Le Guide
Periodico Quadrimestrale
d’Informazione e Comunicazione
30
Dicembre 2010
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ecco il nuovo numero della sua Guida, con tante informazioni, spunti e argomenti di
approfondimento per il suo lavoro.
Come ogni anno, in allegato a questo numero, troverà il modulo per il rinnovo della sua
iscrizione: la preghiamo di compilarlo in ogni sua parte e di restituirlo al più presto presso i
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Solo in questo modo si potrà garantire tutti gli aggiornamenti di Hermann presso il suo
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Grazie per la collaborazione e tanti auguri per un felice Natale e per un 2011 ricco di successi.
Buona lettura e buon lavoro.
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Sommario
Pregi e misteri degli impianti di
riscaldamento a pavimento
A cura di G. Carlo Bertagnoli
(consulente termotecnico)
Pag. 4
Evacuazione dei prodotti della
combustione: il posizionamento dei
comignoli e dei terminali secondo la
nuova 7129:2008
A cura di Ing. Giovanni Fontana
(Hermann Srl)
Pag. 12
La posta dei lettori
Risposte di G. Carlo Bertagnoli
(consulente termotecnico)
30 Le Guide
Dicembre 2010
Pag. 18
Pregi e misteri degli impianti di riscaldamento a pavimento
A cura di G. Carlo Bertagnoli (consulente termotecnico)
In questo numero il consulente termotecnico G. Carlo Bertagnoli esamina alcune particolarità tecniche (molto
positive) inerenti il riscaldamento a pavimento, particolarità che, per i “non veramente addetti”, risultano
abbastanza curiose e di non immediata comprensione.
Inoltre si rileva come nel breve volgere di una decina d’anni sia profondamente mutato l’atteggiamento del tecnico
edile e dell’utenza nei confronti di questa tecnologia impiantistica.
Dopo oltre dieci anni torno su questa rivista a parlare di impianti di
riscaldamento a pavimento.
Il lettore non si allarmi, non tratterò questioni inerenti il
dimensionamento anzi, a tal proposito, rimando ai primi numeri della
rivista, a partire dal 1999.
In questa sede mi limiterò a prendere in esame alcune caratteristiche,
invero assai curiose, che contraddistinguono questa tipologia di
impianti.
Come premessa ricorderò ancora una volta (non me ne vogliano i
tecnici del settore) le vecchie e ormai superate problematiche legate a
questo sistema di riscaldamento.
I principali inconvenienti presentati dagli impianti “vecchia maniera”
(anni 50) erano principalmente fenomeni di carattere corrosivo, grande
inerzia termica dell’impianto e disagio ambientale.
Diciamo che i fenomeni corrosivi sono tipici degli impianti in ferro
(molto meno in quelli di rame) e possono svilupparsi tanto all’esterno
delle tubazioni (malte contenenti gesso o cloruri in genere impiegati
quali anticongelanti, correnti vaganti) quanto all’interno (presenza
di ossigeno nell’impianto dovuto a frequenti rabbocchi necessari a
compensare eventuali perdite d’acqua, ad errati trattamenti della
stessa, ecc.).
Per quanto concerne il benessere ambientale accadde che in
alcuni impianti, vuoi per ignoranza o peggio per motivi di carattere
speculativo, la temperatura superficiale del pavimento fosse troppo
elevata; questo era dovuto al fatto che si teneva una temperatura del
fluido circolante eccessiva proprio per compensare una diminuzione
di sviluppo nella posa delle tubazioni: tanto minore era la lunghezza
totale della serpentina, tanto maggiore doveva essere la temperatura
dell’acqua circolante.
Dobbiamo considerare che in quei periodi non si parlava ancora di
risparmi energetici e che le leggi n° 373 prima e n° 10 poi, erano
ancora da venire ed i fabbricati venivano costruiti praticamente
senza coibentazione, perciò molto disperdenti e di conseguenza non
particolarmente idonei a questa tipologia d’impianto.
Gli impianti a pavimento degli anni 50 erano caratterizzati da
un’elevata inerzia termica; infatti la massa che irradiava calore
era l’intera soletta, in quanto nella posa delle serpentine non si
provvedeva ad un isolamento termico al di sotto delle stesse, così
che la caldana in cui erano annegate trasmetteva il calore all’intera
struttura.
Le conseguenze: estrema lentezza nel raggiungimento della
temperatura prefissata, prolungamento dell’emissione termica anche
dopo lo spegnimento, raggiungimento di temperature elevate non
richieste ecc., in definitiva pochissima o nessuna flessibilità d’impianto
e disagio per gli occupanti.
In pratica la massa termica, costituita dall’intera soletta, raggiungeva
pesi nell’ordine dei 230÷280 kg/m2, al contrario di quelle attuali in cui
a trasmettere il calore è solamente la struttura al di sopra dello strato
isolante, il cui peso medio si aggira attorno i 110÷120 kg/m2.
In conclusione, l’impianto a pannelli radianti “vecchia maniera” finì
per diventare fonte di malessere; come difficoltà nella respirazione
dovuta alla scarsa percentuale di umidità dell’aria e all’aumentato
trascinamento del pulviscolo atmosferico, gonfiori alle caviglie
e disturbi della circolazione dovuti alla eccessiva temperatura
superficiale del pavimento stesso.
Recentemente è invalso l’uso del tubo in polietilene reticolato che,
proprio per la sua natura, è completamente esente da fenomeni di
corrosione, in quanto possiede una scarsissima conducibilità elettrica.
Non sono necessarie giunzioni né alcun tipo di saldatura.
L’interno del tubo è particolarmente liscio, per cui vi sono limitate
perdite di carico, difficili possibilità di incrostazioni e di corrosioni
interne per presenza di ossigeno, possibilità di trattamenti chimici
dell’acqua senza intaccare la tubazione.
Inoltre viene sempre posto uno strato isolante sotto la serpentina
per cui questa nuova tecnologia costruttiva consente di diminuire
di molto l’inerzia termica della struttura, favorendo la flessibilità di
funzionamento a tutto vantaggio di un’efficace termoregolazione.
Come si era detto i ranghi delle serpentine sono immersi nella caldana
(nella cui formazione viene aggiunto un particolare additivo) dello
spessore medio di 6 cm e perciò molto più leggera dei tipi precedenti.
Essendo la massa riscaldata dalle tubazioni meno della metà di quella
“vecchia maniera”, l’impianto diventa chiaramente più pronto alle
variazioni di temperatura dell’acqua di mandata.
Da ultimo le moderne regolazioni automatiche della temperatura
(sonda esterna ecc.) hanno ancor più favorito e migliorato il comfort
ambientale, senza contare che con questa tipologia impiantistica è
possibile utilizzare fonti di calore a bassa temperatura (alternative)
come pompe di calore, pannelli solari, celle fotovoltaiche, ecc.; oltre ad
una questione di non secondaria importanza quale il superamento di
difficili integrazioni architettoniche dovute alla presenza nell’edificio di
corpi scaldanti.
Le Guide
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Caratteristiche e vantaggi presentati dagli impianti a
pannelli radianti attuali
• Impianto funzionante a bassa temperatura con diminuzione di
consumo di energia termica;
• Tipo di riscaldamento prevalentemente radiante ed in misura minore
convettivo, per cui la temperatura dell’aria è più uniforme;
• Impianto particolarmente adatto ai locali molto alti (chiese, teatri,
saloni, ecc.);
• Evitati gli sprechi di calore dei caloriferi addossati alle pareti
esterne;
• Possibilità di mantenere lo stesso grado di comfort degli impianti
tradizionali, con un valore di temperatura dell’aria inferiore;
• Il risparmio medio di combustibile in questi impianti (rapportati
ai tradizionali impianti a radiatori) è stimabile con buona
approssimazione intorno al 13÷15%;
• Se ben progettato il comfort totale dell’impianto è molto elevato con
risparmi gestionali notevoli nel tempo;
• Possibilità di utilizzo dell’impianto per il raffrescamento estivo.
L’aria ambiente quando viene in contatto con la superficie dei corpi
scaldanti, diviene più leggera e pertanto sale verso il soffitto per poi
ridiscendere al pavimento dopo essersi raffreddata a contatto con le
pareti disperdenti; a causa di ciò si vengono a stabilire zone di aria più
calda a soffitto e più fredda in prossimità del pavimento.
Sappiamo invece che per garantire in un ambiente condizioni di
“benessere termico” è bene mantenere delle zone un po’ più calde a
pavimento e meno a soffitto; tali condizioni le si ottengono unicamente
con una distribuzione del calore a pavimento che, nella fattispecie, è
rappresentata dall’impianto a pannelli.
Va considerato che, data la loro particolare posizione e soprattutto
in quanto la cessione di calore avviene in massima parte per
irraggiamento, evitano il formarsi di moti convettivi d’aria calda verso il
soffitto e perciò un abbattimento del gradiente termico.
Già unitamente al fatto di funzionare a bassa temperatura, evitando il
sollevamento di polveri e la combustione del pulviscolo atmosferico,
caratteristiche negative proprie dei tradizionali corpi scaldanti, in
particolare se fatti funzionare a temperatura elevata (70-80 °C).
Da ultimo, oltre a consentire la massima libertà d’arredo e senza porre
vincoli di natura estetica, contribuiscono a non sporcare le pareti di
nerofumo e soprattutto limitano il formarsi di zone umide al pavimento
e nei muri in prossimità di questo. Inoltre non permettono l’insorgere
di muffe in quanto evitano il formarsi di condensa sulle pareti, ciò per il
fatto che si vengono a trovare ad una temperatura superiore (circa 2 °C)
rispetto alle stesse dove però si utilizzi un impianto di riscaldamento
tradizionale (caloriferi).
