cuisse à la
nudité criminelle. Cette nudité de la
cuisse est d’autant mieux mise en évidence que la jambe est couverte d’un
bas jusqu’au genou ».85 La calza è
generalmente di color verde o rosso.
La Lussuria cavalca per lo più una
capra o un becco86, raramente una
scrofa o – come a Villafranca – un cin-
77 L’immagine del diavolo nelle sue mostruose e bestiali fattezze quale si sviluppa a partire dal XII secolo sembra ricalcare il classico modello del satiro, ma spesso lo zoccolo forcuto è rimpiazzato da zampe
d’uccello. Più tardi (il primo esemplare è forse quello del Salterio di Esmond de Lari) si aggiungono, sulla
base di suggestioni orientaleggianti ma non senza implicito rinvio alla primitiva condizione angelica del diavolo stesso – se pure in versione degradata e “notturna” - , ali di pipistrello: cfr. C.A. GALIMBERTI, Le radici
dell’arte cit., pp. 87-92.
78 Sulle pregevoli pitture di Villafranca si era già soffermato P.TOESCA, Antichi affreschi piemontesi, in “Atti
della Società Piemontese di Architettura e Belle Arti”, VIII, fasc. 1o, Torino 1910, definendoli “vigorosi di
colore, espressivi e fini nel segno”; ma l’insigne studioso ne aveva indebitamente ritardata l’esecuzione,
datandola alla fine del secolo.
79 Cfr. W. M. GREEN, Initium omnis peccati superbia”: Augustin on Pride as the First Sin, Berkeley Ca. 1949.
Cfr. P.ADNÈS, “Orgueil”, in Dictionnaire de Spiritualité,Ascétique et Mystique,VI, coll. 907-933, Paris 1937-1995;
TH. DEMAN, “Orgueil” in Dictionnaire de Théologie Catholique, XXII, coll. 1410-1434, Paris 1909-1972. La
Superbia incoronata e abbigliata da regina di Villafranca Piemonte porta un cartiglio con la scritta:
“Superbia sun principio del mal del / mondo chi me semea / si andaa in pro / fondo” (cfr. N. GABRIELLI,
Aimone Duce pittore a Villafranca Sabauda, in “Studies in the History of Art dedicated to William E. Suida
on his eightieth Birthday”, London, p. 24).
80 D. ALIGHIERI, Purgatorio, III, 107.
81 Ma il concetto è già paolino (I Tim. 6, 10) e su di esso fu costruito un acrostico (Radix / Omnium /
Malorum / Avaritia) destinato a colpire l’avidità della Curia romana: cfr.W. MAP, Svaghi di corte, Parma 1990,
vol. I, II, 17, pp. 232-233. L’avarizia afferma il suo primato a scapito della superbia tra XII e XV secolo, con
il progressivo declino del Medioevo “feudale” e “gerarchico” a causa del crescente potere del denaro: cfr.
J. HUIZINGA, Autunno del Medioevo, Firenze 1940, p. 29, nonché R. NEWHAUSER, Towards modus in habendo:
transformation in the idea of avarice, in “Zeitschrift des Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte-Kanonistische
Abteilung”, CVI (1989), pp. 1-22 e CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., pp. 96-100.
82 Cfr. CASAGRANDE, S. VECCHIO, I sette vizi capitali cit., p. 206; A. BEUGNET, “Avarice”, in Dictionnaire de
Théologie Catholique, I, coll. 2623-2627, Paris 1909-1972.
83 N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., p. 24.
84 Nel 1429 a Parigi fra’ Riccardo faceva accendere dei falò per dare alle fiamme questi copricapi alla
moda : cfr. Journal d’un bourgeois de Paris à la fin de la guerre de Cent ans, Paris 1881.
85 Cfr. M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 469 : “L’atto sessuale è suggerito in queste pitture
dalla veste sempre rialzata.Vi è dunque un’opposizione assai netta tra l’attitudine ieratica della parte superiore del corpo e questo gesto che svela una coscia di criminosa nudità. Questa nudità della coscia è tanto
più evidenziata dal fatto che la gamba è coperta di una calza fino al ginocchio” (traduzione nostra). In
genere è la Lussuria stessa ad alzare la gonna per esibire la gamba nuda e calzata, ma in qualche caso la
gonna si raccoglie da sola nell’inforcare l’arcione od è – come nella Chapelle Saint-Antoine di Clans …una minigonna: cfr. C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., p. 101.
86 Merita una segnalazione l’affresco della seconda metà del XV secolo che si vede nella cappella di
Santa Croce a Mondovì Piazza: anche qui una donna dalle lunghe chiome bionde disciolte cavalca un
caprone, ma l’animale in questo caso è acefalo ed è la stessa donna, personificazione della Sinagoga (cui
trafigge il capo una spada impugnata dal braccio sinistro della croce vivente), a reggerne con la manca la
testa, mentre nella dritta porta un vessillo rosso rigato di bianco (cfr. P. MALLONE, Predicatori e frescanti.
Jacopo da Varagine e la pittura ligure-piemontese del Quattrocento, Savona 1999, pp. 105-108).
39
Leverogne (Valle d’Aosta):
ospizio dei pellegrini (particolare degli Affreschi).
ghiale.87 Solo dal 1540 la lussuria
cominciò ad essere il peccato trattato
con più attenzione nei manuali per
confessori e penitenti, soppiantando
l’avarizia.88 Nello stesso tempo l’asse
della verità cristiana “dal piano delle
forme teologiche” si spostò a quello
della morale, soprattutto della morale
sessuale89, cosicché i peccati di sensualità e di lussuria presero da quel
momento ad acquistare un’importanza spropositata e prima sconosciuta,
come d’altronde attesta la posizione
non particolarmente rilevata di questo
vizio nel corteo allegorico.
L’Invidia mostra i suoi occhi o punta,
livida e bieca, il dito sui suoi vicini, talora incrociando - nel gesto - le mani sul
petto. È rappresentata da un personaggio smagrito dal rodio che lo divora90 e porta spesso una borsa alla cintola. Si tratta in genere di un borghese
(o almeno per tale lo designa l’abbigliamento) mosso da un evidente
complesso d’inferiorità nei riguardi
degli aristocratici. I morsi dell’invidia
sono suggeriti dalla presenza di un
cane (o di uno sciacallo) che a volte
ringhia minaccioso addentando un
osso. «Le lévrier, animal favori des aristocrates, s’explique à la fois par le fait
que l’envieux n’agit qu’envers ceux qui
le dominent socialement mais aussi
40
par ce que la maigreur de l’envie est
identique à celle de ces chiens».91 Nel
santuario di Montegrazie l’Invidia è
raffigurata da un giovane che rode un
bastone sollevato con ambedue le
mani all’altezza della bocca.
La Gola è per lo più personificata in
un ghiottone, grasso e adiposo, dalle
guance flosce, che beve da una caraffa
di vino e tiene un pollo o un cosciotto infilzato allo spiedo. Altre volte,
invece della caraffa, stringe in mano un
capace boccale. È in genere una donna
bene in carne o un uomo maturo che
dà l’impressione di essere un facoltoso paesano, abituato a nutrirsi abbondantemente, intemperante fino all’ubriachezza. Cavalca spesso un lupo o
un porco, qualche volta una volpe o
una tigre.92
L’Ira si pugnala di sua propria mano,
secondo un cliché di ascendenza classica (ma non è estranea – come si è già
detto - l’influenza della Psychomachia)
che vuole l’iracondo preda del furor e
di tendenze autodistruttive o semplicemente distruttive.93 Il gesto dell’uomo che si trafigge il petto o la gola con
uno stocco o un pugnale non allude
infatti solamente al suicidio, ma anche
all’omicidio. A Grosso Canavese un
diavoletto scompiglia dispettoso all’Ira
la muliebre chioma raccolta in un lungo nastro bianco. L’emblema animalesco dell’ira è per lo più l’orso, ma non
sono rari neppure la pantera e il leopardo. L’orso è l’animale feroce che
nella Bibbia decima il gregge di Davide,
il quale gli dà con successo la caccia,
così come nell’iconografia cristiana del
Medioevo san Gallo, san Corbiniano e
sant’Erige.94 E lo stesso Dante fa riferimento a “colui che si vengiò con gli
orsi” (Inf. XXVI, 24), cioè al profeta
Eliseo sbeffeggiato per la sua tonsura e
vendicato da due orse che sbranarono
ben quarantadue dei suoi derisori.95 A
Grosso Canavese, cappella di S. Ferreolo:
particolare della Cavalcata dei Vizi: l’Ira.
Roubion l’Ira brandisce, rivolgendoli
contro di sé, due pugnali e cavalca un
dragone.
L’Accidia (o Pigrizia) chiude la sfilata
ed è l’unico personaggio cencioso e
trasandato, accasciato senza dignità
sull’asino che lo porta. Mentre il
modello manoscritto mostrava un
paesano, qui per lo più è una donna a
personificare l’Accidia. In un primo
momento l’acedia – si veda Petrarca96
– era una sorta di malattia della volontà, un torpore dell’anima che impediva
ai cristiani di pregare e di adempiere
con slancio ai loro obblighi religiosi;
ora è invece diventata svogliatezza fisica, mancanza di voglia di lavorare, pec-
cato
sociale, in
primo
luogo
contro la
famiglia, di
cui la
donna è custode. La sposa ha un ruolo
essenziale nell’economia domestica:
tra le sue mani la rocca con la lana sta
appunto ad evidenziare l’importanza
della sua attività lavorativa per stornare dalla casa la povertà. La donna pigra
disattende a questo suo compito fon-
87 Qui la Lussuria, sospinta da una figura demoniaca con testa taurina, è contrassegnata dalla seguente
scritta:“E mi miro speso per vezeme belo / con lo amore speso rio e sì / pianzo, luxuriando / soino como
el porzo in lo fang[o]” (cfr. N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., p. 24).
88 Cfr. C. GINZBURG, Tiziano, Ovidio e i codici della figurazione erotica nel Cinquecento, in IDEM, Miti, emblemi,
spie. Morfologia e storia,Torino 1986, pp. 133-157.
89 Cfr. TH. N. TENTLER, Sin and Confession in the Eve of Reformation, Princeton 1977, pp. 162-232; J.
DELUMEAU, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Bologna 1987, pp. 775798; A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, pp. 508-519;
CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., p. 219.
90 A Villafranca mastica una cannuccia, come indica pure il cartiglio che l’accompagna: “Invidia sun sempre dolente del ben de altri / roxiglo una petita bachetina / e ci semeglio al can quando i le / in la clyxina” (cfr. ibidem). Il demone che la ghermisce ha testa di lupo. L. DESBRUS, “Envie”, in Dictionnaire de Théologie
Catholique,V, I, coll. 131-134, Paris 1909-1972 ; É. RANWEZ, “Envie”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique
et Mystique, IV, I, coll. 774-785, Paris 1937-1995.
91 Cfr. M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 470 : « Il levriero, animale favorito degli aristocratici, si spiega non solo col fatto che l’invidioso non agisce se non verso quanti lo dominano socialmente,
ma anche col fatto che la magrezza dell’invidia è identica a quella di questi cani».Traduzione nostra. Cfr.
Pure L. THEVENON, Iconografia del diavolo cit., p. 25. Sull’invidia si veda, poi, M. VINCENT-CASSY, L’envie au
Moyen Âge, in “Annales E. S. C.”, XXXV (1980), pp. 253-271.
92 P. ADNÈS, “Gourmandise”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique, VI, coll. 612-622, Paris
1937-1995 ; C. N’DIAYE (a cura di), La gourmandise. Délices d’un péché (“Mutations / Mangeurs”, 140), Paris
1993 ; F. RIGOTTI, Del vizio della gola e di altri vizi, in « Intersezioni », XIX (1999), pp. 157-183.A Villafranca
la sospinge un demone con ali di pipistrello e l’accompagna questa scritta :“Gula sum che beivo e sì mangio vo / lentera de bon, anchò de bon doman de / meglo, consumo la roba e se / vivo a dexhonor” (cfr.
N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., pp. 23-24).
93 Cfr. M. BLAIS, La colère selon Sénèque et selon Saint Thomas, in “Laval Théologique et Philosophique”, XX
(1964), pp. 247-290 ; M.VEGETTI, Passioni antiche : l’io collerico, in Storia delle passioni, a cura di S.VEGETTIFINZI, Roma-Bari 1995, pp. 39-73.
94 Cfr. L. THÉVENON, Iconografia del diavolo cit., p. 25. La scritta che la contraddistingue nella cavalcata di
Villafranca è: “Ira son pina de grande mengramia / non cognosco raxon ma sun tuta vilana / amazo el
corpo e se perdo la anima” (cfr. N. GABRIELLI, Aimone Duce cit., p. 23). La scorta un demone con testa di
cane. Cfr. H.-D. NOBLE, “Colère”, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et Mystique, II, I, coll. 1054-1077,
Paris 1937-1995.
95 Cfr. 2 Re, 2, 23-25.
96 F. PETRARCA, Secretum, II. Cfr. S. WENZL, “Acedia“ 700-1200, in “Traditio“, XXII (1966), pp. 73-102; R.
JEHL, Melancholie und Acedia. Ein Beitrag zu Anthropologie und Ethik Bonaventuras, Paderborn 1984; TH.-M.
HAMONIC, L’acédie et l’ennui selon saint Thomas, in L’ennui. Féconde mélancolie (« Mutations », 175), a cura
di D. NORDON, Paris 1998 ; G. BUNGE, Akedia. Il male oscuro, Magnano 1999.
41
Pietro Guidi
da Ranzo
Avrieux, parrocchiale: particolare della settecentesca Cavalcata dei Vizi (con i rispettivi castighi infernali).
damentale: di qui la povertà e la sciatteria delle sue
vesti.97 Nella cappella di Horres dedicata a
sant’Andrea l’Accidia è una “donna scarmigliata, con
veste lacera ed una rocca da filare abbandonata, su
una giovenca”.98
Tutti gli stati della società sono dunque rappresentati nella cavalcata dei Vizi, la cui fortuna, oltre che
dalle numerose raffigurazioni a fresco, è attestata da
un episodio significativo: quando Carlo VII il 13
novembre 1434 entrò in Parigi c’era “un cortège
représentant les sept péchés montés à cheval et
estaient habillés seloncq leurs propriétés”.99 Né si
attenuerà con l’affermarsi di nuove griglie – più perfette e più sofisticate – escogitate dai chierici per
agevolare il compito dei confessori.100 Ma è indubbio
che all’inizio del XVI secolo il tema perde vigore.“A
Roubion nel 1513, diventa una piacevole sfilata dai
personaggi che hanno un’aria rilassata, quasi allegri!
A Rezzo nel 1515, sotto il pennello del popolarissimo Pietro Guidi, originario di Ranzo nella stessa
valle dell’Arroscia dove decora diversi edifici, i vizi e
i loro animali volgono alla caricatura buffonesca:
personaggi deformi che schiacciano sotto il loro
peso dei piccoli animali tra i quali l’asino e il caprone con orecchi e corna smisurati, il leone ha l’aspetto di un giocattolo101, ecc... Questo tipo di raffigurazione dei vizi è abbandonato, ad eccezione di
rare prolungazioni arcaizzanti come a Avrieux nella
Maurienne dove, nelle pitture del XVII secolo in
chiaroscuro, i vizi, con delle catene al collo, cavalcando i loro animali caratteristici, portano delle parrucche, pizzi, calze (da donna) e ampi cappelli con
piume”.102 Il fatto è che la cavalcata dei Vizi corrisponde ad una religione materiale, esteriore e
gestuale, quasi pelagiana, qual è quella dei cristiani
del XV secolo, e per questo non a caso viene lasciata cadere – con le sue immagini - dopo il concilio di
Trento.
42
Queyrières: Cavalcata dei Vizi (particolare).
Figlio d’arte (il padre Giorgio
decorò il protiro della chiesa
di San Bernardo di Ponti di
Pornassio), originario di Pieve
di Teco, attivo in Liguria nella
prima metà del XVI secolo
(dal 1499 al 1503 ebbe bottega a Genova con Francesco
Squarciafico), sembra avere
assorbito la lezione dei maestri piemontesi operanti in
zona, tanto che un critico
(Boggero) lo ha definito “piemontesizzato”. È autore della
Passione di Gesù che si trova
nella navata del santuario di
Nostra Signora delle Grazie a
Montegrazie (Imperia) e del
polittico (firmato Petrus Guidus pintor) di San Bernardino
nel santuario della Natività o
di Nostra Signora del Sepolcro a Rezzo, dove affresca
pure l’arco trionfale e nel
1515 “le immagini didascaliche del Giudizio col Paradiso,
del Purgatorio (quasi del tutto
scomparse), dell’Inferno con
una nuova cavalcata dei Vizi
e della serie dei Mesi, prezioso documento etnografico”
(Giacobbe). Nel 1537, sempre
a Rezzo, decora una cappella
dedicata alla Vergine Lauretana e l’oratorio dell’ospedale
(con una Crocifissione al di
sotto di un Cristo morto tra i
simboli della Passione e, negli
scomparti laterali, le immagini di Santa Margherita, San
Bernardino da Siena, Sant’
Antonio Abate, San Giovanni
Battista, San Francesco e
Santa Lucia). La sua firma
compariva sulla predella del
polittico dipinto nel 1490 dai
Biazaci: predella da lui evidentemente rifinita o rifatta
in un secondo momento.
3–
Non intendiamo qui soffermarci
sul valore estetico di queste opere,
che è piuttosto disuguale, perché,
accanto ad artisti di rango come Aymo
Dux, cui si deve la cavalcata affrescata
a Villafranca Piemonte, e ad altri frescanti non privi di una certa vena poe-
tica e narrativa come i fratelli Tommaso e Matteo Biazaci (o Biasiaci/Biasacci), originari di Busca e attivi a
Montegrazie nel santuario di Nostra
Signora delle Grazie, nella chiesa di
San Bernardino ad Albenga e altrove103,
o come Giovanni (Jean) Baleison di
97 A Villafranca l’abbraccia un diavolo e la scritta che l’accompagna dice:“E mi misera e trista: accida fazo
asse / e cativi: metua trista in mezo de li rei miser / a chi segue li costumi mei” (ibidem). Sugli affreschi di
Villafranca si veda pure O. SANTANERA, La pittura dal Duecento al Cinquecento, in AA.VV., Pittura a Villafranca
Piemonte attraverso i secoli, Cavallermaggiore 1992, pp. 11-18. Su Dux Aymo cfr. pure M. DI MACCO, Dux
Aymo, 1429, in E. CASTELNUOVO, G. ROMANO (a cura di), Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della
mostra, Torino 1979; E. ROSSETTI BREZZI, “Dux Aimone”, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLII, Roma
1993, pp. 240-241; N. GARAVELLI, Dux Aymo (1417-1444): ultime ricerche sui documenti d’archivio, in
“Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, LII, 2000, pp. 77-90.
98 M. MASSANO, M. L. MONCASSOLI TIBONE,Tre preziose cappelle. Bardonecchia da salvare, in “Piemonte vivo”,
n. 1, febbraio 1985, p. 32. Sugli affreschi della valle di Susa cfr. E. ROSSETTI BREZZI, La pittura in Valle di Susa
tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, in AA.VV., Valle di Susa. Arte e storia dall’XI al XVIII
secolo, catalogo della mostra, pp. 181-203.
99 KERVIN DE LETTENHOVE, Bruxelles 1866 : “un corteo rappresentante i sette peccati a cavallo e abbigliati secondo le loro proprietà” . Cfr. M. VINCENT-CASSY, Un modèle français cit., p. 467.
100 Lo schema della cavalcata non è l’unico a rappresentare il settenario dei vizi: oltre ai modelli psicomachici, vi sono, ad esempio, quello dell’albero, del carro, dei gradoni (o dei gironi), etc., che possono tuttavia attenersi a raggruppamenti più complessi e numerosi. Dopo il Concilio di Trento, anche in Italia si
imporrà lo schema catechetico Credo / Decalogo / Padre nostro: cfr. CASAGRANDE, S.VECCHIO, I sette vizi capitali cit., pp. 217 ss.
101 Su Pietro Guidi di Ranzo e gli affreschi di Rezzo, cfr.A. GIACOBBE, La valle di Rezzo. Panoramica storica
e presenze artistiche, 2o vol., Imperia 1993, pp. 247-261. Si vedano pure L. MAZZINO, G.V. CASTELNOVI, Il santuario di Montegrazie ad Imperia, Imperia 1967; F. BOGGERO, La pittura in Liguria nel Cinquecento, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 19882, I, p. 21; la scheda della De Floriani in G. ALGERI, A. DE FLORIANI, La
pittura in Liguria. Il Quattrocento, Genova 1991, p. 513 e la scheda di M. BARTOLETTI, in La pittura in Italia cit.,
p. 739.
102 Cfr. L.THÉVENON, Iconografia del diavolo cit., p. 26. La maggior parte delle cavalcate reperibili in Italia,
a cominciare da quella di Villafranca (riferibile alla prima metà del Quattrocento: cfr. N. GABRIELLI, Aimone
Duce cit., p. 85), è tuttavia del XV secolo o tutt’al più del primo Cinquecento, come quelle di Giaglione
(Susa), di Melezet, di Millaurès, di Salbertrand (P.TOESCA, Antichi affreschi cit., p. 59; A. M. BRIZIO, La pittura
in Piemonte dall’età romanica al Cinquecento,Torino 1942, p. 166) ; il ciclo di Leverogne è datato 1496: cfr.
ivi, pp. 167 e 169.
103 Sui Biazaci si vedano P. ROTONDI, Per Tommaso e Matteo Biazaci da Busca, in “Rivista Ingauna e
Intemelia”, XI, n. 1, 1956, pp. 24-26 e nn. 3-4, pp. 110-121; M. PEROTTI, Tommaso e Matteo Biazaci, in “Cuneo
Provincia Granda”, XII (1963), n. 4, p. 15; P. TORRITI, “Biazaci, Tommaso e Matteo”, in Dizionario biografico
degli italiani, IX, Roma 1968, pp. 301-302; M. P.ACQUARONE, Tommaso e Matteo Biazaci a Montegrazie e Piani
d’Imperia, in “Argomenti di storia dell’arte”, Genova 1980, pp. 87-93; F. CATALANO, I Biasacci di Busca e la
pittura tardogotica in Piemonte, in “Piemonte vivo”, 3, giugno 1980, pp. 43-47; M. PEROTTI, Cinque secoli di pittura nel Piemonte cispadano antico, Cuneo 1981, p. 99; E. ROSSETTI BREZZI, Percorsi figurativi in terra cuneese.
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Grana. Alcune annotazioni a margine della loro attività, in AA.VV., Valle Grana. Una Comunità tra arte e storia,
Caraglio 2004, pp. 103-130.
43
Andagna, cappella di S. Bernardo:
Cavalcata dei Vizi (particolare: la bocca del Leviatano).
Demonte e Giovanni Canavesio di Pinerolo104,
cui alcuni assegnano gli affreschi di San Fiorenzo
a Bastia Mondovì105, opera più probabilmente
dei fratelli Biazaci e di Giovanni Mazzucco106,
molti sono tuttora anonimi o si devono a pittori di modesta levatura. E poi il discorso delle
attribuzioni, delle committenze e delle date ci
porterebbe assai lontano, in un terreno troppo
ostico e spinoso.107 Preferiamo pertanto indugiare un po’ sugli esemplari a noi geograficamente più vicini, che sono quelli di San Rocco a
Mombarcaro e il frammento testé scoperto (e
segnalato) nella chiesa della Madonna del
Carmine a Prunetto.108
Gli affreschi di Mombarcaro si devono ad
Antonino Occello da Ceva, attivo nel 1532 nella
cappella del castello di Monesiglio e l’anno
prima a Mondovì nella cappella del Buon Gesù.
In precedenza, nel 1523, aveva dipinto la parrocchiale di San Pietro a Mombarcaro, dove con
tutta probabilità nella stessa occasione affrescò
pure la cappella di San Rocco. Nella cavalcata dei
Vizi, che muove da dritta verso manca, sulla
parete sinistra, si nota la successione canonica: il
corteo è aperto dalla Superbia rossovestita, con
la spada in pugno, in groppa ad un fulvo leone;
subito dopo viene l’Avarizia, che cavalca un
levriero rosicchiante un osso, seguita a sua volta
dalla Lussuria su di un caprone: la donna si specchia compiaciuta nella rotonda sfera che regge
con la destra, mentre con la sinistra solleva
maliziosa la gonna sulla gamba calzata di rosso
Mombarcaro, cappella di S. Rocco:
affreschi (con Cavalcata dei Vizi).
Aymo Dux
Formatosi a Pavia al tempo di
Gian Galeazzo Visconti,
diventa pittore di corte al servizio di Ludovico d’Acaja. A
Pinerolo, tra il 1316-1317 esegue un imprecisato lavoro per
il “castello nuovo” voluto da
Filippo d’Acaia. Nell’autunno
del 1317 Ludovico lo invia
cum litteris a Milano. Nel
1418 il governatore d’Ivrea gli
commissiona la realizzazione
delle insegne di Amedeo VIII
per il corteo funebre del marchese Teodoro II di Monferrato. Nel 1422 il pittore - de
Papia ma abitante a Ivrea viene retribuito per un dipinto (purtroppo perduto) nel
duomo di Ivrea, mentre nel
1429 lavora nella chiesa di
Santa Maria Assunta a
Macello. Non lungi di qui, a
Pinerolo, in località Baudenasca, è registrato il 27 aprile
1433 come magister. Tra il 19
e il 23 maggio 1444 paga una
taglia di dieci denari grossi
per alcune proprietà (probabilmente una casa) nel frattempo comprate in Pinerolo.
Dopo tale data, di lui non si fa
più menzione. Suoi sono gli
affreschi nella cappella di
Missione di Villafranca Piemonte, databili al terzo/ quarto decennio del Quattrocento,
ma tracce della sua attività
sono state riscontrate anche a
Pavia. Qualcuno infine ha
visto la sua mano nella sala
baronale del castello della
Manta. Certamente suo è l’affresco con il Martirio di San
Sebastiano che si trova a
Pianezza nella chiesa di San
Pietro.
Rielaborazione al computer della Cavalcata dei Vizi (cappella dei S. Rocco a Mombarcaro) a cura di P. Friggeri.
fino al ginocchio.Al centro, su di una pecora (o una scimmia?) fornita di collare,
avanza l’Invidia, tutta vestita di rosso, che appunta malevola l’indice sul prossimo.
La Gola è rappresentata da un uomo, in arcioni su un porco selvatico, che beve
da una botticella. L’Ira, in groppa ad una lupa, si appresta a piantarsi un pugnale
nel petto appositamente scamiciato. Chiude la sfilata, al solito, una sciatta Accidia
su di un asino che procede indolente, a testa bassa, strigliato da un diavolo che
l’incalza.All’estremità sinistra un altro diavolo scuro gli fa da pendant afferrando
e tirando la catena che lega tra loro, al collo, i Vizi, per affrettarne l’inabissamento
tra le fauci spalancate del Leviatano.
La cappella doveva essere accessibile alla gente del popolo e ai pellegrini di passaggio, giacché da un lato vi troviamo raffigurati alcuni santi molto popolari
104 Sul Canavesio si vedano A. TARAMELLI, Gli affreschi del Canavesio in S. Bernardo di Pigna, in “L’Arte”,
1900, p. 168; G. BRÈS, Brevi notizie inedite di alcuni pittori Nicesi, p. 9, Nizza 1906; E. PACCHIAUDI, Il Santuario
di Nostra Signora del Fontano, Bordighera 1912; G. BOREA, Les fresques de Jean Canavesi au sanctuaire de
Nôtre-Dame de Fontan à la Briga, in “Annales de la Société des lettres, sciences et arts des Alpes
Maritimes”, Nizza 1914-1915; M. FULCHERI, Giovanni Canavesio, Torino 1925; L. REGREZZA, Gli affreschi nel
Convento dei Domenicani in Taggia: Giovanni Canavesio da Pinerolo, in “Comune di Genova”, febbraio 1927, p.
127; L. IMBERT, La chapelle de la Madonne des Fontaines à la Brigue et ses fresques, in “Nice Historique”, 1950;
E. BREZZI, Precisazioni sull’opera di Giovanni Canavesio: revisioni critiche, in “Atti della Società Piemontese di
Architettura e Belle Arti”, 1964; G. ROMANO, ad vocem, in Dizionario biografico degli italiani, XVII, Roma 1974,
p. 728; P. BENOÎT AVENA, Simbolica storia e sapienza degli affreschi della Cappella Nôtre-Dame des Fontaines, La
Brigue 1980; IDEM, (a cura di), Nôtre-Dame des fontaines: la Cappella Sistina delle Alpi Marittime, Borgo San
Dalmazzo 1989; G. ALGERI, A. DE FLORIANI, La pittura in Liguria cit. pp. 499-500.
105 Cfr. P. FRIGGERI, La cappella di S. Rocco a Mombarcaro, Moretta, s. d.; L. GALLARETO,A. PREGLIASCO, Antichi
affreschi gotici e monumenti rinascimentali di Langa, in G. L. BECCARIA, P. GRIMALDI, A. PREGLIASCO (a cura di),
Langhe e Roero. Le colline della fatica e della festa. Storia Arte Tradizione,Torino 1995, pp. 76-77.
106 Cfr. L. BERRA, L’Inferno pittorico della chiesa di San Fiorenzo di Bastia, in “Cuneo – Provincia Granda”,V,
3 (1956), pp. 31-40; IDEM, S. Fiorenzo di Bastia, in “Comunicazioni della Società di Studi storici, archeologici
ed artistici per la Provincia di Cuneo”,VI (1934), pp. 7-15. Cfr. anche G. C. CHIECHIO, La Chiesa di S. Fiorenzo
di Bastia; Cuneo 1887;A. GRISERI, Jaquerio e il realismo gotico in Piemonte,Torino 1966, pp. 96 ss.; G. RAINERI,
Antichi affreschi del Monteregale, Cuneo 1965; IDEM, Ricerche iconografiche, in “Bollettino della Società di
Studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo”, 1966, n. 55, p. 103; N. CARBONERI, Antologia
artistica del Monregalese, Milano 1970, pp. 22-23; G. RAINERI, Gli affreschi di S. Fiorenzo di Bastia e la pittura
murale gotica nel Monregalese, in “Bollettino della Società di Studi storici, archeologici ed artistici della
Provincia di Cuneo”, 1971, n. 65; S. BAIOCCO, S. CASTRONOVO, E. PAGELLA, Arte in Piemonte. Il Gotico, Ivrea
2003, pp. 119-120. Ma si vedano soprattutto A. GRISERI, G. RAINERI, San Fiorenzo in Bastia Mondovì, Bastia
Mondovì 1975;W. CANAVESIO (a cura di), Jaquerio e le arti del suo tempo,Torino 2000. Su Giovanni Mazzucco
cfr. A. BAUDI DI VESME, Schede Vesme. L’arte in Piemonte, IV, Torino 1963-1982 e in particolare E. ROSSETTI
BREZZI, Percorsi figurativi cit., pp. 111-112 e G. GALANTE GARRONE, Il recupero di una Madonna del Cinquecento,
in G. GALANTE GARRONE, G. REVIGLIO DELLA VENERIA, La cappella di San Paolo a Mondovì Carassone, Torino
1986, p. 42, nota 11.
107 Il ruolo dei pittori era comunque ben delimitato. Negli atti del secondo concilio di Nicea si legge,
fra l’altro: Non est imaginum structura pictorum inventio, sed ecclesiae catholicae probata legislatio et traditio
[…] consilium et traditio ista non est pictoris (eius enim sola ars est), verum ordinatio et dispositio patrum sanctorum [“La struttura delle immagini non va lasciata all’inventiva dei pittori, ma è riservata alla tradizione e
alla comprovata legislazione della Chiesa cattolica … Codesta composizione, nella sua elaborazione narrativa, non è di pertinenza del pittore (cui spetta solo la tecnica), bensì dei santi padri”] (cfr. G. D. MANSI,
Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Firenze 1757-1798, XIII, p. 672).
108 La scoperta è merito di Piero Friggeri, che ne ha dato notizia in un articolo sull’ “Unione
Monregalese” del 4 gennaio 2001: cfr. P. FRIGGERI, Scoperto a Prunetto un simbolo del cristianesimo medievale.
Lo stesso autore ci ha recentemente comunicato per telefono l’individuazione di un’ulteriore cavalcata
dei Vizi a Lesegno, nell’oratorio di San Sebastiano.
45
Giovanni
Baleison
Nato a Demonte, fece il suo apprendistato a Saluzzo, forse alla scuola di Pietro da
Saluzzo, ma è nel palazzo vescovile di
Albenga, tra il 1459 e il 1466, che troviamo precise testimonianze della sua attività di pittore (Storie della Rivelazione).
Forse è tra i collaboratori del frescante
dell’ex oratorio di San Michele a Serravalle Langhe (1450-1460). Dipinge poi
a Marmora nella cappella di San
Sebastiano e quindi, tra il 1475 e il 1490,
affresca Nôtre-Dame des Fontaines a La
Brigue con il Canavesio, suo compagno di
lavoro anche nella cappella di San
Sebastiano a Saint-Étienne-de-Tinée. Lo
ritroviamo in seguito (1480) a Lucéram,
dove decora la cappella di Saint-Grat e
quella di Nôtre-Dame de Bon Coeur. Nel
1481 si sposta a Venanson, dove firma gli
affreschi di San Sebastiano, prima di trasferirsi a Celle di Macra per dipingervi la
cappella. Del 1486 è la Madonna col
Bambino raffigurata a Stroppo in Val
Maira, sulla facciata di casa Sartorio.
Qualcuno gli assegna pure gli Evangelisti di Villar San Costanzo.
come Sant’Antonio Abate, San Sebastiano e San Rocco (santi taumaturghi e protettori contro le epidemie degli uomini e del bestiame) e
dall’altro, in posizione centrale, vi è
rappresentato il miracolo di Santo
Domingo della Calzada (o di Tolosa)109, con San Giacomo che sorregge e salva un giovane pellegrino
diretto a Santiago de Compostela e
impiccato dal governatore della città perché accusato a torto di un furto all’osteria. Ora, è questo un miracolo legato al
culto jacopeo e al pellegrinaggio devozionale che aveva per meta la Galizia o, in
direzione opposta, Roma. La cappella,
situata all’uscita del paese, su una via di
notevole transito, fu più volte adibita a
lazzaretto: pertanto i fedeli che vi stazionavano o che vi trascorrevano davanti
potevano facilmente leggervi, al di là dei
richiami devozionali, un invito a meditare
sulle conseguenze rovinose del peccato, a
fare un accurato esame di coscienza e a
prepararsi in tal modo alla confessione.
Le pitture parlavano in maniera immediata e comprensibile al cuore e alla coscienza degli idioti e dei semplici che ignoravano la scrittura: erano il loro linguaggio, il
loro rudimentale catechismo.
Attribuibile allo stesso pittore cevano è il
frammento superstite di Prunetto, che si
annida in basso, a destra dell’entrata, nella
chiesa della Madonna del Carmine, sontuosamente illustrata dagli affreschi tardoquattrocenteschi di Segurano Cigna da
Vicoforte.110 Ebbene, in questo scrigno di
pitture, al posto del velario, si scorge, sia
pure mutilo e sbiadito, un esemplare della
Lussuria che sembra fedelmente ricalcare
l’immagine già vista a Mombarcaro: su uno
sfondo stampigliato a fiorami, la stessa
donna, nella stessa positura, con la catena
che le avvince il collo. Il medesimo volto
tondeggiante, la chioma acconciata in
maniera analoga. Manca il caprone, ma la
disposizione della gamba sinistra e del
Bessans, chapelle
Saint’Antoine:
Cavalcata dei Vizi (si noti la
Lussuria con il tipico
cappello a cono o hennin).
Prunetto, chiesa del Carmine:
residuo di Cavalcata dei Vizi. Foto di P. Friggeri.
fondoschiena della Lussuria lasciano intuire la
presenza – ora purtroppo svanita – di una
simile cavalcatura.
Resta da capire perché questo modello catechetico sia rimasto confinato all’area alpina e
alle sue propaggini collinari111, senza interessare – almeno da noi in Italia – le regioni di pianura, dove invece si diffusero modelli iconografici alternativi, quali, ad esempio, i “Trionfi
della Morte” e le “Danze macabre”.112 Maggiore apertura (e adesione) a influenze culturali
nordiche da parte dell’area padana e di quella
centroitaliana? O persistenza, in queste stesse
aree, di un’eredità pagana contaminata dal
messaggio salvifico di Cristo?113 Difficile dare
una risposta soddisfacente, anche se la fortuna
della cavalcata dei Vizi nel Monregalese, ad
esempio, si può in parte spiegare con la diffusione in loco di libri come l’Aesopus moralisatus
e l’Albertus Magnus, Libellus de natura animalium, con riproduzioni xilografiche di animali e
di contadini non troppo diversi da quelli che
vediamo negli affreschi di Bastia.114
109 Cfr. JACOPO DA VARAGINE, Leggenda aurea, Firenze 1984, I, p. 416.
110 Cfr. M. P. COSTA PIROVANO, Prunetto. Santuario della Madonna del Carmine. Itinerario storico-artistico,
Mondovì 1999.
111 Fanno in parte eccezione le cavalcate di Grosso Canavese (cappella di San Ferreolo) e quella di
Villafranca Piemonte (cappella di Missione), comunque di area piemontese, lontane dal confine lombardo.
Le uniche tre regioni italiane interessate dal nostro modello iconografico sono – lo ribadiamo – la Liguria,
il Piemonte, la Valle d’Aosta: un’area tutto sommato culturalmente e geograficamente omogenea, come
attestano fra l’altro i versi di un poeta provenzale che si rivolge ad un amico piemontese: Ami, nósti parla
soun tóuti dous roman; / Poudèn nous dire fraire e nous touca la man: / Toun Po, ma miéu Durènço, / Na tóuti
dous d’un soulet mount, / Van abéura, l’un lou Piemount / E l’autro la Prouvènço [“Amico, le nostre favelle sono
ambedue romanze, / possiamo chiamarci fratelli e toccarci la mano: / il tuo Po, la mia Durance, / nati ambedue da uno stesso monte, / vanno ad abbeverare l’uno il Piemonte, / l’altra la mia Provenza”: cfr. E. PORTAL,
Antologia Provenzale, Milano 1911, p. 181 e C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., pp. 58-59. Sulla chiesa di
San Ferreolo cfr. A. BELLEZZA PRINSI, La chiesa romanica di San Ferreolo a Grosso Canavese, in “Bollettino
Parrocchiale di La Langa di Poirino”, maggio 1966;A. CAVALLARI MURAT, Lungo la Stura di Lanzo,Torino 1972,
pp. 95-96; L. BARRA, Il corteo dei vizi e delle virtù nella cappella di san Ferreolo: storia e attualità, tesi di laurea,
Istituto Superiore di Scienze Religiose, Torino, a. a. 1998-1999, relatore R. GAMERRO. Ringraziamo l’amico
Lionello Archetti Maestri per il cortese aiuto.
112 Esempi di danza macabra non mancano, però, nemmeno nell’area interessata dalle cavalcate dei Vizi:
si veda, ad esempio, “il ballo sfrenato cui deve sottomettersi un chierico indegno in balia di due scheletri
che lo affrerrano per le mani” (M. PEROTTI, Repertorio dei monumenti artistici della provincia di Cuneo, vol. 1/c,
Territorio dell’antica Marca saluzzese, quaderno n. 32, p. 293, Cuneo 1980) nella chiesa della Consolata a
Saluzzo; ma più famosa ancora è la danza affrescata sulle quattro pareti della cappella di San Pietro a
Macra, dove non vediamo solo un “nutrito assortimento” di personaggi (re, vescovi, monaci, dignitari, borghesi, uomini e donne comuni), ma anche l’ “irridente sceneggiata degli scheletri, che assumono gli atteggiamenti dei danzatori più festaioli, fino alla comica dello scheletro che, danzando sui trespoli, fa l’inchino
quale estremo sberleffo ai vizi e alle colpe di tutti quei personaggi, che così vengono accompagnati al loro
tragico destino” (C. A. GALIMBERTI, Le radici dell’arte cit., p. 107).
113 Sull’origine delle “Danza macabra” e del “Trionfo della Morte” non c’è accordo tra gli studiosi che
- a cominciare da J. HUIZINGA, L’autunno del Medioevo, Firenze 1940 - se ne sono occupati, anche se, a dire
di È MÂLE, L’art religieux en France à la fin du Moyen Âge, Paris 1922, p. 362, a ideare in Europa le danze macabre furono i francescani.
114 A stampare il primo fu de Vivaldis (Mondovì 1476), mentre il secondo (Mondovì 1508) fu edito dal
Berruerio: cfr. A. GRISERI, Jaquerio cit., nota 120 alle pp. 132-133.
47
Tommaso e Matteo Biazaci (Biasacci):
Sono due fratelli nativi di Busca, attivi fra
Piemonte e Liguria nel trentennio che va dal
1465 al 1495. Lavorano dapprima a Marmora
nella parrocchiale dei Santi Giorgio e
Massimo (le figure di San Gregorio, San
Martino e San Francesco che riceve le stigmate sono accompagnate da un’iscrizione in volgare: “Facendo male e sperando bene / il
tempo passa e la morte viene. / MCCCCLIX
Thomas de Buscha pinxit”) e a Savigliano,
alla torre dell’orologio, subendo l’influenza
dell’ambiente figurativo monregalese, in particolare di Antonio da Monteregale. A Savigliano, dove tornerà di frequente, Tommaso
risulta domiciliato nel 1465. Qui i Biazaci
dipingono la Vergine e San Giovanni Battista
in preghiera, oltre a una pregevole Madonna
col Bambino e un Cristo in gloria, nella chiesa di San Giovanni Battista. Affrescano quindi (ma per alcuni si tratterebbe di opere più
tarde, degli anni novanta) la cappella di Santo
Stefano e quella di San Sebastiano a Busca,
nonché una casa in Valgrana (facciata dell’ospizio della Trinità). A Caraglio dipingono la
cappella alla base del campanile nella chiesa
di San Giovanni. Thomas de Biazacijs firma
alcuni affreschi nella cappella di San Pietro a
Macra. Di qui si spostano entrambi nella
Valle Varaita (cappella dell’Annunziata a
Chiot-Martin). A Sampeyre, nella parrocchiale, i due fratelli dipingono (prima del 1474) le
Storie dell’infanzia di Cristo, ma sono attivi
pure nel convento di San Bernardino ad
Albenga e, a cominciare dal 1483, nel santuario di Nostra Signora delle Grazie a
Montegrazie, in provincia di Imperia, dove
affrescano dapprima i cicli delle Virtù e dei
Vizi e in seguito le Storie della vita del
Solva di Alassio, chiesa dell’Annunziata:
particolare della Cavalcata dei Vizi: la Lussuria.
Battista. A Tommaso, autore di una tavola
(Madonna col Bambino in trono, 15 settembre
1478) conservata nella Galleria di Palazzo
Bianco, a Genova, è pure attribuita l’Annunciazione dell’oratorio di Santa Croce e San
Bernardino di Diano Castello. Secondo alcuni
studiosi, è dei Biazaci la Cavalcata dei Vizi di
Solva, nelle vicinanze di Alassio, e forse anche
l’Annunciazione di Andagna, pur non essendoci riscontri documentari inoppugnabili.
All’ultimo ventennio del secolo risalgono gli
affreschi realizzati a Cuneo nel santuario
della Madonna degli Angeli e forse anche la
decorazione della cappella angioina di Borgo
San Dalmazzo. Il 15 settembre 1488
Tommaso firma le pitture del santuario
dell’Assunta ai Piani d’Imperia. In seguito gli
artisti affrescano sia l’Assunta sulla facciata
della parrocchiale di Rossana sia la Pietà
all’esterno della chiesa di San Giuliano a
Savigliano. Un polittico degli anni novanta
ripropone l’iconografia mariana del 1478, “ma
aggiornata sulla cultura rinascimentale lombarda di Giovanni Mazone” (CotturaRomanello). Aggiornato sui modelli lombardi
è altresì il trittico quasi coevo della Madonna
in trono con angeli tra San Giovanni Evangelista e Santo Stefano che si conserva a
Palazzo Bianco. Ai primi anni novanta è poi
riferibile la Madonna col Bambino affrescata
nella pieve di Santa Maria a Beinette, probabilmente prima che i due artisti tornino a
decorare la parrocchiale di Sampeyre (Scene
della vita di Cristo, Crocifissione, Suicidio di
Giuda, Deposizione) con soggetti chiaramente
ispirati a Canavesio. Tommaso firma infine
nel 1504 il ciclo affrescato nella parrocchiale
di Santa Margherita a Casteldelfino.
Giovanni Mazzucco
È nominato a Mondovì in un contratto della seconda metà del XV
secolo, dove si definisce la collocazione degli affreschi nella perduta chiesa di San Francesco. Un altro documento di Aix-enProvence nomina il pittore come padre di Domenico. Nel 1477
firma e data gli affreschi della chiesa di San Domenico in
Peveragno, ma suoi sono pure quelli – meglio conservati – nella
casa dei frati (convento dei domenicani) a Roccaforte Mondovì.
Del 1491 è il ciclo – già firmato – nel santuario della Madonna del
Bricchetto, presso Morozzo. Firmati e datati (1481) sono pure gli
affreschi nella cappella del Santo Sepolcro a Piozzo. Gli viene infine attribuito il trittico della cappella di San Pietro in Roncaglia a
Benevagienna. Questo pittore “monopolizzò l’ambiente artistico
monregalese nell’ultimo quarto del XV secolo, con modi che, nell’ultima fase della sua attività, diventano sempre più ripetitivi”
(Cottura-Romanello).
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Zurigo-Nuova York 2002 (ed. or. Lipsia 1840).
Giovanni Canavesio
Estroso e geniale prete-pittore, nato
con tutta probabilità a Pinerolo tra il
1425 e il 1430. Qui un documento del
1450 lo menziona infatti come Magister
Johannes Canavexii pictor e lui stesso,
a La Brigue, nella cappella di NôtreDame des Fontaines, si firmerà de
Pinarolio; e poi, in un polittico di Albenga, per esteso Johannis de Canavexiis de Pinayrolo pinctor. Lascia traccia di sé negli affreschi della cappella di
San Bernardino a Lusernetta, dove
però si dispiega soprattutto il talento
pittorico di Jacobino Longo. Ad Albenga, dove soggiorna nel 1472, dipinge una Maestà con San Giovanni, la
Crocifissione nel palazzo comunale e
infine l’insegna araldica sulla facciata
dell’episcopio. Del 1482 è la Crocifissione nella sala capitolare del convento
di Taggia. A Pigna rappresenta le
Storie della Passione, gli Evangelisti e
un Giudizio universale in San
Bernardo. Nel 1491-92 lo troviamo
quindi a La Brigue dove, oltre a eseguire una bella Madonna e Santi, affresca la cappella di Nôtre-Dame des
Fontaines con quello che è il suo capolavoro (datato 12 ottobre 1492): le
Storie della Passione e il Giudizio universale. Nel 1499 firma un polittico
oggi conservato a Verderio Superiore,
ma eseguito per San Dalmazzo a
Pornassio, dove nel registro principale
si vedono la Madonna col Bambino in
trono fra i santi Giovanni Battista,
Dalmazio, Michele e Pietro; in quello
intermedio i Dottori della Chiesa; in
quello superiore la Crocifissione fra le
sante Caterina da Siena, Caterina
d’Alessandria, Agata e Lucia; nel pilastrino sinistro i santi Lazzaro, Stefano,
Nicola, Tobiolo e Antonio Abate; in
quello destro i santi Martino, Lorenzo,
Maddalena, Sebastiano e Bernardo da
Mentone; nella predella scene dell’Infanzia di Cristo, tra i profeti Isaia e
Ezechiele. Per la chiesa di San Michele
a Pigna nel gennaio 1500 dipinge un
polittico. Col Baleison passa poi in
Francia, dove, oltre agli affreschi di
San Sebastiano a Sain-Étienne-deTinée, decora con le Storie della Passione la cappella di Nôtre-Dame des
Douleurs a Peillon.
La chiesa di
Sant’Antonio
Abate
in Acqui
di Mariangela Caramellino
Nella città di
Acqui il culto di
Sant’Antonio Abate
è molto antico, e la
sua attuale chiesa ha una
storia ricca di avvenimenti che
ne fanno parte integrante, e quindi si ritiene
debbano essere conosciuti, anche se in estrema sintesi.
Forse non tutti sanno che in epoca medievale la chiesa dedicata a
questo Santo era situata in via alla Bollente: nelle sue vicinanze era
eretto uno degli ospedali più antichi della città, detto “Ospedale
Sant’Antonio De Balneo”, nel quale venivano ricoverati e curati i
poveri infermi bisognosi delle acque termali. Sul fine del XIV secolo questo ospedale si chiamò Hospitale verberatorum (ospedale dei
feriti). Già anticamente il Santo era venerato in diverse parti del
mondo e vicino alle chiese a lui dedicate venivano spesso costruiti degli ospedali.
Nel libro Antichità e Prerogative D’Acqui Staziella (la prima edizione
risale al 1818-20), scritto da Guido Biorci, si legge, fra l’altro, che
“nella chiesa di Sant’Antonio fu eretta la Confraternita dei Di-
50
sciplinanti verosimilmente sul fine del
14° secolo, cioè cent’anni dopo che
queste confraternite cominciarono ad
introdursi in Italia”: testimonianza questa della varia e fervida attività religiosa di quel luogo in quell’epoca. Anche
nel libro Storia della Famiglia Caratti,
edito a Novate Milanese nel 1988, si
legge che “nel 1300 sorge ad Acqui la
Confraternita di S. Antonio, detta anche dei Disciplinanti. Questa antica
Confraternita officiava nella chiesa di
S. Antonio che sorgeva un tempo sull’odierna via Bollente, anticamente Via
dei Calderai o di S.Antonio, dalla parte
del Corso Italia, all’altezza dell’ideale
confluenza del prolungamento dell’attuale via Carducci con via Bollente”.
Nella Pianta dimostrativa in misura della
Città di Acqui, il cui originale si trova
nell’Archivio di Stato di Torino1, datata
10 Dicembre 1823, si vede chiaramente che la chiesa era situata sulla via alla
Bollente e confinava su due lati con le
case del Ghetto degli Ebrei, mentre
dall’altro lato si intravede un passaggio
con relativo isolato che portava dritto
sulla contrada nuova, di fronte all’attuale via Carducci: questo conferma
quanto viene scritto nel libro della
famiglia Caratti, sopra citato. Proseguendo per via alla Bollente verso la
salita del Duomo, nelle immediate vicinanze del “passaggio con relativo voltone”, erano ubicati edifici pubblici,
come sotto sarà precisato.
Nel suddetto documento la chiesa
veniva identificata con il n. 17 e con la
seguente dicitura: “Chiesa di Sant’Antonio, ora magaz[en]o di legna, con
voltone verso la Contrada Nuova, che
dà l’accesso alla contrada di S. Antonio...”. La “Contrada nuova”, identificata con il n. 21, corrispondeva all’at1
tuale Corso Italia. La piazza, dove si
trova la “Fontana dell’acqua bollente”,
allora era denominata Piazza del
Ghetto, e tutto intorno erano situate
le case degli Ebrei.
Nei primi anni dell’Ottocento la chiesa fu abbandonata e le confraternite
furono costrette a cambiare sede:
quella di Sant’Antonio, alla quale sul
finire del ’500 era stata aggregata
parte della Confraternita di Sant’Ambrogio, andò ad officiare nella chiesa di
San Paolo, già dei Barnabiti (di questo
argomento si parlerà più avanti).
Nell’area primitiva della chiesa venne
eretto il palazzo del Tribunale. Nel
corso delle ricerche si è scoperto che,
dove attualmente è situata la Procura
della Repubblica, all’uscita di Via alla
Bollente, è visibile sul muro, al di sopra
delle colonne e del cancello, parte di
una scritta che può essere interpretata e ricostruita con:“Civile Tribunale”.
Dalla Pianta dimostrativa in misura della
Città di Acqui, sopra citata, gli edifici
confinanti con il suddetto cancello
vengono identificati con i n. 18 e il n.
19.Al primo numero corrispondeva la
“Casa dell’Ill.ma Città serviente per il
tribunale di Prefettura”, al secondo
numero, la “Casa dell’Arcipretura e di
diversi altri Particolari”.
La storia della chiesa e quella dell’ospedale ad un certo punto si dividono.
Il Biorci scrive: “le memorie che si
hanno dell’Ospedale vanno sino al
1445”. La storia della chiesa, intesa
come luogo di culto, continua invece
fino agli albori del XIX secolo, e poi
passa all’attuale sito.
Durante l’occupazione nel tempo
napoleonico, i Francesi si appropriarono anche della chiesa di San Paolo, oggi
di Sant’Antonio, e la adibirono ad usi
Archivio di Stato di Torino, materie ecclesiastiche, cat. 37, ebrei, mazzo 5.
51
Particolare della controfacciata.
Sulla tribuna l’organo Agati 1837.
basso reddito sono nella possibilità di
fare una spesa simile. In questa circostanza il Sig.Vescovo ha creduto a
proposito di trasferire alla detta chiesa di S. Paolo la Confraternita, esistente nella stessa città sotto il titolo
di S. Antonio Abate, la quale avrà un
oratorio proprio. Di buon grado se si
trasferiranno in detta chiesa di San
Paolo, si impegneranno di fare le riparazioni e le spese necessarie per lo
svolgimento del culto […]”2.
Da questo periodo storico ha inizio
l’attività religiosa nella sede attuale.
militari. Il 17 Maggio 1809 le autorità
francesi scrivono al vescovo della città
comunicando le intenzioni di S.A. il
Principe Ministro della Guerra in relazione alla suddetta chiesa: “[…]
Conformemente alla decisione di
S.A. il Principe Ministro della Guerra
fu alla data dell’11 giugno 1807 rimessa per l’esercizio del culto al Sig.
Vescovo la chiesa detta di S. Paolo
nella città di Acqui. Siccome questa
Chiesa è stata in passato per lungo
tempo adibita ad usi militari, si trova
di conseguenza in uno stato di decadimento, e le riparazioni superano la
somma di 3900 Frs. I numerosi abitanti del quartiere della città, i quali
necessitano assolutamente di questa
chiesa, non possono, causa la loro
miseria, spendere una tale somma, né
il Comune, né il Vescovo a causa del
2
52
Come scrive Geo Pistarino nel testo
intitolato Antiche Contrade di Acqui
della Rivista di Storia Arte Archeologia per le Province di Alessandria e
Asti:“[…] Acqui municipale romana e
città vescovile medievale sono in
realtà due entità tra loro distinte sul
piano urbanistico, sociale, culturale,
etico-religioso, addirittura territoriale”[…], e: “La città altomedievale si
limitò, nel suo nucleo essenziale, all’odierno borgo o terziere della Pisterna”[…]. “Ad Acqui fu dunque lo
spazio a monte della “Bollente”, fino
all’odierna piazza della Conciliazione
(progressivamente inclusa), il nucleo
più antico della città, risalente nella
sua configurazione demica all’alto
medioevo”.
In questo suggestivo borgo, e più precisamente sulla piazzetta M. D’Azeglio, si affaccia la chiesa dedicata a
Sant’Antonio Abate. Come scrive
mons.Galliano nel suo libro Acqui
Terme e dintorni, essa sorge nel cuore
della vecchia Pisterna e ne è un po’ il
simbolo. Nella città sono molte le
Archivio Vescovile di Acqui Terme, fald.37, cap.B, foglio 20, lettera originale in francese.
persone che ancora ricordano quan- San Paolo ed ex Convento”). In queto amore e devozione ha ispirato sto luogo, sede di confraternite e
questa chiesa nei tempi passati: il congregazioni, venivano celebrate
luogo, fulcro della vita nell’età medie- funzioni religiose diverse, in commevale, è stato, in un passato più recen- morazione di Santi ed in particolare
te, zona “aristocratica”, abitata dalle della Madonna del Carmine.
famiglie dei nobili e delle persone più Nella Sacrestia sono stati ritrovati dei
influenti della città.
libretti stampati in Acqui nel 1903
Della chiesa parlano Gianni Rebora dalla Tipografia vescovile P. Righetti. In
nella sua Guida storico - artistica - Una copertina si legge:“Regolamento delfinestra sulla città e
Mons. Giovanni Galliano, già citato, nel
suo libro Acqui Terme e
dintorni.
Anche nel volume Il
Centro Storico di Acqui
Terme, promosso dal
Comune di Acqui e
curato da Alberto
Pirni, edito nel 2003
dall’editore De Ferrari, vengono riportati fatti ed avvenimenti che hanno
Particolare della volta: Glorificazione della croce e dell’Eucarestia, affresco del XIX secolo
interessato la chiesa,
attribuito a Pietro Maria Ivaldi detto “il Muto”.
e viene dato particolare risalto al patrimonio artistico in la Confraternita del Carmine detta
essa contenuto. Nello stesso libro delle Carmelitane, canonicamente
viene pubblicato il resoconto delle eretta in Acqui nella Chiesa di S. Anristrutturazioni con riferimenti al gra- tonio Abate con Rescritto della S.
voso impegno economico.
Congregazione in data 18 Giugno
Inoltre, alla fine degli ultimi anni ’90, 1885, eseguito da S. E. Monsignor
sull’argomento sono state fatte alcu- Vescovo della Diocesi con decreto in
ne ricerche, dettagliate e cronologi- data 27 Giugno 1885”.
che.
L’articolo 1° del suddetto regolamenPur essendo più antica, la chiesa ha to recita: “È istituita in Acqui, nella
assunto l’attuale denominazione sol- chiesa di S. Antonio Abate, sotto il
tanto dai primi anni dell’800 (1809- titolo di N. S. del Carmine e sotto la
12), quando la Curia Capitolare di speciale protezione di S. Teresa, una
Acqui cede ai confratelli di Sant’An- pia congregazione di donne e figlie
tonio l’uso della chiesa di San Paolo, cattoliche, che unite in spirito algià sede dei Chierici Regolari di San l’Ordine Carmelitano cercheranno,
Paolo, più comunemente detti nella pratica delle cristiane virtù e
“Barnabiti” (il suo attuale epiteto è nell’osservanza del presente regola“Chiesa di Sant’Antonio Abate, già mento, di rendersi vere e degne figlie
53
di Maria V. del Carmine e di S.Teresa”.
L’articolo 21 recita: “Le due feste
principali della confraternita sono
quella di N. S. del Carmine e quella di
S.Teresa. Solennizzando già quella del
Carmine nella stessa chiesa, sarà
impegno delle Consorelle di solennizzare quella di S. Teresa colla maggior pompa possibile, preceduta da
divota novena, con panegirico, processione e benedizione nel giorno
solenne, ma più particolarmente dalle
stesse consorelle colla comunione
generale e con esercizi di pietà.
