SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 Indice 3 Monografie Giant Sand / Calexico Wolf Eyes Two Lone Swordsmen 3 16 19 Album del mese 21 Climax Golden Twins Bees Neko Case Hollowblue Destroyer Tribeca Marianne Faithfull Kyrie Frank Black Joe Leaman Altri album 28 Depistado Ariel Pink’s Hauted Grafitti Clinic Hormiga Pedro The Lion Artemoltobuffa Fall Paul Weller Ana Da Silva Blevin Blectum Phosphorescent Nikki Sudden Tiromancino Ian Brown Radio 4 Boomsongs For Velvet Redazione Edoardo Bridda Stefano Solventi Ivano Rebustini Antonio Puglia Daniele Follero Fabrizio Zampighi Hanno inoltre collaborato a questo numero: Demo 36 Luca D'Ambrosio Gianni Avella Riccardo”Mimmi” Maselli Lorenzo Filipaz Davide Valenti Taxi So Far Live 37 Interpol Mouse on Mars Faint Guida spirituale Adriano Trauber [1966-2004] Rubriche 40 Classic Album Revisited: Traffic Lucio Battisti Pogues Progetto grafico Roberta Fanti, Karin Andersen, Edoardo Bridda Copyright ©2004 SentireAscoltare Tutti i contenuti di questo magazine sono proprietà dei rispettivi autori La promiscuità dell’arte contemporanea: Luigi Presicce SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 2 Monografie Giant Sand, Howe Gelb, Calexico, gente di Tucson e dintorni di Stefano Solventi e Edoardo Bridda Insondabile genio, scapestrato cialtrone, Howe Gelb festeggia i vent'anni dei Giant Sand. Sentireascoltare ripercorre due decadi di musica delle periferie, una sottile corda di sabbia che dall'Underground Paisley porta al deserti (morriconiani ma non solo) del nuovo millennio False partenze, falsi finali: la contro epopea sgangherata di Howe Gelb Howe Gelb lo capisci più o meno subito e tutto insieme. Dalla faccia. Da come c’è passato attraverso. Da come in un certo senso guardi tutto da fuori. Il “dentro” è (potrebbe essere) la bolgia esistenziale/emotiva che usiamo chiamare vita, cui talvolta il rock sa proporsi quale migliore soundtrack possibile. Il “fuori” è ciò che viene dopo, quando qualcosa finisce irreversibilmente. Giganti vermi di sabbia Fine anni settanta. Un giovane residente in Pennsylvania decide di abbandonare per sempre il plumbeo clima di quello Stato per tornare ad abitare nel luogo natale del padre: ovvero Tucson, Arizona (una vivace città di un milione e mezzo di abitanti costruita in mezzo al deserto, vicina a Phoenix, a San Diego e naturalmente al confine con il Messico). All'epoca ha 19 anni e può contare su una manciata di canzoni scritte di suo pugno, su una piccola esperienza come tastierista in un gruppo chiamato Stains e su un'amicizia che si rivelerà importante per gli anni a venire, Rainer Ptacek. Ptacek, conosciuto in seguito a estati trascorse assieme alla famiglia in quella sperduta città nel bel mezzo del deserto, è un chitarrista slide appassionato di country, particolarmente affezionato a Jimmie Rodgers, Hank Williams e Merle Haggard e discretamente appassionato di altre stelle come David Allan Coe, Hank Snow, George Jones e Lefty Frizell. I due scoprono di avere molto in comune, in primis l’ossessione per il folk e l’Old Time Music in generale, anche se Howe, rispetto all’amico, possiede interessi meno focalizzati: non disdegna gli anni sessanta, il glam rock dei New York Dolls e nemmeno il funk bianco di Byrne e co. Soprattutto, adora impostare le liriche nel modo confidenziale di Lou Reed e, proprio come l’ex-Velvet Underground, ama le storie d’emarginazione, quelle costellate dai fatti duri del quotidiano a cui aggiunge spesso una personale punta d’ottimismo. Stabilitosi a Tucson, grazie all’aiuto di Rainer arrivano per Gelb nuove conoscenze. Assieme a quelle nasce ben presto l'idea di un gruppo. Tirata fuori dal cilindro la ragione sociale Giant Sandworms, per via della somiglianza che l'autore riscontrava tra i vermi del fantasy lynchiano Dune e alcuni abitanti di Tucson, il futuro gigante si circonda, oltre che dell'amico, di un pigro giovane bassista/chitarrista amante di metal e pop - Dave Seger - e di un batterista appassionato di soul, Billy Sed. La neonata formazione s’impratichisce ruminando cover, perlopiù classici country e blues (Louie Louie è tra i più gettonati), dopodiché, coi risultati delle prime jam, incide un EP intitolato Will Wallow And Roam per la sconosciuta etichetta Boneless. Roba acerba, certo, ma in tempi di revival ’80, con gruppi quali Franz Ferdinand intenti a rispolverare il sound delle teste parlanti, i Giant Sandworms potrebbero rappresentare una felice riscoperta. Il loro sound è fortemente legato alle mode musicali del dopo-punk, con Seger e Gelb, che si alternano nella firma dei brani, a conferire un'impronta smaccatamente Byrne-iana a un impasto funkeggiante e alienato alla maniera degli Heads (si ascolti Electro Gospel). Su tutto domina il mito e l’amore per l’epicentro da cui queste sonorità provengono: è infatti a New York che ben presto il gruppo si trasferisce, stabilendosi prima a New Jersey e poi a Brooklyn. Orfani di Rainer, che mal sopportava l'anarchia del gruppo, spinti dalla voglia di mordere anche pochi bocconi di quell’enorme mela delle opportunità, Gelb, Sed e Seger giungono tra varie peripezie in un losco quartiere portoricano (droghe d’ogni ordine e grado, va da sé, diffuse come il pane). È un periodo creativo e spensierato, che non gioverà tanto alla composizione quanto alla libera improvvisazione: i Giant SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 3 Sandworms saggiano effetti eco e ritmi latini, suonando molto sia in privato sia in pubblico e tra le tappe live non manca il CBGB’s, lo storico locale live newyorchese il cui palcoscenico ha visto dimenarsi tutti ma proprio tutti i miti pre e post punk. Tuttavia è proprio da queste esibizioni che i primi dubbi s'insinuano in testa alla band. "Avremmo dovuto partire alla volta di L.A. come fecero i Serfers (futuri Green On Red, ndr), invece di approdare nella terra del synth pop!", dichiarava Gelb in un'intervista rilasciata nel '86. E lo spilungone di Tucson non aveva tutti i torti: quando uscì Tainted Love e esplose la moda del "Crack Crack", come lui stesso vezzeggia il fenomeno, un gracchiante suono sintetico forgiava i gusti di un pubblico più frivolo, non più propenso alle sonorità tipicamente chitarristiche di gruppi come i Modern Lovers e gli stessi Heads, i quali finivano perciò per risultare antichi, imperdonabilmente fuori moda (si pensi che persino i Suicide proposero nell'80 un album di pop addomesticato che aveva più a che fare con Mark Almond che coi deliri degli esordi). Insomma anche negli USA, allo stesso modo del Regno Unito, la carica disperata e anarchica del punk si stava disinnescando, almeno nei grandi centri; in provincia, lentamente e al riparo delle grandi mode del periodo, il rock chitarristico stava segretamente rinascendo attraverso alcune figure chiave provenienti tra l'altro da uno stesso background di studi (precisamente l'Università UC Davis, a metà strada fra San Francisco e Sacramento). Da quell'humus nascono in questi anni le formazioni di Steve Wynn, Kendra Smith e Karl Precoda (Dream Syndicate), quelle di Russ Tolman (True West), Scott Miller (Game Theory) e Guy Kyser (Thin White Rope), tutte dedite al recupero dello psych rock – sotto la cappa degli umori post-punk - che prenderà il nome di Paisley Underground. Mentre i Syndicate, senz’altro i più noti del lotto, facevano breccia nelle orecchie del pubblico californiano con The Days Of Wine And Roses (Ruby, 1982), sapiente miscela di rock adulto che prendeva sobriamente le fila da Velvet, Stooges e Dylan, gli altri parteciperanno al revival riscoprendo il garage, il pop, il folk e persino il raga-rock, aprendo la strada sia al grunge sia a quel rock propriamente desertico che i Giant Sand svilupperanno a partire dalla fine degli anni ottanta. Tornando a noi, la New York che entra nella decade più controversa della storia americana vede Gelb e compagni alle prese con alti (pochi) e bassi (sempre di più) creativi, tanto che trascorso appena un anno in queste strade, e col batterista Billy Sed affondato in problemi di droga, il gruppo può dirsi allo sbando. Esasperato dalla situazione, Gelb confida a Dave Seger di voler sparire per un po’. Infatti di lì a poco se ne va nelle Black Hills del sud del Dakota a suonare del country, dando appuntamento ai ragazzi, una volta sbolognata la sbornia cittadina, nella cittadina dove tutto è iniziato: Tucson. E così accade. La band si riforma con una new entry - Scott Gaber, un appassionato di funk e soul - al basso e poco dopo (1983) la riformata band incide il singolo An Evening At The Wildcat. Figlio di circostanze fortunate e registrato dal vivo al Wildcat, famoso pub di Tucson, il 7’’ è pubblicato grazie all’aiuto di un improvvisato imprenditore venuto da fuori città che si occuperà di coprire tutte le spese. Sul lato A troviamo Cross Of Wood, una canzone di Seger con Billy al canto (n.b la batteria è una drum-machine acquistata da Gaber), mentre in quello opposto Coal Worker, una open song per la chitarra nervosa di Gelb su una struttura sostenuta di funk. I segni della crisi sono ben evidenti, non tanto musicalmente quanto per la linea da portare avanti: il gruppo non solo sembra inabile a decidere circa lo stile da prediligere sugli altri, peggio ancora nella band non vi è un cantante vero. Se infine aggiungiamo i dissidi interni (la droga per Sted, un altro progetto per Seger, l'interesse per l'elettronica di Gaber opposto a quello più “chitarroso” di Gelb) e la frustrazione per non riuscire ad emergere, il fosco quadretto risulta completo. Le ultime tappe della saga vedranno un nuovo demo (il Jeffrey Wood Produced Demo con Mad City/Don’t Turn Away/Longsleeves/Not Romantic) inciso a Denver, Colorado, grazie alla fortuita collaborazione di un produttore - Bob Lambert - e un potenziale contratto la cui mancata firma porterà la band allo scioglimento a quattro anni dalla nascita. Così, mentre il 7’’ Don’t Turn Away /Longsleeves, contenente due delle canzoni di quelle session, vedrà la luce un paio di anni più tardi (1985) per volontà dello stesso Lambert, Gelb, stanco di abitare una situazione per niente focalizzata, decide di ripartire da zero. SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 4 Le ballate di un uomo tutt'altro che lineare Con il solo Scott Gaber dalla precedente formazione, l’egida ridotta a Giant Sand, il gruppo riparte dall'essenza del rock con una formazione a quattro elementi - basso, chitarra, voce e batteria - cui s'aggiunge sporadicamente il contributo di Cacavas (dei Green On Red) alle tastiere. La distanza con la precedente esperienza è enorme, ben documentata in due album che vengono sfornati a distanza ravvicinata tra il 1985 e '86 (lo stesso periodo in cui i Thin White Rope esordiscono con Exploring The Axis, Frontier, 1985). Aspri più di ogni altro gruppo Paisley, i Giant Sand dell'esordio (Valley Of Rain, Enigma, 1985) sono un quartetto rock dalle tinte atroci e beffarde. A farla da padrone è una miscela molotov di post-punk e country acido lontano anni luce dalle bizzarrie della maturità. Per quanto non manchino segnali di eclettismo formale (l'incandescenza stonata delle chitarre fino alla parodia, l'esasperazione quasi beffarda del canto) e una certa propensione alla ballatina malferma (la chitarra a strappetti e il pianoforte sbieco di Artists), le canzoni sono canzoni vere e proprie, visionarie, tese e febbrili (quella specie di jam tra Clash, Jim Morrison e Jerry Lee Lewis che risponde al nome di Man Of Want), contagiate wave per il taglio robotico (la sordida October Anywhere) ma anche per l'epica romantica (la trascinante Valley Of Rain, con i sixties nel cuore e un grande Chris Cacavas al piano). (6.8) L’anno seguente è la volta di Ballad Of A Thin Line Man (Zippo, 1986), registrato perlopiù live, allo stesso tempo più tirato (la tagliente nevrastenia blues di A hard man to get to know e l'incendio post-punk della conclusiva Desperate Man, in ossequio ai demoni di Gun Club e Lou Reed) e riflessivo (il folk ad altezza di crotalo di Who Am I e gli inneschi gospel che sparano la bucolica Graveyard su un palco di Broadway). Un passo nel cuore nero di Dylan (la tesa cover di All Along The Watchtower) prendendo di petto l'onda Paisley al modo dei sodali Dream Syndicate (si senta l'irruenza accorata di You Can’t Put Your Arms Around A Memory o dell'iniziale Thin Line Man, con un sorprendente violoncello a connotarne le digressioni atmosferiche). (6.9/10) Più o meno contemporaneamente Gelb dà vita, sempre in combutta con Rainer, al progetto country Band Of Blacky Ranchette che frutterà due album (Heartland del 86 e Sage Advise del 90), per venir poi convogliato nel progetto principale del musicista (salvo poi riapparire nel ’03 con Still Lookin’ Good To Me) (6.5/10) Howe quindi in prima linea – assieme ai tosti contemporanei succitati - nella riscoperta di quel rock genuino e disincantato che si spoglia dei fronzoli hippy e delle scheccate glam per reincarnarsi adulto, fermo e pure un po’ “reazionario”. Rock’n’roll in primis, tanti Velvet Underground, l’elettricità hendrixiana, il blues rock di LA Woman, ma anche il ritorno al country, magari con la romantica irriverenza insegnata dagli all’epoca strafamosi Gun Club, ma anche sospeso nel pedissequo incanto di Gram Parsons o dell’uno e bino Neil Young (quello acustico delle corse all’oro e quello elettrico dei cavalli pazzi). Tutti questi e altri ancora, acidi compresi, i combustibili della rivincita delle province targata ottanta. Rivincita non “contro” qualcosa ma in continuità con la tradizione che oramai vuole anche dire Rock, un genere ma anche un modo di respirare l’aria che è arrivato nei deserti e nelle contee. Quando nel confezionare Storm (Demon, 1987) i Giant Sand smorzeranno i toni, addomesticando la chitarra, con Gelb addirittura seduto al pianoforte per cantare come un Roger Waters su un testo di Dylan (Was Is A Big Word), molti rimarranno delusi da quello che somigliava più ad un rock radiofonico che ad una manciata di brani dall’underground pulsante di quegli anni. Pur mantenendo ferma una vena narrativa sempre al servizio di piccoli quadretti agrodolci, canzoni tipo Town With Little Or No Pity mescolano ritornelli country-pop dalle strofe che menano il Roy Orbison per l’aia, senza nessun riguardo per il ricordo ancora fresco – però già lontano - delle rasoiate psych in Thin Line Man. Tuttavia, nonostante alcuni episodi deboli come Uneven e Light Of Day (che citano mediocremente Young e Reed stemperandoli in una vaga aura fifties), quello di Storm è sì SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 5 il Gelb meno sensazionale ma senz’altro ugualmente astuto nel somministrare istanze rock più stereotipate senza rinunciare alla mescolanza bizzarra, pratica cui il ragazzone si presterà sempre più, fino ad identificarsi nella pratica stessa. (6.2/10) La terra di mezzo Nel 1988 la traiettoria dei Giant Sand prende una piega ancor più inaspettata. The Love Songs (Homestead, 1988), l’album inciso a Los Angeles che vede l’entrata nella band del batterista John Convertino, è un ennesimo ritorno, ma non ai sessanta adulti dei Velvet come qualcuno poteva attendersi bensì all’apoteosi rock cialtronesca di Exile On Main Street a firma Stones. Sfrondate di ogni sapore perverso o aggressivo, le pietre rotolanti più scellerate che si ricordino vengono così ripescate e rimesse in moto. Alla loro etilica veemenza s’aggrappano brani chic con tanto di organetti funky-soul e coretti pop femminili nello stile delle Go Go’s (non a caso collabora al progetto Paula Jean Brown, una delle componenti del citato gruppo teen-pop, nonché all’epoca moglie di Gelb e tutt’ora al suo fianco come session woman). Con le canzoni d’amore, che poi non hanno nulla a che fare con questo tema, si fa strada un Gelb sbilenco e pazzoide, giocherellone e naif. Lo fa pasticciando sornione, balzando da uno stile all’altro, manipolando il linguaggio musicale senza fretta, con frequenti cambi di tempo e col piccolo aiuto d’un Cacavas onnipresente alle tastiere/organetti. Le spezie impiegate sono le più varie: tanto soul, il blues, la ballad reediana e younghiana, la chanson française (Is that all there is?), il rag time, il Dylan strascicato (Love Like A Train), il valzerino in punta di piedi à la Waits (sempre Is that all there is?) e persino il racconto in rock mutuato dal glam sempre a firma Reed ma periodo Bowie (Mountain of love). È un album che dispiacerà ai rocker ma che tutto sommato rappresenta una piacevole riscoperta per chi ama del Gelb maturo proprio l’istrionica abilità nel far cozzare i generi. (6.1/10) Come se non bastasse, l'anno successivo, arriva l'ancor più interlocutorio Long Stem Rant (Homestead, 1989). Inciso in solitudine assieme a John Convertino in uno sperduto Motel a Rimrock (una località non ben precisata dell'Arizona) e distrattamente post-prodotto a Los Angeles, il lavoro rappresenta l'ennesimo banco di prova per i fan e la critica, sempre più spiazzati dalla squinternata e imperfetta vena del cantautore. Partorito in soli tre giorni, l'album è uno zibaldone di appunti, schegge impazzite e piccole gemme. Non mancano le canzoni canonicamente intese, ma sono pur sempre isolette perse in un marasma generale che prende di volta in volta la forme del jazz (Smash Jazz), dell’hair metal (Bloodstone), del cocktail lounge (It's Long 'bout Now) e persino del rap (Sandman). È un lavoro più che mai grezzo, che segue la vena a bassa fedeltà riscontrata in The Love Song portandosela via, lontano dall’atmosfera pressurizzata della sala d’incisione, via dal clima asettico delle session in studio. Da quella cameretta d’albergo in mezzo al deserto esce buona musica, fresca e vivace, come quella Paved Road To Berlin l’unico brano di una certa durata (la media è circa due minuti!) - che affoga Springsteen e Violent Femmes sotto pesanti distorsioni, oppure la nervosa Anthem che sfiora il noise-rock, o il rocambolesco folk‘n’roll della finale Get To Leave. Ci sono poi momenti più folk, come In Sucker In A Cage (una sonnacchiosa ballata dylaniana a ritmo di cow-punk), che rivelano quella che diventerà una tipica atmosfera del Gelb maturo: la cosiddetta home music, come ama definirla lo stesso autore, ovvero, musica per piccoli spazi domestici, musica da abitare, che racconta senza troppo intrattenere, che infonde un mood più che comunicare qualcosa di preciso (si ascolti la ballata Loving Cup, un delizioso motivetto come tanti, colla chitarra suonata a mo' di mandolino, che scorre come l’impronta di un ricordo, scivolando via leggera com’è venuta). Seppur ricco di momenti energici, d’esperimenti più o meno riusciti e di curiose chicche, Long Stem Rant viene perlopiù bistrattato dalla stampa, probabilmente dagli stessi critici che di lì a poco saluteranno (in positivo) l’ondata lo-fi.(7.1/10) La trilogia desertica (e non solo) Arriviamo al cambio di decade e nei negozi esce Swerve (Restless, 1990), la prima uscita degli anni novanta nonché il battesimo di una specie di santa trinità dedicata al deserto (il luogo, l’idea, la categoria dell’anima). Praticamente, è la scusa per mettere in piedi un progetto corale che vede ospiti illustri quali Steve Wynn (che ha appena abbandonato i Dream Syndicate e sta per pubblicare il suo primo solista Kerosene Man, Prima Records, 1990), il solito Cacavas, l'anziano country men Pappy Allen, la country SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 6 woman Victoria Williams, il futuro caso discografico Juliana Hatfield (che da lì a poco esordirà con Hey Babe, Mammoth, 1992), la testa di limone Evan Dando e tanti altri; praticamente una congrega di amici pronta a dar vita – e non potrebbe fare altrimenti - a un album diretto, con le chitarre sempre in primo piano e le bacchette a pestare schiocchi sulle pelli, con il caldo organo di Cacavas a fare da contraltare nello stile del menestrello più famoso del rock. Dylan, dunque, a far capolino aleggiando nella traccia d’apertura, e poi più esplicitamente con la cover di Every Grain Of Sand (dall’album Shots Of Love, 1981), ma non mancano situazioni più tese (il funky rock stoniano di Can't Find Love e il blues nevrastenico di Final Swerve), ballate indolenti dai diari più raschiati di Lou Reed (personaggio che continua a illuminare la stella di Gelb più di ogni altro) e funambolici fuori programma (la schizoide Former Version Of Ourselves, pasticcio di generi che cozzano l’uno sull’altro tra jazz, blues-rock, algori Talking Heads, squarci rag Buster Poindexter e gag spettrali à la Residents, per non tacere gli intremezzi avant - quasi zappiani- Swerver, Swervette e Swerving ). (6.8/10) Appena un anno dopo, con l’ingresso al basso di Joey Burns (fortemente raccomandato da Convertino, col quale di lì a poco farà comunella formando i Calexico), la band sembra assorbire le istanze della Band Of Blacky Ranchette e sforna il secondo capitolo della suddetta “trilogia”. Ramp (Rough Trade, 1991) è un lavoro per metà country (il romanticismo zuccheroso di Welcome To My World con Pappy Allen al canto, l'acustica Seldom Matters con Victoria Williams al canto e all'armonica) e per l’altra reed-iano ai limiti del plagio (lo sberleffo ipercinetico di Warm Storm - con qualche concessione al divertissement pseudo-Dire Straits e un disincanto sgangherato quasi Pavement - e Neon Filler, dalla palpabile inclinazione dylaniana). Non mancano i graffianti riff a cui Gelb appone sempre più una firma personale (vedi la sordidezza blues di Anti-Shadow in mutazione hard-rock via electro folk, oppure il folk-rock torrido di Z. Z. Quicker Foot battuto da una tormenta tribal-funk, o ancor più l'incandescenza sontuosa e scomposta un po' Crazy Horse un po' Rock'n'Roll Animal di Always Horses Coming), così come i suoi classici siparietti che sanno tanto di anni ’20 e di gag à la Woody Allen (l'annaspare stridulo e puntuto di Jazzer Snipe, i cambi di marcia tra sberleffo e messinscena di Resolver). Varietà e citazionismo ad oltranza che se da un lato sbalordiscono (incantando o infastidendo, secondo i punti di vista), dall’altro diradano ogni dubbio circa la condizione di inguaribile ossessionato in cui versa Gelb, punto di raccolta e precipizio delle tante vie e modalità che portano al - e partono dal - rock. Come se per lui fare dischi significasse radiografarsi l'anima, stendere sul tappeto la mappa della propria meraviglia, affidare ad una scaletta di canzoni (spesso frammenti) il compito di intagliarne la fisionomia, non importa quante sfaccettature occorrano. Il risultato è una sfida alla coerenza, un elogio della schizofrenia prima emotiva che stilistica, la cui integrità "sentimentale" è garantita dall'intervento sempre un po' sopra le righe, sempre carico di un surplus di "fattore umano" - quasi ci informasse di continuo del processo in atto, a svelare il gioco della rappresentazione come per scusarsene - di Mr. Howe Gelb. Che non è ancora, certo, quell’uomo brizzolato con lo sguardo sempre qualche centimetro più lontano, coi pensieri ingoiati da un'ombra che credi di poter toccare, autore di brani come Astonished o Shiver. Eppure quella voce rauca, così piatta e con poche inflessioni, è mille miglia dalle sfumature che acquisterà con la sofferenza e la maturità dell’uomo che l’abita. Ma la strada è la stessa, e l'incontro sarà inevitabile. Purtroppo (?).