Come si è accennato, negli impianti termici ad ampia superficie
radiante come gli impianti a pannelli, a causa del maggior coefficiente
d’irradiazione, la temperatura della superficie interna delle pareti
è di norma superiore (circa 2 °C) rispetto alla temperatura dell’aria
ambiente del locale interessato.
Tale particolarità fisica, rapportata agli impianti tradizionali in cui
vengano impiegati normali caloriferi, consente di abbassare di circa 2
°C la temperatura dell’aria del locale (tramite il termostato ambiente),
pur mantenendo il medesimo grado di benessere; infatti la velocità
dell’aria nel riscaldamento per radiazione è molto bassa e ciò provoca
una sensazione di benessere.
Risparmio energetico con gli impianti a pavimento
radiante
Abbiamo detto in precedenza che in un impianto termico ad ampia
superficie radiante, come gli impianti a pannelli, a causa del maggior
coefficiente d’irradiazione, la temperatura della superficie interna delle
pareti è normalmente maggiore di alcuni gradi (2÷3 °C) rispetto la
temperatura dell’aria ambiente.
Questa particolarità fisica, se rapportata agli impianti tradizionali,
consente di abbassare di circa 2 °C la temperatura dell’aria del locale
(tramite il termostato ambiente), pur mantenendo il medesimo grado
di benessere.
Fig. 1 -Temperatura delle pareti circostanti un ambiente
in rapporto al comfort termico
Oltre a ciò rimane il fatto che una reale diminuzione di temperatura
ambiente di 2 °C incide sul consumo finale, con un risparmio
approssimativo dei 14% (è dimostrato che ad ogni grado in meno di
temperatura ambiente corrisponde un costo di riscaldamento inferiore
di circa il 7%; infatti se prendiamo come esempio Milano dove la
temperatura media nella stagione invernale di 180 giorni è di 5,8 °C e
perciò il grado-stagione è di 20 °C - 5,8 °C = 14,2 °C, è sufficiente che
la temperatura ambiente salga a 21 °C perché il grado stagione diventi
15,2 °C, fatto questo che conduce ad un maggior consumo pari a 15,2
°C / 14,2 °C = 1,07, cioè quel 7% che si era dianzi detto).
Tra le caratteristiche più importanti del sistema di riscaldamento a
pavimento con pannelli radianti vi è quella di fornire il calore richiesto
utilizzando energia termica ad una temperatura particolarmente bassa
(25÷45 °C).
Simile tipologia impiantistica diventa una scelta quasi obbligata
allorquando si decida di realizzare impianti termici abbinati al “solare”,
a pompa di calore o comunque ad altri sistemi in grado di fornire
energia a basso livello termico.
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è risaputo che per un razionale sfruttamento dell’energia è di
fondamentale importanza l’utilizzazione del calore a bassa
temperatura; infatti il valore termodinamico del calore (e perciò
il suo valore economico) dipende dalla temperatura alla quale è
disponibile. Infine non è pensabile che per ottenere una temperatura
corrispondente al nostro benessere fisiologico (circa 20÷22 °C) si
continui a bruciare sostanze organiche fossili (sino all’esaurimento
e con tutti i problemi ecologici ed economici connessi): non ha
senso “degradare il calore”, è più logico cercare di fornirlo ad una
temperatura prossima a quella di utilizzo, cercando di sfruttare
maggiormente le cosiddette fonti “alternative” in grado di ricondurre il
costo del calore al suo valore termodinamico.
II sistema di distribuzione del calore che risulta idoneo con tali fonti di
calore a bassa temperatura (recupero, solare, pompa di calore, ecc.) è
l’impianto a pannelli radianti.
Funzionamento degli impianti a pannelli radianti
attuali
L’impianto a pannelli radianti, come abbiamo detto in precedenza,
possiede un’importante caratteristica che è quella di funzionare a
bassa temperatura (21÷45 °C).
Infatti in questi impianti è l’intera superficie riscaldata che costituisce
il vettore riscaldante; perciò, data l’ampiezza del vettore riscaldante
stesso si renderà indispensabile una minore cessione specifica
di calore (W/m) e conseguentemente consentirà l’uso del fluido
riscaldante a temperatura ridotta.
Questa particolarità consente un risparmio di energia non indifferente
in quanto si riducono le perdite di calore delle tubazioni e sono
possibili abbinamenti impiantistici con tutte le fonti di calore a basso
livello termico, come pannelli solari, pompe di calore, caldaie a
condensazione, ecc.
Inoltre si ammette una temperatura massima superficiale del
pavimento pari a 29 °C almeno nelle zone che sono soggette a
stazionamento permanente delle persone, mentre vicino alle pareti
fredde perimetrali e nei locali adibiti a bagno o doccia, si accettano
temperature sino a 35 °C.
Si ricordi comunque che con una temperatura massima superficiale
del pavimento di 29 °C, si intende che questo è normalmente e
mediamente a temperature inferiori, tanto più che ciò accade in
prossimità della temperatura esterna minima di progetto, vale a dire
pochi giorni nell’arco del periodo invernale.
II fatto poi di consentire temperature di 35 °C sino ad un metro dalle
pareti esterne, è basato sulla considerazione che nelle zone prossime
alle pareti, come nei locali da bagno, lo stazionamento di persone
non è permanente ma abbastanza saltuario, aggiungendo che può
essere confortevole negli spogliatoi e nei locali doccia avere i “piedi al
caldo”.
Tecnicamente comunque si tende ad infittire i ranghi della serpentina
vicino alle pareti esterne proprio per facilitare il raggiungimento della
resa, necessaria ad aumentare l’emissione termica in quelle zone dove
sono maggiori le dispersioni termiche (pareti rivolte verso l’esterno).
In sintesi negli impianti di riscaldamento a pavimento ad acqua calda,
si ammettono le seguenti temperature massime superficiali:
-- abitazioni e ambienti commerciali 29 °C
-- bagni 33 °C
-- zone marginali 35 °C
Si ritorna a far presente che superfici fredde portano ad una maggiore
cessione di calore e quindi ad una eccessiva perdita di calore delle
parti interessate.
Temperature superficiali troppo elevate, come quelle necessarie nei
sistemi di riscaldamento tradizionale a radiatori, dove una superficie
relativamente piccola deve provvedere alla cessione di calore agli
ambienti, influiscono sulla dispersione di calore necessaria e sulla
sensazione di benessere.
Nel riscaldamento a pavimento inteso come riscaldamento per
irradiazione su superfici ampie, vengono meno i suddetti influssi
negativi. Non si hanno temperature superficiali superiori alla
temperatura corporea, negative per la dispersione di calore.
Le temperature delle superfici che racchiudono gli ambienti riscaldati
con sistema a pavimento sono più elevate rispetto a quelle degli
ambienti riscaldati con sistemi tradizionali, per cui si riesce ad evitare
una cessione di calore unilaterale eccessiva.
Comunque la temperatura superficiale, o rispettivamente l’uniformità
della temperatura superficiale del pavimento si stabilisce
essenzialmente in base al rivestimento scelto per il pavimento o
rispettivamente alla sua resistenza al passaggio di calore, nonché alla
distanza di posa dei tubi termici ed al tipo di posa scelto.
Isolamento termico negli impianti a pavimento
Per limitare il più possibile le perdite di calore verso il basso si deve
stendere uno strato termoisolante direttamente sulla copertura di
calcestruzzo; lo spessore di questo strato è in funzione del salto
termico tra l’ambiente da riscaldare e quello sottostante, vale a dire la
differenza di temperatura esistente tra i due ambienti.
Tipo di
Temperatura
Temperatura Salto termico
Spessore
solaio
amb.
amb.
(Δt °C)
minimo
(ubicazione) considerato (°C) sottostante (°C)
isolante (mm)
Solai interni
20
15
5
20
Pavimenti
direttamente
sopra il
terreno
20
5
15
40
Solai sopra
l’aria esterna
20
-10
30
60
Tab. 1 - Spessori minimi di strato isolante al di sotto delle serpentine
Tra lo strato isolante sopra descritto e le pareti perimetrali dev’essere
inserito un cordolo isolante di almeno 0,5 cm di spessore, con il doppio
scopo di isolare lateralmente la trasmissione di calore del pavimento
radiante e di compensare la dilatazione della struttura stessa.
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I materiali termoisolanti debbono avere i seguenti requisiti essenziali:
-- buona resistenza al fuoco (reazione al fuoco di classe 1)
-- indeformabilità al calore (< 5% per lung., largh., spess., dopo 2 gg
a 70 °C)
-- bassa conducibilità termica (λ= 0,025 ÷ 0,035 Kcal/m2h °C)
-- appropriata densità (massa volumica consigliata pari a 30 kg/m3 per
isolamenti termici non caricati, come i locali di civile abitazione; e
35 kg/m3 per isolamenti termici caricati, quali solette per parcheggi
auto, capannoni industriali con lavorazioni particolari, ecc.).
Da ultimo ricordiamo che i materiali termoisolanti maggiormente
impiegati per i pannelli radianti sono il polistirene espanso (più
conosciuto come polistirolo espanso) ed il poliuretano espanso;
entrambi i materiali posseggono ottime caratteristiche, tanto come
bassa conducibilità termica, che di resistenza all’azione degli acidi,
organici ed inorganici, agli oli, ai sali. Comunque è sempre bene farsi
rilasciare dal costruttore i dati e le caratteristiche tecniche riguardanti
il materiale isolante che si è deciso di adottare.
