IL PROFETA GEREMIA: SPERARE IN UN TEMPO DI CRISI Patrizio Rota Scalabrini 1 I IL MANDORLO FIORITO 1. Il contesto storico della vicenda del profeta Il profeta è colui che parla a nome del Dio della berît [alleanza], di un Dio che compie il suo progetto nella storia umana. È allora necessario e decisivo capire il presente del profeta, il contesto storico nel quale egli opera, le coordinate sociali, culturali e religiose della sua epoca. Orbene, ricostruire in modo soddisfacente le coordinate storiche della vita di Geremia non è cosa molto agevole poiché bisogna intrecciare dati che dobbiamo evincere dal testo biblico di Geremia, frutto di molte riletture successive del messaggio originario, con elementi d’altre fonti bibliche ed extrabibliche, le quali in parte confermano i dati della Bibbia, ma altre volte appaiono discordanti. La scelta di una lettura dei dati influenza anche la lettura del messaggio del profeta, poiché collocare una pagina profetica in un determinato contesto storico è concretamente attuare anche un'interpretazione su di essa, operare una scelta e una presa di posizione sul senso della parola del profeta. 1.1. Situazione interna ed internazionale L’introduzione del libro (Ger 1,1-3) inquadra l'attività del profeta tra il 627 (anno tredicesimo del regno di Giosia) e la caduta di Gerusalemme (587 o 586). In realtà, la sua attività profetica continuerà ancora per alcuni anni, ma questo periodo è certamente quello in cui gli interventi del profeta sono stati più frequenti. La situazione storica si caratterizza per un profondo influsso che gli avvenimenti internazionali esercitano sul piccolo regno di Giuda in questo periodo molto turbolento. L’epoca di Geremia è segnata pertanto da due fatti, il primo dei quali è la delusione e il grave scandalo per la fede di Giuda rappresentato dalla morte prematura del giusto Giosia, il re jahvista riformatore (2Re 23,29-30), ucciso in uno scontro con Necao, faraone d'Egitto. Non si comprende se ciò sia accaduto per un malinteso tra i due eserciti, sfociato poi in un regolamento di conti o per una cattiva interpretazione del quadro internazionale da parte di Giosia, desideroso di ingraziarsi il re di Babilonia, che era ormai la nuova potenza della Mezzaluna fertile. Il fatto della morte di Giosia poneva tutta una serie di domande che richiedevano una difficile interpretazione teologica. Il secondo fattore è il progressivo imporsi della potenza di Babilonia con Nabucodonosor. Se il rapido declino dell'Assiria aveva permesso a Giuda di scrollarsi di dosso il giogo assiro con il pesante tributo che aveva pesato sul popolo, da Acaz fino a Manasse, questo fatto non significava ancora una reale emancipazione politica, in quanto era soltanto un cambio di padrone. La caduta di Ninive nel 612 permetteva 2 infatti a Babilonia di estendere il proprio influsso sulle zone un tempo soggette agli Assiri e nel 605 la vittoria a Carchemis sull'Egitto assicurava la supremazia babilonese nel Medio Oriente, fino alla conquista persiana del 539. In questa situazione di crisi nazionale ed internazionale si formano due tendenze o "partiti". La tendenza nazionalistica, basandosi sulle promesse alla casa di Davide con Natan e poi con gli oracoli di Isaia, e sulle promesse divine a Gerusalemme (cf i canti di Sion nel libro dei Salmi), sosteneva la necessità della ribellione e della resistenza armata contro Babilonia, la quale non aveva tardato ad imporre il tributo al regno di Giuda, come a tutti gli altri Stati vicini. Ci s’illudeva dell'aiuto, garantito dalle alleanze, da parte dell'Egitto e dell'Assiria. Ma tali potenze ormai non bastavano più neppure a se stesse. Il prevalere di questa tendenza filo-nazionalista porterà alla catastrofe Giuda e Gerusalemme. Si andrà incontro alla distruzione totale della città santa e del Tempio, allo smantellamento dello Stato, a ripetute deportazioni delle persone più capaci, e all'esilio dell'intera classe dirigente e dei ceti benestanti. L'altro partito o tendenza, che si potrebbe denominare filobabilonese o collaborazionista, sosteneva la necessità di riconoscere la potenza e la sovranità di Babilonia e di sottomettersi ad essa come stato dipendente e tributario. 1.2. La posizione di Geremia In questa confusa situazione opera Geremia, l'uomo di Anatòt, un villaggio a 6 Km a nord-est di Gerusalemme. Questa sua provenienza "provinciale" sarà uno dei fattori che farà sì che il profeta non sia mai un uomo della corte, ma un uomo più vicino al popolo della campagna, con le sue sofferenze e le sue diffidenze verso la propaganda dell'ideologia regale. Inoltre, Geremia era di stirpe sacerdotale cioè discendente della famiglia sacerdotale di ’Ebjātār, esiliata ad Anatòt (1Re 2,26ss) dall'altra famiglia sacerdotale, quella Sadocita, che da quel momento aveva intrecciato il suo destino con quello della corte. La tensione tra le due famiglie sacerdotali in parte coincideva anche con due diverse interpretazioni della storia della salvezza: la famiglia vincente, di Ṣādôq, era portavoce delle tematiche dell'elezione di Sion, del Tempio e della dinastia, mentre quella di ’Ebjātār era portatrice delle tradizioni del Nord, più legate al tema del popolo e al grande santuario di Silo, che Geremia più volte ricorderà nella sua predicazione. Questa collocazione storica ci fa comprendere meglio la dura presa di posizione del profeta proprio nei confronti della linea politica della corte, sostenuta anche da motivazioni teologiche. Geremia diventerà sempre più un illustre rappresentante della tendenza "filobabilonese" minoritaria, inascoltata ed osteggiata dalla corte e dal clero. Egli, contro i fanatici ed illusi sostenitori dell'ideologia regale davidica, si preoccupa maggiormente del destino effettivo del popolo piuttosto che dei privilegi "teologici" della monarchia, molto più attenta al proprio particolare che al bene e all'interesse generale della collettività (Ger 22,13-23). Per conseguenza, considerando valore supremo l'esistenza di Israele come popolo, tema caro alle tradizioni del Nord, e riconoscendo l'effettivo distacco della dinastia 3 dagli interessi reali del popolo, Geremia è disposto a rinunciare quasi totalmente alle speranze messianiche, donde la diversità non soltanto di tono, ma anche di contenuto tra le attese entusiastiche e utopiche di Isaia e la profezia sconfortata di Geremia. In questa scelta di Geremia si manifesta il dilemma drammatico del tempo: il valore supremo era rappresentato dalla continuità di una struttura statale autonoma che garantiva l’indipendenza, oppure dalla continuità e sopravvivenza della comunità civile, a prezzo della perdita di ogni libertà politica? Dopo avere relativizzato il legame JHWH - dinastia davidica, Geremia dissolve anche un altro legame che costituiva un dogma fondamentale della teologia della classe sacerdotale, la quale rappresentava una componente imprescindibile dell'élite gerosolimitana (corte/ clero), e precisamente il legame JHWH - Tempio. Tale legame, già saldissimo dal tempo di Salomone, si era ulteriormente rafforzato dopo la riforma del culto da parte del re Giosia, che aveva soppresso ogni altro santuario jahwista e pagano a favore dell'unicità del Tempio di Gerusalemme. Questo rapporto tra JHWH ed il Tempio è ritenuto indissolubile: una sua perdita significherebbe il definitivo e drammatico rifiuto di Israele da parte di Dio. Ecco la terribile serietà della critica di Geremia contro il Tempio (Ger 7 e 26). Tutte queste prese di posizione del profeta contro istituzioni, considerate indispensabili alla esistenza di Giuda, suscitano contro di lui reazioni violente che lo portano a bastonature, al carcere, alla condanna a morte (non eseguita), al rogo pubblico dei suoi scritti, ritenuti "eretici" (cf Ger 35-38). Le persecuzioni contro Geremia, nel loro aspetto esteriore, sono state descritte dal segretario di Geremia, Barûk, mentre il riflesso interno di questi contrasti e le sofferenze intime del profeta sono narrati da Geremia stesso in testi famosi, noti come "confessioni di Geremia". 1.3. Le fasi della predicazione di Geremia Per quanto riguarda le fasi della predicazione del profeta già i versetti dell'introduzione (cf Ger 1,1-3) ci permettono di delineare momenti particolari sotto Giosia, sotto Ioiakìm e sotto Sedecìa. L'attività dopo la caduta di Gerusalemme non è contemplata nell'introduzione. Sotto Giosia avviene la vocazione del profeta, comunemente datata nel 627. In altre parole, la sua vocazione coincide con la data di quella riforma giosiana che tanta importanza ha per l’AT. È verosimile che Geremia sia stato toccato da questa riforma che si ricollegava a temi cari alla teologia del Nord. Secondo alcuni autori, il riserbo che il profeta mantiene a proposito di tale riforma è dovuto al fatto che egli ne era uno dei principali fautori; altri studiosi, invece, attribuiscono il silenzio sulla riforma ad un certo scettico distacco nei suoi confronti da parte del profeta. La vicinanza teologica e letteraria tra vari testi di Geremia e i passi deuteronomici, però, ci fa propendere per la prima posizione. La seconda fase della predicazione sotto Ioiakìm: dalla morte di Giosia (609 a.C.) alla prima deportazione a Babilonia nel 597. È un periodo molto confuso, caratterizzato prima dalla disillusione seguita alla morte di Giosia e dall'allontanamento del successore Ioacàz, sgradito a Faraone, poi dalla presa del potere da parte del fratello Eliakìm, sostenuto dagli Egiziani che gli cambiano il nome 4 in Ioiakìm. Geremia sarà in aperta opposizione alla politica del monarca filoegiziano e, perciò, dovrà soffrire molto in questo scontro aperto con la "casa di Davide", che egli critica senza mezzi termini come un casato ormai decaduto (Ger 23). È questo il tempo anche delle grandi dispute sul Tempio e sulle false sicurezze riposte in esso. La classe dirigente prende ad odiare il profeta e questo furore omicida si scatena ancora più violentemente quando la caduta dell'Egitto a Carchemis scredita irrimediabilmente la politica filoegiziana della corte. A Geremia è impedito l'accesso al Tempio e per questo detta i suoi oracoli a Barûk, il quale poi dovrà leggere in pubblico le profezie scritte, piene di minacce e di inviti al ravvedimento. La reazione violenta non si fa attendere, così che Geremia e Barûk sono costretti a sottrarsi con la fuga al linciaggio. Il re Ioiakìm morirà prima della resa della città a Babilonia e il figlio Ioiakìn regnerà al posto del padre soltanto pochi mesi, prima di venire deposto dai vincitori. Gli eventi danno così ragione alla predicazione di Geremia. In questo periodo vanno verosimilmente collocati i brani conosciuti come "confessioni", testi di splendida autobiografia spirituale, nei quali il profeta riversa il caleidoscopio di emozioni che agitano il suo cuore di fronte alle gravi prove della sua missione profetica. La terza fase di predicazione avviene sotto Sedecìa. Nabucodonosor, dopo la conquista di Gerusalemme, aveva posto sul trono Mattanìa al quale aveva, in segno di sovranità, imposto il nome di Sedecìa. In un certo senso la promessa davidica non sembrava essere venuta meno, perché la continuità della dinastia era salvaguardata. Costui era figlio di Giosia e nato dalla medesima madre di Ioacàz, il re deposto dagli Egiziani. Per un attimo il suo avvento sembrò rianimare le speranze di un re giusto e legittimo che camminasse sulle vie del padre. Ma egli si rivelò di carattere debole e incerto. Quando scoppiarono dei tumulti a Babilonia, in Giuda il partito nazionalista pensò che fosse giunto il momento di scrollarsi di dosso il giogo babilonese e Sedecìa, mostrando scarso acume politico e personalità influenzabile, si lasciò guidare da questo movimento per timore di perdere il potere. Gli inviti di Geremia a non opporsi a Babilonia rimasero inascoltati e così il regno di Giuda dovette soccombere davanti all'assedio babilonese che, con la caduta di Gerusalemme, decretò la fine del regno del Sud. Eppure la predicazione di Geremia in questo periodo ha una tonalità insolita, perché sostanzialmente annunzia già la speranza. La valutazione di Geremia sull'esilio del 597 e sulla sua portata teologica è un fatto abbastanza discusso dagli esegeti. Quale riflessione svolse il profeta sull'influsso e sulle conseguenze degli avvenimenti del 597? A nostro avviso, l’anno 597 costituisce una svolta decisiva per il profeta, con cambio di prospettiva nella sua predicazione. Secondo Geremia il 597 rappresenta da una parte il compimento delle profezie di giudizio terribile, che egli aveva annunciato contro la popolazione di Giuda, contro la città di Gerusalemme e contro il governo di Gerusalemme, cioè contro la dinastia davidica, quindi contro l’insieme di Giuda e delle sue istituzioni. Dall’altra il profeta, facendo parte della popolazione non deportata ma rimasta in Giuda, sperimenta questo fatto innegabile e cioè che la sottomissione, l'accettazione e il riconoscimento del governo babilonese hanno come frutto e quale effetto la possibilità di vivere. 5 Ed ecco allora che, a partire da questo momento, nella prospettiva di Geremia il giudizio è compiuto e comincia il tempo di una forma particolare d’obbedienza, che si riassume in questo comando: sottomettetevi e vivrete. Quindi l'accettazione e il riconoscimento dell'impero di Nabucodonosor, al quale Dio stesso, secondo Geremia, ha sottoposto ogni vivente, diventano una condizione di vita. In questa prospettiva rientra anche la missiva che Geremia spedisce agli esuli, deportati in Babilonia, perché non s’illudano in un repentino cambiamento della situazione internazionale e anzi si preparino a vivere a lungo nel paese del loro esilio (Ger 29). A questo proposito, emerge la differenza fondamentale tra Geremia ed Ezechiele. È una differenza strettamente legata alla situazione personale: Ezechiele appartiene al gruppo dei primi deportati, Geremia appartiene al resto della popolazione che vive nella terra di Giuda. Se per Ezechiele il 597 è solo l'inizio dei giudizi, per Geremia è invece il giudizio finale! È una differenza di valutazione che si avvicina ad una vera e propria opposizione di vedute. La diversa prospettiva presente nel gruppo deportato in Babilonia era condivisa non soltanto da loro, ma anche da alcuni profeti e da alcuni uomini dell'ambiente di corte in Giudea. La convinzione di Geremia stesso e di un certo ambiente di scribi - che sarà poi all'origine della narrazione di Ger 36-43 (se si prescinde da aggiunte e rimaneggiamenti successivi) sui momenti decisivi della vita del profeta e della vita della città, della popolazione di Giuda - è che il 597 abbia significato il giudizio di Dio, oltre il quale può aprirsi, non per il merito del popolo, ma unicamente per la via della grazia, il tempo della speranza. I mesi dell'assedio furono tremendi per tutti, ma ancora più per Geremia, che venne imprigionato, accusato di alto tradimento e disfattismo. I tentativi di far tacere la parola del profeta risultarono, però, vani e, alla fine, l'unica parola vera apparve essere proprio e soltanto la sua: per questo il re cercherà di consultarlo in segreto per comprendere cosa stesse succedendo, senza però incorrere nelle ire dei cortigiani, che imponevano la loro politica a questo re fantoccio. Dopo la caduta della città il profeta venne per un certo periodo protetto dai babilonesi, ma non si dissociò dalla solidarietà con il suo popolo: per questo lo troviamo tra i deportati che venivano avviati verso Babilonia nel campo di smistamento di Rama (Ger 40). La sua liberazione garantisce al profeta pochi anni di libertà. Si prepara il periodo più duro della vita di Geremia, che predica la sottomissione a Godolìa, anche se costui rappresenta un'interruzione della linea dinastica. Per Geremia la cosa più importante è la sopravvivenza del popolo e dell'alleanza. Così il popolo dei rimasti nella terra dovrà subire, a causa dell'assassinio di Godolìa, un'altra deportazione. Alcuni gruppi cercheranno di salvaguardare la loro libertà di fronte ad eventuali ritorsioni babilonesi, riparando in Egitto, contro la parola di Geremia, che pure viene trascinato in Egitto come ostaggio dei suoi fratelli ebrei. In questo periodo il profeta leva ancora la propria voce, ma i suoi interventi sono certamente meno numerosi ed incisivi di quelli della sua precedente attività a Gerusalemme. Qui la figura di Geremia diventa sempre più quella di un "anti-Mosè" o meglio di un nuovo Mosè chiamato a tornare al punto zero della storia della salvezza! 6 2. La vocazione del profeta (Ger 1,4-18) 2.1. Un racconto paradigmatico Leggiamo ora la narrazione della vocazione profetica di Geremia, paradigma dell'essenza della vocazione profetica in genere e del munus profetico che il NT riconosce ad ogni discepolo di Cristo. La sorgente prima della funzione profetica è la vocazione, cioè la chiamata diretta da parte di Dio su colui che sarà profeta. Il tema ovviamente oltrepassa l'area profetica e riguarda molti altri personaggi. Lo studio del racconto della vocazione del profeta ci farà incontrare i motivi portanti dell'intero libro: la signoria della Parola di Dio; l'incredulità dei destinatari sui quali si compirà, di conseguenza, il giudizio (sradicare); un futuro disponibile esclusivamente per l'intervento di Dio (edificare); il profeta come procuratore universale; la sofferenza del profeta. Letti isolatamente, i racconti della vocazione dei vari profeti sembrano avere valore quasi meramente aneddotico, ma bisogna sapere andare oltre le apparenze. Come accade comunemente per molti credenti, l’esperienza personale ci attesta dei momenti particolari che segnano una svolta decisiva nel corso della nostra esistenza; ora, questi fatti all'esterno possono sembrare aneddotici, ma diventano determinanti per la coscienza di chi li vive, perché in essi l'individuo legge l'intervento esplicito e normativo di Dio nei suoi confronti. Basti questa osservazione per comprendere come è necessario andare oltre l'aspetto contingente, particolaristico delle varie vocazioni profetiche. 2.2. Caratteristiche letterarie di Ger 1 Il capitolo sulla chiamata di Geremia è dal punto di vista letterario una composizione molto stilizzata che ha però la funzione di portico dell'intero libro di Geremia, ed apre sul contenuto del libro e della missione del profeta come un tragico sradicare ed un inatteso costruire. La struttura del capitolo è tripartita: vv. 4-10: racconto di vocazione vv. 11-16: una sintesi della parola profetica in due visioni: il mandorlo e la caldaia vv. 17-19: riconferma della vocazione con l'invio in missione I vv. 11-16 sono due oracoli abilmente inseriti dal redattore ad illustrare il messaggio. Consistono in due visioni simboliche, rispettivamente interpretate. Il primo è giocato sulla paronomasia possibile a comprendersi solo in ebraico. Seguendo un genere, a noi già noto da Am 7-8, s’inizia con la contemplazione di un oggetto, poiché la parola del Signore è un evento che passa attraverso le realtà concrete. Dopo tre mattine, finalmente, guardando il ramo di un mandorlo (šāqēd ) Geremia capisce che l'atteggiamento del Signore nei riguardi del suo popolo è quello di vigilare (šōqēd). La funzione di questa visione è quindi di suggerire a Geremia la divina potenza che opera nascostamente dietro la sua parola, quella che il profeta dovrà trasmettere. Il mandorlo rifiorito evoca indubbiamente la continuità della storia che la Parola mette 7 in moto, anche quando a volte nell'ottica umana questa storia sembra arrestarsi e perdersi. La seconda visione è quella di una caldaia pronta per essere rovesciata verso Nord; il simbolismo è evidente se si pensa che le invasioni militari per Israele potevano venire unicamente dal Nord o dal Sud e in quel tempo in particolare dal Nord. Purtroppo gli abitanti di Gerusalemme non comprendono che si sta preparando una minaccia gigantesca appunto dal Nord, dalla potenza di Babilonia che stava ingigantendosi in quegli anni. Ed è questa prospettiva sconvolgente che Geremia dovrà annunciare, restando però inascoltato. Il motivo della catastrofe è da Geremia ravvisato nell'abbandono del vero Dio per il servizio agli idoli (v. 16). In definitiva, la visione della caldaia annuncia il contenuto di quella parola che Geremia dovrà trasmettere. Egli dovrà, per così dire, capovolgere i motivi principali della tradizione di Sion, poiché JHWH stesso “chiama" non la città eletta, ma le nazioni contro di essa! I vv. 17-19 sono una ripresa della vocazione sotto il profilo della missione intesa come duro lavoro, come impegno di lotta e di fatica. Essi hanno la funzione di incoraggiare il profeta. Sarà una missione che scatenerà l'opposizione degli avversari e dei destinatari; l'animo timido e sensibile di Geremia ne è quasi sconvolto ed ecco che allora interviene di nuovo la promessa divina a rincuorarlo: il profeta, grazie al soccorso di Dio, sarà come una città inespugnabile, come un muro invalicabile, una colonna irremovibile. 2.3. Struttura semantica del testo Cercare la struttura semantica del testo significa cercare di capire cosa il testo dice, ossia rintracciare il suo contenuto attraverso il rilievo delle linee di significato che lo attraversano. Si tratta così di delineare l'ossatura, l'impalcatura del testo e le sue principali articolazioni. Il racconto della vocazione mostra tre elementi di struttura semantica (sintetizzo qui i suggerimenti del biblista P. Bovati): a) la parola; b) il gioco dei soggetti; c) la tensione tra particolarità e totalità. 2.3.1. La Parola Il tema della parola appare insistentemente nella formalità del dialogo tra JHWH e Geremia all'interno dello schema narrativo di tutto il capitolo. È rilevante la radice ’mr (dire). Notevole rilievo assume poi la radice dbr (parola), come sostantivo e come verbo. Tutti e due sono detti sia di Dio che di Geremia. La radice dbr occupa quasi la totalità del testo; è da notare solamente che il sostantivo dābār non si applica mai a Geremia. Semanticamente collegati alla “parola” sono i termini nābî’ [profeta] (v. 5) e peh [bocca] (v. 9, due volte). Soltanto due persone parlano: Dio e Geremia; è soltanto Dio però che prende l'iniziativa ed è Lui il primo a parlare, come pure è Lui a comandare a Geremia di parlare. Ma che cosa vuole dire parlare? Cosa poi significa che il profeta è l'uomo della Parola? Parlando l'uomo si espone come soggetto e contemporaneamente pone l'altro a cui parla come soggetto. È la Parola, infatti, la rivelazione della relazione tra i due soggetti dotati di libertà e non solamente di visibilità. La parola è ciò che consente la 8 distinzione tra i soggetti nell'unità della relazione. Possiamo dire che, in contrasto con la visione dualistica e concettualistica del mondo greco, il mondo ebraico sviluppa piuttosto un'antropologia della relazione dove l'uomo pone se stesso nella misura in cui entra in comunicazione, nella misura in cui parla con l'altro. Ora, la Bibbia afferma che Dio parla, anzi è il soggetto parlante per eccellenza. Dio, come appare anche nel nostro racconto della vocazione di Geremia, non è quindi presentato tanto come essere capace di intelligenza, come un essere spirituale, ma come Colui che è capace di relazione, la cui intenzionalità è quella di stabilire con l'uomo, sua creatura, un'unità senza confusione, senza possedere il suo interlocutore, senza inglobarlo in sé. È l’intenzionalità di Dio, la sua volontà, ciò che lo spinge a parlare. Dio parla perché vuole la comunione e parla rivelando così se stesso. In questo senso il parlare di Dio non può essere che originario, primigenio. Egli non può che parlare per primo. Si rivela all'essere umano, perché la persona diventi capace di entrare in comunione con Lui; questo è implicitamente affermato nel v. 5 dove l'essere-fatto-uomo di Geremia è preceduto dalla volontà di Dio di costituire Geremia come l'uomo della Parola. Si noti che “uomo della Parola” non vuole dire che Geremia sarà uomo della Parola solo quando parla, ma che egli parla in quanto chiamato a parlare, in quanto comandato a parlare, e che questa chiamata ad essere portavoce di Dio lo struttura fin nell'intimo. Egli deve dire tutto e soltanto ciò che gli è comandato. Destino della Parola e destino del profeta devono procedere insieme, anche se la Parola lo precede e non soccomberà con il fallimento del portavoce. 2.3.2. Il gioco dei soggetti In un'analisi semantica del testo di Geremia appare chiaro il gioco dei soggetti. Nella prima parte abbiamo il soggetto "io" di Dio, con il soggetto "tu" di Geremia (vv. 5-10. 17-19). Nella sezione centrale il gioco è tra la relazione io-io del profeta (vv. 1112) ed io (profeta) - loro dei destinatari (vv. 13-15). Il loro, nell'ultima parte, si rivolge con azioni contro il tu di Geremia. In definitiva, appare subito il Dio che parla al profeta e costui è essenzialmente definito nella relazione che egli instaura con Dio, con la sua origine; in secondo luogo egli è definito in relazione ai destinatari della sua missione. La relazione fondante è quella di Dio con il profeta: è fondante perché Dio è il fondamento dell'esistenza del profeta e della sua azione. Tale relazione è invisibile (all'inizio: Dio ha costituito il profeta prima che esistesse; alla fine: Dio promette di essere con lui al momento della morte). La mediazione visibile (storica) di questo rapporto è nella Parola: se il profeta mantiene ferma la sua relazione alla parola interiore di Dio, facendola propria nella parresìa della proclamazione, egli è davvero soggetto, persona. Questa relazione tra Dio e il profeta è per tutti gli altri: Israele, le nazioni, i re. La qualità del profeta si rivela dunque nel rapporto con coloro ai quali è inviato; infatti, in questo rapporto profeta-gente si gioca il comando, la volontà di Dio, la sua intenzionalità: è l'essere presente di Dio presso il popolo proprio nell'essere presente del profeta. La relazione tra il profeta e gli altri è sempre mediata dalla Parola ricevuta. Se il profeta non parla agli altri con la Parola di Dio cessa d’essere profeta. L'atto con cui viene meno alla propria missione, si configurerebbe come fuga, come negazione anche 9 del rapporto con gli altri, oltre che con Dio. La solidarietà con gli uomini appare come il tratto essenziale della profezia (ossia della rivelazione di Dio). 2.3.3. Il contrasto "totalità-parzialità" Il terzo asse semantico è dato dalla totalità. Il lemma kol [tutto] ricorre nove volte: v. 7, due volte; v. 14; v. 15, tre volte; vv. 16.17.18. Il senso della totalità riguarda il messaggio che deve essere proposto integralmente a tutti i suoi destinatari; ma il senso della totalità riguarda anche la vita del profeta, il cui asse temporale è totalmente assunto dalla missione profetica, e pure la totalità di valenza della missione (distruggere ed edificare). Questa totalità entra in tensione interna con la particolarità che si esprime nell'individualità di Geremia, nella singolarità sconcertante della sua vicenda di sofferenza e fallimenti. Questa parzialità diventa particolarmente evidente nella minaccia di morte che lo sovrasta ed è profetizzata così anche sulla città di Gerusalemme In tal modo, se la totalità è segno di Dio, essa si rivela però nella parzialità, umiliandosi nel "piccolo". Ma questa è sua iniziativa; se è la parzialità a pretendere di contenere Dio, allora è perversione, come si darà per il caso della monarchia e della sua pretesa di contare a priori sulla promessa davidica, o per il popolo nei confronti dell'istituto dell'alleanza. Scrive P. Bovati: "La particolarità del profeta è poi inserita nel contrasto con la totalità della missione. La particolarità del profeta è evidente nella sottolineatura del tema della morte che è minacciata per Geremia e preannunziata come la fine della città di Gerusalemme. Totale è invece il segno divino di cui però Geremia deve farsi segno. Questo rendersi presente del segno divino nella parzialità e nella particolarità del profeta non può che essere un umiliarsi di questo Dio. La parzialità è, però, pervertita quando pretende di contenere e di esaurire il divino come nel caso del Tempio!" 1. Nell'insignificanza della vita di Geremia passerà questa comunicazione che Dio fa di sé; essa avverrà attraverso la passione del profeta e del rotolo torturato e bruciato, perché nulla possa pensare di poter contenere Dio, ma ne sia esclusivamente un segno e un umile rimando. La morte del profeta, anticipata già nel suo fallimento storico, denuncia l'universale idolatria, il tentativo di cosificare Dio, ed insieme annuncia un dono: d'altra parte, proprio attraverso la sua morte, la sua vita diventa una vita offerta a tutti. Geremia è davvero figura eminente di Gesù Cristo! 2.4. Chiamata, lotta Ci dedichiamo ora ad una breve lectio cursiva del nostro brano. Nella vocazione di Geremia appare un aspetto importante: il profeta si sente chiamato e consacrato fin dal seno di sua madre. Questo significa che tutto l'arco della sua esistenza appartiene ormai a Dio. Il tema ha uno sviluppo nella tradizione biblica: Is 49,1.5 (il servo di JHWH); Lc 1,15.41 (il Battista), Paolo (At 22,14; Gal 1,15). È detto anche di tutti i credenti (Ef 1,4; Gv 17,24). La struttura del testo segue da vicino altri racconti di vocazione negli elementi principali: v. 5 l'incarico dato al profeta (cf Gdc 6,14; Es 3,10); v. 6 obiezione (cf Gdc 1 P. BOVATI, Perché il Signore vi ha rigettati: Ger 1-6, dispense del PIB, Roma 1982-1983, 39. 10 6,15; Es 3,11); vv. 7-8 rassicurazione (cf Gdc 6,16; Es 3,12a); v. 9 segno di conferma (cf Gdc 6,17ss.; Es 3,12b); v. 10 riconferma della missione. Ci soffermiamo qui sul v. 5. In esso si chiarisce la relazione tra Geremia e JHWH. Si usa il verbo jāṣar [plasmare]. La sua nascita è sotto il segno della signoria di JHWH sulla creazione, su tutto, sulla storia stessa come dice l'impiego del medesimo verbo in Ger 18 per il vasaio. Quindi la "chiamata" (qui non c'è il termine!) è un entrare di JHWH, come Signore della creazione e della storia, a formare Geremia come suo strumento, atto a plasmare la storia secondo i suoi piani, o meglio ancora secondo la sua promessa. Questo linguaggio usa lo schema temporale per affermare che la storia è interamente sottoposta al volere benefico di Dio. Se Dio si rivela in un momento, nondimeno il suo amore è eterno! Una prima conseguenza è che l'essere profeta non è qualità accessoria dell'esistenza dell'uomo, ma è una dimensione essenziale dell'esistenza. Si è plasmati da Dio nel corpo ed eletti alla profezia per plasmare la storia secondo il suo volere: questa è la verità di un uomo, la sua intima natura, la sua struttura, così che venire meno alla propria vocazione è una contraddizione presente nello stesso essere (cf Ger 20,9; 1Cor 9,16). Il secondo verbo usato è jāda‘ [conoscere]. La conoscenza di JHWH sul profeta è un abissale progetto d’amore, che ci richiama alla mente il testo di Rm 8,29-30. L'altro verbo usato è qādaš [consacrare]: esso esprime la vicenda di Geremia come un atto di consacrazione. Alla luce della totalità del libro si vede uno sviluppo della vicenda di Geremia che entrerà nella sfera intima di Dio in quanto trascendente e santo, proprio attraverso il martirio, nell'accettazione della sofferenza estrema, sopportata per fedeltà alla Parola. Geremia diventa il portaparola di Dio e la sua esistenza nella carne è una presenza del Dio totalmente altro. Infine, l'ultimo verbo è nātan [dare, porre]: ti ho posto profeta delle nazioni. È un'interpretazione della missione del profeta più fedele alla teologia che alla cronaca, poiché presuppone la dispersione d’Israele tra le nazioni. In definitiva, nella vocazione del profeta, Dio si manifesta in un certo momento della sua vicenda esistenziale, ma il suo intervento appare inatteso, impreparato, improvviso, non frutto di un agire umano e non risultato di una lenta preparazione della coscienza del profeta. Questo modo di parlare della vocazione è necessario, se si vuole far capire agli altri qualcosa dell'assoluto di Dio, della sua sovrana libertà. Il profeta di Anatòt non fa semplicemente risalire la sua vocazione ad un momento della sua esistenza personale, sia pur remoto, ma va al tempo anteriore alla sua nascita e addirittura ad una scelta divina anteriore ad ogni suo principiare umano. Non si deve, però, considerare questo un privilegio di Geremia, perché la medesima cosa viene affermata più tardi dal NT anche per Gesù di Nazaret, per il Battista, per Paolo ed è vero di ogni profeta e in ultima analisi di ogni credente che vive secondo Dio. Se Geremia si sente chiamato e consacrato fin dal seno di sua madre, consapevole di come tutto l'arco della sua esistenza appartenga ormai a Dio, ne risulta che l’intera vita del profeta è l'appropriarsi della vocazione, è l'assunzione, sempre più cosciente, della verità costitutiva del suo essere, così da adeguare l'assenso volontario e amoroso al disegno di predilezione divina. «Risposi: "Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane"». Il chiamato ha paura e cerca di fuggire. Questa paura si manifesta sotto forma di obiezioni fatte a Colui che chiama; tali riserve si mascherano con la parvenza di un 11 discorso di ragionevolezza umana (Ger 1,6; cf Es 3,11; Gdc 6,15). Si deve riconoscere che gli argomenti sollevati come obiezione sono nella sostanza legittimi e perfino doverosi. Non si deve, però, vedere in queste obiezioni del chiamato un riflesso di buon senso, d’umiltà, o di pusillanimità, ma la resistenza che l'uomo prova ad entrare in un cammino misterioso di dolore, di fallimento per obbedienza alla Parola ricevuta. Il voler sfuggire alla naturale condizione di debolezza e d’inadeguatezza è sintomo della paura in atto; paura non dovuta a codardia, ma a desiderio che la missione ricevuta non fallisca, perché il fallimento dell’inviato sembra comportare la sconfitta del messaggio. L'uomo deve accettare invece questo paradosso e imparare a confidare non in se stesso, ma solo nel Signore: «Non dire: “Sono giovane”. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò... Non aver paura di fronte a loro, …». 2.5. Promessa «… io sono con te per salvarti» (v. 19). La nostra pericope, come ogni racconto di vocazione, racchiude una promessa. Dio, quando ordina al profeta di parlare, assicura anche la sua protezione, il suo aiuto. Così nella vocazione di Geremia Dio non nega che vi sarà guerra, che il corpo del profeta sarà minacciato; anzi è il Signore stesso che chiaramente prospetta al chiamato questo destino. Soltanto promette: «Io sono con te». Se la frase «Io sono con te» è tra quelle più ripetute in tutte le pagine bibliche, non va banalizzata, ma deve essere colta nel suo sapore originario, poiché è uno sviluppo della rivelazione del Nome. In questa frase non c'è dunque una semplice assicurazione, come potrebbe esservi in una promessa umana d’assistenza, ma anche l'indicazione dell’imprevedibilità della modalità di questa Presenza soccorritrice al fianco del chiamato. Ritorna così il tema della promessa, abbozzato già all'inizio, nell'immagine del seno materno: il Dio che plasma fin dal grembo materno è Colui che si afferma presente nel travaglio e nell'agonia dell'esistenza del profeta. Si rende necessario credere; infatti, se si vince per fede la paura di morire, non si potrà non portare vittoria; se invece si teme, per mancanza di fede, si è condannati a un’invincibile paura. Ogni vocazione è un ordine, una missione e può assumerla soltanto chi si fida veramente di Dio. L'importante è che il chiamato abbia a fianco Dio e non una propria idea su come Dio gli sarà vicino o la speranza di trovare un proprio modo di assicurarsi la protezione divina. 3. Saggio di lettura della predicazione di Geremia (Ger 2,1 - 2,37) Proponiamo qui la lettura del primo capitolo della prima raccolta di oracoli del libro profetico di Geremia (Ger 2,1-4,3), sia perché in poche pagine si trovano in nuce molti dei temi che vengono poi ripresi nel corso del libro, sia perché questa prima raccolta è un esempio, poeticamente mirabile, della posizione di Geremia in ordine al tema della situazione di peccato del popolo di Dio e all’annuncio della possibilità di un suo cambiamento, per iniziativa dell'indefettibile amore divino. Si tratta, infatti, di una sezione letteraria omogenea che raggruppa quasi tutti i temi della predicazione del profeta e svolge una funzione prolettica rispetto alla collezione di oracoli dei discorsi di Ger 2-25 e persino dell'intero libro. È probabile che alcuni 12 elementi di questa raccolta siano del primo periodo dell'attività profetica di Geremia. Già qui si hanno le prime avvisaglie del pessimismo antropologico geremiano e l'intuizione che, se la conversione si renderà possibile, sarà unicamente perché Dio si porrà come protagonista del "ritorno" del popolo. Tema centrale di questi capitoli è, infatti, l'infedeltà del popolo a JHWH, a motivo dell'idolatria, che per il profeta è la radice d’ogni perversione religiosa e morale. Ma il riconoscimento dell'infedeltà porterà a due certezze tra loro in tensione: da una parte il ritorno impossibile per il popolo, dall'altra l'iniziativa divina di perdonare e di convertire il cuore di Israele. 3.1. La denuncia del tradimento/apostasia (2,1-13) La requisitoria profetica si apre secondo il TM2 (non la LXX) con un oracolo (vv. 1-9) dove viene ripetuto ben 3 volte che si tratta della parola del Signore; ciò conferisce solennità a questo inizio della predicazione, come viene ribadito anche da quel «va' e grida agli orecchi di Gerusalemme, dicendo...». Geremia comincia con un oracolo ricco di pathos, dove si annuncia l'allontanamento di Israele e la sua ingratitudine verso le benemerenze di JHWH nei riguardi del suo popolo, che egli prese come sposa e consacrò a sé, ma anche il ricordo divino che è la dichiarazione di un amore mai venuto meno. È da questo amore che scaturiranno le domande pressanti del v.5: «Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri?»; oppure del v. 11: «Un popolo ha cambiato i suoi dèi?»; o ancora del v. 14: «Israele è forse uno schiavo o è nato servo in casa?». Colpiscono le espressioni lapidarie del profeta: «O cieli, siatene esterrefatti; inorriditi e spaventati.» (v. 12) È grande l'abilità letteraria del profeta (o del redattore) che intreccia il suo parlare con quello di Dio e con gli interventi del popolo; il tutto è espresso in forma assai vivida e carica di intensità emotiva. Il primo oracolo non è una sorta di captatio benevolentiae del profeta che riferisce la parola di Dio in prima persona: zākartî lāk [mi ricordo di te], ma è l'affermazione di una certezza fondamentale che deve dare luce a tutto il resto. Se nel credo di Israele il ricordare è la confessione delle azioni salvifiche di Dio verso di lui, qui è Dio che si "ricorda" del popolo. Per esprimere questo "di te" vi è in ebraico una forma, detta lamed dativale, che insinua un senso di nostalgia, un rammentare un tempo ideale che si affaccia alla mente in modo trasognato. In italiano dovremmo tradurre con un “continuo a ricordarmi di te". Anche il metro poetico usato è quello della qînāh, del lamento, che contribuisce a creare un'atmosfera di nostalgia. Al verbo del "ricordare" seguono gli oggetti del ricordo; ma se tali cose sembrano passate (per il fatto stesso che si ricordano), il dativo "di te" è come uno spiraglio di luce: Dio ha nostalgia di qualcosa che è passato, ma non del tutto. Si parla di ḥesed [fedeltà, bontà, benevolenza], impiegando un vocabolo colmo di significato che indica un agire verso una persona con cui si ha una relazione speciale, 2 Il TM [Testo Masoretico] è il testo della Bibbia ebraica che è stato stabilito dai grammatici ebrei [masoreti] di Palestina e di Babilonia dal VI all’VIII secolo. Essi hanno vocalizzato il testo ebraico trasmesso come testo consonantico e vi hanno applicato i te‘amim, segni non vocalici che, aggiunti alle consonanti originali del testo biblico vocalizzato, hanno un valore di segmentazione del periodo, di intonazione della lettura e di "note" di cantillazione e quindi forniscono una serie di connotazioni interpretative. 