IL PROFETA GEREMIA: SPERARE IN UN TEMPO DI CRISI Patrizio Rota Scalabrini 1
I IL MANDORLO FIORITO 1. Il contesto storico della vicenda del profeta Il profeta è colui che parla a nome del Dio della berît [alleanza], di un Dio che
compie il suo progetto nella storia umana. È allora necessario e decisivo capire il
presente del profeta, il contesto storico nel quale egli opera, le coordinate sociali,
culturali e religiose della sua epoca. Orbene, ricostruire in modo soddisfacente le
coordinate storiche della vita di Geremia non è cosa molto agevole poiché bisogna
intrecciare dati che dobbiamo evincere dal testo biblico di Geremia, frutto di molte
riletture successive del messaggio originario, con elementi d’altre fonti bibliche ed
extrabibliche, le quali in parte confermano i dati della Bibbia, ma altre volte appaiono
discordanti. La scelta di una lettura dei dati influenza anche la lettura del messaggio
del profeta, poiché collocare una pagina profetica in un determinato contesto storico è
concretamente attuare anche un'interpretazione su di essa, operare una scelta e una
presa di posizione sul senso della parola del profeta.
1.1. Situazione interna ed internazionale L’introduzione del libro (Ger 1,1-3) inquadra l'attività del profeta tra il 627 (anno
tredicesimo del regno di Giosia) e la caduta di Gerusalemme (587 o 586). In realtà, la
sua attività profetica continuerà ancora per alcuni anni, ma questo periodo è
certamente quello in cui gli interventi del profeta sono stati più frequenti. La
situazione storica si caratterizza per un profondo influsso che gli avvenimenti
internazionali esercitano sul piccolo regno di Giuda in questo periodo molto
turbolento.
L’epoca di Geremia è segnata pertanto da due fatti, il primo dei quali è la delusione
e il grave scandalo per la fede di Giuda rappresentato dalla morte prematura del giusto
Giosia, il re jahvista riformatore (2Re 23,29-30), ucciso in uno scontro con Necao,
faraone d'Egitto. Non si comprende se ciò sia accaduto per un malinteso tra i due
eserciti, sfociato poi in un regolamento di conti o per una cattiva interpretazione del
quadro internazionale da parte di Giosia, desideroso di ingraziarsi il re di Babilonia,
che era ormai la nuova potenza della Mezzaluna fertile. Il fatto della morte di Giosia
poneva tutta una serie di domande che richiedevano una difficile interpretazione
teologica.
Il secondo fattore è il progressivo imporsi della potenza di Babilonia con
Nabucodonosor. Se il rapido declino dell'Assiria aveva permesso a Giuda di scrollarsi
di dosso il giogo assiro con il pesante tributo che aveva pesato sul popolo, da Acaz fino
a Manasse, questo fatto non significava ancora una reale emancipazione politica, in
quanto era soltanto un cambio di padrone. La caduta di Ninive nel 612 permetteva
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infatti a Babilonia di estendere il proprio influsso sulle zone un tempo soggette agli
Assiri e nel 605 la vittoria a Carchemis sull'Egitto assicurava la supremazia babilonese
nel Medio Oriente, fino alla conquista persiana del 539.
In questa situazione di crisi nazionale ed internazionale si formano due tendenze o
"partiti".
La tendenza nazionalistica, basandosi sulle promesse alla casa di Davide con Natan e
poi con gli oracoli di Isaia, e sulle promesse divine a Gerusalemme (cf i canti di Sion
nel libro dei Salmi), sosteneva la necessità della ribellione e della resistenza armata
contro Babilonia, la quale non aveva tardato ad imporre il tributo al regno di Giuda,
come a tutti gli altri Stati vicini.
Ci s’illudeva dell'aiuto, garantito dalle alleanze, da parte dell'Egitto e dell'Assiria.
Ma tali potenze ormai non bastavano più neppure a se stesse. Il prevalere di questa
tendenza filo-nazionalista porterà alla catastrofe Giuda e Gerusalemme. Si andrà
incontro alla distruzione totale della città santa e del Tempio, allo smantellamento
dello Stato, a ripetute deportazioni delle persone più capaci, e all'esilio dell'intera classe
dirigente e dei ceti benestanti.
L'altro partito o tendenza, che si potrebbe denominare filobabilonese o
collaborazionista, sosteneva la necessità di riconoscere la potenza e la sovranità di
Babilonia e di sottomettersi ad essa come stato dipendente e tributario.
1.2. La posizione di Geremia In questa confusa situazione opera Geremia, l'uomo di Anatòt, un villaggio a 6 Km
a nord-est di Gerusalemme. Questa sua provenienza "provinciale" sarà uno dei fattori
che farà sì che il profeta non sia mai un uomo della corte, ma un uomo più vicino al
popolo della campagna, con le sue sofferenze e le sue diffidenze verso la propaganda
dell'ideologia regale.
Inoltre, Geremia era di stirpe sacerdotale cioè discendente della famiglia sacerdotale
di ’Ebjātār, esiliata ad Anatòt (1Re 2,26ss) dall'altra famiglia sacerdotale, quella
Sadocita, che da quel momento aveva intrecciato il suo destino con quello della corte.
La tensione tra le due famiglie sacerdotali in parte coincideva anche con due diverse
interpretazioni della storia della salvezza: la famiglia vincente, di Ṣādôq, era portavoce
delle tematiche dell'elezione di Sion, del Tempio e della dinastia, mentre quella di
’Ebjātār era portatrice delle tradizioni del Nord, più legate al tema del popolo e al
grande santuario di Silo, che Geremia più volte ricorderà nella sua predicazione.
Questa collocazione storica ci fa comprendere meglio la dura presa di posizione del
profeta proprio nei confronti della linea politica della corte, sostenuta anche da
motivazioni teologiche.
Geremia diventerà sempre più un illustre rappresentante della tendenza
"filobabilonese" minoritaria, inascoltata ed osteggiata dalla corte e dal clero. Egli,
contro i fanatici ed illusi sostenitori dell'ideologia regale davidica, si preoccupa
maggiormente del destino effettivo del popolo piuttosto che dei privilegi "teologici"
della monarchia, molto più attenta al proprio particolare che al bene e all'interesse
generale della collettività (Ger 22,13-23).
Per conseguenza, considerando valore supremo l'esistenza di Israele come popolo,
tema caro alle tradizioni del Nord, e riconoscendo l'effettivo distacco della dinastia
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dagli interessi reali del popolo, Geremia è disposto a rinunciare quasi totalmente alle
speranze messianiche, donde la diversità non soltanto di tono, ma anche di contenuto
tra le attese entusiastiche e utopiche di Isaia e la profezia sconfortata di Geremia.
In questa scelta di Geremia si manifesta il dilemma drammatico del tempo: il valore
supremo era rappresentato dalla continuità di una struttura statale autonoma che
garantiva l’indipendenza, oppure dalla continuità e sopravvivenza della comunità
civile, a prezzo della perdita di ogni libertà politica?
Dopo avere relativizzato il legame JHWH - dinastia davidica, Geremia dissolve anche
un altro legame che costituiva un dogma fondamentale della teologia della classe
sacerdotale, la quale rappresentava una componente imprescindibile dell'élite
gerosolimitana (corte/ clero), e precisamente il legame JHWH - Tempio. Tale legame,
già saldissimo dal tempo di Salomone, si era ulteriormente rafforzato dopo la riforma
del culto da parte del re Giosia, che aveva soppresso ogni altro santuario jahwista e
pagano a favore dell'unicità del Tempio di Gerusalemme. Questo rapporto tra JHWH
ed il Tempio è ritenuto indissolubile: una sua perdita significherebbe il definitivo e
drammatico rifiuto di Israele da parte di Dio. Ecco la terribile serietà della critica di
Geremia contro il Tempio (Ger 7 e 26). Tutte queste prese di posizione del profeta
contro istituzioni, considerate indispensabili alla esistenza di Giuda, suscitano contro
di lui reazioni violente che lo portano a bastonature, al carcere, alla condanna a morte
(non eseguita), al rogo pubblico dei suoi scritti, ritenuti "eretici" (cf Ger 35-38).
Le persecuzioni contro Geremia, nel loro aspetto esteriore, sono state descritte dal
segretario di Geremia, Barûk, mentre il riflesso interno di questi contrasti e le
sofferenze intime del profeta sono narrati da Geremia stesso in testi famosi, noti come
"confessioni di Geremia".
1.3. Le fasi della predicazione di Geremia Per quanto riguarda le fasi della predicazione del profeta già i versetti
dell'introduzione (cf Ger 1,1-3) ci permettono di delineare momenti particolari sotto
Giosia, sotto Ioiakìm e sotto Sedecìa. L'attività dopo la caduta di Gerusalemme non è
contemplata nell'introduzione.
Sotto Giosia avviene la vocazione del profeta, comunemente datata nel 627. In altre
parole, la sua vocazione coincide con la data di quella riforma giosiana che tanta
importanza ha per l’AT. È verosimile che Geremia sia stato toccato da questa riforma
che si ricollegava a temi cari alla teologia del Nord. Secondo alcuni autori, il riserbo
che il profeta mantiene a proposito di tale riforma è dovuto al fatto che egli ne era uno
dei principali fautori; altri studiosi, invece, attribuiscono il silenzio sulla riforma ad un
certo scettico distacco nei suoi confronti da parte del profeta. La vicinanza teologica e
letteraria tra vari testi di Geremia e i passi deuteronomici, però, ci fa propendere per la
prima posizione.
La seconda fase della predicazione sotto Ioiakìm: dalla morte di Giosia (609 a.C.)
alla prima deportazione a Babilonia nel 597. È un periodo molto confuso,
caratterizzato prima dalla disillusione seguita alla morte di Giosia e
dall'allontanamento del successore Ioacàz, sgradito a Faraone, poi dalla presa del
potere da parte del fratello Eliakìm, sostenuto dagli Egiziani che gli cambiano il nome
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in Ioiakìm. Geremia sarà in aperta opposizione alla politica del monarca filoegiziano e,
perciò, dovrà soffrire molto in questo scontro aperto con la "casa di Davide", che egli
critica senza mezzi termini come un casato ormai decaduto (Ger 23).
È questo il tempo anche delle grandi dispute sul Tempio e sulle false sicurezze
riposte in esso. La classe dirigente prende ad odiare il profeta e questo furore omicida
si scatena ancora più violentemente quando la caduta dell'Egitto a Carchemis scredita
irrimediabilmente la politica filoegiziana della corte.
A Geremia è impedito l'accesso al Tempio e per questo detta i suoi oracoli a Barûk,
il quale poi dovrà leggere in pubblico le profezie scritte, piene di minacce e di inviti al
ravvedimento. La reazione violenta non si fa attendere, così che Geremia e Barûk sono
costretti a sottrarsi con la fuga al linciaggio. Il re Ioiakìm morirà prima della resa della
città a Babilonia e il figlio Ioiakìn regnerà al posto del padre soltanto pochi mesi, prima
di venire deposto dai vincitori. Gli eventi danno così ragione alla predicazione di
Geremia. In questo periodo vanno verosimilmente collocati i brani conosciuti come
"confessioni", testi di splendida autobiografia spirituale, nei quali il profeta riversa il
caleidoscopio di emozioni che agitano il suo cuore di fronte alle gravi prove della sua
missione profetica.
La terza fase di predicazione avviene sotto Sedecìa. Nabucodonosor, dopo la
conquista di Gerusalemme, aveva posto sul trono Mattanìa al quale aveva, in segno di
sovranità, imposto il nome di Sedecìa.
In un certo senso la promessa davidica non sembrava essere venuta meno, perché la
continuità della dinastia era salvaguardata. Costui era figlio di Giosia e nato dalla
medesima madre di Ioacàz, il re deposto dagli Egiziani. Per un attimo il suo avvento
sembrò rianimare le speranze di un re giusto e legittimo che camminasse sulle vie del
padre. Ma egli si rivelò di carattere debole e incerto. Quando scoppiarono dei tumulti
a Babilonia, in Giuda il partito nazionalista pensò che fosse giunto il momento di
scrollarsi di dosso il giogo babilonese e Sedecìa, mostrando scarso acume politico e
personalità influenzabile, si lasciò guidare da questo movimento per timore di perdere
il potere. Gli inviti di Geremia a non opporsi a Babilonia rimasero inascoltati e così il
regno di Giuda dovette soccombere davanti all'assedio babilonese che, con la caduta di
Gerusalemme, decretò la fine del regno del Sud. Eppure la predicazione di Geremia in
questo periodo ha una tonalità insolita, perché sostanzialmente annunzia già la
speranza.
La valutazione di Geremia sull'esilio del 597 e sulla sua portata teologica è un fatto
abbastanza discusso dagli esegeti. Quale riflessione svolse il profeta sull'influsso e sulle
conseguenze degli avvenimenti del 597? A nostro avviso, l’anno 597 costituisce una
svolta decisiva per il profeta, con cambio di prospettiva nella sua predicazione.
Secondo Geremia il 597 rappresenta da una parte il compimento delle profezie di
giudizio terribile, che egli aveva annunciato contro la popolazione di Giuda, contro la
città di Gerusalemme e contro il governo di Gerusalemme, cioè contro la dinastia
davidica, quindi contro l’insieme di Giuda e delle sue istituzioni. Dall’altra il profeta,
facendo parte della popolazione non deportata ma rimasta in Giuda, sperimenta
questo fatto innegabile e cioè che la sottomissione, l'accettazione e il riconoscimento
del governo babilonese hanno come frutto e quale effetto la possibilità di vivere.
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Ed ecco allora che, a partire da questo momento, nella prospettiva di Geremia il
giudizio è compiuto e comincia il tempo di una forma particolare d’obbedienza, che si
riassume in questo comando: sottomettetevi e vivrete. Quindi l'accettazione e il
riconoscimento dell'impero di Nabucodonosor, al quale Dio stesso, secondo Geremia,
ha sottoposto ogni vivente, diventano una condizione di vita.
In questa prospettiva rientra anche la missiva che Geremia spedisce agli esuli,
deportati in Babilonia, perché non s’illudano in un repentino cambiamento della
situazione internazionale e anzi si preparino a vivere a lungo nel paese del loro esilio
(Ger 29).
A questo proposito, emerge la differenza fondamentale tra Geremia ed Ezechiele. È
una differenza strettamente legata alla situazione personale: Ezechiele appartiene al
gruppo dei primi deportati, Geremia appartiene al resto della popolazione che vive
nella terra di Giuda. Se per Ezechiele il 597 è solo l'inizio dei giudizi, per Geremia è
invece il giudizio finale! È una differenza di valutazione che si avvicina ad una vera e
propria opposizione di vedute. La diversa prospettiva presente nel gruppo deportato in
Babilonia era condivisa non soltanto da loro, ma anche da alcuni profeti e da alcuni
uomini dell'ambiente di corte in Giudea.
La convinzione di Geremia stesso e di un certo ambiente di scribi - che sarà poi
all'origine della narrazione di Ger 36-43 (se si prescinde da aggiunte e rimaneggiamenti
successivi) sui momenti decisivi della vita del profeta e della vita della città, della
popolazione di Giuda - è che il 597 abbia significato il giudizio di Dio, oltre il quale
può aprirsi, non per il merito del popolo, ma unicamente per la via della grazia, il
tempo della speranza.
I mesi dell'assedio furono tremendi per tutti, ma ancora più per Geremia, che venne
imprigionato, accusato di alto tradimento e disfattismo. I tentativi di far tacere la
parola del profeta risultarono, però, vani e, alla fine, l'unica parola vera apparve essere
proprio e soltanto la sua: per questo il re cercherà di consultarlo in segreto per
comprendere cosa stesse succedendo, senza però incorrere nelle ire dei cortigiani, che
imponevano la loro politica a questo re fantoccio.
Dopo la caduta della città il profeta venne per un certo periodo protetto dai
babilonesi, ma non si dissociò dalla solidarietà con il suo popolo: per questo lo
troviamo tra i deportati che venivano avviati verso Babilonia nel campo di smistamento
di Rama (Ger 40). La sua liberazione garantisce al profeta pochi anni di libertà.
Si prepara il periodo più duro della vita di Geremia, che predica la sottomissione a
Godolìa, anche se costui rappresenta un'interruzione della linea dinastica. Per Geremia
la cosa più importante è la sopravvivenza del popolo e dell'alleanza. Così il popolo dei
rimasti nella terra dovrà subire, a causa dell'assassinio di Godolìa, un'altra
deportazione. Alcuni gruppi cercheranno di salvaguardare la loro libertà di fronte ad
eventuali ritorsioni babilonesi, riparando in Egitto, contro la parola di Geremia, che
pure viene trascinato in Egitto come ostaggio dei suoi fratelli ebrei. In questo periodo il
profeta leva ancora la propria voce, ma i suoi interventi sono certamente meno
numerosi ed incisivi di quelli della sua precedente attività a Gerusalemme.
Qui la figura di Geremia diventa sempre più quella di un "anti-Mosè" o meglio di
un nuovo Mosè chiamato a tornare al punto zero della storia della salvezza!
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2. La vocazione del profeta (Ger 1,4-18) 2.1. Un racconto paradigmatico Leggiamo ora la narrazione della vocazione profetica di Geremia, paradigma
dell'essenza della vocazione profetica in genere e del munus profetico che il NT
riconosce ad ogni discepolo di Cristo.
La sorgente prima della funzione profetica è la vocazione, cioè la chiamata diretta
da parte di Dio su colui che sarà profeta. Il tema ovviamente oltrepassa l'area profetica
e riguarda molti altri personaggi.
Lo studio del racconto della vocazione del profeta ci farà incontrare i motivi
portanti dell'intero libro: la signoria della Parola di Dio; l'incredulità dei destinatari sui
quali si compirà, di conseguenza, il giudizio (sradicare); un futuro disponibile
esclusivamente per l'intervento di Dio (edificare); il profeta come procuratore
universale; la sofferenza del profeta.
Letti isolatamente, i racconti della vocazione dei vari profeti sembrano avere valore
quasi meramente aneddotico, ma bisogna sapere andare oltre le apparenze. Come
accade comunemente per molti credenti, l’esperienza personale ci attesta dei momenti
particolari che segnano una svolta decisiva nel corso della nostra esistenza; ora, questi
fatti all'esterno possono sembrare aneddotici, ma diventano determinanti per la
coscienza di chi li vive, perché in essi l'individuo legge l'intervento esplicito e
normativo di Dio nei suoi confronti. Basti questa osservazione per comprendere come
è necessario andare oltre l'aspetto contingente, particolaristico delle varie vocazioni
profetiche.
2.2. Caratteristiche letterarie di Ger 1 Il capitolo sulla chiamata di Geremia è dal punto di vista letterario una
composizione molto stilizzata che ha però la funzione di portico dell'intero libro di
Geremia, ed apre sul contenuto del libro e della missione del profeta come un tragico
sradicare ed un inatteso costruire. La struttura del capitolo è tripartita:
vv. 4-10: racconto di vocazione
vv. 11-16: una sintesi della parola profetica in due visioni: il mandorlo e la caldaia
vv. 17-19: riconferma della vocazione con l'invio in missione
I vv. 11-16 sono due oracoli abilmente inseriti dal redattore ad illustrare il
messaggio. Consistono in due visioni simboliche, rispettivamente interpretate. Il primo
è giocato sulla paronomasia possibile a comprendersi solo in ebraico.
Seguendo un genere, a noi già noto da Am 7-8, s’inizia con la contemplazione di un
oggetto, poiché la parola del Signore è un evento che passa attraverso le realtà
concrete.
Dopo tre mattine, finalmente, guardando il ramo di un mandorlo (šāqēd ) Geremia
capisce che l'atteggiamento del Signore nei riguardi del suo popolo è quello di vigilare
(šōqēd). La funzione di questa visione è quindi di suggerire a Geremia la divina potenza
che opera nascostamente dietro la sua parola, quella che il profeta dovrà trasmettere. Il
mandorlo rifiorito evoca indubbiamente la continuità della storia che la Parola mette
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in moto, anche quando a volte nell'ottica umana questa storia sembra arrestarsi e
perdersi.
La seconda visione è quella di una caldaia pronta per essere rovesciata verso Nord;
il simbolismo è evidente se si pensa che le invasioni militari per Israele potevano venire
unicamente dal Nord o dal Sud e in quel tempo in particolare dal Nord. Purtroppo gli
abitanti di Gerusalemme non comprendono che si sta preparando una minaccia
gigantesca appunto dal Nord, dalla potenza di Babilonia che stava ingigantendosi in
quegli anni. Ed è questa prospettiva sconvolgente che Geremia dovrà annunciare,
restando però inascoltato. Il motivo della catastrofe è da Geremia ravvisato
nell'abbandono del vero Dio per il servizio agli idoli (v. 16). In definitiva, la visione
della caldaia annuncia il contenuto di quella parola che Geremia dovrà trasmettere.
Egli dovrà, per così dire, capovolgere i motivi principali della tradizione di Sion, poiché
JHWH stesso “chiama" non la città eletta, ma le nazioni contro di essa!
I vv. 17-19 sono una ripresa della vocazione sotto il profilo della missione intesa
come duro lavoro, come impegno di lotta e di fatica. Essi hanno la funzione di
incoraggiare il profeta. Sarà una missione che scatenerà l'opposizione degli avversari e
dei destinatari; l'animo timido e sensibile di Geremia ne è quasi sconvolto ed ecco che
allora interviene di nuovo la promessa divina a rincuorarlo: il profeta, grazie al
soccorso di Dio, sarà come una città inespugnabile, come un muro invalicabile, una
colonna irremovibile.
2.3. Struttura semantica del testo Cercare la struttura semantica del testo significa cercare di capire cosa il testo dice,
ossia rintracciare il suo contenuto attraverso il rilievo delle linee di significato che lo
attraversano. Si tratta così di delineare l'ossatura, l'impalcatura del testo e le sue
principali articolazioni. Il racconto della vocazione mostra tre elementi di struttura
semantica (sintetizzo qui i suggerimenti del biblista P. Bovati):
a) la parola;
b) il gioco dei soggetti;
c) la tensione tra particolarità e totalità. 2.3.1. La Parola Il tema della parola appare insistentemente nella formalità del dialogo tra JHWH e
Geremia all'interno dello schema narrativo di tutto il capitolo.
È rilevante la radice ’mr (dire). Notevole rilievo assume poi la radice dbr (parola),
come sostantivo e come verbo. Tutti e due sono detti sia di Dio che di Geremia. La
radice dbr occupa quasi la totalità del testo; è da notare solamente che il sostantivo
dābār non si applica mai a Geremia. Semanticamente collegati alla “parola” sono i
termini nābî’ [profeta] (v. 5) e peh [bocca] (v. 9, due volte). Soltanto due persone
parlano: Dio e Geremia; è soltanto Dio però che prende l'iniziativa ed è Lui il primo a
parlare, come pure è Lui a comandare a Geremia di parlare. Ma che cosa vuole dire
parlare? Cosa poi significa che il profeta è l'uomo della Parola?
Parlando l'uomo si espone come soggetto e contemporaneamente pone l'altro a cui
parla come soggetto. È la Parola, infatti, la rivelazione della relazione tra i due soggetti
dotati di libertà e non solamente di visibilità. La parola è ciò che consente la
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distinzione tra i soggetti nell'unità della relazione. Possiamo dire che, in contrasto con
la visione dualistica e concettualistica del mondo greco, il mondo ebraico sviluppa
piuttosto un'antropologia della relazione dove l'uomo pone se stesso nella misura in cui
entra in comunicazione, nella misura in cui parla con l'altro. Ora, la Bibbia afferma che
Dio parla, anzi è il soggetto parlante per eccellenza. Dio, come appare anche nel
nostro racconto della vocazione di Geremia, non è quindi presentato tanto come essere
capace di intelligenza, come un essere spirituale, ma come Colui che è capace di
relazione, la cui intenzionalità è quella di stabilire con l'uomo, sua creatura, un'unità
senza confusione, senza possedere il suo interlocutore, senza inglobarlo in sé. È
l’intenzionalità di Dio, la sua volontà, ciò che lo spinge a parlare. Dio parla perché
vuole la comunione e parla rivelando così se stesso. In questo senso il parlare di Dio
non può essere che originario, primigenio. Egli non può che parlare per primo.
Si rivela all'essere umano, perché la persona diventi capace di entrare in comunione
con Lui; questo è implicitamente affermato nel v. 5 dove l'essere-fatto-uomo di
Geremia è preceduto dalla volontà di Dio di costituire Geremia come l'uomo della
Parola. Si noti che “uomo della Parola” non vuole dire che Geremia sarà uomo della
Parola solo quando parla, ma che egli parla in quanto chiamato a parlare, in quanto
comandato a parlare, e che questa chiamata ad essere portavoce di Dio lo struttura fin
nell'intimo. Egli deve dire tutto e soltanto ciò che gli è comandato. Destino della
Parola e destino del profeta devono procedere insieme, anche se la Parola lo precede e
non soccomberà con il fallimento del portavoce.
2.3.2. Il gioco dei soggetti In un'analisi semantica del testo di Geremia appare chiaro il gioco dei soggetti.
Nella prima parte abbiamo il soggetto "io" di Dio, con il soggetto "tu" di Geremia (vv.
5-10. 17-19). Nella sezione centrale il gioco è tra la relazione io-io del profeta (vv. 1112) ed io (profeta) - loro dei destinatari (vv. 13-15). Il loro, nell'ultima parte, si rivolge
con azioni contro il tu di Geremia.
In definitiva, appare subito il Dio che parla al profeta e costui è essenzialmente
definito nella relazione che egli instaura con Dio, con la sua origine; in secondo luogo
egli è definito in relazione ai destinatari della sua missione.
La relazione fondante è quella di Dio con il profeta: è fondante perché Dio è il
fondamento dell'esistenza del profeta e della sua azione. Tale relazione è invisibile
(all'inizio: Dio ha costituito il profeta prima che esistesse; alla fine: Dio promette di
essere con lui al momento della morte).
La mediazione visibile (storica) di questo rapporto è nella Parola: se il profeta
mantiene ferma la sua relazione alla parola interiore di Dio, facendola propria nella
parresìa della proclamazione, egli è davvero soggetto, persona.
Questa relazione tra Dio e il profeta è per tutti gli altri: Israele, le nazioni, i re. La
qualità del profeta si rivela dunque nel rapporto con coloro ai quali è inviato; infatti, in
questo rapporto profeta-gente si gioca il comando, la volontà di Dio, la sua
intenzionalità: è l'essere presente di Dio presso il popolo proprio nell'essere presente
del profeta.
La relazione tra il profeta e gli altri è sempre mediata dalla Parola ricevuta. Se il
profeta non parla agli altri con la Parola di Dio cessa d’essere profeta. L'atto con cui
viene meno alla propria missione, si configurerebbe come fuga, come negazione anche
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del rapporto con gli altri, oltre che con Dio. La solidarietà con gli uomini appare come
il tratto essenziale della profezia (ossia della rivelazione di Dio).
2.3.3. Il contrasto "totalità-parzialità" Il terzo asse semantico è dato dalla totalità. Il lemma kol [tutto] ricorre nove volte:
v. 7, due volte; v. 14; v. 15, tre volte; vv. 16.17.18. Il senso della totalità riguarda il
messaggio che deve essere proposto integralmente a tutti i suoi destinatari; ma il senso
della totalità riguarda anche la vita del profeta, il cui asse temporale è totalmente
assunto dalla missione profetica, e pure la totalità di valenza della missione (distruggere ed edificare). Questa totalità entra in tensione interna con la particolarità che si esprime
nell'individualità di Geremia, nella singolarità sconcertante della sua vicenda di
sofferenza e fallimenti. Questa parzialità diventa particolarmente evidente nella
minaccia di morte che lo sovrasta ed è profetizzata così anche sulla città di
Gerusalemme
In tal modo, se la totalità è segno di Dio, essa si rivela però nella parzialità,
umiliandosi nel "piccolo". Ma questa è sua iniziativa; se è la parzialità a pretendere di
contenere Dio, allora è perversione, come si darà per il caso della monarchia e della
sua pretesa di contare a priori sulla promessa davidica, o per il popolo nei confronti
dell'istituto dell'alleanza. Scrive P. Bovati: "La particolarità del profeta è poi inserita
nel contrasto con la totalità della missione. La particolarità del profeta è evidente nella
sottolineatura del tema della morte che è minacciata per Geremia e preannunziata
come la fine della città di Gerusalemme. Totale è invece il segno divino di cui però
Geremia deve farsi segno. Questo rendersi presente del segno divino nella parzialità e
nella particolarità del profeta non può che essere un umiliarsi di questo Dio. La
parzialità è, però, pervertita quando pretende di contenere e di esaurire il divino come
nel caso del Tempio!" 1.
Nell'insignificanza della vita di Geremia passerà questa comunicazione che Dio fa di
sé; essa avverrà attraverso la passione del profeta e del rotolo torturato e bruciato,
perché nulla possa pensare di poter contenere Dio, ma ne sia esclusivamente un segno
e un umile rimando.
La morte del profeta, anticipata già nel suo fallimento storico, denuncia l'universale
idolatria, il tentativo di cosificare Dio, ed insieme annuncia un dono: d'altra parte,
proprio attraverso la sua morte, la sua vita diventa una vita offerta a tutti. Geremia è
davvero figura eminente di Gesù Cristo!
2.4. Chiamata, lotta Ci dedichiamo ora ad una breve lectio cursiva del nostro brano. Nella vocazione di
Geremia appare un aspetto importante: il profeta si sente chiamato e consacrato fin dal
seno di sua madre. Questo significa che tutto l'arco della sua esistenza appartiene
ormai a Dio. Il tema ha uno sviluppo nella tradizione biblica: Is 49,1.5 (il servo di
JHWH); Lc 1,15.41 (il Battista), Paolo (At 22,14; Gal 1,15). È detto anche di tutti i
credenti (Ef 1,4; Gv 17,24).
La struttura del testo segue da vicino altri racconti di vocazione negli elementi
principali: v. 5 l'incarico dato al profeta (cf Gdc 6,14; Es 3,10); v. 6 obiezione (cf Gdc
1
P. BOVATI, Perché il Signore vi ha rigettati: Ger 1-6, dispense del PIB, Roma 1982-1983, 39.
10
6,15; Es 3,11); vv. 7-8 rassicurazione (cf Gdc 6,16; Es 3,12a); v. 9 segno di conferma
(cf Gdc 6,17ss.; Es 3,12b); v. 10 riconferma della missione.
Ci soffermiamo qui sul v. 5. In esso si chiarisce la relazione tra Geremia e JHWH. Si
usa il verbo jāṣar [plasmare]. La sua nascita è sotto il segno della signoria di JHWH
sulla creazione, su tutto, sulla storia stessa come dice l'impiego del medesimo verbo in
Ger 18 per il vasaio. Quindi la "chiamata" (qui non c'è il termine!) è un entrare di
JHWH, come Signore della creazione e della storia, a formare Geremia come suo
strumento, atto a plasmare la storia secondo i suoi piani, o meglio ancora secondo la
sua promessa. Questo linguaggio usa lo schema temporale per affermare che la storia è
interamente sottoposta al volere benefico di Dio. Se Dio si rivela in un momento,
nondimeno il suo amore è eterno! Una prima conseguenza è che l'essere profeta non è
qualità accessoria dell'esistenza dell'uomo, ma è una dimensione essenziale
dell'esistenza. Si è plasmati da Dio nel corpo ed eletti alla profezia per plasmare la
storia secondo il suo volere: questa è la verità di un uomo, la sua intima natura, la sua
struttura, così che venire meno alla propria vocazione è una contraddizione presente
nello stesso essere (cf Ger 20,9; 1Cor 9,16).
Il secondo verbo usato è jāda‘ [conoscere]. La conoscenza di JHWH sul profeta è un
abissale progetto d’amore, che ci richiama alla mente il testo di Rm 8,29-30. L'altro
verbo usato è qādaš [consacrare]: esso esprime la vicenda di Geremia come un atto di
consacrazione. Alla luce della totalità del libro si vede uno sviluppo della vicenda di
Geremia che entrerà nella sfera intima di Dio in quanto trascendente e santo, proprio
attraverso il martirio, nell'accettazione della sofferenza estrema, sopportata per fedeltà
alla Parola. Geremia diventa il portaparola di Dio e la sua esistenza nella carne è una
presenza del Dio totalmente altro.
Infine, l'ultimo verbo è nātan [dare, porre]: ti ho posto profeta delle nazioni. È
un'interpretazione della missione del profeta più fedele alla teologia che alla cronaca,
poiché presuppone la dispersione d’Israele tra le nazioni.
In definitiva, nella vocazione del profeta, Dio si manifesta in un certo momento
della sua vicenda esistenziale, ma il suo intervento appare inatteso, impreparato,
improvviso, non frutto di un agire umano e non risultato di una lenta preparazione
della coscienza del profeta. Questo modo di parlare della vocazione è necessario, se si
vuole far capire agli altri qualcosa dell'assoluto di Dio, della sua sovrana libertà. Il
profeta di Anatòt non fa semplicemente risalire la sua vocazione ad un momento della
sua esistenza personale, sia pur remoto, ma va al tempo anteriore alla sua nascita e
addirittura ad una scelta divina anteriore ad ogni suo principiare umano. Non si deve,
però, considerare questo un privilegio di Geremia, perché la medesima cosa viene
affermata più tardi dal NT anche per Gesù di Nazaret, per il Battista, per Paolo ed è
vero di ogni profeta e in ultima analisi di ogni credente che vive secondo Dio.
Se Geremia si sente chiamato e consacrato fin dal seno di sua madre, consapevole
di come tutto l'arco della sua esistenza appartenga ormai a Dio, ne risulta che l’intera
vita del profeta è l'appropriarsi della vocazione, è l'assunzione, sempre più cosciente,
della verità costitutiva del suo essere, così da adeguare l'assenso volontario e amoroso
al disegno di predilezione divina.
«Risposi: "Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane"». Il
chiamato ha paura e cerca di fuggire. Questa paura si manifesta sotto forma di
obiezioni fatte a Colui che chiama; tali riserve si mascherano con la parvenza di un
11
discorso di ragionevolezza umana (Ger 1,6; cf Es 3,11; Gdc 6,15). Si deve riconoscere
che gli argomenti sollevati come obiezione sono nella sostanza legittimi e perfino
doverosi. Non si deve, però, vedere in queste obiezioni del chiamato un riflesso di
buon senso, d’umiltà, o di pusillanimità, ma la resistenza che l'uomo prova ad entrare
in un cammino misterioso di dolore, di fallimento per obbedienza alla Parola ricevuta.
Il voler sfuggire alla naturale condizione di debolezza e d’inadeguatezza è sintomo
della paura in atto; paura non dovuta a codardia, ma a desiderio che la missione
ricevuta non fallisca, perché il fallimento dell’inviato sembra comportare la sconfitta
del messaggio. L'uomo deve accettare invece questo paradosso e imparare a confidare
non in se stesso, ma solo nel Signore: «Non dire: “Sono giovane”. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò... Non aver paura di fronte a loro, …».
2.5. Promessa «… io sono con te per salvarti» (v. 19). La nostra pericope, come ogni racconto di
vocazione, racchiude una promessa. Dio, quando ordina al profeta di parlare, assicura
anche la sua protezione, il suo aiuto. Così nella vocazione di Geremia Dio non nega
che vi sarà guerra, che il corpo del profeta sarà minacciato; anzi è il Signore stesso che
chiaramente prospetta al chiamato questo destino. Soltanto promette: «Io sono con te». Se la frase «Io sono con te» è tra quelle più ripetute in tutte le pagine bibliche, non va
banalizzata, ma deve essere colta nel suo sapore originario, poiché è uno sviluppo della
rivelazione del Nome.
In questa frase non c'è dunque una semplice assicurazione, come potrebbe esservi in
una promessa umana d’assistenza, ma anche l'indicazione dell’imprevedibilità della
modalità di questa Presenza soccorritrice al fianco del chiamato.
Ritorna così il tema della promessa, abbozzato già all'inizio, nell'immagine del seno
materno: il Dio che plasma fin dal grembo materno è Colui che si afferma presente nel
travaglio e nell'agonia dell'esistenza del profeta. Si rende necessario credere; infatti, se
si vince per fede la paura di morire, non si potrà non portare vittoria; se invece si teme,
per mancanza di fede, si è condannati a un’invincibile paura. Ogni vocazione è un
ordine, una missione e può assumerla soltanto chi si fida veramente di Dio.
L'importante è che il chiamato abbia a fianco Dio e non una propria idea su come Dio
gli sarà vicino o la speranza di trovare un proprio modo di assicurarsi la protezione
divina.
3. Saggio di lettura della predicazione di Geremia (Ger 2,1 - 2,37) Proponiamo qui la lettura del primo capitolo della prima raccolta di oracoli del libro
profetico di Geremia (Ger 2,1-4,3), sia perché in poche pagine si trovano in nuce molti
dei temi che vengono poi ripresi nel corso del libro, sia perché questa prima raccolta è
un esempio, poeticamente mirabile, della posizione di Geremia in ordine al tema della
situazione di peccato del popolo di Dio e all’annuncio della possibilità di un suo
cambiamento, per iniziativa dell'indefettibile amore divino.
Si tratta, infatti, di una sezione letteraria omogenea che raggruppa quasi tutti i temi
della predicazione del profeta e svolge una funzione prolettica rispetto alla collezione di
oracoli dei discorsi di Ger 2-25 e persino dell'intero libro. È probabile che alcuni
12
elementi di questa raccolta siano del primo periodo dell'attività profetica di Geremia.
Già qui si hanno le prime avvisaglie del pessimismo antropologico geremiano e
l'intuizione che, se la conversione si renderà possibile, sarà unicamente perché Dio si
porrà come protagonista del "ritorno" del popolo. Tema centrale di questi capitoli è,
infatti, l'infedeltà del popolo a JHWH, a motivo dell'idolatria, che per il profeta è la
radice d’ogni perversione religiosa e morale. Ma il riconoscimento dell'infedeltà
porterà a due certezze tra loro in tensione: da una parte il ritorno impossibile per il
popolo, dall'altra l'iniziativa divina di perdonare e di convertire il cuore di Israele.
3.1. La denuncia del tradimento/apostasia (2,1-13) La requisitoria profetica si apre secondo il TM2 (non la LXX) con un oracolo (vv.
1-9) dove viene ripetuto ben 3 volte che si tratta della parola del Signore; ciò conferisce
solennità a questo inizio della predicazione, come viene ribadito anche da quel «va' e grida agli orecchi di Gerusalemme, dicendo...».
Geremia comincia con un oracolo ricco di pathos, dove si annuncia
l'allontanamento di Israele e la sua ingratitudine verso le benemerenze di JHWH nei
riguardi del suo popolo, che egli prese come sposa e consacrò a sé, ma anche il ricordo
divino che è la dichiarazione di un amore mai venuto meno. È da questo amore che
scaturiranno le domande pressanti del v.5: «Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri?»; oppure del v. 11: «Un popolo ha cambiato i suoi dèi?»; o ancora del v. 14: «Israele è forse uno schiavo o è nato servo in casa?». Colpiscono le espressioni lapidarie del profeta:
«O cieli, siatene esterrefatti; inorriditi e spaventati.» (v. 12) È grande l'abilità letteraria del profeta (o del redattore) che intreccia il suo parlare
con quello di Dio e con gli interventi del popolo; il tutto è espresso in forma assai
vivida e carica di intensità emotiva. Il primo oracolo non è una sorta di captatio benevolentiae del profeta che riferisce la parola di Dio in prima persona: zākartî lāk [mi
ricordo di te], ma è l'affermazione di una certezza fondamentale che deve dare luce a
tutto il resto.
Se nel credo di Israele il ricordare è la confessione delle azioni salvifiche di Dio
verso di lui, qui è Dio che si "ricorda" del popolo. Per esprimere questo "di te" vi è in
ebraico una forma, detta lamed dativale, che insinua un senso di nostalgia, un
rammentare un tempo ideale che si affaccia alla mente in modo trasognato. In italiano
dovremmo tradurre con un “continuo a ricordarmi di te". Anche il metro poetico
usato è quello della qînāh, del lamento, che contribuisce a creare un'atmosfera di
nostalgia.
Al verbo del "ricordare" seguono gli oggetti del ricordo; ma se tali cose sembrano
passate (per il fatto stesso che si ricordano), il dativo "di te" è come uno spiraglio di
luce: Dio ha nostalgia di qualcosa che è passato, ma non del tutto.
Si parla di ḥesed [fedeltà, bontà, benevolenza], impiegando un vocabolo colmo di
significato che indica un agire verso una persona con cui si ha una relazione speciale,
2
Il TM [Testo Masoretico] è il testo della Bibbia ebraica che è stato stabilito dai grammatici ebrei
[masoreti] di Palestina e di Babilonia dal VI all’VIII secolo. Essi hanno vocalizzato il testo ebraico
trasmesso come testo consonantico e vi hanno applicato i te‘amim, segni non vocalici che, aggiunti alle
consonanti originali del testo biblico vocalizzato, hanno un valore di segmentazione del periodo, di
intonazione della lettura e di "note" di cantillazione e quindi forniscono una serie di connotazioni
interpretative. 13
fatta di fedeltà, benevolenza, dedizione. Ḥesed è qui in parallelo con ’ahăbāh, cioè
amore: è suggerito l'incontro amoroso tra sposo e sposa e la relazione d’affetto tra i
due. Il tempo ricordato è quello della giovinezza e del fidanzamento, di un amore
fresco, primaverile, quasi ingenuo. Questo tempo è motivo di nostalgia per il
"cammino" insieme con la sposa: esso è espresso con un infinito al femminile, perché
Israele è visto come la sposa (non ancora nominata!). L'andare insieme è una delle
immagini nuziali per eccellenza!
Ma si deve notare che l'espressione è entrata anche nel linguaggio religioso, ed
indica una sequela docile ed obbediente di Dio. È qui evidente la dipendenza del
nostro testo da Os 2-3 e dalla sua tematica del tempo del deserto come quello della
relazione d'amore. Con queste parole il profeta, evocando la nostalgia di Dio per il
tempo passato, vuole suscitare nel popolo il desiderio di tornare a quel tempo, di
convertirsi al Signore. Inoltre è chiaro che questa prima parola di Dio costituisce una
luce di speranza anche durante le aspre requisitorie che il profeta pronuncerà: JHWH3
non ha mai smesso di pensare e di amare il suo popolo peccatore e su questo amore di
Dio si potrà ricostruire.
