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E D I TORIA LE
Famiglia,
Giobbe di oggi
Utilizzando
e di Sofocle – si
Il giusto del poema biblico non patisce
una suggestione
concluderanno
solo il flagello della lebbra o l’esclusione
tratta da un prealtrettanto tradalla comunità umana. Patisce la natura
zioso libretto di
gicamente con
iniqua del male che lo colpisce, la palese
Salvatore Natoil suicidio di
li 1 si può afferGiocasta e con
irragionevolezza di questo speciale soffrire
la fine incerta
mare, forse un po’
e morire “per nulla”. Soffre l’impossibilità
dello stesso proschematicamendi spiegarsi con Dio attorno a tale
tagonista.
te, che nella relairragionevolezza, perché l’irragionevolezza
Anche la vizione tra l’essere
rende Dio inesistente per l’uomo, ma
cenda
di Giobbe
umano e il divino
rende anche l’uomo inesistente e del tutto
è nota. L’uomo
sono riscontrabili
vacuo per Dio. Traversiamo la notte senza
di Us, retto e tidue modelli alterdi Lui, ma anche Lui ci cercherà a tastoni,
morato di Dio, è
nativi, e tuttavia
brancolando nel buio e nel caos, senza
stato messo alla
spesso coesistentrovarci…
prova. Colpito
ti nella fragilità
nei propri beni,
complessa della
BARBARA SPINELLI
nei suoi affetti
condizione uma(Una parola ha detto Dio, due ne ho udite. Lo splendore
più cari e nel
na, che in qualche
delle verità, Laterza, Roma-Bari 2009, p.31)
suo stesso corpo
modo hanno a che
con una malattia
vedere con il mito
dolorosa e ripugreco di Edipo e
gnante, giace su un “letamaio”, privo di
con la storia biblica di Giobbe.
ogni sembianza umana. Dalla stessa moglie riceve l’invito perentorio a “benedire”
(maledire) Dio e a morire. E, come se
tutto questo già non bastasse, riceve la
Edipo, figlio di Laio, re di Tebe, e di
visita di tre “amici” che, iniziando con
Giocasta, nella mitologia greca è la vittiil compiangerlo, gli rinfacciano – sulla
ma inconsapevole del Fato che, attraverso
base della dottrina teologica tradizionauna serie di vicende tragiche, ne fa l’ucle – presunte colpe a fronte delle quali
cisore del padre e il marito della madre.
Dio lo avrebbe castigato. Il dibattito
Vicende che – nelle tragedie di Eschilo
con questi “amici” è fondamentale per
cogliere l’impianto etico del libro non1 S. Natoli, Edipo e Giobbe. Contraddizione e paradosso, Morcelliana, Brescia 2008.
ché della figura biblica che non a caso
assumiamo – nel corso del 2012 – per
*di Luigi Ghia, della redazione di Famiglia Domani
una riflessione sulla famiglia.
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Alle dichiarazioni degli “amici” –
che rappresentano in qualche misura
il fondamentalismo religioso da cui
ancor oggi siamo circondati ad opera
di uomini e di donne senza dubbi, colmi di certezze assolute, assetati di una
incrollabile verità più che del mistero di
Dio – Giobbe contrappone la propria
esperienza del dolore, le ingiustizie di
cui il mondo è pieno e che inducono
a un grido di rivolta, e nel contempo
la propria sottomissione ad un Dio
incomprensibile. Una sottomissione
che bene ha colto Alessandro Manzoni
ne I Promessi Sposi (un romanzo modernissimo che con Giobbe mantiene
un rapporto assai stretto), ma che non
esime l’uomo di Us, pur impegnato
in una faticosa e frustrante teodicea,
a chiedere a Dio, in modo tanto più
vibrato quanto più forte è la percezione
dell’ingiustizia subita, la ragione del
suo comportamento.
Nel racconto manzoniano, quando
padre Cristoforo viene a sapere da
Agnese e Lucia che un potente (don
Rodrigo) aveva posto sulla giovane
fidanzata di Renzo i suoi occhi carichi
di bramosia (i potenti hanno sempre
gli occhi carichi di bramosia) si copre
gli occhi con le mani ed esclama:
« “o Dio benedetto! Fino a quando…!” Ma,
senza compir la frase, voltandosi di nuovo alle
donne: “poverette” disse: “Dio vi ha visitate.
Povera Lucia!” »2.