13 fatta di fedeltà, benevolenza, dedizione. Ḥesed è qui in parallelo con ’ahăbāh, cioè amore: è suggerito l'incontro amoroso tra sposo e sposa e la relazione d’affetto tra i due. Il tempo ricordato è quello della giovinezza e del fidanzamento, di un amore fresco, primaverile, quasi ingenuo. Questo tempo è motivo di nostalgia per il "cammino" insieme con la sposa: esso è espresso con un infinito al femminile, perché Israele è visto come la sposa (non ancora nominata!). L'andare insieme è una delle immagini nuziali per eccellenza! Ma si deve notare che l'espressione è entrata anche nel linguaggio religioso, ed indica una sequela docile ed obbediente di Dio. È qui evidente la dipendenza del nostro testo da Os 2-3 e dalla sua tematica del tempo del deserto come quello della relazione d'amore. Con queste parole il profeta, evocando la nostalgia di Dio per il tempo passato, vuole suscitare nel popolo il desiderio di tornare a quel tempo, di convertirsi al Signore. Inoltre è chiaro che questa prima parola di Dio costituisce una luce di speranza anche durante le aspre requisitorie che il profeta pronuncerà: JHWH3 non ha mai smesso di pensare e di amare il suo popolo peccatore e su questo amore di Dio si potrà ricostruire. Al v. 3 appare una nuova immagine per illustrare la relazione tra JHWH ed Israele. Israele era sacro, cosa riservata a Dio, interdetta all'uso profano. La santità d’Israele è qui l'essere la primizia del suo raccolto, ossia di ciò che entra nella casa come il vino, l'olio, il grano. Primizia (rē’šît) indica qui non tanto il primo in ordine di tempo, ma la qualità speciale (ad es. il nostro olio di prima spremitura) di un prodotto, che per questo veniva portato al Tempio e offerto nella gioia della festa. L'immagine evoca perciò qualcosa di festoso, il tempo gioioso del qāṣîr (raccolta). Israele è dunque per Dio una primizia, perché l'elezione ha fatto di lui il frutto più prezioso dell'umanità. E proprio come i doni offerti a Dio, Israele era intangibile, perché Dio stesso era la sua custodia. Tale affermazione farà problema, poiché nel corso della predicazione il profeta Geremia annunzierà un tragico prevalere dei popoli (Babilonia) sul popolo di Dio ed una sua consegna nelle mani di Nabucodonosor. Ma proprio questo primo oracolo, se ben compreso, fa capire che tale consegna ad altri popoli non sarà definitiva. Ci si rivolge poi solennemente alle tribù del Signore, proponendo un inquietante oracolo in cui Dio si domanda quale torto abbia mai fatto ad Israele per essere trattato in tal modo. Lo sguardo è rivolto per un momento al passato, in cui Dio non ravvisa alcuna motivazione plausibile per spiegare la separazione tra Lui e gli Israeliti; le conseguenze di questa infedeltà sono che, avendo seguito idoli vani, che sono soltanto alito, cose vuote e inconsistenti, Israele è caduto nell'inconsistenza. Si noti il verbo denominativo hbl che deriva da hebel; inoltre, va rimarcato che la voce verbale costituisce qui l'ultimo stico e ha così due accenti, per cui tale verbo, a causa del metro, deve essere letto in modo molto enfatico! "Essere ridotti a vanità" qui si riferisce anzitutto alla distruzione del regno d’Israele da parte dell'Assiria, ma è chiara anche la 3 Le due tradizioni ebraica e cristiana si trovano d'accordo nel non pronunciare il nome di Dio JHWH. L'uso di sostituirlo con altri titoli risale almeno al III secolo a.C. La traduzione greca, detta dei LXX, iniziata in quel tempo, ha infatti tradotto le "quattro lettere sacre" conKýrios «Signore». Ancora oggi in sinagoga JHWH è sostituito con ’ădōnaj «Signore», con ha-šēm (o šema‘ ) «il Nome»,o con altri titoli, a seconda dei contesti. 14 portata universale dell'affermazione: l'idolatria porta l'uomo all'inconsistenza, a un vuoto esistenziale incolmabile. L'inseguire il vuoto e il nulla conduce inesorabilmente a diventare nulla. Nei vv. 6-9 Dio prova di non avere dato al suo popolo occasione d’apostasia, ma di averlo piuttosto beneficato largamente, con la liberazione dall'Egitto, la guida attraverso il deserto, il dono della terra buona. La contaminazione della terra da parte dei padri si accompagna al peccato dei responsabili d’Israele, studiosi della Legge, sacerdoti, profeti. I sacerdoti qui si occupano del culto senza cercare veramente Dio, impegnati in un ritualismo privo di vera trascendenza, allo stesso modo dei dottori della Legge, che si perdono nei meandri delle norme, avulsi da una vera ricerca della volontà di Dio; anche i profeti da custodi dell'alleanza si sono mutati in portavoce di idoli vani ed inefficaci. In sintesi, i mediatori di Dio si sono accomunati al peccato del popolo, tradendo il proprio compito di mediazione della Parola. Essi non aiutano il popolo a capire che la sua vita non è come quella che Dio si aspetta, e che, anzi, in tale agire concreto non c'è posto per Dio. Si passa poi dal peccato dei padri a quello della generazione presente (figli) e al rîb [accusa processuale] divino con loro. Questo significa che la critica che il profeta sta portando all'idolatria, non deve essere intesa come protesta contro un momento di particolare corruzione, ma come un messaggio perennemente attuale anche per il lettore. Il peccato nei vv. 10-13 appare come insensatezza. Il brano ricorda Isaia, che paragonava il popolo ad animali senza ragione (Is 1,3) anteponendo questi a Israele, incapace di correzione né per amore né per forza; qui Geremia mette avanti al popolo di Dio popoli senza rivelazione, come Cipro (Kittijjîm)e Qedàr (Oriente e Occidente). La gloria del Signore presente ed efficace, anche se non rappresentabile con immagini, si contrappone alla vanità degli idoli; ma Israele peccando ha fatto uno "scambio" (cf Rm 1,23 e Sal 106,20), preferendo il "vuoto" alla gloria di Dio. Il v. 13 raggiunge un vertice d’alta liricità: davanti ai testimoni notarili dell'alleanza ecco la rappresentazione plastica dello "scambio": acqua sorgente con acqua mefitica e stagnante. Dio è come acqua di sorgente perenne, non discontinua e sporca come quella dei torrenti (Ger 15,18; Gb 6,15). Ma questa acqua viva, sorgiva, non è disponibile all'uomo se non nella fede, nella ricerca sincera di Dio: non è compatibile con lo scavarsi cisterne screpolate, che non tengono acqua, ma solamente un po' di liquido fangoso. Tali cisterne sono segno concreto dell'idolatria, del ripiegamento peccaminoso dell’uomo su esperienze che non possono alleviare la sua sete, perché solo in Dio è «la fonte di acqua viva» (Sal 36,10). Queste cisterne fatiscenti, preferite alla fontana di acqua sorgente, sono anche un simbolo della stupidità del peccato, che è l'abbandono di una gioia stabile e certa per gioie illusorie e fugaci. Ma soprattutto la metafora, che contrappone l'unica fonte con le tante cisterne, suggerisce l'idea del peccato come infedeltà (sul simbolo erotico del pozzo/fonte cf Pr 5,15ss; Ct 4,15). 15 3.2. La libertà misconosciuta I vv. 14-19 presentano un oracolo assai bello, anche se un po' oscurato da alcune inserzioni. L'oracolo originario è composto da un'interrogazione (vv. 14-15), da una risposta di Geremia (vv. 17-19) e da una conclusione (v. 20). Aggiunte successive dovrebbero essere i vv. 16 e 18. L'idea di fondo espressa è l'affermazione del dono divino della libertà ad Israele, dono incompatibile con lo stato di servitù a cui lo hanno invece ridotto gli idoli. La risposta di Geremia sottolinea che l'abbandono di Dio da parte del peccatore espone questi alla malizia del proprio peccato, e ciò è già castigo. Il peccatore, avendo lasciato Dio, è piombato nella nullità, nell'inconsistenza. La conclusione dell'oracolo è un’esortazione a ravvisare i frutti amari del peccato; è necessario riconoscere concretamente nella propria esperienza la desolazione conseguente all'abbandono di Dio e al fatto di non essere andati a Lui in modo "trepidante", mossi dal "timore" di Dio. Il profeta enuncia qui un profondo concetto teologico di peccato: la malizia stessa è punizione che l'uomo porta in sé, perché chi si allontana da Dio va inevitabilmente verso l’hebel e perciò alla fine la sua anima è vuota o piena soltanto di fastidiosa malvagità. Le ultime parole (lett. «il non essere venuti a me nel timore») sono un invito alla conversione, che sarà il tema dell'intero cap. 3. Il popolo riconoscerà davvero la signoria di JHWH quando non andrà alla ricerca di protezione in potenze e assicurazioni umane. Dal punto di vista teologico, notiamo la formulazione della relazione "peccatocastigo" quale relazione di causalità, di rapporto consequenziale. Ma si badi che per Geremia, e per i profeti in genere, non è Dio che interviene a punire, ma è il peccato che comporta come sua conseguenza intrinseca il fallimento, se per castigo s’intende l'esperienza della mancanza, del male, del "non bene". Più che una punizione divina è piuttosto l’esperienza di un male che, come tale, non è voluto da Dio, ma deriva dalla rottura dell'alleanza. Geremia esprime chiaramente questo pensiero in 2,19: «la tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono». 3.3. Il fascino perverso degli idoli (2,21-29) Il castigo del tradimento sta nello scegliersi come padroni potenze che asserviscono il popolo, il quale invece ha rifiutato il servizio al Signore, proprio come una bestia o uno schiavo (v. 20). Nei vv. 21-22 dopo l'immagine dell'animale ribelle, che viene applicata al culto idolatrico verso i Ba‘alîm, si trova un'altra stupenda immagine che rimanda ad Is 5,1-7. La "vite bastarda" è vite non coltivata, non innestata, oppure sono i talli che escono sotto l'innesto: è chiara l'idea di una divina delusione nei confronti di Israele, di un'amarezza di JHWH che vede tradita la fedeltà all'alleanza, e scopre disatteso e misconosciuto il proprio amore. Il peccato è ormai così congenito, intimo alla vita del popolo, che non può più essere paragonato ad una macchia che si possa lavare, sia pure con detersivi energici; questo peccato potrà essere tolto unicamente con un cambiamento radicale della natura del peccatore! Ecco che allora, con due immagini taglienti, si stigmatizza la condotta istintiva, irragionevole del peccato dell'idolatria che affascina il popolo come 16 l'istinto sessuale guida le bestie (cammella, asina). Ma, a rendere il confronto più pesante, interviene l'annotazione sul fatto che queste bestie non sono sempre mosse dall'estro, mentre Israele sembra sempre affascinato, ammaliato dall'attrattiva degli idoli. L'ironia diventa quasi sarcasmo ed infine dichiarazione perentoria del tradimento di Israele, del suo adulterio, del suo amore lascivo per gli idoli (v. 25). Forse però, con questo viaggio che il profeta sconsiglia - «per risparmiare i sandali / evitare la sete ardente» - si allude ai viaggi compiuti per contrarre alleanze politiche con gli stranieri, per contare sui loro improbabili aiuti più che sul soccorso dell'Onnipotente. Ma probabilmente Israele e i suoi capi cercano delle scusanti, tentano di negare i fatti loro imputati: dovrebbero ritenersi come ladri e delinquenti colti in flagrante delitto e quindi arrossire di vergogna, invece di rivendicare un'improbabile innocenza. Così, a differenza di un ladro che, colto in flagrante, prova vergogna, il popolo e i suoi capi non si vergognano del loro peccato, ma tentano un'autodifesa ipocrita. Al v. 27 si presentano di nuovo i culti idolatrici di fertilità con il fallo di legno (‘ēṣ, in ebraico è maschile) e con delle pietre cave, simbolo dell'organo femminile (’eben in ebraico è femminile); l'idolatria giunge dunque fino alla perversione gravissima di dichiarare gli idoli fonte della propria esistenza, fondamento originario della vita («tu sei mio padre, mia madre!»). Ma negli idoli non ci può essere salvezza! Per questo, nel momento della difficoltà, il popolo torna con suppliche "interessate" a Dio, l'Unico che lo può salvare. L'invocazione non è, però, sincera e quindi rimane senza efficacia, poiché è mancato il riconoscimento delle proprie colpe, che è indispensabile al perdono. 3.4. Il punto di non ritorno (2,30-37) In questi versetti, con il tono della persuasione, si tenta di fare uscire il popolo dall'illusione di poter fare a meno di Dio o di cercare Dio altrove, in qualcosa che non è Dio. Già nei versetti precedenti si denunciava la resistenza del popolo e dei suoi capi a provare vergogna per i propri peccati; il profeta cercava allora, con parodia feroce, di toglierli dal sentimento di falsa innocenza in cui erano attestati (vv. 23-28). Ora la polemica contro le illusioni dell'idolatria, dell'avere cercato protezione presso gli dèi stranieri nei loro santuari, giunge fino a smascherare la pretesa più grave: quella di ritenersi innocenti e in grado di sconfiggere da soli il peccato: «Tu protesti: “Io sono innocente, perciò la sua ira si è allontanata da me. Ecco, io ti chiamo in giudizio, perché hai detto: “Non ho peccato!”» (v. 35). È questo un atteggiamento di “prostituzione”, che potrà essere vinto esclusivamente quando il popolo capirà dove sta la vera protezione e che solo JHWH è capace di proteggere e ridare fecondità, attraverso il suo perdono. Israele e Giuda invece cercano libertà lontano dal Signore. 17 4. Un’altra modalità di comunicazione profetica: le azioni simboliche Geremia condivide con vari altri profeti dell'AT la presenza di azioni simboliche4, cioè di atti profetici che il profeta compie, mosso da Dio, come momento del suo messaggio al popolo. Come interpretare questi gesti profetici? Alcuni esegeti (ad es., G. Fohrer) intendono gli atti simbolici dei profeti come atti sostanzialmente vicini alla magia, ma in realtà l'intenzione degli atti magici e delle azioni profetiche è diametralmente opposta. La magia è uno sforzo dell'uomo di assoggettare le forze della natura, di sottometterle ai propri desideri e ha in se stessa la propria efficacia; lo scopo ultimo dell'azione magica è di manipolare gli dèi, le forze divine o demoniache, o semplicemente altri esseri umani (cf 1Re 17,21; Gen 30,37-43; Nm 5,21-28). Al contrario, il profeta ha coscienza di agire non di iniziativa propria, ma di Dio; è sottomesso ad essa e all'efficacia reale della sua azione; questo non per le ragioni di un’efficacia intrinseca, come nel caso della magia, ma soltanto perché è la parola di Dio che legittima la sua azione e le dà forza: è soltanto l'ordine di Dio che dà efficacia a quest’azione profetica. L'azione profetica "mima" l'azione di un Dio che è in dialogo con il popolo attraverso il suo profeta. Nell'azione del profeta si anticipa concretamente ciò che Dio farà per gli interlocutori e per il profeta stesso. L'azione profetica, a differenza dell'azione magica, impegna la responsabilità della libertà dell'interlocutore, e d'altra parte annuncia e proclama la solidarietà, la partecipazione attuale e gratuita di Dio con il suo popolo, il suo pathos. E, come Dio è totalmente impegnato in questo rapporto, così il profeta è totalmente impegnato nella sua azione, che diventa appello alla libertà del destinatario. Proprio perché destinate ultimamente al dialogo con il popolo, le azioni simboliche hanno carattere pubblico e si compiono davanti a testimoni in una via, in una piazza, nel cortile di una prigione, in un negozio ecc... Le azioni del profeta sono un linguaggio per un “tempo di crisi”. Costituiscono un invito a non fondarsi su false sicurezze, a non appoggiarsi a pseudovalori. Sta qui la ragione per la quale molte azioni simboliche mettono in scena il rovesciamento delle certezze, il rovinoso finire delle istituzioni e della vita regolare del popolo. Poiché il profeta rimane inascoltato, ed anzi il suo messaggio a volte ha l'effetto contrario di rinforzare atteggiamenti reattivi, le azioni simboliche diventano una risorsa estrema per tenere aperto il dialogo e funzionano come parabole che interpellano gli spettatori e li coinvolgono non solamente con l'udito, ma anche con la vista. D'altra parte, quando tutto sembra finito e la crisi è divenuta catastrofe, le azioni simboliche vengono invece ad annunciare una speranza inattesa che unicamente l'intervento di Dio rende possibile. Proprio perché linguaggio per un tempo di crisi, le azioni profetiche hanno il carattere di una comunicazione analogica che va controcorrente e che non consiste tanto nella stranezza di alcuni gesti, ma nel fatto che sono fortemente critiche verso determinate situazioni in cui tali gesti vengono posti. Sono critiche verso le circostanze 4 Cf anche R. BLANCHET [et alii ], Un prophète en temps de crise: Jérémie. Dossier pour l'animation biblique, Labor et Fides, Genève 1985, 107-147. 18 del momento, ma soprattutto verso il modo con cui determinate situazioni e realtà vengono lette ed interpretate. In tale interpretazione, che va contro l'opinione corrente, sta il loro carattere straordinario, provocatorio, sovversivo e rasentante talora l'assurdo. Un altro aspetto delle azioni profetiche va qui rilevato. Esse non sono soltanto un modo di esprimere un concetto e un canale per il dialogo, ma sono anche atti che danno realmente inizio a ciò che esse significano. Come la parola profetica, esse sono "Parola efficace". Le azioni simboliche indicano precisamente che la parola di JHWH, affidata al profeta, non è una mera espressione verbale, ma è potenza in azione. Davanti a Dio è già in atto il processo che realizza quanto è significato dall'azione simbolica del profeta. 4.1. Le azioni simboliche in Geremia In Geremia abbondano le cosiddette azioni simboliche: Ger 13: Ger 16: Ger 18: Ger 19: Ger 27: Ger 32: Ger 51,59ss: segno della cintura il celibato il vasaio segno del vaso segno del giogo segno della compera del campo segno del rotolo Le azioni simboliche seguono una forma letteraria abbastanza standardizzata. Vi è un ordine divino di eseguire l'azione (Ger 19,1-2; 13,1; 16,1; 32,1; 27,2; 51,59), cui segue il racconto dell'esecuzione del comando (Ger 13,2; 32,8-9); quasi sempre si conclude con una parola che spiega il significato dell'atto (Ger 19,10-11; 13,9-11; 27,48; 32,14-15). La prima azione simbolica è quella di Ger 13,1-11: vi appare il tema dell'obbedienza e della disponibilità del profeta, del carattere decisivo dell'azione profetica e della Parola legata ad essa. Si noti ancora la povertà del segno e l'importanza della Parola legata ad esso. In queste azioni simboliche c'è continuamente il passaggio da una cosa normalissima a qualcosa che interviene a cambiare la vita degli ascoltatori. L'azione simbolica della cintura di lino vuole mostrare in atto il giudizio sul popolo che non ha aderito (dābaq) in sincerità a JHWH. Il verbo dābaq appare spesso nella letteratura deuteronomica per indicare l'atteggiamento di fedeltà piena al Signore, il legame che deve esistere tra il popolo e il suo Dio, simile all'aderire di un uomo alla sua donna (cf Gen 2,24). L'azione si sviluppa in tre momenti e si conclude con un oracolo contro il popolo. In un primo momento il profeta compera e si mette ai fianchi una cintura di lino, che è stoffa nobile e di uso cultuale, per indicare quello che deve essere Israele per Dio. Segue l'ordine di togliersi la cintura e di seppellirla a Nord, verso l'Eufrate. Il terzo momento è il rinvenimento della cintura ormai tutta marcita e inutilizzabile. L'oracolo conclusivo spiega il senso dell'azione con un linguaggio assai vicino a quello del Deuteronomio. Come la cintura si è corrotta non improvvisamente ma nel tempo, così la corrosione dell’alleanza tra Dio e il popolo non è stata repentina, ma è il 19 risultato di un lungo logorarsi del rapporto, dell'ostinata perseveranza di Israele a seguire altri dèi. Israele invece di essere la gloria e il vanto di JHWH presso le genti, lo ha infamato con le sue ribellioni e con la sua idolatria; si badi all'insistenza del testo biblico sul possessivo usato da Dio verso il popolo, possessivo che sottolinea dolorosamente il rapporto stabilito nel Patto e disatteso da Israele. L'esilio del popolo è, infatti, in un certo senso anche una sconfitta di JHWH di fronte agli dèi pagani. È da rilevare come il profeta sia impegnato a fondo in tale azione profetica, così come lo sarà nelle altre. Per obbedire agli ordini ricevuti deve spendere denaro, tempo e forze, deve pagare di persona con la pazienza e la perseveranza. Tutto questo fa parte della fedeltà alla Parola ricevuta. In Ger 18-19 troviamo l’azione simbolica del vasaio, per indicare la libertà di Dio e l’efficacia irresistibile della sua Parola (Ger 18,1-12). L'azione simbolica vera e propria si ha in Ger 19,1ss. È un'azione che suscita curiosità o ilarità, ma è la parola che orienta la curiosità verso qualcosa di determinante e che richiede un'immediata decisione. Il Signore ordina al profeta di comprare una brocca di terracotta e di andare con testimoni qualificati alla porta dei Cocci: la brocca infranta significherà l'immane castigo che l'idolatria trascinerà sul popolo. Questo gesto è davvero un annuncio per un tempo di crisi che si avvia verso la catastrofe e che l'azione profetica vuole scongiurare, rendendola evidente ai propri interlocutori. Il luogo in cui il gesto profetico si compie - la valle di Ben-Innòm - è altresì una denuncia dell'idolatria, che era giunta a favorire l'infamia dei sacrifici umani al Tòfet. Geremia aggrava poi il suo atto di denuncia delle false sicurezze con un discorso tenuto al Tempio che gli causa l'arresto e una serie di sevizie da parte del "commissario di polizia" del Tempio stesso. In Ger 27 il giogo portato dal profeta è simbolo della schiavitù che Babilonia imporrà agli avversari. In Ger 32, attraverso un gesto che sembra insensato, Dio dà nuova speranza, mentre si è in una situazione disastrosa. Il gesto è tanto più significativo se collocato nel contesto della predicazione di speranza dei cc. 30-33. In Ger 51,59ss il profeta annuncia un evento che non si realizza pienamente nell'immediato. Vi è una discrepanza tra parola di Dio e immaginazione del profeta. La Parola trascende la capacità del profeta di comprenderla o di vederla realizzata. In questo rotolo di sventure che cadranno su Babilonia sta significata anche la certezza della speranza di Israele, fondata sulla futura ineluttabile fine dei suoi nemici. 4.2. Il celibato del profeta (Ger 16) In generale, le azioni simboliche investono la corporeità del profeta, ma non tutta la sua biografia. Diverso è il caso del celibato profetico di Geremia. In Osea con il matrimonio ed ora in Geremia con il celibato profetico abbiamo, più che un'azione simbolica - che si svolge in una determinata situazione comunque transitoria -, un’opzione che coincide con la stessa condizione esistenziale del profeta, alla quale lo ha chiamato la parola di Dio. Quest’azione simbolica è dunque un particolare che coinvolge non solo un gesto del profeta, ma tutta la sua vita, facendone un segno (Ger 16,1ss.). 20 Geremia viene invitato a scoprire nella propria esistenza la presenza di JHWH. Questo vuole dire che Geremia non è un profeta al servizio del Signore unicamente con l'oracolo, con la sua bocca, ma con la sua vita: è la vita intera che ha funzione oracolare. Detto in altre parole, l'umanità del profeta diventa luogo della rivelazione di Dio: elemento dal punto di vista teologico di grande importanza e premessa per una rilettura cristologica dell'AT! Così nella vocazione Geremia non dice di essere divenuto profeta, ma di aver scoperto che l'essere profeta costituisce l'essenza stessa della sua persona. La natura profetica è la vera e totalizzante identità della persona di Geremia. Se nelle "azioni simboliche" o "pantomime profetiche" il profeta svolgeva un compito, rappresentava delle scene, pur non prendendovi ovviamente le responsabilità, ora non si tratta più soltanto di rappresentare qualcosa, ma di vivere nella propria vita la Parola. Non dimentichiamo che, nel corso del libro, Geremia ha già sperimentato la solitudine, l’emarginazione impostagli dalle trame ordite contro di lui, dalle persecuzioni, dal disprezzo dei suoi stessi connazionali. Questo era già evidente nella prima e nella seconda confessione (cf 11,18-12,6; Ger 15,17): «Non mi sono seduto per divertirmi nelle compagnie di gente scherzosa, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario perché mi avevi riempito di sdegno». Inoltre, vi era stata già la proibizione divina di intercedere e la sofferenza conseguente del profeta, nata dalla sua sincera passione per i concittadini i quali lo ripagano con loro durezza, che giunge fino a perseguitarlo, a volerne la morte. Ma adesso egli è chiamato a far penetrare ancora più in profondità l'esperienza di tale solitudine: se prima il soffrire poteva, in qualche modo, essere un dolore che lo arricchiva, ora egli deve accettare una solitudine totale, personale, anche anagrafica. Il profeta è costretto persino a fare il lutto dei propri sentimenti! Così, il sensibile e delicato Geremia, pieno d’affetto per la sua terra e di partecipazione per la tragedia del suo popolo, è come costretto a reprimere ogni lacrima e ogni gesto di solidarietà, diventando insensibile come il bronzo, duro come la pietra. Amore e dolore gli sono vietati perché la sua stessa carne riveli il silenzio e l’esilio di Dio, che lascia abbacinati e storditi. Di qui la sua solitudine anagrafica, totale: sul piano personale e sociale! Ma veniamo un attimo al nostro testo, specie Ger 16,1-9 che è il cuore narrativo, mentre i vv. 10-10-13 mostrano la motivazione teologica di tutta questa tragedia con un linguaggio tratto dal Deuteronomio. A Geremia non viene richiesto solo il celibato, ma anche l'astensione dai riti funebri (vv. 5-7) e dalla partecipazione alle feste (vv. 8-9). Il ritirarsi di Geremia da questi momenti fondamentali della vita sociale e civile, deve diventare parabola del ritirarsi di JHWH dal proprio popolo e dello sfaldarsi della comunione all’interno del popolo stesso. E, come in questi riti sociali l'uomo mostra la propria solidarietà ed amicizia con gli altri, così il sottrarsi ad essi diventa dichiarazione di una rottura dei rapporti amicali, figura provocante dell'allontanarsi di JHWH, che toglie anche i doni dell'alleanza (cf Os 2,10ss; in Os 2,21 sono i doni che lo sposo porta alla sposa come dote per il nuovo rapporto di alleanza matrimoniale). Merita che si approfondisca ancora un momento il significato del celibato di Geremia. Il profeta deve diventare parabola di un Dio, che sembra ritirarsi dal suo popolo, staccandosene drasticamente: in realtà è un distanziarsi per amore, per la 21 salvezza. Così, più profondamente, lo stesso profeta, pur non potendo vivere esteriormente la solidarietà con il popolo, in realtà la raddoppierà. Si deve sottolineare che lo stato di celibato era così abnorme nella cultura biblica che non c'era neppure il vocabolo corrispondente al nostro "celibe", sicché Geremia è costretto ad esprimere questa situazione, ricorrendo a una simbologia matrimoniale in negativo: il non prendere moglie e non avere figli né figlie. A Geremia viene chiesto di andare contro la dualità sessuale - che fa parte del carattere antropologico sessuale dell'uomo biblico - e di rinunciare a una cifra simbolica tanto alta da divenire metafora per antonomasia della relazione di alleanza di Dio con il suo popolo. Gli è inoltre chiesto di rinunciare alla procreazione, cioè al segno per eccellenza della benedizione, della promessa. Essendo vero che, durante le catastrofi, chi non ha figli e non ha moglie soffre meno di chi ha il cuore lacerato per l’affetto verso di loro, si potrebbe pensare che, con questo celibato, Dio voglia risparmiare un dolore a Geremia; ma non è così, perché il vissuto del profeta sarà quello di una dolorosa e a volte insopportabile solitudine. Il celibato di Geremia è esplicitamente connesso con il ministero profetico e si può leggere perciò in senso anche positivo. Infatti, nell'ora fatale della catastrofe, per Geremia il celibato deve costituire una parola di Dio per il popolo, un’espressione di questa fedeltà alla parola di Dio che è irrevocabile. Il valore positivo del celibato di Geremia sta nel ricordare, come vita solitaria, proprio l'imminenza del Signore; è inoltre il segno di questo coinvolgimento totale della sua vita con la Parola di cui è portatore. In un certo senso, sia pure al limite, si può vedere nel celibato di Geremia quel taglio escatologico che verrà particolarmente messo in evidenza nel NT. 22 II QUALE CURA PER IL CUORE MALATO? 1. Il "cuore" quale cifra di un’antropologia unitaria La visione antropologica di Geremia, rispetto alle restanti concezioni attestate nei testi biblici, non è particolarmente originale, almeno per quanto attiene alla struttura dell'umano e dei suoi elementi costituitivi. In ogni caso è fondamentale, per intendere il suo messaggio, la sua concezione del "cuore". Se il problema radicale di Geremia sarà discernere la qualità del cuore del popolo di Dio e dell'uomo in generale, anche la speranza non potrà che configurarsi come un cuore nuovo, circonciso, come una "nuova creazione" dell'uomo. Lēb e lēbāb, in senso traslato indicano sia i sentimenti dell'uomo (e anche la loro sede), sia la conoscenza delle capacità di discernimento, e sia infine la libera volontà e i progetti (cf, ad es., Ger 22,17). Il "cuore" abbraccia tutte le dimensioni dell'esistenza umana, proprio in quanto umana, che coincidono con l'uomo stesso e la sua relazione con Dio. Quindi una sostanziale caratteristica che si può rilevare dall'uso biblico, condiviso in tutto da Geremia, è che, a differenza delle nostre lingue, il concetto di cuore nel mondo biblico si riferisce sia all'affettività che all'emotività ed, insieme e primariamente, indica l'attività intellettuale decisionale e di discernimento. Si può comprendere, dunque, che, quando il discorso biblico parla del cuore, non intende l’affettività e l’emotività, ma piuttosto un'intelligenza che si lascia interpellare e che si muove attraverso la volontà ed il corpo. Ne consegue che il cuore è anche la fonte del ricordo, della memoria, è il centro della progettualità e delle scelte decisive. È quindi il cuore il centro della coscienza morale e della decisione di fede, detta anche "cuore aperto", come purtroppo anche della decisione della non-fede, detta anche "cuore indurito". 2. Una progressiva radicalizzazione del pessimismo antropologico 2.1. Appoggio iniziale alla riforma di Giosia Crediamo che i testi geremiani, se letti con la metodologia storico-critica, ci permettano anche di ricostruire una certa evoluzione del suo pensiero, che si mosse in direzione di un "pessimismo antropologico" sempre più accentuato. Forse durante il primo periodo della sua predicazione si allineò agli sforzi di attuazione della riforma di Giosia, con la centralizzazione del culto in Gerusalemme (cf i temi della teologia deuteronomistica: un unico Dio, un solo popolo, un solo santuario). Ma quale fu l'atteggiamento di Geremia nei confronti di questa riforma? Non abbiamo nei testi indicazioni sufficienti per dire chiaramente se Geremia l'abbia appoggiata sul piano politico, tuttavia sembra di poter rilevare una certa concordanza 23 di fondo, nei temi e nei fini della sua predicazione, con la riforma giosiana: la polemica contro l'idolatria, la necessità di una purificazione dagli idoli, l'invito a una rinnovata fedeltà a Dio e all'alleanza. La prima fase della predicazione di Geremia è costituita, infatti, di ammonimenti e rîb [requisitoria di alleanza], in cui predomina il linguaggio familiare, attraverso il quale il profeta vuole far presenti i sentimenti di Dio (Ger 3), di cui egli si fa interprete. Altro motivo di questo primo periodo è l'invito alla conversione e alcune parole di speranza, che si possono collegare forse agli entusiasmi per l'opera di Giosia, che tenta di espandere il regno, riportando il tempo splendido di Davide. Troviamo in alcune parole di Geremia l'eco di tali progetti e delle speranze da essi suscitate circa il rimpatrio dei deportati del Nord per rifare un unico popolo nella terra dei Padri. 2.2. Constatazione del fallimento della riforma di Giosia Già nella predicazione più antica, Geremia si avvicina al vero problema: la riforma del cuore. Questo suppone che diventi chiaro il fallimento sostanziale della riforma giosiana e delle istituzioni politiche e religiose di Giuda e Israele. Più radicalmente la constatazione del fallimento della riforma giosiana è il riconoscere che l'Alleanza del Sinai è a pezzi e che è ormai tardi per potere riparare una realtà che sta per crollare sotto i colpi del peccato: «Molte genti passeranno vicino a questa città e si chiederanno: “Perché il Signore ha trattato in questo modo una città così grande?” E risponderanno: “Perché hanno abbandonato l'alleanza del Signore, loro Dio, hanno adorato e servito altri dei”» (Ger 22,8-9). Il passo presenta formule di chiaro sapore deuteronomista e pertanto la metodologia storico-critica tende ad attribuirlo ai redattori deuteronomisti. Esplicita, però, un pensiero sottinteso a tutte le denunce di Geremia sul fallimento delle varie istituzioni e di una vita religiosa non condotta nella pratica della giustizia sociale (cf il richiamo alla giustizia sociale fatto con le espressioni tipiche della Tôrāh in Ger 22,1ss; Es 22,20-21; 23,9). Il popolo si è dunque dimenticato dell'esodo e del patto e ne ha smarrito un autentico ricordo (Ger 11,1-8): «Maledetto l'uomo che non ascolta le parole di questa alleanza, che io imposi ai vostri padri quando li feci uscire dalla terra d'Egitto, dal crogiolo di ferro, dicendo: “Ascoltate la mia voce ed eseguite quanto vi comando; allora voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ger 11,3-5). In questo processo di dimenticanza nei riguardi del Signore, che ha portato il popolo ad essere tutto una piaga (8,22; 14,17), sono coinvolti tutti. Sono tutti colpevoli dal più piccolo al più grande: «Perché dal piccolo al grande tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna» (Ger 6,13; cf 8,10). Questa defezione generalizzata dall'alleanza coincide con il fallimento delle istituzioni, in quanto istituzioni che devono permettere a Giuda e a quanto rimane di Israele di vivere come popolo di Dio. Geremia presenta allora una lista d’accusati più completa e diversificata che ogni altro libro profetico: re, dignitari, sacerdoti, profeti, sapienti, popolino. Passiamo ora in rassegna questa lista di denunce di fallimento. 24 2.2.1. Fallimento della monarchia Geremia annuncia il fallimento della figura del re e della monarchia davidica, in quanto non sono stati modello d’ordine e giustizia, ma soltanto di sperpero e di oppressione politica ed economica. Il giudizio negativo sulla monarchia non è solamente un giudizio politico contro l’azione oppressiva perseguita da precisi regnanti (cf Ger 22,13-19 contro Ioiakìm; contro Conia in Ger 22,24-30), ma ha un valore teologico in quanto valuta come inefficace un'istituzione che, nella teologia del Sud, aveva assunto un valore quasi sacramentale. Per quanto riguarda poi il giudizio sulla politica seguita dalla corte, Geremia, che dovette confrontarsi con molti re, fu sempre portavoce delle esigenze di Dio e della fede, ma risultò comunque un profeta periferico ed ininfluente rispetto alla maggioranza del popolo ed alla corte nel suo insieme, salvo alcune eccezioni. Vano fu il tentativo ripetuto di far prevalere la saggezza politica rispetto agli egoismi (cf l'alleanza tradita del cap. 34; contro la corruzione: Ger 5,21.28) e ai progetti ambiziosi (cf il palazzo di Ioiakìm il quale, oltre a tutto, aveva già imposto la pesante tassa da destinare al protettore Necao: 2Re 23,35). La politica delle alleanze perseguita da questo monarca fu condannata da Geremia come una fede negli uomini più nel soccorso divino (Ger 2,18.36) e come una sorta di divinizzazione del potere, non meno pericolosa dell’idolatria cultuale. Essa, infatti, genera un falso culto (Ger 7,26) e una smodata fiducia nelle ricchezze e nelle risorse umane. D’altra parte egli dovrà constatare incessantemente che la sua predicazione rimane inascoltata perché essa conta su Dio soltanto: tale principio sembra infatti agli occhi dei più come irresponsabile ed ingenuo. Geremia non è politico, ma nondimeno, per il suo distacco dalle passioni politiche e dalla sete di potere, conserva una grande lungimiranza e un acuto discernimento dei tempi. È la saggezza della fede ciò che permette di restare lucidi e di non cadere nelle illusioni e nelle passioni del potere (Ger 17,5-13). Egli cercava di mantenere vivo il sogno deuteronomico di una società giusta e fraterna che vivesse nell'obbedienza alla volontà di Dio. 2.2.2. Fallimento del progetto di una società fraterna Egli dovette constatare anche il fallimento della fraternità (Ger 9,1ss). Israele non è un popolo di fratelli, ma di traditori. Geremia mette sotto accusa, oltre che il re, anche il popolo di Dio. Questo crollo dell'ideale deuteronomista della fratellanza di Israele e dell'unità del popolo non significherà rinunciare definitivamente ad esso, ma piuttosto affidarlo solamente all'intervento di Dio. Il profeta non pensa affatto ad un nuovo stato o ad una restaurazione monarchica, ma ad una comunità che solo Dio potrà radunare con pastori costituiti da Lui e non voluti dagli uomini, come era successo in 1Sam 8, per i quali c'è il duro giudizio di Ger 23,1-2. Il sogno di un popolo fraterno non deve essere ridotto ad un piano puramente spirituale o morale, e nemmeno ad una restaurazione politica del Regno. Piuttosto sarà 25 l'instaurarsi di una società nuova, senza che alcuna istituzione o persona possa presentarsi come il salvatore5. Analizziamo ora, a modo di esempio, un passo concernente il tema della conoscenza di Dio e della giustizia sociale (Ger 9,1-8). Come stile e come tema risulta abbastanza vicino agli oracoli del poema sul nemico del Nord (4,5-6,30): in particolare l'oracolo di giudizio del v. 8 si ritrova puntualmente in Ger 5,9.29. Il nostro passo è costituito da un oracolo di JHWH, comunicato da Geremia in discorso diretto. È una commistione di accuse contro il popolo e di annuncio del giudizio: il tutto introdotto dal genere del compianto. Il profeta vorrebbe fuggire di fronte al compito che gli è dato da JHWH e di fronte allo scoraggiamento che lo ha preso vedendo l'infedeltà del popolo. Il nostro testo presenta la situazione religiosa del popolo come totalmente degradata e ciò che più impressiona è che non esiste più un'ultima opportunità per cercare di accogliere il perdono divino. Ma vediamo adesso più da vicino il testo in questione. L'introduzione del v.1a richiama in parte le confessioni, dove il profeta ci fa conoscere la sua disperazione, la sua rivolta: anche qui ci fa conoscere il suo scoraggiamento. È sfiduciato a causa del popolo, della sua profonda perversità, e non vorrebbe avere più nulla a che fare con esso. Non è una reazione di tipo teologico, ma passionale, che non deriva da una sorta di freddezza nei confronti del popolo di Dio ma, al contrario, proprio da un profondo attaccamento. Il sentimento del profeta quindi dà corpo al sentimento del Signore stesso, dà espressione al pathos di Dio. L'oracolo di JHWH, che Geremia riporta in discorso diretto, dà la spiegazione di questo avvilimento del profeta. Si inizia con un’accusa globale: sono tutti adulteri ! Evidentemente questo termine non riguarda soltanto l'infedeltà coniugale, ma è un'allusione a tutti quegli atteggiamenti che sono segnati dall’infedeltà ai comandamenti di JHWH, il quale intrattiene con il suo popolo una relazione di tipo sponsale. Ai vv. 2ss si precisa in che cosa il popolo sia veramente colpevole: ciascuno è preso dalla frenesia di imporsi, di diventare sempre più potente. E, per giungere a questo potere il più rapidamente possibile, si ricorre alla menzogna anziché alla verità, cioè a quella sincerità nei rapporti sociali voluta da Dio come momento essenziale nella costruzione di una comunità sociale fraterna. I delitti commessi da Israele sono collegati gli uni agli altri e hanno in comune l'uso menzognero della parola umana. La lingua è quindi utilizzata come un arco teso, pronto a scoccare la freccia della calunnia, della menzogna, della falsa testimonianza. Nella seconda parte del v. 2 troviamo una successiva accusa che si giustappone alla prima: la "non-conoscenza di JHWH". È la mancanza di una veracità nei rapporti sociali che trascina con sé anche l'assenza di una giusta relazione con Dio e quindi una non-conoscenza di Lui. Al v. 3 viene mostrata la gravità della situazione: coloro che si fanno del male e che si scagliano queste parole menzognere non sono degli stranieri ma dei vicini, anzi dei fratelli, in quanto sono "figli di Israele". 