SentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004
Indice
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Monografie
Giant Sand / Calexico
Wolf Eyes
Two Lone Swordsmen
3
16
19
Album del mese
21
Climax Golden Twins
Bees
Neko Case
Hollowblue
Destroyer
Tribeca
Marianne Faithfull
Kyrie
Frank Black
Joe Leaman
Altri album
28
Depistado
Ariel Pink’s Hauted Grafitti
Clinic
Hormiga
Pedro The Lion
Artemoltobuffa
Fall
Paul Weller
Ana Da Silva
Blevin Blectum
Phosphorescent
Nikki Sudden
Tiromancino
Ian Brown
Radio 4
Boomsongs For Velvet
Redazione
Edoardo Bridda
Stefano Solventi
Ivano Rebustini
Antonio Puglia
Daniele Follero
Fabrizio Zampighi
Hanno inoltre collaborato a questo numero:
Demo
36
Luca D'Ambrosio
Gianni Avella
Riccardo”Mimmi” Maselli
Lorenzo Filipaz
Davide Valenti
Taxi So Far
Live
37
Interpol
Mouse on Mars
Faint
Guida spirituale
Adriano Trauber [1966-2004]
Rubriche
40
Classic Album Revisited:
Traffic
Lucio Battisti
Pogues
Progetto grafico
Roberta Fanti, Karin Andersen, Edoardo Bridda
Copyright ©2004 SentireAscoltare
Tutti i contenuti di questo magazine sono proprietà
dei rispettivi autori
La promiscuità dell’arte contemporanea:
Luigi Presicce
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Monografie
Giant Sand, Howe Gelb, Calexico, gente di Tucson e dintorni
di Stefano Solventi e Edoardo Bridda
Insondabile genio, scapestrato cialtrone, Howe Gelb festeggia i vent'anni dei Giant Sand. Sentireascoltare
ripercorre due decadi di musica delle periferie, una sottile corda di sabbia che dall'Underground Paisley
porta al deserti (morriconiani ma non solo) del nuovo millennio
False partenze, falsi finali: la contro epopea sgangherata di Howe
Gelb
Howe Gelb lo capisci più o meno subito e tutto insieme. Dalla faccia. Da come c’è
passato attraverso. Da come in un certo senso guardi tutto da fuori. Il “dentro” è
(potrebbe essere) la bolgia esistenziale/emotiva che usiamo chiamare vita, cui
talvolta il rock sa proporsi quale migliore soundtrack possibile. Il “fuori” è ciò che
viene dopo, quando qualcosa finisce irreversibilmente.
Giganti vermi di sabbia
Fine anni settanta. Un giovane residente in Pennsylvania decide di abbandonare per sempre il plumbeo clima di quello Stato
per tornare ad abitare nel luogo natale del padre: ovvero Tucson, Arizona (una vivace città di un milione e mezzo di abitanti
costruita in mezzo al deserto, vicina a Phoenix, a San Diego e naturalmente al confine con il Messico). All'epoca ha 19 anni e
può contare su una manciata di canzoni scritte di suo pugno, su una piccola esperienza come tastierista in un gruppo chiamato
Stains e su un'amicizia che si rivelerà importante per gli anni a venire, Rainer Ptacek. Ptacek, conosciuto in seguito a estati
trascorse assieme alla famiglia in quella sperduta città nel bel mezzo del deserto, è un chitarrista slide appassionato di country,
particolarmente affezionato a Jimmie Rodgers, Hank Williams e Merle Haggard e discretamente appassionato di altre stelle
come David Allan Coe, Hank Snow, George Jones e Lefty Frizell. I due scoprono di avere molto in comune, in primis
l’ossessione per il folk e l’Old Time Music in generale, anche se Howe, rispetto all’amico, possiede interessi meno
focalizzati: non disdegna gli anni sessanta, il glam rock dei New York Dolls e nemmeno il funk bianco di Byrne e co.
Soprattutto, adora impostare le liriche nel modo confidenziale di Lou Reed e, proprio come l’ex-Velvet Underground, ama le
storie d’emarginazione, quelle costellate dai fatti duri del quotidiano a cui aggiunge spesso una personale punta d’ottimismo.
Stabilitosi a Tucson, grazie all’aiuto di Rainer arrivano per Gelb nuove conoscenze. Assieme a quelle nasce ben presto l'idea
di un gruppo. Tirata fuori dal cilindro la ragione sociale Giant Sandworms, per via della somiglianza che l'autore riscontrava
tra i vermi del fantasy lynchiano Dune e alcuni abitanti di Tucson, il futuro gigante si circonda, oltre che dell'amico, di un
pigro giovane bassista/chitarrista amante di metal e pop - Dave Seger - e di un batterista appassionato di soul, Billy Sed.
La neonata formazione s’impratichisce ruminando cover, perlopiù classici country e blues (Louie Louie è tra i più gettonati),
dopodiché, coi risultati delle prime jam, incide un EP intitolato Will Wallow And Roam per la sconosciuta etichetta Boneless.
Roba acerba, certo, ma in tempi di revival ’80, con gruppi quali Franz Ferdinand intenti a rispolverare il sound delle teste
parlanti, i Giant Sandworms potrebbero rappresentare una felice riscoperta. Il loro sound è fortemente legato alle mode
musicali del dopo-punk, con Seger e Gelb, che si alternano nella firma dei brani, a conferire un'impronta smaccatamente
Byrne-iana a un impasto funkeggiante e alienato alla maniera degli Heads (si ascolti Electro Gospel).
Su tutto domina il mito e l’amore per l’epicentro da cui queste sonorità provengono: è infatti a New York che ben presto il
gruppo si trasferisce, stabilendosi prima a New Jersey e poi a Brooklyn. Orfani di Rainer, che mal sopportava l'anarchia del
gruppo, spinti dalla voglia di mordere anche pochi bocconi di quell’enorme mela delle opportunità, Gelb, Sed e Seger
giungono tra varie peripezie in un losco quartiere portoricano (droghe d’ogni ordine e grado, va da sé, diffuse come il pane).
È un periodo creativo e spensierato, che non gioverà tanto alla composizione quanto alla libera improvvisazione: i Giant
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Sandworms saggiano effetti eco e ritmi latini, suonando molto sia in privato sia in pubblico e tra le tappe live non manca il
CBGB’s, lo storico locale live newyorchese il cui palcoscenico ha visto dimenarsi tutti ma proprio tutti i miti pre e post punk.
Tuttavia è proprio da queste esibizioni che i primi dubbi s'insinuano in testa alla band. "Avremmo dovuto partire alla volta di
L.A. come fecero i Serfers (futuri Green On Red, ndr), invece di approdare nella terra del synth pop!", dichiarava Gelb in
un'intervista rilasciata nel '86. E lo spilungone di Tucson non aveva tutti i torti: quando uscì Tainted Love e esplose la moda
del "Crack Crack", come lui stesso vezzeggia il fenomeno, un gracchiante suono sintetico forgiava i gusti di un pubblico più
frivolo, non più propenso alle sonorità tipicamente chitarristiche di gruppi come i Modern Lovers e gli stessi Heads, i quali
finivano perciò per risultare antichi, imperdonabilmente fuori moda (si pensi che persino i Suicide proposero nell'80 un album
di pop addomesticato che aveva più a che fare con Mark Almond che coi deliri degli esordi).
Insomma anche negli USA, allo stesso modo del Regno Unito, la carica disperata e anarchica del punk si stava disinnescando,
almeno nei grandi centri; in provincia, lentamente e al riparo delle grandi mode del periodo, il rock chitarristico stava
segretamente rinascendo attraverso alcune figure chiave provenienti tra l'altro da uno stesso background di studi
(precisamente l'Università UC Davis, a metà strada fra San Francisco e Sacramento). Da quell'humus nascono in questi anni
le formazioni di Steve Wynn, Kendra Smith e Karl Precoda (Dream Syndicate), quelle di Russ Tolman (True West), Scott
Miller (Game Theory) e Guy Kyser (Thin White Rope), tutte dedite al recupero dello psych rock – sotto la cappa degli
umori post-punk - che prenderà il nome di Paisley Underground.
Mentre i Syndicate, senz’altro i più noti del lotto, facevano breccia nelle orecchie del
pubblico californiano con The Days Of Wine And Roses (Ruby, 1982), sapiente miscela
di rock adulto che prendeva sobriamente le fila da Velvet, Stooges e Dylan, gli altri
parteciperanno al revival riscoprendo il garage, il pop, il folk e persino il raga-rock,
aprendo la strada sia al grunge sia a quel rock propriamente desertico che i Giant Sand
svilupperanno a partire dalla fine degli anni ottanta.
Tornando a noi, la New York che entra nella decade più controversa della storia
americana vede Gelb e compagni alle prese con alti (pochi) e bassi (sempre di più)
creativi, tanto che trascorso appena un anno in queste strade, e col batterista Billy Sed
affondato in problemi di droga, il gruppo può dirsi allo sbando. Esasperato dalla
situazione, Gelb confida a Dave Seger di voler sparire per un po’. Infatti di lì a poco se ne
va nelle Black Hills del sud del Dakota a suonare del country, dando appuntamento ai
ragazzi, una volta sbolognata la sbornia cittadina, nella cittadina dove tutto è iniziato:
Tucson. E così accade. La band si riforma con una new entry - Scott Gaber, un appassionato di funk e soul - al basso e poco
dopo (1983) la riformata band incide il singolo An Evening At The Wildcat. Figlio di circostanze fortunate e registrato dal
vivo al Wildcat, famoso pub di Tucson, il 7’’ è pubblicato grazie all’aiuto di un improvvisato imprenditore venuto da fuori
città che si occuperà di coprire tutte le spese. Sul lato A troviamo Cross Of Wood, una canzone di Seger con Billy al canto
(n.b la batteria è una drum-machine acquistata da Gaber), mentre in quello opposto Coal Worker, una open song per la
chitarra nervosa di Gelb su una struttura sostenuta di funk. I segni della crisi sono ben evidenti, non tanto musicalmente
quanto per la linea da portare avanti: il gruppo non solo sembra inabile a decidere circa lo stile da prediligere sugli altri,
peggio ancora nella band non vi è un cantante vero. Se infine aggiungiamo i dissidi interni (la droga per Sted, un altro
progetto per Seger, l'interesse per l'elettronica di Gaber opposto a quello più “chitarroso” di Gelb) e la frustrazione per non
riuscire ad emergere, il fosco quadretto risulta completo. Le ultime tappe della saga vedranno un nuovo demo (il Jeffrey
Wood Produced Demo con Mad City/Don’t Turn Away/Longsleeves/Not Romantic) inciso a Denver, Colorado, grazie alla
fortuita collaborazione di un produttore - Bob Lambert - e un potenziale contratto la cui mancata firma porterà la band allo
scioglimento a quattro anni dalla nascita. Così, mentre il 7’’ Don’t Turn Away /Longsleeves, contenente due delle canzoni di
quelle session, vedrà la luce un paio di anni più tardi (1985) per volontà dello stesso Lambert, Gelb, stanco di abitare una
situazione per niente focalizzata, decide di ripartire da zero.
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Le ballate di un uomo tutt'altro che lineare
Con il solo Scott Gaber dalla precedente formazione, l’egida ridotta a Giant Sand, il gruppo riparte dall'essenza del rock con
una formazione a quattro elementi - basso, chitarra, voce e batteria - cui s'aggiunge sporadicamente il contributo di Cacavas
(dei Green On Red) alle tastiere. La distanza con la precedente esperienza è enorme, ben documentata in due album che
vengono sfornati a distanza ravvicinata tra il 1985 e '86 (lo stesso periodo in cui i Thin White Rope esordiscono con
Exploring The Axis, Frontier, 1985).
Aspri più di ogni altro gruppo Paisley, i Giant Sand dell'esordio (Valley Of Rain, Enigma, 1985) sono un
quartetto rock dalle tinte atroci e beffarde. A farla da padrone è una miscela molotov di post-punk e
country acido lontano anni luce dalle bizzarrie della maturità. Per quanto non manchino segnali di
eclettismo formale (l'incandescenza stonata delle chitarre fino alla parodia, l'esasperazione quasi beffarda
del canto) e una certa propensione alla ballatina malferma (la chitarra a strappetti e il pianoforte sbieco di
Artists), le canzoni sono canzoni vere e proprie, visionarie, tese e febbrili (quella specie di jam tra Clash, Jim Morrison e
Jerry Lee Lewis che risponde al nome di Man Of Want), contagiate wave per il taglio robotico (la sordida October
Anywhere) ma anche per l'epica romantica (la trascinante Valley Of Rain, con i sixties nel cuore e un grande Chris Cacavas
al piano). (6.8)
L’anno seguente è la volta di Ballad Of A Thin Line Man (Zippo, 1986), registrato perlopiù live, allo
stesso tempo più tirato (la tagliente nevrastenia blues di A hard man to get to know e l'incendio post-punk
della conclusiva Desperate Man, in ossequio ai demoni di Gun Club e Lou Reed) e riflessivo (il folk ad
altezza di crotalo di Who Am I e gli inneschi gospel che sparano la bucolica Graveyard su un palco di
Broadway). Un passo nel cuore nero di Dylan (la tesa cover di All Along The Watchtower) prendendo di
petto l'onda Paisley al modo dei sodali Dream Syndicate (si senta l'irruenza accorata di You Can’t Put Your Arms Around A
Memory o dell'iniziale Thin Line Man, con un sorprendente violoncello a connotarne le digressioni atmosferiche). (6.9/10)
Più o meno contemporaneamente Gelb dà vita, sempre in combutta con Rainer, al progetto country Band Of Blacky
Ranchette che frutterà due album (Heartland del 86 e Sage Advise del 90), per venir poi convogliato nel progetto principale
del musicista (salvo poi riapparire nel ’03 con Still Lookin’ Good To Me) (6.5/10)
Howe quindi in prima linea – assieme ai tosti contemporanei succitati - nella riscoperta di quel rock genuino e disincantato
che si spoglia dei fronzoli hippy e delle scheccate glam per reincarnarsi adulto, fermo e pure un po’ “reazionario”. Rock’n’roll
in primis, tanti Velvet Underground, l’elettricità hendrixiana, il blues rock di LA Woman, ma anche il ritorno al country,
magari con la romantica irriverenza insegnata dagli all’epoca strafamosi Gun Club, ma anche sospeso nel pedissequo incanto
di Gram Parsons o dell’uno e bino Neil Young (quello acustico delle corse all’oro e quello elettrico dei cavalli pazzi).
Tutti questi e altri ancora, acidi compresi, i combustibili della rivincita delle province targata ottanta. Rivincita non “contro”
qualcosa ma in continuità con la tradizione che oramai vuole anche dire Rock, un genere ma anche un modo di respirare l’aria
che è arrivato nei deserti e nelle contee.
Quando nel confezionare Storm (Demon, 1987) i Giant Sand smorzeranno i toni, addomesticando la
chitarra, con Gelb addirittura seduto al pianoforte per cantare come un Roger Waters su un testo di
Dylan (Was Is A Big Word), molti rimarranno delusi da quello che somigliava più ad un rock radiofonico
che ad una manciata di brani dall’underground pulsante di quegli anni. Pur mantenendo ferma una vena
narrativa sempre al servizio di piccoli quadretti agrodolci, canzoni tipo Town With Little Or No Pity
mescolano ritornelli country-pop dalle strofe che menano il Roy Orbison per l’aia, senza nessun riguardo per il ricordo
ancora fresco – però già lontano - delle rasoiate psych in Thin Line Man. Tuttavia, nonostante alcuni episodi deboli come
Uneven e Light Of Day (che citano mediocremente Young e Reed stemperandoli in una vaga aura fifties), quello di Storm è sì
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il Gelb meno sensazionale ma senz’altro ugualmente astuto nel somministrare istanze rock più stereotipate senza rinunciare
alla mescolanza bizzarra, pratica cui il ragazzone si presterà sempre più, fino ad identificarsi nella pratica stessa. (6.2/10)
La terra di mezzo
Nel 1988 la traiettoria dei Giant Sand prende una piega ancor più inaspettata. The Love Songs
(Homestead, 1988), l’album inciso a Los Angeles che vede l’entrata nella band del batterista John
Convertino, è un ennesimo ritorno, ma non ai sessanta adulti dei Velvet come qualcuno poteva attendersi
bensì all’apoteosi rock cialtronesca di Exile On Main Street a firma Stones. Sfrondate di ogni sapore
perverso o aggressivo, le pietre rotolanti più scellerate che si ricordino vengono così ripescate e rimesse in
moto. Alla loro etilica veemenza s’aggrappano brani chic con tanto di organetti funky-soul e coretti pop femminili nello stile
delle Go Go’s (non a caso collabora al progetto Paula Jean Brown, una delle componenti del citato gruppo teen-pop, nonché
all’epoca moglie di Gelb e tutt’ora al suo fianco come session woman). Con le canzoni d’amore, che poi non hanno nulla a
che fare con questo tema, si fa strada un Gelb sbilenco e pazzoide, giocherellone e naif. Lo fa pasticciando sornione, balzando
da uno stile all’altro, manipolando il linguaggio musicale senza fretta, con frequenti cambi di tempo e col piccolo aiuto d’un
Cacavas onnipresente alle tastiere/organetti. Le spezie impiegate sono le più varie: tanto soul, il blues, la ballad reediana e
younghiana, la chanson française (Is that all there is?), il rag time, il Dylan strascicato (Love Like A Train), il valzerino in
punta di piedi à la Waits (sempre Is that all there is?) e persino il racconto in rock mutuato dal glam sempre a firma Reed ma
periodo Bowie (Mountain of love). È un album che dispiacerà ai rocker ma che tutto sommato rappresenta una piacevole
riscoperta per chi ama del Gelb maturo proprio l’istrionica abilità nel far cozzare i generi. (6.1/10)
Come se non bastasse, l'anno successivo, arriva l'ancor più interlocutorio Long Stem Rant (Homestead,
1989). Inciso in solitudine assieme a John Convertino in uno sperduto Motel a Rimrock (una località non
ben precisata dell'Arizona) e distrattamente post-prodotto a Los Angeles, il lavoro rappresenta l'ennesimo
banco di prova per i fan e la critica, sempre più spiazzati dalla squinternata e imperfetta vena del
cantautore. Partorito in soli tre giorni, l'album è uno zibaldone di appunti, schegge impazzite e piccole
gemme. Non mancano le canzoni canonicamente intese, ma sono pur sempre isolette perse in un marasma generale che
prende di volta in volta la forme del jazz (Smash Jazz), dell’hair metal (Bloodstone), del cocktail lounge (It's Long 'bout Now)
e persino del rap (Sandman). È un lavoro più che mai grezzo, che segue la vena a bassa fedeltà riscontrata in The Love Song
portandosela via, lontano dall’atmosfera pressurizzata della sala d’incisione, via dal clima asettico delle session in studio.
Da quella cameretta d’albergo in mezzo al deserto esce buona musica, fresca e vivace, come quella Paved Road To Berlin l’unico brano di una certa durata (la media è circa due minuti!) - che affoga Springsteen e Violent Femmes sotto pesanti
distorsioni, oppure la nervosa Anthem che sfiora il noise-rock, o il rocambolesco folk‘n’roll della finale Get To Leave.
Ci sono poi momenti più folk, come In Sucker In A Cage (una sonnacchiosa ballata dylaniana a ritmo di cow-punk), che
rivelano quella che diventerà una tipica atmosfera del Gelb maturo: la cosiddetta home music, come ama definirla lo stesso
autore, ovvero, musica per piccoli spazi domestici, musica da abitare, che racconta senza troppo intrattenere, che infonde un
mood più che comunicare qualcosa di preciso (si ascolti la ballata Loving Cup, un delizioso motivetto come tanti, colla
chitarra suonata a mo' di mandolino, che scorre come l’impronta di un ricordo, scivolando via leggera com’è venuta).
Seppur ricco di momenti energici, d’esperimenti più o meno riusciti e di curiose chicche, Long Stem Rant viene perlopiù
bistrattato dalla stampa, probabilmente dagli stessi critici che di lì a poco saluteranno (in positivo) l’ondata lo-fi.(7.1/10)
La trilogia desertica (e non solo)
Arriviamo al cambio di decade e nei negozi esce Swerve (Restless, 1990), la prima uscita degli anni novanta
nonché il battesimo di una specie di santa trinità dedicata al deserto (il luogo, l’idea, la categoria
dell’anima). Praticamente, è la scusa per mettere in piedi un progetto corale che vede ospiti illustri quali
Steve Wynn (che ha appena abbandonato i Dream Syndicate e sta per pubblicare il suo primo solista
Kerosene Man, Prima Records, 1990), il solito Cacavas, l'anziano country men Pappy Allen, la country
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woman Victoria Williams, il futuro caso discografico Juliana Hatfield (che da lì a poco esordirà con Hey Babe, Mammoth,
1992), la testa di limone Evan Dando e tanti altri; praticamente una congrega di amici pronta a dar vita – e non potrebbe fare
altrimenti - a un album diretto, con le chitarre sempre in primo piano e le bacchette a pestare schiocchi sulle pelli, con il caldo
organo di Cacavas a fare da contraltare nello stile del menestrello più famoso del rock. Dylan, dunque, a far capolino
aleggiando nella traccia d’apertura, e poi più esplicitamente con la cover di Every Grain Of Sand (dall’album Shots Of Love,
1981), ma non mancano situazioni più tese (il funky rock stoniano di Can't Find Love e il blues nevrastenico di Final
Swerve), ballate indolenti dai diari più raschiati di Lou Reed (personaggio che continua a illuminare la stella di Gelb più di
ogni altro) e funambolici fuori programma (la schizoide Former Version Of Ourselves, pasticcio di generi che cozzano l’uno
sull’altro tra jazz, blues-rock, algori Talking Heads, squarci rag Buster Poindexter e gag spettrali à la Residents, per non
tacere gli intremezzi avant - quasi zappiani- Swerver, Swervette e Swerving ). (6.8/10)
Appena un anno dopo, con l’ingresso al basso di Joey Burns (fortemente raccomandato da Convertino, col quale di lì a poco
farà comunella formando i Calexico), la band sembra assorbire le istanze della Band Of Blacky Ranchette e sforna il
secondo capitolo della suddetta “trilogia”.
Ramp (Rough Trade, 1991) è un lavoro per metà country (il romanticismo zuccheroso di Welcome To My
World con Pappy Allen al canto, l'acustica Seldom Matters con Victoria Williams al canto e all'armonica)
e per l’altra reed-iano ai limiti del plagio (lo sberleffo ipercinetico di Warm Storm - con qualche
concessione al divertissement pseudo-Dire Straits e un disincanto sgangherato quasi Pavement - e Neon
Filler, dalla palpabile inclinazione dylaniana). Non mancano i graffianti riff a cui Gelb appone sempre più
una firma personale (vedi la sordidezza blues di Anti-Shadow in mutazione hard-rock via electro folk, oppure il folk-rock
torrido di Z. Z. Quicker Foot battuto da una tormenta tribal-funk, o ancor più l'incandescenza sontuosa e scomposta un po'
Crazy Horse un po' Rock'n'Roll Animal di Always Horses Coming), così come i suoi classici siparietti che sanno tanto di
anni ’20 e di gag à la Woody Allen (l'annaspare stridulo e puntuto di Jazzer Snipe, i cambi di marcia tra sberleffo e
messinscena di Resolver). Varietà e citazionismo ad oltranza che se da un lato sbalordiscono (incantando o infastidendo,
secondo i punti di vista), dall’altro diradano ogni dubbio circa la condizione di inguaribile ossessionato in cui versa Gelb,
punto di raccolta e precipizio delle tante vie e modalità che portano al - e partono dal - rock. Come se per lui fare dischi
significasse radiografarsi l'anima, stendere sul tappeto la mappa della propria meraviglia, affidare ad una scaletta di canzoni
(spesso frammenti) il compito di intagliarne la fisionomia, non importa quante sfaccettature occorrano.
Il risultato è una sfida alla coerenza, un elogio della schizofrenia prima emotiva che stilistica, la cui integrità "sentimentale" è
garantita dall'intervento sempre un po' sopra le righe, sempre carico di un surplus di "fattore umano" - quasi ci informasse di
continuo del processo in atto, a svelare il gioco della rappresentazione come per scusarsene - di Mr. Howe Gelb. Che non è
ancora, certo, quell’uomo brizzolato con lo sguardo sempre qualche centimetro più lontano, coi pensieri ingoiati da un'ombra
che credi di poter toccare, autore di brani come Astonished o Shiver. Eppure quella voce rauca, così piatta e con poche
inflessioni, è mille miglia dalle sfumature che acquisterà con la sofferenza e la maturità dell’uomo che l’abita. Ma la strada è
la stessa, e l'incontro sarà inevitabile. Purtroppo (?).(6.3/10)
Tornando alla discografia, sempre nel 1991 Gelb pubblica in sordina il suo primo album solista, Dreaded
Brown Recluse (Restless, 1991) (un cocktail instabile di tradizione e disarticolazione, Dylan e Robyn
Hitchcock, Johnny Cash e i Venom, Neil Young ubriaco a sventagliare un collo rotto di bottiglia, spine
che si staccano d'improvviso a far precipitare il country-punk in un jazz club waitsiano...) mentre a Seattle
il Grunge straripa oltre i confini cittadini iniziando a dare precisi segnali al mercato e alle mode. (6.2/10)
Poco più tardi, il poliedrico (allora) capellone darà alle stampe il finale della trilogia Center Of The
Universe (Restless, 1992), gettando sul piatto una quantità di “difetti” che fanno pensare ad un vero e
proprio impasse creativo. Seguendo il trend cingolato e rumoroso del momento, Gelb calca il pedale della
distorsione, ingrossa la voce e - per non smentirsi in quanto a bastian contrario - aumenta il dosaggio dei
controcanti sbarazzini di Paula Brown. Mentre il chitarrista di Tucson dichiara che è l’album migliore
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della sua carriera, almeno fino al 2000 (si legga l’intervista su Blow Up n. 28 pag. 92), a nostro avviso è il più debole e
nemmeno ballate generose come Solomon's Ride riescono a rattoppare il buco (nell’acqua). (5.0/10)
Ma Howe è uno con la risorsa sempre pronta nel taschino: esaurita la spinta naif-caciarona, e ottenuto un favorevole contratto
con la Imago, etichetta distribuita dalla major BMG, prima di entrare nell'ordine di idee d'incidere un album "importante" dove l'importante è la coesione più che la torrenziale vena creativa - pensa bene di reinterpretare parte del proprio repertorio
in chiave sbrigliata, al limite della jam psichedelica.