Saranno parimenti celebrate con
qualche distinzione le feste di S.
Giuseppe Patrono speciale dell’Ordine Carmelitano, di S. Giovanni della
Croce primo compagno di S. Teresa,
che corre ai 24 novembre, e di
Simone Stock che ricevette da Maria
lo scapolare al dì 16 Maggio”3.
Sant’Antonio Abate
Sant’Antonio il Grande4, abate, nacque nel 251 a Coma sulla riva occidentale del Nilo da genitori cristiani
di condizione assai agiata. Giovanissimo si sentì chiamato ad una vita di
preghiera e solitudine. Rimasto orfano a soli 18 anni, si ritirò in luoghi
desertici dell’Egitto dove attirò un
numero sempre crescente di visitatori, specialmente di quelli che desideravano seguirne l’esempio. Questo lo
indusse ad aprire il suo ritiro, che nei
dintorni si popolò di eremiti, dei quali
Sant’Antonio divenne padre e maestro. Non mancò di correre a soccorso e conforto dei Cristiani durante le
persecuzioni di Massimino (a. 311) ad
Alessandria e, ritornata la calma, riprese le sue austerità isolandosi del
tutto presso il Mar Rosso. Morì nel
356 all’età di 105 anni: sin dal secolo V
la tradizione liturgica fissava il giorno
della sua morte al 17 gennaio.
La vita di Sant’Antonio fu un tessuto
di prodigi e di lotte col demonio che
lo resero uno dei Santi più popolari
dell’antichità. Prese viva parte alle
vicende della Chiesa in Egitto, ma
l’importanza maggiore del Santo è
dovuta alla vita eremitica, che sotto il
suo influsso assunse un nuovo indirizzo, quello cioè della costituzione
delle comunità eremitiche. Fu venerato anche dalla Chiesa greca, ma fu in
Occidente che il culto di Sant’Antonio prese grande sviluppo nel
medioevo. Egli divenne il Santo del
popolo, al quale si faceva ricorso nelle
epidemie, specialmente contro
l’Herpes Zoster, popolarmente detto
“Fuoco di Sant’Antonio”.
Numerose sono le confraternite
sorte in suo onore: la principale è
quella fondata in Francia, dove sono
conservate le sue reliquie, e che è
all’origine dell’ordine degli Antoniani,
fondato nel 1095. Sono stati molti gli
ospedali e i ritiri di mendicità a lui
dedicati che, oltre alla ricchissima iconografia antoniana, stanno a dimostrare la straordinaria popolarità goduta
in Occidente dal Santo eremita.
3 San Simone Stock Santo fu un carmelitano, vissuto tra il 1165 e il 1265: fu uno dei primi inglesi che
entrarono nell’ordine carmelitano, di cui divenne il sesto generale nel 1247. In questa veste contribuì alla
fondazione di conventi nelle principali città universitarie d’Europa: Cambridge, Oxford, Parigi e Bologna, e
alla modifica della regola affinché i Carmelitani divenissero un ordine di frati mendicanti piuttosto che eremitici. Pur non essendo mai stato canonizzato ufficialmente, Simone è venerato dal suo ordine dal 1564 ed
in certe diocesi è trattato come un santo canonizzato. Morì a Bordeaux (Enciclopedia dei Santi, p.715).
4 Dizionario Melzi Scientifico.
54
Nelle pitture è sempre rappresentato
in aspetto senile, con lunga barba ed
ampio saio con o senza cappuccio.
Porta il bastone dell’eremita, spesso a
forma di “T” (o Croce), il campanello,
ed è seguito da un porcellino. La fiaccola o le fiamme rappresentano la sua
protezione contro il “Fuoco di
Sant’Antonio” e contro le malattie del
bestiame.
Nella cripta della Cattedrale si può
vedere un bellissimo affresco che
riproduce l’immagine del Santo, circondato dai simboli di fede che la Chiesa e
la tradizione gli attribuiscono.
Il culto popolare di Sant’Antonio
Abate è uno dei più largamente ed
intensamente diffusi, e dei
più ricchi di manifestaEdicola lignea settecentesca
contenente la statua della
Madonna del Carmine.
zioni. Nel giorno della sua festa, il 17
gennaio, ha luogo la benedizione degli
animali domestici che vengono portati alla chiesa dai loro proprietari per
essere benedetti 5.
I Barnabiti
La storia dei Padri Barnabiti, ossia i
Chierici Regolari di San Paolo, inizia
nella città di Acqui Terme sul principio del XVII secolo.
La congregazione dei “Chierici regolari di San Paolo” fu fondata a Milano nel
1530 da Sant’Antonio Maria Zaccaria,
patrizio milanese. La loro prima dimora fu presso la chiesa di Sant’Agostino,
e furono approvati da papa Clemente
VII il 18 febbraio 1533.
Questi religiosi sono più comunemente conosciuti come “Barnabiti”,
nome che deriva dalla chiesa di San
Barnaba6, che fu la loro vera Casa
Madre e dove essi si stabilirono definitivamente nel 1545 (prima furono a
Santa Caterina dei Fabbri a Porta Ticinese, successivamente presso Sant’Ambrogio, nella casa lasciata libera
dalle suore Angeliche di San Paolo,
ordine religioso anch’esso fondato da
Sant’Antonio Maria Zaccaria). Essi
uscivano per le vie di Milano a predicare con la parola e con l’esempio di
mortificazioni rigorose e pubbliche, a
causa delle quali subirono diverse
persecuzioni.
La morte prematura del fondatore, e
l’indole particolare delle prime persecuzioni, fecero sì che l’Ordine non
avesse, nei primi tempi, un largo e
rapido sviluppo. Soltanto dopo la
5 Enciclopedia Cattolica.
6 Barnaba fu discepolo di Gesù Cristo e compagno di S. Paolo. Il suo nome era Giuseppe, ma
venne soprannominato Barnaba, cioè “figlio della
profezia”.
55
L’altar maggiore con statua
di Sant’Antonio Abate.
metà del XVI secolo si ebbero le
prime fondazioni in Italia, in Francia
ed in Austria. Sulla fine del ’700 e nel
primo ’800 i Barnabiti seguirono la
sorte degli altri istituti religiosi e, con
la soppressione napoleonica del
1810, non rimase che Sant’Alessandro di Milano. Alcuni anni dopo
ebbe inizio la ripresa: attualmente
l’Ordine ha diverse case in Italia ed in
altre parte del mondo, ed i padri
attendono al sacro ministero in parrocchie e santuari. Inoltre, si occupano in particolar modo dell’educazione della gioventù in oratori, convitti
ed esternati. Questi religiosi dedicarono la loro vita alla predicazione,
allo studio e, fin dall’inizio, alla formazione di ecclesiastici particolarmente
destinati all’istruzione della gioventù.
Ritornando all’attività di questi religiosi nella nostra città, si riporta
quanto scrive il Biorci: “Il loro collegio deve la sua origine a Stefano De
Levo figlio di Giambattista Levo,
oriundo del luogo di Castelletto d’Erro, da cui fu lodevolmente coperta la
carica di Commissario del Duca di
Mantova di quà dal Tanaro” 7.
In relazione alla famiglia De Levo, o
Levo, o da Leva, o Leva, il Blesi, nel
suo libro Acqui Città antica del
Monferrato, scrive: “Discende esso
sign. Gio. Battista dalla famiglia Levoi
di Castelletto Val d’Erro, dove sono
anco hoggi delli detti Levoi, parenti
strettissimi del sodetto Signore, che
fù il primo che si chiamasse da Leva”.
“Lasciò dopò sè duoi figliuoli: Ottavio
l’uno, e il Sig. Dottor Stefano l’altro,
perfettissimo in molte virtù, e per le
sue honorate qualità e belle maniere
di procedere amato dalli Cittadini
tutti. Fu fatto Vicario Generale
Episcopale di Monsignor Illustrissimo
San Giorgio, nel qual ufficio havendo
tralasciato le allegrezze, spassi e conversazioni solite, e dattosi più alla
gravità, cominciò a pigliarsi alquanto
d’humor malinconico, qual accresciuto poi dall’inaspettata morte del fratello senza prole, dopo che havea di
già sposata la Signora Violante, figliuola del Signor Conte Sebastiano
Ferrari, le caggionò infermità tale, che
ne’ più belli anni della sua vigorosa
età le diede la morte, estinguendosi
seco la sua famiglia nella città. Fece
detto sig. Stefano diversi legati pii, che
sono di molto sollevamento alli poveri e Religiosi, havendo principalmente
lasciato buona parte del suo patrimonio alli Chierici Regolari di San Paolo
decolato”8.
7 BIORCI, Antichità e prerogative di Acqui Staziella, cit., pag. 38.
8 Nel capitolo “I Barnabiti” del libro già citato, il Biorci sostiene che Sebastiano Ferraris o Ferrari fosse
il genero di Stefano Leva, mentre secondo il Blesi il Ferrari era il padre della signora Violante, moglie di
Ottavio, fratello di Stefano. Le ricerche, effettuate presso l’archivio comunale di Acqui Terme, hanno avvalorato la seconda tesi.
56
Stefano Levo, con suo testamento del
1591, lasciò la quarta parte della sua
eredità, affinché fosse eretto il
Collegio dei Padri Barnabiti nella città
di Acqui. Il Capitolo Generale in quell’anno rifiuta l’offerta in quanto tali
rendite non erano sufficienti a mantenere una comunità. Condizione necessaria era infatti l’esistenza di una
chiesa con rendite tali da garantire la
sussistenza dei religiosi in modo autonomo. Angelica Leva Beccaria, sorella
di Stefano Leva, accrebbe la rendita
del fratello fino a 400 crosoni9.
Nel 1596 il Capitolo generale accetta
l’eredità e nel 1597 il Sig. Roberto
Roberti contribuisce alla causa dei
Padri Barnabiti lasciando “tanti censi
per il reddito di crosoni 25 purché i
Barnabiti continuino ad abitare in
Acqui”. Lo stesso anno il Sig. Angelo
Pecorelli dona 300 scudi da pagarsi
dai suoi eredi dopo la sua morte. Nel
1602 i Padri si stabiliscono nella casa
dei Leva, ufficiando nella chiesa della
Madonna della piazzetta: il Blesi la
identifica con la chiesa di Santa Maria
Rotonda, poi chiamata Santa Maria
degli Angeli, la quale, per essere posta
sopra la piazza de Blesi, ora dei
Dottori, è anche detta Madonna della
Piazza10.
Nel 1608, avendo necessità di un più
ampio spazio, i Padri Barnabiti, acquistarono la casa del conte Sebastiano
Ferrari ed altre attigue, poste nel
Borgo Pisterna, dove fondarono il
Collegio, la Chiesa, che dedicarono a
San Paolo, e, mentre si erigeva la chiesa, si servivano di quella dei Disciplinanti di S.Ambrogio11.
Negli archivi acquesi esistono varie
carte che documentano la presenza
in Acqui dei Barnabiti, i quali svolgono
anche attività agricole. Nel 1650 o
165312 papa Innocenzo X, con bolla
papale, decretava la chiusura del
Collegio in quanto troppo piccolo: il
padre che vi presiedeva, d’ordine
dello stesso pontefice, rassegnò il
tutto nelle mani del Vescovo Bicuti,
che, con autorizzazione della Santa
Sede, assegnò il Collegio con il suo
patrimonio al Seminario dei Chierici.
A questo provvedimento seguì una
supplica al fine di ottenere la riapertura, la quale avverrà nel 1682 con
decreto della Sacra Congregazione
dei Vescovi e Regolari, che autorizzò
il Vescovo a ristabilire il Collegio ed a
fargli restituire i beni e i redditi. Nello
stesso tempo vi si aprirono le pubbliche scuole e nel 1701 la chiesa fu
riedificata con il sussidio della città.
L’attività di insegnamento dei Padri
durerà ininterrottamente fino al
1729, anno in cui vennero aperte le
Scuole Regie e cessarono quelle dei
Barnabiti, i quali comunque continuarono per anni a collaborare nell’inse-
9 Variante settentrionale di “Crocione”, nome della piastra vecchia di Spagna da 8 reali.
10 La chiesa o cappella di Santa Maria Rotonda fu di antica fondazione, anteriore alla costruzione della
cattedrale. Questa cappella, insieme a quella di Sant’Ambrogio, era situata nell’allora epicentro civico, ed
il significato del suo appellativo potrebbe derivare dalla struttura della fabbrica rotonda (almeno in origine). Quando fu inaugurata la nuova cattedrale nel 1067, la chiesa di Santa Mara Rotonda conobbe la parabola discendente: da chiesa, a semplice oratorio, fu trasformata o rifondata, dopo che nel 1528 fu costituita la Confraternita degli Angeli, la quale qui pose la propria sede. Attualmente l’antico oratorio, incluso nel palazzo di casa Beccaria, risulta adibito a laboratorio d’arte del legno con accesso da Piazzetta dei
Dottori (G. PISTARINO, Sulle Antiche contrade di Acqui, cit., pagg. 99 - 103) .
11 Le Confraternite dei Disciplinanti erano erette presso la vecchia chiesa di Sant’Antonio, quindi si ipotizza che i Barnabiti trasferirono qui le loro funzioni religiose che prima erano officiate nella cappella della
Madonna della Piazza o Santa Maria Rotonda.
12 Anno 1650 secondo l’attuale archivista dei Padri Barnabiti di Roma, anno 1653 secondo il Biorci.
57
gnamento13: un padre della suddetta
Congregazione fu il primo professore
di teologia nelle nuove scuole.
Il padre Superiore del Collegio di San
Paolo era deputato, insieme ad altre
personalità, al governo del Monte di
Pietà, la cui istituzione in Acqui fu
promossa dal Cardinale Sangiorgio
Vescovo e sostenuta
da diversi citta14
dini con vari legati .
I Barnabiti, ridotti nel numero, resteranno nella nostra città fino al 1795,
quando, con l’arrivo dei Francesi, vennero allontanati: la chiesa venne utilizzata per usi militari e poi adibita a
ricovero di attrezzi e magazzino.
Come già detto, nei primi anni
dell’800 la Curia Capitolare, dopo la
delibera del governo francese, cede ai
confratelli di Sant’Antonio l’uso della
chiesa di San Paolo, che verrà riordinata: successivamente, verso la metà
del secolo, verranno effettuati importanti lavori di ristrutturazione.
Questa chiesa è sempre stata coinvolta negli avvenimenti che si sono
susseguiti nel corso dei secoli, anche
in periodi più recenti. Si legge sul settimanale della città,“L’Ancora” del 13
Luglio 1997: “[…] questa chiesa ha
seguito tutte le vicende del borgo
antico, vegliando sulle case e sulle
famiglie. Durante i tristissimi giorni
del 9 e 10 settembre 1943, nel disfacimento generale, questa chiesa ha
spalancato le sue porte per accogliere, proteggere, indicare la strada della
liberazione a centinaia di nostri giovani soldati, evacuati dalla caserma
militare, ammassati in piazza San
Guido, in procinto di essere deporta-
ti nei campi di concentramento tedeschi. Ci vuole almeno una targa a
ricordare questo fatto! E poi […]
l’abbandono! [...]”.
Successivamente sono state effettuate importanti opere di restauro sia
alla struttura muraria che alle opere
d’arte ed ai beni all’interno, però c’è
ancora molto da fare: come in passato la chiesa ha seguito il destino del
borgo che tutti oggi ammiriamo e
frequentiamo.
“L’Architettura dei Barnabiti nell’Acqui del XVII secolo”, testo di
Valentina Parodi del 1997, fornisce
importanti informazioni circa l’aspetto architettonico della costruzione.
«Dalla ricerca, effettuata nell’archivio
generalizio di Roma, presso il quale
dopo la soppressione degli ordini
ecclesiastici è stato portato il materiale delle confraternite soppresse –
purtroppo gravato da notevoli lacune
– è emersa una catalogazione sistematica di disegni architettonici, di
rilievi e progetti, riguardanti chiese e
collegi di tutto l’Ordine dal 1584 al
1912. Il volume molto consistente,
curato dal padre Carlo Vercellone su
invito del padre Generale Francesco
Caccia, contiene molti disegni: nella
quasi totalità si tratta unicamente di
disegni di pianta a penna di inchiostro
di colore seppia o nero, talvolta su
cartoncini colorati. Molti disegni
sono solo fogli o foglietti che indicano le variazioni da effettuarsi […].
L’orientamento non viene mai indicato e per desumerlo non si può fare
altro che leggere le indicazioni ricava-
13 Conferma dall’Archivista dei Padri Barnabiti di Roma.
14 Alcune fonti riportano che i Monti di Pietà furono istituiti in Italia dai frati francescani nel XV secolo; secondo altre invece il primo istituto fu fondato, sempre dai frati francescani, nel 1358 a Firenze, ad
opera di Francesco da Empoli.
58
Tela di incerta attribuzione.
delle congregazioni. Si può definire
pertanto questa saliente particolarità
costruttiva di adeguamento: architettura barnabitica.
In questa peculiarità di architettura
barnabitica rientra in Acqui l’attuale
chiesa di Sant’Antonio, già collegio e
chiesa di San Paolo con Scuole.
te dalle “Formule” o “Regole” risultanti da due documenti esistenti
nell’Archivio Milanese di San Barnaba
[…].
I Barnabiti, da quanto risulta dal contenuto di attinenza alle costruzioni,
rilevato dalle due “Formule”, davano
maggior rilevanza all’individuazione di
una architettura utile, poco dispendiosa, povera e semplice nell’immagine, ma funzionale e utile a seconda
delle esigenze dei luoghi ai quali essa
si adattava, indifferente allo stile “ufficiale” dell’epoca, solo privilegiando la
ricerca di una precisa distinzione
degli ambienti destinati al culto da
quelli destinati all’uso secolare.
Inoltre la caratteristica saliente era
che le linee di costruzione erano malleabili ed adeguabili, e soprattutto
integrabili nel rispetto delle tipologie
degli edifici preesistenti, che venivano
conglobati e modificati architettonicamente alle esigenze di vita clericale, di pubblica istruzione, di solidarietà infermieristica, di culto religioso
Sono stati analizzati nel volume
Caccia-Vercellone tre disegni che
riguardano la Chiesa di San Paolo: “Il
primo è uno schizzo generale, il
secondo è la pianta della prima chiesa da ricavarsi nella casa del conte
Sebastiano Ferraris, il terzo è corrispondente alla pianta della seconda
chiesa, realizzata nel Settecento […].
Si tratta del progetto definitivo della
chiesa ad aula unica, poligonale, centrale, con due cappelle laterali. L’area
presbiterale, di limitate dimensioni,
non presenta coro. L’accesso principale, unico, è ubicato centralmente
nella facciata”.Anche se non previsto
dall’ultimo progetto, la chiesa in effetti ha un coro con stalli di elegante fattura settecentesca.
La “Ricerca sulla Chiesa di Sant’Antonio in Acqui Terme” compiuta
dalla scuola media parificata “Maria
Immacolata” di Acqui Terme”, fornisce importanti informazioni dal
punto di vista artistico.
«La facciata della chiesa, arricchita da
un ricco frontale, risale probabilmente
al 1701, quando la stessa viene riedificata. Sicuramente venne rimaneggiata
nel 1812, al momento della decorazione con gli affreschi, al presente restaurati: al centro la Madonna del Carmine,
ai lati Sant’Antonio Abate e San Paolo; i
due riquadri al di sopra dei Santi contenevano delle citazioni oggi scompar-
59
Tela di incerta attribuzione.
se. Il bel portale ha intagliato
sui battenti le
iniziali S ed A,
con molta probabilità è quello
dell’antica chiesa di Sant’Antonio “de Balneo”.
All’interno la
chiesa si presenta a navata
unica con due
cappelle laterali; la volta è a
botte, mentre
quella del coro
è a crociera.
Il campanile,
con tre campane del XIX secolo a
base quadrata, è situato sul lato del
presbiterio.
All’interno, addossata alla controfacciata, si trova la cantoria che presenta una balaustra con dei pannelli lignei
settecenteschi al centro. L’organo
venne costruito da Giosuè Agati di
Pistoia nel 1837, e porta il numero
d’opera 270 15. Una descrizione scientifica dell’organo è stata data da
Giancarlo Bartagna, Antichi organi ad
Acqui Terme, Acqui Terme, 1982 pag. 8
e segg.
Sulla sinistra il pulpito ligneo del XVIII
secolo, affiancato da una tela rappresentante San Francesco di Sales, della
stessa epoca, anonima.
La cappella laterale sinistra è dedicata a Santa Lucia e presenta un altare
di scaiola del XVIII secolo, con il
tabernacolo in legno intagliato dello
stesso periodo.A destra: una tela raffigurante una Apparizione, analoga al
quadro di San Francesco di Sales.
La Cappella laterale destra è dedicata
a santa Teresa; anche in questo caso
l’altare è di scagliola e del XVIII secolo.Vi è pure un dipinto su tela – datato 1903 – raffigurante l’Assunta.
All’angolo tra la parete destra ed il
presbiterio, all’interno di un’edicola
lignea in stile neogotico, protetta da
vetri, è collocata la Madonna del
Carmine, pregevole scultura in legno,
settecentesca.
La volta della navata racchiude in una
cornice mistilinea la Glorificazione della croce e della eucarestia, affresco probabilmente del XIX secolo.
L’altare, in marmo rosa e nero, porta
sul retro la lapide che ricorda la consacrazione (1825), ed è fiancheggiata
da una bella consolle in legno (XVIII
secolo).
Gli stalli del coro sono di elegante fattura settecentesca, ed i pannelli dello
stesso sono simili nel disegno sia ai
battenti del portale, sia a quelli della
cantoria, sia del pulpito che del confessionale. Per questa evidente analogia stilistica potrebbe valere anche in
questo caso l’ipotesi sulla provenienza, già espressa per il portale.
Sul lato sinistro del coro una tela del
XVIII secolo, raffigurante Santa Teresa
d’ Avila: di fronte un analogo dipinto
che rappresenta San Giovanni di Dio.
Con ogni probabilità le due tele provengono dalla chiesa di Sant’Antonio
“de Balneo”, in quanto raffigurano
santi legati l’una al Carmelo e l’altro
15 All’interno della cassa, sulla parete sinistra, si trova affissa una composizione poetica a stampa, scritta in occasione della costruzione dell’organo.
60
all’assistenza ospedaliera. Anche in
questo caso le tele sono anonime.
La sacrestia è sistemata in un locale a
sinistra del presbiterio ed è contigua
all’abitazione del sacrestano.
Tutto intorno tre armadi di legno intagliato, articolati in due corpi: le basi
hanno pannelli simili a quelli già analizzati nella chiesa, mentre le parti superiori, che sono concluse da un ricco cornicione, presentano battenti
con decorazioni molto più ricche. È
possibile ipotizzare che l’adeguamento delle due parti di ogni armadio sia
una operazione risalente all’epoca
della nuova dedicazione della chiesa
con elementi di diversa provenienza.
Tutt’intorno tre cassapanche del
XVIII secolo con gli stessi motivi
decorativi ricorrenti all’interno della
chiesa.
Nella sacrestia sono pure conservati
sei dipinti su tela, di cui i quattro ovali
rappresentano santi dell’ordine del
Carmelo»16.
Una statua raffigurante Sant’Antonio
Abate è posta in una nicchia sulla
parete centrale del coro.
Nella Sacrestia , ai lati di destra e di
sinistra della porta di ingresso alla
chiesa, sono posti due dipinti con
cornice ottagonale i quali rappresentano l’uno il Cristo Benedicente con
targa sottostante e con dicitura:“sum
D. Costantini Di Castro Mortariensis
Can.Reg.Lat. 1646”, e l’altro una
Santa in preghiera, anch’esso con targa
1646.
Sul n. 28 del settimanale “L’Ancora”
del 14 luglio 2004 viene riportato che
nel mese di maggio dello stesso anno
si sono conclusi i lavori di restauro
16 Attualmente non tutte le opere d’arte sono al
posto indicato nella ricerca in quanto rimosse per
lavori di recupero e di ristrutturazione [n.d.r.]
conservativo dei dipinti murali e degli
stucchi della chiesa, e tra l’altro si
legge:“Di particolare pregio l’affresco
della volta centrale, opera del pittore
Pietro Maria Ivaldi, detto il Muto. Nel
corso delle indagini stratigrafiche, l’analogia stilistica, cromatica e, ancor
più, quella relativa alla componente
materica, ha permesso di stabilire che
l’intero apparato decorativo, sottostante quello attuale, fosse opera di
questo pittore. In fase di restauro,
però, dopo aver provveduto alla conservazione dell’affresco, si è valutato
(in accordo con gli Enti di Alta Sorveglianza preposti) di documentare
quanto rimaneva della decorazione
più antica e di recuperare quella più
recente, presumibilmente realizzata
intorno ai primi del Novecento”.
Con questo itinerario storico si è
cercato di collegare fra loro le notizie
reperite in diverse fonti, esponendo
in sintesi i passi ritenuti più interessanti.
La chiesa è certamente un importante “testimone dei tempi” e non soltanto come bene architettonico; per
questo è essenziale che vengano
effettuati gli interventi conservativi, i
quali necessitano del contributo e
della generosità di persone e istituzioni.
L’autrice ringrazia:
Geo Pistarino, per la consulenza letteraria e per i testi messi a disposizione;
Paola Piana Toniolo e Lionello
Archetti Maestri per l’apporto di documenti indispensabili alla struttura
del lavoro; padre Giuseppe Cagni,
archivista della Casa Generalizia di
Roma della Congregazione di S.
Paolo; Carlo Prosperi e tutti gli addetti all’Archivio Vescovile per la collaborazione nella ricerca di documenti storici.
Alla ricerca di
Luchino Ferari,
pittore del primo
Cinquecento
di Sergio Arditi
Rocca Grimalda,
Santa Limbania,
Assunzione della Vergine.
Abside centrale.
Particolare:
La Madonna nella mandorla.
62
Un interessante tassello della variegata realtà del rinascimento pittorico, che sta riemergendo in questi
ultimi tempi, è apparso recentemente
sulle pareti della sacristia della chiesa di
San Francesco di Cassine, acquisendo
risonanza sui mezzi di stampa locale.
L’attribuzione di questo affresco a carattere votivo, che all’atto della scoperta ho
colto in un lavoro di Luchino Ferari o Ferrari,
mi ha suggerito di puntualizzare un breve intervento su questo artista ancora semisconosciuto.
Il pittore resta a testimoniare in zona il passaggio
tra il tardo gotico ed il rinascimento.
In quest’ambito culturale segnarono il passo personalità come
Martino Spanzotti, Macrino d’Alba, Gandolfino da Roreto,
Gaudenzio e Defendente Ferrari, ma Luchino che porta lo stesso
cognome di quest’ultimi e di cui non conosciamo eventuali rapporti di parentela, non rientra ancora fra le personalità che hanno
raggiunto notorietà ed ancora assai limitati sono i riferimenti critico-bibliografici.
Non che voglia supplire a questa carenza: con il presente contributo intendo solo aprire qualche nuovo spiraglio ponendo maggior attenzione su questa personalità. Auspico per il futuro una
miglior fortuna critica per il merito evidente del pittore, confido
nel ritrovamento di eventuali documenti biografici e nella scoperta o nel riconoscimento di opere la cui cronologia oggi è solamente confinata al secondo e terzo decennio del secolo XVI.
Rocca Grimalda,
Santa Limbania,
Assunzione della Vergine,
abside centrale:
veduta d’nsieme.
Il quadro dei luoghi e
delle opere di Luchino Ferari, sia firmate,
sia attribuite, è attualmente circoscritta a
due località dell’Alto Monferrato,
poste tra l’Orba e la Bormida: Rocca
Grimalda e Cassine.
I dipinti a Rocca Grimalda sono conservati nell’abside centrale e nell’absidina destra della chiesa di Santa
Limbania. A Cassine gli affreschi sono
variamente distribuiti nell’antica chiesa conventuale di San Francesco e
nella sua sacristia. Inoltre, ancora in
Cassine, in una cappella della cimiteriale chiesa di Santa Maria dei Servi.
Per analizzare più dettagliatamente
queste pitture, iniziamo il percorso
partendo da Rocca Grimalda, ove
nella chiesa di Santa Limbania l’intera
abside centrale è occupata da un
affresco, il maggiore per ampiezza ed
impegno del nostro autore, seppure
con scarti stilistici in alcune parti quali
il Padre Eterno e l’apostolo all’estrema destra. Raffigura l’Assunzione della
Vergine, attorniata da una raggiera che
squarcia le nubi a forma di mandorla,
alla maniera gotica. All’interno e all’esterno della mandorla sono dei cherubini ed oltre, nel cielo aperto, due
gruppi ternari di angeli squillano le
trombe. Superiormente, nel catino
absidale, trionfa il Padre Eterno con le
braccia aperte, ancora attorniato da
due cerchie di nubi, prima rosse e poi
bianche, come per la Vergine Assunta,
attorno alla quale è aggiunto un ulteriore nimbo verde all’esterno.
La parte inferiore della scena, immersa in un vasto paesaggio (la lezione di
Leonardo è velatamente presente in
un’accezione di chiara matrice lombarda), mostra gruppi di Apostoli,
ancora in raggruppamento ternario,
con un andamento ondeggiante del
margine superiore che si staglia su uno
sfondo di rocce immerse in un vasto
paesaggio con alberi, castelli e villaggi,
elementi questi già perfettamente
aggiornati ai temi rinascimentali.
Ibidem.
Particolari:
Apostoli
(lato
sinistro
e destro).
63
Ibidem.
Particolare: Viandate.
Ibidem.
Particolare: Tomba con epigrafe.
Inoltre, sul lato destro
dello spettatore, un
viandante seduto su
un tronco, facendosi
solecchio, osserva l’evento miracoloso dell’Assunzione, lasciandosi alle spalle un sentiero che si protende
su una lieve collinetta
verso un favolistico
castello turrito.
Nella parte inferiore
dell’abside, all’estrema
sinistra sulla sponda
del fiume, compare
San Gerolamo, con il
leone alle spalle, che
adora il Crocefisso.
Il fiume che scorre
lento in questo paesaggio, con piccole imbarcazioni, potrebbe
essere stato ispirato
Ibidem.
dai
meandri
dell’Orba
che passa sotto
Particolare:
San Girolamo. la rocca di Castelvero, primo nucleo
del borgo fortificato dove oggi sorge
la chiesa di Santa Limbania.Tutta l’ampia vallata, con i suoi castelli è pervasa da liberi riferimenti che richiamano
il paesaggio che si scorge proprio da
questa altura rocciosa. Nel settore
inferiore dell’affresco, al centro del
sepolcro, compare la scritta:
A[S]UMPCIO – MARIE – VIRGINI[S]
1526 – ULTIMO – SEPTE[M]BRIS –
LUCHIN[US] – FERARI – DE
CASTELACIO
FACIEBAT
Poco sopra il sepolcro è posta un’altura munita di castello, forse ancora
riferimento a Castelvero per la centralità e preminenza nella composizione paesaggistica.
Al centro dell’absidina destra della
64
stessa chiesa vi è un
altro affresco, a carattere votivo,
con la Madonna in trono col Bambino tra San
Sebastiano e San Rocco, Santi che nella
devozione popolare fungono da protettori contro la peste.
Sul lato destro, assai ridipinti, sono San
Paolo e un Santo Martire non identificato e sul lato sinistro forse Santa Chiara
(ampiamente ridipinta per l’apposizione, sul lato destro, di una intitolazione
successiva a Santa Maria Maddalena de
Pazzi, così come dell’acciottolato di
fondo) e San Francesco, quest’ultimo
poco leggibile per la scarsa conservazione. Sono presenti tracce della cornice dipinta che suddivideva la partitura di un polittico. Lo scomparto centrale è oggi inserito in una cornice di
marmo che racchiudeva una tela, successiva all’intervento del Ferari, inerente al marmoreo altare barocco
oggi esistente che racchiude, nella
parte inferiore, a modo di sepolcro, la
statua lignea di Santa Limbania.
L’intero ciclo pittorico, così come gli
altri variamente presenti sulle pareti,
Rocca
Grimalda,
Santa
Limbania:
Madonna in
trono con
Bambino,
San Sebastiano
e San Rocco.
meriterebbe un’opera di restauro,
necessaria sia per preservarne la conservazione già precaria per sollevamenti, efflorescenze e muffe, sia per
chiarire la fase originaria essendovi
numerosi interventi di ripresa pittorica ed integrazioni. Tra l’altro si nota
che la parte inferiore degli angeli, con
trombe, è stata alterata per la sovrapposizione di nuvole e lo zoccolo di
base è completamente ridipinto.
A Cassine, in San Francesco, compare
un nucleo di affreschi del Ferari, tra
cui un’altra pietra miliare della sua
opera, poiché è firmata e datata dal
pittore stesso nel 1532.
In anni recenti, infatti, entro una cornice ad arabeschi, è emerso l’affresco
della Madonna col Bambino tra San
Pietro e San Gregorio Magno. Dipinto in
controfacciata, è oggi relegato in un
armadio sotto la cantoria settecentesca (1713) dell’organo situato sopra
l’ingresso principale. L’immagine votiva fu commissionata da Antonio
Bellosio nel 1532. In precedenza pareva leggersi che l’anno dell’esecuzione
fosse il 1537: attualmente, in funzione
dell’affresco recentemente emerso
nella sacristia di San Francesco, si può
assegnare allo stesso soggiorno del
pittore nell’anno 1532, poiché il modo
di scrivere la cifra finale è simile ad
una zeta e la relativa abrasione del
tratto orizzontale inferiore aveva
generato l’equivoco interpretativo.
Nella tabella ansata, posta alla base
del dipinto, ora si leggerebbe:
[15]32 4 SETTEMBRIS
ANT[ONIUS] BELLOSIUS F[ACERE]
F[ECIT]
LUCHIN[US] FERARI F[ECIT]
OP[US]
La Vergine col Bambino di controfacciata, alla maniera di una sacra conversazione, viene rivelata allo spettatore dal sollevarsi di un rosso tendaggio e collocata in un ambiente campestre dal cielo terso: paesaggio appena
accennato da uno spoglio alberello e
dal prato erboso in primo piano.
Ancora in San Francesco è dipinto ad
affresco, a metà circa della navata sinistra, il polittico assai deteriorato e
lacunoso di San Martino, recentemente restaurato.
Cassine, S.Francesco:
Madonna con Bambino, San Pietro e San Gregorio Magno.
Cassine, San Francesco:
Polittico di San Martino
Appartenuto all’altare omonimo, nello scomparto centrale compare la scena con San Martino
nell’atto di porgere il mantello al povero, affiancato da due personaggi in entrambi gli scomparti
laterali: a destra del Santo titolare sono San Francesco e
Sant’Ambrogio, a sinistra San Biagio e San Rocco. In alto il polittico è sovrastato da una lunetta con il Padre Eterno benedicente.
La rarefatta atmosfera è interrotta in basso da un prato erboso con
ciuffi d’erba dall’inconfondibile sigla grafica del Ferari: sono i medesimi ciuffi della vegetazione in Santa Limbania a Rocca Grimalda e quelli in controfacciata della stessa chiesa di Cassine.
Nella seconda cappella della navata destra, già dedicata alla
Maddalena, è riemerso, dietro la trafugata pala di San Giuseppe da
Copertino, parte limitata di un affresco, ove al centro compare, ormai
senza volto, la Maddalena stessa tra San Francesco ed un santo coronato, forse San Luigi re di Francia.
Come accennato, l’ultima inaspettata scoperta è l’affresco collocato
nella sacristia di San Francesco, rappresentante la Madonna col
Bambino, San Matteo e San Bonaventura il cui cordone è sorretto dal
Bimbo stesso.Ai piedi della Vergine è raffigurata una piccola immagine
di un pellegrino (ancora alla maniera gotica), figura del committente,
che una scritta frammentaria indica in un personaggio della famiglia
Nerotto, effigiato tutto completamente nero, in sintonia con il nome
stesso.
La scritta frammentaria, non escludendo che dopo il restauro se ne
possa ampliare il testo, attualmente si legge:
…T[US] NEROT[US] F[ACERE] F[ECIT]
1532
L’opera, contornata da una cornice ad arabeschi, che ritengo appartenga alla mano di Luchino Ferari, presenta gravi dissesti all’intonaco
e necessita di un intervento di restauro di consolidamento, mentre il
colore ben conservato e protetto per
quasi tre secoli, appare offuscato solo
da polveri e da alcune macchie di
calce. Si notano alcuni lembi marginali ricoperti da uno
strato di sottile intonaco, da mettere
in luce durante il
prossimo restauro,
per recuperare la
completa estensione dell’affresco.
Cassine, San Francesco:
Madonna con Bambino,
San Matteo e San Bonaventura.
Particolare del committente
in veste di pellegrino
ed epigrafe frammentaria
con data 1532.
Nella pagina a fianco
in alto a destra:
Felizzano.
Casa parrocchiale.
Madonna con Bambino
e angeli musicanti,
opera di Gandolfino
da Roreto
Nella pagina a fianco:
Cassine,
Santa Maria dei Servi,
Sant’Anna Metterza.
Cassine, San Francesco,
Madonna con Bambino, San Matteo e San Bonaventura
Durante i lavori attualmente in corso
per la realizzazione del Museo d’Arte
Sacra di San Francesco, rimovendo un
imponente armadio, è emerso il dipinto nascosto nell’oblio dal 1713, anno in
cui furono eseguiti importanti lavori
nella chiesa francescana. Nell’occasione
si aggiunsero nella sacristia due grandi
armadi per contenere gli arredi. L’affresco era parte integrante di un altare
che, per far posto al nuovo armadio da
collocarsi sul lato nord, fu trasferito
sulla parete est ove esiste tuttora,
sovrastato da un nuovo affresco con la
stessa iconografia, di conseguenza databile al 1713.
Nella chiesa cimiteriale di Cassine,
dedicata a Santa Maria delle Grazie o
dei Servi, poiché appartenne al convento dei frati Serviti, è collocato, nella seconda cappella sul lato destro, al centro
di un altare barocco in stucco, l’affresco
di Sant’Anna Metterza.
Con un modulo
compositivo a
spiga, raffigura
in alto
Sant’Anna e
sotto la Vergine che tiene in grembo il Bambino. La
fronte ed il
velo superiore di
Sant’Anna
sono opera
di un intervento ricostruttivo dovuto ad un
antico restauro, forse
eseguito
durante una
probabile ricollocazione dell’affresco, appartenuto
prima del 1578
ad una cappella
campestre, preesistente alla chiesa servita.
Già in passato attribuii a Luchino
Ferari questa pittura ed oggi, alla
luce della nuova scoperta in San
Francesco, quest’ipotesi ne riesce rafforzata, come per gli altri affreschi
frammentari non firmati, ancora in San
Francesco e già descritti.
Per quanto è emerso, l’artista di
Castellazzo lascia i suoi lavori nel breve
torno degli anni 1526/1532. Non conosciamo altro della sua pittura se non il
suo orientamento rivolto a temi religiosi, ancora relegati in un ambito
minore per il suo modesto richiamo,
poiché riposti in edifici che non appartengono ai grandi circuiti tradizionali
dell’arte, anche se non sono minori per
la storia della pittura.
Alcune citazioni particolari della pittura di Luchino Ferari appaiono derivare da alcune opere che Gandolfino
da Roreto ha lasciato nell’area alessandrina.
Mi riferisco alle opere quali la Madonna
col Bambino e angeli musicanti con la
tavola di Sant’Apollonia, appartenenti
allo stesso smembrato polittico oggi
nella casa parrocchiale di Felizzano e il
polittico della Madonna in trono col
Bambino fra i Santi Pietro e Dalmazzo in
San Dalmazzo di Quargnento.
Esaminando l’affresco nella chiesa di
Santa Maria dei Servi di Cassine, lo accosterei, se pur con una certa cautela,
proprio alle tavole di Gandolfino a Felizzano. La presenza del solito trono
67
Cassine, San Francesco.
Madonna con Bambino, San Matteo e San Bonaventura
Particolare: volto di San Matteo.
sovrastato da un
drappo teso, forse sorretto da
una fune, del tipo
di acconciatura
dei capelli della
Vergine e di Sant’Apollonia, dei
loro visi con le
strette e turgide
labbra, del mantello stellato della Madonna (a Cassine per la scarsa
conservazione sopravvive una sola
stella e tracce di altre) è fonte di ispirazione per Luchino.
Nell’affresco della sacristia di San
Francesco si delinea, dietro la scena,
una cortina o transenna, come quella
nel polittico gandolfiano in San Dalmazzo di Quargnento. Stesso parapetto è riscontrabile egualmente a Rocca
Grimalda nell’absidina destra di Santa
Limbania. La cortina è un riferimento,
che il pittore astigiano avrebbe tratto
dalla cultura ferrarese e cremonese1. Il
soggetto, che non a caso ricompare in
Luchino Ferari, non è certamente
estraneo anche a Macrino d’Alba: si
vedano le Madonne col Bambino e Santi
alla Pinacoteca Capitolina ed alla
Certosa di Pavia. Il confronto tra
Macrino e Gandolfino avvenne a partire dal 1493, quando ad Alba, in San
Francesco, il giovane Gandolfino dipingeva per l’altare dei Falletti il polittico
oggi alla Galleria Sabauda di Torino,
ancora fortemente intriso di caratteri
liguri - provenzali, e Macrino, appena
rientrato in patria da Roma, eseguiva
per la stessa chiesa il polittico, oggi
parzialmente conservato a Francoforte sul Meno, allo Städelsches
Kunstinstitut, in cui introduce le novità dell’Italia centrale2. In Macrino compare il drappo rigido dietro alla Vergine, così pure in altri lavori come il
più tardo Sposalizio mistico di Santa
Caterina in San Giorgio a Neviglie, perciò pare plausibile che questo elemento giunga a Gandolfino dal pittore di
Alba.
Il tema della tenda, presente nell’affresco di controfacciata in San Francesco
di Cassine, viene ancora mutuato da
Gandolfino da Roreto, come nella tavola di Sant’Eulalia, presso l’Istituto
Bancario San Paolo di Torino, che a sua
volta attinse dal Boccaccino nelle sue
frequentazioni della città di Cremona3.
Luchino predilige una variegata tavolozza cromatica con abiti rigonfi e
vaporosi, marcati sulle pieghe da chiari guizzi ritorti, segno tipico della sua
pittura.
I volti dei Santi sono modellati sulle
fisionomie, così
come i voluminosi panneggi,
riscontrabili ad
esempio
nel polittico di
Gandolfino
da Roreto in
San Pietro di
Savigliano, opera
stilisticamente prossima alle due tavole di Felizzano.
Non appare proprio un gran dislivello
1 S. BAIOCCO, Profilo di Gandolfino da Roreto, in G. ROMANO (a cura di), Gandolfino da Roreto e il
Rinascimento nel Piemonte Meridionale, CRT,Torino 1998, p. 214.
2 E.VILLATA, Gian Giacomo de Alladio, detto Macrino d’Alba, in G. ROMANO (a cura di), Macrino d’Alba protagonista del Rinascimento piemontese, Editrice Artistica Piemontese, Savigliano 2001, p. 6 e p. 10.
3 S. BAIOCCO, Repertorio delle opere di Gandolfino da Roreto, in G. ROMANO (a cura di), Gandolfino op. cit,
scheda 49, p. 317.
68
Savigliano,
San Pietro.
Polittico.
Particolare della
predella:
Sant’Antonio
Abate, opera di
Gandolfino da
Roreto.
Notizie bibliografiche
fra l’affresco gandolfiano della Madonna della
barca nell’ex chiesa di San Giovanni ad Asti, e
quelli di Luchino nella sacristia di Cassine e nell’absidina minore di Santa Limbania in Castelvero. Non è dunque un paradosso che un linguaggio per alcuni aspetti meno evoluto non sia di
buon livello, poiché la lezione di Gandolfino è
assicurata.
Le composizioni ferariane delle scene votive
hanno al centro la Vergine, assisa su di un semplice trono, a volte un lineare scranno sovrastato
da un rigido drappo senza ornamenti.
Una delle sigle inconfondibili del Ferari sono gli
acciottolati su cui si ergono i troni della Vergine
(nell’absidina destra a Rocca Grimalda, nella
sacristia di San Francesco e in Santa Maria dei
Servi a Cassine) in sostituzione di pavimenti con
tarsie marmoree come nelle pale aggiornate
all’architettura rinascimentale. Più sovente le
scene poggiano su prati erbosi.
Sono queste raffigurazioni quelle di un mondo
rurale allineato alla committenza di questi luoghi,
un mondo non del tutto estraneo ad artisti
come Macrino d’Alba o Gandolfino da Roreto.
Questo fenomeno per quanto riguarda il Ferari
non è ancora emerso degnamente, ma già ne
sono stati delineati alcuni risvolti da Roberto
Benso: “E tuttavia questo retaggio tradizionale
appare adeguato, forse anche alle intenzioni dei
committenti, ad un tipo di società elementare,
culturalmente attardata, chiusa in un persistente
conservatorismo”4. Un esempio della stessa
maniera la ritroviamo in un altro affresco di anonimo più o meno coevo, di altra buona mano e
simile impostazione, posto nella cappella di San
Rocco a Carcare, in cui si respira un’analoga
semplice tersa atmosfera, una concezione di spazio agreste rarefatto.
Tutto ciò non va inteso come discriminante
negativa nei confronti di una più evoluta cultura
cittadina, ma quale indicazione della realtà nella
quale operava il nostro Luchino Ferari, pittore di
Castellazzo Bormida.
4 R. BENSO, Rocca Grimalda: chiesa di Santa Limbania, Sezione
pittorica scheda n. 55, in S. ARDITI; C. PROSPERI (a cura di), Tra
Romanico e Gotico, percorsi di arte medievale nel millenario di San
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un repertorio della pittura
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FUMAGALLI, G MULAZZANI, G.
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1999, pp. 21-23; S. ARDITI,
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San Francesco, Schede edifici
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(a cura di), Tra Romanico e Gotico, percorsi di arte medievale
nel millenario di San Guido
(1004-2004) Vescovo di Acqui,
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Terme 2004, pp.101-106; R.
BENSO, Rocca Grimalda: chiesa
di Santa Limbania, sezione pittorica scheda n.55, in Tra
Romanico e Gotico cit, pp. 372379.
La polverina
del rubacuori
*
di Paola Piana Toniolo
* Ovvero gli usi
diversi di un
unico prodotto:
la polvere d’osso di morto. La
volta scorsa
abbiamo incontrato una ricetta più o meno
farmaceutica;
questa volta è
cambiata la
funzione, non
la materia.
Che a Marcantonio Tardito di Roccaverano piacessero le ragazze non poteva stupire nessuno, ma che lui potesse piacere follemente a loro, questa, sì, poteva sembrare una cosa strana!
Eppure...
Quella sua madre, o matrigna che fosse, la Maria, la vedova di
Arrietto Tardito, sapevano tutti che era una “fattucchiera”, e
chissà quali incantesimi aveva insegnato al giovanotto! E i suoi
amici? Se lo tenevano caro e ne raccoglievano le confidenze, ma
stavano anche attenti che le loro sorelle non si facessero abbindolare...
Ne raccoglievano le confidenze, appunto, e gli incantesimi di
Marcantonio, secondo noi, stavano proprio tutti lì, nel suo
sapersi rendere interessante agli occhi dei coetanei e nel saper
vendere la propria immagine, facendo credere di possedere un
incantesimo d’amore cui nessuna ragazza avrebbe potuto resistere. Perché erano tempi quelli, in cui si credeva, eccome, agli
incantesimi, e c’erano i furbi e gli ingenui, come sempre. Peccato
che, esagerando le sue manovre a cavallo tra superstizione e
sacrilegio, il rubacuori fosse poi finito nelle maglie del tribunale
ecclesiastico!
***
70
Sulla storia di questo personaggio
abbiamo trovato solo i verbali di due
interrogatori del 16982, quelli di
Antonio Gasco e di Giovanni Battista
Barbero, due giovani di Roccaverano,
entrambi forniti di sorelle che avevano suscitato l’interesse del Tardito,
convocati in canonica dall’arciprete
del posto per rispondere alle
domande di un delegato del Tribunale Vescovile, il quale era stato inviato lì per indagare sul ritrovamento in
chiesa di una polvere misteriosa.
Sono interrogatori brevi. Le risposte
sono chiare e precise; nel caso di
Antonio, in particolare, appaiono
piuttosto stringate all’inizio e poi più
esplicative, come se il giovane avesse
acquisito via via più sicurezza, forse
nel sentirsi coinvolto solo come
testimone, e semmai come accusatore, e non come complice.
Con lui l’inquirente parte un po’ da
lontano, chiedendogli se conosce
Maria Tardita di Roccaverano, ma
tosto giunge al punto: Marcantonio
gli ha mai mostrato una polvere
involta in una carta? In caso affermativo, vedendola, sarebbe in grado di
riconoscerla?
Così Antonio racconta che nei giorni
intorno alla Pentecoste erano andati,
lui e l’amico, a sentir messa nella
chiesa di San Giovanni, la parrocchiale vecchia, ormai divenuta chiesa
cimiteriale3. In quella occasione l’amico gli aveva mostrato appunto una
polvere, dicendogli che l’avrebbe
posta sotto la tovaglia dell’altare
della Madonna del Rosario «acciò
restasse nel tempo si diceva messa»4.
Ritornando però poi per prenderla,
non ve la aveva più ritrovata.
L’interrogante fa allora presentare al
giovane un pacchettino di carta con
dentro una polvere, che egli riconosce con sicurezza e senza dubbio
alcuno come quella in questione,
nonostante, dice, in precedenza l’avesse vista avvolta in uno straccio.
Ma a cosa avrebbe dovuto servire
quella polvere? Sappia o non sappia la
risposta, è dal testimone che l’inquirente deve avere delucidazioni, e
Antonio spiega che Marcantonio gli
aveva confidato che «se ne voleva
poi servire per farsi correre appresso delle garzone» e che ad insegnargli l’incantesimo era stata la madre,
«la quale ne sapeva molte di simili
fatuchiarie». Per convalidare poi la
sua affermazione, Antonio aggiunge
che un giorno l’amico si era precipitato in casa sua pretendendo a tutti i
costi di avere dei capelli di sua sorella: diceva di volerli intrecciare con i
suoi e «poi gettarli giù dall’acqua»,
con lo scopo ancora una volta di
«farsela correr a dietro».
Senza scomporsi, l’interrogante vuole
ora sapere «che polvere fosse quella
che li mostrò», vale a dire di quali
componenti fosse fatta.
«Il medesimo Marc’Antonio mi disse
che haveva preso un osso di morto
in San Gioanni la prima festa di
2 Archivio Vescovile di Acqui Terme, fondo Roccaverano, faldone Processi.
3 «L’antica parrocchiale di San Gioanni Battista si conservi ben coperta e ben serrata et vi si celebri
molte volte per l’anime de defunti». Archivio Vescovile di Acqui, Relazione della visita compiuta alla diocesi
di Acqui nel 1577 dal visitatore Apostolico, Mons. Gerolamo Ragazzoni,Vescovo di Bergamo, c. 64v, trascrizione
a cura di Paola Piana Toniolo.
4 Si trattava di una procedura tutt’altro che inusuale nel caso si volesse far assumere una valenza miracolistica a una cosa qualsiasi. I sacerdoti, che lo sapevano, controllavano sempre con attenzione l’altare, le
tovaglie e in genere tutti gli strumenti usati per le diverse cerimonie.
71
Pe n t e c o s t e ,
che l’haveva pestato e ridotto in una
polvere; anzi mi mostrò il sasso con
che lo pistò», è la risposta.
Stupore, un po’ di imbarazzo, ma
anche una certa dose di ammirazione sembrano trasparire dalle parole
di Antonio, che si sofferma anche sul
sasso usato per la bisogna, un oggetto sacrato dall’utilizzo per l’incantagione. Nessun commento, invece, da
parte dell’autorità ecclesiastica: se
una tomba era stata violata, c’era
allora più confidenza di oggi con
cadaveri, ossa, sepolcri, basti pensare
all’uso ed abuso delle reliquie5, e ciò
che realmente interessa è se Marcantonio ha avuto ancora occasione di
parlare della polvere con l’amico e
cosa eventualmente si siano detti.
Ma i due non si sono più incontrati,
si sono rivisti solo quella mattina,
quando Antonio era stato fermato
dall’arciprete per la convocazione e
l’altro, che aveva assistito alla scena,
l’aveva poi interrogato sull’accaduto,
esclamando infine minaccioso:
«Qualcheduno vole pigliarsi qual-
5
72
ch’archibuggiata!», dimostrandosi
dunque un giovane di caldi spiriti,
e non solo in campo amoroso...
Quanto è venuto a sapere basta
all’inquirente, che congeda il
testimone dopo avergli fatto
firmare la deposizione, naturalmente con un segno di
croce. Il giovane però, presa
confidenza, aggiunge un’informazione spontanea: il giorno
prima di quello in cui l’amico
aveva messo la polvere sull’altare, gliela aveva affidata in
prestito perché la facesse
vedere ad alcune ragazze, «le quali
non volevano credere, benché io gli
la havessi detto». Una di queste è la
sorella di Giovanni Battista Barbero.
È questo il motivo per cui il secondo
giovane è coinvolto nella faccenda e
subisce l’interrogatorio, confermando anche nei particolari quanto l’autorità era venuta a sapere in precedenza, sia sulle intenzioni sia sulle
azioni di Marcantonio e dello stesso
Antonio.
Ma fermiamoci un attimo su alcune
delle affermazioni del giovane: «Mi
disse che detto Marc’Antonio se ne
voleva servire per tirar adosso ad
una mia sorella per farsela correr
adietro»; «io viddi benissimo quando
gliela diede per mostrarla a noi, perché era poco discosto»: parole rivelatrici della strategia conquistatrice,
più o meno consapevole, del nostro,
dove contava assai di più il far sapere
dell’incantesimo che l’incantesimo in
se stesso: era importante, cioè, che la
Interessante, in proposito, la lettura di J. BENTLEY, Ossa senza pace, Milano 1988.
ragazza sapesse di
essere oggetto di
attenzioni particolari perché potesse
a sua volta guardare con maggiore interesse lo spasimante, e se non
lei, le altre almeno, prese da un po’ di
gelosia!
Ma poi Marcantonio non aveva mai
usato quella polvere: messala sull’altare, non l’aveva più ritrovata, e possiamo benissimo immaginare con
quanta incredula apprensione, quanti
sospetti e quanta rabbia.
Siamo all’ultimo atto dell’interrogatorio. L’inquirente fa portare alcune
polveri e invita anche questo secondo giovane a riconoscere quella da
lui veduta, cosa che viene compiuta
senza esitazione, indicando con precisione quella ritrovata sull’altare e
consegnata al Tribunale.
Peccato
che a questo punto
non ci sia possibile sentire la voce di
Marcantonio, la cui figura ci si era
rivelata, già da quanto detto, di un
certo rilievo. Purtroppo la parte che
ci è rimasta dell’azione giudiziaria
riguarda solo l’escussione dei due
testimoni, è comunque sufficiente a
farci un po’ meditare sul valore dell’essere e dell’apparire, del credere e
del far credere, e su quanto, in fondo,
mutati i tempi, i luoghi e gli oggetti
d’uso, gli uomini siano sempre uguali
a se stessi.
Roccaverano:
chiesa di San Giovanni.
73
Jules Michelet
ad Acqui
(giugno 1854)
traduzione e note
di Maria Teresa Gastaldi
Manuel de Diéguez, in una recensione (Combat,
16.4.1959) alla prima edizione integrale del
Journal, scriveva:“...voici un homme pour lequel le
monde est perdu s’il n’est pas fixé par l’écriture!
pour lequel la parole fonde l’existence”. Non
sapremmo trovare citazione migliore per
introdurre questo scritto: Michelet prendeva
nota di tutto. Ci vollero la pazienza e la dedizione della
moglie Athénaïs per ricomporre, lui morto, quelle migliaia
di fogli, così preziosi ad intenderne la complessa personalità e a ripercorrerne gli itinerari fisici e spirituali. E ci
volle poi, nel secolo scorso, la cura assidua di due curatori per redigerne l’edizione completa.
Sono pagine che hanno la freschezza e l’immediatezza
delle parole che giungono al labbro e alla penna senza
riflessioni; ma che pongono anche tanti problemi di
sistemazione storica e di interpretazione. Nelle note
(con numerazione araba), senza ovviamente la pretesa di
offrirne un’edizione critica, s’è voluto affrontare qualche
problema esplicativo: e dobbiamo anzitutto ringraziare il
prof. Gianni Rebora, attuale direttore-medico delle
Terme d’Acqui, e Lionello Archetti Maestri per i preziosi contributi e i consigli offertici.
Michelet compie tre viaggi in Italia: nel 1830, nel 1838 e
74
nel 1853-54: è alla fine di quest’ultimo, dopo aver trascorso l’inverno a
Nervi, che giunge alle Terme di
Acqui da Torino, quivi indirizzato da
medici amici, tra cui certamente
Gioacchino Valerio; si tratterrà dal 5
al 30 giugno 1854, per partire poi,
felicemente ristabilito, via TorinoChambéry-Ginevra, per Parigi, dove
alloggerà per qualche tempo presso
il genero Dumesnil.
Le note all’originale francese sono in caratteri
romani, accorpate a fondo articolo.
5 Lunedì
Comprato il baule, consegnato il
baule armadio.
Viaggio da Torino fino ad Alessandria
gradevole e rapido1; da Alessandria ad
Acqui, assai penosoI. Cortese accoglienza del direttore, il sig. cavalier
Ganone2, visita del medico. Una sorta
di debolezza improvvisa mi impedisce
di scendere. Bella camera e terrazzo3,
bella verzura, ombra, prato. Sonno di
dodici ore.
6 Martedì
Nient’altro che riposo assoluto.
Un’occhiata a Marie Stuart. Lunghe
piogge. Visitato il Fontanino (d’acqua
Riteniamo fondamentali, ad un
più approfondito studio su M. e
l’Italia, le seguenti opere:
J.MICHELET, Journal, a c. di
P.Viallaneix, poi P.Digeon, 4
voll., Paris, 1959-76 (per Acqui,
il t. II, 1962).
Gabriel MONOD, Michelet et
l’Italie, in Jules Michelet...
Etudes sur sa vie, Paris, 1905.
Theodora SCHARTEN, Les voyages et les séjours de Michelet en
Italie. Amitiés italiennes, Paris,
1934.
Teresa DI SCANIO,
Bibliographie de Michelet en
Italie, Firenze, 1969.
fredda), la stretta valle del Ravanasco.
Il medico, sig. Granetti4, consiglia un
bagno misto5 (non bere ancora).