5 Il brano sui pastori di Ger 23,1-8 è uno dei pochi testi messianici del profeta e uno dei rari momenti di luce che squarciano la sua esperienza drammatica. Molti commentatori vi vedono una glossa dovuta alla redazione finale. Il suo senso teologico è chiaro: affermare la fedeltà di Dio alle sue promesse (2Sam 7,11ss; cf Ger 30,9) ma sempre in vista della sopravvivenza del popolo. 26 Questa relazione da prossimo a prossimo, da parente a parente, è dunque interrotta dalla lotta per la supremazia, per il potere. Il male è talmente grave che paradossalmente il profeta invita non tanto a ristabilire l'armonia fraterna quanto a provare una sfiducia generalizzata, cioè a dubitare del fratello. Questo non è certamente lo scopo del profeta, ma è una messa in guardia di fronte alla gravità della situazione. Tale ammonimento di fronte alla fiducia riposta nel fratello serve ad introdurre una spiegazione sull'uso mortifero della lingua nella parola umana. È comunque chiara l'affermazione: la profondità del male è tale e la perversione è così radicata che il popolo di Dio non è più capace di tornare a Lui, di convertirsi, e rifiuta di conoscere il Signore. Ecco, rifiuta di conoscere il Signore in quanto rifiuta di accogliere le sue esigenze, promulgate al Sinai, che riguardano in gran parte la vita fraterna, la vita sociale. Al v. 6 viene introdotta la sentenza del Signore; essa richiama l'attività del saggiatore di metalli, che, dopo un esame attento del materiale - cioè del minerale da raffinare -, lo passa nel crogiolo, per liberarlo dalle impurità. Così il giudizio divino sarà la sua misura divina che permetterà di lavorare, di plasmare la massa corrotta del popolo e di preparare un futuro nuovo. L'unica chance possibile quindi è l'attuarsi del giudizio! La serietà dell'affermazione del giudizio porta Geremia a ribadire l'accusa sviluppata precedentemente nel v. 7. La seconda parte del versetto sottolinea il carattere sociale di questi misfatti di Israele. E così il giudizio si conclude al v. 8 con l'oracolo di giudizio propriamente detto, espresso sotto la forma di una domanda retorica per sottolineare come Dio, a malincuore, sia ormai risoluto a castigare il suo popolo indurito, onde manifestargli la propria autorità, visto che questa è l'unica soluzione rimasta. 2.2.3. Il fallimento della Legge Geremia constata anche il fallimento della Legge per l'abuso, per l'interpretazione falsa dei maestri della Legge (cf Ger 8,8-9: la Legge è stata tradita), ma ancora più per la non-osservanza da parte del popolo intero, che si limita a volte ad un’osservanza puramente esteriore, senza circoncidersi davvero il cuore (cf Ger 4,4). La predicazione di Geremia, come quella di altri profeti, denuncia la differenza esistente tra la Legge, quale è intesa da Dio, e l'uso e la comprensione pratica che gli uomini ne fanno. Quasi scoraggiato da questo profondo divario, Geremia rinuncia al sogno di una legge "giusta" non perché il suo sia un rifiuto della Legge, ma perché ritiene che, per una vera armonia tra giustizia e legge, sia necessaria una sana libertà dell'uomo. In questo Geremia richiama la predicazione degli altri profeti sulla giustizia sociale; infatti, esclusivamente la pratica della giustizia sociale coinciderà con il conoscere Dio (Ger 4,22; 5,4-5; 9,1-9; 22,13-17; cf soprattutto Os 4,2). Ma Geremia, ad un certo punto, smette quasi di denunciare situazioni di ingiustizia, non perché non auspichi più una comunità giusta, ma perché la Legge stessa pare impotente ad assicurare questa possibilità. Il fallimento della Legge porta ad una “non-conoscenza di Dio”, che Geremia denunzia come male radicale. Forse l'oracolo che esprime meglio questa denunzia, formulato in linguaggio sapienziale, è quello di Ger 9,23 dove avere intelligenza è 27 conoscere JHWH, quel Signore che fa germogliare sulla terra la sua misericordia, il diritto e la giustizia. Geremia riprende quindi la linea della predicazione di Osea e ne ribadisce i medesimi principi, con un insistito richiamo alla fedeltà dell'alleanza mosaica, che sembra a Geremia, anche se non vi è una formulazione esplicita in questo senso, essere risultata fallimentare, inefficace poiché non ha dato i frutti sperati. Geremia perviene ad una constatazione completamente negativa, poiché riconosce che il popolo è stolto come un bambino che non riflette, che è senza intelligenza e non conosce il suo Dio (Ger 4,22). L'accusa di questa ignoranza nei confronti di Dio - e di conseguenza del fallimento dell'alleanza sinaitica - viene formulata nei termini dell'abbandono del Signore da parte del popolo, della "dimenticanza di JHWH". Questa non-conoscenza è alla radice di tutte le lamentele particolari che gli oracoli di Geremia annunciano e che riguardano l'ambito del culto, della vita sociale, e, in particolare, della giustizia. Certamente il tema della conoscenza di Dio ha una grande importanza nel libro di Geremia, dato che Dio è a sua volta Colui che ha una conoscenza intima del cuore dell'uomo (cf Ger 17,9ss.; 18,23; 48,30). Il profeta stesso si giudica, infatti, come conosciuto da Dio in modo tutto particolare (Ger 1,5; 12,3). Se la conoscenza di Dio è collegata al quadro dell'alleanza promulgata al Sinai non può essere allora semplicemente una sorta d’itinerario intellettuale o mistico, ma piuttosto deve essere un atteggiamento di vita concreta. Analizzando le varie menzioni della “conoscenza di JHWH” in Geremia, si deve constatare che molte di esse rimandano alla giustizia sociale, più che al culto. Gli esempi più significativi riguardano il re Ioiakìm, Ger 22,13-19, e Ger 9,1-8 per le relazioni sociali tra pari a pari; ugualmente impressionante l'inutile appello divino a cercare in tutta Gerusalemme almeno un uomo che difenda il diritto e cerchi di essere fedele (Ger 5,1). Geremia deve allora riconoscere che né il popolino, né i notabili conoscono il cammino di JHWH, il diritto del loro Dio (Ger 5,4ss.). "Conoscere Dio" è in realtà accogliere le esigenze del Dio che si è rivelato al Sinai e vuole essere conosciuto come il Dio che raccoglie un popolo, secondo un progetto di solidarietà, e gli dona un progetto di società giusta e fraterna. C'è una sorta d’equivalenza per Geremia tra «conoscere JHWH» e riconoscere la sua volontà di giustizia in ogni circostanza. “Conoscere JHWH” non è allora semplicemente ricordare alcuni fatti del passato, le tradizioni sulle opere meravigliose nella storia e sulla Legge del Signore, ma è soprattutto impegnarsi nei processi concreti vitali di conversione e di rinnovamento che passano attraverso la ricerca della giustizia. Positivamente, Geremia ricorderà che il padre di Ioiakìm, il re Giosia, conosceva davvero JHWH, perché faceva trionfare la causa dell'umile, del povero (Ger 22,15ss). Quindi la constatazione di Geremia risulta molto amara: «Stolto è il mio popolo: non mi conoscono, sono figli insipienti, senza intelligenza; sono esperti nel fare il male, ma non sanno compiere il bene» (Ger 4,22). Egli deplora il rifiuto ostinato, incomprensibile, di accettare il richiamo di JHWH - che dà l'ultima possibilità di decidersi - non comprendendo la gravità della situazione (Ger 8,4-7). Geremia dunque, al pari della teologia deuteronomista, legge nel rifiuto di «conoscere JHWH » un rifiuto sostanziale delle esigenze dell'alleanza: in ciò sarebbe la causa della fine del regno di Giuda sotto i colpi dei Babilonesi, i quali sono lo strumento del 28 giudizio del Dio d'Israele contro il proprio popolo infedele (Ger 5,5ss.; 9,5-8; 34,1722). La restaurazione del popolo non potrà quindi darsi se non attraverso l'offerta di una conoscenza di Dio, che passi attraverso la conoscenza delle sue esigenze, ed in particolare della giustizia. Questa conoscenza di Dio, intesa in senso concreto, caratterizzerà il tempo della nuova alleanza (Ger 31,34). 2.2.4. Fallimento del profetismo Geremia constata anche il fallimento del profetismo: «Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno vaneggiare, vi annunciano fantasie del loro cuore, non quanto viene dalla bocca del Signore» (Ger 23,9ss; cf anche Ger 14,14ss). Il paese pullula di profeti che si sono autocostituiti e che ai malvagi potenti augurano fortuna e agli ostinati dicono: «Non vi coglierà alcuna sventura!». Essi, circondati di rispetto, abusano della credulità popolare e della dabbenaggine dei tanti stupidi che si credono intelligenti. Sono i numerosi maestri del mondo pseudoreligioso, che vendono le loro facili verità quando manca la vera fede; su di loro cadrà il giudizio inesorabile di Dio: «Ecco, farò loro ingoiare assenzio e bere acque avvelenate» (Ger 23,15). L'ampiezza e la varietà del fatto profetico in Israele e la presenza, ripetutamente denunciata di falsi profeti che esteriormente sembrano mostrarsi come i veri, rendono acuto il problema di distinguere l’autentica profezia dalla falsa profezia. Il libro di Geremia, oltre al libretto contro i falsi profeti e ai vari apprezzamenti ironici riscontrabili qua e là nei suoi oracoli, racconta il conflitto e lo scontro tra il profeta e il falso Anania (Ger 28). Si deve tra l’altro ricordare che nella lingua ebraica manca il termine per designare un "falso profeta": anche dove le nostre traduzioni seguono la versione della LXX, che usa la parola "pseudoprofeta", l'ebraico usa nābî’ [profeta]. Infine, lo stesso profeta può talora interrogarsi sulla verità della propria missione, soprattutto quando incontra difficoltà insormontabili. Un simile dibattito interiore ci è noto nelle cosiddette confessioni di Geremia. Il libro di Geremia, in convergenza con il Deuteronomio o forse in dipendenza da esso, suggerisce alcuni "criteri" relativi sia al messaggio, sia alle persone dei profeti6. Diciamo subito che non si tratta di "criteri" in senso stretto, e che la distinzione proposta non esclude che i due aspetti siano intimamente connessi, in modo che un criterio riguardi a volte il messaggio, a volte la persona. a. Criteri relativi al messaggio La vera profezia deve realizzarsi (cf Dt 18,21-22). O i contemporanei o la storia giudicano della realizzazione di una profezia. Ma talora vere profezie non si sono attuate, almeno così come furono pronunciate. A volte il profeta ricorre a "segni" per confermare la veridicità della sua profezia. La vera profezia deve essere fedele alla tradizione (cf Dt 13,1-4). I profeti veri non rinnegano l'autentica tradizione religiosa. Tuttavia quante novità, cambiamenti, sviluppi nella loro predicazione! Gli oracoli di sventura sono veri, quelli di salvezza esigono la garanzia dell'attuazione. Ma forse questo criterio va formulato - per essere biblico - in questa maniera: i profeti veri 6 Cf W. VOGELS, "Comment discerner le prophète autentique?", in NRT 99(1977), 681-701; W. VOGELS, I profeti. Saggio di teologia biblica, Padova 1994, 109-123. 29 annunciano sempre il giudizio di Dio, che è sventura e salvezza in dipendenza dall'atteggiamento di fede o di infedeltà dell'uomo a Dio (Ger 28,8-9). Verifichiamo queste osservazioni su Ger 28. Dalla disputa tra Geremia ed Anania traspaiono con sufficiente chiarezza i criteri relativi al messaggio per la distinzione della profezia vera dalla falsa e che sono riconducibili a due: la realizzazione a scadenza ravvicinata (Ger 28.2-9.15-17) e la conformità dell'insegnamento profetico, che tuttavia nel testo appare soltanto in filigrana. Nel momento della proposta profetica, il "vero" profeta non ha ancora l'elemento probante della realizzazione delle sue parole. Così ai falsi vaticini degli pseudoprofeti non ha che da opporre la sicurezza della propria missione e la paziente attesa dei fatti. La fedeltà alla dottrina tradizionale sembra, però, comune anche ai falsi profeti, almeno formalmente. In realtà, i falsi profeti seguono la mentalità comune, che fa un uso ideologico delle promesse. Le promesse servono a confermare il popolo nella credenza di un'inviolabilità magica delle istituzioni umane, senza aprirsi in profondità alle esigenze di Dio sul popolo. Il falso profeta è tale perché si arroga una missione che Dio non gli ha dato e perché non discerne il pensiero di Dio nelle varie circostanze dell'esistenza e, soprattutto, nei momenti più importanti della vita nazionale. Così il falso profeta, invece di essere una sorta di direttore spirituale del popolo, smarrendo il vero contatto con Dio (cf Ger 23,18), diviene un semplice professionista del culto e dell'oracolo; da lui non possono che venire miopi vedute umane, consenzienti per lo più con il punto di vista dei potenti e ingannevoli verso chi li consulta. Sempre il capitolo 23 di Geremia ci aiuta a capire la natura della loro infedeltà a Dio. I falsi profeti tendono a strumentalizzare Dio, a ridurre la sua ineffabile trascendenza negli angusti limiti delle proprie aspettative e desideri: «Sono forse Dio solo da vicino? Oracolo del Signore. Non sono Dio anche da lontano?». Le profezie si realizzano non secondo le attese umane, ma secondo un piano noto solo a Dio; il vero profeta ha una coscienza acuta di questa alterità del piano di Dio e ciò è appunto un segno di autenticità. b. Criteri relativi alla persona Non basta che il profeta parli in nome di Dio per essere veramente inviato da Lui; vi sono allora degli indizi riguardanti la sua persona che possono aiutare a stabilirne l’autenticità: a) Il vero profeta è disinteressato, non agisce per desiderio di successo, di denaro o di gloria personale; invece ci sono profeti che «danno oracoli per denaro» (Mi 3,11). Per la ricerca di successo il criterio non è evidentemente facile da evidenziare perché se da una parte è facile cedere alla tentazione di assecondare la gente - cf Ger 29,8: «non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni che essi sognano» -, dall'altra il profeta deve annunciare anche la speranza. Il vero profeta è dunque tale perché vince, grazie alla propria coerenza, la tentazione della falsa profezia, che è una possibilità sempre presente anche per lui. Concretamente il vero profeta deve superare tutta una serie di ostacoli, come il peso sociologico della monarchia - che attira attorno a sé persone disposte a difenderla pur di avere ricompense e gratificazioni -, il peso teologico della tradizione, il peso dell'opinione pubblica, che arriva fino a condizionare i pensieri e i discorsi per un desiderio di compiacenza e di "integrazione" sociale. 30 b) Soprattutto il vero profeta è solidale fino in fondo con il destino del suo popolo: è quest'ultima la vera differenza tra Geremia ed Uria, che pure predicava le medesime cose di Geremia, ma che fuggì in Egitto per salvarsi abbandonando il popolo a se stesso e mostrando così di non essere stato inviato dal Signore (Ger 26,20-23). Come si può facilmente vedere, questi criteri hanno un certo valore, ma non possono essere presi come regole assolute da applicare rigidamente. Nessuno di essi è un criterio totalmente sicuro per discernere un vero da un falso profeta. Tuttavia sembra impossibile ammettere che sia vero profeta quello il cui messaggio o la cui vita personale non corrispondano a nessuno dei criteri enumerati. 2.2.5. Il fallimento del sacerdozio e del Tempio Il profeta denuncia il fallimento del sacerdozio, associato ai falsi profeti (Ger 14,18; 2,8; 6,13-14; 8,10-12). Ma ancor più virulento è l’attacco al simbolo per eccellenza dell’istituzione sacrale: il Tempio. Da istituzione santa, in cui si dovrebbe esprimere la vera fede e il vero culto, diventa spelonca di ladri, fondamento illusorio della speranza di Israele, pretesto per non convertirsi, errore per la fiducia posta nel santuario, in quanto si ragiona così: se il santuario è tra noi, Dio sarà sempre con noi, ci difenderà comunque perché Dio è fedele. Il Tempio diventa giustificazione per la disobbedienza di Israele (cf Ger 7,26). Le istituzioni salvifiche diventano il contrario di ciò che sono, si trasformano in pretesto o causa di infedeltà. Affrontiamo ora questo argomento più analiticamente. Abbiamo prima menzionato brevemente la tematica del fallimento del Tempio come una delle linee portanti della predicazione di Geremia. Orbene, il cap. 7 chiarisce come l’esigenza più profonda dell’alleanza non sia il culto, ma la circoncisione del cuore, il vero rinnovamento interiore. Questo testo riflette un momento tra i più delicati dell’esperienza profetica di Geremia e ci riferisce le linee d’un importante discorso tenuto al Tempio. Dello stesso episodio abbiamo poi una cronistoria in prosa al cap. 26; questo racconto ci permette anche di datare il discorso intorno al 609 a.C. Si badi che esso non è tenuto a pochi responsabili religiosi, ma al popolo intero ed è di tono particolarmente duro e violento. Il luogo scelto è poi di grande rilevanza poiché «il Tempio da luogo del sacrificio si trasforma in autentica “cassa di risonanza” della Parola di Dio, una Parola di condanna e di esecrazione»7. Il testo di Ger 7 è strutturato in modo chiaro, con un’introduzione (vv. 1-2) e un rîb profetico (vv. 3-12) a cui seguono la minaccia e la sentenza (vv. 13-15). Al centro della requisitoria profetica sta il rapporto tra il culto e la giustizia che tanta attenzione aveva già trovato nella predicazione di Amos, Osea, Isaia e Michea. "Siamo di fronte ad un linguaggio vigoroso, possente ed estremamente chiaro, che fa da supporto ad un’analisi rigorosa ed inflessibile. L’obiezione, che costituisce il senso del messaggio è lampante: non basta che il popolo sia eletto da Dio né che il Tempio sia la dimora di Dio. Geremia scaglia con forza una pietra nello stagno delle false sicurezze, delle pretese e delle illusioni. E la pietra che scaglia è la parola di Dio"8. 7 L. ALONSO SCHOEKEL, "La coscienza dell'obiezione. Considerazioni bibliche", in Civiltà Cattolica 3361(1990), 45-51, qui 46. 8 L. ALONSO SCHOKEL, art. cit., 47 31 È la parola di Dio superiore a tutte le istituzioni di Israele ed è totalmente competente nel giudicarle! L’idea paradossale sviluppata da Geremia, non per propria autorità, ma come obiezione che la stessa parola di Dio scaglia sul popolo, è che, per Israele, il culto serve a stare tranquilli in coscienza, e non a cambiare effettivamente la condotta: in particolare il rito dell’Espiazione non serve a emendarsi effettivamente dalle proprie colpe, poiché si affida al puro rito il compito di sconfiggere il peccato, mentre tale vittoria sul peccato deve procedere dalla decisione del cuore e cioè dalla volontà di conversione. Si ha con il culto una sorta d’istanza rituale periodica che permette di pareggiare i conti con Dio e così di ritornare a fare il male. Il profeta si scaglia contro tale circolo vizioso, contro questa mentalità che accoppia disinvoltamente culto ed ingiustizia. È tale legame perverso che la parola del Signore vuole spezzare. In questo capitolo il centro teologico sta proprio nella Parola del Signore che richiama le sette condizioni di fedeltà all’alleanza, con evidenti riferimenti al decalogo, e, in particolare alle sue leggi sociali. L’arringa con le accuse passa - attraverso il ricordo del passato glorioso di Israele irrimediabilmente perduto, di Silo distrutta - alla minaccia concreta per il presente degli ascoltatori. Il climax del discorso è pertanto il v. 14: «io tratterò questo tempio sul quale è invocato il mio nome e in cui confidate, e questo luogo che ho concesso a voi e ai vostri padri, come ho trattato Silo». A questo discorso il redattore deve avere unito tre piccoli oracoli che integrano la medesima tematica, con la constatazione dell'incapacità del popolo di tornare sui propri passi, rendendo così vana l'intercessione del profeta (Ger 7,16-20). Qui il profeta è esortato a non elevare più suppliche per il popolo che ha già deciso di perseverare nella protervia della propria condotta e che, pervicacemente, continua a peccare contro JHWH. Il peccato di Israele qui stigmatizzato è contro il primo comandamento, con il culto di divinità straniere. I vv. 21-28 presentano un altro oracolo dove si denuncia un culto senza fedeltà: «Allora dirai loro: Questo è il popolo che non ascolta la voce del Signore suo Dio né accetta la correzione. La fedeltà è sparita, è stata bandita dalla loro bocca» (Ger 7,28). La negazione del culto non deve, però, essere intesa come assoluta, ma solamente come dialettica, come correttivo di una degenerazione ritualistica della religiosità a scapito dell'impegno etico. Infatti, la predicazione profetica non intende abolire il culto dell'alleanza jahvista, ma affermare che il culto senza giustizia è vuoto e viene meno al suo stesso scopo ultimo, quello di mettere il popolo in comunicazione con la salvezza che viene dal Signore. Il terzo oracolo (vv. 29-34) è più vicino alle tematiche dell'arringa profetica contro il Tempio e di nuovo accusa un culto falso ed illegittimo. Si ricordano i sacrifici umani che venivano praticati nella valle di Ben Hinnon, dove tra i rifiuti si facevano, in un crematorio, anche appunto sacrifici umani, sul tipo delle usanze cananee, per placare l'ira del mondo divino. Per Geremia questo è un abominio ed è un fraintendimento assoluto della volontà del Signore: «Hanno costruito le alture di Tòfet [Braciere], nella valle di Ben-Innòm, per bruciare nel fuoco i loro figli e le loro figlie, cosa che io non avevo mai comandato e che non avevo mai pensato» (v. 31). 32 3. Una diagnosi infausta: il cuore malato "Ci troviamo di fronte ad un panorama che appare particolarmente desolante. Lo sforzo dispiegato attraverso una vasta opera di predicazione della legge, la sistematica riproposta dei contenuti della fede, il rinnovamento liturgico favorito dal ruolo esclusivo del Tempio di Gerusalemme dove prestavano il servizio sacerdoti fedeli e qualificati, la riforma istituzionale promossa dall’autorità regale, tutto questo appariva a Geremia come una maschera che celava la non avvenuta conversione dei cuori. Promossi dall’esterno, questi rimedi non giungevano a modificare la struttura del cuore malato, che rimaneva incapace di capire chi fosse il Signore e di aderire in verità al suo comandamento"9. Tutto questo fa prendere coscienza a Geremia che la conversione è un’impresa disperata e che Giuda ed Israele sono presi da una follia autodistruttiva. Il peccato non è un semplice episodio superficiale, ma è profondamente radicato fino ad essere quasi inestirpabile. Il cuore, che definisce l’interiorità umana nella sua valenza intellettuale, morale e religiosa, è insidiato dalla "menzogna", che per Geremia è la quintessenza del peccato. La conseguenza del peccato è terribile: cuore incirconciso ed incapacità alla conversione. I testi geremiani sulla situazione che si determina a causa del peccato sono veramente numerosi ed assai significativi. Sarebbe, però, errato ritenere che la critica del profeta sia dovuta all’epoca in cui egli vive, quasi questa fosse contrassegnata da una crescita vertiginosa di devianza religiosa ed etica. La predicazione di Geremia risultava così radicale ed esigente per i più da sembrare immotivata come risulta da Ger 16,10: «Quando annuncerai a questo popolo tutte queste cose, ti diranno: “Perché il Signore ha decretato contro di noi questa sventura così grande? Quali iniquità e quali peccati abbiamo commesso contro il Signore, nostro Dio?” Tu allora risponderai loro...». Il fatto è che il discorso di Geremia viene recepito dai più come disfattista, pessimista, in contrapposizione ai discorsi di altri ministri della comunità: sacerdoti, capi, (falsi) profeti. Il discorso di Geremia si presenta come alternativo al loro e diventa tale non in questioni marginali, ma proprio nella sostanza, cioè nel modo di capire l’uomo e la storia. Anche se entrambe le parti desiderano la medesima cosa, la salvezza, divergono invece quanto alla diagnosi del male che minaccia il popolo e alle modalità con cui tale salvezza si compirà. Per Geremia il male è totale in quanto nessuno è esente dal peccato, ma la sua minaccia è ancora più insidiosa poiché, là dove è presente, esso non viene solitamente riconosciuto. La diagnosi spietata che fa della situazione sta proprio nell’assunzione del postulato che il cuore si è indurito a causa del peccato e, a motivo di questo indurimento non può neppure capire di volere il male, né comprendere il perché del castigo. Il messaggio del profeta su questo punto è assai simile all’inizio del Sal 36,2-4: «… nel cuore del malvagio: non c’è paura di Dio davanti ai suoi occhi; perché egli si illude con se stesso, davanti ai suoi occhi, nel non trovare la sua colpa e odiarla. Le sue parole sono cattiveria e inganno, rifiuta di capire, di compiere il bene...». Quindi il popolo peccatore, guidato dai suoi capi accecati, non potrà che deridere le prospettive tenebrose avanzate 9 P. BOVATI, "Conoscenza e giustizia nel profeta Geremia", in PSV 18(1988), 35-47, qui 40-41. 33 dal profeta (cf 2,19; 44,15-19). Sta qui la ragione per la quale il profeta, di fronte alla durezza e all’insipienza del cuore del popolo, che non comprende il bisogno di conversione, non può che scoppiare in pianto (8,23; 13,17; 14,17). È un pianto che, più che amaro sfogo, è una sorta d’ultimo muto invito alla conversione, così come lo sarà il pianto di Gesù su Gerusalemme (Lc 19,41). 3.1. Elementi di una diagnosi Ma vediamo passo dopo passo la diagnosi che Geremia fa del peccato, di fronte al quale la parola diventa pianto muto, ultimo appello alla conversione, richiamo estremo ad approfittare della misericordia divina: - 3,10: «E nonostante questo, la sua perfida sorella Giuda non è ritornata a me con tutto il cuore, ma soltanto con menzogna». Oracolo del Signore. È qui chiara l'esigenza di un cambiamento non superficiale, che non si limiti alla condotta e alle azioni, ma che vada davvero alla radice del problema. Su questo versetto e sul seguente torneremo poi nel commento del prossimo paragrafo. - 3,17: «In quel tempo chiameranno Gerusalemme “Trono del Signore”, e a Gerusalemme tutte le genti si raduneranno nel nome del Signore e non seguiranno più caparbiamente il loro cuore malvagio». - 4,14: «Purifica il tuo cuore dalla malvagità, Gerusalemme perché possa uscirne salva. Fino a quando abiteranno in te i tuoi pensieri d’iniquità?». È un invito pressante a purificare il cuore poiché il castigo (male) che viene su Gerusalemme è motivato dalla malvagità che abita nella città eletta. Il castigo, ancora prima che essere una qualche sventura politica, è un’amarezza del cuore, una lacerazione del cuore (4,18). - 5,23-24: «Ma questo popolo ha un cuore indocile e ribelle; si voltano indietro e se ne vanno, e non dicono in cuor loro: "Temiamo il Signore, nostro Dio,..."» Il cuore, centro delle decisioni, è occupato totalmente dal peccato (cf sul cuore caparbio, malvagio, indocile e ingannevole anche Ger 10,8; 13,10; 15,12; 18,12; 20,12). Il cuore del popolo è ingannevole e fallace come quello dei falsi profeti, il cui discorso ascolta volentieri (Ger 23,26). Il cuore è allora riconosciuto come incirconciso, ossia incapace di vivere nelle esigenze dell'alleanza. In questa situazione si trovano sia Israele sia l'intera umanità: «Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore - nei quali punirò tutti i circoncisi che rimangono non circoncisi: l'Egitto, Giuda, Edòm, gli Ammoniti e i Moabiti e tutti coloro che si radono le tempie, i quali abitano nel deserto, perché tutte queste nazioni e tutta la casa di Israele sono incirconcisi nel cuore» (cf Ger 9,24-25). La generale incirconcisione esprime l'universale bisogno di salvezza dal dominio del peccato. Nei testi degli oracoli sulle nazioni troviamo la denunzia del peccato come superbia del cuore: «Abbiamo udito l'orgoglio di Moàb, il grande orgoglioso, la sua superbia, il suo orgoglio, la sua alterigia, l'altezzosità del suo cuore» (Ger 48,29; cf anche Ger 49,16). Alcuni autori, applicando il metodo storico-critico al libro di Geremia, pensano che forse il profeta, negli oracoli dei primi tempi della sua predicazione, ritenesse il popolo ancora capace di vera conversione; ma certamente dovette ricredersi ben presto e la redazione del libro pone in ogni caso l'accento sugli oracoli - quale che ne sia l'epoca e l'autenticità - che additano nel peccato un problema umanamente insuperabile: «Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore» (Ger 4,4). Il peccato sembra 34 allora una potenza invincibile ad ogni mezzo umano: «il peccato di Giuda è scritto con stilo di ferro, è inciso con punta di diamante sulla tavola del loro cuore e sui corni dei loro altari» (Ger 17,1); «Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce? Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni» (Ger 17,9-10). In Ger 6,7 il profeta parla di Gerusalemme come di una sorgente che, invece di gettare acqua fresca e viva, getta acqua inquinata di veleno e di morte; in Ger 6,10 si parla di orecchio incirconciso, cioè di radicale incapacità di ascoltare la parola del Signore, di obbedire alla sua volontà: «Il loro orecchio non è circonciso, non sono capaci di prestare attenzione». 3.2. Una prognosi infausta Ancora più famoso è l'interrogativo di Ger 13,23 dove è affermata l'impossibilità di cambiare, di convertirsi. Il profeta è sicuro che la malvagità di Gerusalemme sia umanamente incurabile. C'è quasi una seconda natura nel peccatore, per la quale il peccato è la sua nuova pelle, una struttura interna ed esterna indistruttibile: «Può un Etiope cambiare la sua pelle o un leopardo le sue macchie? Allo stesso modo: potrete fare il bene voi abituati a fare il male?». La posizione di Geremia sembra essere all'origine anche della prospettiva del Deuteronomio. Troviamo il medesimo motivo della circoncisione del cuore (mûl) e del cuore incirconciso (‘ārēl): egli parla con grande chiarezza dell'ostinazione del cuore (šerirût lēb: 3,17; 7,24; 9,13; 11,8 ecc...) che fa capire quanto sia difficile per l'uomo l'ascolto della volontà di Dio. Di fronte a tale incapacità a convertirsi, a guarire veramente, il profeta non cade nella tentazione di offrire facili rimedi e consolanti soluzioni: egli lascia che la piaga resti aperta, che la ferita non si cicatrizzi. A differenza di Anania e dei falsi profeti, che pretendono di avere il potere di guarire e consolare il popolo - «Curano alla leggera la ferita della figlia del mio popolo, dicendo:”Pace, pace!, ma pace non c’è » (Ger 8,11) -, egli ha il coraggio di incidere in profondità la piaga, nella consapevolezza che nessun uomo può guarire davvero la ferita del popolo e che soltanto Dio la può risanare e cicatrizzare: Dio è l'unico medico e l'unica medicina. Ma la guarigione che viene da Lui non vuole nascondere la lesione. Piuttosto Egli la guarisce mostrando, attraverso il profeta, tutta la serietà della ferita aperta e l'intensità del dolore che soffre attraverso il profeta: «Per la ferita della figlia del mio popolo sono affranto, sono costernato, l'orrore mi ha preso. Non v’è più balsamo in Gàlaad? Non c'è più nessun medico? Perché non si cicatrizza la ferita della figlia del mio popolo? Chi farà del mio capo una fonte di acqua, dei miei occhi una sorgente di lacrime...» (Ger 8,21-23). La denuncia del male radicale non è l'ultima parola della storia di Dio con il suo popolo ma, proprio perché diventa pianto, è invece segno di un nuovo inizio. Il tempo delle lacrime è un tempo fecondo, perché è la Parola di Dio che si fa sofferenza per il peccatore. Inoltre, l'esperienza delle lacrime, che nell'attuarsi del castigo coinvolge anche Israele (cf Lam 1,1-2), è quella di un rientrare in se stessi, dello spezzarsi di un cuore indurito che finalmente si apre al riconoscimento della propria colpa e si mette in ascolto della parola del Signore. 35 4. È possibile la conversione del cuore? 4.1 Il ritorno impossibile: Ger 3,1-5 Il testo allude alla legislazione sul divorzio di Dt 24,1ss che impedisce ad un uomo di riprendersi la moglie se costei, dopo essere stata ripudiata, è stata moglie, di nuovo ripudiata, di un altro uomo. Sotto forma di domande si vuole interpellare il popolo che è coinvolto nel giudizio bilaterale, e si intende provocare la sua attenzione, suscitando una risposta che dia ragione all'interlocutore (cf Natàn con Davide e l'isaiano canto della vigna con la domanda agli astanti in Is 5,4). Il caso giuridico qui sottoposto all'attenzione dell'uditore è quello di una relazione matrimoniale fallita. L'ascoltatore sa che è giuridicamente inaccettabile ritornare alla situazione del primo matrimonio dopo che, grazie al libello di ripudio, la sposa si è risposata con un altro. Si badi che il testo biblico di Dt 24,4 scrive: «il primo marito, che l'aveva rinviata, non potrà riprenderla per moglie, dopo che lei è stata contaminata, perché sarebbe abominio agli occhi del Signore». Questo sembra portare a concludere che il vincolo d’alleanza tra JHWH ed Israele è definitivamente spezzato, che nulla lo può far di nuovo esistere e che la comunione tra i due non si può più ristabilire. E non sembri azzardato il fatto che si usi l'immagine del ripudio per Dio nei confronti di Israele poiché, pochi versetti dopo, viene espressamente dichiarato tale ripudio (Ger 3,8). La situazione di Israele è ancora più grave, in quanto non si tratta di una donna che si è risposata dopo il ripudio, ed è poi rimasta vedova o è stata di nuovo ripudiata, ma di una donna che ha condotto, prima e dopo il ripudio, una vita dissoluta, di prostituzione sistematica. Il v.1b prospetta l'eventualità che tale donna desideri fare questo ritorno al marito di un tempo, ritorno, però, impossibile giuridicamente: «E tu, che ti sei prostituita con molti amanti, osi tornare da me? Oracolo del Signore». In realtà è Dio, quale sposo di Israele, che desidera tale ritorno, ma sarà purtroppo amaramente deluso, poiché capirà che la sua donna non desidera affatto tornare da Lui, come appare dal v. 7: «E io pensavo: “Dopo che avrà fatto tutto questo tornerà a me”; ma ella non è ritornata...». Non solamente la donna non può accampare alcuna pretesa giuridica per ritornare al marito di un tempo, ma addirittura non lo desidera neppure! Da parte sua il marito è impedito dalla Legge che gli vieta di riprendere con sé la moglie profanata. Restaurare la primitiva comunione risulta perciò umanamente impossibile. 4.2. Ma a Dio tutto è possibile... Ma ciò che è impossibile per gli uomini non è impossibile per l'amore di Dio! Nella relazione tra JHWH ed Israele infatti può succedere che, per l'incredibile amore divino, Dio si riprenda la donna (cioè il popolo) ripudiata, che è diventata la donna di molti altri amanti. Basta che il popolo torni a JHWH e subito Egli è disposto a riprenderlo: «E tu, che ti sei prostituita con molti amanti, osi tornare da me? Oracolo del Signore... E ora gridi verso di me: ”Padre mio, amico della mia giovinezza tu sei! Manterrà egli il rancore per sempre? Conserverà in eterno la sua ira?” » (Ger 3,1.5). Questo può avvenire non per i 36 meriti di Israele, ma solo per la bontà misericordiosa di Dio che desidera intensamente tale ritorno 10. E così Dio invita la ribelle a tornare e a fidarsi del suo amore, che fa cose impossibili. È questo Dio, che perdona e permette con tale perdono ad Israele di convertirsi, Colui che inaugurerà i tempi di una economia nuova. L'antica economia, ormai a pezzi (Ger 22,9), significata dall'arca dell'alleanza, finirà e inizierà un'era segnata dalla presenza del Signore così che l'intera Gerusalemme - cioè tutto il popolo, e non solo l'arca dell'alleanza - sarà consacrata dalla presenza del Signore (Ger 3,1617). Questa epoca sarà segnata dal desiderio di Dio di perdonare e dal desiderio del popolo, generato da questo preveniente desiderio di Dio, di riconoscere le proprie colpe e di ritornare al suo Dio. Si incontrano così due movimenti, quello che parte da Dio che fa tornare il popolo, e l'altro che consiste nella conversione sincera del popolo, il quale finalmente comprende come la salvezza non sia nell'idolatria, ma soltanto nel Signore Dio: «Sui colli si ode una voce, pianto e gemiti degli Israeliti, perché hanno reso tortuose le loro vie, hanno dimenticato il Signore, loro Dio. «Ritornate, figli traviati, io risanerò le vostre ribellioni». «Ecco, noi veniamo a te, perché tu sei il Signore, nostro Dio». Ad Israele è però chiesto di cambiare l’atteggiamento interiore, un mutamento di condotta che ripudi per sempre la prostituzione, cioè una condotta non libera, per mancanza di giustizia o per la pratica idolatrica. Viene richiesto al popolo di assumere come criterio di condotta la misericordia, lo hesed, quale condizione di base dell'alleanza, e di imparare dalla propria storia quanto sia fallimentare il peccato. Si abbozza qui un tentativo di allegoria della vicenda delle due sorelle perverse, Israele e Giuda, che in Ez 23 diventerà la storia di Oolà e Oolibà. Questa richiesta di conversione non è, però, la condizione del perdono, ma il frutto del perdono. Se Israele vorrà tornare al suo Dio, potrà tornare (Ger 3,22-4,1)11! Accanto alla simbolica sponsale si delinea anche l'immagine della relazione filiale con Dio, che viene anch'essa restaurata da questo potente amore di Dio: «Ritornate figli ribelli...». La relazione sponsale dice che l'alleanza è tra due membri adulti e quindi è una relazione stabilita sull'assenso reciproco delle due volontà, mentre la relazione padre - figlio non è fondata sull'assenso reciproco, ma solo sulla gratuità del dono, sull'iniziativa assoluta del Padre-Dio. La relazione sponsale si può perdere, ma la paternità, e tanto più quella di Dio, è fondante e non può mai perdersi. Israele viene dunque esortato a tornare a quel Dio che è indefettibilmente Padre e ad invocare questa paternità. L'invito a ritornare al Signore fa da inclusione ai v. 14 e 22a. I versetti contenuti tra questi due termini sono probabilmente di periodi diversi, per cui si può capire l'alternarsi di accuse e promesse. È qui formulato il tema dominante: l'invito ad Israele a riconoscere la paternità divina su di lui e lo splendore della sua eredità. La conversione non sarà quindi solo un ritorno degli esuli, ma sarà 10 Cf P. BOVATI, "Conoscenza e giustizia nel profeta Geremia", in PSV 18(1988), 35-47. P. Bovati ritiene che l'imperativo (grammaticale) šûbû [«ritornate, figli ribelli»] in 3,22 possa essere inteso "non come una condizione per ottenere il perdono, ma come un annuncio lieto, come un invito a lasciarsi perdonare, come un'offerta di riconciliazione, necessaria dopo il gesto del ripudio, cioè la condanna dell'esilio. Il perdono divino non si deduce come necessità logica dal comportamento umano; solo il Signore può dichiararlo, dicendo «tornate». Cf P. BOVATI, Geremia 1 - 6, dispense del PIB, Roma 2005-2006, 211. 11 37 un ritorno personale al Signore, reso possibile da Lui; questa vicinanza ritrovata permetterà al Signore di operare la guarigione delle ferite inferte dal peccato nel popolo. Se la simbolica sponsale ad un certo punto si interrompe, quella paterna, viceversa, continua in quanto il rapporto con Dio come Padre rimane sempre disponibile ad Israele, al di là di ogni infedeltà. 