Ecco quindi Purge & Slouch (Restless, 1993), un monumento di più di un’ora e mezza di frammenti,
visioni & dilatazioni, follie indefinibili (i siparietti straniti delle tre Overture - soundtrack d’incubo, ninna
nanna aliene e jazz sventrati), marionette Waits (la birbona Swamp Thing, il blues elefantiaco di Owed
Ode), il Johnny Cash più strascicato (quella Bender illuminata dal dobro di Rainer), imprendibili retaggi
psych-wave (l’acida Rice Road Rumba, la sordida Dock Of The Bay - Otis Redding in un breve trip
amfetaminico), senza scordare i referenti obbligati Lou Reed (sotto valium in Corridor), Neil Young (collassato in Blue Lit
Rope, enfatico in Elevator Music) e Bob Dylan (acerbo in Tripping Moon). L’insieme suona cromatico e svisante, svampito e
atroce. Come a dire, quasi l’aspetto definitivo dei Giant Sand, o meglio del loro mentore Gelb, la cui voce assume a tratti
l’oscurità polverosa degli anni a venire. Tirando le somme, un album folle ma buono, per quanto partorito quasi in souplesse.
(6.3/10)
Crisi e rinascita
Come si è detto, Gelb adesso deve fare sul serio e presentare i suoi Giant Sand a un mercato più vasto
perciò, spurgate le foghe per cocktail improbabili, con Glum (Imago, 1994) l’obiettivo diventa far
emergere pura quella trama desertica che ha accompagnato la crescita stilistica del musicista fin dagli
esordi.L’album, assemblato con calma e concentrazione, gode di una produzione seria che esalta il lavoro
di tutti i musicisti e può a buon diritto considerarsi come un ponte tra il passato e il futuro. Senza fatica si
possono ravvisare le micce dell'esordio (Thin Line Man) e gli stilemi rock più classici assimilati grazie alla trilogia del
deserto, tuttavia l'amalgama appare come rallentato e – finalmente, diciamo noi - più propriamente desert(ico).
Gelb preferisce ancora strozzare il registro più che impostarlo sinuosamente e emotivamente come gli sarà più congeniale
dopo il 1996, ma la sua chitarra, decelerata (ma più potente) e opportunamente distorta, è già un marchio di fabbrica dei Sand
a venire, proprio come il timbro della batteria di John Convertino è prossimo a quello inconfondibile del futuro progetto
Calexico. Con un Joey Burns e una (oramai ex-moglie) Paula Jean Brown più defilati, Gelb e Convertino, uniti da un
sodalizio oramai inossidabile, rappresentano dunque l’asse portante delle 11 tracce dell'album, impreziosite, tra l’altro, dalla
presenza gustosa ma sporadica dei soliti Chris Cacavas, Victoria Williams, Lisa Germano, Rainer, e Pappy Allen.
Brani che vanno dagli stop and go formidabili dell'omonima Glum, souplesse sognante e squarci nel cielo, alle ballad country
(un po' rock un po' no) di Happenstance e Left, schiuma di nuvole e tossici whisky. Non mancano momenti di tormenta psych
(Frontage Road), inevitabili siparietti jazz (1 Helvakowboy Song, con all'organo un Cacavas sbarazzino in stile Ray
Manzarek), abrasioni da cavallo pazzo (Painted Bird) e brani al pianoforte dove è sempre piacevole riscoprire Howe… e
chiaramente Reed (Spun). Per tutto questo Glum è il perfetto album Giant Sand, intesi come gruppo e progetto di squadra, una
via che sarà interrotta e prenderà un corso differente a causa di avvenimenti personali nella vita di Gelb. (7.0/10)
Spoke e gli amici di Dean Martin(ez). Morricone salta sul calesse
Tra il 1994 e la fine dell’anno successivo, mentre il gigante di sabbia rigurgita un titolo dopo l’altro, tra
compilation (Goods & Service), live (Backyard Barbecue Broadcast) e bootleg ufficiali (Volume 1:
Official Bootleg Series), in una smania che diventerà prassi nel nuovo millennio, eventi decisivi si
consumano nel paesino dell’Arizona. Per una volta non è Gelb il protagonista indiscusso di quest’avventura
bensì i suoi due comprimari. Parliamo di Burns e Convertino che, entrati in contatto con i conterranei
Friends Of Dean Martinez, un gruppo neoformato da Bill Elm e Tom Larkins (ex batterista dei Giant Sand), decidono di
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comprare degli strumenti musicali decisamente estranei al rock (al Chicago Store di Tucson) e intraprendere assieme a loro un
viaggio caratterizzato da spezie folk particolarmente latine e non di meno esotiche e cinematiche.
A chitarre, bassi e batterie s’aggiungono strumenti quali marimba, violoncello, fisarmonica, vibrafono e per la prima volta si
inizia a parlare di film-music e soprattutto di Morricone. Non è dato sapere chi abbia introdotto il Maestro ai ragazzi, o chi
abbia avuto la fantomatica idea di introdurre un po’ di spaghetti western nelle partiture del già desertico sound dei tucsoniani,
sta di fatto che The Shadow Of Your Smile (Sub Pop, 1995) presenta sin dalla prima traccia – il traditional All The Pretty
Horses – un piglio inedito. L’idea folgorante c’è già, ed è tutta lì, riaffermala (Chunder) farà altro che calcare un corso che si
preannuncia differente: proprio come se Lee Hazlewood cavalcasse con Clint Eastwood oltre il confine americano verso il
Messico, il mix proposto dal gruppo è un creativo frullato di stili sotto a un torrido sole dove il collante non è il testosterone
del rock bensì il sapore esotico delle orchestrine da ballo degli anni cinquanta, dei mariachi …e qualche peiota davanti a un
film di Sergio Leone. Joey, John e i Friends Of Dean Martinez per la prima volta coniano una sintesi originale all’interno del
Desert Rock, tratto caratteristico che diventerà (con il successo della band dei ragazzi di Gelb), un vero e proprio sinonimo
della categoria. (6.5/10) Nel frattempo, in quello stesso anno, una cassetta dei due Giant Sand intitolata Superstition Highway
(ora introvabile) inizia a circolare negli ambienti alt. country e l’anno successivo il duo è già richiestissimo oltre i confini
dell’Arizona. Barbara Manning, Richard Buckner, Victoria Williams, Michael Hurley, Bill Janovitz, Vic Chesnutt e Lisa
Germano sono alcuni dei nomi in vista che richiedono i ragazzi a gran voce, dando loro la giusta carica per incidere una
raccolta di canzoni originali.
Peel, uscito per una misconosciuta etichetta tedesca - la Haus Musik Records – e poi ristampato dalla
Quarterstick nel 1997, è il primo disco con il quale Convertino e Burns escono allo scoperto e l’album,
tolta ogni frivolezza propria (all’epoca) degli amici Friends Of Dean Martinez, è in netta continuità con
alcune jam di quest’ultimi. Filo rosso che vuol dire Morricone (Scout), cui il gruppo aggiunge tuttavia
umori scazzoni vicini al cosiddetto fenomeno lo-fi dalle parti di Lou Barlow e co. (Low Expectations), un
certo country-rock non distante da Halzewood (Sanchez) e alcuni profumi francesi pienamente figli del folk mediterraneo
(Mazzurra). Le influenze di Gelb non mancano e s’intravedono chiare nei lenti tra cui Spoke, traccia che darà anche nome alla
nuova edizione dell’album accreditato questa volta ai Calexico (n.b.: il moniker precedente era proprio Spoke). (6.8/10)
L’anno successivo sarà decisivo: Black Light, il primo lavoro licenziato attraverso la nuova ragione
sociale (ovvero California-Messico) è uno dei lavori che hanno segnato il mercato indie degli anni
novanta. Molto più che una raccolta di suggestive aperture poetiche, l'album è un felice connubio tra folk
popolare, patrimonio di comunità rurali e paesaggi agresti, figli dell'amore per Van Gogh. Se Spoke si
limitava al patchwork e allo scherzo, Black Light si pone obbiettivi tecnici e contenutistici molto più
profondi ed evocativi. In primo luogo, un’assimilazione matura della lezione morriconiana comporta un cambiamento nel
modo di concepire il suono, che trasla così da arrangiamenti finalizzati alla riproduzione delle dinamiche folk a quelli che ne
esaltano dinamiche temporali e spaziali. I Calexico suonano dando l’impressione che il sole sia veramente a picco sulle teste
degli ascoltatori, che il tempo si dilati al volgere del tramonto, ma non solo: su questi panorami si stagliano, solitarie e
introspettive, alcune splendide e accorate ballate inserite astutamente tra uno strumentale e l’altro, come tappe di un viaggio,
riflessioni, poesie, alito della vita. L'emancipazione dai modelli gelb-iani è dunque completa, parto di abili artigiani che sotto
un’apparenza di spontaneità e disinvoltura nascondono metodicità e accuratezza invidiabili. (7.8/10)
OP8. Giganti al bivio…
Gelb da parte sua non si cura della fama acquisita da Convertino e Burns, ma non è neanche tipo da stare
troppo a lungo a guardare: fermati i due attivissimi scavezzacollo decide di intraprendere un nuovo
progetto assieme alla talentuosa violinista e cantautrice Lisa Germano. Con Slush (Thirsty Ear, 1997), a
nome Op8, è come se i Giant Sand intuissero davanti a loro un bivio (l'ennesimo), avvertendo la necessità
di una mutazione, un processo di re-invenzione e ri-scoperta in cui l’ex musa di John Cougar si rivela
ingrediente decisivo grazie al suono della sua voce, alla sua sensibilità e presenza auspicabile. Sebbene la forma si coaguli
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soltanto per un attimo, è un intervallo sufficiente a fruttare undici capitoli di fascino esotico e sogni di sbieco, dove la
tradizione incrocia la visione fin quasi a deragliare (come in Lost In Space, alt-country formicolante e acidulo a firma Burns: i
Grandaddy ancora ringraziano, i Calexico si sintonizzano), dove la tragedia ricalca le orme del disincanto (vedi Never See It
Coming, valzer di tutte le malinconie a cuore pieno, non lontano da certo Will Oldham), dove il folk è solo una porta da aprire
sullo spampanarsi dell’anima (come in Cracklin Water, il cui motivo diverrà per Gelb un’ossessione).
La produzione è limata fin quasi al cesello, al punto che le consuete “stranezze” appaiono sempre contenute nei ranghi di un
disegno ben definito: così è per la romanticheria tanghesca della title-track, per la jazz-ballad sospesa in una fissità immobile
e cruda di The Devil Loves L.A., per l’inatteso sbocco psych-pop di Tom, Dick & Harry (con l’oppiaceo canto della Germano
e il finale che assomiglia a un’agra follia Flaming Lips). Questo Slush, da considerarsi poco più che una scappatella (non
s’intravede ad oggi alcuna possibilità di seguito), mette altresì a segno alcuni dei momenti più intensi e risolti della
discografia di ciascun protagonista: come la magnifica semplicità di Leather e il folk-pop lieve di If I Think Of Love (con la
Germano a metà strada tra una Suzanne Vega ai minimi termini e una Kim Gordon in vena di giuggiole). Spetta tuttavia alle
due cover che aprono e chiudono il programma gran parte della nostra attenzione: se sorge come un miracolo di limpidezza da
una caligine elettronica il mariachi-folk di Sand (pezzone a firma Lee Hazlewood, tra sabbie mobili d’organi, mandolino,
violino, fisarmoniche, vibrafono e corde bruciacchiate), si spegne in un lungo vortice di fumo la dilatazione sospesa di Round
And Round, uggia antica del giovane Young tra volteggi insidiosi di violino e l’enfasi inquieta di cento riverberi (voci e corde
e ammennicoli vari). Un piccolo capolavoro di passaggio che lascia una vivida scia di rimpianto, per quello che avrebbe
potuto essere e che - opportunamente - non è stato. O, per meglio dire, che è poi in gran parte tracimato sul versante Calexico,
lasciando i Giant Sand a indagarsi tra le giunture, in cerca di un’anima sempre più a fior di pelle, sempre meno capace di
lusinghe (per quanto mai a corto di tenerezza e pietà). (7.8/10)
Durante la lavorazione di questo progetto, Rainer - cresciuto tra le radiazioni dell’Arizona che uccisero John Wayne – muore,
e per Gelb inizia il “dopo”.
Fenomenologia del “dopo”
Cosa accade dentro l’uomo Howe ce lo dice il musicista, cioè la sua musica. A caldo, esce il disco solista
Hisser (v2, 1998), che rantola tra solitudine e inedia, scava dentro la voce, seduto sullo sconforto placato
di chi d'ora in avanti guarderà la vita con occhi socchiusi e continuerà a digerire gli stessi indigeribili
motivi-dolori. Tocca perlopiù alla chitarra condurre attraverso questa mesta strategia di ballate, una No
Name Guitar amichevole e ruvida (Temptation Of Egg), intima e pietosa (Cracklin Water), in qualche
modo consapevole di quanta ineluttabilità si nasconda in ciò che ti è più familiare, nell'intimo consumarsi del quotidiano. Poi
c'è il piano, che è forse il vero padrone di casa, anche quando è assente (come plausibile base di composizione, ad esempio di
pezzi come Explore You) o quando si accomoda in seconda fila (come in This Purple Child o nell'irrequietezza desertica di 4
Door Maverick); il piano che regola l'ordine di caduta della polvere, esplora e conosce ogni spigolo, ogni riflesso opaco sulle
vetrine (la malinconia incartapecorita di Creeper, i palpiti cinematici di Nico's Lil Opera, la soundtrack da film muto di Living
On A Waterfall).Del suono s'indaga la capacità di sollevare la scorza del ricordo (la slide trepida e gli archi in Catapult, i
mugolii ectoplasmatici di Thereminderer, i tremolii flangerizzati della struggente Like A Storefront Display) ben prima e più
di quanto possa e voglia la melodia, spesso appena abbozzata, un trascurabile tremolio del sismografo (come la penombra
pizzicata in Soldier Of Fortune). Quando la trama si fa più vivida e complessa, è come una finestra che si spalanca
all'improvviso, un vento febbrile d'un tempo irrecuperabile (il sabba di Halifax In A Hurricane, il cinerama gracchiante di
Satellite, il ghigno arcaico della title-track). Ma sono scintillii brevi in una stanza buia, in una coltre di malanimo domato,
ricondotto alla sua forma più sostenibile (la malinconia struggente di Lull) però definitivamente metabolizzato, senza
possibilità di remissione. (7.3/10)
Più avanti, a freddo, esce quel capolavoro inaspettato a nome Chore Of Enchantment (Thrill Jockey, 2000)
firmato Giant Sand. Un album che scende a patti col lutto, lo assolve e risolve, che saluta il vecchio secolomillennio e accoglie il nuovo, distribuendo in entrambe le direzioni malinconia, timore e una misteriosa
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eccitazione.Mai come in queste tracce la qualità della scrittura trova eco in una misurata stratificazione sonora (co-producono,
assieme a Gelb, Jim Dickinson, Kevin Salem e lo spirito affine John Parish), fatta di continue interferenze tra forme,
strutture e tempi diversi. La nostalgia papabile è quella di storie marginali ma vere, rosicchiate alla periferia del mondo, come
se lì e lì soltanto si celassero le ultime roccaforti dell'autenticità. L’album inizia col folk che sorge tra le palpitazioni
esistenzial/sentimentali di Dusted e brilla nello sfarfallio percussivo con fatamorgana di chitarra a rimorchio di Punishing
Sun, per quindi trascolorare soul nelle trepide spire di X-Tra Wide e poi incenerirsi nel rapido spurgo punk-rock di 1972.
Seguendo la scaletta ci coglie la sordida propensione soul/RnB di Temptation Of Egg (remake dell'omimo è ben più dimesso
brano che apriva Hisser), quasi fosse un rinvio in disimpegno di Lou Reed al quale viene dichiarata esplicita venerazione
nella successiva Raw – sorta di potenziale outtake di Berlin diluita in un solipsismo delirante Neil Young/Roger Waters.
Disco non facile da mettere a fuoco - d'altronde ha avuto tre produttori differenti ed è stato registrato in quattro città nel corso
di più di un anno - in cui sembra comunque d’intravedere un filo rosso che ci invita a proseguire lungo il funkettone un po'
insipido di Wolfy (che però d'un tratto si sgrana di lancinanti vibrioni country-blues), attraverso la gentilezza country/RnB
della languida Shiver, in quella sorta di Bob Dylan alticcio e disidratato che risponde al nome di Dirty From The Rain. Eppoi
il jazz che s'insinua nell'estenuarsi ombroso/esotico di Astonished, e ancora l'apnea melodica di No Reply, il rigurgito postglam di Satellite (tra l’immancabile Lou Reed e certe lunatiche alterità Sparklehorse) e infine le tracce stracciacuore in
chiusura (Bottom Line Man e l'ebbrezza da valzer di Way To End The Day). Tutto ciò è racchiuso da una breve Ouverture e
da una quasi altrettanto breve Shrine, dove la slide di Rainer Ptacek sembra colta nel suo infinito suonare sul sottofondo
dell'amato Donizetti. Proprio a Rainer, grande amico di Gelb deceduto nel 1997, è dedicato questo disco (come del resto
Hisser), un'assenza la sua di cui questo lavoro è pervaso, che a ben vedere potrebbe essere un plausibile tentativo di risolvere,
ricostruendone la memoria viva, la presenza persistente, in un gioco di strumenti-cose che suonano fino a divenire fisiche e
mistiche assieme, testimoni di un passaggio leggero e insostenibile. (8.3/10)
I Giant Sand sembrano consolidare i frutti di un’esperienza ormai ultradecennale, meditarci sopra anziché
buttarcisi, e colgono il segno. Così mentre la critica apprezza e consacra Gelb dedicandogli retrospettive e
speciali (la mitica copertina di Blow Up N. 28 del 2000) arriva, annunciata a gran voce, l’opera seconda
dei Calexico, Hot Rail (Quarterstick, 2000), un disco alla ricerca di risposte e nuove direzioni che
sembravano impossibili dopo quelle stupende e definitive di Black Light. Il successo arriva repentino e
non solo presso gli ambiti “alternativi” (il video di Ballad Of Cable Nogue si aggira spesso su Mtv) tuttavia l’album, ricco di
umori, sensazioni, attese e scenari incantevoli, risente della scarsità di quell’ingrediente raro e prezioso che è la poetica gelbiana. Hot Rail è un grande cinema, ricco di storie fagocitate nella più genuina dimensione della frontiera americana, con i
musicisti, a immergersi pienamente nella musica (Fade), a calarsi dentro le corde degli strumenti (16 Track Scratch) o
nell'intimo della pancia di una fisarmonica (Untitled III), eppure, fatto salvo per gemme come Service & Repair, l’assenza di
uno spirito pulsante inizia a lasciare vuoti difficilmente rimpiazzabili. Hot Rail ha rappresentato questa sfida, ma non è ancora
tempo di lasciarsi andare a facili disfattismi. (6.6/10) I Calexico, cavalcando l’onda della mania che si sta diffondendo un po’
dappertutto, iniziano un lungo tour, portandosi dietro gli amici mariachi. Il live set è una vera e propria festa e la tournée, che
tocca anche l'Italia (memorabile a tal proposito il concerto al Link di Bologna), manco a dirlo, è un successo. Galvanizzati da
tutto ciò, Burns e Convertino, proprio come la Gelb-philosophy insegna, fondano una micro etichetta - Our Soil Our
Strength - per pubblicare quante più possibili di quelle infuocate jam registrate tra una data e l’altra. Dalle session di questo
periodo escono a distanza ravvicinata ben quattro album: il trascurabile Travelall (2000, 5.0/10), il buon Aerocalexico (2001
6.7/10), il discreto Even My Sure Things Fall Through (che conteniene pure alcuni interessanti videoclip - 2001) e lo scarso
Scraping (2002, 5.5/10) dove, l'imperfezione e il bozzetto, la cover e la gemma perduta, dominano incontrastati.
Il superfluo necessario
Torniamo a Gelb: i suoi ultimi lavori in solitario e con i Giant Sand sembrano altrettanti collezioni di ritratti sparsi, tentativi di
ricostruire a memoria squarci di sogno, d’indagarne la persistenza forzandone la struttura, imbastardendo a bella posta gli
arrangiamenti e la melodia. Capitolo a parte merita invece Rock Opera Years (Ow Om, 2000). Più che un bootleg ufficiale,
come recita il titolo dell’album, e molto di più che una semplice raccolta di alternative take di Chore Of Enchantment, “Gli
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anni delle opere rock” è una sorta di messa in scena in grande stile della vita artistica del cantautore del deserto. Gelb
racconta e si racconta attraverso il filtro della rappresentazione, e lo fa apertamente, aumentando lo scarto tra sé e la propria
musica, al punto che sulle note di Music Arcade (cover del brano di Young dall'album Broken Arrow) pare lui stesso in
mezzo al pubblico intento a commemorare l'ultima cosa che suonò l’amico Rainer in occasione del Wooden Ball (un
concerto acustico organizzato dalle parti di Tucson circa nel 1995). In quest'album insomma il sapore è quello della fiction,
dello show dalle luci artificiali nel quale, attraverso gli stereotipi, la gente s'identifica facilmente sognando, sperando e
pregando per i propri eroi. Se Chore rappresenta il bignami degli umori del "dopo" in presa diretta, Rock Opera, caratterizzato
da una produzione più lineare - diciamo quasi "mainstream" - e da arrangiamenti più ricchi, è un album importante e forse,
appunto per questi motivi, superfluo. A dimostrazione di quell'ovvio che ogni intenditore del Nostro conosce già da tempo,
tutto in questa sede può apparire irrimediabilmente innocuo. Eppure, per una volta, il Gelb convenzionale strofa-ritornello
piace e addirittura sorprende. È una sorta di viaggio nel tempo dentro l’universo Giant Sand la sensazione che si ha ascoltando
gli inediti dell'album: l’iniziale Rock Opera - un buon country - ricorda quello radiofonico di Storm (seppur infarcito fino
all’assuefazione di luoghi comuni desert), la sorniona Hard On Things è una ballata nella vena più gigiona, chiassosa e
ubriaca del Nostro (il periodo è Love Songs), mentre il rock tirato e nervoso di Dilemma ci riporta dritti alla trilogia desertica.
Sul versante delle riedizioni da Chore Of Enchantment invece, l'idea è quella di un mood meno sonnacchioso e nostalgico e
quindi più waken up, più sveglio (hi-fi!) come nel caso dell'intrigante versione di (Well) Dusted (For The Millenium) - più
fluida grazie all’aggiunta di un riff più incisivo alla chitarra e di un curioso bridge colla pianola - e degli stravolgimenti di
Astonished - più briosa e sognante con tanto di pianoforte che ricorda una canzone degli Inxs (Never Tear Us Apart) - e
Punishing Sun - che toglie di mezzo il folk per darsi alla lounge più effimera. (7.1/10)
Con Rock Opera Years, Gelb si/ci regala sia una versione alternativa della sua rinascita, una piccola parentesi potremmo dire
perché, poco dopo, escono ben due album a nome Howe Gelb: uno è Down Home 2000, registrato in totale autarchia (17
tracce di cui 14 inedite per 44 minuti di musica); l’altro, con l'aiuto di alcuni amici, è Confluence (Thrill Jockey, 2001).