Al v. 3 appare una nuova immagine per illustrare la relazione tra JHWH ed Israele.
Israele era sacro, cosa riservata a Dio, interdetta all'uso profano. La santità d’Israele è
qui l'essere la primizia del suo raccolto, ossia di ciò che entra nella casa come il vino,
l'olio, il grano. Primizia (rē’šît) indica qui non tanto il primo in ordine di tempo, ma la
qualità speciale (ad es. il nostro olio di prima spremitura) di un prodotto, che per
questo veniva portato al Tempio e offerto nella gioia della festa. L'immagine evoca
perciò qualcosa di festoso, il tempo gioioso del qāṣîr (raccolta). Israele è dunque per
Dio una primizia, perché l'elezione ha fatto di lui il frutto più prezioso dell'umanità.
E proprio come i doni offerti a Dio, Israele era intangibile, perché Dio stesso era la
sua custodia. Tale affermazione farà problema, poiché nel corso della predicazione il
profeta Geremia annunzierà un tragico prevalere dei popoli (Babilonia) sul popolo di
Dio ed una sua consegna nelle mani di Nabucodonosor. Ma proprio questo primo
oracolo, se ben compreso, fa capire che tale consegna ad altri popoli non sarà
definitiva.
Ci si rivolge poi solennemente alle tribù del Signore, proponendo un inquietante
oracolo in cui Dio si domanda quale torto abbia mai fatto ad Israele per essere trattato
in tal modo. Lo sguardo è rivolto per un momento al passato, in cui Dio non ravvisa
alcuna motivazione plausibile per spiegare la separazione tra Lui e gli Israeliti; le
conseguenze di questa infedeltà sono che, avendo seguito idoli vani, che sono soltanto
alito, cose vuote e inconsistenti, Israele è caduto nell'inconsistenza. Si noti il verbo
denominativo hbl che deriva da hebel; inoltre, va rimarcato che la voce verbale
costituisce qui l'ultimo stico e ha così due accenti, per cui tale verbo, a causa del
metro, deve essere letto in modo molto enfatico! "Essere ridotti a vanità" qui si riferisce
anzitutto alla distruzione del regno d’Israele da parte dell'Assiria, ma è chiara anche la
3
Le due tradizioni ebraica e cristiana si trovano d'accordo nel non pronunciare il nome di Dio JHWH.
L'uso di sostituirlo con altri titoli risale almeno al III secolo a.C. La traduzione greca, detta dei LXX,
iniziata in quel tempo, ha infatti tradotto le "quattro lettere sacre" conKýrios «Signore». Ancora oggi in
sinagoga JHWH è sostituito con ’ădōnaj «Signore», con ha-šēm (o šema‘ ) «il Nome»,o con altri titoli, a
seconda dei contesti.
14
portata universale dell'affermazione: l'idolatria porta l'uomo all'inconsistenza, a un
vuoto esistenziale incolmabile. L'inseguire il vuoto e il nulla conduce inesorabilmente a
diventare nulla.
Nei vv. 6-9 Dio prova di non avere dato al suo popolo occasione d’apostasia, ma di
averlo piuttosto beneficato largamente, con la liberazione dall'Egitto, la guida
attraverso il deserto, il dono della terra buona. La contaminazione della terra da parte
dei padri si accompagna al peccato dei responsabili d’Israele, studiosi della Legge,
sacerdoti, profeti.
I sacerdoti qui si occupano del culto senza cercare veramente Dio, impegnati in un
ritualismo privo di vera trascendenza, allo stesso modo dei dottori della Legge, che si
perdono nei meandri delle norme, avulsi da una vera ricerca della volontà di Dio;
anche i profeti da custodi dell'alleanza si sono mutati in portavoce di idoli vani ed
inefficaci. In sintesi, i mediatori di Dio si sono accomunati al peccato del popolo,
tradendo il proprio compito di mediazione della Parola. Essi non aiutano il popolo a
capire che la sua vita non è come quella che Dio si aspetta, e che, anzi, in tale agire
concreto non c'è posto per Dio.
Si passa poi dal peccato dei padri a quello della generazione presente (figli) e al rîb
[accusa processuale] divino con loro.
Questo significa che la critica che il profeta sta portando all'idolatria, non deve essere intesa come protesta contro un momento di particolare corruzione, ma come un
messaggio perennemente attuale anche per il lettore.
Il peccato nei vv. 10-13 appare come insensatezza. Il brano ricorda Isaia, che
paragonava il popolo ad animali senza ragione (Is 1,3) anteponendo questi a Israele,
incapace di correzione né per amore né per forza; qui Geremia mette avanti al popolo
di Dio popoli senza rivelazione, come Cipro (Kittijjîm)e Qedàr (Oriente e Occidente).
La gloria del Signore presente ed efficace, anche se non rappresentabile con immagini,
si contrappone alla vanità degli idoli; ma Israele peccando ha fatto uno "scambio" (cf
Rm 1,23 e Sal 106,20), preferendo il "vuoto" alla gloria di Dio.
Il v. 13 raggiunge un vertice d’alta liricità: davanti ai testimoni notarili dell'alleanza
ecco la rappresentazione plastica dello "scambio": acqua sorgente con acqua mefitica e
stagnante. Dio è come acqua di sorgente perenne, non discontinua e sporca come
quella dei torrenti (Ger 15,18; Gb 6,15). Ma questa acqua viva, sorgiva, non è
disponibile all'uomo se non nella fede, nella ricerca sincera di Dio: non è compatibile
con lo scavarsi cisterne screpolate, che non tengono acqua, ma solamente un po' di
liquido fangoso. Tali cisterne sono segno concreto dell'idolatria, del ripiegamento
peccaminoso dell’uomo su esperienze che non possono alleviare la sua sete, perché
solo in Dio è «la fonte di acqua viva» (Sal 36,10).
Queste cisterne fatiscenti, preferite alla fontana di acqua sorgente, sono anche un
simbolo della stupidità del peccato, che è l'abbandono di una gioia stabile e certa per
gioie illusorie e fugaci. Ma soprattutto la metafora, che contrappone l'unica fonte con
le tante cisterne, suggerisce l'idea del peccato come infedeltà (sul simbolo erotico del
pozzo/fonte cf Pr 5,15ss; Ct 4,15).
15
3.2. La libertà misconosciuta I vv. 14-19 presentano un oracolo assai bello, anche se un po' oscurato da alcune
inserzioni. L'oracolo originario è composto da un'interrogazione (vv. 14-15), da una
risposta di Geremia (vv. 17-19) e da una conclusione (v. 20). Aggiunte successive
dovrebbero essere i vv. 16 e 18.
L'idea di fondo espressa è l'affermazione del dono divino della libertà ad Israele,
dono incompatibile con lo stato di servitù a cui lo hanno invece ridotto gli idoli. La
risposta di Geremia sottolinea che l'abbandono di Dio da parte del peccatore espone
questi alla malizia del proprio peccato, e ciò è già castigo. Il peccatore, avendo lasciato
Dio, è piombato nella nullità, nell'inconsistenza.
La conclusione dell'oracolo è un’esortazione a ravvisare i frutti amari del peccato; è
necessario riconoscere concretamente nella propria esperienza la desolazione
conseguente all'abbandono di Dio e al fatto di non essere andati a Lui in modo
"trepidante", mossi dal "timore" di Dio. Il profeta enuncia qui un profondo concetto
teologico di peccato: la malizia stessa è punizione che l'uomo porta in sé, perché chi si
allontana da Dio va inevitabilmente verso l’hebel e perciò alla fine la sua anima è vuota
o piena soltanto di fastidiosa malvagità. Le ultime parole (lett. «il non essere venuti a me nel timore») sono un invito alla conversione, che sarà il tema dell'intero cap. 3. Il popolo
riconoscerà davvero la signoria di JHWH quando non andrà alla ricerca di protezione in
potenze e assicurazioni umane.
Dal punto di vista teologico, notiamo la formulazione della relazione "peccatocastigo" quale relazione di causalità, di rapporto consequenziale. Ma si badi che per
Geremia, e per i profeti in genere, non è Dio che interviene a punire, ma è il peccato
che comporta come sua conseguenza intrinseca il fallimento, se per castigo s’intende
l'esperienza della mancanza, del male, del "non bene". Più che una punizione divina è
piuttosto l’esperienza di un male che, come tale, non è voluto da Dio, ma deriva dalla
rottura dell'alleanza. Geremia esprime chiaramente questo pensiero in 2,19: «la tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono».
3.3. Il fascino perverso degli idoli (2,21-29) Il castigo del tradimento sta nello scegliersi come padroni potenze che asserviscono
il popolo, il quale invece ha rifiutato il servizio al Signore, proprio come una bestia o
uno schiavo (v. 20).
Nei vv. 21-22 dopo l'immagine dell'animale ribelle, che viene applicata al culto
idolatrico verso i Ba‘alîm, si trova un'altra stupenda immagine che rimanda ad Is 5,1-7.
La "vite bastarda" è vite non coltivata, non innestata, oppure sono i talli che escono
sotto l'innesto: è chiara l'idea di una divina delusione nei confronti di Israele, di
un'amarezza di JHWH che vede tradita la fedeltà all'alleanza, e scopre disatteso e
misconosciuto il proprio amore.
Il peccato è ormai così congenito, intimo alla vita del popolo, che non può più
essere paragonato ad una macchia che si possa lavare, sia pure con detersivi energici;
questo peccato potrà essere tolto unicamente con un cambiamento radicale della
natura del peccatore! Ecco che allora, con due immagini taglienti, si stigmatizza la
condotta istintiva, irragionevole del peccato dell'idolatria che affascina il popolo come
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l'istinto sessuale guida le bestie (cammella, asina). Ma, a rendere il confronto più
pesante, interviene l'annotazione sul fatto che queste bestie non sono sempre mosse
dall'estro, mentre Israele sembra sempre affascinato, ammaliato dall'attrattiva degli
idoli.
L'ironia diventa quasi sarcasmo ed infine dichiarazione perentoria del tradimento di
Israele, del suo adulterio, del suo amore lascivo per gli idoli (v. 25). Forse però, con
questo viaggio che il profeta sconsiglia - «per risparmiare i sandali / evitare la sete ardente»
- si allude ai viaggi compiuti per contrarre alleanze politiche con gli stranieri, per
contare sui loro improbabili aiuti più che sul soccorso dell'Onnipotente.
Ma probabilmente Israele e i suoi capi cercano delle scusanti, tentano di negare i
fatti loro imputati: dovrebbero ritenersi come ladri e delinquenti colti in flagrante
delitto e quindi arrossire di vergogna, invece di rivendicare un'improbabile innocenza.
Così, a differenza di un ladro che, colto in flagrante, prova vergogna, il popolo e i suoi
capi non si vergognano del loro peccato, ma tentano un'autodifesa ipocrita.
Al v. 27 si presentano di nuovo i culti idolatrici di fertilità con il fallo di legno (‘ēṣ, in
ebraico è maschile) e con delle pietre cave, simbolo dell'organo femminile (’eben in
ebraico è femminile); l'idolatria giunge dunque fino alla perversione gravissima di
dichiarare gli idoli fonte della propria esistenza, fondamento originario della vita («tu sei mio padre, mia madre!»).
Ma negli idoli non ci può essere salvezza! Per questo, nel momento della difficoltà,
il popolo torna con suppliche "interessate" a Dio, l'Unico che lo può salvare.
L'invocazione non è, però, sincera e quindi rimane senza efficacia, poiché è mancato il
riconoscimento delle proprie colpe, che è indispensabile al perdono.
3.4. Il punto di non ritorno (2,30-37) In questi versetti, con il tono della persuasione, si tenta di fare uscire il popolo
dall'illusione di poter fare a meno di Dio o di cercare Dio altrove, in qualcosa che non
è Dio. Già nei versetti precedenti si denunciava la resistenza del popolo e dei suoi capi
a provare vergogna per i propri peccati; il profeta cercava allora, con parodia feroce, di
toglierli dal sentimento di falsa innocenza in cui erano attestati (vv. 23-28).
Ora la polemica contro le illusioni dell'idolatria, dell'avere cercato protezione presso
gli dèi stranieri nei loro santuari, giunge fino a smascherare la pretesa più grave: quella
di ritenersi innocenti e in grado di sconfiggere da soli il peccato: «Tu protesti: “Io sono innocente, perciò la sua ira si è allontanata da me. Ecco, io ti chiamo in giudizio, perché hai detto: “Non ho peccato!”» (v. 35).
È questo un atteggiamento di “prostituzione”, che potrà essere vinto esclusivamente
quando il popolo capirà dove sta la vera protezione e che solo JHWH è capace di
proteggere e ridare fecondità, attraverso il suo perdono. Israele e Giuda invece cercano
libertà lontano dal Signore.
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4. Un’altra modalità di comunicazione profetica: le azioni simboliche Geremia condivide con vari altri profeti dell'AT la presenza di azioni simboliche4,
cioè di atti profetici che il profeta compie, mosso da Dio, come momento del suo
messaggio al popolo. Come interpretare questi gesti profetici? Alcuni esegeti (ad es.,
G. Fohrer) intendono gli atti simbolici dei profeti come atti sostanzialmente vicini alla
magia, ma in realtà l'intenzione degli atti magici e delle azioni profetiche è
diametralmente opposta.
La magia è uno sforzo dell'uomo di assoggettare le forze della natura, di
sottometterle ai propri desideri e ha in se stessa la propria efficacia; lo scopo ultimo
dell'azione magica è di manipolare gli dèi, le forze divine o demoniache, o
semplicemente altri esseri umani (cf 1Re 17,21; Gen 30,37-43; Nm 5,21-28).
Al contrario, il profeta ha coscienza di agire non di iniziativa propria, ma di Dio; è
sottomesso ad essa e all'efficacia reale della sua azione; questo non per le ragioni di
un’efficacia intrinseca, come nel caso della magia, ma soltanto perché è la parola di
Dio che legittima la sua azione e le dà forza: è soltanto l'ordine di Dio che dà efficacia
a quest’azione profetica.
L'azione profetica "mima" l'azione di un Dio che è in dialogo con il popolo
attraverso il suo profeta. Nell'azione del profeta si anticipa concretamente ciò che Dio
farà per gli interlocutori e per il profeta stesso. L'azione profetica, a differenza dell'azione magica, impegna la responsabilità della libertà dell'interlocutore, e d'altra parte
annuncia e proclama la solidarietà, la partecipazione attuale e gratuita di Dio con il suo
popolo, il suo pathos.
E, come Dio è totalmente impegnato in questo rapporto, così il profeta è totalmente
impegnato nella sua azione, che diventa appello alla libertà del destinatario. Proprio
perché destinate ultimamente al dialogo con il popolo, le azioni simboliche hanno
carattere pubblico e si compiono davanti a testimoni in una via, in una piazza, nel
cortile di una prigione, in un negozio ecc...
Le azioni del profeta sono un linguaggio per un “tempo di crisi”. Costituiscono un
invito a non fondarsi su false sicurezze, a non appoggiarsi a pseudovalori. Sta qui la
ragione per la quale molte azioni simboliche mettono in scena il rovesciamento delle
certezze, il rovinoso finire delle istituzioni e della vita regolare del popolo. Poiché il
profeta rimane inascoltato, ed anzi il suo messaggio a volte ha l'effetto contrario di
rinforzare atteggiamenti reattivi, le azioni simboliche diventano una risorsa estrema per
tenere aperto il dialogo e funzionano come parabole che interpellano gli spettatori e li
coinvolgono non solamente con l'udito, ma anche con la vista. D'altra parte, quando
tutto sembra finito e la crisi è divenuta catastrofe, le azioni simboliche vengono invece
ad annunciare una speranza inattesa che unicamente l'intervento di Dio rende
possibile. Proprio perché linguaggio per un tempo di crisi, le azioni profetiche hanno il
carattere di una comunicazione analogica che va controcorrente e che non consiste
tanto nella stranezza di alcuni gesti, ma nel fatto che sono fortemente critiche verso
determinate situazioni in cui tali gesti vengono posti. Sono critiche verso le circostanze
4
Cf anche R. BLANCHET [et alii ], Un prophète en temps de crise: Jérémie. Dossier pour l'animation biblique,
Labor et Fides, Genève 1985, 107-147. 18
del momento, ma soprattutto verso il modo con cui determinate situazioni e realtà
vengono lette ed interpretate. In tale interpretazione, che va contro l'opinione corrente,
sta il loro carattere straordinario, provocatorio, sovversivo e rasentante talora l'assurdo.
Un altro aspetto delle azioni profetiche va qui rilevato. Esse non sono soltanto un
modo di esprimere un concetto e un canale per il dialogo, ma sono anche atti che
danno realmente inizio a ciò che esse significano. Come la parola profetica, esse sono
"Parola efficace". Le azioni simboliche indicano precisamente che la parola di JHWH,
affidata al profeta, non è una mera espressione verbale, ma è potenza in azione.
Davanti a Dio è già in atto il processo che realizza quanto è significato dall'azione
simbolica del profeta.
4.1. Le azioni simboliche in Geremia In Geremia abbondano le cosiddette azioni simboliche:
Ger 13:
Ger 16:
Ger 18:
Ger 19:
Ger 27:
Ger 32:
Ger 51,59ss:
segno della cintura
il celibato
il vasaio
segno del vaso
segno del giogo
segno della compera del campo
segno del rotolo
Le azioni simboliche seguono una forma letteraria abbastanza standardizzata. Vi è
un ordine divino di eseguire l'azione (Ger 19,1-2; 13,1; 16,1; 32,1; 27,2; 51,59), cui
segue il racconto dell'esecuzione del comando (Ger 13,2; 32,8-9); quasi sempre si
conclude con una parola che spiega il significato dell'atto (Ger 19,10-11; 13,9-11; 27,48; 32,14-15).
La prima azione simbolica è quella di Ger 13,1-11: vi appare il tema dell'obbedienza
e della disponibilità del profeta, del carattere decisivo dell'azione profetica e della
Parola legata ad essa. Si noti ancora la povertà del segno e l'importanza della Parola
legata ad esso. In queste azioni simboliche c'è continuamente il passaggio da una cosa
normalissima a qualcosa che interviene a cambiare la vita degli ascoltatori.
L'azione simbolica della cintura di lino vuole mostrare in atto il giudizio sul popolo
che non ha aderito (dābaq) in sincerità a JHWH. Il verbo dābaq appare spesso nella
letteratura deuteronomica per indicare l'atteggiamento di fedeltà piena al Signore, il
legame che deve esistere tra il popolo e il suo Dio, simile all'aderire di un uomo alla
sua donna (cf Gen 2,24).
L'azione si sviluppa in tre momenti e si conclude con un oracolo contro il popolo.
In un primo momento il profeta compera e si mette ai fianchi una cintura di lino, che è
stoffa nobile e di uso cultuale, per indicare quello che deve essere Israele per Dio.
Segue l'ordine di togliersi la cintura e di seppellirla a Nord, verso l'Eufrate. Il terzo
momento è il rinvenimento della cintura ormai tutta marcita e inutilizzabile.
L'oracolo conclusivo spiega il senso dell'azione con un linguaggio assai vicino a
quello del Deuteronomio. Come la cintura si è corrotta non improvvisamente ma nel
tempo, così la corrosione dell’alleanza tra Dio e il popolo non è stata repentina, ma è il
19
risultato di un lungo logorarsi del rapporto, dell'ostinata perseveranza di Israele a
seguire altri dèi. Israele invece di essere la gloria e il vanto di JHWH presso le genti, lo
ha infamato con le sue ribellioni e con la sua idolatria; si badi all'insistenza del testo
biblico sul possessivo usato da Dio verso il popolo, possessivo che sottolinea
dolorosamente il rapporto stabilito nel Patto e disatteso da Israele. L'esilio del popolo
è, infatti, in un certo senso anche una sconfitta di JHWH di fronte agli dèi pagani.
È da rilevare come il profeta sia impegnato a fondo in tale azione profetica, così
come lo sarà nelle altre. Per obbedire agli ordini ricevuti deve spendere denaro, tempo
e forze, deve pagare di persona con la pazienza e la perseveranza. Tutto questo fa parte
della fedeltà alla Parola ricevuta.
In Ger 18-19 troviamo l’azione simbolica del vasaio, per indicare la libertà di Dio e
l’efficacia irresistibile della sua Parola (Ger 18,1-12). L'azione simbolica vera e propria
si ha in Ger 19,1ss. È un'azione che suscita curiosità o ilarità, ma è la parola che
orienta la curiosità verso qualcosa di determinante e che richiede un'immediata
decisione. Il Signore ordina al profeta di comprare una brocca di terracotta e di andare
con testimoni qualificati alla porta dei Cocci: la brocca infranta significherà l'immane
castigo che l'idolatria trascinerà sul popolo.
Questo gesto è davvero un annuncio per un tempo di crisi che si avvia verso la
catastrofe e che l'azione profetica vuole scongiurare, rendendola evidente ai propri
interlocutori. Il luogo in cui il gesto profetico si compie - la valle di Ben-Innòm - è
altresì una denuncia dell'idolatria, che era giunta a favorire l'infamia dei sacrifici umani
al Tòfet. Geremia aggrava poi il suo atto di denuncia delle false sicurezze con un
discorso tenuto al Tempio che gli causa l'arresto e una serie di sevizie da parte del
"commissario di polizia" del Tempio stesso.
In Ger 27 il giogo portato dal profeta è simbolo della schiavitù che Babilonia
imporrà agli avversari. In Ger 32, attraverso un gesto che sembra insensato, Dio dà nuova speranza,
mentre si è in una situazione disastrosa. Il gesto è tanto più significativo se collocato
nel contesto della predicazione di speranza dei cc. 30-33.
In Ger 51,59ss il profeta annuncia un evento che non si realizza pienamente
nell'immediato. Vi è una discrepanza tra parola di Dio e immaginazione del profeta. La
Parola trascende la capacità del profeta di comprenderla o di vederla realizzata. In
questo rotolo di sventure che cadranno su Babilonia sta significata anche la certezza
della speranza di Israele, fondata sulla futura ineluttabile fine dei suoi nemici.
4.2. Il celibato del profeta (Ger 16) In generale, le azioni simboliche investono la corporeità del profeta, ma non tutta la
sua biografia. Diverso è il caso del celibato profetico di Geremia. In Osea con il
matrimonio ed ora in Geremia con il celibato profetico abbiamo, più che un'azione
simbolica - che si svolge in una determinata situazione comunque transitoria -,
un’opzione che coincide con la stessa condizione esistenziale del profeta, alla quale lo
ha chiamato la parola di Dio. Quest’azione simbolica è dunque un particolare che
coinvolge non solo un gesto del profeta, ma tutta la sua vita, facendone un segno (Ger
16,1ss.).
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Geremia viene invitato a scoprire nella propria esistenza la presenza di JHWH.
Questo vuole dire che Geremia non è un profeta al servizio del Signore unicamente
con l'oracolo, con la sua bocca, ma con la sua vita: è la vita intera che ha funzione
oracolare. Detto in altre parole, l'umanità del profeta diventa luogo della rivelazione di
Dio: elemento dal punto di vista teologico di grande importanza e premessa per una
rilettura cristologica dell'AT! Così nella vocazione Geremia non dice di essere divenuto
profeta, ma di aver scoperto che l'essere profeta costituisce l'essenza stessa della sua
persona. La natura profetica è la vera e totalizzante identità della persona di Geremia.
Se nelle "azioni simboliche" o "pantomime profetiche" il profeta svolgeva un
compito, rappresentava delle scene, pur non prendendovi ovviamente le responsabilità,
ora non si tratta più soltanto di rappresentare qualcosa, ma di vivere nella propria vita
la Parola.
Non dimentichiamo che, nel corso del libro, Geremia ha già sperimentato la
solitudine, l’emarginazione impostagli dalle trame ordite contro di lui, dalle
persecuzioni, dal disprezzo dei suoi stessi connazionali. Questo era già evidente nella
prima e nella seconda confessione (cf 11,18-12,6; Ger 15,17): «Non mi sono seduto per divertirmi nelle compagnie di gente scherzosa, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario perché mi avevi riempito di sdegno». Inoltre, vi era stata già la proibizione divina di
intercedere e la sofferenza conseguente del profeta, nata dalla sua sincera passione per
i concittadini i quali lo ripagano con loro durezza, che giunge fino a perseguitarlo, a
volerne la morte.
Ma adesso egli è chiamato a far penetrare ancora più in profondità l'esperienza di
tale solitudine: se prima il soffrire poteva, in qualche modo, essere un dolore che lo
arricchiva, ora egli deve accettare una solitudine totale, personale, anche anagrafica. Il
profeta è costretto persino a fare il lutto dei propri sentimenti! Così, il sensibile e
delicato Geremia, pieno d’affetto per la sua terra e di partecipazione per la tragedia del
suo popolo, è come costretto a reprimere ogni lacrima e ogni gesto di solidarietà,
diventando insensibile come il bronzo, duro come la pietra. Amore e dolore gli sono
vietati perché la sua stessa carne riveli il silenzio e l’esilio di Dio, che lascia abbacinati e
storditi. Di qui la sua solitudine anagrafica, totale: sul piano personale e sociale!
Ma veniamo un attimo al nostro testo, specie Ger 16,1-9 che è il cuore narrativo,
mentre i vv. 10-10-13 mostrano la motivazione teologica di tutta questa tragedia con
un linguaggio tratto dal Deuteronomio.
A Geremia non viene richiesto solo il celibato, ma anche l'astensione dai riti funebri
(vv. 5-7) e dalla partecipazione alle feste (vv. 8-9). Il ritirarsi di Geremia da questi
momenti fondamentali della vita sociale e civile, deve diventare parabola del ritirarsi di
JHWH dal proprio popolo e dello sfaldarsi della comunione all’interno del popolo
stesso. E, come in questi riti sociali l'uomo mostra la propria solidarietà ed amicizia
con gli altri, così il sottrarsi ad essi diventa dichiarazione di una rottura dei rapporti
amicali, figura provocante dell'allontanarsi di JHWH, che toglie anche i doni
dell'alleanza (cf Os 2,10ss; in Os 2,21 sono i doni che lo sposo porta alla sposa come
dote per il nuovo rapporto di alleanza matrimoniale).
Merita che si approfondisca ancora un momento il significato del celibato di
Geremia. Il profeta deve diventare parabola di un Dio, che sembra ritirarsi dal suo
popolo, staccandosene drasticamente: in realtà è un distanziarsi per amore, per la
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salvezza. Così, più profondamente, lo stesso profeta, pur non potendo vivere
esteriormente la solidarietà con il popolo, in realtà la raddoppierà.
Si deve sottolineare che lo stato di celibato era così abnorme nella cultura biblica
che non c'era neppure il vocabolo corrispondente al nostro "celibe", sicché Geremia è
costretto ad esprimere questa situazione, ricorrendo a una simbologia matrimoniale in
negativo: il non prendere moglie e non avere figli né figlie. A Geremia viene chiesto di
andare contro la dualità sessuale - che fa parte del carattere antropologico sessuale
dell'uomo biblico - e di rinunciare a una cifra simbolica tanto alta da divenire metafora
per antonomasia della relazione di alleanza di Dio con il suo popolo. Gli è inoltre
chiesto di rinunciare alla procreazione, cioè al segno per eccellenza della benedizione,
della promessa.
Essendo vero che, durante le catastrofi, chi non ha figli e non ha moglie soffre meno
di chi ha il cuore lacerato per l’affetto verso di loro, si potrebbe pensare che, con
questo celibato, Dio voglia risparmiare un dolore a Geremia; ma non è così, perché il
vissuto del profeta sarà quello di una dolorosa e a volte insopportabile solitudine.
Il celibato di Geremia è esplicitamente connesso con il ministero profetico e si può
leggere perciò in senso anche positivo. Infatti, nell'ora fatale della catastrofe, per
Geremia il celibato deve costituire una parola di Dio per il popolo, un’espressione di
questa fedeltà alla parola di Dio che è irrevocabile. Il valore positivo del celibato di
Geremia sta nel ricordare, come vita solitaria, proprio l'imminenza del Signore; è
inoltre il segno di questo coinvolgimento totale della sua vita con la Parola di cui è
portatore. In un certo senso, sia pure al limite, si può vedere nel celibato di Geremia
quel taglio escatologico che verrà particolarmente messo in evidenza nel NT.
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II QUALE CURA PER IL CUORE MALATO? 1. Il "cuore" quale cifra di un’antropologia unitaria La visione antropologica di Geremia, rispetto alle restanti concezioni attestate nei
testi biblici, non è particolarmente originale, almeno per quanto attiene alla struttura
dell'umano e dei suoi elementi costituitivi. In ogni caso è fondamentale, per intendere
il suo messaggio, la sua concezione del "cuore". Se il problema radicale di Geremia
sarà discernere la qualità del cuore del popolo di Dio e dell'uomo in generale, anche la
speranza non potrà che configurarsi come un cuore nuovo, circonciso, come una
"nuova creazione" dell'uomo.
Lēb e lēbāb, in senso traslato indicano sia i sentimenti dell'uomo (e anche la loro
sede), sia la conoscenza delle capacità di discernimento, e sia infine la libera volontà e i
progetti (cf, ad es., Ger 22,17). Il "cuore" abbraccia tutte le dimensioni dell'esistenza
umana, proprio in quanto umana, che coincidono con l'uomo stesso e la sua relazione
con Dio.
Quindi una sostanziale caratteristica che si può rilevare dall'uso biblico, condiviso in
tutto da Geremia, è che, a differenza delle nostre lingue, il concetto di cuore nel mondo
biblico si riferisce sia all'affettività che all'emotività ed, insieme e primariamente, indica
l'attività intellettuale decisionale e di discernimento. Si può comprendere, dunque,
che, quando il discorso biblico parla del cuore, non intende l’affettività e l’emotività,
ma piuttosto un'intelligenza che si lascia interpellare e che si muove attraverso la
volontà ed il corpo. Ne consegue che il cuore è anche la fonte del ricordo, della
memoria, è il centro della progettualità e delle scelte decisive. È quindi il cuore il
centro della coscienza morale e della decisione di fede, detta anche "cuore aperto",
come purtroppo anche della decisione della non-fede, detta anche "cuore indurito".
2. Una progressiva radicalizzazione del pessimismo antropologico 2.1. Appoggio iniziale alla riforma di Giosia Crediamo che i testi geremiani, se letti con la metodologia storico-critica, ci
permettano anche di ricostruire una certa evoluzione del suo pensiero, che si mosse in
direzione di un "pessimismo antropologico" sempre più accentuato.
Forse durante il primo periodo della sua predicazione si allineò agli sforzi di
attuazione della riforma di Giosia, con la centralizzazione del culto in Gerusalemme
(cf i temi della teologia deuteronomistica: un unico Dio, un solo popolo, un solo
santuario).
Ma quale fu l'atteggiamento di Geremia nei confronti di questa riforma? Non
abbiamo nei testi indicazioni sufficienti per dire chiaramente se Geremia l'abbia
appoggiata sul piano politico, tuttavia sembra di poter rilevare una certa concordanza
23
di fondo, nei temi e nei fini della sua predicazione, con la riforma giosiana: la polemica
contro l'idolatria, la necessità di una purificazione dagli idoli, l'invito a una rinnovata
fedeltà a Dio e all'alleanza.
La prima fase della predicazione di Geremia è costituita, infatti, di ammonimenti e
rîb [requisitoria di alleanza], in cui predomina il linguaggio familiare, attraverso il quale
il profeta vuole far presenti i sentimenti di Dio (Ger 3), di cui egli si fa interprete.
Altro motivo di questo primo periodo è l'invito alla conversione e alcune parole di
speranza, che si possono collegare forse agli entusiasmi per l'opera di Giosia, che tenta
di espandere il regno, riportando il tempo splendido di Davide. Troviamo in alcune
parole di Geremia l'eco di tali progetti e delle speranze da essi suscitate circa il
rimpatrio dei deportati del Nord per rifare un unico popolo nella terra dei Padri.
2.2. Constatazione del fallimento della riforma di Giosia Già nella predicazione più antica, Geremia si avvicina al vero problema: la riforma
del cuore. Questo suppone che diventi chiaro il fallimento sostanziale della riforma
giosiana e delle istituzioni politiche e religiose di Giuda e Israele.
Più radicalmente la constatazione del fallimento della riforma giosiana è il
riconoscere che l'Alleanza del Sinai è a pezzi e che è ormai tardi per potere riparare
una realtà che sta per crollare sotto i colpi del peccato: «Molte genti passeranno vicino a questa città e si chiederanno: “Perché il Signore ha trattato in questo modo una città così grande?” E risponderanno: “Perché hanno abbandonato l'alleanza del Signore, loro Dio, hanno adorato e servito altri dei”» (Ger 22,8-9).
Il passo presenta formule di chiaro sapore deuteronomista e pertanto la metodologia
storico-critica tende ad attribuirlo ai redattori deuteronomisti. Esplicita, però, un
pensiero sottinteso a tutte le denunce di Geremia sul fallimento delle varie istituzioni e
di una vita religiosa non condotta nella pratica della giustizia sociale (cf il richiamo alla
giustizia sociale fatto con le espressioni tipiche della Tôrāh in Ger 22,1ss; Es 22,20-21;
23,9).
Il popolo si è dunque dimenticato dell'esodo e del patto e ne ha smarrito un
autentico ricordo (Ger 11,1-8): «Maledetto l'uomo che non ascolta le parole di questa alleanza, che io imposi ai vostri padri quando li feci uscire dalla terra d'Egitto, dal crogiolo di ferro, dicendo: “Ascoltate la mia voce ed eseguite quanto vi comando; allora voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ger 11,3-5).
In questo processo di dimenticanza nei riguardi del Signore, che ha portato il
popolo ad essere tutto una piaga (8,22; 14,17), sono coinvolti tutti. Sono tutti colpevoli
dal più piccolo al più grande: «Perché dal piccolo al grande tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna» (Ger 6,13; cf 8,10). Questa defezione
generalizzata dall'alleanza coincide con il fallimento delle istituzioni, in quanto
istituzioni che devono permettere a Giuda e a quanto rimane di Israele di vivere come
popolo di Dio. Geremia presenta allora una lista d’accusati più completa e diversificata
che ogni altro libro profetico: re, dignitari, sacerdoti, profeti, sapienti, popolino.
Passiamo ora in rassegna questa lista di denunce di fallimento.
24
2.2.1. Fallimento della monarchia Geremia annuncia il fallimento della figura del re e della monarchia davidica, in quanto
non sono stati modello d’ordine e giustizia, ma soltanto di sperpero e di oppressione
politica ed economica.
Il giudizio negativo sulla monarchia non è solamente un giudizio politico contro
l’azione oppressiva perseguita da precisi regnanti (cf Ger 22,13-19 contro Ioiakìm;
contro Conia in Ger 22,24-30), ma ha un valore teologico in quanto valuta come
inefficace un'istituzione che, nella teologia del Sud, aveva assunto un valore quasi
sacramentale.
Per quanto riguarda poi il giudizio sulla politica seguita dalla corte, Geremia, che
dovette confrontarsi con molti re, fu sempre portavoce delle esigenze di Dio e della
fede, ma risultò comunque un profeta periferico ed ininfluente rispetto alla
maggioranza del popolo ed alla corte nel suo insieme, salvo alcune eccezioni.
Vano fu il tentativo ripetuto di far prevalere la saggezza politica rispetto agli egoismi
(cf l'alleanza tradita del cap. 34; contro la corruzione: Ger 5,21.28) e ai progetti
ambiziosi (cf il palazzo di Ioiakìm il quale, oltre a tutto, aveva già imposto la pesante
tassa da destinare al protettore Necao: 2Re 23,35).
La politica delle alleanze perseguita da questo monarca fu condannata da Geremia
come una fede negli uomini più nel soccorso divino (Ger 2,18.36) e come una sorta di
divinizzazione del potere, non meno pericolosa dell’idolatria cultuale. Essa, infatti,
genera un falso culto (Ger 7,26) e una smodata fiducia nelle ricchezze e nelle risorse
umane.
D’altra parte egli dovrà constatare incessantemente che la sua predicazione rimane
inascoltata perché essa conta su Dio soltanto: tale principio sembra infatti agli occhi
dei più come irresponsabile ed ingenuo. Geremia non è politico, ma nondimeno, per il
suo distacco dalle passioni politiche e dalla sete di potere, conserva una grande
lungimiranza e un acuto discernimento dei tempi. È la saggezza della fede ciò che
permette di restare lucidi e di non cadere nelle illusioni e nelle passioni del potere (Ger
17,5-13).
Egli cercava di mantenere vivo il sogno deuteronomico di una società giusta e
fraterna che vivesse nell'obbedienza alla volontà di Dio.
2.2.2. Fallimento del progetto di una società fraterna Egli dovette constatare anche il fallimento della fraternità (Ger 9,1ss). Israele non è
un popolo di fratelli, ma di traditori. Geremia mette sotto accusa, oltre che il re, anche
il popolo di Dio. Questo crollo dell'ideale deuteronomista della fratellanza di Israele e
dell'unità del popolo non significherà rinunciare definitivamente ad esso, ma piuttosto
affidarlo solamente all'intervento di Dio.
Il profeta non pensa affatto ad un nuovo stato o ad una restaurazione monarchica,
ma ad una comunità che solo Dio potrà radunare con pastori costituiti da Lui e non
voluti dagli uomini, come era successo in 1Sam 8, per i quali c'è il duro giudizio di Ger
23,1-2. Il sogno di un popolo fraterno non deve essere ridotto ad un piano puramente
spirituale o morale, e nemmeno ad una restaurazione politica del Regno. Piuttosto sarà
25
l'instaurarsi di una società nuova, senza che alcuna istituzione o persona possa
presentarsi come il salvatore5.
Analizziamo ora, a modo di esempio, un passo concernente il tema della conoscenza
di Dio e della giustizia sociale (Ger 9,1-8).
Come stile e come tema risulta abbastanza vicino agli oracoli del poema sul nemico
del Nord (4,5-6,30): in particolare l'oracolo di giudizio del v. 8 si ritrova puntualmente
in Ger 5,9.29. Il nostro passo è costituito da un oracolo di JHWH, comunicato da
Geremia in discorso diretto. È una commistione di accuse contro il popolo e di
annuncio del giudizio: il tutto introdotto dal genere del compianto. Il profeta vorrebbe
fuggire di fronte al compito che gli è dato da JHWH e di fronte allo scoraggiamento che
lo ha preso vedendo l'infedeltà del popolo. Il nostro testo presenta la situazione
religiosa del popolo come totalmente degradata e ciò che più impressiona è che non
esiste più un'ultima opportunità per cercare di accogliere il perdono divino.
Ma vediamo adesso più da vicino il testo in questione. L'introduzione del v.1a
richiama in parte le confessioni, dove il profeta ci fa conoscere la sua disperazione, la
sua rivolta: anche qui ci fa conoscere il suo scoraggiamento.
È sfiduciato a causa del popolo, della sua profonda perversità, e non vorrebbe avere
più nulla a che fare con esso. Non è una reazione di tipo teologico, ma passionale, che
non deriva da una sorta di freddezza nei confronti del popolo di Dio ma, al contrario,
proprio da un profondo attaccamento.
Il sentimento del profeta quindi dà corpo al sentimento del Signore stesso, dà
espressione al pathos di Dio. L'oracolo di JHWH, che Geremia riporta in discorso
diretto, dà la spiegazione di questo avvilimento del profeta.
Si inizia con un’accusa globale: sono tutti adulteri ! Evidentemente questo termine
non riguarda soltanto l'infedeltà coniugale, ma è un'allusione a tutti quegli
atteggiamenti che sono segnati dall’infedeltà ai comandamenti di JHWH, il quale
intrattiene con il suo popolo una relazione di tipo sponsale. Ai vv. 2ss si precisa in che
cosa il popolo sia veramente colpevole: ciascuno è preso dalla frenesia di imporsi, di
diventare sempre più potente. E, per giungere a questo potere il più rapidamente
possibile, si ricorre alla menzogna anziché alla verità, cioè a quella sincerità nei
rapporti sociali voluta da Dio come momento essenziale nella costruzione di una
comunità sociale fraterna.
I delitti commessi da Israele sono collegati gli uni agli altri e hanno in comune l'uso
menzognero della parola umana. La lingua è quindi utilizzata come un arco teso,
pronto a scoccare la freccia della calunnia, della menzogna, della falsa testimonianza.
Nella seconda parte del v. 2 troviamo una successiva accusa che si giustappone alla
prima: la "non-conoscenza di JHWH".
È la mancanza di una veracità nei rapporti sociali che trascina con sé anche l'assenza
di una giusta relazione con Dio e quindi una non-conoscenza di Lui. Al v. 3 viene
mostrata la gravità della situazione: coloro che si fanno del male e che si scagliano
queste parole menzognere non sono degli stranieri ma dei vicini, anzi dei fratelli, in
quanto sono "figli di Israele".
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Il brano sui pastori di Ger 23,1-8 è uno dei pochi testi messianici del profeta e uno dei rari momenti di
luce che squarciano la sua esperienza drammatica. Molti commentatori vi vedono una glossa dovuta alla
redazione finale. Il suo senso teologico è chiaro: affermare la fedeltà di Dio alle sue promesse (2Sam
7,11ss; cf Ger 30,9) ma sempre in vista della sopravvivenza del popolo.
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Questa relazione da prossimo a prossimo, da parente a parente, è dunque interrotta
dalla lotta per la supremazia, per il potere.
Il male è talmente grave che paradossalmente il profeta invita non tanto a ristabilire
l'armonia fraterna quanto a provare una sfiducia generalizzata, cioè a dubitare del
fratello. Questo non è certamente lo scopo del profeta, ma è una messa in guardia di
fronte alla gravità della situazione. Tale ammonimento di fronte alla fiducia riposta nel
fratello serve ad introdurre una spiegazione sull'uso mortifero della lingua nella parola
umana.
È comunque chiara l'affermazione: la profondità del male è tale e la perversione è
così radicata che il popolo di Dio non è più capace di tornare a Lui, di convertirsi, e
rifiuta di conoscere il Signore. Ecco, rifiuta di conoscere il Signore in quanto rifiuta di
accogliere le sue esigenze, promulgate al Sinai, che riguardano in gran parte la vita
fraterna, la vita sociale.