La sera, bellissima passeggiata sul
ponte e verso la città. Natura poco
generosa, tuttavia: colline calcaree,
chiuse a circolo. Ma la Bormida non è
priva di grazia: le sue rive di una fresca
verzura. Un raggio pallido e delicato
di sole al tramonto dorava leggermente le scure rovine nere dell’antico
acquedotto romano. La pioggia era
appena cessata e tutto era già asciutto. La serata mi sembrava incantevole,
forse a causa di quella incantevole e
così cara compagnia6. Malato e fra
tante incertezze per il futuro, tuttavia
mi sentii felice.
1 In ferrovia; la tratta Alessandria–Acqui era in quegli anni in costruzione (v. 12 e 23 Giugno)
2 Non s’è trovata menzione di lui nelle pubblicazioni d’epoca.
3 Era la camera con terrazzo all’estremità di uno dei bracci dello stabilimento per i civili, eretti nel 1826
da Carlo Felice.
4 Il dr. Lorenzo Granetti, chirurgo della Real Casa, autore dei Cenni sulle Terme d’Acqui e sulla lebbra, pp.
262,Torino, 1841, e della Guida pratica dei balneanti alle Terme di Acqui e prospetto delle principali malattie...,
Torino, 1853, partecipò a Parigi nel 1851 al Congresso di medicina Omeopatica, disciplina che esercitò
apertamente all’ospedale Cottolengo.
5 Plinio Schivardi in Guida ai Bagni d’Acqui, Milano, 1873, p.42, ci inforna a tal riguardo che si mescolavano le acque della fonte solforosa fredda (l’attuale ‘acqua marcia’) a quelle calde dei laghi onde ottenere una temperatura di circa 28°-29° R.
6 Il M. era accompagnato dalla seconda moglie, la giovanissima Athénaïs Mialaret, sposata nel 1849.
75
8 Giovedì
7 Mercoledì
Alle 7 primo bagno, misto. Nessun’impressione sgradevole. Due pasti, alle
10 e alle 5. Dopo il bagno, andiamo a
vedere da vicino i pilastri dell’acquedotto.
Letto Granetti, Les bains romains7.
Percepii chiaramente ciò che potrebbero essere dei bagni veramente
popolari. Se il pianeta ripara se stesso
(vedi Laplace), non contiene forse i
mezzi per riparare il piccolo pianeta
uomo, ahimè, già così deteriorato, che
porta nel sangue la diffusione delle
antiche malattie (peste, lebbra, sifilide,
ecc.)?! Scrivo a Valerio, il medico8.
Nelle regioni alpine come al mare,
questo paese ha dei lebbrosi (Le
lépreux de la cité d’Aoste9; vedi anche
Granetti, initio10).
La sera, passeggiato sui prati, scendendo lungo la Bormida.
Coricato dopo il bagno e pranzato in
camera. Mi trovo meglio con queste
due innovazioni. Andiamo a vedere,
ad Acqui, la BollenteII e la cattedrale.
La cattedrale chiaramente negletta,
trascurata. Ma la Bollente, che potrebbe essere un vero tempio di carità,
non è meno abbandonata nel suo
misero ghetto ebreo11. Forza e impeto di questa bella fonte.
Il direttore ci mostra le fonti dello
stabilimento; danno quasi seicento
litri al minuto in ogni stagione12.
Scavando le fondamenta dello stabilimento dei poveri, si è reso necessario
soffocare e domare una quantità di
fonti simili; tutta la zona ribolliva. Lo
stabilimento romano esisteva ancora,
trecento anni fa, quando fu ricoperto
da uno smottamento della montagna13. Il sig. CavourIII presenta un progetto per ingrandire lo stabilimento
(dei ricchi), utilizzare la Bollente, ecc.
La sera, passeggiato lungo il bosco che
costeggia il fiume risalendone il corso.
La profonda solitudine mi faceva credere di essere sulle rive di un fiume
dell’America interna. È il carattere di
questi fiumi del Piemonte, senza barca
né comunicazioni a causa delle loro
numerose cascatelle14. Ciò stupisce
soprattutto a Torino; una città così
grande, un fiume così solitario! Bella e
7 Non ci risulta uno scritto con questo titolo. Si riferisce probabilmente ad una delle opere citate alla
nota 4.
8 Il medico Gioacchino Valerio: gli scriverà anche il 22.
9 Si riferisce all’opera di Xavier De Maistre.
10 V. nota 4 al 6 Giugno.
11 È infatti solo del 1879 la fontana monumentale dell’architetto Cerutti.
12 Lo Schivardi (cit., p.27) nota come le valutazioni del regime delle acque varino vistosamente nelle
testimonianze di vari autori (Bertini, Ratti, Lesne...). Il dr. Rebora ritiene invece che la portata si sia sempre aggirata intorno ai 400 litri/m.
13 In realtà, non si trattava della costruzione romana ma di un edificio medioevale (c. 1480) distrutto
dalla frana nel 1679.
14 Con chutes il M. allude al corso torrentizio della Bormida, segnato, a dirla con termine dialettale, da
frequenti ravözze.
76
dolce serata, armonica e in così grande armonia di cuore. Alcune greggi,
alcuni bambini intenti a sorvegliarle,
erano i soli esseri viventi. La cittadina,
all’orizzonte, non dava idea di vita. Il
ponte stretto e dritto15, che attraversa il fiume in linea retta, appare in
tutta evidenza una semplice via di
comunicazione; lo si direbbe un servitore che va diritto al suo lavoro16. La
sola attrattiva del paesaggio sta nelle
rovine romane che, tagliando obliquamente il fiume, hanno, nella loro oscura e cupa vetustà, un aspetto più animato, più umano, meno meccanico. Il
loro effetto morale è tanto più grande quanto più si avverte che esse
scompariranno e lasceranno allora il
paesaggio qual è, vale a dire mediocre
e d’effetto monotono.
Possa Acqui allora divenire quello che
potrebbe essere: un doppio anfiteatro17 di bagni popolari, lungo le due
rive del fiume, uno dei grandi centri
della fraternità italiana! Lo stato di sofferenza civilizza, addolcisce gli uomini,
apre i loro cuori, li dispone a benigni
sentimenti. I Piemontesi in particolare
hanno bisogno di vedere molti Italiani,
di prendere coscienza della grande
patria. È qui che sarebbe necessaria
una biblioteca comune, dei corsi e
soprattutto una musica popolare.
Scritto alla sig.ra Poux.
9 Venerdì
La mia piccola cara andò coraggiosamente a bere da sola il suo bicchier
d’acqua con un libro in mano. Io presi
il mio terzo bagno. Alle 11 salimmo
sulla collina che sta oltre lo smottamento18. Di là si vede la città da dietro
e, a destra, si intravede una cascatella
della Bormida che spiega molto bene
la sua perfetta solitudine. Si avvicinava
il temporale. La mia amata credeva di
sentir l’odore dei serpenti e delle
bisce; questi animali devono vivere
volentieri nelle fessure di queste colline calcaree. Rientrammo ed ella
dormì un poco sul canapé.
Letto Ausonio Franchi19, Introduction
philosophique et religieuse. Che il socialismo non è per niente il cristianesimo, lo dice, prima, Daniel Stern20
(riprendendolo da me?).
A cena, il professore21 fa molti complimenti; nuovo commensale, aria protettiva.
La sera, bellissima passeggiata alla
porta di Acqui. Il lungo e stretto viale
di platani22 giganteschi che risale la
Bormida verso occidente; serata
mirabilmente armonica e che termina
in una completa armonia di cuore.
15 Il ponte Carlo Alberto era stato inaugurato dal sovrano nel 1847; appariva stretto al M. in quanto
mancavano le due corsie pedonali realizzate a sbalzo in epoca posteriore. La scena idilliaca precedente
trova riscontro in stampe d’epoca.
16 “besogne”nel testo: indica un lavoro duro, che non concede distrazioni, e che quindi ben s’attaglia al
paragone.
17 Cfr. 26 giugno.
18 Si può dedurre che seguano la passeggiata Bellavista o quella del monte Stregone.
19 A.Franchi, pseudonimo di don Cristoforo Bonavino (Pegli,1821-Genova,1895), libero pensatore,
sospeso a divinis dopo l’adesione al razionalismo e al socialismo, fondò il giornale La Ragione.V. nota 41 al
16 giugno.
20 Pseudonimo di Marie C. S. de Flavigny, contessa di Agoult.
21 Si tratta, probabilmente, del prof. Rovida, di cui v. a domenica 11
22 Il viale è la lea che fiancheggiava corso Savona e le mura della città, servendo altresì da schermo alle
manovre militari.
77
10 Sabato
12 Lunedì
Visita del medico, il quale mi informa
che si vuol cedere Acqui a una compagnia anglo-piemontese23. Grande
pioggia e sole. Passeggiato da solo; la
campagna pareva fumare.Alle 3 la mia
amata va a bere; saliamo al punto
panoramico della casa abbandonata.
Letto un poco di Fourier24, volume I,
sull’anima del pianeta, le piccole anime
della Natura defunte, le metempsicosi.
Risalendo dopo la cena, un Francese in
esilio mi offre il suo giornale. Risaliamo
la strada lastricata che domina la
Bormida; dolcissima conversazione,
armonie religiose della sera.
Nel bagno leggo MignetV, così vero
nel dettaglio, così falso nell’insieme!
Letto anche cenni su Shah Milh27 (vedi
biblioteca britannica).
Incontrato il sig. Mézaise28, il quale mi
racconta le sue avventure di
Bruxelles, Jersey, Nice. Il direttore mi
presta il rapporto di Correnti29 sulla
ferrovia e le acque. Tortona è più
urgente di Acqui poiché il commercio
di Tortona si volgerebbe verso la
Lombardia, invece di scendere verso
Genova. Il governo, cedendo la ferrovia e le acque ad una compagnia, si
riserva di ingrandire a suo piacimento
lo stabilimento dei militari e quello
degli indigenti30. Ci vorrebbero delle
borse [di soggiorno] per ogni regione
d’Italia, dieci ai Lombardi, sei ai
Toscani, ecc., in base alla popolazione.
11 Domenica
Bagno raddoppiato nel tempo e nella
forza; l’acqua fredda presa dal Fontanino; bevuto acqua tiepida nel bagno. Alle 3, andiamo a bere al
Fontanino. Il direttore, poi il professor
RovidaIV (Milano) mi danno La Bollente25, che riporta il simpatico articolo del Diritto26.Triste e brutta serata: la
mia amata si annoia. Carattere selvaggio degli armenti; un piccolo bue dà
una cornata ad un cavallo.
13 Martedì
Intenso dolore allo stomaco dalle 9 a
mezzogiorno, passa stando a letto.
Fatto visita al professor Rovida. Il
direttore mette il sig. Mézaise, di
Caen, al tavolo accanto al nostro.
Operazione del giovane, a seguito di
23 Lo Schivardi (cit., p.15), parla di manovre del Saracco nel 1864 con capitali esteri, in specie di un
Melhado di Londra.
24 Passeggiata sulla sninistra del Ravanasco. Charles Fourier (1772-1837) col suo settimanale Il
Falansterio e l’organizzazione societaria che vi propone, si colloca tra gli utopisti del primo ‘800, teorici di
un’armonia universale, tanto cari al M.
25 La Bollente uscì per la prima volta ad Acqui tra il 1852 e il 1856.
26 Allude verosimilmente al giornale fondato da Agostino Depretis nel 1848.
27 Identità problematica; azzardando, si potrebbe pensare a “Salt Milh”, il sale, emblema di rigenerazione spirituale.
28 Pierre Mézaise, scienziato del primo ‘800, si occupò in particolare della chimica delle mele e del
sidro.
29 Il milanese Cesare Correnti, esule dopo il 1849, partecipò alla vita politica del Regno di Sardegna. Per
la questione della ferrovia, v. P. SCHIVARDI, cit., p.13.
30 Lo Schivardi ci informa (cit., p.13) che “colla costruzione dello stabilimento dei poveri si fece una terza
ripartizione della R. Fabbrica...e così si ebbe uno stabilimento detto civile, uno pei poveri, il terzo pei militari”. Ne
conseguirono così tre amministrazioni con tre direttori sanitari diversi. Giova notare che lo Schivardi
stesso, direttore dei Bagni e corrispondente di società mediche estere, è autore di un opuscolo (Aix ed
Acqui, Milano, 1870) in cui traccia, all’indomani dell’annessione di Aix-les-Bains alla Francia, un interessante confronto tra le proprietà delle acque e le strutture delle due città termali.
78
un’ernia31 (aggravata da
una doccia?). Muore alle
11 di sera.
Scrivo per ringraziare il
direttore de La Bollente.
Affrancato la lettera ad
Acqui e passeggiato sulla
strada per Alessandria e
al cimitero degli Ebrei32.
14 Mercoledì
Il direttore33 ci mostra lo
stabilimento degli ottanta poveri (in
tutto seicento all’anno). Ogni mattina
pesa il pane, la carne, assaggia il vino,
ecc. Estrema pulizia, tuttavia piccoli
cortili senza alberi, né terrazze, né
logge comuni. Piscine comuni come a
Loèche34, in cui entrano vestiti di lunghe camicie. Si cambiano le lenzuola
ogni otto giorni, le camicie due volte
alla settimana. Pane bianco, carne e
brodo, due bottigliette di vino al giorno. Le piscine comuni potrebbero
essere ingrandite, per gli esterni.
Il direttore aggiunge sempre otto
poveri agli ottanta ospiti. Ci dice che
c’erano molte più guarigioni tra i
poveri che tra i ricchi. Ciò è dovuto
alla dieta dei poveri, molto più regolata. Gli altri cercano solo divertimento,
avventure galanti, caffè, liquori, gelati.
Dimenticano la cura oppure la ostacolano.
Visita del sig. Granetti, il quale permette i fanghi alle gambe per domani.
Elogio dell’omeopatia che, afferma,
non mischia i medicinali,utilizzandone
solo uno alla volta e non affatica, usando una dose leggera la cui efficacia è
ulteriormente aumentata dalla triturazione e dallo sfregamento elettrico:
Più la dose è leggera, più ci si allontana
dalla materia e più questa azione è efficace.
Forza e salute decisamente migliorate, sembra: cosa di cui approfittai…
Meglio nel fisico e meglio nel cuore.
15 Giovedì (Corpus Domini)
Ma il 15, grande disturbo. I fanghi mi
avevano dato forti nausee. Alle 2, il
bagno mi ristabilisce.
Triste sensazione per la rapida sepoltura (dopo solo venti ore) che ha
avuto luogo nella serata di ieri; al
ritorno dalla passeggiata, vedemmo le
confraternite di Acqui, nel loro strano
costume, che sfilavano sul ponte, rapide, noncuranti. I pettegolezzi di Acqui
sui tre medici. Il cappellano scontento
per il moribondo con la bottiglia in
31 L’eventualità che si trattasse di un fanghino, vista la frequenza di ernie strozzate causate dallo sforzo notevole cui si sottoponevano gli addetti al recupero subacqueo dei fanghi, può essere plausibile.
32 In effetti la strada per Alessandria passava, a quell’ epoca, accanto al cimitero ebraico, là dove questo si trova tuttora.
33 Si potrebbe pensare al cav. dr. Luigi Ivaldi, del quale lo Schivardi (cit., p.63) dice che [1873] “da molti
anni dirige lo stabilimento dei poveri”, e che “dal 1862 in poi ha pubblicato importanti rendiconti”. Dallo stesso Schivardi (p.64) apprendiamo che le “mute” cominciavano con il 1° maggio e terminavano a fine settembre, e duravano 20 giorni.
34 Leukerbad, o Loèche les Bains, in Vallese, dove il M. potrebbe aver soggiornato.
79
tasca:
Bacco e Venere. Visita della
sig.ra Gallo. I nobili fanno
una partita durante la sepoltura35.Alla
processione di Acqui, il vescovo, un
tempo giudice della città, fa portare
davanti a sé la spada36.
16 Venerdì
Lo spettacolo di questa cittadina, o
meglio di questa accolita mondana, mi
ricordò le tante scene di durezza, di
indifferenza e di leggerezza di cui
sono stato testimone a diciotto anni
nella casa di cura in cui ho soggiornato a quell’epoca37. Là in più c’erano i
pazzi, ma qui c’è più follia: follia senza
forza, che deriva unicamente dall’inoperosità, dal vuoto estremo dello spirito.
In compenso abbiamo fatto diverse
bellissime passeggiate di cui conserverò il ricordo. Avantieri, ci inerpicammo e seguimmo anche per un buon
tratto la strada lastricata, da
questo lato del fiume, in
faccia ad Acqui38. Raggiungemmo sommità selvagge,
boscose, da cui scoprimmo, dal
lato più ripido della collina, la
valle del Ravanasco. Scesi molto
lentamente verso il fiume e verso la
notte, in uno stato d’animo religioso,
felice e malinconico che divenne triste
quando, dalle rovine romane, vedemmo le confraternite sfilare a passo di
carica sul ponte39.
Ieri, 15 sera, [Athénaïs] molto irritata
dalle critiche di coloro che non
amano che si voglia restare soli.
Salimmo dietro lo stabilimento, per
una strada assai malagevole, alla parrocchia dove certamente è stato
sepolto quel povero giovane40.Di là si
vede il Monviso, bene come da
Torino41. La morte, le Alpi, questi grandi pensieri, questi grandi argomenti ci
fecero tornare meno turbati dalle
miserie che avevamo lasciato in
basso.Queste ritorneranno sovente. Il
mondo detesta coloro che non gli
appartengono. Nobili, ricchi, preti, riconoscono istintivamente coloro il
cui cuore sta con il popolo. Tutto ciò
è bene, è giusto. Accetto volentieri
l’odio dei miei nemici naturali; Dio ci
35 La sepoltura è certamente quella del giovane morto la sera del 13. L’inumazione poche ore dopo il
decesso si può giustificare sia colla calura ormai estiva, sia col fatto che il giorno 15 ricorreva la festività
del Corpus Domini; il risentimento nei confronti della noncuranza dei ricchi gaudenti si inquadra nelle
propensioni politiche del M.
36 Quest’usanza si protrasse ancora fino a non molti decenni orsono (1958).
37 Il padre di M. fu contabile di una casa di cura dal 1814 al 1818.
38 Molto probabilmente si tratta della vecchia strada per Cavatore, lastricata, più volte nominata dal M.
(v., ad es., 10.VI)
39 Il portamento dei devoti e delle compagnie religiose, già stigmatizzato nelle note precedenti per la
sostanziale indifferenza alla triste cerimonia della sepoltura del giovane, assume qui una colorazione ironico-grottesca.
40 Dal contesto, appare molto probabile si tratti della chiesa di Lussito; a render plausibile l’identificazione del giovane morto con un fanghino si aggiungerà che da questo borgo proveniva tradizionalmente
gran parte degli addetti a questa mansione.
41 M., dopo l’inverno trascorso a Nervi, aveva soggiornato a Torino nella primavera di quell’anno, accolto da Brofferio, dai Valerio e da Ausonio Franchi, esponenti della sinistra anticlericale; pare che l’incontro
con M. “contribuisse a rafforzare l’orientamento della Ragione [diretto dal Franchi] che diede sempre grande
risalto al problema sociale” (cfr. Angiola Ferraris, in Storia di Torino,VI,Torino, 2000, p.728).
80
guardi solo dai malintesi dei nostri,
dall’ingiustizia degli amici! Contro
questo male, l’unico reale, Egli ci darà
come rifugio l’amore disinteressato
per il bene, il pensiero del bene sovrano; è lui stesso, in questo caso, la grande ricompensa42.
Questa mattina, fango per i piedi,
bagno alle 2: è il regime invariabile. Il
sig. Granetti venne la sera, molto sonnacchioso, e disse che avremmo cambiato solo lunedì. Visita del sig.
Bataglia43, avvocato a Milano, giornalista, direttore de L’Echo de la Bourse
(assomiglia a Guépin44). Quasi terminato Marie Stuart. Salito dal lato molto
scosceso che domina la riva sinistra
del Ravanasco45, pendio molto scuro a
quest’ora. La mia amata battezza le
minestre e le creme dello stabilimento con il nome molto indovinato di
ravanasquettes. Riceve tramite mio
cugino la lettera di suo fratello che
lascia la Luisiana e l’insegnamentoVI.
17 Sabato
Scritto ad AlfredVII (500 franchi) e a
Valerio (per Ginevra)46; spedisco solo
il 19. Fango e bagno. Passeggiato, la
sera, con la sig.ra Gallo lungo la
Bormida. La mia amata, non potendo
ottenere da lei una sola parola francese, si mette a parlare italiano.Valanga
di nuovi malati.
18 Domenica.
Fango e bagno. Passeggiato con il sig.
Mézaise. Ricevuto una lettera da
Quinet47, il quale ammette che bisogna
guardarsi dallo scoraggiare la Francia.
I funamboli: la ragazzina faceva trepidare; aveva una paura mortale dipinta sul
viso, essendo caduta, l’altro giorno, da
una corda che saliva al campanile di
Acqui.
Attraverso la terrazza, inaspettatamente, arriva il sig. avvocato Braggio,
che, l’indomani, mi invia tredici bottiglie; ne accetto due. Il sig. Lavisaro48,
redattore de La Bollente. Il sig.
Granetti ordina alla mia amata per la
sua insonnia, globuli di caffè49, di noci
di galla, ecc.
19 Lunedì
Per la prima volta scendo al mattino,
per subire il seppellimento nei fanghi
fino a tutta la coscia. Abilità e pulizia,
intelligenza del primo dei fangaroli,
42 Osservazioni come queste, oltre che indicare chiaramente il temperamento e l’umore politico del
nostro, richiamano lo stile ispirato della Montagna.
43 Michele Battaglia (1800-1870), segretario della Camera di Commercio di Milano, fonda nel 1936 l’Eco
della Borsa.
44 Il dr. Ange Guépin, di Nantes, ammiratore e compagno di lotta di M. Fu elemento particolarmente
rappresentativo del milieu sociale della provincia francese.
45 Verso il Cartino.
46 Alfred Dumesnil (1821-1894), genero di M. di cui aveva sposato la figlia di primo letto; professore al
Collège de France, fu segretario di Lamartine. L’accenno ad uno dei Valerio, ci fa pensare ad un rapporto
ormai stretto sia con il giornalista (Lorenzo) che con il medico (v. nota del 7 Giugno).
47 Edgar Quinet (1803-1875), collega di M. al Collège, subì anch’egli la reazione bonapartista. Scrisse una
storia della Rivoluzione e fu deputato progressista e anticlericale. L’astio antinapoleonico tuttavia non fa
velo al suo patriottismo.
48 Si può ipotizzare un refuso che rimandi a Giacinto Lavezzari (1815-1888), a lungo alla guida della
Gazzetta d’Acqui. Autore di una Guida ai bagni d’Acqui,Acqui, 1869, che contiene un interessante “Prospetto
statistico delle malattie curate nel 1868” del dr. D. De-Alessandri; il Lavezzari potrebbe quindi esser stato
anche giornalista della Bollente durante il primo periodo di pubblicazione di questo giornale (v. n. all’11
Giugno).
49 Il dr. Granetti era, come s’è visto, sostenitore delle cure omeopatiche.
81
Tomasini50 (d’inverno si guadagna da
vivere con la caccia: uccelli, non selvaggina di grossa taglia). Ripreso la lettura dell’Histoire de la loterie. La sera,
triste confidenza della sig.ra Gallo.
Visita del sig. avvocato SaraccoVIII,
deputato. Gli riferisco quanto mi
aveva detto il sig. Granetti, che un
tempo, quarant’anni fa, i bagni erano
gratuiti; c’era una piscina comune e,
tutt’intorno, alberghi51. La piscina è
tuttora comune a Loèche, nel Vallese:
tutte le malattie della pelle si immergono insieme nove ore al giorno.
Inoltre, un tempo, all’entrata di Acqui,
c’era un altro bacino comune, derivato dalla Bollente, dove le donne lavavano52.
20 Martedì
A destra i fanghi salivano fino al fegato. Benessere assoluto; una sorta di
abbraccio materno della natura che
avvolge e riscalda il suo figliolo ferito,
ferito dal lavoro e dal tempo. Mi
metto a meditare su questa forza stupefacente. Da noi si attribuisce un
potere curativo al fango di Parigi; questo non può non essere elettrico, se
l’estrema triturazione elettrizza. Il
fango dello stabilimento di Acqui,
composto per metà di silice, per un
quarto di ossido di allumina, per un
decimo di carbonato di calce, di trentadue millesimi di materia organica,
infine di solfato di calce, di magnesio,
di soda (pochissimo ferro, pochissimo
zolfo)53, il fango, dicevo, dello stabilimento, trae senza dubbio la sua forza
singolare dall’elettrizzazione continua
che gli danno le sorgenti. Le si vede
sgorgare a fatica attraverso il fango, il
quale in realtà non è altro che un
detrito della montagna. È evidente
come l’acqua colpisca senza sosta il
fango sottoterra, la forza di aprirsi e
dare passaggio. La scossa con cui
Hahnemann54 elettrizza i suoi medicinali, l’acqua la fornisce di continuo a
questa silice disciolta. Essa colpisce
incessantemente questi atomi di pietra focaia. Comunica loro non una fermentazione (l’odore sarebbe ben
diverso), ma una vera vivificazione.
Nella fermentazione nascono molti
esseri viventi; questo fango non fermentato, ma vivificato, sembra divenire esso stesso un essere di grado inferiore; inorganico e incapace di vivere
per suo conto, tanto meglio si presta
a comunicare quanto c’è in lui di vitale alla vita ferita dell’uomo.
Chi può dire con quante scosse successive, quanti sforzi e vittorie quest’acqua, dopo aver perforato la montagna, arriva allo strato sottile che finisce per dominare? Come materiali
sempre rinnovati dei fanghi, essa
porta la montagna stessa, che scioglie
in polvere, in atomi; che demolisce nel
sottosuolo procurandone enormi
frane, come quella che annientò, trecento anni fa55, l’antico stabilimento
50 Filippo MEDA, nell’ opuscolo “Le Terme di Acqui, Acqui, 1916 (in cui ricorda diffusamente il soggiorno
del M. conseguente ad una “artrite poliarticolare”), ritiene che si tratti di un nome di battesimo,Tomasino
(pp.30-31).
51 Dal riscontro con le testimonianze di autori e visitatori del primo Ottocento, compreso il francese
Lesne, e con il materiale iconografico d’epoca, non c’è conferma a questa affermazione. C’era, per contro, in antico, una vasca vicino alla Bollente in cui la gente poteva bagnarsi.
52 Si tratta della Molinetta, all’entrata di Acqui verso via Goito.
53 Le indicazioni, per quanto approssimative, corrispondono grossomodo a quelle fornite dallo Schivardi
(cit., p.39).
54 Il medico Christian Hahnemann (1755-1843) fu un precursore degli studi omeopatici.
55 In realtà, meno di duecento: v. nota 12 all’ 8 giugno.
82
romano. Aspettando nuove valanghe
di terra, la vigna, fra miseri boschi,
copre le sommità delle colline; dà vini
bianchi dolci dal forte sapore di silice,
più caldi che gradevoli.
Diverse persone notarono che uscendo dai fanghi si era un poco ebbri56.
Ciò non stupisce, sapendo che anche
parecchie fonti dei villaggi vicini danno
una sorta di ebbrezza.
Questo fango è, credo, un fenomeno
rarissimo. Chiedere a Lefebvre che
cosa sono i fanghi vulcanici d’Islanda,
quelli di Saint-Amand57.
Gli Antichi hanno avuto torto a considerare tali luoghi sacri? Lo sono, senza
alcun dubbio. Sono le vie tramite le
quali la vita materna della terra comunica ancora con i suoi figli, ne rianima
le forze esaurite, ne solleva la prostrazione, restituisce loro ardore e
speranza, facendoli partecipi della sua
immortalità, per quanto la loro natura lo permetta. Gli Antichi ebbero
torto ad adorarvi una ninfa locale; noi
vi veneriamo la ninfa universale, l’amorosa Provvidenza, la forza d’amore
che sembra voler sempre salire verso
di noi, dal profondo dell’esistenza,
benedirci e rianimarci.
Vera fonte dell’eterna giovinezza,
soprattutto per i poveri, cui una vita
sobria e regolare permette di approfittare di tutti i suoi benefici!
Se questo luogo è unico sul globo terrestre, come molti credono, come
osare farne un monopolio? Come
intromettere il fisco tra l’uomo e la
natura, proibire, in realtà, questo
beneficio alla massa dei poveri, che
hanno molti più malati e che ivi guariscono molto meglio dei ricchi, come
proibirlo ai soli che ne approfittano
veramente?
21 Mercoledì
Ieri sera, facciamo assaggiare il vino di
Acqui58 ai sigg. Mézaise e Bataglia, Rovida, due Milanesi. Ricevuto una lettera da Alfred. La mia amata è scontenta del bagno di acqua dolce. Fanghi:
quasi bene come ieri, sensibile vivificazione nella prima mezz’ora: rimasi tre
quarti d’ora; abilità e gentilezza, rapidità di Tomasini, vero scultore di tipo
egizio.
La dolcezza del seppellimento. Terra
mater, parola di significato profondo.
Questa bara di marmo è come una
culla per un malato, un giaciglio in cui
inumarsi allo scopo di vivere. La
tomba, la bara, la terra gettata su di
voi, tutto ciò non ha nulla di triste. È
una tomba piena di speranza. Potessimo giungere con la stessa disposizione all’altra tomba, quella che guarisce definitivamente59.
Ieri, nessuna riflessione. Era troppo
perfetta l’identificazione tra me e la
natura; non mi distinguevo da essa in
nulla.
Miracoli più che biblici. La terra stessa
dice ai paralitici: Alzatevi e camminate.
56 Il dr. Gianni Rebora, attuale direttore medico delle Terme, fa notare che il fango, a quell’epoca applicato in sedute molto più lunghe (v. 21 giugno) e in maggior quantità, provocava una sorta di shock favorendo come reazione la produzione di ormoni e di endorfine: ne conseguiva, e in parte lo si nota anche
oggi, una sensazione di benessere.
57 Del Lefebvre è difficile l’identificazione; Saint-Amand (Nord) è una stazione termale di acque solfato-calciche.
58 Trattasi, probabilmente, delle due bottiglie donate dall’ avv. Braggio (v. 18 giugno)
59 Quella che potrebbe apparire una nota ironica, è in realtà una conferma della visione teosofica della
natura cara al M.
83
Camminano, sostenuti improvvisamente dalla possente mano materna60.
Che spettacolo se, alzandosi la superficie della terra, scorgessimo l’immenso lavoro che le acque fanno sotto di
essa!
Omnia sub magna labentia flumina
terra…IX
I fiumi ne sono la parte meno curiosa.
Quale maggiore interesse in quelle
deboli fonti, che la natura intride lentamente delle forze vivificatrici contenute in certi minerali o comunicate
loro dall’elettrizzazione dovuta all’eterno movimento! Qui Baden, qui
Barèges, là Acqui o Karlsbad.
Campi, boschi, prati, sparite! Lasciateci
vedere il sotterraneo laboratorio della
grande madre universale, i suoi lavori
ignorati per rianimare, guarire, ristabilire i suoi figli, annullare il male che
l’uomo fa all’uomo, risanare le ferite,
combattere insomma la guerra tramite forze di amore e di pace.
I bei versi di Virgilio, di cui ho citato il
primo, i bei versi di Byron:
Non vivono questi monti e queste grotte
piangenti?
Non c’è sentimento nelle loro lacrime
silenziose?61
- questi versi, come sono inadeguati di
fronte a questa realtà grandiosa e toccante della maternità della natura,
nella sua preparazione delle acque
salutariX!
22 Giovedì
Avantieri, solo al bagno, fui violentemente colpito al cuore da un pensiero, da un’ipotesi dolorosa che mi
attraversò la mente (il giorno in cui
ella perdette sangue). Il sig. Granetti
dice che non è che la rottura di piccole vene, allorché vengono a seccarsi; bisogna applicarvi continuamente
della malva.
Ricevuta lettera da Valerio il medico e
risposto. Scritto a Charles e Poret62.
Ieri sera, con un tempo assai fresco,
forte vento, temporale imminente,
andiamo con la sig.ra Gallo ad affrancare le nostre lettere ad Acqui. Mi presta Leopardi, l’amante appassionato
della morteXI. Grande poeta. Influenza
morbosa? Insegnateci piuttosto la
resurrezione. Tuttavia l’amore per la
morte è così sincero qui e così profondo che da questa cenere (1836)
dovettero sortire sforzi disperati.
L’Italia, così ben stabilita al fondo della
morte, vi ha trovato una forza di azione. Pochi anni dopo, le bandiereXII…
Questa mattina, quaranta minuti di
fango, la testa un poco annebbiata; l’altro ieri è stato coperto il fegato, ieri la
milza, oggi il ventre63. Disputa tra
Tomasini ed il vecchio fangarolo; è
forse la rivalità tra i vecchi fanghini
che si tramandano il lavoro di padre in
figlio ed i nuovi venuti. Tomasini fa
parte di questi ultimi; è entrato qui, lui
e i suoi, venti anni fa64. Ha fatto studi
di filosofia, dice il direttore, il quale lo
60 Anche qui notiamo come la rimembranza evangelica si fondi sincretisticamente e senza sforzo nella
religiosità naturalistica del nostro.
61 G.BYRON. The Island, II, 16: “Live not the Stars and Mountains? Are the Waves/ Without a spirit? Are the
dropping caves/ Without a feeling in their silent tears?”
62 Hector Poret era uno dei suoi più vecchi amici.
63 Pratica oggi da tempo in disuso; non a caso, il leggero ottundimento (v. 20 giugno).
64 F. MEDA, (op.cit., pp.35-40) tratta a lungo di queste lotte corporative tra vecchie famiglie di fanghini
e nuovi assunti.
84
ha fatto nominare dalla direzione portiere dello stabilimento. Ha possedimenti per 25.000 franchi. Dei suoi due
figli uno sarà notaio, l’altro fangarolo.
La sera, passeggiato con il sig. Mézaise
e la sig.ra Gallo sulla strada selciata
che sale.
23 Venerdì
Tre quarti di fango; molto bene.
Ricevuto Les Vaudois dal sig. MeilleXIII,
ministro del culto65, tramite il sig.
Oliva, fratello della sig.ra Mancini. Il
Diritto inserisce l’appello di Victor
Hugo per la sottoscrizione in favore
degli esuli.
Leopardi ha un dolore di una fissità
terribile, che non si smentisce mai,
nemmeno alle nozze della sorella: Tu
auras des fils misérables ou lâches66. Ella
preferisce che siano miserabili.
Visto ad Acqui il sig. Lavenari, che lavora da due anni alla preparazione della
ferrovia. Scritto a Lefebvre.
24 Sabato
Quaranta minuti; benissimo. Qualunque ne sarà il risultato, mi rallegrerò
sempre di aver rivendicato per i poveri, per tutti. Evidentemente nessuno ci
pensava. Perlomeno si limiterà il
monopolio67 con un capitolato d’oneri, che imponga alla compagnia una
piscina comune per i poveri.
Ricevuto i versi del sig. professor
Rovida, di Milano, e del sig. Biorci68, di
Acqui. Rientrato a mezzogiorno e
conversato intimamente. Ogni giorno
la sento più perfetta69; ogni cosa, persino le letture apparentemente più
lontane, aumenta il mio attaccamento.
Chiacchierato stamattina con Tomasini. Gli consiglio di fare i suoi figli chimici, farmacisti, ecc.
Leopardi: né Dio, né la patria; né l’una
né l’altra delle grandi consolazioni.
L’Italia c’è tuttavia, grande e sublime,
ma un’Italia senza speranza. Infelice
piccola creatura, così grande nello spirito e così sfavorita, nata nel deserto
dell’aristocrazia. Non sospetta nemmeno [l’esistenza del]le sorgenti, le
fontane, la terra promessa della fraternità futura. Non ne conosce neppure il nome. AlfieriXIV gli ha inaridito
la Francia, che per tanti Europei rappresenta un valore fondamentale ed
è un dono di Dio. MontiXV gli ha infamato la Rivoluzione, gli ha indicato in
essa il bruciante pandemonium ove si
65 Jean-Pierre Meille (1817-1887) fondò i primi giornali valdesi ed in particolare l’Echo des Vallées
Vaudoises.
66 In Nelle nozze della sorella Paolina, vv. 16-17: “O miseri o codardi/ Figliuoli avrai. Miseri eleggi.” In realtà,
come si vede, la scelta è suggerita dal poeta.
67 La cosa, che preoccupava il M. (v. 20 giugno), andò in porto il giorno stesso (v. 26 giugno).
68 Cfr. D. BIORCI, I miei trent’anni,Torino, 1859, pp. 166-168: la poesia (Epitre) in francese, retorica e declamatoria, dedicata al M. è ivi riprodotta per intero:“Illustre Professeur, dont les nobles travaux/ des plus hardis
auteurs te mettront au niveau,/ avec un oeil perçant, un ton ferme et sévère...”(cortese segnalazione del prof.
C. Prosperi).
69 Manuel de Diéguez scrive di Athénaïs: “elle qui fut pourtant l’objet de la dévotion sensuelle la plus dévorante de la part de l’historien flamboyant des délires révolutionnaires”.
85
ode la tartarea tromba [in it.]. È arrivato nudo e privo delle idee vivificatrici
del tempo, portando in eredità null’atro che un lenzuolo funebre, una lampada d’alabastro in una tomba…
Sviluppa fino in fondo la parola di
Brutus che muore senza speranza; la
più bella certamente è: Il pensiero
dominante [in it.].
Riesumarsi. Singolare impressione
quando ci si riesuma, quando ci si rialza da questo sepolcro temporaneo,
quando questa forma bianca esce
dalla massa informe, informe e oscura,
d’aspetto funereo, ma per nulla malevola, al contrario: dolce e simpatica. Mi
ha riconciliato con un’idea penosa: la
terra, supremo letto di riposo.
Ricevuto lettere da Valerio, sig.ra
Poux, sig.ra Pappot. Passeggiato ad
Acqui con la sig.ra Gallo ed il sig.
Mézaise.
25 Domenica
Vado ai fanghi troppo presto e ne
sono piuttosto scontento.
La sig.ra Gallo vuol portare sua figlia a
Filadelfia per farle studiare medicina. Il
sig. Mézaise ci mostra delle foto di
Hugo e della sua famiglia, che mi commuovono assai (il vendicatore!).
Iniziato Les Vaudois di Muston70. Scritto
a Valerio per ottenere i posti71. Passeggiato con il sig. Mézaise risalendo
la Bormida. Facciamo, tutti e tre, un
mazzo di fiori di campo per la sig.ra
Gallo.
26 lunedì
Resto ai fanghi a lungo; mi ci trovo
benissimo subito. Quiete singolare,
quello che i mistici avrebbero chiamato uno stato d’animo adatto alla preghiera.Avvertii un sentimento di riconoscenza per la materna bontà della
natura che si sforza di arrivare a me
dal profondo delle cose e di guarire
ciò che è frutto della mia volontà mal
governata, voglio dire un ardore sconsiderato per il lavoro.
Il direttore ci informa che la legge che
fa di Acqui un monopolio è passata
sabato.
Scrivo a Valerio e Brofferio per il sig.
Mézaise. Tra uno scritto e l’altro, e
senza motivazione, vivo sentimento
d’amore per colei che, silenziosa, lavorava accanto a me.
Leopardi dedica i suoi primi versi a
Monti! (volume III, p. 327). Scrive una
leggenda di santi (volume II, p. 185).
Loda Gesù Cristo per aver per primo
biasimato il mondo, distruttore di
virtù. Anch’egli condanna l’uomo civile come uomo mondano. Con tutto
ciò non una parola di cattolicesimo,
non una di liberazione: né passato, né
avvenire! L’Italia sembra essere per lui
un sigillo inviolato.
La sera, salito con il sig. Mézaise alla
chiesetta della montagna72. Già si
miete il frumento nei luoghi ben riparati. In lontananza, il tappeto verde
delle alture si tinge di giallo. Scritto sull’album della sig.ra Gallo; ricevuto la
visita di un anziano soldato dell’esercito d’Italia, il sig. Carazzi, di Acqui73.
70 Alexis Muston (1810-1888), pastore valdese e intellettuale, scrisse “L’ Israël des Alpes. Histoire des
Vaudois...”,1851.
71 Probabilmente, gli chiede di prenotargli da Torino il viaggio di ritorno colla posta da Susa a
Lanslebourg.
72 Con tutta probabilità, la chiesa di Lussito.
73 Con “esercito d’Italia” allude all’esercito napoleonico; il Regno d’ Italia non comprendeva il Piemonte.
Si tratta comunque di un cognome acquese, probabilmente errata trascrizione di Caratti.
86
L’aspetto severo di questi luoghi li
investe di un’aura morale.Vi si va solo
consapevolmente. Non sono queste
[solo] acque nascoste che sono passate sopra strati di minerali e ne trasportano i principi indeboliti; non
sono luoghi di giochi, di rovina, di
veglia, di indigestioni e di malattie, di
intrighi effimeri e vergognosi, senza
passione, senza amore (la moglie del
generale e il console R. ad Acqui), luoghi impuri ed empi (nulla di più empio
che il mancare di rispetto alla terra,
questa divinità salvatrice, alla natura).
Veri luoghi di riviviscenza, di religione,
d’amore. Ricordo delle belle religioni
che onorarono il fuoco centrale in
queste acque calde o queste sorgenti
di fuoco. Guardate il povero Parcès74
che, dal profondo dell’India, ritorna
con un così lungo viaggio ai fuochi di
Bakou, alle sorgenti di nafta: legittimo
riconoscimento del grande operaio
interno che ci ha fatto questa terra e
la continua nel laboratorio sotterra-
neo. L’India vi cerca luce, aiuto per
preparare il cibo. Il Cinese, che vive
sulla pubblica piazza alla luce del gas
ardente (in tale paese, diecimila pozzi
salini forniscono sale e cottura del
sale, cottura di alimenti, illuminazione); e c’è di più, a volontà, scavano piccoli pozzi di fuoco per cucinare questi alimenti75. Riconoscenza della
Persia per il fuoco in generale.
Agni76, questo buon compagno di vita,
questo fedele amico del focolare, questo Prometeo caritatevole che prepara, trasforma per la nostra debolezza
l’alimento della vita, non mi stupisco
di vedere, nel Rig Véda, non solo l’uomo, ma la donna tesserne la lode
insiemeXVI, dedicargli l’inno che gli è
dovuto: dolce alimentatore di vita,
caro legatario d’amore!
Se si esclude una congestione polmonare all’età di trent’anni, non ero mai
stato malato. Ma il 2 Dicembre, dopo
la mia Histoire de 9377, fortemente provato, non costretto a letto ma ogni
74 Allude certamente ad un mito della tradizione indù.
75 V. testo e nota 40 dell’articolo seguente “Le terme e il divino....”
76 Agni è una delle più importanti divinità induiste, dio del fuoco, messaggero degli dei, spirito della vita.
77 Si tratta del tomo VI della Histoire de la Révolution, che riguarda gli avvenimenti dal novembre 1792 al
marzo 1793.
87
giorno più debole. Contro l’umidità di
Nantes, il clima secco di Nervi non
era stato sufficiente78. Nella primavera
del 54, a Torino, prescritto Acqui.
L’asciutto e serio monte Cerrat79. È
questa l’Italia? Boschi miseri, la
Bormida solitaria: percorso di cascatelle, niente barche. Quel poco di
caratteristico della regione è dovuto
all’acquedotto romano, che sparirà un
giorno. Stabilimento duraturo che esisteva ancora trecento anni fa80 (ma la
montagna, il lavorìo…).
Lo stabilimento su una riva, la città
sull’altra. Città murata (un tempo il
vescovo giudice); bel viale di platani
solitari e la superba Bollente, abbandonata, limpida; lo stabilimento sulla
riva destra e il suo Fontanino d’acqua
fredda. Forte odore di zolfo81, boschetti, lucciole alate [sic]. Una salita
dietro. Case abbandonate (sull’altro
lato il Ravanasco), del tutto solitarie,
sgradevoli alla vista: intrighi impuri,
effimeri, senza passione, del momento, di pura animalità.A lato, la casa dei
poveri. Un tempo netto punto di
separazione82. Solo per questo la vita
era meno mondana, le sofferenze
moralizzate. Non si osava tanto gioire
davanti ai poveri e, volenti o nolenti, si
era informati della loro miseria.
Guariscono molto di più83; quindi la
casa è loro, la fonte è loro.Ah! se sulle
due rive, ci fosse un anfiteatro84, un
centro di fraternità italiana…
I bagni sono accessori. Ma l’essenziale
è che bisogna entrare nella terra,
essere inumati, esumati.
Dietro lo stabilimento, uno strano
lago85. Sabbie spesse di un grigio
nerastro, in cui numerose piccole
sorgenti si sforzavano di uscire tutte
bulicanti. Molte avrebbero voluto
lanciare piccoli getti, ma erano ostacolate, emergendo solo attraverso
questa vagliatura.
Quel che io vedevo in superficie,
accade dappertutto al di sotto.
Quando lo stabilimento romano andò
distrutto e lo smottamento ricoprì
una vasta superficie, tutta la zona
ribolliva. Si dovettero soffocare innumerevoli piccole fonti. Le si soffocò
per un certo tempo.Tuttavia esse persistono, minano incessantemente i
78 In effetti, il 18 novembre 1853, M., (che da tempo era depresso per gli avvenimenti politici e per la
destituzione dal Collège de France), sentendosi sempre più stanco e malato, decide di lasciare Nantes e di
svernare a Nervi. Recatosi poi a Torino il 20 aprile, sarà, con tutta probabilità Gioacchino Valerio a consigliargli, dopo un consulto, le terme di Acqui.
79 Questo toponimo, certo di un’altura dei dintorni, potrebbe essere riferito ad una collina coperta di
cerri.
80 V. nota al 20 giugno.
81 Infatti la fonte fredda è molto più solforosa.
82 Di questa disposizione logistica dà conto lo Schivardi (cit., pp. 61 sgg.); fu Carlo Alberto nel 1847 a
erigere il nuovo Stabilimento dei Poveri.
83 È, questo, un motivo curioso sul quale M. insiste ripetutamente sia qui (v.14 e 20 giugno), sia nella
Montagne (cit., p.76).
84 V. all’8 giugno.
85 Non è altro che il lago dei fanghi.
88
NOTE
luoghi, non solo preparano futuri
smottamenti, ma portano costantemente la montagna verso il basso.
27 Martedì
Partenza del sig. Mézaise e della sig.ra
Gallo; si portano via i libri. Sudorazioni
eccessive, dolore alla coscia sinistra.
Temporale abortito. Fatto visita ad
Acqui al sig. Biorci, figlio dello storico
di Acqui, poeta italo-francese86.
Ricevuto visita del direttore, il quale
ha prestato le mie Légendes87 alla
signora, che le presta al Russo. I giornali annunciano la vittoria dei Turchi a
Silistra, prima dell’arrivo degli AngloFrancesi, ritirata dei RussiXVII. Ricevuto
La Revue de Bordeaux : articolo su Les
Femmes88 del sig.André LavertujonXVIII.
28 Mercoledì
Ultimo fango.Tomasini si raccomanda
al sig. Cantù89. Compresi i tre momenti del fango:
1° I primi dieci minuti: quiete e beatitudine, l’abbraccio materno della
terra.
2° Il quarto d’ora seguente: profondo
assorbimento che vi penetra con i
suoi spiriti vivificanti; si reagisce senza
dubbio, ma senza accorgersene.
86 Allude, con una certa ironica enfasi, ai versi
che il Biorci gli aveva dedicato (v. 24 giugno)
87 Sono le Légendes démocratiques du Nord, uscite
nel gennaio di quell’anno, che riunivano due precedenti pubblicazioni riguardanti la Polonia, la Russia
e i Principati danubiani.
88 Les Femmes de la Révolution, libretto del M.
pubblicato in quei mesi.
89 Lo Schivardi (cit., p.27) parla di un prof. Cantù
che rettifica le analisi delle acque del Fontanino
fatte da Ferrario nel 1841; ma qui potrebbe trattarsi semplicemente di un fanghino di sua fiducia al
quale Tomasini affida M. per le ultime applicazioni.
I
Michelet arriva ad Acqui, cittadina termale
situata nei pressi di Alessandria, con l’intenzione, già
espressa a Nervi, di farvi bagni di fango.
II
La Bollente è una fonte bulicante di acqua
calda che scaturisce, nella città stessa di Acqui, e
che si può ammirare ancora oggi, trasformata in
armoniosa fontana.
III
Si sa che Cavour, nel 1854, è a capo del
governo sardo.
IV
Cesare Rovida, professore di matematica al
Liceo di Milano, scrive una lettera a Michelet,
annunciando al suo “vicino di tavolo” che gli trasmette un numero de La Bollente, “foglio periodico
piemontese, che parla dell’onore che l’illustre
Michelet fa in questi giorni alle terme di Acqui, con
la sua presenza” (A. 4740, pièce 36).
V
Michelet legge o rilegge senza dubbio
l’Histoire de la Révoultion, pubblicata da Mignet nel
1824.
VI
Tancrède Mialaret, nato in Luisiana e sistemato dal padre, nel 1840, dai Gesuiti, a Cincinnati.
VII Lettera a A. Dumesnil, datata del giorno
stesso: Se non vi ho scritto, caro amico, come vi avevo
promesso, è perché sono stato come prostrato dal trattamento energico che subisco qui per il doppio effetto
delle acque minerali e dei bagni di fango caldo.Tutto ciò
è fortificante per l’avvenire, ma per il momento si è sfiniti; si vive in una sorta di sogno. Da quindici giorni non
tengo in mano una penna…In effetti è la prima volta,
da tantissimi anni, forse dalla mia nascita, che sono
veramente inoperoso…
VIII Giuseppe Saracco, nato nei pressi di Acqui
(1821-1907), avvocato a Torino, dove ha difeso, nel
1849, con Brofferio e Franchini, la causa del generale Ramorino, siede in Parlamento, nelle fila del
centro-sinistra.
IX
VIRGILIO, Georgiche, IV, 366.
X
Ne La Montagne (I,9), Michelet svilupperà
questo canto di gratitudine di cui il Journal del 20 e
21 giugno offre il preludio.
XI
Nato a Recanati, nelle Marche (1798-1837),
Giacomo Leopardi pubblica, nel 1831, i suoi famosi
Canti e, nel 1835, due Canti funebri, ai quali pensa
forse, in modo più particolare, Michelet.
XII Queste bandiere sono le bandiere del
Risorgimento.
XIII Giovanni-Pietro Meille, pastore valdese, ha
da poco fondato a Torino, nel 1852, La Buona
Novella, giornale di ispirazione protestante.
XIV Vittorio Alfieri, nato ad Asti (1749-1803),
che si può considerare il primo poeta italiano di
gusto romantico e, a questo titolo, il precursore di
Leopardi, è stato educato nella cultura francese
(non è forse di madre francese?). Legge i filosofi
francesi. È in Francia che fa stampare le sue tragedie. È all’influsso francese che deve quella raffinatezza, quell’eleganza, quella distinzione che non
sembrano prive, agli occhi di Michelet, di una certa
aridità mondana.
XV Vincenzo Monti, nato ad Alfonsine (17541828), poeta epico e drammatico, fu il caposcuola
del neo-classicismo. A partire dal 1796, consacra la
sua poesia all’ispirazione rivoluzionaria, quindi
diviene il protetto di Napoleone, che fa di lui, nel
1806, lo “storiografo del regno”.
XVI Michelet si spiegherà meglio ne La Bible de
89
l’Humanité ( I, 2° parte, capitolo V), ove sottolineerà l’importanza del ruolo della donna nella
vita religiosa persiana.
XVII La Turchia ha dichiarato guerra alla Russia
nel novembre 1853; la Francia e l’Inghilterra l’hanno imitata nel marzo 1854. In aprile, i Russi, che
hanno passato il Danubio, assediano Silistra. In
giugno, lo sbarco del corpo di spedizione francoinglese, la minaccia austriaca e la resistenza turca
costringono l’esercito russo a evacuare i principati rumeni. È allora che gli Alleati decidono di
portare la guerra in Crimea.
XVIII André Lavertujon, nato a Périgueux nel
1827, fa parte dal luglio 1849 al dicembre 1851
del comitato democratico socialista e collabora a
diversi giornali parigini. Dopo il colpo di stato del
2 dicembre, viaggia nei principati danubiani.
Rientrato in Francia, scrive ne La Gironde, di cui
diventa, nel 1855, il capo redattore. In sintonia
con Michelet, entra in relazioni epistolari con lui
a partire dal 1857.
XIX Una lettera indirizzata a Dumesnil il 17
giugno annunciava e spiegava la partenza di
Michelet:”Parto di qui il 30 giugno. Mi fermo qualche giorno a Ginevra per gli Archivi e il mio XVIe
siècle. Sarò a Parigi molto probabilmente verso il
13 luglio e lì mi ristabilirò definitivamente presso
di voi.”
3° L’ultimo: il sudore, che ha già iniziato
ad inondarvi, diviene sovrabbondante.
Le parti non coperte sono in un vero e
proprio bagno di vapore. Fanno dimenticare quelle che sono sotto la terra.
Questa terra secca, duttile, pulitissima,
in realtà scorre via facilmente con un
po’ d’acqua. Uscite splendenti di una
luce di giovinezza; gli anni e i dolori
sembrano restare sul fondo della vasca.
Temporale e tempesta affettiva; dolore
alla coscia sinistra, per un poco assai
forte. La sera, fatto il giro di Acqui.
Perso la visita del sig. Saracco. Ricevuto
lettera dalla sig.ra Duclos. Ritornati con
una serata bellissima, felici della nostra
tempesta passeggera; le lucciole illuminano il giardino.
29 Giovedì
Niente più fanghi e ciononostante affaticamento, sogni laboriosi. Grande calore. La sera, visita del sig. Biorci, il mio
poeta90.
LUGLIO
1° Sabato
Partiti da AcquiXIX per Chambéry, con
Le Duché, ingegnere francese stabilitosi ad Acqui. Cena dai Valerio. Partiti da
Susa alle 10 di sera (dodici cavalli), raggiunta la cima91 alle 4, fatto colazione
alle 6 a Lanslebourg.
90 V. 24 e 27 giugno
91 Il valico del Moncenisio, ormai facilmente percorribile in carrozza grazie alla strada napolenica. È
interessante notare come il 3 luglio, a Chambéry, M.
rievochi in un lungo excursus il passaggio delle Alpi
con i toni e le immagini che caratterizzarono tutta la
letteratura di viaggio dei secoli precedenti e romantica in particolare; soffermandosi poi a considerare
con affettuosa simpatia i costumi e le condizioni economiche e sociali della Liguria e delle regioni alpine
che ha appena lasciato.
90
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Le terme
e il divino.
Allegorie e cultura
delle acque dagli antichi
a Jules Michelet
di Riccardo Brondolo
A chi capitasse di lasciarsi andare -durante gli ozi di una vacanza
démodée, o tra le more di una cura termale- a considerare le
terme come categoria storico-letteraria e -perché no- filosofica,
si presenterebbero, facilmente individuabili e sostenute da ricorrenti richiami, due linee di sviluppo. Infatti, sia attraverso l’osservazione degli elementi naturali originari (grotte-acque-fonti), trasfigurati in luoghi di culto e mutatisi via via in manufatti termali,
sia secondando un’attenzione semantica al mutarsi della nomenclatura attinente a quei luoghi, alla gestualità, ai riti loro associati,
siamo per un verso condotti a seguire la vicenda del concetto
vita-morte-resurrezione attraverso l’elemento equoreo dalle
civiltà cino-indo-persiane, alle filosofie presocratiche, ai miti classici, al cristianesimo, ai tempi nostri; parallelamente, ma anche in
qualche modo all’interno di quell’evoluzione, va delineandosi
emblematicamente ai nostri occhi, attraverso le valenze attribuite ai bagni termali e alla loro istituzione, quell’evoluzione dello
spirito umano che, dal secolo XVIII al XX, prende i nomi di
92
Illuminismo e di Romanticismo, fino
ad estenuarsi nelle fughe verso l’esotismo orientale. In questo senso, il
processo sinusoidale della storia, col
suo succedersi di periodi sentimentali e razionalistici, trova conferma, e le
terme possono così assumere il valore di un’istituzione-topos (certo, una
tra le tante!) attraverso la quale, vero
simbolo guida, si può seguire lo sviluppo dello spirito e delle vicende
dell’uomo.
Vediamo di chiarire. Considerata universalmente l’acqua come principale
dei quattro elementi, quello che, indispensabile al seme e al suo schiudersi, presiede alla vita in ogni suo stadio,
nel mondo occidentale possiamo
notare come, al soprannaturale antropomorfo dell’ antichità ad essa collegato (divinità dei fiumi, ninfe delle
fonti, eroi divinizzati grazie all’immersione) fece riscontro la riproduzione
nostalgica che (come habitus mentale
e soprattutto in campo artistico-figurativo) di quell’eredità realizzò il
mondo rinascimentale1; ma, dopo il
rappel à l’ordre razionalistico dell’Illuminismo, con curiosità ammirata sì
per la scienza antica ma con corrosiva ironia per il mito e la superstizione, la sensibilità si biforca: e se da un
lato, in campo artistico-figurativo
(Winckelmann), si va sostituendo
all’antropomorfismo antico una nuova “archeologia della nostalgia”2 che
idealizza e racchiude in un rigore
assoluto quel patrimonio di forme ed
immagini legato alle ninfe e a Nettu-
no, assistiamo per contro, a partire
dalla metà del Settecento, in una prospettiva più vasta e in ispecie letteraria, alla trasfigurazione romantica della
simbologia delle acque. Per cui, mutati e trasmutati i luoghi di richiamo e
seduzione dal sud-est classico al
nord-ovest del revival celtico e barbarico del Romanticismo (con i torrenti
in piena, le brume ossianiche, tra i
pozzi e i fiumi di Camelot, le sfuggenti paludi di Avalon e le acque fascinose e perditrici della Lorelei) si giungerà via via, con i grandi poeti dell’Ottocento, ad una contaminazione di
simboli classici e romantici, fino a
riprendere col Decadentismo, sullo
scorcio del secolo, le vie di fuga dell’Oriente; oppure con il culto, proprio
dei tempi nostri, dell’acqua come
manifestazione prima delle forze della
Gran Madre, contemplate visivamente e teorizzate nelle dottrine scientologiche, del New Age, e ossessivamente proposte fin nei loro risvolti deteriori e commerciali. Un sito mediatico
annuncia oggi: “Il new age scopre la
piscina.Arriva in Italia lo yoga da praticare in acqua”3. In tal modo il cerchio si
chiude ed è con una certa tristezza
che constatiamo come dalle terme
calde di Imera e Segesta, create dalle
ninfe per Ercole, dalle Termopili riscaldate dal corpo ardente del mitico
eroe, dal bagno tepido di Cencree, da
cui traeva ristoro Elena, siamo passati
alla fitness della piscina. Ma ogni epoca
ha gli dei e le acque che si è guadagnata.