Down Home è il secondo tassello di quella che si è configurata recentemente come una collana di titoli,
tutti con lo stesso nome (il primo era un cd-r distribuito solo ai concerti risalente al 1998). A cambiare è
soltanto l'anno ma non Gelb che da queste parti è più che mai …casalingo (il nome dell'etichetta OW OM
si legge allo stesso modo di “Howe home”). È chiaro che il privée del Nostro sia dominio dei soli
aficionados del musicista ma, si sa, le sorprese sono dove non te l'aspetti. Questo cd, di fatto una raccolta di ballate, a
sorpresa, presenta alcuni e interessanti spunti: come la storia western di Horses Still Coming, il piccolo intermezzo al
pianoforte di Dispatch e il fosco country-blues di Timber Town. Piace questo Gelb seduto sul divano che intrattiene gli astanti
con la scafata esperienza del folk-singer attempato, anche se - ma certo – può essere soltanto una maschera pronta ad esser
dismessa alla prima occasione. Tuttavia, in questa strategia defilata c’è tempo e modo di consumare un intenso omaggio al
padre atavico del blues (R. Johnson Tribute), c’è la nudità del country-blues younghiano in apparente lotta con uno spinotto
difettoso (l’iniziale Rain M/W Parade), c’è una ballata strappata un po’ ai sogni un po’ al cuore (The Meantime), c’è insomma
Gelb e il suo lo-fi esistenziale, la sua ossessione per il non-rifinito, per il gesto appena colto al suo manifestarsi. Ancora
scalciante di vita. Significativo il fatto che gli ultimi sei secondi riprendano uno scampolo dell’introduzione a Blue Marble
Girl, la traccia più importante di Confluence, come a indicare una continuità estetica e sostanziale tra i due (diversi forse più
per la quantità di mezzi a disposizione che altro). (6.6/10)
Confluence, ovvero là dove s'intravede la carne e l'anima oltre la scorza bruciata dal sole, è il terzo disco in
solitario (anche se, come già detto, la solitudine per Gelb significa anche “assieme ai soliti amici", in questo
caso John Parish e Grandaddy, più Burns e Convertino). Come per Down Home, non siamo di fronte ad
una smentita del Rock Opera Years quanto al consolidamento di una vena parallela che sgomita per
trasferirsi stabilmente in prima linea: il suo lato più intimo, quell’incedere tra frammenti d’uomo esausto,
schiacciato da un disincanto cosmico, trascinato a braccia dalla propria ossessione, con la canzone-castello di carte sempre sul
punto di sfaldarsi (vedi la sgangherata Cold). Anche il numero dei brani, diciassette, è identico a quello di Down Home.
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Troppi forse, anzi no, ognuno funzionale a questo gioco di scultura e dispersione. Un gioco che traccia coordinate impalpabili
della/nella memoria, s’impone farraginoso con l’indolenza di bozzetti tanto malfermi quanto struggenti (Can't Help Falling In
Love, cover elvisiana registrata nel bagno di casa Gelb con il contributo dei Grandaddy), con la vaporosa risolutezza di
atmosfere che nascondono una crepa del cuore per ogni lusinga (Available Space e Shadow Of Where A River Ran). Ovvero:
le mappe di una fisiologica alterità, il disagio esistenziale risolto spostandosi su un piano diverso di vivere e sentire, definendo
una dimensione parallela in cui scaglie di deserto (3 Sisters) e fremiti black (scosse funk come lampi nel languore fosco di
Pontiac) confinano con sentori d'Europa e afrori desertici (2 Rivers, le due versioni di Vex), prima che il rockaccio
"animalesco" di Slide Away spazzi via tutto grattando la pancia del cielo, in una lunga, inquieta, rarefatta, instabile, densa,
lenta, catartica esplosione. La voce è tiepida, impastata d’amarezza e di buio, anche quando s'imbizzarrisce (come in Hard On
Things, rielaborazione radente e arcaica del country-blues saltellante contenuto in Rock Opera Years) lo fa con un’ombra di
tragedia e abbandono. È altresì impossibile immaginare una voce migliore per queste peripezie da hobo alle prese con le
proprie allucinazioni (Hatch, nient'altro che la "vecchia" Cracklin' Water riemersa dai "fasti" Op8), che abbaia alla luna
(Pedal Steel And She'll, slide e dobro in punta di dita), che non manca di omaggiare quel mistero cui da sempre è devoto (Blue
Marble Girl, vicina al Lou Reed più sognante e impalpabile). La trepida desolazione dei tempi di Hisser appare come
assimilata, trasformata in qualcos’altro, forse fatalismo o rassegnazione, più probabilmente la consapevolezza - non priva di
un certo compiacimento – d’aver imboccato un sentiero espressivo congeniale. Howe si guarda di spalle mentre procede
caracollando tra cactus e crotali, tra marciapiedi lucidi di pioggia e binari che tagliano le periferie, vede ciò che è diventato e
si riconosce, capisce di non poter essere n é meglio né altro. (7.1/10)
Più o meno contemporaneamente, esce un altro album solista di Gelb (l'ennesimo, comincia a vociare
qualcuno), ancora più defilato e indefinibile: Lull Some Piano. Diciannove tracce i cui titoli, letti uno dopo
l’altro, compongono la frase “do you see what happens when none of this tracks needed to have names but
now they all do”. Una parola per canzone. Ogni parola, un titolo. Per canzoni senza parole tranne una, il
mormorio da jazz club di See, tra croonerismi impolverati e doglianze sonnacchiose.
Il piano, soprattutto. Accompagnato talora da una batteria sfarfallante nel buio, da un’orchestra, da un contrabbasso che pulsa
stopposo. Più spesso, attorno al piano solo il silenzio. Anzi, sempre. Anche quando annega in un suono levigato dalle suadenti
forme standard, con appena un’ombra di stravaganza a disarticolare la compostezza immobile dello sfondo. Sembrano delle
quasi-improvvisazioni, spunti di romanticismo crepuscolare, Chopin impanato di sabbia e tramonto. L’autore che pensa, si ripensa, si aggira con scrupolo e circospezione tra le proprie irrisolte malinconie ricavandone bozzetti sospesi, soundtrack
estemporanee di immaginari film muti. È un disco elegante e nudo, in cerca di eleganza nel nudo svolgersi del dolore. Un
disco laterale, di passaggio ma anche pervaso da quella noncuranza lucidissima che rende indistinguibile – confondendoli l’accessorio dal necessario, il profondo dal superficiale. (5.5/10)
La copertina del giornale che ritrae un …falso finale
Il 2002 porta un nuovo album e una notizia inattesa. Buono l’album, pessima la notizia: Cover Magazine
(Thrill Jockey, 2002) viene presentato da Gelb, Burns e Convertino come l’album d’addio dei Giant Sand.
Non c'è ombra di rancori, nessun segno di screzi: l'annuncio viene dato con pacifica seraficità, come un
fatto che attendeva solo di compiersi, inutile piangere o recriminare. In fondo, non poteva che andare così,
considerato il passionismo nomade di Gelb, quel suo portarsi dietro tutto senza piantare mai radici, quel
suo stringere legami che permangono indissolubili ma solo in quel west affettivo che gli cova tra i sogni.
Cover Magazine, prodotto dallo stesso Howe e Craig Schumacher, dice già questo, presentandosi come il disco delle
ossessioni di Gelb suonato dal suo combo preferito, il più adatto per dar loro corpo, nell'occasione allargato a Grandaddy,
Candie Prune, M. Ward (suona il piano in Plants And Rags), Pj Harvey, Neko Case (suoi i fantasmatici cori in Wayfaring
Stranger) ed altri. E Burns e Convertino? Ormai presenze eccellenti, aficionados di lusso (col sospetto che sia sempre stato un
po' così). Siamo quindi già oltre i Giant Sand, siamo nel territorio dei miraggi sfilacciati, delle disperate scelleratezze post
punk (le torride sfrangiature di Johnny Hit and Run Pauline degli idolatrati X, con Polly Jean Harvey ad improvvisare un
ritornello sconosciuto fino a venti minuti prima), delle gracidanti baldanze country (una più che emblematica I'm Leaving
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Now a firma Johnny Cash). Un luogo sconosciuto alle mappe comuni, dove l'hard può sfarinarsi rumba (l'altrimenti icastica
Iron Man dei famigerati Black Sabbath), dove il blues più intossicato consuma l'ultimo incendio (il sordido rovello di Red
Right Hand - classico di Cave), dove le malie avant-pop perpetuano il fascino oltre la straniante destrutturazione (il medley
Human/Lovely Head, pezzi targati Goldfrapp, altra dichiarata ossessione gelbiana), e dove il più atroce sussurro si rovescia
nel sogno di tutte le prospettive (la torva El Paso di Marty Robbins fusa all'empito inquieto della Out On The Weekend
younghiana). Ed è anche la migliore occasione per ripercorrere il se stesso più recente, quello che ha digerito il "dopo" nel
laconico incanto di Blue Marble Girl (qui surriscaldato fino a sfrigolare come un reperto Crazy Horse-Dream Syndicate per
poi dilatarsi tra narcosi lo-fi e fantasie popadeliche), così come per rivangare il passato di quella The Inner Flame di Rainer
Ptacek che sbriglia una sordida tensione blues trafitta da scariche improvvise e sussulti gospel-soul.
Chiude il programma un'ultima, ennesima ossessione, la The Beat Goes On di Sonny Bono (tra l'altro presente pure a metà
scaletta in versione ben più lunga e scoppiettante), rumba che corre su un ordito scarno, con la fierezza di chi sa di poter
contare sulla propria sbrigliata autarchia. (6.3/10)
La delusione dei Calexico
Per la fatidica opera terza della creatura di Convertino e Burns occorre attendere il 2003, l’anno di Feast
Of Wire (City Slang, 2003) che segna una, dicono alcuni, preannunciata crisi. L'album, una raccolta di
brani contenente 16 tracce, di cui ben 9 strumentali, si pone a metà strada da tutti i precedenti (ufficiali):
possiede più humour di Spoke ma non può gareggiare in freschezza con esso, possiede pathos e atmosfere
calienti ma la magia di Black Light sembra ora un lontano ricordo. I Calexico scelgono la strada della
leggerezza e dell'impalpabilità, ma a vacillare è la scrittura, proprio come accade nel singolo dai sapori caraibici Quattro. In
assenza di novità stilistiche, Feast Of Wire delude parte della critica ma il pubblico, grazie anche a MTV, conosce il gruppo
per la prima volta in quell'anno. (5.5/10)
Il 2003 comunque è soprattutto l’anno decisivo per l’Howe Gelb – consentiteci – cantautore. Esce infatti
The Listener (Thrill Jockey, 2003), il disco che ne consacra la maturità nonché l'inevitabile imprendibile
vena obliqua. Circondandosi di nuovi musicisti, tutti danesi e inciso proprio in Danimarca, patria della sua
seconda moglie Sophie Albertsen), l'album sfodera l'oramai consueto melting pot di casa Gelb: il menù è
sempre lo stesso ma le pietanze anziché sfornate al volo sono servite tiepide (ma pur sempre saporite). È il
piglio dunque a cambiare con una Felonious che s'infila come sberleffo assieme reed-iano e monk-iano, e una B 4 U dove lo
scherzo continua a mescolarsi e a confondersi con la citazione (…quel "Do Do Do"). Da altre parti un Gelb sciolto e
dinocciolato si fa strada tra i colori della Costa Azzurra e quelli di Madrid (Torque), in altre ancora si vede il disimpegno (il
cool-jazz di Piango – ovvero quello che i Calexico stavano provando in Travelall) e infine un po' di delusione nel trittico The
Nashville Sound, Blood Orange, Moons of Impulse salvo poi la ripresa con stile del finale (la bella Now I Lay Me Down, un
sogno da svegli, una peregrinazione country-blues, pregar narrando con profusione di violino, wah wah e theremin). A conti
fatti viene il sospetto che The Listener sia un album superfluo o tutt'al più inutile alla luce della produzione precedente (come
potrebbe non esserlo!), sta di fatto che Howe come l'ha finito se n'è pure scordato e senza nemmeno posare gli strumenti
riesuma niente di meno che la Blacky Ranchette, band simbolo del compianto Rainer. Ad accompagnarlo in Still Lookin’
Good To Me (Thrill Jockey / Wide, 2003) troviamo una line-up di super star dell’alt-country, tra gli ospiti: John Convertino
(lesto al solito ai tamburi di The Train Singer’s Song, Square Bored Lil’ Devil), Neko Case (al canto in Mope A Long Rides
Again e in duetto con Richard Bruckner in Getting It Made), Kurt Wagner (The Muss Of Paradise), Jason Lytle (Working
On The Railroad), Chan “Cat Power” Marshall (My Hoo Ha) e infine l'ottimo M. Ward (alla slide in Rusty Tracks). Il
risultato è una collezione di buona fattura dove Gelb riscopre il piacere di suonare dentro gli "steccati" accanto a alcuni amici.
Niente pasticci dunque, ma semplicemente della buona musica. (6.6/10)
Il 2004 viene “inaugurato” da una delle tante, consuete uscite “minori”: è Ogle Some Piano (Ow Om, 2004), sorta di risposta
a Lull some Piano di due anni prima, di cui ripercorre l’estemporaneità “organizzata” perlopiù attorno al piano. La differenza
più evidente sono i titoli, che per una sorta di contrappasso – o per la sindrome da bastian contrario (anche e soprattutto di se
stesso) succitata – si stagliano fluviali. Tanto per fare un esempio, Splendid In A Way And Especially Unseething In Its Most
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Popular Format (per la cronaca, rumba per contrabbasso e piano), oppure Hokum Bigboy Was Probably Not His Given Name,
But Just To Make Certain We Reaffilated (jazz scivoloso squarciato da stasi ritmiche e una trepida tromba davisiana). Tanto
per ribadire il cerimoniale dei “dischi gemelli”, il numero di tracce - ben diciannove – è identico a quello di Lull. Nello
specifico, due sono brani lunghi (i dieci minuti della mini-suite iniziale Spangle Bib Of Radiant Value e i sette della già citata
Hokum Bigboy) e la maggior parte degli altri brevi se non brevissimi, schegge d’inquietudine (Drink Ticket Trinket),
d’improvvisa baldanza (la bossa di Expresso Spills Specifiically On The Italian Truck Stop Tie, And For A Moment, Aids In
Its Re-Design), d’acredine (Ogle) e svagatezza meditabonda (Re-Envision Stream Block And Then Fumble). Vale lo stesso
discorso già fatto: consideratelo pure un episodio trascurabile, ma tenete conto che, anche in questo caso - forse soprattutto in
questo caso - trattasi di un’entrata laterale, e quindi un’entrata, allo struggente spettacolo del circo gelbiano. (6.3/10)
(Ri)costruzioni
Poi, avviene l’inaspettato. Ovvero: torna l’entità Giant Sand con un disco nuovo di zecca. Un buon disco, dal titolo
interrogativo: Is All Over The Map? (Thrill Jockey, 2004, vedi recensione su SentireAscoltare N°1) (6.7/10)
Finale?
Sul palco più che su disco, Howe ti trascina nella propria confusione mentale, te la
confessa candidamente, obbligandoti ad accettarla così come lui l’ha da tempo accettata.
Il suo mescolare cover di canzoni lontane mille chilometri, Goldfrapp e Neil Young,
Black Sabbath e Johnny Cash, gli X e PJ Harvey, Sonny Bono e Nick Cave,
Madonna e Tom Waits… E, magicamente, di ognuna accendere la malizia nascosta, la
stilla di magia. Nonostante. La schizofrenia stilistica è Gelb stesso, la sua ossessione.
Ogni disco, ogni concerto, sono una rappresentazione di Howe, punti di convergenza su
una mappa senza confini. Quel cercarsi continuo, forzando le strutture delle canzoniricordi fin quasi a stravolgerne l’essenza, è l’unico messaggio trasmissibile da un
individuo che fatica a riconoscere i limiti della propria patologia, i cui sintomi sono un
gesto senza posa: ascoltare. E, in esso, come fosse la stessa cosa, vivere. Il Gelb maturo fa questo con una franchezza cupa e
gioiosa, si mette in gioco fin nell’intimità, coinvolgendo tutta la propria esistenza nel “momento” artistico. La differenza è che
oggi, o meglio dalla morte di Rainer in avanti, diradato il polverone del balletto di forme e sostanza, l’entusiasmo folle e
scellerato del giovane rocker è stato rimpiazzato da un disincanto senza requie. Allo stesso tempo, è ancora un gioco, una
cortina fumogena, uno schermo, lo scudo che ripara dalle badilate di una memoria crudele. E forse questo spiega tutto, sì. Non
ci sarebbe bisogno d’altro. Di Gelb, del suo songwriting sublime e sgangherato, invece sì.
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Wolf Eyes
di Edoardo Bridda
Sintetizzando l’apocalisse dei primi Swans e i deliri dei Throbbing Gristle attraverso una barbara sevizie
delle apparecchiature elettroniche più disparate, i Wolf Eyes riprendono un discorso musicale lasciato
interrotto dai grandi "concretisti" americani Mnemonists (futuri Biota). Il recente Burned Mind è un inferno
che ha tutta l'aria di un Twin Infinities targato 2000.
Manuale degli errori/orrori
Fedele all’etica DIY professata dal credo punk, il marchio Wolf Eyes mette in
scena la mutazione genetica sin dall’inizio e lo fa attraverso rumori grezzi e lo-fi,
trasfigurando in chiave elettronica alcune suggestioni industrial d'annata e
manomettendo la tecnologia. È un calderone fumante e nauseabondo: un mondo
popolato da una fauna di subalieni a metà fra "Alien" e gli orrori genetici de "La
Mosca", tra una flora di pigolii, ronzii e cicalecci.
Il magma sonoro inizia a ribollire già dal 1996, con il solo (ed alchemico) Nate Young a trascorrere il tempo nelle viscere di
Detroit alle prese con ogni sorta di macchine. In un’atmosfera già avvolta da una certa mitologia, è in questo periodo che i
primi synth, beatbox, radio, transistor, vecchie console per videogiochi, nastri, videoregistratori e persino orologi a cucù
vengono sottoposti a sevizie d'ogni guisa, che ogni spasmo di quei rottami viene catalogato, ogni errore (o bug) tecnologico
contemplato in presenza di possibili varianti e nelle combinazioni più disparate. I sintetizzatori subiscono le nefandezze più
efferate: vengono smontati e poi assemblati, i loro software corrotti così che del suono originale resti soltanto un lontano
ricordo.
Dopo un anno, l’arsenale di Young può contare su un parco di mostriciattoli sonici sufficientemente variegato; a quel punto il
musicista rompe il solipsismo creativo entrando in contatto con Aaron Dilloway, proprietario di una micro label chiamata
Hanson. Il piccolo tenutario discografico, anch’egli manipolatore sonoro - e torturatore di strumenti acustici - , diventa presto
un compagno inseparabile per il guerrigliero di Detroit e i due, come templari vestiti da Mad Max, iniziano a sfornare a spron
battuto cassette, cd-r e sette pollici in rigorose tirature limitate. Mentre la smania creativa cresce di pari passo con
l'esperienza, a seguito di una piccola parentesi newyorchese in trio con Andrew Wilkes-Krier - un party animal noto ai più
come Andrew WK - i due prendono residenza definitiva presso Ann Arbor, Michigan, e conoscono John Olson, anch'egli
responsabile di un'etichetta, la American Tapes (un realtà simile alla Sound@one dei NoNeck Collective e la Chocolate Monk
di Prick Decay). I risultati di quell’amicizia si trasformano ben presto in frequenti uscite discografiche: già nel 2001 si
contano oltre una ventina (!) di titoli a nome Wolf Eyes, secondo il classico modus operandi da collettivo hardocore-noise
anti-sistemico, destinato irrimediabilmente ai margini del mercato musicale. Eppure, a partire dall'inizio del 2003 gli eventi
prendono un corso inaspettato: prima un accordo con la Troubleman, etichetta del lungimirante Mike Simonetti, porta alla
realizzazione dell'ottimo EP Dead Hills e, poco più tardi, la stipula di un inaspettato quanto promettente contratto con la Sub
Pop apre le porte ad un mercato e una visibilità ben maggiori. La storica etichetta che ha patrocinato la nascita di Nirvana e
Smashing Pumpkins sta tentando in questi ultimi anni di rimettersi in gioco e Young e co. rappresentano la punta
dell’iceberg di un sottobosco di terroristi che potrebbero diventare un nuovo trend di qui a poco, proprio come lo erano stati
una decina di anni fa i Matmos per la scena indie-electronica di S. Francisco (quella che per intenderci comprendeva Lesser,
Kid 606 e Blectum from Blechdom)
Ottenuta carta bianca dall'etichetta, i Wolf Eyes, invece di licenziare un album più accessibile come molti si aspettano,
consegnano il barbaro Burned Mind (distribuito nel nostro Paese da Audioglobe a partire da ottobre 2004), una sorta di
delirio à la Twin Infinitives dei Royal Trux. Se l'album diventerà altrettanto "cult" lo vedremo soltanto fra un po' d'anni;
intanto l’eco di tali arditezze non è sfuggita alle antenne sensibili di The Wire, la popolare rivista anglosassone, che ha
dedicato al gruppo la copertina del numero di novembre con tanto di lungo articolo e intervista. Dulcis in fundo, persino i
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Sonic Youth sotto forte pressione di Thurston Moore li hanno voluti come opener ai
concerti in occasione della recente tournée americana. La storia è ancora tutta da
scrivere…
Dead Hills (Troubleman, 2003)
In seguito alle oscure e fittissime uscite degli ultimi anni - tra cui ricordiamo lo split
coi Black Dice del 2001 e Dread, il primo LP prodotto in quello stesso anno dalle
etichette di Olson e Dilloway in tandem - e alla partecipazione alla fondamentale
compilation del 2002 chiamata If the Twenty First Century didn't exist it would be
necessary to invent it (con il brano Cut The Dog), i Wolf Eyes licenziano questo EP
grazie alla Troubleman, etichetta del lungimirante Mike Simonetti spostatasi in
pochi anni dal post-punk creativo degli Shotmaker a gruppi diversi per intenti ed
estrazione(come gli avant-rockers ABCS o le eroine neo-new wave Erase Errata).
Sin dalle prime note, Dead Hills emana un olezzo di morte: lo scenario è quello di una qualche cloaca putribonda abitata da
un formicaio extraterrestre dove compare, a sommi tratti, l'attitudine "materica" che rese pregevoli i Mnemonists.
Considerati gli svariati cicalecci e versi che si respirano minuto dopo minuto in quello che si configura come un abisso
siderale caratterizzato da un'intensità "cosmica" crescente, potremmo addirittura pensare a degli Animal Collective post
atomici. Le tinte sono quelle dell'inferno bosch-iano: il giudizio è già compiuto, la dannazione è eterna. Il climax, giocato
sulle sincopi dei bassi analogici rubati al ghetto e le urla indicibili di Young, prende una piega differente nella seconda traccia,
meno criptica e a suo modo più ammiccante: di fatto è un sabba dalla crescente tensione che, invece di esplodere, si dilegua
come in un qualche spaventevole rituale satanico. Dead Hill 2 - secondo chi vi scrive - rappresenta una preziosa e mirabile
sintesi: la risposta definitiva del combo alla rigidezza dei Pan Sonic, ma altresì una fucina dove Swans, Throbbing Gristle e
i due finnici autori di Kesto convivono armoniosamente (sempre che la parola armonia si possa usare in questo contesto). La
terza e ultima puntata della saga - Rotten Tropics - non farà altro che sciogliere con furbizia i vagiti à la Genesis P. Orrige
(che dei Gristle era l'urlatore) del precedente brano in una melma putribonda scandita da rintocchi di basso e da marci cigolii.
Sorta di inferno dantesco in tre gironi, l'EP rappresenta lo stato dell'arte nell'emergente scena noise americana (Dead Hill,
Dead Hill 2, Rotten Tropics). La sua importanza consiste non tanto nel giocarsi la carta di una esperienza d'ascolto estremo,
quanto la rappresentazione della sopravvivenza del suono. Suono che ci divora implacabile come le astronavi di Space
Invaders, che avanza senza pentimento come i laser di Defender. In definitiva: un sound del Post Game Over. (7.5/10)
Burned Mind (Subpop / Audioglobe, 2004)
Registrato tra l'ottobre 2003 e il giugno 2004 al Key Club di Benton Harbor, MI sotto la supervisione di Bill Skibbe e Jessica
Ruffins e missato da Brendan M. Gillen (acclamato dj/sperimentatore di Detroit noto anche come BMG o Ectomorph),
Burned Mind riesce ad essere truce ed anarchico ancor più dell'EP Dead Hills: da una parte l'effetto shock a base di sabba e
urlacci melmatici si riaffaccia intatto, dall'altra la presenza di stasi sinistre e persino un paio di silenzi cage-iani rinverdisce il
parco di torbide nefandezze. Posta a principio dell'album, Stabbed in the Face (anche in 12'' e scaricabile dal sito della Sub
Pop) è una dichiarazione di guerra bella e buona: l'astronave Galaga è approdata, ma dalla sua pancia non escono i Visitors
con le tute rosse, bensì sincopi mefitiche, glitcherie alla Ikeda, urla à la Genesis P. Orrige, fischi di Ventolin (come li
avrebbe voluti il diabolico Aphex Twin) e bordate di basso a mo' di radiazioni letali. Fortunatamente tanto splatter ed
effettismo "boom" alla maniera dei primi Swans viene intelligentemente dosato per dare maggiore risalto all'industrial
ambientale, senz'altro la specialità del combo. In brani come Urine Burn o Village Oblivia un microcosmo costituito da fauna
rettiliforme di serpenti e flora di carcasse metalloidi è mirabilmente dettagliato, seppur nello spartano modo di Young e co.,
che hanno così modo di sfoderare le ultime armi thrash concretiste come il fiatone di Alien, i cicaleggi di qualche mutoide
spaziale, la melma acquitrinosa di una tundra desolata, gli spari e le rasoiate di chitarre immolate alla distorsione perenne. I
Pan Sonic ritornano nei bassi imperturbabili di Rattlesnake Shake, mentre l'incubo sabbatico sbuca nuovamente nell'omonima
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Burned Mind, traccia forse un po' scontata che rimugina le deflagrazioni vocali di Stabbed in the Face e Reaper's Song. I
interlocutori momenti di silenzio, aprono infine per il rumore bianco di Black Vomit, giocata abilmente sugli echi e le
frequenze radio, come se l'astronave, tra le detonazioni del carburante e il comprimersi delle lamiere, stesse ritornando
dall'abisso cosmico da dove era venuta.