Benefici strutturali edilizi con gli impianti di
riscaldamento a pavimento
Vediamo di fare una riflessione per quel che concerne il dannoso
fenomeno della condensazione del vapore d’acqua sulle strutture
murarie e quanto l’impianto di riscaldamento ne attenui l’entità.
Iniziamo col dire che l’umidità nel comparto edile costituisce, e
provoca, uno scadimento delle proprietà fisiche delle strutture, quali:
il modulo di elasticità, la resistenza al gelo, la conduttività termica (nel
senso che quando un componente della struttura, siano i mattoni od
anche i materiali isolanti, sono bagnati, diventano migliori conduttori
e quindi più disperdenti). Si stima che più del 40% delle abitazioni
presenta qualche locale affetto da muffa superficiale attribuibile ad
umidità, e ciò quasi sempre dovuto a difetto di progettazione ed in
qualche misura a difetti di esecuzione; senza escludere una cattiva
conduzione da parte di chi vi abita (non viene quasi mai ricambiata
l’aria interna soprattutto quando si producono forti quantità di vapore
acqueo).
La tecnologia costruttiva dell’edilizia moderna ci ha propinato i doppi
vetri (e fin qui niente di male) ed una sigillatura di tutti i battenti di
porte e finestre; risultato: niente più spifferi, ma nemmeno ricambio
d’aria spontaneo attraverso i serramenti. è giusto risparmiare energia,
ma cerchiamo anche di usare il buon senso. Abbiamo detto sovente
che i materiali isolanti vengono messi in opera senza uno studio
preliminare sul possibile rischio di condensa e conseguenti danni nel
tempo. Recenti studi hanno poi confermato che la barriera al vapore
deve, se possibile, essere evitata.
Minori problemi si creano se si sceglie di utilizzare la capacità isolante
dell’aria e quindi di prevedere un’intercapedine libera all’interno della
muratura. Unica raccomandazione è che oltre la dimensione ottimale
che è pari a 3÷5 cm, un aumento di spessore non fornisce alcun
contributo ulteriore alla resistenza termica.
Oggi ormai quasi tutte le abitazioni fruiscono dell’impianto di
riscaldamento talché, essendo necessario risparmiare l’energia,
si sigillano porte e finestre; i caminetti non usano più e, quando ci
sono, nella versione moderna sono dotati di propria presa d’aria
esterna, convogliata direttamente sotto il fuoco e quindi tale da non
provocare ricambio d’aria nell’ambiente; le stufe sono spesso di tipo
stagno, quindi con circolazione autonoma dell’aria oppure (peggio
ancora) bruciano ossigeno dell’ambiente e rigettano i prodotti della
combustione nell’ambiente stesso, apportando vapore anziché
toglierlo mediante la circolazione dell’aria con l’esterno.
Le cucine oggi fruiscono di cappe autofiltranti, al più di un
elettroaspiratore che viene spesso mantenuto fermo, sempre al fine di
non “gettar via” calore facendo per di più entrare aria fredda.
Si può affermare che con buone progettazioni oggi l’edificio è dotato di
un buon grado di isolamento termico, al punto che sono ormai sparite
dal mercato le grosse caldaie di un tempo, per lasciare spazio a piccole
caldaie. Spesso accade, tenendo ben chiuse le finestre ed utilizzando
il calore generato dalle persone, che si riesca quasi a scaldare o
quanto meno a renderle vivibili; al più un breve periodo di accensione
alla sera, al rientro dal lavoro, poi tutti a letto e nuovamente caldaia
spenta.
Accade anche, così, che le strutture murarie rimangano fredde; una
sia pure piccola inerzia termica delle stesse non consente loro di
riscaldarsi durante il breve periodo di riscaldamento serale, così che
durante la notte il vapore sviluppato dalle persone, dalla cottura
dei cibi ed eventualmente dalla doccia, incontra le superfici fredde
dei muri e condensa: né si può dare la colpa (almeno non tutta) alla
presenza della barriera al vapore, in quanto si è constatato che la
migrazione attraverso le pareti è capace di smaltire non più del 10% del
vapore prodotto.
Nella stagione fredda, l’aria esterna, anche se in condizioni prossime
alla saturazione, contiene pochi grammi di vapor d’acqua per metro
cubo d’aria, mentre l’aria interna, più calda, anche se con umidità
relativa del 50÷70%, ne contiene assai dì più.
L’ambiente interno viene costantemente alimentato di vapore
per effetto della presenza delle persone, del funzionamento di
apparecchiature, del compimento di operazioni particolari, della
evaporazione diretta da superfici bagnate; in particolare:
• una persona dedita ad attività sedentaria emette 30÷45 g/h di
vapor d’acqua mentre in attività moderata questi valori salgono
già a 55÷70 g/h. In otto ore di sonno, due persone producono
mediamente circa 650 g di vapor d’acqua;
• la combustione di gas a fiamma libera comporta, oltre agli altri
prodotti della combustione, la formazione di 175 g di vapore ogni
1000 Kcal bruciate; nell’ora di preparazione del pasto si sviluppano
da 1 a 2 kg di vapor d’acqua che, se non allontanati tramite un
aspiratore, si disperdono nell’ambiente;
• la cottura dei cibi ed il lavaggio delle stoviglie comporta una
dispersione in ambiente di 2÷3 kg di vapore al giorno per una
famiglia di quattro persone;
• l’uso del bagno per operazioni igieniche (bagno e doccia esclusi)
comporta l’evaporazione di circa 100÷200 g d’acqua al giorno per
persona.
A questi apporti di vapor d’acqua vanno aggiunti quelli derivanti dal
lavaggio dei pavimenti, dal lavaggio e asciugatura della biancheria,
Le Guide
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dei capelli, bagno, doccia, in quantità imprecisabili in quanto legate ad
abitudini personali.
Questi apporti di vapor d’acqua nel complesso valutabili attorno a 2÷3
g/h per metro cubo di alloggio, devono essere smaltiti all’esterno per
non penalizzare le condizioni di comfort e tale allontanamento avviene
per: ricambio d’aria, condensazione su superfici fredde, migrazione
attraverso le strutture edili circostanti.
A questo proposito si ricorda l’effetto positivo che esercita la muratura
in laterizio nello smaltimento dell’umidità.
Attraverso la microporosità della massa del laterizio può infatti filtrare
una sensibile quantità di umidità; la elevata permeabilità al vapore
del laterizio consente questo fenomeno. In pratica una muratura
in laterizio correttamente eseguita è più che in grado di smaltire
l’umidità proveniente dalle normali attività svolte negli ambienti di
un’abitazione; essa si diffonde nello spessore della muratura ed esce
all’esterno, senza condensare all’interno della muratura stessa.
Questo risultato può essere compromesso dall’uso dì intonaci e
barriere impermeabili al vapore, come pure da un’errata scelta e posa
degli strati isolanti inseriti nelle strutture; ma sicuramente può venire
favorito invece da una maggiore temperatura delle pareti, maggiore
temperatura che si verifica in quelle strutture edili nelle quali si è
provveduto ad installare un impianto di riscaldamento a pavimento.
Gli impianti a pannelli radianti a pavimento attuali
Come si è detto precedentemente trattando del benessere ambientale,
l’impianto di riscaldamento invernale, o quello di raffreddamento
estivo, non hanno il compito di riscaldare o raffreddare le persone,
bensì quello di regolarne l’indispensabile dissipazione del calore, così
da conseguire il corretto bilancio termico, ossia la parità tra il calore
prodotto ed il calore dissipato.
Il fatto che il corpo umano ceda calore all’aria ed anche alle pareti
comporta alcune conseguenze che occorre tenere ben presente.
Più le pareti di un locale sono fredde tanto più aumentano le
dispersioni di calore del corpo per radiazione e conseguentemente
l’aria deve essere più calda così da ridurre le dispersioni per
convezione. è il caso di locali con vaste vetrate, oppure d’angolo con
due pareti disperdenti, oppure sotto tetto o sotto terrazzo, nei quali «si
sente freddo» anche se la temperatura dell’aria è uguale a quella degli
altri locali.
Diversamente se le pareti sono meno fredde, od addirittura calde, la
temperatura dell’aria dev’essere minore di quella degli altri locali:
è il caso dei locali riscaldati a pannelli radianti, in cui il pavimento è
riscaldato ed in cui la stessa temperatura, considerata ottima in locali
riscaldati con altri mezzi (ad esempio i radiatori) risulta eccessiva.
Comunque lo stato di benessere termico non dipende soltanto dalla
temperatura dell’aria, ma anche dalla temperatura delle pareti.
In concreto si considera quale temperatura ambiente di benessere
la temperatura operante, assumendo come tale, per motivi pratici, la
media tra la temperatura dell’aria e la temperatura media ponderata di
tutte le pareti (opache, o trasparenti) che delimitano il locale.
Attualmente viene misurata solamente la temperatura dell’aria (anche
per effetto della normativa esistente), però esistono strumenti per
misurare la temperatura operante (to). Vediamo quindi a questo
punto di riparlare di questo argomento, tra l’altro molto importante,
soprattutto ai fini di una corretta esecuzione impiantistica, sia sotto
l’aspetto del comfort ambientale sia per quanto riguarda il risparmio
energetico.