(6.3/10) Tornando alla discografia, sempre nel 1991 Gelb pubblica in sordina il suo primo album solista, Dreaded Brown Recluse (Restless, 1991) (un cocktail instabile di tradizione e disarticolazione, Dylan e Robyn Hitchcock, Johnny Cash e i Venom, Neil Young ubriaco a sventagliare un collo rotto di bottiglia, spine che si staccano d'improvviso a far precipitare il country-punk in un jazz club waitsiano...) mentre a Seattle il Grunge straripa oltre i confini cittadini iniziando a dare precisi segnali al mercato e alle mode. (6.2/10) Poco più tardi, il poliedrico (allora) capellone darà alle stampe il finale della trilogia Center Of The Universe (Restless, 1992), gettando sul piatto una quantità di “difetti” che fanno pensare ad un vero e proprio impasse creativo. Seguendo il trend cingolato e rumoroso del momento, Gelb calca il pedale della distorsione, ingrossa la voce e - per non smentirsi in quanto a bastian contrario - aumenta il dosaggio dei controcanti sbarazzini di Paula Brown. Mentre il chitarrista di Tucson dichiara che è l’album migliore SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 7 della sua carriera, almeno fino al 2000 (si legga l’intervista su Blow Up n. 28 pag. 92), a nostro avviso è il più debole e nemmeno ballate generose come Solomon's Ride riescono a rattoppare il buco (nell’acqua). (5.0/10) Ma Howe è uno con la risorsa sempre pronta nel taschino: esaurita la spinta naif-caciarona, e ottenuto un favorevole contratto con la Imago, etichetta distribuita dalla major BMG, prima di entrare nell'ordine di idee d'incidere un album "importante" dove l'importante è la coesione più che la torrenziale vena creativa - pensa bene di reinterpretare parte del proprio repertorio in chiave sbrigliata, al limite della jam psichedelica. Ecco quindi Purge & Slouch (Restless, 1993), un monumento di più di un’ora e mezza di frammenti, visioni & dilatazioni, follie indefinibili (i siparietti straniti delle tre Overture - soundtrack d’incubo, ninna nanna aliene e jazz sventrati), marionette Waits (la birbona Swamp Thing, il blues elefantiaco di Owed Ode), il Johnny Cash più strascicato (quella Bender illuminata dal dobro di Rainer), imprendibili retaggi psych-wave (l’acida Rice Road Rumba, la sordida Dock Of The Bay - Otis Redding in un breve trip amfetaminico), senza scordare i referenti obbligati Lou Reed (sotto valium in Corridor), Neil Young (collassato in Blue Lit Rope, enfatico in Elevator Music) e Bob Dylan (acerbo in Tripping Moon). L’insieme suona cromatico e svisante, svampito e atroce. Come a dire, quasi l’aspetto definitivo dei Giant Sand, o meglio del loro mentore Gelb, la cui voce assume a tratti l’oscurità polverosa degli anni a venire. Tirando le somme, un album folle ma buono, per quanto partorito quasi in souplesse. (6.3/10) Crisi e rinascita Come si è detto, Gelb adesso deve fare sul serio e presentare i suoi Giant Sand a un mercato più vasto perciò, spurgate le foghe per cocktail improbabili, con Glum (Imago, 1994) l’obiettivo diventa far emergere pura quella trama desertica che ha accompagnato la crescita stilistica del musicista fin dagli esordi.L’album, assemblato con calma e concentrazione, gode di una produzione seria che esalta il lavoro di tutti i musicisti e può a buon diritto considerarsi come un ponte tra il passato e il futuro. Senza fatica si possono ravvisare le micce dell'esordio (Thin Line Man) e gli stilemi rock più classici assimilati grazie alla trilogia del deserto, tuttavia l'amalgama appare come rallentato e – finalmente, diciamo noi - più propriamente desert(ico). Gelb preferisce ancora strozzare il registro più che impostarlo sinuosamente e emotivamente come gli sarà più congeniale dopo il 1996, ma la sua chitarra, decelerata (ma più potente) e opportunamente distorta, è già un marchio di fabbrica dei Sand a venire, proprio come il timbro della batteria di John Convertino è prossimo a quello inconfondibile del futuro progetto Calexico. Con un Joey Burns e una (oramai ex-moglie) Paula Jean Brown più defilati, Gelb e Convertino, uniti da un sodalizio oramai inossidabile, rappresentano dunque l’asse portante delle 11 tracce dell'album, impreziosite, tra l’altro, dalla presenza gustosa ma sporadica dei soliti Chris Cacavas, Victoria Williams, Lisa Germano, Rainer, e Pappy Allen. Brani che vanno dagli stop and go formidabili dell'omonima Glum, souplesse sognante e squarci nel cielo, alle ballad country (un po' rock un po' no) di Happenstance e Left, schiuma di nuvole e tossici whisky. Non mancano momenti di tormenta psych (Frontage Road), inevitabili siparietti jazz (1 Helvakowboy Song, con all'organo un Cacavas sbarazzino in stile Ray Manzarek), abrasioni da cavallo pazzo (Painted Bird) e brani al pianoforte dove è sempre piacevole riscoprire Howe… e chiaramente Reed (Spun). Per tutto questo Glum è il perfetto album Giant Sand, intesi come gruppo e progetto di squadra, una via che sarà interrotta e prenderà un corso differente a causa di avvenimenti personali nella vita di Gelb. (7.0/10) Spoke e gli amici di Dean Martin(ez). Morricone salta sul calesse Tra il 1994 e la fine dell’anno successivo, mentre il gigante di sabbia rigurgita un titolo dopo l’altro, tra compilation (Goods & Service), live (Backyard Barbecue Broadcast) e bootleg ufficiali (Volume 1: Official Bootleg Series), in una smania che diventerà prassi nel nuovo millennio, eventi decisivi si consumano nel paesino dell’Arizona. Per una volta non è Gelb il protagonista indiscusso di quest’avventura bensì i suoi due comprimari. Parliamo di Burns e Convertino che, entrati in contatto con i conterranei Friends Of Dean Martinez, un gruppo neoformato da Bill Elm e Tom Larkins (ex batterista dei Giant Sand), decidono di SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 8 comprare degli strumenti musicali decisamente estranei al rock (al Chicago Store di Tucson) e intraprendere assieme a loro un viaggio caratterizzato da spezie folk particolarmente latine e non di meno esotiche e cinematiche. A chitarre, bassi e batterie s’aggiungono strumenti quali marimba, violoncello, fisarmonica, vibrafono e per la prima volta si inizia a parlare di film-music e soprattutto di Morricone. Non è dato sapere chi abbia introdotto il Maestro ai ragazzi, o chi abbia avuto la fantomatica idea di introdurre un po’ di spaghetti western nelle partiture del già desertico sound dei tucsoniani, sta di fatto che The Shadow Of Your Smile (Sub Pop, 1995) presenta sin dalla prima traccia – il traditional All The Pretty Horses – un piglio inedito. L’idea folgorante c’è già, ed è tutta lì, riaffermala (Chunder) farà altro che calcare un corso che si preannuncia differente: proprio come se Lee Hazlewood cavalcasse con Clint Eastwood oltre il confine americano verso il Messico, il mix proposto dal gruppo è un creativo frullato di stili sotto a un torrido sole dove il collante non è il testosterone del rock bensì il sapore esotico delle orchestrine da ballo degli anni cinquanta, dei mariachi …e qualche peiota davanti a un film di Sergio Leone. Joey, John e i Friends Of Dean Martinez per la prima volta coniano una sintesi originale all’interno del Desert Rock, tratto caratteristico che diventerà (con il successo della band dei ragazzi di Gelb), un vero e proprio sinonimo della categoria. (6.5/10) Nel frattempo, in quello stesso anno, una cassetta dei due Giant Sand intitolata Superstition Highway (ora introvabile) inizia a circolare negli ambienti alt. country e l’anno successivo il duo è già richiestissimo oltre i confini dell’Arizona. Barbara Manning, Richard Buckner, Victoria Williams, Michael Hurley, Bill Janovitz, Vic Chesnutt e Lisa Germano sono alcuni dei nomi in vista che richiedono i ragazzi a gran voce, dando loro la giusta carica per incidere una raccolta di canzoni originali. Peel, uscito per una misconosciuta etichetta tedesca - la Haus Musik Records – e poi ristampato dalla Quarterstick nel 1997, è il primo disco con il quale Convertino e Burns escono allo scoperto e l’album, tolta ogni frivolezza propria (all’epoca) degli amici Friends Of Dean Martinez, è in netta continuità con alcune jam di quest’ultimi. Filo rosso che vuol dire Morricone (Scout), cui il gruppo aggiunge tuttavia umori scazzoni vicini al cosiddetto fenomeno lo-fi dalle parti di Lou Barlow e co. (Low Expectations), un certo country-rock non distante da Halzewood (Sanchez) e alcuni profumi francesi pienamente figli del folk mediterraneo (Mazzurra). Le influenze di Gelb non mancano e s’intravedono chiare nei lenti tra cui Spoke, traccia che darà anche nome alla nuova edizione dell’album accreditato questa volta ai Calexico (n.b.: il moniker precedente era proprio Spoke). (6.8/10) L’anno successivo sarà decisivo: Black Light, il primo lavoro licenziato attraverso la nuova ragione sociale (ovvero California-Messico) è uno dei lavori che hanno segnato il mercato indie degli anni novanta. Molto più che una raccolta di suggestive aperture poetiche, l'album è un felice connubio tra folk popolare, patrimonio di comunità rurali e paesaggi agresti, figli dell'amore per Van Gogh. Se Spoke si limitava al patchwork e allo scherzo, Black Light si pone obbiettivi tecnici e contenutistici molto più profondi ed evocativi. In primo luogo, un’assimilazione matura della lezione morriconiana comporta un cambiamento nel modo di concepire il suono, che trasla così da arrangiamenti finalizzati alla riproduzione delle dinamiche folk a quelli che ne esaltano dinamiche temporali e spaziali. I Calexico suonano dando l’impressione che il sole sia veramente a picco sulle teste degli ascoltatori, che il tempo si dilati al volgere del tramonto, ma non solo: su questi panorami si stagliano, solitarie e introspettive, alcune splendide e accorate ballate inserite astutamente tra uno strumentale e l’altro, come tappe di un viaggio, riflessioni, poesie, alito della vita. L'emancipazione dai modelli gelb-iani è dunque completa, parto di abili artigiani che sotto un’apparenza di spontaneità e disinvoltura nascondono metodicità e accuratezza invidiabili. (7.8/10) OP8. Giganti al bivio… Gelb da parte sua non si cura della fama acquisita da Convertino e Burns, ma non è neanche tipo da stare troppo a lungo a guardare: fermati i due attivissimi scavezzacollo decide di intraprendere un nuovo progetto assieme alla talentuosa violinista e cantautrice Lisa Germano. Con Slush (Thirsty Ear, 1997), a nome Op8, è come se i Giant Sand intuissero davanti a loro un bivio (l'ennesimo), avvertendo la necessità di una mutazione, un processo di re-invenzione e ri-scoperta in cui l’ex musa di John Cougar si rivela ingrediente decisivo grazie al suono della sua voce, alla sua sensibilità e presenza auspicabile. Sebbene la forma si coaguli SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 9 soltanto per un attimo, è un intervallo sufficiente a fruttare undici capitoli di fascino esotico e sogni di sbieco, dove la tradizione incrocia la visione fin quasi a deragliare (come in Lost In Space, alt-country formicolante e acidulo a firma Burns: i Grandaddy ancora ringraziano, i Calexico si sintonizzano), dove la tragedia ricalca le orme del disincanto (vedi Never See It Coming, valzer di tutte le malinconie a cuore pieno, non lontano da certo Will Oldham), dove il folk è solo una porta da aprire sullo spampanarsi dell’anima (come in Cracklin Water, il cui motivo diverrà per Gelb un’ossessione). La produzione è limata fin quasi al cesello, al punto che le consuete “stranezze” appaiono sempre contenute nei ranghi di un disegno ben definito: così è per la romanticheria tanghesca della title-track, per la jazz-ballad sospesa in una fissità immobile e cruda di The Devil Loves L.A., per l’inatteso sbocco psych-pop di Tom, Dick & Harry (con l’oppiaceo canto della Germano e il finale che assomiglia a un’agra follia Flaming Lips). Questo Slush, da considerarsi poco più che una scappatella (non s’intravede ad oggi alcuna possibilità di seguito), mette altresì a segno alcuni dei momenti più intensi e risolti della discografia di ciascun protagonista: come la magnifica semplicità di Leather e il folk-pop lieve di If I Think Of Love (con la Germano a metà strada tra una Suzanne Vega ai minimi termini e una Kim Gordon in vena di giuggiole). Spetta tuttavia alle due cover che aprono e chiudono il programma gran parte della nostra attenzione: se sorge come un miracolo di limpidezza da una caligine elettronica il mariachi-folk di Sand (pezzone a firma Lee Hazlewood, tra sabbie mobili d’organi, mandolino, violino, fisarmoniche, vibrafono e corde bruciacchiate), si spegne in un lungo vortice di fumo la dilatazione sospesa di Round And Round, uggia antica del giovane Young tra volteggi insidiosi di violino e l’enfasi inquieta di cento riverberi (voci e corde e ammennicoli vari). Un piccolo capolavoro di passaggio che lascia una vivida scia di rimpianto, per quello che avrebbe potuto essere e che - opportunamente - non è stato. O, per meglio dire, che è poi in gran parte tracimato sul versante Calexico, lasciando i Giant Sand a indagarsi tra le giunture, in cerca di un’anima sempre più a fior di pelle, sempre meno capace di lusinghe (per quanto mai a corto di tenerezza e pietà). (7.8/10) Durante la lavorazione di questo progetto, Rainer - cresciuto tra le radiazioni dell’Arizona che uccisero John Wayne – muore, e per Gelb inizia il “dopo”. Fenomenologia del “dopo” Cosa accade dentro l’uomo Howe ce lo dice il musicista, cioè la sua musica. A caldo, esce il disco solista Hisser (v2, 1998), che rantola tra solitudine e inedia, scava dentro la voce, seduto sullo sconforto placato di chi d'ora in avanti guarderà la vita con occhi socchiusi e continuerà a digerire gli stessi indigeribili motivi-dolori. Tocca perlopiù alla chitarra condurre attraverso questa mesta strategia di ballate, una No Name Guitar amichevole e ruvida (Temptation Of Egg), intima e pietosa (Cracklin Water), in qualche modo consapevole di quanta ineluttabilità si nasconda in ciò che ti è più familiare, nell'intimo consumarsi del quotidiano. Poi c'è il piano, che è forse il vero padrone di casa, anche quando è assente (come plausibile base di composizione, ad esempio di pezzi come Explore You) o quando si accomoda in seconda fila (come in This Purple Child o nell'irrequietezza desertica di 4 Door Maverick); il piano che regola l'ordine di caduta della polvere, esplora e conosce ogni spigolo, ogni riflesso opaco sulle vetrine (la malinconia incartapecorita di Creeper, i palpiti cinematici di Nico's Lil Opera, la soundtrack da film muto di Living On A Waterfall).Del suono s'indaga la capacità di sollevare la scorza del ricordo (la slide trepida e gli archi in Catapult, i mugolii ectoplasmatici di Thereminderer, i tremolii flangerizzati della struggente Like A Storefront Display) ben prima e più di quanto possa e voglia la melodia, spesso appena abbozzata, un trascurabile tremolio del sismografo (come la penombra pizzicata in Soldier Of Fortune). Quando la trama si fa più vivida e complessa, è come una finestra che si spalanca all'improvviso, un vento febbrile d'un tempo irrecuperabile (il sabba di Halifax In A Hurricane, il cinerama gracchiante di Satellite, il ghigno arcaico della title-track). Ma sono scintillii brevi in una stanza buia, in una coltre di malanimo domato, ricondotto alla sua forma più sostenibile (la malinconia struggente di Lull) però definitivamente metabolizzato, senza possibilità di remissione. (7.3/10) Più avanti, a freddo, esce quel capolavoro inaspettato a nome Chore Of Enchantment (Thrill Jockey, 2000) firmato Giant Sand. Un album che scende a patti col lutto, lo assolve e risolve, che saluta il vecchio secolomillennio e accoglie il nuovo, distribuendo in entrambe le direzioni malinconia, timore e una misteriosa SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 10 eccitazione.Mai come in queste tracce la qualità della scrittura trova eco in una misurata stratificazione sonora (co-producono, assieme a Gelb, Jim Dickinson, Kevin Salem e lo spirito affine John Parish), fatta di continue interferenze tra forme, strutture e tempi diversi. La nostalgia papabile è quella di storie marginali ma vere, rosicchiate alla periferia del mondo, come se lì e lì soltanto si celassero le ultime roccaforti dell'autenticità. L’album inizia col folk che sorge tra le palpitazioni esistenzial/sentimentali di Dusted e brilla nello sfarfallio percussivo con fatamorgana di chitarra a rimorchio di Punishing Sun, per quindi trascolorare soul nelle trepide spire di X-Tra Wide e poi incenerirsi nel rapido spurgo punk-rock di 1972. Seguendo la scaletta ci coglie la sordida propensione soul/RnB di Temptation Of Egg (remake dell'omimo è ben più dimesso brano che apriva Hisser), quasi fosse un rinvio in disimpegno di Lou Reed al quale viene dichiarata esplicita venerazione nella successiva Raw – sorta di potenziale outtake di Berlin diluita in un solipsismo delirante Neil Young/Roger Waters. Disco non facile da mettere a fuoco - d'altronde ha avuto tre produttori differenti ed è stato registrato in quattro città nel corso di più di un anno - in cui sembra comunque d’intravedere un filo rosso che ci invita a proseguire lungo il funkettone un po' insipido di Wolfy (che però d'un tratto si sgrana di lancinanti vibrioni country-blues), attraverso la gentilezza country/RnB della languida Shiver, in quella sorta di Bob Dylan alticcio e disidratato che risponde al nome di Dirty From The Rain. Eppoi il jazz che s'insinua nell'estenuarsi ombroso/esotico di Astonished, e ancora l'apnea melodica di No Reply, il rigurgito postglam di Satellite (tra l’immancabile Lou Reed e certe lunatiche alterità Sparklehorse) e infine le tracce stracciacuore in chiusura (Bottom Line Man e l'ebbrezza da valzer di Way To End The Day). Tutto ciò è racchiuso da una breve Ouverture e da una quasi altrettanto breve Shrine, dove la slide di Rainer Ptacek sembra colta nel suo infinito suonare sul sottofondo dell'amato Donizetti. Proprio a Rainer, grande amico di Gelb deceduto nel 1997, è dedicato questo disco (come del resto Hisser), un'assenza la sua di cui questo lavoro è pervaso, che a ben vedere potrebbe essere un plausibile tentativo di risolvere, ricostruendone la memoria viva, la presenza persistente, in un gioco di strumenti-cose che suonano fino a divenire fisiche e mistiche assieme, testimoni di un passaggio leggero e insostenibile. (8.3/10) I Giant Sand sembrano consolidare i frutti di un’esperienza ormai ultradecennale, meditarci sopra anziché buttarcisi, e colgono il segno. Così mentre la critica apprezza e consacra Gelb dedicandogli retrospettive e speciali (la mitica copertina di Blow Up N. 28 del 2000) arriva, annunciata a gran voce, l’opera seconda dei Calexico, Hot Rail (Quarterstick, 2000), un disco alla ricerca di risposte e nuove direzioni che sembravano impossibili dopo quelle stupende e definitive di Black Light. Il successo arriva repentino e non solo presso gli ambiti “alternativi” (il video di Ballad Of Cable Nogue si aggira spesso su Mtv) tuttavia l’album, ricco di umori, sensazioni, attese e scenari incantevoli, risente della scarsità di quell’ingrediente raro e prezioso che è la poetica gelbiana. Hot Rail è un grande cinema, ricco di storie fagocitate nella più genuina dimensione della frontiera americana, con i musicisti, a immergersi pienamente nella musica (Fade), a calarsi dentro le corde degli strumenti (16 Track Scratch) o nell'intimo della pancia di una fisarmonica (Untitled III), eppure, fatto salvo per gemme come Service & Repair, l’assenza di uno spirito pulsante inizia a lasciare vuoti difficilmente rimpiazzabili. Hot Rail ha rappresentato questa sfida, ma non è ancora tempo di lasciarsi andare a facili disfattismi. (6.6/10) I Calexico, cavalcando l’onda della mania che si sta diffondendo un po’ dappertutto, iniziano un lungo tour, portandosi dietro gli amici mariachi. Il live set è una vera e propria festa e la tournée, che tocca anche l'Italia (memorabile a tal proposito il concerto al Link di Bologna), manco a dirlo, è un successo. Galvanizzati da tutto ciò, Burns e Convertino, proprio come la Gelb-philosophy insegna, fondano una micro etichetta - Our Soil Our Strength - per pubblicare quante più possibili di quelle infuocate jam registrate tra una data e l’altra. Dalle session di questo periodo escono a distanza ravvicinata ben quattro album: il trascurabile Travelall (2000, 5.0/10), il buon Aerocalexico (2001 6.7/10), il discreto Even My Sure Things Fall Through (che conteniene pure alcuni interessanti videoclip - 2001) e lo scarso Scraping (2002, 5.5/10) dove, l'imperfezione e il bozzetto, la cover e la gemma perduta, dominano incontrastati. Il superfluo necessario Torniamo a Gelb: i suoi ultimi lavori in solitario e con i Giant Sand sembrano altrettanti collezioni di ritratti sparsi, tentativi di ricostruire a memoria squarci di sogno, d’indagarne la persistenza forzandone la struttura, imbastardendo a bella posta gli arrangiamenti e la melodia. Capitolo a parte merita invece Rock Opera Years (Ow Om, 2000). Più che un bootleg ufficiale, come recita il titolo dell’album, e molto di più che una semplice raccolta di alternative take di Chore Of Enchantment, “Gli SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 11 anni delle opere rock” è una sorta di messa in scena in grande stile della vita artistica del cantautore del deserto. Gelb racconta e si racconta attraverso il filtro della rappresentazione, e lo fa apertamente, aumentando lo scarto tra sé e la propria musica, al punto che sulle note di Music Arcade (cover del brano di Young dall'album Broken Arrow) pare lui stesso in mezzo al pubblico intento a commemorare l'ultima cosa che suonò l’amico Rainer in occasione del Wooden Ball (un concerto acustico organizzato dalle parti di Tucson circa nel 1995). In quest'album insomma il sapore è quello della fiction, dello show dalle luci artificiali nel quale, attraverso gli stereotipi, la gente s'identifica facilmente sognando, sperando e pregando per i propri eroi. Se Chore rappresenta il bignami degli umori del "dopo" in presa diretta, Rock Opera, caratterizzato da una produzione più lineare - diciamo quasi "mainstream" - e da arrangiamenti più ricchi, è un album importante e forse, appunto per questi motivi, superfluo. A dimostrazione di quell'ovvio che ogni intenditore del Nostro conosce già da tempo, tutto in questa sede può apparire irrimediabilmente innocuo. Eppure, per una volta, il Gelb convenzionale strofa-ritornello piace e addirittura sorprende. È una sorta di viaggio nel tempo dentro l’universo Giant Sand la sensazione che si ha ascoltando gli inediti dell'album: l’iniziale Rock Opera - un buon country - ricorda quello radiofonico di Storm (seppur infarcito fino all’assuefazione di luoghi comuni desert), la sorniona Hard On Things è una ballata nella vena più gigiona, chiassosa e ubriaca del Nostro (il periodo è Love Songs), mentre il rock tirato e nervoso di Dilemma ci riporta dritti alla trilogia desertica. Sul versante delle riedizioni da Chore Of Enchantment invece, l'idea è quella di un mood meno sonnacchioso e nostalgico e quindi più waken up, più sveglio (hi-fi!) come nel caso dell'intrigante versione di (Well) Dusted (For The Millenium) - più fluida grazie all’aggiunta di un riff più incisivo alla chitarra e di un curioso bridge colla pianola - e degli stravolgimenti di Astonished - più briosa e sognante con tanto di pianoforte che ricorda una canzone degli Inxs (Never Tear Us Apart) - e Punishing Sun - che toglie di mezzo il folk per darsi alla lounge più effimera. (7.1/10) Con Rock Opera Years, Gelb si/ci regala sia una versione alternativa della sua rinascita, una piccola parentesi potremmo dire perché, poco dopo, escono ben due album a nome Howe Gelb: uno è Down Home 2000, registrato in totale autarchia (17 tracce di cui 14 inedite per 44 minuti di musica); l’altro, con l'aiuto di alcuni amici, è Confluence (Thrill Jockey, 2001). Down Home è il secondo tassello di quella che si è configurata recentemente come una collana di titoli, tutti con lo stesso nome (il primo era un cd-r distribuito solo ai concerti risalente al 1998). A cambiare è soltanto l'anno ma non Gelb che da queste parti è più che mai …casalingo (il nome dell'etichetta OW OM si legge allo stesso modo di “Howe home”). È chiaro che il privée del Nostro sia dominio dei soli aficionados del musicista ma, si sa, le sorprese sono dove non te l'aspetti. Questo cd, di fatto una raccolta di ballate, a sorpresa, presenta alcuni e interessanti spunti: come la storia western di Horses Still Coming, il piccolo intermezzo al pianoforte di Dispatch e il fosco country-blues di Timber Town. Piace questo Gelb seduto sul divano che intrattiene gli astanti con la scafata esperienza del folk-singer attempato, anche se - ma certo – può essere soltanto una maschera pronta ad esser dismessa alla prima occasione. Tuttavia, in questa strategia defilata c’è tempo e modo di consumare un intenso omaggio al padre atavico del blues (R. Johnson Tribute), c’è la nudità del country-blues younghiano in apparente lotta con uno spinotto difettoso (l’iniziale Rain M/W Parade), c’è una ballata strappata un po’ ai sogni un po’ al cuore (The Meantime), c’è insomma Gelb e il suo lo-fi esistenziale, la sua ossessione per il non-rifinito, per il gesto appena colto al suo manifestarsi. Ancora scalciante di vita. Significativo il fatto che gli ultimi sei secondi riprendano uno scampolo