4.3. La lieta notizia: un nuovo inizio nella libertà divina (Ger 18,1-12) Questa possibilità di un nuovo inizio è in definitiva radicata nell’iniziativa della libertà divina. Di questa libertà divina parla in modo mirabile Ger 18 con il racconto della visita alla bottega del vasaio (Ger 18,1-12). Essa non è una libertà vuota, ma è una signoria che si manifesta nel perseguire il suo piano nella storia che rimane nondimeno anche l'ambito della responsabilità dell'uomo. Ed il suo piano è appunto la guarigione del cuore malato! La comparazione geremiana di Dio con un vasaio, non è una cosa nuova nell'AT e neppure nell'Antico Vicino Oriente [AVO]. La novità sta nel fatto che qui Dio è confrontato con un vasaio che fallisce nel suo lavoro e anche nel fatto che è comparato non a un vasaio generico, ma ad un preciso artigiano, a questo vasaio, osservato mentre lavora. Nel nostro caso Dio è paragonato a un vasaio senza nome, di cui la cosa importante è il lavoro e la vicenda del suo lavoro. Inoltre la seconda metafora presente nel nostro testo è il raffronto della casa d'Israele con il vaso. Ora, se nell'AVO Dio è comparato ad un vasaio, lo è generalmente per descrivere la sua attività creatrice del primo giorno del mondo o dell'umanità, pertanto la sua attività riguarda soltanto l’inizio della storia. Qui invece la sua attività non riguarda la creazione, il cosmo, ma un popolo, e non il primo giorno, ma il corso degli eventi, la storia e una situazione presente collegata al passato che dura tuttora. Ed è la situazione presente che si collega al verbo che descrive per il popolo un’impasse, uno scacco senza avvenire. Questa storia pone una questione al popolo proprio a proposito di Israele stesso, la cui storia con Dio ha qualche cosa di corrotto, di irrimediabilmente distrutto. Così, grazie alla metafora del vaso non riuscito al vasaio, la questione sfocia su un'altra risposta: Dio è davvero capace di fare come questo vasaio, capace di operare come lui dopo il primo giorno della storia, capace di operare nella storia del popolo, che sembra bloccata e senza via d'uscita. In questa metafora il popolo, comparato all'argilla (kaḥōmer), appare come totalmente passivo nelle mani di Dio, e questa passività sottolinea non tanto la mancanza di responsabilità umana, quanto la libera attività di Dio: evidenzia tutto il suo agire. Così ne risulta con forza che, se la storia del rapporto di Dio con il suo popolo sembra essere senza via d'uscita, Dio solo è in grado di agire non tanto per fare un nuovo popolo o un'altra storia, ma per riplasmare questo stesso popolo: partendo dalla medesima argilla sa fare di questa storia fallimentare una storia nuova. Il centro della nostra metafora - più che nell'apprezzamento della qualità dell'argilla e nell'apprezzamento delle qualità del popolo, in ciò che il popolo dovrebbe fare o potrebbe fare - sta dunque nella continuità dell'azione di Dio, che va al di là dello scacco. L'accento cade poi sull'apprezzamento di tale azione: «come gli sembrava bene 38 fare»; in altri termini, egli sa plasmare il suo popolo secondo il proprio progetto, nonostante tutti gli insuccessi. Non si può quindi parlare di impossibilità. Certamente Israele non può nulla, ma tutto è nelle mani di Dio, come l'argilla è tutta nelle mani del vasaio. Allora, anche se il progetto di plasmare questa argilla sfocia in uno scacco bruciante, il vasaio riprende il suo lavoro, lo prosegue come a Lui piace, liberamente, come un artigiano esperto. Importante non è quindi l'argilla, ma ciò che l'artigiano ne fa al di là dei propri fallimenti, cioè ciò che Dio può farne, oltre lo scacco dell'alleanza sinaitica. Come questo vasaio, Dio è capace di partire dal medesimo Israele che è fallito e corrotto, per farne qualcosa d'altro: qui sta la meravigliosa buona novella di questa libertà di Dio, che non è affatto un arbitrio incomprensibile, ma è la libertà della fedeltà! Se i vv. 7-12 non appartengono al racconto primitivo come normalmente si ritiene, essi ne costituiscono nondimeno il commento, sia che siano stati redatti come sviluppo dei vv. 2-6, sia che siano stati accostati secondariamente al nostro testo. In questo commento abbiamo certamente degli spostamenti d'accento che danno valore ad alcuni dettagli del racconto dei vv. 2-6. Innanzi tutto nei vv. 7-10 si opera un'apertura molto significativa in rapporto al racconto. Anzi, nei vv. 7b e 9b si stabilisce un legame con la vocazione di Geremia (Ger 1,10) che corrisponde ad un'apertura a tutte le nazioni. Non è soltanto Israele ad essere interessato da questa azione del vasaio, ma ogni popolo. Tale apertura mette in rilievo la posta in gioco della storia tra Dio e la casa d'Israele. Si noti poi che, nel commento interno al testo di Ger 18,7ss, si mostra l'alternativa tra il negativo (distruzione) ed il positivo (costruzione), mentre il racconto primitivo di Ger 18,2-6 non presenta tale alternativa e annuncia la continuità dell'opera di Dio al di là del negativo, della distruzione, della corruzione, per qualche altra cosa riplasmata secondo il progetto della sua libertà. Questa libertà (cf 18,7-8 e il racconto di vocazione 1,10) è perciò il contrario dell'indifferenza: anzi è il fulcro del pathos di Dio, di un Dio che proprio per questa libertà si fa solidale con il destino del popolo e lo guarirà dalla sua malattia mortale. 39 III LA PASSIONE DEL PROFETA 1. I racconti biografici su Geremia (Ger 26-45) La vita del profeta è un segno (cf Ger 16) del suo servizio alla parola di Dio, servizio che lo porta fino a consumarsi fisicamente per essa, in una vera e propria passione. La via crucis personale del profeta, che trova la sua espressione lirica nelle confessioni di Geremia, viene narrata all'interno della seconda sezione del libro (Ger 26-45). Il materiale si divide chiaramente in un dittico. Il cap. 26 e il cap. 36 si corrispondono l’un l'altro perché entrambi iniziano con la parola di JHWH a Geremia all'epoca di Ioiakìm, mentre i capitoli 37ss si svolgono già al tempo di Sedecìa. In entrambi i casi abbiamo un conflitto con i detentori del potere e con i rappresentanti della religione: al cap. 26 con i sacerdoti e i profeti, mentre al cap. 36 con il re e i funzionari della corte. In tutte e due i casi il profeta corre un rischio serio per la sua vita. La prima tavola del dittico inizia con un attacco programmatico al Tempio, che riprende Ger 7, cui fa seguito un attacco all’ingannevole fiducia posta nei falsi profeti: tali atteggiamenti non possono che sfociare nello scontro con il profeta Ananìa (Ger 28). Il tema dei falsi profeti viene, però, richiamato anche nella lettera di Geremia agli esuli. I cc. 30-33 riprendono alcuni accenni al tema della speranza che la lettera agli esuli proponeva. Ger 30-31 ha un'importanza notevole: il testo è collocato qui perché delinea la speranza di una restaurazione di Israele, di un ritorno e soprattutto di una nuova alleanza, che renda ancora possibile l'avvenire. Ora questo sguardo fiducioso al futuro è offerto al lettore prima che costui debba inoltrarsi nella narrazione del fallimento totale del profeta. Si deve notare che il messaggio di speranza si prolunga nell'acquisto del campo da parte di Geremia, segno carico di attesa di salvezza. Nel cap. 33 segue un’ulteriore raccolta di affermazioni di salvezza in cui vengono ripresi i temi del capitolo 30. Al cap. 34, in contrasto con le parole di salvezza che precedono, si dichiara che esse non varranno per Sedecìa e per i membri delle classi dirigenti poiché tutti loro, infedeli al patto stretto con Dio, si sono rivelate persone menzognere; al contrario i Recabiti, in base alla loro obbedienza esemplare, sia pure a voti umani, staranno sotto la promessa divina. Essi vengono perciò proposti come un esempio di quella fedeltà che purtroppo il popolo non mostra di avere verso la parola di Dio. La seconda tavola del nostro dittico (Ger 36-45) non contiene più affermazioni di salvezza per Giuda e per Israele; ci saranno solo delle promesse di salvezza per EbedMèlec, un funzionario etiope eunuco, e per Barùc al cap. 45. In ogni caso, nella struttura attuale del libro nel TM, e anche nella LXX, il testo della biografia profetica di Ger 36-45 si apre con la menzione di Barùc e si chiude con la menzione di Barùc, colui che scrive sotto dettatura le parole di Geremia e poi le legge in pubblico per lui. 40 Entrambi i testi (Ger 36 e 45) hanno anche la medesima data, il quarto anno di Ioiakìm: è come se la composizione tornasse per così dire al suo inizio. Ora, come si vedrà, il punto veramente centrale nella struttura dei testi di questa seconda parte del libro di Geremia (nel TM) sta nella narrazione del rotolo bruciato dal re in Ger 36. Viene fatto seguire il racconto della prigionia di Geremia, quasi un ventennio dopo, e della sua condanna a morte, fino alla sua inattesa liberazione in occasione della caduta di Gerusalemme. Seguono poi le storie tragiche dell'assassinio di Godolìa e della partenza per l'Egitto di un gruppo di ebrei, che trascinano in ostaggio Geremia: è l'ultima disobbedienza del popolo! Ma qual è il filo conduttore del racconto? Esso va cercato da una parte nell'opposizione incontrata dal profeta nel corso del suo ministero e dall'altra parte nella fedeltà del profeta alla Parola, fino a mettere in gioco tutta la sua vita. Proprio perché il profeta è strettamente collegato alla Parola, il vero e decisivo protagonista in tutti gli episodi riguardanti Geremia è la Parola. Si può quindi parlare a rigore di passione del profeta per la parola di Dio. Il rifiuto nei riguardi di Geremia è però anche rifiuto di Dio, e il fallimento di Geremia è il fallimento di Dio, che tuttavia ricostruirà su questo fallimento totale una nuova iniziativa d'amore. Il grande attore del libro di Geremia, come appare in questi testi, è davvero la parola di Dio. Questo ruolo decisivo della parola-evento è confermato anche da un'osservazione statistica: il termine ebraico dābār appare un settimo delle volte nel libro di Geremia rispetto al resto dell'AT e la forma verbale intensiva (piel) dibber, dalla radice dbr, ricorre un decimo delle volte dell'intero AT. La parola di cui Geremia è portatore è una parola-evento, una parola che opera efficacemente anche quando sembra soccombere, un martello con cui Dio forgia la storia (23,29) e che fa un'irruzione irresistibile nella vita del profeta (15,16): essa è davvero un fuoco divorante (5,14; 23,29; 20,9)! 2. Lettura di Ger 36: la "passione" della Parola di Dio 2.1. Ger 36: un testo chiave Veniamo a Ger 36 capitolo assolutamente fondamentale nel libro12. Si impone all'attenzione del lettore per due ragioni: per l'arte del racconto, che raggiunge qui davvero notevoli vertici, e per il suo contenuto simbolico altamente rivelatore perché in questo capitolo sono poeticamente cifrati il destino di Geremia, il destino della parola di Dio, il destino di Dio nella storia dell'uomo. Si noti che il nostro testo è posto in un ambito ben preciso. Precedentemente si è letto l'episodio dei Recabiti (Ger 35), proposto quale esempio non perché i Giudei ne adottassero il modello di vita, ma affinché imitassero la loro obbedienza alla Parola: come questi erano stati fedeli radicalmente alle prescrizioni date dai loro antenati, così il popolo è paradossalmente infedele alla Parola e alla normativa data da Dio stesso. 12 Cf J. M. ABREGO, Jeremias y el final del reino: lectura sincrónica de Jr 36-45, Valencia 1983; ID., El texto hebreo esctructurado de Jr 36-45, Cuadernos biblicos de la Institution de san Jeronimo 8(1983), 1-49. 41 La costruzione a contrasto serve da sfondo per introdurre il testo inquietante di Geremia 36 sul rotolo bruciato dal re. Nella struttura a dittico dei cc. 26-45 il racconto di Ger 36 non è semplicemente una riedizione di tematiche presenti nel cap. 26, ma è un radicale approfondimento del suo tema. Se al cap. 26 il conflitto tra Parola divina e illusorie parole umane si era evidenziato nel conflitto con i sacerdoti e con i falsi profeti, esso si era però risolto a favore di Geremia, quindi della parola di Dio, per intervento dei funzionari regi; ora, invece, in Ger 36, mentre i funzionari regi reagiscono turbati, il re stesso dimostra purtroppo il suo disprezzo e la sua indifferenza per le parole del profeta, bruciando il rotolo, dopo averlo fatto a pezzi. Sembra qui celebrarsi il trionfo dell'incredulità umana su un Dio che cerca il dialogo con il proprio popolo. Volendo poi apprezzare tutta la portata del racconto e l'effetto che il redattore si aspetta che produca sul lettore, la cosa migliore sarà di leggerlo in sinossi con la storia della scoperta del rotolo della Legge avvenuta per opera di un altro re, il padre di Ioiakìm, Giosia (2Re 22,3-13). In entrambi i casi al centro del libro, nel cuore del racconto, sta un rotolo; in entrambi i casi viene fatta una prima lettura del rotolo e poi una seconda lettura. Ci sono quindi delle corrispondenze e delle diversità. Porre attenzione a queste diversità nelle corrispondenze è cogliere quello che è l'essenziale del messaggio del nostro brano. La struttura del brano è uno splendido trittico: vv. 1-8: ordine di scrivere il rotolo ed esecuzione dell’ordine vv. 9-26: vv. 9-13: nel Tempio davanti ad un popolo che resta muto, sospeso alla decisione regale vv. 14-20: davanti ai dignitari nella stanza del segretario; una certa disponibilità, ma ancora attesa della reazione del re vv. 21-26: nel palazzo d’inverno il re strappa e brucia il rotolo vv. 27-32: nuovo ordine di scrittura e il rotolo viene riscritto con l’aggiunta di altre cose simili. 2.2. Il percorso narrativo Vediamo in primo luogo il cammino della Parola in questo testo, che è l’equivalente della persona del profeta. Il rotolo in se stesso svolge le medesime funzioni del profeta, coincide per molti versi con il profeta. Innanzitutto giunge dove Geremia non può giungere e comunica così la sua predicazione. Il suo contenuto è qualificato come parola del Signore (vv. 4.11), parole di Geremia (v. 10), parole del libro (v. 32). Si può dire che il libro è profeta per missione, in quanto deve indurre alla conversione (v. 3); per vocazione, in quanto è scritto per ordine di JHWH, e per la sua fine drammatica (v. 23). È chiaro il parallelismo tra la carne del profeta e la parola del libro13. Il destino della Parola è di morte e risurrezione. Come i debārîm della Legge al Sinai viene riscritto due volte, perché come allora il peccato ha 13 Si deve notare che il lessema debārîm in modo assoluto compare dieci volte (allusione alle dieci parole della creazione e dei comandamenti?). 42 causato la distruzione delle prime parole! La finale del v. 32 è davvero intrigante: «e vennero aggiunte altre parole simili»; non è precisato chi le aggiunga e con quale criterio si possa dire che sono simili. Il testo riconosce una storia del libro che prescinde da quanto Geremia aveva detto. Al nostro libro profetico preme far notare quest’identità tra il libro riscritto e il primo (28-.32), più che informarci sul contenuto e le sue aggiunte. La vicenda del libro: innanzitutto essa risuona nel cuore del testimone e lì, nel cuore appunto del testimone, viene ascoltata affinché possa poi essere scritta e riscritta. Quindi la Parola pazienta, nella lunga attesa di un tempo opportuno in cui poter risuonare ed essere sinceramente ascoltata nel cuore: «Nel quarto anno di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda, fu rivolta a Geremia da parte del Signore questa parola: «Prendi un rotolo e scrivi..."… Nel quinto anno di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda, nel nono mese, fu indetto un digiuno davanti al Signore per tutto il popolo di Gerusalemme e per tutto il popolo che era venuto dalle città di Giuda a Gerusalemme. Barùc dunque lesse nel rotolo facendo udire a tutto il popolo le parole di Geremia…» (Ger 36,1.9-10). Questa Parola rompe dapprima i limiti del carcere e dello spazio e si diffonde, dilaga, si fa sentire davanti a nuovi uditori in una situazione diversa da quella in cui era stata ispirata la prima volta, cioè davanti al profeta. L'impedimento di Geremia è da intendersi come una privazione della piena libertà di movimento, con un domicilio coatto o con una proibizione di frequentare certi ambienti pubblici, come il Tempio. Ma la parola di Dio non è incatenata! Si tratta d’una Parola che interpella, chiama alla decisione, giudica, anche quando viene sottoposta all’incredulità umana. È una Parola che sottopone a giudizio ogni realtà umana e non si arresta di fronte a nulla, neppure al Tempio, al palazzo, ai sacerdoti, ai re, ai ministri. Dapprima essa incontra il suo primo destinatario, ossia sempre il popolo di Dio che qui pare voler ascoltare, e poi i suoi capi, che in questo momento sembrano ancora disposti all'ascolto. Poi comincia la via crucis di questa Parola sballottata qua e là, quasi la "traduzione" di un prigioniero (si badi come il verbo lāqaḥ ricorra insistente ed allusivo: v. 14 due volte; v. 21 due volte). Infine, vi è una lenta tortura con cui viene lacerata (qāra‘ ) che fa da antitesi con il verbo leggere (qārā’). Il fuoco, in cui viene bruciata striscia per striscia, è una pena infamante, applicata solo per la prostituzione della figlia di un sacerdote (Lv 21,9), per l'incesto di un uomo con la figlia (Lv 20,14) e, secondo Gen 38,24, anche per la donna adultera. Si nota inoltre una riduzione progressiva dell’uditorio del libro: dal popolo, ai dignitari, al re; il libro viene, per così, dire sempre più limitato, nascosto, come devono nascondersi i due responsabili, Geremia e Barùc (v. 19) che alla fine vengono nascosti da Dio stesso! (v. 26). Tutto questo comporta che l’interesse del lettore si sposti sempre più dal contenuto del libro all’esistenza dello stesso libro, alla sua sopravvivenza. È questa che preoccupa sempre di più e, quando esso viene riscritto, ancor più che l’atto della sua lettura - l’atto, cioè, in cui esso fa udire il proprio contenuto - preoccupa la sua esistenza! «Quando verrà riscritto, non è perché sia letto, 43 ma perché esista»14. L’analogia con la vicenda di Geremia è palese: nella parte biografica di Geremia importa, assai più della sua predicazione, la persona stessa di Geremia con la sua vita, la sua tormentata vicenda, il suo difficile destino. Concludendo: il dābār JHWH è il vero protagonista, che parte come in sordina attraverso la dettatura, in luogo nascosto, ma poi viene all'aperto attraverso la sua lettura davanti al popolo, e finalmente sale i piani alti dei palazzi e raggiunge il re; lì però comincia il suo declino! La Parola/libro viene squartata, tagliata lentamente, bruciata ma alla fine rinascerà dalle ceneri più viva e più forte di prima. Soprattutto, non si potrà scongiurarne l'efficacia, poiché Dio vigila per compiere la sua Parola (cf Ger 1,11-12). È in apparenza una parola debole, ma in realtà è forte come il fuoco e più dura del ferro: «La mia parola non è forse come il fuoco - oracolo del Signore - e come un martello che spacca la roccia?» (Ger 23,29). Tutto questo avviene in un confronto drammatico tra la Parola e il re: non più faraone d’Egitto, ma il re di Giuda! La Parola esce, per così dire, dal carcere dove Geremia l'ha dettata, poiché gli era vietato entrare nel Tempio; dal carcere si fa udire nel Tempio, poi giunge nel palazzo, alla fine emergerà in mezzo alle macerie. Questa Parola prefigura la vita del profeta, il quale pure si consumerà, pezzo dopo pezzo, fino allo sfacelo totale, e poi rinascerà, certo in modo nuovo, nella forza della sua parola, della sua testimonianza che ha colpito le generazioni che lo seguono. Egli rinasce in modo vivo ed imperituro. Parola che è figura di quella "Parola fatta carne", che passerà attraverso la morte e ne uscirà, trionfatrice su di essa. 2.3. La lettura e l’ascolto mancato Oltre al motivo guida della sopravvivenza del libro, il testo di Ger 36 si sofferma anche su quello dell’ascolto della parola, della sua ricezione attraverso la lettura, nel nostro caso clamorosamente e dolorosamente deficitaria. Lasciandoci guidare da un articolo di Kabasele Mukenge15 vediamo anzitutto il "tempo" del racconto. Vi è un primo momento, in cui il tempo del racconto fluisce in modo abbastanza omogeneo: viene qualificato come un tempo dell'ascolto prolungato, proprio dal punto di vista della risonanza che ha negli ascoltatori. In un giorno di digiuno pubblico, propizio per incontrare il popolo convenuto al Tempio e per contare su un atteggiamento recettivo favorevole al messaggio, Geremia invia il suo segretario che, senza domande ed esitazioni, obbedisce accettando tutti i rischi. È impressionante la data del v. 9, dove è chiaro che Barùc deve aspettare dei mesi per adempiere l'incarico. E il giorno della sua esecuzione è un giorno freddo. L'inverno può simboleggiare davvero quella mancanza del fuoco dell'amor di Dio, della parola di Dio, nel cuore del popolo e soprattutto del re. Il tempo dell'annunzio è anche il tempo della qualità dei cuori che sono in ascolto. Anche gli "spazi" della lettura del libro non sono senza significato: dalla condizione di carcere, o comunque di segregazione, in cui la Parola irrompe nel cuore di Geremia, allo spazio aperto del cortile del Tempio battuto dal freddo e dalle intemperie, e infine 14 J. M. ABREGO DE LACY, I libri profetici , Introduzione allo studio della Bibbia 4, Paideia, Brescia 1996, 130. 15 A. KABASELE MUKENGE, "Les derniers rois de Juda et la lecture du «Livre». Josias (2R 22-23), Joiaqim (Jr 36) et Jékonias (Ba 1,1-14)",in RTL 30(1999), 11-31. 44 all’abitazione d'inverno con il braciere acceso, dove il re vive mollemente, ignorando la penuria del popolo e la sciagura che lo sovrasta. Quindi gli spazi sono non meno significativi, poiché a questa Parola nulla si sottrae: lo spazio del carcere, lo spazio del popolo nelle sue case, lo spazio del Tempio, lo spazio del palazzo. La politica, la vita familiare, la vita religiosa, la vita di emarginazione, tutto viene coinvolto da questa Parola che chiama a conversione perché conversione e perdono sono un problema di tutti! Deve essere valorizzato quanto afferma la frase di Ger 36,24: «Il re e tutti i suoi ministri non tremarono né si strapparono le vesti all'udire tutte quelle parole». Si può correttamente osservare che, di per sé, lo stracciarsi le vesti non è l’unico gesto penitenziale possibile; ci sono altri segni penitenziali come il cospargersi il capo di cenere o il vestire di sacco. La ragione di tale annotazione sta in un suo richiamo intertestuale con 2Re 22,11, dove la frase appare al positivo. Ger 36 è dunque costruito in modo da fungere visibilmente da parallelo assai contrastante con il racconto del ritrovamento e della lettura del Libro della legge alla presenza di Giosia. Infatti, la reazione degli ascoltatori è totalmente diversa: Giosia, ascoltando le parole contenute nel rotolo della legge, si era strappato le vesti (2Re 22,11.19) e aveva confidato ai suoi consiglieri la volontà di una sincera adesione di fede al Signore per scongiurare la maledizione. Inoltre, dopo aver ascoltato la profetessa Culda, il re Giosia aveva adottato le misure di riforma necessarie per obbedire alle parole del Libro della Legge che gli erano state lette. Invece Ioiakìm, mentre i consiglieri sono colpiti dalla lettura del rotolo da parte di Barùc (Ger 36,13-16), si mostra indifferente e non presta ascolto neppure agli ammonimenti dei suoi funzionari di corte (v. 25); questo versetto esprime molto bene il contrasto: «Eppure Elnatàn, Delaià e Ghemarià avevano supplicato il re di non bruciare il rotolo, ma egli non diede loro ascolto». La contrapposizione tra Sedecìa e Giosia non fa che riprendere quello che appariva già nella prima parte, negli oracoli di Geremia sulla contrapposizione tra Ioiakìm e Giosia (Ger 22,16-19). La sorte della Parola di Dio raffigura la sorte del profeta o meglio, si prolunga nella sorte del profeta. Sarebbe interessante anche studiare il fenomeno dell’intertestualità, raffrontando tre episodi biblici della lettura del libro da parte degli ultimi re di Giuda: Giosia (2Re 2223), Ioiakìm (Ger 36), Iekonìa (Bar 1,1-14). 2.4. Il profeta e la parola: identità di destino La vita del profeta è in funzione di questa Parola, le dà un tramite concreto, le dà, per così dire, forma. Così la passione della Parola diventerà la passione di Geremia, che viene "nascosto dal Signore", cioè si mette in salvo con Barùc, forse grazie all'intervento di qualche cortigiano impressionato dalla lettura del libro. È una Parola che poi, se è distrutta, rimane conservata nella memoria: è stata memorizzata e ritorna ad essere ridetta e riscritta. La figura del profeta, che fa tesoro di questa Parola per poterla ridire di nuovo, è anche quella del discepolo il quale, di fronte alla parola di Dio, è chiamato appunto a memorizzarla, a farla diventare ricchezza del cuore, forma della sua stessa vita perché essa rinasca nuova in lui. Il profeta farà in modo che venga 45 riscritta, anche se ciò gli causerà una sequenza di sofferenze che lo porterà vicino alla morte: ma proprio in questa Parola il profeta ha la sua vera sopravvivenza. Come questa Parola annientata risorge nella memoria di Geremia, che morirà deportato dai suoi fratelli, così il profeta rimarrà nella memoria di quel popolo che durante la sua vita l'aveva ascoltato raramente e con molte resistenze La promessa di Dio a Geremia - «Io sono con te per salvarti» (cf Ger 1,15,20; 1,18-19) - si può cogliere non tanto nei momenti felici in cui il profeta esperimenta la bellezza della Parola, ma in tutta l'intera vicenda ed in particolare nelle esperienze singolari dell’intervento liberatore di Dio. Certamente, è una Parola che suscita l'odio, così la distruzione del rotolo per mezzo del fuoco dice chiaramente il rifiuto violento che il cuore malvagio prova di fronte a una Parola che lo interpella; questa violenza, questa assurdità, questa ottusità della reazione contrastano con il silenzio sui sentimenti di Geremia in tale circostanza. È vero che non è usanza dei redattori biblici interessarsi alla psicologia del personaggio, ma impressiona comunque il fatto che non si segnali proprio nessun tipo di risentimento da parte di Geremia. Anche se possiamo immaginare come per il profeta questo momento sia stato doloroso, la sua non-reazione sottolinea non solo la docilità, ma anche la certezza profonda che la Parola di Dio, nonostante tutti gli insuccessi, alla fine vincerà; egli è tanto identificato con questa Parola che quasi le sue reazioni personali, le risonanze del suo cuore, contano ormai poco, poiché quello che importa è proprio soltanto il destino della Parola. Leggendo il testo in una prospettiva canonica risulta che se nelle "confessioni" Geremia correva ancora il rischio del risentimento ed era di fronte alla prova dell'angoscia della fede, ora è invece totalmente abbandonato a Dio, identificato con il destino della Parola. È una Parola che si vorrebbe poter bloccare, ma che invece non può mai essere imprigionata (2Tm 2,9)! 3. La vita consegnata (Ger 37-39) 3.1. Una parola per il re (37,1-10) Comincia la narrazione della "passione di Geremia", che è verosimilmente da riferire ad una cronaca scribale, ed è da affiancare alle pagine bibliche sulla sofferenza innocente. Queste pagine sono aperte dal racconto della passione del rotolo profetico, tagliato e bruciato dal re Ioiakìm. Una volta che la Parola è stata eliminata dalla vita religiosa di Giuda, veniamo informati dei diversi eventi che portano non solo all’eliminazione del messaggero della Parola stessa (Ger 37-45), ma anche della sua sopravvivenza nella figura del testimone (Ger 45). Al c. 32, Geremia era mostrato in prigione: prigioniero della speranza. Ora ci viene descritto come il testimone sofferente. Il sipario si alza e presenta i protagonisti dell’atto finale: Sedecìa (il cui nome era Mattanìa), figlio di Giosia, e quindi fratello di Ioiakìm; Iekonìa esce di scena. Si noti che il monarca è di stirpe davidica e quindi sarebbe erede della promessa, ma sta sul trono non per grazia di Dio, ma solo per grazia dell’imperatore babilonese. Si pone pertanto davvero il problema della legittimità di questa monarchia. Da una parte sembra legittima in quanto discende dalla linea davidica, dall’altra non sembra tale, 46 poiché rappresenta un potere straniero. Allora il problema posto è quello del potere, è il problema di chi, in Israele, rappresenti veramente la regalità di Dio. Si noti che viene usato il verbo mālak [regnare] nella forma hiphil, ma non è precisato da chi: chi lo fa regnare? Dio, oppure semplicemente gli uomini? Ecco la tensione. I vv. 1-12 ci parlano quindi di questo scontro di poteri tra due forze: da una parte il re, i ministri e il "popolo della terra", dall’altro il profeta armato soltanto della parola di Dio, di quella Parola che avrebbe dovuto essere per l’edificazione. Ma purtroppo il non-ascolto caratterizza sia la monarchia sia tutto il suo entourage. Tale non-ascolto richiama quindi i cc. 34-35-36,25, con una sorta di sequenza di episodi, appunto, di non-ascolto. E allora il v. 2 è davvero il versetto programmatico; eppure un motivo d’ascolto ci sarebbe stato: la deportazione di Ioiakìm (o Conìa), che potrebbe essere un evento da ascoltare per un monito, per convertirsi. Ma anche questo resta inascoltato, perciò la sofferenza di Ioiakìm sembra inutile. Nel racconto della vocazione ricordiamo che Geremia aveva ricevuto poteri sui re: ora si compie l’oracolo. Il profeta è di fronte al re, e questo scontro sarà per sradicare o per edificare. Dipenderà soltanto dalla parola di Dio. Per quanto riguarda il contesto storico, si parla dell’assedio o, meglio, del momento in cui esso è stato temporaneamente tolto. Il carattere di Sedecìa, che qui emerge, è un carattere complesso. Più che quello di un uomo cattivo, monolitico, come lo era stato Ioiakìm nella sua cattiveria, è quello di una persona velleitaria, vuota; alla sua ribellione ostinata si contrappone una fedeltà a tutta prova da parte di Geremia. Certo, costui potrà essere assalito anche da dubbi, da tormenti interiori, ma quando si pronuncia pubblicamente è coerente, inflessibile, chiaro: i profeti di salvezza hanno senza dubbio fallito. L’analisi della situazione non può che portare ad una conclusione: è in atto il giudizio divino e l’unico modo di atteggiarsi di fronte ad esso è la conversione. Al contrario c’è la figura di Sedecìa, una figura tragica. Egli è come attratto da Geremia, calamitato verso di lui, ma nel contempo non ha mai energia per accoglierne le esigenze; non ha mai la coerenza per rispondere alla voce del profeta. Ha un carattere inconsistente, che potrebbe sembrare meno nocivo di quello di Ioiakìm, eppure l’esito sarà, paradossalmente, lo stesso. Anzi, sarà ancora più grave, perché la vacuità di questo re causerà la catastrofe per tutto il popolo. Vediamo al v. 5 la notizia militare, che chiarisce le condizioni del tentativo di Geremia di lasciare la città: è il momento in cui l’assedio è stato tolto perché i babilonesi devono rispondere prontamente alle mosse di Faraone, uscito dai propri confini. Questo potrebbe far sperare agli assediati una fine dell’assedio stesso o, in ogni caso, una tregua, una pausa di sollievo. L’oracolo è stato richiesto da Sedecìa e quindi la sua non accettazione aggrava ancora di più la non disponibilità (v. 7). Il non-ascolto del v. 2 è un’eco di Ger 36,25, che rende inutile il sacrificio personale di Conìa. A Geremia viene richiesto di pregare il Signore per ottenere l’oracolo: si ricordi che per altre cose a Geremia era stata proibita ogni intercessione che occultasse la serietà del male, da cui il popolo di Dio può guarire soltanto per opera di Dio stesso (cf Ger 7,16;11,14;14,11). Ancora una volta l’oracolo di Geremia vuole togliere ogni illusione nell’intervento egiziano. È utile leggere tale episodio in un’ottica di intertestualità con Is 37, il racconto della liberazione di Gerusalemme dall’assedio posto da Sennàcherib. 47 Ebbene, il v. 5 avrebbe potuto essere interpretato come una sorta di riedizione di una situazione già vissuta da Gerusalemme quando l’assedio fu tolto (cf Is 37,37). In questo contesto s’inquadrerebbe bene anche la liberazione degli schiavi (cf 34) poi dolorosamente revocata. Ma la salvezza non viene dagli uomini, e non certo dall’Egitto: essa giunge soltanto dal Signore. In Isaia, al servizio del Signore era la peste che faceva togliere l’assedio! Pertanto unicamente l’ascolto sincero e obbediente che diventa conversione, può apportare la salvezza! L’oracolo di Geremia non incoraggia, ma piuttosto sfata le varie illusioni. Il profeta appare quindi come un lottatore che si batte contro la forza di falsi miraggi. E qui c’è un altro richiamo ad Isaia, allorché il gran coppiere dell’Assiria invitava a non porre false illusioni nel re di Gerusalemme, ma poi inciampava dicendo che non ci si doveva affidare neppure al Dio di Ezechìa, e cioè ad JHWH (cf Is 36,14.18). Adesso invece è il profeta che invita a non nutrire facili illusioni, a non ricercare futili sicurezze, a non trovare rifugio in ciò che non può offrire rifugio (Ger 37,9; cf Ger 29,8). Contro questa vana speranza, contro ogni irrealistica presunzione di salvezza, ecco che Geremia prospetta la visione terrificante – dal punto di vista letterario molto efficace, molto bella – di un esercito di morti e di feriti che si solleva dalle proprie tende e distrugge la città di Gerusalemme. Il castigo è inesorabile, non bisogna illudersi! 3.2. Geremia imprigionato (37,11-21) Geremia cerca di uscire dalla città (v. 11). Ger 37,12 è un testo delicato per la traduzione. Il verbo ḥālaq significa "dividere, spartire". Che cosa va quindi a fare Geremia in Anatòt nella terra di Beniamino ? A fare le "porzioni", a dividere la sua eredità. È ragionevole pensare quindi a Ger 32, anche se evidentemente ci sono alcuni problemi storico-critici, come il fatto che là sia in prigione e qui sia libero. Ma la problematicità sul piano della ricostruzione storico-critica non deve impedire di riconoscere un legame tra questi due capitoli. Geremia, che ha comprato a caro prezzo la speranza, va a spartire l’eredità con i suoi fratelli (cf Pr 17,2). Allora Geremia vuole, per così dire, rendere chiara la speranza al popolo, alla sua gente; intende in tal modo richiamare Giosia che spartiva le terre, il cui gesto però fu offuscato dall’ingiustizia di secoli, durante i quali le terre vennero alienate, vendute contro la Legge. Geremia pone davvero un atto di speranza per il futuro; egli certo non spartisce per sé o per quei discendenti che non ha: divide le porzioni per i suoi, ossia per il suo popolo (betôk hā‘ām), spartisce il simbolo dell’eredità, la terra appena riscattata! C’è sempre uno più papista del papa e più realista del re: una guardia, posta alle porte della città, accusa Geremia di disfattismo e di voler passare al nemico (v. 13). Così, il nostro povero profeta, non creduto, viene arrestato, fustigato, incarcerato dopo essere stato consegnato ai capi. Comincia qui la lunga sequenza con la persecuzione del profeta, gettato nelle segrete e nelle cantine: il tempo che passa, il buio, il freddo, la morte vicina. È interessante notare come il narratore presenti la lunga detenzione di Geremia nella prigione in modo laconico in due sole parole: molti giorni. In contrasto con la figura del profeta sofferente, ecco l’ambiguo ritratto di Sedecìa, colui che è 48 tragicamente debole. Egli mostra un atteggiamento infantile, sembra giocare irresponsabilmente a nascondino, per non prendersi le proprie responsabilità: «Il re Sedecìa mandò a prenderlo e lo interrogò in casa sua, di nascosto…» (v. 17). Ecco l’ambiguità di un re che vive nel palazzo, ma che paradossalmente è prigioniero dei suoi dignitari. Così pure è paradossale lo stato del profeta, che è realmente prigioniero, ma ciononostante è profondamente libero. L’enfasi del nostro racconto – come poi si vedrà anche nel c. 38 – è su quella modalità segreta dell’incontro. Quella di Sedecìa è una figura che si caratterizza proprio per non voler venire mai alla luce, per non prendere mai una decisione chiara, responsabile, pubblica; è una figura che si delinea per la sua debolezza, per la sua contraddittorietà che produce soltanto gesti meschini e futili. Lo scambio dialogico tra i due personaggi è davvero curioso. Sedecìa sembra da una parte tenere in conto il profeta in quanto tale, e dall’altra ignora regolarmente ciò che il profeta gli dice. Ecco la contraddittorietà di questo tragico personaggio. A questo punto muta il centro dell’attenzione della voce narrativa (v.18). Il profeta si rivolge al re quale istanza suprema del potere giudiziario e protesta la propria innocenza. È stato condannato senza che gli venisse rivolta una precisa accusa, come invece accadrà in Ger 38,4 e tuttavia anche allora non gli verrà fatto un processo formale, per cui si verificherà ancora un non-rispetto della giustizia. La sua arringa potrebbe prevedere anche di passare al contrattacco: dove sono finiti i profeti di salvezza? La loro parola è stata dichiarata falsa dagli eventi, è stata sconfessata dai fatti, i quali non fanno invece che confermare la veridicità di Geremia e la sua innocenza. Geremia, al contrario, si limita a chiedere di poter almeno evitare la casa di Giònata, perché questo per lui significherebbe la morte certa (v. 20). Intanto sono smascherati gli attori nascosti della persecuzione contro il profeta: i falsi profeti. Il re, che dovrebbe amministrare la giustizia, facendo trionfare la verità poiché «è gloria del re investigare le cose», non lo fa. A lui Geremia presenta una supplica personale (teḥinnātî ), una richiesta di grazia, mentre sarebbe suo diritto venir liberato e riconosciuto ufficialmente come vero profeta. Come al solito, però, il re non percorre mai la strada fino in fondo, ma si ferma sempre a metà. Salva la vita del profeta, ma non lo fa liberare; gli dà nutrimento, ma non lo lascia libero. Notiamo così ancora una volta l’atteggiamento di contraddittorietà del re, che è prigioniero delle pressioni dei dignitari, del folle partito nazionalista. E così Geremia resta nel cortile delle guardie. Un po’ di pane arriva per lui dalla via dei Fornai. In questo scorgiamo realizzarsi ancora una volta la promessa della sua vocazione, di un’assistenza divina sul profeta perseguitato: «Io sono con te per salvarti». 3.3. Nella fossa (Ger 38,1-6) In Ger 38 Gerusalemme è presentata ancora una volta come assediata dai babilonesi. Si può dedurre che i dignitari (v. 4) agissero in accordo con la classe sacerdotale e che godessero di buoni appoggi anche in ambito regale (cf la cisterna, che apparteneva a un familiare del re, forse allo stesso padre di Pašḥûr, v. 6). Le parole che costituiscono l’atto d’accusa contro Geremia sono quelle che concludono il messaggio già pronunciato dal profeta di fronte a Pašḥûr e a Sofonia (cf Ger 21,1–10). 49 In tale occasione era stata indicata però la possibilità di scelta tra due vie, quella che conduceva alla vita e quella che portava alla morte (cf 21,8). La frase riecheggia l’indicazione di Dio in Dt 30,15-20. Secondo questo passo deuteronomico, scegliendo di «amare il Signore e di osservare i suoi ordini», vi è la possibilità per il popolo di vivere e di rimanere sulla propria terra, mentre il contrario porterebbe all’allontanamento dal suolo donato da JHWH. Geremia scorge in questo difficile momento storico l’applicazione pratica dell’ammonimento divino: il rimanere in vita e su quella terra dipendono dall’obbedienza alla volontà di Dio. Ora il profeta ha più volte ribadito che essa consiste nel piegarsi di fronte ai babilonesi e nel riconoscere che il Signore ha temporaneamente dato il potere universale a Nabucodònosor. Secondo i dignitari e il partito nazionalista, invece, il bene per il popolo passa attraverso la resistenza e non la resa. Anche gli oppositori di Geremia potevano leggere la storia per trarne un ammaestramento. Per esempio, vi era l’indicazione di un profeta come Isaia che aveva invitato il suo re a non dubitare dell’appoggio di Dio, anche di fronte a Gerusalemme assediata, perché nulla di male sarebbe potuto accadere a un popolo che traeva la sua stessa ragione d’esistenza dal fatto di avere fede nel Signore (cf Isaia 7,1-9, particolarmente v. 7b). Vi era però anche un altro ammonimento che proveniva da una lettura teologica della storia: la caduta del regno del Nord come segno del giudizio di Dio a causa dei peccati d’Israele. Gli stessi peccati ora erano imputati al regno del Sud - che non aveva tratto insegnamento dalla storia e non si era convertito - e la punizione consisteva nell’essere vinti e nel rimanere sottomessi ai babilonesi. A parte la valutazione di Ananìa, che riteneva già scontata la punizione con la prima caduta di Gerusalemme, si può notare come anche la lettura teologica della storia avesse potuto portare ad assumere due atteggiamenti opposti. I dignitari avevano ben chiaro ciò che fosse il bene per il popolo, ovvero la linea del loro partito, e pensavano che Geremia operasse per il male (v. 4). Per questo motivo egli andava eliminato. Era comunque necessaria l’approvazione del re, e Sedecìa era troppo debole per potersi opporre, come fu costretto ad ammettere lui stesso (v. 5). Egli era stato messo sul trono dai babilonesi, ma non si fidava del partito che a loro si richiamava (cf 38,19); nello stesso tempo era pressato dall’altra fazione che contava molti aderenti nei circoli sacerdotali e di corte. Probabilmente vi era una certa remora nel colpire un “uomo di Dio”: Geremia era stato comunque riconosciuto tale (cf 26,1-6). Oppure vi era il timore di suscitare l’ira dei potenti personaggi che lo proteggevano, quelli che già avevano costituito la cerchia intorno al re Giosia: soprattutto Achikàm figlio di Šafàn (cf 26,24; cf 2 Re 22,3-14), la sua famiglia e la gente di Chelkià (cf Ger 29,3; 36,10-12.25; 39,14; 40,5). In ogni caso, Geremia non viene ucciso, ma lasciato morire: si tratta di un misero espediente per non sporcarsi le mani! Nella cisterna dove viene calato il profeta non c’è acqua, ma soltanto melma; tale situazione ricorda quella di Giuseppe (cf Gen 37,24). Si noti che simbolicamente il fango indica nella Bibbia una situazione di pericolo mortale (cf Sal 69,3.15), o addirittura funge da sinonimo della morte stessa (cf Sal 40,3). 