Determinazione della temperatura operante (to)
Si è detto che per temperatura ambiente non si può considerare solo
la temperatura dell’aria misurabile con qualsiasi termometro, ma la
temperatura media operante nell’ambiente. Questa è la risultante
della temperatura dell’aria e della temperatura di tutti i corpi “attorno
all’occupante la stanza” (pareti, pavimento, soffitto, finestre).
Questa media di temperatura, influenzata anche dall’irraggiamento di
questi corpi, compone il benessere che è tra i 18 e i 20 gradi.
A parità di temperatura dell’aria la temperatura operante sull’individuo
che soggiorna nel locale è tanto maggiore quanto maggiore è la
temperatura delle pareti circostanti (ciò lo si ottiene con impianti di
riscaldamento radianti, come gli impianti a pavimento, ecc.).
La temperatura operante, media fra la temperatura dell’aria e quella
superficiale delle pareti che delimitano l’ambiente, viene determinata
nel modo sotto indicato:
dove:
to = ta+tp
2
.
tp = tpi- 0,125 qd
St
ta = temperatura dell’aria nell’ambiente (°C)
tp
= temperatura superficiale, media ponderale, delle pareti (°C)
tpi = temperatura superficiale delle pareti interne (non disperdenti
del locale, assunta uguale alla temperatura dell’aria
ambiente ta (°C)
0,125 = resistenza termica dello strato liminare interno (aria-parete
(m2 h °C/kcal))
qd
= fabbisogno di calore del locale per dispersioni attraverso le
pareti (Kcal/h)
St
= superficie totale delle 6 pareti del locale (m2)
Per maggiore chiarezza vediamo di fare un esempio pratico.
a - Esaminiamo un locale tipico di m 4 x 3, alto 2,7 m, provvisto di
finestra e con una superficie totale delle 6 pareti pari a circa 60 m2,
situato in un edificio non isolato e riscaldato ad aria (vedere fig. 2).
Fig. 2 -Temperatura operante (to) in locale non coibentato
e riscaldato ad aria
Le Guide
n°. 30 - Dicembre 2010
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Il fabbisogno di calore del locale, dovuto alle dispersioni, sia pari a:
qd = 1200 kcal/h
La temperatura media ponderale delle pareti è:
.
tp = 20- 0,125 1200 = 17,5°C
6
Pertanto la temperatura operante risulta:
tp = 20 + 17,5 = 18,7°C
2
b - Esaminiamo ora il medesimo locale del caso precedente, però
coibentato, e sempre riscaldato ad aria (vedere fig. 3).
Il fabbisogno termico del locale rimane invariato rispetto al caso
precedente e quindi:
qd = 550 kcal/h
Per quanto riguarda invece la temperatura superficiale media
ponderale delle pareti, si dovrà tener conto della temperatura della
superficie frontale del corpo scaldante (piastra d’acciaio); nel caso
fosse paria 0,6 m e considerando una temperatura media dell’acqua
circolante pari a 70°C, avremo:
0,125.550
60
tp = 20= 18,9°C e perciò
.
.
tp1 = (60 - 0,6) 18,9 + 0,6 70 = 19,4°C
60
Pertanto la temperatura operante risulta:
to = 20 + 19,4 = 19,7°C
2
d - Da ultimo esaminiamo sempre lo stesso locale, coibentato, ma
dove si è provveduto ad installare un impianto a pannelli radianti a
pavimento (vedi fig. 5).
Fig. 3 -Temperatura operante (to) in locale coibentato e
riscaldato ad aria
Il fabbisogno di calore in questo caso è diminuito ed è pari a:
qd = 550 kcal/h
La temperatura media ponderale delle pareti è:
.
tp = 20- 0,125 550 = 18,9°C
6
Pertanto la temperatura operante risulta:
to = 20 + 18,9 = 19,4°C
2
c - Analizziamo sempre il medesimo locale, coibentato, però riscaldato
con un radiatore a piastra (vedere fig. 4).
Fig. 5 -Temperatura operante (to) in locale coibentato e riscaldato
con pannelli a pavimento
Il fabbisogno termico del locale rimane sempre invariato, per cui
avremo ancora:
qd = 550 kcal/h
Per quel che concerne la temperatura superficiale media ponderale
delle pareti, si dovrà tener conto dell’intera superficie del pavimento
(12 m2), la cui temperatura media riteniamo che non superi i 29°C;
quindi avremo:
.
tp = 20- 0,125 550 = 18,9°C
60
e perciò
.
.
tp1 = (60 - 12) 18,9 + 12 29 = 20,92°C
60
Fig. 4 -Temperatura operante (to) in locale coibentato e riscaldato
con radiatori
Pertanto la temperatura operante risulta:
to = 20 + 20,92 = 20,5°C
2
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n°. 30 - Dicembre 2010
9
Si tiene comunque a precisare che questi valori sono da ritenersi
indicativi in quanto piuttosto variabili nell’arco della giornata di
riscaldamento. Nell’ultimo esempio (impianto a pannelli radianti) non
si è volutamente tenuto conto che lungo le pareti perimetrali, e per
una striscia larga un metro, la temperatura superficiale del pavimento
sovente viene tenuta progettualmente anche ad un massimo di 35°C;
ciò influirebbe ancor più positivamente sulla temperatura operante
(to) finale (senza considerare la maggior temperatura superficiale
che con gli impianti a pavimento radiante assumono le pareti verticali
circostanti).
L’esempio sopra riportato evidenzia come a parità di temperatura
dell’aria ambiente (20°C), la temperatura effettivamente operante
sull’individuo possa variare in funzione delle caratteristiche dispersive
dell’ambiente e del suo impianto di riscaldamento, nel senso che
solamente un impianto di riscaldamento ad effetto prevalentemente
radiante (impianti a pavimento, a parete, ecc.) è in grado di
massimizzare la temperatura operante (to).
Fig. 6 -Confronto della temperatura operante in locali riscaldati
per convezione (caloriferi) ed altri per irraggiamento
(pannelli radianti)
Si osserva inoltre che nel caso del pavimento radiante viene evitata la
formazione di una zona a temperatura più elevata nella parte alta del
locale (fattore decisamente antieconomico) e nel contempo si evita la
sensazione di malessere per il pavimento più freddo.
Altra particolarità di non secondaria importanza è che con apparecchi
ad elevata temperatura (caloriferi) si provoca un trascinamento di
pulviscolo, riscontrabile dallo sporcamento dei muri, mentre con
impianti radianti a bassa temperatura ciò non accade o in misura
molto inferiore, senza contare che si influisce pure favorevolmente
sull’umidità relativa.
La termoregolazione negli impianti a pavimento
radiante
Nessun termotecnico nutre dubbi sulle prestazioni degli impianti
termici a pavimento e, tra l’altro, ben conosce il comfort ambientale
che consente questa tipologia impiantistica, oltre al risparmio
energetico che è possibile conseguire. Purtroppo però vi sono troppe
persone (tra le quali anche alcuni professionisti del settore edile) che
ritengono l’impianto di riscaldamento a pavimento adatto in modo
particolare dove sussista un “clima freddo con temperature costanti”.
Niente di più errato. A volte è impresa ardua sfatare radicati pregiudizi
che, chissà come, circolano nei discorsi dei “bene informati”, sino a
diventare infine “realtà incontestabile”. Per quanto riguarda il clima
freddo non vi sono problemi, basta calcolare il fabbisogno termico
degli ambienti e di conseguenza ricavare la quantità di tubazione
da posare nel pavimento; immagino che la perplessità sia piuttosto
riguardo all’incostanza delle temperature, nel senso che nell’arco della
giornata di riscaldamento vi possono essere “sbalzi” di temperatura
dell’aria esterna, come pure di quella interna (molte persone in un
locale, irraggiamento solare dalle finestre, caminetti, ecc.).
Bene, diciamo che per ovviare a questo fenomeno una buona
termoregolazione è in grado di contrastare efficacemente
qualunque variazione di temperatura ambiente. A parte il fatto che
qualunque edificio, grazie alla propria inerzia termica, non risente
immediatamente delle variazioni di temperatura esterna, diciamo che
una "regolazione climatica" con curva di compensazione, consente di
variare l’apporto di calore ai pannelli prima ancora che i locali abbiano
risentito della variazione della temperatura esterna.
In sintesi si opererà nel modo seguente:
-- a) una regolazione primaria sull’acqua in grado di adeguarsi alle
escursioni della temperatura esterna
-- b) una regolazione secondaria in ambiente in grado di compensare
gli apporti di calore interni; meglio ancora una regolazione
secondaria per ogni singolo ambiente, soprattutto in presenza di
locali provvisti di ampie vetrate, presenza di caminetti, stufe, ecc.
E con ciò, vale a dire con una efficace termoregolazione, non vi è alcun
motivo di nutrire infondate perplessità; in pratica si adotta il medesimo
tipo di termoregolazione che anche qualunque impianto termico
tradizionale (radiatori) dovrebbe avere. Ricordiamoci che un pavimento
radiante in fondo altro non è che un radiatore un po’ più grande dei
solito, che però viene alimentato con acqua a bassa temperatura.
Allora ci si chiede: è meglio avere una grande superficie di “radiatori”
a bassa temperatura o un solo piccolo radiatore "incandescente",
considerando che l’emissione finale di calore all’ambiente sia la
medesima? La risposta è ovvia.
