ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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DAL DOPOGUERRA AL TERZO MILLENNIO
L’autore
Italo Calvino
Analisi del testo – Villeggiatura in panchina
• Leggi con molta attenzione il testo ( D1), le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite sulla produzione letteraria di Calvino.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
Esponi in 6-7 righe il contenuto informativo del racconto, mettendo in evidenza il messaggio dell’autore.
2. Analisi del testo
2.1 Il racconto si sviluppa con una sostanziale coincidenza tra fabula e intreccio secondo lo schema della narrazione
tradizionale di intonazione fiabesca. La situazione iniziale è in equilibrio o conflittuale? Nella conclusione, l’azione si
ristabilisce con un miglioramento o con un peggioramento?
2.2 Qual è l’oggetto del desiderio di Marcovaldo? Quali ostacoli incontra e quali elementi naturali lo aiutano a superare
le difficoltà?
2.3 Le scelte lessicali del racconto contrappongono sapientemente termini o sintagmi colti e assai precisi (attribuiti in
modo irreale anche ai pensieri di Marcovaldo) a spezzoni di linguaggio comune, che emerge soprattutto nei dialoghi:
individua qualche esempio degli uni e degli altri. Quale tono complessivo prevale nel racconto, anche grazie a tale
alternanza di scelte lessicali?
3.
Interpretazione complessiva e approfondimenti
Esponi il significato complessivo del racconto collocandolo nella produzione complessiva dell’autore e tenendo conto
della seguente considerazione.
Una delle linee di tensione interne alla produzione di Calvino è quella della sfida al labirinto ovvero la
determinazione a contrapporsi al caos e all’incomprensibilità del mondo contemporaneo attraverso la ricerca di
risposte razionali. Anche Marcovaldo, sebbene sia regolarmente sconfitto dal caos della vita cittadina, persevera con
ostinazione nella ricerca della «Natura» (ovvero di un cosmo ordinato e comprensibile).
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Dossier
D1
Italo Calvino
Marcovaldo ovvero Le stagioni in città
Villeggiatura in panchina
Einaudi, Torino 1966
Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963) è una raccolta di 20 racconti, ognuno dedicato a una stagione. Il
protagonista è un ex contadino, ora manovale, emigrato dalla campagna in una metropoli del Nord Italia. Padre di una
numerosa prole, vive in squallidi seminterrati frastornato dalla grande città. Tra le insegne pubblicitarie, l’inquinamento
dello smog e il rumore del traffico, Marcovaldo è sempre alla ricerca di qualcosa che gli ricordi la natura da lui
abbandonata. Lo stesso Calvino osserva: «In mezzo alla città di cemento e asfalto, Marcovaldo va in cerca della Natura.
Ma esiste ancora la Natura? Quella che egli trova è una Natura dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita
artificiale». Anche in questo racconto, il protagonista insegue ingenuamente i suoi sogni di un ritorno allo “stato di
natura”, ma va incontro a una delusione.
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Andando ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo passava sotto il verde d’una
piazza alberata, un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie.
Alzava l’occhio tra le fronde degli ippocastani, dov’erano più folte e solo
lasciavano dardeggiare gialli raggi1 nell’ombra trasparente di linfa2, ed ascoltava il
chiasso dei passeri stonati ed invisibili sui rami. A lui parevano usignoli; e si
diceva: «Oh, potessi destarmi una volta al cinguettare degli uccelli e non al suono
della sveglia e allo strillo del bambino più piccolo e all’inveire della moglie!»
oppure: «Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a questo fresco verde e non nella
mia stanza bassa e calda; qui nel silenzio, non nel russare e parlare nel sonno di
tutta la famiglia e correre di tram giù nella strada; qui nel buio naturale della notte
non in quello artificiale delle persiane chiuse zebrato dal riverbero dei fanali, e
vedere foglie e cielo aprendo gli occhi!» Con questi pensieri tutti i giorni
Marcovaldo incominciava le sue otto ore giornaliere – più gli straordinari – di
manovale non qualificato.