dell’introduzione a Blue Marble Girl, la traccia più importante di Confluence, come a indicare una continuità estetica e sostanziale tra i due (diversi forse più per la quantità di mezzi a disposizione che altro). (6.6/10) Confluence, ovvero là dove s'intravede la carne e l'anima oltre la scorza bruciata dal sole, è il terzo disco in solitario (anche se, come già detto, la solitudine per Gelb significa anche “assieme ai soliti amici", in questo caso John Parish e Grandaddy, più Burns e Convertino). Come per Down Home, non siamo di fronte ad una smentita del Rock Opera Years quanto al consolidamento di una vena parallela che sgomita per trasferirsi stabilmente in prima linea: il suo lato più intimo, quell’incedere tra frammenti d’uomo esausto, schiacciato da un disincanto cosmico, trascinato a braccia dalla propria ossessione, con la canzone-castello di carte sempre sul punto di sfaldarsi (vedi la sgangherata Cold). Anche il numero dei brani, diciassette, è identico a quello di Down Home. SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 12 Troppi forse, anzi no, ognuno funzionale a questo gioco di scultura e dispersione. Un gioco che traccia coordinate impalpabili della/nella memoria, s’impone farraginoso con l’indolenza di bozzetti tanto malfermi quanto struggenti (Can't Help Falling In Love, cover elvisiana registrata nel bagno di casa Gelb con il contributo dei Grandaddy), con la vaporosa risolutezza di atmosfere che nascondono una crepa del cuore per ogni lusinga (Available Space e Shadow Of Where A River Ran). Ovvero: le mappe di una fisiologica alterità, il disagio esistenziale risolto spostandosi su un piano diverso di vivere e sentire, definendo una dimensione parallela in cui scaglie di deserto (3 Sisters) e fremiti black (scosse funk come lampi nel languore fosco di Pontiac) confinano con sentori d'Europa e afrori desertici (2 Rivers, le due versioni di Vex), prima che il rockaccio "animalesco" di Slide Away spazzi via tutto grattando la pancia del cielo, in una lunga, inquieta, rarefatta, instabile, densa, lenta, catartica esplosione. La voce è tiepida, impastata d’amarezza e di buio, anche quando s'imbizzarrisce (come in Hard On Things, rielaborazione radente e arcaica del country-blues saltellante contenuto in Rock Opera Years) lo fa con un’ombra di tragedia e abbandono. È altresì impossibile immaginare una voce migliore per queste peripezie da hobo alle prese con le proprie allucinazioni (Hatch, nient'altro che la "vecchia" Cracklin' Water riemersa dai "fasti" Op8), che abbaia alla luna (Pedal Steel And She'll, slide e dobro in punta di dita), che non manca di omaggiare quel mistero cui da sempre è devoto (Blue Marble Girl, vicina al Lou Reed più sognante e impalpabile). La trepida desolazione dei tempi di Hisser appare come assimilata, trasformata in qualcos’altro, forse fatalismo o rassegnazione, più probabilmente la consapevolezza - non priva di un certo compiacimento – d’aver imboccato un sentiero espressivo congeniale. Howe si guarda di spalle mentre procede caracollando tra cactus e crotali, tra marciapiedi lucidi di pioggia e binari che tagliano le periferie, vede ciò che è diventato e si riconosce, capisce di non poter essere n é meglio né altro. (7.1/10) Più o meno contemporaneamente, esce un altro album solista di Gelb (l'ennesimo, comincia a vociare qualcuno), ancora più defilato e indefinibile: Lull Some Piano. Diciannove tracce i cui titoli, letti uno dopo l’altro, compongono la frase “do you see what happens when none of this tracks needed to have names but now they all do”. Una parola per canzone. Ogni parola, un titolo. Per canzoni senza parole tranne una, il mormorio da jazz club di See, tra croonerismi impolverati e doglianze sonnacchiose. Il piano, soprattutto. Accompagnato talora da una batteria sfarfallante nel buio, da un’orchestra, da un contrabbasso che pulsa stopposo. Più spesso, attorno al piano solo il silenzio. Anzi, sempre. Anche quando annega in un suono levigato dalle suadenti forme standard, con appena un’ombra di stravaganza a disarticolare la compostezza immobile dello sfondo. Sembrano delle quasi-improvvisazioni, spunti di romanticismo crepuscolare, Chopin impanato di sabbia e tramonto. L’autore che pensa, si ripensa, si aggira con scrupolo e circospezione tra le proprie irrisolte malinconie ricavandone bozzetti sospesi, soundtrack estemporanee di immaginari film muti. È un disco elegante e nudo, in cerca di eleganza nel nudo svolgersi del dolore. Un disco laterale, di passaggio ma anche pervaso da quella noncuranza lucidissima che rende indistinguibile – confondendoli l’accessorio dal necessario, il profondo dal superficiale. (5.5/10) La copertina del giornale che ritrae un …falso finale Il 2002 porta un nuovo album e una notizia inattesa. Buono l’album, pessima la notizia: Cover Magazine (Thrill Jockey, 2002) viene presentato da Gelb, Burns e Convertino come l’album d’addio dei Giant Sand. Non c'è ombra di rancori, nessun segno di screzi: l'annuncio viene dato con pacifica seraficità, come un fatto che attendeva solo di compiersi, inutile piangere o recriminare. In fondo, non poteva che andare così, considerato il passionismo nomade di Gelb, quel suo portarsi dietro tutto senza piantare mai radici, quel suo stringere legami che permangono indissolubili ma solo in quel west affettivo che gli cova tra i sogni. Cover Magazine, prodotto dallo stesso Howe e Craig Schumacher, dice già questo, presentandosi come il disco delle ossessioni di Gelb suonato dal suo combo preferito, il più adatto per dar loro corpo, nell'occasione allargato a Grandaddy, Candie Prune, M. Ward (suona il piano in Plants And Rags), Pj Harvey, Neko Case (suoi i fantasmatici cori in Wayfaring Stranger) ed altri. E Burns e Convertino? Ormai presenze eccellenti, aficionados di lusso (col sospetto che sia sempre stato un po' così). Siamo quindi già oltre i Giant Sand, siamo nel territorio dei miraggi sfilacciati, delle disperate scelleratezze post punk (le torride sfrangiature di Johnny Hit and Run Pauline degli idolatrati X, con Polly Jean Harvey ad improvvisare un ritornello sconosciuto fino a venti minuti prima), delle gracidanti baldanze country (una più che emblematica I'm Leaving SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 13 Now a firma Johnny Cash). Un luogo sconosciuto alle mappe comuni, dove l'hard può sfarinarsi rumba (l'altrimenti icastica Iron Man dei famigerati Black Sabbath), dove il blues più intossicato consuma l'ultimo incendio (il sordido rovello di Red Right Hand - classico di Cave), dove le malie avant-pop perpetuano il fascino oltre la straniante destrutturazione (il medley Human/Lovely Head, pezzi targati Goldfrapp, altra dichiarata ossessione gelbiana), e dove il più atroce sussurro si rovescia nel sogno di tutte le prospettive (la torva El Paso di Marty Robbins fusa all'empito inquieto della Out On The Weekend younghiana). Ed è anche la migliore occasione per ripercorrere il se stesso più recente, quello che ha digerito il "dopo" nel laconico incanto di Blue Marble Girl (qui surriscaldato fino a sfrigolare come un reperto Crazy Horse-Dream Syndicate per poi dilatarsi tra narcosi lo-fi e fantasie popadeliche), così come per rivangare il passato di quella The Inner Flame di Rainer Ptacek che sbriglia una sordida tensione blues trafitta da scariche improvvise e sussulti gospel-soul. Chiude il programma un'ultima, ennesima ossessione, la The Beat Goes On di Sonny Bono (tra l'altro presente pure a metà scaletta in versione ben più lunga e scoppiettante), rumba che corre su un ordito scarno, con la fierezza di chi sa di poter contare sulla propria sbrigliata autarchia. (6.3/10) La delusione dei Calexico Per la fatidica opera terza della creatura di Convertino e Burns occorre attendere il 2003, l’anno di Feast Of Wire (City Slang, 2003) che segna una, dicono alcuni, preannunciata crisi. L'album, una raccolta di brani contenente 16 tracce, di cui ben 9 strumentali, si pone a metà strada da tutti i precedenti (ufficiali): possiede più humour di Spoke ma non può gareggiare in freschezza con esso, possiede pathos e atmosfere calienti ma la magia di Black Light sembra ora un lontano ricordo. I Calexico scelgono la strada della leggerezza e dell'impalpabilità, ma a vacillare è la scrittura, proprio come accade nel singolo dai sapori caraibici Quattro. In assenza di novità stilistiche, Feast Of Wire delude parte della critica ma il pubblico, grazie anche a MTV, conosce il gruppo per la prima volta in quell'anno. (5.5/10) Il 2003 comunque è soprattutto l’anno decisivo per l’Howe Gelb – consentiteci – cantautore. Esce infatti The Listener (Thrill Jockey, 2003), il disco che ne consacra la maturità nonché l'inevitabile imprendibile vena obliqua. Circondandosi di nuovi musicisti, tutti danesi e inciso proprio in Danimarca, patria della sua seconda moglie Sophie Albertsen), l'album sfodera l'oramai consueto melting pot di casa Gelb: il menù è sempre lo stesso ma le pietanze anziché sfornate al volo sono servite tiepide (ma pur sempre saporite). È il piglio dunque a cambiare con una Felonious che s'infila come sberleffo assieme reed-iano e monk-iano, e una B 4 U dove lo scherzo continua a mescolarsi e a confondersi con la citazione (…quel "Do Do Do"). Da altre parti un Gelb sciolto e dinocciolato si fa strada tra i colori della Costa Azzurra e quelli di Madrid (Torque), in altre ancora si vede il disimpegno (il cool-jazz di Piango – ovvero quello che i Calexico stavano provando in Travelall) e infine un po' di delusione nel trittico The Nashville Sound, Blood Orange, Moons of Impulse salvo poi la ripresa con stile del finale (la bella Now I Lay Me Down, un sogno da svegli, una peregrinazione country-blues, pregar narrando con profusione di violino, wah wah e theremin). A conti fatti viene il sospetto che The Listener sia un album superfluo o tutt'al più inutile alla luce della produzione precedente (come potrebbe non esserlo!), sta di fatto che Howe come l'ha finito se n'è pure scordato e senza nemmeno posare gli strumenti riesuma niente di meno che la Blacky Ranchette, band simbolo del compianto Rainer. Ad accompagnarlo in Still Lookin’ Good To Me (Thrill Jockey / Wide, 2003) troviamo una line-up di super star dell’alt-country, tra gli ospiti: John Convertino (lesto al solito ai tamburi di The Train Singer’s Song, Square Bored Lil’ Devil), Neko Case (al canto in Mope A Long Rides Again e in duetto con Richard Bruckner in Getting It Made), Kurt Wagner (The Muss Of Paradise), Jason Lytle (Working On The Railroad), Chan “Cat Power” Marshall (My Hoo Ha) e infine l'ottimo M. Ward (alla slide in Rusty Tracks). Il risultato è una collezione di buona fattura dove Gelb riscopre il piacere di suonare dentro gli "steccati" accanto a alcuni amici. Niente pasticci dunque, ma semplicemente della buona musica. (6.6/10) Il 2004 viene “inaugurato” da una delle tante, consuete uscite “minori”: è Ogle Some Piano (Ow Om, 2004), sorta di risposta a Lull some Piano di due anni prima, di cui ripercorre l’estemporaneità “organizzata” perlopiù attorno al piano. La differenza più evidente sono i titoli, che per una sorta di contrappasso – o per la sindrome da bastian contrario (anche e soprattutto di se stesso) succitata – si stagliano fluviali. Tanto per fare un esempio, Splendid In A Way And Especially Unseething In Its Most SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 14 Popular Format (per la cronaca, rumba per contrabbasso e piano), oppure Hokum Bigboy Was Probably Not His Given Name, But Just To Make Certain We Reaffilated (jazz scivoloso squarciato da stasi ritmiche e una trepida tromba davisiana). Tanto per ribadire il cerimoniale dei “dischi gemelli”, il numero di tracce - ben diciannove – è identico a quello di Lull. Nello specifico, due sono brani lunghi (i dieci minuti della mini-suite iniziale Spangle Bib Of Radiant Value e i sette della già citata Hokum Bigboy) e la maggior parte degli altri brevi se non brevissimi, schegge d’inquietudine (Drink Ticket Trinket), d’improvvisa baldanza (la bossa di Expresso Spills Specifiically On The Italian Truck Stop Tie, And For A Moment, Aids In Its Re-Design), d’acredine (Ogle) e svagatezza meditabonda (Re-Envision Stream Block And Then Fumble). Vale lo stesso discorso già fatto: consideratelo pure un episodio trascurabile, ma tenete conto che, anche in questo caso - forse soprattutto in questo caso - trattasi di un’entrata laterale, e quindi un’entrata, allo struggente spettacolo del circo gelbiano. (6.3/10) (Ri)costruzioni Poi, avviene l’inaspettato. Ovvero: torna l’entità Giant Sand con un disco nuovo di zecca. Un buon disco, dal titolo interrogativo: Is All Over The Map? (Thrill Jockey, 2004, vedi recensione su SentireAscoltare N°1) (6.7/10) Finale? Sul palco più che su disco, Howe ti trascina nella propria confusione mentale, te la confessa candidamente, obbligandoti ad accettarla così come lui l’ha da tempo accettata. Il suo mescolare cover di canzoni lontane mille chilometri, Goldfrapp e Neil Young, Black Sabbath e Johnny Cash, gli X e PJ Harvey, Sonny Bono e Nick Cave, Madonna e Tom Waits… E, magicamente, di ognuna accendere la malizia nascosta, la stilla di magia. Nonostante. La schizofrenia stilistica è Gelb stesso, la sua ossessione. Ogni disco, ogni concerto, sono una rappresentazione di Howe, punti di convergenza su una mappa senza confini. Quel cercarsi continuo, forzando le strutture delle canzoniricordi fin quasi a stravolgerne l’essenza, è l’unico messaggio trasmissibile da un individuo che fatica a riconoscere i limiti della propria patologia, i cui sintomi sono un gesto senza posa: ascoltare. E, in esso, come fosse la stessa cosa, vivere. Il Gelb maturo fa questo con una franchezza cupa e gioiosa, si mette in gioco fin nell’intimità, coinvolgendo tutta la propria esistenza nel “momento” artistico. La differenza è che oggi, o meglio dalla morte di Rainer in avanti, diradato il polverone del balletto di forme e sostanza, l’entusiasmo folle e scellerato del giovane rocker è stato rimpiazzato da un disincanto senza requie. Allo stesso tempo, è ancora un gioco, una cortina fumogena, uno schermo, lo scudo che ripara dalle badilate di una memoria crudele. E forse questo spiega tutto, sì. Non ci sarebbe bisogno d’altro. Di Gelb, del suo songwriting sublime e sgangherato, invece sì. SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 15 Wolf Eyes di Edoardo Bridda Sintetizzando l’apocalisse dei primi Swans e i deliri dei Throbbing Gristle attraverso una barbara sevizie delle apparecchiature elettroniche più disparate, i Wolf Eyes riprendono un discorso musicale lasciato interrotto dai grandi "concretisti" americani Mnemonists (futuri Biota). Il recente Burned Mind è un inferno che ha tutta l'aria di un Twin Infinities targato 2000. Manuale degli errori/orrori Fedele all’etica DIY professata dal credo punk, il marchio Wolf Eyes mette in scena la mutazione genetica sin dall’inizio e lo fa attraverso rumori grezzi e lo-fi, trasfigurando in chiave elettronica alcune suggestioni industrial d'annata e manomettendo la tecnologia. È un calderone fumante e nauseabondo: un mondo popolato da una fauna di subalieni a metà fra "Alien" e gli orrori genetici de "La Mosca", tra una flora di pigolii, ronzii e cicalecci. Il magma sonoro inizia a ribollire già dal 1996, con il solo (ed alchemico) Nate Young a trascorrere il tempo nelle viscere di Detroit alle prese con ogni sorta di macchine. In un’atmosfera già avvolta da una certa mitologia, è in questo periodo che i primi synth, beatbox, radio, transistor, vecchie console per videogiochi, nastri, videoregistratori e persino orologi a cucù vengono sottoposti a sevizie d'ogni guisa, che ogni spasmo di quei rottami viene catalogato, ogni errore (o bug) tecnologico contemplato in presenza di possibili varianti e nelle combinazioni più disparate. I sintetizzatori subiscono le nefandezze più efferate: vengono smontati e poi assemblati, i loro software corrotti così che del suono originale resti soltanto un lontano ricordo. Dopo un anno, l’arsenale di Young può contare su un parco di mostriciattoli sonici sufficientemente variegato; a quel punto il musicista rompe il solipsismo creativo entrando in contatto con Aaron Dilloway, proprietario di una micro label chiamata Hanson. Il piccolo tenutario discografico, anch’egli manipolatore sonoro - e torturatore di strumenti acustici - , diventa presto un compagno inseparabile per il guerrigliero di Detroit e i due, come templari vestiti da Mad Max, iniziano a sfornare a spron battuto cassette, cd-r e sette pollici in rigorose tirature limitate. Mentre la smania creativa cresce di pari passo con l'esperienza, a seguito di una piccola parentesi newyorchese in trio con Andrew Wilkes-Krier - un party animal noto ai più come Andrew WK - i due prendono residenza definitiva presso Ann Arbor, Michigan, e conoscono John Olson, anch'egli responsabile di un'etichetta, la American Tapes (un realtà simile alla Sound@one dei NoNeck Collective e la Chocolate Monk di Prick Decay). I risultati di quell’amicizia si trasformano ben presto in frequenti uscite discografiche: già nel 2001 si contano oltre una ventina (!) di titoli a nome Wolf Eyes, secondo il classico modus operandi da collettivo hardocore-noise anti-sistemico, destinato irrimediabilmente ai margini del mercato musicale. Eppure, a partire dall'inizio del 2003 gli eventi prendono un corso inaspettato: prima un accordo con la Troubleman, etichetta del lungimirante Mike Simonetti, porta alla realizzazione dell'ottimo EP Dead Hills e, poco più tardi, la stipula di un inaspettato quanto promettente contratto con la Sub Pop apre le porte ad un mercato e una visibilità ben maggiori. La storica etichetta che ha patrocinato la nascita di Nirvana e Smashing Pumpkins sta tentando in questi ultimi anni di rimettersi in gioco e Young e co. rappresentano la punta dell’iceberg di un sottobosco di terroristi che potrebbero diventare un nuovo trend di qui a poco, proprio come lo erano stati una decina di anni fa i Matmos per la scena indie-electronica di S. Francisco (quella che per intenderci comprendeva Lesser, Kid 606 e Blectum from Blechdom) Ottenuta carta bianca dall'etichetta, i Wolf Eyes, invece di licenziare un album più accessibile come molti si aspettano, consegnano il barbaro Burned Mind (distribuito nel nostro Paese da Audioglobe a partire da ottobre 2004), una sorta di delirio à la Twin Infinitives dei Royal Trux. Se l'album diventerà altrettanto "cult" lo vedremo soltanto fra un po' d'anni; intanto l’eco di tali arditezze non è sfuggita alle antenne sensibili di The Wire, la popolare rivista anglosassone, che ha dedicato al gruppo la copertina del numero di novembre con tanto di lungo articolo e intervista. Dulcis in fundo, persino i SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 16 Sonic Youth sotto forte pressione di Thurston Moore li hanno voluti come opener ai concerti in occasione della recente tournée americana. La storia è ancora tutta da scrivere… Dead Hills (Troubleman, 2003) In seguito alle oscure e fittissime uscite degli ultimi anni - tra cui ricordiamo lo split coi Black Dice del 2001 e Dread, il primo LP prodotto in quello stesso anno dalle etichette di Olson e Dilloway in tandem - e alla partecipazione alla fondamentale compilation del 2002 chiamata If the Twenty First Century didn't exist it would be necessary to invent it (con il brano Cut The Dog), i Wolf Eyes licenziano questo EP grazie alla Troubleman, etichetta del lungimirante Mike Simonetti spostatasi in pochi anni dal post-punk creativo degli Shotmaker a gruppi diversi per intenti ed estrazione(come gli avant-rockers ABCS o le eroine neo-new wave Erase Errata). Sin dalle prime note, Dead Hills emana un olezzo di morte: lo scenario è quello di una qualche cloaca putribonda abitata da un formicaio extraterrestre dove compare, a sommi tratti, l'attitudine "materica" che rese pregevoli i Mnemonists. Considerati gli svariati cicalecci e versi che si respirano minuto dopo minuto in quello che si configura come un abisso siderale caratterizzato da un'intensità "cosmica" crescente, potremmo addirittura pensare a degli Animal Collective post atomici. Le tinte sono quelle dell'inferno bosch-iano: il giudizio è già compiuto, la dannazione è eterna. Il climax, giocato sulle sincopi dei bassi analogici rubati al ghetto e le urla indicibili di Young, prende una piega differente nella seconda traccia, meno criptica e a suo modo più ammiccante: di fatto è un sabba dalla crescente tensione che, invece di esplodere, si dilegua come in un qualche spaventevole rituale satanico. Dead Hill 2 - secondo chi vi scrive - rappresenta una preziosa e mirabile sintesi: la risposta definitiva del combo alla rigidezza dei Pan Sonic, ma altresì una fucina dove Swans, Throbbing Gristle e i due finnici autori di Kesto convivono armoniosamente (sempre che la parola armonia si possa usare in questo contesto). La terza e ultima puntata della saga - Rotten Tropics - non farà altro che sciogliere con furbizia i vagiti à la Genesis P. Orrige (che dei Gristle era l'urlatore) del precedente brano in una melma putribonda scandita da rintocchi di basso e da marci cigolii. Sorta di inferno dantesco in tre gironi, l'EP rappresenta lo stato dell'arte nell'emergente scena noise americana (Dead Hill, Dead Hill 2, Rotten Tropics). La sua importanza consiste non tanto nel giocarsi la carta di una esperienza d'ascolto estremo, quanto la rappresentazione della sopravvivenza del suono. Suono che ci divora implacabile come le astronavi di Space Invaders, che avanza senza pentimento come i laser di Defender. In definitiva: un sound del Post Game Over. (7.5/10) Burned Mind (Subpop / Audioglobe, 2004) Registrato tra l'ottobre 2003 e il giugno 2004 al Key Club di Benton Harbor, MI sotto la supervisione di Bill Skibbe e Jessica Ruffins e missato da Brendan M. Gillen (acclamato dj/sperimentatore di Detroit noto anche come BMG o Ectomorph), Burned Mind riesce ad essere truce ed anarchico ancor più dell'EP Dead Hills: da una parte l'effetto shock a base di sabba e urlacci melmatici si riaffaccia intatto, dall'altra la presenza di stasi sinistre e persino un paio di silenzi cage-iani rinverdisce il parco di torbide nefandezze. Posta a principio dell'album, Stabbed in the Face (anche in 12'' e scaricabile dal sito della Sub Pop) è una dichiarazione di guerra bella e buona: l'astronave Galaga è approdata, ma dalla sua pancia non escono i Visitors con le tute rosse, bensì sincopi mefitiche, glitcherie alla Ikeda, urla à la Genesis P. Orrige, fischi di Ventolin (come li avrebbe voluti il diabolico Aphex Twin) e bordate di basso a mo' di radiazioni letali. Fortunatamente tanto splatter ed effettismo "boom" alla maniera dei primi Swans viene intelligentemente dosato per dare maggiore risalto all'industrial ambientale, senz'altro la specialità del combo. In brani come Urine Burn o Village Oblivia un microcosmo costituito da fauna rettiliforme di serpenti e flora di carcasse metalloidi è mirabilmente dettagliato, seppur nello spartano modo di Young e co., che hanno così modo di sfoderare le ultime armi thrash concretiste come il fiatone di Alien, i cicaleggi di qualche mutoide spaziale, la melma acquitrinosa di una tundra desolata, gli spari e le rasoiate di chitarre immolate alla distorsione perenne. I Pan Sonic ritornano nei bassi imperturbabili di Rattlesnake Shake, mentre l'incubo sabbatico sbuca nuovamente nell'omonima SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 17 Burned Mind, traccia forse un po' scontata che rimugina le deflagrazioni vocali di Stabbed in the Face e Reaper's Song. I interlocutori momenti di silenzio, aprono infine per il rumore bianco di Black Vomit, giocata abilmente sugli echi e le frequenze radio, come se l'astronave, tra le detonazioni del carburante e il comprimersi delle lamiere, stesse ritornando dall'abisso cosmico da dove era venuta. I Wolf Eyes dimostrano di essere un gruppo dal grande potenziale, che però in questa prova convince solo a metà: a discapito del climax complessivo, viene infatti dato grande spazio agli effettismi e alla brutalità. Quella che in Dead Hills era magia, in Burned Mind rischia spesso di diventare puro autocompiacimento. (6.5/10) Discografia trattata Dead Hills (Troubleman, 2003) Dead Hills / Dead Hills 2 / Rotten Tropics Burned Mind (Subpop / Audioglobe, 2004) Dead in