Ora, dopo aver esposto la tipologia di termoregolazione che è
bene venga adottata per l’impianto termico a pannelli, vi è una
considerazione da fare, considerazione che pochi fanno, e che, entro
certi limiti, quasi “renderebbe superflua” la termoregolazione di cui si
è parlato dianzi.
Tale considerazione riguarda una particolarità che hanno gli impianti
termici a pavimento, particolarità che per i "non veramente addetti"
risulta, a dir poco, curiosa: “il fenomeno dell’autoregolazione”.
Esaminiamo questo fenomeno più in dettaglio.
Effetto di autoregolazione
1° caso (variazione della temperatura ambiente)
Un grande vantaggio del riscaldamento a pavimento è rappresentato
dal cosiddetto effetto di “autoregolazione”. Grazie alla piccola
differenza tra la temperatura della superficie riscaldante (pavimento)
e la temperatura ambiente, l’emissione di calore si regola in modo
abbastanza rapido.
Le Guide
n°. 30 - Dicembre 2010
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Nei periodi transitori si ha una differenza di circa 4 °C e un
aumento della temperatura ambiente di 1 °C provoca una riduzione
dell’emissione di calore del 25%.
Appena la temperatura ambiente raggiunge il valore della temperatura
del pavimento non si ha più trasmissione termica. Gli impianti di
riscaldamento su superfici estese hanno un effetto di autoregolazione
da 3 a 4 volte migliore degli impianti di riscaldamento a radiatori
con temperature superficiali molto più elevate. Per questa ragione i
dispositivi di regolazione della temperatura ambiente sono necessari
solo in casi particolari.
Da ultimo è bene rilevare che è senz’altro possibile la regolazione per
ogni singolo ambiente, ma comunque non è strettamente necessaria.
Ma vediamo di fare un esempio di riferimento a quanto detto in
precedenza.
Supponendo che in un certo momento, in un dato locale, si arrivi
ad ottenere 20 °C di temperatura ambiente con una temperatura
superficiale del pavimento pari a 24 °C, il rendimento termico a m2 nel
caso specifico sarà:
Qt = ϕ • Δt
Qt = 8,92 (24 °C - 20 °C)1.1
Qt = 41 W/m2
Qualora nel locale si dovesse verificare un innalzamento della
temperatura ambiente di 1 °C, dovuto ad irraggiamento solare
attraverso le finestre, otterremo:
Qt = 8,92 (24 °C - 21 °C)1.1
Qt=30W/m2
che corrisponde ad una diminuzione di rendimento del 25%.
Se ne deduce pertanto che questo effetto di “autoregolazione” è
una caratteristica peculiare degli impianti a pavimento radiante,
caratteristica che comporta un maggior grado di benessere
ambientale.
2° caso (presenza di ostacoli alla libera emissione termica dei
pavimenti)
Un caso non infrequente è il verificarsi di situazioni in cui impedimenti
vari, come tappeti, armadi, ecc. possono alterare l’emissione termica
dei pannelli a pavimento e quindi l’uniformità delle temperature
interne dei locali.
Questa è una di quelle situazioni che ha suscitato parecchie
perplessità per quel che concerne la resa dei terminali di erogazione
del calore; in realtà si è potuto constatare che è più facile assistere a
degli squilibri termici negli impianti con radiatori anziché con quelli a
pannelli radianti.
Vediamone il motivo.
Quando in un locale viene ostacolata la libera emissione di un
terminale, si verifica la seguente situazione:
-- si abbassa la temperatura ambiente;
-- di conseguenza aumenta il Δt (salto termico) con cui il terminale
cede calore.
In altre parole, al diminuire della temperatura ambiente, nei terminali
si verifica un aumento della resa in funzione del nuovo Δt che si
è venuto a determinare; ne consegue che se l’aumento di resa è
consistente verranno minimizzati gli effetti negativi procurati dagli
ostacoli termici.
A questo punto è possibile affermare che in presenza di impedimenti
termici di pari entità posti in locali simili, i pannelli radianti a
pavimento reagiscono con un deciso incremento di emissione del
calore, al contrario dei radiatori che danno una risposta molto debole.
Quanto appena detto è stato oggetto di prove e di calcoli rigorosi (in
questa sede omettiamo di riportare in quanto trattasi di molte pagine
di soli calcoli ma che a richiesta possiamo fornire).
Le prove ed i calcoli riguardano un locale riscaldato con pannelli
a pavimento nel quale è stato inserito un tappeto ricoprente una
parte dello stesso. Si è ipotizzato di riscaldare detto locale a diverse
temperature: 20°C, 19°C, ecc. ed inoltre si è pure ipotizzato di
riscaldare lo stesso locale con radiatori e con situazioni simili al
riscaldamento a pavimento (calore emesso dal radiatore parzialmente
impedito, pari al calore sottratto dal tappeto).
In conclusione si è visto che nel caso dei pannelli a pavimento vi è
stata una risposta piuttosto forte, infatti tra 20°C e 19°C l’incremento di
calore è stato del 18,2% e la diminuzione della temperatura ambiente è
stata di soli 0,5 °C.
Nel caso invece dei radiatori si è verificata una debole reazione
all’impedimento di emissione di calore; nel caso in esame, tra 20°C e
19°C, l’incremento di calore è stato solo del 2,4% con una diminuzione
della temperatura ambiente di ben 1,5°C (il triplo rispetto ai pannelli).
Da ciò è possibile affermare che gli impianti a pannelli posseggono
una loro facoltà intrinseca, una loro specifica prerogativa: quella
di autoregolarsi, quindi di “adattarsi” anche alle situazioni più
impegnative.
G. Carlo bertagnoli
(Consulente termotecnico)
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Evacuazione dei prodotti della combustione: il posizionamento dei
comignoli e dei terminali secondo la nuova 7129:2008
A cura dell’Ing. Giovanni Fontana (Hermann)
La pubblicazione della norma UNI 7129:2008 ha segnato l’avvento di una serie di novità molto interessanti nel
campo della realizzazione degli impianti gas domestici, novità che talvolta creano un po’ di confusione in quanto,
sovrapponendosi a concetti già estremamente radicati nel bagaglio esperienziale dell’installatore, vengono letti
attraverso il filtro delle precedenti conoscenze e non completamente compresi nelle loro indicazioni.
Vediamo di chiarire, in questo numero, l’aspetto delle quote di sbocco sul tetto dei comignoli/terminali di scarico
secondo le indicazioni previste nella norma.
Come ormai a tutti è noto la norma UNI 7129:2008 è composta di 4
parti che affrontano argomenti differenti ma che concorrono tutti alla
realizzazione secondo la regola dell’arte degli impianti gas.
Le novità introdotte sono molteplici, cercheremo di trattarle
approfonditamente nel corso delle uscite, incominciamo in questo
numero con uno degli argomenti che, pur essendo già presente
nelle versioni precedenti della norma, ha subito una sostanziale
modifica nell’approccio all’argomento, modifica all’approccio che in
alcuni casi non si traduce come modifica ai risultati, quindi a forte
rischio di lettura superficiale o di assoluto disinteresse (tanto non
cambia nulla…), andando a vanificare quelli che sono gli intendimenti
della norma, e cioè di fornire metodologie il più chiare possibili per
realizzare opere a regola d’arte.
Svilupperemo il tema affrontando la lettura critica della parte della
norma UNI 7129 che riguarda questo argomento, per finire poi con
una comparazione tra la versione attuale e la precedente della norma
per capire dove i risultati sono diversi e cosa comporta utilizzare una
metodologia piuttosto che un’altra.
Innanzitutto forniamo subito i riferimenti normativi del caso, cioè
affronteremo la lettura della norma UNI 7129-3:2008 cap. 5.7, ma
procediamo con ordine chiarendoci subito un aspetto fondamentale, e
cioè le definizioni.
3.3.9 zona di rispetto: Corrisponde alla zona sovrastante il tetto ed è
definita dalla somma dell’altezza della zona di reflusso più 500 mm del
tratto finale del camino/canna fumaria, terminale per fuoriuscire dalla
stessa ..omissis…
3.7.1 comignolo (aspiratore statico
o mitria): Dispositivo che, posto
alla bocca del camino/canna
fumaria, permette la dispersione
dei prodotti della combustione
anche in presenza di avverse
condizioni atmosferiche.
3.7.2 tratto finale (torrino):
È la parte del camino o canna
fumaria che fuoriesce dal manto
di copertura del tetto fino al
comignolo.
3.3.8 quota di sbocco: Quota corrispondente alla sommità del camino/
canna fumaria, indipendentemente dal comignolo.
3.7.3 terminale di tiraggio:
Dispositivo installato, nel caso
di scarico a parete, al termine di
un canale da fumo o condotto
di esalazione (se funzionante
con pressione negativa), atto a
disperdere nell’ambiente esterno
i prodotti della combustione o i
vapori di cottura.
Le Guide
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Il comignolo non dovrebbe presentare difficoltà, se si esclude una certa
dose di immaginazione nel riuscire ad identificare come comignoli
strutture del tutto diverse da quello che siamo abituati a vedere.
3.7.4 terminale di scarico: Dispositivo installato, nel caso di scarico
a parete, al termine di un condotto di scarico fumi o condotto di
esalazione (se funzionante con pressione positiva), atto a disperdere
nell’ambiente esterno i prodotti della combustione o vapori di cottura.