C’era, in un angolo della piazza, sotto una cupola d’ippocastani, una panchina
appartata e seminascosta. E Marcovaldo l’aveva prescelta come sua. In quelle notti
d’estate, quando nella camera in cui dormivano in cinque non riusciva a prendere
sonno, sognava la panchina come un senza tetto può sognare il letto d’una reggia.
Una notte, zitto, mentre la moglie russava ed i bambini scalciavano nel sonno si
levò dal letto, si vestì, appallottolò una vecchia camicia per farsene un guanciale,
uscì e andò alla piazza.
Là era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto di quegli assi d’un legno –
ne era certo – morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso del suo
letto, avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli occhi in un
sonno riparatore d’ogni offesa della giornata.
Il fresco e la pace c’erano, ma non la panca libera. Vi sedevano due innamorati,
guardandosi negli occhi. Marcovaldo, discreto, si ritrasse. «È tardi, – pensò, – non
passeranno mica la notte all’aperto! la finiranno di tubare 3!»
Ma i due non tubavano mica: litigavano. E tra due innamorati un litigio non si
può dire mai a che ora andrà a finire.
Lui diceva: – Ma tu non vuoi ammettere che dicendo quello che hai detto sapevi
di farmi dispiacere anziché piacere come facevi finta di credere?
Marcovaldo capì che sarebbe andata per le lunghe.
– No, non l’ammetto, – rispose lei, e Marcovaldo già se l’aspettava. – Perché
non l’ammetti? – Non l’ammetterò mai.
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«Ahi», pensò Marcovaldo. Riaggomitolò sotto il braccio la vecchia camicia e
andò a fare un giro. Andò a guardare la luna, che era piena, grande sugli alberi e i
tetti. Tornò verso la panchina, girando un po’ al largo per lo scrupolo di disturbarli,
ma in fondo sperando di dar loro un po’ di noia e persuaderli ad andarsene. Ma
erano troppo infervorati4 nella discussione per accorgersi di lui.
– Allora ammetti?
– No, no, non lo ammetto affatto!
– Ma ammettendo che tu ammettessi?
– Ammettendo che ammettessi, non ammetterei quel che vuoi farmi ammettere
tu!
Marcovaldo tornò a guardare la luna, poi andò a guardare un semaforo che c’era
un po’ più in là. Il semaforo segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad
accendersi e riaccendersi. Marcovaldo confrontò la luna e il semaforo. La luna col
suo pallore misterioso, giallo anch’esso, ma in fondo verde e anche azzurro, e il
semaforo con quel suo gialletto volgare. E la luna, tutta calma, irradiante la sua
luce senza fretta, venata ogni tanto di sottili resti di nubi, che lei con maestà si
lasciava cadere alle spalle; e il semaforo intanto sempre lì accendi e spegni, accendi
e spegni, affannoso, falsamente vivace, stanco e schiavo.
Tornò a vedere se la ragazza aveva ammesso: macché, non ammetteva, anzi non
era più lei a non ammettere, ma lui. La situazione era tutta cambiata, ed era lei che
diceva a lui: – Allora, ammetti? – e lui a dire di no. Così passò mezz’ora. Alla fine
lui ammise, o lei, insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene tenendosi per
mano.
Corse alla panchina, si buttò giù, ma intanto, nell’attesa, un po’ della dolcezza
che s’aspettava di trovarvi non era più nella disposizione di sentirla, e anche il letto
di casa non lo ricordava più così duro. Ma queste erano sfumature, la sua
intenzione di godersi la notte all’aperto era ben ferma: s’aggiustò la vecchia
camicia sotto la guancia e si dispose al sonno, a un sonno come da tempo ne aveva
smesso l’abitudine.
Certo, s’era sistemato proprio perfettamente. Non si sarebbe spostato d’un
millimetro per nulla al mondo. Peccato soltanto che a stare così, il suo sguardo non
cadesse su di una prospettiva d’alberi e cielo soltanto, in modo che il sonno gli
chiudesse gli occhi su una visione di assoluta serenità naturale, ma davanti a lui si
succedessero in scorcio, un albero, la spada d’un generale dall’alto del suo
monumento, un altro albero, un tabellone delle affissioni pubbliche, un terzo
albero, e poi, un po’ più lontano, quella falsa luna intermittente del semaforo che
continuava a sgranare il suo giallo, giallo, giallo.