I Wolf Eyes dimostrano di essere un gruppo dal grande potenziale, che però in questa prova convince solo a metà: a discapito
del climax complessivo, viene infatti dato grande spazio agli effettismi e alla brutalità. Quella che in Dead Hills era magia, in
Burned Mind rischia spesso di diventare puro autocompiacimento. (6.5/10)
Discografia trattata
Dead Hills (Troubleman, 2003)
Dead Hills / Dead Hills 2 / Rotten Tropics
Burned Mind (Subpop / Audioglobe, 2004)
Dead in a Boat / Stabbed in the Face / Reaper's Gong / Village Oblivia / Urine Burn / Rattlesnake Shake /
Burned Mind / Ancient Delay / Black Vomit
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Two Lone Swordsmen
di Daniele Follero
Dal post punk degli esordi accanto a Genesis P. Orridge, alla rivoluzione electro dei Sabres Of Paradise
fino a arrivare all'attuale alla svolta wave-rock. Piccoli promemoria su Andy Weathral
Il mentore dell’elettronica con la passione per la no wave
Per quanto Andy Weatherall sia considerato una personalità cardine della scena
techno (e il suo nome risuoni spesso nei club londinesi), le sue radici musicali
ventennali affondano nella stagione della No Wave.
Andy cresce nella Londra del post punk e collabora con Genesis P. Orridge
entrando a far parte dei suoi Temple Of Psychic Youth. Punk attratto dai suoni
elettronici, si fa coinvolgere dall’esplosione dell’acid house proveniente da Chicago
e Detroit e inizia come dj e remixer, per poi dare vita ai Sabres of Paradise,
formazione messa in piedi a inizio anni ’90, insieme a Jagz Kooner e Gary Burns.
Mentre i Sabres rivoluzionano l’electro inglese, Weatherall ha già compiuto la
svolta decisiva per lui e per il rock: Screamadelica dei Primal Scream, sotto il
segno della sua produzione, diventa una pietra miliare, il passo definitivo nel
cammino che ha portato alla contaminazione tra dance e rock. Avrebbe potuto
campare di rendita, ma il vecchio Andy è un personaggio che ama mettersi sempre in discussione e, dopo aver reinventato i
Primal Scream, prova a reinventare sè stesso: attorno alla metà degli anni ’90, lascia il giro dei clubs, l’elettronica allucinata e
allucinante del Sabres of Paradise, l’attività di remixer e perfino le sue performance come dj nel “suo” locale londinese, il
Sabresonic, per immergersi, in coppia con Keith Tenniswood nel nuovo progetto dei Two Lone Swordsmen. Partendo da
un’electro house minimalista e passando per la techno di Tiny Reminders, i due “spadaccini” continuano il loro percorso
elettronico da una prospettiva diversa, che non disdegna l’esperienza del two-step dei Sabres nè le radici post punk di
Weatherall. Per una svolta significativa tuttavia occorre attendere il 2004, l'anno dell'acclamato From The Double Gone
Chapel (vedi recensione su SentireAscoltare N°2) .
I due Swordsmen, messe da parte le alchimie sintetiche della musica elettronica, prendono a presito dal rock batterie, bassi e
chitarre e danno vita a un sound che pochi si sarebbero aspettati anche solo un anno prima. Il risultato è un crossover che
affonda le sue radici nella dub-wave dei primi anni ’80 e reinterpreta il punk funk in chiave electro. Troppo per chi era
abituato ai remix danzerecci di Weatherall? E per i rockettari? I due non si preoccupano minimamente di questo e preparano
un live set avvalendosi di una band di cinque elementi in cui trova spazio solo un synth! In attesa di vederli alle prese con il
repertorio di messe gregoriane o con un coro di voci bulgare, ce li godiamo in questa nuova veste, tenendo ben presente che
gli Swordsmen ci stupiranno ancora, anche se non si sa come.
Tiny Reminders (Warp, 2000)
Tiny reminder n.1 / Machine maid / Neuflex / Culture stains / Death to all culture snitshes / Very futuristic /
Tiny reminder n.2 / Brootle / You are... / Akwalek / Rotting hill canival / Section / Tiny reminder n.3 /
C.T.M. / The bunker / Solo strike / Foreververb / It’s not the worst I’ve ever looked, just the most I’ve
cared / Constant reminder
Dopo l’escursione downtempo dell’ep A Barg Of Blue Sparks e di Stay Down, il nuovo millennio per i Two Lone
Swordsmen si apre all’insegna della minimal techno.
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Tiny reminders nasce a seguito della fine del progetto Sabres of Paradise, a testimonianza dell’estrema produttività di Andy
Weatherall, vero e proprio mentore della scena techno per tutto l’arco degli anni ’90. In occasione della seconda uscita fulllenght per la Warp, gli Swordsmen danno sfoggio di un grande mestiere nell’articolare i suoni. Tanti “piccoli segni” (tiny
reminders, appunto) elettronici, che si compongono in una variegata tavolozza di suoni e ritmi e che mettono d’accordo il
synth funk dei primi anni ’80, la tradizione dell’house e le nuove frontiere techno-logiche. Ma, per quanto sia un album che
segue il percorso già tracciato da Weaterhall e Tenniswood, l'album, analizzato con il senno di poi, ha in nuce già gli elementi
della svolta “rock” di From The Double Gone Chapel. Comincia ad intravvedersi, in quest’album, l’influenza del punk funk
di matrice no wave, anche se risuona come un’eco sfocata un marasma di breakbeats. A prevalere sono, infatti, le ritmiche
two-step e drum’n’bass che agli estremi opposti sfociano nell’ambient e nel funk cibernetico.
A partire dal giochino glitch di Tiny Reminder n.1 (che ne precede altri due), la musica prende le strade più disparate. Se
Machine Maid, Death To All Culture Snitches e Solo Strike concedono ancora qualcosa al dancefloor, chi si aspettava di
ballare molto con quest’album sarà rimasto sicuramente deluso. A prevalere è una sorta di atmosfera ambient che può
trasformarsi in episodi “meditativi”, come Akwalek, o in tappeti sonori darkeggianti (Tiny Reminder n. 2). You are.., richiama
il suono robotico dei Kraftwerk e, come una sorta di promemoria, ricorda a tutti quali sono le radici di questi due
camaleontici spadaccini tuttofare. (7.0/10)
Live. Estragon, Bologna 27 novembre 2004
I Two Lone Swordsmen stanno uscendo sempre di più dalla nicchia techno che li ha ospitati
per quasi tutta la loro carriera. Andy Weatherall, uno che ama mettersi in discussione e, è
riuscito a far parlare di sè gettandosi nel mare magnum del rock con tutto il suo bagaglio
elettronico. Non è solo il suo nome, però, a trainare il progetto, ma anche un buon disco come
From the double gone chapel, che lo consacra anche qui in Italia. Nonostante queste premesse
e le buone aspettative, le persone presenti all’Estragon si contano sì e no sulle dita di tre mani.
Sarà per la prolungata inagibilità del Link, da sempre il tempio della musica elettronica a Bologna; sarà il prezzo (eccessivo)
dei biglietti; sarà la poca risonanza data all’evento, ma il flop è fin troppo evidente. I Two Lone Swordsmen, diventati per
questo tour una band di cinque elementi, si ritrovano a suonare davanti a un pubblico meno numeroso di quelli dei concerti
del liceo, dimostrando infine di non aver gradito: un’ora scarsa di musica e poi via da quel postaccio. Eppure interessanti
questi musicisti lo sono e lo hanno dimostrato ancora una volta, spiazzando i pochi astanti con una performance
assolutamente inattesa e con il loro ultimo travestimento. C'e' però una certa differenza nel creare le attese, e soddisfarle. Con
una virata a 180°, gli Swordsmen si liberano quasi completamente dell’elettronica e riarrangiano tutto in chiave new wave.
Weatherall, che sembra un Joe Strummer vestito da uomo della working class britannica, canta insolitamente quasi per tutto
il concerto e ci riporta venti anni indietro, proprio lui che ha dimostrato di essere uno che guarda molto avanti. Chitarre postrock, un cantato che richiama la no wave e una formazione strumentale tipicamente rock, con basso batteria chitarra voce e
sintetizzatore, trasformano il compatto miscuglio di elettronica e strumenti acustici - principale caratteristica del sound degli
ultimi due album - in uno strano revival anni ’80. Con questa sorta di mantello new wave i brani di Tiny reminders e From
the double gone chapel perdono la loro freschezza e si appiattiscono al suono di echi di Pop Group, Clash e Joy Division,
non andando oltre l’imitazione. Weatherall e compagnia non si chiedono se stanno sprecando tutto il buon lavoro fatto
ultimamente e continuano a fare i rockettari demodè; non è un caso, allora, che il momento migliore del concerto sia la cover
di Sex beat dei Gun Club, meglio adatta al sound della serata. Dopo un’ora, come i ragazzi a scuola quando suona la
campanella, i cinque “spadaccini” corrono via e non tornano neanche a salutare. Poco male. L’esiguo pubblico non sembra
particolarmente dispiaciuto di questo finale frettoloso e, ancora più velocemente, sparisce.
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ALBUM DEL MESE
Climax Golden Twins – Highly Bred And Sweetly Tempered (North East
Indie / Wide, 2004)
Dead people / Upright / Every word in the Bible / Billy McGee McGaw / Little Noreen / Solid gold
microphone / Awful ungry / Imperial household orchestra / Get fat / I’m a comin’ Lord, I’m a comin’ / For
Adeline
Il lo-fi, inteso nella sua accezione di stile musicale che utilizza intenzionalmente suoni a bassa fedeltà, trova sempre più
spazio nel panorama musicale del nuovo secolo. Nell’epoca della perfezione tecnologica, della riproduzione del reale giunta
ai massimi livelli, c’è chi (e sono sempre di più), rifiuta in blocco questi principi e si rivolge all’espressione pura, diretta,
spesso negando i principi basilari della produzione discografica. Questo atteggiamento “casalingo” nei riguardi della musica,
non è associabile ad un genere particolare e questo lo rende un’importante riferimento per mondi altrimenti agli antipodi.
Cosa potrebbe accomunare, infatti, il menestrello Banhart all’elettronica avant-hop dei cLOUDDEAD e alla psichedelia di
Dirty Projectors, se non il gusto per un suono spoco, grezzo, non costruito? Nel caso dei Climax Golden Twins, duo fondato
a Seattle dieci anni fa da Rob Mills e Jeffrey Taylor, questo tipo di approccio incontra l’esperienza delle avanguardie, storiche
e meno storiche, dando vita a paesaggi musicali di grande intensità (e con evidenti finalità artistiche). Dopo dieci anni di
attività, durante i quali hanno espresso appieno la loro idee musicali attraverso collage di rumori, registrazioni d’ambiente,
suoni elettronici e quant’altro, i due, con l’aggiunta di Scott Colburn, unitosi al progetto nel ’96, con Highly Bred And Sweetly
Tempered “rilassano” decisamente il loro sound, senza abbandonare la sperimentazione. Registrazioni di vecchi 78 giri,
puzzle rumoristi e rumori d’ambiente si uniscono agli strumenti acustici con una varietà spiazzante. Episodi piacevolmente
leggeri, come il folk da western romantico di Lord i’m a comin’, i’m a comin’, sono associati al dadaismo di Imperial
household orchestra con la stessa forza significativa con cui Zappa accostava, in uno stesso album, doo-wop e composizioni
à la Varèse. In questo caleidoscopio di stili la chitarra e il pianoforte contribuiscono, con una scrittura spesso minimale, a
creare atmosfere che ricordano allo stesso tempo i Gastr Del Sol e Brian Eno, con qualche venatura bluesy e ispirazione
“cinematografica” (Dead people, Billy McGee McGaw, Get fat). Il suono non è mai “pulito”: anche questo sembra rispondere
all’intenzione di creare un ambiente sonoro in cui la musica si arricchisce delle voci della gente, del fruscio dei vecchi dischi e
di rumori di oggetti quotidiani. A rendere meno ostiche all’orecchio umano queste escursioni nella materia sonora, un sound
dolce, con qualche ammiccamento pop, che con la sua orecchiabilità rende più fluttuante un discorso musicale mai banale
(anche in questo caso l’esempio zappiano è pertinente). Il rumore frusciante del vinile, chiude l’album così come lo aveva
aperto, lasciando ancora una volta che la musica si ricrei negli oggetti quotidiani e viva in una dimensione “concreta”,
allontanandosi il più possibile dalla confortante culla del “bel suono”. (7.5/10)
Daniele Follero
The Bees – Free The Bees (Virgin, 2004)
These are the ghosts / Wash in the rain / No atmosphere / Horsemen / Chicken payback / The russian / I
love you / The start / Hourglass / Go karts / One glass of water / This is the land
I Bees, due ragazzi originari dell’Isle of Wight perdutamente innamorati del garage rock psichedelico di metà anni ’60,
tornano a farsi sentire dopo un’incoraggiante prima prova (Sunshine Hit Me, 2002, forte di nomina per il Mercury Prize) con
Free the Bees, programmatico sin dal titolo. Se l’intento di produrre musica in perfetto stile sixties era già abbastanza
evidente nei solchi del lavoro passato, stavolta si fa davvero sul serio: per ricreare appieno quei suoni e quelle atmosfere, Paul
Butler - frontman nonché produttore dell’album - e Aaron Fletcher hanno addirittura fatto ricorso al calore analogico,
vecchio di quarant’anni, delle antiche apparecchiature dei prestigiosi Abbey Road studios, avvalendosi di tecniche di
registrazione e di un armamentario rigorosamente vintage (hammond, fiati, piano elettrico, chitarre Rickenbaker e
quant’altro).
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Facciamo subito una doverosa precisazione: questo non è uno dei revival come quelli a cui siamo stati abituati negli ultimi
tempi. Ogni operazione di quel tipo presuppone che il passato ‘rivitalizzato’ venga comunque filtrato attraverso la lente della
contemporaneità, riuscendo così a diventare costume, moda, tendenza; quello perpetrato in questo disco, invece, è un recupero
estetico che ha del filologico, tanto preciso da sfociare nel falso storico: i Bees non riecheggiano, sono una band degli anni
’60, riuscendo per giunta ad essere credibili più di tanti loro contemporanei. Possibile? Sì, se dalla parte di questi musicisti
c’è, in aggiunta al fascino insito nella proposta stessa, una scrittura sicura che, alla stregua dei Beta Band più addomesticati o
dei Gomez meno funambolici, riesce a fondere in un approccio tritatutto numi tutelari come Byrds, Who, primi Pink Floyd,
Grateful Dead e (ovviamente) Beatles, mantenendosi sempre sulla linea della piacevole citazione stilistica senza scadere nel
plagio. Quello che i Bees ci offrono è un viaggio nel tempo avvolti in una mesmerizzante nebbia sixties, che confonde le
coordinate spazio-temporali in uno sciorinare di generi e di umori: dalla psichedelia “storica” (These Are the Ghosts, No
Atmosphere) alla ballatona strappacuore (I love you, ovvero With the Beatles meets Pet Sounds), dalle filastrocche lisergiche
(The Start, Go Karts) al più sciocco dei balli di gruppo (l’irresistibile Chicken Payback), l’album procede come una corsa
sull’Helter Skelter. Che si tratti del vaudeville barrettiano Wash in the rain o del country-beat Buffalo Springfield One Glass
of Water, passando per il mid tempo doorsiano Hourglass fino all’apocrifo byrdsiano This is the land, i Bees riescono sempre
a tenere alto l’interesse dell’ascoltatore, alternando e fondendo sapientemente stili diversi anche all’interno dello stesso brano
(si veda Horsemen, che da una strofa carica di spigolosità Stones/Who si stemperà nella soffice acidità del ritornello, o lo
strumentale Russian e i suoi cambi di ritmo ai limiti del dub). Nostalgico? Indubbiamente sì. Fresco? Potete scommetterci.
Come questi due aggettivi possano riferirsi allo stesso disco, chiedetelo ai Bees. (7,0/10)
Antonio Puglia
Neko Case - The Tigers Have Spoken (Anti, 2004)
If You Knew / Soulful Shade of Blue / Hex / Train From Kansas City / The Tigers Have Spoken /
Blacklisted / Loretta / Favorite / Rated X / This Little Light / Wayfaring Stranger
Nuovo album per Neko Case, talentuosa vocalist per Sadies, New Pornographers e in solitario, nonché - ciò che non guasta
affatto - notevole tocco di ragazza, d'una bellezza travolgente e desueta. Trattasi di un disco live, perciò riepilogativo e
interlocutorio assieme, proponendo solo due pezzi nuovi su complessivi undici, di cui due traditional e quattro cover. Ma
ugualmente è un lavoro opportuno, perché arriva come una risposta ad una domanda che covava inconfessata sotto l'amore
sfrenato per la qui presente signorina: quant'è veritiero il prodigio di quella voce, quanto lavoro di studio può adombrare?
Orbene, con tutta la prudenza del caso (non è detto che un disco live sia necessariamente genuino), questo The Tigers Have
Spoken offre una strepitosa conferma del fulgido talento di Neko. Perché la sua voce vi appare come una vena aperta di
sangue dolce e avvelenato, come il presente intossicato dal passato, archetipo di femminino totale, materno e tragico, felino e
dominante. E poi ancora (perdonatemi): ponte attraverso le nubi, eco insondabile d'immagini rifratte, balenate, soggiogate.
Picchiata di sentimenti a squarciare il buio interstizio tra classico e obsoleto, tra circolo vizioso e cerchio magico. Gioco di
sensualità differita, dissolta, assolta dalla e nella plasticità iridescente d'una forma solare e inafferrabile, terrena e spirituale.
Quel cavarsi di gola vocali dense e distese, quelle impennate come schiocchi di frusta, lo scatto breve travolgente
imbizzarrito... Quello scomporsi e ricomporsi liquido, quel tendere alla propria forma come se fosse (lo è?) fine ultimo,
funzione e azione espressiva: stamparsi cioè sulla sensibilità dell'ascoltatore come su uno schermo, ammasso di fonemi-corpo,
sospeso quindi tra condizione materiale ed eterea, come un ectoplasma di suggestioni lontane e vicinissime, crash di emozioni
intime e indotte. Alla luce di cotanta malia, scorrono come splendidi pretesti il valzer brumoso tra melodramma e far west di
Blacklisted, l'hilly billy insidioso e festaiolo di This Little Light, la mestizia country di Train From Kansas City (vecchio hit
degli Shangri-Las), il disincantato incanto garage di Loretta (reperto bostoniano a firma Nervous Eaters), l'irrequieta
rassegnazione valzer di Favorite e lo standard triste e arioso Wayfaring Stranger (registrato un po' live e un po' in studio). E
poi ancora il "country-comfort" di Soulful Shade Of Blue (luccichio di corde intrecciate, ululi dalle sabbie dorate) e il punto di
fusione tra country e errebì di Rated X (a firma Loretta Lynn), quindi gli inediti If You Knew (sorta di melange
REM/Calexico, desertico batticuore e pedal steel luminosa) e The Tigers Have Spoken (splendida mestizia folk trafitta
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d'irrequietezze R&B, con i Sadies a cucinare il drumming palpitante e baluginii tiepidi di corde). E allora? Allora, oggi più
che mai sono convinto che Neko Case sia una delle più attendibili testimoni della voce profonda di un'America equivoca ed
equivocata, dispersa e irraggiungibile, sospesa, annidata nel proprio stesso sognarsi. Una magia che dovrebbe ripetersi, a
quanto pare, la prossima primavera, con un album tutto nuovo. Bellissima notizia.(7,4/10)
Stefano Solventi
Hollowblue - What You Left Behind (Suiteside Drive / Goodfellas)
Black birds / What you left behind / Io bevo (feat. Anthony Reynolds) / Baker / Days of wintry hill / Triplex
Sin
Mentre ascoltavo gli Hollowblue ero contemporaneamente impegnato nella lettura delle schede stampa e di alcune recensioni
che accompagnavano l'uscita del cd. Parlavano di un amore giovanile del leader Gianluca Maria Sorace per Syd Barrett, del
fatto che il musicista abbia iniziato con il "lo-fi" e che le influenze dell'album si possono ravvisare in gruppi quali i
Tindersticks, i Divine Comedy, i Gallon Drunk e Nick Cave. Leggevo inoltre della provenienza livornese del gruppo
all’esordio discografico e, infine, del fatto che il promo che mi è stato spedito uscirà a dicembre per la Suiteside, l'etichetta
che trimestralmente pubblica e promuove artisti esordienti. Non credendo a nulla di quel che ho scorso velocemente e
distrattamente, controllo, incredulo, che l'album sia quello di cui si parla e, a sorpresa, il cd è quello giusto. Prima di
interrompere la musica di quelli che sembrano tutt’altro che esordienti, ascoltavo Days Of Wintry Hill e ora Jim Morrison è il
primo nome che mi sovviene. La traccia, che ha chiare influenze folk nel riff al violino di Chiara Cavalli e si sviluppa con
compostezza proprio come un piccolo ensemble da camera, è caratterizzata dalla suadente e romantica voce di Sorace - vicina
a Brian Ferry per l'intonazione ma certamente a quella del Re Lucertola per il mood - e una citazione mirata (la
lallazione/tentennamento ritmico che ricorda Love Me Two Times). Ingegnoso l'accostamento, simile a quello già operato dai
Tindersticks (ma per nulla staccato/impostato come lo vorrebbe Stewart Staples), piuttosto pare di ascoltare un'anima fragile
che si rifà al cantante dei Doors, proprio come accade in What You Left Behind nella quale, dalle prime note, si possono
ravvisare echi di You're Lost Little Girl (un brano di Strange Days, Elektra, 1967). Pur convincendomi della bontà di quei
paragoni, e della consapevolezza e gusto con cui questi sono amalgamati nella calligrafia del Nostro, mi rendo conto di quante
altre cose ci siano da sviscerare, di quanta cura e raffinatezza goda questo eppì, ma anche di come lo stile di Sorace porti lì
dove tutti coloro che sono stati citati (in questa come nelle altre recensioni) sono andati a pescare, ovvero un certo rock
progressivo particolarmente incline al neo-classico. Come non pensare ai vocalizzi di un Greg Lake ascoltando Triplex Sin,
dove par di ritornare dalle parti della corte del Re Cremisi e del suo mellotron? E in Black Birdsm come non ricondurci alla
tristezza noir di Pete Sinfield (che dei Crimson fu per un po' il paroliere)? Ciò che colpisce di Gianluca Maria Sorace è la
capacità di citare la tradizione rock più "alta" senza tuttavia risultare emulo o passatista. Che gli Hollowblue siano paragonati
a Nick Cave (influenza ravvisabile nella sola Io Bevo con ospite Anthony Raynolds), può certo tornare utile a Sorace, da
parte nostra ammiriamo un musicista che ripropone, aggiornandole con tocco personale, alcune belle pagine della storia
musicale. (7.0/10)
Edoardo Bridda
Destroyer - Your Blues (Merge Records/Wide, 2004)
Notorious Lightning / It's Gonna Take An Airplane / An Actor's Revenge / The Music Lovers / From
Oakland to Warsaw / Your Blues / New Ways of Living / Don't Become the Thing You Hated / Mad Foxes /
The Fox and the Hound / What Road / Certain Things You Ought to Know
Dei quattro album precedenti a firma Destroyer conosco soltanto il precedente This Night (2002), questo tanto per chiarire il
retroterra su cui si è mosso il mio ascoltare. Rispetto a quello, l'ispirazione di Daniel Bejar - canadese, già membro dei New
Pornographers - non appare affatto affievolita, anzi. Muta leggermente obiettivo, insegue un po' di meno la visionarietà
atmosferica dell'insieme a vantaggio di una maggiore compiutezza del singolo pezzo, e in questo senso ognuno dei dodici
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episodi si ritaglia uno spazio prezioso, giardino di delizie con un'insidia per ogni grazia, una spina per ogni petalo.
E' questo il segreto di Bejar, carpito del resto a tutta una "tradizione" pop-rock inquietante e glamourosa che si è definita nel
tempo grazie al lavoro di geniacci obliqui come Brian Wilson, Scott Walker e Alex Chilton, mutando più volte indole e
aspetto a ridosso della wave (Lou Reed, Roxy Music, Japan...), prendendo direzioni ondivaghe in bilico tra prog e soul (Tod
Rundgren, Supertramp...), spiovendo sul presente in sella a destrieri dalla fibra felicemente instabile (Flaming Lips,
Mercury Rev, Divine Comedy, The Shins...).Canzoni la cui sostanza è luccichio e ombra, volti sfavillanti e cappe di buio,
insomma un bel giro turistico nell’allegro teatro della tragedia umana: si ascolti il cabaret marziale del piano nell’andirivieni
d’arpa e archi e legni e chitarre di From Oakland to Warsaw, o la marcia fatale nella bruma di synth e zampilli d'arpa di The
Fox And The Hound, o il crescendo d'intenti fino a farsi cavalcata tra svolazzi d'archi e luminarie di (falsi) fiati della splendida
An Actors Revenge. L'abito non fa il monaco, ma in casi come questo può fare la differenza: vedi come la non certo eccelsa
intuizione melodica della title track sappia sbocciare in un suggestivo bozzetto di glockenspiel, synth e tromba, impalpabile
pastello avant come uno sguardo subacqueo Robert Wyatt, o come Certain Things You Ought to Know sappia giocare con la
propria leggerezza folk immergendola in una sospensione madreperlacea (l'eco della voce, l'iridescenza delle tastiere, la
compita asciuttezza della chitarra) che la fa piegare indistintamente verso latitudini bossa o jazz: è ciò che segna la distanza
tra i Destroyer e la mediocrità irrimediabile di band tipo gli I Am Kloot, cui pure, a ben vedere, sono melodicamente affini.