1 Si veda, in proposito ed in ambito locale, il Ninfale d’Idralea, proposto recentemente negli Atti del convegno su Letteratura e Terme, tenutosi in Acqui, a cura di Carlo Prosperi, nel maggio 2004 (Ovada, 2005, p.
85 sgg.).
2 Sono debitore dell’espressione al bel titolo di J. BOARDMAN, Archeologia della nostalgia-Come i greci reinventarono il loro passato, Milano, 2004.
3 www.blubleu.it
93
Acqua e fuoco:
ministri di alchimie
celesti e naturali
Volendo seguire comunque la prima
traccia di cui s’è parlato, accenneremo
solo per sommi capi alla presenza e
alla funzione dell’acqua e del fuoco
nelle civiltà primitive, nelle religioni
(animismo, panteismo...) e nei sistemi
filosofico-religiosi dell’antichità. Basterà, qui, qualche riferimento e qualche immagine.
Nel mondo antico, l’azione terapeutica dei due elementi, rivolta sia al
corpo sia allo spirito, tende costantemente a farsi simbologia lustrale: l’azione risanatrice e benefica dell’acqua
e del calore viene cioè in qualche
modo superata dal valore catartico
che assume il passaggio attraverso
l’acqua ed il fuoco. Nell’antica Cina
del Tao, proclama Lao - Tze:“La suprema bontà somiglia all’acqua: con tutti in
pace ed a tutti giovevole. Essa dimora in
basso, dove l’uomo sdegna stare...”; e
ancora: “L’uomo saggio ama l’acqua”.
Significativa, nello stesso ambito,
anche questa testimonianza-insegnamento di Confucio: un giorno il maestro e i suoi discepoli passeggiavano
nei pressi della Gola Lu, che era attraversata da un fiume così turbolento e
pieno di rocce, rapide e cascate che
nessun pesce o tartaruga poteva nuotarvi.Videro un vecchio nella corrente del fiume, poi lo videro inabissarsi.
Confucio inviò i suoi studenti verso
valle, affinché tentassero di trarre
l’uomo in salvo dal torrente, ma con
loro grande sorpresa il vecchio emerse d’un tratto dall’acqua e raggiunse
saldamente la riva. Confucio domandò all’anziano gentiluomo come fosse
sopravvissuto alla furia del fiume ed
egli rispose:“So come calarmi in un vortice discendente e come uscire in un vortice ascendente. Seguo la via dell’acqua e
non faccio nulla per oppormi. La sua
natura è la mia stessa natura”. Parabola
simile ci propone il Budda: un bovaro
in autunno fece attraversare il Gange
all’armento: prima i tori, poi le vacche
e i buoi, quindi i giovenchi, e poi i
deboli vitelli; e tutti quanti arrivarono
salvi all’altra sponda. V’era poi un
tenero vitellino appena nato, e lui
pure attraversò le acque e giunse
salvo.Anche in questo passo sono evidenti funzioni e simbologia dell’acquafiume: per chi fa la buona scelta di un
rischio temporalmente misurabile, e
affronta un passaggio difficile, c’è il
sicuro approdo ad una dimensione
superiore, ultratemporale, eterna.4
Un’immagine sorella troviamo in una
tanka giapponese di Otomo Yakamochi: “Sappi che tutto / in questa vita è
vano; di monti e fiumi / contempla la bellezza: / là è la vera via”. Del resto, lo
4 In epoca moderna, poi, a nessuno sfugge il significato -pur diversamente simbolico, tra prova fisica e
pratica tradizionale- delle nuotate di Mao nello Yang-Tze-Kiang.
94
scintoismo, col suo culto degli antenati, prevedeva riti di purificazione, e una
vasca d’acqua per i lavaggi rituali stava
avanti il tempio.
Nella Persia del primo millennio a C.
il culto di Mitra deifica la luce che,
accompagnandosi al calore, presiede
tramite le acque alla vegetazione e alla
crescita; ma nella terra di Zoroastro
l’energia creatrice è rappresentata
piuttosto dal fuoco, e i templi del
Fuoco sono frequenti in quelle regioni. In India invece, nell’India dei Veda,
nella rivelazione brahamiana degli
Upanishad e nelle formule evocatrici
dei Mantra, è invece l’acqua a rappresentare l’elemento di culto fondamentale, soprattutto nei riti di vegetazione e di fertilità. Gli inni-preghiera
dei Rig-veda si rivolgono a Indra, il dio
della guerra, del tuono e del fuoco, ma
anche della pioggia fecondatrice e,
come tale, capace di ridare vita agli
eroi caduti in battaglia e fecondità alla
terra intristita: incontreremo ampia
traccia del fascino di queste pratiche
religiose, basate sul dualismo morterisurrezione, nell’Occidente contemporaneo e, soprattutto, nella poesia di
T. S. Eliot. Sarà in ogni caso illuminante notare come il fuoco e l’acqua continuino nell’India contemporanea a
rappresentare la catarsi e il passaggio
vita-morte-resurrezione con i riti
del rogo dei cadaveri sulle rive del
Gange: alle cui acque le ceneri purificate dal fuoco vengono affidate per
fare rientrare il defunto nella Pace
Ineffabile della Natura rinnovellantesi.
Spostandoci ad ovest, e considerando
negli stessi secoli le filosofie presocratiche, notiamo come per Talete il
nutrimento di tutte le cose è umido.
“La terra sta sopra l’acqua”: per cui,
l’acqua è il principio che sorregge la
terra. Più attento al divenire delle
cose, Eraclito nei suoi Aforismi sostiene che “non è possibile discendere
due volte nello stesso fiume; per la
velocità del movimento, tutto si disperde e si ricompone nuovamente,
tutto viene e va”. Per Empedocle la
nascita e la fine delle cose si spiega
con l’interazione dei quattro elementi; Democrito affina il discorso e assegna al moto vorticoso degli atomi il
generarsi e il perire dei mondi; ma
Orazio, tra gli ultimi epigoni democritei, a colmare i suoi desideri invoca
una fonte d’ acqua perenne, e sacrifica alla fons Bandusiae, presenza divina
che vuol garantirsi amica5. Non è difficile, del resto, riscontrare la pregnanza della simbologia delle acque e delle
terme nel mondo classico. La personificazione degli elementi naturali era
comune nell’Ellade e nella penisola
italica: sorgenti, polle e corsi d’acqua,
investiti o meno di un riscontro mitologico, ma comunque legati al sostentamento di una comunità, bastavano
ad indicare una presenza del divino.
“Di conseguenza questi luoghi venivano
abitati come minimo da una ninfa ad
hoc, se non da un dio”6. Le grotte, le
cavità sotterranee percorse dalle
acque, propiziano le effusioni amorose, la fecondazione, presiedono alla
gestazione e alla nascita come l’alvo
materno e, popolate di pesci, ne rac-
5 Non sarà fuor di luogo accennare qui a quell’inno latino alla fecondità che è il Pervigilium Veneris, tutto
pervaso dell’umidità generatrice portata dalle “nubi primaverili” alla terra:“La pioggia del Cielo fluì nel grembo alla Sposa ferace/ per fondersi al suo gran corpo e nutrire ogni frutto”.
6 J. BOARDMAN, cit, p. 102.
95
colgono la simbologia di vita che sarà
ripresa dal cristianesimo; con il doppio spacco di entrata (morte, inumazione) ed uscita (risurrezione) sono
figurazione emblematica (e lo ritroveremo evidenziato in Michelet) del
processo di rigenerazione cui s’affidano le venturose credenze dell’uomo.
La divinità, la ninfa o il gigante - eroe
potevano poi modificare in favore dell’uomo l’idrologia preesistente: è il
caso del prosciugato padule di Tempe,
del lago di Copaide, di quello
d’Averno, delle terme di Imera e di
Segesta; e nella fonte Ortigia, fatta
sgorgare dalle ninfe presso Siracusa
per compiacere Artemide, vivono,
significativamente, i pesci sacri.7
Con lo spiritualismo cristiano la funzione lustrale delle acque tende a farsi
vieppiù simbolica, passando dal battesimo per immersione del Cristo e dei
primi credenti, alla semplice abluzione
di parte del capo del bimbo, all’aspersione della bara del defunto quale salvacondotto per la Gerusalemme celeste prima dell’ “In Paradisum deducant
te angeli”. È comunque sempre e ben
perspicua la funzione dell’acqua benedetta quale lavacro del corpo-materia
dalle scorie del peccato e del corruttibile, e parimenti come fecondo
mezzo di rigenerazione. In questo
senso, esemplare la funzione delle
acque che mondano Dante nei riti
lustrali del Paradiso terrestre e che al
contempo gli consentono il passaggio
all’esperienza eccezionale della pace
perfetta (si rammenti il parallelismo
con la Shantih buddista) dei Cieli,
senza dimenticare come poco prima,
nel canto XXVI, la più alta voce poe-
tica del Medioevo cristiano abbia
ripreso dalle Scritture orientali, per il
lussurioso Daniello, l’antica funzione
purificatrice del fuoco:“Poi s’ascose nel
foco che gli affina”.
In epoca medioevale fioriscono poi
credenze e leggende nell’Europa settentrionale, sulle quali, per intenderci,
non è il caso qui di soffermarsi, vista la
larga - anche se discutibile - divulgazione e contaminazione che hanno
nel tempo nostro, tramite media cinematografici: basterà qui ricordare, per
tenerci aderenti al nostro assunto,
che la rigenerazione dei valorosi
morti in battaglia avviene nelle acque
tra le quali appare e si dilegua la mitica Avalon.
In epoca moderna, il discorso e le sue
figurazioni si fanno più articolati: dalla
metà del Settecento le acque termali
ed i fanghi si propongono così come
sintesi emblematica tra le due Weltanschauung, quella sturmeriana-romantica che richiama le valenze simboliche del fuoco, e quella classica ben
rappresentata dalla calma delle acque:
la lenta e impercettibile ma infallibile
azione di queste, opposta ai vistosi,
rumorosi, imprevedibili effetti del
fuoco. Nel Goethe del periodo weimariano (1775-85) (che assumiamo
come guida a questa sensibilità e a
questa visione filosofica), notiamo
come, alla creazione artistica tumultuosa, orgiastica e “vulcanica”, ma caotica e imprecisa del periodo sturmeriano, si contrapponga un operare che
decanta quei sensi e sentimenti, li
riordina procedendo lento, impercettibile, ma con sviluppo sicuro: proprio
7 Sulla funzione pratica delle terme e sulla loro importanza come fatto di costume in Roma, si rimanda ai saggi di F. PIZZIMENTI e di F. BERTINI in Letteratura e terme, a c. di C. Prosperi, cit., p.7 sgg.
96
secondo lo stesso procedere delle
acque sotterranee sulla roccia ignea,
con un “nettunismo” interiore. Da qui
l’invito -costante da allora nelle opere
del nostro- a lasciarsi avvolgere e
compenetrare dalla serenità impassibile della Natura, ad abbandonarsi,
inconsci e fiduciosi, a Lei:“Avvolge l’uomo nell’oscurità ed eternamente lo spinge alla luce. Lo rende soggetto alla terra,
tardo e pesante, e sempre lo riscuote...
Non le si estorce mai alcun dono che
essa non dia volontariamente... Mi ha
condotto in questo mondo e me ne farà
uscire. Mi affido a lei. Può fare di me
quello che vuole. Non odierà l’opera
sua...”.8 All’interno di questa concezione, è frequentemente riscontrabile
nelle sue opere poetiche come
Goethe intenda l’uomo costantemente legato all’acqua: si veda Alla luna:
“Questo cuore in fiamme, che tu conosci
così mutevole, lo tieni avvinto alla corrente, quando essa, nella desolata notte
invernale si gonfia di morte, o nella stupenda vita primaverile sgorga intorno ai
virgulti...”. Il richiamo ed il fascino esercitato in lui dalle dottrine orientali si
avverte poi nel Canto di Maometto e
nel successivo Canto degli spiriti sull’ac-
qua: entrambi sono concepiti sullo
spunto di un versetto del Corano che
afferma: “La nostra vita presente è
nient’altro che acqua”. E Goethe conclude: “Anima dell’uomo, come somigli
all’acqua!”.9
Anche Novalis, in quegli stessi anni,
avverte potente il richiamo delle teosofie orientali: per i Discepoli di Sais la
Natura ed i suoi rapporti con l’uomo
sono misteriosamente prossimi alla
rivelazione a Sais, nell’Oriente ricco e
favoloso, sulla terra delle antiche civiltà, presso il simulacro della divinità, di
Isis misteriosa: e Giacinto, che desiderava ardentemente attingere l’anima
della natura, dopo fatiche e peripezie
s’imbatte in una fonte cristallina che
tra tanti fiori scorre in una valle: guidato amabilmente da questi e dal rio,
giunge alla sacra dimora. Sollevato il
velo della dea di Sais il neofita scopre,
a seconda delle versioni, la sua sposa
o semplicemente se stesso. È anche
qui che il destino dell’uomo si compie, con moto che diremmo circolare,
attraverso le acque10.
Ma la pagina in cui l’eredità dell’antico
Oriente è più vivamente percepita,
per cui più chiaro appare il significato
8 W.GOETHE (- G.Ch.TOBLER?), Inno alla Natura, capi 17, 27, 30.V. anche, qui, la nota 40.
9 Bisognerà tuttavia notare come la divinità della Natura G. la colga esplicitata nello spettacolo sublime e ineffabile, nell’immane, insondabile e pur tangibilissima potenza e grandezza della montagna: scalato il Brocken, scriverà a Carlotta von Stein che “sull’altare del diavolo[reminiscenza del passo evangelico
del Cristo tentato nel deserto e portato sul monte “altum valde”] ho offerto al mio Dio il più caro ringraziamento”. E si veda anche il Saggio sul granito. La stessa propensione troveremo in Michelet, in particolare appunto nell’opera poetico-teosofica La Montagna. Del resto, acqua e fuoco operano e hanno operato nelle viscere del monte, e sono colti come propaggini operative della divinità, di cui l’uomo, saggio o
ispirato, si giova.
10 Ricorderemo ancora, tra le tante voci dell’epoca, il canto di Corinna (M.me DE STAËL, Corinna, o l’Italia,
XIII, 4°) nelle campagne di Napoli: “Scorgo il lago d’Averno, vulcano spento, le cui onde ispiravano terrore;
l’Acheronte e il Flegetonte che una fiamma sotterranea fa ribollire... il fuoco, questa vita divorante che crea il
mondo e lo consuma... Un Tritone ha sommerso in queste onde il Troiano temerario che osò sfidare gli dei del mare
col suo canto...In mezzo a questi dirupi terribili, antichi testimoni della creazione, si vede una montagna nuova
che il vulcano ha fatto sorgere. Qui la terra è tempestosa come il mare...”. Creazione, morte, ed eterno ritorno per acqua e fuoco.
97
simbolico di catarsi e di rigenerazione
affidato alle acque, la troviamo nell’età nostra. Nel poemetto The Waste
Land (1922) T. S. Eliot presenta la tragica situazione di una civiltà ferita (la
nostra), desolata nelle sue rovine, per
la quale l’unico rimedio sembra poter
sussistere nel richiamo ad un Rito di
Vegetazione, già ripreso nella leggenda
del Graal dalla tradizione indiana dei
Veda. La figura del Re Pescatore (si
rammenti: il pesce, simbolo ancestrale
della vita, è associato nell’iconografia
catacombale al Cristo) è quella di un
re ferito, che ha perso la virilità dalla
quale dipende la vita e lo sviluppo del
suo popolo. Solo con un rito che ne
recuperi la fertilità potrà rivegetare
anche la sua terra. Con un linguaggio
immaginifico, con una secchezza ispirata di parole che procedono per fulminanti accostamenti e citazioni, Eliot
si rifà agli Upanishad e ai Mantra attraverso i quali ci si rivolgeva a Indra, per
ottenere la grazia, il miracolo della
pioggia fecondatrice: ma perché la
preghiera venga esaudita occorre il
sacrificio, la catarsi, come per noi la
croce di Cristo: ecco quindi il richiamo al Sermone del fuoco del Budda,
corrispettivo del discorso della Montagna, con l’accettazione del fuoco
che brucia il peccato, i beni materiali e
che da ardore erotico e fiamma
distruggitrice si fa simbolo dell’amore
puro. Appare così significativa la citazione dantesca di Arnaud Daniel, del
fuoco affinatore, e dell’ardore lussu-
rioso di Agostino che si fa amore cristiano.
Più oltre, Eliot richiama un altro rito
propiziatore di pioggia, per cui tra i
popoli orientali perseguitati dalla siccità il fantoccio del Re di maggio, o
Spirito della vegetazione, veniva affogato: ed ecco i versi famosi in cui
Fleba il fenicio, nella sua Morte per
acqua, viene spolpato fino alle ossa dai
flutti e dalle correnti sottomarine:
destino comune ad ogni uomo per
“bello e ben fatto” che sia stato11.
Anche qui il parallelismo col sacrificio
riparatore del Cristo è evidente. Sono
comunque il fuoco e l’acqua, suo contrario, ad assumersi simbolicamente il
ruolo vendicatore del peccato e
catartico della rigenerazione: questo è
del tutto evidente nell’ultima parte
del poemetto, Così parlò il tuono.
Vediamone qualche passo rivelatore:
“Una sorgente / una pozza tra la roccia
/...se vi fosse almeno il suono dell’acqua
/...sulla roccia / ...sui tumuli smossi /...ossa
rinsecchite /...Solo un gallo si ergeva sul
colmo del tetto / nel bagliore di un
lampo. Poi un’umida folata / portatrice di
pioggia /...Ed ecco parlò il tuono...”.Il
Gange in secca, le foglie afflosciate, la
jungla appiattita in silenzio attendono
la rivelazione e la liberazione. E il
pescatore può rimettersi sulla proda
a pescare, l’incantesimo del male è
vinto: è l’acqua, la pioggia che può
operare il miracolo della risurrezione,
della vita dei pesci nel fiume e degli
animali sulla terra, dopo che il lampo,
11 A proposito del Marinaio Fenicio annegato, in una nota al verso 48 l’Eliot ne denuncia la trascrizione dalla Canzone di Ariele nella Tempesta (I, 2, 398 sgg.): lo spirito dell’aria si rivolge a Ferdinando e gli parla
del corpo di suo padre creduto morto affogato. Ad evidenziare la sorprendente compresenza nella commedia più ispirata e “magica” di Shakespeare di quanto stiamo via via annotando sulla funzione alchemica
dell’ acqua, quale elemento rigeneratore che impreziosisce la materia peritura dell’uomo, riportiamo qui
tutto il passo: “Giace tuo padre sotto cinque tese d’acqua / delle sue ossa si van facendo coralli/ son perle ora
quelli che già furono i suoi occhi; / nulla è in lui che perir possa / che il mare non lo vada cangiando / in qualcosa di singolare e prezioso”.
98
il fuoco, ha purificato le scorie di una
civiltà in rovina; mentre quel gallo sul
tetto richiamava drammaticamente il
gallo di Pietro, nel momento più oscuro dell’abbandono e della morte.
I versi con cui si conclude La terra
desolata hanno tutto il sapore, il senso
di un Upanishad, di un invito alla pace
ineffabile, raggiungibile attraverso l’offerta di sè, la compassione, il controllo delle passioni. Ma il valore simbolico delle acque, che danno morte,
purificazione, rigenerazione è il fulcro
di tutto il discorso; che giunge ancora,
turbatore ed affascinante, fino alle
nostre generazioni.
Scienza e culto delle
acque tra Illuminismo e
Romanticismo
Abbiamo veduto affollarsi ed aggregarsi finora, sulla traccia della memoria, pensieri ed immagini che hanno
accompagnato per tre millenni la
vicenda nostra di umani, curiosi e
timorosi, fidenti e sospesi di fronte al
vario proporsi e mutarsi delle forze e
delle opere naturali: ma è proprio
quest’ultima pagina col motivo del
viaggio verso l’antica sapienza orientale, e, più velato simbolicamente, con
quello del viaggio sotteso all’immagine del fiume-corrente, che
siamo richiamati a quel secondo filone di indagine, più particolarmente
termale, di cui s’era detto all’inizio.
Incontriamo, infatti, ben diffuso nella
letteratura europea del XVIII e del
XIX secolo, il ricorrente tema del
Grand Tour, del viaggio (per conoscere
e riconoscere prima e per fuggire ed
obliare poi) verso l’Italia, la Grecia e
l’Oriente. Nelle pagine di questi viaggiatori il tema delle acque si può
cogliere più perspicuamente (e con
maggiore attinenza per noi) nel suo
risvolto termale: e lo si può fare
notando, attraverso i giudizi, le sfumature, i valori che va assumendo questo simbolo guida, il diverso procedere ed atteggiarsi dello spirito razionale e sentimentale caratteristico dei
due secoli. S’è pensato così, per non
appesantire troppo il discorso, di
prendere due campioni del gusto e
dell’attenzione razionalistica del secolo dei Lumi, uno all’elitario proporsi,
l’altro al compiersi dell’Illuminismo in
una mentalità ormai diffusa e per certi
versi popolare; e di far seguire a questi l’analisi di passi di altri due autori
che si collocano grossomodo nella
parabola ottocentesca del Romanticismo. Per entrambe le sensibilità e i
momenti storici, una voce inglese e
una francese, tenuto conto di come il
Viaggio in Italia e in Grecia sia
stato istituzionalizzato come must aristocratico-borghese soprattutto in
queste due nazioni. I due francesi, poi,
a diverso titolo e con differenti motivazioni, hanno soggiornato presso le
Terme di Acqui.
È opportuno notare subito come
non sia raro che le due sensibilità, i
due secoli “l’un contro l’altro armato”,
si intreccino e contraddicano, nelle
prove, riprove e riprovazioni cui gli
spiriti più profondi sottopongono
99
le loro esperienze: e ancor citiamo,
uno per tutti, Goethe, testimone
sommo di quella lotta e compenetrazione di ragione e sentimento12. Ma è
indubbio che nel secolo del Win-
ckelmann l’attenzione è volta principalmente alle terme e ai bagni dell’antichità come monumento e impresa
edilizia, più che come luogo di cura; ed
è facile constatare come, fra i seguaci
di Cartesio e di Voltaire, l’elemento
irrazionale, mitologico, fantastico che
si associa alle terme venga sì percepito e ricordato, ma ironizzandoci su o
addirittura ridicolizzando la credenza
e i suoi adepti. E veniamo appunto al
primo dei nostri testimoni: nelle
Letters from several parts of Europe and
the East, pubblicate anonime a Londra
nel 1753, ma opera del dr. Maihows,
l’autore, dopo aver descritto con
dovizia di particolari le Terme di Caracalla e di Diocleziano, si
sofferma sul loro approvvigionamento notando come “gli acquedotti dai quali erano alimentate” fossero “in
genere opere più imponenti e costose delle
terme stesse”13: che è un
bell’esempio di attento
pragmatismo economico britannico. Più oltre,
parlando del lago d’Averno e del “bagno della
Sibilla”, il Maihows dopo aver descritto ed
esaminato puntigliosamente le proprietà e i “si dice” dei
luoghi, aggiunge :“Sia che tutte le storie
(stories) riguardanti questi posti siano
da ricondurre alla fantasia o a favole,
rimane certo che nulla, lì, si presta a supportare quanto di favoloso e romantico
abbiamo sentito su di essi”14. Lo stesso
interesse puramente documentario
riserva alla Piscina Mirabilis di Baia; e la
stessa attenzione scientifica, di fronte
alla grande abbondanza d’acque presso Frascati e Tivoli, è rivolta all’uso
12 Se nel Viaggio in Italia egli riserba alle Terme di Caracalla e a quelle di Selinunte un’attenzione artistica o scientifica, in ogni caso piuttosto distaccata, si osservi quanto scrive dopo aver visitato Pozzuoli (1
marzo 1787): “Sotto il cielo più puro, il terreno più infido. Rovine d’un’opulenza appena credibile, tristi, maledette. Acque bollenti, zolfo, grotte esalanti vapori... lande deserte e malinconiche, ma alla fine una vegetazione lussureggiante, che si solleva sopra tutte le cose morte, in riva ai laghi e ai ruscelli... Così siamo continuamente palleggiati fra le vicende della natura e della storia. Si vorrebbe meditare, ma non ci sentiamo capaci... Ma fra tanta
ebbrezza non ho mancato di fare alcune osservazioni (trad. di E. Zaniboni, Firenze, 1948).
13 Letters..., cit., II, pag. 58.
14 Ivi, pag. 128. Si noti, a questo proposito, come l’aggettivo “romantico” venga qua usato ancora nel suo
generico significato di pittoresco, bizzarro; senz’alcuna aderenza al valore che, di lì a pochi anni, andrà
assumendo quel termine nella sensibilità e nelle coscienze dell’età nuova. (Cfr. M.PRAZ, La morte, la carne
e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, 1942, 1966, Introduzione).
100
che si fa di quelle per gli organi idraulici e per i loro effetti scenografici.
Appena cinquant’anni dopo, nel clima
romantico del primo Ottocento, di
quei monumenti si tende invece a trascurare il valore artistico considerato
per sè; e, smarrito altresì lo stimolo
all’approfondimento scientifico delle
loro funzionalità, essi si presentano
piuttosto al viaggiatore e sulle sue
pagine con il fascino malinconico della
poesia delle rovine. Ce lo testimonia Lady Sydney Morgan, una viaggiatrice irlandese liberal che visitò l’ Italia
nel 1819, lasciandoci nel suo Italy15
un’affascinante testimonianza del clima del nostro primo Risorgimento
oltre che, beninteso, della sensibilità
con cui gli stranieri guardavano ai
monumenti, alla gente e al paesaggio
di questa penisola. Tra le tante sue
annotazioni, consideriamo qui quelle
riguardanti i luoghi considerati più
sopra dal Maihows; vedremo così
come l’atteggiamento di una viaggia-
trice imbevuta sì del sapere e
della dottrina del secolo dei
Lumi, venga altresì pervaso dall’ormai diffusa temperie romantica. Eccola aggirarsi rapita nei dintorni di Napoli, Baia, Pozzuoli, da
Cuma alle pendici del Vesuvio:
con un residuo di interesse culturale non può esimersi, presso il
lago d’Averno, di annotare come
“i bagni di vapore di San Germano
si ritiene siano efficacissimi nella cura dei
reumatismi...”16, ribadendo poco più
oltre che, presso la Solfatara, si trovano “dei bagni più efficaci di quelli di San
Germano, che ci è stato riferito, vengono
impiegati con successo nelle affezioni
polmonari”; per aggiungere però: “Ma
argomenti di ricerca scientifica e di studi
d’antiquaria sono tanto estranei al disegno di quest’opera quanto alle conoscenze della sua autrice.Essi trovano ampia
trattazione nelle opere degli scienziati o
nelle guide di viaggio, dove trovano vasta
trattazione: tanto che la ripetizione di
quei dettagli sarebbe tanto pretestuosa
che superflua.”17
Il suo interesse, la prospettiva da cui si
pone sono altri.A colpire il suo sguardo e a commuovere il suo spirito
sono piuttosto “...le superbe rovine
delle Terme [presso Pozzuoli] e del
tempio d’Apollo che... destano le fantasticherie dell’immaginazione”18; e sul cratere del Vesuvio scorge “...la natura
solitaria e sublime nel procedere impo-
15 Lady MORGAN, Italy, Colburn, London, 1821, 2 voll. Nelle citazioni che seguono, ci rifacciamo tuttavia
alla traduzione francese (L’Italie/ par lady Morgan, Dufart, Paris, 1821, 4 tomi), in quanto accessibile in
biblioteche piemontesi.
16 L’Italie, cit., IV, p.174.
17 Ibidem, p.175. E tuttavia non rinuncia a dire la sua; e lo fa secondo canoni spregiosi dell’accademismo
settecentesco:“È di moda denigrare l’architettura di Napoli e di fare eco all’osservazione laconica di un moderno viaggiatore francese: “Qui, non un briciolo di buona architettura!”. Ma se l’architettura non è buona, essa
è originale, talora pittoresca, talora grottesca, ma mai priva di qualità che agiscano sull’immaginazione, tranne
quando le sue pesanti imitazioni si rifanno allo stile greco (Ibidem., p.176). Chiaramente, per lady Sydney il
neoclassicismo è ben morto!
18 Ibidem, p.135
101
nente di uno dei suoi più profondi misteri”19. L’aura romantica che sorrade le
terme e i templi coinvolge tutto lo
scenario naturale, quasi ci trovassimo
presi nelle descrizioni di un romanzo
gotico alla Radcliffe: “Una delle colline
di Posillipo è particolarmente romantica
e solitaria. È una costiera coperta di una
vegetazione fitta e abbondante, costeggiata da cespugli e arbusti, tappezzata di
clematidi e caprifogli, e ombreggiata da
grandi olmi e querce maestose: termina
di colpo sul bordo di un precipizio, in una
piccola radura davanti alla capanna di
un eremita, o, perlomeno, alla cella che
un eremita avrebbe potuto costruire con
le sue stesse mani. Mirti e lauri escono
dalle sue crepe e l’edera che la ricopre
scende fin sull’ingresso in festoni fantastici. L’interno corrisponde all’aspetto agreste e romantico dell’esterno; i muri umidi
sono rischiarati debolmente da una piccola finestra centinata, seminascosta dalla
vegetazione. Da quest’apertura appare,
al disotto, una scena magica: è la caverna
di uno stregone, la grotta di una sibilla,
meravigliosa a contemplarsi, impossibile a
descriversi... Il punto su cui cade lo sguardo dello spettatore, è rischiarato da lampade sospese alla volta delle rocce; esse
gettano sulle mura massicce una luce
dorata che cade con effetto ancor più
affascinante sui gruppi in movimento che
passano con fretta silenziosa attraverso
questa galleria sotterranea.Talvolta i raggi
scendono sur una processione di monaci
che accompagna con torce e crocifisso un
cadavere scoperto nella bara; altre volte
sul contadino di Pozzuoli vestito a festa
che porta panieri al mercato o che conduce muli carichi; altre ancora sulla carrozza inglese o sul calesse napoletano
19 Ibidem, p.150.
20 Ibidem, p.171-172.
102
con i loro numerosi e grotteschi carichi.
L’occhio si turba soffermandosi su questo
panorama mutevole e magico...20.
“Mutevole e Magico”: ecco la cifra
della sensibilità romantica.
Se le testimonianze del Maihows e
della Morgan ci hanno guidato nella
ricognizione del cangiarsi del gusto su
una traccia “termale” piuttosto distaccata e letteraria, ben più esclusiva e
coinvolgente quella traccia emerge
dalle notazioni di Jean-Charles Lesne
e di Jules Michelet: e si tratta proprio
delle terme acquesi. Le prime due
erano voci dell’Illuminismo e del
Romanticismo nella loro prima stagione; nei due viaggiatori francesi
incontriamo invece testimonianza
della piena, consapevole, diffusa filosofia dei lumi nel funzionario napoleonico, e del maturo romanticismo, sfuggente verso approdi decadenti, nello
storico-poeta.
Jean-Charles Lesne, funzionario napoleonico al seguito dell’Armée ed ispettore degli ospedali militari, opera nei
dipartimenti di Marengo e di Montenotte tra il 1806 e il 1811.
Dell’attenzione particolare che riserva alle terme acquesi, ed in specie ai
padiglioni riservati all’Esercito, ci testimonia una sua operetta, recentemente tradotta in italiano21, nella quale
possiamo notare diffusamente la cultura ed il metodo illuministici che
caratterizzano l’approccio (e il conseguente giudizio) al fenomeno ed all’istituzione termale. L’attenzione del
curioso, attento osservatore, e lo
scrupolo del savant si notano già nel
breve excursus storico in cui rileva
come le Aquae Statiellae giocarono fin
dall’antichità la loro rinomanza sul
doppio registro di richiamo mondano
e di solacium per i sofferenti22. I pilastri
e gli archi dell’acquedotto sono
descritti minuziosamente; accanto
all’interesse per l’archeologia idraulica, si fa strada via via, nel prospettarsi
dell’intero sito termale, uno scrupolo
a definirne sia pure per sommi capi le
vicende tettoniche; ed emerge costante l’attenzione dell’enciclopedico
per la mineralogia, la botanica, l’entomatologia. Nel considerare i due “laboratori” delle forze naturali, le
terme cioè, e la Bollente, sottolinea,
riguardo quest’ultima, l’utilità sociale
dell’acqua calda per il riscaldamento e
gli usi domestici di cui beneficiano i
meno abbienti; mentre l’orografia
delle pendici del monte Stregone,
intorno alla quale aleggiano leggende
e favole23, gli offre spunto per palesare
il suo atteggiamento scettico e critico
sulle credenze del buon tempo antico.
Credenze che tenta di sfatare anche a
proposito di certe febbri ricorrenti,
imputate da alcuni alla stagnazione
delle acque della Bormida
Atteggiamento questo che non gli
impedisce tuttavia di constatare, enfatizzandoli, i portentosi benefici delle
acque e dei fanghi, riconducendoli,
beninteso, a principi scientificamente
definibili; e di sottolineare la grande
utilità di un potenziamento delle
strutture termali, di cui si potrebbero
giovare soprattutto le truppe. Ma l’attenzione del Lesne è anche rivolta alle
classi più umili, ai diseredati, ai pezzenti: come a chi è più ligio alle cure e
meno corroso dalla vita viziosa e
mondana.
In questo il nostro funzionario napoleonico è in singolare sintonia con le
propensioni civili e umanitarie -cinquant’anni dopo- del suo conterraneo
Michelet: la sua filantropia illuministica
si spinge anche oltre il mero ambito
termale, quando consiglia nuove colture agricole (come quella della canna), il miglioramento delle acque potabili, la realizzazione di fontane e di
nuovi viali alberati che contribuirebbero al refrigerio estivo, consigliando
per questi ultimi non i romantici tigli,
ma i gelsi, fonte di altre preziose utilizzazioni.
21 J.-CH. LESNE, Notice historique et statistique sur la ville d’Acqui, con trad. a fronte, Acqui T., 2004.
22 “È noto l’uso frequente che [i Romani] facevano dei bagni, e le terme che il tempo ha risparmiato ci ricordano il loro lusso in questo genere di stabilimenti così come la loro grandezza. Così le acque termali di Acqui, le
cui virtù principali risultano ben evidenti, dovettero ben presto attirare la loro attenzione, e richiamare una folla
di gente ricca, voluttuosa o sofferente...” (LESNE, cit., p.48-50).
23 Ad es., a proposito di una casa smottata a valle per “ più di trecento passi” e rimasta intatta, con fondamenta, animali e persone. Ed a proposito del mutato corso della Bormida, aggiunge che “...si tratta di un
avvenimento comune, poco interessante e che non ha bisogno di uno sconvolgimento per verificarsi...”(Ibidem,
p.104-106).
103
Jules Michelet
tra mito e storia
Siamo così giunti alla testimonianza
che in questa sede ci sta più a cuore:
e vedremo via via come il resoconto
delle cure acquesi, il diario di quel
mese di giugno del 1854, ed infine la
trasfigurazione poetica che Jules
Michelet fa di quell’esperienza ci confermino l’attitudine nuova, tutta permeata dalla partecipazione sentimentale propria della stagione storico-letteraria24, con cui anche il cimento termale viene vissuto e risentito. Ma l’approccio al personaggio, e il
rilievo della sua testimonianza, meriteranno una
misura e -come dire- un
inquadramento più attenti
e circostanziati. Certo, non
ci porterà questo a soffermarci, in questa sede, sulla
sua vita e a ripercorrere le
vicende, colorite o drammatiche, delle sue opere e
del suo pensiero: ma occorrerà pure trascegliere,
per aderenza al discorso
che veniamo concludendo,
quelle particolarità, quei
momenti di debolezza e
quelle contraddizioni del
suo porsi ed operare in
seno alla storiografia
dell’Ottocento, che ne contrassegnano il traboccante empito romantico;
e, insomma, quella che il Croce definì,
in questo storico, “sublime puerizia
del sogno poetico”.
Jules Michelet (1798-1874), figlio di un
tipografo parigino, si laurea a 21 anni
con due tesi, di storia e di filosofia, ma
il lavoro manuale nell’imprimerie paterna ne ha segnato profondamente
l’adolescenza: lui stesso afferma che
“prima di far libri ne ho “composti”
materialmente: ho messo insieme delle
lettere prima di comporre idee”, e da
questa esperienza di lavoro manuale
trarrà e conserverà per tutta la vita
un “ardent amour pour le peuple”25.
Questo cordiale sentimento, che ha
certo la sua matrice nell’aura postrivoluzionaria in cui è cresciuto, è altresì alla base del rapporto di odioamore che s’appunta con passionalità
da un lato contro la Chiesa e dall’altro
verso il Cristianesimo; egli passa, infatti, dall’educazione sentimentale nutrita tra gli inchiostri volteriani e rivoluzionari alla conversione e al battesimo
nel 1816, per tornare poi, dopo gli
studi storici, ad una posizione anticlericale che assume i toni più roventi
negli scritti del 1842-43: I Gesuiti e Il
24 Sono, in Italia, gli anni dei portenti romantico-rivoluzionari cantati dal Carducci.
25 W. MATURI (Interpretazioni del Risorgimento, Torino, 1962, p.481) rammenta il motto del M. per cui “ il
vero insegnamento è una forma superiore di amicizia”.
104
prete, la donna, la famiglia. In seguito
mantiene tuttavia viva una tenera
venerazione per il verbo evangelico,
considerando appunto il Cristianesimo, con la Riforma, e la Rivoluzione
come le tre tappe fondamentali della
Storia. Atteggiamenti che come si
nota tengono molto delle reazioni
umorali e della percezione sentimentale individuale confrontate con l’esame delle vicende storiche.
Questa mutevolezza, questa scarsa
propensione alla coerenza delle proprie idee all’interno della ricerca storica la si nota ancora, ed in termini
assolutistici, nel giudizio sul Medio
Evo, nei confronti del quale aveva
nutrito prima del 1842 la stessa affettuosa propensione del Sismondi e, in
genere, della storiografia romantica;
per farne poi il nemico numero uno,
colle prime infatuazioni populistiche e
gli entusiasmi socialisteggianti:“Il nemico è il passato, il barbaro Medio Evo, l’a-
mico è l’avvenire”. La stessa instabilità
di giudizio cogliamo dopo il fallimento
della rivoluzione del ’48, che ridimensiona in lui la fede nel popolo, sostituita dal ritorno all’idealizzazione
romantica dell’eroe, delle grandi individualità come motore della storia.
Del resto l’instabilità dell’uomo, la fragile complessione del suo fisico e del
suo temperamento (con i disturbi che
spesso ci fanno pensare a reazioni psicosomatiche) si notano nei pesanti
effetti che hanno su di lui le avversità:
sia quando, sospeso nel 1849 e destituito nel ’51 dall’insegnamento al Collège de France per il troppo aperto
appoggio dato alla rivoluzione del ’48,
si ammala seriamente26; sia quando,
dopo la débacle della Francia della
Comune, inizia per lui quel rapido
decadimento che in pochi anni lo porterà alla morte27. Abbiamo fin qui insistito sulle debolezze del tessuto propriamente storiografico del nostro,
26 E ci vorranno i fanghi acquesi per “rigenerarlo”.
27 È interessante seguire, a proposito delle critiche appuntabili al Michelet, come reagirono gli storici
italiani contemporanei dell’Antologia alla sua filosofia della storia e a quel primato -o ruolo privilegiatoche questi assegna alla Francia nella storia del progresso umano; in ispecie Gabriele Pepe ritiene il suo
metodo “basato su astrazioni metafisiche”, inteso a raccogliere i soli fatti accordantisi con teorie preconcepite, e ne critica “la parzialità indiscreta di amor proprio”. Questa ostilità degli storici italiani dell’epoca
risorgimentale per lo sciovinismo gallico -tracce del quale, per il vero, troviamo in quegli anni persino nella
critica piuttosto stizzosa del pur “milanesissimo” Stendhal al misogallismo dell’Alfieri (v. Roma Napoli
Firenze, 2 Aprile)- viene ribadita nella critica di Vincenzo Gioberti alla tesi del primato francese, propria
del Guizot e del Michelet, cui questi oppone il “Primato morale e civile degli Italiani”: opera che, a sua volta,
parrà al Croce “quasi un delirio” (v. B.CROCE, Storia della storiografia italiana del sec. XIX, Bari, 1947, I, p.145).
Gioverà comunque ricordare che lo stesso Croce, citando il Michelet, avverte nel suo metodo qualcosa
di malfermo e di fantastico e parla della sua storia come di “battaglie di fantasime” in una “lotta della fatalità con la libertà” (CROCE, cit., p.35); e, in Teoria e storia della storiografia (Bari, 1973, p.253-4) vede nell’ “ideale democratico” del Michelet una di quelle tendenze della storiografia nostalgica “al cui servigio si piegavano
i racconti”. Del resto già il TAINE fece notare come M. sia poeta più che storico, e poeta romantico, lirico: e la sua fraseologia, il suo stile, siano emozionali, ispirati; e anche di recente A. LAGARDE e L. MICHARD
(XIXe Siècle, Paris, 1967, p.363) puntano il dito sulle sue contraddizioni: per cui, ad una ricerca puntigliosa delle fonti, tien dietro poi un infiammarsi dell’immaginazione che lo porta a procedere talora “à la légère”, a fidarsi troppo del suo istinto; scartando -come già notavano i nostri storici- quelle testimonianze
che possano contraddire il suo disegno. Da noi, oggi, le parole meglio riassuntive sul personaggio M. e sulle
attenzioni da lui dedicate all’Italia riteniamo di indicarle nello splendido saggio di F.VENTURI “L’Italia fuori
d’Italia” (in Storia d’Italia, 3,Torino, 1973. pp. 1209-12 e 1382-86): dopo aver fatto notare che, esaminando
i rapporti dell’ Italia con la Francia già all’ epoca di Carlo VIII M. aveva individuato con acume non lo “lo
scontro di due nazionalità, ma di una forza politica e militare (la Francia) e d’una civiltà (l’Italia)”(p.1385),Venturi
non può però che definire “arcaica la visione storica e politica di M.” nei confronti dell’ Italia:“M. guarda agli
italiani come a fossili del mondo classico”(p.1211), accodandosi almeno in parte al Lamartine; per ribadire
tuttavia (e non è cosa da poco) che talora troviamo in lui “una delle più straordinarie visioni dell’Italia ottocentesca”(pp. 1384-85).
105
ma lo si è fatto ad arte, per rendere
perspicue quell’umoralità e quella
cordiale propensione a investirsi dei
drammi e delle conquiste del popolo,
che meglio lo caratterizzano nel suo
tempo; non taceremo certo i suoi
meriti di erudito, la sua ricerca puntigliosa di fonti e documenti inediti per
le sue grandi Histoires (H. romaine, H.
de France, H. de la Révolution), il suo
sguardo scrutatore, diremmo a 360
gradi, di tutti gli aspetti economici,
politici, sociali e morali (“tout est mêlé
a tout”); e ancora la sua simpatia cordiale verso l’argomento trattato a
garanzia di un sicuro esercizio storiografico, lo stile colorito e realistico nel
rievocare fatti e personaggi, la propensione a riconoscere, nel procedere della storia, accanto al concetto di
sviluppo privilegiato dal secolo dei
lumi, l’idea nuova di un progresso che
porti alla liberazione di tutta l’umanità: tutte qualità che ne fanno sorprendentemente, almeno in una certa
misura ed entro certi limiti, un crociano ante litteram: e non a caso, la sua
traduzione della Scienza Nuova del
Vico (1827) e la lettura di Herder
sono le basi su cui nasce la sua filosofia della Storia. Ma è proprio il suo
stile palpitante, la sua sensibilità immaginifica, il suo dialogo entusiasmante
con i morti che egli fa rivivere sui terreni inesplorati delle Archives Nationales28, quel suo ossessivo intendere la
Storia come Resurrezione della vita
integrale del passato, per la quale lui
stesso si fa apostolo-sciamano e parla
di una sorta di operazione “magica”, in
cui ammette di non poter essere
imparziale “tra il male ed il bene”; e
poi quel suo irriflessivo e generoso
mescolarsi alle lotte politiche, quel
suo alternare e sostituire al rigore
della ricerca storica certa idealizzazione delle Scienze Naturali29 e certe
fughe nei territori onirici delle teosofie orientaleggianti, già intrise di decadentismo: son tutte queste qualità e
disposizioni che, se da un lato gli consentono di vedere, con dono e maestria divinatori, cose che non s’erano
svelate ad altri e di saperle rendere
con potenza magica d’eloquio, d’altro
canto gli fan perdere serenità di giudizio e ne impoveriscono le qualità critiche necessarie al vero storico.
Ed è proprio in questa sensibilità
composita e contraddittoria dell’uomo e dello studioso, in queste aperture all’irrazionale, accostato in uno
strambo partenariato alla scienza, che
si colloca e prende luce l’esperienza
termale acquese di Michelet nel 1854.
Michelet ad Acqui:
la prosa poetica
di un diario
“Tale fu la Terra per me nella sua bontà
d’Acqui, tale la vidi salire in forma di
vapore e di liquido attraverso il divino
fango che mi salvò...” Cosi Michelet ne
La Montagne30. Gli replica Flaubert,
appena letta l’opera, nel marzo del
1868: “Jamais, je crois, je n’ai lu quelque
chose qui m’ait pénétré plus profondé-
28 M. scriverà in La Montagna (trad. it. di C. Gazzelli, Genova, 2001, p. 79-80): ”I morti, con cui avevo parlato così a lungo, mi attiravano verso di loro...”.
29 Si vedano, in proposito, le prose poetiche, pervase di una religiosità naturalistica de L’Insetto, L’Uccello,
Il Mare, La Montagna: opere profondamente influenzate dalla seconda moglie, la giovanissima Athénaïs, da
lui sposata nel 1849.
30 V. La Montagna, cit., pag. 81.
106
ment que les Bains d’Acqui”31. In queste
due citazioni cogliamo a volo quale
rilievo ebbia avuto per il nostro quel
mese trascorso nella cittadina termale, il Giugno del 1854. Dopo le disavventure personali, susseguitesi all’odioso avvento di Napoleone III, con la
destituzione dal Collège de France e
una profonda crisi depressiva, una
malattia almeno in parte psicosomatica mina la salute di Michelet: nell’autunno del 1853 fugge le brume di
Nantes e decide di passare l’inverno a
Nervi, “compagno del ramarro su quell’arida costa”; ma né la dolcezza del
clima né l’amenità del paesaggio
riescono a scuoterlo dal profondo
languore cui s’andava abbandonando.
Un medico amico, forse Gioacchino
Valerio di Torino, nella primavera successiva, gli consiglia le terme di Acqui
come rimedio estremo. Se dobbiamo
credere a quanto scriverà anni dopo, i
medici, quasi avessero funzione di
oracolo, sentenziano con eloquio ispirato: “Rientri in seno alla terra. Inumato
nella terra che brucia, rivivrà”. E il grande malato aggiunge: “Il luogo funebre e
salutare, in cui si viene sepolti, è Acqui nel
Monferrato”.
La grande allegoria della malattia morte/apparente – rigenerazione - resurrezione, che il Michelet
celebra quale attore e spettatore ad
un tempo sul sito termale acquese,
verrà celebrata, con un linguaggio ispirato ed immaginifico, in un capitoletto
di quella sorta di poema in prosa, tra
diario di viaggio e celebrazione filoso-
Il ponte Carlo Alberto nel 1862.
fico-poetica della Natura, che è La
Montagne32: opera già tradotta in italiano, con una bella prefazione di
Rigoni Stern, pochi anni addietro; ma
a noi piace seguire quel moderno
Pilgrim Progress sulle tracce delle pagine molto più numerose, ricche ed
immediate degli appunti raccolti dal
nostro in quell’occasione33: ed è anche
per questo che se n’è prodotta, qui
avanti, la prima traduzione italiana annotata.
Sono spesso, a dire il vero, parole in
libertà, da cui l’autore poté poi cogliere e sviluppare allusioni e rimandi. Un
procedere per anacoluti, fitto di ripetizioni, di cesure, in cui si passa da
brani di raffinato abbandono poetico,
a suggestioni fulminee, a tratti prosastici, a brevi accenni di cronaca familiare, a riferimenti talora criptici e
insondabili: ma proprio in questo procedere estemporaneo sta la freschezza e la ricchezza singolare della testi-
31 Lettera da Parigi, un mercoledì del febbraio-marzo 1868.
32 V. nota 28.
33 Si tratta di Le Journal de Michelet, pubblicato postumo dalla moglie nel 1888: l’opera vide però la prima
edizione integrale in 4 voll. a c. di P.Viallaneix, poi di P. Digeon, a Parigi, tra il 1959 e il 1976. Il testo che
riguarda il soggiorno acquese (II tomo, 1962), è compreso tra il 5 giugno e il 1°luglio 1854. Dell’argomento
s’è interessata per sommi capi ERIKA DENICOLAI in una tesi (Jules Michelet ad Acqui Terme, pp. 34, Università
di Pavia, Fac. di Lettere, corso di laurea in Lingue Moderne) discussa nell’anno accademico 2003-04.
107
monianza. È chiaro che ci troviamo di
fronte ad un personaggio in cui una
certa fragilità psicologica è venata
talora da sbalzi da psicopatico34: ma
tale è la sottile follia del genio, e, in
questo caso, del genio romantico.
Ad una prima lettura, distaccata e
piuttosto superficiale, saltano all’occhio motivi eterogenei; tra questi, la
convinzione e la militanza politica
socialistica, ispirata chiaramente alle
dottrine del Saint-Simon e del
Proudhon ed in genere alla sensibilità umanitaria così diffusa nella gauche
del tempo. Così (7.VI.1854) annota:
“Percepii chiaramente ciò che potrebbero essere dei bagni veramente popolari”;“Possa Acqui divenire... uno dei grandi centri della fraternità italiana”(8.VI);
“la Bollente...potrebbe essere un vero
tempio di carità” (ivi); “ci vorrebbero
delle borse di soggiorno per ogni regione d’Italia”(12.VI); “Se questo luogo è
unico sul globo terrestre... come osare
farne un monopolio?”(20.I); “Qualunque
ne sarà il risultato, mi rallegrerò sempre
di aver rivendicato [queste cure] per i
poveri, per tutti”. Questo motivo diventa addirittura ossessivo quando
Michelet insiste, facendoci sorridere,
sul fatto che le cure spettano prima di
tutto ai poveri in quanto “c’erano
molte più guarigioni tra i poveri che tra i
ricchi”(14.VI); per abbandonarsi poi ad
un veemente argomentare contro la
vita mondana alle terme, contro i
clienti abbienti: i quali però non osavano, qui, “gioire davanti ai poveri [i
quali, peraltro] guariscono molto di più;
quindi la casa è loro, la fonte è
loro”(26.VI). Ed un brivido di cristiana
pietà si fa subito denuncia sociale di
fronte alla ragazzina funambola “caduta da una corda che saliva al campanile
di Acqui”(18.VI)35.
L’attenzione alle miserie umane è
anche spesso alla base dei suoi interessi letterari: così, la vita e il pensiero
del Leopardi, che legge qui per la
prima volta, destano in lui sincera
Veduta di Acqui a metà ’800
commozione . E se la concezione
materialistica del Leopardi non può
non contrastare con il suo fondamentale idealismo: “...Leopardi, l’amante
appassionato della morte. Grande poeta.
Influenza morbosa? Insegnateci piuttosto
la resurrezione”(22.VI), subito dopo
aggiunge: “Tuttavia da questa cenere
(1836) dovettero sortire sforzi disperati:
L’Italia [...]vi ha trovato una forza di azione”(ivi). La citazione di quella data 1836- è rivelatrice: è la data della
Ginestra, il canto in cui il recanatese
sviluppa liricamente la concezione per
cui l’umanità, solo dopo aver rinuncia36
34 Il 6 giugno, appena giunto ad Acqui, si sente “malato... e felice”; il 13 annota: “Forza e salute decisamente migliorate, sembra: cosa di cui approfittai... Meglio nel fisico e meglio nel cuore.”. Sensibilissimo agli umori
della moglie e alla meteorologia, ne subisce gli influssi: v. il 28 giugno: “Temporale e tempesta affettiva; dolore alla coscia sinistra... Ritornati con una serata bellissima, felici della nostra tempesta passeggera”.
35 In La Montagna (cit., p. 76), dopo aver ribadito che i poveri “guariscono prima e in maggior numero che
non i malati ricchi” a causa del loro regime di vita sobrio e regolare, afferma: “Guariscono: questa parola mi
colpiva. È qualcosa che dà loro un autentico diritto: l’acqua, la sorgente, è loro”.
36 V. alle date 22, 23, 24, 26.VI.
108
to alla speranza nella Metafisica, e
dalle ceneri di questa desolata rinuncia, richiamate da quelle del Vesuvio,
potrà superare gli odi e perseguire
una nuova fraternità universale.
Toccare il fondo, quindi, per risorgere:
abbiamo visto, e vedremo, come si
tratti di un tema caro al nostro; ma
del pessimismo leopardiano Michelet
darà una spiegazione piuttosto curiosa, attribuendolo anche alle cattive
letture degli scrittori italiani contemporanei: “Alfieri gli ha inaridito la
Francia, che per tanti europei rappresenta un valore fondamentale ed è un dono
di Dio37. Monti gli ha infamato la
Rivoluzione...” tanto che “è arrivato
nudo e privo delle idee vivificatrici del
tempo”(24.VI).
L’attenzione del visitatore non trascura poi la cronaca acquese ed in particolare i lavori per la ferrovia, uno dei
mostri sacri dell’età carducciana e
delle “magnifiche sorti e progressive”
(12 e 23.VI). Così come la cultura e le
conoscenze scientifiche, esigenza ineludibile del secolo, lo portano a sforzarsi di rendere in qualche modo concepibile il sublime che s’annida nelle
viscere del monte e vapora dall’intero
sito. Lo vediamo così intento ad informarsi con il direttore della composizione delle acque, dei fanghi, della
struttura delle Terme e della loro storia (8.VI); eccolo tutto preso ad analizzare, con un’attenzione naturalistica
che ricorda i lavori scientifici di
Goethe, la composizione e l’azione
del “fango raro” di Acqui (20.VI),
mescolando, come il grande tedesco,
scienza, filosofia e poesia; ed ancora a
riferire, con puntigliosa memoria, le
progressive immersioni nel fango (22,
23, 24.VI), per riassumerne infine
(28.VI), fattane esperienza diretta, le
tre fasi operative e benefiche:
“Compresi i tre momenti del fango... i
primi dieci minuti... il quarto d’ora seguente... l’ultimo: il sudore... Uscite splendenti di una luce di giovinezza: gli anni e
i dolori sembrano restare sul fondo della
vasca”. All’ interno di questa propensione vanno infine considerate le conversazioni col dottor Granetti sulle
cure omeopatiche:“Più la dose è leggera, più ci si allontana dalla materia e più
l’azione è efficace” (14.VI): e verrebbe
davvero da chiedersi con Luisella
Battaglia se “anziché leggere il Michelet
naturalista come un tardo epigono del
romanticismo ottocentesco, non sia possibile vedere nella sua opera la prefigurazione di questioni che sono oggi di pertinenza della bioetica”38.
Ma queste sono questioni accessorie.
Ad una lettura più raccolta, ad un
esame più attento e approfondito,
tutto il Diario si rivela permeato dalla
sensibilità e dalle forme del pieno, maturo romanticismo. Si vedano queste
descrizioni di una passeggiata serale
lungo il bosco che costeggia la Bormida, in cui il paesaggio e lo stato d’animo paiono influenzarsi vicendevolmente: “La profonda solitudine mi faceva credere di essere sulle rive di un fiume
dell’America interna... bella e dolce serata, armonica e in così grande armonia di
cuore. Alcune greggi, alcuni bambini
intenti a sorvegliarle, erano i soli esseri
viventi” (8.VI); “Triste e brutta serata: la
mia amata si annoia. Carattere selvaggio
degli armenti; un piccolo bue dà una cornata a un cavallo”(11.VI). La trasposizione è in certi casi anche più esplicita “L’aspetto severo di questi luoghi li
37 Cfr. nota 27: si notino le stesse argomentazioni in Stendhal.
38 L. BATTAGLIA, introd. a: J. Michelet, La Montagna, cit., p. 23.
109
investe di un’aura morale”(26.VI). In
questo contesto, la fortuita presenza
nel paesaggio di un elemento che
richiama un topos del sentire romantico, la poesia delle rovine, col suo
corteggio di meditazioni sulla caducità delle cose umane a contrasto con
le imperiture forze della Natura, s’inserisce con drammatica pertinenza:
“La Bormida non è priva di grazia: le sue
rive di una fresca verzura. Un raggio pallido e delicato di sole al tramonto dorava
leggermente le scure rovine nere dell’
antico acquedotto romano”(6.VI);“Il solo
effetto del paesaggio sta nelle rovine
romane... [ed] è tanto più grande quanto più si avverte che esse scompariranno”(8.VI); “La Bormida solitaria... quel
poco di caratteristico della regione è
dovuto all’acquedotto romano che sparirà un giorno”(26.VI). Lo spleen romantico si carica di tratti impressionistici
quando, la vigilia del Corpus Domini,
“dalle rovine romane vedemmo le confraternite nel loro strano costume sfilare
rapide e noncuranti, a passo di carica, sul
ponte”39 al seguito di un funerale. Ed
anche le descrizioni della “negletta
Cattedrale” e della “superba Bollente
abbandonata” rientrano in questo
gusto melanconico del perituro, percepibile un po’ ovunque nell’Italia,
“terra dei morti”.
Un profondo spirito religioso (beninteso: di una religiosità naturale, animi-
stica), del resto, presiede ad ogni pagina. Dopo aver meditato sulla metempsicosi, sulle “piccole anime della natura
defunte”, risalendo la Bormida coll’amata si sprofonda nelle “armonie religiose della sera”(10.VI); dopo essersi
arrampicato su “sommità selvagge e
boscose” ne ridiscende in uno stato
d’animo religioso, felice e malinconico”(16.VI); e meditando sulla sua
esperienza termale si chiede “Gli
Antichi hanno avuto torto a considerare
tali luoghi sacri? Lo sono, senza dubbio.