Bisogna dire che in questi ultimi tempi Marcovaldo aveva un sistema nervoso in
così cattivo stato che, nonostante fosse stanco morto, bastava una cosa da nulla,
bastava si mettesse in testa che qualcosa gli dava fastidio, e lui non dormiva. E
adesso gli dava fastidio quel semaforo che s’accendeva e si spegneva. Era laggiù,
lontano, un occhio giallo che ammicca 5, solitario: non ci sarebbe stato da farci
caso. Ma Marcovaldo doveva proprio essersi buscato un esaurimento: fissava
quell’accendi e spegni e si ripeteva: «Come dormirei bene se non ci fosse
quell’affare! Come dormirei bene!». Chiudeva gli occhi e gli pareva di sentire sotto
le palpebre l’accendi e spegni di quello sciocco giallo; strizzava gli occhi e vedeva
decine di semafori; li riapriva, era sempre daccapo.
S’alzò. Doveva mettere uno schermo tra sé e il semaforo. Andò fino al
monumento del generale e guardò intorno. Ai piedi del monumento c’era una
corona d’alloro, bella spessa, ma ormai secca e mezzo spampanata 6, montata su
bacchette, con un gran nastro sbiadito: I lancieri del Quindicesimo
nell’Anniversario della Gloria. Marcovaldo s’arrampicò sul piedistallo, issò la
corona, la infilò alla sciabola del generale.
Due poliziotti in perlustrazione7 notturna attraversarono la piazza; Marcovaldo
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s’appostò dietro la statua. I poliziotti avevano visto sul terreno l’ombra del
monumento muoversi e si fermarono pieni di sospetto. Scrutarono quella corona
sulla sciabola, capirono che c’era qualcosa fuori posto, ma non sapevano bene che
cosa. Puntarono lassù la luce d’una lampadina a riflettore, lessero: I Lancieri del
Quindicesimo nell’Anniversario della Gloria, scossero il capo in segno
d’approvazione e se ne andarono.
Marcovaldo tornò alla panchina. Da lontano l’alloro si confondeva con le piante
e nascondeva il semaforo. Lui si avvicinava alla panchina a ritroso, piegandosi
sulle ginocchia per verificare la visuale dalle varie angolazioni e non s’accorse che
la panchina era occupata; s’andò quasi a sedere in grembo a due matrone. – Ah!,
mi scusino! – fece, risaltando su e si vide davanti due facce con la frangetta, le
bocche storte e dipinte.
– Cercavi noi, bel giovane? – gli disse una delle due megere.
– Lascialo stare, è un morto di fame, non lo vedi? – fece l’altra, e ripresero a
discutere tra loro, con certe vociacce rauche, aprendo e chiudendo le borsette ed
estraendone cartamoneta e pacchetti di sigarette. Erano venditrici notturne di
sigarette di contrabbando, pareva, in lite per un affare di pacchetti che l’una doveva
vendere per conto dell’altra, e brandivano i pacchetti una contro il viso dell’altra
come stessero per venire alle mani, e pestavano i piedi, gonfi alle caviglie nelle
scarpine scollate.
Lui stava lì a guardare la sua panca. – Beh, cosa avanzi? – gli fece una delle due.
Marcovaldo che con le cattive compagnie non voleva mischiarsi, preferì andare
altrove ad aspettare che fosse definita la questione. Rifece il giro della piazza. In
una via vicina, una squadra d’operai stava aggiustando uno scambio alle rotaie 8 del
tram. Di notte, nelle vie deserte, quei gruppetti d’uomini accucciati al bagliore dei
saldatori autogeni9, e le voci che risuonano e poi subito si smorzano, hanno un’aria
segreta come di gente che prepari cose che gli abitanti del giorno non dovranno mai
sapere. Marcovaldo s’avvicinò, stette a guardare la fiamma, i gesti degli operai,
con un’attenzione un po’ impacciata, da ragazzo, e gli occhi che gli venivano
sempre più piccoli dal sonno. Cercò una sigaretta in tasca, per tenersi sveglio, ma
non aveva cerini. – Chi mi fa accendere? – chiese agli operai. – Con questo? –
disse l’uomo della fiamma ossidrica, alzando un volo di scintille.