Il dolce e l'amaro dunque, la dolciastra cospirazione di un virus amarognolo, nascosto nel cavallo di Troia di suadenti folksoul (It's Gonna Take An Airplane) o nel vivido manifestarsi di indefinibili azzardi (la teatralità glam con tentazioni electro
dell'iniziale Notorious Lightning, il sincretismo kosher/RnB/synth-pop di New Ways Of Living, dal curioso retrogusto Robyn
Hitchcock), ti contagia e ne capisci subito la forza, la capacità di annidarsi nel campionario delle percezioni d'ogni giorno.
E' un disco insomma di cui è facile innamorarsi, tanto da farci affrontare la sua complessità con un entusiasmo che la rende
immediata. Certo, non un amore grande quanto quello di Dan Bejar per il proprio progetto, cosa che alla lunga lascia affiorare
chiari segni di compiacimento, di scenografie debordanti sulla sostanza: è una caligine stagnante che storce il respiro, falsa i
sapori in gola, spingendo al respiro corto, ai passaggi veloci e non troppo frequenti. Rientra nei tipici effetti collaterali del
genere, per cui tutto a posto. Ma in virtù di ciò Your Blues finisce per essere solo un buon disco, e poteva sfiorare il
capolavoro. (7,0/10)
Stefano Solventi
Tribeca – Dragon Down (Labrador / Goodfellas)
La, La, La Etc / Her Breast Were Still Small / Solitude / The Big Hurt / Kess / Hide Away / Modern Issues
Of The Heart / Frozen Lake / The Kemikaze Me / Black / Electric Light / The Kid
Electro-pop, new wave, kraut -rock: nessuno può negare che il 2004 abbia vissuto un neoclassicismo anni ’80 di dimensioni
spropositate. Questo rigurgito ha prodotto, nella maggior parte dei casi, materiale decisamente interessante, grazie al continuo
ripresentarsi di queste influenze con abiti nuovi e attuali.
Ora, l’uscita di questo disco dei Tribeca chiarisce almeno un paio di cosette, e non di poco conto. Intanto questo duo, Lasse
Lindh e Claes Björklund, proviene da Stoccolma, che proprio al centro di particolari e sensazionali scene musicali non è. E
giusto la questione geografica ci porta dritti al secondo motivo d’interesse: la Labrador è ormai una certezza conclamata,
grazie al lavoro svolto della quale si deve una certa visibilità per i gruppi svedesi, alcuni dei quali di sicuro valore (come non
pensare al piccolo caso dei Radio Dept., vera rivelazione degli ultimi mesi con il successo di Lesser Matters?). I Tribeca
hanno confezionato un disco di elettropop gustoso e abbastanza fresco, maneggiando un genere con padronanza, ma senza
creare squilibri epocali. Si parte forte, subito, coi due minuti di La, La, La, Etc., fin troppo derivativa, ma immediata e ben
calibrata nei riferimenti. Her Breasts Were Still Small svela una certa malizia, che compare spesso nelle liriche - e nel
portamento vocale - di Lindh, mentre Solitude spinge all’estremo le tendenze pop del duo, con malcelate aspirazioni da
classifica. In effetti il pensiero vola in fretta proprio ai compari più talentuosi di scuderia (gli stessi Radio Dept.) e alle loro
melodie indie ingenue e sognanti. Big Hurt, elegia dedicata ai “broken hearts”, non nasconde una certa tenebrosità alla
Depeche Mode, per poi schiantarsi impazzita in una corsa technoide ad occhi chiusi. C’è poi spazio per le concessioni downSentireAscoltare n°3 – Dicembre 2004
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tempo di Kess ( e dopo di Frozen Lake ), e per i vagheggiamenti orientali di Hide away, proprio mentre Modern Issues Of The
Heart tenta la scalata di un’ipotetica chart “one shot ’80”. Il rischio è che Lindh si compiaccia troppo di questa enfasi
maliziosa e che la sua vocalità calda e sinuosa spesso si mostri pretenziosa e ostentata, anche se questo in fondo non sposta di
una virgola il nostro giudizio. Questo è un disco piacevole e ben fatto, che ci troveremo a canticchiare (e a ballare) più di
quanto sperassimo. (6.8/10)
Riccardo “Mimmi” Maselli
Marianne Faithfull - Before The Poison (Na ïve, 2004)
The Mystery Of Love / My Friends Have / Crazy Love / Last Song / No Child Of Mine / Before The Poison /
There Is A Ghost / In The Factory / Desperanto / City Of Quartz
Più vampira o parassita, Mrs. Faithfull? Il dibattito è aperto, ma non m’interessa. Certo è che la sua chioma ha ben saputo
riflettere la luce delle tante stelle sfiorate lungo l’orbita, senza esplodere, implodere o imbolsirsi come spesso è capitato loro.
Marianne, oggi, a quasi sessanta anni, appare infatti in formissima. Più che nel precedente Kissin’ Time – un buon disco che
pagava qualcosa in termini di schizofrenia stilistica ad una mal calibrata compagine di "ospiti" - in questa ultima fatica
interpreta con passione verace, ovvero biascica il suo irresistibile appeal di donna che ha vissuto dal lato sbagliato del
marciapiede (quello cioè dove avveniva l’Indimenticabile), mettendo mano come di consueto a gran parte dei testi (con
disarmante ricercatezza e sordida disinvoltura). Molto più che un elemento catalizzatore, la sua presenza (le parole, la voce, il
corpo) è il solco che incanala le forma dell’espressione, il fine ultimo ideale per autori che le somigliano senza possedere quel
suo particolare modo di far precipitare canzoni al livello del suolo, tra la carne e l’anima, e dell’una e dell’altra i tormenti.
Tanto che ti viene il sospetto sia più lei a dare qualcosa a loro che non viceversa. Così, tanto a Polly Jean Harvey che alla
stessa Marianne sembra stare benissimo il giochino dell’alter-ego reciproco, consumato in ben cinque pezzi su dieci di questo
Before the Poison. La quasi anziana signora cavalca senza difficoltà la quadratura d’accordi scabra ed essenziale
apparecchiata dalla (non più troppo giovane) ragazza del Dorset. Col valore aggiunto di una sconfinata consapevolezza che
adombra barbagli di pietas per ogni tenebra (come nell’aspra disanima della title-track), un rimpianto per ciascun mistero (The
Mistery Of Love, appunto, sintonizzato sulle vibrazioni trepide di Stories From The City, Stories From The Sea). Gli altri
pezzi firmati PJ (che oltre la scrittura presta scampoli di voce e la tipica chitarra stopposa) sono In The Factory (folk-blues
elettrificato a mestare penombre), la tesa My Friends Have (il riff granitico che è mancato in Uh Uh Her, col trascinante
crescendo emotivo del canto) e la stupenda No Child Of Mine, ballatone in punta di cuore (nero), la malia cupa di quelle
parole mormorate da una parte e ribadite (cantando) dall’altra, il piano che gocciola malanimo, il chorus che stempera
pennellate di rassegnazione e speranza, quella breve coda che vira in clap-hand rurale, cioè pari-pari il pezzo omonimo
presente su Uh Uh Her, quasi fosse un vero e proprio cordone ombelicale tra le due opere. Il resto del programma vede
all’opera il Re Inchiostro in persona più contorno di sodali (ovvero Warren Ellis, Jim Sclavunos e Martin Casey).
L’australiano conferma il buon momento di forma regalando due più che discrete ballate (la tetraggine insidiosa di There Is A
Ghost – piano e synth a circoscrivere scenografie d’inquietudine – ed il romanticismo intossicato di Crazy Love – il piano e il
violino ad evocare antichi capricci Brian Jones, ma forse è solo suggestione…) e una febbrile Desperanto, funky acido che
Marianne attraversa con flemmatico trasporto, tra sax imbizzarriti, hammond gracchiante e un coro da taverna d’altroquando.
Sorprendente è il contributo di Damon “Mr. Blur” Albarn, una ballata madreperla di stampo classico, bucolica e
cameristica, cartilagine di chitarra, piano e archi incrinata da un’irrequietezza profonda, d’abbandono che slitta obliquo
nell’abbraccio di un’angoscia sottile. Il valzer sospeso tra chincaglierie teatrali e carillon algido di City Of Quartz – firmato da
Jon Brion, autore di colonne sonore (Magnolia, il recentissimo Se mi lasci ti cancello…) e produttore (Aimee Mann, Fiona
Apple, Rufus Wainwright, Evan Dando…) – chiude degnamente un programma privo di cadute. Alla luce del quale viene
voglia di riconsiderare il ruolo e l’importanza di Marianne Faithfull rispetto al carrozzone babilonico (il rock) che ci ha
condotto fino a qui.
Stefano Solventi
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Kyrie - Le meccaniche del quinto (PMA / Audioglobe, 2004)
Lipsia 1933 / L'uomo Macchina / Caffe' Viennese / Quello Che Non Vedo / Rifugi Culturali / Ritiro
Estivo / Spazi Bianchi Come Nuvole / Decadenze / Nimloth Kirloth / Abbandonandomi
Un pizzico di stralunatezza à la Battiato, il sobrio giovanilismo di Garbo e certo wave-pop in stile Cure sono alcuni
ingredienti della formula vincente dei Kyrie, quintetto milanese capitanato da Piero Sciortino approdato quest'anno alla PMA
Records (Revolver, Marco Sanchioni) dopo una lunga gavetta e numerosi demo. Le meccaniche del quinto unisce testi
spensieratamente colti e pieni di immagini a chitarre di stampo indie-rock, un basso non lontano da Echo & The Bunnymen
e soprattutto tastiere e synth che traghettano gli arrangiamenti verso atmosfere targate primi ’80; l’amalgama proposto nel
corso delle undici tracce risulta così sicuramente riconoscibile, ma al tempo stesso freschissimo, tanta è la padronanza del
gruppo con la materia affrontata. La scrittura visiva di Piero Sciortino rimanda a umori e epoche passate, accarezzando guerre
e miserie urbane, libri di Kafka e architetture mitteleuropee; appoggiata su strutture semplici ma sempre azzeccate,
rappresenta un must per chiunque volesse immergersi in sonorità di un certo tipo senza risultare posticcio o demodè.
Tante le influenze musicali, dal Battiato che fa capolino nella traccia d'apertura Lipsia 1933 (già la vediamo cantata a
memoria ai concerti) e in quella piccola epopea incalzante di assoli emotivi che è l'Uomo Macchina, al Garbo più indie che si
fa strada in Caffè Viennese, quadretto decadente che saggia il tempo della capitale austriaca; dal Bowie lunare di Ashes to
Ashes in Abbandonandomi (e nella relativa ghost track, memore di certe atmosfere decadenti del periodo berlinese), allo
spirito noir dei Tuxedomoon in Decadenze, passando attraverso lo spleen romantico dei Sound (Quello che non vedo),
evidente in certe dinamiche tra gli strumenti, e il folk apocalittico di Nimloth Kirloth. Altrove si fa prepotente l’impronta di
Robert Smith, tanto di quello languido e giovanile di Three Imaginary Boys / Seventeen Seconds (miscelato ai primissimi
New Order) in Ritiro Estivo che di quello più pop in Spazi Bianchi Come Nuvole, ma in generale l’ombra del deus ex
machina dei Cure si estende su tutto il lavoro, specialmente nelle parti vocali e in certi assoli di chitarra che rimandano al suo
stile degli esordi. In altre parole siamo a un passo da un autentico caso discografico; speriamo che i Kyrie godano del
successo di pubblico che si meritano. (6.9/10)
Edoardo Bridda e Antonio Puglia
Frank Black – Frank Black Francis (SpinArt, 2004)
Cd1 (1987 Black Francis acoustic demo)
The Holyday Song / I’m Amazed / Rock A My Soul / Isla De Encanta / Caribou / Broken Face / Build High
/ Nimrod’s Son / Ed Is Dead / Subbacultcha / Boom Chickaboom / I’ve Been Tired / Break My Body / Oh
My Golly / Vamos
Cd2 (Frank Black with the Two Pale Boys)
Caribou / Where Is My Mind? / Cactus / Nimrod’s Son / Levitate Me / Wave Of Mutilation / Monkey Gone To Heaven /
Velouria / The Holiday Song / Into The White / Is She Weird / Subbacultcha / Planet Of Sound
Reduce dal trionfale tour di reunion dei suoi Pixies, Frank Black ha ritenuto opportuno prolungare i festeggiamenti dando alle
stampe questa raccolta in due volumi in cui celebra, a modo suo, il repertorio della storica band cui è indissolubilmente
legato.Lungi dall’essere un mero greatest hits, Frank Black Francis (fusione dei due pseudonimi di Charles Thompson) è
un progetto risalente a qualche anno fa quando, sull’onda della pubblicazione della raccolta Death to The Pixies e del live At
the BBC, si cominciò a pensare alla release ufficiale di alcuni demo acustici realizzati da Black nel 1987, poco prima delle
session di Come on Pilgrim. Ritenendo l’operazione in sé poco interessante, il Nostro ha pensato bene di chiudersi in studio
con Andy Diagram e Keith Moline, ovvero i Two Pale Boys (già alla corte dell’ex Pere Ubu David Thomas) e rivitalizzare,
ri-registrandoli, una quindicina di episodi del repertorio dei Pixies, dagli esordi fino al canto del cigno Trompe le Monde.
Così, accanto a un primo cd di demo acustiche di indubbio valore filologico - in cui da quella chitarra strimpellata con
violenza e da quella voce sottile e nevrotica s’intuisce già facilmente il potenziale esplosivo di quel materiale ancora acerbo -,
ne abbiamo un secondo che, già dall’assunto di partenza (come suonerebbero le canzoni dei Pixies nel 2004?), si preannuncia
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quantomeno affascinante.Per certi versi, il risultato è tanto straniante quanto sorprendente: se nelle mani di Santiago, Deal e
Lovering le composizioni di Black si caratterizzavano per la loro fisicità, dopo il trattamento Two Pale Boys esse finiscono
per assumere altri connotati, senza per questo venire snaturate. Ricorrendo a un arsenale di fiati, chitarre effettate, synth e
campionatori, Diagram e Moline portano le canzoni dei Folletti verso un’altra dimensione; in un miracoloso passaggio dal
corporeo all’incorporeo, ne esplorano le profondità, ne allargano gli spazi, ne dilatano i confini tra echi di ambient, space rock
e psichedelia. Un viaggio attraverso un universo inesplorato e noto al tempo stesso, in cui Cactus procede per sinistri singulti,
Wave of mutilation, Where is my mind e Caribou fluttuano tra effetti spaziali, Nimrod’s son viene rallentata all’inverosimile,
The holyday song diventa un mambo lunare impostato sui fiati, Levitate me si perde tra chitarre dissonanti, drones elettronici e
magici chimes. E poi Velouria, qui in una versione minimale trasfigurata da distorsioni spazio temporali, Subbacultcha, che
viene completamente stravolta tra rumori digitali e ritmi waitsiani, e – dulcis in fundo - i 15 minuti finali di Planet of Sound
che, guidata da un’acustica ossessiva e trombe in sottofondo, assume la forma di una Sister Ray siderale; il tutto in completo
equilibrio con la voce, qui più controllata e addomesticata rispetto al passato, ma perfettamente funzionale alla nuova veste
dei brani. Frank Black Francis finisce così per essere un ideale compendio del songwriting di Frank Black, tra memorie del
passato e fascinazioni (futuribili?) del presente. In attesa del futuro (il nuovo lavoro del Nostro, previsto per la prossima
primavera o addirittura, chissà, di un eventuale disco dei Pixies), c’è da esser più che contenti. (7,0/10)
Antonio Puglia
Joe Leaman - Truly Got Fishin' (Black Candy / Audioglobe, 2004)
Alice's daydreamin' / She loves to ask / The way we dance / Sweet / Free karate / Fat people are not always
happy as you could think / One on three (not bad!) / Syd / Boogienning / Everything makes a big noise
fallin'
Cambia l'etichetta, cambiano due elementi su tre in formazione, ma non cambia la sostanza: i Joe Leaman insistono a proporre
la loro versione dei fatti in fatto di post-college rock (numi tutelari Hüsker Dü e Pixies, con qualche inchino ai genietti
Buffalo Tom e Built To Spill). Una bella soddisfazione personale, se vogliamo, per Giancarlo Frigieri, bassista, voce e
autore di tutto o quasi il campionario, unico superstite del nucleo originale. E quindi, com'è questo nuovo lavoro, il quarto per
la band emiliana? Un buon album, suonato con puntiglio ed energia, in cui la devozione ai modelli di riferimento va a
braccetto con l'intensità della scrittura e la padronanza della materia. In cui tutto sembra architettato con il semplice scopo di
venire incontro alle tipiche esigenze dell'ascoltatore rock. Quindi: energia, rabbia e divertimento, più una spolverata
d'allucinazioni che - si sa - non guasta. Anche la scaletta gioca in questo senso: i primi tre ceffoni iniziali (dal punk-blues
deteriorato di Alice's daydreamin allo sgargiante allarme garage-pop di The way we dance passando dal riffarama
sventagliante di She loves to ask) innescano la spoletta di un'esplosione che i tre hanno tutta l'intenzione di controllare, tirando
prima il freno con Sweet (tensione placida in sella al basso, chitarra swingante, drumming votato a minuterie free, i Morphine
dietro l'angolo), mollando un po' l'onda d'urto con Free Karate (alla ricerca dell'equilibrio perfetto Pixies-Hüsker Dü, con un
piccolo aiuto degli amici Julie's Haircut) per quindi convogliarla nel valzer intriso di doglianze country in ascendenza
psych/jazz di Fat people are not always happy as you could think (i Willard Grant Conspiracy alle prese con un'ombra
sfuggita alle grinfie di Mark Lanegan, bello il lavoro di Fiamma ai cori). Da qui in avanti il programma procede con la
disinvoltura di chi ha ben saputo rompere il ghiaccio, permettendosi la tensione sbrigliata dei Sonic Youth più leggeri in One
on three (not bad!), il post punk onirico à la Foo Fighters di Syd e quindi il RnB fifties tanto accomodante quanto
sorprendente di Boogienning (in cui il malanimo si mimetizza tra chitarrine e coretti un po' come nella Last Kiss rifatta dai
Pearl Jam). Chiude la partita - sorta di madre di tutti i commiati - la cavalcata acida di Everything makes a big noise fallin',
materia che sgorga con lentezza da suggestioni frastagliate, accenni jazzy e feedback senza domicilio che si aggregano in
blues bradicardico e allarmato, un po' di propensione cosmica Floyd, di benedetta corposità Crazy Horse e un pizzico appena
di apocalissi acida King Crimson (i primi, eh...).Un disco capace di dribblare la questione dell'originalità grazie a
un'immediatezza flagrante, quasi che i Joe Leaman parlassero il rock come una lingua madre, senza prima tradursela in testa.
Magari non hanno i mezzi per sconvolgerti la vita, ma quei cinquanta minuti d'eccitazione te li regalano eccome. (6,8/10)
Stefano Solventi
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ALTRI ALBUM
Depistado - The Emergency Response (Jade Tree, June 22, 2004)
Aria di revival nineties? Dopo la scorpacciata post-punk e funk punk degli ultimi anni qualcuno ha già pensato di riesumare
alcune delle sonorità del decennio appena trascorso? Se ignorassimo la ragione sociale dell'etichetta che ha messo sotto
contratto questi quattro ragazzi canadesi al loro EP d'esordio non avremmo dubbi: i Depistado sono una band Dischord, e in
quella casa ci troviamo sin dalla traccia d'apertura. A Stirstick's Prediction presenta infatti il tipico canto rabbioso,
bofonchiato e melodicamente ubriaco del primo Ian McKaye, mentre le chitarre taglienti e precise come rasoi (angolari, s'è
spesso rimarcato) portano dritte alla calligrafia di Guy Picciotto, ed anche la stessa struttura portante del brano (cambi di
tempo e soprattutto tipiche pose antemiche tra punk e college rock) è la copia carbone di una delle band che hanno
maggiormente segnato l'Hardcore negli anni novanta. Parliamo ovviamente dei Fugazi, un gruppo che i Nostri - salvo
qualche giro nei sottoscala dei Black Eyes (sempre un'odierna band Dischord!) - debbono aver apprezzato non poco.
Eppure, anche se un'emulazione troppo riverente è sicuramente un problema per chi conosce bene i referenti del gruppo, The
Emergency Response non difetta sicuramente di una buona energia, seppur intrappolato in sonorità piuttosto note.
L'affiatamento dei quattro, come nel caso della già citata opening track, è evidente tanto che essi sembrano, almeno in
quell'occasione, marciare sicuri come se stessero incidendo un brano di Repeater (album dei Fugazi del 1989). Non solo:
anche in altri episodi - Taste This Picture e Bubbles - l'energia è palpabile tanto negli ostinati intrecci chitarristici che nei
coretti smaccatamente Rapture-iani. Tra momenti febbricitanti e stasi per scale di note in souplesse, sorvolando su alcuni
episodi da "pilota automatico", il bilancio di questa manciata di proiettili è sicuramente positivo. Non ci resta che confidare in
una maggiore originalità e personalità per la prova maggiore, prevista a breve. (6.0/10)
Edoardo Bridda
Ariel Pink’s Haunted Grafitti - The Doldrums (Paw Tracks, 2004)
Continua l’ottimo lavoro della Paw Tracks (etichetta di proprietà degli Animal Collective). Dopo varie uscite appartenenti
all’orbita del collettivo animale (tra cui l’ottimo Young Prayer di Panda Bear), è ora la volta del primo estraneo alla
famiglia, Arial Pink. Giovane allampanato losangelino, già titolare di un numero imprecisato di uscite nel circuito off, Arial
Pink's Haunted Graffiti (questo è il nome per esteso) ha la possibilità di uscire dall’anonimato grazie all'interessamento di
Panda Bear & Co. Le notizie su The Doldrums ci dicono di un album nato come cd-r casalingo, registrato su un otto tracce
con sole voce, chitarra e tastiere (la batteria che si sente dovrebbe essere frutto dell'ugola di Arial), presumibilmente in una
stanza dalle pareti tappezzate con poster di Brian Wilson e Todd Rundgren. Sì, perché è proprio dalle parti loro che vanno a
parare le piccole pillole contenute nel dischetto. Sono visioni distorte e sghembe del pop, puzzle imprevedibili e proprio per
questo inclini all’effetto sorpresa. Tra il falsetto sonnolento di Strange Fires, le trame melodiche di Among Dreams, il
croonerismo abulico di Gray Sunset e lo slaker pop di Envelopes Another Day, sembra di ascoltare contemporaneamente Pet
Sounds e A Wizard, A True Star. Un mare di idee che pur parlando la stessa lingua non coincidono sempre perfettamente (la
seconda metà del disco, tranne Let's Build a Campfire There, è emblematica in tal senso). Ingenuità perdonabilissime, visto
come il nostro affronta la tortuosa strada che porta alla melodia (quasi) perfetta. I miglioramenti sono d’obbligo; per ora la
sufficienza è più che meritata. (6.0/10)
Gianni Avella
Clinic – Winchester Cathedral (Domino, 2004)
Tornano i liverpooliani Clinic, una delle band più interessanti ed acclamate del panorama indipendente britannico degli ultimi
anni. Formatosi nel 1997, il gruppo può vantare un curriculum di tutto rispetto: tre - ottimi - Ep di presentazione, considerati
un must da ogni appassionato di indie (in tal senso, la Beta Band insegna), la fondamentale spinta dell’airplay del compianto
John Peel, un primo album (Internal Wrangler) lodato un po’ ovunque dalla critica, un tour di supporto ai Radiohead
(2001), un’immagine cool quanto basta (camici bianchi e mascherine sul viso). Comunque sia, dopo la consacrazione indie di
Walking With Thee (2002) la loro ascesa sembra comunque essersi fermata, la loro creatività essere quantomeno in fase di
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stallo. Winchester Cathedral non apporta sostanzialmente nessun elemento di novità alla consolidata formula wave-psych del
quartetto: basta il solo brano di apertura Country Mile per ripiombare direttamente nelle atmosfere spettrali ed ipnotiche del
lavoro precedente, in una ripetizione di stilemi indubbiamente personali ed affascinanti (ritmo in quattro quarti, riff di chitarra
circolare e ossessivo, interventi inquietanti di diamonica - o clarinetto -, voce bofonchiata e lamentosa del leader Ade
Blackburn, sorta di Thom Yorke post Ok Computer in acido) ma, a lungo andare, sfiancanti. Intendiamoci, non siamo in
presenza di un cattivo lavoro: i Clinic restano maestri nel saper creare quadretti angosciosi di indubbia efficacia, caratterizzati
ora da un piano martellante dal suono rigorosamente vintage (Circle Of Fifths, di cui Fingers è la fotocopia), ora da una
violenta slide guitar e un organo doorsiano (lo strumentale Vertical Take Off In Egypt), ora dal basso usato melodicamente à
la Joy Division (Anne), ora da pulsioni dance-wave (The Magician)... ma alla fine prevale la fastidiosa sensazione del già
sentito. E se la ballata psichedelica dal sapore floydiano Home, lo sparatissimo garage punk rock di marca Stooges
W.D.Y.Y.B. e gli stranianti walzerini da giostra acida Falstaff e August riescono a variare leggermente il panorama sonoro, è
comunque un po’ troppo poco per imprimere al disco un’identità diversa.Episodio sicuramente interlocutorio, Winchester
Cathedral non aggiunge niente di nuovo a quanto già espresso dai - pur bravi - Clinic. Se non li conoscete, può essere un
ascolto interessante. In caso contrario, passate pure oltre. (5,9/10)
Antonio Puglia
Hormiga - Shore (Ghost / Audioglobe, 2004)
Negli ultimi anni, mentre il post-rock non è più post (ma neanche pre), una via italiana a questa sensibilità musicale ha preso
piede in svariate città. Bologna, con gruppi promettenti quali Franklin Delano e My Own Parasite, sembra essere l'attuale
epicentro di un fenomeno che da qualche anno ha attecchito in Italia - particolarmente al nord ovest - grazie a capiscuola
come Giardini di Mirò (Reggio Emilia) e Gatto Ciliegia (Torino), senza tralasciare la vivacità di centri come Pavia
(Ultraviolet makes me sick) e Roma (Blueprint). Non per ultima parliamo ben volentieri di Varese, città dove ha sede la
Ghost Records (insignita ultimamente del titolo di Etichetta dell'anno 2004), che ha dato occasione di emergere a realtà poprock come i Merci Miss Monroe e che ora punta sugli umori introspettivi di questi Hormiga. Shore è l'album d'esordio del
quartetto lombardo, un lavoro che evidenzia debiti evidenti verso gruppi quali Low, Califone (e più indietro Dirty Three,
Labradford e Aerial M) e che pertanto si caratterizza su sonorità già note al pubblico affezionato a quelle realtà. Nelle dodici
tracce, perlopiù strumentali, si passa da nostalgiche fotografie ambientali a sinistri presagi mai svelati, dagli odori
dell'autunno alla quiete del focolare domestico; è il caso di First Drop, con i suoi refrain ariosi, le tinte avvolgenti
dell'elettronica e quell'andamento tra l'intimità e avventura, o del prezioso gioco chitarra-basso a mo' di Tortoise su una field
recording (simile ad un armeggio di corde sul ponte di una nave) in Happy Birthday Mr President, od ancora di Tokyo, che
ricorda la timida sensibilità di certi Gastr Del Sol. Meno convincenti (e forse un po' col pilota automatico) Es Una Hormiga e
I'll Fly Like Walter Stein, che sembrano già sentite una volta di troppo (indigestione da David Grubbs o Dave Pajo?); infine,
piuttosto negativi gli sporadici approcci melodico-lirici di The Girls Leave The Circus - un buon lento pianistico dai sapori
mitteleuropei - e la vagamente wyattiana The Moles Way Of Life. Pur sobriamente ed amabilmente psichedelici, a tratti
cameristici e - anche se in maniera un po’ troppo ortodossa e languida - naturalmente folk, gli Hormiga galleggiano senza
sosta sulla linea di confine della citazione. L'ambientazione sonora è convincente, ben prodotta e arrangiata e il pathos non
manca, ma la sensazione è che dovrebbero - e potrebbero - spingersi maggiormente verso territori inesplorati e sì, migliorare
(o togliere del tutto) le parti cantate. (6.3/10)
Edoardo Bridda
Pedro The Lion - Achilles Heel (Jade Tree, 2004)
Per David Bazan / Pedro The Lion ritorna, con cadenza biennale, l’appuntamento col miglioramento. Ora, alla sua quarta
prova, sforna un ottimo prodotto di quel particolare indie-rock chitarristico suburbano, indefinitamente perso fra The Town
and the City, fra infanzia ed età adulta, fra “voglio” e “non posso”, in un eterno gioco di nostalgie ed aspettative fra i due
termini. In breve: camminiamo dalle parti di quel noto mood spesso definito “emo”, ruminante lo slowcore ed il lo-fi folk
delle province (Bedhead, Codeine, Sebadoh fino a San Neil Young) come il guitar-pop della metropoli (il nome dei
Coldplay balza continuamente all’orecchio). Il referente più vicino è Lou Barlow, ma la “lettera” di David Bazan, leader e
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quasi one-man-band, gode di una forte autonomia fatta di ubbie religiose, indolenza, sagacia, malinconia, timidezza e mille
altri aromi nascosti fra le pennellate spesso lente ma insistenti di questo album. Le tracce tendono tutte verso la medesima
direzione, spostando millimetricamente le coordinate l’una dall’altra, ma sarebbe frustrante definire il complesso monotono.