Al v. 6 viene introdotta la sentenza del Signore; essa richiama l'attività del saggiatore
di metalli, che, dopo un esame attento del materiale - cioè del minerale da raffinare -,
lo passa nel crogiolo, per liberarlo dalle impurità. Così il giudizio divino sarà la sua
misura divina che permetterà di lavorare, di plasmare la massa corrotta del popolo e di
preparare un futuro nuovo. L'unica chance possibile quindi è l'attuarsi del giudizio! La
serietà dell'affermazione del giudizio porta Geremia a ribadire l'accusa sviluppata
precedentemente nel v. 7. La seconda parte del versetto sottolinea il carattere sociale
di questi misfatti di Israele. E così il giudizio si conclude al v. 8 con l'oracolo di
giudizio propriamente detto, espresso sotto la forma di una domanda retorica per
sottolineare come Dio, a malincuore, sia ormai risoluto a castigare il suo popolo
indurito, onde manifestargli la propria autorità, visto che questa è l'unica soluzione
rimasta.
2.2.3. Il fallimento della Legge Geremia constata anche il fallimento della Legge per l'abuso, per l'interpretazione
falsa dei maestri della Legge (cf Ger 8,8-9: la Legge è stata tradita), ma ancora più per
la non-osservanza da parte del popolo intero, che si limita a volte ad un’osservanza
puramente esteriore, senza circoncidersi davvero il cuore (cf Ger 4,4). La predicazione
di Geremia, come quella di altri profeti, denuncia la differenza esistente tra la Legge,
quale è intesa da Dio, e l'uso e la comprensione pratica che gli uomini ne fanno. Quasi
scoraggiato da questo profondo divario, Geremia rinuncia al sogno di una legge
"giusta" non perché il suo sia un rifiuto della Legge, ma perché ritiene che, per una
vera armonia tra giustizia e legge, sia necessaria una sana libertà dell'uomo.
In questo Geremia richiama la predicazione degli altri profeti sulla giustizia sociale;
infatti, esclusivamente la pratica della giustizia sociale coinciderà con il conoscere Dio
(Ger 4,22; 5,4-5; 9,1-9; 22,13-17; cf soprattutto Os 4,2). Ma Geremia, ad un certo
punto, smette quasi di denunciare situazioni di ingiustizia, non perché non auspichi
più una comunità giusta, ma perché la Legge stessa pare impotente ad assicurare
questa possibilità.
Il fallimento della Legge porta ad una “non-conoscenza di Dio”, che Geremia
denunzia come male radicale. Forse l'oracolo che esprime meglio questa denunzia,
formulato in linguaggio sapienziale, è quello di Ger 9,23 dove avere intelligenza è
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conoscere JHWH, quel Signore che fa germogliare sulla terra la sua misericordia, il
diritto e la giustizia.
Geremia riprende quindi la linea della predicazione di Osea e ne ribadisce i
medesimi principi, con un insistito richiamo alla fedeltà dell'alleanza mosaica, che
sembra a Geremia, anche se non vi è una formulazione esplicita in questo senso, essere
risultata fallimentare, inefficace poiché non ha dato i frutti sperati.
Geremia perviene ad una constatazione completamente negativa, poiché riconosce
che il popolo è stolto come un bambino che non riflette, che è senza intelligenza e non
conosce il suo Dio (Ger 4,22). L'accusa di questa ignoranza nei confronti di Dio - e di
conseguenza del fallimento dell'alleanza sinaitica - viene formulata nei termini
dell'abbandono del Signore da parte del popolo, della "dimenticanza di JHWH". Questa
non-conoscenza è alla radice di tutte le lamentele particolari che gli oracoli di Geremia
annunciano e che riguardano l'ambito del culto, della vita sociale, e, in particolare,
della giustizia. Certamente il tema della conoscenza di Dio ha una grande importanza
nel libro di Geremia, dato che Dio è a sua volta Colui che ha una conoscenza intima
del cuore dell'uomo (cf Ger 17,9ss.; 18,23; 48,30). Il profeta stesso si giudica, infatti,
come conosciuto da Dio in modo tutto particolare (Ger 1,5; 12,3).
Se la conoscenza di Dio è collegata al quadro dell'alleanza promulgata al Sinai non
può essere allora semplicemente una sorta d’itinerario intellettuale o mistico, ma
piuttosto deve essere un atteggiamento di vita concreta.
Analizzando le varie menzioni della “conoscenza di JHWH” in Geremia, si deve
constatare che molte di esse rimandano alla giustizia sociale, più che al culto. Gli
esempi più significativi riguardano il re Ioiakìm, Ger 22,13-19, e Ger 9,1-8 per le
relazioni sociali tra pari a pari; ugualmente impressionante l'inutile appello divino a
cercare in tutta Gerusalemme almeno un uomo che difenda il diritto e cerchi di essere
fedele (Ger 5,1). Geremia deve allora riconoscere che né il popolino, né i notabili
conoscono il cammino di JHWH, il diritto del loro Dio (Ger 5,4ss.).
"Conoscere Dio" è in realtà accogliere le esigenze del Dio che si è rivelato al Sinai e
vuole essere conosciuto come il Dio che raccoglie un popolo, secondo un progetto di
solidarietà, e gli dona un progetto di società giusta e fraterna. C'è una sorta
d’equivalenza per Geremia tra «conoscere JHWH» e riconoscere la sua volontà di
giustizia in ogni circostanza.
“Conoscere JHWH” non è allora semplicemente ricordare alcuni fatti del passato, le
tradizioni sulle opere meravigliose nella storia e sulla Legge del Signore, ma è
soprattutto impegnarsi nei processi concreti vitali di conversione e di rinnovamento
che passano attraverso la ricerca della giustizia.
Positivamente, Geremia ricorderà che il padre di Ioiakìm, il re Giosia, conosceva
davvero JHWH, perché faceva trionfare la causa dell'umile, del povero (Ger 22,15ss).
Quindi la constatazione di Geremia risulta molto amara: «Stolto è il mio popolo: non mi conoscono, sono figli insipienti, senza intelligenza; sono esperti nel fare il male, ma non sanno compiere il bene» (Ger 4,22). Egli deplora il rifiuto ostinato, incomprensibile, di
accettare il richiamo di JHWH - che dà l'ultima possibilità di decidersi - non
comprendendo la gravità della situazione (Ger 8,4-7).
Geremia dunque, al pari della teologia deuteronomista, legge nel rifiuto di «conoscere JHWH » un rifiuto sostanziale delle esigenze dell'alleanza: in ciò sarebbe la causa della
fine del regno di Giuda sotto i colpi dei Babilonesi, i quali sono lo strumento del
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giudizio del Dio d'Israele contro il proprio popolo infedele (Ger 5,5ss.; 9,5-8; 34,1722).
La restaurazione del popolo non potrà quindi darsi se non attraverso l'offerta di una
conoscenza di Dio, che passi attraverso la conoscenza delle sue esigenze, ed in
particolare della giustizia. Questa conoscenza di Dio, intesa in senso concreto,
caratterizzerà il tempo della nuova alleanza (Ger 31,34).
2.2.4. Fallimento del profetismo Geremia constata anche il fallimento del profetismo: «Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno vaneggiare, vi annunciano fantasie del loro cuore, non quanto viene dalla bocca del Signore» (Ger 23,9ss; cf anche Ger 14,14ss). Il
paese pullula di profeti che si sono autocostituiti e che ai malvagi potenti augurano
fortuna e agli ostinati dicono: «Non vi coglierà alcuna sventura!». Essi, circondati di
rispetto, abusano della credulità popolare e della dabbenaggine dei tanti stupidi che si
credono intelligenti. Sono i numerosi maestri del mondo pseudoreligioso, che vendono
le loro facili verità quando manca la vera fede; su di loro cadrà il giudizio inesorabile di
Dio: «Ecco, farò loro ingoiare assenzio e bere acque avvelenate» (Ger 23,15).
L'ampiezza e la varietà del fatto profetico in Israele e la presenza, ripetutamente
denunciata di falsi profeti che esteriormente sembrano mostrarsi come i veri, rendono
acuto il problema di distinguere l’autentica profezia dalla falsa profezia.
Il libro di Geremia, oltre al libretto contro i falsi profeti e ai vari apprezzamenti
ironici riscontrabili qua e là nei suoi oracoli, racconta il conflitto e lo scontro tra il
profeta e il falso Anania (Ger 28). Si deve tra l’altro ricordare che nella lingua ebraica
manca il termine per designare un "falso profeta": anche dove le nostre traduzioni
seguono la versione della LXX, che usa la parola "pseudoprofeta", l'ebraico usa nābî’ [profeta]. Infine, lo stesso profeta può talora interrogarsi sulla verità della propria
missione, soprattutto quando incontra difficoltà insormontabili. Un simile dibattito
interiore ci è noto nelle cosiddette confessioni di Geremia.
Il libro di Geremia, in convergenza con il Deuteronomio o forse in dipendenza da
esso, suggerisce alcuni "criteri" relativi sia al messaggio, sia alle persone dei profeti6.
Diciamo subito che non si tratta di "criteri" in senso stretto, e che la distinzione
proposta non esclude che i due aspetti siano intimamente connessi, in modo che un
criterio riguardi a volte il messaggio, a volte la persona.
a. Criteri relativi al messaggio La vera profezia deve realizzarsi (cf Dt 18,21-22). O i contemporanei o la storia
giudicano della realizzazione di una profezia. Ma talora vere profezie non si sono
attuate, almeno così come furono pronunciate. A volte il profeta ricorre a "segni" per
confermare la veridicità della sua profezia. La vera profezia deve essere fedele alla
tradizione (cf Dt 13,1-4). I profeti veri non rinnegano l'autentica tradizione religiosa.
Tuttavia quante novità, cambiamenti, sviluppi nella loro predicazione! Gli oracoli di
sventura sono veri, quelli di salvezza esigono la garanzia dell'attuazione. Ma forse
questo criterio va formulato - per essere biblico - in questa maniera: i profeti veri
6
Cf W. VOGELS, "Comment discerner le prophète autentique?", in NRT 99(1977), 681-701; W.
VOGELS, I profeti. Saggio di teologia biblica, Padova 1994, 109-123.
29
annunciano sempre il giudizio di Dio, che è sventura e salvezza in dipendenza
dall'atteggiamento di fede o di infedeltà dell'uomo a Dio (Ger 28,8-9).
Verifichiamo queste osservazioni su Ger 28. Dalla disputa tra Geremia ed Anania
traspaiono con sufficiente chiarezza i criteri relativi al messaggio per la distinzione della
profezia vera dalla falsa e che sono riconducibili a due: la realizzazione a scadenza
ravvicinata (Ger 28.2-9.15-17) e la conformità dell'insegnamento profetico, che tuttavia
nel testo appare soltanto in filigrana.
Nel momento della proposta profetica, il "vero" profeta non ha ancora l'elemento
probante della realizzazione delle sue parole. Così ai falsi vaticini degli pseudoprofeti
non ha che da opporre la sicurezza della propria missione e la paziente attesa dei fatti.
La fedeltà alla dottrina tradizionale sembra, però, comune anche ai falsi profeti,
almeno formalmente. In realtà, i falsi profeti seguono la mentalità comune, che fa un
uso ideologico delle promesse. Le promesse servono a confermare il popolo nella
credenza di un'inviolabilità magica delle istituzioni umane, senza aprirsi in profondità
alle esigenze di Dio sul popolo. Il falso profeta è tale perché si arroga una missione che
Dio non gli ha dato e perché non discerne il pensiero di Dio nelle varie circostanze
dell'esistenza e, soprattutto, nei momenti più importanti della vita nazionale. Così il
falso profeta, invece di essere una sorta di direttore spirituale del popolo, smarrendo il
vero contatto con Dio (cf Ger 23,18), diviene un semplice professionista del culto e
dell'oracolo; da lui non possono che venire miopi vedute umane, consenzienti per lo
più con il punto di vista dei potenti e ingannevoli verso chi li consulta. Sempre il
capitolo 23 di Geremia ci aiuta a capire la natura della loro infedeltà a Dio.
I falsi profeti tendono a strumentalizzare Dio, a ridurre la sua ineffabile
trascendenza negli angusti limiti delle proprie aspettative e desideri: «Sono forse Dio solo da vicino? Oracolo del Signore. Non sono Dio anche da lontano?». Le profezie si realizzano
non secondo le attese umane, ma secondo un piano noto solo a Dio; il vero profeta ha
una coscienza acuta di questa alterità del piano di Dio e ciò è appunto un segno di
autenticità.
b. Criteri relativi alla persona Non basta che il profeta parli in nome di Dio per essere veramente inviato da Lui; vi
sono allora degli indizi riguardanti la sua persona che possono aiutare a stabilirne
l’autenticità:
a) Il vero profeta è disinteressato, non agisce per desiderio di successo, di denaro o
di gloria personale; invece ci sono profeti che «danno oracoli per denaro» (Mi 3,11). Per la
ricerca di successo il criterio non è evidentemente facile da evidenziare perché se da
una parte è facile cedere alla tentazione di assecondare la gente - cf Ger 29,8: «non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni che essi sognano» -, dall'altra il profeta deve annunciare anche la speranza. Il vero
profeta è dunque tale perché vince, grazie alla propria coerenza, la tentazione della
falsa profezia, che è una possibilità sempre presente anche per lui. Concretamente il
vero profeta deve superare tutta una serie di ostacoli, come il peso sociologico della
monarchia - che attira attorno a sé persone disposte a difenderla pur di avere
ricompense e gratificazioni -, il peso teologico della tradizione, il peso dell'opinione
pubblica, che arriva fino a condizionare i pensieri e i discorsi per un desiderio di
compiacenza e di "integrazione" sociale.
30
b) Soprattutto il vero profeta è solidale fino in fondo con il destino del suo popolo: è
quest'ultima la vera differenza tra Geremia ed Uria, che pure predicava le medesime
cose di Geremia, ma che fuggì in Egitto per salvarsi abbandonando il popolo a se
stesso e mostrando così di non essere stato inviato dal Signore (Ger 26,20-23).
Come si può facilmente vedere, questi criteri hanno un certo valore, ma non
possono essere presi come regole assolute da applicare rigidamente. Nessuno di essi è
un criterio totalmente sicuro per discernere un vero da un falso profeta. Tuttavia
sembra impossibile ammettere che sia vero profeta quello il cui messaggio o la cui vita
personale non corrispondano a nessuno dei criteri enumerati.
2.2.5. Il fallimento del sacerdozio e del Tempio Il profeta denuncia il fallimento del sacerdozio, associato ai falsi profeti (Ger 14,18;
2,8; 6,13-14; 8,10-12). Ma ancor più virulento è l’attacco al simbolo per eccellenza
dell’istituzione sacrale: il Tempio.
Da istituzione santa, in cui si dovrebbe esprimere la vera fede e il vero culto, diventa
spelonca di ladri, fondamento illusorio della speranza di Israele, pretesto per non
convertirsi, errore per la fiducia posta nel santuario, in quanto si ragiona così: se il
santuario è tra noi, Dio sarà sempre con noi, ci difenderà comunque perché Dio è
fedele. Il Tempio diventa giustificazione per la disobbedienza di Israele (cf Ger 7,26).
Le istituzioni salvifiche diventano il contrario di ciò che sono, si trasformano in
pretesto o causa di infedeltà. Affrontiamo ora questo argomento più analiticamente.
Abbiamo prima menzionato brevemente la tematica del fallimento del Tempio
come una delle linee portanti della predicazione di Geremia. Orbene, il cap. 7 chiarisce
come l’esigenza più profonda dell’alleanza non sia il culto, ma la circoncisione del
cuore, il vero rinnovamento interiore.
Questo testo riflette un momento tra i più delicati dell’esperienza profetica di
Geremia e ci riferisce le linee d’un importante discorso tenuto al Tempio. Dello stesso
episodio abbiamo poi una cronistoria in prosa al cap. 26; questo racconto ci permette
anche di datare il discorso intorno al 609 a.C.
Si badi che esso non è tenuto a pochi responsabili religiosi, ma al popolo intero ed è
di tono particolarmente duro e violento. Il luogo scelto è poi di grande rilevanza poiché
«il Tempio da luogo del sacrificio si trasforma in autentica “cassa di risonanza” della
Parola di Dio, una Parola di condanna e di esecrazione»7.
Il testo di Ger 7 è strutturato in modo chiaro, con un’introduzione (vv. 1-2) e un rîb profetico (vv. 3-12) a cui seguono la minaccia e la sentenza (vv. 13-15). Al centro della
requisitoria profetica sta il rapporto tra il culto e la giustizia che tanta attenzione aveva
già trovato nella predicazione di Amos, Osea, Isaia e Michea.
"Siamo di fronte ad un linguaggio vigoroso, possente ed estremamente chiaro, che
fa da supporto ad un’analisi rigorosa ed inflessibile. L’obiezione, che costituisce il
senso del messaggio è lampante: non basta che il popolo sia eletto da Dio né che il
Tempio sia la dimora di Dio. Geremia scaglia con forza una pietra nello stagno delle
false sicurezze, delle pretese e delle illusioni. E la pietra che scaglia è la parola di Dio"8.
7
L. ALONSO SCHOEKEL, "La coscienza dell'obiezione. Considerazioni bibliche", in Civiltà Cattolica
3361(1990), 45-51, qui 46.
8
L. ALONSO SCHOKEL, art. cit., 47 31
È la parola di Dio superiore a tutte le istituzioni di Israele ed è totalmente
competente nel giudicarle! L’idea paradossale sviluppata da Geremia, non per propria
autorità, ma come obiezione che la stessa parola di Dio scaglia sul popolo, è che, per
Israele, il culto serve a stare tranquilli in coscienza, e non a cambiare effettivamente la
condotta: in particolare il rito dell’Espiazione non serve a emendarsi effettivamente
dalle proprie colpe, poiché si affida al puro rito il compito di sconfiggere il peccato,
mentre tale vittoria sul peccato deve procedere dalla decisione del cuore e cioè dalla
volontà di conversione. Si ha con il culto una sorta d’istanza rituale periodica che
permette di pareggiare i conti con Dio e così di ritornare a fare il male. Il profeta si
scaglia contro tale circolo vizioso, contro questa mentalità che accoppia
disinvoltamente culto ed ingiustizia.
È tale legame perverso che la parola del Signore vuole spezzare. In questo capitolo il
centro teologico sta proprio nella Parola del Signore che richiama le sette condizioni di
fedeltà all’alleanza, con evidenti riferimenti al decalogo, e, in particolare alle sue leggi
sociali. L’arringa con le accuse passa - attraverso il ricordo del passato glorioso di
Israele irrimediabilmente perduto, di Silo distrutta - alla minaccia concreta per il
presente degli ascoltatori. Il climax del discorso è pertanto il v. 14: «io tratterò questo tempio sul quale è invocato il mio nome e in cui confidate, e questo luogo che ho concesso a voi e ai vostri padri, come ho trattato Silo».
A questo discorso il redattore deve avere unito tre piccoli oracoli che integrano la
medesima tematica, con la constatazione dell'incapacità del popolo di tornare sui
propri passi, rendendo così vana l'intercessione del profeta (Ger 7,16-20). Qui il profeta è esortato a non elevare più suppliche per il popolo che ha già deciso di
perseverare nella protervia della propria condotta e che, pervicacemente, continua a
peccare contro JHWH. Il peccato di Israele qui stigmatizzato è contro il primo
comandamento, con il culto di divinità straniere.
I vv. 21-28 presentano un altro oracolo dove si denuncia un culto senza fedeltà:
«Allora dirai loro: Questo è il popolo che non ascolta la voce del Signore suo Dio né
accetta la correzione. La fedeltà è sparita, è stata bandita dalla loro bocca» (Ger 7,28).
La negazione del culto non deve, però, essere intesa come assoluta, ma solamente
come dialettica, come correttivo di una degenerazione ritualistica della religiosità a
scapito dell'impegno etico. Infatti, la predicazione profetica non intende abolire il culto
dell'alleanza jahvista, ma affermare che il culto senza giustizia è vuoto e viene meno al
suo stesso scopo ultimo, quello di mettere il popolo in comunicazione con la salvezza
che viene dal Signore.
Il terzo oracolo (vv. 29-34) è più vicino alle tematiche dell'arringa profetica contro il
Tempio e di nuovo accusa un culto falso ed illegittimo. Si ricordano i sacrifici umani
che venivano praticati nella valle di Ben Hinnon, dove tra i rifiuti si facevano, in un
crematorio, anche appunto sacrifici umani, sul tipo delle usanze cananee, per placare
l'ira del mondo divino. Per Geremia questo è un abominio ed è un fraintendimento
assoluto della volontà del Signore: «Hanno costruito le alture di Tòfet [Braciere], nella valle di Ben-Innòm, per bruciare nel fuoco i loro figli e le loro figlie, cosa che io non avevo mai comandato e che non avevo mai pensato» (v. 31).
32
3. Una diagnosi infausta: il cuore malato "Ci troviamo di fronte ad un panorama che appare particolarmente desolante. Lo
sforzo dispiegato attraverso una vasta opera di predicazione della legge, la sistematica
riproposta dei contenuti della fede, il rinnovamento liturgico favorito dal ruolo
esclusivo del Tempio di Gerusalemme dove prestavano il servizio sacerdoti fedeli e
qualificati, la riforma istituzionale promossa dall’autorità regale, tutto questo appariva
a Geremia come una maschera che celava la non avvenuta conversione dei cuori.
Promossi dall’esterno, questi rimedi non giungevano a modificare la struttura del
cuore malato, che rimaneva incapace di capire chi fosse il Signore e di aderire in verità
al suo comandamento"9.
Tutto questo fa prendere coscienza a Geremia che la conversione è un’impresa
disperata e che Giuda ed Israele sono presi da una follia autodistruttiva. Il peccato non
è un semplice episodio superficiale, ma è profondamente radicato fino ad essere quasi
inestirpabile. Il cuore, che definisce l’interiorità umana nella sua valenza intellettuale,
morale e religiosa, è insidiato dalla "menzogna", che per Geremia è la quintessenza del
peccato. La conseguenza del peccato è terribile: cuore incirconciso ed incapacità alla
conversione.
I testi geremiani sulla situazione che si determina a causa del peccato sono
veramente numerosi ed assai significativi. Sarebbe, però, errato ritenere che la critica
del profeta sia dovuta all’epoca in cui egli vive, quasi questa fosse contrassegnata da
una crescita vertiginosa di devianza religiosa ed etica. La predicazione di Geremia
risultava così radicale ed esigente per i più da sembrare immotivata come risulta da
Ger 16,10: «Quando annuncerai a questo popolo tutte queste cose, ti diranno: “Perché il Signore ha decretato contro di noi questa sventura così grande? Quali iniquità e quali peccati abbiamo commesso contro il Signore, nostro Dio?” Tu allora risponderai loro...».
Il fatto è che il discorso di Geremia viene recepito dai più come disfattista,
pessimista, in contrapposizione ai discorsi di altri ministri della comunità: sacerdoti,
capi, (falsi) profeti. Il discorso di Geremia si presenta come alternativo al loro e diventa tale non in questioni marginali, ma proprio nella sostanza, cioè nel modo di
capire l’uomo e la storia. Anche se entrambe le parti desiderano la medesima cosa, la
salvezza, divergono invece quanto alla diagnosi del male che minaccia il popolo e alle
modalità con cui tale salvezza si compirà.
Per Geremia il male è totale in quanto nessuno è esente dal peccato, ma la sua
minaccia è ancora più insidiosa poiché, là dove è presente, esso non viene solitamente
riconosciuto. La diagnosi spietata che fa della situazione sta proprio nell’assunzione
del postulato che il cuore si è indurito a causa del peccato e, a motivo di questo
indurimento non può neppure capire di volere il male, né comprendere il perché del
castigo.
Il messaggio del profeta su questo punto è assai simile all’inizio del Sal 36,2-4: «…
nel cuore del malvagio: non c’è paura di Dio davanti ai suoi occhi; perché egli si illude con se stesso, davanti ai suoi occhi, nel non trovare la sua colpa e odiarla. Le sue parole sono cattiveria e inganno, rifiuta di capire, di compiere il bene...». Quindi il popolo peccatore,
guidato dai suoi capi accecati, non potrà che deridere le prospettive tenebrose avanzate
9
P. BOVATI, "Conoscenza e giustizia nel profeta Geremia", in PSV 18(1988), 35-47, qui 40-41.
33
dal profeta (cf 2,19; 44,15-19). Sta qui la ragione per la quale il profeta, di fronte alla
durezza e all’insipienza del cuore del popolo, che non comprende il bisogno di
conversione, non può che scoppiare in pianto (8,23; 13,17; 14,17).
È un pianto che, più che amaro sfogo, è una sorta d’ultimo muto invito alla
conversione, così come lo sarà il pianto di Gesù su Gerusalemme (Lc 19,41).
3.1. Elementi di una diagnosi Ma vediamo passo dopo passo la diagnosi che Geremia fa del peccato, di fronte al
quale la parola diventa pianto muto, ultimo appello alla conversione, richiamo estremo
ad approfittare della misericordia divina:
- 3,10: «E nonostante questo, la sua perfida sorella Giuda non è ritornata a me con tutto il cuore, ma soltanto con menzogna». Oracolo del Signore. È qui chiara l'esigenza di un
cambiamento non superficiale, che non si limiti alla condotta e alle azioni, ma che
vada davvero alla radice del problema. Su questo versetto e sul seguente torneremo poi
nel commento del prossimo paragrafo.
- 3,17: «In quel tempo chiameranno Gerusalemme “Trono del Signore”, e a Gerusalemme tutte le genti si raduneranno nel nome del Signore e non seguiranno più caparbiamente il loro cuore malvagio».
- 4,14: «Purifica il tuo cuore dalla malvagità, Gerusalemme perché possa uscirne salva. Fino a quando abiteranno in te i tuoi pensieri d’iniquità?». È un invito pressante a
purificare il cuore poiché il castigo (male) che viene su Gerusalemme è motivato dalla
malvagità che abita nella città eletta. Il castigo, ancora prima che essere una qualche
sventura politica, è un’amarezza del cuore, una lacerazione del cuore (4,18).
- 5,23-24: «Ma questo popolo ha un cuore indocile e ribelle; si voltano indietro e se ne vanno, e non dicono in cuor loro: "Temiamo il Signore, nostro Dio,..."» Il cuore, centro
delle decisioni, è occupato totalmente dal peccato (cf sul cuore caparbio, malvagio,
indocile e ingannevole anche Ger 10,8; 13,10; 15,12; 18,12; 20,12).
Il cuore del popolo è ingannevole e fallace come quello dei falsi profeti, il cui
discorso ascolta volentieri (Ger 23,26). Il cuore è allora riconosciuto come
incirconciso, ossia incapace di vivere nelle esigenze dell'alleanza. In questa situazione si
trovano sia Israele sia l'intera umanità: «Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore - nei quali punirò tutti i circoncisi che rimangono non circoncisi: l'Egitto, Giuda, Edòm, gli Ammoniti e i Moabiti e tutti coloro che si radono le tempie, i quali abitano nel deserto, perché tutte queste nazioni e tutta la casa di Israele sono incirconcisi nel cuore» (cf Ger 9,24-25). La
generale incirconcisione esprime l'universale bisogno di salvezza dal dominio del
peccato.
Nei testi degli oracoli sulle nazioni troviamo la denunzia del peccato come superbia
del cuore: «Abbiamo udito l'orgoglio di Moàb, il grande orgoglioso, la sua superbia, il suo orgoglio, la sua alterigia, l'altezzosità del suo cuore» (Ger 48,29; cf anche Ger 49,16).
Alcuni autori, applicando il metodo storico-critico al libro di Geremia, pensano che
forse il profeta, negli oracoli dei primi tempi della sua predicazione, ritenesse il popolo
ancora capace di vera conversione; ma certamente dovette ricredersi ben presto e la
redazione del libro pone in ogni caso l'accento sugli oracoli - quale che ne sia l'epoca e
l'autenticità - che additano nel peccato un problema umanamente insuperabile:
«Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore» (Ger 4,4). Il peccato sembra
34
allora una potenza invincibile ad ogni mezzo umano: «il peccato di Giuda è scritto con stilo di ferro, è inciso con punta di diamante sulla tavola del loro cuore e sui corni dei loro altari» (Ger 17,1); «Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce? Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni» (Ger 17,9-10).
In Ger 6,7 il profeta parla di Gerusalemme come di una sorgente che, invece di
gettare acqua fresca e viva, getta acqua inquinata di veleno e di morte; in Ger 6,10 si
parla di orecchio incirconciso, cioè di radicale incapacità di ascoltare la parola del
Signore, di obbedire alla sua volontà: «Il loro orecchio non è circonciso, non sono capaci di prestare attenzione».
3.2. Una prognosi infausta Ancora più famoso è l'interrogativo di Ger 13,23 dove è affermata l'impossibilità di
cambiare, di convertirsi. Il profeta è sicuro che la malvagità di Gerusalemme sia
umanamente incurabile. C'è quasi una seconda natura nel peccatore, per la quale il
peccato è la sua nuova pelle, una struttura interna ed esterna indistruttibile: «Può un Etiope cambiare la sua pelle o un leopardo le sue macchie? Allo stesso modo: potrete fare il bene voi abituati a fare il male?».
La posizione di Geremia sembra essere all'origine anche della prospettiva del
Deuteronomio. Troviamo il medesimo motivo della circoncisione del cuore (mûl) e del
cuore incirconciso (‘ārēl): egli parla con grande chiarezza dell'ostinazione del cuore
(šerirût lēb: 3,17; 7,24; 9,13; 11,8 ecc...) che fa capire quanto sia difficile per l'uomo
l'ascolto della volontà di Dio. Di fronte a tale incapacità a convertirsi, a guarire veramente, il profeta non cade nella tentazione di offrire facili rimedi e consolanti
soluzioni: egli lascia che la piaga resti aperta, che la ferita non si cicatrizzi.
A differenza di Anania e dei falsi profeti, che pretendono di avere il potere di guarire
e consolare il popolo - «Curano alla leggera la ferita della figlia del mio popolo, dicendo:”Pace, pace!, ma pace non c’è » (Ger 8,11) -, egli ha il coraggio di incidere in
profondità la piaga, nella consapevolezza che nessun uomo può guarire davvero la
ferita del popolo e che soltanto Dio la può risanare e cicatrizzare: Dio è l'unico medico
e l'unica medicina. Ma la guarigione che viene da Lui non vuole nascondere la lesione.
Piuttosto Egli la guarisce mostrando, attraverso il profeta, tutta la serietà della ferita
aperta e l'intensità del dolore che soffre attraverso il profeta: «Per la ferita della figlia del mio popolo sono affranto, sono costernato, l'orrore mi ha preso. Non v’è più balsamo in Gàlaad? Non c'è più nessun medico? Perché non si cicatrizza la ferita della figlia del mio popolo? Chi farà del mio capo una fonte di acqua, dei miei occhi una sorgente di lacrime...»
(Ger 8,21-23).
La denuncia del male radicale non è l'ultima parola della storia di Dio con il suo
popolo ma, proprio perché diventa pianto, è invece segno di un nuovo inizio. Il tempo
delle lacrime è un tempo fecondo, perché è la Parola di Dio che si fa sofferenza per il
peccatore.
Inoltre, l'esperienza delle lacrime, che nell'attuarsi del castigo coinvolge anche
Israele (cf Lam 1,1-2), è quella di un rientrare in se stessi, dello spezzarsi di un cuore
indurito che finalmente si apre al riconoscimento della propria colpa e si mette in
ascolto della parola del Signore.
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4. È possibile la conversione del cuore? 4.1 Il ritorno impossibile: Ger 3,1-5 Il testo allude alla legislazione sul divorzio di Dt 24,1ss che impedisce ad un uomo
di riprendersi la moglie se costei, dopo essere stata ripudiata, è stata moglie, di nuovo
ripudiata, di un altro uomo.
Sotto forma di domande si vuole interpellare il popolo che è coinvolto nel giudizio
bilaterale, e si intende provocare la sua attenzione, suscitando una risposta che dia
ragione all'interlocutore (cf Natàn con Davide e l'isaiano canto della vigna con la
domanda agli astanti in Is 5,4). Il caso giuridico qui sottoposto all'attenzione
dell'uditore è quello di una relazione matrimoniale fallita. L'ascoltatore sa che è
giuridicamente inaccettabile ritornare alla situazione del primo matrimonio dopo che,
grazie al libello di ripudio, la sposa si è risposata con un altro. Si badi che il testo
biblico di Dt 24,4 scrive: «il primo marito, che l'aveva rinviata, non potrà riprenderla per moglie, dopo che lei è stata contaminata, perché sarebbe abominio agli occhi del Signore».
Questo sembra portare a concludere che il vincolo d’alleanza tra JHWH ed Israele è
definitivamente spezzato, che nulla lo può far di nuovo esistere e che la comunione tra
i due non si può più ristabilire. E non sembri azzardato il fatto che si usi l'immagine
del ripudio per Dio nei confronti di Israele poiché, pochi versetti dopo, viene
espressamente dichiarato tale ripudio (Ger 3,8). La situazione di Israele è ancora più grave, in quanto non si tratta di una donna che
si è risposata dopo il ripudio, ed è poi rimasta vedova o è stata di nuovo ripudiata, ma
di una donna che ha condotto, prima e dopo il ripudio, una vita dissoluta, di
prostituzione sistematica. Il v.1b prospetta l'eventualità che tale donna desideri fare
questo ritorno al marito di un tempo, ritorno, però, impossibile giuridicamente: «E tu, che ti sei prostituita con molti amanti, osi tornare da me? Oracolo del Signore». In realtà è
Dio, quale sposo di Israele, che desidera tale ritorno, ma sarà purtroppo amaramente
deluso, poiché capirà che la sua donna non desidera affatto tornare da Lui, come
appare dal v. 7: «E io pensavo: “Dopo che avrà fatto tutto questo tornerà a me”; ma ella non è ritornata...». Non solamente la donna non può accampare alcuna pretesa giuridica per
ritornare al marito di un tempo, ma addirittura non lo desidera neppure! Da parte sua
il marito è impedito dalla Legge che gli vieta di riprendere con sé la moglie profanata.
Restaurare la primitiva comunione risulta perciò umanamente impossibile.
4.2. Ma a Dio tutto è possibile... Ma ciò che è impossibile per gli uomini non è impossibile per l'amore di Dio! Nella
relazione tra JHWH ed Israele infatti può succedere che, per l'incredibile amore divino,
Dio si riprenda la donna (cioè il popolo) ripudiata, che è diventata la donna di molti
altri amanti. Basta che il popolo torni a JHWH e subito Egli è disposto a riprenderlo: «E tu, che ti sei prostituita con molti amanti, osi tornare da me? Oracolo del Signore... E ora gridi verso di me: ”Padre mio, amico della mia giovinezza tu sei! Manterrà egli il rancore per sempre? Conserverà in eterno la sua ira?” » (Ger 3,1.5). Questo può avvenire non per i
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meriti di Israele, ma solo per la bontà misericordiosa di Dio che desidera intensamente
tale ritorno 10.
E così Dio invita la ribelle a tornare e a fidarsi del suo amore, che fa cose
impossibili. È questo Dio, che perdona e permette con tale perdono ad Israele di
convertirsi, Colui che inaugurerà i tempi di una economia nuova. L'antica economia,
ormai a pezzi (Ger 22,9), significata dall'arca dell'alleanza, finirà e inizierà un'era
segnata dalla presenza del Signore così che l'intera Gerusalemme - cioè tutto il popolo,
e non solo l'arca dell'alleanza - sarà consacrata dalla presenza del Signore (Ger 3,1617). Questa epoca sarà segnata dal desiderio di Dio di perdonare e dal desiderio del
popolo, generato da questo preveniente desiderio di Dio, di riconoscere le proprie
colpe e di ritornare al suo Dio.
Si incontrano così due movimenti, quello che parte da Dio che fa tornare il popolo,
e l'altro che consiste nella conversione sincera del popolo, il quale finalmente comprende come la salvezza non sia nell'idolatria, ma soltanto nel Signore Dio: «Sui colli si ode una voce, pianto e gemiti degli Israeliti, perché hanno reso tortuose le loro vie, hanno dimenticato il Signore, loro Dio. «Ritornate, figli traviati, io risanerò le vostre ribellioni». «Ecco, noi veniamo a te, perché tu sei il Signore, nostro Dio».
Ad Israele è però chiesto di cambiare l’atteggiamento interiore, un mutamento di
condotta che ripudi per sempre la prostituzione, cioè una condotta non libera, per
mancanza di giustizia o per la pratica idolatrica. Viene richiesto al popolo di assumere
come criterio di condotta la misericordia, lo hesed, quale condizione di base
dell'alleanza, e di imparare dalla propria storia quanto sia fallimentare il peccato. Si
abbozza qui un tentativo di allegoria della vicenda delle due sorelle perverse, Israele e
Giuda, che in Ez 23 diventerà la storia di Oolà e Oolibà. Questa richiesta di
conversione non è, però, la condizione del perdono, ma il frutto del perdono. Se
Israele vorrà tornare al suo Dio, potrà tornare (Ger 3,22-4,1)11!
Accanto alla simbolica sponsale si delinea anche l'immagine della relazione filiale
con Dio, che viene anch'essa restaurata da questo potente amore di Dio: «Ritornate figli
ribelli...». La relazione sponsale dice che l'alleanza è tra due membri adulti e quindi è
una relazione stabilita sull'assenso reciproco delle due volontà, mentre la relazione
padre - figlio non è fondata sull'assenso reciproco, ma solo sulla gratuità del dono,
sull'iniziativa assoluta del Padre-Dio. La relazione sponsale si può perdere, ma la
paternità, e tanto più quella di Dio, è fondante e non può mai perdersi.
Israele viene dunque esortato a tornare a quel Dio che è indefettibilmente Padre e
ad invocare questa paternità. L'invito a ritornare al Signore fa da inclusione ai v. 14 e
22a. I versetti contenuti tra questi due termini sono probabilmente di periodi diversi,
per cui si può capire l'alternarsi di accuse e promesse. È qui formulato il tema
dominante: l'invito ad Israele a riconoscere la paternità divina su di lui e lo splendore
della sua eredità. La conversione non sarà quindi solo un ritorno degli esuli, ma sarà
10
Cf P. BOVATI, "Conoscenza e giustizia nel profeta Geremia", in PSV 18(1988), 35-47.
P. Bovati ritiene che l'imperativo (grammaticale) šûbû [«ritornate, figli ribelli»] in 3,22 possa essere
inteso "non come una condizione per ottenere il perdono, ma come un annuncio lieto, come un invito a
lasciarsi perdonare, come un'offerta di riconciliazione, necessaria dopo il gesto del ripudio, cioè la
condanna dell'esilio. Il perdono divino non si deduce come necessità logica dal comportamento umano;
solo il Signore può dichiararlo, dicendo «tornate». Cf P. BOVATI, Geremia 1 - 6, dispense del PIB, Roma
2005-2006, 211.
11
37
un ritorno personale al Signore, reso possibile da Lui; questa vicinanza ritrovata
permetterà al Signore di operare la guarigione delle ferite inferte dal peccato nel
popolo. Se la simbolica sponsale ad un certo punto si interrompe, quella paterna,
viceversa, continua in quanto il rapporto con Dio come Padre rimane sempre
disponibile ad Israele, al di là di ogni infedeltà.
4.3. La lieta notizia: un nuovo inizio nella libertà divina (Ger 18,1-12) Questa possibilità di un nuovo inizio è in definitiva radicata nell’iniziativa della
libertà divina. Di questa libertà divina parla in modo mirabile Ger 18 con il racconto
della visita alla bottega del vasaio (Ger 18,1-12). Essa non è una libertà vuota, ma è
una signoria che si manifesta nel perseguire il suo piano nella storia che rimane
nondimeno anche l'ambito della responsabilità dell'uomo. Ed il suo piano è appunto la
guarigione del cuore malato!
La comparazione geremiana di Dio con un vasaio, non è una cosa nuova nell'AT e
neppure nell'Antico Vicino Oriente [AVO]. La novità sta nel fatto che qui Dio è
confrontato con un vasaio che fallisce nel suo lavoro e anche nel fatto che è comparato
non a un vasaio generico, ma ad un preciso artigiano, a questo vasaio, osservato mentre
lavora. Nel nostro caso Dio è paragonato a un vasaio senza nome, di cui la cosa
importante è il lavoro e la vicenda del suo lavoro. Inoltre la seconda metafora presente
nel nostro testo è il raffronto della casa d'Israele con il vaso. Ora, se nell'AVO Dio è
comparato ad un vasaio, lo è generalmente per descrivere la sua attività creatrice del
primo giorno del mondo o dell'umanità, pertanto la sua attività riguarda soltanto
l’inizio della storia.
Qui invece la sua attività non riguarda la creazione, il cosmo, ma un popolo, e non il
primo giorno, ma il corso degli eventi, la storia e una situazione presente collegata al
passato che dura tuttora. Ed è la situazione presente che si collega al verbo che
descrive per il popolo un’impasse, uno scacco senza avvenire. Questa storia pone una
questione al popolo proprio a proposito di Israele stesso, la cui storia con Dio ha
qualche cosa di corrotto, di irrimediabilmente distrutto.
Così, grazie alla metafora del vaso non riuscito al vasaio, la questione sfocia su
un'altra risposta: Dio è davvero capace di fare come questo vasaio, capace di operare
come lui dopo il primo giorno della storia, capace di operare nella storia del popolo,
che sembra bloccata e senza via d'uscita. In questa metafora il popolo, comparato
all'argilla (kaḥōmer), appare come totalmente passivo nelle mani di Dio, e questa
passività sottolinea non tanto la mancanza di responsabilità umana, quanto la libera
attività di Dio: evidenzia tutto il suo agire.