Vediamo di chiarirci i concetti espressi:
Tetti inclinati
Rispetto alla quota di sbocco
risulta quindi evidente come
ci si riferisca alla quota a cui
termina il torrino e comincia
il comignolo, oppure in caso
di comignoli “artistici”, la
quota più bassa in cui i fumi
possono essere evacuati in atmosfera. La zona di rispetto non presenta
particolari difficoltà interpretative, l’unica cosa che occorre ricordare
è che nella versione precedente della norma si parlava di zona di
reflusso, ma i due termini non sono sinonimi. Si nota infatti come
la zona di rispetto sia la somma tra la zona di reflusso e i 500 mm
che, nella versione precedente, costituiva la quota di sbocco, quindi
possiamo dire che zona di rispetto = zona di reflusso + 500 mm, cioè
tra le 2 versioni della norma non è cambiata la quota di sbocco, ma
non bisogna assolutamente confondere zona di rispetto con zona di
reflusso, in quanto una contempla già al suo interno i 500 mm, l’altra
chiede di aggiungerli.
Il tratto finale o torrino è la parte che generalmente viene inglobata nel
parlare comune nel termine comignolo.
Tale inclusione normalmente causa diverse difficoltà tra due
interlocutori che scambiandosi opinioni pensano al comignolo come un
tutt’uno con il torrino (errando) e chi li separa come richiede la norma.
è infatti evidente che se si ingloba il torrino nel comignolo la quota
di sbocco diventa il manto di copertura del tetto, con una serie di
fraintendimenti allucinanti e pericolosi.
Chiariti i termini che utilizzeremo, cerchiamo ora di affrontare il discorso
più pratico delle reali quote di sbocco, analizzando, anche con esempi
numerici, cosa è richiesto dalla norma.
La figura 1 e la tabella seguente dovrebbero aiutarci notevolmente
nella comprensione, soprattutto perché, a differenza della precedente
versione della norma, non occorre più valutare la pendenza del tetto per
stabilire qual è la quota di sbocco corretta (per non parlare dei casi in
cui la pendenza si attestava ad un valore intermedio tra quelli proposti
di 15°, 30°, 45°, 60°, lasciando l’installatore a metà del guado).
UNI 7129:2001
Fig. 1
Prospetto 1
UNI 7129-3:2008
Simbolo
Descrizione
Area di rispetto
Sistema fumario
Sistema fumario
Cappe
operante con
operante con
aspiranti
pressione negativa pressione negativa
c
Distanza misurata a
90° dalla superficie
del tetto (mm)
1300
500
500
a
Altezza sopra
il colmo del tetto
(mm)
500
500
500
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L’affermazione per cui non è più necessario valutare la pendenza
del tetto trova chiara conferma nel fatto che nel prospetto 1 l’angolo
β è utilizzato solo per valutare il campo di validità del prospetto
stesso (per angoli con β >10° il tetto si può definire inclinato e quindi
utilizzare il prospetto 1), ma non interviene direttamente nel calcolo
della zona di rispetto, che rimane sempre di 1300 mm rispetto alla
perpendicolare uscente dal manto di copertura stesso nel caso di
sistemi a pressione negativa (a tiraggio naturale), 500 mm nel caso di
sistemi in pressione positiva.
Praticamente si può operare nel modo seguente: ipotizziamo di dover
calcolare quanto innalzare un torrino di un sistema a tiraggio naturale.
Una volta individuato il punto sul manto di copertura in cui il torrino
dovrà iniziare a svettare dal tetto, si innalzerà il torrino stesso fino a
che, utilizzando il metro a settori piegato a “L” appoggiato al manto di
copertura, il bordo superiore del torrino in corrispondenza del lato più
a monte (cioè verso il colmo del tetto) non giungerà ad intercettare il
metro a settori alla misura di 100 mm (il metro a settori normalmente
ha segmenti di 200 mm per settore, operando la piegatura ad L al 7°
settore avremo una verticale uscente dal tetto di 1400 mm, è quindi
evidente che i 1300 mm li avremo all’intercetto dei 100 mm.)
Con questo metodo l’angolazione della falda del tetto è implicitamente
tenuta in considerazione dal fatto che non si valuta l’altezza del torrino
sulla verticale uscente dal piano del terreno, bensì dalla verticale
uscente dal piano del tetto, procedura che automaticamente innalza
l’altezza del torrino tanto più è inclinata la falda del tetto.
Quest’ultimo risultato rende evidente il perché sono scomparse le
figure dei tetti a varie inclinazioni, che erano invece presenti nella
versione precedente della norma.
Qualora il sistema fosse in pressione positiva è evidente che la
metodologia rimane la stessa, semplicemente si sostituisce a 1300 mm
il valore di 500 mm.
Approfondimento 1
Ipotizziamo di aver dimenticato di misurare il bordo del torrino nel
suo lato a monte bensì in corrispondenza del suo asse, che errore
commettiamo in termini reali? Detta L la larghezza del torrino
(ipotizziamo una sezione quadrata), abbiamo accorciato lo stesso di
una misura pari a (L/2) x Tg β, che, per torrini di 400 mm di larghezza e
tetti inclinati a 30°, significa un accorciamento pari a 115 mm.
Approfondimento 2
Ipotizziamo di non avere il metro a disposizione, ma solo il filo a
piombo con l’indicazione dei 1300 mm, che errore commettiamo se
l’innalzamento del torrino è realizzato lungo la verticale rispetto al
piano del terreno invece che al piano del tetto?
In generale detta H l’altezza della zona di rispetto e detto ε l’errore (in
difetto) che commettiamo, allora ε = (H/cos β)- H. Numericamente nel
ns. caso, in cui β = 30°, commettiamo un errore ε = 201 mm.
Come fare a minimizzare tale errore? Verrebbe da dire procurandosi gli
strumenti adatti al lavoro che stiamo realizzando…, più praticamente si
può sfruttare la dimensione del torrino stesso. Vediamo di considerare
2 metodi:
Metodo 1 - Posizioniamo il filo a piombo sul bordo a monte del torrino
stesso e aggiungiamo ai 1300 segnati sul filo la metà della larghezza
del torrino, otterremo (con torrino da 400 mm di larghezza) quindi una
distanza totale sul filo a piombo di 1500 mm. Se avessimo realizzato
un torrino in linea con quanto indicato dalla norma (il bordo a monte
del torrino ad una distanza di 1300 mm misurata sulla verticale uscente
dal tetto), avremmo realizzato un torrino alto 1501 mm, per un totale di
1500-1501 = 1 mm in difetto.
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A questo punto possiamo dire che se abbiamo solo un filo a piombo
con segnati i 1300 mm basta allungare la distanza misurata sul filo
a piombo della metà del torrino e l’errore che commetteremo sarà
minimo.
Se vogliamo visualizzare il tutto in un grafico parametrico che
tenga conto dell’inclinazione del tetto e della larghezza del torrino
otteniamo:
In realtà è evidente come per inclinazioni attorno ai 30° l’errore è
minimo, ma per inclinazioni attorno a 10° o per torrini di larghezza
maggiore o minore, l’errore si fa più consistente. Esiste allora un altro
metodo per minimizzare l’errore anche con inclinazioni minori? Certo,
non resta che leggere il metodo 2.
Metodo 2 - Ipotizziamo sempre di non avere il metro a disposizione,
ma solo il filo a piombo con l’indicazione dei 1300 mm.
Dopo aver realizzato il torrino con un altezza di 1300 mm misurati con
il filo a piombo sul bordo a monte, posizioniamo il filo a piombo sul
bordo a valle e segnamoci la lunghezza di quest’ultima altezza, che
ovviamente sarà più lunga. Riportiamo la misura fatta a valle a monte
del torrino stesso, quindi innalziamo il torrino fino a questa quota.
A questo punto possiamo dire che se il tetto non è molto inclinato (cioè
la stragrande maggioranza dei tetti italiani) e abbiamo solo un filo a
piombo con segnati i 1300 mm, basta riportare a monte la misura fatta
a valle del torrino, allungandolo quindi rispetto ai 1300 mm iniziali,
e l’errore che commetteremo fino a inclinazioni di 30° sarà minimo.
Anche in questo caso, volendo visualizzare il tutto in un grafico
parametrico che tenga conto dell’inclinazione del tetto, otteniamo:
Attenzione che se l’altezza della zona di rispetto si riduce a 500
mm, perché lo scarico è in pressione positiva, anche il torrino ha
mediamente delle dimensioni inferiori, con il risultato finale di
mantenere l’errore molto contenuto.
è comunque importantissimo ricordarsi che, qualora la quota di sbocco
superi il colmo del tetto di 500 mm, non è necessario salire oltre,
indipendentemente dai calcoli visti sopra.
Un metodo alternativo a quelli esposti sopra è l’utilizzo di un grafico
riassuntivo che raggruppi tutte le varie considerazioni fatte e aiuti a
dimensionare senza dover ricordare nulla a memoria (soluzione più
pratica, ma meno interessante, in quanto capire il perché si fanno
le cose è comunque molto più importante che saperle solamente
fare). Per utilizzare i grafici seguenti è però necessario conoscere
l’inclinazione del tetto, inclinazione che abbiamo detto essere ai più
ignota. Chiedere l’inclinazione del tetto significa sostanzialmente
tornare all’approccio vecchia versione della 7129, vanificando quindi
tutte le considerazioni iniziali che ci permettevano di ignorare questo
dato, ma vediamo ugualmente come procedere anche con questo
secondo approccio. Cerchiamo innanzitutto di trovare l’inclinazione
della falda: inizialmente occorre misurare quanto la falda del
tetto si abbassa rispetto al colmo una volta che ci si sposta di 1 m
orizzontalmente dal colmo stesso verso la gronda,
Se avessimo realizzato un torrino in linea con quanto indicato dalla
norma (il bordo a monte del torrino ad una distanza di 1300 mm
misurata sulla verticale uscente dal tetto), avremmo realizzato un
torrino alto (1300/cos β) mm, con il metodo 1 avremmo realizzato un
torrino alto (1300 + L/2) mm, con L pari alla larghezza del torrino,
commettendo errori variabili tra 180 e 1 mm (a seconda dell’angolo
di inclinazione del tetto e con larghezza del torrino = 400 mm) con il
metodo 2 realizziamo un torrino alto (1300 + LxTg β) mm, per un errore
che tra 0° e 30° non supera i 60 mm, con una sensitività rispetto alla
larghezza L del torrino decisamente inferiore rispetto al metodo 1.