Sono le vie tramite cui la vita materna
della terra comunica ancora con i suoi
figli... Gli Antichi ebbero torto ad adorarvi
una ninfa locale: noi vi veneriamo la ninfa
universale, l’amorosa Provvidenza... che
sembra salire verso di noi a benedirci e
rianimarci”(20.VI)40. Siamo immersi,
quindi, in “quello che i mistici avrebbero
chiamato uno stato d’animo adatto alla
preghiera...”, in questi luoghi pieni “di
religione”, nei quali il fuoco gioca un
ruolo concomitante a quello dell’acqua:“Ricordo delle belle religioni che onorarono il fuoco centrale in queste acque
calde o in queste sorgenti di fuoco”
(26.VI). E c’è da chiedersi a qual punto
avrebbe condotto l’accesa fantasia di
Michelet la vista della fiamma che brucia in continuazione tra le rocce di
Pietramala, sull’Appennino bolognese:
quella così suggestivamente descritta
qualche decennio prima da Stendhal41.
39 Si confronti questo passo con la descrizione della grotta dell’eremita, nell’Italy della Morgan (v. nota 20).
40 C’è una rispondenza singolare tra i pensieri e financo le espressioni di Michelet a questo riguardo e
gli scritti di Goethe del periodo weimariano, quando, senza nulla perdere dell’esperienza romantica, questi la integra con studi di carattere scientifico-filosofico. L’analisi chimica del “rarissimo” fango acquese,
l’abbandono alla Natura come ad una “buona madre” , i bagni percepiti come esperienza religiosa, sia nel
Diario che nella Montagna trovano frequenti riscontri nell’ Inno alla Natura, nel Saggio sul granito, in Viaggio
invernale nell’Harz, nello Studio su Spinoza. Citeremo qui un solo esempio, in cui si insiste sulla liceità di un
abbandono fiducioso alla Natura: “Mi affido a lei. Può far di me quello che vuole. Non odierà l’opera
sua”(Goethe, Inno alla Natura).“Cara madre comune! Da te vengo, a te ritorno... Siamo in buone mani” (M., La
Montagna). “Questa massa informe, informe ed oscura, ma per nulla malevola, anzi, dolce e affettuosa (M.,
Diario).
41 Stendhal, Roma..., cit., 19 gennaio. Del suo rapporto religioso con le forze e gli elementi naturali M.
dà più organica, letteraria immagine nelle ispirate pagine della Montagna (v. le pp. 77,79 e 80 dell’ed. cit.).
110
È all’interno di questo clima ispirato e
religioso che riemerge, leit motiv insistente e celebrato in varie figurazioni,
il tema antico della rigenerazione
attraverso l’affondamento nelle acque
e nel fango che abbiamo seguito fin
qui dalle sue tracce più antiche. E di
quell’archeologia ritroviamo forme e
figure che hanno patente riscontro
nella realtà attuale. Nelle note del 21
Giugno, il fanghino che lo ha curato è
visto da Michelet come un “vero scultore di tipo egizio”: figurazione in cui si
colgono, chiaramente allusi, i traslati
vasca-sarcofago, fango-imbalsamatura,
corpo-mummia: elementi tutti che
dispiegano una lotta vincente contro
il tempo e la morte. Alla stessa simbologia accenna subito oltre: “Questa
bara di marmo è come una culla per un
malato, un giaciglio in cui inumarsi allo
scopo di vivere. La tomba, la bara, la terra
gettata su di voi, tutto ciò non ha nulla di
triste. È una tomba piena di speranza”.
Esplicitamente il 24 scrive:“Riesumarsi.
Singolare impressione quando ci si riesuma, quando ci si rialza da questo sepolcro temporaneo”. E di “esumazione”
parla anche il 26: dopo aver definito la
terra “questa divinità salvatrice”, si
rivolge alle terme acquesi dalle quali
sta per congedarsi come a “veri luoghi
di riviviscenza, di religione, d’amore.”
Del resto, fin dall’inizio, la cura termale richiamava, nello stanco e malato
scrittore, le forme arcaiche di un rito
da accettare e subire con fidente speranza: il 19 leggiamo:“Per la prima volta
scendo al mattino, per subire il seppellimento nei fanghi fino a tutta la coscia”.
E il 22, dopo aver letto Leopardi, si
rammarica che questi non abbia intra-
visto, magari
attraverso le
alchimie termali, la via di
una “resurrezione”. Una
resurrezione, si badi,
cui si giunge
per gradi, attraverso un
processo rigenerativo
progressivo,
corrispondente e parallelo al lavorio lento e
Gli archi romani come li vede il Michelet.
misterioso
delle sostanze contenute nei fanghi e nelle acque: “A destra i
fanghi salivano fino al fegato. Benessere
assoluto; una sorta di abbraccio materno
della natura che avvolge e riscalda il suo
figlio ferito”(20.VI).
Si conclude così, con l’alta poesia di
Eliot e la preziosa testimonianza che
abbiamo sott’occhio, il percorso di
una credenza e di un mito: che, giunto
secondo un procedere spaziale dall’oriente ai nostri lidi occidentali42, e cresciuto nel tempo col suo fantasioso
emergere dalla preistoria fino alle
esplicazioni scientifiche dell’età nostra, non ha perso nulla, cammin
facendo, del suo fascino consolatorio
e curativo e della potenza arcana che
gli deriva dall’esser parte del “sotterraneo laboratorio della grande madre universale”.
42 D.H.LAWRENCE, Viaggio in Italia, trad. it., Roma, 1984, p.137:“Quando si viaggia... si deve puntare all’ovest...il
pensiero di camminare verso ovest è esaltante... È come se i due poli magnetici del nostro spirito fossero situati
a sud-ovest e a nord-est, con il polo positivo a sud-ovest, sotto il tramonto”.
111
Jules Michelet
ad Acqui.
La simbologia
del fango
di Pierpaolo Pracca
e Francesca Lagomarsini
Nel libro La Montagna, recentemente tradotto in italiano, dalla
casa editrice Il Melangolo, lo storico e naturalista francese J.
Michelet, in un paragrafo intitolato Acqui, La Bollente celebra le
virtù taumaturgiche dei fanghi acquesi, grazie ai quali ritrova la
salute dopo un periodo di malattia. Quest’opera, al pari degli altri
libri di Michelet pubblicati a partire dal 1856 (L’uccello, L’insetto, Il
mare), è annoverabile tra i libri di viaggio ed è un’allegoria del rapporto uomo/natura.
Nel paragrafo citato, Michelet accenna alla malattia che nel 1853,
durante un soggiorno italiano, a Nervi, lo costrinse a beneficiare
di una vacanza ed in particolare di una cura a base di fanghi ad
Acqui Terme, città che lo storico definisce (…) luogo funebre e
salutare in cui si viene sepolti (…), situata in una (…) piccola regione
antica e selvaggia (…).
Acqui diventa pretesto per la descrizione e l’esaltazione delle
proprietà chimiche e fisiche della sua terra, enormi proprietà
terapeutiche, alle quali lo storico si affida su consiglio dei medici:
(…) La sentenza fu questa: “Rientri in seno alla terra. Inumato nella
terra che brucia rivivrà” (…).
112
Il soggiorno acquese rappresenterà
per Michelet l’abbraccio con la Terra
che significherà anche contemplazione delle acque, dei fiumi presenti sul
territorio (la Bormida) ma soprattutto della fonte della Bollente.
Michelet compie una ricostruzione
storica dell’utilizzo della celebre fonte
e, dopo essersi soffermato sulla
descrizione del complesso termale,
allora diretto dal Cav. Garrone, si
dedica alla riflessione sulla cura del
fango sviscerandone, oltre gli aspetti
medici, anche quelli più psicologici e
simbolici.
Lo storico/naturalista svela l’affascinante mistero del sottosuolo delle
colline intorno alla Bormida, percorse
in profondità da acque calde termali;
Michelet esprime la suggestiva sensazione che le innumerevoli sorgenti
sotterranee conferiscano una fervida
vitalità al terreno:
(…) sulle colline, dappertutto, si ha la
sensazione che qualcuno, mal sepolto, si
agiti, sussulti sotto i nostri piedi (…).
Sarà la cura dei fanghi, in voga
nell’Europa del tempo, a rappresentare la possibilità di un contatto intimo
e profondo con la terra.
Il personaggio che, come Caronte,
traghetta lo scrittore verso gli inferi
dei fanghi acquesi, è il signor Tomasini,
uomo colto (aveva studiato filosofia)
e fangarolo per tradizione familiare, la
cui abilità colpisce piacevolmente
Michelet e che infittisce, con il racconto della sua vita, l’alone magico
che avvolge il rituale della graduale
sepoltura.
Essere sepolti nel fango dell’acqua
termale diventa, così, l’essere risucchiati, uno sparire che ricalca il rito funebre conducendo alle profondità del
mondo sotterraneo in una sorta di
ripiegamento su se stessi che riporta
l’uomo ad uno stadio fetale.
Michelet si spinge, poi, alla descrizione
delle sensazioni che questo ritorno
alla Terra scatena nel suo animo tra
cui, soprattutto, il pacificarsi della
mente che diventa in grado di esaminare se stessa ed il legame tra vita e
morte. Da questo meta-pensiero si
passa poi all’oblio delle idee, in una
dolce, soffusa dimenticanza che conduce alla completa identificazione con
la terra con la quale si stabilisce,
secondo l’autore, uno scambio di natura:
(…) io ero la terra e la terra era uomo.
Essa aveva preso su di sé la mia infermità, il mio peccato; io, diventando terra, ne
avevo preso la vita, calore, giovinezza
(…).
Michelet appare come ispirato narratore della terra e al pari di W. Blake,
che parlò di argilla materna (The
matern cloy) ed H.Thoreau, che in Civil
disobedience, definì la palude il midollo
della terra, propone di venerare il
fango in quanto summa di proprietà
113
curative e sintesi alchemica degli elementi (terra, acqua, fuoco, aria). Per
Michelet il fango è la materia che tra
tutte merita di essere valorizzata.
Esso è l’espressione più genuina della
fecondità. Dai bagni limacciosi di
Acqui, egli trae ispirazione per riflessioni che esulano dalle semplici considerazioni mediche fino a spaziare in
ambiti che potremmo definire mitico/simbolici. Michelet descrive un
senso di sicurezza nell’immergersi
nella mota agitata dalle bolle. Il calore,
l’avviluppamento nel fango diventano
un’occasione di riflessione filosofico/esistenziale. Di fronte al limo nero
di Acqui, Michelet celebra con spirito
romantico il ritorno alla madre terra
anelando il raggiungimento di una
sacra unità con il cosmo. Il fango
esprime, così, il connubio sostanziale
della terra e dell’acqua; per Michelet il
contatto con il limo ci aiuta a partecipare alle forze vegetanti e rigeneratrici della terra:
(…) questa terra la sentivo molto carezzevole e compassionevole mentre riscaldava il suo piccolo ferito (…) penetrava
infatti con i suoi spiriti vivificanti, entrava
dentro di me e si mescolava in me, insinuava dentro di me la sua anima
(….).
È evidente l’identificazione
profonda dell’autore con la
terra, che diventa completa
al punto che si avverte una
totale caduta dei confini tra l’io ed il
mondo:
(…) non mi riusciva più a distinguermi
da lei. All’ultimo quello che di me rimaneva scoperto, quello che lei non copriva,
il viso, lo sentivo importuno. Il corpo
sepolto era felice, ed io ero io. Talmente
forte era il connubio, fra me e la terra!
(…)
Da questo scambio e contatto profondo Michelet afferma di avere recuperato salute, giovinezza e vita. È plausibile ritenere che lo storico francese,
in queste riflessioni sul rituale del
fango, abbia voluto fare riferimento
all’antico rituale dell’incubazione1
dove il fedele o il malato veniva fatto
distendere a terra, per sfruttarne le
energie vitali ed i poteri curativi.
Michelet ricerca la fusione con la
natura assecondando il desiderio di
sfuggire alla situazione particolare e di
reintegrarsi con il cosmo attraverso
un processo di spersonalizzazione.
Nei frequenti bagni di fango, egli
matura la convinzione, che la terra lo
possa conoscere nel senso cosmico,
carnale della parola fino ad arrivare ad
una fusione totale con l’elemento
materiale. Il contatto tra il corpo e
il fango caldo produce il
dipanamento di una
1 L’incubazione svolse un ruolo importante nel culto di Asclepio dove oltre all’esposizione
alla terriera aggiunta quella al sole ed alle fonti d’acqua.
114
forza misteriosa, che si esprime attraverso un venir meno della propria
individualità. Si tratta di una morte
temporanea in cui il morire presuppone una resurrezione: in questo caso
morte e resurrezione sono il risultato
dell’abbandonarsi alla natura con il
conseguente sentirsi assimilato ad un
tutto dal cui contatto può scaturire
una nuova conoscenza.
Attraverso questo rito metamorfico
l’autore esprime una tensione tipicamente romantica, che consiste nel
desiderio di superare lo iato tra sé e
il cosmo2. Il ribollire senza posa del
fango è per Michelet la voce della
physis, simbolo di un’eternità vivente
nella quale può essere scorta la dialettica materiale della vita e della
morte, laddove la morte scaturisce
dalla vita e viceversa.
Immergersi nel fango bollente di
Acqui non significa solo curare la
malattia fisica, ma scoprire la lentezza
sospesa ed addormentata della terra
2
che pare poter divenire
eterna. L’immersione
nel fango delle terme
significa estinguere la
separazione tra l’io ed il
mondo e fare così ritorno al seno di una madre
non più matrigna ma
finalmente materna ed
accogliente:
(…) La Natura, dimenticata per l’accanito lavoro
che così ciecamente eludeva la felicità, non era
troppo in collera con me. Con infinita dolcezza mi aveva riaperto le braccia e mi
aspettava… Possa io esserne degno,
attingere alle sue correnti e con animo
più fecondo, entrare a far parte della sua
santa unità! (…)
Bibliografia:
J. MICHELET La Montagna,
Il Melangolo, Genova 2005.
Si ricordino gli scritti di Hölderlin su Empedocle.
115
Abbasso il re:
un anarchico
a Morsasco
di Ennio e Giovanni Rapetti
Maggio 1898.
Manifestazione
a Milano.
116
Gli archivi storici sono l’anima di ogni Comunità. Essi non sono
un insieme di vecchia carta polverosa. Sono vivi ed hanno continuamente qualcosa da raccontarci. Sono inesauribili. Gli archivi ci raccontano di uomini, di donne, di carestie, d’inondazioni,
di fame, ma il loro vero fascino trae origine dalla peculiarità che
hanno solo gli archivi delle piccole comunità: quella di parlare di
gente comune. Nei libri di storia e negli Archivi di Stato esistono i nomi dei potenti, di coloro che hanno dominato la storia,
non sempre quelli della gente comune, mentre gli archivi delle
piccole comunità conservano i nomi di tutti, quindi anche di chi
non solo non ha fatto la storia, ma anche e soprattutto di chi ha
“subito” le decisioni dei potenti. Noi vorremmo, nei nostri
studi, dedicarci soprattutto a loro, alla gente nata, vissuta, morta
senza apparentemente lasciare traccia.
Re Umberto I
Tra le tante
“Storie di gente comune”
che abbiamo
incontrato nel
corso dei
nostri studi ci
ha molto incuriosita quella di
Clemente
Armano, morsaschese coinvolto in
uno dei fatti più gravi
dell’inizio del secolo scorso: il regicidio di Umberto I.
La storia di Clemente Armano l’abbiamo incontrata casualmente, sfogliando un antico giornale edito nella
nostra città “La Gazzetta d’Acqui”,
conservato nella Biblioteca d’Acqui,
la “Fabbrica dei libri”.
Leggiamo, infatti, sul n. 32 de “La
Gazzetta d’Acqui” dell’11 - 12 agosto
1900 una notizia che ha attratto la
nostra attenzione: il titolo del trafiletto è “Un anarchico condannato dal
tribunale d’Acqui”. Nel citato articolo leggiamo: “Il giorno 6 corrente per
citazione direttissima, compariva davanti al nostro Tribunale un certo Armanno
(sic) Clemente di Morsasco d’anni 37
[…]”. Cerchiamo di capire di chi
stava parlando il nostro cronista.
Consultando l’archivio storico del
Comune di Morsasco, abbiamo trovato interessanti riscontri nei registri
delle nascite. Le notizie reperite nell’archivio storico comunale hanno
fatto rivivere il nostro “anarchico”.
Armano Clemente nacque il giorno
“diecinove” di giugno dell’anno 1863,
alle sette del mattino a Morsasco da
Bartolomeo e Maria Antonia Pesce,
entrambi contadini, padrino Giuseppe Armano e madrina Barbara Cerruti, contadini. Fu battezzato nello
Nacque a Torino nel 1844 da
Vittorio Emanuele II e Maria
Adelaide d’Absburgo. Comandò
la 16ª divisione durante la guerra d’Indipendenza del 1866,
distinguendosi nella battaglia di
Custoza. Si sposò con la cugina
Margherita. Abitò dapprima a
Napoli, per sottolineare l’avvicinamento tra Nord e Sud, e poi
dal 1870 a Roma. Salito al trono
alla morte del padre (gennaio
1878), si adoperò per rinsaldare i
legami tra la dinastia e il paese,
e fu per questo indicato con il
soprannome di «Re Buono». Egli
cercò di influire sugli orientamenti dei governi succedutisi
dopo il 1878, favorendo le tendenze moderate. Fu incline all’amicizia con la Germania e l’Austria – Ungheria, e alla Triplice
Alleanza, e poi alla politica di
espansione coloniale intrapresa
da Crispi. Propenso, negli anni
che seguirono la sconfitta di
Adua e la caduta definitiva di
Crispi (1896), a una linea di rafforzamento dell’autorità della
Corona e delle prerogative regie,
approvò la politica conservatrice
e autoritaria di Di Rudinì e del
Pelloux. Questo atteggiamento
provocò un crescente distacco tra
la parte più liberale dell’opinione
pubblica e il Re, soprattutto dopo
la dura repressione dei moti
popolari di Milano del maggio
1898 da parte del generale BavaBeccaris. Umberto I, che già in
precedenza era stato oggetto di
due falliti attentati anarchici (il
primo il 17 novembre 1878 a
Napoli, per mano di Giovanni
Passanante, ed il secondo il 22
aprile 1897 a Roma, ad opera di
Pietro Acciarino), venne assassinato a colpi di rivoltella da
Gaetano Bresci.
Le barricate di Milano rimosse dai soldati.
Maggio 1898.
stesso giorno dal prevosto don Gio.
Batta Gianotti, parroco di Morsasco
dal 1845 al 1890. Egli nacque molto
probabilmente nella cascina Bertoldone, posta sui confini di Morsasco
verso Prasco: lo troviamo, infatti, citato nello Stato Generale di tutte le famiglie residenti nel comune di Morsasco
al 1 ottobre 1900” come residente in
tale cascina, proprietà della famiglia
Armano da tempo immemorabile.
L’articolo prosegue spiegando gli
accadimenti: “[...] la sera del 31 luglio
118
mentre si trovava sul
treno in prossimità
della stazione di Prasco, fatta l’apologia
del regicidio di Monza, soggiungeva che
nei panni dell’uccisore
Bresci egli sarebbe
stato capace di fare
altrettanto”.
Come è noto Gaetano Bresci aveva ucciso il 29 luglio il
re Umberto I.
A seguito di tale evento, la situazione
socio – politica in Italia fu fortemente turbata. Il senatore Saracco, successore del Pelloux, fu incaricato di
formare un governo che includesse
rappresentanti di tutti i gruppi (tranne l’estrema sinistra) in modo da
normalizzare gradatamente la vita
politica italiana. Purtroppo questo
non fu sufficiente: oltre al regicidio il
malcontento sfociò nello sciopero
generale di Genova del gennaio
1901.
È in questa atmosfera che maturò la
nostra vicenda. L’articolo .prosegue:
“L’esame dei testi assodò il fatto in
modo indubbio, per cui il procuratore del
Re Sig. conte Suman chiedeva la condanna dell’Armanno a mesi 12 di detenzione e a L. 1000 di multa. E il Tribunale,
pronunciando la sentenza, applicava la
pena richiesta. Ottima fu l’impressione
prodotta nella cittadinanza da questa
giustizia pronta ed energica”.
Con ogni probabilità Armano scontò
il carcere e pagò la pesantissima
multa. Dopo il carcere tornò a
Morsasco. Continuando le ricerche
lo troviamo infatti citato nel censimento del 1911 abitante nella cascina Bertoldone e proprietario di una
parte della cascina stessa, divisa con i
Gaetano
Bresci
fratelli Giacomo e Giovanni. Morì nel suo
paese celibe, poco prima del coinvolgimento dell’Italia nella prima guerra mondiale, il 15 aprile 1915.
Una vita anonima come molte altre, ma
che ad un certo punto ha incrociato
quella dei potenti. Clemente Armano da
Morsasco ne uscì con le ossa malconce,
ma questo gli ha permesso di avere un
piccolo posticino nella storia locale.
Nacque a Coniano in provincia di Firenze e morì
suicida nel carcere di
Santo Stefano dove stava
scontando la condanna
all’ergastolo. Operaio tessitore, emigrato in
America aderì ai movimenti anarchici d’ispirazione bakuniniana. Tornò
in Italia in un periodo in
cui la vita del paese era
stata turbata da conflitti
sociali e da tentativi di
involuzione autoritaria
dello Stato. Di questa
situazione si faceva, a
torto o a ragione, risalire
la responsabilità alla
monarchia. Furono questi
i motivi che lo spinsero a
compiere il 29 luglio 1900
nei pressi della Villa Reale
di Monza l’attentato ad
Umberto I.
Il generale
Fiorenzo Bava-Beccaris
Nacque a Fossano, in provincia di Cuneo, nel 1831, e morì a Roma nel
1924. Fece una brillante carriera militare: nel 1882 fu promosso
Maggiore Generale, successivamente comandante del VII e III corpo
d’armata, poi, nominato commissario straordinario della provincia di
Milano, il 7 maggio 1898 ebbe l’incarico di reprimere i moti popolari
scoppiati nella città per il rincaro del pane. Eseguì l’ordine ricevuto con
un po’ troppo “zelo”, infatti organizzò una repressione che provocò numerose vittime. Nello stesso anno fu nominato senatore. Lo sdegno per un
tale “premio” fu enorme in larghi strati della popolazione.
1914:
i “gesti bianchi”
ad Acqui
di Marco Francesco Dolermo
Adieu, la raquette sonore
Les cris anglais, les gestes blancs!
Le seul jeu de ce jaune octobre
Est de s’embrasser sur les bancs
Roger Allard
Anni Trenta,
Villa Santa Caterina.
Il titolo trae ispirazione
dal volume di Gianni
Clerici, I gesti bianchi.
Londra 1960 - Costa
Azzurra 1950 - Alassio
1939, Milano, Baldini &
Castoldi, 1995. I “gesti
bianchi” sono gli eleganti
movimenti dei giocatori
dei primordi di bianco
vestiti celebrati dai versi
di Allard.
120
«È un gioco che non mi piace e non
capisco», ebbe a commentare in un
pomeriggio dei primi anni Trenta dalla terrazza del circolo Parioli a Roma, Mussolini.
«Forse non vi piace, perché non lo capite», ribattè
prontamente Augusto Turati, presidente degli internazionali di tennis di Roma.
Sta di fatto che, pochi giorni dopo, il custode del
Parioli veniva chiamato a dirigere
la costruzione di un
1
campo da tennis a villa Torlonia . Era lo stesso dirigen1 L’aneddoto è tratto da GIANNI CLERICI, 500 anni di tennis, Mondadori
2004, p. 241. Le informazioni di carattere generale riguardanti il tennis
sono state tratte ancora da 500 anni di tennis vera e propria Bibbia del tennis. Gianni Clerici,“osservatore” dei maggiori tornei internazionali per La
Repubblica, è il noto commentatore, assieme a Rino Tommasi, delle trasmissioni tennistiche di Sky.
Una cartolina di fine anni Trenta dei campi da tennis
dei Bagni. I giocatori sono tutti rigorosamente vestiti di bianco. Ringrazio il nobiluomo Filippo Lingeri
per la gentile concessione dell’immagine.
te consultato per la costruzione dei
due campi da tennis a fianco dell’albergo Regina di Acqui?
Nel 1935, infatti, nell’ambito della
ristrutturazione di Vecchie e Nuove
Terme, il valente gestore Michetti, che
segnò l’epoca d’oro delle Terme
acquesi che si aprirono alla2 vita mondana in stile “belle époque” , volle che
due campi da tennis in terra rossa
venissero approntati, secondo le
norme del Federazione Italiana Tennis,
nell’area che separava l’albergo Regina
dalla piscina edificata nel 1932. Costati
5.000 lire ciascuno, il progetto venne
sottoposto alla consulenza di un dirigente del tennis club Parioli di Roma3.
Vennero inaugurati nell’estate di quell’anno, come si può leggere su Il
Giornale d’Acqui dell’8 giugno 1935:
Campi di tennis. “I campi di tennis alle
Antiche Terme sono completati e si
può giocare da domani. Le prenotazioni per il gioco si ricevono presso
l’incaricato addetto alla sorveglianza
dei campi. Sono stati istituiti speciali
abbonamenti che possono acquistarsi
4
presso la biglietteria della piscina” .
Non si trattava, tuttavia, dei primi
campi da tennis costruiti ad Acqui.
Il gioco del tennis, infatti, brevettato il 23 febbraio 1874 da Walter
Compton Wingfield, fece la sua
comparsa in Italia nel 1878, a
Bordighera, frutto, non tanto di anglofilia quanto del colonialismo inglese
che in quegli anni veniva a svernare in
Riviera e che ivi trasportò la magica
cassa con quattro racchette, la rete, i
due pali di sostegno e dodici palle che
costituiva il famoso “set” Wingfield. Il
primo club tennistico indigeno sarebbe sorto due anni più tardi, nel 1880,
Anni Trenta,
Villa Santa Caterina.
2 Per un approfondimento rimando a ROBERTO CARTOSIO, Le Terme di Acqui dalla fine dell’Ottocento alla II
guerra Mondiale, tesi di laurea, università degli studi di Torino, facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico
1998-1999, relatore professore Gian Carlo Jocteau.
3 Archivio del Comune di Acqui, Lavori pubblici, Fabbricati di proprietà comunale, faldone 574, fascicolo 13,
1935 Costruzione di campi da tennis nelle vecchie terme.
Contiene due planimetrie dei campi.
4 La voce che negli anni Trenta la nazionale di tennis si fosse recata ad Acqui per svolgere una serie di allenamenti presso i campi delle Terme non ha trovato conferma nei documenti d’archivio, cartacei e fotografici.
121
Un’altra immagine di fine anni Trenta. Sullo sfondo
dietro i campi si può notare il trampolino della piscina. Leggermente spostato sulla sinistra il fabbricato
del Kursal che fungeva da spogliatoio per i giocatori. Il
piccolo spogliatoio ancor oggi visibile, venne unito più
tardi, dopo la demolizione dell’edificio del Kursaal.
Intorno vi erano giardini all’italiana delimitati in ordinate aiuole, non prato all’inglese, per evitare come
temeva il dirigente del Parioli, che l’erba si propagasse
nel recinto di gioco. L’immagine è tratta dall’archivio
storico fotografico Bonelli di Acqui.
a Torino, dove i “pionieri” del gioco
non pochi sorrisi dovettero far nascere sul viso di spettatori abituati al più
virulento pallone al bracciale5.
Ad Acqui il gioco del tennis fece la sua
comparsa relativamente tardi - del
resto l’associazione italiana tennis
venne istituita a Roma solo nell’aprile
1894 -, nell’immediata vigilia della prima guerra mondiale. La Gazzetta
d’Acqui del 7-8 marzo 1914 in un
breve trafiletto, Lawn-tennis6, rendeva
noto che “Lunedì s’incomincia a giocare al tennis. La direzione dell’Acqui
Club sta preparando un ottimo
campo di gioco, e arredandolo di
buone racchette. Gli allenamenti incominciano alle 16,30”. Lo stesso giornale il 4-5 aprile in un secondo intervento sempre titolato Lawn-tennis,
informa che “Il nuovo campo di gioco
sarà inaugurato subito dopo Pasqua e
5 Sulla tradizione nel Piemonte del pallone al bracciale e, sua evoluzione, del pallone elastico, rimando a
ANDREA MERLOTTI (a cura di), Giochi di palla nel Piemonte Medievale e Moderno,
Centro studi storici-etnografici museo storico-etnografico “A.Doro”, Rocca
de’ Baldi, 2001, in collaborazione con la Società per gli studi storici e artistici della provincia di Cuneo.
6 Il termine lawn-tennis indica il tennis giocato su erba, superficie sulla
quale nacque e si sviluppò il gioco.Tale superficie si impose
oltreché in terra d’Albione in tutte le colonie britanniche
e anche sul costa orientale degli Stati uniti d’America. Sul
continente europeo prevalse invece la terra rossa, ma la
definizione rimaneva quella di lawn-tennis. Nel caso specifico di Acqui, le fonti nulla ci dicono sulla superficie.
Stante le difficoltà di mantenere un prato sul quale
giocare, è probabile che si trattasse di un fondo
in terra grigia.
Un’altra immagine di fine anni Trenta relativi ai campi
dei Bagni. Umberto Barberis, Enrico Colla e Giovanni
Pastorino. Si notino i due giovani raccattapalle scalzi. Sui
campi si poteva entrare solo con le scarpe da ginnastica
e non tutti i fanciulli, come ricorda Umberto Barberis,
ne avevano un paio. Per non rovinare il campo, pertanto,
dovevano accedervi a piedi scalzi.
122
Il Garden-tennis di Santa Caterina. Berta Milani, Luisetta
Piola, la signora Arkel, Maria Teresa Morelli, Maria Pia
Piola,Augusto Galliani. La famiglia Piola era solita invitare amici e conoscenti e intrattenerli “scambiando”
qualche colpo. Le racchette, come ricorda l’avvocato
Enrico Piola, che ringrazio per la squisita gentilezza,
erano Persenico, azienda tra le prime a produrre
attrezzi tennistici in Italia.
riuscirà splendido. Per ora gli allenamenti hanno luogo in una spianata del campo”. Di questo primo
campo da tennis, oggi non rimane
più traccia, ma, in base al alcune testimonianze7, doveva trovarsi nei prati
dove l’Acqui Club di calcio all’epoca
giocava, nei pressi della zona dell’odierno asilo Moiso, un tempo nota
come “i prati della Luisa”.
Più tardi, nel 1927, un campo in terra
grigia venne costruito8 in zona Bagni,
al centro, come ricorda l’avvocato Enrico Piola, dell’attuale piscina comunale, poi cancellato nel 1932 a seguito
della costruzione della medesima e
sostituito con i due in terra rossa di
cui si è scritto all’inizio.
Giacomo
Piola ne volle
uno in terra grigia fin dagli inizi degli
anni Trenta9 dove si giocò sino alla
vigilia della guerra. Sempre in quegli
anni ne vennero edificati altri in terra
grigia, oggi non più esistenti, alla
Platona di proprietà della famiglia
Prencipe-Reimandi, e a villa Murialdi
in regione Monterosso. Nel 1947, la
famiglia Cavo acquistò La Gioiosa dove
esisteva già un campo da tennis che
Giuseppe Cavo ampliò per renderlo
regolare. Oggi il campo, recentemente
I campi privati
Negli anni Trenta alcune benestanti
famiglie acquesi vollero dotare le proprie residenze estive di un campo da
tennis. A Santa Caterina il senatore
La Gioiosa: in primo piano il campo da tennis.
Ringrazio la famiglia Ivaldi, in particolar modo la
signora Gabriella Cavo-Ivaldi.
7 Mi riferisco ad alcune testimonianze raccolte dal documentalista della biblioteca civica di Acqui, Lionello
Archetti Maestri e dalla signora Patti Perelli.
8 Archivio del Comune di Acqui, Lavori pubblici, Fabbricati di proprietà comunale, faldone 574, fascicolo 13,
1927 Costruzione di un campo da tennis nelle vecchie terme. Sfortunatamente di questo court, come di quello
del 1914, non è stata rintracciata alcuna documentazione fotografica.
9 Come riferitomi dall’avvocato Enrico Piola, fratello dell’indimenticato Vittorio, era costituito da terra grigia mista a sabbia che una volta bagnata ne favoriva la stabilità e la compattezza.
123
Anni Trenta. Luisetta Piola, moglie del senatore Giacomo,
in gonna lunga bianca. Sullo sfondo il rullo che serviva per
livellare il campo situato in Santa Caterina presso la
Residenza estiva della famiglia Piola. .
ristrutturato,
sul quale chi
scrive ha
avuto il
piacere
di giocare più
volte,
presenta
una superficie di resina verde
che ne rende
il gioco particolarmente
veloce.
Il tennis come
opera d’arte:
il campo di
Villa Ottolenghi
Nel 1955 il conte Astolfo Ottolenghi
volle che un campo da tennis venisse
edificato all’interno del complesso
artistico di villa Monterosso. Venne
contattata la Morgan Contracting &
Engineering Co. Ltd, ditta inglese di
Newcastle, costruttrice di un campo
tipo “Morgan”. Era costituito da un
impasto catramoso colorato di verde.
Il fondo risultava poroso e non richiedeva manutenzione particolare, soprattutto le frequenti innaffiature
necessarie invece per i campi in terra
Il campo da tennis di villa
Ottolenghi. Sullo sfondo la casa
degli artisti.Al suo interno, a
sinistra del pian terreno, era
collocato lo spogliatoio.
rossa. Unica controindicazione, come
sottolineava il 18 ottobre 1954 in una
lettera al conte Astolfo, il marchese
Ambrogio D’Oria che ne aveva uno
uguale nella sua residenza di Montaldeo presso Ovada, era forse una
troppo veloce consunzione delle palle
e un rimbalzo leggermente superiore
a quello che avveniva sui tradizionali
campi in terra rossa. Non era duro,
ma come sugli odierni campi in
cemento, la scivolata non10 era
consentita .
Un particolare dell’ingresso del campo di villa
Ottolenghi. Un draghetto,
opera dei maestri scultori Mario e Ernesto
Ferrari, metteva in guardia dal giocar male!
Un’altra immagine di Monterosso. Sullo
sfondo la villa. Si noti, a destra del campo,
il “muro” contro il quale allenarsi. Oggi,
non più curato come un tempo, scomparso il colore verde, il terreno di gioco presenta un principio di sbrecciamento del
fondo bituminoso.
Un altro particolare del
campo di villa Ottolenghi.
Un anemometro, opera dei
maestri Ferrari, per verificare la velocità del vento
che poteva disturbare il
gioco.
10 La presente ricerca doveva limitarsi a tutti gli anni Quaranta del Novecento. Una eccezione, data la
particolarità, viene fatta per il court di villa Ottolenghi. Per le notizie riguardanti il terreno di gioco, tratte dall’archivio Ottolenghi, ringrazio la gentile contessa Cecilia Lenherr-Ottolenghi. Il campo che utilizzava materiali sintetici all’avanguardia attirò le attenzioni, tra gli altri, del principe Franco Lanza di Scalea
di Palermo e della nota famiglia di industriali italiani, Barilla.
125
T’vighe sa fim?
Lè u iè ca’ mia
Raccontare
il passato
ai giovani
di Elisabetta Farinetti
Sono stata insegnante di lettere per quasi quarant’anni. Erano i primi anni ’90 quando la mia
vita mutò la sua rotta: avevo lasciato l’insegnamento ma non si era esaurito il mio interesse
per il mondo giovanile che aveva improntato
tutta la mia esistenza. I giovani erano sempre
stati e rimanevano al centro del mio interesse.
Quando tornai ad Orsara, che è il mio luogo
natale, per molti mesi all’anno, non ritrovai il
paese nel quale avevo trascorso la mia infanzia. Il
mondo era cambiato rapidamente e, in particolare, il
paese aveva mutato connotazione nell’aspetto e nelle
scelte di vita: quasi tutta la popolazione a poco a poco si era trasferita nei due condomini costruiti ai piedi della collina, si spostava in auto, frequentava i supermercati e i giovani passavano le
serate del sabato nei pub o nelle discoteche delle città vicine.
Non fumavano più i camini e, spesso, i bidoni dei rifiuti traboccavano di vecchie masserizie inutilizzabili fra cui non era difficile intravedere fotografie di signori baffuti e di donnone vestite a
festa. Per una persona della mia generazione era constatare da
vicino la radicale e definitiva trasformazione della società contadina povera e laboriosa, che era quella in cui ero nata e vissu-
126
ta, nella cosiddetta società dei consumi. Fu una constatazione sofferta
perché sentivo che i pochi giovani
rimasti rifiutando i soprannomi di
famiglia, omologando completamente le loro scelte ai modelli offerti dai
mezzi di comunicazione di massa,
stavano cancellando un passato la cui
povertà era vista come una vergogna
di cui liberarsi e sul quale era urgente indurli a soffermarsi. Sentivo che
non sarebbe stata un’impresa facile.
Provai a sondare qua e là cercando di
proporre ai giovani delle iniziative
che li inducessero a crearsi degli
interessi nel luogo in cui vivevano, ma
troppo forti erano ormai gli stimoli
che provenivano da fuori, per cui fu
inevitabile desistere. Ma la mia non fu
una resa, cambiai soltanto strada e
accantonai per un po’ il problema.
Era il 1991. Cominciai a far girare la
voce che avrei organizzato una
mostra di vecchie foto. La gente
rispose con entusiasmo e dai cassetti uscirono delle meraviglie inaspettate. Il Comune mi prestò i locali, e
sulla locandina che disegnò mio figlio
Alberto, dedicai ai giovani una poesia
in dialetto “Na quintùla” per sottolineare indirettamente che, comunque, stavo pensando a loro. Scrissi,
però, la traduzione in italiano, perché
anche il dialetto era diventato obsoleto.
Da quella mostra all’ideazione del
Museo il passo fu breve, anche se la
gestazione durò parecchi anni. Non
ero più sola. Per la gente della mia
generazione e anche per le poche
persone rimaste di quella precedente fu una gioia rispolverare con me
che li interrogavo, i vecchi ricordi,
consegnare in mani sicure la sacralità
di oggetti che avevano fatto parte del
loro passato, raccontarmi vite lonta-
ne, affidarmi perfino…le
loro
ricette di cucina. Non chiedevo di meglio.
E mentre la
mia scrivania
si riempiva di
appunti e il
mio cortile
somigliava sempre più al deposito di un
rigattiere, lavoravo ai fianchi le
Amministrazioni comunali
perché mi concedessero in
uso i locali inutilizzati dell’ex
Scuola elementare. Il Comune
rispose positivamente nel 1996 e si
cominciò ad abbozzare il Museo con
le donazioni di amici meravigliosi
alcuni dei quali, ora, purtroppo, non
ci sono più. Prendeva forma un’idea
con i gioghi e l’aratro, il vaglio e le
falci, le brente, le imbottigliatrici, il
quarto e il bagnau.Tanti capi di biancheria, oggetti di uso domestico
dimenticati, libri come il Gelindo o
messali, vecchi quaderni di scuola,
immagini commemorative, bandiere
di leve, oggetti incredibili come il
cesto con cui i ragazzi di leva andavano a cantare le uova, un semicupo
di zinco, un mastello di legno, due
culle, giocattoli sinistrati e perfino un
girello di legno appartenuto ad una
signora che ormai aveva quasi novant’anni, furono messi al sicuro dal disinteresse dei futuri eredi o dalle offese del tempo. Era fatta. Avevamo il
nostro Museo. Amici che mi avevano
affiancata in questa lunga fase preliminare, si tassarono con me ( 50.000
lire per 22) e costituimmo l’Associazione Ursaria Amici del Museo
che, nel 1998, cominciò a pubblicare
quadrimestralmente il giornalino
127
l’ORSO con cui cominciammo a dar
voce anche alle memorie tramandate
oralmente o attraverso polverosi
documenti.
E i destinatari del nostro discorso?
Per lungo tempo rimasero a guardare tenendosi a debita distanza. Ma
oggi il vicepresidente dell’Associazione è un giovane, il primo in assoluto
ad essersi mostrato sensibile al problema e, dallo scorso anno, nell’ORSO, dopo una coraggiosa proposta dell’attuale Presidente dell’Associazione, c’è un inserto interamente gestito da giovanissimi. Un po’ di
strada è stata percorsa.
In questi ultimi anni il Museo si è
arricchito, tanto che ora i locali dell’ex Scuola Elementare gli vanno
stretti, ed è diventato un riferimento
culturale nella zona facendosi promotore di pubblicazioni ed iniziative
volte alla valorizzazione del territorio, ad approfondimenti di storia
locale e allo studio del fenomeno
128
dell’emigrazione che nei secoli scorsi ha portato tanti Orsaresi in
Argentina. Siamo entrati nel circuito
dei Musei della Provincia di Alessandria e della Regione Piemonte ed
abbiamo ottenuto una visibilità superiore a qualsiasi aspettativa. Ma l’intento originale non era quello di
dare un piccolo lustro al nome di
Orsara, bensì quello di narrare il passato remoto e insegnare a rispettarlo a quanti non l’hanno conosciuto.
Perché solo con la consapevolezza
del proprio passato si può costruire
un futuro di più ampio respiro, si può
dar vita ad una società multietnica in
cui ognuno conservi le proprie peculiarità. Oggi non possiamo dire di
essere riusciti a trasmettere ai giovani la fierezza delle loro radici e a
costituire per loro un polo culturale
alternativo, ma abbiamo fatto qualche passo avanti. Sappiamo che il discorso è lungo e i tempi sono difficili.
Le lusinghe dell’oggi sono allettanti e
la televisione è la vera maestra di
vita. Ma noi abbiamo gettato un seme
e continuiamo a raccontare la storia
di esistenze lontane, di gente laboriosa ed onesta, di povertà dignitose,
di famiglie numerose ed unite, di un
tempo ricco di virtù, che non deve
essere dimenticato e che merita
rispetto e un consapevole ricordo.
Un tempo in cui il mondo era piccolo e trovare la strada di casa era facile: “ t’vighe sa fim? Lè u iè ca’ mia”.
“Il mondo contadino e il Museo di Orsara”
di Luisa Rapetti
Opera polivalente è “Il mondo contadino e il museo di Orsara” di E.
FARINETTI, B. RICCI, G. VACCA, poiché
possiede i tratti specifici del documentario etnostorico e, insieme,
svolge efficacemente funzione di
guida, grazie all’agile scrittura ed
all’originale corredo fotografico, per
chi desideri visitare virtualmente il
museo contadino di Orsara Bormida.
Infatti la struttura tematica del
volumetto veicola e valorizza le categorie identitarie e specifiche della
civiltà contadina,vera ricchezza
locale: il lettore è condotto, attraverso la cultura materiale e il dialetto,
alla riscoperta del “patrimonio genetico” inscritto nel vissuto quotidiano
e nella memoria di nonni e padri.
Nel mondo contadino ormai scomparso c’è innanzitutto la terra, e il
lavoro della terra. Nella policoltura
di sussistenza il piccolo appezzamento familiare imponeva a tutti,
dall’alba a mezzogiorno (fé la matinä), il duro lavoro manuale “di zappa e vanga”: nelle vigne addossate
alle colline e negli orticelli del
Rovanello, ma anche nei campi di
meliga e di grano della Piana, dissodati con l’impiego dell’aratro tirato
dal bue.
Grano e granoturco (ra melia) venivano raccolti a mano; nelle vigne si
avviava la potatura (pué) in inverno,
per impalare (ancarasé) le viti a febbraio; da marzo si spollonava (scarsuré) e si correva ad irrorare le viti
di verderame (dé ir verdräm) e di
zolfo ad ogni rintocco del campanone; i tralci troppo cresciuti si legavano e rilegavano (arlié ir vi) e a settembre la vendemmia, la vinificazione, la torchiatura imponevano una
prolungata mobilitazione generale.
“Rapulé i sccianc d’San Martèin”
ossia raccogliere i racimoli dimenticati sui tralci affinché nulla andasse
perso era l’attività che concludeva il
ciclo agricolo dell’anno.
Poi c’erano la casa e la famiglia
patriarcale dove i vecchi, che godevano del rispetto incondizionato dei
giovani, avevano l’ultima parola
nelle decisioni importanti. Casolari
sparsi nella campagna e casupole
in pietra addossate alla rocca erano
tutto il paese, e nessuno era mai
solo. In ogni casa il centro della vita
era la cucina riscaldata dal camino;
ma nelle serate invernali ci si riuniva tra vicini al caldo, nelle stalle, e si
vegliava ascoltando le storie di
Gelindo o dell’Ebreo Errante dall’affabulatore occasionale, riparando
attrezzi, facendo la maglia (scapein)
e il cucito.
La vita aspra si imparava ad affrontarla già da bambini quando, rubando tempo al lavoro, si andava per
nidi, si faceva a gara a tirar di fionda, a palle di neve, a riconoscere i
versi degli uccelli, le specie delle
piante, le orme di animali. Da grandi poi, la precarietà del quotidiano
era superata trasformando le occasioni di lavoro comunitario in festa:
la battitura del grano era seguita
dalla cena comunitaria; la vendemmia e la pigiatura dell’uva si svolgevano fra canti e scherzi; la sfogliatura della meliga sull’aia era conclusa
dal ballo a suon di fisarmonica; alla
macellazione del maiale “antra ciäv
dl’invern”, seguiva la polentata con
interiora dell’animale e abbondanti
libagioni di vino novello con parenti
ed amici.
Le feste del calendario - Natale,
Pasqua, Carnevale, San Martino
Patrono - esprimevano doppia “sacralità”: religiosa, “come Dio comanda” e gastronomica, poichè il cibo –
la gallina cui veniva tirato il collo,
gli agnolotti serviti nel vino migliore- era segno della benevolenza del
Cielo e di vita.
La Divisione
Acqui a Cefalonia.
Un caso
esemplare di
resistenza militare
di Gian Enrico Rusconi
Le foto d’epoca
relative a questo
contributo e al
successivo sono
parte della collezione
Hermann Frank Meyer.
130
Sono maturi i tempi per il pieno riconoscimento della specificità della resistenza dei militari contro i tedeschi, immediatamente dopo l’8 settembre 1943. Si tratta di una resistenza che presenta tratti peculiari rispetto alle altre forme di azione civile e
politica, che si registrano nel paese. Ma l’allargamento del concetto di resistenza sino a comprendere senza reticenze quella
dei militari implica una più articolata e qualificata definizione del
concetto stesso di resistenza.
Lo scontro dei militari con i tedeschi si manifesta in una pluralità di forme e di intensità sul territorio nazionale, nei Balcani, in
Grecia, in Albania, nell’Egeo ecc. e nel
comportamento della massa dei soldati, internati in Germania, che non
cedono alle pressioni di aderire alla
Repubblica sociale italiana (per essi
Alessandro Natta ha coniato in
tempi non sospetti l’espressione
“l’altra resistenza”). Questo comportamento ha una sua specificità che va
ricercata lungo tre coordinate:
• una sofferta rielaborazione della
propria lealtà istituzionale;
• una rapida ma conflittuale ri-definizione del nemico nel tedesco exalleato;
• una difficile prestazione militare quando c’è ed è possibile.
La lealtà istituzionale dei militari
verso il re o verso la patria ( ma questa è una distinzione che andrebbe
criticamente riesaminata) non riproduce una automatica fedeltà al giuramento o l’obbedienza agli ordini
superiori che sono per lo più tardivi,
problematici e sempre inadeguati alla
situazione. La lealtà si esprime in
valori di etica militare più profondi:
l’onore del soldato del non cedere le
proprie armi o l’ autonomia di azione e l’efficienza della propria unità.
Queste virtù militari si ritrovano a
Cefalonia, che diventa così esemplare, anche se la particolare sua situazione non esaurisce la fenomenologia e la problematica dei comportamenti delle truppe d’oltremare.
“Decideste consapevolmente il vostro destino. Dimostraste che la Patria non era morta.Anzi con la vostra
decisione ne riaffermaste l’esistenza.
Su queste fondamenta risorse l’Italia.
Questa scelta consapevole fu il
primo atto della Resistenza di
un’Italia libera dal fascismo”. Con
queste espressioni qualche anno fa il
Presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi ha inteso onorare i
caduti della Acqui a Cefalonia, riconfermando nel contempo espressamente il ruolo dei militari nella guerra di liberazione nazionale.
Quella di Ciampi è stata vista come
un’operazione di “politica della storia”, legittima dal punto di vista politico, che tuttavia, accanto a consensi,
solleva critiche da parte di studiosi e
pubblicisti che danno una interpretazione molto diversa del comportamento della Divisione Acqui. Basti
dire che uno studioso come Sergio
Romano ha definito Cefalonia “una
pagina nera della storia militare italiana”. Come è possibile registrare
giudizi così contrastanti?
In realtà le due posizioni appena
ricordate, soprattutto quando sono
riprese polemicamente, non fanno
giustizia al comportamento del
comando e dei soldati della Acqui tra
l’8 e il 22 settembre 1943. Confermano che la questione della qualità e della natura della resistenza militare è ancora aperta.
La prima affermazione (Cefalonia
“primo atto della Resistenza che
libera dal fascismo”) non coglie a sufficienza la motivazione della reazione
anti-tedesca della Acqui, rispetto ad
altre reazioni sul territorio nazionale
o nella stessa area balcanica. La
seconda formula, che considera
Cefalonia “un episodio di imprevidenza militare”, pone invece l’attenzione su altri aspetti della vicenda: la
turbolenza e l’insubordinazione della
truppa e di alcuni ufficiali che avrebbe indotto il Comando ad una decisione avventata e suicida. Ma anche
questa è una lettura parziale, fatta in
polemica contro l’enfasi della sinistra
sul cosiddetto ‘referendum’ della
131
truppa che sarebbe stato alla base
dell’inizitiva militare. Non coglie la
complessità del processo decisionale
che consente alla fine al comandante
Antonio Gandin di portare in battaglia un’unità fortemente motivata e
ricompattata. Anche se inadeguata
alla prova sul campo. In una situazione eccezionale come quella di
Cefalonia a metà settembre 1943 l’esplosione di una crisi disciplinare non
può essere un criterio discriminante
di giudizio.
È importante ricordare che l’8 settembre è una cesura che rompe ogni
automatismo militare. Impone al soldato una scelta “politica” nel senso
autentico della parola: l’identificazione del nemico. Anche se, in questa
identificazione, alcuni contenuti politici che per noi sono ovvi (antifascismo, liberazione del paese in prospettiva democratica) non sono e
non possono essere riconosciuti nei
protagonisti di allora – quantomeno
132
nel senso che noi oggi diamo a quei
contenuti.
Il discorso si allarga così al badoglismo, forse studiato troppo esclusivamente nell’ottica dei vertici istituzionali e nelle polemiche politiche interne, e meno nei processi di identificazione dei militari nei Balcani e in
Grecia.
I costi altissimi che la Acqui paga con
il massacro dei suoi uomini (come
del resto i disastri subiti da altre
unità nell’area balcanica) non sono
imputabili alla decisione di resistere
ai tedeschi sul campo - come ritengono alcuni critici, ma si iscrivono in
una logica politica più ampia che
esula dall’orizzonte dell’unità militare
dislocata nell’isola ionica. È l’anomalo
stato di ostilità dell’Italia contro la
Germania, dal punto di vista politico
e del diritto internazionale, che getta
la Acqui in un abisso di violenza tra
ex-alleati senza precedenti. Da un
lato, verso gli italiani c’è lo stigma del
tradimento e dell’ammutinamento,
dall’altro nei tedeschi c’è un comportamento che si configura come
crimine di guerra.
Della vicenda della Acqui vorrei qui
ricordare il punto di partenza spesso
trascurato nelle narrazioni correnti,
che insistono soprattutto sulle fasi
finali dello scontro con i tedeschi e
sul massacro che ne segue. Invece è
il punto di partenza che consente un
confronto con altre esperienze di
resistenza militare.
All’annuncio dell’armistizio, l’obiettivo primario delle truppe italiane in
Grecia, in Albania e nei Balcani è il
rimpatrio. È un’operazione militare,
logistica e politica, straordinariamente impegnativa. Per intenderci, siamo
agli antipodi della sciagurata immagine popolare del “tutti a casa”. Il ritorno in patria è previsto dagli accordi
armistiziali con gli anglo-americani,
ma non è mai stato affrontato in termini operativi.
In compenso si fanno vivi subito i
tedeschi, con la loro offerta di rimpatriare quelle truppe italiane che
cedono le armi. Ma quali armi? Con
che criterio? Con quali garanzie? E’
in questa ottica che la trattativa iniziata dal Comando della Acqui con i
tedeschi (interpretando alcune iniziali direttive centrali) appare legittima e ragionevole. Sostenere - come
fanno alcuni critici oggi - che la negoziazione fosse un errore politico,
morale o militare, e che quindi l’immediata apertura delle ostilità contro i tedeschi fosse l’unica scelta
politicamente e militarmente corretta - è una valutazione che ha una sua
giustificazione. Soprattutto alla luce
della tragedia finale. Ma questo giudizio non tiene conto affatto delle
chances reali che l’unità italiana ha di
imporsi sui tedeschi, in un contesto
geografico che è sotto il loro controllo totale. E senza alcuna garanzia
di aiuto da parte dell’Italia.
Va aggiunto che a Cefalonia si è
istaurato un clima di leale collaborazione tra italiani e tedeschi, grazie al
personale impegno del generale
Gandin. Proprio per questo diventa
significativo e decisivo il mutamento
di atteggiamento e comportamento
del comandante quando, dalla dinamica stessa della trattativa, matura
gradualmente la decisione di combattere gli ex-alleati. Questi diventano nemici da contrastare attivamente, non solo perché non danno
garanzia alcuna di effettuare il rimpatrio, che era all’origine del negoziato,
ma perché esigono un disarmo che
via via si presenta come incondizionato, contrario all’onore e alla sicurezza dei soldati. Su questo sfondo, la
decisione del comandante Gandin di
combattere i tedeschi, facendo assumere alla sua Divisione un altissimo
rischio, è encomiabile proprio perché ponderata.
Fatte queste premesse generali, elenchiamo i punti che qualificano in modo ancora più specifico la vicenda
della Acqui a Cefalonia:
• la piena legittimità della trattativa
con i tedeschi dopo l’8 settembre,
in ottemperanza all’obiettivo del
rientro in patria.
• la crisi disciplinare che investe la
Divisione a vari livelli e che pone al
comando seri problemi di controllo e gestione della situazione.
• il lento processo di trasformazione
del tedesco da alleato a nemico.
• la compressione temporale della
crisi di 14 giorni in due fasi: la trat-
133
tativa (9-14 settembre) e la battaglia accompagnata dal massacro
(15-22), cui segue l’eliminazione
degli ufficiali.
• le difficili e ambigue comunicazioni
con il Comando direttamente superiore ad Atene e con il Comando
supremo in Italia.
• l’atteggiamento incerto, indifferente
e sospettoso degli angloamericani.
Se il rientro ordinato in patria è l’obiettivo primario delle truppe italiane dislocate nei Balcani e in Grecia,
appare subito evidente l’assenza di
mezzi e di risorse per l’operazione.
Ne approfittano i tedeschi per negoziare il rimpatrio delle truppe italiane
con il loro disarmo. In realtà nelle
disposizioni del comando supremo
germanico non c’è alcuna indicazione
operativa di “rimpatrio” degli italiani,
ma semplicemente del loro “allontanamento” dalle aree strategicamente
importanti. Questo vale innanzitutto
per le isole ioniche Corfù e Cefalonia.
I tedeschi dunque simulano di trattare su un ritorno in patria degli italiani
sapendo che non sarà realizzato.
Rimane un margine di dubbio per i
comandi locali, diretti interlocutori
degli italiani, che in un primo momento potrebbero aver pensato di trattare davvero su un punto (il rimpatrio)
la cui realizzazione non sarebbe stata
di loro competenza. Questo sembra il
caso del comandante del XXII corpo
dei Gebirgsjaeger Hubert Lanz, diretto interlocutore della Acqui.
Questo dettaglio conferma che la
dinamica iniziale dell’episodio di Cefalonia va ricercata nel rapido deteriorarsi del rapporto di fiducia tra i
tedeschi e gli italiani. Così si spiega
non solo l’atteggiamento personale
134
del comandante ma lo sviluppo oggettivo della vicenda che trasforma a
tutti i livelli il tedesco da alleato a
nemico, riassorbendo le divergenze e
le turbolenze che avevano segnato
per alcuni giorni i rapporti interni
alla divisione.
Nei giorni cruciali dal 9 al 13 settembre, quando Roma/Brindisi tace o
manda segnali non sufficientemente
chiari, di fronte all’ingiunzione tedesca di cedere le armi in maniera concordata, a chi deve obbedire il generale Gandin? Non dimentichiamo
che i suoi diretti superiori (il comando dell’XI armata a Atene, il comando dell’VIII corpo d’amata armata ad
Agrinion) invitano di fatto ad evitare
inutile spargimento di sangue.
Il comando della Acqui, iniziando
trattative autonome con i tedeschi,
rimanendo in contatto con Brindisi
per ordini più precisi, fa una scelta
che può apparire attendista, ma è
sostenuta di fatto da buone ragioni.
Da parte tedesca infatti l’iniziale disponibilità a lasciare agli italiani parte
delle dotazioni della Divisione nasce
dalla consapevolezza dei comandi locali di non essere in grado di contrastare con successo il relativamente
forte contingente italiano sull’isola nel
caso che questo facesse resistenza.
Il negoziato è tortuoso.A ogni incontro sembra che le cose cambino,
come pure le scadenze degli accordi
via via presi e poi disdetti. Gandin
sembra disposto ad abbandonare le
batterie fisse sull’isola, ma a conservare sino all’ultimo (sino all’imbarco)
tutte le armi pesanti mobili. Rompe
gli indugi quando i tedeschi esigono il
disarmo tout court degli italiani, la
loro concentrazione in alcune determinate località, mentre si rivela inconsistente la loro promessa di un
sollecito imbarco per l’Italia.
L’ipotesi di un rientro eventuale per
ferrovia via Grecia,Albania, Jugoslavia
in Italia settentrionale (in quella che
sarà la Repubblica sociale italiana)
altera completamente i termini della
trattativa che viene definitivamente
interrotta.
Se il patriottismo anti-tedesco di
assonanza risorgimentale e della
Grande Guerra, ricordato da alcune
(postume) testimonianze, fornisce la
cornice ideale della ritrovata armonia tra comando e truppe, le vere
ragioni di tale convergenza sono
radicate nella situazione contingente
del presente. I tedeschi diventano
nemici perché alla fine esigono un
disarmo contrario all’onore e alla
sicurezza dei soldati.
Insisto nel sottolineare che l’alternativa iniziale per gli italiani non è: trattare con i tedeschi con la cessione
delle armi oppure combatterli con le
armi in pugno (come avrebbero
affermato gli ufficiali sostenitori della
lotta antitedesca intransigente, in
polemica contro la presunta cedevolezza del loro comandante). Il vero
dilemma iniziale è: il ritorno in patria
lo si ottiene sopraffacendo la debole
guarnigione tedesca sull’isola o con
un negoziato onorevole, che consente di conservare parte delle armi?