Così ne risulta con forza che, se la storia del rapporto di Dio con il suo popolo
sembra essere senza via d'uscita, Dio solo è in grado di agire non tanto per fare un
nuovo popolo o un'altra storia, ma per riplasmare questo stesso popolo: partendo dalla
medesima argilla sa fare di questa storia fallimentare una storia nuova. Il centro della
nostra metafora - più che nell'apprezzamento della qualità dell'argilla e
nell'apprezzamento delle qualità del popolo, in ciò che il popolo dovrebbe fare o
potrebbe fare - sta dunque nella continuità dell'azione di Dio, che va al di là dello
scacco. L'accento cade poi sull'apprezzamento di tale azione: «come gli sembrava bene 38
fare»; in altri termini, egli sa plasmare il suo popolo secondo il proprio progetto,
nonostante tutti gli insuccessi.
Non si può quindi parlare di impossibilità. Certamente Israele non può nulla, ma
tutto è nelle mani di Dio, come l'argilla è tutta nelle mani del vasaio. Allora, anche se il
progetto di plasmare questa argilla sfocia in uno scacco bruciante, il vasaio riprende il
suo lavoro, lo prosegue come a Lui piace, liberamente, come un artigiano esperto.
Importante non è quindi l'argilla, ma ciò che l'artigiano ne fa al di là dei propri
fallimenti, cioè ciò che Dio può farne, oltre lo scacco dell'alleanza sinaitica. Come
questo vasaio, Dio è capace di partire dal medesimo Israele che è fallito e corrotto, per
farne qualcosa d'altro: qui sta la meravigliosa buona novella di questa libertà di Dio,
che non è affatto un arbitrio incomprensibile, ma è la libertà della fedeltà!
Se i vv. 7-12 non appartengono al racconto primitivo come normalmente si ritiene,
essi ne costituiscono nondimeno il commento, sia che siano stati redatti come sviluppo
dei vv. 2-6, sia che siano stati accostati secondariamente al nostro testo. In questo
commento abbiamo certamente degli spostamenti d'accento che danno valore ad
alcuni dettagli del racconto dei vv. 2-6. Innanzi tutto nei vv. 7-10 si opera un'apertura
molto significativa in rapporto al racconto. Anzi, nei vv. 7b e 9b si stabilisce un legame
con la vocazione di Geremia (Ger 1,10) che corrisponde ad un'apertura a tutte le
nazioni. Non è soltanto Israele ad essere interessato da questa azione del vasaio, ma
ogni popolo. Tale apertura mette in rilievo la posta in gioco della storia tra Dio e la
casa d'Israele.
Si noti poi che, nel commento interno al testo di Ger 18,7ss, si mostra l'alternativa
tra il negativo (distruzione) ed il positivo (costruzione), mentre il racconto primitivo di
Ger 18,2-6 non presenta tale alternativa e annuncia la continuità dell'opera di Dio al di
là del negativo, della distruzione, della corruzione, per qualche altra cosa riplasmata
secondo il progetto della sua libertà.
Questa libertà (cf 18,7-8 e il racconto di vocazione 1,10) è perciò il contrario
dell'indifferenza: anzi è il fulcro del pathos di Dio, di un Dio che proprio per questa
libertà si fa solidale con il destino del popolo e lo guarirà dalla sua malattia mortale.
39
III LA PASSIONE DEL PROFETA 1. I racconti biografici su Geremia (Ger 26-45) La vita del profeta è un segno (cf Ger 16) del suo servizio alla parola di Dio, servizio
che lo porta fino a consumarsi fisicamente per essa, in una vera e propria passione. La
via crucis personale del profeta, che trova la sua espressione lirica nelle confessioni di Geremia, viene narrata all'interno della seconda sezione del libro (Ger 26-45). Il
materiale si divide chiaramente in un dittico.
Il cap. 26 e il cap. 36 si corrispondono l’un l'altro perché entrambi iniziano con la
parola di JHWH a Geremia all'epoca di Ioiakìm, mentre i capitoli 37ss si svolgono già al
tempo di Sedecìa. In entrambi i casi abbiamo un conflitto con i detentori del potere e
con i rappresentanti della religione: al cap. 26 con i sacerdoti e i profeti, mentre al cap.
36 con il re e i funzionari della corte. In tutte e due i casi il profeta corre un rischio
serio per la sua vita.
La prima tavola del dittico inizia con un attacco programmatico al Tempio, che
riprende Ger 7, cui fa seguito un attacco all’ingannevole fiducia posta nei falsi profeti:
tali atteggiamenti non possono che sfociare nello scontro con il profeta Ananìa (Ger
28). Il tema dei falsi profeti viene, però, richiamato anche nella lettera di Geremia agli
esuli. I cc. 30-33 riprendono alcuni accenni al tema della speranza che la lettera agli
esuli proponeva.
Ger 30-31 ha un'importanza notevole: il testo è collocato qui perché delinea la
speranza di una restaurazione di Israele, di un ritorno e soprattutto di una nuova
alleanza, che renda ancora possibile l'avvenire. Ora questo sguardo fiducioso al futuro
è offerto al lettore prima che costui debba inoltrarsi nella narrazione del fallimento
totale del profeta. Si deve notare che il messaggio di speranza si prolunga nell'acquisto
del campo da parte di Geremia, segno carico di attesa di salvezza. Nel cap. 33 segue
un’ulteriore raccolta di affermazioni di salvezza in cui vengono ripresi i temi del
capitolo 30.
Al cap. 34, in contrasto con le parole di salvezza che precedono, si dichiara che esse
non varranno per Sedecìa e per i membri delle classi dirigenti poiché tutti loro, infedeli
al patto stretto con Dio, si sono rivelate persone menzognere; al contrario i Recabiti, in
base alla loro obbedienza esemplare, sia pure a voti umani, staranno sotto la promessa
divina. Essi vengono perciò proposti come un esempio di quella fedeltà che purtroppo
il popolo non mostra di avere verso la parola di Dio.
La seconda tavola del nostro dittico (Ger 36-45) non contiene più affermazioni di
salvezza per Giuda e per Israele; ci saranno solo delle promesse di salvezza per EbedMèlec, un funzionario etiope eunuco, e per Barùc al cap. 45.
In ogni caso, nella struttura attuale del libro nel TM, e anche nella LXX, il testo
della biografia profetica di Ger 36-45 si apre con la menzione di Barùc e si chiude con
la menzione di Barùc, colui che scrive sotto dettatura le parole di Geremia e poi le
legge in pubblico per lui.
40
Entrambi i testi (Ger 36 e 45) hanno anche la medesima data, il quarto anno di
Ioiakìm: è come se la composizione tornasse per così dire al suo inizio. Ora, come si
vedrà, il punto veramente centrale nella struttura dei testi di questa seconda parte del
libro di Geremia (nel TM) sta nella narrazione del rotolo bruciato dal re in Ger 36.
Viene fatto seguire il racconto della prigionia di Geremia, quasi un ventennio dopo, e
della sua condanna a morte, fino alla sua inattesa liberazione in occasione della caduta
di Gerusalemme. Seguono poi le storie tragiche dell'assassinio di Godolìa e della
partenza per l'Egitto di un gruppo di ebrei, che trascinano in ostaggio Geremia: è
l'ultima disobbedienza del popolo!
Ma qual è il filo conduttore del racconto? Esso va cercato da una parte
nell'opposizione incontrata dal profeta nel corso del suo ministero e dall'altra parte
nella fedeltà del profeta alla Parola, fino a mettere in gioco tutta la sua vita. Proprio
perché il profeta è strettamente collegato alla Parola, il vero e decisivo protagonista in
tutti gli episodi riguardanti Geremia è la Parola. Si può quindi parlare a rigore di
passione del profeta per la parola di Dio. Il rifiuto nei riguardi di Geremia è però anche
rifiuto di Dio, e il fallimento di Geremia è il fallimento di Dio, che tuttavia ricostruirà
su questo fallimento totale una nuova iniziativa d'amore. Il grande attore del libro di
Geremia, come appare in questi testi, è davvero la parola di Dio.
Questo ruolo decisivo della parola-evento è confermato anche da un'osservazione
statistica: il termine ebraico dābār appare un settimo delle volte nel libro di Geremia
rispetto al resto dell'AT e la forma verbale intensiva (piel) dibber, dalla radice dbr,
ricorre un decimo delle volte dell'intero AT. La parola di cui Geremia è portatore è
una parola-evento, una parola che opera efficacemente anche quando sembra
soccombere, un martello con cui Dio forgia la storia (23,29) e che fa un'irruzione
irresistibile nella vita del profeta (15,16): essa è davvero un fuoco divorante (5,14;
23,29; 20,9)!
2. Lettura di Ger 36: la "passione" della Parola di Dio 2.1. Ger 36: un testo chiave Veniamo a Ger 36 capitolo assolutamente fondamentale nel libro12. Si impone
all'attenzione del lettore per due ragioni: per l'arte del racconto, che raggiunge qui
davvero notevoli vertici, e per il suo contenuto simbolico altamente rivelatore perché in
questo capitolo sono poeticamente cifrati il destino di Geremia, il destino della parola
di Dio, il destino di Dio nella storia dell'uomo.
Si noti che il nostro testo è posto in un ambito ben preciso. Precedentemente si è
letto l'episodio dei Recabiti (Ger 35), proposto quale esempio non perché i Giudei ne
adottassero il modello di vita, ma affinché imitassero la loro obbedienza alla Parola:
come questi erano stati fedeli radicalmente alle prescrizioni date dai loro antenati, così
il popolo è paradossalmente infedele alla Parola e alla normativa data da Dio stesso.
12
Cf J. M. ABREGO, Jeremias y el final del reino: lectura sincrónica de Jr 36-45, Valencia 1983; ID., El texto hebreo esctructurado de Jr 36-45, Cuadernos biblicos de la Institution de san Jeronimo 8(1983), 1-49.
41
La costruzione a contrasto serve da sfondo per introdurre il testo inquietante di
Geremia 36 sul rotolo bruciato dal re. Nella struttura a dittico dei cc. 26-45 il racconto
di Ger 36 non è semplicemente una riedizione di tematiche presenti nel cap. 26, ma è
un radicale approfondimento del suo tema. Se al cap. 26 il conflitto tra Parola divina e
illusorie parole umane si era evidenziato nel conflitto con i sacerdoti e con i falsi
profeti, esso si era però risolto a favore di Geremia, quindi della parola di Dio, per
intervento dei funzionari regi; ora, invece, in Ger 36, mentre i funzionari regi
reagiscono turbati, il re stesso dimostra purtroppo il suo disprezzo e la sua indifferenza
per le parole del profeta, bruciando il rotolo, dopo averlo fatto a pezzi. Sembra qui
celebrarsi il trionfo dell'incredulità umana su un Dio che cerca il dialogo con il proprio
popolo.
Volendo poi apprezzare tutta la portata del racconto e l'effetto che il redattore si
aspetta che produca sul lettore, la cosa migliore sarà di leggerlo in sinossi con la storia
della scoperta del rotolo della Legge avvenuta per opera di un altro re, il padre di
Ioiakìm, Giosia (2Re 22,3-13). In entrambi i casi al centro del libro, nel cuore del
racconto, sta un rotolo; in entrambi i casi viene fatta una prima lettura del rotolo e poi
una seconda lettura. Ci sono quindi delle corrispondenze e delle diversità. Porre
attenzione a queste diversità nelle corrispondenze è cogliere quello che è l'essenziale
del messaggio del nostro brano.
La struttura del brano è uno splendido trittico:
vv. 1-8: ordine di scrivere il rotolo ed esecuzione dell’ordine
vv. 9-26:
vv. 9-13: nel Tempio davanti ad un popolo che resta muto, sospeso alla decisione
regale
vv. 14-20: davanti ai dignitari nella stanza del segretario; una certa disponibilità, ma
ancora attesa della reazione del re
vv. 21-26: nel palazzo d’inverno il re strappa e brucia il rotolo
vv. 27-32: nuovo ordine di scrittura e il rotolo viene riscritto con l’aggiunta di altre cose simili. 2.2. Il percorso narrativo Vediamo in primo luogo il cammino della Parola in questo testo, che è l’equivalente
della persona del profeta. Il rotolo in se stesso svolge le medesime funzioni del profeta,
coincide per molti versi con il profeta. Innanzitutto giunge dove Geremia non può
giungere e comunica così la sua predicazione.
Il suo contenuto è qualificato come parola del Signore (vv. 4.11), parole di Geremia (v.
10), parole del libro (v. 32). Si può dire che il libro è profeta per missione, in quanto
deve indurre alla conversione (v. 3); per vocazione, in quanto è scritto per ordine di
JHWH, e per la sua fine drammatica (v. 23). È chiaro il parallelismo tra la carne del
profeta e la parola del libro13. Il destino della Parola è di morte e risurrezione. Come i
debārîm della Legge al Sinai viene riscritto due volte, perché come allora il peccato ha
13
Si deve notare che il lessema debārîm in modo assoluto compare dieci volte (allusione alle dieci parole
della creazione e dei comandamenti?).
42
causato la distruzione delle prime parole! La finale del v. 32 è davvero intrigante: «e vennero aggiunte altre parole simili»; non è precisato chi le aggiunga e con quale criterio
si possa dire che sono simili. Il testo riconosce una storia del libro che prescinde da
quanto Geremia aveva detto. Al nostro libro profetico preme far notare quest’identità
tra il libro riscritto e il primo (28-.32), più che informarci sul contenuto e le sue
aggiunte.
La vicenda del libro: innanzitutto essa risuona nel cuore del testimone e lì, nel cuore
appunto del testimone, viene ascoltata affinché possa poi essere scritta e riscritta.
Quindi la Parola pazienta, nella lunga attesa di un tempo opportuno in cui poter
risuonare ed essere sinceramente ascoltata nel cuore: «Nel quarto anno di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda, fu rivolta a Geremia da parte del Signore questa parola: «Prendi un rotolo e scrivi..."… Nel quinto anno di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda, nel nono mese, fu indetto un digiuno davanti al Signore per tutto il popolo di Gerusalemme e per tutto il popolo che era venuto dalle città di Giuda a Gerusalemme. Barùc dunque lesse nel rotolo facendo udire a tutto il popolo le parole di Geremia…» (Ger 36,1.9-10).
Questa Parola rompe dapprima i limiti del carcere e dello spazio e si diffonde,
dilaga, si fa sentire davanti a nuovi uditori in una situazione diversa da quella in cui era
stata ispirata la prima volta, cioè davanti al profeta. L'impedimento di Geremia è da
intendersi come una privazione della piena libertà di movimento, con un domicilio
coatto o con una proibizione di frequentare certi ambienti pubblici, come il Tempio.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Si tratta d’una Parola che interpella, chiama
alla decisione, giudica, anche quando viene sottoposta all’incredulità umana. È una
Parola che sottopone a giudizio ogni realtà umana e non si arresta di fronte a nulla,
neppure al Tempio, al palazzo, ai sacerdoti, ai re, ai ministri.
Dapprima essa incontra il suo primo destinatario, ossia sempre il popolo di Dio che
qui pare voler ascoltare, e poi i suoi capi, che in questo momento sembrano ancora
disposti all'ascolto.
Poi comincia la via crucis di questa Parola sballottata qua e là, quasi la "traduzione"
di un prigioniero (si badi come il verbo lāqaḥ ricorra insistente ed allusivo: v. 14 due
volte; v. 21 due volte).
Infine, vi è una lenta tortura con cui viene lacerata (qāra‘ ) che fa da antitesi con il
verbo leggere (qārā’). Il fuoco, in cui viene bruciata striscia per striscia, è una pena
infamante, applicata solo per la prostituzione della figlia di un sacerdote (Lv 21,9), per
l'incesto di un uomo con la figlia (Lv 20,14) e, secondo Gen 38,24, anche per la donna
adultera.
Si nota inoltre una riduzione progressiva dell’uditorio del libro: dal popolo, ai
dignitari, al re; il libro viene, per così, dire sempre più limitato, nascosto, come devono
nascondersi i due responsabili, Geremia e Barùc (v. 19) che alla fine vengono nascosti
da Dio stesso! (v. 26). Tutto questo comporta che l’interesse del lettore si sposti
sempre più dal contenuto del libro all’esistenza dello stesso libro, alla sua
sopravvivenza. È questa che preoccupa sempre di più e, quando esso viene riscritto,
ancor più che l’atto della sua lettura - l’atto, cioè, in cui esso fa udire il proprio
contenuto - preoccupa la sua esistenza! «Quando verrà riscritto, non è perché sia letto,
43
ma perché esista»14. L’analogia con la vicenda di Geremia è palese: nella parte
biografica di Geremia importa, assai più della sua predicazione, la persona stessa di
Geremia con la sua vita, la sua tormentata vicenda, il suo difficile destino.
Concludendo: il dābār JHWH è il vero protagonista, che parte come in sordina
attraverso la dettatura, in luogo nascosto, ma poi viene all'aperto attraverso la sua
lettura davanti al popolo, e finalmente sale i piani alti dei palazzi e raggiunge il re; lì
però comincia il suo declino! La Parola/libro viene squartata, tagliata lentamente,
bruciata ma alla fine rinascerà dalle ceneri più viva e più forte di prima.
Soprattutto, non si potrà scongiurarne l'efficacia, poiché Dio vigila per compiere la
sua Parola (cf Ger 1,11-12). È in apparenza una parola debole, ma in realtà è forte
come il fuoco e più dura del ferro: «La mia parola non è forse come il fuoco - oracolo del Signore - e come un martello che spacca la roccia?» (Ger 23,29).
Tutto questo avviene in un confronto drammatico tra la Parola e il re: non più
faraone d’Egitto, ma il re di Giuda! La Parola esce, per così dire, dal carcere dove
Geremia l'ha dettata, poiché gli era vietato entrare nel Tempio; dal carcere si fa udire
nel Tempio, poi giunge nel palazzo, alla fine emergerà in mezzo alle macerie.
Questa Parola prefigura la vita del profeta, il quale pure si consumerà, pezzo dopo
pezzo, fino allo sfacelo totale, e poi rinascerà, certo in modo nuovo, nella forza della
sua parola, della sua testimonianza che ha colpito le generazioni che lo seguono. Egli
rinasce in modo vivo ed imperituro. Parola che è figura di quella "Parola fatta carne",
che passerà attraverso la morte e ne uscirà, trionfatrice su di essa.
2.3. La lettura e l’ascolto mancato Oltre al motivo guida della sopravvivenza del libro, il testo di Ger 36 si sofferma
anche su quello dell’ascolto della parola, della sua ricezione attraverso la lettura, nel
nostro caso clamorosamente e dolorosamente deficitaria.
Lasciandoci guidare da un articolo di Kabasele Mukenge15 vediamo anzitutto il
"tempo" del racconto. Vi è un primo momento, in cui il tempo del racconto fluisce in
modo abbastanza omogeneo: viene qualificato come un tempo dell'ascolto prolungato,
proprio dal punto di vista della risonanza che ha negli ascoltatori. In un giorno di
digiuno pubblico, propizio per incontrare il popolo convenuto al Tempio e per contare
su un atteggiamento recettivo favorevole al messaggio, Geremia invia il suo segretario
che, senza domande ed esitazioni, obbedisce accettando tutti i rischi. È impressionante
la data del v. 9, dove è chiaro che Barùc deve aspettare dei mesi per adempiere
l'incarico. E il giorno della sua esecuzione è un giorno freddo. L'inverno può
simboleggiare davvero quella mancanza del fuoco dell'amor di Dio, della parola di Dio,
nel cuore del popolo e soprattutto del re. Il tempo dell'annunzio è anche il tempo della
qualità dei cuori che sono in ascolto.
Anche gli "spazi" della lettura del libro non sono senza significato: dalla condizione
di carcere, o comunque di segregazione, in cui la Parola irrompe nel cuore di Geremia,
allo spazio aperto del cortile del Tempio battuto dal freddo e dalle intemperie, e infine
14
J. M. ABREGO DE LACY, I libri profetici , Introduzione allo studio della Bibbia 4, Paideia, Brescia 1996,
130.
15
A. KABASELE MUKENGE, "Les derniers rois de Juda et la lecture du «Livre». Josias (2R 22-23), Joiaqim
(Jr 36) et Jékonias (Ba 1,1-14)",in RTL 30(1999), 11-31.
44
all’abitazione d'inverno con il braciere acceso, dove il re vive mollemente, ignorando la
penuria del popolo e la sciagura che lo sovrasta.
Quindi gli spazi sono non meno significativi, poiché a questa Parola nulla si sottrae:
lo spazio del carcere, lo spazio del popolo nelle sue case, lo spazio del Tempio, lo
spazio del palazzo. La politica, la vita familiare, la vita religiosa, la vita di
emarginazione, tutto viene coinvolto da questa Parola che chiama a conversione
perché conversione e perdono sono un problema di tutti!
Deve essere valorizzato quanto afferma la frase di Ger 36,24: «Il re e tutti i suoi ministri non tremarono né si strapparono le vesti all'udire tutte quelle parole». Si può
correttamente osservare che, di per sé, lo stracciarsi le vesti non è l’unico gesto
penitenziale possibile; ci sono altri segni penitenziali come il cospargersi il capo di
cenere o il vestire di sacco. La ragione di tale annotazione sta in un suo richiamo
intertestuale con 2Re 22,11, dove la frase appare al positivo.
Ger 36 è dunque costruito in modo da fungere visibilmente da parallelo assai
contrastante con il racconto del ritrovamento e della lettura del Libro della legge alla
presenza di Giosia. Infatti, la reazione degli ascoltatori è totalmente diversa: Giosia,
ascoltando le parole contenute nel rotolo della legge, si era strappato le vesti (2Re
22,11.19) e aveva confidato ai suoi consiglieri la volontà di una sincera adesione di fede
al Signore per scongiurare la maledizione. Inoltre, dopo aver ascoltato la profetessa
Culda, il re Giosia aveva adottato le misure di riforma necessarie per obbedire alle
parole del Libro della Legge che gli erano state lette.
Invece Ioiakìm, mentre i consiglieri sono colpiti dalla lettura del rotolo da parte di
Barùc (Ger 36,13-16), si mostra indifferente e non presta ascolto neppure agli
ammonimenti dei suoi funzionari di corte (v. 25); questo versetto esprime molto bene
il contrasto: «Eppure Elnatàn, Delaià e Ghemarià avevano supplicato il re di non bruciare il rotolo, ma egli non diede loro ascolto».
La contrapposizione tra Sedecìa e Giosia non fa che riprendere quello che appariva
già nella prima parte, negli oracoli di Geremia sulla contrapposizione tra Ioiakìm e
Giosia (Ger 22,16-19). La sorte della Parola di Dio raffigura la sorte del profeta o
meglio, si prolunga nella sorte del profeta.
Sarebbe interessante anche studiare il fenomeno dell’intertestualità, raffrontando tre
episodi biblici della lettura del libro da parte degli ultimi re di Giuda: Giosia (2Re 2223), Ioiakìm (Ger 36), Iekonìa (Bar 1,1-14).
2.4. Il profeta e la parola: identità di destino La vita del profeta è in funzione di questa Parola, le dà un tramite concreto, le dà,
per così dire, forma. Così la passione della Parola diventerà la passione di Geremia,
che viene "nascosto dal Signore", cioè si mette in salvo con Barùc, forse grazie
all'intervento di qualche cortigiano impressionato dalla lettura del libro. È una Parola
che poi, se è distrutta, rimane conservata nella memoria: è stata memorizzata e ritorna
ad essere ridetta e riscritta. La figura del profeta, che fa tesoro di questa Parola per
poterla ridire di nuovo, è anche quella del discepolo il quale, di fronte alla parola di
Dio, è chiamato appunto a memorizzarla, a farla diventare ricchezza del cuore, forma
della sua stessa vita perché essa rinasca nuova in lui. Il profeta farà in modo che venga
45
riscritta, anche se ciò gli causerà una sequenza di sofferenze che lo porterà vicino alla
morte: ma proprio in questa Parola il profeta ha la sua vera sopravvivenza.
Come questa Parola annientata risorge nella memoria di Geremia, che morirà
deportato dai suoi fratelli, così il profeta rimarrà nella memoria di quel popolo che
durante la sua vita l'aveva ascoltato raramente e con molte resistenze
La promessa di Dio a Geremia - «Io sono con te per salvarti» (cf Ger 1,15,20; 1,18-19)
- si può cogliere non tanto nei momenti felici in cui il profeta esperimenta la bellezza
della Parola, ma in tutta l'intera vicenda ed in particolare nelle esperienze singolari
dell’intervento liberatore di Dio. Certamente, è una Parola che suscita l'odio, così la
distruzione del rotolo per mezzo del fuoco dice chiaramente il rifiuto violento che il
cuore malvagio prova di fronte a una Parola che lo interpella; questa violenza, questa
assurdità, questa ottusità della reazione contrastano con il silenzio sui sentimenti di
Geremia in tale circostanza. È vero che non è usanza dei redattori biblici interessarsi
alla psicologia del personaggio, ma impressiona comunque il fatto che non si segnali
proprio nessun tipo di risentimento da parte di Geremia.
Anche se possiamo immaginare come per il profeta questo momento sia stato
doloroso, la sua non-reazione sottolinea non solo la docilità, ma anche la certezza
profonda che la Parola di Dio, nonostante tutti gli insuccessi, alla fine vincerà; egli è
tanto identificato con questa Parola che quasi le sue reazioni personali, le risonanze del
suo cuore, contano ormai poco, poiché quello che importa è proprio soltanto il destino
della Parola. Leggendo il testo in una prospettiva canonica risulta che se nelle
"confessioni" Geremia correva ancora il rischio del risentimento ed era di fronte alla
prova dell'angoscia della fede, ora è invece totalmente abbandonato a Dio, identificato
con il destino della Parola. È una Parola che si vorrebbe poter bloccare, ma che invece
non può mai essere imprigionata (2Tm 2,9)!
3. La vita consegnata (Ger 37-39) 3.1. Una parola per il re (37,1-10) Comincia la narrazione della "passione di Geremia", che è verosimilmente da
riferire ad una cronaca scribale, ed è da affiancare alle pagine bibliche sulla sofferenza
innocente. Queste pagine sono aperte dal racconto della passione del rotolo profetico,
tagliato e bruciato dal re Ioiakìm. Una volta che la Parola è stata eliminata dalla vita
religiosa di Giuda, veniamo informati dei diversi eventi che portano non solo
all’eliminazione del messaggero della Parola stessa (Ger 37-45), ma anche della sua
sopravvivenza nella figura del testimone (Ger 45).
Al c. 32, Geremia era mostrato in prigione: prigioniero della speranza. Ora ci viene
descritto come il testimone sofferente. Il sipario si alza e presenta i protagonisti
dell’atto finale: Sedecìa (il cui nome era Mattanìa), figlio di Giosia, e quindi fratello di
Ioiakìm; Iekonìa esce di scena.
Si noti che il monarca è di stirpe davidica e quindi sarebbe erede della promessa, ma
sta sul trono non per grazia di Dio, ma solo per grazia dell’imperatore babilonese. Si
pone pertanto davvero il problema della legittimità di questa monarchia. Da una parte
sembra legittima in quanto discende dalla linea davidica, dall’altra non sembra tale,
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poiché rappresenta un potere straniero. Allora il problema posto è quello del potere, è
il problema di chi, in Israele, rappresenti veramente la regalità di Dio. Si noti che viene
usato il verbo mālak [regnare] nella forma hiphil, ma non è precisato da chi: chi lo fa
regnare? Dio, oppure semplicemente gli uomini? Ecco la tensione.
I vv. 1-12 ci parlano quindi di questo scontro di poteri tra due forze: da una parte il
re, i ministri e il "popolo della terra", dall’altro il profeta armato soltanto della parola di
Dio, di quella Parola che avrebbe dovuto essere per l’edificazione. Ma purtroppo il
non-ascolto caratterizza sia la monarchia sia tutto il suo entourage. Tale non-ascolto
richiama quindi i cc. 34-35-36,25, con una sorta di sequenza di episodi, appunto, di
non-ascolto. E allora il v. 2 è davvero il versetto programmatico; eppure un motivo
d’ascolto ci sarebbe stato: la deportazione di Ioiakìm (o Conìa), che potrebbe essere un
evento da ascoltare per un monito, per convertirsi. Ma anche questo resta inascoltato,
perciò la sofferenza di Ioiakìm sembra inutile.
Nel racconto della vocazione ricordiamo che Geremia aveva ricevuto poteri sui re:
ora si compie l’oracolo. Il profeta è di fronte al re, e questo scontro sarà per sradicare o
per edificare. Dipenderà soltanto dalla parola di Dio.
Per quanto riguarda il contesto storico, si parla dell’assedio o, meglio, del momento
in cui esso è stato temporaneamente tolto. Il carattere di Sedecìa, che qui emerge, è un
carattere complesso. Più che quello di un uomo cattivo, monolitico, come lo era stato
Ioiakìm nella sua cattiveria, è quello di una persona velleitaria, vuota; alla sua
ribellione ostinata si contrappone una fedeltà a tutta prova da parte di Geremia. Certo,
costui potrà essere assalito anche da dubbi, da tormenti interiori, ma quando si
pronuncia pubblicamente è coerente, inflessibile, chiaro: i profeti di salvezza hanno
senza dubbio fallito. L’analisi della situazione non può che portare ad una conclusione:
è in atto il giudizio divino e l’unico modo di atteggiarsi di fronte ad esso è la
conversione.
Al contrario c’è la figura di Sedecìa, una figura tragica. Egli è come attratto da
Geremia, calamitato verso di lui, ma nel contempo non ha mai energia per accoglierne
le esigenze; non ha mai la coerenza per rispondere alla voce del profeta. Ha un
carattere inconsistente, che potrebbe sembrare meno nocivo di quello di Ioiakìm,
eppure l’esito sarà, paradossalmente, lo stesso. Anzi, sarà ancora più grave, perché la
vacuità di questo re causerà la catastrofe per tutto il popolo.
Vediamo al v. 5 la notizia militare, che chiarisce le condizioni del tentativo di
Geremia di lasciare la città: è il momento in cui l’assedio è stato tolto perché i
babilonesi devono rispondere prontamente alle mosse di Faraone, uscito dai propri
confini. Questo potrebbe far sperare agli assediati una fine dell’assedio stesso o, in ogni
caso, una tregua, una pausa di sollievo.
L’oracolo è stato richiesto da Sedecìa e quindi la sua non accettazione aggrava
ancora di più la non disponibilità (v. 7). Il non-ascolto del v. 2 è un’eco di Ger 36,25,
che rende inutile il sacrificio personale di Conìa. A Geremia viene richiesto di pregare
il Signore per ottenere l’oracolo: si ricordi che per altre cose a Geremia era stata
proibita ogni intercessione che occultasse la serietà del male, da cui il popolo di Dio
può guarire soltanto per opera di Dio stesso (cf Ger 7,16;11,14;14,11).
Ancora una volta l’oracolo di Geremia vuole togliere ogni illusione nell’intervento
egiziano. È utile leggere tale episodio in un’ottica di intertestualità con Is 37, il
racconto della liberazione di Gerusalemme dall’assedio posto da Sennàcherib.
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Ebbene, il v. 5 avrebbe potuto essere interpretato come una sorta di riedizione di
una situazione già vissuta da Gerusalemme quando l’assedio fu tolto (cf Is 37,37). In
questo contesto s’inquadrerebbe bene anche la liberazione degli schiavi (cf 34) poi
dolorosamente revocata. Ma la salvezza non viene dagli uomini, e non certo
dall’Egitto: essa giunge soltanto dal Signore. In Isaia, al servizio del Signore era la
peste che faceva togliere l’assedio! Pertanto unicamente l’ascolto sincero e obbediente
che diventa conversione, può apportare la salvezza!
L’oracolo di Geremia non incoraggia, ma piuttosto sfata le varie illusioni. Il profeta
appare quindi come un lottatore che si batte contro la forza di falsi miraggi. E qui c’è
un altro richiamo ad Isaia, allorché il gran coppiere dell’Assiria invitava a non porre
false illusioni nel re di Gerusalemme, ma poi inciampava dicendo che non ci si doveva
affidare neppure al Dio di Ezechìa, e cioè ad JHWH (cf Is 36,14.18).
Adesso invece è il profeta che invita a non nutrire facili illusioni, a non ricercare
futili sicurezze, a non trovare rifugio in ciò che non può offrire rifugio (Ger 37,9; cf
Ger 29,8). Contro questa vana speranza, contro ogni irrealistica presunzione di
salvezza, ecco che Geremia prospetta la visione terrificante – dal punto di vista
letterario molto efficace, molto bella – di un esercito di morti e di feriti che si solleva
dalle proprie tende e distrugge la città di Gerusalemme. Il castigo è inesorabile, non
bisogna illudersi!
3.2. Geremia imprigionato (37,11-21) Geremia cerca di uscire dalla città (v. 11). Ger 37,12 è un testo delicato per la
traduzione. Il verbo ḥālaq significa "dividere, spartire". Che cosa va quindi a fare
Geremia in Anatòt nella terra di Beniamino ? A fare le "porzioni", a dividere la sua
eredità. È ragionevole pensare quindi a Ger 32, anche se evidentemente ci sono alcuni
problemi storico-critici, come il fatto che là sia in prigione e qui sia libero. Ma la
problematicità sul piano della ricostruzione storico-critica non deve impedire di
riconoscere un legame tra questi due capitoli.
Geremia, che ha comprato a caro prezzo la speranza, va a spartire l’eredità con i
suoi fratelli (cf Pr 17,2). Allora Geremia vuole, per così dire, rendere chiara la speranza
al popolo, alla sua gente; intende in tal modo richiamare Giosia che spartiva le terre, il
cui gesto però fu offuscato dall’ingiustizia di secoli, durante i quali le terre vennero
alienate, vendute contro la Legge.
Geremia pone davvero un atto di speranza per il futuro; egli certo non spartisce per
sé o per quei discendenti che non ha: divide le porzioni per i suoi, ossia per il suo
popolo (betôk hā‘ām), spartisce il simbolo dell’eredità, la terra appena riscattata!
C’è sempre uno più papista del papa e più realista del re: una guardia, posta alle
porte della città, accusa Geremia di disfattismo e di voler passare al nemico (v. 13).
Così, il nostro povero profeta, non creduto, viene arrestato, fustigato, incarcerato dopo
essere stato consegnato ai capi. Comincia qui la lunga sequenza con la persecuzione
del profeta, gettato nelle segrete e nelle cantine: il tempo che passa, il buio, il freddo, la
morte vicina. È interessante notare come il narratore presenti la lunga detenzione di
Geremia nella prigione in modo laconico in due sole parole: molti giorni. In contrasto
con la figura del profeta sofferente, ecco l’ambiguo ritratto di Sedecìa, colui che è
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tragicamente debole. Egli mostra un atteggiamento infantile, sembra giocare
irresponsabilmente a nascondino, per non prendersi le proprie responsabilità:
«Il re Sedecìa mandò a prenderlo e lo interrogò in casa sua, di nascosto…» (v. 17). Ecco
l’ambiguità di un re che vive nel palazzo, ma che paradossalmente è prigioniero dei
suoi dignitari. Così pure è paradossale lo stato del profeta, che è realmente prigioniero,
ma ciononostante è profondamente libero.
L’enfasi del nostro racconto – come poi si vedrà anche nel c. 38 – è su quella
modalità segreta dell’incontro. Quella di Sedecìa è una figura che si caratterizza
proprio per non voler venire mai alla luce, per non prendere mai una decisione chiara,
responsabile, pubblica; è una figura che si delinea per la sua debolezza, per la sua
contraddittorietà che produce soltanto gesti meschini e futili. Lo scambio dialogico tra
i due personaggi è davvero curioso. Sedecìa sembra da una parte tenere in conto il
profeta in quanto tale, e dall’altra ignora regolarmente ciò che il profeta gli dice. Ecco
la contraddittorietà di questo tragico personaggio.
A questo punto muta il centro dell’attenzione della voce narrativa (v.18). Il profeta
si rivolge al re quale istanza suprema del potere giudiziario e protesta la propria
innocenza. È stato condannato senza che gli venisse rivolta una precisa accusa, come
invece accadrà in Ger 38,4 e tuttavia anche allora non gli verrà fatto un processo
formale, per cui si verificherà ancora un non-rispetto della giustizia.
La sua arringa potrebbe prevedere anche di passare al contrattacco: dove sono finiti
i profeti di salvezza? La loro parola è stata dichiarata falsa dagli eventi, è stata
sconfessata dai fatti, i quali non fanno invece che confermare la veridicità di Geremia e
la sua innocenza. Geremia, al contrario, si limita a chiedere di poter almeno evitare la
casa di Giònata, perché questo per lui significherebbe la morte certa (v. 20).
Intanto sono smascherati gli attori nascosti della persecuzione contro il profeta: i
falsi profeti. Il re, che dovrebbe amministrare la giustizia, facendo trionfare la verità
poiché «è gloria del re investigare le cose», non lo fa. A lui Geremia presenta una supplica
personale (teḥinnātî ), una richiesta di grazia, mentre sarebbe suo diritto venir liberato e
riconosciuto ufficialmente come vero profeta. Come al solito, però, il re non percorre
mai la strada fino in fondo, ma si ferma sempre a metà. Salva la vita del profeta, ma
non lo fa liberare; gli dà nutrimento, ma non lo lascia libero. Notiamo così ancora una
volta l’atteggiamento di contraddittorietà del re, che è prigioniero delle pressioni dei
dignitari, del folle partito nazionalista.
E così Geremia resta nel cortile delle guardie. Un po’ di pane arriva per lui dalla via
dei Fornai. In questo scorgiamo realizzarsi ancora una volta la promessa della sua
vocazione, di un’assistenza divina sul profeta perseguitato: «Io sono con te per salvarti».
3.3. Nella fossa (Ger 38,1-6) In Ger 38 Gerusalemme è presentata ancora una volta come assediata dai
babilonesi. Si può dedurre che i dignitari (v. 4) agissero in accordo con la classe
sacerdotale e che godessero di buoni appoggi anche in ambito regale (cf la cisterna,
che apparteneva a un familiare del re, forse allo stesso padre di Pašḥûr, v. 6).
Le parole che costituiscono l’atto d’accusa contro Geremia sono quelle che
concludono il messaggio già pronunciato dal profeta di fronte a Pašḥûr e a Sofonia (cf
Ger 21,1–10).
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In tale occasione era stata indicata però la possibilità di scelta tra due vie, quella che
conduceva alla vita e quella che portava alla morte (cf 21,8). La frase riecheggia
l’indicazione di Dio in Dt 30,15-20. Secondo questo passo deuteronomico, scegliendo
di «amare il Signore e di osservare i suoi ordini», vi è la possibilità per il popolo di
vivere e di rimanere sulla propria terra, mentre il contrario porterebbe
all’allontanamento dal suolo donato da JHWH. Geremia scorge in questo difficile
momento storico l’applicazione pratica dell’ammonimento divino: il rimanere in vita e
su quella terra dipendono dall’obbedienza alla volontà di Dio. Ora il profeta ha più
volte ribadito che essa consiste nel piegarsi di fronte ai babilonesi e nel riconoscere che
il Signore ha temporaneamente dato il potere universale a Nabucodònosor.
Secondo i dignitari e il partito nazionalista, invece, il bene per il popolo passa
attraverso la resistenza e non la resa. Anche gli oppositori di Geremia potevano leggere
la storia per trarne un ammaestramento. Per esempio, vi era l’indicazione di un profeta
come Isaia che aveva invitato il suo re a non dubitare dell’appoggio di Dio, anche di
fronte a Gerusalemme assediata, perché nulla di male sarebbe potuto accadere a un
popolo che traeva la sua stessa ragione d’esistenza dal fatto di avere fede nel Signore
(cf Isaia 7,1-9, particolarmente v. 7b). Vi era però anche un altro ammonimento che
proveniva da una lettura teologica della storia: la caduta del regno del Nord come
segno del giudizio di Dio a causa dei peccati d’Israele. Gli stessi peccati ora erano
imputati al regno del Sud - che non aveva tratto insegnamento dalla storia e non si era
convertito - e la punizione consisteva nell’essere vinti e nel rimanere sottomessi ai
babilonesi.
A parte la valutazione di Ananìa, che riteneva già scontata la punizione con la prima
caduta di Gerusalemme, si può notare come anche la lettura teologica della storia
avesse potuto portare ad assumere due atteggiamenti opposti. I dignitari avevano ben
chiaro ciò che fosse il bene per il popolo, ovvero la linea del loro partito, e pensavano
che Geremia operasse per il male (v. 4). Per questo motivo egli andava eliminato. Era
comunque necessaria l’approvazione del re, e Sedecìa era troppo debole per potersi
opporre, come fu costretto ad ammettere lui stesso (v. 5). Egli era stato messo sul
trono dai babilonesi, ma non si fidava del partito che a loro si richiamava (cf 38,19);
nello stesso tempo era pressato dall’altra fazione che contava molti aderenti nei circoli
sacerdotali e di corte.
Probabilmente vi era una certa remora nel colpire un “uomo di Dio”: Geremia era
stato comunque riconosciuto tale (cf 26,1-6). Oppure vi era il timore di suscitare l’ira
dei potenti personaggi che lo proteggevano, quelli che già avevano costituito la cerchia
intorno al re Giosia: soprattutto Achikàm figlio di Šafàn (cf 26,24; cf 2 Re 22,3-14), la
sua famiglia e la gente di Chelkià (cf Ger 29,3; 36,10-12.25; 39,14; 40,5).
In ogni caso, Geremia non viene ucciso, ma lasciato morire: si tratta di un misero
espediente per non sporcarsi le mani! Nella cisterna dove viene calato il profeta non c’è
acqua, ma soltanto melma; tale situazione ricorda quella di Giuseppe (cf Gen 37,24).
Si noti che simbolicamente il fango indica nella Bibbia una situazione di pericolo
mortale (cf Sal 69,3.15), o addirittura funge da sinonimo della morte stessa (cf Sal
40,3).
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3.4. Uno straniero in favore di Geremia (Ger 38,7-13) Cerchiamo di sottoporre ad un’analisi questi testi geremiani con attenzione all’arte
narrativa qui messa in atto, ossia al modo con cui il narratore esercita il suo potere
sulla narrazione portando i lettori a percepire i dati attraverso il filtro dei suoi giudizi e
dei suoi apprezzamenti.
Non c’interessa qui una ricerca storica, perché non è nostro obiettivo apprezzare il
valore storico dei testi, ma attualizzarne al massimo le virtualità narrative; dovremo
consentire alla narrazione di dare ciò che la sua composizione stilistica le consente di
offrire al lettore.