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poi si controlla, utilizzando il grafico 1, qual è l’inclinazione
corrispondente del tetto.
Vediamo quindi questi quattro casi con dei semplici disegni.
Sistema in depressione senza aperture vicine
A questo punto si passa ad interpolare i dati sul grafico 2, in cui, ad
ogni linea spezzata, corrisponde un angolo di inclinazione e, a seconda
della distanza che esiste tra bordo a monte del torrino e colmo del
tetto (da riportare sull’asse X del grafico), si può leggere sull’asse
Y l’altezza verticale della quota di sbocco (altezza che sarà poi da
riportare sul filo a piombo).
La situazione è molto semplice: se lo scarico fumi è entro i 2 m
dall’edificio vicino è necessario superare il tetto di quest’ultimo di 50
cm, altrimenti si sale di 1 m rispetto alla soletta del proprio tetto.
Se poi il proprio tetto è un lastrico solare, cioè utilizzato comunemente
come terrazza, allora la quota di sbocco non deve raggiungere solo 1
metro dalla soletta del proprio tetto piano, bensì 2,2 m.
300
60°
Quota di sblocco
250
55°
50°
45°
40° °
35 30°
200
150
25°20°
15°
100
50
0
0
50
100
150
200
250
300
350
400
450
500
550
600
650
Distanza dal colmo del tetto
Tetti piani
La norma in questo caso è di più semplice interpretazione, avendo
meno possibilità di errore tra quote misurate sulla verticale o normali
alla falda del tetto (il tetto piano è parallelo al terreno, quindi la
normale uscente dal tetto è parallela alla verticale uscente dal
terreno), e, in pratica, sono presenti quattro varianti di zone di rispetto,
a seconda che si tratti di sistemi fumari operanti in pressione positiva
o negativa mixati con la possibilità che esistano aperture o meno sui
volumi tecnici vicini.
Sistema in pressione senza aperture vicine
La situazione di nuovo è molto semplice: se lo scarico fumi è entro i
2 m dall’edificio vicino è necessario superare il tetto di quest’ultimo
di 50 cm, altrimenti si sale di 50 cm rispetto alla soletta del proprio
tetto.
Se poi il proprio tetto è un lastrico solare, cioè utilizzato
comunemente come terrazza, allora la quota di sbocco non deve
raggiungere solo i 50 cm dalla soletta del proprio tetto piano, bensì
2,2 m.
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Sistema in depressione con aperture vicine
è importante ricordare che nel caso in cui siano presenti delle aperture
con un balcone o terrazza prospiciente, la misura orizzontale comincia
dalla fine di quest’ultimo aggetto edile, e non dal muro del volume
tecnico da cui l’aggetto si sporge.
Ing. Giovanni Fontana
(Hermann s.r.l.)
La situazione ora si complica leggermente: se lo scarico fumi è entro i
3 m dall’edificio vicino è necessario superare il tetto di quest’ultimo di
50 cm, se lo scarico fumi è oltre i 3 m, ma entro 5 m dall’edificio vicino,
è necessario superare il filo superiore dell’apertura più alta presente
sull’edificio vicino, altrimenti si sale di 1m rispetto alla soletta del
proprio tetto.
Se poi il proprio tetto è un lastrico solare, cioè utilizzato comunemente
come terrazza, allora la quota di sbocco non deve raggiungere solo 1
metro dalla soletta del proprio tetto piano, bensì 2,2 m.
Sistema in pressione con aperture vicine
Similmente al caso in depressione abbiamo: se lo scarico fumi è entro
i 2,5 m dall’edificio vicino è necessario superare il tetto di quest’ultimo
di 50 cm, se lo scarico fumi è oltre i 2,5 m, ma entro 4 m dall’edificio
vicino, è necessario superare il filo superiore dell’apertura più alta
presente sull’edificio vicino, altrimenti si sale di 50 cm rispetto alla
soletta del proprio tetto.
Se poi il proprio tetto è un lastrico solare, cioè utilizzato comunemente
come terrazza, allora la quota di sbocco non deve raggiungere solo i 50
cm dalla soletta del proprio tetto piano, bensì 2,2 m.
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La posta dei lettori
Risponde G. Carlo Bertagnoli (consulente termotecnico)
Inviate la vostra posta a:
Termograph - Consulenze Termotecniche - Via Fenilrami 5 - 46030 Cizzolo (MN)
Talvolta è necessario trasportare il gas in modo discontinuo sia per
usi particolari (ad esempio l’autotrazione) che per servire utenze
non raggiunte dai gasdotti. Dal punto di vista economico risulta
conveniente trasportare gas in recipienti a pressione.
Questa convenienza economica è in funzione della pressione e quindi
del costo dei recipienti; a ciò si aggiungono le esigenze della forma e
la maneggevolezza dei recipienti stessi (peso e ingombro).
Se il gas fosse perfetto si avrebbe p.v = cost. per conseguenza si
dovrebbe scegliere un’elevatissima pressione cui corrisponde il
minimo volume. In pratica ciò non accade; pv non resta costante.
In fig. 7 è riportata la curva relativa al metano che presenta un minimo
del prodotto pv in corrispondenza della pressione assoluta di circa 164
kg/cm2; questo minimo valore indica la pressione più conveniente per
il metano e quindi per il gas naturale.
Il valore pv < 1 è dovuto al fatto che, in un certo intervallo di pressioni,
il volume specifico è inferiore a quello dei gas perfetti; da ciò deriva
che il rapporto
p0 v0
pv
(coefficiente di comprimibilità)
relativo a gas in condizioni normali (po) ed in pressione (p) è uguale
ad 1 per i gas perfetti ed è maggiore ad 1 per i gas reali.
pv
1
Il rapporto α per i gas costituisce il coefficiente di comprimibilità
che per il gas naturale (metano) è riportato in fig. 8 in funzione delle
pressioni assolute; tale coefficiente dipende anche dalla temperatura
e tende a diminuire quando essa si incrementa.
Al massimo valore di α corrisponde il minimo volume specifico; nel
caso del metano (gas naturale) ciò si verifica, come già detto, a circa
164 kg/cm2.
Coefficiente di comprimibilità
Un lettore di La Spezia chiede maggiori ragguagli tecnici circa il
trasporto dei gas; in particolare si domanda: “... perché il gas naturale
o metano, non venga trasportato in fase liquida (G.N.L.) come avviene
per il propano ed il butano (G.P.L.) e perché non venga incrementata
tale modalità di trasporto ...”
(lettera firmata)
1,40
1,35
1,30
1,25
0°C
4°C
8°C
12°C
16°C
20°C
24°C
28°C
32°C
36°C
40°C
44°C
48°C
1,20
1,15
1,10
1,05
1,00
0
25
50
75
100
125
150
175
200
225
250
Pressione (kg/cm2)
Fig. 7 -Coefficiente di comprimibilità per il gas metano
In pratica, per il trasporto in bombole, si adotta una pressione più
elevata (200 kg/cm2).
I contenitori per il trasporto di fluidi in pressione devono essere idonei
a sopportare le sollecitazioni dovute allo stato del fluido e quindi
la loro forma ideale dovrebbe essere quella sferica che però, non
essendo pratica, la si usa per serbatoi fissi.
Quindi si ricorre a recipienti cilindrici con fondi bombati.
è interessante calcolare il diametro e la lunghezza più conveniente.
Il costo di questi recipienti è rapportato al peso e quindi occorre
ricercare il minimo valore del rapporto G/Vo fra il peso ed il volume
utile della bombola.
Il volume utile della parte cilindrica di una bombola vale
Vc = π d2 l / 4 = Vo
Pressione più conveniente
per il trasporto
0
100
(164) 200
300
Pa
Fig. 7 -Andamento del prodotto pv in funzione della pressione
assoluta
in cui l è la lunghezza e d il diametro interno. Data la modesta
incidenza dei fondi lo si può considerare come il volume utile
dell’intera bombola, quindi Vc = Vo.
Il volume dell’acciaio costituente la parte cilindrica è
V’c = π d s l
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in cui lo spessore vale:
s = p • r/K = p • d/2K
Il volume dell’acciaio costituente i due fondi emisferici risulta:
V’f = α π d2 s1
in cui α è un coefficiente di curvatura che si deve introdurre in quanto
d è il diametro interno.
Il peso totale della bombola sarà quindi:
G = π d s l γ + α π d 2 s1 γ
se si pone
α s1 = β s
G = π d s 1 γ + β π d2 s γ
Pertanto:
π ds 1γ+βπd2sγ
G
=
V0
πd2l/4
Per sostituzione di s con l’espressione di cui sopra e semplificando si
ottiene:
2pγ
G
=
V0
K
( )
1+β d
I
La bombola più conveniente dovrà avere, a parità di pressione, un
piccolo diametro ed una grande lunghezza.