Ogni pezzo ha il suo valore indipendente che va colto con attenzione come Bands With Managers (in apertura), Discretion, la
beatlesiana Keep Swingin, o il commiato acustico di Poison. Così, quello che doveva essere il “tallone d’achille” si rivela
invece come il punto di forza di Bazan lasciando perennemente arguire che il miglioramento, personale e artistico, sia sempre
possibile.(7.0/10)
Lorenzo Filipaz
Artemoltobuffa - Stanotte/stamattina (aiuola, 2004)
Artemoltobuffa è l'anagramma di Alberto Muffato. Oppure il contrario. Cioè, parliamone: il fatto di nascondersi dietro uno
pseudonimo che "contiene" se stesso, permette al cantautore (Muffato) di manifestarsi/dissolversi nell'alter-ego
(Artemoltobuffa), così da potersi dedicare ad un pop-rock "indiedelico" con qualche evidente radicamento "indigeno".
Artemoltobuffa quindi come uno dei (tanti?) possibili aspetti che il pop italiano potrebbe assumere qualora sapesse svincolarsi
dalla propria tradizione senza rinnegarla, accogliendo effluvi angloamericani senza per questo rimanerne soggiogato? Forse.
Senz'altro. Perché no? Vabbè, torniamo sul "pezzo", cioè al disco in questione: Stanotte/Stamattina è l'esordio ufficiale di
Artemoltobuffa dopo un paio di lavori autarchico-artigianali, undici tracce che spalmano la sbrigliatezza dei Pavement sulla
poetica amara e distaccata di Samuele Bersani, aspergono retaggi Gino Paoli tra evanescenze Yo La Tengo (stentate a
crederlo? Provate con Muratori Sul Tetto), sfilacciano strutture e contorni di folk sospesi quasi come le peregrinazioni apolidi
di certo Jim O' Rourke, infarcendo infine tutto l'orticello sonoro di stuzzicanti piantine sintetiche.
Le canzoni sono acquerelli teneri e malinconie briose, giochi post-adolescenziali immersi in dolciastro surrealismo, canovacci
pettinati da un'appropriatissima voce malferma: nulla cioè che mi provochi un trabocco di termini entusiastici, ma "soltanto"
qualcosa da cui mi lascio ben volentieri accompagnare, almeno per un po'. Che si tratti di folk ballad cartilaginosa
(Pomeriggio d'asma) o di pop elettrico tra cascami wave (I tuoi denti, deliri Max Gazzé e un organino che scomoda i Cure
più fiabeschi), che sia l'incedere Bersani tra sghembezze Pavement de Il mio nome è un lago (più l'armonica, gli ottoni, il
piano elettrico, gli astrusi coretti Beach Boys...) o il gioco di sponda tra Perturbazione e Mario Venuti di C.E. Gadda e
l'estate (pulsazioni sintetiche e coretto samplerizzato, organo e campanellini), eccetera. Il bello di scrivere recensioni un po'
in ritardo è la possibilità di fare le pulci (bastardamente) alle recensioni già pubblicate: ne approfitto dunque per biasimare la
profusione d'aggettivi, tendenti all'assoluto, dedicati alla title-track (in pratica un manifesto poetico/formale, col suo
propugnare disincanto Perturbazione, puntiglio Bersani e verve Malkmus), che gira e rigira mi pare oggetto carino e poco più.
Piuttosto, degne di maggior nota mi sembrano La scena patetica, con le sue ombrosità spigolose e le corde in bilico
sull'atonale, e la conclusiva Hulk nella montagna, con la sua psichedelia sedat(iv)a Red House Painters - spazzola che
collassa sul rullante, chitarre un carillon di mestizia - e sorniona attitudine sintetica in decollo rumoristico (un po' come i fall
out apparecchiati da O'Rourke per i commensali Wilco), germogli di una visione sonora meno indulgente, più acida e
sbrigliata, come ribadisce il vento di rifrazioni seventies che scompagina la liberatoria ghost track.
In conclusione, sono abbastanza certo che tra un mese non sentirò più molto bisogno di questo disco, ma con pressoché
identica convinzione so che rimarrà come il perfetto biglietto da visita di questo - massì - cantautore, uno capace di gettarsi
oltre l'ostacolo con la leggerezza di chi ha più futuro che passato. (6,5/10)
Stefano Solventi
The Fall – Interim (Hip Priest/Voiceprint, 2004)
A Mark E. Smith e i suoi Fall non piace stare lontani dal catalogo delle nuove uscite per più di qualche mese e quindi, senza
neanche darci il tempo di riprenderci dall’ottimo Real New Fall Lp - uscito appena un anno fa – ci viene propinato questo
Interim – Rehearsals + Live Aug.Sept. ‘04. Come ben si può intuire dal titolo (“fall interim” in inglese indica il periodo di
riposo tra l’estate e l’autunno, ovvero quello in cui l'album è stato realizzato), questo è dischetto “interinale”, una raccolta
pubblicata per prendere tempo tra un Lp e l'altro. Se è pur vero che la band mancuniana non ha mai rinunciato a questa pratica
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(da più di venti anni la prassi è di almeno uno/due album l'anno, e quasi mai tutti di interi inediti), stavolta l’ineffabile Smith,
col pretesto di testare l’ennesima nuova formazione, ha assemblato poco più di quaranta minuti tra prove e registrazioni dal
vivo; considerando che la maggior parte del materiale proposto è già edito o reperibile in versioni migliori, il piatto piange.
Nello specifico, l’interesse si restringe a tre nuovi brani già eseguiti nel corso dell’ultima - in senso assoluto, purtroppo - Peel
Session del 12 Agosto scorso, All Clasp Hands (classico boogie di marca Fall), Blindness (guidata da un basso ossessivo) e
What About Us? (rock in 4/4 dal contagioso groove di chitarre), tutti in versioni inferiori rispetto allo show radiofonico, più
tre inediti (presumibilmente in fase di lavorazione), I'm Ronney The Oney (barbaramente tagliata dopo appena un minuto e
mezzo), Mod Mock Goth e Mere Pseud Mag Ed; il resto del programma consta di tre versioni live di episodi da Real New
Fall Ep (i cui titoli vengono adeguatamente storpiati secondo la tradizione anarchica del gruppo: Green-Eyed Snorkel, Sparta
Fc No.3, Boxctosis Alarum) e di un paio di reperti dal catalogo storico (Wrong Place da I am Kurious Oranj, 1988 e Spoilt
Victorian Childe da This Nation’s Saving Grace, 1985). Un discorso a parte va fatto per la qualità sonora, a dir poco
amatoriale: sono frequenti gli sbalzi di volume, il bilanciamento dei suoni è praticamente assente, un paio di brani sono il
risultato di due take incollate tra loro alla bell’e meglio; in contrasto con la produzione accurata dell’ultimo disco, si potrebbe
anche pensare ad un ritorno alle sonorità grezze e dirette dei Fall dei vecchi tempi, ma è davvero troppo poco per giudicare se
si tratti di precisa scelta estetica o di semplice, autoindulgente trascuratezza. Lavoro assolutamente prescindibile, Interim va
preso per quello che è, ovvero l'ennesima oddity di MES; può tuttavia essere un piacevole – e bizzarro – diversivo in attesa di
un “vero” disco dei Fall. Solo se siete fan, s’intende. (6,3/10)
Antonio Puglia
Paul Weller - Studio 150 (V2, 2004)
Paul Weller, ne sono certo, è uno che se potesse si strapperebbe dalla pelle quei vent’anni di troppo. Mercanteggerebbe
l’anima – l’heavy soul che si ritrova – col primo demonio a portata di mano per poter scorazzare di nuovo sui palchi davanti a
folle osannanti come gli amici amatissimi (chissà poi perché) Oasis, per recuperare quel brio formidabile e scostante che gli
consentì di mordere la breccia sotto l’egida di Jam e Style Councyl. Tuttavia, è anche senza dubbio una persona pratica,
capace di scendere a patti, di fare scelte non definibili diversamente che opportune. Ed ecco allora Studio 150 (dal nome dello
studio di Amsterdam dove è stato registrato), sorta di dichiarazione d’amore in dodici atti a certa musica che segnò e segna le
coordinate artistiche di Mr. Weller (o ne allieta la “maturità”, chioserebbero i maligni). Il soul è sempre ben posizionato al
centro dell’obiettivo, ma il mirino trema dalle parti del funky (come nella gracchiante tensione di Hercules, a firma Aaron
Neville) e del folk (la lirica Early Morning Rain, di Gordon Lightfoot), dello stomp (l’enfasi ammiccante di One Way Road
presa in prestito dai fratellini Gallagher – perdonatemi se non conosco l’originale) e del R’n’B’ più asciutto (l’iniziale If I
Could Only Be Sure), concedendosi sprazzi “disco” opportunamente “folkizzati” (la suadente Thinking Of You, in cui la
chitarra acustica vuole essere una sorta di base solida per gli svolazzi degli archi e l’evanescenza del vibrafono).
L’impressione d’insieme è di un abito splendidamente cucito attorno al vocione rugoso di Paul, tanto da sembrare il genuino
omaggio ad un’epoca, un modo di confezionare le orchestrazioni - e il conseguente mood – che non si usa più, per un insieme
di ragioni che non è il caso d’indagare qui. E’ piuttosto il caso di puntare l’indice (accusatorio) sulla sostanziale penuria di
urgenza, di quell’anima sofferente che del soul è motivo e sostanza, lasciando queste tracce allo stato di esercizi puri, e non
sempre azzeccati. Se infatti la The Bottle di Gil Scott Heron azzecca un muro di suono dalla contagiosa concitazione (la
spinta scintillante degli ottoni e i graffi del wah wah, il flauto scorazzante ed il basso turgido, la cruda energia della chitarra
acustica e un assolo efficacissimo di sax), la dylaniana All Along The Watchtower – quando si dice scegliersi una brutta gatta
da pelare – va tristemente ad impantanarsi in una fervida carnevalata gospel-blues (inappropriata l’enfasi del coro, noioso il
cartiglio di chitarra, prevedibile il lavorio dell’organo). Tenendo ferma la bella distribuzione e il calore dei suoni, volano
invero basse le riletture di Wishing On A Star (hit stritolacuori di Rose Royce) e Close To You (blandizie caramellosa dei The
Carpenters), così come il traditional Black Is The Color oscilla tra sentita devozione ed eccessivo formalismo (è tanto
scontata quanto irritante la combine organo-violino). Non va molto meglio con Don’t Make Promises, anche se in effetti è
dura giocare con le ombre di Tim Hardin, tanto più con un pezzo così, che se sbagli di un millimetro finisci col sembrare i
Blues Brothers. Un po’ meglio invece con la conclusiva Birds, trepido gioiello Neil Young, se non altro per lo sbrigativo
appeal northern-soul della prima parte, prima cioè che un improvvido orgasmo gospel (ancora!) ne gambizzi a morte la
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bellezza ombrosa e sgusciante. Se andate in cerca di una rassicurante rassegna di titoli abbastanza “minori” da non farvi
passare per tipi banali, se li volete arrangiati e registrati con brillante canonicità, se tenete l’Unplugged di Eric Clapton
sempre a portata di autoradio, pare proprio che questo splendido mestierante cinquantenne abbia licenziato il disco che fa per
voi. Quanto all’anima, dovrete accontentarvi di una fotografia. Patinata. (5,6/10)
Stefano Solventi
Ana Da Silva - The Lighthouse (Chicks On Speed Records/Wide, 2004)
Non paghe di essere vere e proprie icone dell’electroclash, le Chicks On Speed si dilettano a scovare o ritrovare piccole
donne rock cadute nel dimenticatoio. Dopo il ripescaggio di Tina Weymouth dei Talking Heads - con relativa Wordy
Rappinghood, figlia del side-project con il marito Chris Frantz chiamato Tom Tom Club -, oggi tocca alla reginetta delle
Raincoats Ana Da Silva, scritturata per la Chicks On Speed Records e pronta per le masse assatanate di deja-vu alla So 80's.
Lei, la voce incantevole dell’altrettanto incantevole Odyshape (il disco dell'81 che, grazie alla propaganda di Kurt Cobain,
favorì la reunion delle Raincoats nel 1996, Looking In The Shadows), ritorna dopo anni di oblio, cimentandosi in dieci brani
dal sapore insolitamente retrò e melodrammatico. Dopo essersi dotata di una piccola tastiera, un sequencer e un non meglio
identificato strumento digitale, la neocantautrice ha composto queste canzoncine senza né arte né parte, in cui ha fatto
confluire basi preparate per la dancefloor domenicale, influenze da musical ed elementi dark anni Ottanta. Molte note di The
Lighthouse non fanno altro che riprendere sotto forma digitale il folk-dub espresso ventitré anni prima nel citato Odyshape
(si ascoltino Friend, Two Windows Over The Wings, Running In The Rain, Sister), e quando si va oltre non bastano una cover
di Jobim (Modinha) e qualche arazzo wave (In Awe Of A Painting) a far gridare al miracoloso ritorno. Benché ancora
piacevole e vellutata, poi, a un ascolto prolungato la voce di Ana risulta stucchevole e troppo barocca, e neanche la sorregge
una scrittura incisiva o quantomeno convincente. Per ora ci basti comunque sapere che l’ex Raincoats è di nuovo tra noi;
magari servirà da incentivo per (ri)scoprire (e ristampare) il vecchio catalogo della band. (5.0/10)
Gianni Avella
Blevin Blectum - Magic Maple (Paramedia / Bleakhouse, 2004)
Malefici puffi armati di trapano e basso crescono? Questo vien da chiedersi ascoltando il nuovo lavoro - e dando un’occhiata
al package ricco di testi, giochi e disegni - dell'ex Blectum From Blechdom, Blevin Blectum. Il terzo album della musicista
non abbandona i famigerati espedienti frullatore che hanno reso famosa la cosiddetta scuola di S. Francisco (Matmos, Lesser,
Kid606…), ma non disdegna neppure un qualche tema conduttore. Seppur nell’irriverente citazione, Magic Maple possiede
un filo rosso che sembra condurci allo smalto della west-coast e persino alle voluttuose acrobazie del prog. Ne è un esempio
Pelican, suite in quattro parti che scorre veloce e (imprevedibilmente) prevedibile: mescola di tutto - cosmica, exotica,
drum’n’bass e tribalismi – mantenendo altresì una certa coesione. Lo stesso accade per i breakbeat e i ragamuffin passati ai
solventi dei Mouse On Mars, fluidificanti sparsi un po' a prezzemolo nel disco che si mescolano a quelli più aspri
dell’elettronica d’assalto. Dalla summenzionata suite alle molte sabbie mobili di una futurologia proprio come la vorrebbe
Karin Andersen, in brani come As A Bird Watches The Eyes of a Snake, Oddly Angled Room, Ease e Last Track è l’ironia a
farla da padrone, beffa grazie alla quale seghe elettriche e voci aliene posso tranquillamente convivere con Hanna e Barbera e
Star Trek, creando un effetto di curiosità più che suscitare l’effimero piacere del trash. È proprio attraverso questa leggerezza
e naivetè al fulmicotone che Blectum convince e si distingue rispetto all’amico e compagno d’avventure Lesser. Entrambi si
domandano dove andrà a finire l’indie-tronica al laptop (di cui sono stati indubbiamente protagonisti ed eroi per più di un
giorno), eppure mentre il secondo cerca una propria via alla maturità senza trovarla, la prima rimane l’impertinente,
accattivante, stordita sognatrice che è sempre stata. L'acero magico è pertanto una raccolta di brani intriganti e variegati che,
pur contemplando entrambe le posizioni, non eccede né in funambolismi digital à la Kid 606 né in prese di posizione
“adulte”. In definitiva potrebbe avvicinare un pubblico nuovo all’artista, senza che per questo lo zoccolo duro dei fan ne
rimanga deluso. (6.3/10)
Edoardo Bridda
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Phosphorescent - The Weight Of Flight ep (Warm / Wide, 2004)
Matthew Houck da Athens, Georgia, è il centro di gravità permanente dei Phosphorescent, entità attorno a cui si arrabatta una
stuola di amici (e) musicisti per quel "piccolo aiuto" necessario a confezionare questo ep, secondo lavoro dopo l'esordio A
Hundred Times Or More (2002), di cui in buona sostanza ripercorre la cifra stilistica. Ovvero, alt-country un po' sciroccato e
un po' indolenzito stile Will Oldham (nel quadretto da retrofienile di When We Fall - grazioso stomp a base di clap hand,
piano e ottoni sommessi - e come nel valzerone tutto farragini di corde, luce tiepida d'organo e voce increspata di All Of It,
All) nonché sguardo brancolante nel (proprio) buio alla maniera di Jason Molina (vedi la mestizia bradicardica dell'iniziale
Toes Out To Sea ed il lento, coinvolgente schiudersi elettrico di Not Right, You Know in un empito accalorato di fiati, organo,
accordion...), riferimenti cardine di cui i Phosphorescent sembrano talora dei credibilissimi succedanei e talaltra ovviabili
epigoni, dipende da quanta voglia abbiamo ancora di percorrere questi sentieri. Giocano a favore di Mr. Houck la naturalezza
anzi la tenerezza con cui si tuffa nel brodo di speranze e visioni del giovane Dylan, riemergendo con una ballata esile e
commovente (il tremolio dell'organo, il baluginio dei synth, l'eco chiesastico di quel canto rattrappito in Mrs. Juliette Low), e
il cuore che mette nel confezionare la cover di My Heroes Have Always Been Cowboys (pezzo firmato Willie Nelson, il
trillare mesto delle corde, quelle folate ombrose di tastiera, la voce sputata quella di Oldham), quanto basta a non farmelo
gettare nel calderone delle eccedenze, rigirarmelo un altro po' nello stereo ed attendere con una certa curiosità la prossima
prova in lungo. Per la quale, immagino, non dovremmo attendere molto. (6,2/10)
Stefano Solventi
Nikki Sudden - Treasure Island (Secretly Canadian, 2004)
Nikki Sudden è una vera e propria leggenda vivente della storia del rock. A metà degli anni Settanta, insieme al fratello Epic
Soundtracks (morto nel ’97), diede origine agli Swell Maps, band inglese dai connubi punk-experimental-glam e dalle
riproduzioni lo-fi in grado di influenzare, udite udite, formazioni come Sonic Youth, Pussy Galore, Rem, Pavement,
Lemondheads e Mercury Rev Dopo aver registrato A Trip To Marineville (1979) e Jane From Occupied Europe (1980),
nel 1982 Nikki inaugura con Waiting On Egypt la carriera solista, che metterà in luce tutto il talento di un rocker
spregiudicato e senza frontiere. Il percorso sarà intervallato da un’altra significativa collaborazione, quella con il cantantechitarrista Dave Kusworth; dall’unione dei due - o se vogliamo dei tre, visto che alla batteria c’è sempre il fratello Paul
"Epic Soundtracks" Godfrey - nascono nel 1984 gli Jacobites, assertori di un power pop-blues sobrio e primigenio, che
raggiunge i momenti più belli con ballate impervie e malinconiche che ricordano Keith Richards, Johnny Thunders, Marc
Bolan e i Velvet Underground. Nel frattempo Nikki ha ripreso la carriera solista: Texas (1986) è un album rigoroso e
severo, che vede tra l’altro la partecipazione di Rowland Howard, ex Birthday Party e Crime And City Solution. Texas
segna però un periodo di crisi, che l’artista di Birmingham riuscirà a superare brillantemente grazie alla testardaggine che
soltanto un “punk” come lui poteva avere. Esibizionista, decadente, intimo e celebrativo, Sudden è capace di alternare episodi
collettivi, tra i quali Fortune Of Fame (1988), Howling Good Times (1994), Old Scarlett (1995) e via discorrendo, a lavori
personali come Groove (1989), Jewel Thief (1991), prodotto da Peter Buck dei Rem, e Red Brocade (1999), realizzato con
la collaborazione dei Chamber Strings e di Jeff Tweedy dei Wilco. Navigando nelle stesse acque che lo hanno visto da
trent'anni a questa parte vagabondo romantico e incorreggibile, Nikki il pirata si erge in questo scorcio di 2004 a paladino del
buon vecchio rock’n’roll: Treasure Island è un’opera scrosciante e compatta per contenuti, forma ed equilibrio, in cui si
fanno largo la malinconia di Russian River, Kitchen Blues e Highway Girl, l’isterismo di Fall Any Further, l’energia di
Looking For A Friend e Treasure Island e le splendide ballate di When The Lord e Sanctified. Un lavoro d’indiscutibile
fascino, che si agita tra i flutti sinuosi di Bob Dylan, Rolling Stones e Neil Young, anche se le canzoni di Nikki non sono
mai riferimenti assoluti, ma semplici segni di appartenenza. Passaggi di una stessa rotta, insomma: dai canovacci blues di
High and Lonesome ai retrogusti country di Break Up, solcando le intemperanze elettriche di Wooden Floor e House Of
Cards. Ad accompagnarlo in questo incantevole viaggio ci pensano l'ex chitarrista degli Stones Mick Taylor, Ian McLagan
(Faces) al piano e all’organo Hammond e Anthony Thistletwaite (Waterboys) al sassofono. Un tripudio di chitarre e sano
intimismo per rendere omaggio al principe dei banditi: un uomo che disse di no ai Nirvana e che per amore di una splendida
ucraina mandò all’aria un disco con Alex Chilton dei Big Star. Un loser, ma un grandissimo loser. (7.5/10)
Luca D'Ambrosio
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Tiromancino - Illusioni Parallele (Virgin, 2004)
Che fosse sottile la distanza tra l'idea di popular "alto" (punto di fusione tra istanze avant e consuetudini radiofoniche, tra
ricercatezza ed orecchiabilità) ed il suo lezioso reiterarsi, un po' lo sospettavamo. Ecco che, puntualmente, l'arte semplice (o
semplificata) dei Tiromancino - alias Federico Zampaglione - aggiunge un altro capitolo al proprio percorso senza (più)
ostacoli. Liscio, levigato, un discorso pop che dribbla le asperità con suadenti deviazioni, frequenta la complessità a patto che
si presenti immediatamente digeribile (ovvero finge complessità che non mantiene), affascina in virtù di scenografie
moderniste in fuga da qualsiasi tentazione d’avanguardia, si riproduce sfiorando l'auto-rappresentazione pura. Come prima
più di prima, accoglie una trepida brezza sintetica in seno a soul disinnescati (le brume patinate de La terra vista dalla luna),
corruga ad arte la superficie quando occorre (come in Apro gli occhi, dove un'urgenza radente pervade il tramestio ritmico, le
corde risucchiate dal wah-wah, le forme della voce, i barlumi glitch versante Notwist) avvertendo però fin dall'inizio circa i
limiti che non oltrepasserà (l’asprezza “addomesticata” nel chorus di Pericle il nero). Altrove il discorso fluisce setoso sulle
tracce di mille ballate radiofoniche (tra)passate (il Marco Ferradini guarnito di ammennicoli atmosferici - riffettini di synth,
refoli orchestrali - de L'autostrada), oppure molla la tensione liofilizzando un reggae facilino (la solennità inane di Amore
Impossibile). Non va meglio quando indaga le residue possibilità di folk cyber-psichedelizzati (il melange Radiohead - due
parti quelli di The Bends, una parte quelli di Kid A - di Cosa cerchi veramente), mentre riesce a sorprenderci quel tanto che
basta quando con Verso nord si aggrappa ad un cartiglio di chitarra e a un organo dolenti come capita al Lanegan più mesto,
intanto che la melodia sgrana un disincanto dritto alla stregua d’un bignamino Tenco (ospite la voce flautata di Nicole
Pellicani). La title track, col suo gioco d'astrazione astrusa (le rifrazioni aeree e liquide tra cui zampilla la voce), col basso a
perpetrare un mormorio tetro (di chiara ascendenza trip-hop), con i suoi minimi termini strutturali, rappresenta un apice sordo,
nel senso di inesploso, non risolto, lavoro finito ma non rifinito. Idem dicasi per l'ottuso ordigno funk-blues di Esplode, cui né
la ruvidità delle distorsioni né tantomeno la comparsata di Dario Ciffo (al violino) e Manuel Agnelli (a masticarsi in bocca
metà dei versi) donano l’auspicato valore aggiunto, mentre l'ectoplasma funk-jazz di Attraversare la notte (battito digitale e
drumming sfarfallante, evanescenze di synth e riccioli di chitarra, piano elettrico e sax campionato, voce filtrata-non filtrata a
disperdere le tracce tra i piani della rappresentazione) vorrebbe architettare una conclusione preziosa riuscendoci però solo in
parte, causa l'evidente carenza di corpo a riempire la macchinosità dell'abito. E allora? Allora, tanto di cappello per la
capacità di sfornare ordigni pop dal fragrante stampo classico (Imparare dal vento si presenta fin da subito con le stimmate
dell'hit stritolacuori) e per la scelta di coverizzare Felicità, vale a dire uno degli ultimi lavori commestibili di Lucio Dalla
(trattato forse con eccessivo rispetto, visto come - arredi elettronici e feedback a parte - ripercorra devotamente l’originale).