Quest’ultima è l’ipotesi nutrita per
alcuni giorni dal generale comandante Gandin.
Per il resto, non solo il comando, ma
gli stessi ufficiali che lo criticano,
spingendolo alla intransigenza con i
tedeschi, sanno benissimo che i loro
135
soldati sono disposti a combattere
non già per puro amor di patria o
per obbedienza al re, ma perché
vogliono tornare a casa in sicurezza.
Secondo questa interpretazione, non
c’è una contraddizione tra la trattativa e il principio della autonomia d’azione dell’unità militare. E il comandante Gandin decide la resistenza
armata, non già sotto la pressione dei
sostenitori della immediata lotta
antitedesca, bensì dopo la constatazione che i tedeschi non intendono
affatto trattare, ma imporre la loro
volontà. Nel frattempo arrivano
anche chiare ed esplicite direttive del
Comando supremo.
Così il 14 settembre Gandin stila un
comunicato ufficiale ai tedeschi che
dice che la divisione “teme di essere
disarmata contro tutte le promesse
o di essere lasciata sull’isola come
preda per i greci o peggio di non
essere portata in Italia, ma sul continente greco per combattere contro i
ribelli”. La divisione quindi intende
rimanere sulle proprie posizioni finché non riceve assicurazione di
poter conservare le proprie armi e
di consegnare le artiglierie solo
all’imbarco. “Se ciò non accadrà conclude Gandin - la divisione preferirà combattere piuttosto che subire
l’onta della cessione delle armi”.
Se ci mettiamo in questa ottica, la
lunga e irrisolta controversia storiografica, se e quando da Brindisi arrivino ordini inequivoci di resistere
attivamente ai tedeschi (se l’11 o tra
il 13/14 settembre), si relativizza davanti al fatto che il Comando supremo italiano da Brindisi in ogni caso
non è in grado né di intervenire in
aiuto della Acqui né di rimpatriarla,
lasciando così che i soldati a Ce-
136
falonia si facciano fantasie sull’intervento degli inglesi. La Acqui è comunque sola. E il comportamento del suo
Comando, se considerato in tutto il
suo sviluppo, non mi pare censurabile né con gli argomenti di chi avrebbe voluto un attacco immediato alla
guarnigione tedesca in assenza di
serie prospettive di sostegno dalla
madrepatria né, all’opposto, con le
ragioni di chi nella ponderata e psicologicamente sofferta decisione
finale di dare battaglia ha visto solo
avventurismo e cedimento alle turbolenze di alcuni reparti .
È stata a mio avviso una decisione
meditata di un comandante in una
situazione eccezionalmente difficile.
L’idea che la resistenza militare a
Cefalonia sia impolitica o apolitica in quanto risponde ad un criterio di
lealtà istituzionale e quindi a valori
quali onore, obbedienza, patria, che
non hanno nulla a che vedere con la
“resistenza politica” - è un’ idea sbagliata o, più benevolmente, ingenua. In
realtà negli autori che la sostengono
c’è spesso un sentimento o risentimento ideologico che equipara resistenza e “comunismo”. O più semplicemente c’è la polemica contro la
letteratura resistenziale di sinistra,
vissuta (a torto o a ragione) egemonica.
Non solo i valori sopra ricordati onore del soldato, amor di patria
intesa come comunità autonoma nelle proprie decisioni - sono politici in
ogni caso, ma lo diventano in modo
drammatico in Italia con l’8 settembre 1943. Mettono in gioco il senso
della propria identità e appartenenza
non in termini astratti ma esistenziali. Discriminano, costringono a schierarsi, creano “il nemico” che ci nega
tali valori. Non c’è nulla di più “politico” che l’identificazione del nemico
da combattere. E nel settembre 1943
a Cefalonia il nemico diventa il tedesco per le ragioni dette sopra.
Il concetto di lealtà istituzionale, che
una certa letteratura celebrativa
tende a presentare come impolitico,
tipico del militare, implica una scelta
politica che nel settembre 1943 contiene tratti che possono dirsi “antifascisti”, ovviamente nel significato
ristretto che questo termine ha nell’ambiente militare.
In questo senso anche il governo
Badoglio si presenta – innanzitutto
agli angloamericani – come “antifascista”. Reciprocamente “fascista” è
semplicemente chi non riconosce il
nuovo governo e sta dalla parte dei
tedeschi.
È difficile capire se a Cefalonia ci fosse un antifascismo politicamente più
qualificato. La questione è collegata
anche alla natura dei rapporti di alcuni ufficiali della Acqui con i partigiani
“ribelli” o comunisti dell’isola già in
quei giorni – rapporti di cui Gandin
non poteva non essere al corrente.
L’unico punto fermo in quei giorni di
settembre è che antifascismo è un
modo di dire lotta ai tedeschi.
Nella vicenda c’è un episodio molto
significativo. Nella mattinata del 13
settembre, in un momento critico sia
del confronto con le armi in pugno
sia delle trattative, Gandin riceve la
visita di due ufficiali dell’aviazione, un
tedesco e un italiano, latori di un
messaggio personale di Mussolini
(una testimonianza parla addirittura
di una lettera autografa). Il duce, appena liberato dal Gran Sasso e riparato a Vienna, raccomanda a Gandin
di passare dalla parte tedesca e della
(costituenda) Repubblica sociale ita-
liana e lo invita ad un incontro.
L’invito viene lasciato cadere.
L’episodio (sul quale abbiano scarse
anche se attendibili informazioni)
conferma da un lato l’immagine di
“tedescofilo” di cui il generale gode e
quindi dell’aspettativa che possa
essere pro-Mussolini, ma dall’altro,
conferma il suo nuovo atteggiamento. Non sappiamo quanto questo
atteggiamento sia motivato da convincimenti personali, dalla ferma
fedeltà al re o dalla volontà di non
abbandonare i suoi uomini.
Politicamente parlando, Gandin interpreta la linea Badoglio/Ambrosio. A
fronte degli errori catastrofici del
governo nazionale, questa affermazione può suonare il contrario di un
complimento e merita una precisazione. Gandin è badogliano nel senso
che inizialmente mira a riguadagnare
per la sua divisione una posizione di
non-belligeranza rispetto ai tedeschi,
con i quali è in buone relazioni e in
stretto contatto operativo. Specularmente nei confronti degli ex-nemici
angloamericani e nei partigiani greci
ha un atteggiamento più riservato,
che diventerà più aperto soltanto
con il deteriorarsi della situazione.
Ma una volta constatata l’impossibilità di un accordo onorevole con i
tedeschi, la sua determinazione a
combatterli rappresenta una via d’uscita alternativa alla sindrome della
resa senza condizioni ai tedeschi che
caratterizza quasi tutti i comandi italiani dopo l’8 settembre
Gandin non è, quindi, né il generale
democratico ante litteram né il
comandante insicuro, oscillante, travolto dai subalterni e dalle circostanze e riscattato solo dal sacrificio finale quale è descritto da molta lettera-
137
tura. Tale, del resto, non appare ai
suoi interlocutori tedeschi, che lo vedono piuttosto come un tenace,
puntiglioso, diffidente negoziatore,
che alla fine si trasforma in risoluto
avversario, responsabile di quello che
loro appare come l’ammutinamento
della Acqui.
Gandin è preso tra il senso di
responsabilità che sente verso i suoi
uomini e il lealismo che prova verso
i tedeschi, con i quali ha sempre
avuto ottimi rapporti. La sua decisione finale appare ragionevolmente
ponderata. Non è guidata dallo spirito di immolazione o dalla pura obbedienza agli ordini bensì da un calcolo
di rischio - un azzardo forse - in circostanze estreme. Un patriottismo
ragionato.
I limiti del generale comandante
sono piuttosto di carattere tattico-
138
strategico, di guida delle operazioni
militari. Durante la battaglia, che dura
con intensità intermittente dal 15 al
22 settembre, gli italiani soccombono davanti alla superiore capacità di
combattimento, di manovra, alla qualità delle armi dei tedeschi, davanti
alla superiorità dei comandanti tedeschi rispetto ai colleghi italiani e al
ricorso massiccio e sistematico
all’arma aerea. Ma una diversa dislocazione delle truppe italiane e una
diversa conduzione della loro azione
avrebbe forse sortito sul campo un
effetto meno fallimentare.
È noto che soltanto dopo il 9 e 10
settembre - tardivamente rispetto al
processo di dissoluzione dell’esercito – il governo Badoglio invita alla
resistenza attiva contro il tedesco,
rimanendo tuttavia reticente su
come considerare dal punto di vista
del diritto internazionale l’ex-alleato
germanico. Se e come dichiarare
guerra alla Germania. Questa approfitta di questa reticenza non solo per
accusare di tradimento l’Italia, ma
per dichiarare “ammutinate” le truppe che a Cefalonia resistono all’ingiunzione del disarmo, disattendendo
presuntivamente gli ordini della XI
armata (da cui gerarchicamente
dipendono) che si è arresa.
Persino gli anglo-americani danno
questa interpretazione. Nell’incontro
a Malta con la delegazione italiana del
29 settembre ( quindi a tragedia conclusa a Cefalonia, di cui le autorità
italiane sono al corrente) Eisenhower affronta con una punta polemica la questione dello status giuridico internazionale dei prigionieri italiani in mano tedesca, provocando
una impacciata reazione italiana. Il
Verbale dell’incontro riferisce innanzitutto le parole di Eisenhower:
“Desidero sapere se il governo italiano è a conoscenza delle condizioni
fatte dai tedeschi ai prigionieri italiani in questo intervallo di tempo in
cui l’Italia combatte (de facto) la
Germania senza averle dichiarato
guerra”. La domanda genera qualche
perplessità nei rappresentanti italiani
- dice il Verbale - perché inizialmente
non viene capita. Dopo alcune consultazioni il generale Ambrosio, capo
di stato maggiore generale, dichiara:
“Sono sicuro che i tedeschi li considerano come partigiani”. “Quindi
passibili di fucilazione?” ribatte il generale Eisenhower. “Senza dubbio”
conferma Ambrosio. Conclude allora
Eisenhower:“Dal punto di vista alleato la situazione può andare bene
anche così, ma per difendere questi
uomini, nel senso di farli divenire
combattenti regolari, sarebbe assai
più conveniente per l’Italia dichiarare
guerra alla Germania”.
La scena appena descritta è amaramente istruttiva. Colpisce in particolare la laconica battuta “senza dubbio” di Ambrosio in risposta al quesito di Eisenhower se gli italiani prigionieri siano formalmente passibili di
fucilazione. In fondo sarà la stessa
posizione sostenuta dai tedeschi, in
particolare dal generale Lanz direttamente responsabile dell’azione di
rappresaglia a Cefalonia, davanti al
tribunale di Norimberga! C’è da
chiedersi se, giorni prima, quando lo
stesso Ambrosio con i suoi radiomessaggi incitava Gandin a resistere
ai tedeschi con le armi, era consapevole del destino cui mandava incontro i soldati della Acqui.
È comprensibile l’amarezza dei commentatori e degli storici italiani,
soprattutto dell’ambiente militare,
per la passività degli anglo-americani
di fronte alla situazione della Acqui.
Qualcuno vi ha visto l’intenzione
inglese di disgregare quanto restava
dell’esercito italiano o la cinica indifferenza per una resa dei conti tra gli
ex-alleati dell’Asse. Forse più semplicemente per gli anglo-americani il
dramma di Cefalonia, periferico dal
punto di vista strategico, si è consumato in tempi troppo rapidi e in una
logica politica troppo confusa per
suscitare la loro attenzione.
D’altra parte, l’atteggiamento del
governo Badoglio (e del Re in persona) è prodotto da un lato dalla precedente assurda attesa/pretesa di
poter sottrarre l’Italia senza danni
all’alleanza militare tedesca e, dall’altro, dall’ambiguità degli impegni
verso gli anglo-americani nel contesto della firma dell’armistizio. La
139
preoccupazione dominante ed esclusiva della monarchia per il riconoscimento della continuità istituzionale è
pagata con la totale impotenza politica e operativa. E la Acqui ne sopporta i costi peggiori.
La fusione dei motivi antifascista e
antitedesco è tipico della storiografia
resistenziale anche e soprattutto a
proposito di Cefalonia. Roberto
Battaglia nella sua classica Storia della
Resistenza italiana dedica un paio di
pagine significative alla Acqui nella
prima edizione (1953) e soprattutto
nella seconda (1964) con espressioni
diventate poi canoniche nella sinistra.
Ma il motivo antitedesco era già
dominante nei primi tentativi compiuti dal Regno del Sud di usare Cefalonia per rafforzare, presso la mo-
desta parte di opinione pubblica italiana che riusciva a raggiungere, e
soprattutto presso gli anglo-americani, la sua rilegittimazione in chiave
anti-tedesca. La nota di elogio alla
divisione Acqui del governo Badoglio
del 23 maggio 1944 non è un semplice atto dovuto, ma lo sforzo di
accreditare la primogenitura dell’esercito regio nella lotta di liberazione contro la Germania. Ma l’operazione di continuismo dell’istituto
monarchico e dell’esercito regio non
poteva scrollarsi di dosso la corresponsabilità dello stesso governo
Badoglio nella pessima gestione proprio della vicenda di Cefalonia.
Una variante diversa è offerta dopo il
1945 con il rientro dei protagonisti della Acqui sopravvissuti, tra cui gli ufficiali
che avevano criti-
cato violentemente Gandin vantandosi di averlo alla fine spinto alla
lotta. Alcuni di essi avevano nel frattempo fatto l’esperienza della resistenza con i partigiani greci ed avevano abbracciato posizioni politiche di
orientamento comunista. Presentandosi come i “banditi della Acqui”
mirano ora a riqualificare politicamente in senso nazional-popolare la lotta antitedesca. È questa
interpretazione che viene codificata
appunto nel libro sopra ricordato di
Battaglia. Riprendendo la citatissima
(ma forse apocrifa) dichiarazione di
Gandin “per ordine del comando
supremo e per volontà degli ufficiali
e dei soldati, la divisione Acqui non
cede le armi”, lo storico sottolinea
“che è una formula da annotare perché è già tipica della Resistenza italiana in cui l’elemento legale (gli ordini del governo legittimo) si trova
sempre costantemente vicino all’elemento nuovo e rivoluzionario: la
volontà popolare. Così al termine
della nostra storia della Resistenza
troveremo abbinati i due elementi
nei proclami insurrezionali del
CLNAI”.
Accanto a questa linea interpretativa
è viva anche la preoccupazione per la
continuità storica del patriottismo.
Un comunicato del 13 settembre
1945 del già menzionato governo
Parri afferma che “la Acqui rappresenta la continuità tra l’epopea della
prima guerra mondiale e quella dell’attuale guerra di liberazione”. Lungo
questo orientamento si muoveranno
tutte le successive prese di posizioni
ufficiali, sempre più assorbite dalla
dimensione sacrificale dell’eccidio per
mano nazista, sotto il segno del
patriottismo espiativo, accompagnate
per altro (ma questo lo sapremo
molti anni dopo) da un benevolo
atteggiamento verso la nuova Germania federale per quanto riguarda la
sollecitazione a indagare sui colpevoli.
Per il resto, tutti i politici, da Moro a
Pertini, danno il loro contributo alla
celebrazione del ricordo di Cefalonia
sulla stessa falsariga, sino all’encomio
solenne del 1993 del ministero della
difesa in occasione del Cinquantenario che parla di “impeto di sublime dedizione alla Patria, ispirata alla
legge del dovere e dell’onore ed a
insopprimibile fremito di libertà, rinnovando le gesta degli eroi del risorgimento”.
Retorica a parte, questa versione
canonica di Cefalonia solleva il dissenso dei sostenitori della tesi di “Cefalonia, pagina nera della storia militare italiana”. Essi non contestano certamente l’eroismo personale dei soldati,
ma criticano le modalità della decisione del comando della Acqui. In particolare accusano il generale Gandin di
essere stato un cattivo comandante
perché ha condotto i suoi uomini ad
un inutile sacrificio, cedendo alle
minacciose pressioni di alcuni suoi
subalterni. Si è comportato come uno
di “quei pastori che rincorrono il gregge per non abbandonarlo sino a precipitare con esso nel dirupo”.
142
Questa affermazione, che riprende
argomenti già sostenuti nell’immediato dopoguerra, ha due punti
deboli. Innanzitutto dà per implicito senza offrire cioè un’adeguata argomentazione - che sarebbe stato meglio comunque che la Acqui cedesse
le armi come la grande maggioranza
delle altre unità in Grecia e nei
Balcani. Evitare un inutile spargimento di sangue sarebbe stato il primo
comandamento dell’esercito italiano
d’oltremare. In secondo luogo non
prende in considerazioni i motivi per
cui “il gregge dei soldati” vuole combattere, escludendo pure che il suo
movente sia lo spirito patriottico
risorgimentale.
In effetti Cefalonia è un episodio bellico straordinariamente motivato a
livello di truppa presso entrambi i
campi avversi. Tra gli italiani si registra un forte risentimento anti-tedesco, mentre tra le truppe tedesche
(molte austriache) domina incontrastato, anzi promosso dall’alto, un sentimento anti-italiano con il ritornello
ossessivo del tradimento, su cui
ritorneremo.
Non è facile dare una etichetta univoca e sintetica al comportamento
“bellicoso” degli italiani della Acqui,
perché è un convergere di motivazioni diversamente declinate a seconda
dei diversi gradi gerarchici. Abbiamo
già detto dei valori del patriottismo
tradizionale come l’orizzonte culturale naturale entro cui si muovono i
militari, gli ufficiali innanzitutto. Ma nel
comportamento complessivo degli
uomini in quei giorni di settembre
c’è altro: un istinto collettivo di sicurezza che diventa volontà di rischio,
sino all’azzardo. Quegli uomini sfatano la leggenda che “gli italiani non si
battono”, sorprendendo i tedeschi
che reagiscono con brutalità.
Su questo sfondo si relativizza anche
l’episodio della consultazione della
truppa, salutata (a sinistra) come una
innovativa “rottura dell’autoritarismo
militare” e condannata (a destra) come episodio di “sovietismo” e cedimento demagogico. In realtà, se si esaminano con attenzione i pochi materiali testimoniali che abbiamo a disposizione, entrambe le affermazioni
appaiono insostenibili. La rapida consultazione di alcuni reparti (nella
notte tra il 13 e 14 settembre) è un
gesto irrituale da parte di un comandante, sensibile verso i sentimenti della truppa in una situazione eccezionale. Ma la decisione di interrompere le
trattative con i tedeschi e di prepararsi all’azione di guerra è già praticamente maturata sulla base di altre
ragioni (lo conferma del resto esplicitamente nella sua memoria il console
fascista che scrive “senza nemmeno
aspettare l’esito di questo curioso
sistema di votazione, si preordina
tutto per un combattimento”).
Rimane la gravità degli atti di violenta insubordinazione verificatasi in
alcuni reparti della Acqui (e riportati
da tutti i testimoni) ma, avendo scartato le sanzioni disciplinari, al comandante non resta che una qualche
forma di ricupero del consenso e
dell’emotività della truppa.
Il punto è perché i soldati si comportano in questo modo bellicoso.
L’innegabile montante risentimento
anti-tedesco ha poco a che vedere
con il patriottismo risorgimentale o
del Piave. La spiegazione va ricercata
nella volontà di tornare in patria con
le armi e quindi di combattere chiunque si oppone: appunto i tedeschi
ex-alleati. Questo atteggiamento si
scontra per alcuni giorni con il comportamento del comandate Gandin
che ritiene di raggiungere lo stesso
obiettivo del rimpatrio senza spargimento di sangue.
Discorso diverso merita la motivazione degli ufficiali (innanzitutto dei
reparti di artiglieria) che creano
quelli che nella letteratura saranno
chiamati (con approvazione o con
disapprovazione) i “fatti compiuti” di
ostilità contro i tedeschi. Considerati
eroi da alcuni storici, questi ufficiali
sono visti da altri, ancora oggi, come
teste calde che si sono spinte ad
inaccettabili atti di provocazione,
sedizione e prevaricazione sul comandante in capo.
In realtà, anche qui, la documentazione a nostra disposizione ci mette
davanti ad un caso estremo di conflittualità e tensione all’interno della
Acqui, di un contrastato processo
decisionale il cui esito finale tuttavia
rimane imputabile al comandante in
capo. Infatti soltanto dopo la verifica
puntigliosa delle mancanza di garanzie
tedesche, Gandin arriva alla conclusione che l’intesa onorevole con gli
ex-alleati è impossibile e annuncia che
la Acqui preferisce combattere anziché subire il disonore del disarmo.
Rimane un ultimo motivo che spiega
la durezza dello scontro e la ferocia
della vendetta tedesca. I tedeschi
erano convinti che alla fine gli italiani
avrebbero ceduto o fatto solo finta
di resistere, non essendo considerati
dei grandi combattenti. Invece questa
volta gli uomini della Acqui a
Cefalonia combattono con determinazione, sfatando l’antica leggenda
che “gli italiani non si battono”.
143
Proseguono le indagini
sulla strage della
Divisione Acqui
attuata a Cefalonia
dalle truppe
di occupazione
tedesca
di Vanghelis Sakkatos
traduzione di
Massimo Rapetti
(pubblicato su Eleftherotipia
di lunedì 1 Agosto 2005)
Nel 1943 a Cefalonia i soldati tedeschi delle forze di occupazione
appartenenti alla Wehrmacht giustiziarono a sangue freddo i militari italiani della Divisione Acqui, in seguito alla sollevazione antifascista di questi ultimi. Lo spregevole crimine è inserito nella
memoria storica con la definizione di eccidio. Negli anni ’60 nuovi
elementi costrinsero le autorità giudiziarie dell’allora Repubblica
Federale Tedesca a procedere al riesame del dossier per individuare e punire i colpevoli.
Avviata nel 1964 e proseguita fino al 1968 ad opera della Procura
di Dortmund, l’istruttoria è ripresa nel 2001 nell’ambito del riesame e delle indagini sui nuovi elementi concernenti i crimini di
massa attuati dai nazisti.
A capo dell’istruttoria e dell’attività d’investigazione si trova il procuratore superiore Ulrich Maass, direttore del servizio centrale
del Land del Nord Reno-Westfalia, a Dortmund per questi processi. Seguendo da anni il caso, il giornalista e scrittore Vanghèlis
Sakkàtos ha intervistato il dott. Maass ad Argostoli in merito all’andamento e alle risultanze delle inchieste.
144
Il procuratore Ulrich Maass intervistato
da Vanghèlis Sakkàtos ad Argostoli nel giugno 2005.
Quando e per quale motivo ha
avviato l’istruttoria sullo
sterminio dei soldati italiani
della Divisione Acqui?
«Il concetto di sterminio (Ausrottung)
è un’espressione tipicamente nazionalsocialista e al momento non si
trovano nazionalsocialisti nella lista
degli indagati.Tuttavia continueremo di
buon grado a combattere le ingiustizie
del nazionalsocialismo.
L’istruttoria fu avviata dalla Procura di
Dortmund nel 1964-68. Io l’ho ripresa
nel settembre del 2001 e da allora la
dirigo. Le motivazioni sono costituite
da elementi, fatti e prove emersi di
recente».
Finora quanti uomini della
Wehrmacht, all’epoca dei fatti
operativi a Cefalonia e oggi ancora in
vita, ha interrogato?
«I militari ancor vivi, e che allora si trovavano proprio a far parte delle truppe germaniche stanziate nell’isola, oggi
vivono in Austria, Germania, Italia e in
altri paesi. Ritengo che siano state
acquisite le deposizioni di circa 400 di
essi. Personalmente ho provveduto ad
interrogarne circa un centinaio».
Quante testimonianze scritte ha
ricevuto con l’assistenza giudiziaria
della Procura di Cefalonia e quante
deposizioni verbali ha registrato
lei stesso qui nell’isola?
«Le risposte alle sue due domande si
equivalgono. Io ho assunto agli atti le
deposizioni di 25 persone. Di queste
alcune sono state interrogate dalla
Polizia locale e da quella di Atene.
1
Come lei certamente sa, alcune mediante procuratori, altre attraverso
giudici locali e, infine, alcune grazie al
mio viaggio nell’isola. Oggi1, ad esempio, ho assistito alla deposizione di
testimoni fino alle ore 13.00».
Quando pensa che possa essere
celebrato il processo?
«La domanda è formulata molto bene.
Un procedimento avviato a livello centrale per noi significa un’azione giudiziaria e questa può aver luogo solo in
presenza degli imputati.
Sul piano individuale, in quanto persone, è possibile determinarne le responsabilità e accertarli quali responsabili di azioni concrete. In generale
occorrerà tener presente che questi
orribili crimini nazisti avvenuti nell’isola, nel complesso, sono qualificati
come “anonimi”. Con buona probabilità duemila soldati tedeschi giunsero a
Cefalonia dopo un servizio di breve
durata nella Grecia continentale e
presero parte a crimini di guerra, come l’esecuzione di prigionieri. Non è
accertata la loro partecipazione personale, tuttavia ad un certo livello non
la possiamo escludere. E questo elemento – la partecipazione personale –
dovrà essere da noi dimostrato.
Rispondendo nello specifico alla sua
domanda, sono in grado di dirle che
esiste la possibilità, in breve tempo,
Si tratta del 9 giugno 2005.
145
procedimento d’inquisizione delle
due persone di cui stiamo parlando».
I testimoni ascoltati in questa sede
saranno chiamati a deporre anche
durante lo svolgimento dell’azione
giudiziaria in Germania?
forse quest’anno, di formulare un’accusa contro due militari tedeschi.
Quando ciò potrà avvenire? Probabilmente allorché il tribunale avrà predisposto tutto il materiale».
Questi sono gli ufficiali bavaresi che
presero parte all’esecuzione degli
ufficiali italiani presso la Casetta
rossa di Capo San Teodoro.
«È assolutamente corretto. Lei dispone di buone informazioni. Ho avviato
l’azione a carico di questi due uomini
sulla base di di elementi per il procedimento centrale e in seguito ho rinviato la pratica ai miei colleghi della
Baviera. Questo perché sono responsabile soltanto per il mio Land federale del Nord Reno-Westfalia.
Potrei istruire indagini anche nel luogo
dei crimini, a Cefalonia, però qui non
ho completa giurisdizione. Tuttavia
non potrei perseguirli neppure nella
loro località di residenza, perché
anche lì non ho alcuna autorità».
Per questo sono venuti a svolgere
indagini qui a Cefalonia il
procuratore di Monaco e un
ispettore di Polizia?
«Sì. Sono al corrente della visita che il
collega della Procura di Monaco e l’ufficiale della Polizia Criminale della
Baviera hanno compiuto nell’isola,
dove pure hanno svolto interrogatori
e raccolto deposizioni, per il regolare
2
146
Miei i corsivi. (N.d.T.)
«Questo dipende dalle valutazioni
della corte. Più correttamente è vincolato agli impegni del tribunale competente nell’ambito delle audizioni dei
testimoni. Io poi ritengo probabile benché non sia di mia competenza –
che depongano i testimoni greci. Non
so se rilasceranno i loro interventi in
tribunale in Germania, oppure se
deporranno in Grecia, forse qui ad
Argostoli».
Per quali ragioni il procedimento di
inquisizione dei responsabili ha subito
un tale ritardo e quale significato
assume ormai un processo penale
contro di loro?
«Posso spiegare il ritardo. In Germania, per lo meno nell’Ufficio di cui
naturalmente a quell’epoca non facevo
parte perché ero studente, vennero a
conoscenza dei crimini di Cefalonia,
per la prima volta, nel 1964.
Personalmente ne presi coscienza nel
2001, circa 4 anni fa, e cominciai ad
occuparmene da allora, come ho già
detto, con l’istruttoria. Sono stati
necessari due anni per formulare
accuse concrete contro i due uomini
che successivamente ho rinviato alle
autorità bavaresi. È molto2 tardi perché
possa accadere realmente qualcosa
che faccia luce sul problema, 62 anni
dopo i fatti o dopo il fatto di maggior
rilievo; tuttavia secondo me non è
troppo tardi.
Per quel che concerne il significato del
processo penale, dico che tanto questo quanto l’istruttoria che sto coor-
dinando, certamente rendono queste
tematiche maggiormente conosciute
presso l’opinione pubblica. E il processo
penale, infine, sta a significare che agli
accusati, qualora condannati seppur con
tale ritardo – ed il ritardo è grande –
sarà inflitta una giusta pena».
Quale valenza attribuisce a questo
procedimento penale?
«Se con procedimento penale non
intende il processo penale ma un’istruttoria, allora sarà necessario che mi ripeta. Penso che stiamo portando avanti un
regolare lavoro di indagine relativo a
persone anziane che hanno partecipato
qui ad atti punibili penalmente, e ad essi
sarà necessario comminare delle pene.
Naturalmente si tratta di un imperativo
morale: stiamo riesaminando i fatti avvenuti nell’isola. Il mio pensiero va inoltre
all’opinione pubblica mondiale, agli studiosi ed in particolare agli storici.
Dovremo rivedere gli elementi, organizzarli e valorizzarli, mettendoli a disposizione dei ricercatori così che possa sussistere una più ampia base per successivi studi scientifici.
Un presupposto per me naturale, ed è
per questo che lavoro in modo diverso
da uno storico, è che l’ingiustizia deve
essere documentata qua. Anche rendendo note su scala più ampia le azioni
già conosciute».
Spero che dall’istruttoria emergano elementi concreti.Anche in Germania possediamo testimonianze serie. Le verificheremo confrontandole con informazioni di carattere storico, con altre ricavabili da documenti del periodo dell’occupazione tedesca e da carte verosimilmente trovate nell’isola e all’estero.
Abbiamo raccolto moltissimo materiale, e procedendo ad un esame incrociato, con ogni probabilità potremo ricavarne una documentazione che ci consentirà di celebrare il processo. Giacché
senza gli autori reali ed accertati, può
essere stato chiunque, uno o l’altro.
Ed è opportuno ribadire apertamente
questo aspetto, in particolare quando si
tratta di ufficiali. Uno e l’altro, in qualità
di comandanti di compagnia, si trovavano a Troianata nella circostanza specifica. Essi hanno impartito l’ordine di far
fuoco sugli italiani ai loro soldati che
impugnavano le armi e di cui probabilmente non è più possibile accertare l’identità. In questa circostanza, chi ha
dato l’ordine viene per
primo perseguito
in giudizio e, dato
che è vivo, sarà
condannato».
Quali sono le persone
responsabili di queste azioni?
«Conosciamo tutte le unità militari,
conosciamo i nomi di molti militari, ho a
mia disposizione tutti i documenti. Però
in concreto non so chi, chi personalmente, imbracciando un mitra ha sparato su un gruppo di italiani uccidendoli.
Questo è un problema su cui sto riflettendo, e qui a Cefalonia ho raccolto valide deposizioni di testimoni.
147
Luoghi e
persone:
segni della
memoria
Le vicende
della resistenza
ad Acqui e
nell’Acquese
di Vittorio Rapetti
Acqui Terme - 25 aprile 2002 –
portici di fronte al Liceo
Classico.
Orazione al 57° anniversario
della Liberazione:
due figure “storiche”
dell’Associazione Nazionale
Partigiani d’Italia (ANPI):
Carlo Gilardenghi , presidente
dell’Istituto Storico della
Resistenza di Alessandria
Bartolomeo Ivaldi “Tamina”,
partigiano della “Viganò”.
148
Elaborazione e costruzione
della memoria
Tale processo si intreccia con l’ideologia e la prassi politica e
sociale, oltre che riflettersi nelle varie forme di manifestazione
artistica (dalla musica al cinema, dalla letteratura al teatro, dalla
pittura alla scultura). Forme che, nel caso specifico, hanno visto
come autori anche gli stessi protagonisti delle vicende storiche:
si pensi alle espressioni culturali elaborate durante gli anni della
resistenza (canti, poesie, lettere...), ai romanzi e film del neorealismo, alla memorialistica che sta vivendo una nuova stagione,
sollecitata dalla rinnovata attenzione per i “testimoni” diretti e
per il loro vissuto.
Questo intervento si accompagna
alla presentazione di alcune delle
immagini - e delle relative ricostruzioni - degli 11 luoghi di
memoria resistenziale di Acqui e di
alcuni dei paesi dell’Acquese. La
mostra, proposta ad Acqui in occasione del 25 aprile 2005, sarà nuovamente visibile ad ottobre, in
coincidenza con la presentazione
dei lavori elaborati dagli studenti
delle scuole elementari e medie. In
questo senso si tratta di un lavoro
ancora “aperto”.
I materiali della mostra sono stati
raccolti e organizzati da Roberto
Rossi, Renato Pesce e Massimo
Sarpero del Centro culturale
“A.Galliano” in collaborazione con
l’ANPI e con il coordinamento dei
comuni dell’Acquese e la commissione docenti di storia.
Il dovere della memoria è diventato
motivo di riflessione e discussione
su tanti piani diversi: vale per le
memorie personali e familiari (chi
non conserva gelosamente l’album
fotografico dei nonni?), vale in modo
ancor più complesso e non meno
profondo per le memorie collettive.
Nel caso della seconda guerra mondiale e della lotta di resistenza, le
vicende hanno assunto dimensioni
così diffuse e radicali da rappresentare una vera e propria “svolta”
nelle società e nelle memorie individuali (“niente potrà essere come
prima”, “nessuno può dire di non
esser stato coinvolto”), toccando valori di fondo nel campo civile e nella
mentalità. E’ quindi evidente che in
casi del genere le memorie siano
oggetto di un importante processo di
rielaborazione culturale. 1
Il processo della memoria e l’“impegno a non dimenticare”, quindi, non
sono soltanto “pensieri”, ma di fatto si
basano su una serie di iniziative, dalle
più semplici alle più raffinate, che
intendono principalmente rispondere
ad una esigenza: non perdere le tracce di quanto è accaduto, non smarrire
il senso degli avvenimenti, rinnovare la
comunicazione su fatti e valori che in
queste vicende si sono messi in
gioco. Ovviamente, questo comporta
anche un processo di selezione ed
elaborazione dei fatti (alcuni diventano subito emblematici, altri assumono
rilevanza successivamente, altri vengono rimossi o taciuti, altri semplicemente si perdono…). Tutto questo
per la Resistenza è sicuramente avvenuto ed il processo è ancora in atto:
in molti paesi della zona vi sono lapidi, cippi, iscrizioni che ricordano protagonisti e fatti. In Acqui, il tradizionale corteo dell’ANPI, ripreso quest’anno in forma unitaria, si snoda lungo
ben 11 tappe corrispondenti ad altrettanti episodi e vicende tra le
molte avvenute in città.
C’è però da notare come questo processo di costruzione della memoria
non sia affatto scontato: per altre
vicende tragiche come la deportazione di militari ebrei, civili, militanti politici o per fenomeni storici di grande
rilievo come l’emigrazione, la memoria collettiva ha operato pochissimo e
ha prodotto segni molto limitati e
comunque “lontani da noi”, nonostante tali fenomeni abbiano effettivamente segnato le nostre popolazioni2.
1 Sulla complessità e le reticenze di questo “passaggio di memorie” circa le vicende belliche e resistenziali abbiamo discusso nel saggio “Tra storia e attualità. La resistenza e la memoria” in “Iter” n.1/2005.
2 Emblematico il titolo della raccolta di memoria curato da un piemontese deportato a Mauthausen,
responsabile dell’ANED: F. BARUFFI, Laggiù dove l’offesa (rivisitando i luoghi della memoria), Ramolfo, Carrù,
2001.
149
Questo può essere dipeso proprio
dalla mancanza di luoghi fisici sul territorio capaci di richiamare quelle vicende, ma alcuni studiosi hanno parlato di mancata “assunzione di responsabilità del passato” o di una vera e
propria rimozione.3
Tornando alla resistenza, nell’arco di
60 anni si sono registrate diverse fasi,
scandite anche dalla evoluzione politica italiana e locale. In generale negli
anni ’50 e ’60 si assiste ad una riduzione di interesse (che alcuni interpretano come una vera e propria
messa ai margini delle lotte partigiane); alla rinnovata attenzione manifestata negli anni ’70-’80, segue un nuovo affievolimento tra la metà degli anni ’80 e ’90, che si intreccia in misura
crescente con il dibattito sul revisionismo storico e la messa in discussione della resistenza (in chiave politica
più che storica).
A livello più semplice, “popolare”, se
nell’immediata fase successiva alla lotta di liberazione c’è il desiderio di ricordare vicende ben presenti agli abitanti di un territorio, negli anni successivi comincia la preoccupazione della
“perdita della memoria”, il valore della
resistenza sembra affievolirsi, le manifestazione registrano un calo di partecipazione e di entusiasmo, i giovani
paiono estranei. Negli ultimi anni ci si
accorge che i testimoni diretti si riducono e affiora un nuovo interesse per
il loro ascolto. Nel contempo si coglie
abbastanza facilmente come la memoria affidata solo al ricordo delle persone non sia sufficiente, né sempre idonea per aiutare chi non c’era a capire.
Pur avendo tanti strumenti a disposizione, non è scontato oggi conoscere
fatti, comprendere processi, cogliere
3
150
significati, rendere onore (questo stesso intervento non ha altri scopi).
Peraltro nell’arco di 60 anni il processo di elaborazione dei segni di memoria è stato certo significativo.
Esaminiamone alcuni tratti, confidando
che questo possa servire ad ulteriori
recuperi e riflessioni.
I segni “semplici”:
le lapidi
Proprio per la necessità di essere concreti e visibili, il recupero della memoria opera attraverso segni che si legano ad un territorio. Nomi e fatti.
Questo è il primo livello, più diretto,
potremmo anche dire più “popolare”
dei segni e luoghi di memoria. Non a
caso essi sono rappresentati da semplici lapidi (molto simili a quelle dei
cimiteri) che ricordano un nome e una
data, e in una breve epigrafe ricordano
il fatto e pochi essenziali particolari. In
genere sono i segni “poveri” che a breve distanza dalla vicenda fissano il ricordo nel luogo preciso. Ad Acqui è il
caso, ad esempio, delle due lapidi dedicate al giovane studente Giuseppe
Oddone e al soldato Natalino Testa. La
prima -accanto alla foto- riporta solo il
nome, la data “16-3-1945” e la dicitura
“martire patriota”. La seconda inserisce
qualche elemento biografico (data e
luogo di nascita), il nome di battaglia
“Carlino”, l’epigrafe “qui trucidato dai
fascisti” e la data dell’esecuzione sommaria del partigiano. In questa lapide
compare anche la “firma”: il CLN di
Acqui. Appunto: fatti e nomi, luoghi e
responsabilità. Il tutto su un quadretto
di marmo collocato nel cortile dell’expoliteama Garibaldi. Precisione e
immediatezza, senza problema di visi-
F. CIUFFI, La memoria e i luoghi, in “Quaderno di storia contemporanea” Isral, n.34/2003, pp.79-97.
bilità (al punto che ben pochi acquesi
ne conoscono l’esistenza).
La stessa sobrietà caratterizza le altre
lapidi che in diversi punti della città di
Acqui, così come in diversi paesi dell’acquese, ricordano le fucilazioni e gli
scontri tra partigiani e nazifascisti: del
tutto simili a quelle dei caduti delle
varie guerre collocate sotto i portici
della casa municipale o all’ingresso del
cimitero (in qualche caso aggiunte
sulle stesse lastre che ricordano i
caduti del ’15-’18), con le diciture
“patriota”, “partigiano”, “soldato”, “alpino”, marinaio”, “carabiniere”, ecc….
Forse, non casualmente, a introdurre
una delle interpretazioni della resistenza come “secondo risorgimento”.
Tra queste lapidi troviamo però un
paio di inconsueti tipi di caduti, quelli
“civili” e i “deportati”, ebrei e no. A
rammentare che questa guerra ebbe
anche una caratteristica tutta diversa
dalla precedenti: non solo “totale” per
il coinvolgimento delle popolazioni
civili accanto ai militari, ma anche con
obiettivi del tutto nuovi : gli ebrei e gli
oppositori politici, non combattenti
uccisi in “fatti d’arme”, ma inermi liquidati. La deportazione degli ebrei nei
campi nazisti è segnalata ad Acqui da
una targa anch’essa collocata sotto i
portici Saracco. E tutto ciò ricorda
pure un altro fatto inedito o almeno
ormai disperso nella memoria di quasi
un secolo e mezzo di storia (ai tempi
dell’invasione napoleonica): l’occupazione straniera e la crisi di una appartenenza civile e nazionale (peraltro da
poco raggiunta). Se ci si sofferma, proprio queste lapidi danno un senso di
straniamento, un po’ diversamente da
quelle della grande guerra, che forse
suscitano un sentimento di appartenenza: la guerra è una tragedia, la
deportazione un mistero, un buco
nero.
La lapide collocata nel cortile all’ingresso dell’ex-politeama Garibaldi, ricorda l’uccisione del partigiano
Natalino Testa. Per il 2 settembre 1944 “Carlino”
aveva progettato un piano di fuga per alcuni suoi
compagni catturati dai fascisti ed obbligati a vestire la
divisa della guardia repubblichina. Con il loro aiuto
pensava poi di approvvigionarsi di armi. Forse per
caso, destò sospetto in alcuni ufficiali repubblichini
che stavano transitando in corso Bagni. La perquisizione lo trovò in possesso di un’arma: senza alcun
interrogatorio, venne messo contro la parete del cortile del cinema e fucilato dagli stessi ufficiali, in quanto
sembra che nessuno dei soldati abbia obbedito all’ordine di fuoco contro il partigiano.A “Carlino” venne
intitolato un distaccamento e poi una delle brigate
della XVI divisione Garibaldi “Viganò.”
GIUSEPPE ODDONE
La piccola lapide, posta in via Cassino sulla parete
esterna dell’edificio che ospitava la scuola Media
“Pascoli”, ricorda un giovane studente genovese di
origini acquesi.
Nel ’44 Oddone aveva aderito ai gruppi d’azione
patriottica (G.A.P.) operanti nella periferia del capoluogo ligure (Sestri Ponente).
In missione ad Acqui, nel marzo del 1945, fu intercettato sul treno proveniente da Genova a seguito di
una delazione. Fermato da militi della guardia fascista
repubblichina in via Cassino e trovato in possesso di
un’ arma, senza alcun processo, fu passato per le armi
sul posto.
151
Il “recupero della
memoria”:
informazioni e significati
Sono significative le numerose epigrafi
che richiamano proprio il senso del
sacrificio compiuto “per la libertà e
l’onore della patria”. Certo non a caso, l’espressione “martiri della libertà”
è una costante nella memoria della resistenza, con l’uso di un termine religioso (e già ampiamente impiegato nel
linguaggio risorgimentale) a significare
un valore altissimo del sacrificio di sé:
per gli ideali, per la fede, per la propria
dignità, per la libertà di tutti, per la giustizia... nella lotta all’oppressione, all’ingiustizia, alla sopraffazione, alla violenza estrema, ma anche nel far fronte
alla paura costante nella vita quotidiana, indotta da una occupazione brutale, dal timore di angherie, soprusi, delazioni, deportazioni..., dalla precarietà di
tutti i riferimenti istituzionali.
Talora compare l’aggettivo “gloriosi”
che accompagna la parola “martiri”.
Tracce di una religiosità laica, in un linguaggio volto a sostenere e rinforzare
il senso della memoria e a collegare
sofferenza e gloria. Così troviamo
nella lapide sull’edificio della ex-scuola
media “Bella”, dove venivano interrogati e torturati i partigiani catturati e
presso cui vennero fucilati 5 partigiani
nel gennaio 1944 da parte delle SS.
Nella stessa lapide troviamo anche un
tratto collettivo, che accomuna tanti
sacrifici individuali, oltre ad un richiamo esplicito all’occupante tedesco,
che ad Acqui era stato pesantemente
presente (con l’impianto di diverse
postazioni, un comando della Wehrmacht e delle SS, la requisizione di case, alberghi e mezzi di trasporto e
avendo imposto un controllo marcato
della città, insieme alla Guardia Repubblicana di Salò).
Luoghi e segni
“complessi”:
persone e vicende
di valore simbolico
Di genere diverso sono i luoghi rappresentati dalla toponomastica che si
riferisce ad alcuni protagonisti della
resistenza e dell’antifascismo acquese:
dal corso Viganò, che ricorda Guido
Ivaldi, uno dei primi capi del movimento partigiano acquese, a via Casagrande che fa memoria dell’operaia acque-
A ricordo degli ebrei
acquesi deportati nei campi
di concentramento nazisti.
25 aprile 1980
152
Le due lapidi e la targa, collocate sotto i portici Saracco, ricordano i caduti civili e i deportati acquesi nei Lager tedeschi.
Altri caduti, militari e partigiani, sono ricordati sulle lapidi del
cimitero cittadino.
E’ questo il testo della lapide collocata sul fronte dell’edificio della Scuola
Media “G.Bella”, che ospitava uno dei presidi nazifascisti della città, dove si
tenevano interrogatori e torture di quanti erano arrestati.
Ad Acqui, nel gennaio ’44, si ebbero le prime fucilazioni. In seguito ad una
soffiata, un nucleo di partigiani fu catturato a Perletto. Tradotti in Acqui,
sotto l’accusa di essere collaboratori col nemico, furono prima torturati
per giorni e giorni: le loro grida di dolore si diffondevano nelle strade
vicine. Processati dal tribunale speciale delle S.S. tedesche, vennero fucilati
il 23 gennaio nel cortile. Dalle loro estreme lettere, pur nella tragicita’ e
nel dolore dell’ora, traspare il radicamento della lotta per la liberta’ nella
coscienza popolare. La lapide, sbiadita da parecchi anni, è stata restaurata
nel 2005 a cura del sindacato pensionati SPI.
se uccisa dagli squadristi fascisti ad
Acqui nel 1921. In questi casi, come
per gran parte delle vie intitolate a
personaggi di rilievo locale, il richiamo
memoriale è però assai scarso, in
quanto questi segni-luoghi non offrono informazioni specifiche. Nel caso
della Casagrande, nella via omonima,
troviamo però un bassorilievo realizzato dai ragazzi della scuola media cittadina, che ci segnala una significativa
rivisitazione di questa memoria nel
corso degli anni ’80.
Nel percorso cittadino e nei paesi
della zona troviamo segni e luoghi di
livello più complesso. L’ampia lapide
presso la casa natale di Aureliano
Galeazzo, in salita Duomo ad Acqui,
riassume i tratti essenziali dell’intera
vicenda resistenziale del giovane partigiano ucciso a Volpara nel rastrellamento del dicembre 1944. Accanto
alla foto e al nome di battaglia “Michel”, compare l’onorificenza (medaglia d’oro al valore militare) riconosciuta per il sacrificio “cosciente” ed
eroico, che salvò la vita degli altri partigiani del reparto. Eroismo e coraggio
sono qui collegati con l’altruismo e
così ben motivati dallo svolgimento
dei fatti, oltre che resi ufficiali dall’ono-
rificenza. In questo caso, rispetto al
luogo ciò che prevale è proprio il messaggio, espresso dalla testimonianza
del giovane e spiegato per esteso dalla
lapide.
È invece proprio il luogo a fornire lo
spunto per un altro importante segno
di memoria, riguardante la resistenza
acquese: la lapide e la targa in vicolo
della Pace ricordano la casa di incontro del CLN cittadino ed i suoi componenti. Un doppio segno, che risale
all’immediato dopoguerra e alla fine
degli anni ’80, sta a rimarcare il valore
simbolico dell’unità antifascista e vede
la “firma” congiunta di CLN, Comune
e ANPI.
L’intreccio con le
vicende e i simboli
militari
Diversamente complessi sono i segni
che ricordano un luogo particolare
della resistenza acquese: la caserma
Cesare Battisti dove si consumò il
primo tragico episodio della resistenza militare all’occupazione nazista e si
espresse anche in forma spontanea la
reazione all’occupante e la solidarietà
153
GUIDO IVALDI “Viganò” fu uno dei primi
protagonisti e promotori dell’organizzazione
del movimento partigiano subito dopo l’8 settembre 1943. Proveniente dalle file dell’organizzazione clandestina del PCI, già all’indomani
dell’armistizio si adoperò per costituire in
Acqui Terme il primo nucleo del Comitato di
Liberazione Nazionale. Salito sulle colline dell’acquese, attorno a Piancastagna, con Valter
Fillak,Agostani,“Ardesio,” ed Edmondo Tosi,
contribuì alla organizzazione del primo raggruppamento che divenne poi la III Brigata
Liguria.
“Viganò” operò come anello di congiunzione
tra le nascenti formazioni partigiane piemontesi e liguri: con lui collaborò il col. Giuseppe
Thellung “Duilio”, per organizzare il reperimento e l’invio di viveri e materiale dal CLN
di Acqui prima alla banda di Fillak e poi alla
Benedicta.
Il 16 maggio 1944 “Viganò” venne arrestato e
imprigionato prima in città e poi nel Cuneese,
dove subì lunghi interrogatori, pesanti torture
e ricatti, senza nulla rivelare dell’attività di
resistenza iniziata ad Acqui. Il 6 luglio venne
fucilato a Borgo San Dalmazzo.
A “Viganò” fu intitolata la 79^ brigata
Garibaldina, successivamente diventata la XVI
divisione che liberò nell’aprile del 1945 la
città di Acqui.
154
Bassorilievo che ricorda Angela Casagrande (collocato nella via a lei dedicata), la
giovane operaia venne uccisa nel 1921 durante l’attacco di una squadra fascista di
Alessandria, durante un comizio in piazza Addolorata. Il pannello è stato elaborato
nel 1984 da studenti e insegnanti della classe 3a B della scuola media “G.Bella”,
sotto la direzione del prof.Vittorio Zitti.
ai soldati italiani da parte della popolazione
civile del quartiere della Pisterna4. Nel voltone d’ingresso alla caserma, lungo corso
Roma, lapidi e cippi ricordano nel complesso la vicenda dei reparti militari nelle diverse guerre, ma un particolare cippo (nell’adiacente cortile) dedicato all’artigliere conte
Arturo Ottolenghi, riannoda la vicenda militare e resistenziale anche a quella della presenza ebraica in Acqui.
Ancora legata alle vicende propriamente
militari è l’originale formella collocata presso l’ingresso centrale del Duomo di Acqui:
essa riproduce l’icona di Nikolaevka, ricordando la tragedia dell’Armir ed il sacrificio di
tanti alpini e artiglieri anche della nostra
zona. Un segno di memoria fortemente connotato in senso religioso sia per il soggetto
sia per la collocazione, che apre un capitolo
ancora poco raccontato: la vita spirituale di
soldati e partigiani durante la guerra.
Un altro segno di memoria, anch’esso piuttosto recente, è il monumento ai caduti della
divisione Acqui a Cefalonia: a differenza degli
altri segni, esso è riferito ad un episodio di
4 Si vedano in proposito le testimonianze raccolte da
G.SARDI, Acqui, 9 settembre 1943.L’assalto alla caserma d’artiglieria, in “Iter” 1/2005.
Fu nel corso dei grandi rastrellamenti di novembre 1944 che
venne ucciso un giovane partigiano acquese, già studente al
liceo Doria di Genova:
AURELIANO GALEAZZO “ Michel”
L’azione tedesca riguardò diverse zone tra Piemonte Liguria e
intedeva accerchiare e distruggere le formazioni partigiane.
Erano due divisioni tedesche, e vennero da ogni parte, distruggendo tutto ciò che incontravano, spargendo terrore e morte,
aizzando bande di prigionieri mongoli contro la popolazione.
Nella Val Staffora, dove la pressione fu maggiore, i partigiani
dovettero presto ripiegare dopo una accanita resistenza, e
altrettanto furono costretti a fare i reparti della zona di
Mongiardino, Grondona, Borassi e Roccaforte. Il Comando partigiano inviò a tutti i distaccamenti l'ordine di celarsi nelle grotte, nei rifugi, nelle gallerie, nei crepacci, dovunque ci fosse un
riparo: era l'unica possibilità di scampare al gigantesco rastrellamento ad anello. Il gruppo in cui si trovava Aureliano, quindici
uomini al comando di “Tigre”, si sganciò da Mongiardino e andò
alla Rocchetta, dove si unì ad altri venticinque uomini guidati da
“Terzo” e dal Commissario Moro. Il giorno dopo, 18 dicembre,
i comandanti decisero di portare in salvo il reparto a Volpara,
un paesino di poche case situato su di un'altura isolata. La
povera gente del villaggio li aiutò come meglio poté, sfamandoli
e offrendo loro ospitalità; il parroco, don Felice, accolse una
parte degli uomini nel campanile, e gli altri trovarono riparo dal
freddo nel fieno di una cascina. Passarono alcuni giorni, altri
venti partigiani, che erano riusciti a sfuggire al rastrellamento,
giunsero a Volpara; sembrava davvero che i tedeschi non avrebbero mai scoperto quel rifugio. Il 23 dicembre, nelle prime ore
del pomeriggio,Aureliano entrò nella botteguccia del calzolaio,
per farsi riparare uno stivale. Mentre l'uomo lavorava in un
angolo, si sedette accanto alla porta, lo Sten appoggiato al
muro. Improvvisamente sentì un rumore di passi che salivano
dalle prime case del paese; si alzò a guardare, appoggiando il
viso al vetro della porta. Erano tedeschi, che salivano in silenzio,
allineati contro i muri! E i compagni, su nella cascina, non lo
sapevano, sarebbero stati colti di sorpresa! Afferrò lo Sten, aprì
la porta e uscì
nella neve. La
sparatoria
divampò fulminea.Aureliano
cadde subito, le
gambe stroncate da una raffica; un tedesco
lo raggiunse e
lo finì con un
colpo di pistola.
Messi in allarme
dagli spari; tutti
gli altri partigiani poterono salvarsi.Tre giorni
ancora, e sarebbe stato Natale.
L'ultimo Natale
di guerra.
grande rilievo della vicenda resistenziale militare, sia per la dimensione, sia
per le modalità, sia per il momento in
cui si verificò (all’indomani dell’armistizio)5, ma rimanda ad un luogo lontano
e ad una vicenda sostanzialmente
“altra” rispetto alla città. Infatti, il legame principale è il nome del reparto
militare e la presenza di tre militari
della “Acqui” provenienti dalla zona,
tra cui l’acquese capitano Verrini (cui è
stata intitolata anche una via cittadina).
E’ l’unico segno resistenziale rivisitato
in questi anni dalla memoria cittadina
ufficiale con grande evidenza, anche in
relazione all’omonimo premio storiografico, al gemellaggio con la cittadina
di Argostoli (capoluogo dell’isola di
Cefalonia), al conferimento della cittadinanza onoraria alla Divisione Acqui,
al brano musicale degli Yo-Yo Mundi
dedicato ai “Ribelli della Acqui”, alla
ricerca storica avviata nelle scuole sulla memoria dei reduci di Cefalonia.
5 Sulla “Divisione Acqui”, un sintetico bilancio ed
una aggiornata bibliografia in M.RAPETTI, Cefalonia
1943, in “Quaderno di storia contemporanea”,
37/2005.
Presso il Vicolo Pace, la
lapide posata nel 1987
amplia il contenuto della
targa in bronzo posata
nel 1945 da Comune,
ANPI, CLN, ricordando
il luogo d’incontro del
Comitato di Liberazione
acquese.Tra il settembre ed il novembre
1943, Guido Ivaldi,
Giovanni Pesce, Emilio Diana Crispi Armando Zunino Guido Garbarino,
Tommaso e Giandomenico Sutto, Giovanni Filippetti ,Antonio Grattarola si
incontrarono per dare avvio al processo di unità delle forze antifasciste
acquesi. Il primo incontro avvenne nell’ufficio di direzione del teatro Garibaldi
di proprieta’ di Zunino. Il C.L.N. acquese venne ufficialmente insediato da
Carlo Ronza, rappresentante del C.L.N. provinciale, all’inizio di novembre del
1943. Da allora si riuni’ clandestinamente in Vicolo Pace.A liberazione avvenuta, il 26 aprile 1945, alle ore 10, il C.L.N. si insediò in municipio e prese in consegna l’amministrazione del comune.Verso mezzogiorno venne affisso in città
il primo manifesto per comunicare alla popolazione le disposizioni del C.L.N.,
che resse il governo acquese fino all’elezione del primo sindaco nel novembre
del 1945.
Partigiani, soldati
e “civili”:
la resistenza
come fenomeno popolare
Segni di memoria di varia complessità,
riguardanti fatti collettivi, si ritrovano
in molti paesi della zona Acquese:
scontri militari, rastrellamenti e fucilazioni sono infatti ricordati a Ponzone
e Cassinelle, Malvicino e Bistagno, Rivalta e Visone, Ponti e Morbello, Cassine e Malvicino, Roccaverano
La complessità maggiore si incontra al
sacrario di Piancastagna. Frutto di una
elaborazione assai lunga nel tempo e
risultato dello sforzo congiunto di più
comuni e istituzioni pubbliche e private, questo luogo di memoria condensa il richiamo al territorio specifico
ove avvenne un episodio militare rilevante, con l’intento di offrire un vero
e proprio spazio organizzato, esclusivamente dedicato alla memoria e alla
riflessione. Alle lapidi si affiancano i
bassorilievi di diversi artisti che richiamano fatti, ma soprattutto illustrano
aspetti essenziali di tutta la vicenda
resistenziale: agli aspetti “militari” si
affiancano così le altre dimensioni della resistenza: la collaborazione dei
contadini, il ruolo delle donne, il servizio svolto dai sacerdoti, il dramma dei
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deportati. Qui sta la differenza rispetto alle lapidi tipiche delle prime fasi
della elaborazione della memoria resistenziale: il passaggio dall’avvenimento
al fenomeno, in cui il singolo episodio
si può inserire e comprendere. Emerge l’affermazione essenziale della natura “popolare” della resistenza, intesa
non solo nei suoi momenti di scontro
armato e di organizzazione politica di
singoli gruppi, ma più ampiamente come opposizione morale, come solidarietà a chi combatte per tutti e a chi è
ingiustamente offeso, come rifiuto
della guerra, come difesa dalla prepotenza... Il contesto fisico e quello naturale entrano poi a pieno titolo nel
messaggio che si intende trasmettere:
la ricerca di una convivenza civile
senza guerra, nella libertà, nella giustizia. Il caso di Piancastagna è ancora
singolare e significativo per una
rispondenza assai forte tra il sacrario
posto all’ingresso dell’abitato ed altri
due luoghi centrali del paese: la piazza
(dedicata ai “martiri della libertà”) e la
chiesa parrocchiale (che contiene
diversi riferimenti alle vicende della
resistenza). Non quindi un semplice
ricordo di una azione militare seppur
rilevante, ma il rimando ad un tessuto
umano e sociale che fu parte attiva nel
sostegno alla resistenza (dal parroco a
molti abitanti del luogo).