Per ragioni sia di trasporto che di maneggio le bombole per gas
naturale hanno un rapporto l/d generalmente compreso fra 6 e 8. Le
bombole normalmente usate hanno
Vo = 40 lt
e
G = 44 ÷ 48 kg
è interessante il seguente raffronto alla temperatura standard di 15°C:
-- 1 kg di gas naturale a 1 kg/cm2
occupa
-- 1 kg di gas perfetto a 200 kg/cm2 occuperebbe
-- 1 kg di gas naturale a 200 kg/cm2 occupa
(per il gas naturale γ = 0,7 kg/m3 e α = 1,27 circa)
1.400 dm3
7 dm3
5,5 dm3
Per conseguenza una bombola da 40 lt conterrà 40/5,5 = 7,2 kg di gas
naturale a 15°C e 200 kg/cm2; poiché γ = 0,7 detto peso corrisponde a
circa 10 Nm3.
Il peso della bombola è circa 6,5 volte il peso del gas contenuto:
ne deriva che l’onere di trasporto incide assai sul costo del gas; se
però, per ipotesi, si trasportasse il gas a pressione circa atmosferica
il volume sarebbe così grande da incidere in modo proibitivo sul
trasporto stesso.
I gas combustibili che facilmente si prestano al trasporto ed alla
conservazione in fase liquida sono i GPL in quanto, come detto
in precedenza, questa fase può essere mantenuta sotto modeste
pressioni.
I contenitori più usati sono le cisterne su carri ferroviari o su
autocarri, generalmente di forma cilindrica a fondi bombati e ad asse
orizzontale; più raramente si usano serbatoi sferici.
Ovviamente occorre inserire valvole di sicurezza e dispositivi atti ad
evitare inconvenienti.
Particolari precauzioni si devono prendere durante i travasi che
normalmente si effettuano mediante pompe collegando anche le fasi
di vapore dei due serbatoi in modo da evitare sia le entrate di aria sia
le uscite di gas.
In luogo della pompa si può usare un compressore che aspira il vapore
dal serbatoio da riempire e lo comprime nel serbatoio da vuotare
in modo da costringere il liquido a travasare lungo una condotta di
collegamento.
Per gli usi domestici e semi industriali il gas viene trasportato (e
conservato) in piccole bombole (10÷25 kg di capacità) aventi un
rapporto l/d = 2÷3. Il fondo è bombato ed un cerchio di base consente
un appoggio piano.
I serbatoi di qualsiasi genere, fissi o mobili, non devono essere
completamente pieni di liquido perché all’aumentare della
temperatura la pressione della miscela liquido-vapore aumenta, il che
è compensato dalle variazioni di volume del cuscino di vapore.
Se invece il serbatoio fosse completamente pieno di liquido,
l’aumento di temperatura, causa l’elevato coefficiente di dilatazione
del liquido stesso, comporterebbe incremento di pressione fino a limiti
pericolosi. Esistono delle norme sul grado di riempimento (vedere
puntate precedenti di questa rivista).
Il trasporto di grandi quantitativi di GPL, specie dalle raffinerie ai
depositi intermedi, può essere eseguito mediante gasdotti.
L’esistenza di enormi giacimenti di gas naturale in zone non o poco
industrializzate ha imposto la costruzione di metanodotti a lunghe
percorrenze.
Da anni sono stati messi a punto procedimenti industriali per la
liquefazione del gas naturale. Le difficoltà derivano dal fatto che
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esso è un gas permanente, cioè uno di quei gas che avendo una
temperatura critica molto bassa (circa -80°C) non possono essere
liquefatti alla temperatura ambiente, qualunque sia la pressione alla
quale vengono sottoposti.
Il gas naturale viene liquefatto alla temperatura di -162°C ed alla
pressione atmosferica; in queste condizioni il peso specifico è di circa
425 kg/m3 per cui 1 m3 di GNL (gas naturale liquefatto) corrisponde
a circa 600 Nm3 contro i 250 Nm3 circa contenuti in 1 m3 di gas
compresso a 200 kg/cm2.
I vantaggi sono ancora maggiori se si pensa che i contenitori di GNL
sono a pressione atmosferica e sottoposti al solo peso del liquido.
Per contro sorgono alcuni problemi. Il primo riguarda ovviamente
l’isolamento termico notevole; spessori isolanti dell’ordine del metro.
Il secondo riguarda il materiale dei contenitori in quanto l’acciaio
normale è fragile a bassa temperatura; si usa l’alluminio od acciai
legati al Ni (9%).
Ovviamente i contenitori non possono essere chiusi in quanto, anche
con modesti assorbimenti di calore, si avrebbero dei fortissimi
aumenti di pressione. Per conseguenza, durante il trasporto si ha una
parziale vaporizzazione del liquido (r = 122 kcal/kg) ma in percentuale
molto ridotta.
Il trasporto via mare del GNL viene effettuato mediante navi metaniere
appositamente costruite ed attrezzate; il liquido evaporato viene
utilizzato in turbine a gas per la propulsione delle navi stesse.
Nei porti di sbarco esistono serbatoi di deposito del liquido
e complesse apparecchiature per la gassificazione e per la
compressione nei gasdotti.
G. Carlo Bertagnoli
(consulente termotecnico)
Un tecnico di Milano ci chiede come sia possibile identificare alcuni
materiali plastici dai “pittogrammi” ... (come il cloruro di polivinile, il
polipropilene, ecc.) ...
(lettera firmata)
La classificazione e l’identificazione del materiale è al giorno d’oggi
un impegno importante perché coinvolge il problema ambientale dello
smaltimento dei rifiuti. Il Codice per l’identificazione del Materiale
è un simbolo indicato sul prodotto che permette di identificare il
materiale con il quale è stato realizzato.
I pittogrammi attraverso i quali sarà possibile identificare il
materiale utilizzato, seguono le linee guida dettate dall’associazione
denominata SPI.
Fondata nel 1937, SPI (Society of Plastic Industry) è l’associazione che
rappresenta il terzo maggiore produttore di materie plastiche presente
negli Stati Uniti.
Le società che fanno capo a tale associazione, rappresentano
l’intera catena di approvvigionamento dell’industria plastica incluso
microprocessori, apparati, fabbricanti di attrezzature e fornitori di
materie prime.
“The Rigid Plastic Container Material Code System” il sistema di
codifica che regolamenta l’identificazione del contenitore in plastica è
nato nel 1990 per rispondere alle necessità di riciclaggio.
Oggi è un sistema di codifica riconosciuto dai fabbricanti di tutto il
mondo, offre infatti un mezzo per identificare il contenuto di resina di
bottiglie e contenitori in base al quale effettuare un corretto riciclaggio
in base al tipo di materiale.
Negli anni, il codice dell’associazione SPI è stato adottato da 39 stati
in America ed è oggi riconosciuto a livello internazionale.
Si tratta di un linguaggio univoco che permette di capire e interpretare
le esigenze dei vari Paesi, fornendo ad esempio all’Europa la
possibilità di selezionare le plastiche per tipologia e separatamente da
altri materiali riciclabili.
Non tutti i tipi di plastica generalmente sono riciclabili inoltre,
in determinati Paesi potrebbero non essere disponibili strutture
adeguate per il riciclo di tali materiali.
Il codice di identificazione di materiale, come sviluppato da SPI, non
intende indicare il materiale “riciclabile” ma il pittogramma identifica
il tipo di materiale plastico e tale codice aiuta la corretta separazione
della plastica.
Il pittogramma consiste in una sequenza di numeri da 1 a 7, circondati
dal classico disegno delle frecce che si rincorrono a cui segue la sigla
relativa al materiale.
Riportiamo di seguito una lista di codici con alcuni esempi.
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PETE (o PET)
PP
Polietilene tereftalato, usato per le bottiglie
di bibite, succo, acqua, detersivi, detergenti,
contenitori per burro.
Polipropilene, è uno dei materiali
maggiormente utilizzati per la fabbricazione
di prodotti, è inoltre utilizzato per realizzare
vasetti per yogurt, contenitori per alimenti
vari incluso biberon.
HDPE
PS
Polietilene ad alta densità, utilizzato per
confezionare latte, bottiglie d’acqua, vernici,
detersivi, bottiglie di shampoo, borse di
plastica.
Polistirene, usato per la fabbricazione di
alcuni carrelli, confezioni per uova, tazze,
ciotole e contenitori per il cibo da asporto,
posate in plastica
OTHER : ALTRO
V (o PVC)
Cloruro di Polivinile: utilizzato per pinze,
coperchi a strappo di alcune bottiglie d’olio,
confezioni di burro o burro di nocciole,
detergenti per superfici di vetro.
LDPE
Polietilene a bassa densità, usato per
sacchetti in plastica forniti in negozi di generi
alimentari, coperture di plastica ed alcune
bottiglie.
In questa voce vengono inclusi tutti i materiali
non classificati in una delle 6 categorie sopra
citate come il policarbonato, il poliammide.
In questa categoria sono anche inclusi alcuni
prodotti che usano una combinazione di
materiali da categorie diverse.
Nuove plastiche-bio sono inoltre classificate
come “other”.
G. Carlo Bertagnoli
(consulente termotecnico)
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
Note
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Tel.: +39 0523 512611
Fax: +39 0523 519028
Guida n. 29 - 12/10
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CN/PC0049/2008
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