50 3.4. Uno straniero in favore di Geremia (Ger 38,7-13) Cerchiamo di sottoporre ad un’analisi questi testi geremiani con attenzione all’arte narrativa qui messa in atto, ossia al modo con cui il narratore esercita il suo potere sulla narrazione portando i lettori a percepire i dati attraverso il filtro dei suoi giudizi e dei suoi apprezzamenti. Non c’interessa qui una ricerca storica, perché non è nostro obiettivo apprezzare il valore storico dei testi, ma attualizzarne al massimo le virtualità narrative; dovremo consentire alla narrazione di dare ciò che la sua composizione stilistica le consente di offrire al lettore. Il narratore opera selezioni precise: non ci racconta nulla sulle reazioni degli avversari di Geremia, dopo che questi è stato fatto sprofondare nel fango del pozzo, e neppure delle reazioni della gente. Segue invece un altro filo narrativo. Allora è importante notare l’intrigo dei cc. 38-39. Un certo apprezzamento va anche al fenomeno della synkrisis: la figura di Sedecìa è costruita in modo da essere il doppio negativo (una sorta di gemello nero) di Geremia. Bisognerà saper valutare questo parallelismo e proprio i momenti d’incontro tra i due personaggi mostreranno al lettore trasformazioni decisive. Ma ancor più che la successione degli eventi, è la scelta narratologica che deve sorprendere. La rapidissima descrizione di Geremia che sprofonda nel fango è simile per la sua laconicità a quella di Ger 37,16: «Geremia entrò in una cisterna sotterranea a volta e rimase là molti giorni». Il lettore vorrebbe sapere qualcosa del mondo interiore di Geremia, udire una sua preghiera o una sua rimostranza rivolta ad JHWH, ma si deve arrestare di fronte a questo silenzio, che rende la prova ancora più grave e misteriosa. Dove è Dio in questi "molti giorni"? La figura del personaggio di Ebed-Mèlec si inserisce tra i due, Geremia e Sedecìa, e si carica della funzione di rimando a Colui che sta tessendo tutta la vicenda, JHWH. Nell’organizzazione della materia appare poi di grande interesse la scelta stilistica di non avere collocato subito l’oracolo di salvezza ad Ebed-Mèlec, secondo la sequenza cronologica, ma sotto forma di un’analessi, collocata nel quadro del momento più tragico della catastrofe, ossia alla caduta della città. Di questo schiavo nero, chiamato qui Ebed-Mèlec, il kushita, non si hanno particolari notizie: si tratta di un alto funzionario di corte (eunuco) - appartenente al disprezzato popolo dei kushiti (cf Am 9,7), a sud dell’Egitto (cf 2Re 19,9) -, che per tale carica poteva rivolgersi direttamente e liberamente al re. L’essere "eunuco" può valere quale titolo per indicare la sua funzione burocratica, o come indicazione di una situazione fisiologica. Non si sa neppure per quale gruppo parteggiasse: infatti, nel suo intervento presso Sedecìa egli non fa alcun riferimento politico, né generale né particolare, riguardo al profeta Geremia. Egli sembra mosso esclusivamente da un senso di giustizia e di pietà. La giustizia alla quale fa appello è quella amministrata dal re: si reca, infatti, da lui proprio nel momento in cui il sovrano sta svolgendo il compito di giudice presso la porta Nuova, la porta di Beniamino (v.7; cf Ger 20,7; 37,13), sul lato nord delle mura di Gerusalemme. L’etiope non entra in questioni giuridiche, ma si limita a far notare il trattamento disumano cui è stato sottoposto il profeta: su di lui non era stata pronunciata 51 ufficialmente nessuna condanna a morte, ma l’averlo gettato in una cisterna significava, di fatto, ucciderlo. Cerca di impietosire il re prospettandogli la situazione precaria del prigioniero, che è privo di cibo e che rischia di morire per inedia, dimenticato da tutti. Già non vi era più pane in città (v. 9, cf 37,21) e la morte per fame sarebbe presto sopraggiunta, se Geremia non fosse stato rapidamente estratto dalla cisterna. L’accusa è rivolta contro «quegli uomini» senza pronunciare esattamente i nomi: il re doveva conoscerli bene, ma qual era la posizione di Sedecìa? Anch’egli faceva parte di coloro che «si sono comportati male»? Facendo riferimento al colloquio riportato pochi versetti prima (v. 5), potrebbe sembrare di sì: lasciando mano libera ai nemici di Geremia, il re non avrebbe potuto non intuire cosa significasse «eliminarlo» (v. 4). Dalla reazione di Sedecia, che prontamente concede a Ebed-Mèlec di tirar fuori dalla cisterna Geremia prima che vi muoia (v. 10), si può, però, presupporre che il re abbia creduto - o meglio abbia voluto credere - che il provvedimento contro il profeta fosse l’incarcerazione in una cella isolata, dalla quale non avrebbe più potuto parlare al popolo, né fare così quell’opera di destabilizzazione di cui era stato accusato. In tal caso, si sarebbe trattato, però, di un ritorno alla situazione precedente (cf 37,15-16), da cui lo stesso re lo aveva tratto, confinandolo nell’atrio della prigione e assicurandogli il cibo (cf 37,21). Eppure, il re aveva sentito dallo stesso Geremia che quella prigione avrebbe significato morte sicura per lui! Vi è una sorta di gioco a nascondino che il re persegue anche con se stesso, con la propria coscienza, un non voler sapere, forse per non aver rimorsi. Comunque, l’appello al re, che è descritto nel suo ruolo di giudice, ha l’effetto sperato e, in qualche modo, riscatta sia pur parzialmente (e soltanto temporaneamente) la figura dell’imbelle ed indeciso sovrano: provoca in lui un sentimento di giustizia. Peraltro, bisogna notare che il narratore continua ad adottare, conformemente ad un procedimento narrativo assai frequente nella Bibbia, la focalizzazione esterna, quella “visione dal di fuori” che rappresenta gli atti e le parole dei protagonisti, ma tace sui loro sentimenti. Questi devono essere indovinati dal lettore da alcuni dati esterni, oggettivi. Paradossalmente gli si richiede così un maggiore coinvolgimento creativo, facilitato proprio dalla discrezione del narratore. Se nel re vi è un sussulto del sentimento di giustizia, in Ebed-Mèlec vi è la pietà: la pietà per la sorte di Geremia. Egli non esita a intercedere per la sua salvezza, forse anche rischiando di persona: non si poteva conoscere la reazione del re, dal momento che l’etiope implicitamente lo aveva accusato d’essere connivente con chi voleva la morte del profeta!. La pietà si esprime anche in un piccolo gesto, come quello di prendere «stracci e panni vecchi» (vv. 11-12) e di lanciarli a Geremia, per evitare che il suo debole corpo rimanesse piagato durante l’operazione di recupero. Sarebbe stato, infatti, necessario tirarlo su di peso, perché il profeta non aveva certo la forza di aggrapparsi alle corde e di issarsi da solo. Si può notare la scelta del narratore nelle asincronie o variazioni del tempo narrativo. In tre parole è racchiuso un tempo costituito probabilmente da vari giorni trascorsi nel pozzo; ora invece il tempo del raccontare rallenta: più il momento cruciale si avvicina, più la narrazione ritarda la conclusione. L’attenzione è rivolta a questi semplici gesti del recuperare stracci vecchi e cordame, e al momento delicato del salvataggio dello sfinito profeta. Si evidenzia così 52 una pietà che si fa concreta e che sostanzia gesti e premure, senza ridursi ad un impalpabile e velleitario stato emotivo. Questo semplice e lento particolare, fortemente sottolineato dalla durata della narrazione, rappresenta l’altra faccia della medaglia: da una parte vi è un’incredibile ferocia che spinge alcuni israeliti a far morire di fame un uomo; dall’altra c’è il gesto di uno straniero - gesto che potrebbe apparire insignificante, visto il contesto generale -, il quale pone in atto ogni attenzione affinché neppure una scalfittura possa ferire un essere umano. Troviamo allora un altro caso di synkrisis: i śārîm giudei e un ‘ebed straniero. La salvezza per Geremia avviene qui, come anche successivamente, per opera di persone che non appartengono al popolo d’lsraele. Anche se egli poteva contare su alcuni amici, pare che nei momenti cruciali l’intervento divino (cf 1,8) passi attraverso queste “altre” persone. La provocazione per il lettore è lampante. Anzitutto in tale modo gli viene ricordato che JHWH è il re della storia e può servirsi di ogni persona e situazione per realizzare il suo progetto. In secondo luogo, è un implicito monito a guardarsi da quella mentalità che ritiene sua proprietà JHWH e che ritiene l’elezione non un compito, ma un privilegio. 3.5. L'ultima possibilità per il peccatore (Ger 38,14-28) Il lettore ricorda di avere già altre volte incontrato questo re, che cerca Geremia per conoscere da lui l’oracolo del Signore (cf Ger 37,17): «Il re Sedecìa mandò a prenderlo e lo interrogò in casa sua, di nascosto: "C'è qualche parola da parte del Signore?"» (cf anche Ger 32,1-5; 34,1-7). Resta nel lettore lo spazio per una timida speranza: questa volta il re ascolterà e smentirà il giudizio perentorio di Ger 37,2? Infatti, il ricordo più vicino, immediato, che il lettore ha del re Sedecìa è leggermente favorevole, poiché lo ha visto prendere finalmente una decisone giusta verso il profeta, lasciando mano libera a Ebed-Mèlec. Eppure qualcosa non convince, ed è il fatto che l’incontro avvenga segretamente. Ancora una volta sembra si giochi a nascondino! Ritorna la fastidiosa sensazione di un copione già conosciuto. Il re attende Geremia al terzo ingresso, ossia presso una porta di servizio: ci si profila così da subito un re Sedecìa pauroso e succube dei suoi dignitari. Perché Sedecìa vuole questo colloquio pericoloso? Il sospetto è che egli desideri una parola diversa da parte di Dio, senza però cambiare le cause che hanno prodotto la parola di condanna; in altri termini vuole che Dio si penta, senza pentirsi anch’egli a sua volta! I dettagli offerti e il tempo narrativo del colloquio dicono l’importanza di quanto succede: al re è data l'estrema occasione per ravvedersi, per obbedire alla parola di Dio e decidere la propria sorte e quella del popolo. Ma il re non coglierà l'importanza dell'ora, che anzi ignora e sfugge, servendosi di stratagemmi meschini e nascondendosi, ancora una volta, dietro un muro di menzogna e di irresponsabilità. Con un’incisiva osservazione Geremia tratteggia il carattere del re, debole con i suoi dignitari ed incapace di decisione personale: «Geremia rispose a Sedecìa: "Se te la dico, non mi farai forse morire? E se ti do un consiglio, non mi darai ascolto" » (v. 15). Il giuramento del re è nuovamente attuato nel segreto, ma nel nome del Dio vivente, «che 53 ci ha dato questa vita» (v.16). Il sovrano sembrerebbe bene intenzionato, ma in realtà non risponde che alla prima parte dell’obiezione del profeta e tace sulla seconda, che gli chiedeva di ascoltare e seguire davvero il suo avvertimento. Da subito si vede come egli accetti la parola di Dio soltanto parzialmente, ponendo condizioni, cercando di adattarla alle proprie speranze e non seguendola che a metà. La risposta di Geremia ripete quanto già detto, ribadendo tutto nei termini del contrasto tra vita e morte, tra il perire e il salvarsi. La scena successiva è tragicomica. Il re tradisce una personalità poco lucida, una paura che deforma i contorni del reale, così dice di aver più paura dei giudei passati dalla parte dei babilonesi, dei propri sudditi disertori, che degli stessi terribili Caldei! Teme di essere schernito! Ed è cieco invece sul ben più tragico destino che gli infliggeranno i nemici! (vv. 17-18). Questo svela anche la profonda divisone che si era creata nel popolo tra i due partiti: nazionalista e filobabilonese. In fondo, Sedecìa pensa unicamente alla propria reputazione, quando invece una sua pronta decisione salverebbe tutto! Alla scusa speciosa che adotta per non arrendersi ai babilonesi, Geremia incalza ancora una volta, assicurandogli l'incolumità e la prospettiva che, con la resa, almeno eviterà la distruzione della città e la propria fine personale. In caso contrario conoscerà il più avvilente dileggio, del quale sarà vittima quando la città cadrà. Alla sbeffeggiatura degli avversari politici subentrerà lo scherno ben più pungente delle donne del suo harem, che volgarmente derideranno il loro "maschio" finito con gli organi genitali nel fango: «I tuoi piedi si sono affondati nella melma…» (v. 22d). Questo canto di dileggio sarà l’equivalente rovesciato del lamento funebre delle prefiche (cf 9,20). A ribadire la costruzione a synkrisis si noti che il canto di schermo su Sedecìa riprende termini ed esperienze dolorose che il povero Geremia aveva fatto nella sua vita profetica (v. 22): hissîtûkā [ti hanno ingannato] ha in comune con il pittîtanî [mi hai sedotto] di Ger 20,7 il senso di inganno; jākelû [hanno avuto potere] riprende il motivo che appariva già nel racconto di vocazione (1,19) e si ripresentava all’interno dell’ultima dolorosa confessione (cf Ger 20,7-11). Il terzo verbo hotbe‘û [si sono affondati] è il medesimo usato per Geremia che sprofondava nel fango (38,6)16. Chi sono costoro che fanno tutto ciò con Geremia? Sono gli ’anšê šelōmekā [uomini di tua fiducia], uomini di buone relazioni, galantuomini. Sono gli stessi individui (Ger 38,4) che erano preoccupati per il bene, la pace del popolo e che ritenevano che Geremia ne volesse invece il male! Ecco così la caricatura di chi si preoccupa della propria effimera reputazione presso gli uomini invece che presso il Signore. È vero che il dileggio delle donne verso il re riecheggia in parte la stessa esperienza di Geremia, anch'egli sedotto e imbrogliato dal Signore, che ha prevalso su di lui; pure lui è finito in una cisterna fangosa, ma l'esito apparentemente uguale dei due viene mutato profondamente nel suo significato: da una parte è il re che sprofonda a causa della sua incredulità, dall'altra parte è il profeta che sprofonda per richiamare il popolo sulla via della salvezza, prendendo su di sé il destino che spetterebbe al popolo stesso, affinché questo viva! 16 Alonso Schökel fa notare, oltre all’eufemismo del termine regel, l’ironica assonanza di bōṣ (mota) con bûṣ (lino; cf Lv 16,4). Altro che mutande di lino per i "piedi" del re! 54 Il re non deve più nascondersi dietro le opinioni del proprio entourage, ma deve avere la consapevolezza d’essere ancora il monarca e saper prendere decisioni in prima persona. Invece, è schiavo del timore di perdere il potere e la vita, mentre dovrebbe, confidando nel Signore, prendere con coraggio le proprie decisioni da re; per questo giunge all'atteggiamento contraddittorio di giurare in nome del Dio vivente - ma solo in segreto - e di impegnarsi a lasciare in vita il profeta, ma non a seguire le istruzioni dell'oracolo divino. Così, paradossalmente, il profeta, pur essendo imprigionato, è un uomo libero, mentre il re è un uomo che non ha conosciuto la vera libertà (cf il processo di Gesù in Giovanni, con il contrasto tra il Nazareno e Pilato!). La libertà del profeta contrasta con il re che non trova forza per spezzare i legami e non osa venire mai a libertà. Davvero il re si rifugia in un'oscurità colpevole. Il re baratta la vita di Geremia in cambio del suo silenzio (vv. 24-28). Il primo e l’ultimo re di Israele sono entrambi due esseri infelici, sventurati, alla ricerca angosciosa di una parola divina in loro favore: entrambi finiscono in mano ai loro mortali avversari. Mentre Saul, però, dopo la notte con la negromante di Endòr (1Sam 28) si rialza e va coraggiosamente incontro al proprio tragico destino, il re Sedecìa continua a nascondersi e infine cercherà codardamente di fuggire, invece di condividere la sorte del suo popolo. Per lui non ci sarà nessuna elegia in morte. Fine penosissima, buia, di una monarchia che pure aveva conosciuto momenti di gloria! "Così Geremia torna in prigione, e il re nella sua gabbia di futile autorità, nella quale immagina di restare invisibile. Il silenzio connivente del profeta è un atto di sottomissione e insieme di pietà verso il re codardo"17. Ciò che più sorprende, però, è una certa compassione, un certo velo di pietà, che viene steso dal narratore, solidale con l’atteggiamento del suo principale protagonista, anche sul re e sulle sue debolezze, sulla sua codardia piena di sotterfugi. In contrasto con la volubilità del re sta la costanza della Parola data attraverso il profeta, per cui la posizione di Geremia non muta, perché non è cambiata la parola di JHWH su Gerusalemme e sul suo re. Perciò Geremia ribadisce, senz’alcuna attenuazione, ciò che ha già profetato in più occasioni. Così le stesse vicende e i medesimi dolori sono per uno la via che porta alla salvezza, per l'altro la via che porta alla rovina personale e del popolo (vv. 27-28). 3.6. La tragedia si consuma (39,1-10) Siamo arrivati alla resa dei conti tante volte minacciata dai profeti, gli oracoli dei quali si stanno ormai compiendo sull’infedele Israele e sulla monarchia disobbediente18. L’assedio di Gerusalemme durò un anno e mezzo. Normalmente una città che resisteva tanto a lungo poteva sperare nella salvezza, per il fatto che difficilmente un esercito nemico poteva rimanere fermo per tanto tempo. L’insistenza di Nabucodonosor nell’assedio dimostrava invece come egli fosse fermamente deciso a 17 L. ALONSO SCHÖKEL - J. L. SICRE DIAZ , I profeti. Traduzione e commento, Borla, Roma 1984, 680. La problematica testuale per questo capitolo è particolarmente complessa. Infatti, i vv. 4-13 mancano nella LXX. Si può spiegarne l’assenza con il fatto che la LXX è meno interessata al motivo del destino del popolo di quanto lo sia la recensione lunga; si noti che mancano anche i vv. 11-13, che pure appaiono di grande interesse per la biografia del profeta. C’è molto in comune con Ger 52,7-11.13-16, come pure con Ger 25,4-12. 18 55 risolvere la questione di Gerusalemme ed a evitare il ripetersi di ribellioni in una zona così nevralgica, al confine con l’unica potenza, l’Egitto, che ancora poteva dargli fastidio. Viene aperta la breccia nella città! Segue l’elenco con i nomi, testualmente piuttosto corrotti, degli ufficiali di Nabucodònosor. Tutti i capi entrano in città e si stabiliscono alla porta di Mezzo, che è indicata solo qui, e coincide forse con la porta di Efràim (cf 2Re 14,13; Ne 8,16; 12,39; 2Cr 25,23) o porta dei Pesci (cf Sof 1,10; Ne 3,3;12,39; 2Cr 33,14). Si compiono le profezie con il nemico del nord che ha assediato e preso la città (cf Ger 1,15;19,8-9). Si compie la dolorosa prospettiva del racconto di vocazione con i generali che siedono alle porte di Gerusalemme (1,15). Si legga, come uno tra i tanti, l’oracolo di Ger 6,22-26. Al v. 4 la notizia della breccia nella cinta muraria esterna non significherebbe ancora la capitolazione totale, in quanto la roccaforte con il palazzo del re avrebbe potuto continuare ad essere difesa con successo per lungo tempo. Tuttavia, il fatto di avere il quartiere generale nemico all’interno della stessa città toglie ogni speranza al re il quale, con i suoi alti ufficiali, sceglie la via della fuga, considerando che per loro la resa avrebbe significato la morte. Certo che, così facendo, abbandona vigliaccamente il popolo al suo destino senza condividerlo fino in fondo. Proprio loro, i folli responsabili di una dissennata politica, dei dolori inenarrabili della città assediata e del disastro! Probabilmente Sedecìa conta sull’elemento sorpresa: mentre gli ufficiali nemici erano intenti a rafforzare le loro postazioni, poteva supporre che non si sarebbero dati la pena di sorvegliare tutte le vie di fuga. Per questo il re non perde tempo e cerca di scappare nella stessa giornata, non appena calata l’oscurità. La fuga dalla roccaforte attraverso una via secondaria, il giardino del re, riesce, ma non quella attraverso una delle porte della città. Il tentativo di raggiungere gli alleati Ammoniti al di là del Giordano fallisce. Il v. 5 descrive la disperata fuga e il tragico inseguimento del re, catturato nelle steppe desolate della zona tra il Mar Morto e il Golfo Arabico. Resta solo, abbandonato dai suoi soldati, a differenza del primo re di Israele che era morto in combattimento e che nella morte aveva ritrovato con i suoi quella vicinanza e unità che aveva penosamente smarrito: «Così morirono insieme (uno!) in quel giorno Saul e i suoi tre figli, lo scudiero e anche tutti i suoi uomini» (cf 1Sam 30,6). Viene condotto da Nabucodònosor a Riblà, nella provincia di Ḥamàt, ove questi si era acquartierato. Lì Sedecìa, prima di essere trascinato in catene a Babilonia, subisce una punizione atroce, ma piuttosto consueta nell’antichità: l’accecamento preceduto dall’uccisione dei suoi figli, poiché questa scena doveva fissarsi nella memoria come l’ultima drammatica visione. Sono uccisi anche tutti i più importanti personaggi di Gerusalemme, quelli fuggiti con il re e quelli arrestati in città (cf 52,24-27). L’anziano re viene condotto via in prigionia, in catene di bronzo e di lui non si sa più nulla, si perde il ricordo. La promessa non passa attraverso di lui: la sua codardia e il suo disinteresse alla sorte del suo popolo quasi gli negano la pietà dello stesso narratore biblico. Eppure, nella narrazione biblica, c’era stata questa pietà per l’infelice Saul e persino per il ribelle Assalonne. La città stessa, compreso il palazzo reale, viene incendiata e le mura demolite (vv. 89): il fuoco era il segno più evidente del giudizio di Dio (cf 17,27; 21,12.14; 37,8). Il resto 56 della popolazione fu deportato. Secondo i dati di Ger 52,28-30, questa deportazione riguardò un numero di persone molto inferiore a quella seguita alla prima capitolazione di Gerusalemme: 832 contro 3.023. Lì si parla anche di una terza deportazione di 745 persone cinque anni dopo, probabilmente in seguito alla repressione dopo l’uccisione del governatore Godolià. Per i poveri del paese, o meglio per un loro "resto", si apre un futuro, proprio per coloro che nulla avevano avuto. Avviene una nuova spartizione di terre (v. 10). 3.7. La sorte di Geremia (Ger 39,11-14) La completa liberazione del profeta è descritta in modo sintetico in Ger 39,11-14 e in modo più dettagliato poco dopo (cf 40,1-6). Tuttavia, poiché qui si tratta della liberazione dal carcere, mentre più tardi Geremia è sciolto dalle catene che lo tengono imprigionato insieme ad altre persone destinate alla deportazione, si può anche pensare a due momenti distinti. In un primo tempo il profeta è lasciato libero, ma poi finisce nel numero di coloro che sono rastrellati dall’esercito vincitore, per cui si rende necessario un secondo intervento liberatorio da parte del comandante Nabuzaradàn. L’elemento di spicco di questo primo racconto è che l’ordine di porre in salvo il profeta viene addirittura da Nabucodònosor in persona! Può sembrare strano che il potente re babilonese si interessi direttamente della sorte di Geremia, anche se questo particolare non è del tutto improbabile. Infatti, l’influenza che il profeta aveva esercitato (cf la lettera ai deportati in 29,1-23) poteva essere nota fin nelle più alte sfere. Anche il contenuto della sua predicazione sembra non essere sconosciuto: il comandante babilonese ne fa esplicito riferimento in 40,2-3. Ma nell’intervento diretto di Nabucodònosor va soprattutto ricercato un significato teologico: come il re babilonese è stato uno strumento della volontà di Dio per punire il suo popolo infedele, così lo stesso re è al suo servizio per adempiere la promessa di proteggere Geremia (cf 1,8). Per liberare il profeta si muovono le più alte cariche babilonesi (v. 13). Anche se i nomi riportati qui non coincidono con quelli del v. 3, una presenza merita di essere rimarcata: si tratta di Nergal-Sarèzer, "capo degli indovini" (rab-māg). Anche la più alta carica religiosa di una divinità pagana rispetta il suo collega, per così dire, seppure di un Dio diverso: ma soprattutto è tra coloro che agiscono secondo la volontà di Dio. Questo particolare serve a sottolineare che il Dio d’Israele non esce sconfitto dalla distruzione di Gerusalemme, ma anzi che Egli mostra di essere veramente il Signore dell’universo. Geremia, probabilmente secondo i suoi desideri (cf 40,5), viene affidato a Godolià, che qui appare già come persona di fiducia dei babilonesi, prima ancora di essere nominato governatore della nazione vinta. Appartenendo, tra l’altro, alla cerchia del famiglia di Šafàn, che aveva sempre avuto buoni rapporti con Geremia, era uno tra i più indicati per garantire la salvezza del profeta. Ma forse l’aspetto maggiormente interessante è contenuto nella frase conclusiva: «Geremia tornò a vivere tra la sua gente» (v. 14). Il suo ministero profetico non era ancora terminato ed egli rimaneva legato al suo popolo, ricercandone il bene e indicandogli la strada che avrebbe dovuto seguire per imboccare la via della rinascita (cf 42,3). Era chiaro che, in quella fase storica, il nucleo da cui sarebbe sorto il nuovo 57 popolo era considerato costituito dai rimasti (i poveri del paese), e non da chi aveva dovuto prendere la via dell’esilio. 3.8. L’oracolo per Ebed-Mèlec (Ger 39,15-18) L’anacronia nell’ordine del racconto, per il quale questo oracolo si presenta come un’analessi, fa sì che la costruzione a contrasto tra personaggi continui: Sedecìa/Geremia; nobili/poveri; ministri giudei/Ebed-Mèlec l’etiope. Essa serve a completare gli eventi, ma anche il messaggio teologico. Ebed-Mèlec aveva dimostrato, con il suo operato di misericordia in favore del povero profeta perseguitato, di onorare Dio e di aver avuto fiducia in Lui. Proprio quest’ultimo aspetto gli viene qui riconosciuto (cf 39,18) e gli vale la promessa di salvezza da parte di Dio: la vita come bottino. La parola di Dio gli aveva assicurato che, nonostante la sua posizione a corte, egli non avrebbe seguito la sorte degli altri alti dignitari, ossia non sarebbe stato ucciso per rappresaglia quando i babilonesi sarebbero entrati a Gerusalemme. Il lieto fine per questo etiope può essere anche visto come l’adempimento di quanto annunciava un altro profeta, legato al circolo di Giosia e contemporaneo di Geremia, Abacùc: «il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4; cf Rm 1,17: «il giusto per fede vivrà» ). Ma il lettore sa questo solo adesso, in mezzo a tanto sfacelo! La Parola per l’etiope suona come un invito al lettore a non smarrire la fiducia nel Signore e a sapere che la fedeltà di JHWH non viene meno neppure nei momenti più bui. «Perché hai avuto fiducia in me!»: si chiarisce così quanto aveva detto il profeta in 17,5ss sulla fiducia in JHWH come fonte della vita, al contrario delle illusorie confidenze riposte nell’uomo, negli imbroglioni, negli idoli. 4. Un sogno bruscamente interrotto! (Ger 40-41) Il c. 40 ci mostra una situazione dove il caos sembra dominare ma, proprio in mezzo al caos, nel crollo di Gerusalemme e di tutte le strutture religiose e civili, spuntano i primi inizi di un nuovo futuro: inizi timidi, incerti, ma pieni di speranza. Tutto, però, finirà improvvisamente per una serie di azioni scriteriate, irresponsabili, scellerate, legate ad un passato che si mangia il futuro! 1. La scelta di Geremia La frase con cui inizia il c. 40 è un’introduzione teologica quanto mai delicata. Il lettore non si trova di fronte, in questi due capitoli, alcun oracolo di Geremia: è Geremia stesso, la sua vita, le sue scelte, a divenire profezia. Il narratore ci presenta la scelta difficile che il profeta deve attuare e ci lascia come sospesi poiché non anticipa nulla di questa scelta, né fa conoscere alcun comando del Signore a tal proposito sicché, leggendo, si può propendere per una o per l’altra soluzione che viene prospettata a Geremia. È interessante che questa parola del Signore giunga ma, senza imporre alcuna determinata scelta, lasci aperta la possibilità alla decisione che Geremia farà da se stesso, in coerenza con la missione vissuta in grande fedeltà! 58 In tal modo la parola del Signore echeggia nelle parole di Nabuzaradàn e prospetta un’alternativa non tra il bene e il male, alternativa che sarebbe, per così dire, facile da discernere, non tra valori assoluti, bensì tra scelte storiche e contingenti, nelle quali il discernimento diventa particolarmente delicato. Così anche noi lettori non sappiamo che cosa sia bene. Nella prima prospettiva offerta a Geremia, la più lusinghiera, si tratta di andare a Babilonia protetto da Nabucodònosor; gli viene promesso che i babilonesi avranno cura di lui: «Avrò cura di te» (cf anche 39,12). Simili protetti ricoprono cariche importanti alle corti dei re stranieri e possono servire ottimamente alla causa del bene del loro popolo. È quanto avviene con Giuseppe e più tardi con Daniele, con Ester e Mardocheo… A Babilonia, inoltre, la comunità ebraica poteva ben ricordarsi di quanto Geremia le aveva fatto scrivere ed essere quindi ben disposta verso di lui, riconoscerlo come vero profeta. Una prospettiva allettante! Viene offerta un’altra possibilità a Geremia, ed è quella di stabilirsi per conto proprio nel luogo che più gli è gradito e che risulta più sicuro per la sua persona: nel Paese - e qui per Paese non bisogna intendere soltanto la Terra promessa, ma un qualsiasi territorio dell’impero - là dove a Geremia piacerà. Anche questa prospettiva è abbastanza attraente. La terza è quella che, paradossalmente, pone più condizioni ed è abbastanza precisa: si tratta di far parte del gruppo di giudei che sono con Godolià come prefetto dell’impero vincitore. Dal punto di vista economico la prospettiva è certamente meno incoraggiante perché la situazione è quella di un paese ormai allo sbando. Anche la sicurezza personale non è molto garantita. Per diversi aspetti sembrerebbe davvero la prospettiva meno allettante, eppure Geremia sceglie quest’ultima. Perché? Poiché le prime due significavano probabilmente chiudere la missione. Bisogna sottolineare che di quella missione Geremia aveva desiderato disfarsi più volte, nel corso della sua vita (cf Ger 20); eppure qui egli vuole restare come profeta del Signore. La clausola di rimanere con il popolo, tra il popolo (cf 37,4; 38,4; 39,14) viene menzionata da Nabuzaradàn soltanto nella terza opportunità. Ebbene, proprio per questo, perché gli è consentito di stare in mezzo al suo popolo, Geremia sceglie quest’ultima possibilità. Così le prime due prendono un altro colore, un altro significato anche nella mente del lettore. Nel primo caso si trattava di essere un privilegiato alla corte, come Mosè prima della vocazione e prima di aver scoperto di avere dei fratelli, e questo non poteva andare bene a Geremia, che si sente profondamente solidale e fraterno con questo popolo, che pure l’ha perseguitato. La seconda prospettiva è quella d’essere uno che si fa gli affari propri. Ebbene, l’idea di pensare ai propri affari e di essere ritenuto un agente fedele alle forze di occupazione non può assolutamente interessare a Geremia, la cui esistenza è stata “una vita in servizio”. Allora la terza possibilità appare come quella voluta dal Signore: restare fra i suoi fratelli, restare con i poveri. Egli sceglie perciò di rimanere con i suoi, con la sua gente bisognosa di tutto come lui. Decide di fermarsi in una terra devastata da una guerra e da un assedio, in un luogo in cui anche trovare le cose più semplici può diventare un 59 serio problema. Ma Geremia resta; fa questa scelta perché sente di dover cominciare quella parte della sua missione che fino ad allora gli era stata sostanzialmente impedita: il piantare e l’edificare. Questo gli era stato consentito solo come segno, in alcuni gesti profetici come quello dell’acquisto del campo. Non aveva mai potuto lavorare, per piantare la speranza! Geremia rimane per seminare il futuro e decide di non lavorare da solo ma con altri, con una “squadra” che certo egli non ha scelto e che, nondimeno, è l’unica compagine che deve lavorare in favore del futuro. Perciò appoggia Godolià, figlio di un uomo che lo ha salvato, membro della famiglia giudea che ha mostrato di ascoltare e di apprezzare la sua predicazione. 2. Il progetto di una comunità nuova Ma chi è questo Godolià presso il quale Geremia resta? Godolià, il nome significa "JHWH si è mostrato grande", è figlio di Achikàm, figlio di Šafàn (cf Ger 40,5): suo nonno era segretario di stato, al momento della riforma di Giosia (2 Re 22) e suo padre era il protettore di Geremia (Ger 26,24) come pure suo zio Ghemarià (Ger 36,12.15). Egli è quindi l’ultimo rappresentante della famiglia dei Safanidi che sostiene Geremia, le sue tesi e la sua predicazione. In questo senso è del partito filobabilonese ed è egli stesso amico di Geremia (cf Ger 39,14): è possibile che fosse maestro di palazzo di Sedecìa ed avesse un’esperienza amministrativa. Forse parla di lui l’impronta di sigillo scoperta a Lachis, che reca la seguente scritta: "Godolià, colui che è sul palazzo". Geremia sceglie perciò di restare con costui. Godolià potrà contare sul prestigio del profeta, dichiarato veritiero dagli eventi che, ormai, sono sotto gli occhi di tutti. Godolià non è di famiglia reale, il che significa che il futuro non passa più attraverso la monarchia: egli elabora il progetto di un nuovo popolo. Ebbene, Geremia collabora a questo progetto di piantare un popolo fondato sull’esperienza esodica, un popolo al cui servizio saranno le varie istituzioni, civili e religiose. Possiamo dire che questa breve ma luminosa esperienza con Godolià a Miṣpà è quella spiritualmente più coerente con le stesse origini del profeta di Anatòt, Geremia resta nella terra, però non parla né pronuncia oracoli: è la sua stessa persona ad essere profetica! È l’essere rimasto ad infondere speranza, a rifondare la vita e a edificare il futuro, condividendo con i poveri la loro desolazione e i loro stenti. Questo è davvero profetico! Gli esuli a Babilonia faranno fortuna, si arricchiranno; questi poveri no! Geremia rimane con costoro, con questi ultimi della storia per piantare il segno del futuro che Dio vuole edificare con loro. Vediamo ora la "squadra" di Geremia e di Godolià cominciare l’agognata ricostruzione. Ci sono i capi del campo, cioè i capi delle forze delle campagne, di quella gente cioè che ha accettato l’inevitabile perché, abitando nei villaggi, non ha potuto rifugiarsi in città, e che quindi non si è opposta a Babilonia. Accanto a queste persone vediamo uomini, donne, bambini: uno stuolo di poveri che nessuno vorrebbe. Purtroppo tra questi capi appare già il nome di colui che sarà il traditore: Ismaele. Ai vv. 9-10 abbiamo un giuramento, una specie d’atto pubblico sul comportamento da tenere: sottomissione, lavoro nei campi con Godolià come intermediario. Qui è 60 Godolià che parla, noi diremmo, profeticamente per Geremia e per JHWH: il compito del Signore è implicito nel giuramento, nell’assicurare quella benedizione che si manifesterà attraverso la vita passata nel lavoro dei campi. E davvero (v.11) ha luogo una specie di miracolo; anche se storicamente questo rimpatrio riguarda poche persone – e perciò potrebbe sembrare insignificante – profeticamente è dato di scorgere in questi rimpatriati un segno: comincia così quel ritorno degli esuli che è pegno, che è segno del futuro (Ger 29,14;40,12).Vi è un "resto" (še’ērît) che è rimasto in Giuda e costoro, che vengono da lontano, s’incorporano a questo resto. Ma perché trovarsi a Miṣpà? La ragione verosimilmente è da cercarsi nel fatto che Miṣpà è l’unica zona in cui si erge una torre non distrutta, e quindi una fortezza non abbattuta; Miṣpà inoltre funge anche da simbolo dell’Israele precedente la monarchia, l’Israele del tempo dei Giudici, l’Israele del tempo della guida del Signore. Così costoro che sono rimasti nella terra e i rimpatriati diventano la "primizia" del popolo di Dio che ha superato il giudizio. E il grande raccolto di uva e di frutta (Ger 40,12) mostra che il Signore benedice questo resto povero e lo benedice nella sua terra! Si ha quindi il contrario degli oracoli di giudizio di Geremia, in cui la terra diventava arida, desolata, incapace di frutti (Ger 12,7-13;8,13). Anche da ciò possiamo avere la conferma del progetto di Godolià e Geremia: tornare all’antico sogno di Dio sul suo popolo, quel sogno che era stato offuscato da una monarchia voluta per essere come gli altri popoli. Verosimilmente essi si considerano un modello del futuro popolo di JHWH. Ma quest’esperienza dura soltanto pochi mesi, perché provoca la reazione di gente legata a vecchi interessi, manipolata da poteri stranieri: gente miope, avida e violenta, come il loro capo Ismaele. 3. Il passato divora il futuro Ismaele è un discendente della casa di Davide e di conseguenza pretendente al trono. Egli viene accompagnato dai "grandi del regno" e dai capi militari. Si tratta del personale di corte, che in precedenza aveva servito il re Sedecìa. Durante l’invasione di Nabucodònosor erano fuggiti ad Ammòn, in Transgiordania. Adesso tutti ritornano. Il passato ritorna! Essi non solo uccidono proditoriamente Godolià, ma mettono fine a tutta l’esperienza di Miṣpà, dal momento che deportano persino il popolo che stava con lui ed il povero Geremia (Ger 41). Perché vogliono cancellare la piccola esperienza iniziata a Miṣpà in un contesto di poveri? Se avessero l’intenzione di eliminare solo Godolià, non ucciderebbero il popolo che sta con lui, i pellegrini del nord i profeti e la guarnigione di soldati caldei, né deporterebbero il resto della popolazione di Miṣpà. Ciò che essi vogliono è eliminare l’iniziativa di questo piccolo gruppo che ritiene di essere il "resto d’Israele" (40,15) e che riprende la storia del popolo a partire dall’esodo e dai giudici, cercando di riorganizzare la vita indipendentemente dalla monarchia e dal tempio. Ciò appare totalmente contrario alle loro idee. Inoltre essi devono essere coinvolti in un più vasto complotto contro Babilonia, complotto ordito dal re degli Ammoniti, mandante dell’omicidio (40,14). Puntano al ristabilimento delle monarchie locali invece che ad un popolo libero e fondato sulla fede. 61 Tragico errore! Il passato si ripresenta sotto forma di alcuni capi militari e uccide il futuro che sta modellandosi grazie all’iniziativa dei poveri, organizzata da Godolià e Geremia. A fianco dei fichi buoni continuano ad esserci i fichi cattivi ! (cf Ger 24)19. 19 Cf C. MESTERS, Il profeta Geremia: bocca di Dio, bocca del popolo. Introduzione alla lettura del libro del profeta Geremia, Cittadella, Assisi 1994, 135-137. 62 IV LA TORMENTATA RICERCA DEL VOLTO DI DIO Ciò che caratterizza il messaggio su Dio del libro di Geremia non è tanto un insieme di affermazioni più o meno tradizionali, ma un'istanza profonda che percorre lo scritto e che si evidenzia in particolari pericopi, quali, ad esempio, le "confessioni". L'istanza è quella di non fissarsi soltanto su esperienze, immagini e concezioni distorcenti il vero volto di Dio, ma soprattutto di compiere un itinerario spirituale che diventi consapevole della trascendenza e paradossale vicinanza di JHWH, il Dio dell'esodo e dell'alleanza, rispetto ad ogni esperienza di Lui, anche la più autentica, senza, però, rifugiarsi in un'affrettata rinuncia a dire qualcosa di Lui e del suo progetto sul suo popolo. In altre parole, il libro di Geremia, nelle parti più preziose per il loro messaggio teologico, è testimonianza di una lotta per il vero volto di Dio, di uno sforzo fedele e tenace per approfondire una conoscenza di Lui che vada oltre i nostri fantasmi, le nostre immaginazioni, le esperienze troppo parziali e limitanti. Dapprima premettiamo il commento ad un testo che ci dà fortemente il senso di un’assoluta signoria del Dio di Israele: il che renderà, però, ancor più acuto il problema del volto di Dio di fronte al mistero del male nelle cosiddette "confessioni"! 