La caserma “Cesare Battisti” ospitava il II reggimento artiglieria di corpo d’armata. Il 9 settembre 1943 il presidio,
lasciato senza disposizioni, assediato, dopo una strenua
difesa, si arrende alle truppe tedesche, che concentrano i
soldati italiani per avviarli alla stazione.
La popolazione civile reagisce, cercando di far fuggire i
soldati: donne e uomini si frappongono al cordone di guardia, così i soldati si dirigono in maggior parte verso il
borgo Pisterna e in via Nizza. La immediata solidarietà
degli acquesi fornisce loro abiti civili e protezione per la
fuga. Quello degli artiglieri e dei civili è considerato il
primo atto di resistenza ai nazisti ad Acqui. Nella ex-caserma “C.Battisti” nell’atrio accanto a due affusti e al bassorilievo, le lapidi ricordano i militari caduti. Il cippo collocato
nel cortile della ex-caserma ricorda il conte Arturo
Ottolenghi.
La formella
collocata
all’inizio della
navata centrale
della cattedrale
di Acqui,
riproduce una
icona russa, la
“Madonna di
Sruschewo”.
Donata dai
reduci del 2°
artiglieri, fa
memoria della
tragedia
dell’ARMIR.
Il rapporto tra segni
e luoghi di memoria
La maggior aderenza del “segno di
memoria” al fatto specifico cui si riferisce rende il segno stesso molto chiaro e concreto, ma lo può rendere anche poco visibile.
E’ chiaro che un segno di memoria
collocato in città è assai più visibile di
uno collocato in campagna o in mezzo
ai boschi. Per questo, alcuni dei segni
collocati su territori disabitati o in luoghi distanti dai centri principali richiedono un impegno ulteriore perché
siano visitati, devono perciò avere
caratteristiche di attrazione e di fruibilità da poter segnalare e facilitare una
“visita mirata” e devono comunque
essere sostenuti da un’opera di informazione o di indagine storica rivolta a
portare alla luce testimonianze inedite
e interpretazioni più approfondite.
Facciamo riferimento a due casi significativi, peraltro assai diversi tra loro: il
luogo memoriale della Benedicta e il convegno storico di Malvicino.
Negli ultimi anni la
discussione sul recupero del sito resistenziale della Benedicta
ha ben evidenziato
questo rapporto tra
evidenza del segno e
luogo ove è collocato:
da un lato l’esigenza di
Il monumento ai caduti di
Cefalonia lungo corso
Bagni, ricorda l’eccidio
della Divisione Acqui nel
settembre 1943, considerato uno dei primi episodi di resistenza militare al
nazifascismo.
PIANCASTAGNA - IL SACRARIO CHE COMMEMORA I CADUTI DELLA BATTAGLIA DI DEL 10 OTTOBRE 1944.
In questo scontro persero la vita il capitano Domenico Lanza
“Mingo”, decorato con la medaglia d’oro della resistenza, tre partigiani ignoti, i partigiani Giovanni Tagliafico,Antonio Deluiso, Otello
Deluiso, Libero Agulini, tutti ricordati nella lapide posta all’ingresso. Il
sacrario presenta 4 pannelli, con bassorilievi bronzei dedicati alle
donne della resistenza, all’aiuto delle popolazioni contadine ai partigiani, all’aiuto dei religiosi nella resistenza, ai deportati della resistenza, alla battaglia di Piancastagna ed al sacrificio di “Mingo” donati da
varie amministrazioni. Davanti all’altare del sacrario vi è una tomba
nella quale sono depositate le spoglie di un partigiano ignoto caduto
nella battaglia del 10 ottobre 1944, insieme a 3 teche contenenti la
terra dei luoghi delle altre battaglie riferite allo stesso rastrellamento dell’ottobre 1944.
157
rinnovare la memoria di uno degli episodi più emblematici della lotta di resistenza tra Piemonte e Liguria 6, dall’altro l’esigenza di salvaguardare l’ambiente naturale in cui questo luogo di
memoria è situato (il parco delle
capanne di Marcarolo). Proprio l’equilibrio tra queste due esigenze ha prodotto una soluzione che potrà valorizzare entrambe le dimensioni (quella
memoriale e quella naturalistica), resa
possibile da uno specifico progetto
promosso dall’Associazione Memoria
della Benedicta. Il successo dell’operazione richiederà poi un efficace supporto informativo e logistico e l’inserimento di questo luogo di memoria
in un percorso scolastico. Ovviamente
questo raccordo scuola-territorio
diventa un passaggio cruciale per il
recupero ed il rinnovo della memoria
ed il senso stesso della conservazione
dei luoghi di memoria.
Un altro e diverso caso significativo
in quest’ambito è stato proposto lo
scorso agosto a Malvicino, attraverso
un convegno storico che ha rivisitato
la memoria di un generoso sacerdote
partigiano, don Icardi7, e del rastrellamento tedesco che coinvolse direttamente ben 45 famiglie del paese e
prolungò i suoi effetti sino alle vicende di Santa Giulia. Una semplice lapide ricorda in paese il sacrificio di un
ragazzo-partigiano, Roberto Di Ferro, detto “Balletta”; un serio momento di studio e di riflessione, sostenuto da testimonianze locali anche inedite, è servito a rinnovare il significato di quelle vicende8.
Il caso del “monumento
alla resistenza” di Acqui
Quando i segni sono collocati in luoghi che richiamano direttamente un
fatto e questo luogo è di buona evidenza, lo scopo della costruzione del
segno è meglio raggiunto: l’avvio di
recupero della memoria o l’indagine
su di essa può “funzionare” più facilmente.
Facciamo l’esempio forse più evidente
della zona (e che tante polemiche ha
suscitato in città in questi anni): il monumento alla resistenza di Acqui. Si
tratta di un segno assai consistente:
un’alta stele, opera artistica lineare e
ricca di simbologia, che in un luogo
specifico ed in un momento preciso
(Acqui, il 25 aprile 1945) ricorda la
resistenza come fenomeno più vasto
nello spazio (di cui son stati protagonisti tanti popoli diversi, significati dalle
scritte in otto lingue) e nel tempo
(“Ora e sempre resistenza”), a rimarcare l’attualità di quella memoria e a
richiamare che lo spirito e il processo
resistenziale non possono considerarsi conclusi in un passato pur glorioso,
ma continuano a renderci attenti alle
situazioni di oppressione e ingiustizia
presenti oggi. Un invito esplicito quindi a una “memoria del presente” e al
conseguente impegno etico e civile.
La collocazione originaria del monumento, inaugurato nel 1975 per il 30°
anniversario della liberazione, era legata ad un dato altamente simbolico: “i
giardini della vecchia Posta”, accanto al
Liceo Classico, erano stati infatti il
6 Vedi la recente pubblicazione Benedicta 1944. L’evento la memoria, Alessandria 2004.
7 Vedi in proposito il saggio di B.CHIARLONE, Don Italicus, prete guerrigliero e patriota, in “Iter”/1, pp.64-77.
8 Il convegno di Malvicino organizzato dalla parrocchia e dal comune, ha visto gli interventi di don
A.Siri, mons. G. Galliano, P. Reverdito, R. Chiarlone,A. Icardi, la partecipazione delle istituzioni del territorio e le rappresentanze dell’ANPI alessandrina e ligure, accanto a molte persone del paese.
158
luogo di incontro tra le colonne partigiane che da diverse direzioni erano
entrate in Acqui, occupato la piazza
centrale della città, mentre le truppe
tedesche e fasciste si erano sganciate
verso Alessandria, dopo la trattativa
con i comandanti partigiani e la mediazione del Vescovo di Acqui, tramite
don Galliano.
Un luogo certo ottimo per lo scopo di
sollecitare la memoria, proprio perchè
ad “alta visibilità”: un monumento isolato, lungo una delle vie principali, in
giardini pubblici frequentati, dove la
gente facilmente si può soffermare.
Appare evidente che - con lo spostamento attuato alcuni anni fa - la
“potenza” del segno è venuta meno,
proprio per lo sfumarsi del valore simbolico del luogo e per la ridotta visibilità/fruibilità del monumento stesso
nella nuova posizione. Inoltre, l’idea di
avvicinare in uno stesso “parco della
rimembranza” molti dei diversi monumenti cittadini dedicati ai
caduti,
finisce per
trasformare
il monumentosegno in
una proposta di tipo
museale:
un museo
nel senso
tradizionale del
termine,
ancorché all’aperto, svolge la funzione
di raccogliere e riproporre oggettireperti di un passato (ormai concluso)
da conoscere e studiare, ma assai
meno funge da “recupero vitale della
memoria”: se il monumento funge da
elemento di costruzione di una identità civile attuale, il museo tende a presentare le tracce di una identità passata (quand’anche non si riduca a rassegna per nostalgici o magazzino per
studiosi).
Prima e oltre la retorica:
funzione e limite
del mito resistenziale
Molti dei luoghi resistenziali ricordano
fatti di violenza e di morte, che assurgono a simboli di sacrificio, di riscatto,
di liberazione per gli altri. E’ evidente il
messaggio: “caduto per la libertà”.
Libertà di chi? Sua, ma soprattutto di
chi è restato in vita e di quanti son
venuti dopo.Altrettanto chiara e forte
la preghiera dei partigiani cattolici
“ribelli per amore”. Insomma, in tanti
di questi segni e anche di tante testimonianze scritte e orali, si registra il
tipico “rovesciamento”, che risente
molto della logica cristiana (o più
genericamente religiosa): il morire per
vivere, la lotta per raggiungere la pace,
il sacrificio di qualcuno per la vita di
molti, l’oscurità dell’uno per la libertà
di tutti, la sofferenza presente in vista
di una felicità prossima. Ma c’è anche
una logica più laica, legata al rapporto
tra generazioni, al senso dell’onore, al
dovere di riscattarsi da una “colpa col-
Il monumento alla Resistenza di Acqui Terme.Voluto dalla amministrazione
municipale e dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia; su progetto del
professor Caldini, fu realizzato dal maestro Ferrari; collocato nei giardini
accanto al Liceo Classico, venne inaugurato nel 1975, nel 30° della liberazione dall’allora sindaco R. Salvatore. L’epigrafe “ora e sempre resistenza” è
espressa in otto lingue.
159
La lapide marmorea commemora Ludovico Ravera ed è posta
sulla parete del Vecchio Mulino di Ponzone dove il partigiano
perse la vita il 19 settembre 1944.
Il giovane partigiano si trovava quel giorno di vedetta attendendo
le segnalazioni provenienti da altri compagni appostati sulla torre
di Cavatore che avrebbero annunciato l’arrivo dei tedeschi.
Non appena vide il segnale convenuto, Ravera si precipitò in
paese ad avvertire tutti gli uomini e i compagni dell’imminente
arrivo dei tedeschi; quando egli si trovò nei pressi del mulino
incontrò una pattuglia di soldati tedeschi, giunti a Ponzone senza
essere individuati, che lo colpirono a morte.
Di quella circostanza si deve ricordare il comportamento esemplare della madre (Ambrogina Ravera) e della Zia del partigiano,
che con il dolore nel cuore non riconobbero di fronte ai soldati
tedeschi il loro caro, risparmiando così il paese dalle rappresaglie.
Oltre alle lapidi commemorative, il Comune di Ponzone ha reso
onore alla figura della madre Ambrogina Ravera, intitolandole un
premio riservato alle donne ponzonesi che si sono distinte nel
mondo del lavoro, nella famiglia o nel volontariato.
Qui a fianco il
Monumento dedicato a
Lodovico Ravera nei
pressi della Pro loco di
Ponzone inaugurato
dall’amministrazione
comunale il 23 Marzo
1983.
160
lettiva”. Significativa in questo senso
l’epigrafe posta sulla lapide inaugurata
a Strevi proprio nell’aprile del 2005,
forse il più recente dei “segni di
memoria” della nostra zona; essa recita: “Vi sono sacrifici che riscattano le
debolezze e gli errori di una intera generazione e che indicano quale sia la via da
seguire per l’avvenire”.
Con diverse modalità culturali e varia
intensità, gran parte dei protagonisti
hanno effettivamente vissuto queste
logiche, animati da una spinta etica, da
una ideologia politica, da una speranza
religiosa, senza le quali non avrebbero
potuto reggere le fatiche, le ansie, i
rischi per sé e per i familiari. Ma proprio i segni e luoghi di memoria e la
loro successiva elaborazione tendono
a voler dare una risposta sicura (impressa nel marmo), quasi rassicurante,
alle domande angosciose che molti si
sono posti nel mezzo delle vicende
della guerra e poi dopo:“ma servirà a
qualcosa?” ,“ma è il caso di rischiare?”,
“non è meglio attendere e non compromettersi?”, “ma, ne è valsa la pena?”, “forse non è meglio dimenticare
tutto?”, “e oggi, che significa tutto
ciò?”,...
Per questo, sovente si osserva (talora
giustamente) che nella memoria della
resistenza è subentrata una pesante
connotazione retorica, o che una lotta
collettiva è divenuta la bandiera solo di
qualcuno: ciò ha finito per allontanare
molti e rendere magari ripetitivi e formalmente rituali i gesti della memoria.
Questo processo – che di fatto caratterizza gran parte degli anniversari
civili odierni – a nostro avviso può
essere reversibile, a condizione che si
riprenda a riflettere sul senso profondo delle poche parole che si leggono
sulle lapidi, conoscendone un po’
meglio il contesto effettivo.
Per certi aspetti la resistenza è stata
trasformata in un “mito”; forse questo
si è pensato necessario proprio per
favorirne la memoria. Recentemente
questo mito positivo è stato a volte
rovesciato. In entrambi i casi, la riduzione della resistenza a mito non basta,
non rende ragione di quanto è accaduto, dei motivi profondi di quella
lotta e tanto meno di quanti ci hanno
speso un pezzo di vita o la vita intera.
Per questo occorre entrare nel merito,
in quelli che sono stati i valori di quelle vicende complesse, valori molteplici
e diversi.Anche i segni sono molteplici
e diversi: alcuni sono impressi sulle lapidi, altri parlano dalla poesia e dai testi
narrativi e memoriali, altri incidono
sulla politica e sulle regole sociali. Per
questo, il legame tra resistenza e
Costituzione è stato un dato oggettivo
e resta un elemento di forte significato:
la riduzione della resistenza a mito
rischia di trascinare nell’ambito del
mito anche la Costituzione.
L’attualizzazione della resistenza può
certo prestarsi a diverse interpretazioni, ma se è fatta a partire dai segni e
I ruderi della località Cascina Bardana dove vennero uccisi 4 partigiani
Bistagno – La lapide
ricorda i molti
caduti nella guerra
e nella lotta
partigiana, tra cui
le numerose vittime
dei bombardamenti
aerei.
luoghi di memoria, e attraverso una
loro corretta presentazione, può
diventare un’operazione culturale e
civile significativa. I grandi valori sono
passati attraverso persone, gesti,
situazioni in larga parte quotidiane e
Su segnalazione di spie locali il
2 febbraio 1945 i repubblichini e
alcuni soldati tedeschi operarono un’azione di rastrellamento
nei pressi del paese di Morbello
alle Cascine Bardana e
Maccarina.
Proprio nella prima località sorpresero 4 partigiani (Giacomo
Buzzone, Nicolò Dagnino, Paolo
Ottonello, Pietro Risso,
“Katiuscia”); furono fucilati
immediatamente ed i loro
cadaveri lasciati in loco.
Soltanto dopo un paio di giorni,
alcuni residenti delle case attorno, saputo della presenza dei
cadaveri li deposero in casse di
legno costruite artigianalmente
e li trasportarono nel Cimitero
di Morbello Piazza per dare loro
una degna sepoltura.
161
nascoste, prima e oltre il momento
eclatante dello scontro armato. Si
pensi in particolare al ruolo decisivo
delle donne: protagoniste spesso ignorate, ma decisive, che hanno sopportato un carico enorme di fatiche, rischi,
sofferenze, violenze.
Sono i protagonisti stessi a richiamarci con i loro racconti, magari molto
dettagliati, ad un orizzonte più largo
dei singoli episodi, per dirci di aspirazioni, di desideri, ideali e sogni, ma
anche di rispetto e solidarietà vissute,
di dialoghi ed eroismi, di silenzi e sopportazioni, di miserie e incoerenze, di
compromessi e paure, di ingenuità e
furberie.
Rinnovare la memoria dei segni e dei
luoghi può oggi forse permetterci di
rielaborare in modo meno “mitico” la
vicenda resistenziale, di scoprirne le
complessità e -proprio attraverso di
esse- coglierne nuovamente il profondo valore di impegno civile.
Una memoria “difficile”
Ma tutto ciò non è affatto scontato,
anzi presenta diversi tipi di difficoltà. In
primo luogo per una lenta ma incisiva
trasformazione culturale, che ci ha
fatto passare dal primato della memoria orale al predominio della memoria
scritta con un “un progressivo allenta-
mento della memoria e ad una sua riorganizzazione”9. Processo ancor più evidente e accelerato nelle nuove generazioni che stanno crescendo nella
comunicazione “immediata” resa possibile dall’elettronica: insieme agli
enormi vantaggi della velocità e della
quantità di informazioni, ciò pone non
pochi problemi alla percezione della
profondità storica e allo strutturarsi
della relazione durevoli e coerenti tra
passato e presente.
Il secondo ordine di difficoltà è legato
al fatto che la memoria della resistenza torna a far discutere e su di essa si
sono riaperti molti dibattiti. Alcuni
sono frutti di una storiografia più
attenta che si giova anche di nuovi
archivi, altri esprimono il riemergere
di una “memoria divisa” anche tra gli
stessi partigiani militanti in formazioni
di diverso orientamento o che manifestano le tensioni interne alle stesse
bande rispetto alle “regole” che l’organizzazione del movimento partigiano
imponeva10.Altre difficoltà, infine, sono
più legate alle polemiche politiche
attuali e ad un uso perlomeno disinvolto di testimonianze e vicende particolari. E proprio in questo caso risulta evidente che le vicende del 1943-45
-e più ampiamente quelle del secondo
conflitto mondiale - restano un
“luogo” di tensione non ancora risol-
9 Per una discussione sui problemi connessi al passaggio di memoria riferito ai luoghi resistenziali, si
veda l’intervento di R. BOTTA. I luoghi della memoria - esperienze e problemi, al convegno dallo stesso titolo
(Alessandria, ottobre 2004). Il testo integrale in www.isral.it . L’autore evidenzia anche la necessità di una
legislazione che assicuri la tutela e la valorizzazione dei luoghi della memoria della guerra, della resistenza e della deportazione.
10 Va ricordato che la costituzione delle bande partigiane fu un impegno molto difficile, anche per la
presenza di elementi che non intendevano sottostare a disposizioni e ordini di altri o che utilizzavano la
copertura del partigianato per compiere ruberie o violenze. Pochi episodi, ma tali da compromettere in
alcune zone il rapporto di collaborazione tra i partigiani e la popolazione contadina e da costruire talora un’immagine banditesca (il che incise sulle vicende dell’epoca e ancor più sulla memoria successiva);
ciò portò da parte dei comandi partigiani a definire regole molto dure, che implicavano anche la pena di
morte nei confronti dei partigiani che infrangevano tali norme. Per un riferimento a vicende delle nostre
zone si vedano le testimonianze riportate in F. SASSO, Folgore.Il Biondino. Storia di una partigiano, Grifl,
Rocchetta Cairo , 2000 e le molte opere curate da R.Amedeo delle formazioni autonome delle Langhe.
Sul dibattito interno agli stessi eredi della resistenza si veda ad esempio U. FINETTI, La Resistenza cancellata, Ares, Milano, 2004, G. BOCCA, Partigiani della montagna, Feltrinelli, Milano, 2004.
162
BANDITA DI CASSINELLE segni e luoghi di memoria del rastrellamento dell’ottobre ‘44.
“Alla fine di settembre del ‘44 la divisione partigiana era in piena fase
organizzativa. L’andamento favorevole delle operazioni militari alleate
degli ultimi mesi diffondeva un clima di generale ottimismo, perciò nessuno pensava all’eventualità di un rastrellamento, così che i movimenti di
truppe tedesche che si cominciarono a notare nell’ovadese venivano
interpretati come i primi segni di una probabile ed imminente ritirata
germanica. Il 7 ottobre alle cinque di mattina, la formazione G.L. di
“Luciano”, confinante con quella garibaldina, venne attaccata con forza a
Bandita di Cassinelle, con numerose perdite sia tra i civili che tra i partigiani. Nei giorni successivi altre battaglie si ebbero a Olbicella e
Piancastagna.
Il monumento riporta sulla lapide marmorea i nomi dei caduti elencati
come segue:
Andreutti Giorgio (Partigiano),Cartosio Domenico (Civile), Cartosio
Giovanni Battista (Civile),Costantini Oronzo (Partigiano),Ivaldi Giuseppe
(Partigiano), Guala Domenico (Civile), Manna Giacomo (Partigiano),
Niusti Giustina (Civile), Repetto Giuseppe (Partigiano), Ugalia Adolfo
(Partigiano).Vi è inoltre un targa commemorativa al partigiano Luciano
Scassi fucilato nella
cittadella di Alessandria
che faceva parte della
divisione GL.
Bassorilievo in bronzo
collocato sull’esterno
della chiesa, commemora i partigiani caduti
a Bandita di Cassinelle il
7 ottobre 1944.
ta, non solo per quegli avvenimenti in
sé, ma per quanto accaduto dopo ed
anche per il senso diffuso di una mancata giustizia per le vittime11.
Si pensi alla diversità rispetto alla
memoria ‘pacificata’ della “grande
guerra” 1915-18; anche in quella vicenda non pochi erano i motivi di contraddizione (una guerra insensata e
durissima per gli uomini al fronte, le
carneficine e le decimazioni, le diserzioni e i processi militari, la condotta
degli ufficiali superiori, i vergognosi
profitti di guerra, le promesse non
mantenute di terra per i soldati-contadini...). Di fatto la successiva rielaborazione retorica della guerra, su cui
tanto fece gioco il fascismo, riuscì a
restituire una memoria sostanzialmente condivisa di quella orrenda e “inutile” carneficina, riproposta come “ultima tappa del risorgimento nazionale”
o comunque come vicenda comune e
significativa nel processo di costruzione dell’identità nazionale.
Ma in quel caso il meccanismo era più
semplice: il “nemico” esterno e ben
identificato; mentre il caso della resistenza ci sbatte in faccia una serie di
contrasti interni violenti e rapidissimi:
l’alleato che diventa nemico e viceversa, il soldato che diventa sbandato, il
partigiano che è bollato come “bandito e traditore”, il fascista che per 20
11 Molteplici gli episodi di brutale repressione
nazifascista che non hanno avuto alcun rilievo giuridico nel dopoguerra, che hanno portato alcuni storici a parlare di “stragi dimenticate” e di “mancata
Norimberga italiana”.Per una quadro generale vedi:
M. FRANZINELLI, Le stragi nascoste, Mondatori, Milano
2002, F. GIUSTOLISI, L’armadio della vergogna,
Nutrimenti, Roma, 2004. Sugli eccidi tra Piemonte e
Liguria un importante contributo storico e giuridico è proposto dal procuratore capo presso la
Procura militare di Torino: P. PAOLO RIVELLO, Quale
giustizia per le vittime dei crimini nazisti ? L’eccidio della
Benedicta e la strage del Turchino tra Storia e Diritto,
Giappichelli,Torino, 2002.
163
Un esemplare di francobollo della RSI stampato nel 1944,
con il timbro in sovrimpressione del CLN, e la dicitura “Patrioti Valle Bormida”.
anni ha rappresentato lo Stato e ora
ne ha creato un
altro in lotta col
precedente, che
perseguita
e
tortura altri italiani e li consegna al
nazista invasore. Per entrambi è
importante la “patria”, ma essa assume
connotati del tutto differenti: se per i
repubblichini è l’impegno a salvarne
l’onore rispetto al tradimento verso i
tedeschi, per gli altri è il luogo – da
costruire - della libertà, del rispetto,
della giustizia. E proprio in nome della
stessa “patria” si combatte una lotta
brutale, che ha alcuni tratti della “guerra civile”. Significativo in questo senso
il testo della lapide che a Cassinelle
ricorda il rastrellamento nazifascista
dell’ottobre 1944 e lo scontro con la
brigata G.L.: “Nessuna pietà. E’ il comando dei barbari che coi soldati della libertà
uccisero vecchi e donne non piegati alla tirannide. Insieme qui caddero invocando la
patria del popolo, l’Italia libera e giusta”.
E poi tanti fattori di “ombra”, di non
detto (che gli stessi protagonisti a tratti sembrano voler lasciare nell’oblio,
“perché non è ancora tempo …”,
“perchè poi le cose sono andate in un
certo modo …”). Insomma una lacerazione profonda e molto varia, ma
che implica anche un giudizio chiaro
sul fascismo ed una conseguente presa
di posizione; e ciò nei fatti pone le basi
per una memoria “a pezzi” e che ha
fatto parlare in tempi recenti di una
vera e propria “guerra di memoria”12.
“Sono oggi in atto due usi completamente diversi della memoria, uno
molto pericoloso e l’altro invece molto positivo. Da un lato la memoria collettiva viene sempre più adoperata e
anche costruita come strumento di
quelle terribili passioni della ‘politica
dell’identità’ che per definizione si contrappongono le une alle altre, fino ai
fondamentalismi e alle guerre etniche;
dall’altro, invece, la stessa memoria diventa strumento di coscienza civile del
presente”13. Da qui si comprende l’importanza e la complessità di elaborare una memoria collettiva, e ciò ha
inciso sullo stesso processo di costruzione di segni di memoria e di valorizzazione dei “luoghi di memoria”.
La società locale sente
il dovere della memoria?
E così si apre un problema del tutto
attuale e che non riguarda solo le
vicende resistenziali. I luoghi della
memoria possono essere molteplici,
dai più semplici ai più complessi, ma
tutti concorrono a definire un territorio, esprimendo una memoria collettiva, prospettando una identità sia a chi
vive in quel luogo stabilmente, sia a chi
vi passa. Le trasformazioni sociali, culturali, urbanistiche in atto mettono
però in discussione questo rapporto
luogo-memoria-identità, al punto che
12 Cfr. F. FOCARDI, La guerra della memoria. La resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza,
2005; vedi anche M. TARCHI, Fascismo.Teorie, interpretazioni e modelli, Laterza, 2003.
13 A. ROSSI DORIA, Memoria e storia. Il caso della deportazione, Rubettino, 1998. Uno studio molto approfondito è proposto da C. VERCELLI, Tanti Olocausti. La deportazione e l’internamento nei campi nazisti,
Giuntina, Firenze. L’autore coordina il progetto didattico Usi della storia, usi della memoria presso l’isituto
di studi storici “G.Salvemini” di Torino.
164
“non si riescono più a decifrare i segni
e i messaggi di una storia comune e
dei rapporti tra gli esseri umani che lo
hanno attraversato e modellato”.
Allora il “luogo di memoria” diventa
un “non luogo”: i non luoghi “condannano l’individuo alla solitudine, all’anonimato, all’assenza di relazioni con gli
altri”14 . Istituzioni, scuola, forze culturali hanno il compito di non perdere la
memoria dei luoghi, proprio per evitare che essi si trasformino in “non luoghi”: non si tratta ovviamente di bloccare ogni cambiamento e di “ingessare” il territorio, fissandolo in una determinata situazione; piuttosto si tratta dell’attenzione a non eliminare i
luoghi di memoria, di conservarli all’interno della trasformazione, per non
smarrire il significato che essi rappresentano. Occorre la consapevolezza
che ogni intervento sul territorio va a
incidere sulla costruzione della
memoria e della identità collettiva.
Quindi va governato.
La cura materiale e l’informazione, il
“passaggio di memoria” tra le generazioni e l’opera di conoscenza-educazione intorno ai segni-luoghi della
memoria, dicono quindi della intensità
con cui una società locale sente il
dovere della memoria, ne percepisce il
valore, attribuisce un significato vivo e
attuale ai fatti ricordati dal segno. È
piuttosto evidente che – almeno ad
Acqui - la scarsa cura per questi segniluoghi resistenziali ci segnali un notevole distacco da questa memoria e da
ciò che essa rappresenta, ma ci dice
pure della trasformazione in atto
riguardo ai segni stessi, oltre che della
percezione generale del fenomeno
resistenziale e più in generale del passato collettivo. Sommando i due fenomeni si può forse affermare che – se
non del tutto tagliato - il filo della
memoria rispetto alla resistenza
acquese si è assai assottigliato. Al
punto che gran parte degli abitanti
hanno poca conoscenza della esistenza stessa di questi segni, e tanto più
degli episodi che essi ricordano. E questo è ancor più rimarchevole considerando che Acqui e l’Acquese sono
stati un territorio di notevole rilievo
per la resistenza ligure-piemontese,
molteplici gli episodi, numerose le persone direttamente coinvolte nelle
vicende resistenziali, molte quelle che
collaborarono. Se la miglior visibilità
può aiutare l’opera di recupero della
memoria, è comunque cruciale – specie per i più giovani o per quanti vengono da fuori – la domanda sul segnoluogo che ci si trova di fronte. L’attenzione ai segni e l’interesse a porre
la domanda sul senso di quel segno
resta la sfida culturale, civile ed educativa che abbiamo tutti davanti.
Va in questa direzione l’avvio di un
progetto di centro documentazione sulla resistenza nell’acquese
che dovrà coinvolgere tutte le istituzioni presenti sul territorio e dare
seguito alla convergenza maturata
quest’anno in occasione del 60° della
liberazione. Raccolta materiali, ma
anche valorizzazione di un percorso
didattico-culturale per la città e i paesi
della zona, per conoscerne i segni e le
vicende che ad essi si riferiscono.
14 M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernit, Eleutherà, Milano 1993.
165
Scheda 1
DOCUMENTI
E TESTIMONI
per conoscere le vicende
della resistenza locale
* Segnaliamo alcuni testi scritti da
protagonisti diretti della resistenza
nella nostra provincia, che
propongono una importante documentazione
ANGELO MEZZO, Chiusura del cinquantenario della liberazione. 19451995, ANPI, Comitato provinciale
di Alessandria, 4° quaderno,
Alessandria 1996; Celebrazione del
trentacinquennale della liberazione
1945-1980, ANPI, Comitato provinciale di Alessandria, 3° quaderno,Alessandria 1980
GIOVANNI SISTO, Quel tragico ottobre
1944. Bandita di Cassinelle. Olbicella
di Molare. Piancastagna di Ponzone,
Amministrazione provinciale di
Alessandria, 1987
WILLIAM VALSESIA, La provincia di
Alessandria nella resistenza,Alessandria, 1980, prefazione di Davide
Lajolo
Una significativa raccolta di testimonianze dei protagonisti della resistenza in provincia di Alessandria
è pubblicata sul numero speciale
della rivista “La provincia di
Alessandria” n.1/1980
Un ricordo sintetico di uno dei
protagonisti in: mons. GIOVANNI
GALLIANO, Acqui Terme e dintorni, IV
ed.Asti, 2003, nel capitolo dedicato alla lotta di liberazione.
166
Alle vicende della resistenza e di
uno dei protagonisti locali, GIOVANNI PESCE “Visone”, medaglia
d’oro e sua moglie Nori, staffetta
partigiana, è dedicato il film di
Marco Pozzi,Senza Tregua,Sharada,
Roma 2004.
Tra le diverse pubblicazioni a carattere memorialistico, la ricostruzione di uno dei protagonisti principali: “MAURI” ENRICO MARTINI,
Con la libertà e per la libertà, SEI,
Torino, 1947; recente la riedizione
di GINO MILANO, Nebbia sulla
Pedaggera, Carcare, Magema Edizioni, 2005, sulle vicende della 1a
Divisione Langhe. A carattere documentario e memorialistico su
una formazione autonoma che
operò nel nicese è il testo di
RENZO AMEDEO, Storia partigiana
della Divisione Autonoma XV “Alessandria”, Mondovì,1983.
Centrato sul rapporto tra religione e resistenza è il libro di memorie di COSTANZA NERVI, 1944
con fede nella resistenza, Ovada,
s.d., dedicato alle figure di Teresa
Bracco e Paola Nervi.
Un efficace ricostruzione della vicenda umana e familiare della resistenza tra Val Bormida e Liguria è
offerto da D.LA CORTE, Diventare
Uomo. La resistenza di Balletta,
(ed.Total Print, Genova, sd), con
prefazione di Alessandro Natta,
dedicato a uno dei partigiani più
giovani, il quidicenne Roberto Di
Ferro di Malvicino, toturato e ucciso dalla SS il 28 marzo 1945,
medaglia d’oro al valor militare.
* Una ricostruzione storiografica
accurata in P.MORETTI-C.SIRI, Il movimento di liberazione nell’Acquese,
Cuneo, L’arciere, 1984.
* Un quadro più generale è proposto da G.PANSA, Guerra partigiana tra Genova e il Po.La resistenza in
provincia di Alessandria, Bari, Laterza, 1967.
* Un quadro sintetico delle vicende resistenziali e del contesto socio-politico è proposta da G.SUBBRERO-R.BOTTA, La provincia di Alessandria in guerra e nella resistenza,
pubblicato nel 1996 a cura dell’amministrazione provinciale e
dell’ISRAL, in occasione del conferimento della medaglia d’oro al valor militare per l’attività partigiana
alla Provincia di Alessandria da
parte del Presidente della
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Sintesi analoga per l’astigiano si
trova sul sito dell’Istituto storico
della resistenza di Asti
(www.israt.it). Strumento indispensabile per ricerche specifiche
è il lavoro di L.LORENZINI,
Bibliografia sulla resistenza di provincia di Alessandria,ISRAL,1981,studi
e ricerca/3.
* Sulla resistenza nella zona nicese, che tocca diversi paesi collegati all’Acquese e sull’esperienza
della “zona libera” di Nizza, una
articolata ricognizione storiografica ed una ampia bibliografia
sono presenti in due volumi collettivi Contadini e partigiani.Atti del
convegno storico del 1984, (Ed.
Dell’Orso, 1986) e Fascismo di
provincia: il caso di Asti.Atti del convegno storico del 1988 (Ed. L’Arciere, 1990), entrambi a cura
dell’ISTITUTO PER LA STORIA DELLA
RESISTENZA DI ASTI.
V.R.
Scheda 2
STORICO-DIDATTICA
PERCORSI DELLA MEMORIA:
IL DIBATTITO
E LE REALIZZAZIONI
SUI “LUOGHI
DI MEMORIA”
La necessità di “non dimenticare” la resistenza ha portato alla
costruzione di molti “luoghi di
memoria” e di strumenti culturali e didattici in molti luoghi, in
Italia e all’estero. Monumenti e
musei, lapidi in cimiteri e per le
vie delle città, sacrari e spazi
attrezzati, percorsi fisici tra
colline e montagne e itinerari
virtuali sui libri, cd, siti web,
biblioteche e istituti culturali.
Tutti volti a conservare tracce e
documenti di questa memoria,
così da rinnovarla, da permettere di studiarla nei suoi molteplici aspetti, da proporla ai più giovani. Il tutto anche per fronte
all’insulto del tempo e all’oblio,
quando non anche alla rimozione o alle forme di interessato
revisionismo.
Un impegno culturale e civile
molto importante, ma anche
sottoposto a tante fragilità,
incertezze, stanchezze, specie
quando in gioco sono vicende
dolorose e valori forti, talora
scomodi. Il nuovo interesse per
la storia oggi sovente si tinge di
curiosità e nostalgie per il
“buon tempo andato”, chiede
“leggerezza” e rassicurazione,
in cerca di “qualcosa di diverso”
più che di un impegno alla
riflessione e alla messa in discussione. A questo va aggiunto,
per il caso specifico della resistenza, la crisi dell’antifascismo
registratasi in questi anni.
Proprio l’interrogativo sul
senso del “fare memoria” oggi e
sulla funzione degli strumenti
utili a ciò, ha avviato in questi
anni un significativo dibattito sui
“luoghi di memoria”, anche
considerando l’impiego di risorse culturali ed economiche che
essi richiedono. Lo scorso ottobre si è tenuto ad Alessandria il
primo convegno nazionale dedicato ai “luoghi della memoria”,
promosso dall’Associazione
Memoria della Benedica e
dall’ISRAL.
D’altra parte, proprio tale
dibattito ha portato alla luce
tentativi e realizzazioni molto
interessanti, che propongono
modalità nuove sia sotto il profilo culturale che didattico: un
rapporto più intenso con i luoghi fisici della memoria, recupero delle memorie orali e scritte, elaborazioni e allestimenti
multimediali, visite guidate
improntate alla scoperta e alla
riflessione, più che al “consumo” di ricordi o alla retorica di
certe celebrazioni (vedi scheda
3).
Così, accanto agli strumenti e
alla documentazione raccolti
dagli Istituti per la storia della
resistenza (nel nostro caso il riferimento va a quelli di Alessandria, Asti, Cuneo, Genova), in
diverse località si sono organizzate proposte di “museo diffuso” e di attualizzazione dei temi
resistenziali. Il recupero di un
luogo di memoria si è così intrecciato con l’elaborazione di
percorsi culturali, sovente
“rovesciando” la destinazione
iniziale: da strutture militari o
teatro di violenza a luoghi che
ne vogliono offrire una visione
critica ed una riflessione sulle
oppressioni di oggi.
V.R.
Per conoscere meglio
il recupero della Benedicta
visita il nostro sito
www.benedicta.org
Laghi della Lavagnina: trasporto a valle dei caduti per i funerali.
167
Scheda 3
DIDATTICA
DAI LUOGHI DELLA VIOLENZA ALLA SCUOLA DI PACE
alcune esperienze di recupero
della memoria
Una delle proposte più emblematiche è la “PARCO STORICO E
SCUOLA DI PACE DI MONTE SOLE”,
sulle colline bolognesi nei pressi
Marzabotto,in una zona teatro di
una spaventosa strage nazifascista dell’ottobre ’44 (oltre 900
persone uccise, in maggioranza
donne e bambini) giunta al culmine di quella strategia della “dominazione del terrore” messa in
atto dopo il settembre del ’43 da
tedeschi e repubblichini. L’area
del massacro non venne più
riabitata ed ora è destinata ad
una serie di esperienze educative
rivolte al dialogo tra popoli e culture diverse,al valore della riconciliazione, con una particolare
attenzione alle persone che
hanno vissuto situazioni di guerra e violenza su fronti contrapposti: da qui la proposta dei
“campi di pace” tra giovani italiani e tedeschi, tra israeliani e palestinesi, tra donne della exJugoslavia. La fondazione della
scuola di pace ha tratto ispirazione e sostegno anche dall’opera di
Giuseppe Dossetti, partigiano
cattolico, poi figura centrale della
assemblea costituente, politico e
poi monaco. Le proposte didattiche sono consultabili su
www.montesole.org.
168
IL MUSEO DELLA REPUBBLICA PARTIGIANA DI MONTEFIORINO, dedicato
alla storia della prima repubblica
partigiana costituitasi in Italia nel
giugno del 1944 nell’area del
modenese, collocato in una
rocca medioevale incendiata dai
nazisti, ora sede del comune; è
qui approfondita la vicenda delle
“zone libere” costituitesi in
repubbliche partigiane nel 1944.
In Piemonte ricordiamo la
repubblica di Alba, quella di
Nizza, quella dell’Ossola, le aree
delle valli Susa, Maira e Varaita.
IL MUSEO CERVI, a Gattatico (Reggio Emilia): la casa dei 7 fratelli
fucilati dai fascisti nel dicembre
1943 è divenuta luogo della memoria della vita familiare, della
vita nelle campagne e dell’antifascismo emiliano.Ancora legato al
luogo di una strage nazifascista è
il MUSEO STORICO DELLA
RESISTENZA DI SANT’ANNA DI
STAZZEMA.
IL CAMPO DI COLFIORITO in
Umbria, un campo di concentramento fascista vicino Perugia
divenuto luogo dedicato all’esperienza della deportazione e
dell’internamento civile in Italia
(fenomeno diffuso ma assai
poco noto).Ancora sul dramma
della deportazione razziale e
politica è il MUSEO DEL DEPORTATO DI CARPI E IL CAMPO DI FOSSOLI, presso Modena, ove era
collocato uno dei campi di concentramento e transito verso i
lager tedeschi.
Il carcere della Gestapo in via
Tasso a ROMA divenuto sede del
MUSEO DELLA LIBERAZIONE.
Gli ITINERARI LETTERARI DI DAVIDE
LAJOLO a Vinchio (AT) che uniscono intorno alla figura del partigiano-scrittore-politico la riscoperta dei luoghi della comunità
locale: museo multimediale, museo della vite e del vino, centro
culturale, itinerari tra vigne e
boschi con incontri teatrali e letterari.
Il settecentesco “palazzo dei
Quartieri militari” si è da poco
trasformato in “MUSEO DIFFUSO
DELLA RESISTENZA, DELLA DEPORTAZIONE, DELLA GUERRA, DEI
DIRITTI E DELLA LIBERTÀ” di
Torino , ospita anche l’Istituto
piemontese per la storia della
Resistenza e della società contemporanea e l’archivio Nazionale Cinematografico della
Resistenza.
Una interessante evoluzione da
luogo a museo innovativo è
costituita dal MUSEO AUDIOVISIVO
DELLA RESISTENZA DELLE PROVINCE
DI MASSA CARRARA E LA SPEZIA:
costruito a Fosdinovo in una
colonia partigiana presso
Sarzana, ripropone con i moderni linguaggi e strumenti multimediali le vicende resistenziali
vissute in questi luoghi.
http://www.museodellaresistenza.it
Un quadro delle proposte storiche e didattiche riguardanti i
temi della resistenza nella storia
contemporanea si trova in
www.istoreco.re.it,sito dell’
Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea di Reggio Emilia,che dispone di una documentazione impo-
nente (oltre 100.000 documenti,
fototeca e biblioteca specializzata)
e ha avviato progetti di ricerca
europei, con particolare collegamento con la Germania (mostre e
pubblicazioni bilingui).
Tra Piemonte e Liguria sono ancora da segnalare:
LA SCUOLA DI PACE DI BOVES, presso
Cuneo, paese oggetto di una tremenda repressione nazista, ed il
progetto dei “sentieri della libertà” del cuneese;
l’istituto “P.Fornara”, CASA DELLA
RESISTENZA DI FONDOTOCE, nel novarese
l’associazione Comitato resistenza Colle del Lys
il “Museo integrato della resistenza” di Imperia.
È infine da notare come diverse
realtà locali hanno trasformato la
memoria dei luoghi e la ricerca di
documenti in efficaci prodotti
multimediali; è il caso ad esempio
della Comunità Montana Valli
Chisone e Germanasca che ha
curato il cd-rom dedicato alla
Resistenza in Val Chisone e alla
storia della formazione partigiana
che operò in zona.
Un’ampia rassegna sulla didattica
della resistenza sul sito dell’Istituto Nazionale per la storia
del movimento di liberazione in
Italia www.novecento.org/
novecento
V.R
Scheda 4
STORIOGRAFIA
E DIDATTICA
I LUOGHI DELLA
MEMORIA E LE
TESTIMONIANZE
DEI PROTAGONISTI
AL PREMIO ACQUI
STORIA 2005
Numerosi i volumi presentati al Premio Acqui Storia di quest’anno dedicati ai temi della guerra, della resistenza e della deportazione.Tra questi alcuni trattano esplicitamente dei
“luoghi di memoria” e la memoria di
testimoni.
Molto significativo ci è parso quello
di ERMANNO GORRIERI E GIULIA BONDI, Ritorno a Montefiorino. Dalla resistenza sull’Appennino alla violenza del
dopoguerra, (Il Mulino, 2005). Il primo
autore fu comandante partigiano e
poi tra i fondatori della CISL, studiosi di problemi sociali, scomparso lo
scorso anno; il manoscritto è raccolto e rielaborato dalla nipote, che
offre così anche il segno importante
del passaggio di memoria tra le generazioni. Il testo offre una ricostruzione ed una discussione lucida sulle
lotte partigiane e sulle interpretazioni della resistenza e dell’immediato
dopoguerra. Di rilievo la riflessione
sull’uso della violenza, sulla sua legittimità di fronte all’oppressione: quale
misura e quale tipo di violenza sono
necessarie e inevitabili? A questo
lavoro si collega anche la Guida storica del Museo della Repubblica partigiana di Montefiorino curata da CLAUDIO
SILINGARDI (ed. ArteStampa, 2005)
che introduce ad un percorso di memoria ricco e accurato.
Di interesse per la nostra zona è il
volume di ANTONELLA FERRARIS,
L’esercizio della memoria. Uomini
comuni nella seconda guerra mondiale,
(ISRAL - Le Mani, 2005), che presenta la storia di due soldati italiani: Pietro Ferraris, che scelse la strada delle formazioni partigiane, e Vittorio
Bernini, che dopo l’8 settembre fu
deportato dai tedeschi. Il volume è
costruito per l’uso didattico e riporta i documenti personali, un diario
dei protagonisti e le interviste ai familiari, intrecciando vicende generali
e particolari con l’uso di diverse
fonti.
Una accurata ricerca archivistica e
documentaria sui testimoni è proposta da MIMMO FRANZINELLI, Ultime
lettere dei condannati a morte e di
deportati della resistenza. 1943-45,
(Mondatori,2005) che raccoglie biografie e testi di 140 vittime del nazifascismo, presentandone con chiarezza gli ideali religiosi,morali e politici. Un saggio introduttivo illustra il
metodo e le fonti, affrontando il
senso delle testimonianze proposte,
discutendo anche il nodo dei caduti
della RSI.
Sulle vicende della Divisione Acqui
due recenti pubblicazioni hanno riproposto la memoria di testimoni:
VANGHELISI SAKKATOS – MASSIMO RAPETTI, Cefalonia 1943. L’eccidio della
Divisione Acqui e la Resistenza greca nei
ricordi di un ragazzo, Acqui T., EIG,
2004, e ISABELLA INSOLVIBILE, La
Resistenza di Cefalonia tra memoria e
storia, Quaderni ANRP 12/2004.
Sulle vicende della deportazione legate al nostro territorio ricordiamo
ALBERTO PICCINI, I confini dei lager.
Testimonianze di deportati liguri,
Milano, Mursia 2004; CARLO
LAJOLO, Morte alla gola. Memoria di
un partigiano deportato a
Mauthausen, Acqui T., EIG, 2003
169
Scheda 5
STORIOGRAFIA, DIDATTICA
E DIVULGAZIONE
VICENDE E
DOCUMENTI IN MOSTRA
Le mostre storiche - didattiche
a partire dagli anni ’80 hanno
acquistato un rilievo significativo nello sforzo di riproporre
pubblicamente a molte persone
le vicende resistenziali con linguaggi più vari e moderni, ed
insieme raccogliere e divulgare i
risultati e gli approcci più
aggiornati della storiografia
(tipico è il recupero della cultura popolare e materiale, della
quotidianità, della storia orale,
della varietà dell’esperienza
resistenziale, …).
Basata su una ricca documentazione fotografica commentata,
la mostra dell’ANPI provinciale
di Alessandria ”Antifascismo
Resistenza Deportazione. L’Italia
dal 1918 al 1945” offre un percorso storico molto ampio sull’origine del fascismo, la guerra,
le vicende partigiane.
L’uscita dal “mito resistenziale”
diventa evidente, anche grazie
alla presentazione diretta di
documenti e immagini, volta a
stimolare una acquisizione più
personale ed una elaborazione
del giudizio: “Non si vuol solo
invitare a guardare, ma a leggere e meditare” si afferma nella
introduzione alla Mostra perma-
170
nente della resistenza nell’astigiano; il catologo - curato da G.
BOSCHIERO e L. LAJOLO per il
Comune di Asti - riproduce
testi e mappe relative alle
vicende e alle diverse formazioni partigiane della provincia.
Di notevole raffinatezza artistica è il catalogo che riproduce la
mostra regionale elaborata in
occasione del 50° anniversario
della liberazione: Con le armi,
senza le armi. Partigiani e resistenza civile in Piemonte
(1943/1945) a cura di CLAUDIO
DELLAVALLE (Agorà, Torino,
1995). La mostra è ora disponibile on-line su:
www.Novecento.org
Diverse mostre curate dall’
Istituto Storico di Alessandria
sono state dedicate all’eccidio
della Benedicta (uno degli episodi più tragici della resistenza tra
Piemonte e Liguria) elaborate in
occasione della visita di Pertini
nel 40° anniversario: “Benedicta
1944” e “Un luogo chiamato
Capanne”, (si veda “La Benedicta
1944-1984”, supplemento a “La
provincia di Alessandria” gennaio
1984), mentre è in allestimento
una serie strumenti multimediali
in relazione alla nuova sistemazione del sacrario promossa
dall’Associazione Memoria della
Benedicta (vedi “Benedicta 1944.
L’evento, la memoria”, testo e
DVD,Alessandria, 2004).
Di carattere generale è la
mostra curata dall’ UFFICIO STORICO DELL’ESERCITO, La partecipazione delle Forze Armate alla
guerra di liberazione e alla resistenza 1943-1945, presentata
dal Comando RFC Interregionale Nord, in occasione
del 60° anniversario; essa illustra il ruolo ed il contributo
dell’esercito italiano alle varie
fasi della lotta armata contro il
nazifascismo dopo l’8 settembre e introduce la vicende degli
internati militari italiani nei
lager tedeschi.
BANDO
DI CONCORSO
per gli studenti delle scuole, elementari,
medie e superiori del distretto scolastico di
Acqui e per gli studenti universitari
In occasione del 60° anniversario della Liberazione, il coordinamento dei
Comuni dell’Acquese, d’intesa con l’ANPI, ed in collaborazione con la commissione distrettuale docenti di storia e con l’ISRAL, con il patrocinio della
Provincia di Alessandria, bandisce un concorso rivolto agli studenti delle
scuole del distretto scolastico di Acqui e agli studenti universitari.
Per il testo completo del bando e per le modalità di partecipazione, rivolgersi alle
direzioni scolastiche o alla commissione distrettuale docenti di storia, presso l’ITIS
di Acqui Terme.
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della liberazione
Un reparto della 2a
Divisione Langhe sfila
per Via Roma a Torino
all’indomani della liberazione.Alla guida è il
comandante “Morgan”.
Pietro Reverdito è il
quinto della fila di
destra. La foto venne
pubblicata in prima pagina sul giornale torinese
“L’Opinione” nell’edizione di sabato 5 maggio
1945 (a firma del fotografo Moisio).
172
di Pietro Reverdito
La testimonianza che segue è parte di una più ampia riflessione condotta dall’autore sull’esperienza vissuta in prima persona, come partigiano. Il testo è stato mantenuto nella forma originale (con l’aggiunta di alcune note esplicative redazionali), per non perdere la
intensità del racconto. Esso ci offre così non solo un’appassionata
espressione degli ideali che hanno motivato e sostenuto il protagonista, ma anche una interpretazione ricca di tanti elementi che ci aiutano a comprendere meglio il senso della vicenda resistenziale. Il
testo si articola in due passaggi, il primo dedicato ai primi momenti
della resistenza in zona, il secondo all’epilogo della esperienza partigiana nella primavera del ’45.
V.R.
1943: nasce la resistenza 25 luglio 1943: come un fulmi“È ora di finirla!”. Lo pensano i soldati obbligati a combattere dei ‘nonnemici’. Lo sentono i giovani e i giovanissimi stufi del clima di falsità e
arroganza. Lo dimostrano gli operai e
contadini che si ribellano a ingiustizie
e spogliazioni.
“È ora di finirla!”. È la chiara volontà di molti, di troppi italiani, esasperati ormai da tre anni di guerra.
L’impero si è dissolto. Nella steppa
russa s’è gelato lo spirito di grandiosità dei capi dell’Asse. La ‘quarta sponda’ s’è mutata in pista di lancio per lo
sbarco alleato in Sicilia. Gli ‘otto milioni di baionette’1 hanno dimostrato che
la guerra vera è un’altra cosa. Lo spirito indomito dei giovani è mutato
solo nella direzione della scelta.
ne a ciel sereno avviene la defenestrazione di Mussolini2. In realtà era
nell’aria. Da tempo. Nelle città, nei
paesi, ovunque appare un segno del
“fascio littorio”, esso viene spezzato,
abbattuto, denigrato. È la rabbia di chi
ha sofferto, di chi s’è sentito preso in
giro, condotto alla berlina... È la rabbia di chi ha fame: di giustizia e di
pane.
È anche il tempo delle facili e troppo
rapide conversioni. Più nessuno è
fascista.3 Non il podestà, non il segretario politico, non il milite della
M.V.S.N.4 Sono tutti convertiti, rinsaviti e vivi. I più “battaglieri” sfogheranno la loro rabbia dopo l’8 settembre 1943, data che impegna gli italiani in una scelta definitiva.5
L’italiano vero riprende la lotta per la
difesa della propria famiglia e per un
1 Si tratta di espressioni usate dalla propaganda fascista: la ‘quarta sponda’ indicava il nord Africa e la
nostra colonia in Libia, mentre gli ‘otto milioni di baionette’ volevano rappresentare la potenza militare italiana ed il valore attribuito alla guerra da parte del regime.
2 Si riferisce alla decisione del re Vittorio Emanuele III di “licenziare” Mussolini come capo del governo
(togliendogli l’incarico che gli aveva affidato ben 21 anni prima, dopo la marcia su Roma), dopo che il Gran
Consiglio del Fascismo aveva approvato un ordine del giorno contrario al Duce. Mussolini sarà arrestato dai
carabinieri e portato in diverse località segrete e infine sul Gran Sasso, da dove verrà liberato agli inizi di
settembre dai paracadutisti tedeschi e italiani, quindi condotto in Germania. Lì Hitler, che già aveva ordinato l’occupazione dell’Italia, lo convincerà a dar vita alla repubblica di Salò per sostenere la presenza tedesca
e la lotta contro i partigiani.
3 In effetti la struttura del partito fascista, che nel 1941 raccoglieva in Italia ben 4 milioni di iscritti ed era
presente in modo capillare su tutto il territorio, nell’estate del ’43 parve dissolversi, mentre non si segnalarono movimenti a favore di Mussolini tra luglio e settembre ’43.
4 Erano tra le espressioni visibili dell’autorità istituzionale e politica del regime fascista: il podestà (nominato dal governo) aveva sostituito il sindaco (eletto dai cittadini); il segretario politico era il responsabile
politico del “fascio” locale (l’unica forma di organizzazione politica permessa durante il regime), la MVSN
(Milizia Volontaria per la Salvezza Nazionale) era l’organizzazione paramilitare fascista, in cui erano confluite
le “squadre d’azione”, rispondeva direttamente al Duce e costituiva una specie di esercito parallelo, volto
soprattutto al controllo del territorio e alla segnalazione di eventuali atteggiamenti o iniziative antifasciste.
5 È la data dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati. Lo sbandamento dell’esercito, l’arrivo dei tedeschi e la successiva nascita della repubblica di Salò (ed in particolare la pubblicazione dei “bandi di leva” che obbligava i
coscritti ad arruolarsi nell’esercito repubblichino, comandato dal maresciallo Graziani) porranno molti giovani nel dilemma di una scelta comunque molto rischiosa. La organizzazione della repubblica di Salò, nel
corso dell’inverno ’43-’44, riporta alla luce la struttura fascista ed il controllo di gran parte del territorio e
della popolazione nel nord Italia.
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Partigiani della Val Bormida, provenienti
dalla zona di Spigno, primavera 1945
(foto Sicco). È una delle numerose
immagini che ritraggono i giovani partigiani con le armi, quasi a mimare un
assalto. La giovane età di molti (alcuni
neppur ancora di leva) e l’inesperienza
militare fu all’origine di diverse imprudenze.Ad esempio, la partecipazione
alle feste di paese facilitò riconoscimenti e delazioni, mentre le foto in
alcuni casi divennero strumenti in
mano alla polizia fascista per individuare i partigiani o le loro famiglie.
dare un senso alla vita. L’italiano vero
diventa partigiano: si oppone ai nazifascismi, per i quali è solo un ribelle, un
“bandito”. Ma i “ribelli” sono sempre
più numerosi e organizzati. I “banditi”
conducono sovente colpi di mano
efficaci e proficui. Cadono nelle loro
mani depositi di armi che, in aggiunta
al materiale degli aviolanci alleati, permettono la costituzione di nuove
bande organizzate. Bande che, con il
tempo, si trasformano in distaccamenti, brigate e divisioni. I nazi-fascisti
ne sono sconcertati. Le feroci rappresaglie che seguono non sortiscono
risultati pratici. I giovani hanno trovato la giusta via della collina e della
montagna. Le donne e gli anziani si
impegnano in compiti ardui e pericolosi: informazioni preziose e indispensabili rifornimenti di viveri giungono
continuamente agli uomini che vivono
alla macchia. In particolare è la schiera contadina che si accolla il peso
maggiore ed il rischio più gravoso del
mantenimento e della protezione
delle formazioni partigiane.
Ogni giorno che passa nasconde
un’insidia. Ogni movimento di armati
cela un pericolo. Ogni atto di difesa è
dimostrazione di forza. Ogni attacco
partigiano è un colpo inferto al nemico. Non si parla di vittoria, ma si
sente che vittoria sarà. La difesa di
Roma, gli eccidi di Cefalonia prima e
poi di Boves6, la difesa ad oltranza di
molti presìdi sono prova di italianità,
baluardo contro l’inciviltà, speranza
in un domani migliore, certezza di
una forza morale che redime una
società travagliata.
1943:
tutti insieme, nel rischio e
accompagnati dal coro della morte,
corriamo verso la vita: una vita più
degna, più giusta, che abbia il senso
del rispetto e della libertà.
6 Cefalonia e Boves sono i primi due episodi della lotta di resistenza italiana, nel settembre del 1943. Il
primo riguarda la vicenda della Divisione Acqui, mentre il secondo si svolge presso Cuneo, teatro di un eccidio consumato dai nazisti ai danni della popolazione civile con l’incendio del paese. (Per una sintesi vedi:
www.storia900bivc.it/pagine/boves.html).
174
La liberazione
12 aprile 1945:
l’ultimo combattimento
sulla langa di Roccaverano. Oltre tre ore di fuoco.
Sono impegnate forze della divisione “San Marco”
provenienti da Spigno, Mombaldone, Montechiaro
e Ponti7. Contrapponiamo le “bande” di Enrico,
Franco, Milan e Morgan8. Morti e feriti fra le file
repubblichine. Dario, il nostro mitragliere, cade fulminato dopo averci protetti - con le scariche del
suo “bren” – nel momento cruciale del combattimento. Gli eroi muoiono così
20 aprile: sulla Langa c’è sentore di novità. I
capi partigiani i rincorrono per continui abboccamenti. Noi giovani abbiamo la primavera nel sangue: la “nostra” primavera. Finalmente! D’incanto
sparisce la stanchezza, svanisce la fame, si dimentica la vendetta … quella che covava dentro per
quella “spiata”, per quella delazione … No. Non ci
si pensa più.