Il narratore opera selezioni precise: non ci racconta nulla sulle reazioni degli
avversari di Geremia, dopo che questi è stato fatto sprofondare nel fango del pozzo, e
neppure delle reazioni della gente. Segue invece un altro filo narrativo. Allora è
importante notare l’intrigo dei cc. 38-39. Un certo apprezzamento va anche al
fenomeno della synkrisis: la figura di Sedecìa è costruita in modo da essere il doppio
negativo (una sorta di gemello nero) di Geremia. Bisognerà saper valutare questo
parallelismo e proprio i momenti d’incontro tra i due personaggi mostreranno al
lettore trasformazioni decisive.
Ma ancor più che la successione degli eventi, è la scelta narratologica che deve
sorprendere. La rapidissima descrizione di Geremia che sprofonda nel fango è simile
per la sua laconicità a quella di Ger 37,16: «Geremia entrò in una cisterna sotterranea a volta e rimase là molti giorni». Il lettore vorrebbe sapere qualcosa del mondo interiore di
Geremia, udire una sua preghiera o una sua rimostranza rivolta ad JHWH, ma si deve
arrestare di fronte a questo silenzio, che rende la prova ancora più grave e misteriosa.
Dove è Dio in questi "molti giorni"?
La figura del personaggio di Ebed-Mèlec si inserisce tra i due, Geremia e Sedecìa, e
si carica della funzione di rimando a Colui che sta tessendo tutta la vicenda, JHWH.
Nell’organizzazione della materia appare poi di grande interesse la scelta stilistica di
non avere collocato subito l’oracolo di salvezza ad Ebed-Mèlec, secondo la sequenza
cronologica, ma sotto forma di un’analessi, collocata nel quadro del momento più
tragico della catastrofe, ossia alla caduta della città.
Di questo schiavo nero, chiamato qui Ebed-Mèlec, il kushita, non si hanno
particolari notizie: si tratta di un alto funzionario di corte (eunuco) - appartenente al
disprezzato popolo dei kushiti (cf Am 9,7), a sud dell’Egitto (cf 2Re 19,9) -, che per
tale carica poteva rivolgersi direttamente e liberamente al re. L’essere "eunuco" può
valere quale titolo per indicare la sua funzione burocratica, o come indicazione di una
situazione fisiologica.
Non si sa neppure per quale gruppo parteggiasse: infatti, nel suo intervento presso
Sedecìa egli non fa alcun riferimento politico, né generale né particolare, riguardo al
profeta Geremia. Egli sembra mosso esclusivamente da un senso di giustizia e di pietà. La giustizia alla quale fa appello è quella amministrata dal re: si reca, infatti, da lui
proprio nel momento in cui il sovrano sta svolgendo il compito di giudice presso la
porta Nuova, la porta di Beniamino (v.7; cf Ger 20,7; 37,13), sul lato nord delle mura
di Gerusalemme.
L’etiope non entra in questioni giuridiche, ma si limita a far notare il trattamento
disumano cui è stato sottoposto il profeta: su di lui non era stata pronunciata
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ufficialmente nessuna condanna a morte, ma l’averlo gettato in una cisterna
significava, di fatto, ucciderlo. Cerca di impietosire il re prospettandogli la situazione
precaria del prigioniero, che è privo di cibo e che rischia di morire per inedia,
dimenticato da tutti.
Già non vi era più pane in città (v. 9, cf 37,21) e la morte per fame sarebbe presto
sopraggiunta, se Geremia non fosse stato rapidamente estratto dalla cisterna. L’accusa
è rivolta contro «quegli uomini» senza pronunciare esattamente i nomi: il re doveva
conoscerli bene, ma qual era la posizione di Sedecìa? Anch’egli faceva parte di coloro
che «si sono comportati male»? Facendo riferimento al colloquio riportato pochi versetti
prima (v. 5), potrebbe sembrare di sì: lasciando mano libera ai nemici di Geremia, il re
non avrebbe potuto non intuire cosa significasse «eliminarlo» (v. 4).
Dalla reazione di Sedecia, che prontamente concede a Ebed-Mèlec di tirar fuori
dalla cisterna Geremia prima che vi muoia (v. 10), si può, però, presupporre che il re
abbia creduto - o meglio abbia voluto credere - che il provvedimento contro il profeta
fosse l’incarcerazione in una cella isolata, dalla quale non avrebbe più potuto parlare al
popolo, né fare così quell’opera di destabilizzazione di cui era stato accusato.
In tal caso, si sarebbe trattato, però, di un ritorno alla situazione precedente (cf
37,15-16), da cui lo stesso re lo aveva tratto, confinandolo nell’atrio della prigione e
assicurandogli il cibo (cf 37,21). Eppure, il re aveva sentito dallo stesso Geremia che
quella prigione avrebbe significato morte sicura per lui! Vi è una sorta di gioco a
nascondino che il re persegue anche con se stesso, con la propria coscienza, un non
voler sapere, forse per non aver rimorsi.
Comunque, l’appello al re, che è descritto nel suo ruolo di giudice, ha l’effetto
sperato e, in qualche modo, riscatta sia pur parzialmente (e soltanto
temporaneamente) la figura dell’imbelle ed indeciso sovrano: provoca in lui un
sentimento di giustizia. Peraltro, bisogna notare che il narratore continua ad adottare,
conformemente ad un procedimento narrativo assai frequente nella Bibbia, la
focalizzazione esterna, quella “visione dal di fuori” che rappresenta gli atti e le parole
dei protagonisti, ma tace sui loro sentimenti. Questi devono essere indovinati dal
lettore da alcuni dati esterni, oggettivi. Paradossalmente gli si richiede così un
maggiore coinvolgimento creativo, facilitato proprio dalla discrezione del narratore.
Se nel re vi è un sussulto del sentimento di giustizia, in Ebed-Mèlec vi è la pietà: la
pietà per la sorte di Geremia. Egli non esita a intercedere per la sua salvezza, forse
anche rischiando di persona: non si poteva conoscere la reazione del re, dal momento
che l’etiope implicitamente lo aveva accusato d’essere connivente con chi voleva la
morte del profeta!. La pietà si esprime anche in un piccolo gesto, come quello di
prendere «stracci e panni vecchi» (vv. 11-12) e di lanciarli a Geremia, per evitare che il
suo debole corpo rimanesse piagato durante l’operazione di recupero. Sarebbe stato,
infatti, necessario tirarlo su di peso, perché il profeta non aveva certo la forza di
aggrapparsi alle corde e di issarsi da solo. Si può notare la scelta del narratore nelle
asincronie o variazioni del tempo narrativo. In tre parole è racchiuso un tempo
costituito probabilmente da vari giorni trascorsi nel pozzo; ora invece il tempo del
raccontare rallenta: più il momento cruciale si avvicina, più la narrazione ritarda la
conclusione. L’attenzione è rivolta a questi semplici gesti del recuperare stracci vecchi
e cordame, e al momento delicato del salvataggio dello sfinito profeta. Si evidenzia così
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una pietà che si fa concreta e che sostanzia gesti e premure, senza ridursi ad un
impalpabile e velleitario stato emotivo.
Questo semplice e lento particolare, fortemente sottolineato dalla durata della
narrazione, rappresenta l’altra faccia della medaglia: da una parte vi è un’incredibile
ferocia che spinge alcuni israeliti a far morire di fame un uomo; dall’altra c’è il gesto di
uno straniero - gesto che potrebbe apparire insignificante, visto il contesto generale -, il
quale pone in atto ogni attenzione affinché neppure una scalfittura possa ferire un
essere umano.
Troviamo allora un altro caso di synkrisis: i śārîm giudei e un ‘ebed straniero. La
salvezza per Geremia avviene qui, come anche successivamente, per opera di persone
che non appartengono al popolo d’lsraele. Anche se egli poteva contare su alcuni
amici, pare che nei momenti cruciali l’intervento divino (cf 1,8) passi attraverso queste
“altre” persone. La provocazione per il lettore è lampante. Anzitutto in tale modo gli
viene ricordato che JHWH è il re della storia e può servirsi di ogni persona e situazione
per realizzare il suo progetto. In secondo luogo, è un implicito monito a guardarsi da
quella mentalità che ritiene sua proprietà JHWH e che ritiene l’elezione non un
compito, ma un privilegio.
3.5. L'ultima possibilità per il peccatore (Ger 38,14-28) Il lettore ricorda di avere già altre volte incontrato questo re, che cerca Geremia per
conoscere da lui l’oracolo del Signore (cf Ger 37,17): «Il re Sedecìa mandò a prenderlo e lo interrogò in casa sua, di nascosto: "C'è qualche parola da parte del Signore?"» (cf anche Ger
32,1-5; 34,1-7).
Resta nel lettore lo spazio per una timida speranza: questa volta il re ascolterà e
smentirà il giudizio perentorio di Ger 37,2? Infatti, il ricordo più vicino, immediato,
che il lettore ha del re Sedecìa è leggermente favorevole, poiché lo ha visto prendere
finalmente una decisone giusta verso il profeta, lasciando mano libera a Ebed-Mèlec.
Eppure qualcosa non convince, ed è il fatto che l’incontro avvenga segretamente.
Ancora una volta sembra si giochi a nascondino! Ritorna la fastidiosa sensazione di un
copione già conosciuto. Il re attende Geremia al terzo ingresso, ossia presso una porta
di servizio: ci si profila così da subito un re Sedecìa pauroso e succube dei suoi
dignitari.
Perché Sedecìa vuole questo colloquio pericoloso? Il sospetto è che egli desideri una
parola diversa da parte di Dio, senza però cambiare le cause che hanno prodotto la
parola di condanna; in altri termini vuole che Dio si penta, senza pentirsi anch’egli a
sua volta!
I dettagli offerti e il tempo narrativo del colloquio dicono l’importanza di quanto
succede: al re è data l'estrema occasione per ravvedersi, per obbedire alla parola di Dio
e decidere la propria sorte e quella del popolo. Ma il re non coglierà l'importanza
dell'ora, che anzi ignora e sfugge, servendosi di stratagemmi meschini e
nascondendosi, ancora una volta, dietro un muro di menzogna e di irresponsabilità.
Con un’incisiva osservazione Geremia tratteggia il carattere del re, debole con i suoi
dignitari ed incapace di decisione personale: «Geremia rispose a Sedecìa: "Se te la dico, non mi farai forse morire? E se ti do un consiglio, non mi darai ascolto" » (v. 15). Il
giuramento del re è nuovamente attuato nel segreto, ma nel nome del Dio vivente, «che 53
ci ha dato questa vita» (v.16). Il sovrano sembrerebbe bene intenzionato, ma in realtà
non risponde che alla prima parte dell’obiezione del profeta e tace sulla seconda, che
gli chiedeva di ascoltare e seguire davvero il suo avvertimento. Da subito si vede come
egli accetti la parola di Dio soltanto parzialmente, ponendo condizioni, cercando di
adattarla alle proprie speranze e non seguendola che a metà.
La risposta di Geremia ripete quanto già detto, ribadendo tutto nei termini del
contrasto tra vita e morte, tra il perire e il salvarsi. La scena successiva è tragicomica. Il
re tradisce una personalità poco lucida, una paura che deforma i contorni del reale,
così dice di aver più paura dei giudei passati dalla parte dei babilonesi, dei propri
sudditi disertori, che degli stessi terribili Caldei! Teme di essere schernito! Ed è cieco
invece sul ben più tragico destino che gli infliggeranno i nemici! (vv. 17-18).
Questo svela anche la profonda divisone che si era creata nel popolo tra i due partiti:
nazionalista e filobabilonese. In fondo, Sedecìa pensa unicamente alla propria
reputazione, quando invece una sua pronta decisione salverebbe tutto!
Alla scusa speciosa che adotta per non arrendersi ai babilonesi, Geremia incalza
ancora una volta, assicurandogli l'incolumità e la prospettiva che, con la resa, almeno
eviterà la distruzione della città e la propria fine personale. In caso contrario conoscerà
il più avvilente dileggio, del quale sarà vittima quando la città cadrà. Alla
sbeffeggiatura degli avversari politici subentrerà lo scherno ben più pungente delle
donne del suo harem, che volgarmente derideranno il loro "maschio" finito con gli
organi genitali nel fango: «I tuoi piedi si sono affondati nella melma…» (v. 22d). Questo
canto di dileggio sarà l’equivalente rovesciato del lamento funebre delle prefiche (cf
9,20).
A ribadire la costruzione a synkrisis si noti che il canto di schermo su Sedecìa
riprende termini ed esperienze dolorose che il povero Geremia aveva fatto nella sua
vita profetica (v. 22): hissîtûkā [ti hanno ingannato] ha in comune con il pittîtanî [mi
hai sedotto] di Ger 20,7 il senso di inganno; jākelû [hanno avuto potere] riprende il
motivo che appariva già nel racconto di vocazione (1,19) e si ripresentava all’interno
dell’ultima dolorosa confessione (cf Ger 20,7-11). Il terzo verbo hotbe‘û [si sono
affondati] è il medesimo usato per Geremia che sprofondava nel fango (38,6)16.
Chi sono costoro che fanno tutto ciò con Geremia? Sono gli ’anšê šelōmekā [uomini
di tua fiducia], uomini di buone relazioni, galantuomini. Sono gli stessi individui (Ger
38,4) che erano preoccupati per il bene, la pace del popolo e che ritenevano che
Geremia ne volesse invece il male! Ecco così la caricatura di chi si preoccupa della
propria effimera reputazione presso gli uomini invece che presso il Signore.
È vero che il dileggio delle donne verso il re riecheggia in parte la stessa esperienza
di Geremia, anch'egli sedotto e imbrogliato dal Signore, che ha prevalso su di lui; pure
lui è finito in una cisterna fangosa, ma l'esito apparentemente uguale dei due viene
mutato profondamente nel suo significato: da una parte è il re che sprofonda a causa
della sua incredulità, dall'altra parte è il profeta che sprofonda per richiamare il popolo
sulla via della salvezza, prendendo su di sé il destino che spetterebbe al popolo stesso,
affinché questo viva!
16
Alonso Schökel fa notare, oltre all’eufemismo del termine regel, l’ironica assonanza di bōṣ (mota) con
bûṣ (lino; cf Lv 16,4). Altro che mutande di lino per i "piedi" del re!
54
Il re non deve più nascondersi dietro le opinioni del proprio entourage, ma deve
avere la consapevolezza d’essere ancora il monarca e saper prendere decisioni in prima
persona. Invece, è schiavo del timore di perdere il potere e la vita, mentre dovrebbe,
confidando nel Signore, prendere con coraggio le proprie decisioni da re; per questo
giunge all'atteggiamento contraddittorio di giurare in nome del Dio vivente - ma solo
in segreto - e di impegnarsi a lasciare in vita il profeta, ma non a seguire le istruzioni
dell'oracolo divino. Così, paradossalmente, il profeta, pur essendo imprigionato, è un
uomo libero, mentre il re è un uomo che non ha conosciuto la vera libertà (cf il
processo di Gesù in Giovanni, con il contrasto tra il Nazareno e Pilato!). La libertà del
profeta contrasta con il re che non trova forza per spezzare i legami e non osa venire
mai a libertà. Davvero il re si rifugia in un'oscurità colpevole.
Il re baratta la vita di Geremia in cambio del suo silenzio (vv. 24-28). Il primo e
l’ultimo re di Israele sono entrambi due esseri infelici, sventurati, alla ricerca
angosciosa di una parola divina in loro favore: entrambi finiscono in mano ai loro
mortali avversari. Mentre Saul, però, dopo la notte con la negromante di Endòr (1Sam
28) si rialza e va coraggiosamente incontro al proprio tragico destino, il re Sedecìa
continua a nascondersi e infine cercherà codardamente di fuggire, invece di
condividere la sorte del suo popolo. Per lui non ci sarà nessuna elegia in morte. Fine
penosissima, buia, di una monarchia che pure aveva conosciuto momenti di gloria!
"Così Geremia torna in prigione, e il re nella sua gabbia di futile autorità, nella
quale immagina di restare invisibile. Il silenzio connivente del profeta è un atto di
sottomissione e insieme di pietà verso il re codardo"17. Ciò che più sorprende, però, è
una certa compassione, un certo velo di pietà, che viene steso dal narratore, solidale
con l’atteggiamento del suo principale protagonista, anche sul re e sulle sue debolezze,
sulla sua codardia piena di sotterfugi. In contrasto con la volubilità del re sta la
costanza della Parola data attraverso il profeta, per cui la posizione di Geremia non
muta, perché non è cambiata la parola di JHWH su Gerusalemme e sul suo re. Perciò
Geremia ribadisce, senz’alcuna attenuazione, ciò che ha già profetato in più occasioni.
Così le stesse vicende e i medesimi dolori sono per uno la via che porta alla salvezza,
per l'altro la via che porta alla rovina personale e del popolo (vv. 27-28).
3.6. La tragedia si consuma (39,1-10) Siamo arrivati alla resa dei conti tante volte minacciata dai profeti, gli oracoli dei
quali si stanno ormai compiendo sull’infedele Israele e sulla monarchia
disobbediente18.
L’assedio di Gerusalemme durò un anno e mezzo. Normalmente una città che
resisteva tanto a lungo poteva sperare nella salvezza, per il fatto che difficilmente un
esercito nemico poteva rimanere fermo per tanto tempo. L’insistenza di
Nabucodonosor nell’assedio dimostrava invece come egli fosse fermamente deciso a
17
L. ALONSO SCHÖKEL - J. L. SICRE DIAZ , I profeti. Traduzione e commento, Borla, Roma 1984, 680.
La problematica testuale per questo capitolo è particolarmente complessa. Infatti, i vv. 4-13 mancano
nella LXX. Si può spiegarne l’assenza con il fatto che la LXX è meno interessata al motivo del destino
del popolo di quanto lo sia la recensione lunga; si noti che mancano anche i vv. 11-13, che pure
appaiono di grande interesse per la biografia del profeta. C’è molto in comune con Ger 52,7-11.13-16,
come pure con Ger 25,4-12.
18
55
risolvere la questione di Gerusalemme ed a evitare il ripetersi di ribellioni in una zona
così nevralgica, al confine con l’unica potenza, l’Egitto, che ancora poteva dargli
fastidio.
Viene aperta la breccia nella città! Segue l’elenco con i nomi, testualmente piuttosto
corrotti, degli ufficiali di Nabucodònosor. Tutti i capi entrano in città e si stabiliscono
alla porta di Mezzo, che è indicata solo qui, e coincide forse con la porta di Efràim (cf
2Re 14,13; Ne 8,16; 12,39; 2Cr 25,23) o porta dei Pesci (cf Sof 1,10; Ne 3,3;12,39; 2Cr
33,14).
Si compiono le profezie con il nemico del nord che ha assediato e preso la città (cf
Ger 1,15;19,8-9). Si compie la dolorosa prospettiva del racconto di vocazione con i
generali che siedono alle porte di Gerusalemme (1,15). Si legga, come uno tra i tanti,
l’oracolo di Ger 6,22-26. Al v. 4 la notizia della breccia nella cinta muraria esterna non
significherebbe ancora la capitolazione totale, in quanto la roccaforte con il palazzo del
re avrebbe potuto continuare ad essere difesa con successo per lungo tempo. Tuttavia,
il fatto di avere il quartiere generale nemico all’interno della stessa città toglie ogni
speranza al re il quale, con i suoi alti ufficiali, sceglie la via della fuga, considerando
che per loro la resa avrebbe significato la morte. Certo che, così facendo, abbandona
vigliaccamente il popolo al suo destino senza condividerlo fino in fondo. Proprio loro, i
folli responsabili di una dissennata politica, dei dolori inenarrabili della città assediata e
del disastro!
Probabilmente Sedecìa conta sull’elemento sorpresa: mentre gli ufficiali nemici
erano intenti a rafforzare le loro postazioni, poteva supporre che non si sarebbero dati
la pena di sorvegliare tutte le vie di fuga. Per questo il re non perde tempo e cerca di
scappare nella stessa giornata, non appena calata l’oscurità. La fuga dalla roccaforte
attraverso una via secondaria, il giardino del re, riesce, ma non quella attraverso una
delle porte della città. Il tentativo di raggiungere gli alleati Ammoniti al di là del
Giordano fallisce.
Il v. 5 descrive la disperata fuga e il tragico inseguimento del re, catturato nelle
steppe desolate della zona tra il Mar Morto e il Golfo Arabico. Resta solo,
abbandonato dai suoi soldati, a differenza del primo re di Israele che era morto in
combattimento e che nella morte aveva ritrovato con i suoi quella vicinanza e unità che
aveva penosamente smarrito: «Così morirono insieme (uno!) in quel giorno Saul e i suoi tre figli, lo scudiero e anche tutti i suoi uomini» (cf 1Sam 30,6).
Viene condotto da Nabucodònosor a Riblà, nella provincia di Ḥamàt, ove questi si
era acquartierato. Lì Sedecìa, prima di essere trascinato in catene a Babilonia, subisce
una punizione atroce, ma piuttosto consueta nell’antichità: l’accecamento preceduto
dall’uccisione dei suoi figli, poiché questa scena doveva fissarsi nella memoria come
l’ultima drammatica visione. Sono uccisi anche tutti i più importanti personaggi di
Gerusalemme, quelli fuggiti con il re e quelli arrestati in città (cf 52,24-27). L’anziano
re viene condotto via in prigionia, in catene di bronzo e di lui non si sa più nulla, si
perde il ricordo. La promessa non passa attraverso di lui: la sua codardia e il suo
disinteresse alla sorte del suo popolo quasi gli negano la pietà dello stesso narratore
biblico. Eppure, nella narrazione biblica, c’era stata questa pietà per l’infelice Saul e
persino per il ribelle Assalonne.
La città stessa, compreso il palazzo reale, viene incendiata e le mura demolite (vv. 89): il fuoco era il segno più evidente del giudizio di Dio (cf 17,27; 21,12.14; 37,8). Il resto
56
della popolazione fu deportato. Secondo i dati di Ger 52,28-30, questa deportazione
riguardò un numero di persone molto inferiore a quella seguita alla prima
capitolazione di Gerusalemme: 832 contro 3.023. Lì si parla anche di una terza
deportazione di 745 persone cinque anni dopo, probabilmente in seguito alla
repressione dopo l’uccisione del governatore Godolià.
Per i poveri del paese, o meglio per un loro "resto", si apre un futuro, proprio per
coloro che nulla avevano avuto. Avviene una nuova spartizione di terre (v. 10).
3.7. La sorte di Geremia (Ger 39,11-14) La completa liberazione del profeta è descritta in modo sintetico in Ger 39,11-14 e
in modo più dettagliato poco dopo (cf 40,1-6). Tuttavia, poiché qui si tratta della
liberazione dal carcere, mentre più tardi Geremia è sciolto dalle catene che lo tengono
imprigionato insieme ad altre persone destinate alla deportazione, si può anche
pensare a due momenti distinti. In un primo tempo il profeta è lasciato libero, ma poi
finisce nel numero di coloro che sono rastrellati dall’esercito vincitore, per cui si rende
necessario un secondo intervento liberatorio da parte del comandante Nabuzaradàn.
L’elemento di spicco di questo primo racconto è che l’ordine di porre in salvo il
profeta viene addirittura da Nabucodònosor in persona! Può sembrare strano che il potente re babilonese si interessi direttamente della sorte
di Geremia, anche se questo particolare non è del tutto improbabile. Infatti, l’influenza
che il profeta aveva esercitato (cf la lettera ai deportati in 29,1-23) poteva essere nota
fin nelle più alte sfere. Anche il contenuto della sua predicazione sembra non essere
sconosciuto: il comandante babilonese ne fa esplicito riferimento in 40,2-3. Ma
nell’intervento diretto di Nabucodònosor va soprattutto ricercato un significato
teologico: come il re babilonese è stato uno strumento della volontà di Dio per punire
il suo popolo infedele, così lo stesso re è al suo servizio per adempiere la promessa di
proteggere Geremia (cf 1,8).
Per liberare il profeta si muovono le più alte cariche babilonesi (v. 13). Anche se i
nomi riportati qui non coincidono con quelli del v. 3, una presenza merita di essere
rimarcata: si tratta di Nergal-Sarèzer, "capo degli indovini" (rab-māg). Anche la più
alta carica religiosa di una divinità pagana rispetta il suo collega, per così dire, seppure
di un Dio diverso: ma soprattutto è tra coloro che agiscono secondo la volontà di Dio.
Questo particolare serve a sottolineare che il Dio d’Israele non esce sconfitto dalla
distruzione di Gerusalemme, ma anzi che Egli mostra di essere veramente il Signore
dell’universo. Geremia, probabilmente secondo i suoi desideri (cf 40,5), viene affidato a Godolià,
che qui appare già come persona di fiducia dei babilonesi, prima ancora di essere
nominato governatore della nazione vinta. Appartenendo, tra l’altro, alla cerchia del
famiglia di Šafàn, che aveva sempre avuto buoni rapporti con Geremia, era uno tra i
più indicati per garantire la salvezza del profeta.
Ma forse l’aspetto maggiormente interessante è contenuto nella frase conclusiva:
«Geremia tornò a vivere tra la sua gente» (v. 14). Il suo ministero profetico non era
ancora terminato ed egli rimaneva legato al suo popolo, ricercandone il bene e
indicandogli la strada che avrebbe dovuto seguire per imboccare la via della rinascita
(cf 42,3). Era chiaro che, in quella fase storica, il nucleo da cui sarebbe sorto il nuovo
57
popolo era considerato costituito dai rimasti (i poveri del paese), e non da chi aveva
dovuto prendere la via dell’esilio.
3.8. L’oracolo per Ebed-Mèlec (Ger 39,15-18) L’anacronia nell’ordine del racconto, per il quale questo oracolo si presenta come
un’analessi, fa sì che la costruzione a contrasto tra personaggi continui:
Sedecìa/Geremia; nobili/poveri; ministri giudei/Ebed-Mèlec l’etiope. Essa serve a
completare gli eventi, ma anche il messaggio teologico. Ebed-Mèlec aveva dimostrato,
con il suo operato di misericordia in favore del povero profeta perseguitato, di onorare
Dio e di aver avuto fiducia in Lui. Proprio quest’ultimo aspetto gli viene qui
riconosciuto (cf 39,18) e gli vale la promessa di salvezza da parte di Dio: la vita come
bottino. La parola di Dio gli aveva assicurato che, nonostante la sua posizione a corte,
egli non avrebbe seguito la sorte degli altri alti dignitari, ossia non sarebbe stato ucciso
per rappresaglia quando i babilonesi sarebbero entrati a Gerusalemme. Il lieto fine per
questo etiope può essere anche visto come l’adempimento di quanto annunciava un
altro profeta, legato al circolo di Giosia e contemporaneo di Geremia, Abacùc: «il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4; cf Rm 1,17: «il giusto per fede vivrà» ). Ma il lettore sa
questo solo adesso, in mezzo a tanto sfacelo! La Parola per l’etiope suona come un
invito al lettore a non smarrire la fiducia nel Signore e a sapere che la fedeltà di JHWH
non viene meno neppure nei momenti più bui.
«Perché hai avuto fiducia in me!»: si chiarisce così quanto aveva detto il profeta in
17,5ss sulla fiducia in JHWH come fonte della vita, al contrario delle illusorie
confidenze riposte nell’uomo, negli imbroglioni, negli idoli.
4. Un sogno bruscamente interrotto! (Ger 40-41) Il c. 40 ci mostra una situazione dove il caos sembra dominare ma, proprio in mezzo
al caos, nel crollo di Gerusalemme e di tutte le strutture religiose e civili, spuntano i
primi inizi di un nuovo futuro: inizi timidi, incerti, ma pieni di speranza. Tutto, però,
finirà improvvisamente per una serie di azioni scriteriate, irresponsabili, scellerate,
legate ad un passato che si mangia il futuro!
1. La scelta di Geremia La frase con cui inizia il c. 40 è un’introduzione teologica quanto mai delicata. Il
lettore non si trova di fronte, in questi due capitoli, alcun oracolo di Geremia: è
Geremia stesso, la sua vita, le sue scelte, a divenire profezia. Il narratore ci presenta la
scelta difficile che il profeta deve attuare e ci lascia come sospesi poiché non anticipa
nulla di questa scelta, né fa conoscere alcun comando del Signore a tal proposito
sicché, leggendo, si può propendere per una o per l’altra soluzione che viene
prospettata a Geremia. È interessante che questa parola del Signore giunga ma, senza
imporre alcuna determinata scelta, lasci aperta la possibilità alla decisione che Geremia
farà da se stesso, in coerenza con la missione vissuta in grande fedeltà!
58
In tal modo la parola del Signore echeggia nelle parole di Nabuzaradàn e prospetta
un’alternativa non tra il bene e il male, alternativa che sarebbe, per così dire, facile da
discernere, non tra valori assoluti, bensì tra scelte storiche e contingenti, nelle quali il
discernimento diventa particolarmente delicato. Così anche noi lettori non sappiamo
che cosa sia bene.
Nella prima prospettiva offerta a Geremia, la più lusinghiera, si tratta di andare a
Babilonia protetto da Nabucodònosor; gli viene promesso che i babilonesi avranno
cura di lui: «Avrò cura di te» (cf anche 39,12). Simili protetti ricoprono cariche
importanti alle corti dei re stranieri e possono servire ottimamente alla causa del bene
del loro popolo. È quanto avviene con Giuseppe e più tardi con Daniele, con Ester e
Mardocheo…
A Babilonia, inoltre, la comunità ebraica poteva ben ricordarsi di quanto Geremia le
aveva fatto scrivere ed essere quindi ben disposta verso di lui, riconoscerlo come vero
profeta. Una prospettiva allettante!
Viene offerta un’altra possibilità a Geremia, ed è quella di stabilirsi per conto
proprio nel luogo che più gli è gradito e che risulta più sicuro per la sua persona: nel
Paese - e qui per Paese non bisogna intendere soltanto la Terra promessa, ma un
qualsiasi territorio dell’impero - là dove a Geremia piacerà. Anche questa prospettiva è
abbastanza attraente.
La terza è quella che, paradossalmente, pone più condizioni ed è abbastanza
precisa: si tratta di far parte del gruppo di giudei che sono con Godolià come prefetto
dell’impero vincitore.
Dal punto di vista economico la prospettiva è certamente meno incoraggiante
perché la situazione è quella di un paese ormai allo sbando. Anche la sicurezza
personale non è molto garantita. Per diversi aspetti sembrerebbe davvero la prospettiva
meno allettante, eppure Geremia sceglie quest’ultima.
Perché? Poiché le prime due significavano probabilmente chiudere la missione.
Bisogna sottolineare che di quella missione Geremia aveva desiderato disfarsi più volte,
nel corso della sua vita (cf Ger 20); eppure qui egli vuole restare come profeta del
Signore. La clausola di rimanere con il popolo, tra il popolo (cf 37,4; 38,4; 39,14) viene
menzionata da Nabuzaradàn soltanto nella terza opportunità. Ebbene, proprio per
questo, perché gli è consentito di stare in mezzo al suo popolo, Geremia sceglie
quest’ultima possibilità. Così le prime due prendono un altro colore, un altro
significato anche nella mente del lettore.
Nel primo caso si trattava di essere un privilegiato alla corte, come Mosè prima
della vocazione e prima di aver scoperto di avere dei fratelli, e questo non poteva
andare bene a Geremia, che si sente profondamente solidale e fraterno con questo
popolo, che pure l’ha perseguitato.
La seconda prospettiva è quella d’essere uno che si fa gli affari propri. Ebbene,
l’idea di pensare ai propri affari e di essere ritenuto un agente fedele alle forze di
occupazione non può assolutamente interessare a Geremia, la cui esistenza è stata
“una vita in servizio”.
Allora la terza possibilità appare come quella voluta dal Signore: restare fra i suoi
fratelli, restare con i poveri. Egli sceglie perciò di rimanere con i suoi, con la sua gente
bisognosa di tutto come lui. Decide di fermarsi in una terra devastata da una guerra e
da un assedio, in un luogo in cui anche trovare le cose più semplici può diventare un
59
serio problema. Ma Geremia resta; fa questa scelta perché sente di dover cominciare
quella parte della sua missione che fino ad allora gli era stata sostanzialmente impedita:
il piantare e l’edificare. Questo gli era stato consentito solo come segno, in alcuni gesti
profetici come quello dell’acquisto del campo. Non aveva mai potuto lavorare, per
piantare la speranza!
Geremia rimane per seminare il futuro e decide di non lavorare da solo ma con altri,
con una “squadra” che certo egli non ha scelto e che, nondimeno, è l’unica compagine
che deve lavorare in favore del futuro. Perciò appoggia Godolià, figlio di un uomo che
lo ha salvato, membro della famiglia giudea che ha mostrato di ascoltare e di
apprezzare la sua predicazione.
2. Il progetto di una comunità nuova Ma chi è questo Godolià presso il quale Geremia resta? Godolià, il nome significa
"JHWH si è mostrato grande", è figlio di Achikàm, figlio di Šafàn (cf Ger 40,5): suo
nonno era segretario di stato, al momento della riforma di Giosia (2 Re 22) e suo
padre era il protettore di Geremia (Ger 26,24) come pure suo zio Ghemarià (Ger
36,12.15). Egli è quindi l’ultimo rappresentante della famiglia dei Safanidi che sostiene
Geremia, le sue tesi e la sua predicazione.
In questo senso è del partito filobabilonese ed è egli stesso amico di Geremia (cf
Ger 39,14): è possibile che fosse maestro di palazzo di Sedecìa ed avesse un’esperienza
amministrativa. Forse parla di lui l’impronta di sigillo scoperta a Lachis, che reca la
seguente scritta: "Godolià, colui che è sul palazzo". Geremia sceglie perciò di restare
con costui. Godolià potrà contare sul prestigio del profeta, dichiarato veritiero dagli
eventi che, ormai, sono sotto gli occhi di tutti. Godolià non è di famiglia reale, il che
significa che il futuro non passa più attraverso la monarchia: egli elabora il progetto di
un nuovo popolo.
Ebbene, Geremia collabora a questo progetto di piantare un popolo fondato
sull’esperienza esodica, un popolo al cui servizio saranno le varie istituzioni, civili e
religiose. Possiamo dire che questa breve ma luminosa esperienza con Godolià a Miṣpà
è quella spiritualmente più coerente con le stesse origini del profeta di Anatòt,
Geremia resta nella terra, però non parla né pronuncia oracoli: è la sua stessa
persona ad essere profetica! È l’essere rimasto ad infondere speranza, a rifondare la
vita e a edificare il futuro, condividendo con i poveri la loro desolazione e i loro stenti.
Questo è davvero profetico!
Gli esuli a Babilonia faranno fortuna, si arricchiranno; questi poveri no! Geremia
rimane con costoro, con questi ultimi della storia per piantare il segno del futuro che
Dio vuole edificare con loro.
Vediamo ora la "squadra" di Geremia e di Godolià cominciare l’agognata
ricostruzione. Ci sono i capi del campo, cioè i capi delle forze delle campagne, di
quella gente cioè che ha accettato l’inevitabile perché, abitando nei villaggi, non ha
potuto rifugiarsi in città, e che quindi non si è opposta a Babilonia. Accanto a queste
persone vediamo uomini, donne, bambini: uno stuolo di poveri che nessuno vorrebbe.
Purtroppo tra questi capi appare già il nome di colui che sarà il traditore: Ismaele.
Ai vv. 9-10 abbiamo un giuramento, una specie d’atto pubblico sul comportamento
da tenere: sottomissione, lavoro nei campi con Godolià come intermediario. Qui è
60
Godolià che parla, noi diremmo, profeticamente per Geremia e per JHWH: il compito
del Signore è implicito nel giuramento, nell’assicurare quella benedizione che si
manifesterà attraverso la vita passata nel lavoro dei campi. E davvero (v.11) ha luogo
una specie di miracolo; anche se storicamente questo rimpatrio riguarda poche
persone – e perciò potrebbe sembrare insignificante – profeticamente è dato di
scorgere in questi rimpatriati un segno: comincia così quel ritorno degli esuli che è
pegno, che è segno del futuro (Ger 29,14;40,12).Vi è un "resto" (še’ērît) che è rimasto
in Giuda e costoro, che vengono da lontano, s’incorporano a questo resto.
Ma perché trovarsi a Miṣpà? La ragione verosimilmente è da cercarsi nel fatto che
Miṣpà è l’unica zona in cui si erge una torre non distrutta, e quindi una fortezza non
abbattuta; Miṣpà inoltre funge anche da simbolo dell’Israele precedente la monarchia,
l’Israele del tempo dei Giudici, l’Israele del tempo della guida del Signore. Così
costoro che sono rimasti nella terra e i rimpatriati diventano la "primizia" del popolo di
Dio che ha superato il giudizio. E il grande raccolto di uva e di frutta (Ger 40,12)
mostra che il Signore benedice questo resto povero e lo benedice nella sua terra! Si ha
quindi il contrario degli oracoli di giudizio di Geremia, in cui la terra diventava arida,
desolata, incapace di frutti (Ger 12,7-13;8,13). Anche da ciò possiamo avere la
conferma del progetto di Godolià e Geremia: tornare all’antico sogno di Dio sul suo
popolo, quel sogno che era stato offuscato da una monarchia voluta per essere come
gli altri popoli.
Verosimilmente essi si considerano un modello del futuro popolo di JHWH. Ma
quest’esperienza dura soltanto pochi mesi, perché provoca la reazione di gente legata a
vecchi interessi, manipolata da poteri stranieri: gente miope, avida e violenta, come il
loro capo Ismaele.
3. Il passato divora il futuro Ismaele è un discendente della casa di Davide e di conseguenza pretendente al
trono. Egli viene accompagnato dai "grandi del regno" e dai capi militari. Si tratta del
personale di corte, che in precedenza aveva servito il re Sedecìa. Durante l’invasione di
Nabucodònosor erano fuggiti ad Ammòn, in Transgiordania. Adesso tutti ritornano.
Il passato ritorna! Essi non solo uccidono proditoriamente Godolià, ma mettono
fine a tutta l’esperienza di Miṣpà, dal momento che deportano persino il popolo che
stava con lui ed il povero Geremia (Ger 41). Perché vogliono cancellare la piccola
esperienza iniziata a Miṣpà in un contesto di poveri? Se avessero l’intenzione di
eliminare solo Godolià, non ucciderebbero il popolo che sta con lui, i pellegrini del
nord i profeti e la guarnigione di soldati caldei, né deporterebbero il resto della
popolazione di Miṣpà. Ciò che essi vogliono è eliminare l’iniziativa di questo piccolo
gruppo che ritiene di essere il "resto d’Israele" (40,15) e che riprende la storia del
popolo a partire dall’esodo e dai giudici, cercando di riorganizzare la vita
indipendentemente dalla monarchia e dal tempio. Ciò appare totalmente contrario alle
loro idee. Inoltre essi devono essere coinvolti in un più vasto complotto contro
Babilonia, complotto ordito dal re degli Ammoniti, mandante dell’omicidio (40,14).
Puntano al ristabilimento delle monarchie locali invece che ad un popolo libero e
fondato sulla fede.
61
Tragico errore! Il passato si ripresenta sotto forma di alcuni capi militari e uccide il
futuro che sta modellandosi grazie all’iniziativa dei poveri, organizzata da Godolià e
Geremia. A fianco dei fichi buoni continuano ad esserci i fichi cattivi ! (cf Ger 24)19.
19
Cf C. MESTERS, Il profeta Geremia: bocca di Dio, bocca del popolo. Introduzione alla lettura del libro del profeta Geremia, Cittadella, Assisi 1994, 135-137.
62
IV LA TORMENTATA RICERCA DEL VOLTO DI DIO Ciò che caratterizza il messaggio su Dio del libro di Geremia non è tanto un insieme
di affermazioni più o meno tradizionali, ma un'istanza profonda che percorre lo scritto
e che si evidenzia in particolari pericopi, quali, ad esempio, le "confessioni". L'istanza è
quella di non fissarsi soltanto su esperienze, immagini e concezioni distorcenti il vero
volto di Dio, ma soprattutto di compiere un itinerario spirituale che diventi
consapevole della trascendenza e paradossale vicinanza di JHWH, il Dio dell'esodo e
dell'alleanza, rispetto ad ogni esperienza di Lui, anche la più autentica, senza, però,
rifugiarsi in un'affrettata rinuncia a dire qualcosa di Lui e del suo progetto sul suo
popolo.
In altre parole, il libro di Geremia, nelle parti più preziose per il loro messaggio
teologico, è testimonianza di una lotta per il vero volto di Dio, di uno sforzo fedele e
tenace per approfondire una conoscenza di Lui che vada oltre i nostri fantasmi, le
nostre immaginazioni, le esperienze troppo parziali e limitanti.
Dapprima premettiamo il commento ad un testo che ci dà fortemente il senso di
un’assoluta signoria del Dio di Israele: il che renderà, però, ancor più acuto il
problema del volto di Dio di fronte al mistero del male nelle cosiddette "confessioni"!
1. Il vero Dio ed i falsi dèi
Per una presentazione del tema di Dio nel libro di Geremia è di grande interesse
partire da Ger 10,1-16 che, pur essendo un passo tardivo, sviluppa un motivo che
affiora continuamente nella predicazione di Geremia: il confronto tra gli idoli che il
popolo segue, perversamente affascinato, e JHWH, sposo tradito e dimenticato e padre
rifiutato del popolo di Israele e Giuda. Basti qui richiamare gli oracoli raccolti nel
primo rîb profetico (Ger 2,2-4,4) in cui JHWH si presenta come sorgente di acqua di
vita, in contrapposizione agli altri dèi, i quali sono soltanto nullità/vacuità e che
trascinano pericolosamente il popolo verso il nulla e un’irrimediabile siccità .
Certamente Ger 10,1-16 presenta una tematica e un linguaggio affini al Deuteroisaia
nelle sue dichiarazioni sarcastiche sulla nullità degli idoli e degli dèi e nell'esaltazione
entusiastica di JHWH, il creatore. Bisogna segnalare anche problemi di critica testuale
abbastanza rilevanti, come ad esempio, il fatto che i vv. 6-8 e 10 manchino nella LXX.
Come se ciò non bastasse, il v.11 è una glossa aramaica che funziona come una specie
di giaculatoria antidolatrica; infine, i vv. 12-16 sono identici a quanto si trova in Ger
51,15-19. Si noti inoltre che la pericope ha molte affinità con il testo deuterocanonico
della Lettera di Geremia.