a Boat / Stabbed in the Face / Reaper's Gong / Village Oblivia / Urine Burn / Rattlesnake Shake / Burned Mind / Ancient Delay / Black Vomit SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 18 Two Lone Swordsmen di Daniele Follero Dal post punk degli esordi accanto a Genesis P. Orridge, alla rivoluzione electro dei Sabres Of Paradise fino a arrivare all'attuale alla svolta wave-rock. Piccoli promemoria su Andy Weathral Il mentore dell’elettronica con la passione per la no wave Per quanto Andy Weatherall sia considerato una personalità cardine della scena techno (e il suo nome risuoni spesso nei club londinesi), le sue radici musicali ventennali affondano nella stagione della No Wave. Andy cresce nella Londra del post punk e collabora con Genesis P. Orridge entrando a far parte dei suoi Temple Of Psychic Youth. Punk attratto dai suoni elettronici, si fa coinvolgere dall’esplosione dell’acid house proveniente da Chicago e Detroit e inizia come dj e remixer, per poi dare vita ai Sabres of Paradise, formazione messa in piedi a inizio anni ’90, insieme a Jagz Kooner e Gary Burns. Mentre i Sabres rivoluzionano l’electro inglese, Weatherall ha già compiuto la svolta decisiva per lui e per il rock: Screamadelica dei Primal Scream, sotto il segno della sua produzione, diventa una pietra miliare, il passo definitivo nel cammino che ha portato alla contaminazione tra dance e rock. Avrebbe potuto campare di rendita, ma il vecchio Andy è un personaggio che ama mettersi sempre in discussione e, dopo aver reinventato i Primal Scream, prova a reinventare sè stesso: attorno alla metà degli anni ’90, lascia il giro dei clubs, l’elettronica allucinata e allucinante del Sabres of Paradise, l’attività di remixer e perfino le sue performance come dj nel “suo” locale londinese, il Sabresonic, per immergersi, in coppia con Keith Tenniswood nel nuovo progetto dei Two Lone Swordsmen. Partendo da un’electro house minimalista e passando per la techno di Tiny Reminders, i due “spadaccini” continuano il loro percorso elettronico da una prospettiva diversa, che non disdegna l’esperienza del two-step dei Sabres nè le radici post punk di Weatherall. Per una svolta significativa tuttavia occorre attendere il 2004, l'anno dell'acclamato From The Double Gone Chapel (vedi recensione su SentireAscoltare N°2) . I due Swordsmen, messe da parte le alchimie sintetiche della musica elettronica, prendono a presito dal rock batterie, bassi e chitarre e danno vita a un sound che pochi si sarebbero aspettati anche solo un anno prima. Il risultato è un crossover che affonda le sue radici nella dub-wave dei primi anni ’80 e reinterpreta il punk funk in chiave electro. Troppo per chi era abituato ai remix danzerecci di Weatherall? E per i rockettari? I due non si preoccupano minimamente di questo e preparano un live set avvalendosi di una band di cinque elementi in cui trova spazio solo un synth! In attesa di vederli alle prese con il repertorio di messe gregoriane o con un coro di voci bulgare, ce li godiamo in questa nuova veste, tenendo ben presente che gli Swordsmen ci stupiranno ancora, anche se non si sa come. Tiny Reminders (Warp, 2000) Tiny reminder n.1 / Machine maid / Neuflex / Culture stains / Death to all culture snitshes / Very futuristic / Tiny reminder n.2 / Brootle / You are... / Akwalek / Rotting hill canival / Section / Tiny reminder n.3 / C.T.M. / The bunker / Solo strike / Foreververb / It’s not the worst I’ve ever looked, just the most I’ve cared / Constant reminder Dopo l’escursione downtempo dell’ep A Barg Of Blue Sparks e di Stay Down, il nuovo millennio per i Two Lone Swordsmen si apre all’insegna della minimal techno. SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 19 Tiny reminders nasce a seguito della fine del progetto Sabres of Paradise, a testimonianza dell’estrema produttività di Andy Weatherall, vero e proprio mentore della scena techno per tutto l’arco degli anni ’90. In occasione della seconda uscita fulllenght per la Warp, gli Swordsmen danno sfoggio di un grande mestiere nell’articolare i suoni. Tanti “piccoli segni” (tiny reminders, appunto) elettronici, che si compongono in una variegata tavolozza di suoni e ritmi e che mettono d’accordo il synth funk dei primi anni ’80, la tradizione dell’house e le nuove frontiere techno-logiche. Ma, per quanto sia un album che segue il percorso già tracciato da Weaterhall e Tenniswood, l'album, analizzato con il senno di poi, ha in nuce già gli elementi della svolta “rock” di From The Double Gone Chapel. Comincia ad intravvedersi, in quest’album, l’influenza del punk funk di matrice no wave, anche se risuona come un’eco sfocata un marasma di breakbeats. A prevalere sono, infatti, le ritmiche two-step e drum’n’bass che agli estremi opposti sfociano nell’ambient e nel funk cibernetico. A partire dal giochino glitch di Tiny Reminder n.1 (che ne precede altri due), la musica prende le strade più disparate. Se Machine Maid, Death To All Culture Snitches e Solo Strike concedono ancora qualcosa al dancefloor, chi si aspettava di ballare molto con quest’album sarà rimasto sicuramente deluso. A prevalere è una sorta di atmosfera ambient che può trasformarsi in episodi “meditativi”, come Akwalek, o in tappeti sonori darkeggianti (Tiny Reminder n. 2). You are.., richiama il suono robotico dei Kraftwerk e, come una sorta di promemoria, ricorda a tutti quali sono le radici di questi due camaleontici spadaccini tuttofare. (7.0/10) Live. Estragon, Bologna 27 novembre 2004 I Two Lone Swordsmen stanno uscendo sempre di più dalla nicchia techno che li ha ospitati per quasi tutta la loro carriera. Andy Weatherall, uno che ama mettersi in discussione e, è riuscito a far parlare di sè gettandosi nel mare magnum del rock con tutto il suo bagaglio elettronico. Non è solo il suo nome, però, a trainare il progetto, ma anche un buon disco come From the double gone chapel, che lo consacra anche qui in Italia. Nonostante queste premesse e le buone aspettative, le persone presenti all’Estragon si contano sì e no sulle dita di tre mani. Sarà per la prolungata inagibilità del Link, da sempre il tempio della musica elettronica a Bologna; sarà il prezzo (eccessivo) dei biglietti; sarà la poca risonanza data all’evento, ma il flop è fin troppo evidente. I Two Lone Swordsmen, diventati per questo tour una band di cinque elementi, si ritrovano a suonare davanti a un pubblico meno numeroso di quelli dei concerti del liceo, dimostrando infine di non aver gradito: un’ora scarsa di musica e poi via da quel postaccio. Eppure interessanti questi musicisti lo sono e lo hanno dimostrato ancora una volta, spiazzando i pochi astanti con una performance assolutamente inattesa e con il loro ultimo travestimento. C'e' però una certa differenza nel creare le attese, e soddisfarle. Con una virata a 180°, gli Swordsmen si liberano quasi completamente dell’elettronica e riarrangiano tutto in chiave new wave. Weatherall, che sembra un Joe Strummer vestito da uomo della working class britannica, canta insolitamente quasi per tutto il concerto e ci riporta venti anni indietro, proprio lui che ha dimostrato di essere uno che guarda molto avanti. Chitarre postrock, un cantato che richiama la no wave e una formazione strumentale tipicamente rock, con basso batteria chitarra voce e sintetizzatore, trasformano il compatto miscuglio di elettronica e strumenti acustici - principale caratteristica del sound degli ultimi due album - in uno strano revival anni ’80. Con questa sorta di mantello new wave i brani di Tiny reminders e From the double gone chapel perdono la loro freschezza e si appiattiscono al suono di echi di Pop Group, Clash e Joy Division, non andando oltre l’imitazione. Weatherall e compagnia non si chiedono se stanno sprecando tutto il buon lavoro fatto ultimamente e continuano a fare i rockettari demodè; non è un caso, allora, che il momento migliore del concerto sia la cover di Sex beat dei Gun Club, meglio adatta al sound della serata. Dopo un’ora, come i ragazzi a scuola quando suona la campanella, i cinque “spadaccini” corrono via e non tornano neanche a salutare. Poco male. L’esiguo pubblico non sembra particolarmente dispiaciuto di questo finale frettoloso e, ancora più velocemente, sparisce. SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 20 ALBUM DEL MESE Climax Golden Twins – Highly Bred And Sweetly Tempered (North East Indie / Wide, 2004) Dead people / Upright / Every word in the Bible / Billy McGee McGaw / Little Noreen / Solid gold microphone / Awful ungry / Imperial household orchestra / Get fat / I’m a comin’ Lord, I’m a comin’ / For Adeline Il lo-fi, inteso nella sua accezione di stile musicale che utilizza intenzionalmente suoni a bassa fedeltà, trova sempre più spazio nel panorama musicale del nuovo secolo. Nell’epoca della perfezione tecnologica, della riproduzione del reale giunta ai massimi livelli, c’è chi (e sono sempre di più), rifiuta in blocco questi principi e si rivolge all’espressione pura, diretta, spesso negando i principi basilari della produzione discografica. Questo atteggiamento “casalingo” nei riguardi della musica, non è associabile ad un genere particolare e questo lo rende un’importante riferimento per mondi altrimenti agli antipodi. Cosa potrebbe accomunare, infatti, il menestrello Banhart all’elettronica avant-hop dei cLOUDDEAD e alla psichedelia di Dirty Projectors, se non il gusto per un suono spoco, grezzo, non costruito? Nel caso dei Climax Golden Twins, duo fondato a Seattle dieci anni fa da Rob Mills e Jeffrey Taylor, questo tipo di approccio incontra l’esperienza delle avanguardie, storiche e meno storiche, dando vita a paesaggi musicali di grande intensità (e con evidenti finalità artistiche). Dopo dieci anni di attività, durante i quali hanno espresso appieno la loro idee musicali attraverso collage di rumori, registrazioni d’ambiente, suoni elettronici e quant’altro, i due, con l’aggiunta di Scott Colburn, unitosi al progetto nel ’96, con Highly Bred And Sweetly Tempered “rilassano” decisamente il loro sound, senza abbandonare la sperimentazione. Registrazioni di vecchi 78 giri, puzzle rumoristi e rumori d’ambiente si uniscono agli strumenti acustici con una varietà spiazzante. Episodi piacevolmente leggeri, come il folk da western romantico di Lord i’m a comin’, i’m a comin’, sono associati al dadaismo di Imperial household orchestra con la stessa forza significativa con cui Zappa accostava, in uno stesso album, doo-wop e composizioni à la Varèse. In questo caleidoscopio di stili la chitarra e il pianoforte contribuiscono, con una scrittura spesso minimale, a creare atmosfere che ricordano allo stesso tempo i Gastr Del Sol e Brian Eno, con qualche venatura bluesy e ispirazione “cinematografica” (Dead people, Billy McGee McGaw, Get fat). Il suono non è mai “pulito”: anche questo sembra rispondere all’intenzione di creare un ambiente sonoro in cui la musica si arricchisce delle voci della gente, del fruscio dei vecchi dischi e di rumori di oggetti quotidiani. A rendere meno ostiche all’orecchio umano queste escursioni nella materia sonora, un sound dolce, con qualche ammiccamento pop, che con la sua orecchiabilità rende più fluttuante un discorso musicale mai banale (anche in questo caso l’esempio zappiano è pertinente). Il rumore frusciante del vinile, chiude l’album così come lo aveva aperto, lasciando ancora una volta che la musica si ricrei negli oggetti quotidiani e viva in una dimensione “concreta”, allontanandosi il più possibile dalla confortante culla del “bel suono”. (7.5/10) Daniele Follero The Bees – Free The Bees (Virgin, 2004) These are the ghosts / Wash in the rain / No atmosphere / Horsemen / Chicken payback / The russian / I love you / The start / Hourglass / Go karts / One glass of water / This is the land I Bees, due ragazzi originari dell’Isle of Wight perdutamente innamorati del garage rock psichedelico di metà anni ’60, tornano a farsi sentire dopo un’incoraggiante prima prova (Sunshine Hit Me, 2002, forte di nomina per il Mercury Prize) con Free the Bees, programmatico sin dal titolo. Se l’intento di produrre musica in perfetto stile sixties era già abbastanza evidente nei solchi del lavoro passato, stavolta si fa davvero sul serio: per ricreare appieno quei suoni e quelle atmosfere, Paul Butler - frontman nonché produttore dell’album - e Aaron Fletcher hanno addirittura fatto ricorso al calore analogico, vecchio di quarant’anni, delle antiche apparecchiature dei prestigiosi Abbey Road studios, avvalendosi di tecniche di registrazione e di un armamentario rigorosamente vintage (hammond, fiati, piano elettrico, chitarre Rickenbaker e quant’altro). SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 21 Facciamo subito una doverosa precisazione: questo non è uno dei revival come quelli a cui siamo stati abituati negli ultimi tempi. Ogni operazione di quel tipo presuppone che il passato ‘rivitalizzato’ venga comunque filtrato attraverso la lente della contemporaneità, riuscendo così a diventare costume, moda, tendenza; quello perpetrato in questo disco, invece, è un recupero estetico che ha del filologico, tanto preciso da sfociare nel falso storico: i Bees non riecheggiano, sono una band degli anni ’60, riuscendo per giunta ad essere credibili più di tanti loro contemporanei. Possibile? Sì, se dalla parte di questi musicisti c’è, in aggiunta al fascino insito nella proposta stessa, una scrittura sicura che, alla stregua dei Beta Band più addomesticati o dei Gomez meno funambolici, riesce a fondere in un approccio tritatutto numi tutelari come Byrds, Who, primi Pink Floyd, Grateful Dead e (ovviamente) Beatles, mantenendosi sempre sulla linea della piacevole citazione stilistica senza scadere nel plagio. Quello che i Bees ci offrono è un viaggio nel tempo avvolti in una mesmerizzante nebbia sixties, che confonde le coordinate spazio-temporali in uno sciorinare di generi e di umori: dalla psichedelia “storica” (These Are the Ghosts, No Atmosphere) alla ballatona strappacuore (I love you, ovvero With the Beatles meets Pet Sounds), dalle filastrocche lisergiche (The Start, Go Karts) al più sciocco dei balli di gruppo (l’irresistibile Chicken Payback), l’album procede come una corsa sull’Helter Skelter. Che si tratti del vaudeville barrettiano Wash in the rain o del country-beat Buffalo Springfield One Glass of Water, passando per il mid tempo doorsiano Hourglass fino all’apocrifo byrdsiano This is the land, i Bees riescono sempre a tenere alto l’interesse dell’ascoltatore, alternando e fondendo sapientemente stili diversi anche all’interno dello stesso brano (si veda Horsemen, che da una strofa carica di spigolosità Stones/Who si stemperà nella soffice acidità del ritornello, o lo strumentale Russian e i suoi cambi di ritmo ai limiti del dub). Nostalgico? Indubbiamente sì. Fresco? Potete scommetterci. Come questi due aggettivi possano riferirsi allo stesso disco, chiedetelo ai Bees. (7,0/10) Antonio Puglia Neko Case - The Tigers Have Spoken (Anti, 2004) If You Knew / Soulful Shade of Blue / Hex / Train From Kansas City / The Tigers Have Spoken / Blacklisted / Loretta / Favorite / Rated X / This Little Light / Wayfaring Stranger Nuovo album per Neko Case, talentuosa vocalist per Sadies, New Pornographers e in solitario, nonché - ciò che non guasta affatto - notevole tocco di ragazza, d'una bellezza travolgente e desueta. Trattasi di un disco live, perciò riepilogativo e interlocutorio assieme, proponendo solo due pezzi nuovi su complessivi undici, di cui due traditional e quattro cover. Ma ugualmente è un lavoro opportuno, perché arriva come una risposta ad una domanda che covava inconfessata sotto l'amore sfrenato per la qui presente signorina: quant'è veritiero il prodigio di quella voce, quanto lavoro di studio può adombrare? Orbene, con tutta la prudenza del caso (non è detto che un disco live sia necessariamente genuino), questo The Tigers Have Spoken offre una strepitosa conferma del fulgido talento di Neko. Perché la sua voce vi appare come una vena aperta di sangue dolce e avvelenato, come il presente intossicato dal passato, archetipo di femminino totale, materno e tragico, felino e dominante. E poi ancora (perdonatemi): ponte attraverso le nubi, eco insondabile d'immagini rifratte, balenate, soggiogate. Picchiata di sentimenti a squarciare il buio interstizio tra classico e obsoleto, tra circolo vizioso e cerchio magico. Gioco di sensualità differita, dissolta, assolta dalla e nella plasticità iridescente d'una forma solare e inafferrabile, terrena e spirituale. Quel cavarsi di gola vocali dense e distese, quelle impennate come schiocchi di frusta, lo scatto breve travolgente imbizzarrito... Quello scomporsi e ricomporsi liquido, quel tendere alla propria forma come se fosse (lo è?) fine ultimo, funzione e azione espressiva: stamparsi cioè sulla sensibilità dell'ascoltatore come su uno schermo, ammasso di fonemi-corpo, sospeso quindi tra condizione materiale ed eterea, come un ectoplasma di suggestioni lontane e vicinissime, crash di emozioni intime e indotte. Alla luce di cotanta malia, scorrono come splendidi pretesti il valzer brumoso tra melodramma e far west di Blacklisted, l'hilly billy insidioso e festaiolo di This Little Light, la mestizia country di Train From Kansas City (vecchio hit degli Shangri-Las), il disincantato incanto garage di Loretta (reperto bostoniano a firma Nervous Eaters), l'irrequieta rassegnazione valzer di Favorite e lo standard triste e arioso Wayfaring Stranger (registrato un po' live e un po' in studio). E poi ancora il "country-comfort" di Soulful Shade Of Blue (luccichio di corde intrecciate, ululi dalle sabbie dorate) e il punto di fusione tra country e errebì di Rated X (a firma Loretta Lynn), quindi gli inediti If You Knew (sorta di melange REM/Calexico, desertico batticuore e pedal steel luminosa) e The Tigers Have Spoken (splendida mestizia folk trafitta SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 22 d'irrequietezze R&B, con i Sadies a cucinare il drumming palpitante e baluginii tiepidi di corde). E allora? Allora, oggi più che mai sono convinto che Neko Case sia una delle più attendibili testimoni della voce profonda di un'America equivoca ed equivocata, dispersa e irraggiungibile, sospesa, annidata nel proprio stesso sognarsi. Una magia che dovrebbe ripetersi, a quanto pare, la prossima primavera, con un album tutto nuovo. Bellissima notizia.(7,4/10) Stefano Solventi Hollowblue - What You Left Behind (Suiteside Drive / Goodfellas) Black birds / What you left behind / Io bevo (feat. Anthony Reynolds) / Baker / Days of wintry hill / Triplex Sin Mentre ascoltavo gli Hollowblue ero contemporaneamente impegnato nella lettura delle schede stampa e di alcune recensioni che accompagnavano l'uscita del cd. Parlavano di un amore giovanile del leader Gianluca Maria Sorace per Syd Barrett, del fatto che il musicista abbia iniziato con il "lo-fi" e che le influenze dell'album si possono ravvisare in gruppi quali i Tindersticks, i Divine Comedy, i Gallon Drunk e Nick Cave. Leggevo inoltre della provenienza livornese del gruppo all’esordio discografico e, infine, del fatto che il promo che mi è stato spedito uscirà a dicembre per la Suiteside, l'etichetta che trimestralmente pubblica e promuove artisti esordienti. Non credendo a nulla di quel che ho scorso velocemente e distrattamente, controllo, incredulo, che l'album sia quello di cui si parla e, a sorpresa, il cd è quello giusto. Prima di interrompere la musica di quelli che sembrano tutt’altro che esordienti, ascoltavo Days Of Wintry Hill e ora Jim Morrison è il primo nome che mi sovviene. La traccia, che ha chiare influenze folk nel riff al violino di Chiara Cavalli e si sviluppa con compostezza proprio come un piccolo ensemble da camera, è caratterizzata dalla suadente e romantica voce di Sorace - vicina a Brian Ferry per l'intonazione ma certamente a quella del Re Lucertola per il mood - e una citazione mirata (la lallazione/tentennamento ritmico che ricorda Love Me Two Times). Ingegnoso l'accostamento, simile a quello già operato dai Tindersticks (ma per nulla staccato/impostato come lo vorrebbe Stewart Staples), piuttosto pare di ascoltare un'anima fragile che si rifà al cantante dei Doors, proprio come accade in What You Left Behind nella quale, dalle prime note, si possono ravvisare echi di You're Lost Little Girl (un brano di Strange Days, Elektra, 1967). Pur convincendomi della bontà di quei paragoni, e della consapevolezza e gusto con cui questi sono amalgamati nella calligrafia del Nostro, mi rendo conto di quante altre cose ci siano da sviscerare, di quanta cura e raffinatezza goda questo eppì, ma anche di come lo stile di Sorace porti lì dove tutti coloro che sono stati citati (in questa come nelle altre recensioni) sono andati a pescare, ovvero un certo rock progressivo particolarmente incline al neo-classico. Come non pensare ai vocalizzi di un Greg Lake ascoltando Triplex Sin, dove par di ritornare dalle parti della corte del Re Cremisi e del suo mellotron? E in Black Birdsm come non ricondurci alla tristezza noir di Pete Sinfield (che dei Crimson fu per un po' il paroliere)? Ciò che colpisce di Gianluca Maria Sorace è la capacità di citare la tradizione rock più "alta" senza tuttavia risultare emulo o passatista. Che gli Hollowblue siano paragonati a Nick Cave (influenza ravvisabile nella sola Io Bevo con ospite Anthony Raynolds), può certo tornare utile a Sorace, da parte nostra ammiriamo un musicista che ripropone, aggiornandole con tocco personale, alcune belle pagine della storia musicale. (7.0/10) Edoardo Bridda Destroyer - Your Blues (Merge Records/Wide, 2004) Notorious Lightning / It's Gonna Take An Airplane / An Actor's Revenge / The Music Lovers / From Oakland to Warsaw / Your Blues / New Ways of Living / Don't Become the Thing You Hated / Mad Foxes / The Fox and the Hound / What Road / Certain Things You Ought to Know Dei quattro album precedenti a firma Destroyer conosco soltanto il precedente This Night (2002), questo tanto per chiarire il retroterra su cui si è mosso il mio ascoltare. Rispetto a quello, l'ispirazione di Daniel Bejar - canadese, già membro dei New Pornographers - non appare affatto affievolita, anzi. Muta leggermente obiettivo, insegue un po' di meno la visionarietà atmosferica dell'insieme a vantaggio di una maggiore compiutezza del singolo pezzo, e in questo senso ognuno dei dodici SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 23 episodi si ritaglia uno spazio prezioso, giardino di delizie con un'insidia per ogni grazia, una spina per ogni petalo. E' questo il segreto di Bejar, carpito del resto a tutta una "tradizione" pop-rock inquietante e glamourosa che si è definita nel tempo grazie al lavoro di geniacci obliqui come Brian Wilson, Scott Walker e Alex Chilton, mutando più volte indole e aspetto a ridosso della wave (Lou Reed, Roxy Music, Japan...), prendendo direzioni ondivaghe in bilico tra prog e soul (Tod Rundgren, Supertramp...), spiovendo sul presente in sella a destrieri dalla fibra felicemente instabile (Flaming Lips, Mercury Rev, Divine Comedy, The Shins...).Canzoni la cui sostanza è luccichio e ombra, volti sfavillanti e cappe di buio, insomma un bel giro turistico nell’allegro teatro della tragedia umana: si ascolti il cabaret marziale del piano nell’andirivieni d’arpa e archi e legni e chitarre di From Oakland to Warsaw, o la marcia fatale nella bruma di synth e zampilli d'arpa di The Fox And The Hound, o il crescendo d'intenti fino a farsi cavalcata tra svolazzi d'archi e luminarie di (falsi) fiati della splendida An Actors Revenge. L'abito non fa il monaco, ma in casi come questo può fare la differenza: vedi come la non certo eccelsa intuizione melodica della title track sappia sbocciare in un suggestivo bozzetto di glockenspiel, synth e tromba, impalpabile pastello avant come uno sguardo subacqueo Robert Wyatt, o come Certain Things You Ought to Know sappia giocare con la propria leggerezza folk immergendola in una sospensione madreperlacea (l'eco della voce, l'iridescenza delle tastiere, la compita asciuttezza della chitarra) che la fa piegare indistintamente verso latitudini bossa o jazz: è ciò che segna la distanza tra i Destroyer e la mediocrità irrimediabile di band tipo gli I Am Kloot, cui pure, a ben vedere, sono melodicamente affini. Il dolce e l'amaro dunque, la dolciastra cospirazione di un virus