Un altro operaio s’alzò, gli porse la sigaretta accesa. – Fa la notte anche lei?
– No, faccio il giorno, – disse Marcovaldo.
– E cosa fa in piedi a quest’ora? Noi tra poco si smonta. – E ce la fate a dormire
di giorno?
– Eh, si fa l’abitudine...
– Io vado a letto e mia moglie si leva, – fece un altro, – non c’incontriamo mai...
– Ti tiene il letto caldo... – disse un compagno.
Dalla piazza veniva il chiasso d’un diverbio 10, ma non più solo le voci delle
donne di prima, ma anche voci d’uomini, e un motore. – Cosa succede?
– Passa il furgone della polizia avrà rastrellato 11 quelle due che son passate
prima.
– Sai come lo chiamano il furgone? Il Norge; perché sembra un dirigibile.
«M’avranno liberato la panchina, finalmente», pensò Marcovaldo e poi sudò
freddo pensando che per fortuna s’era scostato di là: se fosse restato, avrebbero
rastrellato pure lui.
– Buona notte, amici!
– Eh, per noi buon giorno!
Ritornò alla panchina. Si sdraiò.
Non aveva badato al rumore, prima. Ora quel ronzio, come un cupo soffio
aspirante e insieme come un raschio interminabile e anche uno sfrigolio, continuava
a occupargli gli orecchi. Non c’è suono più struggente di quello d’un saldatore, una
specie d’urlo sottovoce. Marcovaldo, senza muoversi, ranicchiato com’era sulla
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panca, il viso contro il raggrinzito guanciale, non vi trovava scampo, e il rumore
continuava a evocargli la scena illuminata dalla fiamma grigia che spruzzava scintille
d’oro intorno, gli uomini accoccolati in terra col vetro affumicato davanti al viso, la
pistola del saldatore nella mano mossa da un tremito veloce, l’alone d’ombra intorno
al carrello degli attrezzi, all’alto castello di traliccio che arrivava fino ai fili. Aperse
gli occhi, si rigirò sulla panca, guardò le stelle tra i rami. I passeri insensibili
continuavano a dormire lassù in mezzo alle foglie.
Addormentarsi come un uccello, avere un’ala da chinarci sotto il capo, un
mondo di frasche sospese sopra il mondo terrestre, da sentirlo laggiù, attutito e
remoto. Basta cominciare a non accettare il proprio stato presente e chissamai dove
s’arriva: ora Marcovaldo per dormire aveva bisogno d’un qualcosa che non sapeva
bene neanche lui, neppure un silenzio vero e proprio gli sarebbe bastato più, ma un
fondo di rumore più morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto d’un
sottobosco, o un mormorio d’acqua che rampolla12 e si perde in un prato.
Aveva un’idea in testa e s’alzò. Non proprio un’idea, perché mezzo intontito dal
sonno che aveva in pelle in pelle, non spiccicava bene alcun pensiero; ma come il
ricordo che là intorno ci fosse qualche cosa connessa all’idea dell’acqua, del suo
scorrere querulo e sommesso.
Difatti c’era una fontana, lì vicino, illustre opera di scultura e d’idraulica, con
ninfe, fauni, dèi fluviali, che intrecciavano zampilli, cascate e giochi d’acqua. Solo
che era asciutta: alla notte, d’estate, data la minor disponibilità dell’acquedotto, la
chiudevano. Marcovaldo girò lì intorno un po’ come un sonnambulo, più che per
ragionamento per istinto sapeva che una vasca deve avere un rubinetto. Come
succede a chi ha occhio, lo trovò anche a occhi semichiusi. Aperse il rubinetto:
dalle conchiglie, dalle barbe, dalle froge13 dei cavalli si levarono alti getti, i finti
anfratti14 si velarono di manti scintillanti, e tutta quest’acqua suonava come
l’organo d’un coro nella grande piazza vuota, di tutti i fruscii e gli scrosci che può
fare l’acqua messi insieme.