Il contesto spirituale in cui si forma il nostro testo è la vittoria dell'imperatore
Nabucodònosor, che aveva ingenerato negli Israeliti una profonda crisi di fede, con la
tormentosa questione: a chi apparteneva la reale signoria della storia? Al Signore?
oppure a Mardùk?
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Il nostro capitolo riflette intorno alle domande radicali che si ponevano al profeta e
ai suoi concittadini di fronte all'esperienza della caduta di Gerusalemme. Ebbene, a
questa situazione di crisi di fede si risponde abbozzando l'argomento, simile a quello
dei Salmi 115 e 135 e del Deuteroisaia: gli idoli sono fattura delle mani dell'uomo,
mentre invece il Signore Dio ha creato il cielo e la terra.
Questo contrasto si riflette anche sul piano formale e vi è allora letterariamente la
contrapposizione tra una descrizione satirica e un inno di lode. Al centro del nostro
brano sta il paragone sarcastico con lo spauracchio, gli spaventapasseri dei campi che
non fanno paura neanche ai bambini, a cui segue una solenne professione di fede sulla
grandezza del nome del Signore. È interessante cogliere qui, tra le righe, la disamina
dei percorsi dell'idolatria. In contrapposizione al cammino di una vita autenticamente
religiosa, l'idolatria si basa sullo sfruttamento del sentimento di timore o
d’intimidazione, come appare, ad esempio, anche nella Lettera di Geremia 4-5.
L'idolatria sfrutta i sentimenti di paura dell'uomo, i suoi bisogni di sicurezza
offrendogli fasulle soluzioni a questi problemi (cf anche Is 8,11ss). La sicurezza che
JHWH offre al credente è di ben altro spessore e non abbisogna di uno speciale terreno
di coltura come fa l’idolatria, gettando l'uomo in preda al panico, al timore di influssi
più o meno maligni di astri o altro. Il "timore" che il credente prova di fronte al
Signore è ben altra cosa dalla paura di influenze negative: il "timore di Dio" è ricerca
fattiva, fedele e sincera della sua volontà nel riconoscimento della sua signoria.
I versetti satirici di Ger 10,2-4. 8-9 si fondano certamente su un fraintendimento
comune a tutta la polemica giudaica, che considera solo l'aspetto esterno, non il senso
vero del culto delle immagini. Ma occorre ricordare che la satira non è un trattato di
teologia: essa vuole deridere, esorcizzare le paure stolte e inutili che attecchiscono
abbondantemente nel popolo, proprio in misura proporzionale alla mancanza di una
vera fede. Qui, come nella polemica con la religione degli altri popoli e con le forme
superstiziose e sincretistiche di jahvismo popolare, si usa il linguaggio della satira che
intende scuotere dal torpore, suscitare uno spirito critico, far pensare.
Quel che alla redazione esilica del nostro libro sta realmente a cuore è riaffermare
che uno solo è il Dio creatore e redentore ed aiutare così i giudei esiliati a sfuggire al
fascino pericoloso delle processioni e delle cerimonie sontuose dei templi dei
dominatori babilonesi. Dalla polemica e dalla satira si passa al vero e proprio
insegnamento: gli idoli vengono definiti fin dall'inizio come vanità, falsità, vuoto.
Gli idoli, proprio perché sono vuoti, non hanno potere di fare il bene e il male. Il
potere di fare il bene e il male compete soltanto al Signore (cf Dt 28,63). Alla
descrizione degli idoli si contrappongono appunto i tre titoli dati al Signore. Il Signore
è vero di fronte alla falsità, vivo di fronte all'impotenza, eterno di fronte a fatture recenti
e periture. Di notevole interesse, ancora più che la polemica antidolatrica, è il v. 10 con
i vari attributi di JHWH, vero, vivente, eterno, che sono in piena antitesi con quelli degli
dèi. La ’ĕmet di JHWH è concretamente l'attendibilità di Dio, la sua fedeltà alle
promesse, la stabilità nel suo patto.
JHWH è proclamato, conformemente a numerose attestazioni della fede biblica, ’ĕlōhîm ḥajjîm [Dio di vita]. Tutto l'AT è percorso dalla consapevolezza profonda che
JHWH è il Dio vivo (cf Sal 42,3; 84,3). JHWH, infatti, parla, agisce, si commuove, presta
ascolto, si adira, ecc.. A Lui si attribuiscono tutte le qualità di una persona vivente.
Inoltre, Egli è il Dio vivente proprio perché è il datore di vita, di benedizione e il
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custode della vita dell'uomo e del suo popolo in particolare: «È in te la sorgente della vita» (Sal 36,10). Per Geremia Dio è la pienezza della vita e in ciò sta appunto la sua
singolarità. Certamente la vita che noi sperimentiamo è soltanto pallida immagine,
simbolo del fondamento inattingibile, ma nondimeno si comunica a noi. Proprio
perché è la pienezza della vita, Dio è colui che fa vivere: «O speranza (cisterna) di Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi (secchi); quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere [ še’ôl ]), perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva» (Ger 17,13).
Infine JHWH è acclamato come melek ‘ôlām (re dell’universo / eterno). Non si
confessa semplicemente la sua eternità, ma la sua signoria universale che non conosce
confini di tempo o di spazio.
Ai vv. 12-16, viene celebrata la potenza di JHWH come creatore, poiché le forze della
natura obbediscono ai suoi ordini, anche quando si scatenano in tutta la loro potenza.
Il testo diventa un inno di lode, che supera quindi il puro ambito dell'istruzione e della
polemica e che può essere recitato come una professione di fede. Dio esprime la sua
collera e la terra trema di spavento.
2. Alla ricerca del vero volto di Dio: le confessioni di Geremia Intraprendiamo ora il percorso all'interno dei testi che si avventurano nella ricerca di
un volto di Dio sempre più vero, fino a giungere a lasciare come parlare il silenzio di
Dio. La nostra indagine ha come riferimento privilegiato le celebri “confessioni”:
1. Ger 11,18-12,6
2. Ger 15,10- 21
3. Ger 17,14-18
4. Ger 18,19-23
5. Ger 20,7-18
Commenteremo qui la prima, la seconda e la quinta confessione.
2.1. Prima confessione (Ger 11,18 - 12,6): come intendere la giustizia di Dio? 2.1.1. La domanda di "vendetta" da parte Geremia (Ger 11,18-23) La prima confessione (Ger 11,18-12,6) presenta un testo ebraico poco chiaro e un po’
disordinato. Così Ger 12,6 per vari interpreti starebbe bene dopo Ger 11,18.
Similmente Ger 12,3 andrebbe meglio dopo Ger 11,20. Da parte nostra proponiamo di
lasciare il testo come sta, accettandone le oscurità e la difficoltà a capire certe
connessioni tra domande e risposte. Nella prima confessione abbiamo una pagina molto
bella la cui struttura sembra seguire una triplice articolazione: vv. 18-20 il lamento; vv.
21-23 giudizio e sentenza; 12,1-6 la domanda del profeta con la risposta divina.
Nei vv. 18-20 l'io orante eleva una sorta di lamento al Signore. Non si può, però,
vedere qui la tipica forma dei "lamenti", poiché in essi è l'orante che fa presente il
proprio caso al Signore, invece qui è esattamente il Signore che fa conoscere i piani
insidiosi dei nemici all’io dell'orante. Questo io è paragonato all'albero e all'agnello.
65
Forse non serve decidere se si tratta dell'io del profeta o della comunità, ma è utile
intendere il testo in un senso ampio e comprensivo: in questo secondo caso il profeta
rappresenta colui che intercede per Israele, e che, minacciato dai nemici, invoca la
liberazione del popolo e il ristabilimento della giustizia.
Sul piano teologico vi è implicato il motivo del profeta come l'uomo che ha ricevuto
una conoscenza del senso del presente da parte di Dio: egli, per grazia, è abilitato ad
interpretare correttamente il senso profondo degli eventi e la visione di Dio nel
presente.
«La mia causa è affidata a Dio». L'immagine dell'albero strappato nel suo rigoglio
suggerisce che se Geremia il giusto muore, non avendo figli, viene estirpato totalmente
e il suo nome scomparirà: ma proprio qui ha senso l'allusione alla più grande speranza
di Geremia (11,20b) che affida la propria causa al Signore, il quale sa far rispuntare e
sa far mettere germogli anche ad un albero ormai secco.
Nei vv. 21-23 si chiarisce meglio il problema posto ai vv. 18-20. Vi è qui un dialogo
in cui si fondono la lamentazione, il rendimento di grazie e la sentenza di condanna.
Viene anche rivelata l'identità dei nemici del profeta: sono gli uomini di Anatòt, che lo
avversano proprio in ragione della sua predicazione. Qualunque sia la spiegazione della
storia redazionale di questi testi, ora le due parti sono unificate dal tema
dell'opposizione alla missione profetica o, se si vuole, è la vicenda stessa di una parola
profetica che è avversata ed osteggiata. In questione non è la vita privata di Geremia,
ma il suo ruolo pubblico di profeta.
Che cosa chiede allora Geremia? Nei confronti degli avversari invoca vendetta
(11,20; cf anche 12,4 e 18,21ss). Impressiona vedere questo uomo, così mite, chiedere
con tanta violenza: «possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa». Eppure il profeta è mite come un agnello sul quale passa una furia omicida. Per
capire bene questo, bisogna tener presente che la richiesta di Geremia è formulata
secondo la legge del taglione e non di una vendetta illimitata.
Non è una semplice vendetta quella che chiede Geremia, ma il ristabilimento del
diritto; non gli importa tanto il male che deve piombare sui suoi nemici, quanto il
giusto effetto che per lui ne deriva. Inoltre, bisogna ricordare che la prospettiva in cui
si muove Geremia è quella del tempo presente. Il luogo in cui si manifesta la giustizia
di Dio è questa vita, non un aldilà che non è ancora entrato nella fede ebraica.
2.1.2. Quale giustizia ? (Ger 12,1-4) Il testo della prima confessione continua in Ger 12,1-6 dove, prima sotto forma di
preghiera (vv. 1-4) e poi di risposta divina (vv. 5-6), è proposto un tema decisivo per la
teodicea: quello della giustizia di Dio.
In Ger 12,1-4 troviamo un io che si lamenta, discute e pone domande di
chiarimento sulla giustizia di Dio: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa contendere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia». Questa richiesta mostra
l'estrema libertà di Geremia (o del popolo) nei confronti di Dio, fino al punto di dargli
un suggerimento: annientare gli empi dalla faccia della terra. Ma la libertà di Geremia
giunge perfino a consentirgli di sospettare di Dio o addirittura di accusarlo! Al v. 2
Geremia introduce il sospetto che Dio sia complice degli ingiusti: «tu che li hai piantati ed essi mettono radici...». Si badi che è in gioco non tanto il problema della sofferenza
innocente né la persecuzione del profeta, bensì il fallimento della giustizia divina nei
66
confronti del popolo che continua a vivere nella terra, nonostante la sua apostasia. È in
gioco la domanda se Dio sia veramente interessato alla vita dell'uomo o non sia
nascosto in una impossibile lontananza.
E che si tratti del popolo dell'alleanza, ossia di Giuda, si può dedurre dal fatto che si
trova il termine bāgôd [traditore], riferito da Geremia più volte a Giuda (Ger
3,7.8.10.11.20; 5,11; 9,1). Il v. 4 ribadisce la richiesta di un ristabilimento della giustizia, che è collegato a una questione teologica. Ciò che è in gioco è l'identità di Dio.
È complice dei malvagi? Indifferente? Assente? Dio sin da ora deve dare prova di ciò
che è: il Dio che sostiene il bene ed elimina il male. Questa manifestazione è
necessaria, altrimenti Dio non sarebbe credibile. Prima della richiesta di vendetta
personale, Geremia richiede che Dio riveli se stesso come Dio giusto, altrimenti
potrebbe nascere l'incredulità in Lui. Geremia chiede che Dio si tenga fedele al suo
profeta, alla promessa fattagli di vicinanza, d’assistenza. La domanda di giustizia è resa
più forte dal fatto che Geremia è innocente: si ricerca la sua morte, ma senza motivo!
Appare allora chiara l'esigenza che questa vita terrena sia luogo del premio per la virtù
e di manifestazione della giustizia di Dio.
2.1.3. L’enigmatica risposta di Dio (Ger 12,5-6) Qual è la risposta di Dio alle invocazioni e recriminazioni di Geremia? Innanzitutto,
Dio non accetta le parole di vendetta e contesta in particolare l’impostazione del
problema fatta da Geremia. Certo l'uomo di fronte a Dio è libero di esprimersi come
vuole e di dire tutto ciò che desidera, ma il Signore non è costretto ad approvare tutto
ciò che dice l'uomo. Geremia afferma che non è giusto che la terra sia in lutto per
colpa degli empi, ma continua a muoversi in una sorta di concezione "retributiva",
geometrica, della giustizia: da una parte i colpevoli che devono subire il giudizio divino
e dall'altra i giusti che possono vivere in pace, garantiti dalla giustizia di Dio.
Ebbene JHWH invita Geremia a cambiare ottica, puntando alla fedeltà e al coraggio,
esortandolo ad affrontare prove ancora più dure. In primo luogo quindi Geremia deve
cambiare prospettiva, attuare una vera e propria metánoia, poiché la sua impostazione
del problema del male e del dolore ne ignora tutta la complessità, che è simile
all’intricata boscaglia del Giordano.
In altri termini viene contestato a Geremia che la sospensione o la dilazione del
giudizio divino sugli empi metta in dubbio la giustizia di Dio e che, perciò, la
sofferenza, comportata dalla fedeltà al proprio ministero, possa essere una fatica inutile
e insensata. Tanto meno allora il profeta può onestamente pensare ad una connivenza
di Dio con gli empi. Indirettamente si vuole far capire a Geremia, tentato di porre
scadenze, che si deve convertire al fatto che JHWH si riserva i tempi e i modi con cui
realizzare la propria giustizia.
Se questo è contestato dal v. 5 in modo implicito, al v. 6 la risposta prende toni più
espliciti, anche se enigmatici. Essa suona come misteriosa perché dilata
incredibilmente i confini del male. Il profeta è ingenuo a pensare all'esistenza di un
gruppo di empi di fronte ad un gruppo di giusti. Il male è più diffuso e profondo in
quanto i "traditori" non sono solo tra il popolo in genere, ma persino tra le persone più
prossime al profeta, tra i suoi “familiari”. Il problema è dunque assai più grave di
quanto il profeta sospetti e la solitudine del profeta innocente diventa sempre più
parabola di un drammatico momento per lui, in quanto portatore di una parola di
67
JHWH che è in rotta di collisione con la vita di Israele. E se Dio non giudica gli empi
non è perché è connivente con loro, ma perché la sua giustizia è misericordia che
risparmia i peccatori e che non rinuncia all'amore per un popolo di traditori.
"Geremia ha ceduto all'irresistibile tentazione di dir male di Dio, la tentazione cui
rischiamo tutti di cedere facilmente, nell'illusione di essere noi i difensori di
un'immagine «vera» di Dio, di quel che Egli dovrebbe essere. Dio è paziente, risponde
garbatamente alle domande di Geremia che avevano sfiorato la bestemmia, fa aprire gli
occhi sulla nostra presunta innocenza, rifiuta di essere semplicemente un castigamatti
universale"20.
2.2. Seconda confessione: convertirsi al Dio conosciuto unicamente nella sua Parola (Ger 15,10-21) Può essere Dio conosciuto al fuori della sua Parola? Non è allora un fantasma e un
miraggio rispetto al quale l'uomo si sente inevitabilmente migliore?
La seconda confessione mette a tema proprio il coraggio di interrogarsi sulle nostre
immagini di Lui e si concluderà con un invito ad andare più avanti, a convertirsi ad
un'esperienza di Dio più vera e più certa. Al centro di questa seconda confessione, che
è una specie di preludio all'ultima confessione, sta, infatti, la domanda serissima sulla
nostra immagine di Dio, se essa sia veritiera o non invece un miraggio. Il tema centrale
di questa seconda confessione (15,10-21) va allora ben oltre il conflitto tra giusti ed
empi rispetto all'immagine di Dio21: è una richiesta al credente di vivere in uno stile di
conversione continua e di docilità alla parola del Signore, nella quale soltanto si può
conoscerlo per quello che veramente è. La seconda confessione si chiude con una
chiara indicazione: il Dio di Israele può essere conosciuto unicamente nell'obbedienza
alla sua Parola, tutto il resto è illusione e ribellione.
Procediamo ora ad una lettura più puntuale di questo testo che, dal punto di vista
della struttura, si presenta diviso in tre parti: vv. 10-14; vv. 15-18; vv. 19-21.
Ricordiamo qui che vi sono parecchi problemi esegetici che riguardano le numerose
difficoltà di traduzione e la varietà delle interpretazioni possibili dei singoli dettagli.
Particolarmente difficili sono i vv. 13-14: alcune letture tendono a vedervi una glossa
inutile, ma, a nostro parere, essi non ledono l'organicità del testo, in cui si può
individuare una sostanziale coerenza logica per i vv. 10-14, nonostante le sue oscurità.
2.2.1. Prime battute del dialogo (Ger 15,10-14) Per una lettura corretta di questo testo è importante decidere chi parla al v. 10.
Mancano elementi per un’identificazione senza ambiguità. Bisogna dire che nulla
identifica esplicitamente il supplicante come un profeta.
Potrebbe trattarsi di un individuo che parla per la comunità, oppure di un pio
giudeo oppresso o di un poeta. È preferibile una lettura comprensiva che veda qui il
profeta con un gruppo di Israeliti. In altri termini, non consideriamo il poema come
20
A. BONORA, Geremia, uomo dei dolori, Messaggero, Padova 1992, 66.
Il conflitto può forse rappresentare il conflitto interno alla comunità del secolo VI e dei secoli
successivi, oppure l'opposizione delle nazioni a Giuda, oppure la lotta per il predominio tra diversi
gruppi profetici o biografici di Geremia. Un così ampio ventaglio di possibilità rende indeterminato il
senso del poema e lo apre a differenti interpretazioni, dato il carattere piuttosto criptico del testo.
21
68
ipsissima verba del Geremia storico: non è, infatti, predominante l'aspetto biografico,
poiché si tratta di un testo altamente elaborato e formulato in termini convenzionali
ma fortemente teologici.
In tal modo, la vicenda singolare di Geremia diventa parabola di una fede che
s’interroga sul vero volto di Dio, andando oltre risentimenti e pregiudizi deformanti.
La madre (v. 10) sembra essere Gerusalemme; il figlio è il profeta con il suo gruppo,
che è ora oppresso dalla comunità del suo popolo (v. 20). Si è creata dunque
un'opposizione, un litigio o contesa (v.10) tra il gruppo dei credenti e la comunità.
Non si tratta di contrasti di carattere economico o di ingiustizie sociali - «Non ho ricevuto prestiti, non ne ho fatto a nessuno» (v. 10) -, ma il problema è squisitamente
teologico e riguarda il volto di Dio.
L'esperienza della sofferenza ingiusta, patita dall'innocente, diventa inevitabilmente
una chiamata in causa della fedeltà di Dio e della validità della sua promessa (cf il
racconto della vocazione). L'opposizione che il profeta e il gruppo che in lui si
identifica sperimentano è davvero giustificata? Il discredito gettato sul profeta è segno
che Dio l'ha abbandonato, che egli ha sbagliato?
È in gioco la missione di Geremia e la condotta di chi lo rifiuta e lo maledice, ma
anche l'identità del Signore che lo ha inviato. Ecco perché Geremia si presenta quasi
come profeta ideale e perfetto. Il nemico più pericoloso non è esterno, non sono i
babilonesi, come sembrerebbe alludere l’espressione: «ferro venuto dal settentrione». Il
nemico è all'interno del popolo e coincide con coloro che, con la loro condotta,
pongono in dubbio la vera identità del Signore: in definitiva il nemico è interno alla
stessa coscienza del profeta e dei giusti che si pongono la questione dell'atteggiamento
di Dio verso la sofferenza patita per Lui.
Ora la prima parte del v. 11 afferma (secondo una possibile traduzione): «Certo ti ho posto opposizione per il bene». Il gruppo è in opposizione alla comunità, ma il conflitto è
per il bene della comunità che Geremia deve condannare, richiamare, denunciare per
la sua iniqua condotta. In 11b viene spiegato che l'intervento divino, mediante il
profeta, raggiunge il nemico, ossia la comunità che maledice il profeta: «Certo, sono intervenuto per mezzo di te nel tempo della sventura e dell'angoscia, raggiungevo il nemico».
In Is 53,6 si trova la stessa sequenza. Sebbene considerati da loro come nemico,
Geremia e il servo di JHWH sono strumenti di Dio per il bene dei loro nemici cioè di
Israele.
Dopo l'enigmatico v.12, il v. 13 riprende la risposta divina che suona sconcertante:
saccheggio ed esilio si abbatteranno sul popolo peccatore. Ma il male non viene tanto
dal Signore, ma dal peccato del popolo. I tesori e gli averi della comunità saranno
saccheggiati a causa dei peccati del popolo. Il possessivo tuoi non può riferirsi a
Geremia personalmente: non si capirebbe come le proprietà del profeta siano la base
della punizione. I peccati sono quelli del popolo, qui interpellato unitamente al profeta
con il tu (cf Ger 39,12 e 40,4-6 dove l'esilio colpisce tutti, ma a Geremia è data la
possibilità di restare in patria). Si deve notare che il v. 13 dice espressamente che
questo non avviene come risarcimento del peccato, quasi Dio fosse assetato di
vendetta: «I tuoi averi e i tuoi tesori li abbandonerò al saccheggio, come ricompensa [meḥîr] per tutti i tuoi peccati commessi in tutti i tuoi territori».
Il voi del v. 14b accomuna il profeta e i suoi nemici come oggetto dell'ira divina,
mentre al v. 14a i "tuoi nemici" separa il gruppo del profeta dal resto del popolo. Si
69
vede chiaramente la presa di distanza dall'immagine di un Dio giustiziere, al servizio di
una giustizia concepita come retribuzione.
2.2.2. Il profeta risponde a Dio e continua il dialogo (Ger 15,15-18) La seconda confessione prosegue con la seguente struttura: (v.15) supplica; (vv.1617) rievocazione elegiaca del passato felice con JHWH; (v.18) durissima accusa a JHWH.
Nella supplica del v.15 si riprende la forma del lamento (cf v.10), con la
contrapposizione tra la fedeltà di colui che parla e l'ostilità di persecutori [rōdepîm] che
si disinteressano di JHWH. La ragione della persecuzione è la fedeltà a Dio: «io sopporto insulto a causa tua». Per l'identificazione di colui che parla si badi che lo stesso si
definisce al v. 16 con «io sono chiamato con il tuo nome», che è una formula mai usata per
un individuo, ma per la nazione (Dt 28,10; Is 63,19), per il Tempio (7,10-11ss), per
Gerusalemme (25,29). L'io del profeta parla non solo a nome proprio ma a nome di un
gruppo di pii, ai quali si oppongono quelli che disprezzano la Parola divina. La
supplica del v.15 è un interrogativo di fronte all'incomprensibile comportamento di
Dio verso agli empi. La supplica indica certamente la fiducia riposta in Colui al quale
ci si rivolge; d'altra parte si può vedere in essa come Geremia e il credente trovino
difficoltà ad abbandonare la vecchia immagine di Dio, che ha con noi un rapporto
mercantile di "dare ed avere".
La preghiera si sofferma poi, con uno sguardo carico di nostalgia, sulla felicità del
passato, quando la parola di JHWH era la delizia e la gioia del cuore del profeta.
Torneremo su tale aspetto, quando parleremo di un Dio che avvince e prende
totalmente l'uomo quasi sequestrandolo per sé. Viene rievocato qui un periodo di
innamoramento, in cui il profeta era felice di portare il nome di JHWH, cioè di
appartenergli. Quest’appartenenza a JHWH era motivo di gioia e d'onore. Come una
moglie che porta il nome onorato del marito e un figlio che porta il nome prestigioso
del padre, così il profeta porta con orgoglio il nome di Dio.
Si ricordi, inoltre, che il nome del profeta [jirmejāhû o jirmejāh] significa "JHWH ha
fondato" [dalla radice verbale rmh, in accadico ramû] oppure "JHWH ha esaltato" o "è
alto" [rûm]. Ma è proprio l'appartenenza a JHWH che ha prodotto dolore e solitudine.
Tali sentimenti, che appesantiscono il cuore di Geremia, contrastano con la gioia di
vivere, provata in altri momenti, quando la comunione con Dio e il servizio alla sua
Parola gli procuravano un'intima beatitudine e davano all'intera esistenza significato e
pienezza.
Così, mentre le strade e i luoghi di divertimento esplodono nella festa e l'aria è
percorsa da grida sguaiate, il profeta siede solitario, ignorato da tutti, spinto nella
solitudine dalla mano invincibile di Dio (Ger 15,17): la solitudine nella quale il profeta
vive non è però riempita da un dolce colloquio con Dio, ma viene resa ancora più
grave da tale incomprensibile silenzio divino. Perfino il suo fallimento come
intercessore non fa altro che sottolineare l'indisponibile libertà del Signore, che sembra
sottrarsi anche all'intervento del suo profeta (7,16; 11,14). La gioia di un tempo si
trasforma allora in ira e in un grido impressionante: JHWH è diventato per me un
torrente infido e la causa della ferita incurabile che mi tormenta!
In questo momento nel rapporto con JHWH prevale la dimensione di rinuncia, di
fatica, di tensione tra la chiamata divina, che lo pone dalla parte di Dio contro gli
uomini, e l'inclinazione personale verso i propri simili.
70
Tale tensione si manifesta addirittura come un dolore fisico permanente, una ferita
sempre aperta: "inguaribile" (’ānûš: cf 17,9.16; 30,12) è espressione riferita alla
comunità. Si tratta, dunque, di una lamentazione individuale a nome di un gruppo. Il
permanere della ferita mette in questione la condotta di Dio22: è affidabile Dio? Egli,
che è la fonte di acqua viva (2,13), non si comporta come un torrente o uno wadi
infido?
A tal punto lo ha portato l'esasperazione! Il profeta giunge a sospettare di Dio e
teme che il suo Signore sia diventato come un torrente insidioso, di cui non ci si può
più fidare, perché resta secco proprio quando il bisogno d’acqua si fa più urgente. Il
suo dubbio coinvolge il dogma fondamentale dell'AT, ossia il principio della fedeltà e
credibilità di JHWH e la sua superiorità sugli dèi. La tentazione nella quale il profeta sta
per cadere è gravissima e nondimeno assai comune perché è quella che pensa che il
volto buono di Dio ne nasconda uno più profondo, minaccioso e buio (cf Dt 1,27ss). Il
profeta non soccombe ad essa, perché non si è limitato a tormentarsi interiormente, o
peggio ancora a ragionarne con altri, ma ha continuato a rimanere alla presenza di Dio
e ha avuto il coraggio di esporre il proprio dubbio atroce davanti a Dio stesso, nella
preghiera.
2.2.3. La risposta divina (Ger 15,19-21) Al lamento (vv.15-18) segue la risposta divina oracolare (vv.19-21); è una promessa
di liberazione dal potere dei malvagi, imperniata sul verbo šûb, che significa tornare,
convertirsi, cambiare le sorti. Ma il linguaggio è abbastanza elusivo. La risposta non
riprende i termini del lamento, cioè il nesso tra lamento e risposta non mostra
riferimenti a particolari situazioni. La promessa di liberazione è chiara ed esplicita (vv.
20-21) e si sviluppa in un settenario che ne rimarca la certezza insieme all’irrevocabilità
della protezione divina, ma dove non sono chiare le modalità della realizzazione:
19
Allora il Signore mi rispose:
«Se ritornerai, io ti farò ritornare
e starai alla mia presenza;
se saprai distinguere ciò che è prezioso
da ciò che è vile,
sarai come la mia bocca.
Essi devono tornare a te,
non tu a loro,
20
e di fronte a questo popolo io ti renderò come un muro durissimo di bronzo;
combatteranno contro di te,
ma non potranno prevalere,
perché io sarò con te
per salvarti e per liberarti.
22
Quale situazione storica ha provocato la riflessione? Le risposte sono diverse: a) per alcuni l'esperienza
personale del profeta; b) per altri la caduta di Gerusalemme (587 a.C.); c) per altri ancora la
polarizzazione tra i pii e i non pii nella comunità postesilica. I dati biografici si sono dissolti, nel corso
della tradizione e dell'edizione del testo (se mai c'erano all'inizio!) sicché ora il linguaggio risulta
metaforico, perciò aperto a significati più ampi.
71
Oracolo del Signore.
21
Ti libererò dalla mano dei malvagi
e ti salverò dal pugno dei violenti».
Non c'è dunque affatto ironia nella risposta [«qualora ritornerai a me, vedrai che sono affidabile»], ma vi è l'invito a compiere davvero questo difficile passaggio della fede, per
cui si capirà che l'affidabilità di Dio non può essere conosciuta se non da chi si affida a
Lui.
La risposta di Dio è un oracolo in cui JHWH non dà ragioni alle domande di
Geremia, perché è Lui soltanto la ragione di tutto. Non offre affatto una risposta,
perché è Lui stesso la risposta. Così questa suona essenzialmente come un comando,
un invito alla conversione (šûb è ripetuto ben 4 volte al v. 19) e come un'esortazione al
ritorno docile, alla disponibilità e lealtà richieste nella vocazione.
La risposta di Dio non offre spiegazioni teoriche, né si limita ad alcune parole
consolatorie, ma chiede al profeta/credente di tornare, cioè di non rimanere paralizzato
dai dubbi e dalle esitazioni, di incamminarsi coraggiosamente per una via di
testimonianza e lotta per la causa di Dio. Sarà esclusivamente in questo vivere in
docilità alla Parola che egli farà esperienza della promessa del Signore (cf le sette
formule di liberazione) senza cadere vittima delle illusioni, dei falsi valori, che
distorcono anche la nostra esperienza di Dio, l'immagine che ci facciamo di Lui e di
noi.
2.3. Quinta confessione: il silenzio di Dio (Ger 20,7-18) 2.3.1. Il contesto Anche il contesto attuale della quinta confessione sembra dovuto alla redazione
postesilica e pare plausibile ritenere che l'esperienza storica conflittuale di Geremia sia
stata trasposta dai redattori in termini di opposizione tra pii ed empi in generale,
secondo lo schema e il linguaggio abituale delle lamentazioni, probabilmente nel postesilio. Ma che cosa significa questa collocazione della pericope e quale luce ulteriore
getta su di essa?
Per rispondere a questa domanda è opportuno notare che al v.10 appare
l’espressione māgôr missābîb [terrore all'intorno] che è presente anche al v. 3 come
nome dato da Geremia a Pašcùr, sacerdote commissario del tempio, che lo mise in
ceppi (cf Ger 20,1-4). Si stabilisce così un legame esplicito tra la nostra pericope ed il
suo contesto immediato: Pašcùr sembra essere uno degli amici di Geremia.
Certamente Pascùr, sacerdote potente, non è un amico di Geremia, ma ad un certo
punto fa parte della congrega di individui che finge amicizia con Geremia e poi si rivela
essere un gruppo di traditori. Certamente fa difficoltà pensare a parole di Geremia
contro i suoi amici, e accettare che egli chieda che siano distrutti (v.10). Questo ci dà
un'indicazione preziosa: la prova della fede diventa estremamente seria quando il
credente si trova ad essere solo ed esperimenta lo sfaldarsi del tessuto comunitario.
La defezione ed il tradimento di coloro che prima erano compagni nella fede è
motivo di dolore profondo che aumenta il dilemma in cui si dibatte il credente.
72
2.3.2. Il lamento (Ger 20,7-9) L'io del lamento individuale (vv. 7-9) sembra dunque una persona che rappresenta
però anche una comunità. Nei vv. 7-9 si sente il dramma interiore di persone che si
sono appassionatamente attaccate a JHWH nell'ascolto della sua Parola. Il testo è
oggetto di varie discussioni, ma propendiamo per la traduzione usuale che fa pensare a
una seduzione [√pth] e a una violenza [ḥāzaq] di cui il profeta è vittima: il suo grido
(violenza e oppressione) equivarrebbe a quello di una donna violentata.
L. Alonso Schökel così commenta: "È come se il Signore avesse chiesto relazioni
amorose al profeta, fino a sedurlo (senso tecnico di pth in Es 22,15: «quando qualcuno
seduca una ragazza nubile...»; metaforico in Os 2,16, in contesto matrimoniale).
Bisogna ricordare come il Signore abbia proibito al profeta di accasarsi e di prender
moglie, perché lo vuole tutto per sé. Geremia si è lasciato sedurre da tante belle
promesse e ora si trova abbandonato e fatto zimbello della gente, dei suoi rivali che gli
si accaniscono contro e vogliono sopraffarlo. Il grido di Geremia - «violenza» - è
annuncio profetico di sventure; allo stesso tempo risuona come il grido di aiuto
richiesto da Dt 22,24-27 (ṣ‘q). È lui a sentire la violenza di Dio (ḥzq: Dt 22,25) e a
gridare inutilmente! Quanto agli altri, invece di difenderlo si fanno beffe di lui e
pensano solo a consumare la vendetta.
Il verbo jkl [potere, riuscire a], ripetuto tre volte, puntualizza il processo (vv.
7.9.10): la prepotenza di Dio, l'impotenza propria, la prepotenza del nemico. Il senso
generico del verbo jkl = potere, prevalere su uno, permette una lettura contestuale in
linea con l'immagine della seduzione"23.
Il testo richiama tematicamente, tanto più nel caso che si intenda il verbo pth come
"ingannare" (cf 2Sam 3,25; Ez 14,9), l'accusa mossa a Dio in Ger 15,18 di essersi
rivelato un Dio inaffidabile, proprio come si rivela essere il seduttore.
Alcuni autori negano un'immagine sessuale, che sarebbe troppo grottesca se
applicata al profeta24. Invece ci sembra che essa dica bene il modo con cui a volte il
profeta ed anche il credente in genere avvertono la presenza quasi ingombrante di un
Dio che è sentito misterioso nel suo agire ed i cui piani vengono percepiti come duri da
capire ed accettare.
Si noti la grande libertà con cui però ci si esprime davanti a Dio in un lamento che è
dura accusa di violenza e di inganno. Vi è poi un elemento da rilevare che è
teologicamente importante: sia che il profeta-testimone parli o taccia, si trova a soffrire
per la Parola di Dio. Ma proprio in questo legame indissolubile tra sofferenza e Parola
sta scritta la possibilità di un senso. Infatti nello svolgimento della seconda parte del
libro di Geremia sarà sempre più chiaro che è la Parola di Dio e perciò Dio stesso a
patire con e nel profeta e la vittoria di questa Parola - attestata dagli oracoli di speranza
di Ger 30-33 e dal particolare della riscrittura del rotolo dopo la sua bruciatura da
parte di Ioiakìm (Ger 36,27-32) - sarà la vera speranza del profeta anche quando il suo
fallimento apparirà pieno, allorché dovrà ripercorrere a ritroso la storia della salvezza
per tornare come al suo punto zero.
23
L. ALONSO SCHOEKEL- J. L. SICRE DIAZ, I profeti, Borla, Roma 1984, 581.
R. P. CARROLL, Jeremiah, volume 1, Sheffield 2006, 398.
24
73
Nella vocazione, a Geremia era stato detto che la sua missione profetica sarebbe
stata uno «per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere» (Ger 1,10). Ora al v. 8 è
chiarito come tutta la sua predicazione sia un giudizio e una condanna dell'oppressione
e della violenza, ma come il suo annuncio resti inascoltato. La predicazione della
parola del Signore è diventata la ragione per cui il profeta è oggetto di scherno ogni
giorno da parte della gente. Egli si chiede dolorosamente perché il Signore l'abbia
chiamato ad un annuncio sterile. Non è forse un inganno, una trappola, una violenza?
La soluzione potrebbe essere di non parlare più in suo nome (v. 9) e rompere i
ponti con un Dio così. Tale compito può apparire un peso insopportabile, se il profeta
dimentica che ci sarà pure un misterioso edificare e piantare. Qui, però, Dio non
risponde nulla al profeta, né lo esorta a sperare, conformemente alla Parola ricevuta.
Questo fa sì che il dramma interiore del profeta si sviluppi con tutta la sua intensità ed
egli cerchi così più in profondità il volto di quella Persona di Dio di cui si è innamorato
la prima volta e capisca, in modo nuovo, che Egli non è un imbroglione, un seduttore,
ma Colui che si prende cura infallibilmente e fedelmente del suo profeta.
La tentazione della fuga, che si era già presentata alla vocazione (1,6), si riaffaccia
qui più grave e insidiosa: «non parlerò più nel suo nome». Eppure egli sente come una
pressione interiore che lo spinge a parlare: meglio ancora, avverte in sé una passione
amorosa, una sorta di vulcano che dice come in lui non si sia affatto spento
l'innamoramento iniziale nonostante tutte le delusioni: una passione appunto, che gli
pare come fuoco che brucia nelle sue ossa, cioè nella sua più profonda interiorità, ed è
incontenibile (Ct 8,6-7). Così, paradossalmente, proprio nel momento in cui si sente
abbandonato a se stesso e consegnato ad una missione sterile, il profeta avverte la
presenza in sé di quel Dio che sente lontano e seduttore.
Ancora una volta è lasciato trasparire, sia pure in modo implicito, che nella passione
del profeta è coinvolto Dio, ma non come Uno che ha con disinteresse consegnato il
suo profeta agli scherni della gente, ma come un Dio che si lascia egli stesso mettere
alla berlina e diviene oggetto di ludibrio.
Non è forse il Signore che non gli permette di tacere e così continua a consegnare la
propria Parola alla derisione e si costringe a subire lo scherno con lo stesso profeta?
Così intesi, i vv. 8-9 si riferiscono al profeta Geremia preso tra la sua vocazione divina
a parlare e lo scherno e il rifiuto del suo popolo, ma sono anche il paradosso di un Dio
che è fuoco e che avvampa d'amore ed insieme d'ira per un popolo che non lo ascolta.
Geremia non può rinunciare alla sua vocazione, ma non riesce neanche a sopportare
oltre il rifiuto. Non c'è via d’uscita, la situazione è drammatica: da qui deriva il grido di
accusa a Dio che seguirà nei vv. 14-18.
2.3.3. Giusti ed empi (Ger 20,10-13) I vv.10-13 ci presentano una folla che cospira contro il profeta e, in questa rilettura
postesilica, contro la comunità dei giusti, una folla che spia le sue cadute e cerca
l'opportunità di rivalsa. Tra questa folla ci sono anche i suoi amici: questo fatto del
tradimento rende il dolore parossistico e la prova della fede più grave.
La redazione postesilica non vuole lasciare il suo lettore in preda alle paure, ai
dubbi, alle ribellioni, ai momenti d’oscurità che minacciano di sopraffare il cuore del
credente; il testo allora passa subito - forse troppo presto - al momento edificante,
74
consolatorio: il profeta, come il vero credente, è sicuro di avere al proprio fianco il
Signore quasi un prode valoroso.
La presenza del Signore è garanzia che i suoi nemici non prevarranno e finiranno,
sconfitti, nell'ignominia. Lo sviluppo di quest’esortazione a confidare nel Signore diventa una preghiera in cui si esprime la fiducia piena nel Signore durante il conflitto,
che oppone il giusto agli empi. La conclusione è un invito alla lode perché la liberazione
è vista come già realizzata: il giusto è liberato dai malvagi (v.13).
Notiamo qui la presenza di elementi tipici della lamentazione salmica che
permettono un'interpretazione di questa confessione che non la leghi esclusivamente
alla vicenda del profeta. I riferimenti alla storia personale di Geremia sono ben
integrati entro lo schema e il linguaggio stereotipato delle lamentazioni.
2.3.4. Maledizione della vita e silenzio di Dio (Ger 20,14-18) A ragione l’esegeta J. Vermeylen scrive che qui l'imprecazione non è
un’automaledizione, ma piuttosto un grido di disperazione, un appello supremo a
JHWH. Alcuni altri esegeti notano l'espressione convenzionale di lamento di fronte ad
una sventura, con allusione alla fine della città (v.16) di Gerusalemme: notizie cattive
riguardanti non solo la propria vicenda personale, ma anche l'amata Gerusalemme
provocano sentimenti di depressione e di disperazione nel profeta. Così essi ritengono
che in questa imprecazione Geremia esprima un voler morire con la sua città, che è
destinata alla catastrofe.
Ma il grido ci sembra piuttosto una protesta, un appello estremo a Dio perché
intervenga e non tanto una volontà di morire. Il linguaggio convenzionale, come
appare anche dall'affinità con Gb 3, ci sembra dovuto al voler fare di questo testo una
preghiera valida anche per tempi diversi da quelli di Geremia25.
2.3.5. Come interpretare la quinta confessione? Il vero problema interpretativo è dunque l'assenza di una risposta divina che
sembrerebbe un segno che il dialogo con Dio è interrotto. Ma come interpretare la
maledizione della vita da parte di Geremia?
1. Una prima interpretazione possibile è di vedere in questa sofferenza una pedagogia divina. Se la delusione di Geremia è così profonda che in 20,7 Dio è stato
accusato di essere il seduttore, in realtà, anche questa delusione apparirà alla fine una
pedagogia divina verso il profeta, che intende ancora troppo umanamente l'assistenza
divina. Ma Geremia, dopo avere avuto momenti di sfiducia e di ribellione, esprime
pure una ritrovata e più profonda fiducia in Dio (20,11), anche se sempre combattuta.
I momenti in cui ha sperimentato la liberazione divina (20,13) serviranno a rinsaldare
questa fiducia e a prepararla a prove ancor più pesanti!