amarognolo, nascosto nel cavallo di Troia di suadenti folksoul (It's Gonna Take An Airplane) o nel vivido manifestarsi di indefinibili azzardi (la teatralità glam con tentazioni electro dell'iniziale Notorious Lightning, il sincretismo kosher/RnB/synth-pop di New Ways Of Living, dal curioso retrogusto Robyn Hitchcock), ti contagia e ne capisci subito la forza, la capacità di annidarsi nel campionario delle percezioni d'ogni giorno. E' un disco insomma di cui è facile innamorarsi, tanto da farci affrontare la sua complessità con un entusiasmo che la rende immediata. Certo, non un amore grande quanto quello di Dan Bejar per il proprio progetto, cosa che alla lunga lascia affiorare chiari segni di compiacimento, di scenografie debordanti sulla sostanza: è una caligine stagnante che storce il respiro, falsa i sapori in gola, spingendo al respiro corto, ai passaggi veloci e non troppo frequenti. Rientra nei tipici effetti collaterali del genere, per cui tutto a posto. Ma in virtù di ciò Your Blues finisce per essere solo un buon disco, e poteva sfiorare il capolavoro. (7,0/10) Stefano Solventi Tribeca – Dragon Down (Labrador / Goodfellas) La, La, La Etc / Her Breast Were Still Small / Solitude / The Big Hurt / Kess / Hide Away / Modern Issues Of The Heart / Frozen Lake / The Kemikaze Me / Black / Electric Light / The Kid Electro-pop, new wave, kraut -rock: nessuno può negare che il 2004 abbia vissuto un neoclassicismo anni ’80 di dimensioni spropositate. Questo rigurgito ha prodotto, nella maggior parte dei casi, materiale decisamente interessante, grazie al continuo ripresentarsi di queste influenze con abiti nuovi e attuali. Ora, l’uscita di questo disco dei Tribeca chiarisce almeno un paio di cosette, e non di poco conto. Intanto questo duo, Lasse Lindh e Claes Björklund, proviene da Stoccolma, che proprio al centro di particolari e sensazionali scene musicali non è. E giusto la questione geografica ci porta dritti al secondo motivo d’interesse: la Labrador è ormai una certezza conclamata, grazie al lavoro svolto della quale si deve una certa visibilità per i gruppi svedesi, alcuni dei quali di sicuro valore (come non pensare al piccolo caso dei Radio Dept., vera rivelazione degli ultimi mesi con il successo di Lesser Matters?). I Tribeca hanno confezionato un disco di elettropop gustoso e abbastanza fresco, maneggiando un genere con padronanza, ma senza creare squilibri epocali. Si parte forte, subito, coi due minuti di La, La, La, Etc., fin troppo derivativa, ma immediata e ben calibrata nei riferimenti. Her Breasts Were Still Small svela una certa malizia, che compare spesso nelle liriche - e nel portamento vocale - di Lindh, mentre Solitude spinge all’estremo le tendenze pop del duo, con malcelate aspirazioni da classifica. In effetti il pensiero vola in fretta proprio ai compari più talentuosi di scuderia (gli stessi Radio Dept.) e alle loro melodie indie ingenue e sognanti. Big Hurt, elegia dedicata ai “broken hearts”, non nasconde una certa tenebrosità alla Depeche Mode, per poi schiantarsi impazzita in una corsa technoide ad occhi chiusi. C’è poi spazio per le concessioni downSentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 24 tempo di Kess ( e dopo di Frozen Lake ), e per i vagheggiamenti orientali di Hide away, proprio mentre Modern Issues Of The Heart tenta la scalata di un’ipotetica chart “one shot ’80”. Il rischio è che Lindh si compiaccia troppo di questa enfasi maliziosa e che la sua vocalità calda e sinuosa spesso si mostri pretenziosa e ostentata, anche se questo in fondo non sposta di una virgola il nostro giudizio. Questo è un disco piacevole e ben fatto, che ci troveremo a canticchiare (e a ballare) più di quanto sperassimo. (6.8/10) Riccardo “Mimmi” Maselli Marianne Faithfull - Before The Poison (Na ïve, 2004) The Mystery Of Love / My Friends Have / Crazy Love / Last Song / No Child Of Mine / Before The Poison / There Is A Ghost / In The Factory / Desperanto / City Of Quartz Più vampira o parassita, Mrs. Faithfull? Il dibattito è aperto, ma non m’interessa. Certo è che la sua chioma ha ben saputo riflettere la luce delle tante stelle sfiorate lungo l’orbita, senza esplodere, implodere o imbolsirsi come spesso è capitato loro. Marianne, oggi, a quasi sessanta anni, appare infatti in formissima. Più che nel precedente Kissin’ Time – un buon disco che pagava qualcosa in termini di schizofrenia stilistica ad una mal calibrata compagine di "ospiti" - in questa ultima fatica interpreta con passione verace, ovvero biascica il suo irresistibile appeal di donna che ha vissuto dal lato sbagliato del marciapiede (quello cioè dove avveniva l’Indimenticabile), mettendo mano come di consueto a gran parte dei testi (con disarmante ricercatezza e sordida disinvoltura). Molto più che un elemento catalizzatore, la sua presenza (le parole, la voce, il corpo) è il solco che incanala le forma dell’espressione, il fine ultimo ideale per autori che le somigliano senza possedere quel suo particolare modo di far precipitare canzoni al livello del suolo, tra la carne e l’anima, e dell’una e dell’altra i tormenti. Tanto che ti viene il sospetto sia più lei a dare qualcosa a loro che non viceversa. Così, tanto a Polly Jean Harvey che alla stessa Marianne sembra stare benissimo il giochino dell’alter-ego reciproco, consumato in ben cinque pezzi su dieci di questo Before the Poison. La quasi anziana signora cavalca senza difficoltà la quadratura d’accordi scabra ed essenziale apparecchiata dalla (non più troppo giovane) ragazza del Dorset. Col valore aggiunto di una sconfinata consapevolezza che adombra barbagli di pietas per ogni tenebra (come nell’aspra disanima della title-track), un rimpianto per ciascun mistero (The Mistery Of Love, appunto, sintonizzato sulle vibrazioni trepide di Stories From The City, Stories From The Sea). Gli altri pezzi firmati PJ (che oltre la scrittura presta scampoli di voce e la tipica chitarra stopposa) sono In The Factory (folk-blues elettrificato a mestare penombre), la tesa My Friends Have (il riff granitico che è mancato in Uh Uh Her, col trascinante crescendo emotivo del canto) e la stupenda No Child Of Mine, ballatone in punta di cuore (nero), la malia cupa di quelle parole mormorate da una parte e ribadite (cantando) dall’altra, il piano che gocciola malanimo, il chorus che stempera pennellate di rassegnazione e speranza, quella breve coda che vira in clap-hand rurale, cioè pari-pari il pezzo omonimo presente su Uh Uh Her, quasi fosse un vero e proprio cordone ombelicale tra le due opere. Il resto del programma vede all’opera il Re Inchiostro in persona più contorno di sodali (ovvero Warren Ellis, Jim Sclavunos e Martin Casey). L’australiano conferma il buon momento di forma regalando due più che discrete ballate (la tetraggine insidiosa di There Is A Ghost – piano e synth a circoscrivere scenografie d’inquietudine – ed il romanticismo intossicato di Crazy Love – il piano e il violino ad evocare antichi capricci Brian Jones, ma forse è solo suggestione…) e una febbrile Desperanto, funky acido che Marianne attraversa con flemmatico trasporto, tra sax imbizzarriti, hammond gracchiante e un coro da taverna d’altroquando. Sorprendente è il contributo di Damon “Mr. Blur” Albarn, una ballata madreperla di stampo classico, bucolica e cameristica, cartilagine di chitarra, piano e archi incrinata da un’irrequietezza profonda, d’abbandono che slitta obliquo nell’abbraccio di un’angoscia sottile. Il valzer sospeso tra chincaglierie teatrali e carillon algido di City Of Quartz – firmato da Jon Brion, autore di colonne sonore (Magnolia, il recentissimo Se mi lasci ti cancello…) e produttore (Aimee Mann, Fiona Apple, Rufus Wainwright, Evan Dando…) – chiude degnamente un programma privo di cadute. Alla luce del quale viene voglia di riconsiderare il ruolo e l’importanza di Marianne Faithfull rispetto al carrozzone babilonico (il rock) che ci ha condotto fino a qui. Stefano Solventi SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 25 Kyrie - Le meccaniche del quinto (PMA / Audioglobe, 2004) Lipsia 1933 / L'uomo Macchina / Caffe' Viennese / Quello Che Non Vedo / Rifugi Culturali / Ritiro Estivo / Spazi Bianchi Come Nuvole / Decadenze / Nimloth Kirloth / Abbandonandomi Un pizzico di stralunatezza à la Battiato, il sobrio giovanilismo di Garbo e certo wave-pop in stile Cure sono alcuni ingredienti della formula vincente dei Kyrie, quintetto milanese capitanato da Piero Sciortino approdato quest'anno alla PMA Records (Revolver, Marco Sanchioni) dopo una lunga gavetta e numerosi demo. Le meccaniche del quinto unisce testi spensieratamente colti e pieni di immagini a chitarre di stampo indie-rock, un basso non lontano da Echo & The Bunnymen e soprattutto tastiere e synth che traghettano gli arrangiamenti verso atmosfere targate primi ’80; l’amalgama proposto nel corso delle undici tracce risulta così sicuramente riconoscibile, ma al tempo stesso freschissimo, tanta è la padronanza del gruppo con la materia affrontata. La scrittura visiva di Piero Sciortino rimanda a umori e epoche passate, accarezzando guerre e miserie urbane, libri di Kafka e architetture mitteleuropee; appoggiata su strutture semplici ma sempre azzeccate, rappresenta un must per chiunque volesse immergersi in sonorità di un certo tipo senza risultare posticcio o demodè. Tante le influenze musicali, dal Battiato che fa capolino nella traccia d'apertura Lipsia 1933 (già la vediamo cantata a memoria ai concerti) e in quella piccola epopea incalzante di assoli emotivi che è l'Uomo Macchina, al Garbo più indie che si fa strada in Caffè Viennese, quadretto decadente che saggia il tempo della capitale austriaca; dal Bowie lunare di Ashes to Ashes in Abbandonandomi (e nella relativa ghost track, memore di certe atmosfere decadenti del periodo berlinese), allo spirito noir dei Tuxedomoon in Decadenze, passando attraverso lo spleen romantico dei Sound (Quello che non vedo), evidente in certe dinamiche tra gli strumenti, e il folk apocalittico di Nimloth Kirloth. Altrove si fa prepotente l’impronta di Robert Smith, tanto di quello languido e giovanile di Three Imaginary Boys / Seventeen Seconds (miscelato ai primissimi New Order) in Ritiro Estivo che di quello più pop in Spazi Bianchi Come Nuvole, ma in generale l’ombra del deus ex machina dei Cure si estende su tutto il lavoro, specialmente nelle parti vocali e in certi assoli di chitarra che rimandano al suo stile degli esordi. In altre parole siamo a un passo da un autentico caso discografico; speriamo che i Kyrie godano del successo di pubblico che si meritano. (6.9/10) Edoardo Bridda e Antonio Puglia Frank Black – Frank Black Francis (SpinArt, 2004) Cd1 (1987 Black Francis acoustic demo) The Holyday Song / I’m Amazed / Rock A My Soul / Isla De Encanta / Caribou / Broken Face / Build High / Nimrod’s Son / Ed Is Dead / Subbacultcha / Boom Chickaboom / I’ve Been Tired / Break My Body / Oh My Golly / Vamos Cd2 (Frank Black with the Two Pale Boys) Caribou / Where Is My Mind? / Cactus / Nimrod’s Son / Levitate Me / Wave Of Mutilation / Monkey Gone To Heaven / Velouria / The Holiday Song / Into The White / Is She Weird / Subbacultcha / Planet Of Sound Reduce dal trionfale tour di reunion dei suoi Pixies, Frank Black ha ritenuto opportuno prolungare i festeggiamenti dando alle stampe questa raccolta in due volumi in cui celebra, a modo suo, il repertorio della storica band cui è indissolubilmente legato.Lungi dall’essere un mero greatest hits, Frank Black Francis (fusione dei due pseudonimi di Charles Thompson) è un progetto risalente a qualche anno fa quando, sull’onda della pubblicazione della raccolta Death to The Pixies e del live At the BBC, si cominciò a pensare alla release ufficiale di alcuni demo acustici realizzati da Black nel 1987, poco prima delle session di Come on Pilgrim. Ritenendo l’operazione in sé poco interessante, il Nostro ha pensato bene di chiudersi in studio con Andy Diagram e Keith Moline, ovvero i Two Pale Boys (già alla corte dell’ex Pere Ubu David Thomas) e rivitalizzare, ri-registrandoli, una quindicina di episodi del repertorio dei Pixies, dagli esordi fino al canto del cigno Trompe le Monde. Così, accanto a un primo cd di demo acustiche di indubbio valore filologico - in cui da quella chitarra strimpellata con violenza e da quella voce sottile e nevrotica s’intuisce già facilmente il potenziale esplosivo di quel materiale ancora acerbo -, ne abbiamo un secondo che, già dall’assunto di partenza (come suonerebbero le canzoni dei Pixies nel 2004?), si preannuncia SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 26 quantomeno affascinante.Per certi versi, il risultato è tanto straniante quanto sorprendente: se nelle mani di Santiago, Deal e Lovering le composizioni di Black si caratterizzavano per la loro fisicità, dopo il trattamento Two Pale Boys esse finiscono per assumere altri connotati, senza per questo venire snaturate. Ricorrendo a un arsenale di fiati, chitarre effettate, synth e campionatori, Diagram e Moline portano le canzoni dei Folletti verso un’altra dimensione; in un miracoloso passaggio dal corporeo all’incorporeo, ne esplorano le profondità, ne allargano gli spazi, ne dilatano i confini tra echi di ambient, space rock e psichedelia. Un viaggio attraverso un universo inesplorato e noto al tempo stesso, in cui Cactus procede per sinistri singulti, Wave of mutilation, Where is my mind e Caribou fluttuano tra effetti spaziali, Nimrod’s son viene rallentata all’inverosimile, The holyday song diventa un mambo lunare impostato sui fiati, Levitate me si perde tra chitarre dissonanti, drones elettronici e magici chimes. E poi Velouria, qui in una versione minimale trasfigurata da distorsioni spazio temporali, Subbacultcha, che viene completamente stravolta tra rumori digitali e ritmi waitsiani, e – dulcis in fundo - i 15 minuti finali di Planet of Sound che, guidata da un’acustica ossessiva e trombe in sottofondo, assume la forma di una Sister Ray siderale; il tutto in completo equilibrio con la voce, qui più controllata e addomesticata rispetto al passato, ma perfettamente funzionale alla nuova veste dei brani. Frank Black Francis finisce così per essere un ideale compendio del songwriting di Frank Black, tra memorie del passato e fascinazioni (futuribili?) del presente. In attesa del futuro (il nuovo lavoro del Nostro, previsto per la prossima primavera o addirittura, chissà, di un eventuale disco dei Pixies), c’è da esser più che contenti. (7,0/10) Antonio Puglia Joe Leaman - Truly Got Fishin' (Black Candy / Audioglobe, 2004) Alice's daydreamin' / She loves to ask / The way we dance / Sweet / Free karate / Fat people are not always happy as you could think / One on three (not bad!) / Syd / Boogienning / Everything makes a big noise fallin' Cambia l'etichetta, cambiano due elementi su tre in formazione, ma non cambia la sostanza: i Joe Leaman insistono a proporre la loro versione dei fatti in fatto di post-college rock (numi tutelari Hüsker Dü e Pixies, con qualche inchino ai genietti Buffalo Tom e Built To Spill). Una bella soddisfazione personale, se vogliamo, per Giancarlo Frigieri, bassista, voce e autore di tutto o quasi il campionario, unico superstite del nucleo originale. E quindi, com'è questo nuovo lavoro, il quarto per la band emiliana? Un buon album, suonato con puntiglio ed energia, in cui la devozione ai modelli di riferimento va a braccetto con l'intensità della scrittura e la padronanza della materia. In cui tutto sembra architettato con il semplice scopo di venire incontro alle tipiche esigenze dell'ascoltatore rock. Quindi: energia, rabbia e divertimento, più una spolverata d'allucinazioni che - si sa - non guasta. Anche la scaletta gioca in questo senso: i primi tre ceffoni iniziali (dal punk-blues deteriorato di Alice's daydreamin allo sgargiante allarme garage-pop di The way we dance passando dal riffarama sventagliante di She loves to ask) innescano la spoletta di un'esplosione che i tre hanno tutta l'intenzione di controllare, tirando prima il freno con Sweet (tensione placida in sella al basso, chitarra swingante, drumming votato a minuterie free, i Morphine dietro l'angolo), mollando un po' l'onda d'urto con Free Karate (alla ricerca dell'equilibrio perfetto Pixies-Hüsker Dü, con un piccolo aiuto degli amici Julie's Haircut) per quindi convogliarla nel valzer intriso di doglianze country in ascendenza psych/jazz di Fat people are not always happy as you could think (i Willard Grant Conspiracy alle prese con un'ombra sfuggita alle grinfie di Mark Lanegan, bello il lavoro di Fiamma ai cori). Da qui in avanti il programma procede con la disinvoltura di chi ha ben saputo rompere il ghiaccio, permettendosi la tensione sbrigliata dei Sonic Youth più leggeri in One on three (not bad!), il post punk onirico à la Foo Fighters di Syd e quindi il RnB fifties tanto accomodante quanto sorprendente di Boogienning (in cui il malanimo si mimetizza tra chitarrine e coretti un po' come nella Last Kiss rifatta dai Pearl Jam). Chiude la partita - sorta di madre di tutti i commiati - la cavalcata acida di Everything makes a big noise fallin', materia che sgorga con lentezza da suggestioni frastagliate, accenni jazzy e feedback senza domicilio che si aggregano in blues bradicardico e allarmato, un po' di propensione cosmica Floyd, di benedetta corposità Crazy Horse e un pizzico appena di apocalissi acida King Crimson (i primi, eh...).Un disco capace di dribblare la questione dell'originalità grazie a un'immediatezza flagrante, quasi che i Joe Leaman parlassero il rock come una lingua madre, senza prima tradursela in testa. Magari non hanno i mezzi per sconvolgerti la vita, ma quei cinquanta minuti d'eccitazione te li regalano eccome. (6,8/10) Stefano Solventi SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 27 ALTRI ALBUM Depistado - The Emergency Response (Jade Tree, June 22, 2004) Aria di revival nineties? Dopo la scorpacciata post-punk e funk punk degli ultimi anni qualcuno ha già pensato di riesumare alcune delle sonorità del decennio appena trascorso? Se ignorassimo la ragione sociale dell'etichetta che ha messo sotto contratto questi quattro ragazzi canadesi al loro EP d'esordio non avremmo dubbi: i Depistado sono una band Dischord, e in quella casa ci troviamo sin dalla traccia d'apertura. A Stirstick's Prediction presenta infatti il tipico canto rabbioso, bofonchiato e melodicamente ubriaco del primo Ian McKaye, mentre le chitarre taglienti e precise come rasoi (angolari, s'è spesso rimarcato) portano dritte alla calligrafia di Guy Picciotto, ed anche la stessa struttura portante del brano (cambi di tempo e soprattutto tipiche pose antemiche tra punk e college rock) è la copia carbone di una delle band che hanno maggiormente segnato l'Hardcore negli anni novanta. Parliamo ovviamente dei Fugazi, un gruppo che i Nostri - salvo qualche giro nei sottoscala dei Black Eyes (sempre un'odierna band Dischord!) - debbono aver apprezzato non poco. Eppure, anche se un'emulazione troppo riverente è sicuramente un problema per chi conosce bene i referenti del gruppo, The Emergency Response non difetta sicuramente di una buona energia, seppur intrappolato in sonorità piuttosto note. L'affiatamento dei quattro, come nel caso della già citata opening track, è evidente tanto che essi sembrano, almeno in quell'occasione, marciare sicuri come se stessero incidendo un brano di Repeater (album dei Fugazi del 1989). Non solo: anche in altri episodi - Taste This Picture e Bubbles - l'energia è palpabile tanto negli ostinati intrecci chitarristici che nei coretti smaccatamente Rapture-iani. Tra momenti febbricitanti e stasi per scale di note in souplesse, sorvolando su alcuni episodi da "pilota automatico", il bilancio di questa manciata di proiettili è sicuramente positivo. Non ci resta che confidare in una maggiore originalità e personalità per la prova maggiore, prevista a breve. (6.0/10) Edoardo Bridda Ariel Pink’s Haunted Grafitti - The Doldrums (Paw Tracks, 2004) Continua l’ottimo lavoro della Paw Tracks (etichetta di proprietà degli Animal Collective). Dopo varie uscite appartenenti all’orbita del collettivo animale (tra cui l’ottimo Young Prayer di Panda Bear), è ora la volta del primo estraneo alla famiglia, Arial Pink. Giovane allampanato losangelino, già titolare di un numero imprecisato di uscite nel circuito off, Arial Pink's Haunted Graffiti (questo è il nome per esteso) ha la possibilità di uscire dall’anonimato grazie all'interessamento di Panda Bear & Co. Le notizie su The Doldrums ci dicono di un album nato come cd-r casalingo, registrato su un otto tracce con sole voce, chitarra e tastiere (la batteria che si sente dovrebbe essere frutto dell'ugola di Arial), presumibilmente in una stanza dalle pareti tappezzate con poster di Brian Wilson e Todd Rundgren. Sì, perché è proprio dalle parti loro che vanno a parare le piccole pillole contenute nel dischetto. Sono visioni distorte e sghembe del pop, puzzle imprevedibili e proprio per questo inclini all’effetto sorpresa. Tra il falsetto sonnolento di Strange Fires, le trame melodiche di Among Dreams, il croonerismo abulico di Gray Sunset e lo slaker pop di Envelopes Another Day, sembra di ascoltare contemporaneamente Pet Sounds e A Wizard, A True Star. Un mare di idee che pur parlando la stessa lingua non coincidono sempre perfettamente (la seconda metà del disco, tranne Let's Build a Campfire There, è emblematica in tal senso). Ingenuità perdonabilissime, visto come il nostro affronta la tortuosa strada che porta alla melodia (quasi) perfetta. I miglioramenti sono d’obbligo; per ora la sufficienza è più che meritata. (6.0/10) Gianni Avella Clinic – Winchester Cathedral (Domino, 2004) Tornano i liverpooliani Clinic, una delle band più interessanti ed acclamate del panorama indipendente britannico degli ultimi anni. Formatosi nel 1997, il gruppo può vantare un curriculum di tutto rispetto: tre - ottimi - Ep di presentazione, considerati un must da ogni appassionato di indie (in tal senso, la Beta Band insegna), la fondamentale spinta dell’airplay del compianto John Peel, un primo album (Internal Wrangler) lodato un po’ ovunque dalla critica, un tour di supporto ai Radiohead (2001), un’immagine cool quanto basta (camici bianchi e mascherine sul viso). Comunque sia, dopo la consacrazione indie di Walking With Thee (2002) la loro ascesa sembra comunque essersi fermata, la loro creatività essere quantomeno in fase di SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 28 stallo. Winchester Cathedral non apporta sostanzialmente nessun elemento di novità alla consolidata formula wave-psych del quartetto: basta il solo brano di apertura Country Mile per ripiombare direttamente nelle atmosfere spettrali ed ipnotiche del lavoro precedente, in una ripetizione di stilemi indubbiamente personali ed affascinanti (ritmo in quattro quarti, riff di chitarra circolare e ossessivo, interventi inquietanti di diamonica - o clarinetto -, voce bofonchiata e lamentosa del leader Ade Blackburn, sorta di Thom Yorke post Ok Computer in acido) ma, a lungo andare, sfiancanti. Intendiamoci, non siamo in presenza di un cattivo lavoro: i Clinic restano maestri nel saper creare quadretti angosciosi di indubbia efficacia, caratterizzati ora da un piano martellante dal suono rigorosamente vintage (Circle Of Fifths, di cui Fingers è la fotocopia), ora da una violenta slide guitar e un organo doorsiano (lo strumentale Vertical Take Off In Egypt), ora dal basso usato melodicamente à la Joy Division (Anne), ora da pulsioni dance-wave (The Magician)... ma alla fine prevale la fastidiosa sensazione del già sentito. E se la ballata psichedelica dal sapore floydiano Home, lo sparatissimo garage punk rock di marca Stooges W.D.Y.Y.B. e gli stranianti walzerini da giostra acida Falstaff e August riescono a variare leggermente il panorama sonoro, è comunque un po’ troppo poco per imprimere al disco un’identità diversa.Episodio sicuramente interlocutorio, Winchester Cathedral non aggiunge niente di nuovo a quanto già espresso dai - pur bravi - Clinic. Se non li conoscete, può essere un ascolto interessante. In caso contrario, passate pure oltre. (5,9/10) Antonio Puglia Hormiga - Shore (Ghost / Audioglobe, 2004) Negli ultimi anni, mentre il post-rock non è più post (ma neanche pre), una via italiana a questa sensibilità musicale ha preso piede in svariate