1. Il vero Dio ed i falsi dèi Per una presentazione del tema di Dio nel libro di Geremia è di grande interesse partire da Ger 10,1-16 che, pur essendo un passo tardivo, sviluppa un motivo che affiora continuamente nella predicazione di Geremia: il confronto tra gli idoli che il popolo segue, perversamente affascinato, e JHWH, sposo tradito e dimenticato e padre rifiutato del popolo di Israele e Giuda. Basti qui richiamare gli oracoli raccolti nel primo rîb profetico (Ger 2,2-4,4) in cui JHWH si presenta come sorgente di acqua di vita, in contrapposizione agli altri dèi, i quali sono soltanto nullità/vacuità e che trascinano pericolosamente il popolo verso il nulla e un’irrimediabile siccità . Certamente Ger 10,1-16 presenta una tematica e un linguaggio affini al Deuteroisaia nelle sue dichiarazioni sarcastiche sulla nullità degli idoli e degli dèi e nell'esaltazione entusiastica di JHWH, il creatore. Bisogna segnalare anche problemi di critica testuale abbastanza rilevanti, come ad esempio, il fatto che i vv. 6-8 e 10 manchino nella LXX. Come se ciò non bastasse, il v.11 è una glossa aramaica che funziona come una specie di giaculatoria antidolatrica; infine, i vv. 12-16 sono identici a quanto si trova in Ger 51,15-19. Si noti inoltre che la pericope ha molte affinità con il testo deuterocanonico della Lettera di Geremia. Il contesto spirituale in cui si forma il nostro testo è la vittoria dell'imperatore Nabucodònosor, che aveva ingenerato negli Israeliti una profonda crisi di fede, con la tormentosa questione: a chi apparteneva la reale signoria della storia? Al Signore? oppure a Mardùk? 63 Il nostro capitolo riflette intorno alle domande radicali che si ponevano al profeta e ai suoi concittadini di fronte all'esperienza della caduta di Gerusalemme. Ebbene, a questa situazione di crisi di fede si risponde abbozzando l'argomento, simile a quello dei Salmi 115 e 135 e del Deuteroisaia: gli idoli sono fattura delle mani dell'uomo, mentre invece il Signore Dio ha creato il cielo e la terra. Questo contrasto si riflette anche sul piano formale e vi è allora letterariamente la contrapposizione tra una descrizione satirica e un inno di lode. Al centro del nostro brano sta il paragone sarcastico con lo spauracchio, gli spaventapasseri dei campi che non fanno paura neanche ai bambini, a cui segue una solenne professione di fede sulla grandezza del nome del Signore. È interessante cogliere qui, tra le righe, la disamina dei percorsi dell'idolatria. In contrapposizione al cammino di una vita autenticamente religiosa, l'idolatria si basa sullo sfruttamento del sentimento di timore o d’intimidazione, come appare, ad esempio, anche nella Lettera di Geremia 4-5. L'idolatria sfrutta i sentimenti di paura dell'uomo, i suoi bisogni di sicurezza offrendogli fasulle soluzioni a questi problemi (cf anche Is 8,11ss). La sicurezza che JHWH offre al credente è di ben altro spessore e non abbisogna di uno speciale terreno di coltura come fa l’idolatria, gettando l'uomo in preda al panico, al timore di influssi più o meno maligni di astri o altro. Il "timore" che il credente prova di fronte al Signore è ben altra cosa dalla paura di influenze negative: il "timore di Dio" è ricerca fattiva, fedele e sincera della sua volontà nel riconoscimento della sua signoria. I versetti satirici di Ger 10,2-4. 8-9 si fondano certamente su un fraintendimento comune a tutta la polemica giudaica, che considera solo l'aspetto esterno, non il senso vero del culto delle immagini. Ma occorre ricordare che la satira non è un trattato di teologia: essa vuole deridere, esorcizzare le paure stolte e inutili che attecchiscono abbondantemente nel popolo, proprio in misura proporzionale alla mancanza di una vera fede. Qui, come nella polemica con la religione degli altri popoli e con le forme superstiziose e sincretistiche di jahvismo popolare, si usa il linguaggio della satira che intende scuotere dal torpore, suscitare uno spirito critico, far pensare. Quel che alla redazione esilica del nostro libro sta realmente a cuore è riaffermare che uno solo è il Dio creatore e redentore ed aiutare così i giudei esiliati a sfuggire al fascino pericoloso delle processioni e delle cerimonie sontuose dei templi dei dominatori babilonesi. Dalla polemica e dalla satira si passa al vero e proprio insegnamento: gli idoli vengono definiti fin dall'inizio come vanità, falsità, vuoto. Gli idoli, proprio perché sono vuoti, non hanno potere di fare il bene e il male. Il potere di fare il bene e il male compete soltanto al Signore (cf Dt 28,63). Alla descrizione degli idoli si contrappongono appunto i tre titoli dati al Signore. Il Signore è vero di fronte alla falsità, vivo di fronte all'impotenza, eterno di fronte a fatture recenti e periture. Di notevole interesse, ancora più che la polemica antidolatrica, è il v. 10 con i vari attributi di JHWH, vero, vivente, eterno, che sono in piena antitesi con quelli degli dèi. La ’ĕmet di JHWH è concretamente l'attendibilità di Dio, la sua fedeltà alle promesse, la stabilità nel suo patto. JHWH è proclamato, conformemente a numerose attestazioni della fede biblica, ’ĕlōhîm ḥajjîm [Dio di vita]. Tutto l'AT è percorso dalla consapevolezza profonda che JHWH è il Dio vivo (cf Sal 42,3; 84,3). JHWH, infatti, parla, agisce, si commuove, presta ascolto, si adira, ecc.. A Lui si attribuiscono tutte le qualità di una persona vivente. Inoltre, Egli è il Dio vivente proprio perché è il datore di vita, di benedizione e il 64 custode della vita dell'uomo e del suo popolo in particolare: «È in te la sorgente della vita» (Sal 36,10). Per Geremia Dio è la pienezza della vita e in ciò sta appunto la sua singolarità. Certamente la vita che noi sperimentiamo è soltanto pallida immagine, simbolo del fondamento inattingibile, ma nondimeno si comunica a noi. Proprio perché è la pienezza della vita, Dio è colui che fa vivere: «O speranza (cisterna) di Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi (secchi); quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere [ še’ôl ]), perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva» (Ger 17,13). Infine JHWH è acclamato come melek ‘ôlām (re dell’universo / eterno). Non si confessa semplicemente la sua eternità, ma la sua signoria universale che non conosce confini di tempo o di spazio. Ai vv. 12-16, viene celebrata la potenza di JHWH come creatore, poiché le forze della natura obbediscono ai suoi ordini, anche quando si scatenano in tutta la loro potenza. Il testo diventa un inno di lode, che supera quindi il puro ambito dell'istruzione e della polemica e che può essere recitato come una professione di fede. Dio esprime la sua collera e la terra trema di spavento. 2. Alla ricerca del vero volto di Dio: le confessioni di Geremia Intraprendiamo ora il percorso all'interno dei testi che si avventurano nella ricerca di un volto di Dio sempre più vero, fino a giungere a lasciare come parlare il silenzio di Dio. La nostra indagine ha come riferimento privilegiato le celebri “confessioni”: 1. Ger 11,18-12,6 2. Ger 15,10- 21 3. Ger 17,14-18 4. Ger 18,19-23 5. Ger 20,7-18 Commenteremo qui la prima, la seconda e la quinta confessione. 2.1. Prima confessione (Ger 11,18 - 12,6): come intendere la giustizia di Dio? 2.1.1. La domanda di "vendetta" da parte Geremia (Ger 11,18-23) La prima confessione (Ger 11,18-12,6) presenta un testo ebraico poco chiaro e un po’ disordinato. Così Ger 12,6 per vari interpreti starebbe bene dopo Ger 11,18. Similmente Ger 12,3 andrebbe meglio dopo Ger 11,20. Da parte nostra proponiamo di lasciare il testo come sta, accettandone le oscurità e la difficoltà a capire certe connessioni tra domande e risposte. Nella prima confessione abbiamo una pagina molto bella la cui struttura sembra seguire una triplice articolazione: vv. 18-20 il lamento; vv. 21-23 giudizio e sentenza; 12,1-6 la domanda del profeta con la risposta divina. Nei vv. 18-20 l'io orante eleva una sorta di lamento al Signore. Non si può, però, vedere qui la tipica forma dei "lamenti", poiché in essi è l'orante che fa presente il proprio caso al Signore, invece qui è esattamente il Signore che fa conoscere i piani insidiosi dei nemici all’io dell'orante. Questo io è paragonato all'albero e all'agnello. 65 Forse non serve decidere se si tratta dell'io del profeta o della comunità, ma è utile intendere il testo in un senso ampio e comprensivo: in questo secondo caso il profeta rappresenta colui che intercede per Israele, e che, minacciato dai nemici, invoca la liberazione del popolo e il ristabilimento della giustizia. Sul piano teologico vi è implicato il motivo del profeta come l'uomo che ha ricevuto una conoscenza del senso del presente da parte di Dio: egli, per grazia, è abilitato ad interpretare correttamente il senso profondo degli eventi e la visione di Dio nel presente. «La mia causa è affidata a Dio». L'immagine dell'albero strappato nel suo rigoglio suggerisce che se Geremia il giusto muore, non avendo figli, viene estirpato totalmente e il suo nome scomparirà: ma proprio qui ha senso l'allusione alla più grande speranza di Geremia (11,20b) che affida la propria causa al Signore, il quale sa far rispuntare e sa far mettere germogli anche ad un albero ormai secco. Nei vv. 21-23 si chiarisce meglio il problema posto ai vv. 18-20. Vi è qui un dialogo in cui si fondono la lamentazione, il rendimento di grazie e la sentenza di condanna. Viene anche rivelata l'identità dei nemici del profeta: sono gli uomini di Anatòt, che lo avversano proprio in ragione della sua predicazione. Qualunque sia la spiegazione della storia redazionale di questi testi, ora le due parti sono unificate dal tema dell'opposizione alla missione profetica o, se si vuole, è la vicenda stessa di una parola profetica che è avversata ed osteggiata. In questione non è la vita privata di Geremia, ma il suo ruolo pubblico di profeta. Che cosa chiede allora Geremia? Nei confronti degli avversari invoca vendetta (11,20; cf anche 12,4 e 18,21ss). Impressiona vedere questo uomo, così mite, chiedere con tanta violenza: «possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa». Eppure il profeta è mite come un agnello sul quale passa una furia omicida. Per capire bene questo, bisogna tener presente che la richiesta di Geremia è formulata secondo la legge del taglione e non di una vendetta illimitata. Non è una semplice vendetta quella che chiede Geremia, ma il ristabilimento del diritto; non gli importa tanto il male che deve piombare sui suoi nemici, quanto il giusto effetto che per lui ne deriva. Inoltre, bisogna ricordare che la prospettiva in cui si muove Geremia è quella del tempo presente. Il luogo in cui si manifesta la giustizia di Dio è questa vita, non un aldilà che non è ancora entrato nella fede ebraica. 2.1.2. Quale giustizia ? (Ger 12,1-4) Il testo della prima confessione continua in Ger 12,1-6 dove, prima sotto forma di preghiera (vv. 1-4) e poi di risposta divina (vv. 5-6), è proposto un tema decisivo per la teodicea: quello della giustizia di Dio. In Ger 12,1-4 troviamo un io che si lamenta, discute e pone domande di chiarimento sulla giustizia di Dio: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa contendere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia». Questa richiesta mostra l'estrema libertà di Geremia (o del popolo) nei confronti di Dio, fino al punto di dargli un suggerimento: annientare gli empi dalla faccia della terra. Ma la libertà di Geremia giunge perfino a consentirgli di sospettare di Dio o addirittura di accusarlo! Al v. 2 Geremia introduce il sospetto che Dio sia complice degli ingiusti: «tu che li hai piantati ed essi mettono radici...». Si badi che è in gioco non tanto il problema della sofferenza innocente né la persecuzione del profeta, bensì il fallimento della giustizia divina nei 66 confronti del popolo che continua a vivere nella terra, nonostante la sua apostasia. È in gioco la domanda se Dio sia veramente interessato alla vita dell'uomo o non sia nascosto in una impossibile lontananza. E che si tratti del popolo dell'alleanza, ossia di Giuda, si può dedurre dal fatto che si trova il termine bāgôd [traditore], riferito da Geremia più volte a Giuda (Ger 3,7.8.10.11.20; 5,11; 9,1). Il v. 4 ribadisce la richiesta di un ristabilimento della giustizia, che è collegato a una questione teologica. Ciò che è in gioco è l'identità di Dio. È complice dei malvagi? Indifferente? Assente? Dio sin da ora deve dare prova di ciò che è: il Dio che sostiene il bene ed elimina il male. Questa manifestazione è necessaria, altrimenti Dio non sarebbe credibile. Prima della richiesta di vendetta personale, Geremia richiede che Dio riveli se stesso come Dio giusto, altrimenti potrebbe nascere l'incredulità in Lui. Geremia chiede che Dio si tenga fedele al suo profeta, alla promessa fattagli di vicinanza, d’assistenza. La domanda di giustizia è resa più forte dal fatto che Geremia è innocente: si ricerca la sua morte, ma senza motivo! Appare allora chiara l'esigenza che questa vita terrena sia luogo del premio per la virtù e di manifestazione della giustizia di Dio. 2.1.3. L’enigmatica risposta di Dio (Ger 12,5-6) Qual è la risposta di Dio alle invocazioni e recriminazioni di Geremia? Innanzitutto, Dio non accetta le parole di vendetta e contesta in particolare l’impostazione del problema fatta da Geremia. Certo l'uomo di fronte a Dio è libero di esprimersi come vuole e di dire tutto ciò che desidera, ma il Signore non è costretto ad approvare tutto ciò che dice l'uomo. Geremia afferma che non è giusto che la terra sia in lutto per colpa degli empi, ma continua a muoversi in una sorta di concezione "retributiva", geometrica, della giustizia: da una parte i colpevoli che devono subire il giudizio divino e dall'altra i giusti che possono vivere in pace, garantiti dalla giustizia di Dio. Ebbene JHWH invita Geremia a cambiare ottica, puntando alla fedeltà e al coraggio, esortandolo ad affrontare prove ancora più dure. In primo luogo quindi Geremia deve cambiare prospettiva, attuare una vera e propria metánoia, poiché la sua impostazione del problema del male e del dolore ne ignora tutta la complessità, che è simile all’intricata boscaglia del Giordano. In altri termini viene contestato a Geremia che la sospensione o la dilazione del giudizio divino sugli empi metta in dubbio la giustizia di Dio e che, perciò, la sofferenza, comportata dalla fedeltà al proprio ministero, possa essere una fatica inutile e insensata. Tanto meno allora il profeta può onestamente pensare ad una connivenza di Dio con gli empi. Indirettamente si vuole far capire a Geremia, tentato di porre scadenze, che si deve convertire al fatto che JHWH si riserva i tempi e i modi con cui realizzare la propria giustizia. Se questo è contestato dal v. 5 in modo implicito, al v. 6 la risposta prende toni più espliciti, anche se enigmatici. Essa suona come misteriosa perché dilata incredibilmente i confini del male. Il profeta è ingenuo a pensare all'esistenza di un gruppo di empi di fronte ad un gruppo di giusti. Il male è più diffuso e profondo in quanto i "traditori" non sono solo tra il popolo in genere, ma persino tra le persone più prossime al profeta, tra i suoi “familiari”. Il problema è dunque assai più grave di quanto il profeta sospetti e la solitudine del profeta innocente diventa sempre più parabola di un drammatico momento per lui, in quanto portatore di una parola di 67 JHWH che è in rotta di collisione con la vita di Israele. E se Dio non giudica gli empi non è perché è connivente con loro, ma perché la sua giustizia è misericordia che risparmia i peccatori e che non rinuncia all'amore per un popolo di traditori. "Geremia ha ceduto all'irresistibile tentazione di dir male di Dio, la tentazione cui rischiamo tutti di cedere facilmente, nell'illusione di essere noi i difensori di un'immagine «vera» di Dio, di quel che Egli dovrebbe essere. Dio è paziente, risponde garbatamente alle domande di Geremia che avevano sfiorato la bestemmia, fa aprire gli occhi sulla nostra presunta innocenza, rifiuta di essere semplicemente un castigamatti universale"20. 2.2. Seconda confessione: convertirsi al Dio conosciuto unicamente nella sua Parola (Ger 15,10-21) Può essere Dio conosciuto al fuori della sua Parola? Non è allora un fantasma e un miraggio rispetto al quale l'uomo si sente inevitabilmente migliore? La seconda confessione mette a tema proprio il coraggio di interrogarsi sulle nostre immagini di Lui e si concluderà con un invito ad andare più avanti, a convertirsi ad un'esperienza di Dio più vera e più certa. Al centro di questa seconda confessione, che è una specie di preludio all'ultima confessione, sta, infatti, la domanda serissima sulla nostra immagine di Dio, se essa sia veritiera o non invece un miraggio. Il tema centrale di questa seconda confessione (15,10-21) va allora ben oltre il conflitto tra giusti ed empi rispetto all'immagine di Dio21: è una richiesta al credente di vivere in uno stile di conversione continua e di docilità alla parola del Signore, nella quale soltanto si può conoscerlo per quello che veramente è. La seconda confessione si chiude con una chiara indicazione: il Dio di Israele può essere conosciuto unicamente nell'obbedienza alla sua Parola, tutto il resto è illusione e ribellione. Procediamo ora ad una lettura più puntuale di questo testo che, dal punto di vista della struttura, si presenta diviso in tre parti: vv. 10-14; vv. 15-18; vv. 19-21. Ricordiamo qui che vi sono parecchi problemi esegetici che riguardano le numerose difficoltà di traduzione e la varietà delle interpretazioni possibili dei singoli dettagli. Particolarmente difficili sono i vv. 13-14: alcune letture tendono a vedervi una glossa inutile, ma, a nostro parere, essi non ledono l'organicità del testo, in cui si può individuare una sostanziale coerenza logica per i vv. 10-14, nonostante le sue oscurità. 2.2.1. Prime battute del dialogo (Ger 15,10-14) Per una lettura corretta di questo testo è importante decidere chi parla al v. 10. Mancano elementi per un’identificazione senza ambiguità. Bisogna dire che nulla identifica esplicitamente il supplicante come un profeta. Potrebbe trattarsi di un individuo che parla per la comunità, oppure di un pio giudeo oppresso o di un poeta. È preferibile una lettura comprensiva che veda qui il profeta con un gruppo di Israeliti. In altri termini, non consideriamo il poema come 20 A. BONORA, Geremia, uomo dei dolori, Messaggero, Padova 1992, 66. Il conflitto può forse rappresentare il conflitto interno alla comunità del secolo VI e dei secoli successivi, oppure l'opposizione delle nazioni a Giuda, oppure la lotta per il predominio tra diversi gruppi profetici o biografici di Geremia. Un così ampio ventaglio di possibilità rende indeterminato il senso del poema e lo apre a differenti interpretazioni, dato il carattere piuttosto criptico del testo. 21 68 ipsissima verba del Geremia storico: non è, infatti, predominante l'aspetto biografico, poiché si tratta di un testo altamente elaborato e formulato in termini convenzionali ma fortemente teologici. In tal modo, la vicenda singolare di Geremia diventa parabola di una fede che s’interroga sul vero volto di Dio, andando oltre risentimenti e pregiudizi deformanti. La madre (v. 10) sembra essere Gerusalemme; il figlio è il profeta con il suo gruppo, che è ora oppresso dalla comunità del suo popolo (v. 20). Si è creata dunque un'opposizione, un litigio o contesa (v.10) tra il gruppo dei credenti e la comunità. Non si tratta di contrasti di carattere economico o di ingiustizie sociali - «Non ho ricevuto prestiti, non ne ho fatto a nessuno» (v. 10) -, ma il problema è squisitamente teologico e riguarda il volto di Dio. L'esperienza della sofferenza ingiusta, patita dall'innocente, diventa inevitabilmente una chiamata in causa della fedeltà di Dio e della validità della sua promessa (cf il racconto della vocazione). L'opposizione che il profeta e il gruppo che in lui si identifica sperimentano è davvero giustificata? Il discredito gettato sul profeta è segno che Dio l'ha abbandonato, che egli ha sbagliato? È in gioco la missione di Geremia e la condotta di chi lo rifiuta e lo maledice, ma anche l'identità del Signore che lo ha inviato. Ecco perché Geremia si presenta quasi come profeta ideale e perfetto. Il nemico più pericoloso non è esterno, non sono i babilonesi, come sembrerebbe alludere l’espressione: «ferro venuto dal settentrione». Il nemico è all'interno del popolo e coincide con coloro che, con la loro condotta, pongono in dubbio la vera identità del Signore: in definitiva il nemico è interno alla stessa coscienza del profeta e dei giusti che si pongono la questione dell'atteggiamento di Dio verso la sofferenza patita per Lui. Ora la prima parte del v. 11 afferma (secondo una possibile traduzione): «Certo ti ho posto opposizione per il bene». Il gruppo è in opposizione alla comunità, ma il conflitto è per il bene della comunità che Geremia deve condannare, richiamare, denunciare per la sua iniqua condotta. In 11b viene spiegato che l'intervento divino, mediante il profeta, raggiunge il nemico, ossia la comunità che maledice il profeta: «Certo, sono intervenuto per mezzo di te nel tempo della sventura e dell'angoscia, raggiungevo il nemico». In Is 53,6 si trova la stessa sequenza. Sebbene considerati da loro come nemico, Geremia e il servo di JHWH sono strumenti di Dio per il bene dei loro nemici cioè di Israele. Dopo l'enigmatico v.12, il v. 13 riprende la risposta divina che suona sconcertante: saccheggio ed esilio si abbatteranno sul popolo peccatore. Ma il male non viene tanto dal Signore, ma dal peccato del popolo. I tesori e gli averi della comunità saranno saccheggiati a causa dei peccati del popolo. Il possessivo tuoi non può riferirsi a Geremia personalmente: non si capirebbe come le proprietà del profeta siano la base della punizione. I peccati sono quelli del popolo, qui interpellato unitamente al profeta con il tu (cf Ger 39,12 e 40,4-6 dove l'esilio colpisce tutti, ma a Geremia è data la possibilità di restare in patria). Si deve notare che il v. 13 dice espressamente che questo non avviene come risarcimento del peccato, quasi Dio fosse assetato di vendetta: «I tuoi averi e i tuoi tesori li abbandonerò al saccheggio, come ricompensa [meḥîr] per tutti i tuoi peccati commessi in tutti i tuoi territori». Il voi del v. 14b accomuna il profeta e i suoi nemici come oggetto dell'ira divina, mentre al v. 14a i "tuoi nemici" separa il gruppo del profeta dal resto del popolo. Si 69 vede chiaramente la presa di distanza dall'immagine di un Dio giustiziere, al servizio di una giustizia concepita come retribuzione. 2.2.2. Il profeta risponde a Dio e continua il dialogo (Ger 15,15-18) La seconda confessione prosegue con la seguente struttura: (v.15) supplica; (vv.1617) rievocazione elegiaca del passato felice con JHWH; (v.18) durissima accusa a JHWH. Nella supplica del v.15 si riprende la forma del lamento (cf v.10), con la contrapposizione tra la fedeltà di colui che parla e l'ostilità di persecutori [rōdepîm] che si disinteressano di JHWH. La ragione della persecuzione è la fedeltà a Dio: «io sopporto insulto a causa tua». Per l'identificazione di colui che parla si badi che lo stesso si definisce al v. 16 con «io sono chiamato con il tuo nome», che è una formula mai usata per un individuo, ma per la nazione (Dt 28,10; Is 63,19), per il Tempio (7,10-11ss), per Gerusalemme (25,29). L'io del profeta parla non solo a nome proprio ma a nome di un gruppo di pii, ai quali si oppongono quelli che disprezzano la Parola divina. La supplica del v.15 è un interrogativo di fronte all'incomprensibile comportamento di Dio verso agli empi. La supplica indica certamente la fiducia riposta in Colui al quale ci si rivolge; d'altra parte si può vedere in essa come Geremia e il credente trovino difficoltà ad abbandonare la vecchia immagine di Dio, che ha con noi un rapporto mercantile di "dare ed avere". La preghiera si sofferma poi, con uno sguardo carico di nostalgia, sulla felicità del passato, quando la parola di JHWH era la delizia e la gioia del cuore del profeta. Torneremo su tale aspetto, quando parleremo di un Dio che avvince e prende totalmente l'uomo quasi sequestrandolo per sé. Viene rievocato qui un periodo di innamoramento, in cui il profeta era felice di portare il nome di JHWH, cioè di appartenergli. Quest’appartenenza a JHWH era motivo di gioia e d'onore. Come una moglie che porta il nome onorato del marito e un figlio che porta il nome prestigioso del padre, così il profeta porta con orgoglio il nome di Dio. Si ricordi, inoltre, che il nome del profeta [jirmejāhû o jirmejāh] significa "JHWH ha fondato" [dalla radice verbale rmh, in accadico ramû] oppure "JHWH ha esaltato" o "è alto" [rûm]. Ma è proprio l'appartenenza a JHWH che ha prodotto dolore e solitudine. Tali sentimenti, che appesantiscono il cuore di Geremia, contrastano con la gioia di vivere, provata in altri momenti, quando la comunione con Dio e il servizio alla sua Parola gli procuravano un'intima beatitudine e davano all'intera esistenza significato e pienezza. Così, mentre le strade e i luoghi di divertimento esplodono nella festa e l'aria è percorsa da grida sguaiate, il profeta siede solitario, ignorato da tutti, spinto nella solitudine dalla mano invincibile di Dio (Ger 15,17): la solitudine nella quale il profeta vive non è però riempita da un dolce colloquio con Dio, ma viene resa ancora più grave da tale incomprensibile silenzio divino. Perfino il suo fallimento come intercessore non fa altro che sottolineare l'indisponibile libertà del Signore, che sembra sottrarsi anche all'intervento del suo profeta (7,16; 11,14). La gioia di un tempo si trasforma allora in ira e in un grido impressionante: JHWH è diventato per me un torrente infido e la causa della ferita incurabile che mi tormenta! In questo momento nel rapporto con JHWH prevale la dimensione di rinuncia, di fatica, di tensione tra la chiamata divina, che lo pone dalla parte di Dio contro gli uomini, e l'inclinazione personale verso i propri simili. 70 Tale tensione si manifesta addirittura come un dolore fisico permanente, una ferita sempre aperta: "inguaribile" (’ānûš: cf 17,9.16; 30,12) è espressione riferita alla comunità. Si tratta, dunque, di una lamentazione individuale a nome di un gruppo. Il permanere della ferita mette in questione la condotta di Dio22: è affidabile Dio? Egli, che è la fonte di acqua viva (2,13), non si comporta come un torrente o uno wadi infido? A tal punto lo ha portato l'esasperazione! Il profeta giunge a sospettare di Dio e teme che il suo Signore sia diventato come un torrente insidioso, di cui non ci si può più fidare, perché resta secco proprio quando il bisogno d’acqua si fa più urgente. Il suo dubbio coinvolge il dogma fondamentale dell'AT, ossia il principio della fedeltà e credibilità di JHWH e la sua superiorità sugli dèi. La tentazione nella quale il profeta sta per cadere è gravissima e nondimeno assai comune perché è quella che pensa che il volto buono di Dio ne nasconda uno più profondo, minaccioso e buio (cf Dt 1,27ss). Il profeta non soccombe ad essa, perché non si è limitato a tormentarsi interiormente, o peggio ancora a ragionarne con altri, ma ha continuato a rimanere alla presenza di Dio e ha avuto il coraggio di esporre il proprio dubbio atroce davanti a Dio stesso, nella preghiera. 2.2.3. La risposta divina (Ger 15,19-21) Al lamento (vv.15-18) segue la risposta divina oracolare (vv.19-21); è una promessa di liberazione dal potere dei malvagi, imperniata sul verbo šûb, che significa tornare, convertirsi, cambiare le sorti. Ma il linguaggio è abbastanza elusivo. La risposta non riprende i termini del lamento, cioè il nesso tra lamento e risposta non mostra riferimenti a particolari situazioni. La promessa di liberazione è chiara ed esplicita (vv. 20-21) e si sviluppa in un settenario che ne rimarca la certezza insieme all’irrevocabilità della protezione divina, ma dove non sono chiare le modalità della realizzazione: 19 Allora il Signore mi rispose: «Se ritornerai, io ti farò ritornare e starai alla mia presenza; se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca. Essi devono tornare a te, non tu a loro, 20 e di fronte a questo popolo io ti renderò come un muro durissimo di bronzo; combatteranno contro di te, ma non potranno prevalere, perché io sarò con te per salvarti e per liberarti. 22 Quale situazione storica ha provocato la riflessione? Le risposte sono diverse: a) per alcuni l'esperienza personale del profeta; b) per altri la caduta di Gerusalemme (587 a.C.); c) per altri ancora la polarizzazione tra i pii e i non pii nella comunità postesilica. I dati biografici si sono dissolti, nel corso della tradizione e dell'edizione del testo (se mai c'erano all'inizio!) sicché ora il linguaggio risulta metaforico, perciò aperto a significati più ampi. 71 Oracolo del Signore. 21 Ti libererò dalla mano dei malvagi e ti salverò dal pugno dei violenti». Non c'è dunque affatto ironia nella risposta [«qualora ritornerai a me, vedrai che sono affidabile»], ma vi è l'invito a compiere davvero questo difficile passaggio della fede, per cui si capirà che l'affidabilità di Dio non può essere conosciuta se non da chi si affida a Lui. La risposta di Dio è un oracolo in cui JHWH non dà ragioni alle domande di Geremia, perché è Lui soltanto la ragione di tutto. Non offre affatto una risposta, perché è Lui stesso la risposta. Così questa suona essenzialmente come un comando, un invito alla conversione (šûb è ripetuto ben 4 volte al v. 19) e come un'esortazione al ritorno docile, alla disponibilità e lealtà richieste nella vocazione. La risposta di Dio non offre spiegazioni teoriche, né si limita ad alcune parole consolatorie, ma chiede al profeta/credente di tornare, cioè di non rimanere paralizzato dai dubbi e dalle esitazioni, di incamminarsi coraggiosamente per una via di testimonianza e lotta per la causa di Dio. Sarà esclusivamente in questo vivere in docilità alla Parola che egli farà esperienza della promessa del Signore (cf le sette formule di liberazione) senza cadere vittima delle illusioni, dei falsi valori, che distorcono anche la nostra esperienza di Dio, l'immagine che ci facciamo di Lui e di noi. 2.3. Quinta confessione: il silenzio di Dio (Ger 20,7-18) 2.3.1. Il contesto Anche il contesto attuale della quinta confessione sembra dovuto alla redazione postesilica e pare plausibile ritenere che l'esperienza storica conflittuale di Geremia sia stata trasposta dai redattori in termini di opposizione tra pii ed empi in generale, secondo lo schema e il linguaggio abituale delle lamentazioni, probabilmente nel postesilio. Ma che cosa significa questa collocazione della pericope e quale luce ulteriore getta su di essa? Per rispondere a questa domanda è opportuno notare che al v.10 appare l’espressione māgôr missābîb [terrore all'intorno] che è presente anche al v. 3 come nome dato da Geremia a Pašcùr, sacerdote commissario del tempio, che lo mise in ceppi (cf Ger 20,1-4). Si stabilisce così un legame esplicito tra la nostra pericope ed il suo contesto immediato: Pašcùr sembra essere uno degli amici di Geremia. Certamente Pascùr, sacerdote potente, non è un amico di Geremia, ma ad un certo punto fa parte della congrega di individui che finge amicizia con Geremia e poi si rivela essere un gruppo di traditori. Certamente fa difficoltà pensare a parole di Geremia contro i suoi amici, e accettare che egli chieda che siano distrutti (v.10). Questo ci dà un'indicazione preziosa: la prova della fede diventa estremamente seria quando il credente si trova ad essere solo ed esperimenta lo sfaldarsi del tessuto comunitario. La defezione ed il tradimento di coloro che prima erano compagni nella fede è motivo di dolore profondo che aumenta il dilemma in cui si dibatte il credente. 72 2.3.2. Il lamento (Ger 20,7-9) L'io del lamento individuale (vv. 7-9) sembra dunque una persona che rappresenta però anche una comunità. Nei vv. 7-9 si sente il dramma interiore di persone che si sono appassionatamente attaccate a JHWH nell'ascolto della sua Parola. Il testo è oggetto di varie discussioni, ma propendiamo per la traduzione usuale che fa pensare a una seduzione [√pth] e a una violenza [ḥāzaq] di cui il profeta è vittima: il suo grido (violenza e oppressione) equivarrebbe a quello di una donna violentata. L. Alonso Schökel così commenta: "È come se il Signore avesse chiesto relazioni amorose al profeta, fino a sedurlo (senso tecnico di pth in Es 22,15: «quando qualcuno seduca una ragazza nubile...»; metaforico in Os 2,16, in contesto matrimoniale). Bisogna ricordare come il Signore abbia proibito al profeta di accasarsi e di prender moglie, perché lo vuole tutto per sé. Geremia si è lasciato sedurre da tante belle promesse e ora si trova abbandonato e fatto zimbello della gente, dei suoi rivali che gli si accaniscono contro e vogliono sopraffarlo. Il grido di Geremia - «violenza» - è annuncio profetico di sventure; allo stesso tempo risuona come il grido di aiuto richiesto da Dt 22,24-27 (ṣ‘q). È lui a sentire la violenza di Dio (ḥzq: Dt 22,25) e a gridare inutilmente! Quanto agli altri, invece di difenderlo si fanno beffe di lui e pensano solo a consumare la vendetta. Il verbo jkl [potere, riuscire a], ripetuto tre volte, puntualizza il processo (vv. 7.9.10): la prepotenza di Dio, l'impotenza propria, la prepotenza del nemico. Il senso generico del verbo jkl = potere, prevalere su uno, permette una lettura contestuale in linea con l'immagine della seduzione"23. Il testo richiama tematicamente, tanto più nel caso che si intenda il verbo pth come "ingannare" (cf 2Sam 3,25; Ez 14,9), l'accusa mossa a Dio in Ger 15,18 di essersi rivelato un Dio inaffidabile, proprio come si rivela essere il seduttore. Alcuni autori negano un'immagine sessuale, che sarebbe troppo grottesca se applicata al profeta24. Invece ci sembra che essa dica bene il modo con cui a volte il profeta ed anche il credente in genere avvertono la presenza quasi ingombrante di un Dio che è sentito misterioso nel suo agire ed i cui piani vengono percepiti come duri da capire ed accettare. Si noti la grande libertà con cui però ci si esprime davanti a Dio in un lamento che è dura accusa di violenza e di inganno. Vi è poi un elemento da rilevare che è teologicamente importante: sia che il profeta-testimone parli o taccia, si trova a soffrire per la Parola di Dio. Ma proprio in questo legame indissolubile tra sofferenza e Parola sta scritta la possibilità di un senso. Infatti nello svolgimento della seconda parte del libro di Geremia sarà sempre più chiaro che è la Parola di Dio e perciò Dio stesso a patire con e nel profeta e la vittoria di questa Parola - attestata dagli oracoli di speranza di Ger 30-33 e dal particolare della riscrittura del rotolo dopo la sua bruciatura da parte di Ioiakìm (Ger 36,27-32) - sarà la vera speranza del profeta anche quando il suo fallimento apparirà pieno, allorché dovrà ripercorrere a ritroso la storia della salvezza per tornare come al suo punto zero. 23 L. ALONSO SCHOEKEL- J. L. SICRE DIAZ, I profeti, Borla, Roma 1984, 581. R. P. CARROLL, Jeremiah, volume 1, Sheffield 2006, 398. 24 73 Nella vocazione, a Geremia era stato detto che la sua missione profetica sarebbe stata uno «per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere» (Ger 1,10). Ora al v. 8 è chiarito come tutta la sua predicazione sia un giudizio e una condanna dell'oppressione e della violenza, ma come il suo annuncio resti inascoltato. La predicazione della parola del Signore è diventata la ragione per cui il profeta è oggetto di scherno ogni giorno da parte della gente. Egli si chiede dolorosamente perché il Signore l'abbia chiamato ad un annuncio sterile. Non è forse un inganno, una trappola, una violenza? La soluzione potrebbe essere di non parlare più in suo nome (v. 9) e rompere i ponti con un Dio così. Tale compito può apparire un peso insopportabile, se il profeta dimentica che ci sarà pure un misterioso edificare e piantare. Qui, però, Dio non risponde nulla al profeta, né lo esorta a sperare, conformemente alla Parola ricevuta. Questo fa sì che il dramma interiore del profeta si sviluppi con tutta la sua intensità ed egli cerchi così più in profondità il volto di quella Persona di Dio di cui si è innamorato la prima volta e capisca, in modo nuovo, che Egli non è un imbroglione, un seduttore, ma Colui che si prende cura infallibilmente e fedelmente del suo profeta. La tentazione della fuga, che si era già presentata alla vocazione (1,6), si riaffaccia qui più grave e insidiosa: «non parlerò più nel suo nome». Eppure egli sente come una pressione interiore che lo spinge a parlare: meglio ancora, avverte in sé una passione amorosa, una sorta di vulcano che dice come in lui non si sia affatto spento l'innamoramento iniziale nonostante tutte le delusioni: una passione appunto, che gli pare come fuoco che brucia nelle sue ossa, cioè nella sua più profonda interiorità, ed è incontenibile (Ct 8,6-7). Così, paradossalmente, proprio nel momento in cui si sente abbandonato a se stesso e consegnato ad una missione sterile, il profeta avverte la presenza in sé di quel Dio che sente lontano e seduttore. Ancora una volta è lasciato trasparire, sia pure in modo implicito, che nella passione del profeta è coinvolto Dio, ma non come Uno che ha con disinteresse consegnato il suo profeta agli scherni della gente, ma come un Dio che si lascia egli stesso mettere alla berlina e diviene oggetto di ludibrio. Non è forse il Signore che non gli permette di tacere e così continua a consegnare la propria Parola alla derisione e si costringe a subire lo scherno con lo stesso profeta? Così intesi, i vv. 8-9 si riferiscono al profeta Geremia preso tra la sua vocazione divina a parlare e lo scherno e il rifiuto del suo popolo, ma sono anche il paradosso di un Dio che è fuoco e che avvampa d'amore ed insieme d'ira per un popolo che non lo ascolta. Geremia non può rinunciare alla sua vocazione, ma non riesce neanche a sopportare oltre il rifiuto. Non c'è via d’uscita, la situazione è drammatica: da qui deriva il grido di accusa a Dio che seguirà nei vv. 14-18. 2.3.3. Giusti ed empi (Ger 20,10-13) I vv.10-13 ci presentano una folla che cospira contro il profeta e, in questa rilettura postesilica, contro la comunità dei giusti, una folla che spia le sue cadute e cerca l'opportunità di rivalsa. Tra questa folla ci sono anche i suoi amici: questo fatto del tradimento rende il dolore parossistico e la prova della fede più grave. La redazione postesilica non vuole lasciare il suo lettore in preda alle paure, ai dubbi, alle ribellioni, ai momenti d’oscurità che minacciano di sopraffare il cuore del credente; il testo allora passa subito - forse troppo presto - al momento edificante, 74 consolatorio: il profeta, come il vero credente, è sicuro di avere al proprio fianco il Signore quasi un prode valoroso. La presenza del Signore è garanzia che i suoi nemici non prevarranno e finiranno, sconfitti, nell'ignominia. Lo sviluppo di quest’esortazione a confidare nel Signore diventa una preghiera in cui si esprime la fiducia piena nel Signore durante il conflitto, che oppone il giusto agli empi. La conclusione è un invito alla lode perché la liberazione è vista come già realizzata: il giusto è liberato dai malvagi (v.13). Notiamo qui la presenza di elementi tipici della lamentazione salmica che permettono un'interpretazione di questa confessione che non la leghi esclusivamente alla vicenda del profeta. I riferimenti alla storia personale di Geremia sono ben integrati entro lo schema e il linguaggio stereotipato delle lamentazioni. 2.3.4. Maledizione della vita e silenzio di Dio (Ger 20,14-18) A ragione l’esegeta J. Vermeylen scrive che qui l'imprecazione non è un’automaledizione, ma piuttosto un grido di disperazione, un appello supremo a JHWH. Alcuni altri esegeti notano l'espressione convenzionale di lamento di fronte ad una sventura, con allusione alla fine della città (v.16) di Gerusalemme: notizie cattive riguardanti non solo la propria vicenda personale, ma anche l'amata Gerusalemme provocano sentimenti di depressione e di disperazione nel profeta. Così essi ritengono che in questa imprecazione Geremia esprima un voler morire con la sua città, che è destinata alla catastrofe. Ma il grido ci sembra piuttosto una protesta, un appello estremo a Dio perché intervenga e non tanto una volontà di morire. Il linguaggio convenzionale, come appare anche dall'affinità con Gb 3, ci sembra dovuto al voler fare di questo testo una preghiera valida anche per tempi diversi da quelli di Geremia25. 