21 aprile: Ci siamo. L’ultimo sforzo. Partiamo
felici, ma con le armi pronte. Il mio paese ci accoglie con un amplesso patetico. Non si canta più. Si
piange di commozione. Mamma, anche tu! Ci sono
proprio tutti: Pinìn, Guglielmo, il “capo”, Moreto;
anche Tumliìn, che pochi mesi prima mi paralva di
“libertà” e di “rivoluzione”. Di repubblichini nemmeno l’ombra.
22 aprile: ore 19. Allarme! Tedeschi e fascisti,
evacuata la riviera di Ponente, si dirigono verso
Acqui, con intenzioni minacciose. Contro la mia
Acqui, la nostra Acqui. Partiamo in 26. All’altezza
7 È una delle formazione dell’esercito di Salò che controlla la Valle
Bormida, insieme alla “Monte Rosa”, con basi a Savona e Altare, comandata dal generale Farina. Negli ultimi mesi di guerra in parte si trasferirà ad Acqui, nella zona Bagni, presso le Terme Militari.
8 Le bande a cui si fa riferimento facevano parte della “Divisione
autonoma Langhe”, guidata da “Mauri”. Esse prendono il nome dai loro
comandati. In altri casi il nome dei reparti era dedicato alla memoria di
qualche comandante partigiano ucciso (come nel caso di Viganò,
Oreste, Mingo per quanto riguarda le formazioni garibaldine)
...tanti sono caduti
sul campo,
per un domani
migliore.
Per tutti.
Pietro
Reverdito
(“Pedrìn”),
Nasce a Mombaldone
nel 1927. Giovane
studente presso il
Liceo-Ginnasio acquese condivide con altri
coetanei la crescente
opposizione al fascismo e alla guerra.
Nel ’44 partecipa alla
formazione GL che
opera nella zona di
Ponzone. Dopo il
rastrellamento nazifascista dell’ottobre,
passa in Val Bormida
con la formazione
guidata da “Morgan”,
inquadrata nella 2a
Divisione autonoma
Langhe, con essa
partecipa a numerose
azioni.
Dopo la liberazione si
dedica all’impegno
educativo come maestro elementare, operando per 40 anni in
Val Bormida. Sposato
con Maria Argentina
Cavallero, papà di
Gianluigi, è grande
appasionato di sport,
calciatore e giocatore
di pallone elastico,
poi dirigente della
locale Polisportiva
Montechiaro. Si dedica alla vitivinicoltura
biologica insieme alla
famiglia.
Acqui Terme, aprile 2005: Convegno studentesco su “la memoria della resistenza:
incontro con i testimoni”, il maestro Pietro
Reverdito è al tavolo insieme a mons.
Giovanni Galliano e al prof. Mario
Mariscotti, con il preside Ferruccio Bianchi,
il sindaco Aureliano Galeazzo e il
prof.Vittorio Rapetti.
del km. 54 sulla statale n.30, ci imbattiamo nella prima colonna tedesca. Il
nostro Elio spiana il suo “bren” e una
secca raffica inchioda il primo automezzo. Ne scendono tre ufficiali
tedeschi vocianti e urlanti, che teniamo sotto il tiro delle nostre automatiche. Ma, per cose più grandi di noi,
potranno rimettersi in marcia. Sono
cinquemila armati, che vanno a intasare la nostra Acqui. Cosa succederà?9
23-24-25 aprile:
Da dove
escono tutti questi tedeschi?
Intervallata di poche ore una colonna segue l’altra. Quante armi! Le
avessimo avute noi... Per ore intere le
forze dell’armata tedesca e repubblichina di stanza in Liguria ci sfilano
davanti. Visi scarni, sorrisi spenti,
occhi infossati. Per una vittoria che
non sarà più. Ogni tanto passa un
gruppetto più chiassoso che, nel
vederci, ci lancia irriverenti epiteti.
Sono le “ausiliarie”. “Tu, bionda, quella
bomba a mano...”. Non se ne dà per
inteso: vorrebbe lanciarla contro di
noi. Qualcuno, con le
maniere forti, la dissuade. Fa più schifo che
pena. Ma anche pena.
26-27 aprile:
Ho tempo di
rimanere con gli amici, i parenti, i
conoscenti. Mi piace sentir parlare
tutti: da tempo non provavo tanta
tenerezza. Sono tutti per strada o
raccolti sulla piazza del paese. Anche
coloro che erano al di là della barricata cominciano a uscire di casa. Chi
in modo timido, chi con la boria di
prima. Non sarebbe il caso. Ma noi
siamo diversi da loro: vogliamo essere migliori. “Ludovico” e “Piana”,
“Pantera” e “Sole”, il nostro “Dario”
e tanti altri sono caduti sul campo di
battaglia, per un domani migliore. Per
tutti.
28 aprile:
Finalmente ti rivedo,
Acqui. E gli occhi si fanno subito più
lucidi. Non sono tra i tuoi “liberatori” e me ne dispiace. Più titoli e meriti li vantano “Mancini” e i suoi ragazzi.Tu, Acqui, mi sei debitrice di alcuni
sogni della mia prima giovinezza,
smarriti tra i flutti di un mare in tempesta.
9 La Val Bormida e la statale Savona-Acqui-Alessandria era un passaggio particolarmente strategico tra
Liguria e pianura padana: nella prima fase (’43-’44) considerato essenziale per i rifornimenti verso la Liguria,
ove si temeva uno sbarco alleato; nell’ultima fase per il deflusso delle truppe nazifasciste dalla costa verso le
aree interne dove era previsto l’ultimo concentramento di forze. Le colonne cui si riferisce la testimonianza transiteranno senza scontri per la valle e per la città di Acqui in base all’accordo con i comandanti partigiani. Subiranno solo un mitragliamento non concordato da un caccia brasiliano lungo la strada tra Acqui e
Strevi. Le truppe tedesche si arrenderanno ad Alessandria e quelle repubblichine a Valenza.
176
recensionirecensioni
DAVIDE LAJOLO,
Quadrati di fatica.
Poesie (1936-1984),
Diffusione Immagine
Ed.,Asti, 2005
“Non sono poeta, Pier Paolo, / non ho timbro
per il ritmo, / anche se tu mi insegnavi / i tuoi
versi, / sempre sicuro e ferito / dalle tue parole scritte”. Così Davide Lajolo nel suo Dialogo
con Pier Paolo morto, una lirica a due voci che
fa parte della settima parte (Lettere agli amici)
della raccolta postuma delle sue poesie inedite testé pubblicata a cura dell’Associazione
culturale “Davide Lajolo onlus” di Vinchio.
Pier Paolo è, ovviamente, Pasolini, forse uno
degli interlocutori privilegiati di Lajolo, che
vedeva in lui, nel poeta “ricco di intelligenza, di
furore / e di strazi”, l’“alfiere dell’età del pane
come oro”, una scomoda voce profetica. Ebbene,
secondo noi vi sono due modi d’intendere i versi
summenzionati: si potrebbe, infatti, pensare a un
vezzo retorico, a una professione di modestia mutuata dai poeti crepuscolari del primo Novecento, ma, più
probabilmente, Lajolo vuole qui rimarcare la distanza
che separa la sua poesia da quella, appunto,“profetica” del
cantore della religione del nostro tempo e delle ceneri di
Gramsci. Perché Pasolini è un erede dei poeti-vati chiamati
dalle Muse “ad evocar gli eroi”, a interpretare la storia per
additare ai suoi contemporanei la retta via da seguire verso
“magnifiche sorti e progressive”. E non importa che, il più delle
volte, la voce profetica del poeta che grida nel deserto rimanga
inascoltata; anzi, per certi versi proprio questo – di essere incompreso o inascoltato – è il destino normale dei profeti. Il loro
“grido” è scandaloso e per questo ha di solito “sapor di forte agrume”. Ora, il “grido”, la forza provocatoria di una poesia che denuncia pubblicamente le magagne della società e “le più alte cime più
percuote”, non sono da tutti e richiedono un armamentario retorico particolarmente agguerrito, una impostazione vocale non
comune. Lajolo sente di non avere frecce del genere nel suo turcasso: altri, del resto, sono i suoi modelli.
Per dimostrarlo, partiremo, allora, proprio dalla sezione delle
Lettere agli amici, aperta, non a caso, da una poesia dedicata a
Ungaretti, il quale con “voce roca” e “calda di fiato” gli sussurra all’orecchio: “Porto sulle spalle / i miei versi / - strano bagaglio - / di una vita / schiarita di luce / subito sepol-
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recensionirecensionirecensionirecensioni
ta / dalle ombre”. E non sai dire se, a questo punto, si tratti di una citazione o di una invenzione: se, cioè, i versi in questione siano di Ungaretti
o di Lajolo. Ma non ha importanza: quel che conta è notare che dal poeta
dell’ Allegria l’autore di Poesia come pane (e di queste liriche che abbracciano – pressappoco – l’arco temporale di un’intera esistenza) deriva gran
parte della sua tecnica versificatoria, l’essenzialità espressiva, i versicoli
scarni e nervosi, l’incisività delle metafore, la volontà di “torcere il collo
all’eloquenza” (giusta la raccomandazione di Verlaine), anche se proprio in
queste Lettere agli amici, dove la sintassi stessa si fa talora più articolata, il
tono più alto, il discorso acquista respiro e si anima di una inconsueta
sostenutezza oratoria.Tanto che non vanno certo ricercate qui le prove
più persuasive e riuscite del nostro poeta, per quanto nel suo sforzo o
nella sua ansia di rendere per verba le qualità espressive, plastiche e pittoriche, degli amici artisti egli pervenga talora ad esiti di notevole efficacia.
Come per Ungaretti, anche per Lajolo la poesia è anzitutto espressione
immediata di stati d’animo, “allegria di naufragi”, “grumo di sogni” e voce
degli affetti. E come al poeta di Alessandria d’Egitto, così al giovane intellettuale contadino di Vinchio è la guerra a rivelarsi decisiva - prova del
fuoco, battesimale – per l’ispirazione poetica. In questo caso è la guerra
civile spagnola, prima ancora dell’esperienza balcanica, a forgiare l’uomo e
il poeta Davide Lajolo, a fargli toccare con mano la differenza tra le mistiche aberrazioni della retorica fascista e la traumatica, degradante realtà
delle trincee, dove egli si ritrova, ungarettianamente,“Buttato a terra / nel
fango / tra gli sterpi della strada”, tra compagni massacrati, “sotto l’immenso tempio del cielo / dove si sono spente le stelle”. L’urgenza espressiva, la tensione vitalistica, l’orrore della violenza (rimarcata anche qui dalla
scansione degli aggettivi-participi, dall’evidenza data ai particolari più sconvolgenti) sono gli stessi che drammaticamente innervano la prima lirica
ungarettiana. Magari sfrondati dell’ansia di assoluto e del sostrato orfico
che caratterizzano Il porto sepolto. E con in più una singolare capacità di far
parlare le cose, di renderle per così dire eloquenti nel loro strazio espressionistico: dagli ulivi che “gemono / stracciati / dalle pallottole esplosive” al
“tronco / scortecciato”, dalla terra “squarciata” di un cimitero all’ “autocarro sventrato”, dal “balocco portafortuna” che “dondola ridendo / nella
bocca sgangherata” ai pali del telefono divelti (“alberi senza radici”). Forse
qui, in queste dolenti immagini di cose violentate, in cui l’uomo può rispecchiare (e riconoscere) ad un tempo tutta la sua follia e la sua stessa precarietà, la sua “creaturalità”, sta forse il tratto più originale di queste prime
liriche di Lajolo, che, per il resto, al suo modello deve pure l’afflato nostalgico, con la struggente sovrapposizione del paesaggio monferrino a quello
che ha sotto gli occhi (“Le onde s’increspano: / disegnano filari di viti potate / nella mia terra”) o l’evocazione affettuosa dei volti amati (la moglie, la
figlia). Inganni consolatori della memoria, pietosi escamotages dell’immaginazione. La stessa memoria, però, rivela la sua ambigua natura di “farmaco” quando, al ritorno dal fronte, avvelena al poeta la gioia degli affetti
ritrovati: “Anche il sole porta nel tramonto / il tuo sangue – compagno
caduto - // Nella notte la luna ha il tuo volto / illuminato di pallore”.
Dopo l’8 settembre Lajolo, ritornato a Vinchio, matura pian piano la tormentata decisione di “voltare gabbana”:“Strappate le spalline / incomincia
l’esilio / tra l’angoscia sorda / delle case. // Paura e rimorso / pungono gli
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recensionirecensionirecensionirecensioni
occhi / come punte di spilli”. È un periodo di esilio, di solitudine, di macerazione e di attesa, in cui, al solito, il poeta – che porta dentro “gelata retorica / di morte” - ricorre alla natura per attingervi le cifre veraci della sua
interiorità. Si veda, ad esempio, questo splendido campione (Un fossile):“La
pioggia insiste / in agonia di parole / che non ascolto. // Batte sulle foglie /
secche. // Il cuore è un fossile / che mi porto dentro / come memoria”. Il
dettato sembra ulteriormente scarnirsi, scavando in se stesso con furore
allitterante, quasi per inseguire “l’armonia” (altra spia ungarettiana) che il
poeta sente sfuggirgli. Ma dal silenzio e dal ripensamento delle vicende vissute viene infine la risposta alle sue perplessità, al rodìo interiore che lo
assillava rendendolo “irato e scontroso” (“Riemergono i volti / dei morti
compagni: / sì, con loro ho creduto / ubbidito / combattuto. // Lui ci misurava dai garretti / il prete ci benediva / il re ci mandava [a] morire:
Savoia!”). Ed è significativo che la resipiscenza passi attraverso un tacito
confronto con l’immagine paterna, anzi attraverso un intimo rispecchiamento nel “padre / contadino”, sul collo del quale “la pelle / ha fatto quadrati / di fatica” (di qui viene appunto il titolo della raccolta). Come se,
approfondendo nella figura del genitore la sua lettura della realtà, il poeta
vi trovasse la forza e il coraggio della verità, il legame che lo unisce davvero alla “patria” contadina. È così che nel dolore portato e sopportato
“con accanita serenità” (“perché la sofferenza / edifica dentro / l’uomo”)
egli scopre la sua vera identità, prima irretita e mistificata dagli idòla fori e
dagli idòla theatri del regime. Quindi nasce la decisione di arruolarsi tra i
partigiani, di cui Ulisse (sarà il suo nome di battaglia) diventerà uno dei
comandanti. E rinasce, di conseguenza, la voglia di cantare, nonostante “la
sventura”,“per la letizia / di domani”.
Il poeta partigiano muta pelle, come le bisce, e cambia dunque anche la
natura del suo canto:“Non più mughetti / non più la tenera poesia / dell’infinito. / Ora mi richiama il grido / della gazza ladra / abitatrice predona
/ di questi boschi. // Ora ho in gola l’urlo della vita, / braccato dalla morte.
/ Ora so perché porto il fucile”. L’acquisita consapevolezza induce il poeta
a uscire dal suo isolamento e ad assumere – sul modello quasimodiano –
una veste meno individualistica e un tono meno concentrato. La sua lirica
si fa più espansiva e dialogica, percorsa da una ventata di shelleyana vitalità, nella certezza di una primavera che non potrà più essere lontana. Così
c’è più spazio per i sentimenti, per gli affetti familiari, per una nuova “tenerezza” che per esprimersi appieno ha talora bisogno di attingere a paradigmi mitici, a “fiabe lontane”. Nello stesso tempo, quasi a bilanciare il
richiamo tra sensuale e sentimentale del penchant privato, si fanno sentire le esigenze dell’uomo pubblico che “mastica politica e utopia”, dell’uomo di partito affascinato dall’imponenza della rivoluzione cinese, ma anche
preoccupato della svolta autoritaria che il suo stesso partito sembra ad
un certo punto assecondare, soffocando ogni libertà di dibattito.Vengono
poi gli anni dello sconcerto,“tempi / di spari isolati / e ragazzi abbandonati nel sangue / sui marciapiedi della metropoli”,“mentre la viltà è l’edera /
che si aggrappa ai nuovi palazzi, / dormitori orrendi / abusivi e malfermi, /
dove l’uomo intristisce / senza poesia / e senza passione”. Sono i cosiddetti “anni di piombo”, anni di “atroci dubbi su tutto”, ma il poeta e il politico Davide Lajolo ed altri come lui, nel nome dei martiri crocifissi “ai pali
del telegrafo”, non crede all’utilità o all’opportunità di rinnegare la sua
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recensionirecensionirecensionirecensioni
militanza e seguita ad “attendere che fioriscano i lillà / e sul verde spunti il
rosso / dei rododendri”. E, a dire il vero, dal nostro punto di vista, non è
questa fedeltà a disturbare, perché il poeta non coltiva certo “il mito dell’infallibilità” e nella sua ostinata fede (che si declina anche in devozione
fraterna agli amici scrittori, agli uomini di cultura da lui amati e frequentati) non ha nulla da spartire con gli “assassini della ideologia”. Se mai, a disturbare è altro: è l’adesione a versioni di parte (come l’attribuzione ai
fascisti dell’uccisione del fratello di Pier Paolo Pasolini) o a ricostruzioni di
comodo della verità (quale nell’uccisione a più mani, complottarda, dello
stesso Pier Paolo), non suffragate da prove o addirittura contro l’evidenza
delle prove raccolte. Qui si ravvisa l’eco di una ideologia dura a morire,
che si ergeva, nella sua presunzione, a sfidare (e rimuoverere) la repulsiva
caparbietà dei fatti.
Non è questo, d’altronde, il Lajolo che preferiamo, cioè il poeta dall’anima
contadina che continua fino all’ultimo a dire sì alla vita, a vagheggiare “il
ritorno / nel verde selvaggio dei boschi / nelle distese di vigne sulle colline” o “il tempo delle more / della strada di San Michele, / dei bossoli di
seta / che si facevano farfalle / quando – bambino - / dormiva / coi bachi
sulle stadere”, quello che, tornato a casa dopo la morte della moglie, scopre che “gli oggetti / non hanno dimenticato / lo scorrere della sua mano
/ il palpito delle sue dita”. Dopo gli esordi ungarettiani, sono questi versi,
dove fermenta una montaliana “resistenza” (la stessa della “fragile piantina” donatagli – par di capire – dalla figlia e quindi “disseccata / tra le carte
/ nell’aula dei discorsi / di Montecitorio”) all’edacità del tempo, al rovinoso consumarsi delle cose, all’entropia senza rimedio se non il fragile paravento della memoria tenace, del cuore affettuoso; sono questi – dicevamo
– i versi che più ci persuadono. Insieme – s’intende – alla discrezione davvero esemplare dei disegni di Eugenio Guglielminetti che li corredano.
CARLO PROSPERI
180
recensionirecensionirecensionirecensioni
GIANNI REPETTO,
Il vecchio della Fuìa,
Ovada 2004.
È il romanzo del ritorno, questo: tant’è vero che
viene spontaneo identificare nel protagonista –
semplicemente indicato con G. – lo stesso
autore, reduce da anni di esilio in altre regioni dove la sua professione d’insegnante lo ha
portato; ma, a ben guardare, il tema del ritorno è solo l’occasione estrinseca, se vogliamo
il pretesto, su cui s’innerva un racconto d’altra natura, fatto di varie storie, di “fóre”, di
affabulazioni imbastite ad arte non solo per
difendersi dal fascino del mirum e dal tremendum misterium di cui il sacro è portatore, sì
anche per “ridisegnare l’etica del mondo”. È dunque, in primo luogo, un ritorno alle origini mitiche, alle ragioni primigenie della narrazione e, sotto
questo aspetto, anche un vichiano ritorno all’infanzia, alle radici personali e popolari che giustificano sì
nobile assunto. Di qui la necessità di individuare anzitutto il depositario della memoria collettiva, la Musa ispiratrice, figlia appunto di Mnemosyne, la dea della memoria, per impetrarne l’investitura ufficiale a “cantore” e insieme l’autorizzazione a dare – come Adamo - un nome alle
cose,“ri-significando” in tal modo il mondo.
L’assunto – come si vede – è nobile e nello stesso tempo ambizioso. Ma la vocazione viene da lontano, come, del resto, i
modelli. Il trisnonno di G. era uno straordinario affabulatore, che
andava “a contare le fóre” di cascina in cascina e il padre stesso
“aveva elaborato un suo stile narrativo che non aveva niente da
invidiare al migliore neorealismo”. Da lui G. avrebbe voluto apprendere “il segreto del saper raccontare”. Il lievito dello stupore infantile fa il resto, al punto che la realtà non raccontata sembra meno
vera (e meno bella) agli occhi del protagonista. Ebbene, per meritare il privilegio di diventare a sua volta affabulatore, G. deve
affrontare un lungo e faticoso viaggio iniziatico, una sorta di
ascensione, che è anche un’immersione nella natura.A guidarlo
sono gli spiriti dei suoi antenati. Il figliol prodigo si lascia subito
avvincere dal piacere estetico che gli viene dal contatto diretto con l’antica madre, dalla contemplazione dei “suoi”
boschi, dalla “sovrumana bellezza” dei luoghi e dei paesaggi: è l’armonia del sensibile a conquistarlo, a ridestare in
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recensionirecensionirecensionirecensioni
lui “il senso del magico e del sacro” che resiste tenace soprattutto tra
coloro che devono lottare per sopravvivere, tra quegli eroici contadini – gli “ultimi dei becélli” – che ancora si ispirano “all’etica del lavoro”, mentre ormai tutt’intorno trionfa “l’etica del divertimento” e
nuovi barbari, reciso ogni legame con la tradizione, invadono e deturpano senza pietà il territorio, compromettendone gli antichi equilibri.
G. si ribella alla “maledetta voglia” dell’uomo, maldestro apprenti sorcier,“di fare meglio di Dio”, e avverte il bisogno di disincrostarsi degli
effetti (perversi) della cultura dell’umanizzazione. Per questo il suo
viaggio verso la Fuìa si può pure leggere come una sorta di rigenerazione, come un processo cioè che passa attraverso una morte rituale
e la successiva rinascita. Lungo la via lo sorprende infatti un violento
temporale che lo sfinisce e lo porta alle soglie dell’incoscienza e dell’abbandono. Sarà poi la vista provvidenziale di un tetto rosso di tegole, in lontananza, a ridargli energie bastanti a rianimarlo: il resto lo farà
l’ospitalità premurosa di Francesco e di Teresa.
Francesco è anche la musa (e insieme l’autorità esemplare, il custode
della tradizione) di cui G. andava inconsciamente in cerca. Da lui riceve – novello Mosé – le tavole della nuova (o antica?) legge che, raccontando, dovrà trasmettere agli altri uomini. Non è un caso che l’incontro tra lui e Francesco avvenga sulla montagna, in una notte di fulmini e di tuoni. La notte si consuma davanti al fuoco in racconti e
rievocazioni che costituiscono una sorta di epos degli erga (opere) e
delle hemerai (giorni), ma anche dell’immaginario contadino (e popolare), con le sue storie di spiriti e di “masche” che sanciscono in qualche modo la contiguità tra naturale e sovrannaturale e attestano l’irruzione devastante del numinoso nella quotidianità più umile e più
trita. Il racconto è anche un mezzo per difendersene, per esorcizzarne la paura. O per ricondurre a mitici archetipi episodi e scoppi di
efferata crudeltà altrimenti inspiegabili. Sfilano, dunque, nelle pagine del
romanzo, che sempre più si definisce come un contenitore di racconti, figure indimenticabili di narratori, macchiette paesane, personaggi
svirgoli e stravaganti che ci riportano al tempo (mitico) dei carrettieri, dei minatori, dei cercatori di funghi, dei giocatori di morra, degli eremiti, dei mediconi, dei partigiani. Un mondo che sembrava dissolto, una
civiltà mortalmente tentata dalle sirene urbane della fabbrica, del
(falso) benessere consumistico, del “progresso”, tornano così a rivivere e ci ripropongono, in forma appunto di apologo e di racconto, un
modello alternativo di vita che può sembrare (e per certi aspetti è)
fortemente inattuale, ma è l’unico che, con la sua naturale religiosità,
con il suo senso della misura, può farci ritrovare un rapporto più sereno con noi stessi e con la natura, salvandoci dalla deriva del nichilismo
non meno che dai rischi dell’alienazione. Che sono poi i frutti proibiti dell’albero della scienza (e della tecnologia), il naturale portato della
hybris umana.
Questo però non vuol dire che Repetto abbia una visione idillica e
idealizzata del mondo contadino; no, egli è ben consapevole degli inenarrabili sacrifici compiuti giorno dopo giorno per generazioni dai
nostri avi semplicemente per sopravvivere, ma in quella parola,“sacrifici”, c’è un senso che basta a spiegarli, a giustificarli. Sacrificio vuol dire
182
recensionirecensionirecensionirecensioni
“compiere un’azione sacra”, nel tentativo di adeguarsi a una realtà superiore, che ci comprende e ci giustifica. Non a caso, egli sostiene la necessità di “dimenticare di essere un uomo”, per assecondare armoniosamente il
destino. Un amor fati, questo, che è l’essenza stessa del mondo contadino:
un mondo che non ha mai pensato di sovrapporsi alla natura e non ha mai
aspirato ad imporsi ad essa. Della natura, se mai, il contadino ha tutt’al più
cercato il governo, tanto che ci sono nel libro varie pagine dedicate, appunto, al governo del fuoco, delle bestie, del bosco, dei fiumi, della montagna:
dove “governo” sta per cura e “governare” vuol dire prendersi cura. Il contadino si sente legato alla terra in un rapporto di odio-amore, di collaborazione e di sfida che si può riassumere in un’espressione emblematica:
“culto del lavoro”. E se lavorare stanca – come ben sapeva Pavese -, nondimeno è dal lavoro che nascono le grandi cose. L’ozio è visto come un peccato, come un tradimento, e la natura non dimentica i tradimenti: prima o
poi si vendica. Mentre soltanto con una cura assidua e fedele si può sperare di domarla. È questa, in sintesi, la morale, anzi la sapienza (in contrapposizione alla scienza strumentale dell’homo faber) di cui Repetto intende farsi
portavoce. E il suo è senz’altro un messaggio coraggioso e controcorrente, che per certi versi si può condividere; un po’ meno quando, capovolgendo il progetto leopardiano di una società a misura d’uomo, presume o
pretende di azzerare la centralità dell’uomo in una devozione assoluta alla
natura che farebbe tabula rasa di ogni criterio etico ed estetico. Perché se
la natura è bella, tale è agli occhi dell’uomo; e se c’è un discrimine tra bene
e male, chi, se non l’uomo, può riconoscerlo? Un assoluto naturale – per
dirla con Hegel – sarebbe come la notte in cui tutte le vacche sono grigie.
Messaggio a parte, tuttavia, il romanzo - che è sostanzialmente un
Bildungsroman - ha delle pagine molto belle, che trascorrono senza sforzo
dall’epico al lirico, dal racconto mimetico, ricco di deittici e di frasi idiomatiche, alla descrizione del paesaggio (con spunti di sublime dinamico veramente superbi), all’evocazione – tra mitica e fiabesca – di luoghi e di figure
che sono in qualche modo consustanziali all’immaginario dell’autore ed
hanno quindi risonanze favolose, quasi venissero da un “altro” tempo o da
un “altro” mondo. Sortilegi dell’infanzia. E se talora l’unità sembra difettare,
come se lo scrittore faticasse a tenere insieme una sì eterogenea messe di
argomenti, a garantirla provvede il Leit-motiv della pioggia, che in un’incredibile serie di variazioni, alla stregua di una ininterrotta sinfonia, accompagna
da cima a fondo il racconto. È ad un tempo pioggia fecondatrice, liquido
amniotico e vitale, e acqua lustrale, lavacro battesimale che favorisce e sanziona la rigenerazione spirituale del protagonista, chiamato – ora che ha
finalmente trovato il “baricentro” necessario alla sua vita, anzi l’agognata
“misura che gli facesse cogliere fino in fondo il significato della sua identità” - a riconsacrare il mondo e a diffondere la buona novella.
Quanto ai modelli letterari, si potrebbero azzardare i nomi di London e di
Sgorlon, quello almeno de Il trono di legno, ma senza dimenticare i classici
greci, la narrativa verista e neorealista nostrana. E in filigrana, sullo sfondo,
la misura epica di taluni romanzi di Melville e di Conrad, declinata però in
chiave strapaesana, come, del resto, testimonia l’impasto linguistico, pregno
di succhi vernacolari e denso di colore locale.
CARLO PROSPERI
183
appuntidiviaggioappuntidi
UN’ESTATE D’ARTE
È stata un’estate davvero
eccezionale per l’arte nel
territorio dell’acquese.
Già da un po’ di tempo
siamo abituati ad esposizioni di qualità nella nostra
zona, ma questa volta si è
trattato di ben tre mostre,
tutte apprezzate dalla critica, oltre che da un gran
numero di visitatori, svoltesi all’incirca nello stesso
periodo (tra metà luglio e
l’inizio di settembre), e
tutte nel raggio di una ventina di chilometri: quale
migliore occasione, dunque, per passare una giornata visitando tranquilli
paesini, passeggiando per i
loro centri storici, lungo
un itinerario tra dolci colline, e godendo anche di
“tappe artistiche”?
Iniziamo quindi il nostro
itinerario, che si snoderà
tra Acqui, Ponzone e
Cavatore, in ordine cronologico per quanto riguarda
gli artisti celebrati.
Si parte da un appuntamento ormai tradizionale,
una garanzia dell’estate
acquese, l’antologica allestita dalla Galleria Bottega
d’Arte Repetto e Massucco nelle sale del Liceo
Saracco. Curata anche
quest’anno da Vittorio
Sgarbi, ormai abitueè di
questa zona, riguardava
Aroldo Bonzagni (Cento/Ferrara 1887 – 1918
Milano), uno dei protagonisti dell’arte italiana di inizio ‘900. La mostra ha pre-
184
sentato sessanta opere e
venticinque cartoline e
illustrazioni a colori dell’autore. Le opere, dipinti
ad olio su tela e cartone,
tempere, acquarelli e tecniche miste, sono state
prestate dalla Galleria
d’arte moderna Aroldo
Bonzagni di Cento, dalla
Fondazione Cassa di
Risparmio di Bologna, dal
Museo d’Arte Moderna e
Contemporanea «Filippo
De Pisis» di Ferrara.
Bonzagni studiò all’Accademia di Brera, insieme
a Carlo Carrà,Achille Funi,
Aldo Carpi, Leonardo
Dudreville, Anselmo Bucci
e Carlo Erba. Amico di
Boccioni, firmò la prima
edizione del “Manifesto dei
pittori futuristi” (1910),
per poi allontanarsene.
Dipinse scene di vita e del
costume del suo tempo,
interpretati con spiccato
sentimento satirico, ma
alla sua attività di pittore
affiancò anche quella di
disegnatore e illustratore
(cartelloni pubblicitari, illustrazioni di libri, figurini di
moda, caricature di taglio
politico) per “L’Avanti della Domenica” e le riviste
più note dell’epoca, realizzando tavole e vignette di
feroce satira politica.
Tra le opere esposte ad
Acqui, segnaliamo in particolare la Danzatrice, i
diversi Trattenimenti di
Molinari, Il tram di Monza e
la Macchina da corsa, oltre
al delicato Aroldo Ginetta e
Popi.
Nel suo saggio introduttivo al catalogo, Sgarbi lo
definisce significativamente
“Il Toulouse Lautrec italiano” e ne sottolinea la particolare dimensione drammatica, che iniziò con una
visione disincantata della
belle époque, per giungere
poi ad una visione tragica
della vita.
Colpito dall’epidemia di
febbre spagnola, il 30
dicembre 1918 Bonzagni si
spegne a Milano, a soli 31
anni, proprio mentre sta
preparando una sua importante mostra personale. La mostra viene ugualmente allestita l’anno dopo da Vittorio Pica e si
tiene alla Galleria Pesaro
di Milano. Lo stesso anno
viene inaugurato al Cimitero Monumentale di Milano il monumento in omaggio a Bonzagni realizzato
nel marmo dallo scultore
Adolfo Wildt, grazie ad una
appuntidiviaggioappuntidi
sottoscrizione effettuata
fra gli amici artisti, primo
sottoscrittore Arturo Toscanini. Nel 1923 si tenne
una sua importante mostra voluta dal Comune di
Milano nella Stanza degli
Assi del Castello Sforzesco. Ma l’opera più importante per l’artista venne
realizzata dalla sorella Elva
nel 1959 quando a Cento
fondò La Galleria d’Arte
Moderna a lui dedicata,
grazie alle prestigiose opere del fratello e di altri
artisti a lui legati, che ella
raccolse per la città natale
dell’artista.
Durante la sua “estate
acquese”, Vittorio Sgarbi
ha visitato (pur mentre
l’allestimento era ancora
“in progress”) anche un’altra notevole antologica, la
seconda del nostro itinerario, in Casa Gatti a
Ponzone. Dedicata ad
Alessandro Viazzi (Alessandria 1873 - Genova
1956), alessandrino di
nascita ma ponzonese di
adozione, ed eloquentemente sottotitolata “Le
radici”, questa esposizione è stata importante
soprattutto in quanto
espressione della volontà
della comunità e dell’amministrazione di voler
attribuire un giusto riconoscimento ad un artista
forse non abbastanza conosciuto.
Attraversando le quattro
sale dedicate all’esposizione si nota subito, quasi con
stupore, l’impegno profuso
dall’amministrazione comunale di Ponzone, con la
collaborazione dell’Associazione Diomira di
Montechiaro d’Acqui per
l’allestimento, e di Debora
Colombo per la cura del
catalogo, nel voler organizzare un evento di grande interesse: non ci si
aspettava davvero un’esposizione di una così
vasta e varia produzione
artistica, come ammesso
dai numerosi visitatori e
dallo stesso Sgarbi.
L’esposizione, comprendente 84 opere tutte provenienti da prestatori privati, inizia con una sala di
ritratti di famiglia, in cui
spiccano i tanti dedicati
all’adorata moglie Adalgisa,
contornati da cavalletti e
strumenti originali del pittore, oltre che teche con
schizzi giovanili e riviste
illustrate dall’autore, gentilmente prestati dai suoi
eredi tuttora residenti tra
Genova e Ponzone. Si prosegue con un settore dedicato alla grafica: manifesti
autografi, commissionati
dall’Unione Agraria o da
ditte private (notevole
quello della Fiera equina di
Alessandria, con in primo
piano uno dei famosi cavalli dell’artista), e numerosi
disegni d’accademia.
Viazzi infatti non era, come
si può pensare, un “pittore
di provincia”: aveva frequentato con profitto
l’Accademia Albertina, perfezionandosi all’Accademia
di Brera ed all’Istituto di
Belle Arti di Firenze, diventando amico di artisti del
calibro di Pellizza da
Volpedo e Morbelli - di cui
sono state esposte due
cartoline autografe -, e di
Gaetano Previati, uno dei
teorizzatori del Divisionismo, con cui intratteneva
una fitta corrispondenza
(una lettera di Previati è
stata esposta in mostra).
Le sue opere sono state
molto apprezzate anche
quando era ancora in vita,
185
appuntidiviaggioappuntidi
in numerose esposizioni
sia a Genova che a Milano.
Viazzi ha poi realizzato
diverse opere di soggetto
sacro, spesso in luoghi a
noi vicini: la pala d’altare
nella Parrocchiale di Pietra
Marazzi, raffigurante la
Vergine con ai piedi S. Alessandro e S. Boniforte (qui
esposta, insieme ad altre
opere di soggetto sacro),
gli affreschi per la chiesa di
Mombaruzzo, gli affreschi
della cupola del Duomo di
Ovada (1899), la decorazione interna della parrocchia di Caldasio, le pitture
che decorano le pareti
laterali del coro della chiesa parrocchiale di Lussito e
rappresentanti il Transito di
San Giuseppe e l’Apparizione del Sacro Cuore alla
Beata Margherita Alacoque
(1904), e la facciata dalla
stessa chiesa, rappresentante la Vergine in trono.
L’esposizione si conclude
con un ricco repertorio di
dipinti di paesaggi e vedute
che molti visitatori avranno riconosciuto: Alessandria e il Tanaro, Cremolino
con la Bruceta, e tanti
scorci di Ponzone, sia del
paese che della campagna
circostante.
Il nostro itinerario si conclude infine a Cavatore, a
Casa Felicita, con l’ultima
antologica, quella di Francesco Tabusso (Sesto
San Giovanni), con le sue
“favole”.
Dopo esposizioni come
Armando Donna, Mario
Calandri e Giacomo Sof-
186
fiantino, Cavatore ha riproposto un importante
evento culturale rendendo
omaggio ad uno dei maggiori artisti italiani del
Novecento.
La mostra, allestita, come
detto, nella suggestiva
Casa Felicita, nel centro
del borgo, non a caso è
stata intitolata “Fiabe a
colori”: ha infatti raccolto, accanto a incisioni e
acquarelli, i fogli più belli
disegnati dal maestro negli
ultimi anni, alcuni ispirati
ad Andersen e alle leggende di fate e masche della
sua terra, il Piemonte.
Tabusso da anni racconta il
mondo contadino dei campi e delle cascine, il rincorrersi delle stagioni, non
perdendo mai la sintonia
con quella natura che spesso è il suo motivo conduttore.
In alcune opere come
Zucca gialla, Il pittore e la
modella, Odalisca, primeggiano colori come il bianco, il giallo, il rosso, quasi
volessero rappresentare
l’anima stessa dell’immagine in un idea di movimento elegante e sinuoso.
In ogni schizzo traspira
l’attenzione posta anche al
più insignificante cambiamento esterno, al trasuda-
re della terra, al volo libero degli uccelli che popolano il bosco, ai colori dei
frutti, delle foglie, degli
alberi.
Di qui nascono litografie
come Autunno, o incisioni
come Inverno, Primavera,
Estate, in cui si colgono la
poesia e la morbidezza
delle stagioni.
Allo stesso modo apprezza il variopinto mondo dei
circhi da cui nascono allegri capolavori come Tiro a
segno e Il Circo, o mestieri
quasi scomparsi come i
caldarrostai che, immortalati in una invernale xilografia, sembrano vogliano
riscaldare con il rosso della fiamma che arde sotto il
pentolone anche colui che
ammira l’opera .
Descritto dagli amici più
cari come un artista sregolato, burlone e raffinato, capace di immortalare un
mondo in festa con un
segno, Francesco Tabusso è
oggi pittore affermato, apprezzato nelle più prestigiose rassegne internazionali.
VALENTINA ISOLA
ELISA PIZZALA
brevibrevibrevibrevibrevi
Corisettembre
2005
Si è svolta nei giorni 16, 17 e
18 settembre, ad Acqui, la
XXIX edizione di Corisettembre, alla quale – con le
voci acquesi – hanno preso
parte i cori “Le Chardon” di
Torino, “Gli amici della montagna” di Varese, i cantori dell’
“Hirondelles” di Aosta, il coro
polifonico “Gaffurio” di Ostia.
Nell’ambito della manifestazione anche i festeggiamenti
del quarantennale della Corale “Città di Acqui Terme”,
organizzatrice dell’evento musicale.
conferenza tenuta da Gianluigi Mattietti (Università di
Cagliari), e hanno avuto per
protagonisti: Roberto Prosseda (pianoforte), il Duo
Alterno, formato dal soprano
Tiziana Scandaletti, e dal pianista Riccardo Piacentini, e
infine il duo di Claudio Merlo
(violoncello) e Roberto Beltrami (pianoforte).
La festa di ITER
Teatro
Garibaldi:
de profundis
Festival di
musica
contemporanea
C’era anche il compositore
ottantenne Aldo Clementi
alle due giornate musicali in
suo onore allestite l’otto e il
nove ottobre nell’ambito del
Festival “Omaggio a ...”.
Quattro gli appuntamenti
musicali dedicati al repertorio
contemporaneo, suddivisi tra
Biblioteca Civica e Aula
dell’Università. I concerti sono stati introdotti da una
rivista – è così finita nel peggiore dei modi.
Sono ripresi, a fine settembre,
i lavori di demolizione del
Teatro “Garibaldi”,dopo il ritiro – da parte della direzione
regionale del Ministero per i
Beni Culturali – dell’avvio di
procedimento di vincolo.
A difendere il Garibaldi, durante l’estate, si erano levate insieme a quelle di molti
acquesi – anche le voci di Vittorio Sgarbi e del regista
acquese Beppe Navello.
La vicenda tormentata del
teatro acquese per eccellenza
– alla cui genesi e alle cui stagioni (sino agli anni Quaranta)
avevamo dedicato un congruo numero di pagine sul
passato numero della nostra
Anche l’assessore regionale
per la cultura Gianni Oliva
(per la prima volta ad Acqui
nelle vesti di amministratore)
e l’assessore provinciale Rita
Rossa hanno voluto prendere
parte, il 5 settembre, alla presentazione del secondo numero di “ITER”, allestita nel
chiostro di San Francesco.
Sul palco con Roberta Bragagnolo, autrice della tesi di laurea da cui il volume ha avuto
origine, il regista Beppe
Navello.
Il pomeriggio culturale – cui
hanno preso parte anche il
presidente di Alexala Gianfranco Ferraris e l’on. Lino
Rava per l’Ass. Alto Monferrato – si è poi concluso con
un brindisi presso l’Enoteca
Regionale di Acqui Terme.
187
brevibrevibrevibrevibrevi
Estate acquese
(e anticipazioni
per l’inverno)
Anche quest’anno, presso il
Teatro Aperto di Piazza
Conciliazione, una ricca estate di spettacoli. In palcoscenico la danza (con uno strepitoso Andrè de la Roche interprete di Don Chisciotte, ma
non sono mancate le proposte interessanti fornite dalle
tante compagnie italiane e
internazionali; ospite di una
serata anche Roberto Bolle),
la lirica (con La Traviata di
Giuseppe Verdi), il jazz (con
Jiggs Whigham e Andrea
Dulbecco, e una trascinante
Lillian Bouttè ), e le musiche
della tradizione locale.
Da segnalare, poi, la serata
con gli autori del dialetto
(accompagnati dalle musiche
de “Gli amis”, nel chiostro di
San Francesco) il 28 agosto, e
l’inaugurazione del Teatro
Romano, a ridosso della Bollente con Arlecchino/Ferruccio
Soleri il 17 agosto
A fine ottobre, invece, la presentazione ufficiale della stagione “Sipario d’Inverno” avrà
come ospite d’onore Gabriele Lavia, che proporrà una
scelta delle liriche e delle
prose di Giacomo Leopardi.
188
Grognardo e il
torrente Visone
L’allestimento di un’area
didattico-ecologica in Grognardo ha sollecitato l’Associazione “Vallate Visone e
Caramagna” a promuovere
un convegno dedicato al torrente Visone e al gambero di
fiume. La giornata di studi si è
svolta il 3 settembre presso “Il
Fontanino”. All’incontro hanno partecipato docenti universitari, esperti della Provincia e amministratori della
zona.
Conferenze e
presentazioni
Ricco il calendario di eventi.
In settembre ospiti della città
termale: Serena Zoli (autrice,
per Longanesi, de La generazione fortunata) e Daniela
Padoan (Le pazze. Un incontro
con le madri di Plaza de Majo,
saggio Bompiani) nell’ambito
di due incontri promossi dall’
“Acqui Storia”.
Da registrare, inoltre, le conferenze del ciclo “D’Autunno
alle Terme”, allestite per gli
ospiti presso la sala dello
Stabilimento “Regina” (relazioni di Gianni Rebora, Riccardo Brondolo, Carlo Prosperi) e gli appuntamenti della
Scuola di Alta Formazione
Filosofica tenutisi presso le
sale di Palazzo Robellini dal
12 al 14 ottobre (lezioni di
Domenico Venturelli, Roberto Gatti, Gerardo Cunico,
Francesco Ghia,Alberto Pirni,
Anna Czajka, Francesca Menegoni).
Purgatorio:
di nuovo
in viaggio
con Dante
Sono ripresi in data 10 ottobre gli appuntamenti del
lunedì con la Lectura Dantis,
in questa nuova stagione
dedicata alla seconda cantica.
Letture e musiche (quelle di
Silvia Caviglia, proposte dal
Duo “Le armonie di Ariel”,
con i cori curati da Annamaria Gheltrito, e il coordinamento dei commentatori a
cura di Carlo Prosperi) insieme per percorrere in ogni
serata la distanza di tre canti.
Inizio alle 21, con ingresso
libero.
Ai tre appuntamenti di ottobre: il 10 (canti I-III), il 17(canti
IV-VI), e il 24 (canti VII-IX),
seguiranno le date di novembre: il 7 (canti X-XII), il 14
(canti XIII-XV) e il 21 (canti
XVI-XVIII).
brevibrevibrevibrevibrevi
Malvicino, la
strage evitata e
un prete
partigiano
Si è tenuta domenica 21 agosto, a Malvicino, una giornata
di memoria e di studi a ricordo della strage scampata dal
paese nell’estate del 1944,
quando un rastrellamento
tedesco fece 42 ostaggi. Era la
rappresaglia che seguiva il
rapimento di tre tedeschi
della TODT da parte dei partigiani della zona. Gli eventi
successivi portarono poi
all’incendio di Santa Giulia,
roccaforte partigiana, alla
morte di Teresa Bracco e a
quella – mesi dopo – di Don
Italicus, il prete Virginio Icardi,
parroco di Squaneto, cui
Bruno Chiarlone ha dedicato
un contributo nel primo
numero di “ITER”.
allievi ( più di 120) delle scuole di Monesiglio, Monastero
Bormida, Bubbio, Dego,
Spigno Monferrato.
Erano presenti alla manifestazione i presidenti delle Comunità Montane “Suol d’Aleramo” e “Delle Valli”, rappresentanti delle associazioni
culturali GRIFL di Cairo,
“Visma” di Vesime, del parco
regionale ligure di Piana
Crixia, redattori del settimanale “L’Ancora”, di ITER,
responsabili editoriali della
casa editrice EIG, che ha
donato alle scuole alcuni
volumi del libro Tra Romanico
e Gotico.
torio medioevale, rinascimentale e barocco, nel pomeriggio, nel chiostro dell’ex convento, hanno avuto luogo le
prove del concorso.
Cassine:
Medioevo e
Rinascimento
Continua l’opera di recupero
a beneficio degli storici strumenti della Diocesi.
A Ponti il Mentasti 1884 Mola 1933, restaurato da
Italo Marzi, è stato inaugurato
il 27 settembre. Da registrare
gli innumerevoli concerti organistici tenutisi nei mesi estivi a Ricaldone, Melazzo,Terzo,
Trisobbio, Molare, Ovada,
Acqui (Oratorio di S.Antonio
Abate e Duomo).
Si è svolta, all’inizio di settembre, la tradizionale “Festa
Medioevale”, quest’anno dedicata ai cavalieri templari.
Domenica 9 ottobre, sempre
nei pressi del complesso
monumentale di San Francesco, ha avuto svolgimento
la V edizione del Festival di
Danza antica. Dopo le lezioni
dedicate nel mattino al reper-
L’estate degli
organi
Figure che
scompaiono
Merana, un
concorso per le
scuole
Venerdì 10 giugno, a Merana,
si è concluso, con una cerimonia di premiazione, il concorso riservato agli alunni
delle scuole dell’obbligo dal
titolo “Una foto, una storia”.
Alla festa hanno preso parte
Durante l’estate sono venute
meno alla città d’Acqui le
figure del prof. Luigi Merlo,
educatore e uomo di cultura,
caro a generazioni di allievi, e
quella del notaio Ernesto
Cassinelli, presidente della
Cantina dei Viticoltori dell’Acquese.
Entrambi ricoprirono la carica di sindaco del nostro municipio.
189
brevibrevibrevibrevibrevi
Feste in
biblioteca
Sabato 24 settembre, presso
la Biblioteca “La Fabbrica dei
Libri” di via Maggiorino Ferraris, si è tenuta la Festa dei
Lettori.
Nel programma del pomeriggio la presentazione del progetto “Nati per leggere”, una
anticipazione della Lectura
Dantis – Il Purgatorio, l’incontro con lo scrittore per
ragazzi Pier Domenico Baccalario, e poi il suggello del
brindisi finale.
Domenica 25, a Racconigi, ha
avuto svolgimento la Festa
regionale, animata dalle Biblioteche del Piemonte.
Promozione
del territorio
La Langa adottata dai francesi:
dopo gli eventi parigini del
novembre 2004, la promozione del territorio nell’area
transalpina ha vissuto due
ulteriori momenti di eccellenza nell’ambito del “Prix de la
Presse” (23 giugno, sempre
nella capitale: erano presenti
giornalisti di tutta europa) e
poi della manifestazione “Terres à vins, terres à livres”
organizzata ad inizio ottobre
( sabato 1 e domenica 2) nella
Valle della Loira.
Cavatore
e la pietra
La pietra di Cavatore alla
ribalta continentale nell’ambito del REPS (Rete Europea
Pietra a Secco).
A settembre un tavolo di lavoro nel piccolo centro colli-
190
nare ha riunito operatori del
settore e amministratori di
Francia, Grecia, Galles, Svezia,
Spagna e , ovviamente, Italia.
L’idea comune? Quella di partire dal patrimonio e dal contesto delle tipicità edilizie
locali per promuovere lo sviluppo economico, turistico e
culturale.
San Giorgio
Scarampi: una
piccola Atene in
collina
L’oratorio di Santa Maria fucina di musiche e di iniziative
culturali.Tra estate e autunno,
nei tradizionali appuntamenti
della domenica pomeriggio
recital pianistici, musiche folkloriche del Vietnam, repertori da camera, brani medioevali, che hanno accompagnato
mostre di artisti e iniziative di
riscoperta storica promosse
dalla Scarampi Foundation.
Gli appuntamenti proseguiranno anche nel mese di
dicembre.
Santo Stefano
Belbo per
Pavese
Nel pomeriggio di domenica
25 settembre, presso la casa
natale dello scrittore, si è
svolta la cerimonia di premiazione della XVI edizione del
concorso di pittura “Luoghi,
personaggi e miti pavesiani”.
Alla manifestazione hanno
partecipato 83 artisti italiani e
stranieri.
Nel corso delle manifestazione il Maestro Piero Ruggeri, è
stato insignito – nel corso
della manifestazione, condotta dal prof. Luigi Gatti – del
premio “Una vita per l’arte”.
Il trenta di ottobre, sempre a
Santo Stefano, la IX edizione
del premio di scultura.
I bandi dei concorsi e le
segnalazioni degli eventi
vanno comunicati all’indirizzo
e-mail della rivista
[email protected].
Oppure spediti o consegnati
direttamente presso la
redazione, nella sede
dell’Editrice
Impressioni Grafiche,
Via Carlo Marx 10,
Acqui T. (Al),
tel.0144.313350,
fax. 0144.313892.
concorsiconcorsiconcorsi
PREMIO “GUIDO CORNAGLIA
POESIA & SPORT”
È fissato alla data del 30 novembre 2005 il termine ultimo di presentazione delle opere per
questo concorso, suddiviso in due sezioni:
A: liriche a carattere sportivo inedite in italiano;
B: liriche a carattere sportivo in vernacolo, cui
va unita traduzione.
Le opere (massimo due per sezione, ognuna in
quattro copie) vanno inviate alla segreteria del
Concorso nazionale “Premio Guido Cornaglia - Poesia & Sport” presso Comune di
Ricaldone, Via Roma 6, 15010 Ricaldone ( Al).
L’iscrizione è gratuita.
In palio in ogni sezione premi di 500, 250 e 150
euro per i tre migliori classificati.
I risultati saranno resi noti a partire dal 15
dicembre; i migliori elaborati saranno premiati
nel corso di una cerimonia che si terrà a
Ricaldone, presso la Cà di Vein della Cantina
Sociale, il 13 gennaio.
La manifestazione è patrocinata dai Municipi di
Acqui Terme e Ricaldone, dalla Comunità Collinare e dalla Cantina di Ricaldone, dalla Comunità Montana Suol d’Aleramo, dalla Provincia di
Alessandria e dal mensile “Acqui Sport”.
INFO Ulteriori informazioni al sito:
www.premioguidocornaglia.com
e ai numeri telefonici 0144.74120, 0144.55215,
333.1251351oppure scrivendo alla e-mail
[email protected]
I PREMIATI DEL CONCORSO REGIONALE
DI POESIA DIALETTALE
SAN GUIDO D’AQUOSANA
Sono Giuseppina Mina (con la poesia I Taijarin,
sez. A, tema enogastronomico) e Domenico
Bisio di Fresonara (con la lirica Pasqua – sez.B
– tema libero) i vincitori dell’edizione 2005 del
Concorso regionale di Poesia Dialettale indetto dalla Confraternita dei Cavalieri di San
Guido d’Aquosana.
La premiazione si è tenuta il 2 ottobre (giorno
della Festa del Rosario), presso la sala d’onore
di Palazzo Robellini.
Altri riconoscimenti sono andati ad Albina
Zabaldano di Cantarana (La sfeuja – II premio
sez.A), a Domenico Marchelli di Nizza Monfer-
rato (La belecauda – III premio sez.A), a Paolo
De Silvestri (Masche, II premio sez. B) e
Antonio Tavella di Racconigi (Entravisa, III premio sez. B).
I premi speciali “Mario Merlo” sono stati aggiudicati a Paolo De Silvestri (per Pulenta) e a
Giuseppe Accossato di Genova (per Nosgnor).
I PREMIATI DEL II CONCORSO
D’ORGANO S. GUIDO D’AQUESANA
Questi i migliori musicisti espressi dal premio
musicale, tenutosi a Bubbio nel maggio scorso.
Sezione diplomati: Rodolfo Bellatti (Campomorone, Genova), punti 98/100 I premio;
Alberto Brigandì (Reggio Calabria), II premio.
Sezione allievi:Simone Quaroni (Pavia),II premio;
Matteo Venturino (S. Miniato, Pisa), III premio.
La giuria, presieduta dalla prof.ssa Ivana Valotti
(Conservatorio di Milano), era formata dal M°.
Giuseppe Gai (Conservatorio di Alessandria),
dal M° Massimo Nosetti (Conservatorio di
Cuneo), dal M° Federico Vallini (Conservatorio
di Cosenza), dal M° Luca Verardo (titolare dell’organo di S. Pietro in Voghera).
I PREMIATI DEL XVII CONCORSO
NAZIONALE PER GIOVANI PIANISTI
DI TERZO
È Michele Montemurro, da Chiavenna (Sondrio), un allievo delle prestigiose scuole pianistiche di cui sono titolari Franco Scala e Paolo
Bordoni, il vincitore del Premio Pianistico
“Terzo Musica - Valle Bormida” 2005.
Alle piazze d’onore Viller Valbonesi ( Alfonsine,
Ravenna) e Diego Maria Maccagnola (Cremona), rispettivamente II e III premio.
Ad incaricarsi del giudizio una commissione di
assoluta qualità, presieduta dal M° Riccardo
Risaliti (già docente al “Verdi” di Milano), e
composta dalla prof.ssa Maria Teresa Carunchio (Conservatorio “Rossini” di Pesaro), dal
M° Sergio Marengoni (“Verdi” di Milano), dal
M° Lorenzo Di Bella (già vincitore del concorso in una delle passate edizioni, oggi direttore artistico dell’Accademia delle Marche), e
dal M° Enrico Pesce.
Tra i migliori delle categorie inferiori vanno
191
concorsiconcorsiconcorsi
segnalati i nomi di Alessandro Falossi (Milano)
nella categoria A, e di Norberto Diale (Torino)
nella categoria B.
La manifestazione ha avuto luogo a Terzo nel
maggio scorso.
Presidente della Repubblica è dedicato alla
memoria della “Divisione Acqui” e al suo eroico sacrificio nell’isola greca di Cefalonia, nel
mese di settembre 1943.
PREMIO GOZZANO 2005
I VINCITORI DEL PREMIO ACQUI STORIA
XXXVIII EDIZIONE
Si terrà sabato 29 ottobre, presso il Teatro
Ariston di Acqui Terme la premiazione dell’“Acqui Storia”. Se lo sono aggiudicati, per la
sezione scientifica, Gabriele Hammermann,
con il volume Gli internati militari in Germania
1943-1945 (Il Mulino) e, per la sezione divulgativa, Federico Rampini, con il saggio Il secolo
cinese (Mondadori). A Corrado Augias il
Premio “La storia in TV”.
Nella giuria dell’“Acqui Storia”: Guido Pescosolido (presidente sezione scientifica), Cesare
Annibaldi, Camillo Brezzi, Antonio De Francesco, Umberto Levra, Andrea Mignone,
Nicoletta Morino; Ernesto Auci (presidente
sezione divulgativa), Roberto Antonetto,
Pierluigi Battista, Riccardo Chiaberge, Elio
Gioanola,Alberto Masoero,Adriana Ghelli.
Il premio, indetto da Regione Piemonte,
Provincia di Alessandria,Comune di Acqui,Fondazione della Cassa di Risparmio di Alessandria
e Terme di Acqui, sotto l’alto patronato del
a b b o n a r s i
Questi i vincitori del Premio Gozzano di Terzo
2005, cui hanno partecipato oltre 380 concorrenti da tutta Italia e dall’estero (Francia,Belgio,
Olanda e Inghilterra):
Sezione A, poesia edita in Italiano:
Maura Del Serra - Congiunzioni, Editrice Petite
Plaisance - Firenze;
Sezione B, poesia inedita in Italiano:
Liliana Zinetti- “Per le parole dissipate” Casazza (Bg);
Sezione C, racconto inedito in Italiano:
Paolo Rendini- “Le nuvole nel camino e la
scuola di ricamo” - Leivi (Ge).
La premiazione si è tenuta sabato 15 ottobre
presso la sala Benzi di Terzo.
Tra le novità di quest’anno vi è la pubblicazione
da parte della casa editrice Impressioni Grafiche di un volume che raccoglie le poesie e i
racconti vincitori delle prime cinque edizioni.
a
tramite versamento postale sul numero di c/c 19702141
intestato a IMPRESSIONI GRAFICHE,
via Carlo Marx, 10 - 15011 Acqui Terme (AL)
(nella causale specificare Abbonamento per 4 numeri a ITER)
- L’abbonamento per 4 numeri è di € 30
- L’abbonamento sostenitore per 4 numeri è di € 50
Ogni abbonato riceverà in omaggio, col primo numero della rivista, il libro “6 novembre 1994 Voci nella pioggia” di
Maurizio Neri, 100 interviste ad alessandrini nel decennale dell’alluvione
Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista
al n° di fax 0144 313892 o per posta al seguente indirizzo:
Impressioni Grafiche, via Carlo Marx 10 - 15011 Acqui Terme (AL)
Per informazioni: Redazione di Iter • tel. 0144 313350 • fax 0144 313892 • e-mail: [email protected]
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ITER n3 - Impressioni Grafiche