città. Bologna, con gruppi promettenti quali Franklin Delano e My Own Parasite, sembra essere l'attuale epicentro di un fenomeno che da qualche anno ha attecchito in Italia - particolarmente al nord ovest - grazie a capiscuola come Giardini di Mirò (Reggio Emilia) e Gatto Ciliegia (Torino), senza tralasciare la vivacità di centri come Pavia (Ultraviolet makes me sick) e Roma (Blueprint). Non per ultima parliamo ben volentieri di Varese, città dove ha sede la Ghost Records (insignita ultimamente del titolo di Etichetta dell'anno 2004), che ha dato occasione di emergere a realtà poprock come i Merci Miss Monroe e che ora punta sugli umori introspettivi di questi Hormiga. Shore è l'album d'esordio del quartetto lombardo, un lavoro che evidenzia debiti evidenti verso gruppi quali Low, Califone (e più indietro Dirty Three, Labradford e Aerial M) e che pertanto si caratterizza su sonorità già note al pubblico affezionato a quelle realtà. Nelle dodici tracce, perlopiù strumentali, si passa da nostalgiche fotografie ambientali a sinistri presagi mai svelati, dagli odori dell'autunno alla quiete del focolare domestico; è il caso di First Drop, con i suoi refrain ariosi, le tinte avvolgenti dell'elettronica e quell'andamento tra l'intimità e avventura, o del prezioso gioco chitarra-basso a mo' di Tortoise su una field recording (simile ad un armeggio di corde sul ponte di una nave) in Happy Birthday Mr President, od ancora di Tokyo, che ricorda la timida sensibilità di certi Gastr Del Sol. Meno convincenti (e forse un po' col pilota automatico) Es Una Hormiga e I'll Fly Like Walter Stein, che sembrano già sentite una volta di troppo (indigestione da David Grubbs o Dave Pajo?); infine, piuttosto negativi gli sporadici approcci melodico-lirici di The Girls Leave The Circus - un buon lento pianistico dai sapori mitteleuropei - e la vagamente wyattiana The Moles Way Of Life. Pur sobriamente ed amabilmente psichedelici, a tratti cameristici e - anche se in maniera un po’ troppo ortodossa e languida - naturalmente folk, gli Hormiga galleggiano senza sosta sulla linea di confine della citazione. L'ambientazione sonora è convincente, ben prodotta e arrangiata e il pathos non manca, ma la sensazione è che dovrebbero - e potrebbero - spingersi maggiormente verso territori inesplorati e sì, migliorare (o togliere del tutto) le parti cantate. (6.3/10) Edoardo Bridda Pedro The Lion - Achilles Heel (Jade Tree, 2004) Per David Bazan / Pedro The Lion ritorna, con cadenza biennale, l’appuntamento col miglioramento. Ora, alla sua quarta prova, sforna un ottimo prodotto di quel particolare indie-rock chitarristico suburbano, indefinitamente perso fra The Town and the City, fra infanzia ed età adulta, fra “voglio” e “non posso”, in un eterno gioco di nostalgie ed aspettative fra i due termini. In breve: camminiamo dalle parti di quel noto mood spesso definito “emo”, ruminante lo slowcore ed il lo-fi folk delle province (Bedhead, Codeine, Sebadoh fino a San Neil Young) come il guitar-pop della metropoli (il nome dei Coldplay balza continuamente all’orecchio). Il referente più vicino è Lou Barlow, ma la “lettera” di David Bazan, leader e SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 29 quasi one-man-band, gode di una forte autonomia fatta di ubbie religiose, indolenza, sagacia, malinconia, timidezza e mille altri aromi nascosti fra le pennellate spesso lente ma insistenti di questo album. Le tracce tendono tutte verso la medesima direzione, spostando millimetricamente le coordinate l’una dall’altra, ma sarebbe frustrante definire il complesso monotono. Ogni pezzo ha il suo valore indipendente che va colto con attenzione come Bands With Managers (in apertura), Discretion, la beatlesiana Keep Swingin, o il commiato acustico di Poison. Così, quello che doveva essere il “tallone d’achille” si rivela invece come il punto di forza di Bazan lasciando perennemente arguire che il miglioramento, personale e artistico, sia sempre possibile.(7.0/10) Lorenzo Filipaz Artemoltobuffa - Stanotte/stamattina (aiuola, 2004) Artemoltobuffa è l'anagramma di Alberto Muffato. Oppure il contrario. Cioè, parliamone: il fatto di nascondersi dietro uno pseudonimo che "contiene" se stesso, permette al cantautore (Muffato) di manifestarsi/dissolversi nell'alter-ego (Artemoltobuffa), così da potersi dedicare ad un pop-rock "indiedelico" con qualche evidente radicamento "indigeno". Artemoltobuffa quindi come uno dei (tanti?) possibili aspetti che il pop italiano potrebbe assumere qualora sapesse svincolarsi dalla propria tradizione senza rinnegarla, accogliendo effluvi angloamericani senza per questo rimanerne soggiogato? Forse. Senz'altro. Perché no? Vabbè, torniamo sul "pezzo", cioè al disco in questione: Stanotte/Stamattina è l'esordio ufficiale di Artemoltobuffa dopo un paio di lavori autarchico-artigianali, undici tracce che spalmano la sbrigliatezza dei Pavement sulla poetica amara e distaccata di Samuele Bersani, aspergono retaggi Gino Paoli tra evanescenze Yo La Tengo (stentate a crederlo? Provate con Muratori Sul Tetto), sfilacciano strutture e contorni di folk sospesi quasi come le peregrinazioni apolidi di certo Jim O' Rourke, infarcendo infine tutto l'orticello sonoro di stuzzicanti piantine sintetiche. Le canzoni sono acquerelli teneri e malinconie briose, giochi post-adolescenziali immersi in dolciastro surrealismo, canovacci pettinati da un'appropriatissima voce malferma: nulla cioè che mi provochi un trabocco di termini entusiastici, ma "soltanto" qualcosa da cui mi lascio ben volentieri accompagnare, almeno per un po'. Che si tratti di folk ballad cartilaginosa (Pomeriggio d'asma) o di pop elettrico tra cascami wave (I tuoi denti, deliri Max Gazzé e un organino che scomoda i Cure più fiabeschi), che sia l'incedere Bersani tra sghembezze Pavement de Il mio nome è un lago (più l'armonica, gli ottoni, il piano elettrico, gli astrusi coretti Beach Boys...) o il gioco di sponda tra Perturbazione e Mario Venuti di C.E. Gadda e l'estate (pulsazioni sintetiche e coretto samplerizzato, organo e campanellini), eccetera. Il bello di scrivere recensioni un po' in ritardo è la possibilità di fare le pulci (bastardamente) alle recensioni già pubblicate: ne approfitto dunque per biasimare la profusione d'aggettivi, tendenti all'assoluto, dedicati alla title-track (in pratica un manifesto poetico/formale, col suo propugnare disincanto Perturbazione, puntiglio Bersani e verve Malkmus), che gira e rigira mi pare oggetto carino e poco più. Piuttosto, degne di maggior nota mi sembrano La scena patetica, con le sue ombrosità spigolose e le corde in bilico sull'atonale, e la conclusiva Hulk nella montagna, con la sua psichedelia sedat(iv)a Red House Painters - spazzola che collassa sul rullante, chitarre un carillon di mestizia - e sorniona attitudine sintetica in decollo rumoristico (un po' come i fall out apparecchiati da O'Rourke per i commensali Wilco), germogli di una visione sonora meno indulgente, più acida e sbrigliata, come ribadisce il vento di rifrazioni seventies che scompagina la liberatoria ghost track. In conclusione, sono abbastanza certo che tra un mese non sentirò più molto bisogno di questo disco, ma con pressoché identica convinzione so che rimarrà come il perfetto biglietto da visita di questo - massì - cantautore, uno capace di gettarsi oltre l'ostacolo con la leggerezza di chi ha più futuro che passato. (6,5/10) Stefano Solventi The Fall – Interim (Hip Priest/Voiceprint, 2004) A Mark E. Smith e i suoi Fall non piace stare lontani dal catalogo delle nuove uscite per più di qualche mese e quindi, senza neanche darci il tempo di riprenderci dall’ottimo Real New Fall Lp - uscito appena un anno fa – ci viene propinato questo Interim – Rehearsals + Live Aug.Sept. ‘04. Come ben si può intuire dal titolo (“fall interim” in inglese indica il periodo di riposo tra l’estate e l’autunno, ovvero quello in cui l'album è stato realizzato), questo è dischetto “interinale”, una raccolta pubblicata per prendere tempo tra un Lp e l'altro. Se è pur vero che la band mancuniana non ha mai rinunciato a questa pratica SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 30 (da più di venti anni la prassi è di almeno uno/due album l'anno, e quasi mai tutti di interi inediti), stavolta l’ineffabile Smith, col pretesto di testare l’ennesima nuova formazione, ha assemblato poco più di quaranta minuti tra prove e registrazioni dal vivo; considerando che la maggior parte del materiale proposto è già edito o reperibile in versioni migliori, il piatto piange. Nello specifico, l’interesse si restringe a tre nuovi brani già eseguiti nel corso dell’ultima - in senso assoluto, purtroppo - Peel Session del 12 Agosto scorso, All Clasp Hands (classico boogie di marca Fall), Blindness (guidata da un basso ossessivo) e What About Us? (rock in 4/4 dal contagioso groove di chitarre), tutti in versioni inferiori rispetto allo show radiofonico, più tre inediti (presumibilmente in fase di lavorazione), I'm Ronney The Oney (barbaramente tagliata dopo appena un minuto e mezzo), Mod Mock Goth e Mere Pseud Mag Ed; il resto del programma consta di tre versioni live di episodi da Real New Fall Ep (i cui titoli vengono adeguatamente storpiati secondo la tradizione anarchica del gruppo: Green-Eyed Snorkel, Sparta Fc No.3, Boxctosis Alarum) e di un paio di reperti dal catalogo storico (Wrong Place da I am Kurious Oranj, 1988 e Spoilt Victorian Childe da This Nation’s Saving Grace, 1985). Un discorso a parte va fatto per la qualità sonora, a dir poco amatoriale: sono frequenti gli sbalzi di volume, il bilanciamento dei suoni è praticamente assente, un paio di brani sono il risultato di due take incollate tra loro alla bell’e meglio; in contrasto con la produzione accurata dell’ultimo disco, si potrebbe anche pensare ad un ritorno alle sonorità grezze e dirette dei Fall dei vecchi tempi, ma è davvero troppo poco per giudicare se si tratti di precisa scelta estetica o di semplice, autoindulgente trascuratezza. Lavoro assolutamente prescindibile, Interim va preso per quello che è, ovvero l'ennesima oddity di MES; può tuttavia essere un piacevole – e bizzarro – diversivo in attesa di un “vero” disco dei Fall. Solo se siete fan, s’intende. (6,3/10) Antonio Puglia Paul Weller - Studio 150 (V2, 2004) Paul Weller, ne sono certo, è uno che se potesse si strapperebbe dalla pelle quei vent’anni di troppo. Mercanteggerebbe l’anima – l’heavy soul che si ritrova – col primo demonio a portata di mano per poter scorazzare di nuovo sui palchi davanti a folle osannanti come gli amici amatissimi (chissà poi perché) Oasis, per recuperare quel brio formidabile e scostante che gli consentì di mordere la breccia sotto l’egida di Jam e Style Councyl. Tuttavia, è anche senza dubbio una persona pratica, capace di scendere a patti, di fare scelte non definibili diversamente che opportune. Ed ecco allora Studio 150 (dal nome dello studio di Amsterdam dove è stato registrato), sorta di dichiarazione d’amore in dodici atti a certa musica che segnò e segna le coordinate artistiche di Mr. Weller (o ne allieta la “maturità”, chioserebbero i maligni). Il soul è sempre ben posizionato al centro dell’obiettivo, ma il mirino trema dalle parti del funky (come nella gracchiante tensione di Hercules, a firma Aaron Neville) e del folk (la lirica Early Morning Rain, di Gordon Lightfoot), dello stomp (l’enfasi ammiccante di One Way Road presa in prestito dai fratellini Gallagher – perdonatemi se non conosco l’originale) e del R’n’B’ più asciutto (l’iniziale If I Could Only Be Sure), concedendosi sprazzi “disco” opportunamente “folkizzati” (la suadente Thinking Of You, in cui la chitarra acustica vuole essere una sorta di base solida per gli svolazzi degli archi e l’evanescenza del vibrafono). L’impressione d’insieme è di un abito splendidamente cucito attorno al vocione rugoso di Paul, tanto da sembrare il genuino omaggio ad un’epoca, un modo di confezionare le orchestrazioni - e il conseguente mood – che non si usa più, per un insieme di ragioni che non è il caso d’indagare qui. E’ piuttosto il caso di puntare l’indice (accusatorio) sulla sostanziale penuria di urgenza, di quell’anima sofferente che del soul è motivo e sostanza, lasciando queste tracce allo stato di esercizi puri, e non sempre azzeccati. Se infatti la The Bottle di Gil Scott Heron azzecca un muro di suono dalla contagiosa concitazione (la spinta scintillante degli ottoni e i graffi del wah wah, il flauto scorazzante ed il basso turgido, la cruda energia della chitarra acustica e un assolo efficacissimo di sax), la dylaniana All Along The Watchtower – quando si dice scegliersi una brutta gatta da pelare – va tristemente ad impantanarsi in una fervida carnevalata gospel-blues (inappropriata l’enfasi del coro, noioso il cartiglio di chitarra, prevedibile il lavorio dell’organo). Tenendo ferma la bella distribuzione e il calore dei suoni, volano invero basse le riletture di Wishing On A Star (hit stritolacuori di Rose Royce) e Close To You (blandizie caramellosa dei The Carpenters), così come il traditional Black Is The Color oscilla tra sentita devozione ed eccessivo formalismo (è tanto scontata quanto irritante la combine organo-violino). Non va molto meglio con Don’t Make Promises, anche se in effetti è dura giocare con le ombre di Tim Hardin, tanto più con un pezzo così, che se sbagli di un millimetro finisci col sembrare i Blues Brothers. Un po’ meglio invece con la conclusiva Birds, trepido gioiello Neil Young, se non altro per lo sbrigativo appeal northern-soul della prima parte, prima cioè che un improvvido orgasmo gospel (ancora!) ne gambizzi a morte la SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 31 bellezza ombrosa e sgusciante. Se andate in cerca di una rassicurante rassegna di titoli abbastanza “minori” da non farvi passare per tipi banali, se li volete arrangiati e registrati con brillante canonicità, se tenete l’Unplugged di Eric Clapton sempre a portata di autoradio, pare proprio che questo splendido mestierante cinquantenne abbia licenziato il disco che fa per voi. Quanto all’anima, dovrete accontentarvi di una fotografia. Patinata. (5,6/10) Stefano Solventi Ana Da Silva - The Lighthouse (Chicks On Speed Records/Wide, 2004) Non paghe di essere vere e proprie icone dell’electroclash, le Chicks On Speed si dilettano a scovare o ritrovare piccole donne rock cadute nel dimenticatoio. Dopo il ripescaggio di Tina Weymouth dei Talking Heads - con relativa Wordy Rappinghood, figlia del side-project con il marito Chris Frantz chiamato Tom Tom Club -, oggi tocca alla reginetta delle Raincoats Ana Da Silva, scritturata per la Chicks On Speed Records e pronta per le masse assatanate di deja-vu alla So 80's. Lei, la voce incantevole dell’altrettanto incantevole Odyshape (il disco dell'81 che, grazie alla propaganda di Kurt Cobain, favorì la reunion delle Raincoats nel 1996, Looking In The Shadows), ritorna dopo anni di oblio, cimentandosi in dieci brani dal sapore insolitamente retrò e melodrammatico. Dopo essersi dotata di una piccola tastiera, un sequencer e un non meglio identificato strumento digitale, la neocantautrice ha composto queste canzoncine senza né arte né parte, in cui ha fatto confluire basi preparate per la dancefloor domenicale, influenze da musical ed elementi dark anni Ottanta. Molte note di The Lighthouse non fanno altro che riprendere sotto forma digitale il folk-dub espresso ventitré anni prima nel citato Odyshape (si ascoltino Friend, Two Windows Over The Wings, Running In The Rain, Sister), e quando si va oltre non bastano una cover di Jobim (Modinha) e qualche arazzo wave (In Awe Of A Painting) a far gridare al miracoloso ritorno. Benché ancora piacevole e vellutata, poi, a un ascolto prolungato la voce di Ana risulta stucchevole e troppo barocca, e neanche la sorregge una scrittura incisiva o quantomeno convincente. Per ora ci basti comunque sapere che l’ex Raincoats è di nuovo tra noi; magari servirà da incentivo per (ri)scoprire (e ristampare) il vecchio catalogo della band. (5.0/10) Gianni Avella Blevin Blectum - Magic Maple (Paramedia / Bleakhouse, 2004) Malefici puffi armati di trapano e basso crescono? Questo vien da chiedersi ascoltando il nuovo lavoro - e dando un’occhiata al package ricco di testi, giochi e disegni - dell'ex Blectum From Blechdom, Blevin Blectum. Il terzo album della musicista non abbandona i famigerati espedienti frullatore che hanno reso famosa la cosiddetta scuola di S. Francisco (Matmos, Lesser, Kid606…), ma non disdegna neppure un qualche tema conduttore. Seppur nell’irriverente citazione, Magic Maple possiede un filo rosso che sembra condurci allo smalto della west-coast e persino alle voluttuose acrobazie del prog. Ne è un esempio Pelican, suite in quattro parti che scorre veloce e (imprevedibilmente) prevedibile: mescola di tutto - cosmica, exotica, drum’n’bass e tribalismi – mantenendo altresì una certa coesione. Lo stesso accade per i breakbeat e i ragamuffin passati ai solventi dei Mouse On Mars, fluidificanti sparsi un po' a prezzemolo nel disco che si mescolano a quelli più aspri dell’elettronica d’assalto. Dalla summenzionata suite alle molte sabbie mobili di una futurologia proprio come la vorrebbe Karin Andersen, in brani come As A Bird Watches The Eyes of a Snake, Oddly Angled Room, Ease e Last Track è l’ironia a farla da padrone, beffa grazie alla quale seghe elettriche e voci aliene posso tranquillamente convivere con Hanna e Barbera e Star Trek, creando un effetto di curiosità più che suscitare l’effimero piacere del trash. È proprio attraverso questa leggerezza e naivetè al fulmicotone che Blectum convince e si distingue rispetto all’amico e compagno d’avventure Lesser. Entrambi si domandano dove andrà a finire l’indie-tronica al laptop (di cui sono stati indubbiamente protagonisti ed eroi per più di un giorno), eppure mentre il secondo cerca una propria via alla maturità senza trovarla, la prima rimane l’impertinente, accattivante, stordita sognatrice che è sempre stata. L'acero magico è pertanto una raccolta di brani intriganti e variegati che, pur contemplando entrambe le posizioni, non eccede né in funambolismi digital à la Kid 606 né in prese di posizione “adulte”. In definitiva potrebbe avvicinare un pubblico nuovo all’artista, senza che per questo lo zoccolo duro dei fan ne rimanga deluso. (6.3/10) Edoardo Bridda SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 32 Phosphorescent - The Weight Of Flight ep (Warm / Wide, 2004) Matthew Houck da Athens, Georgia, è il centro di gravità permanente dei Phosphorescent, entità attorno a cui si arrabatta una stuola di amici (e) musicisti per quel "piccolo aiuto" necessario a confezionare questo ep, secondo lavoro dopo l'esordio A Hundred Times Or More (2002), di cui in buona sostanza ripercorre la cifra stilistica. Ovvero, alt-country un po' sciroccato e un po' indolenzito stile Will Oldham (nel quadretto da retrofienile di When We Fall - grazioso stomp a base di clap hand, piano e ottoni sommessi - e come nel valzerone tutto farragini di corde, luce tiepida d'organo e voce increspata di All Of It, All) nonché sguardo brancolante nel (proprio) buio alla maniera di Jason Molina (vedi la mestizia bradicardica dell'iniziale Toes Out To Sea ed il lento, coinvolgente schiudersi elettrico di Not Right, You Know in un empito accalorato di fiati, organo, accordion...), riferimenti cardine di cui i Phosphorescent sembrano talora dei credibilissimi succedanei e talaltra ovviabili epigoni, dipende da quanta voglia abbiamo ancora di percorrere questi sentieri. Giocano a favore di Mr. Houck la naturalezza anzi la tenerezza con cui si tuffa nel brodo di speranze e visioni del giovane Dylan, riemergendo con una ballata esile e commovente (il tremolio dell'organo, il baluginio dei synth, l'eco chiesastico di quel canto rattrappito in Mrs. Juliette Low), e il cuore che mette nel confezionare la cover di My Heroes Have Always Been Cowboys (pezzo firmato Willie Nelson, il trillare mesto delle corde, quelle folate ombrose di tastiera, la voce sputata quella di Oldham), quanto basta a non farmelo gettare nel calderone delle eccedenze, rigirarmelo un altro po' nello stereo ed attendere con una certa curiosità la prossima prova in lungo. Per la quale, immagino, non dovremmo attendere molto. (6,2/10) Stefano Solventi Nikki Sudden - Treasure Island (Secretly Canadian, 2004) Nikki Sudden è una vera e propria leggenda vivente della storia del rock. A metà degli anni Settanta, insieme al fratello Epic Soundtracks (morto nel ’97), diede origine agli Swell Maps, band inglese dai connubi punk-experimental-glam e dalle riproduzioni lo-fi in grado di influenzare, udite udite, formazioni come Sonic Youth, Pussy Galore, Rem, Pavement, Lemondheads e Mercury Rev Dopo aver registrato A Trip To Marineville (1979) e Jane From Occupied Europe (1980), nel 1982 Nikki inaugura con Waiting On Egypt la carriera solista, che metterà in luce tutto il talento di un rocker spregiudicato e senza frontiere. Il percorso sarà intervallato da un’altra significativa collaborazione, quella con il cantantechitarrista Dave Kusworth; dall’unione dei due - o se vogliamo dei tre, visto che alla batteria c’è sempre il fratello Paul "Epic Soundtracks" Godfrey - nascono nel 1984 gli Jacobites, assertori di un power pop-blues sobrio e primigenio, che raggiunge i momenti più belli con ballate impervie e malinconiche che ricordano Keith Richards, Johnny Thunders, Marc Bolan e i Velvet Underground. Nel frattempo Nikki ha ripreso la carriera solista: Texas (1986) è un album rigoroso e severo, che vede tra l’altro la partecipazione di Rowland Howard, ex Birthday Party e Crime And City Solution. Texas segna però un periodo di crisi, che l’artista di Birmingham riuscirà a superare brillantemente grazie alla testardaggine che soltanto un “punk” come lui poteva avere. Esibizionista, decadente, intimo e celebrativo, Sudden è capace di alternare episodi collettivi, tra i quali Fortune Of Fame (1988), Howling Good Times (1994), Old Scarlett (1995) e via discorrendo, a lavori personali come Groove (1989), Jewel Thief (1991), prodotto da Peter Buck dei Rem, e Red Brocade (1999), realizzato con la collaborazione dei Chamber Strings e di Jeff Tweedy dei Wilco. Navigando nelle stesse acque che lo hanno visto da trent'anni a questa parte vagabondo romantico e incorreggibile, Nikki il pirata si erge in questo scorcio di 2004 a paladino del buon vecchio rock’n’roll: Treasure Island è un’opera scrosciante e compatta per contenuti, forma ed equilibrio, in cui si fanno largo la malinconia di Russian River, Kitchen Blues e Highway Girl, l’isterismo di Fall Any Further, l’energia di Looking For A Friend e Treasure Island e le splendide ballate di When The Lord e Sanctified. Un lavoro d’indiscutibile fascino, che si agita tra i flutti sinuosi di Bob Dylan, Rolling Stones e Neil Young, anche se le canzoni di Nikki non sono mai riferimenti assoluti, ma semplici segni di appartenenza. Passaggi di una stessa rotta, insomma: dai canovacci blues di High and Lonesome ai retrogusti country di Break Up, solcando le intemperanze elettriche di Wooden Floor e House Of Cards. Ad accompagnarlo in questo incantevole viaggio ci pensano l'ex chitarrista degli Stones Mick Taylor, Ian McLagan (Faces) al piano e all’organo Hammond e Anthony Thistletwaite (Waterboys) al sassofono. Un tripudio di chitarre e sano intimismo per rendere omaggio al principe dei banditi: un uomo che disse di no ai Nirvana e che per amore di una splendida ucraina mandò all’aria un disco con Alex Chilton dei Big Star. Un loser, ma un grandissimo loser. (7.5/10) Luca D'Ambrosio SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 33 Tiromancino - Illusioni Parallele (Virgin, 2004) Che fosse sottile la distanza tra l'idea di popular "alto" (punto di fusione tra istanze avant e consuetudini radiofoniche, tra ricercatezza ed orecchiabilità) ed il suo lezioso reiterarsi, un po' lo sospettavamo. Ecco che, puntualmente, l'arte semplice (o semplificata) dei Tiromancino - alias Federico Zampaglione - aggiunge un altro capitolo al proprio percorso senza (più) ostacoli. Liscio, levigato, un discorso pop che dribbla le asperità con suadenti deviazioni, frequenta la complessità a patto che si presenti immediatamente digeribile (ovvero finge complessità che non mantiene), affascina in virtù di scenografie moderniste in fuga