Un vigile notturno che passava in bicicletta nero nero a mettere bigliettini sotto
gli usci, a vedersi esplodere tutt’a un tratto davanti agli occhi la fontana come un
liquido fuoco d’artificio, per poco non cascò di sella.
Marcovaldo, cercando d’aprir gli occhi meno che poteva per non lasciarsi
sfuggire quel filo di sonno che gli pareva d’aver già acchiappato, corse a ributtarsi
sulla panca. Ecco, adesso era come sul ciglio d’un torrente, col bosco sopra di lui,
ecco, dormiva.
Sognò un pranzo, il piatto era coperto come per non far raffreddare la pasta. Lo
scoperse e c’era un topo morto, che puzzava. Guardò nel piatto della moglie:
un’altra carogna di topo. Davanti ai figli, altri topini, più piccoli ma anch’essi
mezzo putrefatti. Scoperchiò la zuppiera e vide un gatto con la pancia all’aria, e il
puzzo lo svegliò.
Poco distante c’era il camion della nettezza urbana che va la notte a tirar su i
tombini dei rifiuti. Distingueva, nella mezzaluce dei fanali, la gru che gracchiava a
scatti, le ombre degli uomini ritti in cima alla montagna di spazzatura, che
guidavano per mano il recipiente appeso alla carrucola, lo rovesciavano, pestavano
con colpi di pala, con voci cupe e rotte come gli strappi della gru: – Alza... Molla...
Va’ in malora... – e certi cozzi metallici come opachi gong, e il riprendere del
motore, lento, per poi fermarsi poco più in là e ricominciare la manovra.
Ma il sonno di Marcovaldo era ormai in una zona in cui i rumori non lo
raggiungevano più, e quelli poi, pur così sgraziati e raschianti, venivano come
fasciati da un alone soffice d’attutimento, forse per la consistenza stessa della
spazzatura stipata nei furgoni: ma era il puzzo a tenerlo sveglio, il puzzo acuito da
un’intollerabile idea di puzzo, per cui anche i rumori, quei rumori attutiti e remoti,
e l’immagine in controluce dell’autocarro con la gru non giungevano alla mente
come rumore e vista ma soltanto come puzzo. E Marcovaldo smaniava, inseguendo
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invano con la fantasia delle narici la fragranza d’un roseto.
Il vigile notturno Tornaquinci si sentì la fronte madida 15 di sudore intravedendo
un’ombra umana correre carponi per un’aiola, strappare rabbiosamente dei
ranuncoli e sparire. Ma pensò essersi trattato o d’un cane, di competenza degli
accalappiacani, o d’un’allucinazione 16, di competenza del medico alienista 17, o d’un
licantropo18, di competenza non si sa bene di chi ma preferibilmente non sua, e
scantonò.
Intanto, Marcovaldo, ritornato al suo giaciglio, si premeva contro il naso il
convulso mazzo di ranuncoli, tentando di colmarsi l’olfatto del loro profumo: poco
ne poteva però spremere da quei fiori quasi inodori ma già la fragranza di rugiada,
di terra e d’erba pesta era un gran balsamo. Cacciò l’ossessione dell’immondizia e
dormì. Era l’alba.
Il risveglio fu un improvviso spalancarsi di cielo pieno di sole sopra la sua testa, un
sole che aveva come cancellato le foglie e le restituiva alla vista semicieca a poco a
poco. Ma Marcovaldo non poteva indugiare perché un brivido l’aveva fatto saltar
su: lo spruzzo d’un idrante col quale i giardinieri del comune innaffiano le aiole, gli
faceva correre freddi rivoli giù per i vestiti. E intorno scalpitavano i tram, i camion
dei mercati, i carretti a mano, i furgoncini e gli operai sulle biciclette a motore
correvano alle fabbriche e le saracinesche dei negozi precipitavano verso l’alto, e le
finestre delle case arrotolavano le persiane, e i vetri sfavillavano. Con la faccia
tutta righe, la bocca e gli occhi impastati, stranito, con la schiena dura e un fianco
pesto, Marcovaldo correva al suo lavoro.