Dio ti ha visitato… Non Satana, non
il male radicale, ma Dio ti ha visitato
e ti aiuterà, perché Lui è l’amico dei
2. A. Manzoni, I promessi sposi, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1984, cap. V, p. 82.
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tribolati. Qui c’è l’evangelo nella sua
nudità penetrante, ed è un linguaggio
che tutti possono comprendere, anche
Renzo nella sua irosa testardaggine…
tutti… o forse non tutti, e non certo gli
“amici di Giobbe” ancora invischiati
nel Primo Testamento.
Entrambi i miti, quello edipico e
quello jobico, si collocano all’interno
di una sostanziale ambiguità del mondo e del rapporto conflittuale con la
Trascendenza (Natoli dice “il tenere
testa alla sfida del Dio”). Secondo il
mito greco, l’essere umano è preda di
un destino crudele e malvagio: egli
non vorrebbe conformarvisi, ma vi è
trascinato, vorrebbe trovare una via
d’uscita, non opponendosi ad esso, ma
assumendolo responsabilmente su di sé.
Non ne è capace, e di qui le situazioni
disperate e tragiche (tramandateci
appunto dalle tragedie greche) dalle
quali, come in Edipo, emerge il senso
di una colpa irredimibile, una sorta
di insufficienza etica primordiale che
genera sofferenza, dolore, morte.
Ben diversa è la reazione di Giobbe
(e dei vari protagonisti del racconto
manzoniano, nessuno escluso, neppure
la monaca di Monza, neppure, forse,
lo stesso don Rodrigo). Giobbe, uomo
retto, si confronta con il Dio della
Promessa in cui egli aveva riposto tutta
la sua fiducia. Sappiamo dal Deuteronomio che questa Promessa prevede
la benedizione per coloro che vivono
secondo la giustizia e la Legge e la
maledizione per gli empi. Ebbene: di
fronte alla “Promessa negata” Giobbe
non si rammarica tanto per la sofferenza
fisica, ma si pone – e pone a noi tutti
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Forse in modo un po’ paradossale si
potrebbe dire che la famiglia si trova
spesso a vivere questa tensione – che la
post-modernità pare accentuare – tra
Edipo e Giobbe. Da un lato l’edipica
resa all’inevitabile, un “lasciarci andare”
senza reagire, oppure una reattività
violenta, distruttiva, autodistruttiva;
dall’altro un tentativo (faticoso) di
recupero etico, la non rassegnazione al
silenzio, facendo nostre (cioè ripetendo)
le parole di Giobbe e assumendocene
per intero la responsabilità.
L’uomo di Us, a ben vedere, appartiene
a quella historia perennis che si ripete
sempre, che non è relegata al passato
pur ricevendone da esso un senso, ma
che affonda le sue radici nel presente.
C’è una bella espressione di Søren
Kierkegaard che suona così: “Pianto
il dito in terra per capire dall’odore in
che paese mi trovo; pianto il dito nella
vita ma non odora di niente…”3. È la
condizione umana dell’oggi. Sono tanti
i nostri perché che alimentano i nostri
dubbi su Dio. Tutti siamo consapevoli di vivere in una condizione jobica
drammatica, tale da mettere in discus3 S. Kierkegaard, Timore e tremore. La ripresa, tr.it. di
A. Zucconi, Milano 1973, p. 229.
sione i fondamenti stessi dell’esistenza.
Facciamoci alcune domande.
Perché, mentre noi stiamo bene,
mangiamo tutte le volte che vogliamo,
programmiamo vacanze, acquistiamo
pellicce e auto di lusso, da qualche altra
parte, o fors’anche a pochi passi da casa
nostra, ci sono milioni di bambini che
muoiono di denutrizione? Che non
hanno neppure una manciata di riso
con cui sfamarsi? Perché noi abbiamo
una vita media di 80 anni e in Africa di 40? Perché ci sono sempre più
famiglie che anche nella nostra città
non riescono ad arrivare a metà mese?
Perché gli “amici di Giobbe” vorrebbero
che si negasse il sussidio per la casa o
per il “nido” dei bimbi ad una coppia
di giovani che convivono non avendo
la possibilità di sposarsi? Perché ci
sono coppie il cui matrimonio dura
felicemente da mezzo secolo ed altre
che dopo pochi anni o pochi mesi di
convivenza vivono drammaticamente
e spesso con un rancore infinito la fine
del loro amore? Perché ieri un amico
è andato dal medico per un disturbo
“banale” e gli esami hanno rivelato
che ha ancora tre mesi di vita? Perché
oggi – notizia del Telegiornale – un
uomo ha sparato alla sua donna costretta su una sedia a rotelle e poi si è
suicidato? Perché, Dio, lasci accadere
queste cose? Dov’è la giustizia degli
uomini, ma – anche – dov’è e qual è
la tua giustizia?