2.3.5. Come interpretare la quinta confessione? Il vero problema interpretativo è dunque l'assenza di una risposta divina che sembrerebbe un segno che il dialogo con Dio è interrotto. Ma come interpretare la maledizione della vita da parte di Geremia? 1. Una prima interpretazione possibile è di vedere in questa sofferenza una pedagogia divina. Se la delusione di Geremia è così profonda che in 20,7 Dio è stato accusato di essere il seduttore, in realtà, anche questa delusione apparirà alla fine una pedagogia divina verso il profeta, che intende ancora troppo umanamente l'assistenza divina. Ma Geremia, dopo avere avuto momenti di sfiducia e di ribellione, esprime pure una ritrovata e più profonda fiducia in Dio (20,11), anche se sempre combattuta. I momenti in cui ha sperimentato la liberazione divina (20,13) serviranno a rinsaldare questa fiducia e a prepararla a prove ancor più pesanti! 25 Il contatto tra Gb 3 e Ger 20,14-18 è evidente. In questa grandiosa supplica, Giobbe lancia un grido allucinante, quasi provenisse da profondità recondite. Il dolore, infatti, è un abisso insondabile. Giobbe, come pure Geremia, non maledice Dio, ma la vita, perché essa e Dio stesso sono divenuti incomprensibili. La vita è tormento, durezza, affanno. L’inizio e la fine della vita, i due poli decisivi dell’esistenza, sfuggono all’uomo e sono soltanto in potere di Dio. Sorgono gravi interrogativi su Dio: è vero che ama la vita dell’uomo? Perché Dio agisce come Deus absconditus? Perché vivere, se si deve tanto soffrire? Perché nascere e morire? Il lamento di Geremia e quello del giusto Giobbe non sono, però, grida disperate e nichilistiche, o una mera protesta o radicale ribellione, ma rimangono un’angosciata e sofferta, eppure imperiosa, domanda rivolta a Dio. 75 2. Una seconda linea interpretativa, che non esclude la precedente, cerca più in profondità e vi vede riflessa l'esperienza del fallimento di Dio stesso. È il mistero di un Dio che, per dare all'uomo la sua salvezza, non aggira il dolore e le sconfitte, ma li supera assumendoli. Proponiamo dunque di vedere qui non il consumarsi del fallimento di Geremia, ma il paradossale insuccesso di Dio stesso. È quanto si trova affermato anche nell'enigmatica risposta di Dio al lamento di Barùc (Ger 45,4-5), dove il discepolo è invitato a guardare con fiducia il futuro senza aggrapparsi a sogni e a grandi aspettative, poiché Dio stesso sta vedendo crollare i propri progetti sul popolo e sul mondo. Esclusivamente attraverso questa dilaniante esperienza del proprio naufragio, il profeta può davvero giungere alla domanda radicale e a "sentire" il dolore di Dio stesso: come mai è fallita la storia di Dio con Israele, come mai un popolo - che ricorda nel suo passato le promesse ai padri e al re Davide, che celebra eventi meravigliosi come l'esodo e l'occupazione della terra - si trova adesso così lontano, su una strada che si incammina verso la rovina totale? Come mai il popolo dell'elezione, dimentico della sua eredità spirituale, è immerso fino al collo, come le altre nazioni, nell'idolatria? Perché Israele vive nell’ingiustizia, negli abusi e nella dimenticanza di Dio, in una religiosità falsa e vissuta come alibi ed alienazione? 3. Ma ciò rende più che mai necessario collocare questo testo e gli altri delle cosiddette "confessioni" nel contesto generale del libro di Geremia. A nostro avviso, è necessario resistere alla tentazione di situare, come fanno alcuni commentatori, ogni confessione in un momento particolare della vita del profeta, per cui la collocazione ideale dell'ultima confessione sarebbe quando la città sta per cadere e Geremia è profeta disprezzato ed in prigione o nel pozzo (Ger 37-38). Bisogna, invece, apprezzare, sul piano interpretativo, il fatto che il redattore non abbia compiuto una simile operazione, conseguendo alcuni vantaggi, tra i quali l’evitare un’eccessiva psicologizzazione che avrebbe reso le confessioni semplici aneddoti dell'interiorità del profeta. Come abbiamo già visto, il guadagno maggiore è quello di mostrarci, nella seconda parte del libro, un profeta che ormai non protesta più, non domanda, non fugge, ma vive come consegnato alla volontà di Dio. Egli diviene la parabola vivente di una parola di Dio che si consegna all'uomo e lascia che l'uomo ne faccia quello che vuole: diventa il modello di ogni credente che, di fronte al tacere di Dio, sa attendere in silenzio la salvezza che viene dal Signore e lascia a Lui i tempi e le modalità della risposta. La preghiera, che sgorga dalla fede matura, è quella che lascia a Dio i tempi e i luoghi. Dio è fedele, ma in una maniera impensabile e impensata per l'uomo. Come sarà fedele Dio? È Dio che determina i tempi, gli spazi e gli stili del suo intervento, mentre spesso l'uomo tenta di imporre a Dio tempi e momenti della sua fedeltà: si pensi al popolo d'Israele nel cammino del deserto. Solo così, nel non forzare il silenzio di Dio, ma nell'accettarlo come rivelazione di una sua scandalosa debolezza ed insieme di una sua invisibile ma inarrestabile potenza - si ricordi la voce di silenzio scavato in 1Re 19,12 -, Geremia entra soltanto ora in un’adeguata relazione con Dio. La collocazione al cap. 20 ha, inoltre, il sicuro vantaggio di portare poi il credente, che vive il silenzio di Dio, a correggere la propria impressione, per la quale potrebbe pensare che questo sia l'esito definitivo del rivelarsi di Dio e della risposta della libertà umana. 76 Quando lo sguardo del profeta si sofferma sullo spirito che sembra diffuso nel popolo di JHWH e nell'umanità circostante, la risposta è pessimistica o, ancor meglio, crudamente realista (Ger 20,10.14-18): l'uomo è chiuso in se stesso, senza possibilità di trascendersi e di giungere autenticamente a Dio, come chiariscono anche i famosi testi che mettono in risalto l'abisso nel quale il cuore umano sembra confinato: «Cambia, forse, un Etiope la pelle o un leopardo la sua picchiettatura?» (13,23). Abbiamo già parlato del cuore dell'uomo, cuore incirconciso (9,24; 6,10-28) e afflitto da una malattia oscura ed inguaribile (17,9). Ma accettare il silenzio di Dio è capire che, se questo è impossibile all'uomo, non è, però, impossibile a Dio. Geremia, partendo dalla propria esperienza, intrisa di scoraggiamenti e di tentazioni, di dubbi e di desiderio di rinuncia alla propria missione, deve riconoscere suo malgrado di avere sempre sentito la presenza bruciante di JHWH. Comprende di conseguenza che l'uomo è infinitamente lontano da Dio, ma può ancora sperare. L'intimo dell'uomo può diventare la sede della nuova creazione (Ger 31,31ss.). Dio interviene non solo nella storia – questo, infatti, non è più sufficiente - ma nell'intimo dell'uomo, rinnovandolo e trasformandolo. Così il Dio di Geremia diventa il Dio della speranza, della nuova alleanza, dell'uomo nuovo, perché c'è ancora la possibilità di guarire dalla malattia mortale. Per l'uomo si affaccia la speranza esaltante di un rinnovato e più intimo dialogo con JHWH. 77 V OLTRE IL PECCATO, LA SPERANZA In mezzo a tante pagine - interrotte soltanto da pochi passi in cui si affaccia l'attesa di un avvenire diverso, preparato da Dio (Ger 3,1ss; 23,1-8; 24,1-10) - nelle quali il centro della predicazione di Geremia è il giudizio sulla perversione da parte del popolo di tutte le istituzioni salvifiche volute da JHWH, come segno dell'appartenenza all'alleanza, e dopo il profilarsi sempre più cupo dell'adempimento della minaccia annunciata dal profeta, il lettore trova una sorta di isola paradisiaca, una serie di meravigliose pagine colme di speranza, che il redattore ha intenzionalmente collocato prima del racconto della passione di Geremia, quasi ad illuminare anche le ore più buie del profeta perseguitato e fallito. Articoleremo il nostro discorso secondo i tre momenti in cui si snoda tale tema all'interno dei cc. 29-32 di Geremia: - la lettera agli esuli (Ger 29) - la speranza nella novità dell’agire fedele di Dio (Ger 30-31) - la compera del campo (Ger 32) 1. Interpretare la storia alla luce della fede: la lettera gli esuli (Ger 29) 1.1. Il contesto storico Sedecìa è stato nominato re da Nabucodònosor con giuramento di vassallaggio. Intanto i piccoli regni sottomessi non possono che stare ad aspettare momenti di debolezza della superpotenza, per scuotere da sé il giogo opprimente dell'asservimento ai babilonesi. Si ha così un'ambasceria di alcuni regni al re di Giuda, perché entri in una coalizione antibabilonese (cf Ger 27). Al profeta non sfugge la presenza di quest’ambasceria e la proposta gli pare chiaramente irresponsabile e scriteriata. Il giudizio di Geremia non poggia, però, su una valutazione di prudenza politica, bensì sull'autorità della parola di Dio. Il profeta si rivolge perciò al re, agli ambasciatori e ai sacerdoti perché non alimentino facili illusioni e non attizzino il fuoco della ribellione, che avrebbe come conseguenza la reazione violentissima di Babilonia. Geremia raccomanda la sottomissione e l'accettazione del giogo del vassallaggio (cf Ger 27-28) come unica via per la sopravvivenza poiché questa, nel piano di Dio, è l'ora di Nabucodònosor e accettare il servizio al Signore, in questo momento preciso, significa anche accettare il vassallaggio verso Babilonia. L'esortazione di Geremia non si rivolge solo ai compatrioti, ma, attraverso una missiva, coinvolge anche i deportati del 597 perché non si lascino sedurre da facili illusioni, bensì riconoscano il dominio di Babilonia come rientrante nel piano di Dio. In questo contesto storico si deve collocare l'invio della lettera agli esuli della prima deportazione a Babilonia, affidata verosimilmente ad un membro di una delegazione 78 mandata a Babilonia, delegazione il cui scopo rimane per noi incerto. Non sappiamo, infatti, se si tratti di un’ambasceria per confermare il rapporto di vassallaggio e quindi consegnare i tributi o mossa da altri scopi: tuttavia essa permette di evidenziare come tra il gruppo di coloro che erano rimasti in patria e i deportati vi sia un'intensa comunicazione. Ma qual è la situazione dei deportati? Forse, tutto sommato, risulta migliore di quella di coloro che sono rimasti in patria. A differenza di quanto era avvenuto in tanti altri casi, i giudei deportati non vengono affatto dispersi in regioni diverse dell'impero, ma sono confinati in zone di Babilonia dove possono più facilmente essere controllati: Tell Abib, Tell Harsa, Tell Melach il canale Kebar. Probabilmente vengono loro assegnate terre incolte da recuperare all'agricoltura: il che è vantaggioso anche per il governo centrale. Ricordiamo che, a parte la proibizione di un ritorno in patria, essi godono in pratica dei diritti di tutti gli altri cittadini dell'impero babilonese. In effetti, i deportati fruiscono di larga autonomia nella gestione dei loro affari economici e nell'organizzazione della vita comunitaria religiosa e familiare, che fa capo agli anziani dei vari clan, cui Geremia rivolge la sua lettera. Un altro elemento da rilevare è che tra i deportati della prima ora devono esserci anche dei falsi profeti, ossia persone che, spesso in buona fede, presumono di avere ricevuto una qualche rivelazione divina per il popolo. Tra costoro, come si può dedurre anche da Ezechiele, abbondano coloro che attendono la fine prossima di Babilonia e favoriscono così facili speranze di riscatto del popolo oppresso; inoltre, il miraggio di un ritorno imminente porta gli esuli a disinteressarsi dei valori della vita quotidiana e a vivere in un distacco per ogni cosa che non sia questo ritorno. 1.2. Il messaggio agli esuli A questi esuli Geremia invia una lettera aperta di cui ora mettiamo in risalto i punti fondamentali. 1. Geremia ritiene che un atteggiamento di fede non sia affatto un ottimismo a tutti i costi o uno sguardo trasognato e privo di realismo sulle circostanze dure dell'esistenza. La speranza che Geremia predica non passa accanto al dolore, ma si fa largo proprio nell'esperienza della sofferenza, in questo caso dell'afflizione dell'esilio. 2. «Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia...» (v. 4). Una fondamentale ragione di speranza sta proprio nel fatto che l'esilio è avvenuto per disposizione di JHWH e, in senso allargato, essa nasce dal sapere che nulla sfugge al suo volere e che quindi tutto può rientrare in un suo piano di salvezza. Qui Geremia non esplicita la sua "teodicea del castigo", che ha in comune con la scuola deuteronomista ed Ez 16 e 23. In ogni caso se l'esilio è stato un castigo non è, però, il rifiuto definitivo del popolo da parte di Dio. 3. Per Geremia il vero resto del popolo può essere formato solo da coloro che, in patria o in esilio, accettano il dominio babilonese e assentono così ai giudizi di Dio e ai suoi piani misteriosi sulla storia, senza ribellioni e recriminazioni. Il resto è qualificato dalla fede e non da una condizione socio-politica. Qui si vedrà la vera fede: quella che non pone scadenze a Dio e sa confessare e riconoscere la sua fedeltà senza dubitare di Lui e senza abbandonarlo per altre facili speranze. 79 4. Geremia è convinto che la dominazione di Babilonia non sia ancora giunta alla sua conclusione e che quindi bisogna accettare le scadenze che Dio ha posto al proprio piano. Gli esuli non dovranno misurare le aspettative sul criterio della loro vita individuale, ma piuttosto sulla vita del popolo, che è fatta di generazioni, e dovranno concepirsi come quella generazione del deserto che, per le sue colpe, non poté entrare nella terra. Nondimeno, la speranza non è finita e anzi il messaggio di Geremia è ottimista: l'esilio non sarà breve, ma non sarà neppure definitivo. «Sarà lunga la cosa» ribadisce il profeta al v. 28. 5. Per questo tempo intermedio i deportati non dovranno rinunciare alla loro identità nazionale e soprattutto dovranno sapere condurre una vita da credenti, riconoscendo che, anche in questo tempo di prova, non sono venuti meno tutti i beni, le cose che danno senso all'esistenza; così la vita, la famiglia e il lavoro dovranno continuare e il popolo non dovrà lasciarsi andare in una nostalgia paralizzante e neghittosa. In definitiva, è necessario accettare e sfruttare la propria condizione, perché in essa si nasconde la volontà di Dio. 6. Sarà necessaria una fede che sappia riconoscere che la presenza di Dio non si compie solo attraverso interventi spettacolari, ma anche attraverso i semplici beni dell'esistenza quotidiana. La fede non dovrà essere un rimpianto del passato, ma dovrà tradursi anche nell'atto di fiducia verso il futuro che è la nascita di un figlio. Occorre una speranza che possegga un lungo respiro e si vesta di pazienza. In ogni caso la fede è il contrario di fatalismo e di passività, anche se sa riconoscere che nessuna situazione politica è un assoluto. Grazie a tale atteggiamento sapienziale, che sa riconoscere i valori positivi dell'esistenza, Israele continuerà ad essere un popolo e, anche se apparentemente sarà soggetto a Babilonia, resterà il popolo vassallo del Signore (v. 4). La salvezza futura s’intravedrà attraverso le attività normali della vita di ogni giorno come il coltivare, costruire, mangiare i frutti del proprio lavoro. 7. In quest’esortazione a non lasciarsi distruggere dalla nostalgia del passato o dall'odio verso i nemici, ma ad assumere un atteggiamento più positivo rientra anche l'invito a pregare per la pace del paese che li ha deportati: «Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare, e pregate per esso il Signore, perché dal benessere suo dipende il vostro» (v. 7). Per gli esuli, l'esortazione di Geremia è anche un invito a capire che i grandi mutamenti della storia non sono quelli prospettati da ideologie utopiche e rivoluzionarie, bensì quelli che si realizzano con la pacifica operosità e la preghiera fiduciosa. 8. Si potrebbe persino scoprire qui l’indizio di un principio di riflessione sulla missione di Israele nel mondo e sul suo compito sacerdotale di recare la benedizione di JHWH alle genti (cf Is 42,6; 49,6). Così il testo assurgerebbe, a livello di una formulazione di principio, ad ipotizzare la vocazione di Israele quale intercessore in favore delle nazioni e certamente segnala l'inizio timido di un cambio di mentalità nella visione del rapporto tra Israele e i gôjim [genti, nazioni]. 9. All'opposto i falsi profeti non possono che annunciare soluzioni a breve termine per assecondare i desideri degli ascoltatori, ma illusorie e nefaste perché incitano alla ribellione contro Babilonia, che porterà come conseguenza ad un inasprimento feroce della dominazione straniera sul popolo. I falsi profeti annunciano solo cambiamenti esteriori della situazione, senza analizzare le motivazioni delle attese, mentre la profezia di Geremia annuncia un mutamento soltanto a lungo termine, che passa attraverso 80 una trasformazione interna degli atteggiamenti e una disamina coraggiosa delle motivazioni. Si badi che il testo ebraico e greco del v. 8 parla non di «sogni che essi sognano» (cf Bibbia CEI 2008), ma di «vostri sogni che voi sognate»26: quasi a dire che le profezie dei falsi profeti cercano un assenso negli uditori e che i desideri di costoro cercano una conferma in questi vaticini; vi è dunque un rafforzarsi reciproco nell'autoinganno, in questo circolo vizioso in cui ognuno cerca ciò che gli piace e non la Parola del Signore. La polemica contro i falsi profeti si precisa poi contro due persone concrete: Acàb, figlio di Kolaià [più precisamente nel TM qôlājāh, che significa "voce di JHWH"), e Sedecìa, figlio di Maasià. La sentenza contro di loro è inappellabile! 10. La parola di speranza è tanto più significativa in quanto il profeta, che dalla Parola di Dio è stato costretto al celibato quale figura della maledizione e sventura che si abbatterà sul popolo, chiede ora agli esuli di prolificare in segno di speranza e di fiducia nella continuità della vita, che supera le varie catastrofi. Così gli esuli, invece di covare sterili sentimenti di vendetta e sogni di rivalsa, dovranno cercare di darsi una vita dignitosa ed umana e giungere paradossalmente a farsi intercessori del benessere del paese dove sono deportati. 11. Il centro teologico e letterario del brano sta nei vv. 10-14 con l'affermazione dell'esistenza di un piano storico di JHWH, che si svolge secondo tappe previste e nel quale la liberazione da Babilonia si svolgerà come una sorta di nuovo esodo. "La somiglianza viene stabilita dalla struttura comune e dall'uso di parole eguali o equivalenti. La struttura è uscire-entrare, o uscire per entrare. Nel primo momento il posto dell'«uscire» lo occupano il «riunire» e «mutare la sorte». Nel secondo momento l'«introdurre» e il «portare» si trasformano logicamente in «restituire, tornare a portare»... L'azione sarà iniziativa di Dio, articolata in due elementi: «mi occuperò», pāqad, è il verbo con cui iniziò l'esodo (Es 3,16; 4,31; di segno contrario Ger 5,9.29; 9,8); i «disegni» che egli stesso controlla e realizza(ḥāšab, con segno contrario in Ger 18,11; 26,3)"27. La speranza dell'uomo non può prescindere dall'esperienza di una vita buona, condotta secondo sapienza, e non si riduce ad un atteggiamento sapienziale nelle occasioni difficili, come potrebbero far pensare i vv. 4-7, ma si radica nella fede nella promessa divina (le buone parole di Dio). E qui il testo offre la solenne promessa di una restaurazione etnica, sociale e religiosa nella terra dei padri, tema che poi i cc. 3031 riprenderanno con accenti nuovi. Bisogna però avere sugli avvenimenti uno sguardo che sia quello di Dio. L'analisi di Geremia infatti non è solo una lucida disamina dei fatti politici o una semplice rassegnazione fatalistica agli eventi che non si possono contrastare: lo spirito profetico permette a Geremia di vedere il bene là dove gli altri vedono solo male. Senza questo spirito profetico, cioè senza questa apertura a vedere ciò che accade nella luce di Dio, tutto rimarrebbe buio; invece Geremia capisce che il luogo della morte si può trasformare, per la potenza e fedeltà di Dio, in occasione di vita: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo - oracolo del Signore -, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (v. 11). 26 TM: we’al-tišme‘û ’el-ḥălōmōtêkem ’ăšer ’attem maḥlemîm (Ger 29,8); LXX: μὴ ἀκούετε εἰς τὰ ἐνύπνια ὑμῶν ἃ ὑμεῖς ἐνυπνιάζεσθε (Ger 36,8); letteralmente: "e non ascoltate i vostri sogni che voi sognate". 27 L. ALONSO SCHOEKEL - J. L. SICRE DIAZ, I profeti, Borla, Roma 1984, 627. 81 La speranza si fonda quindi sulla conoscenza di Dio, cioè nell'aderire docilmente al suo punto di vista sulla realtà dell'uomo. Questa conoscenza di Dio accolta dal popolo è il principio della vera giustizia. Infatti, il popolo dimenticherà ogni falsa ricerca di Dio, ogni ingannevole autogiustificazione e imparerà a mettere la sua speranza esclusivamente in Dio e a cercare Lui solo. La promessa, qui fatta agli esuli, che di fronte ad una ricerca sincera del Signore, Egli si lascia trovare da loro, fa effettivamente presentire la promessa della nuova alleanza di Ger 31,31-34. Il cambiamento di sorte si traduce in una situazione rovesciata rispetto a quella di Ger 2,2-13 e Ger 10,21: «I pastori sono divenuti insensati, non hanno più ricercato il Signore; per questo non hanno avuto successo, anzi è disperso tutto il loro gregge». Se la mancata ricerca del Signore era un cammino inverso a quello dell'esodo e quindi un cammino che conduceva alla schiavitù, ad una esistenza vana che inseguiva il nulla, ora cercare il Signore descrive l'atteggiamento di totale apertura a JHWH e l'incondizionata fedeltà a Lui. 12. La lettera di Geremia ha uno strascico polemico poiché Semaià scrive, a sua volta, lettere dall'esilio agli ebrei restati in patria e al sacerdote Sofonìa, perché arresti Geremia quale falso profeta, disfattista e traditore. L'interrogatorio, a cui il profeta è indirettamente sottoposto allorché gli viene letta la lettera, dà l'occasione per un altro intervento divino contro il falso profeta Semaià e per una sua condanna. I falsi profeti di questo periodo, come Semaià e gli altri, basandosi sull'assioma dell'inespugnabilità di Sion e sull'irreversibilità delle promesse, non sanno, infatti, capire che l'esilio è un'occasione per scoprire la propria responsabilità e il proprio peccato e soprattutto per imparare una nuova e più vera fedeltà al Signore che non ha affatto respinto il suo popolo, ma lo ha soltanto corretto. La salvezza in extremis che essi predicano è un non capire la novità dell'agire di Dio, che può edificare anche là dove la distruzione è totale. 13. Infine è necessario un collegamento del nostro brano con la visione dei due canestri di fichi in Ger 24,1ss. Certamente questo testo ha subìto reiterate riletture che vi hanno, per così dire, lasciato le loro cicatrici: è però possibile individuare un nucleo originario in Ger 24,1a. 2-4, che si avvicina alla valutazione teologica che Geremia dà della condizione degli esuli. I "fichi buoni" sono proprio quegli esuli che, nell’errata concezione di coloro che erano rimasti nella terra (cf Ez 11,15), erano stati privati della presenza del Signore, poiché erano stati allontanati dalla terra stessa. Geremia non può certamente accettare questa lettura che fa della terra una sorta di garanzia della presenza di JHWH, al pari del Tempio o delle altre istituzioni il cui fallimento il profeta ha già denunciato. Geremia smantella allora la falsa sicurezza di coloro che sono rimasti nel paese e i loro criteri teologici: così giunge ad affermare che Dio non ha affatto abbandonato gli esuli. D'altra parte Geremia non giungerà neppure a privilegiare la condizione dei deportati a detrimento della situazione teologica dei poveri che vengono lasciati nel paese dopo la caduta di Gerusalemme.Ciò che è decisivo non è il trovarsi o non trovarsi nella terra, ma la fedeltà a Dio, la circoncisione del cuore. 82 2. In memoria di Rachele (Ger 30-31) 2.1. La struttura dei capitoli 30-33 I cc. 30-31 vengono chiamati libretto della consolazione con un termine preso a prestito dal titolo dato alla seconda parte del libro di Isaia (40-55). Certamente questi capitoli formano un'unità autonoma, una serie di vaticini di salvezza. La parola profetica che Geremia ha ricevuto non deve solo sradicare e demolire, ma anche edificare e piantare, deve cioè annunziare anche un nuovo futuro reso possibile dall'azione di Dio. Come succede spesso, la datazione di una serie di oracoli è difficile: per molti esegeti essa sarebbe da collocare nel primo periodo della riforma giosiana poiché l'oggetto di questi oracoli di salvezza è per lo più il Nord. Per altri esegeti abbiamo invece una collazione di oracoli di tempi diversi. La questione resta di difficile soluzione. In ogni caso la redazione finale presenta uno stile simile al Deuteroisaia e ciò potrebbe essere un indizio per collegare il redattore al teologicamente vivace periodo esilico o all'immediato postesilio. Intraprenderemo pertanto una lettura sincronica che si interessi al testo nella sua forma attuale. Seguiamo la struttura proposta da B. A. Bozak28: 1. Introduzione in prosa con parole di restaurazione (30,1-4) 2. Poema I: contrasto Sospiro e rumore d'angoscia La presenza salvatrice di JHWH (30,5-11) (30,5-7) (30,8-11) 3. Poema II: guarigione della piaga incurabile La piaga incurabile (30,12-15) Promessa di guarigione (30,16-17) (30,12-17) 4. Poema III: la presenza di JHWH che cura e corregge (30,18-31,1) La presenza di JHWH che cura (30,18-22) e corregge (30,23-31,1) 5. Poema IV: una volta ... ancora Una volta (31,2-3) Anche ora (31,4-6) (31,2-6) 6. Poema V: la grande assemblea di JHWH Il ritorno da lontano (31,7-9) Ripieni fino alla sazietà (31,10-14) (31,7-14) 7. Poema VI: la speranza rinnovata L'inconsolabile Rachele (31,15-17) 28 (31,15-22) B. A. BOZAK, Life “anew”. A Literary-Theological Study of Jer. 30-31, Analecta Biblica 122, PIB, Roma 1991. 83 Èfraim consolato Una nuova creazione (31,18-20) (31,21-22) 8. Conclusione in prosa: una totale novità a. Tutte le cose rinnovate (31,23-34) - Rinnovata benedizione (31,23-26) - Un nuovo proverbio (31,27-30) - Una nuova Alleanza (31,31-34) (31,23-40) b. Garanzia sul futuro - Esistenza assicurata - Cambiamento di vita (31,35-40) (31,35-37) (31,38-40) La tempesta del giudizio, la solitudine e la disperazione del peccato sono qui cose del passato: ora domina una nuova vita che fiorisce dopo la purificazione. In tal senso, in una prospettiva canonica, questi capitoli sono al centro del libro di Geremia: essi sono come una sorta di risposta alle inquietanti domande che evidenziavano l'impossibilità della conversione e perciò del cambiamento di sorte. Inoltre, precedendo il racconto della "passione di Geremia", aprono uno spiraglio di luce e speranza sui giorni tenebrosi e tragici del testimone. Dal punto di vista dei contenuti e del tono, pur essendo fatti di elementi eterogenei, sono percorsi dal triplice filo rosso: - Il tema del cambiamento di sorte che percorre tutti i poemi del libretto ed è ben presente anche nelle parti in prosa; - l'apertura sul futuro, garantito dalla gratuità della salvezza. Questo tema si accosta alla sottolineatura della continuità e discontinuità tra il passato e il futuro; - il motivo della gioia traboccante. La profezia di speranza del libretto della consolazione si collega alla lettera agli esuli, che funziona da prolessi (Ger 29); infatti, già in Ger 29,12-14, dopo molte pagine di lacrime, il profeta di Anatòt annunciava un cambiamento di sorte, iniziava un messaggio di speranza che ora finalmente trova sviluppo. Il libretto della consolazione è seguito opportunamente dal racconto dell'acquisto simbolico del campo (Ger 32), che ne è come un prolungamento e una concretizzazione parziale: la continuazione dell'annunzio di salvezza prosegue anche in Ger 33. 2.2. Analisi di Ger 30-31 e la tematica della nuova alleanza 2.2.1. Introduzione in prosa (30,1-4) Perché scrivere gli oracoli e non semplicemente proclamarli? Perché essi devono restare per il futuro: per questo si devono scrivere e conservare. La parola scritta può così accompagnare la vita del popolo anche oltre la morte del profeta. Inoltre bisogna ricordare che, poiché il popolo a cui il profeta si rivolge non comprende il giudizio e la minaccia di Dio sulla sua vita, esso è ancora meno pronto ad accogliere la verità della speranza e della novità che Dio sta per annunciargli. Ecco che allora il messaggio del 84 profeta deve essere messo per iscritto in vista del tempo in cui il popolo si sarà aperto alla comprensione del giudizio e perciò anche del vero centro della predicazione profetica, che non è il giudizio ma la salvezza. Primi destinatari di questi oracoli di salvezza sono Giuda ed Israele, perché la fraternità ritrovata tra i due gruppi è un momento stesso della profezia di speranza. Per Geremia "ritorno" e "riunione" del popolo sono due aspetti della comunità nuova che il Signore vuole edificare. Grazie al "mutamento di sorte" o trasformazione della realtà che Dio realizzerà, sarà possibile riconoscere l'autenticità di questi oracoli. Questa introduzione al libretto della consolazione dà gli elementi essenziali di tutta la composizione. 2.2.2. Poema I: contrasto (30,5-11) - Sospiro e rumore d'angoscia - La presenza salvatrice di JHWH (30,5-7) (30,8-11) Inizia la descrizione di un giorno tragico, con grida e gesti disperati. I dolori del parto, nell'Oriente Antico, sono l'emblema della sofferenza suprema, parossistica. Eppure anche questa sofferenza è feconda perché genera una creatura nuova. Ora c'è in Israele, sembra dire Geremia, un dolore lancinante che colpisce i maschi e ne stravolge i lineamenti. Ma questo dolore è infecondo perché i maschi non possono partorire. Si pensi a un testo analogo di Is 26,18: «Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento». Il profeta non può che concludere: «Grande è quel giorno, non c'è n'è uno simile! Esso sarà un tempo di angoscia per Giacobbe, ma ne uscirà salvo» (v. 7). Così il dolore sterile dei "maschi" diventa fecondo: certamente non è una fecondità che la sofferenza abbia in se stessa, ma solo perché è visitata dalla potenza di Dio che può dare la vita là dove regna la morte. La trasformazione della realtà per opera di JHWH è particolarmente evidente nel passaggio dalla prima stanza di questo poema (vv. 5-7) alla seconda stanza (vv. 8-11), dove si sviluppa l'annuncio dell'intervento salvifico di JHWH. La salvezza si realizza in ogni caso dopo il giudizio e l'effetto di questo giudizio sarà proprio quello di preparare i cuori alla salvezza. Esso diventa quindi già misteriosamente fecondo. Solo quando il popolo capisce che le vie che ha percorso sono inutili e disperate e che non vi sono altre alternative, allora è pronto a capire che la salvezza viene solo dal Signore. L'angustia del "grande giorno" derivava dal non poter rompere un giogo gigantesco, dalla percezione dell'impossibilità di trovare una via d'uscita. La salvezza consisterà nel passare dalla schiavitù alla libertà, per opera del Signore. Gli Israeliti non saranno più soggetti agli stranieri ma solo al servizio del loro Dio (cf il tema dell'esodo), ubbidendo al nuovo re Davide suscitato dall'alto. È uno dei pochi testi messianici di Geremia! La ragione di questa reticenza non sta solo nelle delusioni che Geremia aveva provato nei confronti della monarchia davidica corrotta, imbelle e priva di lucidità, ma nel fatto che il profeta non sogna tanto un nuovo stato quanto una comunità radunata dal Signore. Anche questo richiamo a Davide è più il sogno di un tempo di tranquillità che l'attesa di una restaurazione monarchica, a cui il profeta era piuttosto indifferente, 85 poiché nessun regno e nessun re per Geremia può essere il salvatore, ma solo il Signore. È il libro della consolazione di Geremia. Come nell'esodo dall'Egitto, Dio appare anche qui quale il liberatore e il salvatore che infrange il giogo di Babilonia, in favore degli oppressi. I vv.30,10-11 mancano nella LXX e ricorrono anche in Ger 46,27-28 che nella LXX troviamo in Ger 26,27-28. Per i due fratelli, Giuda e Giacobbe, ormai umiliati e pacificati, il ritorno dall'esilio mostra una speranza superiore a tutte le disperazioni. Con Dio, ritornato vicino al suo popolo, si sciolgono le paure e le incertezze. Lo spavento universale, che terrorizzava anche i più coraggiosi, sarà superato con il Dio vicino. 2.2.3. Poema II: guarigione della piaga incurabile (30,12-17) - La piaga incurabile - La promessa di guarigione (30,12-15) (30,16-17) Ora l'annunzio di liberazione è dato, più che in un quadro di catastrofe generale, su uno sfondo di miseria e di castigo. Il soggetto è la città eletta, Sion-Gerusalemme. È possibile che il passo risalga a dopo il 586 a.C.: Gerusalemme è stata ferita gravemente. La sua piaga è incurabile e dolorosa. Si badi che per il profeta la piaga non è tanto la conseguenza delle catastrofi storiche o meteorologiche da cui il popolo è travolto, ma di qualcosa di più profondo e cioè l'infedeltà al patto con JHWH, infedeltà che inevitabilmente trascina con sé il castigo. Spesso il profeta aveva sentito la gravità di questa piaga interiore delle tribù di Israele-Giuda, divenuta ormai cancrena (6,7.14; 10,19; 15,18; 19,8). Nessuno osava mettervi mano, ogni rimedio era inutile. Solo il vero medico dei cuori riesce a spalmare il farmaco perfetto che cicatrizza le piaghe, guarisce ogni ferita purulenta e fa nuovamente sorridere e risplendere il volto dell'infermo. Bisogna solo farsi curare da Lui, ascoltando le sue parole e rivolgendosi a Lui con tutto il cuore e con tutta l'anima. È la fiducia che ogni medico chiede e che Dio, il medico dell'uomo, chiede al popolo/sposa! Il popolo è come una donna ormai malata e repellente per le sue piaghe, che viene dimenticata dai suoi "amanti", cioè dai suoi idoli, ma non dal suo legittimo sposo, Dio, che la cerca per curarla ed amarla nuovamente. La cura supererà radicalmente la trasgressione del patto che era all'origine della ferita incurabile. Nuovamente troviamo il tema della trasformazione della realtà per l'intervento salvifico di JHWH: dall'angoscia alla gioia, dalla morte alla vita. 2.2.4. Poema III: la presenza di JHWH che cura e corregge (30,18-31,1) La presenza di JHWH che cura (30,18-22) e corregge (3,23-31,1) è il tema fondamentale di questo poema. La promessa di salvezza, presente nel v.17 del precedente poema, trova ampio sviluppo qui dove si descrive dettagliatamente l’agire salvifico di JHWH. Così ai vv. 18-22 viene completato il quadro del ritorno in patria dei vv. 5-11. Dio ripristinerà la tenda di Giacobbe, cioè la comunità d'Israele, ricondotta nella terra: ciò significa che Egli realizzerà nello stesso tempo la sua ricostituzione civile, espressa con l'immagine di un popolo numeroso, e la sua restaurazione religiosa, come assemblea 86 radunata davanti a Lui, con il governo supremo nelle mani di un principe della discendenza di Giacobbe caratterizzato anche dal compito sacerdotale, cioè con il privilegio di potersi avvicinare a Dio. Ecco allora le tende dei nomadi ricostruite e le piazze della città inondate da canzoni gioiose. Bisogna saper riscoprire la gioia del canto e il sapore della gioia: si tratta una scoperta difficile, perché ci sono le contraffazioni della felicità, ma quella che viene da Dio sarà una festa vera. Al v. 21 il "principe" non viene chiamato "re", per una polemica evidente contro la monarchia contemporanea di Geremia, ormai corrotta, una polemica condotta anche contro le varie dinastie del Nord che si arrogavano con la forza un potere che spettava solo a Dio. Il v. 22, che forse deriva da 31,1, è la formula di alleanza che ricorre più volte in Geremia (7,23; 11,4; 13,11; 24,7; 32,38). Gli ultimi versetti (30,23-24; 31,1) richiamano il Salmo dei "sette tuoni" (Sal 29): si scatena la tempesta del Signore, simile ad un tifone che spazza anche i più solidi rifugi dei malvagi. Il vento della sua collera brucia tutte le ingiustizie e scioglie il gelo del male. A questo Dio si prostra ormai adorante tutto ciò che è nei cieli e sulla terra. 2.2.5. Poema IV: una volta ... ancora (31,2-6) Il c. 31 è uno dei testi più importanti di Geremia e costituisce indubbiamente una delle vette spirituali dell'AT: la composizione attuale è abbastanza organica, nonostante la sua complessa storia redazionale. I vv. 2-6 sono sotto il segno del ricordo di una volta e l'annunzio lieto dell'ancora. Il tema della trasformazione della realtà appare solo velatamente in due elementi: il cambiamento nei versetti d'apertura e la ripetizione di ‘ôd [ancora]. Si inizia ricordando l'esodo - l'espressione del v. 2 māṣā’ ḥēn [trovò grazia] ricorre cinque volte in Es 33,12-17 - e il passato babilonese, come il periodo in cui si è scampati alla spada, per passare alla positività, che è sottolineata dal triplice ‘ôd [ancora] nei vv. 4-5. Così, dopo l'annuncio dell'intervento di Dio, si sottolinea anche la continuità con il passato d'Israele come luogo delle esperienze dell'amore di Dio. Il deserto, luogo della solitudine e dell'essenzialità, diventa di nuovo un crocevia dell'incontro con Dio. Israele, scampato alle persecuzioni, marcia verso la sua terra. Egli vede da lontano profilarsi il volto di Dio. Appena sono di fronte, i due partners dell'alleanza si guardano negli occhi e il Signore pronuncia la sua dichiarazione di amore: «ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele». Tutte le rimostranze di Israele che si sentiva abbandonato dal suo Dio, le accuse, forse nutrite segretamente nel suo cuore, contro Dio e il suo operato, finiscono di fronte ad una certezza che ora si fa chiara: anche nei momenti più bui Dio non ha dimenticato né abbandonato il suo popolo e ha continuato ad amarlo. È su tale amore misericordioso che il popolo potrà contare per un nuovo futuro. Grazia, amore, misericordia formano una triade, ma la base è l'amore! È il suo amore che attrae l'uomo, pur rimanendo sempre anche il Dio lontano (cf 23,9). I pellegrinaggi verso Gerusalemme, che ricominciano, fanno capire che anche le tribù del Nord si riferiscono nuovamente, dopo lo scisma, a Gerusalemme come all'unico centro legittimo del culto jahwistico (1Re 12,16.26-30). 87 2.2.6. Poema V: la grande assemblea di JHWH (31,7-14) I temi che si corrispondono sono il ritorno degli esuli da lontano (31,7-9) e l'annunzio di una pienezza fino alla sazietà (31,10-14). Il popolo sarà di nuovo restaurato, sarà piantato sui monti di Samarìa e riprenderà la serena vita con i pellegrinaggi alla casa del Signore in Sion, proclamati da messaggeri (cf Sal 122,1-2). Idealmente dovrebbe essere il pellegrinaggio della festa delle Tende [Sûkkôt], quando il popolo rinnova ritualmente l'esperienza del deserto. E così, nell'immaginario del profeta, le piazze formicolano di gente, di giovani in festa ed egli contempla le vigne sulle colline, percorse dai vendemmianti che cantano. Il Signore è il Dio della gioia, che osserva con gioia l'uomo che gioca. L'abbondanza del vino e degli altri cibi segnala i nuovi tempi traboccanti di gioia. La lunga catena montuosa di Samarìa riecheggia di un richiamo di sentinelle in postazione: è un appello a ricomporre l'unità del popolo di Dio, disperso per il mondo, nella città santa di Gerusalemme. In questo popolo di salvati non emergono i re, ma i sofferenti, i deboli e gli umili - i ciechi, gli storpi, le donne incinte e quelle partorienti - poiché sono loro la nuova comunità a cui Dio rivolge l'occhio affettuoso (cf Is 35,5-6). Allora finalmente si capisce che un dolore fecondo come quello di una madre - non il dolore dei maschi che devono assurdamente partorire! - e la miseria diventano un terreno su cui Dio compie le sue meraviglie. Al v. 9 si compie il grande sogno di Dio. Se in Ger 3,4 Dio aveva atteso che Israele gli dicesse una volta sinceramente ’ābî [padre mio], mentre tutte le invocazioni rimanevano ipocrite, ora, dopo la sofferta purificazione, Israele è finalmente un figlio educato dall'amore paterno di Dio. Come un bambino, Israele non inciampa più perché è sorretto da Dio e la via è stata spianata dal Signore: le lacrime antiche sono sostituite dai fiumi della gioia, che scaturiscono dal perdono divino (cf Sal 126). Nei vv. 31,10-14 vi è il messaggio divino della pienezza di vita e di gioia esuberante (cf anche il simbolo del cibo abbondante), rivolto a tutte le genti con un motivo teologico anch'esso ben sviluppato: Dio è un pastore, che raduna il gregge e lo redime [pādāh; gā’al ] dagli oppressori. I figli d'Israele hanno accolto la rivelazione dell'amore liberatore di Dio: lo scenario di questa liberazione è cosmico. Tutte le regioni della terra contemplano il grande e amoroso pastore divino e il popolo che gode di ogni prosperità spirituale e materiale. Se nella celebrazione sacrificale il "grasso" era riservato ai sacerdoti, ebbene i sacerdoti sono i primi a godere di questa nuova benedizione del Signore: «Nutrirò i sacerdoti di carni prelibate [letteralmente, grasso]» e «il mio popolo sarà saziato dei miei beni». Così nell'immagine dei sacerdoti sazi di "grasso" e del popolo saziato dei beni di JHWH è suggerito il superamento della tensione nei confronti del culto, poiché il culto della comunità del ritorno è sincero e non fatto solo con le labbra. 