1. dardeggiare gialli raggi: passare raggi di sole.
2. linfa: linfa verde degli alberi.
3. tubare: è il verso dei colombi. L’uso è figurato, indica la conversazione degli innamorati, il loro sussurrarsi parole dolci.
4. infervorati: accalorati.
5. ammicca: ancora un uso figurato del verbo per indicare l’intermittenza della luce del semaforo come un occhio che si muove.
6. spampanata: dalle foglie allargate a causa della sfioritura.
7. perlustrazione: giro di ispezione.
8. uno scambio alle rotaie: è il meccanismo che, spostando la parte mobile delle rotaie, consente al tram di passare da un binario all’altro.
9. saldatori autogeni: saldano mediante la fusione dei due pezzi di metallo da saldare.
10. diverbio: discussione animata.
11. rastrellato: (gergale) perquisizione della polizia alla ricerca di malviventi.
12. rampolla: zampilla.
13. froge: le narici del cavallo.
14. anfratti: avvallamenti stretti, oscuri e tortuosi.
15. madida: completamente bagnata.
16. allucinazione: abbaglio.
17. alienista: psicoanalista che cura malattie mentali.
18. licantropo: uomo che, secondo una credenza popolare, nelle ore notturne si trasforma in lupo mannaro e vaga ululando.
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DAL DOPOGUERRA AL TERZO MILLENNIO
L’autore
Primo Levi
Analisi del testo – L’etica del lavoro
• Leggi con molta attenzione il testo (D1), le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite sulla produzione letteraria di Levi.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
Esponi in 8 righe il contenuto informativo del racconto.
2. Analisi del testo
2.1 Quale funzionel ha il lavoro per Faussone? Per quale motivo ritiene fondamentale il riconoscimento della sua
qualificata professionalità?
2.2 Analizza l’episodio del collaudo e chiarisci i seguenti punti:
• la figura del collaudatore e le ragioni per cui è accolto con diffidenza;
• i sospetti di Faussone sul mancato funzionamento della gru;
• il motivo per cui il protagonista interviene prontamente per impedire al collaudatore di stendere il verbale;
• i sentimenti nei confronti dei presunti responsabili del fallito collaudo;
• la conclusione della vicenda.
2.3 Nel suo appassionato racconto, Faussone non espone soltanto il suo rapporto con il lavoro ma manifesta anche la
sua concezione della vita. Rifletti sulla descrizione dell’ingegneressa (Arriva l’interprete... per conto loro, rr. 56-69) e
sui richiami alle abitudini dei gatti (Non sembrava… fanno hhhh, rr. 71-74; Io credo che gli uomini… speranza di
arrivarci, rr. 133-139) e spiega con quale spirito secondo il protagonista bisogna affrontare la vita.
2.4 Il linguaggio mescola termini del mondo del lavoro (linguaggio tecnico-professionale) ed espressioni dialettali
(dialetto piemontese). Individua alcuni esempi per ciascun registro linguistico, utilizzando anche le note.
2.5. Individua alcune affermazioni di Faussone in cui traspare un uso irregolare della grammatica e della sintassi italiane,
utlizzato dall’autore per esprimere l’immediatezza e la passione delle parole del personaggio.
3.
Interpretazione complessiva e approfondimenti
Esponi il significato complessivo del racconto collocandolo nell’intera produzione dell’autore e tenendo conto della
seguente considerazione.
Sotto l’apparenza dello scherzo e del gioco fantastico, traspare l’inquietudine dell’autore per i rischi scientifici e
tecnologici del nostro tempo, dominato dalla presunzione dell’uomo di uguagliare Dio: la scienza, invece di
migliorare le condizioni dell’uomo liberandolo dalle sue sofferenze, potrebbe condurre il mondo alla catastrofe; la
tecnologia, se usata impropriamente, può provocare guasti (L’ordine a buon mercato, T87).