Domande… Il “dito in terra” e “il
dito nella vita”. Domande sul male nel
mondo che affonda le sue radici inestirpabili nel male del mondo. Il cancro,
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– il problema della giustizia di Dio. Si
può aver fiducia in un Dio che non sta
ai patti? Si può continuare a credere in
Lui? È il dramma di Giobbe che egli
affronta tuttavia non con l’ammutolimento, né con la ribellione, ma con
la disputa, con un confronto a tratti
aspro, caparbio, sempre coraggioso, e
personale come si fa con una persona
viva, con il “suo” Dio. Ma disposto a
stare in agonia con Lui.
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gli incidenti sul lavoro, l’Eternit, la
Thyssen, le calamità naturali, le guerre,
milioni di profughi in cerca di patria,
il nucleare, l’atomica… ma anche la
sempre più profonda incapacità di
relazionarsi tra persone, la rottura dei
vincoli affettivi, il lavoro negato… Mali,
dunque, mali spesso radicali, e domande
molto moderne, e non è casuale che la
modernità le abbia assunte per infiltrare
un dubbio radicale su Dio e sulla sua
Trascendenza.
La doppia sofferenza del giusto, di cui
parla Barbara Spinelli nel brano citato
in esergo, non è solo la sofferenza di
Giobbe, di fra’ Cristoforo, di Renzo e
di Lucia, ma è la sofferenza – dai più
incompresa anche nelle nostre comunità
cristiane – di milioni di coppie e di famiglie, la cui risposta è spesso, tuttavia,
quella della rassegnazione.
L’atteggiamento di Giobbe, sconcertante ma dignitoso, è invece quello di
chiamare direttamente in causa Dio,
convocarlo al tribunale dell’uomo e
della storia, perché in caso contrario
tutta l’esistenza perderebbe il suo senso. E perderebbe senso anche tutta la
nostra relazione con la Trascendenza,
quel principio dialogico instaurato ante
litteram dall’uomo di Us, il dialogo (sia
esso preghiera o imprecazione) con
una Persona, da parte di una persona
che non accetta di considerare Dio alla
stessa stregua del Fato.
La giustificazione di Dio, esposta
con falsa sicurezza e per dovere professionale da parte dei molti “amici di
Giobbe” che oggi si affannano attorno
alla famiglia, a questa in realtà interessa
poco. Apprezzerebbe molto di più un
dignitoso silenzio. Il tentativo di conciliare la bontà e giustizia di Dio con il
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malum mundi rivela sempre il proprio
limite quando non si accompagna con
una difesa etica dell’uomo: un’antropodicea, come quella jobica, che trova
il suo senso nel fatto che Giobbe non
fonda la propria moralità sulla fede in
Dio, ma al contrario fonda la fede sulla
propria moralità.
Ecco dunque che cosa emerge dalla
lettura che ci accingiamo a fare di questo
libro della Scrittura. Apre orizzonti
amplissimi, spazi sconfinati ed ancora
inesplorati, non solo nel rapporto tra
singoli, o tra famiglie, o tra famiglia e
politica, ma anche nei rapporti intra
ed inter ecclesiali, non per ultimo sul
piano della pastorale. Perché è proprio
con questa fede nella moralità, nella
ricerca continua delle vie eticamente
compatibili per attraversare la vita, che
la famiglia deve confrontarsi.
Lo può (lo potrebbe) fare se fosse
aiutata. Se ognuno di noi, sia a livello
personale e privato che istituzionale,
fosse per l’altro un fra’ Cristoforo, esempio di misericordia attiva, non parolaia,
né ideologica, che parla dolcemente
con la voce di Dio.
«Abbandonarvi! … E con che faccia potrei
io chiedere a Dio qualcosa per me, quando
v’avessi abbandonata? Voi in questo stato! Voi,
ch’Egli mi confida! Non vi perdete d’animo;
Egli v’assisterà: Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d’un uomo da nulla come son io,
per confondere un… Vediamo, pensiamo quel
che si possa fare»4.
([email protected])
4 A. Manzoni, cit., p. 82
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Famiglia, Giobbe di oggi