da qualsiasi tentazione d’avanguardia, si riproduce sfiorando l'auto-rappresentazione pura. Come prima più di prima, accoglie una trepida brezza sintetica in seno a soul disinnescati (le brume patinate de La terra vista dalla luna), corruga ad arte la superficie quando occorre (come in Apro gli occhi, dove un'urgenza radente pervade il tramestio ritmico, le corde risucchiate dal wah-wah, le forme della voce, i barlumi glitch versante Notwist) avvertendo però fin dall'inizio circa i limiti che non oltrepasserà (l’asprezza “addomesticata” nel chorus di Pericle il nero). Altrove il discorso fluisce setoso sulle tracce di mille ballate radiofoniche (tra)passate (il Marco Ferradini guarnito di ammennicoli atmosferici - riffettini di synth, refoli orchestrali - de L'autostrada), oppure molla la tensione liofilizzando un reggae facilino (la solennità inane di Amore Impossibile). Non va meglio quando indaga le residue possibilità di folk cyber-psichedelizzati (il melange Radiohead - due parti quelli di The Bends, una parte quelli di Kid A - di Cosa cerchi veramente), mentre riesce a sorprenderci quel tanto che basta quando con Verso nord si aggrappa ad un cartiglio di chitarra e a un organo dolenti come capita al Lanegan più mesto, intanto che la melodia sgrana un disincanto dritto alla stregua d’un bignamino Tenco (ospite la voce flautata di Nicole Pellicani). La title track, col suo gioco d'astrazione astrusa (le rifrazioni aeree e liquide tra cui zampilla la voce), col basso a perpetrare un mormorio tetro (di chiara ascendenza trip-hop), con i suoi minimi termini strutturali, rappresenta un apice sordo, nel senso di inesploso, non risolto, lavoro finito ma non rifinito. Idem dicasi per l'ottuso ordigno funk-blues di Esplode, cui né la ruvidità delle distorsioni né tantomeno la comparsata di Dario Ciffo (al violino) e Manuel Agnelli (a masticarsi in bocca metà dei versi) donano l’auspicato valore aggiunto, mentre l'ectoplasma funk-jazz di Attraversare la notte (battito digitale e drumming sfarfallante, evanescenze di synth e riccioli di chitarra, piano elettrico e sax campionato, voce filtrata-non filtrata a disperdere le tracce tra i piani della rappresentazione) vorrebbe architettare una conclusione preziosa riuscendoci però solo in parte, causa l'evidente carenza di corpo a riempire la macchinosità dell'abito. E allora? Allora, tanto di cappello per la capacità di sfornare ordigni pop dal fragrante stampo classico (Imparare dal vento si presenta fin da subito con le stimmate dell'hit stritolacuori) e per la scelta di coverizzare Felicità, vale a dire uno degli ultimi lavori commestibili di Lucio Dalla (trattato forse con eccessivo rispetto, visto come - arredi elettronici e feedback a parte - ripercorra devotamente l’originale). Ma il gioco s'e fatto ormai scoperto, il fascino dissolve poco dopo la lacerazione del cellophane, la mappa continua a segnare tesori già saccheggiati. Il paragone con gli "altri" Tiromancino - i "fuoriusciti" Zampaglione (cioé il fratello Francesco), Arzilli e Sinigallia, raggruppati attorno alla figura di quest'ultimo - mette spietatamente in evidenza la mancanza di visioni strutturate, d'irrequietezza autoriale. Manca cioè quello che in Sinigallia assume forme sì abbastanza risapute ma dotate di singolare calligrafia emotiva, di mistero che si schiude poco per volta e mai tutto intero, forme profonde perché pescate dall'anima senza altra mediazione che non il doverle mettere in musica al meglio. Qui invece tutto (volutamente) scivola in superficie, s'accontenta di - anzi persegue - filigrane e bozzetti, acquarelli e ologrammi, si gioca l’intera posta calando la carta di un'estetica palpitante calata come una nebbiolina a spandere un ineffabile magnetismo. Che però si volatilizza dopo tre ascolti. Un po’ poco. (5,1/10) Stefano Solventi Ian Brown – Solarized (Fiction, 2004) Ian Brown, padre riverito e modello vampirizzato - nonché vampiro a sua volta - del brit-pop (Liam Gallagher gli deve tutto, pure il look, ma si noti anche il sangue succhiato proprio da questo disco ai suoi figliocci Kula-Shaker), ritorna in pompa magna per ripetere sempre la stessa lezione ai suoi conterranei accoliti. Il succo del suo insegnamento è più esistenziale che musicale, se non addirittura manageriale: “Fai il botto finché sei giovine e poi mettiti subito in conserva”. I suoi allievi, Oasis in primis, seguono alla lettera la sua parola, ma forse sono troppo giovani o ancor meglio troppo irrimediabilmente sciatti per emulare la flemma di padre Brown, il suo stile nel mettere in pratica questo modus vivendi. Come ritardare il deperimento? SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 34 Infarcendosi di conservanti, coloranti, dolcificanti ed emulsionanti, of course, ed è questo che Ian Brown ha fatto nell'arco della sua carriera solista arrivando alla formula chimica più adatta in Solarized. La ricetta consiste nel mettere assieme una specifica miscela di produttori ed engineers affermati in determinati campi per trattare un impasto di base disco-blues, di per sé piuttosto anonimo, condito con abbondanti dosi di spezie orientali fornite dalla solida chitarra del fido Aziz Ibrahim (con cui ha firmato peraltro i pezzi più interessanti del disco, l'iniziale Longsight M13 e la title-track). Si aggiunga una spruzzatina di elettro-'80 portata da sapienti manopole già al servizio di Pet Shop Boys, Level 42, Marc Almond (Fitzmaurice al missaggio) inscindibile da un suono rarefatto tipicamente brit di chi ha lavorato con Art Of Noise, Groove Armada, Truby Trio e James Lavelle (Dan Bierton, Tim Hutton) e si rivesta il tutto di un'edulcorata glassa super-pop degna di prodotti come Kylie Minogue, Seal, Paul Oakenfold (Dave McCracken). Il risultato è di buona fattura, ben confezionato, uniforme (anche troppo) con poche, minime e funzionali uscite dagli schemi, come gli ottoni latini di Time Is My Everything (scritta con Tim Hutton, già collaboratore di Villalobos) o le suggestive atmosfere pinkfloydiane di Keep What Ya Got (scritta e suonata assieme a Noel Gallagher). Inevitabile però domandarsi quanto del sapore finale derivi dagli additivi chimici e quanto sia realmente genuino, come quando si è alle prese con una buona marca di maionese. In fondo di quest'album rimane solo lo stile, o la ricostruzione di uno stile, e dici poco. Del nostro voto, troppo alto per alcuni, troppo basso per altri, fatene un po' quello che vi pare, è irrilevante, noi andiamo ad ascoltarci un'altra volta Destiny Or Circumstance. (6,5/10) Lorenzo Filipaz Radio 4 – Stealing of a nation (City Slang/Labels – Emi) Il messaggio è fin troppo chiaro fin dal titolo, e non si fa scovare tra le righe: l’America non è poi quell’idillio mitico che da sempre ci - inteso “noi popolo dell’euro” - affascina. E’ un paese ormai in perenne stato di allerta, dove neanche più le elezioni garantiscono la democrazia. E’ un paese in guerra, derubato dei soldi e dei mezzi di espressione, fagocitato completamente dal potere.Questo il messaggio dunque, che riportiamo soltanto per dovere di cronaca, senza entrare nel merito della questione. Ci interessa molto di più pensare al tramite, prettamente musicale, col quale i Radio 4 ci rendono partecipi della loro protesta molto poco velata nei confronti dell’uomo più nominato di questo 2004 (per vostra informazione: non ha partecipato al Grande Fratello). Stealing of a nation è il nuovo album dei newyorkesi, la conferma di un'infatuazione p-funk che li ha animati sin dal 1999. Le coordinate (c’è ancora qualcuno che non lo sa? ) sono quelle che hanno fatto successivamente la fortuna di Rapture e !!!: chitarre pulite e riff di basso asportati dal funk (e da certa disco sofisticata), il cantato tagliente recuperato dal punk, il tutto abilmente frullato con ritmiche elettroniche, per lo più figlie della house ma anche di certo Electro-Pop anni ’80. L’antipasto è abbastanza gustoso: Party Crasher stuzzica il palato attraverso un bel muro di chitarre, i ricami preziosamente eighties delle tastiere e sezioni ritmiche ben dosate; Transmission, il secondo piatto, ha un sapore molto simile, fin troppo abusato. Già con la terza portata il pasto si fa stucchevole, e il titolo, State of Alert, pare essere una premonizione involontaria: l’intro di percussioni e il riff caciarone di chitarra può andar giusto bene per una serata al ( ma guarda!? ) New York Bar, che non mi stupirei di sentire in apertura di un set di Joe T.Vannelli, poi il brano cerca di recuperare consensi laddove scimmiotta i !!!, ma senza quel piglio anarchico che trovate in Louden up now. Fra type I and II tenta una pausa kraut-psichedelica per smontare la noia, ma si torna nei ranghi con Death of American Radio: qui il referente sembra piuttosto Echoes dei Rapture, ma manca la facilità irriverente dei loro ritornelli, che invece sembrano sempre così uguali, l’uno con l ’altro. Insomma alla sesta pietanza, Nation, si ha la sensazione di essere satolli; a poco servono i rimandi reggae/dub-oriented per stemperare la verbosità, veramente prolissa, di questa litania.Si prosegue così a stento, verso un’agognata fine, tra un remake strokesiano (Absolute Affirmation) e funkeggiamenti ostinati e tanto ripetitivi da far sembrare (Give Me All Your) Money, Shake The Foundation e Dismiss The Sound comprese nella stessa traccia; non si scampa nemmeno a Coming up empty, una sorta di tango-dark che chiude definitivamente le danze.Uniche annotazioni di merito: la coerenza indubbia di questo lavoro, che non fa mistero dei propri riferimenti stilistici e che mantiene questa linea – ahinoi – costante per tutto il disco. Il terzo album dei Radio 4 è l'evidenza che i discepoli hanno superato i "maestri". E di gran lunga. (5.0/10) Riccardo “Mimmi” Maselli SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 35 AA.VV. - Boomsongs for Velvet (MusicBoom, 2004) Dopo la fortunata operazione Let it Boom, tributo alla musica dei Beatles in salsa italian indie, MusicBoom ci riprova con Boomsongs for Velvet, compilation – disponibile in download gratuito sulle pagine del sito - che si propone lo stesso obiettivo con i Velvet Underground. Assodato che misurarsi con le canzoni del gruppo newyorchese - passando anche dalle parti del Lou Reed solista - è impresa scomoda e non delle più facili, l’ascolto di alcuni episodi di questa raccolta può rivelarsi interessante, soprattutto se la intendiamo (com’è giusto che sia) più come radiografia dell’attuale scena indie nostrana che come tributo vero e proprio. Ciò che salta subito all’orecchio è una certa cautela – timore reverenziale? nell’avvicinarsi alla materia, tanto da prediligere, nella maggior parte dei casi, un approccio decisamente soft; l’impianto si mantiene così sull’ascoltabile, con suoni morbidi e molti riverberi (vedi la sognante Jesus di Goodmorningboy posta in apertura), senza distaccarsi troppo dalle versioni originali; a parte una bella New Age di Sofful o la Perfect Day dei Mr Grady? in bilico tra Cave e Cohen, un gran numero di queste rivisitazioni non va oltre l’imitazione calligrafica, senz’altro piacevole (d’altronde la materia prima è quella che è) ma in fondo fine a se stessa.Va sottolineato che, in generale, ci si è rivolti più verso il lato “pop” e melodico della produzione velvettiana che verso quello sperimentale (di marca John Cale): uniche eccezioni in tal senso sono la Black Angel’s Death Song del trio Cantù / Ciappini / Iriondo e la The Gift e degli Zen Circus, ma, laddove una riesce a mantenere lo spirito dell’originale risultando credibile (probabilmente in virtù del bagaglio musicale dei soggetti in questione), l’altra viene accelerata verso il garage, finendo per perdere in atmosfera; sullo stesso versante – ma in senso opposto - lascia un po’ interdetti la Venus in Furs dei Ronin, che tramutano la maledetta e minacciosa danza sado-maso originale in una straniante ninnananna guidata da piano e xilofoni. A fronte di questa situazione di certo non esaltante, non mancano comunque episodi interessanti e a loro modo coraggiosi: per esempio l’eterea elettronica di I’ll Be Your Mirror dei Lorbi, tutta incentrata sulla voce di Odette di Maio, o il riuscito rispolvero in chiave velvettiana (sic!) di un brano del Reed minore come What Becomes a Legend Most da parte dei Mosquitos. Discorso a parte per la I’m so Free dei Bikini the Cat, che stravolgono armonicamente e melodicamente il pezzo di Transformer mutandolo in uno sbilenco zabaione pop-wave (download caldamente consigliato); deludono, infine, gli esperimenti post-rock di da’namaste (Ocean) e Viclarsen (Heroin), cui comunque va riconosciuto l’ardore di cimentarsi in riletture insolite.Se quella di MusicBoom resta sempre un’iniziativa lodevole, questa compilation, priva di mordente e di guizzi particolari, finisce per deludere le aspettative. In onore di una delle band più controverse e “di rottura” della storia del rock non avrebbe guastato da parte degli interpreti un pizzico di coraggio in più (che invece, secondo chi scrive, non è mancato, con esiti ben più felici, nel precedente tributo ai Beatles). (5,5/10) Antonio Puglia Demo Taxi_So Far - Mouse Music (autoprodotto, 2002) Taxi_So Far sono un duo (o almeno credo) insidiato a Napoli che ha la spudoratezza di mettere insieme venticinque minuti scarsi di - son parole loro - "attacco spietato dell'infanzia ai danni della Maturità". Il loro livello di follia è evidente, però assolto/dissolto in un progetto di (stra)visione che al momento può contare più sui propositi che sui mezzi. Sono abili tuttavia a fare perno proprio su questa genuina allure lo-fi per indagare e ammantarsi di ulteriore fascino. Mouse Music è il demo con cui si presentano al mondo: chitarra acustica, una tastiera semi-giocattolo, uno xilophono senza semi, la voce di un fantasma lubrico che ha sbagliato tempi e luogo dell'apparizione. Cenni di psichedelia pastorale alla Pink Floyd (il bozzetto acustico sotto sedativo di Universal Polaroid, da qualche parte tra l'angoscia caliginosa di Wish you Were Here e la calligrafia decadente di Tenco), sordide allucinazioni electro-soul (la trama noir di Un Cadavere... Squisito, scherzetti adesivi di tastiera su bruma di basse frequenze, il timing approssimativo della voce come un reading dalla dimensione accanto), elucubrazioni sintetiche tra esotismo e minaccia (il tango post-atomico di Ming 1, i Depeche Mode in clausura a salmodiare inni di trascendenza e illuminazione, mentre nelle celle vicine ammuffiscono Clock DVA e Battiato, Art Of Noise e Ennio Morricone). Eppoi la danza scheletrica di Night Club Babele, cascami wave assemblati in un frankenstein bieco, tra insidie ritmiche tremebonde, sospiri Gainsbourg in un campo di fragole e razzate aliene di passaggio. E a chiudere la lunga apocalissi sequenze & frequenze di La Partenza Intelligente, strategia di manopole e palpiti, rumori di sintesi e d'occasione, SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 36 tentativo di sfondamento estemporaneo del muro della tranquillità che rimanda al Brian Eno all'arrembaggio dell'incubo moderno e ai Floyd schiacciati dalla percezione del futuro, per finire alla danza macabra in coda che si spegne in un barbaglio bossa (!?). Un disco interessante, come avrete intuito, che pure lascia insoddisfatti, vuoi perché breve, vuoi perché la distanza tra intenzione e realizzazione è così tanta che non è facile capire quanto la pochezza dei mezzi sia più scelta estetica, contingenza o alibi. Avremo modo di chiarirci le idee più avanti giacché, a quanto sembra, siamo solo all’antipasto. Ed è una buona notizia. Stefano Solventi Live Interpol – 3 Dicembre 2004, C-Side, Milano Next Exit / Obstacle 1 / NARC / Public Pervert / Say Hello To The Angels / Not Even Jail / Hands Away / NYC / Slow Hands / Lenght of Love / Evil / PDA / Leif Erikson / Roland / Stella (was a diver and she was always down) Era forse prevedibile che, in seguito alla pubblicazione di Antics, lo hype intorno agli Interpol fosse destinato a crescere. Non è invece dato sapere quanti si aspettassero un bel “sold out” in occasione della data milanese dello scorso 3 Dicembre: a giudicare dalle decine di persone rimaste fuori dal C-Side alla ricerca disperata di un ultimo biglietto, sembrerebbe proprio che il gruppo di Williamsburg, NY stavolta abbia davvero fatto il cosiddetto “botto” (e gli esiti trionfali dei precedenti concerti inglesi confermerebbero questa impressione). A due anni dall’esplosione di Turn On The Bright Lights, alimentata da un inarrestabile culto sotterraneo, la proposta degli Interpol sta adesso conoscendo una fascia di pubblico sempre più vasta (pur restando – apparentemente - in ambito indie): ai concerti è ora possibile vedere, oltre ai prevedibili ventenni neodarkettoni in rigorosa camicia e cravatta scura, anche tanta gente comune tra spettatori occasionali, appassionati di ogni età o semplici curiosi. Se ciò da un lato ha sicuramente contribuito a dare alla seconda data italiana degli Interpol un inequivocabile tono da “evento”, dall’altro ha reso inevitabilmente scomoda la fruizione del concerto: nonostante la capienza della discoteca milanese, a tratti la calca si è fatta decisamente insopportabile. Dobbiamo forse aspettarci a breve dei concerti in palazzetti o strutture analoghe? E’ strano pensare agli Interpol come un gruppo da grandi numeri. Assodato che essi non sembrano avere (almeno allo stato attuale) il piglio o la personalità delle superstar, di certo fa una certa impressione vedere il pubblico cantare i ritornelli insieme a Paul Banks, accompagnare ritmicamente con le mani i momenti più epici dei brani, addirittura pogare (!) sotto il palco. Che si tratti soltanto di una moda passeggera o sia piuttosto segno del potere comunicativo di una musica capace di andare oltre gli steccati di genere e di farsi linguaggio universale, potrà stabilirlo solo il tempo. Andando oltre, due anni di routine sul palco sembrano aver decisamente giovato alla resa dal vivo della band: chi aveva ancora negli occhi e nelle orecchie le esibizioni incerte del tour in supporto del disco di esordio ha dovuto bruscamente ricredersi. Specialmente il frontman e il bassista Carlos D. sono apparsi molto più sciolti che in passato: il primo si è mostrato notevolmente cresciuto a livello interpretativo, sfoderando una voce più sicura e meno traballante; il secondo si è divertito a fare sponda tra la sua postazione e la batteria del precisissimo ed inappuntabile Sam Fogarino, mentre il chitarrista Daniel Kessler è apparso come al solito concentrato sullo strumento, come se non ci fosse null’altro intorno; il tutto all’insegna di una loquacità prossima allo zero assoluto e una compiaciuta non-presenza scenica (in perfetto stile post punk). Ma le vere protagoniste della serata sono state le canzoni: gli Interpol possono fare affidamento su un repertorio ricco di composizioni efficaci e di sicura presa sul pubblico, e forse è questa la loro vera forza, aldilà delle stesse capacità interpretative (comunque impeccabili). Tanti i momenti memorabili, in un vincente (ed equo) alternarsi di brani vecchi e nuovi, per circa un’ora e un quarto di musica: da Next Exit, apertura suggestiva e sacrale, alle spigolosità di Obstacle 1 e Say Hello To The Angels, dai crescendo di Hands Away, passando per una toccante NYC fino al climax di Evil e PDA, per arrivare alla conclusiva e attesa Stella, piccolo regalo per il pubblico milanese. Insomma, il concerto che un po’ tutti si aspettavano, senza particolari sorprese ma, cosa che più importa, ricco di conferme sul talento di questi musicisti, che oggi più che mai sembrano sicuri dei loro mezzi, anche in vista della strada che si sta aprendo davanti a loro. A questo punto, si accettano scommesse sul loro futuro… Antonio Puglia SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 37 Mouse on Mars – 20 Novembre 2004, Tpo, Bologna Se da un lato Radical connector ha rappresentato l’ennesimo calcio in faccia a chi sottovalutava le abilità camaleontico-musicali dei Mouse on Mars, dall’altro non ha certo scoraggiato il pubblico di estimatori del duo tedesco, spesso abituati a cambiamenti anche radicali. In un Tpo pieno fino all’orlo, in attesa dell’apertura della nuova sede del Link luogo storico per la musica elettronica in terra felsinea - Andi Toma e Jan Werner hanno dato sfoggio del loro ultimo travestimento. Ci si aspettava tanta elettronica al ritmo di Rock come era accaduto nella data bolognese dell’ultima tournée, oppure di converso uno spettacolo minimale e, magari, la presenza della cantante Niobe, fondamentale apporto in questa nuova fase. E invece, niente di tutto questo; o meglio: poco. Niobe continua la sua carriera da solista, mentre i tedeschi salgono sul palco armati di basso e batteria, accompagnati da un Dodo Nkishi funkeggiante fin dall’aspetto (sembra il figlio cibernetico di Sly Stone) e danno vita ad un live set intrigante in cui strumenti acustici, elettrici e elettronici si amalgamano in maniera imperfetta - ma appunto per questo più “live” - al contesto sonoro. Le trame più sincopate e danzerecce sono le più riuscite, specie Mine Is in Yours e Wipe That Sound, le vere hit del nuovo corso. La formula “drummer trio”, con il batterista Nkishi ad improvvisare sul basso e le elettroniche, se fornisce nuova linfa ai nuovi brani (originariamente più quadrati ed essenziali), non sembra comunque adattarsi granché al classico sound orpelloso e ricco di sfumature della band di Colonia, che spesso si appiattisce sotto le percussioni di pelli troppo presenti e non sempre necessarie; e superflua appare anche la voce dello stesso Nkishi, neanche lontana parente della sensualità vocale di Niobe. Il pubblico apprezza e se ne sta sparpagliato per tutta la grande sala, ascolta con attenzione, raramente si abbandona al ballo, concentrato com’è a percepire la miriade di sfaccettature del suono offerte dalla musica. E si entusiasma quando Toma e Werner tornano ai synth e attingono al loro repertorio classico, da sempre un cerebrale e alchemico work-in-progress giunto fino ad oggi passando indenne per i sentieri della techno, del dub, del glitch e dell’electro pop. Due parole sugli openers: i M.O.M. hanno sfruttato l’occasione del tour europeo, partito da Londra all’inizio di novembre, per presentare un paio di produzioni della loro etichetta, la Sonig, che ha visto la luce a Colonia dieci anni fa. Visto e considerato che per codesta label incidono alcuni tra i migliori nomi della scena elettronica internazionale, i dj set di Jason Forrest (che si fa chiamare anche Donna Summer) ed Elephant Man Power non sembrano né la scelta migliore per aprire un bel concerto come questo, né il miglior biglietto da visita per la Sonig. Forrest, uno scimmione che si è dimenato a ritmo di techno tutto il tempo a mo’ di Flynt dei Prodigy con la compilation I-Tunes di turno, era uno spasso da vedere, tanto sembrava adatto a un rave privato di sedicenni che ad un happening come questo; un tantino meglio - ma sostanzialmente inutile - il glitch e le suggestioni reggae di Elephant, un ossuto spilungone dalla folta chioma che, ciondolando sulla console, non ottiene che una distratta partecipazione degli astanti. Gente che mette su dischi ce n’è tanta, questi due erano tra i tanti. Daniele Follero e Edoardo Bridda Faint - 11 Dicembre 2004 - Transilvania, Milano Nel corso delle recenti interviste in promozione di Wet From Birth, i Faint non hanno mai fatto mistero del fine ultimo della loro musica – e dell’estetica synth pop su cui essa si fonda: avere uno spettacolo dal vivo il più divertente e meno noioso possibile. Ogni dubbio circa queste affermazioni - eccessiva frivolezza? pretenziosità mascherata da ingenuità? - è destinato a dissolversi una volta assistito a un loro concerto: come ampiamente dimostrato lo scorso 11 Dicembre al Transilvania di Milano, la band di Omaha è, essenzialmente, un live act; ogni aspetto della loro produzione artistica, da quello grafico a quello prettamente musicale, è finalizzato alla performance sul palco. Va infatti detto che quello offerto dai Faint in questo tour mondiale (che dagli Stati Uniti li porterà attraverso l’Europa fino in Giappone) non è un semplice concerto, ma un vero e proprio show multimediale basato tanto sull’elemento musicale quanto su quello visuale, in cui video proiettati alle spalle della band - concepiti dal team grafico a cui fa