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Dossier
D1
Primo Levi
La chiave a stella
L’etica del lavoro
Einaudi, Torino 1978
Primo Levi (1919-1987), laureato in chimica e grande scrittore, è famoso soprattutto per il romanzo Se questo è un
uomo in cui racconta la sua esperienza nel lager di Auschwitz (  Percorso, L’autore, pp. 754 ss.). Nel romanzo La
chiave a stella (1978), biografia professionale di un operaio specializzato, celebra l’amore per il lavoro ben fatto,
l’orgoglio e il piacere di lavorare con passione.
Il protagonista, Tino Faussone, è un tecnico piemontese della fabbrica automobilistica Lancia che, a un certo punto,
intuisce che rimanere sempre nello stesso posto «è un po’ come succhiare un chiodo». Allora inizia a viaggiare in vari
paesi del mondo per montare strutture metalliche di vario tipo, un lavoro che lo fa sentire realizzato perché maneggia
con entusiasmo la “chiave a stella” (con testa ad anello, il cui interno è costituito da una figura a stella con dodici punte),
imprime il segno della propria intelligenza nel prodotto materiale del suo lavoro e può guardare con soddisfazione il gran
bello spettacolo della sua gru venire «su da terra come un fungo». Durante uno dei suoi lavori in Russia Faussone
incontra, nella mensa per gli stranieri di una fabbrica, l’autore e gli narra molti episodi legati al suo mestiere. Il romanzo
si presenta come la trascrizione dei dialoghi tra la voce narrante e il personaggio, i quali danno origine a tanti brevi
racconti incentrati sulle diverse esperienze che hanno segnato l’attività lavorativa del protagonista.
Nel brano proposto, Faussone racconta all’autore le vicende legate all’imperfetta rotazione di una gru, a causa del
mancato allineamento della coppia conica1.
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“...perché lei non deve mica credere che certi truschini 2 si combinino solo a casa
nostra3, e che soltanto noialtri siamo bravi a imbrogliare la gente e a non farci
imbrogliare noi. E poi, io non so quanto ha viaggiato lei, ma io ho viaggiato
parecchio, e ho visto che non bisogna neanche credere che i paesi siano come ce li
hanno insegnati a scuola e come vengono fuori dalle storielle, sa bene, tutti gli
inglesi distinti, i francesi blagueur4, i tedeschi tutti d’un pezzo, e gli svizzeri onesti.
Eh, ci vuol altro: tutto il mondo è paese”.
In pochi giorni la stagione era precipitata 5; di fuori nevicava asciutto e duro: ogni
tanto una folata di vento proiettava contro i vetri della mensa come una manciata di
minuscoli chicchi di grandine. Attraverso il velo del nevischio si intravvedeva tutto
intorno l’assedio nero della foresta. Ho cercato senza successo di interrompere
Faussone per protestare la mia innocenza: non ho viaggiato quanto lui, ma
certamente quanto basta per distinguere la vanità dei luoghi comuni su cui si fonda
la geografia popolare. Niente da fare: arrestare un racconto di Faussone è come
arrestare un’onda di marea. Ormai era lanciato, e non era difficile distinguere,
dietro i panneggiamenti del prologo, la corpulenza della storia 6 che si andava
delineando. Avevamo finito il caffè, che era detestabile 7, come in tutti i paesi (mi
aveva precisato Faussone) dove l’accento della parola “caffè” cade sulla prima
sillaba, e gli ho offerto una sigaretta, dimenticando che lui non è fumatore, e che io
stesso, la sera prima, mi ero accorto che stavo fumando troppo, e avevo fatto voto
solenne di non fumare piú; ma via, cosa vuoi fare dopo un caffè come quello, e in
una sera come quella?
“Tutto il mondo è paese, come le stavo dicendo. Anche questo paese qui 8: perché
è proprio qui che la storia mi è successa; no, non adesso, sei o setti anni fa. Si
ricorda del viaggio in vaporetto, di Differenza, di quel vino, di quel lago che era
quasi un mare, e della diga che le ho fatto vedere di lontano 9? Bisogna che una
domenica ci andiamo, avrei caro di mostrargliela perché è un gran bel lavoro.