2.2.7. Poema VI: la speranza rinnovata (31,15-22) Il brano ha tre centri d’interesse: l'inconsolabile Rachele (31,15-17); Èfraim consolato (31,18-20); l'annunzio di una nuova creazione (31,21-22). I vv. 15-17 fanno riecheggiare con sublime lirismo il pianto di Rachele e la voce del sincero pentimento dei figli d'Israele. Rachele è colei che morì a causa del parto di Beniamino (Gen 35,16-20) e la cui maternità è simbolo imperituro di una vita che si fa 88 dono fino alla morte: ma se i figli di Rachele muoiono anch'essi, la sua morte è inutile e la disperazione è la più totale. Così la donna si alza ora dalla tomba per levare il suo pianto inconsolabile: è figura di quel dolore per il quale non ci può essere nessuna umana consolazione e spiegazione. Ella torna vicino a Betlemme, dove Beniamino era nato e lei era morta, ma il luogo dove si ferma è Ramà, là dove erano stati aperti i campi di concentramento per coloro che dovevano essere deportati (Ger 40,1): Ramà era in qualche modo il luogo simbolico di una concentrazione del dolore. Ma il profeta può ora dare la consolante notizia che il Signore asciugherà queste lacrime: «Trattieni il tuo pianto, i tuoi occhi dalle lacrime, perché c’è un compenso alle tue fatiche…» (v. 16). Il Signore si china su Rachele, vera "mater dolorosa", e la consola: il singhiozzo del pianto convulso, che è umanamente inarrestabile, si calma, perché ciò che Dio sta per operare è davvero una consolazione impossibile all'uomo. Il testo intende annunciare il ritorno degli esuli e non esplicita ancora una speranza nel senso di una vittoria divina sulla morte fisica, ma è indubbio che almeno il linguaggio comincia ad evolversi nella direzione di una simile attesa. Al pianto di Rachele, che viene consolata, succedono le voci di rammarico degli efraimiti, che riconoscono le loro colpe e vengono anch'essi consolati (31,18-20). All'unico verbo, che descrive il peccato di una giovinezza infame, succedono ben cinque verbi di pentimento e di conversione: la nuova scelta cancella tutto il nefasto passato, ma deve essere profonda, intensa, radicale. Se in 3,10ss Dio doveva constatare con dolore che il popolo era come una donna infedele, che non desiderava affatto tornare dal primo marito, ora la situazione è profondamente mutata, poiché il ribelle Èfraim chiede a Dio la grazia della conversione: «fammi tornare ed io ritornerò, perché tu sei il Signore, mio Dio». Ecco dunque le voci di cordoglio e di rammarico fra gli efraimiti: hanno provato confusione e pentimento, riconoscendo i propri peccati e la giusta punizione del Signore, ed ora è da Lui che aspettano la grazia del rimpatrio. Ad essi risponde direttamente il Signore: Èfraim è certamente il figlio prediletto del Signore, il più prezioso ai suoi occhi, perché anche quando lo rimprovera si commuove e gli userà misericordia. È questo un intenso soliloquio di Dio con se stesso, dove l'amore paterno di Dio si fonde con il suo amore materno (v. 20): Non è un figlio carissimo per me Èfraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore29 si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza30. 29 Nel testo ebraico vi è il termine mē‘aj, che, letteralmente, significa"le mie viscere": nella mentalità semitica esse sono la sede dei sentimenti più profondi, "viscerali". 30 In ebraico troviamo l'espressione raḥēm ’ăraḥămēnnû con due tempi verbali al piel del verbo rāḥam derivante dalla stessa radice del sostantivo reḥem che indica l'utero. Certamente il verbo ha quindi una connotazione femminile. Questa modalità espressiva frequente in ebraico - la troviamo anche immediatamente prima con zākōr ’ezkerennû, tradotta «me ne ricordo con intenso affetto» - rafforza il significato, già di per sé intensivo, della forma piel. Per rendere questo significato nelle nostre lingue europee bisogna ricorrere ad espressioni perifrastiche. Così la Bibbia CEI 2008 traduce: «il mio cuore si 89 L'ultima stanza (vv. 21-22) ha una chiara connessione con la prima, quella che riguarda Rachele, sia per l'impiego dell'immagine femminile, sia per il termine tamrûrîm (cf Ger 31,15)31. JHWH invita la "vergine d’Israele" a porre dei segnali lungo la strada, "le chiede di innalzare delle steli o elevare cippi che diano testimonianza dell'evento e diventino fattore di memoria per le generazioni future. Sono i segni del ritorno stesso, miracoloso, per il quale c'è rischio che non rimanga traccia, quasi non fosse mai avvenuto (cf Sal 77,20)......Ma i «cippi» di cui parla il v. 21 sono anche memoria della strada stessa che è (stata) percorsa: Dio dice infatti alla donna che deve «porre mente" (ְךÊֵ֔ )›ִ֣ ִתי ִלal percorso effettuato, alludendo probabilmente alla necessità di conservare la memoria delle sofferenze e delle lacrime che hanno caratterizzato il cammino del ritorno (cf 31,9). Ciò sarebbe evocato dalla parola ריםÍר ֔ ִ ַ˙ ְמche, nella sua polisemia, significa sia 32 «segnali» sia «amarezze» (cf v. 15)" . Il testo immagina quindi di vedere già le carovane dei rimpatriati: essi vengono esortati a riconoscere, a rintracciare la strada esatta. La via dell'esilio era segnata da questi cippi e pali indicatori, che portavano lontano, verso un destino di desolazione: ora essi diventano segni di speranza. Succede così con i segni di Dio nella storia, segni che vengono letti in due modi radicalmente diversi secondo l'orientamento vitale di chi li legge, fede e conversione, oppure incredulità ostinata. Il testo ebraico parla di un «metti il tuo cuore a...»: cuore è sineddoche della persona. Questo significa che il ritorno nella terra, metafora del ritorno spirituale a Dio stesso, deve coinvolgere tutta la persona, le sue conoscenze e le sue decisioni. Dio rivolge un amabile rimprovero ad Israele, paragonato ad una figlia errabonda e ribelle, e lo esorta due volte a fare ritorno. È anche l'invito a non avere esitazioni nel viaggio nel deserto e, più in profondità, a convertirsi al Signore senza tentennamenti e ondeggiamenti. La ragione di questa sicurezza sta nel fatto che Dio ha compiuto qualcosa di veramente nuovo sulla terra (cf v. 22: kî-bārā’ JHWH ḥădāšāh bā’āreṣ): Fino a quando andrai vagando, figlia ribelle? Poiché il Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna circonderà l’uomo! In che cosa consista la "cosa nuova", che Dio sta per creare, appare dall'ultima parte del versetto: «la donna circonderà l'uomo». Si vuole dire che il Signore sta creando qualcosa di veramente meraviglioso, dalla qualità escatologica. Ebbene, la spiegazione di che cosa significhi che la donna circonderà l'uomo ha trovato tutta una serie d’ipotesi assai diverse. commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza». Non si riesce però a rendere la connotazione femminile dell'amore profondo, "viscerale", di Dio. 31 Questo termine, tradotto solitamente con "paletti indicatori", è un hapax legomenon la cui derivazione è incerta; un termine simile ricorre, oltre che in 31,21, solo in 31,15 e in 6,26 con il significato di "amaro, amaramente" (dalla radice mrr): "pianto amaro", "laméntati amaramente". Nella LXX troviamo τιμωρίαν ["punizione, rappresaglia", ma anche "aiuto"] che potrebbe essere una translitterazione omeofonica del vocabolo ebraico. Qui potrebbe derivare dalla radice tmr ["albero di palma" come segnale indicatore]. Così è interpretato già da Rashi. Cf R. P. CARROLL, Jeremiah, volume 2, Sheffield 2006, 601; J. R. LUNDBOM, Jeremiah 21-36, Anchor Bible 21B, New York, NY 2004, 449. 32 P. BOVATI, Geremia 30 - 31, dispense del PIB, Roma 2007-2008, 264. 90 Vi è chi intende il testo nel senso di una pace tale che basteranno le donne a proteggere la città o anche le carovane dei rimpatriati: le donne potranno restare al posto degli uomini e "cingere gli uomini". Oppure si può cercare un’altra interpretazione e leggere in questa frase un simbolo nuziale. Solitamente è l'uomo che corteggia la donna: ora è la donna che corteggia l'uomo. Sarà dunque Israele, donna infedele, a circondare di premure il suo sposo, il Signore, in un rinnovato idillio d'amore. Non sarà il Signore a prendere l'iniziativa, ma Israele, paragonato ad una donna amorosa e fedele. Proprio qui sta quella nuova creazione che il profeta annuncia, anche attraverso un richiamo al libro di Genesi: è la capacità donata da Dio al popolo di amare e di cercare sinceramente il Signore. 2.2.8. Conclusione in prosa: una totale novità (31,23-40) a. Tutte le cose rinnovate - Rinnovata benedizione - Un nuovo proverbio - Una nuova alleanza b. Garanzia sul futuro - Esistenza assicurata - Cambiamento di vita (31,23-34) (31,23-26) (31,27-30) (31,31-34) (31,35-40) (31,35,37) (31,38-40) Il tema che unisce queste parti in prosa, stilisticamente ben differenziabili dal resto del libretto della consolazione, è quello della tensione tra continuità e discontinuità, tra passato e futuro. Già attraverso l'intero ciclo di poemi vi era un costante riferimento al futuro, compreso però utilizzando termini tratti dall’esperienza di fede del passato, che gli oracoli di salvezza ripetono. Così la presenza salvifica di JHWH, conosciuta un tempo, sarà nuovamente conosciuta e riconosciuta, mentre la sofferenza, il castigo, il peccato avranno fine. In altre parole: il futuro, benché radicalmente nuovo, ha il suo fondamento nella presenza salvifica e gratuita di JHWH. Ma questo tema della continuità-discontinuità tra passato e futuro appare più chiaramente e massicciamente qui che in tutto il resto dei cc. 30-31. La profezia geremiana della nuova alleanza è immediatamente preceduta dalla critica del principio di retribuzione collettiva (31,27-30). Anche qui si avverte il tema della continuità e discontinuità tra passato e futuro. Il v. 28 esprime chiaramente il fatto che il Signore continuerà a vigilare sul popolo, ma il contenuto è cambiato: se dapprima vigilava per castigare il peccato, in futuro vigilerà per il bene, per un'azione positiva. Ma la sua vigilanza sul popolo non viene mai meno! Il proverbio citato da Geremia al v. 29 indica invece la rottura con il passato di peccato e di castigo: tale proverbio è ripreso anche da Ezechiele (18,2). La solidarietà nel castigo non sarà più messa in atto, come nel caso di figli innocenti puniti per i peccati dei padri, bensì ognuno risponderà delle proprie scelte e maturerà una propria responsabilità. Proprio la tentazione di scaricare sugli altri le proprie responsabilità, l'affidarsi a luoghi comuni, non sarà compatibile con il nuovo rapporto con Dio che caratterizzerà la nuova alleanza. La critica al principio di retribuzione collettiva non è dovuta a una specie di riflessione teologica, che ne svela le aporie etiche, né è frutto di un approfondimento 91 teorico nel campo dell'etica, ma è il risultato dell'intervento di Dio nella storia dell'uomo che disinnesca il perverso meccanismo del peccato, il quale veramente coinvolge i figli nelle colpe dei padri. Domandiamoci ora qual è il posto e il significato in questo sviluppo dell'idea di alleanza nell'oracolo geremiano sull'alleanza nuova. Per esprimere il ritrovato e rinnovato rapporto tra Dio ed Israele, Geremia usa allora la categoria biblica di berît, ora definita come nuova. Abbiamo qui un testo destinato ad avere grande udienza nel NT e nella tradizione cristiana. Segnaliamo subito che il tema continuità-discontinuità viene nuovamente ripreso. Proprio l'uso del termine berît, ormai consacrato nella fede di Israele, indica la continuità. Però, l'elemento della discontinuità o novità è certamente rimarcato attraverso l'affermazione che la nuova alleanza non sarà come la prima. La prima era infranta. La novità di questa alleanza è dunque l'aspetto che merita una speciale attenzione in sede interpretativa. Infatti l'aggettivo ḥādāš [nuovo] in ebraico non significa necessariamente una radicale novità ma potrebbe indicare anche un rinnovamento. La traduzione della LXX con καινή / kainē, invece, sembra insistere sul tratto della radicale novità, analogamente alla novità della "nuova creazione", alla quale si riferisce Geremia nel contesto vicino (Ger 31,22). I vv. 31,35-40 affrontano poi il tema della stabilità della nuova alleanza e del nuovo popolo. Alcuni autori ritengono che questi versetti non siano di Geremia, ma risentano dell’influsso di Ezechiele: in realtà essi sono coerenti con l'insieme e non si comprende perché si debba dubitare della loro autenticità. Il testo si apre con un breve inno al Signore del cosmo che regge stabilmente il mondo: come sono stabili le leggi del mondo, imposte dal Signore agli astri e al mare, così lo sarà per sempre la sua iniziativa d’amore verso il popolo. Il parallelo con la stabilità della creazione serve a ribadire che l'alleanza che Dio intende stabilire è irrevocabile. Questo tema viene poi ripreso anche in Ger 32,37-41 e Ger 33,19ss. Si avverte qui un profondo legame tra la fede nella creazione e la fede nella liberazione. Il creato ci comunica la pacifica certezza della sua stabilità, con il levarsi quotidiano del sole, con il ritorno della notte, con il passare ritmico delle stagioni, e ci rivela così il potere di Dio che ha posto un ordine immutabile nelle cose. Similmente questo creato, contemplato in un’ottica di fede, rivela il potere con cui Dio realizza i suoi piani e mantiene le sue promesse, senza che nulla possa vanificarle. Gerusalemme poi sarà tutta riedificata e consacrata al Signore: tutti i terreni, anche i più impuri, sono ormai consacrati dalla presenza del Signore; è un altro modo per affermare la novità di questa alleanza, che coinvolge radicalmente tutto l'umano. 3. L’acquisto del campo ovvero il riscatto del futuro (Ger 32) 1. Il tema Geremia anticipa in sé il destino del popolo in due modi. Precedentemente gli era stato impedito, per ordine divino, di partecipare alla vita familiare e comunitaria quale dimostrazione concreta della sofferenza parossistica e dello sfacelo della vita sociale che attendeva i suoi uditori (cf Ger 16); anche la sua condizione di carcerato era prolettica del tragico destino che stava per abbattersi sul popolo. Con la compera92 riscatto del campo invece egli assume i suoi doveri familiari e annuncia profeticamente la ricostituzione del popolo di Dio. Per quanto riguarda il rapporto del nostro testo con altri testi biblici, si deve rilevare come la compera del campo sito in Anatòt, da parte di Geremia, si iscriva in una serie di compere famose, come quella di un sepolcro per Sara da parte di Abramo (Gen 23), dell’aia di Araunà, che servirà per il futuro tempio da parte di Davide (2Sam 24), e quella del campo di Noemi da parte di Booz (Rut 4). Tutte sono accomunate dal fatto d’essere segni concreti della promessa, motivo visibile di speranza. 2. Commento 1 Parola rivolta a Geremia dal Signore nell’anno decimo di Sedecìa, re di Giuda, cioè nell’anno diciottesimo di Nabucodònosor. La soprascritta segnala l’evento della comunicazione della parola divina e sottolinea nuovamente chi sia il protagonista decisivo che si cela nella vicenda del profeta Geremia. 2 L’esercito del re di Babilonia assediava allora Gerusalemme e il profeta Geremia era rinchiuso nell’atrio della prigione, nella reggia del re di Giuda, Quest’ambientazione fa comprendere che l’episodio che verrà narrato non è un incidente della vita di Geremia, ma s’inquadra nella sua sofferta testimonianza profetica: si genera un effetto sorpresa, proprio perché si è alla vigilia di una catastrofe umanamente irreparabile. Re e capitale sono qui uniti in un comune sventurato destino ed implicitamente nella medesima incredulità che li porta ad essere sordi ai richiami del Signore, dati attraverso il profeta prigioniero, e ciechi davanti ai segni posti da JHWH sotto i loro occhi. 3 e ve lo aveva rinchiuso Sedecìa, re di Giuda, con questa imputazione: «Perché profetizzi in questi termini? Tu affermi: “Dice il Signore: Ecco, metterò questa città in potere del re di 4 Babilonia ed egli la occuperà. Il re di Giuda, Sedecìa, non scamperà dalle mani dei Caldei, ma 5 cadrà in mano al re di Babilonia, sarà portato alla sua presenza, davanti ai suoi occhi, ed egli condurrà Sedecìa a Babilonia, dove egli resterà finché io non lo visiterò. Oracolo del Signore. Se combatterete contro i Caldei, non riuscirete a nulla”». Viene riferita la profezia di Geremia su Sedecìa. Oltre a questo passo, molte altre volte nel libro di Geremia si parla del destino di Sedecìa, profetizzato dal profeta di Anatòt (21,1-7; 34,1-7; 37,1-10, 38,14-28). Qui l’oracolo risulta piuttosto ambiguo sulla sua sorte e sul luogo della sua morte, poiché non è chiaro se la visita divina a Babilonia sia per la morte o per la vita! L’introduzione al discorso ha due funzioni: chiarire che il profeta è consapevole della propria situazione; non gli sfugge quindi l’apparente assurdità dell’atto che sta per compiere e non ritratta nulla di quanto ha detto sul destino prossimo della città e del popolo di Giuda. Ma è anche una provocazione al lettore perché si confronti con la natura paradossale della speranza. 93 6 7 Geremia disse: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Ecco, sta venendo da te Canamèl, figlio di tuo zio Sallum, per dirti: “Compra il mio campo, che si trova ad Anatòt, perché spetta 8 a te comprarlo in forza del diritto di riscatto”. Venne dunque da me Canamèl, figlio di mio zio, secondo la parola del Signore, nell’atrio della prigione e mi disse: “Compra il mio campo che si trova ad Anatòt, nel territorio di Beniamino, perché spetta a te comprarlo in forza del 9 diritto di riscatto. Compralo!”. Allora riconobbi che questa era la volontà del Signore e comprai da Canamèl, figlio di mio zio, il campo che era ad Anatòt, e gli pagai il prezzo: diciassette sicli d’argento. Si deve rilevare la stranezza della prima persona quale voce narrante. Il fenomeno appare varie volte in Geremia (cf 1,4-19; 13,1-14; 14,11-16; 16,1-1; 17,19-27). Quattro di questi passi includono anche comunicazioni divine che notificano il comportamento d’altre persone (11,18-23; 13,12-13; 16,10 e qui al v. 7). La voce divina, però, non precisa che cosa debba fare il profeta, ma gli fa capire che quanto sta per accadere non sfugge al piano divino (cf anche la reiterazione della formula di evento della parola divina al v. 8). Capire i segni posti dal Signore nelle varie situazioni non è cosa ovvia e neppure il profeta è esentato dalla fatica di discernere la verità della voce di JHWH (cf v. 9). Si noti la figura del profeta obbediente, che non chiede spiegazioni al Signore, né chiarimenti su un atto che sembra in contrasto con quanto gli aveva precedentemente ordinato sulla rescissione di legami familiari (Ger 16). Il preannuncio della visita di Canamèl e, in seguito, il racconto della sua venuta creano un’attesa nel lettore sull’unico elemento che resta incerto: come reagirà Geremia? Quando Canamèl si appella al dovere di Geremia del riscatto del campo, il profeta riconosce in quel diritto-dovere di riscatto [ge’ûllāh], imposto dalla Legge, l’espressione della volontà del Signore. La compera s’impone, anche se non è ancora chiaro allo stesso profeta che cosa significhi questo riscatto. 10 Stesi il documento del contratto, lo sigillai, chiamai i testimoni e pesai l’argento sulla stadera. Quindi presi l’atto di acquisto, la copia sigillata secondo le prescrizioni della legge e quella 12 rimasta aperta. Diedi l’atto di acquisto a Barùc, figlio di Neria, figlio di Macsia, sotto gli occhi di Canamèl, figlio di mio zio, e sotto gli occhi dei testimoni che avevano sottoscritto l’atto di acquisto e sotto gli occhi di tutti i Giudei che si trovavano nell’atrio della prigione. 13 14 Poi davanti a tutti diedi a Baruc quest’ordine: “Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Prendi questi documenti, quest’atto di acquisto, la copia sigillata e quella aperta, e 15 mettili in un vaso di terracotta, perché si conservino a lungo. Poiché dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese”. 11 L’acquisto con la pesa del denaro e la redazione delle due copie del documento di vendita-acquisto [miqnāh] sono descritti con minuzia di particolari. Tutto viene ottemperato secondo la Legge. In questo modo, con il rallentamento del tempo narrativo, l’attenzione del lettore si concentra sull’atto compiuto ed in particolare sulla funzione dei due scritti legali. Uno scritto aperto deve servire per l’oggi, per la lettura immediata, l’altro sigillato è la garanzia che il documento, che si sta leggendo, è affidabile, autentico! Facile è passare al valore simbolico che si manifesta proprio nel 94 rapporto esistente tra i due documenti. La speranza, di cui lo scritto è come un’attestazione visibile, non è una fuga nel futuro, ma è una luce da custodire già per l’oggi, perché orienta il presente e proietta verso il compimento anche quando questo si allontana nel tempo (cf v. 14). Si noti l’insistenza sul termine sēper [scritto, documento], che appare ben sette volte, mentre il verbo qānāh [acquistare], a un prezzo notevole (diciassette sicli d’argento!), ha ben nove ricorrenze. Se il sēper costituisce il documento della speranza, del riscatto di un pezzo di futuro, il verbo qānāh dichiara inequivocabilmente che tale speranza è grazia a caro prezzo! L’atto pubblico della compera esige la presenza di testimoni firmatari. Tra di essi spicca Barùc, che appare qui per la prima volta. Non è ancora qualificato come scriba, ma il narratore ne offre la genealogia. Il discepolo, segretario confidente e futuro testimone, al lettore appare perciò da sempre associato al profeta Geremia nella speranza: questo consentirà di superare la difficoltà costituita dalla figura di un discepolo che sembrerebbe, invece, chiamato a partecipare soltanto al dolore ed alla persecuzione del profeta. Egli è piuttosto il custode della speranza del profeta prigioniero ed è come se ricevesse per primo la consegna del testimone, che deve essere trasmesso in una staffetta di generazioni. Infine una parola sul simbolo della giara [kelî-ḥāreś ], in cui sono stati collocati i documenti della compera del campo: questa custodia deve durare molti anni! Emerge quindi l’idea che i tempi non sono quelli dell’impazienza umana, ma sono i tempi di Dio. Allora questo recipiente, in cui sono contenuti i documenti dell’acquisto del campo, non è d’oro, ma di umile terracotta: tuttavia racchiude la speranza, il simbolo della speranza. Ecco così la tensione che si stabilisce tra il gesto del c. 19, in cui i vasi di terracotta vengono frantumati, e questo brano, in cui la giara custodisce la speranza. È chiaro che se da una parte questo vaso di terracotta è il simbolo della novità dell’agire di Dio per quanto contiene, dall’altra ci ricorda che tale novità è data all’umanità solo per la misericordia del Signore, come dirà Paolo: «Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). A questo punto il gesto richiede obbligatoriamente un chiarimento perché esso confinerebbe con l’assurdo: indubbiamente agli effetti immediati, economici, la compera del campo con i relativi documenti legali non serve a niente, mentre agli effetti profetici è un segno mirabile di speranza nel futuro, che viene già anticipata in un momento di piena crisi. La parola di Dio attraverso Geremia giunge pertanto chiarificatrice agli orecchi dei testimoni oculari e dello stesso lettore, tenuto finora all’oscuro del senso dell’azione narratagli, senso che forse poteva solo presentire, subodorare, ma non sapere con certezza: «Poiché dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese» (v. 15). La promessa divina passa attraverso la concretezza di una vita trasformata. Ne risulta, nonostante le apparenti smentite degli eventi ormai imminenti, che il popolo continuerà ad avere un riscattatore, un redentore [gō’ēl ]. Per suo intervento la terra resta segno della promessa divina al popolo e continuerà ad essere terra dei giudei, terra promessa e posseduta per i secoli. Certo l’oracolo è stringato e contrasta con la lentezza della narrazione. Ma proprio questo rimarca la sua efficacia. L’analogia tra questo testo e Gen 23 s’impone! Entrambi i testi sottolineano il carattere 95 paradossale dell’adempimento! Come per Genesi, si evidenzia qui una "spiritualità della caparra". Per Geremia, come per Abramo, vivere nella fede è vivere nella speranza dei beni futuri, senza possederli qui ed ora se non nella forma della caparra e del pegno (cf Eb 11,13-16). Come i patriarchi, Geremia non può godere della caparra nella sua vita, ma solo nella morte: anche per questo il documento di proprietà non rimane presso di lui un solo istante, ma è immediatamente consegnato a Barùc. 4. Un mandato-promessa per il discepolo Barùc (Ger 45) La conclusione dei racconti biografici di Geremia è un oracolo riguardante Barùc che ha la funzione di colofóne della biografia profetica e del martirologio geremiano. È chiaro l'intento del redattore che, pur conoscendo la sua collocazione cronologica, non lo inserisce dopo la lettura e il rogo del rotolo nel 605. Il lettore in sostanza si congeda dal libro (secondo la LXX) o dalla biografia di Geremia (secondo il TM) e deve essere pronto a intraprendere come Geremia un proprio sofferto cammino di fede: questo congedo è raffigurato nel testo che prepara il discepolo Barùc a tempi di grande prova e diventa anche un'esortazione per la comunità, che ascolta la lettura, ad essere pronta ad attraversare la notte oscura della prova della fede. Il genere letterario di questo breve testo è quello del "dialogo tra il discepolo e il maestro": Dio si rivolge al profeta-discepolo. Prima c'erano state le "confessioni di Geremia" ora vi è la "confessione del discepolo": «Tu hai detto: Guai a me poiché il Signore aggiunge tristezza al mio dolore. Io sono stanco dei miei gemiti e non trovo pace». Il lamento di Barùc è, però, solo il primo passo per condurre il discepolo ad entrare in un dialogo con Dio e a leggere così la propria vicenda dal punto di vista di Dio e secondo la sua difficile logica. La parola di Dio rivolta a Barùc, coinvolto nel destino del maestro (cf Ger 43,3.67), attraverso Geremia è in definitiva la parola di Dio al profeta stesso e ad ogni discepolo che accoglie il messaggio del profeta. È un Dio comprensivo ed insieme esigente quello che interpella Barùc: «Dice il Signore: Ecco io abbatto ciò che ho edificato e sradico ciò che ho piantato; così per tutta la terra. E tu vai cercando grandi cose per te? Non cercarle, poiché io manderò la sventura su ogni uomo. Oracolo del Signore» (Ger 44,4-5). L'oracolo presenta aspetti inquietanti perché non si spiega come Dio possa mantenere la sua fedeltà, distruggendo quello che ha piantato o, in altre parole, ritrattando le sue promesse. Questo mistero è quello in cui si è imbattuto Geremia ed è lo stesso mistero in cui si imbatte Barùc. La storia, che qui non riguarda solo Gerusalemme e il popolo di Dio ma tutta l'umanità, sembra essere ormai sotto il giudizio di Dio. O, meglio ancora, a Barùc viene chiesto di sentire qualcosa del pathos di Dio che, con dolore, deve sradicare ciò che egli stesso ha piantato e vede crollare a pezzi il suo mondo da lui creato! È impossibile che Barùc, come Geremia, ricerchi una propria grandezza, un proprio merito o anche miracoli. In ogni caso è chiesto a Baruc di confrontarsi con il mistero della storia dove, anche nel finire delle cose, il Signore dell'alleanza - Dio di Israele! opera un evento di salvezza, preparando un futuro nascosto. 96 Ma JHWH che parla a Barùc gli chiede di rinunciare a grandi sogni e a progetti ambiziosi o ad attese di cose mirabili: gli domanda piuttosto di perseverare nella speranza, perché Egli conserva ancora progetti di pace e non di sventura (cf Ger 29,11). Si noti la forma allusiva del «non cercare cose grandi». Il presente testo si apparenta con il testo del Sal 131,1: a Barùc viene chiesto il medesimo cammino spirituale del salmista. L’insidia che Barùc deve superare è individuata nella ricerca di altezze impossibili, esorbitanti, in un auto-innalzamento che i maestri di Israele additano spesso come la gravissima minaccia, il grande peccato. Al credente Barùc, discepolo del debole e addolorato Geremia, è chiesto di non camminare nella ricerca di grandezza e straordinarietà e di non aderire ad una visione della vita che, in definitiva, si scandalizza della debolezza e dei limiti umani, piuttosto che accoglierli dalla mano amorosa di Dio. Barùc deve, perciò, cambiare e cercare ciò che Dio progetta per lui e non quello che egli spera per sé. Ora sembra che la promessa di Dio a Barùc sia una semplice sopravvivenza individuale: ma questa certamente non poteva bastare per il discepolo del profeta Geremia, profondamente solidale con il popolo come il suo maestro. D'altra parte l'oracolo chiede anche che Barùc non domandi favori per sé ma, proprio come ha fatto il maestro, si carichi del destino del popolo e della sorte di tutta la terra, che è gravata dalla sofferenza, senza però smarrire la speranza. Questa è espressa nei termini della vittoria, del bottino (v. 5): wenātattî lekā ’et-nepšekā lešālāl ‘al kol-hammeqōmôt ’ăšer tēlek-šām A te farò dono della vita come bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai. Stando al presente contesto di oracolo di salvezza, a Barùc il Signore promette di consegnare un bottino, ossia di voler far partecipare il discepolo del profeta Geremia alla vittoria divina, che è misteriosa, ma certa. Il bottino consegnato è la nepeš ! Molti esegeti intendono la promessa della vita come bottino una sorta di ossimoro teologico, poiché il bottino quale segno del trionfo si limiterebbe alla sopravvivenza del trionfatore! Al contrario ci sembra di poter scorgere un’importante lezione sapienziale sul senso del vivere, che è dato come grazia e che rende prezioso il fatto stesso di esistere. Il testo geremiano ci ha appena mostrato (cf Ger 43) un Barùc in un esilio (volontario o coatto?) in terra d’Egitto. Ma ecco una speranza per il discepolo che conserva e custodisce la parola del profeta: la benedizione divina risponderà al suo desiderio e darà senso al suo vagare. In qualsiasi posto si troverà, egli sperimenterà la compagnia divina, il conforto della sua presenza benedicente. Quanto Geremia aveva prospettato, quale speranza per le generazioni di giudei in esilio, si realizza anche per questo suo discepolo sfortunato, come già prima per Ebed-Mèlek. È la speranza basata sul Dio che, come ha in potere di sradicare e distruggere, così può edificare e piantare. La promessa divina per Barùc suona affine a quella per Ebed-Mèlek. C'è in definitiva l'idea di una sopravvivenza dove la benedizione divina non viene meno: neppure nella diaspora e nell'esperienza del Deus absconditus manca la benedizione. La peregrinazione di Barùc nella diaspora si carica così di simbolismo spirituale, tant'è vero che il suo nome sarà ripreso dall’omonimo libro deuterocanonico e da scritti 97 apocalittici. Egli testimonia, con la sua sopravvivenza, che ciò che è scartato dagli uomini viene scelto da Dio come segno eterno della divina volontà salvifica, anche quando Egli si nasconde. In un certo senso, anche la finale deuteronomistica di Ger 52,31-34 - che ricopia 2Re 25,27-30 - offre al lettore il medesimo motivo di speranza. 5. La speranza del discepolo e il libro profetico Lo scritto, di cui Barùc è scrivano, depositario e forse editore, è probabilmente redatto proprio in funzione di questo saper riconoscere in ogni circostanza la vita come bottino. È quindi uno scritto al servizio della speranza (cf la scrittura discepolare di Is 8,11-20). Troviamo in questo una profonda affinità tra il messaggio dell’oracolo a Barùc e la posizione di Qohèlet sul senso della ricerca riguardante il guadagno del vivere: «Quale guadagno [jjitrôn] viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?» (Qo 1,3). La promessa a Barùc, qui presentato nell’atto dello scrivere sotto la dettatura di Geremia, è assai interessante anche in ordine ad una teologia biblica del testo scritturistico. Il libro geremiano si presenta in tal modo come il perdurare nel corso della storia della persona del profeta sofferente e martire, sconfitto dagli eventi. Perché il profeta "sopravviva" bisogna che resti anche il libro e non scompaia, come farà invece il rotolo sprofondato nell’Eufrate. Ebbene, la promessa della vita come bottino per Barùc implica un sussistere nel tempo di un gruppo di discepoli del profeta Geremia, i quali, incontrando la sua predicazione grazie allo scritto, potranno testimoniare la verità della promessa del Signore al profeta: «Io sarò con te, per salvarti, per liberarti». Se il profeta fu chiamato a seguire un cammino a ritroso rispetto a quello percorso da Mosè è perché JHWH intende segnalare continuamente, attraverso il libro che parla del destino del suo profeta, la necessità per Israele di un nuovo inizio, di una nuova alleanza iscritta su un cuore circonciso. Il discepolo, dando testimonianza della propria associazione alla passione e alla speranza del suo maestro Geremia, afferma che tale storia non ha perso significato neppure per il presente del lettore. La stesura del libro avviene dunque all’interno di questa condivisione, che è accoglienza di una "rivelazione" che ha la pretesa di riempire la vita del testimone, la nepeš quale bottino, e di conferirle comunque un senso, anche in mezzo alle prove più dure. Ecco perché l’oracolo di Ger 45,1-5 si mostra sempre intrigante ad ogni sua rilettura. Vorremmo ricordare come esso appaia ben cinque volte in Resistenza e resa, le lettere dal carcere nazista del teologo D. Bonhoeffer, il quale, come Geremia, era prigioniero dei suoi fratelli, profondamente solidale con il suo popolo anche in quelle ore tristi e cariche d’infinita vergogna per la Germania33. Bonhoeffer afferma che la sua esperienza è riassunta da Geremia 45 (e dal salmo 60)34. In un’altra lettera ricorda una sua predica in merito tenuta a Finkenwalde35, ma in particolare vi ritorna, nei suoi 33 H. MOTTU, Geremia: una protesta contro la sofferenza. Lettura delle "confessioni", Claudiana, Torino 1990 (originale francese: Les «confessions» de Jérémie. Une protestation contre la souffrance, Labor et Fides, Genève 1985), 154-162. 34 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere, Bompiani, Milano 1969, 105. 35 ID., 191ss. 98 pensieri, nella lettera per il giorno del Battesimo di D.W.R., dove così commenta: "Se dalla distruzione dei beni della vita noi riusciremo a recuperare intatta la nostra anima vivente, potremo esserne soddisfatti. Se il Creatore stesso distrugge la sua opera, dovremmo noi lamentarci di avere distrutto la nostra? Il compito della nostra generazione non sarà quello di «mirare a grandi cose», ma di salvare la nostra anima dal caos, di preservarla e di vedere in essa l'unica cosa da mettere in salvo - come nostro bottino - dalla casa che brucia. Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso procedono le sorgenti della vita (Pr 4,23) Dovremo portare, più che plasmare la nostra vita, dovremo sperare più che pianificare, tenere duro più che proiettarci in avanti"36. E nel giorno dell'attentato ad Hitler egli scrive: "... allora si prendono sul serio non le proprie, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsèmani e, io penso, questa è fede, questa è metànoia; e così diventiamo uomini, cristiani (cf Ger 45!). Come ci si potrebbe insuperbire dei successi e avvilire per gli insuccessi quando, nella vita di questo mondo, si è compartecipi del dolore di Dio?"37. 36 37 ID., 233ss. ID., 269. 99 SPERARE IN UN TEMPO DI CRISI I. IL MANDORLO FIORITO 1. Il contesto storico della vicenda del profeta 2 ‐ ‐ ‐ La situazione interna ed internazionale La posizione di Geremia Le fasi della predicazione di Geremia 2. La vocazione del profeta (Ger 1,4-18) ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ Un racconto paradigmatico Caratteristiche letterarie di Ger 1 Struttura semantica del testo La Parola Il gioco dei soggetti Il contrasto "totalità-parzialità" Chiamata, lotta Promessa 3. Saggio di lettura della predicazione di Geremia (Ger 2,1 – 2,37) ‐ ‐ ‐ La denuncia del tradimento/apostasia (2, 1-13) La libertà misconosciuta Il fascino perverso degli idoli (2,21-29) 4. Un’altra modalità di comunicazione profetica: le azioni simboliche 17 ‐ ‐ Le azioni simboliche in Geremia Il celibato del profeta (Ger 16 ) 7 12 II. QUALE CURA PER IL CUORE MALATO 1. 2. Il cuore quale cifra di un’antropologia unitaria Una progressiva radicalizzazione del pessimismo antropologico ‐ Appoggio iniziale alla riforma di Giosia 100 22 22 ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ Constatazione del fallimento della riforma di Giosia Fallimento della monarchia Fallimento del progetto di una società fraterna Il fallimento della Legge Fallimento del profetismo Criteri relativi al messaggio Criteri relativi alla persona Il fallimento del sacerdozio e del Tempio 3. Una diagnosi infausta: il cuore malato 31 34 39 Lettura di Ger 36: la passione della Parola di Dio 40 45 57 ‐ ‐ Elementi di una diagnosi Una prognosi infausta 4. È possibile la conversione del cuore? ‐ ‐ ‐ Il ritorno impossibile Ma a Dio tutto è possibile... La lieta notizia: un nuovo inizio nella libertà divina (Ger 18, 1-12) III. LA PASSIONE DEL PROFETA 1. 2. I racconti biografici su Geremia (Ger 26-45) ‐ ‐ ‐ ‐ Ger 36: un testo chiave Il percorso narrativo La lettura e l’ascolto mancato Il profeta e la parola: identità di destino 3. La vita consegnata (Ger 37-39) ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ Una parola per il re (37,1-10) Geremia imprigionato (37,11-21) Nella fossa (Ger 38, 1-6) Uno straniero in favore di Geremia (Ger 38,7-13) L’ultima possibilità per il peccatore (Ger 38,14-28) La tragedia si consuma (39, 1-10) La sorte di Geremia (Ger 39,11-14) L’oracolo per Ebed-Mèlech (Ger 39,15-18) 4. Un sogno bruscamente interrotto (Ger 40-41) 101 ‐ ‐ ‐ La scelta di Geremia Il progetto di una comunità nuova Il passato divora il futuro IV. LA TORMENTATA RICERCA DEL VOLTO DI DIO 1. Il vero Dio ed i falsi dèi 61 2. Alla ricerca del vero volto di Dio: le confessioni di Geremia 63 1. Prima confessione (Ger 11,18-12,6): come intendere la giustizia di Dio? ‐ ‐ ‐ La domanda di vendetta da parte di Geremia (Ger 11,18-23) Quale giustizia? (Ger 12,1-4) L’enigmatica risposta di Dio (Ger 12,5-6) 2. Seconda confessione: convertirsi al Dio conosciuto unicamente nella sua Parola (Ger 15,10-21) ‐ ‐ ‐ Prime battute del dialogo (Ger 15,10-14) Il profeta risponde a Dio e continua il dialogo (Ger 15,15-18) La risposta divina ( Ger 15,19-21) 3. Quinta confessione: il silenzio di Dio (Ger 20,7-18) ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ Il contesto Il lamento (Ger 20,7-9) Giusti ed empi (Ger 20,10-13) Maledizione della vita e silenzio di Dio (Ger 20,14-18) Come interpretare la quinta confessione? V. OLTRE IL PECCATO LA SPERANZA 1. Interpretare la storia alla luce della fede: la lettera agli esuli 76 ‐ ‐ Il contesto storico Il messaggio agli esuli (Ger 29) 2. In memoria di Rachele (Ger 30-31) ‐ La struttura dei capitoli 30-33 102 80 - Analisi di Ger 30-31 e la tematica della nuova alleanza ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ Introduzione in prosa (30,1-4) Poema I: contrasto (30,5-11) Poema II: guarigione della piaga incurabile (30,12-17) Poema III: la presenza di JHWH che cura e corregge (30,18-31,1) Poema IV: una volta…ancora (31,2-6) Poema V: la grande assemblea di JHWH (31,7-14) Poema VI: la speranza rinnovata (31,15-22) Conclusione in prosa: una totale novità (31,23-40) 3. L’acquisto del campo ovvero il riscatto del futuro (Ger 32) 89 ‐ ‐ Il tema Commento 4. Un mandato-promessa per il discepolo Barùc (Ger 45) 91 5. La speranza del discepolo e il libro profetico 93 103