25
Il contatto tra Gb 3 e Ger 20,14-18 è evidente. In questa grandiosa supplica, Giobbe lancia un grido
allucinante, quasi provenisse da profondità recondite. Il dolore, infatti, è un abisso insondabile. Giobbe,
come pure Geremia, non maledice Dio, ma la vita, perché essa e Dio stesso sono divenuti
incomprensibili. La vita è tormento, durezza, affanno. L’inizio e la fine della vita, i due poli decisivi
dell’esistenza, sfuggono all’uomo e sono soltanto in potere di Dio. Sorgono gravi interrogativi su Dio: è
vero che ama la vita dell’uomo? Perché Dio agisce come Deus absconditus? Perché vivere, se si deve tanto
soffrire? Perché nascere e morire? Il lamento di Geremia e quello del giusto Giobbe non sono, però,
grida disperate e nichilistiche, o una mera protesta o radicale ribellione, ma rimangono un’angosciata e
sofferta, eppure imperiosa, domanda rivolta a Dio.
75
2. Una seconda linea interpretativa, che non esclude la precedente, cerca più in
profondità e vi vede riflessa l'esperienza del fallimento di Dio stesso. È il mistero di un
Dio che, per dare all'uomo la sua salvezza, non aggira il dolore e le sconfitte, ma li
supera assumendoli. Proponiamo dunque di vedere qui non il consumarsi del fallimento di Geremia, ma il paradossale insuccesso di Dio stesso. È quanto si trova
affermato anche nell'enigmatica risposta di Dio al lamento di Barùc (Ger 45,4-5), dove
il discepolo è invitato a guardare con fiducia il futuro senza aggrapparsi a sogni e a
grandi aspettative, poiché Dio stesso sta vedendo crollare i propri progetti sul popolo e
sul mondo.
Esclusivamente attraverso questa dilaniante esperienza del proprio naufragio, il
profeta può davvero giungere alla domanda radicale e a "sentire" il dolore di Dio
stesso: come mai è fallita la storia di Dio con Israele, come mai un popolo - che ricorda
nel suo passato le promesse ai padri e al re Davide, che celebra eventi meravigliosi
come l'esodo e l'occupazione della terra - si trova adesso così lontano, su una strada
che si incammina verso la rovina totale? Come mai il popolo dell'elezione, dimentico
della sua eredità spirituale, è immerso fino al collo, come le altre nazioni, nell'idolatria?
Perché Israele vive nell’ingiustizia, negli abusi e nella dimenticanza di Dio, in una
religiosità falsa e vissuta come alibi ed alienazione?
3. Ma ciò rende più che mai necessario collocare questo testo e gli altri delle
cosiddette "confessioni" nel contesto generale del libro di Geremia. A nostro avviso, è
necessario resistere alla tentazione di situare, come fanno alcuni commentatori, ogni
confessione in un momento particolare della vita del profeta, per cui la collocazione
ideale dell'ultima confessione sarebbe quando la città sta per cadere e Geremia è
profeta disprezzato ed in prigione o nel pozzo (Ger 37-38). Bisogna, invece,
apprezzare, sul piano interpretativo, il fatto che il redattore non abbia compiuto una
simile operazione, conseguendo alcuni vantaggi, tra i quali l’evitare un’eccessiva
psicologizzazione che avrebbe reso le confessioni semplici aneddoti dell'interiorità del
profeta.
Come abbiamo già visto, il guadagno maggiore è quello di mostrarci, nella seconda
parte del libro, un profeta che ormai non protesta più, non domanda, non fugge, ma
vive come consegnato alla volontà di Dio. Egli diviene la parabola vivente di una
parola di Dio che si consegna all'uomo e lascia che l'uomo ne faccia quello che vuole:
diventa il modello di ogni credente che, di fronte al tacere di Dio, sa attendere in
silenzio la salvezza che viene dal Signore e lascia a Lui i tempi e le modalità della
risposta. La preghiera, che sgorga dalla fede matura, è quella che lascia a Dio i tempi e
i luoghi. Dio è fedele, ma in una maniera impensabile e impensata per l'uomo. Come
sarà fedele Dio? È Dio che determina i tempi, gli spazi e gli stili del suo intervento,
mentre spesso l'uomo tenta di imporre a Dio tempi e momenti della sua fedeltà: si
pensi al popolo d'Israele nel cammino del deserto.
Solo così, nel non forzare il silenzio di Dio, ma nell'accettarlo come rivelazione di
una sua scandalosa debolezza ed insieme di una sua invisibile ma inarrestabile potenza
- si ricordi la voce di silenzio scavato in 1Re 19,12 -, Geremia entra soltanto ora in
un’adeguata relazione con Dio. La collocazione al cap. 20 ha, inoltre, il sicuro
vantaggio di portare poi il credente, che vive il silenzio di Dio, a correggere la propria
impressione, per la quale potrebbe pensare che questo sia l'esito definitivo del rivelarsi
di Dio e della risposta della libertà umana.
76
Quando lo sguardo del profeta si sofferma sullo spirito che sembra diffuso nel
popolo di JHWH e nell'umanità circostante, la risposta è pessimistica o, ancor meglio,
crudamente realista (Ger 20,10.14-18): l'uomo è chiuso in se stesso, senza possibilità di
trascendersi e di giungere autenticamente a Dio, come chiariscono anche i famosi testi
che mettono in risalto l'abisso nel quale il cuore umano sembra confinato: «Cambia, forse, un Etiope la pelle o un leopardo la sua picchiettatura?» (13,23). Abbiamo già parlato
del cuore dell'uomo, cuore incirconciso (9,24; 6,10-28) e afflitto da una malattia
oscura ed inguaribile (17,9).
Ma accettare il silenzio di Dio è capire che, se questo è impossibile all'uomo, non è,
però, impossibile a Dio. Geremia, partendo dalla propria esperienza, intrisa di
scoraggiamenti e di tentazioni, di dubbi e di desiderio di rinuncia alla propria
missione, deve riconoscere suo malgrado di avere sempre sentito la presenza bruciante
di JHWH. Comprende di conseguenza che l'uomo è infinitamente lontano da Dio, ma
può ancora sperare. L'intimo dell'uomo può diventare la sede della nuova creazione
(Ger 31,31ss.). Dio interviene non solo nella storia – questo, infatti, non è più
sufficiente - ma nell'intimo dell'uomo, rinnovandolo e trasformandolo. Così il Dio di
Geremia diventa il Dio della speranza, della nuova alleanza, dell'uomo nuovo, perché
c'è ancora la possibilità di guarire dalla malattia mortale. Per l'uomo si affaccia la
speranza esaltante di un rinnovato e più intimo dialogo con JHWH.
77
V OLTRE IL PECCATO, LA SPERANZA
In mezzo a tante pagine - interrotte soltanto da pochi passi in cui si affaccia l'attesa
di un avvenire diverso, preparato da Dio (Ger 3,1ss; 23,1-8; 24,1-10) - nelle quali il
centro della predicazione di Geremia è il giudizio sulla perversione da parte del popolo
di tutte le istituzioni salvifiche volute da JHWH, come segno dell'appartenenza
all'alleanza, e dopo il profilarsi sempre più cupo dell'adempimento della minaccia
annunciata dal profeta, il lettore trova una sorta di isola paradisiaca, una serie di
meravigliose pagine colme di speranza, che il redattore ha intenzionalmente collocato
prima del racconto della passione di Geremia, quasi ad illuminare anche le ore più buie
del profeta perseguitato e fallito.
Articoleremo il nostro discorso secondo i tre momenti in cui si snoda tale tema
all'interno dei cc. 29-32 di Geremia:
- la lettera agli esuli (Ger 29)
- la speranza nella novità dell’agire fedele di Dio (Ger 30-31)
- la compera del campo (Ger 32)
1. Interpretare la storia alla luce della fede: la lettera gli esuli (Ger 29) 1.1. Il contesto storico Sedecìa è stato nominato re da Nabucodònosor con giuramento di vassallaggio. Intanto i piccoli regni sottomessi non possono che stare ad aspettare momenti di
debolezza della superpotenza, per scuotere da sé il giogo opprimente dell'asservimento
ai babilonesi. Si ha così un'ambasceria di alcuni regni al re di Giuda, perché entri in
una coalizione antibabilonese (cf Ger 27). Al profeta non sfugge la presenza di
quest’ambasceria e la proposta gli pare chiaramente irresponsabile e scriteriata.
Il giudizio di Geremia non poggia, però, su una valutazione di prudenza politica,
bensì sull'autorità della parola di Dio. Il profeta si rivolge perciò al re, agli ambasciatori
e ai sacerdoti perché non alimentino facili illusioni e non attizzino il fuoco della
ribellione, che avrebbe come conseguenza la reazione violentissima di Babilonia.
Geremia raccomanda la sottomissione e l'accettazione del giogo del vassallaggio (cf
Ger 27-28) come unica via per la sopravvivenza poiché questa, nel piano di Dio, è l'ora
di Nabucodònosor e accettare il servizio al Signore, in questo momento preciso,
significa anche accettare il vassallaggio verso Babilonia. L'esortazione di Geremia non
si rivolge solo ai compatrioti, ma, attraverso una missiva, coinvolge anche i deportati
del 597 perché non si lascino sedurre da facili illusioni, bensì riconoscano il dominio di
Babilonia come rientrante nel piano di Dio.
In questo contesto storico si deve collocare l'invio della lettera agli esuli della prima
deportazione a Babilonia, affidata verosimilmente ad un membro di una delegazione
78
mandata a Babilonia, delegazione il cui scopo rimane per noi incerto. Non sappiamo,
infatti, se si tratti di un’ambasceria per confermare il rapporto di vassallaggio e quindi
consegnare i tributi o mossa da altri scopi: tuttavia essa permette di evidenziare come
tra il gruppo di coloro che erano rimasti in patria e i deportati vi sia un'intensa
comunicazione.
Ma qual è la situazione dei deportati? Forse, tutto sommato, risulta migliore di
quella di coloro che sono rimasti in patria. A differenza di quanto era avvenuto in tanti
altri casi, i giudei deportati non vengono affatto dispersi in regioni diverse dell'impero,
ma sono confinati in zone di Babilonia dove possono più facilmente essere controllati:
Tell Abib, Tell Harsa, Tell Melach il canale Kebar. Probabilmente vengono loro
assegnate terre incolte da recuperare all'agricoltura: il che è vantaggioso anche per il
governo centrale.
Ricordiamo che, a parte la proibizione di un ritorno in patria, essi godono in pratica
dei diritti di tutti gli altri cittadini dell'impero babilonese. In effetti, i deportati
fruiscono di larga autonomia nella gestione dei loro affari economici e
nell'organizzazione della vita comunitaria religiosa e familiare, che fa capo agli anziani
dei vari clan, cui Geremia rivolge la sua lettera. Un altro elemento da rilevare è che tra
i deportati della prima ora devono esserci anche dei falsi profeti, ossia persone che,
spesso in buona fede, presumono di avere ricevuto una qualche rivelazione divina per
il popolo. Tra costoro, come si può dedurre anche da Ezechiele, abbondano coloro che
attendono la fine prossima di Babilonia e favoriscono così facili speranze di riscatto del
popolo oppresso; inoltre, il miraggio di un ritorno imminente porta gli esuli a
disinteressarsi dei valori della vita quotidiana e a vivere in un distacco per ogni cosa
che non sia questo ritorno.
1.2. Il messaggio agli esuli A questi esuli Geremia invia una lettera aperta di cui ora mettiamo in risalto i punti
fondamentali.
1. Geremia ritiene che un atteggiamento di fede non sia affatto un ottimismo a tutti
i costi o uno sguardo trasognato e privo di realismo sulle circostanze dure
dell'esistenza. La speranza che Geremia predica non passa accanto al dolore, ma si fa
largo proprio nell'esperienza della sofferenza, in questo caso dell'afflizione dell'esilio.
2. «Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia...» (v. 4). Una fondamentale ragione di speranza sta proprio
nel fatto che l'esilio è avvenuto per disposizione di JHWH e, in senso allargato, essa
nasce dal sapere che nulla sfugge al suo volere e che quindi tutto può rientrare in un
suo piano di salvezza. Qui Geremia non esplicita la sua "teodicea del castigo", che ha
in comune con la scuola deuteronomista ed Ez 16 e 23. In ogni caso se l'esilio è stato
un castigo non è, però, il rifiuto definitivo del popolo da parte di Dio.
3. Per Geremia il vero resto del popolo può essere formato solo da coloro che, in
patria o in esilio, accettano il dominio babilonese e assentono così ai giudizi di Dio e ai
suoi piani misteriosi sulla storia, senza ribellioni e recriminazioni. Il resto è qualificato
dalla fede e non da una condizione socio-politica. Qui si vedrà la vera fede: quella che
non pone scadenze a Dio e sa confessare e riconoscere la sua fedeltà senza dubitare di
Lui e senza abbandonarlo per altre facili speranze.
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4. Geremia è convinto che la dominazione di Babilonia non sia ancora giunta alla
sua conclusione e che quindi bisogna accettare le scadenze che Dio ha posto al proprio
piano. Gli esuli non dovranno misurare le aspettative sul criterio della loro vita individuale, ma piuttosto sulla vita del popolo, che è fatta di generazioni, e dovranno
concepirsi come quella generazione del deserto che, per le sue colpe, non poté entrare
nella terra. Nondimeno, la speranza non è finita e anzi il messaggio di Geremia è
ottimista: l'esilio non sarà breve, ma non sarà neppure definitivo. «Sarà lunga la cosa»
ribadisce il profeta al v. 28.
5. Per questo tempo intermedio i deportati non dovranno rinunciare alla loro
identità nazionale e soprattutto dovranno sapere condurre una vita da credenti,
riconoscendo che, anche in questo tempo di prova, non sono venuti meno tutti i beni,
le cose che danno senso all'esistenza; così la vita, la famiglia e il lavoro dovranno
continuare e il popolo non dovrà lasciarsi andare in una nostalgia paralizzante e
neghittosa. In definitiva, è necessario accettare e sfruttare la propria condizione, perché
in essa si nasconde la volontà di Dio.
6. Sarà necessaria una fede che sappia riconoscere che la presenza di Dio non si
compie solo attraverso interventi spettacolari, ma anche attraverso i semplici beni
dell'esistenza quotidiana. La fede non dovrà essere un rimpianto del passato, ma dovrà
tradursi anche nell'atto di fiducia verso il futuro che è la nascita di un figlio. Occorre
una speranza che possegga un lungo respiro e si vesta di pazienza. In ogni caso la fede
è il contrario di fatalismo e di passività, anche se sa riconoscere che nessuna situazione
politica è un assoluto. Grazie a tale atteggiamento sapienziale, che sa riconoscere i
valori positivi dell'esistenza, Israele continuerà ad essere un popolo e, anche se
apparentemente sarà soggetto a Babilonia, resterà il popolo vassallo del Signore (v. 4).
La salvezza futura s’intravedrà attraverso le attività normali della vita di ogni giorno
come il coltivare, costruire, mangiare i frutti del proprio lavoro.
7. In quest’esortazione a non lasciarsi distruggere dalla nostalgia del passato o
dall'odio verso i nemici, ma ad assumere un atteggiamento più positivo rientra anche
l'invito a pregare per la pace del paese che li ha deportati: «Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare, e pregate per esso il Signore, perché dal benessere suo dipende il vostro» (v. 7). Per gli esuli, l'esortazione di Geremia è anche un invito a capire che i
grandi mutamenti della storia non sono quelli prospettati da ideologie utopiche e
rivoluzionarie, bensì quelli che si realizzano con la pacifica operosità e la preghiera
fiduciosa.
8. Si potrebbe persino scoprire qui l’indizio di un principio di riflessione sulla
missione di Israele nel mondo e sul suo compito sacerdotale di recare la benedizione di
JHWH alle genti (cf Is 42,6; 49,6). Così il testo assurgerebbe, a livello di una
formulazione di principio, ad ipotizzare la vocazione di Israele quale intercessore in
favore delle nazioni e certamente segnala l'inizio timido di un cambio di mentalità nella
visione del rapporto tra Israele e i gôjim [genti, nazioni].
9. All'opposto i falsi profeti non possono che annunciare soluzioni a breve termine
per assecondare i desideri degli ascoltatori, ma illusorie e nefaste perché incitano alla
ribellione contro Babilonia, che porterà come conseguenza ad un inasprimento feroce
della dominazione straniera sul popolo. I falsi profeti annunciano solo cambiamenti
esteriori della situazione, senza analizzare le motivazioni delle attese, mentre la profezia
di Geremia annuncia un mutamento soltanto a lungo termine, che passa attraverso
80
una trasformazione interna degli atteggiamenti e una disamina coraggiosa delle
motivazioni.
Si badi che il testo ebraico e greco del v. 8 parla non di «sogni che essi sognano» (cf
Bibbia CEI 2008), ma di «vostri sogni che voi sognate»26: quasi a dire che le profezie dei
falsi profeti cercano un assenso negli uditori e che i desideri di costoro cercano una
conferma in questi vaticini; vi è dunque un rafforzarsi reciproco nell'autoinganno, in
questo circolo vizioso in cui ognuno cerca ciò che gli piace e non la Parola del Signore.
La polemica contro i falsi profeti si precisa poi contro due persone concrete: Acàb,
figlio di Kolaià [più precisamente nel TM qôlājāh, che significa "voce di JHWH"), e
Sedecìa, figlio di Maasià. La sentenza contro di loro è inappellabile!
10. La parola di speranza è tanto più significativa in quanto il profeta, che dalla
Parola di Dio è stato costretto al celibato quale figura della maledizione e sventura che
si abbatterà sul popolo, chiede ora agli esuli di prolificare in segno di speranza e di
fiducia nella continuità della vita, che supera le varie catastrofi. Così gli esuli, invece di
covare sterili sentimenti di vendetta e sogni di rivalsa, dovranno cercare di darsi una
vita dignitosa ed umana e giungere paradossalmente a farsi intercessori del benessere
del paese dove sono deportati.
11. Il centro teologico e letterario del brano sta nei vv. 10-14 con l'affermazione
dell'esistenza di un piano storico di JHWH, che si svolge secondo tappe previste e nel
quale la liberazione da Babilonia si svolgerà come una sorta di nuovo esodo. "La
somiglianza viene stabilita dalla struttura comune e dall'uso di parole eguali o
equivalenti. La struttura è uscire-entrare, o uscire per entrare. Nel primo momento il
posto dell'«uscire» lo occupano il «riunire» e «mutare la sorte». Nel secondo momento
l'«introdurre» e il «portare» si trasformano logicamente in «restituire, tornare a
portare»... L'azione sarà iniziativa di Dio, articolata in due elementi: «mi occuperò»,
pāqad, è il verbo con cui iniziò l'esodo (Es 3,16; 4,31; di segno contrario Ger 5,9.29;
9,8); i «disegni» che egli stesso controlla e realizza(ḥāšab, con segno contrario in Ger
18,11; 26,3)"27.
La speranza dell'uomo non può prescindere dall'esperienza di una vita buona,
condotta secondo sapienza, e non si riduce ad un atteggiamento sapienziale nelle
occasioni difficili, come potrebbero far pensare i vv. 4-7, ma si radica nella fede nella
promessa divina (le buone parole di Dio). E qui il testo offre la solenne promessa di
una restaurazione etnica, sociale e religiosa nella terra dei padri, tema che poi i cc. 3031 riprenderanno con accenti nuovi.
Bisogna però avere sugli avvenimenti uno sguardo che sia quello di Dio. L'analisi di
Geremia infatti non è solo una lucida disamina dei fatti politici o una semplice
rassegnazione fatalistica agli eventi che non si possono contrastare: lo spirito profetico
permette a Geremia di vedere il bene là dove gli altri vedono solo male. Senza questo
spirito profetico, cioè senza questa apertura a vedere ciò che accade nella luce di Dio,
tutto rimarrebbe buio; invece Geremia capisce che il luogo della morte si può
trasformare, per la potenza e fedeltà di Dio, in occasione di vita: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo - oracolo del Signore -, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (v. 11).
26
TM: we’al-tišme‘û ’el-ḥălōmōtêkem ’ăšer ’attem maḥlemîm (Ger 29,8); LXX: μὴ ἀκούετε εἰς τὰ ἐνύπνια
ὑμῶν ἃ ὑμεῖς ἐνυπνιάζεσθε (Ger 36,8); letteralmente: "e non ascoltate i vostri sogni che voi sognate".
27
L. ALONSO SCHOEKEL - J. L. SICRE DIAZ, I profeti, Borla, Roma 1984, 627.
81
La speranza si fonda quindi sulla conoscenza di Dio, cioè nell'aderire docilmente al
suo punto di vista sulla realtà dell'uomo. Questa conoscenza di Dio accolta dal popolo
è il principio della vera giustizia. Infatti, il popolo dimenticherà ogni falsa ricerca di
Dio, ogni ingannevole autogiustificazione e imparerà a mettere la sua speranza
esclusivamente in Dio e a cercare Lui solo.
La promessa, qui fatta agli esuli, che di fronte ad una ricerca sincera del Signore,
Egli si lascia trovare da loro, fa effettivamente presentire la promessa della nuova
alleanza di Ger 31,31-34. Il cambiamento di sorte si traduce in una situazione
rovesciata rispetto a quella di Ger 2,2-13 e Ger 10,21: «I pastori sono divenuti insensati, non hanno più ricercato il Signore; per questo non hanno avuto successo, anzi è disperso tutto il loro gregge». Se la mancata ricerca del Signore era un cammino inverso a quello
dell'esodo e quindi un cammino che conduceva alla schiavitù, ad una esistenza vana
che inseguiva il nulla, ora cercare il Signore descrive l'atteggiamento di totale apertura
a JHWH e l'incondizionata fedeltà a Lui.
12. La lettera di Geremia ha uno strascico polemico poiché Semaià scrive, a sua
volta, lettere dall'esilio agli ebrei restati in patria e al sacerdote Sofonìa, perché arresti
Geremia quale falso profeta, disfattista e traditore. L'interrogatorio, a cui il profeta è
indirettamente sottoposto allorché gli viene letta la lettera, dà l'occasione per un altro
intervento divino contro il falso profeta Semaià e per una sua condanna. I falsi profeti
di questo periodo, come Semaià e gli altri, basandosi sull'assioma dell'inespugnabilità
di Sion e sull'irreversibilità delle promesse, non sanno, infatti, capire che l'esilio è
un'occasione per scoprire la propria responsabilità e il proprio peccato e soprattutto
per imparare una nuova e più vera fedeltà al Signore che non ha affatto respinto il suo
popolo, ma lo ha soltanto corretto. La salvezza in extremis che essi predicano è un non
capire la novità dell'agire di Dio, che può edificare anche là dove la distruzione è
totale.
13. Infine è necessario un collegamento del nostro brano con la visione dei due
canestri di fichi in Ger 24,1ss. Certamente questo testo ha subìto reiterate riletture che
vi hanno, per così dire, lasciato le loro cicatrici: è però possibile individuare un nucleo
originario in Ger 24,1a. 2-4, che si avvicina alla valutazione teologica che Geremia dà
della condizione degli esuli. I "fichi buoni" sono proprio quegli esuli che, nell’errata
concezione di coloro che erano rimasti nella terra (cf Ez 11,15), erano stati privati della
presenza del Signore, poiché erano stati allontanati dalla terra stessa. Geremia non può
certamente accettare questa lettura che fa della terra una sorta di garanzia della
presenza di JHWH, al pari del Tempio o delle altre istituzioni il cui fallimento il profeta
ha già denunciato. Geremia smantella allora la falsa sicurezza di coloro che sono rimasti nel paese e i loro criteri teologici: così giunge ad affermare che Dio non ha affatto
abbandonato gli esuli. D'altra parte Geremia non giungerà neppure a privilegiare la
condizione dei deportati a detrimento della situazione teologica dei poveri che vengono
lasciati nel paese dopo la caduta di Gerusalemme.Ciò che è decisivo non è il trovarsi o
non trovarsi nella terra, ma la fedeltà a Dio, la circoncisione del cuore.
82
2. In memoria di Rachele (Ger 30-31) 2.1. La struttura dei capitoli 30-33 I cc. 30-31 vengono chiamati libretto della consolazione con un termine preso a
prestito dal titolo dato alla seconda parte del libro di Isaia (40-55). Certamente questi
capitoli formano un'unità autonoma, una serie di vaticini di salvezza. La parola
profetica che Geremia ha ricevuto non deve solo sradicare e demolire, ma anche
edificare e piantare, deve cioè annunziare anche un nuovo futuro reso possibile
dall'azione di Dio.
Come succede spesso, la datazione di una serie di oracoli è difficile: per molti
esegeti essa sarebbe da collocare nel primo periodo della riforma giosiana poiché
l'oggetto di questi oracoli di salvezza è per lo più il Nord. Per altri esegeti abbiamo
invece una collazione di oracoli di tempi diversi.
La questione resta di difficile soluzione. In ogni caso la redazione finale presenta
uno stile simile al Deuteroisaia e ciò potrebbe essere un indizio per collegare il
redattore al teologicamente vivace periodo esilico o all'immediato postesilio.
Intraprenderemo pertanto una lettura sincronica che si interessi al testo nella sua
forma attuale. Seguiamo la struttura proposta da B. A. Bozak28:
1. Introduzione in prosa con parole di restaurazione
(30,1-4)
2. Poema I: contrasto
Sospiro e rumore d'angoscia
La presenza salvatrice di JHWH (30,5-11)
(30,5-7)
(30,8-11)
3. Poema II: guarigione della piaga incurabile
La piaga incurabile
(30,12-15)
Promessa di guarigione
(30,16-17)
(30,12-17)
4. Poema III: la presenza di JHWH che cura e corregge (30,18-31,1)
La presenza di JHWH che cura
(30,18-22)
e corregge
(30,23-31,1)
5. Poema IV: una volta ... ancora
Una volta
(31,2-3)
Anche ora
(31,4-6)
(31,2-6)
6. Poema V: la grande assemblea di JHWH Il ritorno da lontano
(31,7-9)
Ripieni fino alla sazietà
(31,10-14)
(31,7-14)
7. Poema VI: la speranza rinnovata
L'inconsolabile Rachele
(31,15-17)
28
(31,15-22)
B. A. BOZAK, Life “anew”. A Literary-Theological Study of Jer. 30-31, Analecta Biblica 122, PIB, Roma
1991.
83
Èfraim consolato
Una nuova creazione
(31,18-20)
(31,21-22)
8. Conclusione in prosa: una totale novità
a. Tutte le cose rinnovate
(31,23-34)
- Rinnovata benedizione
(31,23-26)
- Un nuovo proverbio
(31,27-30)
- Una nuova Alleanza
(31,31-34)
(31,23-40)
b. Garanzia sul futuro
- Esistenza assicurata
- Cambiamento di vita
(31,35-40)
(31,35-37)
(31,38-40)
La tempesta del giudizio, la solitudine e la disperazione del peccato sono qui cose
del passato: ora domina una nuova vita che fiorisce dopo la purificazione. In tal senso,
in una prospettiva canonica, questi capitoli sono al centro del libro di Geremia: essi
sono come una sorta di risposta alle inquietanti domande che evidenziavano
l'impossibilità della conversione e perciò del cambiamento di sorte. Inoltre,
precedendo il racconto della "passione di Geremia", aprono uno spiraglio di luce e
speranza sui giorni tenebrosi e tragici del testimone. Dal punto di vista dei contenuti e
del tono, pur essendo fatti di elementi eterogenei, sono percorsi dal triplice filo rosso:
- Il tema del cambiamento di sorte che percorre tutti i poemi del libretto ed è ben
presente anche nelle parti in prosa;
- l'apertura sul futuro, garantito dalla gratuità della salvezza. Questo tema si accosta
alla sottolineatura della continuità e discontinuità tra il passato e il futuro;
- il motivo della gioia traboccante.
La profezia di speranza del libretto della consolazione si collega alla lettera agli esuli,
che funziona da prolessi (Ger 29); infatti, già in Ger 29,12-14, dopo molte pagine di
lacrime, il profeta di Anatòt annunciava un cambiamento di sorte, iniziava un
messaggio di speranza che ora finalmente trova sviluppo.
Il libretto della consolazione è seguito opportunamente dal racconto dell'acquisto
simbolico del campo (Ger 32), che ne è come un prolungamento e una
concretizzazione parziale: la continuazione dell'annunzio di salvezza prosegue anche in
Ger 33.
2.2. Analisi di Ger 30-31 e la tematica della nuova alleanza 2.2.1. Introduzione in prosa (30,1-4) Perché scrivere gli oracoli e non semplicemente proclamarli? Perché essi devono
restare per il futuro: per questo si devono scrivere e conservare. La parola scritta può
così accompagnare la vita del popolo anche oltre la morte del profeta. Inoltre bisogna
ricordare che, poiché il popolo a cui il profeta si rivolge non comprende il giudizio e la
minaccia di Dio sulla sua vita, esso è ancora meno pronto ad accogliere la verità della
speranza e della novità che Dio sta per annunciargli. Ecco che allora il messaggio del
84
profeta deve essere messo per iscritto in vista del tempo in cui il popolo si sarà aperto
alla comprensione del giudizio e perciò anche del vero centro della predicazione
profetica, che non è il giudizio ma la salvezza.
Primi destinatari di questi oracoli di salvezza sono Giuda ed Israele, perché la
fraternità ritrovata tra i due gruppi è un momento stesso della profezia di speranza. Per
Geremia "ritorno" e "riunione" del popolo sono due aspetti della comunità nuova che
il Signore vuole edificare. Grazie al "mutamento di sorte" o trasformazione della realtà
che Dio realizzerà, sarà possibile riconoscere l'autenticità di questi oracoli. Questa
introduzione al libretto della consolazione dà gli elementi essenziali di tutta la
composizione.
2.2.2. Poema I: contrasto (30,5-11) - Sospiro e rumore d'angoscia
- La presenza salvatrice di JHWH
(30,5-7)
(30,8-11)
Inizia la descrizione di un giorno tragico, con grida e gesti disperati. I dolori del
parto, nell'Oriente Antico, sono l'emblema della sofferenza suprema, parossistica.
Eppure anche questa sofferenza è feconda perché genera una creatura nuova.
Ora c'è in Israele, sembra dire Geremia, un dolore lancinante che colpisce i maschi
e ne stravolge i lineamenti. Ma questo dolore è infecondo perché i maschi non possono
partorire. Si pensi a un testo analogo di Is 26,18: «Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento». Il profeta non può che concludere:
«Grande è quel giorno, non c'è n'è uno simile! Esso sarà un tempo di angoscia per Giacobbe, ma ne uscirà salvo» (v. 7).
Così il dolore sterile dei "maschi" diventa fecondo: certamente non è una fecondità
che la sofferenza abbia in se stessa, ma solo perché è visitata dalla potenza di Dio che
può dare la vita là dove regna la morte. La trasformazione della realtà per opera di
JHWH è particolarmente evidente nel passaggio dalla prima stanza di questo poema
(vv. 5-7) alla seconda stanza (vv. 8-11), dove si sviluppa l'annuncio dell'intervento
salvifico di JHWH.
La salvezza si realizza in ogni caso dopo il giudizio e l'effetto di questo giudizio sarà
proprio quello di preparare i cuori alla salvezza. Esso diventa quindi già
misteriosamente fecondo. Solo quando il popolo capisce che le vie che ha percorso
sono inutili e disperate e che non vi sono altre alternative, allora è pronto a capire che
la salvezza viene solo dal Signore.
L'angustia del "grande giorno" derivava dal non poter rompere un giogo gigantesco,
dalla percezione dell'impossibilità di trovare una via d'uscita. La salvezza consisterà nel
passare dalla schiavitù alla libertà, per opera del Signore. Gli Israeliti non saranno più
soggetti agli stranieri ma solo al servizio del loro Dio (cf il tema dell'esodo), ubbidendo
al nuovo re Davide suscitato dall'alto. È uno dei pochi testi messianici di Geremia! La
ragione di questa reticenza non sta solo nelle delusioni che Geremia aveva provato nei
confronti della monarchia davidica corrotta, imbelle e priva di lucidità, ma nel fatto
che il profeta non sogna tanto un nuovo stato quanto una comunità radunata dal
Signore. Anche questo richiamo a Davide è più il sogno di un tempo di tranquillità che
l'attesa di una restaurazione monarchica, a cui il profeta era piuttosto indifferente,
85
poiché nessun regno e nessun re per Geremia può essere il salvatore, ma solo il
Signore. È il libro della consolazione di Geremia.
Come nell'esodo dall'Egitto, Dio appare anche qui quale il liberatore e il salvatore
che infrange il giogo di Babilonia, in favore degli oppressi. I vv.30,10-11 mancano nella
LXX e ricorrono anche in Ger 46,27-28 che nella LXX troviamo in Ger 26,27-28. Per
i due fratelli, Giuda e Giacobbe, ormai umiliati e pacificati, il ritorno dall'esilio mostra
una speranza superiore a tutte le disperazioni. Con Dio, ritornato vicino al suo popolo,
si sciolgono le paure e le incertezze. Lo spavento universale, che terrorizzava anche i
più coraggiosi, sarà superato con il Dio vicino.
2.2.3. Poema II: guarigione della piaga incurabile (30,12-17) - La piaga incurabile
- La promessa di guarigione
(30,12-15)
(30,16-17)
Ora l'annunzio di liberazione è dato, più che in un quadro di catastrofe generale, su
uno sfondo di miseria e di castigo. Il soggetto è la città eletta, Sion-Gerusalemme. È
possibile che il passo risalga a dopo il 586 a.C.: Gerusalemme è stata ferita
gravemente.
La sua piaga è incurabile e dolorosa. Si badi che per il profeta la piaga non è tanto la
conseguenza delle catastrofi storiche o meteorologiche da cui il popolo è travolto, ma
di qualcosa di più profondo e cioè l'infedeltà al patto con JHWH, infedeltà che
inevitabilmente trascina con sé il castigo. Spesso il profeta aveva sentito la gravità di
questa piaga interiore delle tribù di Israele-Giuda, divenuta ormai cancrena (6,7.14;
10,19; 15,18; 19,8). Nessuno osava mettervi mano, ogni rimedio era inutile. Solo il
vero medico dei cuori riesce a spalmare il farmaco perfetto che cicatrizza le piaghe,
guarisce ogni ferita purulenta e fa nuovamente sorridere e risplendere il volto
dell'infermo. Bisogna solo farsi curare da Lui, ascoltando le sue parole e rivolgendosi a
Lui con tutto il cuore e con tutta l'anima. È la fiducia che ogni medico chiede e che
Dio, il medico dell'uomo, chiede al popolo/sposa!
Il popolo è come una donna ormai malata e repellente per le sue piaghe, che viene
dimenticata dai suoi "amanti", cioè dai suoi idoli, ma non dal suo legittimo sposo, Dio,
che la cerca per curarla ed amarla nuovamente. La cura supererà radicalmente la
trasgressione del patto che era all'origine della ferita incurabile. Nuovamente troviamo
il tema della trasformazione della realtà per l'intervento salvifico di JHWH: dall'angoscia
alla gioia, dalla morte alla vita.
2.2.4. Poema III: la presenza di JHWH che cura e corregge (30,18-31,1) La presenza di JHWH che cura (30,18-22) e corregge (3,23-31,1) è il tema
fondamentale di questo poema. La promessa di salvezza, presente nel v.17 del
precedente poema, trova ampio sviluppo qui dove si descrive dettagliatamente l’agire
salvifico di JHWH.
Così ai vv. 18-22 viene completato il quadro del ritorno in patria dei vv. 5-11. Dio
ripristinerà la tenda di Giacobbe, cioè la comunità d'Israele, ricondotta nella terra: ciò
significa che Egli realizzerà nello stesso tempo la sua ricostituzione civile, espressa con
l'immagine di un popolo numeroso, e la sua restaurazione religiosa, come assemblea
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radunata davanti a Lui, con il governo supremo nelle mani di un principe della
discendenza di Giacobbe caratterizzato anche dal compito sacerdotale, cioè con il
privilegio di potersi avvicinare a Dio. Ecco allora le tende dei nomadi ricostruite e le
piazze della città inondate da canzoni gioiose. Bisogna saper riscoprire la gioia del
canto e il sapore della gioia: si tratta una scoperta difficile, perché ci sono le
contraffazioni della felicità, ma quella che viene da Dio sarà una festa vera. Al v. 21 il
"principe" non viene chiamato "re", per una polemica evidente contro la monarchia
contemporanea di Geremia, ormai corrotta, una polemica condotta anche contro le
varie dinastie del Nord che si arrogavano con la forza un potere che spettava solo a
Dio. Il v. 22, che forse deriva da 31,1, è la formula di alleanza che ricorre più volte in
Geremia (7,23; 11,4; 13,11; 24,7; 32,38).
Gli ultimi versetti (30,23-24; 31,1) richiamano il Salmo dei "sette tuoni" (Sal 29): si
scatena la tempesta del Signore, simile ad un tifone che spazza anche i più solidi rifugi
dei malvagi. Il vento della sua collera brucia tutte le ingiustizie e scioglie il gelo del
male. A questo Dio si prostra ormai adorante tutto ciò che è nei cieli e sulla terra.
2.2.5. Poema IV: una volta ... ancora (31,2-6) Il c. 31 è uno dei testi più importanti di Geremia e costituisce indubbiamente una
delle vette spirituali dell'AT: la composizione attuale è abbastanza organica,
nonostante la sua complessa storia redazionale.
I vv. 2-6 sono sotto il segno del ricordo di una volta e l'annunzio lieto dell'ancora. Il
tema della trasformazione della realtà appare solo velatamente in due elementi: il
cambiamento nei versetti d'apertura e la ripetizione di ‘ôd [ancora]. Si inizia
ricordando l'esodo - l'espressione del v. 2 māṣā’ ḥēn [trovò grazia] ricorre cinque volte
in Es 33,12-17 - e il passato babilonese, come il periodo in cui si è scampati alla spada,
per passare alla positività, che è sottolineata dal triplice ‘ôd [ancora] nei vv. 4-5. Così,
dopo l'annuncio dell'intervento di Dio, si sottolinea anche la continuità con il passato
d'Israele come luogo delle esperienze dell'amore di Dio.
Il deserto, luogo della solitudine e dell'essenzialità, diventa di nuovo un crocevia
dell'incontro con Dio. Israele, scampato alle persecuzioni, marcia verso la sua terra.
Egli vede da lontano profilarsi il volto di Dio. Appena sono di fronte, i due partners
dell'alleanza si guardano negli occhi e il Signore pronuncia la sua dichiarazione di
amore: «ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele». Tutte le
rimostranze di Israele che si sentiva abbandonato dal suo Dio, le accuse, forse nutrite
segretamente nel suo cuore, contro Dio e il suo operato, finiscono di fronte ad una
certezza che ora si fa chiara: anche nei momenti più bui Dio non ha dimenticato né
abbandonato il suo popolo e ha continuato ad amarlo. È su tale amore misericordioso
che il popolo potrà contare per un nuovo futuro.
Grazia, amore, misericordia formano una triade, ma la base è l'amore! È il suo
amore che attrae l'uomo, pur rimanendo sempre anche il Dio lontano (cf 23,9). I
pellegrinaggi verso Gerusalemme, che ricominciano, fanno capire che anche le tribù
del Nord si riferiscono nuovamente, dopo lo scisma, a Gerusalemme come all'unico
centro legittimo del culto jahwistico (1Re 12,16.26-30).
87
2.2.6. Poema V: la grande assemblea di JHWH (31,7-14) I temi che si corrispondono sono il ritorno degli esuli da lontano (31,7-9) e
l'annunzio di una pienezza fino alla sazietà (31,10-14).
Il popolo sarà di nuovo restaurato, sarà piantato sui monti di Samarìa e riprenderà
la serena vita con i pellegrinaggi alla casa del Signore in Sion, proclamati da
messaggeri (cf Sal 122,1-2). Idealmente dovrebbe essere il pellegrinaggio della festa
delle Tende [Sûkkôt], quando il popolo rinnova ritualmente l'esperienza del deserto.
E così, nell'immaginario del profeta, le piazze formicolano di gente, di giovani in
festa ed egli contempla le vigne sulle colline, percorse dai vendemmianti che cantano.
Il Signore è il Dio della gioia, che osserva con gioia l'uomo che gioca. L'abbondanza
del vino e degli altri cibi segnala i nuovi tempi traboccanti di gioia. La lunga catena
montuosa di Samarìa riecheggia di un richiamo di sentinelle in postazione: è un
appello a ricomporre l'unità del popolo di Dio, disperso per il mondo, nella città santa
di Gerusalemme.
In questo popolo di salvati non emergono i re, ma i sofferenti, i deboli e gli umili - i
ciechi, gli storpi, le donne incinte e quelle partorienti - poiché sono loro la nuova
comunità a cui Dio rivolge l'occhio affettuoso (cf Is 35,5-6). Allora finalmente si
capisce che un dolore fecondo come quello di una madre - non il dolore dei maschi
che devono assurdamente partorire! - e la miseria diventano un terreno su cui Dio
compie le sue meraviglie.
Al v. 9 si compie il grande sogno di Dio. Se in Ger 3,4 Dio aveva atteso che Israele
gli dicesse una volta sinceramente ’ābî [padre mio], mentre tutte le invocazioni
rimanevano ipocrite, ora, dopo la sofferta purificazione, Israele è finalmente un figlio
educato dall'amore paterno di Dio. Come un bambino, Israele non inciampa più
perché è sorretto da Dio e la via è stata spianata dal Signore: le lacrime antiche sono
sostituite dai fiumi della gioia, che scaturiscono dal perdono divino (cf Sal 126).
Nei vv. 31,10-14 vi è il messaggio divino della pienezza di vita e di gioia esuberante
(cf anche il simbolo del cibo abbondante), rivolto a tutte le genti con un motivo
teologico anch'esso ben sviluppato: Dio è un pastore, che raduna il gregge e lo redime
[pādāh; gā’al ] dagli oppressori. I figli d'Israele hanno accolto la rivelazione dell'amore
liberatore di Dio: lo scenario di questa liberazione è cosmico. Tutte le regioni della
terra contemplano il grande e amoroso pastore divino e il popolo che gode di ogni
prosperità spirituale e materiale.
Se nella celebrazione sacrificale il "grasso" era riservato ai sacerdoti, ebbene i
sacerdoti sono i primi a godere di questa nuova benedizione del Signore: «Nutrirò i sacerdoti di carni prelibate [letteralmente, grasso]» e «il mio popolo sarà saziato dei miei beni». Così nell'immagine dei sacerdoti sazi di "grasso" e del popolo saziato dei beni di
JHWH è suggerito il superamento della tensione nei confronti del culto, poiché il culto
della comunità del ritorno è sincero e non fatto solo con le labbra.