Ma il gioco s'e fatto ormai scoperto, il fascino dissolve poco dopo la lacerazione del cellophane, la mappa continua a segnare
tesori già saccheggiati. Il paragone con gli "altri" Tiromancino - i "fuoriusciti" Zampaglione (cioé il fratello Francesco),
Arzilli e Sinigallia, raggruppati attorno alla figura di quest'ultimo - mette spietatamente in evidenza la mancanza di visioni
strutturate, d'irrequietezza autoriale. Manca cioè quello che in Sinigallia assume forme sì abbastanza risapute ma dotate di
singolare calligrafia emotiva, di mistero che si schiude poco per volta e mai tutto intero, forme profonde perché pescate
dall'anima senza altra mediazione che non il doverle mettere in musica al meglio. Qui invece tutto (volutamente) scivola in
superficie, s'accontenta di - anzi persegue - filigrane e bozzetti, acquarelli e ologrammi, si gioca l’intera posta calando la carta
di un'estetica palpitante calata come una nebbiolina a spandere un ineffabile magnetismo. Che però si volatilizza dopo tre
ascolti. Un po’ poco. (5,1/10)
Stefano Solventi
Ian Brown – Solarized (Fiction, 2004)
Ian Brown, padre riverito e modello vampirizzato - nonché vampiro a sua volta - del brit-pop (Liam Gallagher gli deve tutto,
pure il look, ma si noti anche il sangue succhiato proprio da questo disco ai suoi figliocci Kula-Shaker), ritorna in pompa
magna per ripetere sempre la stessa lezione ai suoi conterranei accoliti. Il succo del suo insegnamento è più esistenziale che
musicale, se non addirittura manageriale: “Fai il botto finché sei giovine e poi mettiti subito in conserva”. I suoi allievi, Oasis
in primis, seguono alla lettera la sua parola, ma forse sono troppo giovani o ancor meglio troppo irrimediabilmente sciatti per
emulare la flemma di padre Brown, il suo stile nel mettere in pratica questo modus vivendi. Come ritardare il deperimento?
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Infarcendosi di conservanti, coloranti, dolcificanti ed emulsionanti, of course, ed è questo che Ian Brown ha fatto nell'arco
della sua carriera solista arrivando alla formula chimica più adatta in Solarized. La ricetta consiste nel mettere assieme una
specifica miscela di produttori ed engineers affermati in determinati campi per trattare un impasto di base disco-blues, di per
sé piuttosto anonimo, condito con abbondanti dosi di spezie orientali fornite dalla solida chitarra del fido Aziz Ibrahim (con
cui ha firmato peraltro i pezzi più interessanti del disco, l'iniziale Longsight M13 e la title-track). Si aggiunga una spruzzatina
di elettro-'80 portata da sapienti manopole già al servizio di Pet Shop Boys, Level 42, Marc Almond (Fitzmaurice al
missaggio) inscindibile da un suono rarefatto tipicamente brit di chi ha lavorato con Art Of Noise, Groove Armada, Truby
Trio e James Lavelle (Dan Bierton, Tim Hutton) e si rivesta il tutto di un'edulcorata glassa super-pop degna di prodotti come
Kylie Minogue, Seal, Paul Oakenfold (Dave McCracken). Il risultato è di buona fattura, ben confezionato, uniforme (anche
troppo) con poche, minime e funzionali uscite dagli schemi, come gli ottoni latini di Time Is My Everything (scritta con Tim
Hutton, già collaboratore di Villalobos) o le suggestive atmosfere pinkfloydiane di Keep What Ya Got (scritta e suonata
assieme a Noel Gallagher). Inevitabile però domandarsi quanto del sapore finale derivi dagli additivi chimici e quanto sia
realmente genuino, come quando si è alle prese con una buona marca di maionese. In fondo di quest'album rimane solo lo
stile, o la ricostruzione di uno stile, e dici poco. Del nostro voto, troppo alto per alcuni, troppo basso per altri, fatene un po'
quello che vi pare, è irrilevante, noi andiamo ad ascoltarci un'altra volta Destiny Or Circumstance. (6,5/10)
Lorenzo Filipaz
Radio 4 – Stealing of a nation (City Slang/Labels – Emi)
Il messaggio è fin troppo chiaro fin dal titolo, e non si fa scovare tra le righe: l’America non è poi quell’idillio mitico che da
sempre ci - inteso “noi popolo dell’euro” - affascina. E’ un paese ormai in perenne stato di allerta, dove neanche più le
elezioni garantiscono la democrazia. E’ un paese in guerra, derubato dei soldi e dei mezzi di espressione, fagocitato
completamente dal potere.Questo il messaggio dunque, che riportiamo soltanto per dovere di cronaca, senza entrare nel
merito della questione. Ci interessa molto di più pensare al tramite, prettamente musicale, col quale i Radio 4 ci rendono
partecipi della loro protesta molto poco velata nei confronti dell’uomo più nominato di questo 2004 (per vostra informazione:
non ha partecipato al Grande Fratello). Stealing of a nation è il nuovo album dei newyorkesi, la conferma di un'infatuazione
p-funk che li ha animati sin dal 1999. Le coordinate (c’è ancora qualcuno che non lo sa? ) sono quelle che hanno fatto
successivamente la fortuna di Rapture e !!!: chitarre pulite e riff di basso asportati dal funk (e da certa disco sofisticata), il
cantato tagliente recuperato dal punk, il tutto abilmente frullato con ritmiche elettroniche, per lo più figlie della house ma
anche di certo Electro-Pop anni ’80. L’antipasto è abbastanza gustoso: Party Crasher stuzzica il palato attraverso un bel muro
di chitarre, i ricami preziosamente eighties delle tastiere e sezioni ritmiche ben dosate; Transmission, il secondo piatto, ha un
sapore molto simile, fin troppo abusato. Già con la terza portata il pasto si fa stucchevole, e il titolo, State of Alert, pare essere
una premonizione involontaria: l’intro di percussioni e il riff caciarone di chitarra può andar giusto bene per una serata al ( ma
guarda!? ) New York Bar, che non mi stupirei di sentire in apertura di un set di Joe T.Vannelli, poi il brano cerca di
recuperare consensi laddove scimmiotta i !!!, ma senza quel piglio anarchico che trovate in Louden up now. Fra type I and II
tenta una pausa kraut-psichedelica per smontare la noia, ma si torna nei ranghi con Death of American Radio: qui il referente
sembra piuttosto Echoes dei Rapture, ma manca la facilità irriverente dei loro ritornelli, che invece sembrano sempre così
uguali, l’uno con l ’altro. Insomma alla sesta pietanza, Nation, si ha la sensazione di essere satolli; a poco servono i rimandi
reggae/dub-oriented per stemperare la verbosità, veramente prolissa, di questa litania.Si prosegue così a stento, verso
un’agognata fine, tra un remake strokesiano (Absolute Affirmation) e funkeggiamenti ostinati e tanto ripetitivi da far sembrare
(Give Me All Your) Money, Shake The Foundation e Dismiss The Sound comprese nella stessa traccia; non si scampa
nemmeno a Coming up empty, una sorta di tango-dark che chiude definitivamente le danze.Uniche annotazioni di merito: la
coerenza indubbia di questo lavoro, che non fa mistero dei propri riferimenti stilistici e che mantiene questa linea – ahinoi –
costante per tutto il disco. Il terzo album dei Radio 4 è l'evidenza che i discepoli hanno superato i "maestri". E di gran lunga.
(5.0/10)
Riccardo “Mimmi” Maselli
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AA.VV. - Boomsongs for Velvet (MusicBoom, 2004)
Dopo la fortunata operazione Let it Boom, tributo alla musica dei Beatles in salsa italian indie, MusicBoom ci riprova con
Boomsongs for Velvet, compilation – disponibile in download gratuito sulle pagine del sito - che si propone lo stesso
obiettivo con i Velvet Underground. Assodato che misurarsi con le canzoni del gruppo newyorchese - passando anche dalle
parti del Lou Reed solista - è impresa scomoda e non delle più facili, l’ascolto di alcuni episodi di questa raccolta può
rivelarsi interessante, soprattutto se la intendiamo (com’è giusto che sia) più come radiografia dell’attuale scena indie
nostrana che come tributo vero e proprio. Ciò che salta subito all’orecchio è una certa cautela – timore reverenziale? nell’avvicinarsi alla materia, tanto da prediligere, nella maggior parte dei casi, un approccio decisamente soft; l’impianto si
mantiene così sull’ascoltabile, con suoni morbidi e molti riverberi (vedi la sognante Jesus di Goodmorningboy posta in
apertura), senza distaccarsi troppo dalle versioni originali; a parte una bella New Age di Sofful o la Perfect Day dei Mr
Grady? in bilico tra Cave e Cohen, un gran numero di queste rivisitazioni non va oltre l’imitazione calligrafica, senz’altro
piacevole (d’altronde la materia prima è quella che è) ma in fondo fine a se stessa.Va sottolineato che, in generale, ci si è
rivolti più verso il lato “pop” e melodico della produzione velvettiana che verso quello sperimentale (di marca John Cale):
uniche eccezioni in tal senso sono la Black Angel’s Death Song del trio Cantù / Ciappini / Iriondo e la The Gift e degli Zen
Circus, ma, laddove una riesce a mantenere lo spirito dell’originale risultando credibile (probabilmente in virtù del bagaglio
musicale dei soggetti in questione), l’altra viene accelerata verso il garage, finendo per perdere in atmosfera; sullo stesso
versante – ma in senso opposto - lascia un po’ interdetti la Venus in Furs dei Ronin, che tramutano la maledetta e minacciosa
danza sado-maso originale in una straniante ninnananna guidata da piano e xilofoni. A fronte di questa situazione di certo non
esaltante, non mancano comunque episodi interessanti e a loro modo coraggiosi: per esempio l’eterea elettronica di I’ll Be
Your Mirror dei Lorbi, tutta incentrata sulla voce di Odette di Maio, o il riuscito rispolvero in chiave velvettiana (sic!) di un
brano del Reed minore come What Becomes a Legend Most da parte dei Mosquitos. Discorso a parte per la I’m so Free dei
Bikini the Cat, che stravolgono armonicamente e melodicamente il pezzo di Transformer mutandolo in uno sbilenco
zabaione pop-wave (download caldamente consigliato); deludono, infine, gli esperimenti post-rock di da’namaste (Ocean) e
Viclarsen (Heroin), cui comunque va riconosciuto l’ardore di cimentarsi in riletture insolite.Se quella di MusicBoom resta
sempre un’iniziativa lodevole, questa compilation, priva di mordente e di guizzi particolari, finisce per deludere le aspettative.
In onore di una delle band più controverse e “di rottura” della storia del rock non avrebbe guastato da parte degli interpreti un
pizzico di coraggio in più (che invece, secondo chi scrive, non è mancato, con esiti ben più felici, nel precedente tributo ai
Beatles). (5,5/10)
Antonio Puglia
Demo
Taxi_So Far - Mouse Music (autoprodotto, 2002)
Taxi_So Far sono un duo (o almeno credo) insidiato a Napoli che ha la spudoratezza di mettere insieme venticinque minuti
scarsi di - son parole loro - "attacco spietato dell'infanzia ai danni della Maturità". Il loro livello di follia è evidente, però
assolto/dissolto in un progetto di (stra)visione che al momento può contare più sui propositi che sui mezzi. Sono abili tuttavia
a fare perno proprio su questa genuina allure lo-fi per indagare e ammantarsi di ulteriore fascino. Mouse Music è il demo con
cui si presentano al mondo: chitarra acustica, una tastiera semi-giocattolo, uno xilophono senza semi, la voce di un fantasma
lubrico che ha sbagliato tempi e luogo dell'apparizione. Cenni di psichedelia pastorale alla Pink Floyd (il bozzetto acustico
sotto sedativo di Universal Polaroid, da qualche parte tra l'angoscia caliginosa di Wish you Were Here e la calligrafia
decadente di Tenco), sordide allucinazioni electro-soul (la trama noir di Un Cadavere... Squisito, scherzetti adesivi di tastiera
su bruma di basse frequenze, il timing approssimativo della voce come un reading dalla dimensione accanto), elucubrazioni
sintetiche tra esotismo e minaccia (il tango post-atomico di Ming 1, i Depeche Mode in clausura a salmodiare inni di
trascendenza e illuminazione, mentre nelle celle vicine ammuffiscono Clock DVA e Battiato, Art Of Noise e Ennio
Morricone). Eppoi la danza scheletrica di Night Club Babele, cascami wave assemblati in un frankenstein bieco, tra insidie
ritmiche tremebonde, sospiri Gainsbourg in un campo di fragole e razzate aliene di passaggio. E a chiudere la lunga
apocalissi sequenze & frequenze di La Partenza Intelligente, strategia di manopole e palpiti, rumori di sintesi e d'occasione,
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tentativo di sfondamento estemporaneo del muro della tranquillità che rimanda al Brian Eno all'arrembaggio dell'incubo
moderno e ai Floyd schiacciati dalla percezione del futuro, per finire alla danza macabra in coda che si spegne in un barbaglio
bossa (!?). Un disco interessante, come avrete intuito, che pure lascia insoddisfatti, vuoi perché breve, vuoi perché la distanza
tra intenzione e realizzazione è così tanta che non è facile capire quanto la pochezza dei mezzi sia più scelta estetica,
contingenza o alibi. Avremo modo di chiarirci le idee più avanti giacché, a quanto sembra, siamo solo all’antipasto. Ed è una
buona notizia.
Stefano Solventi
Live
Interpol – 3 Dicembre 2004, C-Side, Milano
Next Exit / Obstacle 1 / NARC / Public Pervert / Say Hello To The Angels / Not Even Jail / Hands Away /
NYC / Slow Hands / Lenght of Love / Evil / PDA / Leif Erikson / Roland / Stella (was a diver and she was
always down)
Era forse prevedibile che, in seguito alla pubblicazione di Antics, lo hype intorno agli Interpol fosse destinato a crescere. Non
è invece dato sapere quanti si aspettassero un bel “sold out” in occasione della data milanese dello scorso 3 Dicembre: a
giudicare dalle decine di persone rimaste fuori dal C-Side alla ricerca disperata di un ultimo biglietto, sembrerebbe proprio
che il gruppo di Williamsburg, NY stavolta abbia davvero fatto il cosiddetto “botto” (e gli esiti trionfali dei precedenti
concerti inglesi confermerebbero questa impressione). A due anni dall’esplosione di Turn On The Bright Lights, alimentata
da un inarrestabile culto sotterraneo, la proposta degli Interpol sta adesso conoscendo una fascia di pubblico sempre più vasta
(pur restando – apparentemente - in ambito indie): ai concerti è ora possibile vedere, oltre ai prevedibili ventenni neodarkettoni in rigorosa camicia e cravatta scura, anche tanta gente comune tra spettatori occasionali, appassionati di ogni età o
semplici curiosi. Se ciò da un lato ha sicuramente contribuito a dare alla seconda data italiana degli Interpol un inequivocabile
tono da “evento”, dall’altro ha reso inevitabilmente scomoda la fruizione del concerto: nonostante la capienza della discoteca
milanese, a tratti la calca si è fatta decisamente insopportabile. Dobbiamo forse aspettarci a breve dei concerti in palazzetti o
strutture analoghe? E’ strano pensare agli Interpol come un gruppo da grandi numeri. Assodato che essi non sembrano avere
(almeno allo stato attuale) il piglio o la personalità delle superstar, di certo fa una certa impressione vedere il pubblico cantare
i ritornelli insieme a Paul Banks, accompagnare ritmicamente con le mani i momenti più epici dei brani, addirittura pogare
(!) sotto il palco. Che si tratti soltanto di una moda passeggera o sia piuttosto segno del potere comunicativo di una musica
capace di andare oltre gli steccati di genere e di farsi linguaggio universale, potrà stabilirlo solo il tempo. Andando oltre, due
anni di routine sul palco sembrano aver decisamente giovato alla resa dal vivo della band: chi aveva ancora negli occhi e nelle
orecchie le esibizioni incerte del tour in supporto del disco di esordio ha dovuto bruscamente ricredersi. Specialmente il
frontman e il bassista Carlos D. sono apparsi molto più sciolti che in passato: il primo si è mostrato notevolmente cresciuto a
livello interpretativo, sfoderando una voce più sicura e meno traballante; il secondo si è divertito a fare sponda tra la sua
postazione e la batteria del precisissimo ed inappuntabile Sam Fogarino, mentre il chitarrista Daniel Kessler è apparso come
al solito concentrato sullo strumento, come se non ci fosse null’altro intorno; il tutto all’insegna di una loquacità prossima allo
zero assoluto e una compiaciuta non-presenza scenica (in perfetto stile post punk). Ma le vere protagoniste della serata sono
state le canzoni: gli Interpol possono fare affidamento su un repertorio ricco di composizioni efficaci e di sicura presa sul
pubblico, e forse è questa la loro vera forza, aldilà delle stesse capacità interpretative (comunque impeccabili). Tanti i
momenti memorabili, in un vincente (ed equo) alternarsi di brani vecchi e nuovi, per circa un’ora e un quarto di musica: da
Next Exit, apertura suggestiva e sacrale, alle spigolosità di Obstacle 1 e Say Hello To The Angels, dai crescendo di Hands
Away, passando per una toccante NYC fino al climax di Evil e PDA, per arrivare alla conclusiva e attesa Stella, piccolo regalo
per il pubblico milanese. Insomma, il concerto che un po’ tutti si aspettavano, senza particolari sorprese ma, cosa che più
importa, ricco di conferme sul talento di questi musicisti, che oggi più che mai sembrano sicuri dei loro mezzi, anche in vista
della strada che si sta aprendo davanti a loro. A questo punto, si accettano scommesse sul loro futuro…
Antonio Puglia
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Mouse on Mars – 20 Novembre 2004, Tpo, Bologna
Se da un lato Radical connector ha rappresentato l’ennesimo calcio in faccia a chi
sottovalutava le abilità camaleontico-musicali dei Mouse on Mars, dall’altro non ha certo
scoraggiato il pubblico di estimatori del duo tedesco, spesso abituati a cambiamenti anche
radicali. In un Tpo pieno fino all’orlo, in attesa dell’apertura della nuova sede del Link luogo storico per la musica elettronica in terra felsinea - Andi Toma e Jan Werner hanno dato sfoggio del loro ultimo
travestimento. Ci si aspettava tanta elettronica al ritmo di Rock come era accaduto nella data bolognese dell’ultima tournée,
oppure di converso uno spettacolo minimale e, magari, la presenza della cantante Niobe, fondamentale apporto in questa
nuova fase. E invece, niente di tutto questo; o meglio: poco. Niobe continua la sua carriera da solista, mentre i tedeschi
salgono sul palco armati di basso e batteria, accompagnati da un Dodo Nkishi funkeggiante fin dall’aspetto (sembra il figlio
cibernetico di Sly Stone) e danno vita ad un live set intrigante in cui strumenti acustici, elettrici e elettronici si amalgamano in
maniera imperfetta - ma appunto per questo più “live” - al contesto sonoro. Le trame più sincopate e danzerecce sono le più
riuscite, specie Mine Is in Yours e Wipe That Sound, le vere hit del nuovo corso. La formula “drummer trio”, con il batterista
Nkishi ad improvvisare sul basso e le elettroniche, se fornisce nuova linfa ai nuovi brani (originariamente più quadrati ed
essenziali), non sembra comunque adattarsi granché al classico sound orpelloso e ricco di sfumature della band di Colonia,
che spesso si appiattisce sotto le percussioni di pelli troppo presenti e non sempre necessarie; e superflua appare anche la voce
dello stesso Nkishi, neanche lontana parente della sensualità vocale di Niobe. Il pubblico apprezza e se ne sta sparpagliato
per tutta la grande sala, ascolta con attenzione, raramente si abbandona al ballo, concentrato com’è a percepire la miriade di
sfaccettature del suono offerte dalla musica. E si entusiasma quando Toma e Werner tornano ai synth e attingono al loro
repertorio classico, da sempre un cerebrale e alchemico work-in-progress giunto fino ad oggi passando indenne per i sentieri
della techno, del dub, del glitch e dell’electro pop. Due parole sugli openers: i M.O.M. hanno sfruttato l’occasione del tour
europeo, partito da Londra all’inizio di novembre, per presentare un paio di produzioni della loro etichetta, la Sonig, che ha
visto la luce a Colonia dieci anni fa. Visto e considerato che per codesta label incidono alcuni tra i migliori nomi della scena
elettronica internazionale, i dj set di Jason Forrest (che si fa chiamare anche Donna Summer) ed Elephant Man Power non
sembrano né la scelta migliore per aprire un bel concerto come questo, né il miglior biglietto da visita per la Sonig. Forrest,
uno scimmione che si è dimenato a ritmo di techno tutto il tempo a mo’ di Flynt dei Prodigy con la compilation I-Tunes di
turno, era uno spasso da vedere, tanto sembrava adatto a un rave privato di sedicenni che ad un happening come questo; un
tantino meglio - ma sostanzialmente inutile - il glitch e le suggestioni reggae di Elephant, un ossuto spilungone dalla folta
chioma che, ciondolando sulla console, non ottiene che una distratta partecipazione degli astanti. Gente che mette su dischi ce
n’è tanta, questi due erano tra i tanti.