capo il chitarrista Dapose - sono un perfetto commento/complemento ai singoli brani della scaletta. Così, persi tra grooves, strobo e la caratteristica nebbiolina presente ai concerti, non si può che darla vinta ai Faint: brani tratti dall’ultimo disco come Birth (ossessivo ed oscuro incipit della serata, SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 38 con Dapose e i suoi riff death metal sugli scudi), I Disappear (potenziale hit wave melodica), Erection (accompagnata da un significativo video in cui, tra simboli fallici, emergono le Twin Towers) e Desperate Guys (ricca di pulsioni campionate) finiscono per acquistare sul palco un senso che su disco si stenta a trovare; i cinque musicisti spaziano con estrema sicurezza nel loro repertorio - privilegiando comunque il materiale da Wet From Birth e Danse Macabre, più qualche concessione a Blank Wave Arcade -, mostrando di poter contare ormai su uno stile consolidato e riconoscibile, che permette loro perfino di avventurarsi in un’inattesa - e nobilitante – riproposizione di Psycho Killer dei Talking Heads. A quello della musica (di per sé eseguita senza sbavature) e dei beat (sempre più tendenti verso la techno) va inoltre aggiunto il valore di una presenza scenica che, conforme all’estetica kitch che il gruppo persegue (come altro chiamereste quella fusione tra informalità indie e pose gothic-metal?), riesce a coinvolgere il pubblico: i ragazzi sono i primi a divertirsi di ciò che suonano, anche se spesso, dal loro piglio estremamente convinto, sembrano prendersi un po’ troppo sul serio. Stando all’obbiettivo che si erano prefissi, lo spettacolo dei Faint è un pieno successo (nel suo genere, s’intende): alla luce di ciò, diventa lecito chiedersi se, adeguatamente supportati, questi strani - ma divertenti - ragazzi possano realmente aspirare ad un pubblico più ampio di quello indie… Finora, una cosa è certa: molto meglio dal vivo che su disco. Antonio Puglia SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 39 Rubriche Classic Album Revisited Traffic - Shoot Out At The Fantasy Factory (Island, 1973) Hidden Treasure / The Low Spark Of High Heeled Boys / Rock & Roll Stew / Many A Mile To Freedom / Light Up Or Leave Me Alone / Rainmaker. I miracoli, qualche volta, accadono. Fu una specie di miracolo infatti John Barleycorn Must Die (1970), sfornato in coincidenza di un periodo burrascoso per i Traffic (il polistrumentista Dave Mason non partecipò alle sessioni). Non fu il primo miracolo (nemmeno l'ultima buriana, se è per questo): già il fantasmagorico Mr. Fantasy (1967) e l'omonimo Traffic (1968) contenevano difatti evidenti particelle di prodigio. Una via progressiva che tagliava e cuciva antico e avanguardia, visione e tradizione. Pozioni celtiche e riti voodoo, prospettive cosmiche e umori blues, sbrigliate divagazioni jazz con il cuore sul punto di crepare soul. E pensare che il principale agitatore dei quattro era uno Steve Winwood poco più che ragazzino, per quanto già adeguatamente svezzato dalla militanza nella Steve Miller Band. Un precoce egomaniaco di talento, cui la compagnia del già citato Mason, del percussionista Jim Capaldi e dell'estroso Chris Wood (organi, flauti, percussioni, sax...) provocava insopprimibili conati di genialità. Dopo il Barleycorn quindi le quotazioni della band toccarono l'apice: le cronache narrano di folle entusiaste a celebrare la band ad ogni data del tour mondiale. I due album seguenti (il live Welcome To The Canteen e The Low Spark Of High Heeled Boys, entrambi del '71) mantennero la temperatura sufficientemente alta, ma quell'incanto, quel fenomenale incrocio d'istanze, sembrarono a tutti un'eventualità irripetibile. Probabilmente ne furono ben consapevoli anche Winwood e Capaldi (quelli con in mano la cloche), ma questo non gli impedì di prendere la decisione giusta: calare sul piatto il mestiere. Il risultato fu Shoot Out At The Fantasy Factory: un buon risultato, di misura, ma comunque una vittoria. Reclutati il bassista David Hood, il percussionista Reebop Kwaku Baah e il batterista Roger Hawkins (Mason era sempre fuori squadra), il sound della band solidificò attorno a stilemi essenziali, sterzando piuttosto nettamente in direzione pop-rock. S'indurì, levigò fisionomie al limite dello stereotipo, si banalizzò. Ma vinse. Fin dall'iniziale title track, punto di fusione tra istanze hard (il digrignare delle chitarre), pulsioni afro (il percussionismo nevrastenico), fregola R'n'B' (le sinapsi singhiozzanti della sezione ritmica) e psichedelia (le scie incandescenti degli assolo), l'insieme si presenta con un aspetto molto - come dire? - ricercato, vista anche l'opera di puro arredo di flauto e tastiere. Prevale tuttavia, ed è quel che conta, la sbrigliata compresenza delle parti, il senso di dominio della materia e della maniera, su cui un flemmatico Winwood spalma un canto di prammatica (per i suoi standard, s'intende). E' un Winwood che non teme di confessare - non senza un po' di narcisistico sarcasmo - l'esaurirsi della vena creativa: lo fa nella conclusiva (Sometimes) I Feel So Uninspired, il pezzo più soul del lotto, dove la sua voce si muove sottotraccia nel sentiero di luce tra lo sfarfallio percussivo e le pennellate d'organo, pestando un piano sempre più "concreto" che prepara il terreno ad un assolo di chitarra didascalico ma - è questo il punto - funzionale, efficace, adeguatissimo al contesto. Come se si trattasse di un esercizio di puro artigianato, di mode e modelli da scegliere, e levigare, e incastrare al meglio. Però, non equivochiamo: la capacità della band va oltre il semplice mestiere, come dire che il mestiere a certi livelli contiene un bel po' di magia. Vedi come in Roll Right Stones si consumi un continuo trapasso da soul-psych a errebì acidulo, oscillando tra stili e atmosfere con portentosa, indolente, quasi irritante maestria. I temi melodici si passano il testimone in un unico, vasto respiro, corde e sax filtrati nella fatamorgana del wah-wah mentre il piano e l'hammond conducono un sogno d'America sognata a passo d'uomo, stilemi The Band coagulati come colori in rilievo su una tela ancora fresca eppure antica. Eppoi il folk, come una nebbiolina tenace ad introdurre Evening Blue, Winwood che canta come se stesse per consegnarsi definitivamente alla confraternita del soul, d'incarnarsi soul, il basso a condurre imperioso ma schivo, l'organo che dilata gli spazi, il sax che zampilla per poi esaurirsi languido, come chi vuole dire la sua d'improvviso. Quindi l'unico strumentale della cinquina, firmato Chris Wood, ad insistere sulla questione psichedelica, cocciutamente, lucidamente, definendo profili non troppo lontani dai Floyd periodo SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 40 Dark Side Of The Moon (quel sax saturo di allunaggi digeriti, quelle chitarre in bilico su atonalità wave, i bordoni iridescenti di tastiera...) senza però scordare la polvere, il falò, l'odore da retro-fienile, tutto il rhythm and blues che ancora scorre nelle vene. Ok, lo avrete capito, questo non è un capolavoro. Neppure mi sento di catalogarlo tra i dischi che salverei dal fatidico naufragio. É semplicemente un buon disco di una grande band, consapevole della propria grandezza e di quanto fosse sul punto d'esaurirsi (la band e la grandezza), ma con ancora abbastanza motivi per esserci - al di là del dover esserci - senza cedere a velleitarie tentazioni di rinascita. Motivi che condiscono e sostanziano queste sei tracce, investendole di un sapore che ammalia, di possibilità inevase ed evidenza, di fatto compiuto e terreno (ancora) fertile, di giardino prezioso quasi dimenticato. Stefano Solventi Lucio Battisti - Anima latina (Numero Uno, 1974) Abbracciala abbracciali abbracciati / Due mondi / Anonimo / Gli uomini celesti / Gli uomini celesti (ripresa) / Due mondi (ripresa) / Anima latina / Il salame / La nuova America / Macchina del tempo / Separazione naturale Amore e non amore (con i musicisti della futura Pfm) fu l’avvisaglia. Il Lucio nazionale non era solo il ragazzo che faceva innamorare le coppiette dell’Italia post sessantottina e quel ricciolino sorridente del Cantagiro o del Festivalbar. Cioè, era quello, ma era anche altro: prima di tutto uno sperimentatore, un musicista vero che ascoltava la musica che gli girava intorno. Non si fossilizzava nelle “acque azzurre” e neanche tra i “fiori di pesco”. Eppure avrebbe potuto: il consenso arrivava, era amato, anzi, adorato. I nostri Beatles, in definitiva, erano uno solo: Lucio. Ma proprio come i baronetti, un bel giorno Battisti si stufò, allargò i propri orizzonti, andò oltre l'immagine pubblica. Fu così che Lucio Battisti emigrò metaforicamente in Sudamerica, s'immerse in quei ritmi caldi e passionali, solari e carnali. Come accennato, Amore e non amore spinse Battisti “oltre” l’ascoltatore italiano medio, conquistando i favori del pubblico progressive della prorompente scena nostrana. Anima latina ne fu la prosecuzione psichedelica. Il crimine è compiuto nel 1974. Anima latina compare nei negozi e non si sa neanche in quale vaschetta metterlo: alla voce Lucio Battisti o altrove? Nell’album non figura neanche un potenziale singolo, nessuna canzone o nota che possa minimamente aspirare a velleità da classifica. Il pubblico trema: Battisti è finito! Non sapendo che invece è l’inizio di una nuova era. Bastano le primissima note di Abbracciala abbracciali abbracciati per addentrarsi in spirali italo-pop venusiane; voce tenue che si impasta con l’elevazione strumentale dei fiati, delle percussioni… quasi una variante italica del wall of sound spectoriano. Poi, l’andamento cristallino di Due mondi, la ritmica obliqua di Anonimo (che prima rasenta un flamenco per poi riprendere il tema de I giardini di marzo), i vertici totali de Gli uomini celesti (con un finale che da solo vale l’intero disco) e della title track (che sembra quasi nata dalle parti di Canterbury…). Nel mezzo, due mini riprese de Gli uomini celesti (per chitarra e voce) e Due mondi (con un emozionante Battisti al pianoforte) e la stravagante Il salame, prima di arrivare alla "Macchina", repentini cambi di tempo con Lucio che nella suite si dimena tra orgiastici turbinii danzerecci, fotografia ideale dell’immagine di copertina. Un trionfo mai più ripreso, ma intelligentemente “commercializzato” due anni dopo, con Ancora tu, nel successivo La batteria, il contrabbasso, eccetera. Alla faccia dei puristi. Gianni Avella The Pogues - Rum Sodomy & The Lash (Stiff Records, 1985) Sick Bed of Cuchulainn / Old Main Drag / Wild Cats of Kilkenny / I'm a Man You Don't Meet Every Day / Pair of Brown Eyes / Sally Maclennane / Pistol for Paddy Garcia / Dirty Old Town / Jesse James / Navigator / Billy's Bones / Gentleman Soldier / And The Band Played Waltzing Matilda Una citazione di Winston Churchill, "Rum Sodomy And The Lash", e l’immagine di una zattera malridotta carica di sventurati in costume adamitico (goliardica e personale rivisitazione della “Zattera della Medusa” di Gericault) per il capolavoro folk/rock della ciurma più chiassosa e commovente degli anni ’80: i Pogues. E come succede sempre in questi casi, si potrebbero sperperare fiumi di aggettivi per tratteggiare lo splendore di questo disco, ma nessuno mai riuscirebbe a rendergli davvero giustizia. SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 41 Sì, perché non è facile scrivere l’ennesima recensione di una pietra miliare, provando a spiegare con quanta semplicità e ardore questi sette irlandesi (otto, se consideriamo Elvis Costello in cabina di regia) abbiano suggellato un’epoca - quella della cosiddetta new-wave o, se preferite, post-punk - attraverso canzoni diametralmente opposte come The Sick Bed Of Cùchulainn, Dirty Old Town e Jesse James. Quelle contenute in Rum, Sodomy & The Lash sono tracce dalle fogge popolari e dalle animosità punk, frammenti cedevoli ma zigzagati (A Pair Of Brown Eyes), affabili ma all’occorrenza taglienti (The Gentleman Soldier e la strumentale Wild Cats Of Kilkenny), capaci di rivelare il calore e la vivacità di una band che raccoglie parte della propria saggezza nel country e nel rockabilly. Una galleria d’immagini per dar voce ai poveri e agli oppressi: dai disoccupati ai pescatori di balene, dai vagabondi ai carcerati; un album che giunge dopo appena un anno dall’esordio, Red Roses For Me del 1984, ma che sa scavare nell’intimo, consacrando il genio narrativo di Shane McGowan: poeta del wiskey e cantore delle verdi colline. Fiero e impavido come un “qualsiasi” Joe Strummer e con una voce sgraziata e fuori dalle righe, Shane palesa lo spirito del condottiero senza spada, intrepido e allegro sognatore che celebra meraviglie senza tempo (The Old Main Drag) e fugaci utopie (And The Band Played Waltzing Matilda) tra cori, flauti, violini, fisarmoniche e incantevoli arrangiamenti d’estrazione tradizionale. Strepitoso e toccante come una sbornia tra vecchi amici! Luca D'Ambrosio La promiscuità dell'arte contemporanea una rubrica d'arte a cura di Davide Valenti Ritratti alieni e alienati dallo sguardo vitreo ma mai disumano, volti dell’infanzia che guardano lo spettatore là, fuori, nel mondo con le lancette e l’orologio. Ritratto e intervista a Luigi Presicce. La solitudine ovattata di questo fottuto natale Un senso d’angoscia celata, inghiottita da paesaggi dal manto biancastro e grigiastro, fagocitata da landscape perenni e compressa da imperturbabili sonni, emerge dalle pieghe dei quadri disordinatamente appesi alle mura. Solitudine ovattata, che ha investito gli spettatori presenti all’inaugurazione della mostra di Luigi Presicce, “Fucking Christmas”, il 18 novembre scorso presso la galleria Cannaviello a Milano. Abbandono che la mano del pittore ha ritratto con fermezza e docilità, un battito cardiaco attutito attraverso la tessitura di tele di ragno, trame lattiginose che intrappolano conigli, santini, crocefissi, fatine, gorilla e nazisti. I (non) protagonisti davanti alla coltre sono sagome fumettose investite di carinerie disarmanti, ritratti alieni e alienati dallo sguardo vitreo ma mai disumano, volti dell’infanzia che guardano lo spettatore là, fuori, nel mondo con le lancette e l’orologio. Il vapore esce a singhiozzo dai respiri timidi di costoro che a fatica nascondono la nostalgia, il nugolo di particelle si staglia poi sulle cortecce di alberi secolari, sulle palle di neve, sulle lapidi, le stradine di montagna … Bambini vestiti da coniglietti commettono omicidi, mentre clown colle palline sul naso godono di un autoritratto. Nel tutto che c’è qui è per sempre le cose accadono o sono già accadute e, presumibilmente, accadranno di nuovo; e in quest’assoluto ogni sentimento anche il più vivo s’acquieta stemperandosi nella notte artica e lasciandoci quell’ipocrita convinzione che il bene e il male siano ciò che crediamo e che il primo sia sempre dentro e il secondo sempre là fuori, come un lupo alla porta. A testimoniare la tangibilità di queste fascinazioni, ci vengono utili i testi che accompagnano la “carriera” di Presicce e spiegano l’evoluzione “philophobica” dell’artista. Nell'intervista per il catalogo della mostra Philophobia, a proposito del suo primo video, l’artista dice al critico d’arte Gigiotto Del Vecchio: “A casa avevo un pitone di tre metri e mezzo e per me era diventata una cosa normale andare in un allevamento di conigli, comprarne uno e darlo da mangiare al serpente. Volevo rispettare la natura, il suo modo d’agire… Nel video mostravo questo, ciò che è normale fare per un pitone”. Da sempre SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 42 Presicce ha un debole per la disillusione, e la fruizione di un suo lavoro diventa ancora più fastidiosa per l’uomo comune quando lo svelamento viene esteso dall’animale all’uomo. Dipinti su quadratini appesi disordinatamente uno vicino all’altro, compaiono, di tanto in tanto, piccoli tesserini - presumibilmente bambini - travestiti da simpatici coniglietti, vaganti in paesaggi asettici desolati e innevati che nascondono la mostruosità rivelatrice del fatto che “non tutti i mostri hanno la coda e sputano fuoco dalla bocca”. E prendendo così in gran considerazione il concetto di Natura, è inevitabile per Presicce lo scontro, o l’incontro, con la Religione, anzi, non con essa, ma con il cristianesimo, il Buon cristianesimo. Sempre tra la desolazione innevata sbuca Gesù in primo piano e sembra fare “Bu!”. Così vieni rispedito nella tua infanzia, quando temevi che al buio della tua stanza comparissero fantasmi orrificanti a dirti che avevi fatto il cattivo. E poi c’è anche la Madonna concentrata nella sua preghiera, sembra triste, e in mezzo a quell’atmosfera presicciana diventa davvero angosciante. E poi, ancora un bambino coniglietto che ne uccide un altro a colpi di croce. La paura e la ribellione alla paura. Fottuto Natale. Presicce sente ancora l’esigenza di mostrare la verità, il volto nascosto della Natura. Ma Natura è anche il nascondimento stesso che non può non essere mostrato. Forse inconsapevolmente, anche il titolo della mostra porta con sé una maschera di bontà: come sarebbe stato più esplicito il titolo originale anziché la sua traduzione. Non fanno lo stesso effetto “Natale di merda” o “Natale vaffanculo” e “Fucking Christmas”: la verità è nascosta. Tutto ciò è messo in scena attraverso tante tessere che lo spettatore cerca invano di ricostruire in un film. Alla fine prevale l’angoscia di non saper dare una logica ai frames, anche il film è nascosto. Alla vista di una grande testa di renna semidistrutta che giace sul pavimento della mostra si ha l’impressione di “essere catapultati sulla scena di un delitto, trovarsi di fronte a un luogo dove qualcosa è successo prima del nostro arrivo”, come dice la curatrice Giulia Pezzoli. “Quella chè è stata costruita da Luigi Presicce è una scenografia incomprensibile per chi non ha assistito ai fatti. È figlia della visione di un universo personale e non può trasmettersi nella sua completezza e complessità. Può solo decidere della trasmissione di sensazioni”. Cosa è successo alla renna? Cos’è successo al Natale? Chi l’ha rotta? Il Natale è troppo vecchio? Dio è morto? L’artista ha spaccato tutto perché odia la falsità del buon Natale? Cosa significa tutto ciò? Per fortuna non c’è un significato, ma rimangono tutti questi sensi, tutte queste sensazioni infinite. Ricordando i suoi inizi Presicce ha detto a Gigiotto Del Vecchio: “non mi interessava il consenso, volevo dare fastidio”. Per fortuna non è cambiato. Davide Valenti e Edoardo Bridda L'intervista di Karin Andersen Ho conosciuto Luigi Presicce tramite un amico in comune, qualche anno fa a Bologna. Mi ricordo dei suoi lavori in alcune mostre nell’ambito dei circuiti alternativi dell’arte bolognese, nel quale mi muovevo anch’io. Successivamente Luigi è approdato a Milano, dove ha subito suscitato l’interesse di Enzo Cannaviello, gallerista di pittura contemporanea. Da allora il suo lavoro si è evoluto costantemente, integrando un talento già evidente fin dall’inizio con un discorso poetico e concettuale ben preciso, collocandosi così nel vivo del dibattito artistico contemporaneo, in stretta connessione con ambiti confinanti quali cinema e musica. Per SA ho voluto intervistare Luigi in maniera trasversale, lasciando da parte la consueta dialettica autoreferenziale della critica d’arte contemporanea a favore di un dialogo rivolto al quotidiano e all’ambiente culturale di oggi che, in maniera aperta o subliminale, condiziona il lavoro di tutti noi artisti - Quant’è importante per un pittore la fruizione musicale? Per un pittore,decisamente non lo so, per un essere umano molto… SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 43 - Nei termini che più preferisci …l’orecchio come si lega all’occhio? A te piacciono i film muti? A me no. - Una tua mostra si intitolava Philophobia: si chiama così anche un album degli Arab Strap del 1997. Immagino che non sia una coincidenza… No, il titolo non è una coincidenza; probabilmente lo è la difficoltà a relazionarsi che abbiamo in comune. credo che se le mie immagini avessero un suono sarebbe malinconico come quello degli Arab Strap. - Secondo te, qual è la differenza fra la figura dell’artista e quella del rock idol? L’artista ha sicuramente meno fans e un disco costa molto meno di un quadro (se lo possono permettere tutti). - Gente come David Bowie e Patti Smith dipinge e fa mostre, Devendra Banhart fa uscire un libretto di disegni insieme al suo CD, Daniel Johnston cura da sempre l’artwork dei suoi dischi, e inoltre sono note le divagazioni pittoriche di Franco Battiato, Andy dei Bluvertigo, Jovanotti…. va precisato che le loro esperienze sono assolutamente diverse fra loro e probabilmente non è nemmeno il caso di affiancarle. Tuttavia, cosa pensi di questi personaggi, già molto affermati nel loro settore, che si cimentano con qualcosa di trasversale? Hai mai pensato di fare musica? Credo che fare bene il proprio lavoro sia già abbastanza impegnativo, ma penso anche che la parola artista sia un termine molto generico…mi piacciono molto gli acquerelli di Marylin Manson, tanti altri però dovrebbero avere la decenza di tenere per sé i risultati dei loro hobbies… A volte mi sembra di essere alla “Corrida di Corrado”. Io in particolare, mi limito ad ascoltare…un certo tipo di musica, naturalmente, e credo che sia già abbastanza avere un proprio gusto musicale. - Ti va di descrivere una tua giornata-tipo? Di solito è la fame che mi sveglia…quando riesco a dormire. Quindi, spinto da questo istinto primordiale, mi dirigo a consumare una super colazione (fosse per me farei sempre colazione), poi se a casa non c’è nessuno tra le palle mi collego un po’ a Internet o continuo a leggere il libro che ho interrotto il giorno prima, altrimenti esco per andare in studio e nel tragitto vengo attratto da riviste straniere, film in dvd e cd. Quando va bene arrivo in studio che ho da sfogliare, da ascoltare e un film per la notte. Per il resto cerco di fare ciò che mi rilassa di più: fare l’amore, dipingere e comprare vestiti a poco prezzo. Mangio quasi sempre fuori e vado a letto molto tardi. - I tuoi lavori sono spesso caratterizzati da un’atmosfera un po’ noir…. ma noto che in alcuni lavori recenti sono giunti la neve e il bianco… Si è vero, nei miei lavori c’è sempre qualcosa che non è a posto, qualcosa che non ti fa stare tranquillo… anche gli ultimi lavori credo abbiano una certa atmosfera noir. In fondo, sia la neve che il buio, sono elementi naturali che nascondono la realtà delle cose e poi non credo che il bianco sia molto diverso dal nero. - Chi è Mario Banana? È il soggetto della micro-storia di un mio cortometraggio, un tipo strano, un diverso, uno che indossa una maschera da scimmione e passa le sue giornate lontano dal mondo reale che vede solo attraverso un televisore, uno accudito da un nano-servo che divide con lui questa esistenza da “diverso”. Credo sia una versione grottesca di “finale di partita” di Beckett, ma in alcuni periodi dell’anno, particolarmente a Natale, credo di assomigliargli davvero tanto. - Qual è il tuo rapporto con la scrittura, in particolare l’ambito dei giovani autori noir italiani? Leggo molti romanzi, mi affascinano la vita e le storie possibili... Pinketts escluso, preferisco ancora di gran lunga Scerbanenco. - Sei nato in Puglia, ora vivi e lavori a Milano. Quanta importanza attribuisci al tuo habitat? In quale misura ha influenzato il tuo lavoro? SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 44 Credo che il mio lavoro non sia per niente solare… ho la sensazione di essere sempre uno straniero in mezzo a tanti altri, per questo forse mi è indifferente essere a Milano o in qualsiasi altra grande città. Milano però mi fa sentire a casa e questo è molto importante per me. Sono sempre felice quando torno qui… dopo un viaggio, ad esempio. Non sono per niente legato al mio paesino Natale e credo che sia abbastanza evidente guardando il mio lavoro… se ti dicessi che vengo da un paese di pescatori e non so neanche nuotare, cosa penseresti? I miei genitori vivono praticamente nell’acqua di mare… - Un tuo progetto nel cassetto… Essere felice con la persona che amo. Il resto viene da sé… Fucking Christmas dal 18/11/04 al 08/01/05. presso lo Studio d'Arte Cannaviello via stoppani 15 20129 milano tel 02240428 fax 0220404645 SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004 45