2.2.7. Poema VI: la speranza rinnovata (31,15-22) Il brano ha tre centri d’interesse: l'inconsolabile Rachele (31,15-17); Èfraim
consolato (31,18-20); l'annunzio di una nuova creazione (31,21-22).
I vv. 15-17 fanno riecheggiare con sublime lirismo il pianto di Rachele e la voce del
sincero pentimento dei figli d'Israele. Rachele è colei che morì a causa del parto di
Beniamino (Gen 35,16-20) e la cui maternità è simbolo imperituro di una vita che si fa
88
dono fino alla morte: ma se i figli di Rachele muoiono anch'essi, la sua morte è inutile
e la disperazione è la più totale. Così la donna si alza ora dalla tomba per levare il suo
pianto inconsolabile: è figura di quel dolore per il quale non ci può essere nessuna
umana consolazione e spiegazione. Ella torna vicino a Betlemme, dove Beniamino era
nato e lei era morta, ma il luogo dove si ferma è Ramà, là dove erano stati aperti i
campi di concentramento per coloro che dovevano essere deportati (Ger 40,1): Ramà
era in qualche modo il luogo simbolico di una concentrazione del dolore. Ma il profeta
può ora dare la consolante notizia che il Signore asciugherà queste lacrime: «Trattieni il tuo pianto, i tuoi occhi dalle lacrime, perché c’è un compenso alle tue fatiche…» (v. 16).
Il Signore si china su Rachele, vera "mater dolorosa", e la consola: il singhiozzo del
pianto convulso, che è umanamente inarrestabile, si calma, perché ciò che Dio sta per
operare è davvero una consolazione impossibile all'uomo. Il testo intende annunciare il
ritorno degli esuli e non esplicita ancora una speranza nel senso di una vittoria divina
sulla morte fisica, ma è indubbio che almeno il linguaggio comincia ad evolversi nella
direzione di una simile attesa.
Al pianto di Rachele, che viene consolata, succedono le voci di rammarico degli
efraimiti, che riconoscono le loro colpe e vengono anch'essi consolati (31,18-20).
All'unico verbo, che descrive il peccato di una giovinezza infame, succedono ben
cinque verbi di pentimento e di conversione: la nuova scelta cancella tutto il nefasto
passato, ma deve essere profonda, intensa, radicale. Se in 3,10ss Dio doveva constatare
con dolore che il popolo era come una donna infedele, che non desiderava affatto
tornare dal primo marito, ora la situazione è profondamente mutata, poiché il ribelle
Èfraim chiede a Dio la grazia della conversione: «fammi tornare ed io ritornerò, perché tu sei il Signore, mio Dio».
Ecco dunque le voci di cordoglio e di rammarico fra gli efraimiti: hanno provato
confusione e pentimento, riconoscendo i propri peccati e la giusta punizione del
Signore, ed ora è da Lui che aspettano la grazia del rimpatrio. Ad essi risponde
direttamente il Signore: Èfraim è certamente il figlio prediletto del Signore, il più
prezioso ai suoi occhi, perché anche quando lo rimprovera si commuove e gli userà
misericordia. È questo un intenso soliloquio di Dio con se stesso, dove l'amore paterno
di Dio si fonde con il suo amore materno (v. 20):
Non è un figlio carissimo per me Èfraim,
il mio bambino prediletto?
Ogni volta che lo minaccio,
me ne ricordo sempre con affetto.
Per questo il mio cuore29 si commuove per lui
e sento per lui profonda tenerezza30.
29
Nel testo ebraico vi è il termine mē‘aj, che, letteralmente, significa"le mie viscere": nella mentalità
semitica esse sono la sede dei sentimenti più profondi, "viscerali".
30
In ebraico troviamo l'espressione raḥēm ’ăraḥămēnnû con due tempi verbali al piel del verbo rāḥam derivante dalla stessa radice del sostantivo reḥem che indica l'utero. Certamente il verbo ha quindi una
connotazione femminile. Questa modalità espressiva frequente in ebraico - la troviamo anche
immediatamente prima con zākōr ’ezkerennû, tradotta «me ne ricordo con intenso affetto» - rafforza il
significato, già di per sé intensivo, della forma piel. Per rendere questo significato nelle nostre lingue
europee bisogna ricorrere ad espressioni perifrastiche. Così la Bibbia CEI 2008 traduce: «il mio cuore si 89
L'ultima stanza (vv. 21-22) ha una chiara connessione con la prima, quella che
riguarda Rachele, sia per l'impiego dell'immagine femminile, sia per il termine
tamrûrîm (cf Ger 31,15)31.
JHWH invita la "vergine d’Israele" a porre dei segnali lungo la strada, "le chiede di
innalzare delle steli o elevare cippi che diano testimonianza dell'evento e diventino
fattore di memoria per le generazioni future. Sono i segni del ritorno stesso, miracoloso,
per il quale c'è rischio che non rimanga traccia, quasi non fosse mai avvenuto (cf Sal
77,20)......Ma i «cippi» di cui parla il v. 21 sono anche memoria della strada stessa che è
(stata) percorsa: Dio dice infatti alla donna che deve «porre mente" (‫ְך‬Êֵ֔ ‫ )›ִ֣ ִתי ִל‬al
percorso effettuato, alludendo probabilmente alla necessità di conservare la memoria
delle sofferenze e delle lacrime che hanno caratterizzato il cammino del ritorno (cf
31,9). Ciò sarebbe evocato dalla parola ‫רים‬Í‫ר‬
֔ ִ ‫ ַ˙ ְמ‬che, nella sua polisemia, significa sia
32
«segnali» sia «amarezze» (cf v. 15)" .
Il testo immagina quindi di vedere già le carovane dei rimpatriati: essi vengono
esortati a riconoscere, a rintracciare la strada esatta. La via dell'esilio era segnata da
questi cippi e pali indicatori, che portavano lontano, verso un destino di desolazione:
ora essi diventano segni di speranza. Succede così con i segni di Dio nella storia, segni
che vengono letti in due modi radicalmente diversi secondo l'orientamento vitale di chi
li legge, fede e conversione, oppure incredulità ostinata. Il testo ebraico parla di un
«metti il tuo cuore a...»: cuore è sineddoche della persona. Questo significa che il ritorno
nella terra, metafora del ritorno spirituale a Dio stesso, deve coinvolgere tutta la
persona, le sue conoscenze e le sue decisioni.
Dio rivolge un amabile rimprovero ad Israele, paragonato ad una figlia errabonda e
ribelle, e lo esorta due volte a fare ritorno. È anche l'invito a non avere esitazioni nel
viaggio nel deserto e, più in profondità, a convertirsi al Signore senza tentennamenti e
ondeggiamenti. La ragione di questa sicurezza sta nel fatto che Dio ha compiuto
qualcosa di veramente nuovo sulla terra (cf v. 22: kî-bārā’ JHWH ḥădāšāh bā’āreṣ):
Fino a quando andrai vagando, figlia ribelle?
Poiché il Signore crea una cosa nuova sulla terra:
la donna circonderà l’uomo!
In che cosa consista la "cosa nuova", che Dio sta per creare, appare dall'ultima parte
del versetto: «la donna circonderà l'uomo». Si vuole dire che il Signore sta creando
qualcosa di veramente meraviglioso, dalla qualità escatologica. Ebbene, la spiegazione
di che cosa significhi che la donna circonderà l'uomo ha trovato tutta una serie
d’ipotesi assai diverse.
commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza». Non si riesce però a rendere la connotazione
femminile dell'amore profondo, "viscerale", di Dio.
31
Questo termine, tradotto solitamente con "paletti indicatori", è un hapax legomenon la cui derivazione è
incerta; un termine simile ricorre, oltre che in 31,21, solo in 31,15 e in 6,26 con il significato di "amaro,
amaramente" (dalla radice mrr): "pianto amaro", "laméntati amaramente". Nella LXX troviamo
τιμωρίαν ["punizione, rappresaglia", ma anche "aiuto"] che potrebbe essere una translitterazione
omeofonica del vocabolo ebraico. Qui potrebbe derivare dalla radice tmr ["albero di palma" come
segnale indicatore]. Così è interpretato già da Rashi. Cf R. P. CARROLL, Jeremiah, volume 2, Sheffield
2006, 601; J. R. LUNDBOM, Jeremiah 21-36, Anchor Bible 21B, New York, NY 2004, 449.
32
P. BOVATI, Geremia 30 - 31, dispense del PIB, Roma 2007-2008, 264.
90
Vi è chi intende il testo nel senso di una pace tale che basteranno le donne a proteggere la città o anche le carovane dei rimpatriati: le donne potranno restare al posto
degli uomini e "cingere gli uomini". Oppure si può cercare un’altra interpretazione e
leggere in questa frase un simbolo nuziale. Solitamente è l'uomo che corteggia la
donna: ora è la donna che corteggia l'uomo. Sarà dunque Israele, donna infedele, a
circondare di premure il suo sposo, il Signore, in un rinnovato idillio d'amore. Non
sarà il Signore a prendere l'iniziativa, ma Israele, paragonato ad una donna amorosa e
fedele. Proprio qui sta quella nuova creazione che il profeta annuncia, anche attraverso
un richiamo al libro di Genesi: è la capacità donata da Dio al popolo di amare e di
cercare sinceramente il Signore.
2.2.8. Conclusione in prosa: una totale novità (31,23-40) a. Tutte le cose rinnovate
- Rinnovata benedizione
- Un nuovo proverbio
- Una nuova alleanza
b. Garanzia sul futuro
- Esistenza assicurata
- Cambiamento di vita
(31,23-34)
(31,23-26)
(31,27-30)
(31,31-34)
(31,35-40)
(31,35,37)
(31,38-40)
Il tema che unisce queste parti in prosa, stilisticamente ben differenziabili dal resto
del libretto della consolazione, è quello della tensione tra continuità e discontinuità, tra
passato e futuro. Già attraverso l'intero ciclo di poemi vi era un costante riferimento al
futuro, compreso però utilizzando termini tratti dall’esperienza di fede del passato, che
gli oracoli di salvezza ripetono. Così la presenza salvifica di JHWH, conosciuta un
tempo, sarà nuovamente conosciuta e riconosciuta, mentre la sofferenza, il castigo, il
peccato avranno fine. In altre parole: il futuro, benché radicalmente nuovo, ha il suo
fondamento nella presenza salvifica e gratuita di JHWH. Ma questo tema della
continuità-discontinuità tra passato e futuro appare più chiaramente e massicciamente
qui che in tutto il resto dei cc. 30-31.
La profezia geremiana della nuova alleanza è immediatamente preceduta dalla
critica del principio di retribuzione collettiva (31,27-30). Anche qui si avverte il tema
della continuità e discontinuità tra passato e futuro. Il v. 28 esprime chiaramente il
fatto che il Signore continuerà a vigilare sul popolo, ma il contenuto è cambiato: se
dapprima vigilava per castigare il peccato, in futuro vigilerà per il bene, per un'azione
positiva. Ma la sua vigilanza sul popolo non viene mai meno!
Il proverbio citato da Geremia al v. 29 indica invece la rottura con il passato di
peccato e di castigo: tale proverbio è ripreso anche da Ezechiele (18,2). La solidarietà
nel castigo non sarà più messa in atto, come nel caso di figli innocenti puniti per i
peccati dei padri, bensì ognuno risponderà delle proprie scelte e maturerà una propria
responsabilità. Proprio la tentazione di scaricare sugli altri le proprie responsabilità,
l'affidarsi a luoghi comuni, non sarà compatibile con il nuovo rapporto con Dio che
caratterizzerà la nuova alleanza.
La critica al principio di retribuzione collettiva non è dovuta a una specie di
riflessione teologica, che ne svela le aporie etiche, né è frutto di un approfondimento
91
teorico nel campo dell'etica, ma è il risultato dell'intervento di Dio nella storia
dell'uomo che disinnesca il perverso meccanismo del peccato, il quale veramente
coinvolge i figli nelle colpe dei padri. Domandiamoci ora qual è il posto e il significato
in questo sviluppo dell'idea di alleanza nell'oracolo geremiano sull'alleanza nuova.
Per esprimere il ritrovato e rinnovato rapporto tra Dio ed Israele, Geremia usa
allora la categoria biblica di berît, ora definita come nuova. Abbiamo qui un testo
destinato ad avere grande udienza nel NT e nella tradizione cristiana.
Segnaliamo subito che il tema continuità-discontinuità viene nuovamente ripreso.
Proprio l'uso del termine berît, ormai consacrato nella fede di Israele, indica la
continuità. Però, l'elemento della discontinuità o novità è certamente rimarcato attraverso l'affermazione che la nuova alleanza non sarà come la prima.
La prima era infranta. La novità di questa alleanza è dunque l'aspetto che merita
una speciale attenzione in sede interpretativa. Infatti l'aggettivo ḥādāš [nuovo] in
ebraico non significa necessariamente una radicale novità ma potrebbe indicare anche
un rinnovamento. La traduzione della LXX con καινή / kainē, invece, sembra insistere
sul tratto della radicale novità, analogamente alla novità della "nuova creazione", alla
quale si riferisce Geremia nel contesto vicino (Ger 31,22).
I vv. 31,35-40 affrontano poi il tema della stabilità della nuova alleanza e del nuovo
popolo. Alcuni autori ritengono che questi versetti non siano di Geremia, ma risentano
dell’influsso di Ezechiele: in realtà essi sono coerenti con l'insieme e non si comprende
perché si debba dubitare della loro autenticità. Il testo si apre con un breve inno al
Signore del cosmo che regge stabilmente il mondo: come sono stabili le leggi del
mondo, imposte dal Signore agli astri e al mare, così lo sarà per sempre la sua iniziativa
d’amore verso il popolo. Il parallelo con la stabilità della creazione serve a ribadire che
l'alleanza che Dio intende stabilire è irrevocabile. Questo tema viene poi ripreso anche
in Ger 32,37-41 e Ger 33,19ss. Si avverte qui un profondo legame tra la fede nella
creazione e la fede nella liberazione. Il creato ci comunica la pacifica certezza della sua
stabilità, con il levarsi quotidiano del sole, con il ritorno della notte, con il passare
ritmico delle stagioni, e ci rivela così il potere di Dio che ha posto un ordine
immutabile nelle cose. Similmente questo creato, contemplato in un’ottica di fede,
rivela il potere con cui Dio realizza i suoi piani e mantiene le sue promesse, senza che
nulla possa vanificarle.
Gerusalemme poi sarà tutta riedificata e consacrata al Signore: tutti i terreni, anche
i più impuri, sono ormai consacrati dalla presenza del Signore; è un altro modo per
affermare la novità di questa alleanza, che coinvolge radicalmente tutto l'umano.
3. L’acquisto del campo ovvero il riscatto del futuro (Ger 32) 1. Il tema Geremia anticipa in sé il destino del popolo in due modi. Precedentemente gli era
stato impedito, per ordine divino, di partecipare alla vita familiare e comunitaria quale
dimostrazione concreta della sofferenza parossistica e dello sfacelo della vita sociale
che attendeva i suoi uditori (cf Ger 16); anche la sua condizione di carcerato era
prolettica del tragico destino che stava per abbattersi sul popolo. Con la compera92
riscatto del campo invece egli assume i suoi doveri familiari e annuncia profeticamente
la ricostituzione del popolo di Dio.
Per quanto riguarda il rapporto del nostro testo con altri testi biblici, si deve rilevare
come la compera del campo sito in Anatòt, da parte di Geremia, si iscriva in una serie
di compere famose, come quella di un sepolcro per Sara da parte di Abramo (Gen 23),
dell’aia di Araunà, che servirà per il futuro tempio da parte di Davide (2Sam 24), e
quella del campo di Noemi da parte di Booz (Rut 4). Tutte sono accomunate dal fatto
d’essere segni concreti della promessa, motivo visibile di speranza.
2. Commento 1
Parola rivolta a Geremia dal Signore nell’anno decimo di Sedecìa, re di Giuda, cioè nell’anno
diciottesimo di Nabucodònosor.
La soprascritta segnala l’evento della comunicazione della parola divina e sottolinea
nuovamente chi sia il protagonista decisivo che si cela nella vicenda del profeta
Geremia.
2
L’esercito del re di Babilonia assediava allora Gerusalemme e il profeta Geremia era rinchiuso
nell’atrio della prigione, nella reggia del re di Giuda,
Quest’ambientazione fa comprendere che l’episodio che verrà narrato non è un
incidente della vita di Geremia, ma s’inquadra nella sua sofferta testimonianza
profetica: si genera un effetto sorpresa, proprio perché si è alla vigilia di una catastrofe
umanamente irreparabile. Re e capitale sono qui uniti in un comune sventurato
destino ed implicitamente nella medesima incredulità che li porta ad essere sordi ai
richiami del Signore, dati attraverso il profeta prigioniero, e ciechi davanti ai segni
posti da JHWH sotto i loro occhi.
3
e ve lo aveva rinchiuso Sedecìa, re di Giuda, con questa imputazione: «Perché profetizzi in
questi termini? Tu affermi: “Dice il Signore: Ecco, metterò questa città in potere del re di
4
Babilonia ed egli la occuperà. Il re di Giuda, Sedecìa, non scamperà dalle mani dei Caldei, ma
5
cadrà in mano al re di Babilonia, sarà portato alla sua presenza, davanti ai suoi occhi, ed egli
condurrà Sedecìa a Babilonia, dove egli resterà finché io non lo visiterò. Oracolo del Signore.
Se combatterete contro i Caldei, non riuscirete a nulla”».
Viene riferita la profezia di Geremia su Sedecìa. Oltre a questo passo, molte altre
volte nel libro di Geremia si parla del destino di Sedecìa, profetizzato dal profeta di
Anatòt (21,1-7; 34,1-7; 37,1-10, 38,14-28). Qui l’oracolo risulta piuttosto ambiguo sulla
sua sorte e sul luogo della sua morte, poiché non è chiaro se la visita divina a Babilonia
sia per la morte o per la vita!
L’introduzione al discorso ha due funzioni: chiarire che il profeta è consapevole
della propria situazione; non gli sfugge quindi l’apparente assurdità dell’atto che sta
per compiere e non ritratta nulla di quanto ha detto sul destino prossimo della città e
del popolo di Giuda. Ma è anche una provocazione al lettore perché si confronti con la
natura paradossale della speranza.
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6
7
Geremia disse: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Ecco, sta venendo da te Canamèl,
figlio di tuo zio Sallum, per dirti: “Compra il mio campo, che si trova ad Anatòt, perché spetta
8
a te comprarlo in forza del diritto di riscatto”. Venne dunque da me Canamèl, figlio di mio
zio, secondo la parola del Signore, nell’atrio della prigione e mi disse: “Compra il mio campo
che si trova ad Anatòt, nel territorio di Beniamino, perché spetta a te comprarlo in forza del
9
diritto di riscatto. Compralo!”. Allora riconobbi che questa era la volontà del Signore e
comprai da Canamèl, figlio di mio zio, il campo che era ad Anatòt, e gli pagai il prezzo:
diciassette sicli d’argento.
Si deve rilevare la stranezza della prima persona quale voce narrante. Il fenomeno
appare varie volte in Geremia (cf 1,4-19; 13,1-14; 14,11-16; 16,1-1; 17,19-27). Quattro
di questi passi includono anche comunicazioni divine che notificano il comportamento
d’altre persone (11,18-23; 13,12-13; 16,10 e qui al v. 7).
La voce divina, però, non precisa che cosa debba fare il profeta, ma gli fa capire che
quanto sta per accadere non sfugge al piano divino (cf anche la reiterazione della
formula di evento della parola divina al v. 8). Capire i segni posti dal Signore nelle
varie situazioni non è cosa ovvia e neppure il profeta è esentato dalla fatica di
discernere la verità della voce di JHWH (cf v. 9).
Si noti la figura del profeta obbediente, che non chiede spiegazioni al Signore, né
chiarimenti su un atto che sembra in contrasto con quanto gli aveva precedentemente
ordinato sulla rescissione di legami familiari (Ger 16).
Il preannuncio della visita di Canamèl e, in seguito, il racconto della sua venuta
creano un’attesa nel lettore sull’unico elemento che resta incerto: come reagirà
Geremia? Quando Canamèl si appella al dovere di Geremia del riscatto del campo, il
profeta riconosce in quel diritto-dovere di riscatto [ge’ûllāh], imposto dalla Legge,
l’espressione della volontà del Signore. La compera s’impone, anche se non è ancora
chiaro allo stesso profeta che cosa significhi questo riscatto.
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Stesi il documento del contratto, lo sigillai, chiamai i testimoni e pesai l’argento sulla stadera.
Quindi presi l’atto di acquisto, la copia sigillata secondo le prescrizioni della legge e quella
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rimasta aperta. Diedi l’atto di acquisto a Barùc, figlio di Neria, figlio di Macsia, sotto gli
occhi di Canamèl, figlio di mio zio, e sotto gli occhi dei testimoni che avevano sottoscritto
l’atto di acquisto e sotto gli occhi di tutti i Giudei che si trovavano nell’atrio della prigione.
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Poi davanti a tutti diedi a Baruc quest’ordine: “Così dice il Signore degli eserciti, Dio
d’Israele: Prendi questi documenti, quest’atto di acquisto, la copia sigillata e quella aperta, e
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mettili in un vaso di terracotta, perché si conservino a lungo. Poiché dice il Signore degli
eserciti, Dio d’Israele: Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese”.
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L’acquisto con la pesa del denaro e la redazione delle due copie del documento di
vendita-acquisto [miqnāh] sono descritti con minuzia di particolari. Tutto viene
ottemperato secondo la Legge. In questo modo, con il rallentamento del tempo
narrativo, l’attenzione del lettore si concentra sull’atto compiuto ed in particolare sulla
funzione dei due scritti legali. Uno scritto aperto deve servire per l’oggi, per la lettura
immediata, l’altro sigillato è la garanzia che il documento, che si sta leggendo, è
affidabile, autentico! Facile è passare al valore simbolico che si manifesta proprio nel
94
rapporto esistente tra i due documenti. La speranza, di cui lo scritto è come
un’attestazione visibile, non è una fuga nel futuro, ma è una luce da custodire già per
l’oggi, perché orienta il presente e proietta verso il compimento anche quando questo
si allontana nel tempo (cf v. 14).
Si noti l’insistenza sul termine sēper [scritto, documento], che appare ben sette volte,
mentre il verbo qānāh [acquistare], a un prezzo notevole (diciassette sicli d’argento!),
ha ben nove ricorrenze. Se il sēper costituisce il documento della speranza, del riscatto
di un pezzo di futuro, il verbo qānāh dichiara inequivocabilmente che tale speranza è
grazia a caro prezzo! L’atto pubblico della compera esige la presenza di testimoni
firmatari.
Tra di essi spicca Barùc, che appare qui per la prima volta. Non è ancora qualificato
come scriba, ma il narratore ne offre la genealogia. Il discepolo, segretario confidente e
futuro testimone, al lettore appare perciò da sempre associato al profeta Geremia nella
speranza: questo consentirà di superare la difficoltà costituita dalla figura di un
discepolo che sembrerebbe, invece, chiamato a partecipare soltanto al dolore ed alla
persecuzione del profeta. Egli è piuttosto il custode della speranza del profeta
prigioniero ed è come se ricevesse per primo la consegna del testimone, che deve
essere trasmesso in una staffetta di generazioni.
Infine una parola sul simbolo della giara [kelî-ḥāreś ], in cui sono stati collocati i
documenti della compera del campo: questa custodia deve durare molti anni! Emerge
quindi l’idea che i tempi non sono quelli dell’impazienza umana, ma sono i tempi di
Dio. Allora questo recipiente, in cui sono contenuti i documenti dell’acquisto del
campo, non è d’oro, ma di umile terracotta: tuttavia racchiude la speranza, il simbolo
della speranza. Ecco così la tensione che si stabilisce tra il gesto del c. 19, in cui i vasi di terracotta vengono frantumati, e questo brano, in cui la giara custodisce la speranza.
È chiaro che se da una parte questo vaso di terracotta è il simbolo della novità
dell’agire di Dio per quanto contiene, dall’altra ci ricorda che tale novità è data
all’umanità solo per la misericordia del Signore, come dirà Paolo: «Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7).
A questo punto il gesto richiede obbligatoriamente un chiarimento perché esso
confinerebbe con l’assurdo: indubbiamente agli effetti immediati, economici, la
compera del campo con i relativi documenti legali non serve a niente, mentre agli
effetti profetici è un segno mirabile di speranza nel futuro, che viene già anticipata in
un momento di piena crisi. La parola di Dio attraverso Geremia giunge pertanto
chiarificatrice agli orecchi dei testimoni oculari e dello stesso lettore, tenuto finora
all’oscuro del senso dell’azione narratagli, senso che forse poteva solo presentire,
subodorare, ma non sapere con certezza: «Poiché dice il Signore degli eserciti, Dio di
Israele: Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese» (v. 15). La
promessa divina passa attraverso la concretezza di una vita trasformata.
Ne risulta, nonostante le apparenti smentite degli eventi ormai imminenti, che il
popolo continuerà ad avere un riscattatore, un redentore [gō’ēl ]. Per suo intervento la
terra resta segno della promessa divina al popolo e continuerà ad essere terra dei
giudei, terra promessa e posseduta per i secoli. Certo l’oracolo è stringato e contrasta
con la lentezza della narrazione. Ma proprio questo rimarca la sua efficacia. L’analogia
tra questo testo e Gen 23 s’impone! Entrambi i testi sottolineano il carattere
95
paradossale dell’adempimento! Come per Genesi, si evidenzia qui una "spiritualità
della caparra". Per Geremia, come per Abramo, vivere nella fede è vivere nella
speranza dei beni futuri, senza possederli qui ed ora se non nella forma della caparra e
del pegno (cf Eb 11,13-16). Come i patriarchi, Geremia non può godere della caparra
nella sua vita, ma solo nella morte: anche per questo il documento di proprietà non
rimane presso di lui un solo istante, ma è immediatamente consegnato a Barùc.
4. Un mandato-promessa per il discepolo Barùc (Ger 45) La conclusione dei racconti biografici di Geremia è un oracolo riguardante Barùc che
ha la funzione di colofóne della biografia profetica e del martirologio geremiano. È
chiaro l'intento del redattore che, pur conoscendo la sua collocazione cronologica, non
lo inserisce dopo la lettura e il rogo del rotolo nel 605.
Il lettore in sostanza si congeda dal libro (secondo la LXX) o dalla biografia di
Geremia (secondo il TM) e deve essere pronto a intraprendere come Geremia un
proprio sofferto cammino di fede: questo congedo è raffigurato nel testo che prepara il
discepolo Barùc a tempi di grande prova e diventa anche un'esortazione per la
comunità, che ascolta la lettura, ad essere pronta ad attraversare la notte oscura della
prova della fede.
Il genere letterario di questo breve testo è quello del "dialogo tra il discepolo e il
maestro": Dio si rivolge al profeta-discepolo. Prima c'erano state le "confessioni di
Geremia" ora vi è la "confessione del discepolo": «Tu hai detto: Guai a me poiché il Signore aggiunge tristezza al mio dolore. Io sono stanco dei miei gemiti e non trovo pace». Il
lamento di Barùc è, però, solo il primo passo per condurre il discepolo ad entrare in un
dialogo con Dio e a leggere così la propria vicenda dal punto di vista di Dio e secondo
la sua difficile logica.
La parola di Dio rivolta a Barùc, coinvolto nel destino del maestro (cf Ger 43,3.67), attraverso Geremia è in definitiva la parola di Dio al profeta stesso e ad ogni
discepolo che accoglie il messaggio del profeta. È un Dio comprensivo ed insieme
esigente quello che interpella Barùc: «Dice il Signore: Ecco io abbatto ciò che ho edificato e sradico ciò che ho piantato; così per tutta la terra. E tu vai cercando grandi cose per te? Non cercarle, poiché io manderò la sventura su ogni uomo. Oracolo del Signore» (Ger 44,4-5).
L'oracolo presenta aspetti inquietanti perché non si spiega come Dio possa
mantenere la sua fedeltà, distruggendo quello che ha piantato o, in altre parole,
ritrattando le sue promesse. Questo mistero è quello in cui si è imbattuto Geremia ed è
lo stesso mistero in cui si imbatte Barùc. La storia, che qui non riguarda solo
Gerusalemme e il popolo di Dio ma tutta l'umanità, sembra essere ormai sotto il
giudizio di Dio. O, meglio ancora, a Barùc viene chiesto di sentire qualcosa del pathos
di Dio che, con dolore, deve sradicare ciò che egli stesso ha piantato e vede crollare a
pezzi il suo mondo da lui creato!
È impossibile che Barùc, come Geremia, ricerchi una propria grandezza, un proprio
merito o anche miracoli. In ogni caso è chiesto a Baruc di confrontarsi con il mistero
della storia dove, anche nel finire delle cose, il Signore dell'alleanza - Dio di Israele! opera un evento di salvezza, preparando un futuro nascosto.
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Ma JHWH che parla a Barùc gli chiede di rinunciare a grandi sogni e a progetti
ambiziosi o ad attese di cose mirabili: gli domanda piuttosto di perseverare nella
speranza, perché Egli conserva ancora progetti di pace e non di sventura (cf Ger
29,11). Si noti la forma allusiva del «non cercare cose grandi». Il presente testo si
apparenta con il testo del Sal 131,1: a Barùc viene chiesto il medesimo cammino
spirituale del salmista. L’insidia che Barùc deve superare è individuata nella ricerca di
altezze impossibili, esorbitanti, in un auto-innalzamento che i maestri di Israele
additano spesso come la gravissima minaccia, il grande peccato. Al credente Barùc,
discepolo del debole e addolorato Geremia, è chiesto di non camminare nella ricerca
di grandezza e straordinarietà e di non aderire ad una visione della vita che, in
definitiva, si scandalizza della debolezza e dei limiti umani, piuttosto che accoglierli
dalla mano amorosa di Dio. Barùc deve, perciò, cambiare e cercare ciò che Dio
progetta per lui e non quello che egli spera per sé.
Ora sembra che la promessa di Dio a Barùc sia una semplice sopravvivenza
individuale: ma questa certamente non poteva bastare per il discepolo del profeta
Geremia, profondamente solidale con il popolo come il suo maestro. D'altra parte
l'oracolo chiede anche che Barùc non domandi favori per sé ma, proprio come ha fatto
il maestro, si carichi del destino del popolo e della sorte di tutta la terra, che è gravata
dalla sofferenza, senza però smarrire la speranza. Questa è espressa nei termini della
vittoria, del bottino (v. 5):
wenātattî lekā ’et-nepšekā lešālāl ‘al kol-hammeqōmôt ’ăšer tēlek-šām
A te farò dono della vita come bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai.
Stando al presente contesto di oracolo di salvezza, a Barùc il Signore promette di
consegnare un bottino, ossia di voler far partecipare il discepolo del profeta Geremia
alla vittoria divina, che è misteriosa, ma certa. Il bottino consegnato è la nepeš ! Molti
esegeti intendono la promessa della vita come bottino una sorta di ossimoro teologico,
poiché il bottino quale segno del trionfo si limiterebbe alla sopravvivenza del
trionfatore! Al contrario ci sembra di poter scorgere un’importante lezione sapienziale
sul senso del vivere, che è dato come grazia e che rende prezioso il fatto stesso di
esistere. Il testo geremiano ci ha appena mostrato (cf Ger 43) un Barùc in un esilio
(volontario o coatto?) in terra d’Egitto. Ma ecco una speranza per il discepolo che
conserva e custodisce la parola del profeta: la benedizione divina risponderà al suo
desiderio e darà senso al suo vagare.
In qualsiasi posto si troverà, egli sperimenterà la compagnia divina, il conforto della
sua presenza benedicente. Quanto Geremia aveva prospettato, quale speranza per le
generazioni di giudei in esilio, si realizza anche per questo suo discepolo sfortunato,
come già prima per Ebed-Mèlek. È la speranza basata sul Dio che, come ha in potere
di sradicare e distruggere, così può edificare e piantare.
La promessa divina per Barùc suona affine a quella per Ebed-Mèlek. C'è in
definitiva l'idea di una sopravvivenza dove la benedizione divina non viene meno:
neppure nella diaspora e nell'esperienza del Deus absconditus manca la benedizione. La
peregrinazione di Barùc nella diaspora si carica così di simbolismo spirituale, tant'è
vero che il suo nome sarà ripreso dall’omonimo libro deuterocanonico e da scritti
97
apocalittici. Egli testimonia, con la sua sopravvivenza, che ciò che è scartato dagli
uomini viene scelto da Dio come segno eterno della divina volontà salvifica, anche
quando Egli si nasconde. In un certo senso, anche la finale deuteronomistica di Ger
52,31-34 - che ricopia 2Re 25,27-30 - offre al lettore il medesimo motivo di speranza.
5. La speranza del discepolo e il libro profetico Lo scritto, di cui Barùc è scrivano, depositario e forse editore, è probabilmente
redatto proprio in funzione di questo saper riconoscere in ogni circostanza la vita come bottino. È quindi uno scritto al servizio della speranza (cf la scrittura discepolare di Is
8,11-20). Troviamo in questo una profonda affinità tra il messaggio dell’oracolo a
Barùc e la posizione di Qohèlet sul senso della ricerca riguardante il guadagno del
vivere: «Quale guadagno [jjitrôn] viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?» (Qo 1,3).
La promessa a Barùc, qui presentato nell’atto dello scrivere sotto la dettatura di
Geremia, è assai interessante anche in ordine ad una teologia biblica del testo
scritturistico. Il libro geremiano si presenta in tal modo come il perdurare nel corso
della storia della persona del profeta sofferente e martire, sconfitto dagli eventi. Perché
il profeta "sopravviva" bisogna che resti anche il libro e non scompaia, come farà
invece il rotolo sprofondato nell’Eufrate. Ebbene, la promessa della vita come bottino per Barùc implica un sussistere nel tempo di un gruppo di discepoli del profeta
Geremia, i quali, incontrando la sua predicazione grazie allo scritto, potranno
testimoniare la verità della promessa del Signore al profeta: «Io sarò con te, per salvarti, per liberarti». Se il profeta fu chiamato a seguire un cammino a ritroso rispetto a quello
percorso da Mosè è perché JHWH intende segnalare continuamente, attraverso il libro
che parla del destino del suo profeta, la necessità per Israele di un nuovo inizio, di una
nuova alleanza iscritta su un cuore circonciso.
Il discepolo, dando testimonianza della propria associazione alla passione e alla
speranza del suo maestro Geremia, afferma che tale storia non ha perso significato neppure per il presente del lettore. La stesura del libro avviene dunque all’interno di questa
condivisione, che è accoglienza di una "rivelazione" che ha la pretesa di riempire la vita
del testimone, la nepeš quale bottino, e di conferirle comunque un senso, anche in
mezzo alle prove più dure.
Ecco perché l’oracolo di Ger 45,1-5 si mostra sempre intrigante ad ogni sua
rilettura. Vorremmo ricordare come esso appaia ben cinque volte in Resistenza e resa, le
lettere dal carcere nazista del teologo D. Bonhoeffer, il quale, come Geremia, era
prigioniero dei suoi fratelli, profondamente solidale con il suo popolo anche in quelle
ore tristi e cariche d’infinita vergogna per la Germania33. Bonhoeffer afferma che la sua
esperienza è riassunta da Geremia 45 (e dal salmo 60)34. In un’altra lettera ricorda una
sua predica in merito tenuta a Finkenwalde35, ma in particolare vi ritorna, nei suoi
33
H. MOTTU, Geremia: una protesta contro la sofferenza. Lettura delle "confessioni", Claudiana, Torino 1990
(originale francese: Les «confessions» de Jérémie. Une protestation contre la souffrance, Labor et Fides,
Genève 1985), 154-162.
34
D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere, Bompiani, Milano 1969, 105.
35
ID., 191ss.
98
pensieri, nella lettera per il giorno del Battesimo di D.W.R., dove così commenta: "Se
dalla distruzione dei beni della vita noi riusciremo a recuperare intatta la nostra anima
vivente, potremo esserne soddisfatti. Se il Creatore stesso distrugge la sua opera,
dovremmo noi lamentarci di avere distrutto la nostra? Il compito della nostra
generazione non sarà quello di «mirare a grandi cose», ma di salvare la nostra anima dal
caos, di preservarla e di vedere in essa l'unica cosa da mettere in salvo - come nostro
bottino - dalla casa che brucia. Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, poiché da
esso procedono le sorgenti della vita (Pr 4,23) Dovremo portare, più che plasmare la
nostra vita, dovremo sperare più che pianificare, tenere duro più che proiettarci in
avanti"36. E nel giorno dell'attentato ad Hitler egli scrive: "... allora si prendono sul serio non
le proprie, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel
Getsèmani e, io penso, questa è fede, questa è metànoia; e così diventiamo uomini,
cristiani (cf Ger 45!). Come ci si potrebbe insuperbire dei successi e avvilire per gli
insuccessi quando, nella vita di questo mondo, si è compartecipi del dolore di Dio?"37.
36
37
ID., 233ss.
ID., 269. 99
SPERARE IN UN TEMPO DI CRISI I. IL MANDORLO FIORITO 1.
Il contesto storico della vicenda del profeta 2
‐
‐
‐
La situazione interna ed internazionale
La posizione di Geremia
Le fasi della predicazione di Geremia
2.
La vocazione del profeta (Ger 1,4-18) ‐
‐
‐
‐
‐
Un racconto paradigmatico
Caratteristiche letterarie di Ger 1
Struttura semantica del testo

La Parola

Il gioco dei soggetti

Il contrasto "totalità-parzialità"
Chiamata, lotta
Promessa
3.
Saggio di lettura della predicazione di Geremia (Ger 2,1 – 2,37)
‐
‐
‐
La denuncia del tradimento/apostasia (2, 1-13)
La libertà misconosciuta
Il fascino perverso degli idoli (2,21-29)
4. Un’altra modalità di comunicazione profetica: le azioni simboliche 17
‐
‐
Le azioni simboliche in Geremia
Il celibato del profeta (Ger 16 )
7
12
II. QUALE CURA PER IL CUORE MALATO 1.
2.
Il cuore quale cifra di un’antropologia unitaria Una progressiva radicalizzazione del pessimismo antropologico ‐
Appoggio iniziale alla riforma di Giosia
100
22
22
‐
‐
‐
‐
‐
‐
Constatazione del fallimento della riforma di Giosia
Fallimento della monarchia
Fallimento del progetto di una società fraterna
Il fallimento della Legge
Fallimento del profetismo

Criteri relativi al messaggio

Criteri relativi alla persona
Il fallimento del sacerdozio e del Tempio
3. Una diagnosi infausta: il cuore malato 31 34
39 Lettura di Ger 36: la passione della Parola di Dio 40 45 57 ‐
‐
Elementi di una diagnosi
Una prognosi infausta
4. È possibile la conversione del cuore? ‐
‐
‐
Il ritorno impossibile
Ma a Dio tutto è possibile...
La lieta notizia: un nuovo inizio nella libertà divina (Ger 18, 1-12)
III. LA PASSIONE DEL PROFETA 1.
2.
I racconti biografici su Geremia (Ger 26-45) ‐
‐
‐
‐
Ger 36: un testo chiave
Il percorso narrativo
La lettura e l’ascolto mancato
Il profeta e la parola: identità di destino
3.
La vita consegnata (Ger 37-39) ‐
‐
‐
‐
‐
‐
‐
‐
Una parola per il re (37,1-10)
Geremia imprigionato (37,11-21)
Nella fossa (Ger 38, 1-6)
Uno straniero in favore di Geremia (Ger 38,7-13)
L’ultima possibilità per il peccatore (Ger 38,14-28)
La tragedia si consuma (39, 1-10)
La sorte di Geremia (Ger 39,11-14)
L’oracolo per Ebed-Mèlech (Ger 39,15-18)
4.
Un sogno bruscamente interrotto (Ger 40-41) 101
‐
‐
‐
La scelta di Geremia Il progetto di una comunità nuova Il passato divora il futuro IV. LA TORMENTATA RICERCA DEL VOLTO DI DIO 1.
Il vero Dio ed i falsi dèi 61 2.
Alla ricerca del vero volto di Dio: le confessioni di Geremia 63 1. Prima confessione (Ger 11,18-12,6): come intendere la giustizia di Dio? ‐
‐
‐
La domanda di vendetta da parte di Geremia (Ger 11,18-23)
Quale giustizia? (Ger 12,1-4)
L’enigmatica risposta di Dio (Ger 12,5-6)
2. Seconda confessione: convertirsi al Dio conosciuto unicamente nella sua Parola (Ger 15,10-21) ‐
‐
‐
Prime battute del dialogo (Ger 15,10-14)
Il profeta risponde a Dio e continua il dialogo (Ger 15,15-18)
La risposta divina ( Ger 15,19-21)
3. Quinta confessione: il silenzio di Dio (Ger 20,7-18)
‐
‐
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‐
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Il contesto
Il lamento (Ger 20,7-9)
Giusti ed empi (Ger 20,10-13)
Maledizione della vita e silenzio di Dio (Ger 20,14-18)
Come interpretare la quinta confessione?
V. OLTRE IL PECCATO LA SPERANZA 1.
Interpretare la storia alla luce della fede: la lettera agli esuli 76 ‐
‐
Il contesto storico
Il messaggio agli esuli (Ger 29)
2.
In memoria di Rachele (Ger 30-31) ‐
La struttura dei capitoli 30-33 102
80
-
Analisi di Ger 30-31 e la tematica della nuova alleanza
‐
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‐
Introduzione in prosa (30,1-4)
Poema I: contrasto (30,5-11)
Poema II: guarigione della piaga incurabile (30,12-17)
Poema III: la presenza di JHWH che cura e corregge (30,18-31,1)
Poema IV: una volta…ancora (31,2-6)
Poema V: la grande assemblea di JHWH (31,7-14)
Poema VI: la speranza rinnovata (31,15-22)
Conclusione in prosa: una totale novità (31,23-40)
3.
L’acquisto del campo ovvero il riscatto del futuro (Ger 32) 89 ‐
‐
Il tema
Commento
4.
Un mandato-promessa per il discepolo Barùc (Ger 45) 91
5.
La speranza del discepolo e il libro profetico 93 103
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il profeta geremia: sperare in un tempo di crisi