Daniele Follero e Edoardo Bridda
Faint - 11 Dicembre 2004 - Transilvania, Milano
Nel corso delle recenti interviste in promozione di Wet From Birth, i Faint non hanno mai fatto
mistero del fine ultimo della loro musica – e dell’estetica synth pop su cui essa si fonda: avere
uno spettacolo dal vivo il più divertente e meno noioso possibile. Ogni dubbio circa queste
affermazioni - eccessiva frivolezza? pretenziosità mascherata da ingenuità? - è destinato a
dissolversi una volta assistito a un loro concerto: come ampiamente dimostrato lo scorso 11
Dicembre al Transilvania di Milano, la band di Omaha è, essenzialmente, un live act; ogni aspetto della loro produzione
artistica, da quello grafico a quello prettamente musicale, è finalizzato alla performance sul palco. Va infatti detto che quello
offerto dai Faint in questo tour mondiale (che dagli Stati Uniti li porterà attraverso l’Europa fino in Giappone) non è un
semplice concerto, ma un vero e proprio show multimediale basato tanto sull’elemento musicale quanto su quello visuale, in
cui video proiettati alle spalle della band - concepiti dal team grafico a cui fa capo il chitarrista Dapose - sono un perfetto
commento/complemento ai singoli brani della scaletta. Così, persi tra grooves, strobo e la caratteristica nebbiolina presente ai
concerti, non si può che darla vinta ai Faint: brani tratti dall’ultimo disco come Birth (ossessivo ed oscuro incipit della serata,
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con Dapose e i suoi riff death metal sugli scudi), I Disappear (potenziale hit wave melodica), Erection (accompagnata da un
significativo video in cui, tra simboli fallici, emergono le Twin Towers) e Desperate Guys (ricca di pulsioni campionate)
finiscono per acquistare sul palco un senso che su disco si stenta a trovare; i cinque musicisti spaziano con estrema sicurezza
nel loro repertorio - privilegiando comunque il materiale da Wet From Birth e Danse Macabre, più qualche concessione a
Blank Wave Arcade -, mostrando di poter contare ormai su uno stile consolidato e riconoscibile, che permette loro perfino di
avventurarsi in un’inattesa - e nobilitante – riproposizione di Psycho Killer dei Talking Heads. A quello della musica (di per
sé eseguita senza sbavature) e dei beat (sempre più tendenti verso la techno) va inoltre aggiunto il valore di una presenza
scenica che, conforme all’estetica kitch che il gruppo persegue (come altro chiamereste quella fusione tra informalità indie e
pose gothic-metal?), riesce a coinvolgere il pubblico: i ragazzi sono i primi a divertirsi di ciò che suonano, anche se spesso,
dal loro piglio estremamente convinto, sembrano prendersi un po’ troppo sul serio. Stando all’obbiettivo che si erano prefissi,
lo spettacolo dei Faint è un pieno successo (nel suo genere, s’intende): alla luce di ciò, diventa lecito chiedersi se,
adeguatamente supportati, questi strani - ma divertenti - ragazzi possano realmente aspirare ad un pubblico più ampio di
quello indie… Finora, una cosa è certa: molto meglio dal vivo che su disco.
Antonio Puglia
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Rubriche
Classic Album Revisited
Traffic - Shoot Out At The Fantasy Factory (Island, 1973)
Hidden Treasure / The Low Spark Of High Heeled Boys / Rock & Roll Stew / Many A Mile To Freedom /
Light Up Or Leave Me Alone / Rainmaker.
I miracoli, qualche volta, accadono. Fu una specie di miracolo infatti John Barleycorn Must Die (1970), sfornato in
coincidenza di un periodo burrascoso per i Traffic (il polistrumentista Dave Mason non partecipò alle sessioni). Non fu il
primo miracolo (nemmeno l'ultima buriana, se è per questo): già il fantasmagorico Mr. Fantasy (1967) e l'omonimo Traffic
(1968) contenevano difatti evidenti particelle di prodigio. Una via progressiva che tagliava e cuciva antico e avanguardia,
visione e tradizione. Pozioni celtiche e riti voodoo, prospettive cosmiche e umori blues, sbrigliate divagazioni jazz con il
cuore sul punto di crepare soul. E pensare che il principale agitatore dei quattro era uno Steve Winwood poco più che
ragazzino, per quanto già adeguatamente svezzato dalla militanza nella Steve Miller Band. Un precoce egomaniaco di
talento, cui la compagnia del già citato Mason, del percussionista Jim Capaldi e dell'estroso Chris Wood (organi, flauti,
percussioni, sax...) provocava insopprimibili conati di genialità. Dopo il Barleycorn quindi le quotazioni della band toccarono
l'apice: le cronache narrano di folle entusiaste a celebrare la band ad ogni data del tour mondiale. I due album seguenti (il live
Welcome To The Canteen e The Low Spark Of High Heeled Boys, entrambi del '71) mantennero la temperatura
sufficientemente alta, ma quell'incanto, quel fenomenale incrocio d'istanze, sembrarono a tutti un'eventualità irripetibile.
Probabilmente ne furono ben consapevoli anche Winwood e Capaldi (quelli con in mano la cloche), ma questo non gli impedì
di prendere la decisione giusta: calare sul piatto il mestiere. Il risultato fu Shoot Out At The Fantasy Factory: un buon
risultato, di misura, ma comunque una vittoria. Reclutati il bassista David Hood, il percussionista Reebop Kwaku Baah e il
batterista Roger Hawkins (Mason era sempre fuori squadra), il sound della band solidificò attorno a stilemi essenziali,
sterzando piuttosto nettamente in direzione pop-rock. S'indurì, levigò fisionomie al limite dello stereotipo, si banalizzò. Ma
vinse.
Fin dall'iniziale title track, punto di fusione tra istanze hard (il digrignare delle chitarre), pulsioni afro (il percussionismo
nevrastenico), fregola R'n'B' (le sinapsi singhiozzanti della sezione ritmica) e psichedelia (le scie incandescenti degli assolo),
l'insieme si presenta con un aspetto molto - come dire? - ricercato, vista anche l'opera di puro arredo di flauto e tastiere.
Prevale tuttavia, ed è quel che conta, la sbrigliata compresenza delle parti, il senso di dominio della materia e della maniera,
su cui un flemmatico Winwood spalma un canto di prammatica (per i suoi standard, s'intende). E' un Winwood che non teme
di confessare - non senza un po' di narcisistico sarcasmo - l'esaurirsi della vena creativa: lo fa nella conclusiva (Sometimes) I
Feel So Uninspired, il pezzo più soul del lotto, dove la sua voce si muove sottotraccia nel sentiero di luce tra lo sfarfallio
percussivo e le pennellate d'organo, pestando un piano sempre più "concreto" che prepara il terreno ad un assolo di chitarra
didascalico ma - è questo il punto - funzionale, efficace, adeguatissimo al contesto. Come se si trattasse di un esercizio di puro
artigianato, di mode e modelli da scegliere, e levigare, e incastrare al meglio. Però, non equivochiamo: la capacità della band
va oltre il semplice mestiere, come dire che il mestiere a certi livelli contiene un bel po' di magia. Vedi come in Roll Right
Stones si consumi un continuo trapasso da soul-psych a errebì acidulo, oscillando tra stili e atmosfere con portentosa,
indolente, quasi irritante maestria. I temi melodici si passano il testimone in un unico, vasto respiro, corde e sax filtrati nella
fatamorgana del wah-wah mentre il piano e l'hammond conducono un sogno d'America sognata a passo d'uomo, stilemi The
Band coagulati come colori in rilievo su una tela ancora fresca eppure antica. Eppoi il folk, come una nebbiolina tenace ad
introdurre Evening Blue, Winwood che canta come se stesse per consegnarsi definitivamente alla confraternita del soul,
d'incarnarsi soul, il basso a condurre imperioso ma schivo, l'organo che dilata gli spazi, il sax che zampilla per poi esaurirsi
languido, come chi vuole dire la sua d'improvviso. Quindi l'unico strumentale della cinquina, firmato Chris Wood, ad
insistere sulla questione psichedelica, cocciutamente, lucidamente, definendo profili non troppo lontani dai Floyd periodo
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Dark Side Of The Moon (quel sax saturo di allunaggi digeriti, quelle chitarre in bilico su atonalità wave, i bordoni iridescenti
di tastiera...) senza però scordare la polvere, il falò, l'odore da retro-fienile, tutto il rhythm and blues che ancora scorre nelle
vene. Ok, lo avrete capito, questo non è un capolavoro. Neppure mi sento di catalogarlo tra i dischi che salverei dal fatidico
naufragio. É semplicemente un buon disco di una grande band, consapevole della propria grandezza e di quanto fosse sul
punto d'esaurirsi (la band e la grandezza), ma con ancora abbastanza motivi per esserci - al di là del dover esserci - senza
cedere a velleitarie tentazioni di rinascita. Motivi che condiscono e sostanziano queste sei tracce, investendole di un sapore
che ammalia, di possibilità inevase ed evidenza, di fatto compiuto e terreno (ancora) fertile, di giardino prezioso quasi
dimenticato.
Stefano Solventi
Lucio Battisti - Anima latina (Numero Uno, 1974)
Abbracciala abbracciali abbracciati / Due mondi / Anonimo / Gli uomini celesti / Gli uomini celesti
(ripresa) / Due mondi (ripresa) / Anima latina / Il salame / La nuova America / Macchina del tempo /
Separazione naturale
Amore e non amore (con i musicisti della futura Pfm) fu l’avvisaglia. Il Lucio nazionale non era solo il ragazzo che faceva
innamorare le coppiette dell’Italia post sessantottina e quel ricciolino sorridente del Cantagiro o del Festivalbar. Cioè, era
quello, ma era anche altro: prima di tutto uno sperimentatore, un musicista vero che ascoltava la musica che gli girava intorno.
Non si fossilizzava nelle “acque azzurre” e neanche tra i “fiori di pesco”. Eppure avrebbe potuto: il consenso arrivava, era
amato, anzi, adorato. I nostri Beatles, in definitiva, erano uno solo: Lucio. Ma proprio come i baronetti, un bel giorno Battisti
si stufò, allargò i propri orizzonti, andò oltre l'immagine pubblica. Fu così che Lucio Battisti emigrò metaforicamente in
Sudamerica, s'immerse in quei ritmi caldi e passionali, solari e carnali. Come accennato, Amore e non amore spinse Battisti
“oltre” l’ascoltatore italiano medio, conquistando i favori del pubblico progressive della prorompente scena nostrana. Anima
latina ne fu la prosecuzione psichedelica. Il crimine è compiuto nel 1974. Anima latina compare nei negozi e non si sa
neanche in quale vaschetta metterlo: alla voce Lucio Battisti o altrove? Nell’album non figura neanche un potenziale singolo,
nessuna canzone o nota che possa minimamente aspirare a velleità da classifica. Il pubblico trema: Battisti è finito! Non
sapendo che invece è l’inizio di una nuova era.
Bastano le primissima note di Abbracciala abbracciali abbracciati per addentrarsi in spirali italo-pop venusiane; voce tenue
che si impasta con l’elevazione strumentale dei fiati, delle percussioni… quasi una variante italica del wall of sound
spectoriano. Poi, l’andamento cristallino di Due mondi, la ritmica obliqua di Anonimo (che prima rasenta un flamenco per poi
riprendere il tema de I giardini di marzo), i vertici totali de Gli uomini celesti (con un finale che da solo vale l’intero disco) e
della title track (che sembra quasi nata dalle parti di Canterbury…). Nel mezzo, due mini riprese de Gli uomini celesti (per
chitarra e voce) e Due mondi (con un emozionante Battisti al pianoforte) e la stravagante Il salame, prima di arrivare alla
"Macchina", repentini cambi di tempo con Lucio che nella suite si dimena tra orgiastici turbinii danzerecci, fotografia ideale
dell’immagine di copertina. Un trionfo mai più ripreso, ma intelligentemente “commercializzato” due anni dopo, con Ancora
tu, nel successivo La batteria, il contrabbasso, eccetera. Alla faccia dei puristi.
Gianni Avella
The Pogues - Rum Sodomy & The Lash (Stiff Records, 1985)
Sick Bed of Cuchulainn / Old Main Drag / Wild Cats of Kilkenny / I'm a Man You Don't Meet Every Day
/ Pair of Brown Eyes / Sally Maclennane / Pistol for Paddy Garcia / Dirty Old Town / Jesse James /
Navigator / Billy's Bones / Gentleman Soldier / And The Band Played Waltzing Matilda
Una citazione di Winston Churchill, "Rum Sodomy And The Lash", e l’immagine di una zattera malridotta carica di
sventurati in costume adamitico (goliardica e personale rivisitazione della “Zattera della Medusa” di Gericault) per il
capolavoro folk/rock della ciurma più chiassosa e commovente degli anni ’80: i Pogues. E come succede sempre in questi
casi, si potrebbero sperperare fiumi di aggettivi per tratteggiare lo splendore di questo disco, ma nessuno mai riuscirebbe a
rendergli davvero giustizia.
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Sì, perché non è facile scrivere l’ennesima recensione di una pietra miliare, provando a spiegare con quanta semplicità e
ardore questi sette irlandesi (otto, se consideriamo Elvis Costello in cabina di regia) abbiano suggellato un’epoca - quella
della cosiddetta new-wave o, se preferite, post-punk - attraverso canzoni diametralmente opposte come The Sick Bed Of
Cùchulainn, Dirty Old Town e Jesse James. Quelle contenute in Rum, Sodomy & The Lash sono tracce dalle fogge popolari
e dalle animosità punk, frammenti cedevoli ma zigzagati (A Pair Of Brown Eyes), affabili ma all’occorrenza taglienti (The
Gentleman Soldier e la strumentale Wild Cats Of Kilkenny), capaci di rivelare il calore e la vivacità di una band che raccoglie
parte della propria saggezza nel country e nel rockabilly.
Una galleria d’immagini per dar voce ai poveri e agli oppressi: dai disoccupati ai pescatori di balene, dai vagabondi ai
carcerati; un album che giunge dopo appena un anno dall’esordio, Red Roses For Me del 1984, ma che sa scavare
nell’intimo, consacrando il genio narrativo di Shane McGowan: poeta del wiskey e cantore delle verdi colline. Fiero e
impavido come un “qualsiasi” Joe Strummer e con una voce sgraziata e fuori dalle righe, Shane palesa lo spirito del
condottiero senza spada, intrepido e allegro sognatore che celebra meraviglie senza tempo (The Old Main Drag) e fugaci
utopie (And The Band Played Waltzing Matilda) tra cori, flauti, violini, fisarmoniche e incantevoli arrangiamenti d’estrazione
tradizionale. Strepitoso e toccante come una sbornia tra vecchi amici!
Luca D'Ambrosio
La promiscuità dell'arte contemporanea
una rubrica d'arte a cura di Davide Valenti
Ritratti alieni e alienati dallo sguardo vitreo ma mai disumano, volti dell’infanzia che guardano lo spettatore
là, fuori, nel mondo con le lancette e l’orologio. Ritratto e intervista a Luigi Presicce.
La solitudine ovattata di questo fottuto natale
Un senso d’angoscia celata, inghiottita da paesaggi dal manto biancastro e grigiastro,
fagocitata da landscape perenni e compressa da imperturbabili sonni, emerge dalle
pieghe dei quadri disordinatamente appesi alle mura. Solitudine ovattata, che ha
investito gli spettatori presenti all’inaugurazione della mostra di Luigi Presicce,
“Fucking Christmas”, il 18 novembre scorso presso la galleria Cannaviello a Milano.
Abbandono che la mano del pittore ha ritratto con fermezza e docilità, un battito cardiaco attutito attraverso la tessitura di tele
di ragno, trame lattiginose che intrappolano conigli, santini, crocefissi, fatine, gorilla e nazisti. I (non) protagonisti davanti alla
coltre sono sagome fumettose investite di carinerie disarmanti, ritratti alieni e alienati dallo sguardo vitreo ma mai disumano,
volti dell’infanzia che guardano lo spettatore là, fuori, nel mondo con le lancette e l’orologio. Il vapore esce a singhiozzo dai
respiri timidi di costoro che a fatica nascondono la nostalgia, il nugolo di particelle si staglia poi sulle cortecce di alberi
secolari, sulle palle di neve, sulle lapidi, le stradine di montagna … Bambini vestiti da coniglietti commettono omicidi,
mentre clown colle palline sul naso godono di un autoritratto. Nel tutto che c’è qui è per sempre le cose accadono o sono già
accadute e, presumibilmente, accadranno di nuovo; e in quest’assoluto ogni sentimento anche il più vivo s’acquieta
stemperandosi nella notte artica e lasciandoci quell’ipocrita convinzione che il bene e il male siano ciò che crediamo e che il
primo sia sempre dentro e il secondo sempre là fuori, come un lupo alla porta.
A testimoniare la tangibilità di queste fascinazioni, ci vengono utili i testi che accompagnano la “carriera” di Presicce e
spiegano l’evoluzione “philophobica” dell’artista. Nell'intervista per il catalogo della mostra Philophobia, a proposito del suo
primo video, l’artista dice al critico d’arte Gigiotto Del Vecchio: “A casa avevo un pitone di tre metri e mezzo e per me era
diventata una cosa normale andare in un allevamento di conigli, comprarne uno e darlo da mangiare al serpente. Volevo
rispettare la natura, il suo modo d’agire… Nel video mostravo questo, ciò che è normale fare per un pitone”. Da sempre
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Presicce ha un debole per la disillusione, e la fruizione di un suo lavoro diventa ancora più fastidiosa per l’uomo comune
quando lo svelamento viene esteso dall’animale all’uomo. Dipinti su quadratini appesi disordinatamente uno vicino all’altro,
compaiono, di tanto in tanto, piccoli tesserini - presumibilmente bambini - travestiti da simpatici coniglietti, vaganti in
paesaggi asettici desolati e innevati che nascondono la mostruosità rivelatrice del fatto che “non tutti i mostri hanno la coda e
sputano fuoco dalla bocca”.
E prendendo così in gran considerazione il concetto di Natura, è inevitabile per
Presicce lo scontro, o l’incontro, con la Religione, anzi, non con essa, ma con il
cristianesimo, il Buon cristianesimo. Sempre tra la desolazione innevata sbuca Gesù
in primo piano e sembra fare “Bu!”. Così vieni rispedito nella tua infanzia, quando
temevi che al buio della tua stanza comparissero fantasmi orrificanti a dirti che
avevi fatto il cattivo. E poi c’è anche la Madonna concentrata nella sua preghiera,
sembra triste, e in mezzo a quell’atmosfera presicciana diventa davvero
angosciante. E poi, ancora un bambino coniglietto che ne uccide un altro a colpi di
croce. La paura e la ribellione alla paura. Fottuto Natale. Presicce sente ancora l’esigenza di mostrare la verità, il volto
nascosto della Natura. Ma Natura è anche il nascondimento stesso che non può non essere mostrato. Forse
inconsapevolmente, anche il titolo della mostra porta con sé una maschera di bontà: come sarebbe stato più esplicito il titolo
originale anziché la sua traduzione. Non fanno lo stesso effetto “Natale di merda” o “Natale vaffanculo” e “Fucking
Christmas”: la verità è nascosta. Tutto ciò è messo in scena attraverso tante tessere che lo spettatore cerca invano di ricostruire
in un film. Alla fine prevale l’angoscia di non saper dare una logica ai frames, anche il film è nascosto. Alla vista di una
grande testa di renna semidistrutta che giace sul pavimento della mostra si ha l’impressione di “essere catapultati sulla scena
di un delitto, trovarsi di fronte a un luogo dove qualcosa è successo prima del nostro arrivo”, come dice la curatrice Giulia
Pezzoli. “Quella chè è stata costruita da Luigi Presicce è una scenografia incomprensibile per chi non ha assistito ai fatti. È
figlia della visione di un universo personale e non può trasmettersi nella sua completezza e complessità. Può solo decidere
della trasmissione di sensazioni”. Cosa è successo alla renna? Cos’è successo al Natale? Chi l’ha rotta? Il Natale è troppo
vecchio? Dio è morto? L’artista ha spaccato tutto perché odia la falsità del buon Natale? Cosa significa tutto ciò? Per fortuna
non c’è un significato, ma rimangono tutti questi sensi, tutte queste sensazioni infinite.
Ricordando i suoi inizi Presicce ha detto a Gigiotto Del Vecchio: “non mi interessava il consenso, volevo dare fastidio”. Per
fortuna non è cambiato.
Davide Valenti e Edoardo Bridda
L'intervista
di Karin Andersen
Ho conosciuto Luigi Presicce tramite un amico in comune, qualche anno fa a Bologna.
Mi ricordo dei suoi lavori in alcune mostre nell’ambito dei circuiti alternativi dell’arte
bolognese, nel quale mi muovevo anch’io. Successivamente Luigi è approdato a Milano, dove ha
subito suscitato l’interesse di Enzo Cannaviello, gallerista di pittura contemporanea. Da allora
il suo lavoro si è evoluto costantemente, integrando un talento già evidente fin dall’inizio con un
discorso poetico e concettuale ben preciso, collocandosi così nel vivo del dibattito artistico contemporaneo, in stretta
connessione con ambiti confinanti quali cinema e musica. Per SA ho voluto intervistare Luigi in maniera trasversale,
lasciando da parte la consueta dialettica autoreferenziale della critica d’arte contemporanea a favore di un dialogo rivolto al
quotidiano e all’ambiente culturale di oggi che, in maniera aperta o subliminale, condiziona il lavoro di tutti noi artisti
- Quant’è importante per un pittore la fruizione musicale?
Per un pittore,decisamente non lo so, per un essere umano molto…
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- Nei termini che più preferisci …l’orecchio come si lega all’occhio?
A te piacciono i film muti? A me no.
- Una tua mostra si intitolava Philophobia: si chiama così anche un album degli Arab Strap del 1997. Immagino che
non sia una coincidenza…
No, il titolo non è una coincidenza; probabilmente lo è la difficoltà a relazionarsi che abbiamo in comune. credo che se le mie
immagini avessero un suono sarebbe malinconico come quello degli Arab Strap.
- Secondo te, qual è la differenza fra la figura dell’artista e quella del rock idol?
L’artista ha sicuramente meno fans e un disco costa molto meno di un quadro (se lo possono permettere tutti).
- Gente come David Bowie e Patti Smith dipinge e fa mostre, Devendra Banhart fa uscire un libretto di disegni insieme
al suo CD, Daniel Johnston cura da sempre l’artwork dei suoi dischi, e inoltre sono note le divagazioni pittoriche di
Franco Battiato, Andy dei Bluvertigo, Jovanotti…. va precisato che le loro esperienze sono assolutamente diverse fra
loro e probabilmente non è nemmeno il caso di affiancarle. Tuttavia, cosa pensi di questi personaggi, già molto
affermati nel loro settore, che si cimentano con qualcosa di trasversale? Hai mai pensato di fare musica?
Credo che fare bene il proprio lavoro sia già abbastanza impegnativo, ma penso anche che la parola artista sia un termine
molto generico…mi piacciono molto gli acquerelli di Marylin Manson, tanti altri però dovrebbero avere la decenza di tenere
per sé i risultati dei loro hobbies… A volte mi sembra di essere alla “Corrida di Corrado”. Io in particolare, mi limito ad
ascoltare…un certo tipo di musica, naturalmente, e credo che sia già abbastanza avere un proprio gusto musicale.
- Ti va di descrivere una tua giornata-tipo?
Di solito è la fame che mi sveglia…quando riesco a dormire. Quindi, spinto da questo istinto primordiale, mi dirigo a
consumare una super colazione (fosse per me farei sempre colazione), poi se a casa non c’è nessuno tra le palle mi collego un
po’ a Internet o continuo a leggere il libro che ho interrotto il giorno prima, altrimenti esco per andare in studio e nel tragitto
vengo attratto da riviste straniere, film in dvd e cd. Quando va bene arrivo in studio che ho da sfogliare, da ascoltare e un film
per la notte. Per il resto cerco di fare ciò che mi rilassa di più: fare l’amore, dipingere e comprare vestiti a poco prezzo.
Mangio quasi sempre fuori e vado a letto molto tardi. - I tuoi lavori sono spesso caratterizzati da un’atmosfera un po’ noir….
ma noto che in alcuni lavori recenti sono giunti la neve e il bianco… Si è vero, nei miei lavori c’è sempre qualcosa che non è
a posto, qualcosa che non ti fa stare tranquillo… anche gli ultimi lavori credo abbiano una certa atmosfera noir. In fondo, sia
la neve che il buio, sono elementi naturali che nascondono la realtà delle cose e poi non credo che il bianco sia molto diverso
dal nero.
- Chi è Mario Banana?
È il soggetto della micro-storia di un mio cortometraggio, un tipo strano, un diverso, uno che
indossa una maschera da scimmione e passa le sue giornate lontano dal mondo reale che vede solo
attraverso un televisore, uno accudito da un nano-servo che divide con lui questa esistenza da
“diverso”. Credo sia una versione grottesca di “finale di partita” di Beckett, ma in alcuni periodi
dell’anno, particolarmente a Natale, credo di assomigliargli davvero tanto.
- Qual è il tuo rapporto con la scrittura, in particolare l’ambito dei giovani autori noir italiani?
Leggo molti romanzi, mi affascinano la vita e le storie possibili... Pinketts escluso, preferisco ancora di gran lunga
Scerbanenco.
- Sei nato in Puglia, ora vivi e lavori a Milano. Quanta importanza attribuisci al tuo habitat? In quale misura ha
influenzato il tuo lavoro?
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Credo che il mio lavoro non sia per niente solare… ho la sensazione di essere sempre uno straniero in mezzo a tanti altri, per
questo forse mi è indifferente essere a Milano o in qualsiasi altra grande città. Milano però mi fa sentire a casa e questo è
molto importante per me. Sono sempre felice quando torno qui… dopo un viaggio, ad esempio. Non sono per niente legato al
mio paesino Natale e credo che sia abbastanza evidente guardando il mio lavoro… se ti dicessi che vengo da un paese di
pescatori e non so neanche nuotare, cosa penseresti? I miei genitori vivono praticamente nell’acqua di mare…
- Un tuo progetto nel cassetto…
Essere felice con la persona che amo. Il resto viene da sé…
Fucking Christmas
dal 18/11/04 al 08/01/05.
presso lo Studio d'Arte Cannaviello
via stoppani 15
20129 milano
tel 02240428
fax 0220404645
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