Questi qui10 hanno la mano un po’ pesante, ma per i lavori grossi sono piú bravi di
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noi, poco da dire. Bene, la gru piú grossa del cantiere sono io che l’ho montata:
voglio dire, sono io che ho organizzato il montaggio, perché è una di quelle che si
montano da sole, vengono su da terra come un fungo, che è abbastanza un bello
spettacolo. Mi scusi se ci torno ogni tanto, su questa faccenda del montare le gru;
ormai lei lo sa bene, io sono uno di quelli che il suo mestiere gli piace. Anche se
delle volte è scomodo: proprio quella volta lí, per esempio, che il montaggio
l’abbiamo fatto di gennaio, lavorando anche le domeniche, e gelava tutto, fino il
grasso dei cavi, che bisognava farlo venire molle col vapore. A un certo momento
si era anche formato del ghiaccio sul traliccio 11, spesso due dita e duro come il
ferro, e non si riusciva piú a far scorrere uno dentro l’altro gli elementi della torre;
cioè, per scorrere scorrevano, ma arrivati in cima non avevano piú lo scodimento”.
In generale, la parlata di Faussone mi riesce chiara, ma non sapevo che cosa
fosse lo scodimento. Gliel’ho chiesto, e Faussone mi ha spiegato che manca lo
scodimento quando un oggetto allungato passa sí in un condotto rettilineo, ma
arrivato a una curva o ad un angolo si pianta, cioè non scode piú. Quella volta, per
ripristinare lo scodimento previsto dal manuale di montaggio, avevano dovuto
picconare via il ghiaccio12 centimetro per centimetro: un lavoro da galline.
“Insomma, bene o male siamo arrivati al giorno del collaudo 13. Piú male che
bene, come le ho detto; ma sul lavoro, e mica solo sul lavoro, se non ci fossero
delle difficoltà ci sarebbe poi meno gusto dopo a raccontare; e raccontare, lei lo sa,
anzi, me lo ha perfino detto, è una delle gioie della vita. Io non sono nato ieri, e il
collaudo si capisce che me l’ero già fatto prima, pezzo per pezzo, per conto mio:
tutti i movimenti andavano da dio, e anche la prova di carico 14, niente da dire. Il
giorno del collaudo è sempre un po’ come una festa: mi sono fatta la barba bella
liscia, mi sono data la brillantina (beh sí, qui dietro: un pochi 15 mi sono rimasti), mi
sono messa la giacca di velluto e mi sono trovato sul piazzale, bell’e pronto, una
buona mezz’ora prima dell’ora che avevamo combinato 16.
Arriva l’interprete, arriva l’ingegnere capo, arriva una di quelle loro vecchiette
che non capisci mai cosa c’entrino, ficcano il naso dappertutto, ti fanno delle
domande senza senso, si scarabocchiano il tuo nome su un pezzetto di carta, ti
guardano con diffidenza, e poi si seggono in un angolo e si mettono a fare la calza.
Arriva anche l’ingegnere della diga, che era poi una ingegneressa: simpatica,
brava come il sole, con due spalle cosí e il naso rotto come un boxeur 17. Ci
eravamo trovati diverse volte alla mensa e avevamo perfino fatto un po’ amicizia:
aveva un marito buono a niente, tre figli che mi ha fatto vedere la fotografia, e lei,
prima di prendere la laurea, guidava il trattore nei colcos 18. A tavola faceva
impressione: mangiava come un leone, e prima di mangiare buttava giú cento
grammi di vodka19 senza fare una piega. A me la gente cosí mi piace. Sono arrivati
anche diversi pelandroni 20 che non ho capito chi fossero: avevano già la piomba 21
alla mattina buonora, uno aveva un pintone 22 di liquore, e continuavano a bere per
conto loro.
Alla fine è arrivato il collaudatore. Era un ometto tutto nero, vestito di nero, sulla
quarantina, con una spalla piú alta dell’altra e una faccia da non aver digerito. Non
sembrava neanche un russo: sembrava un gatto ramito 23, sí, uno di quei gatti che
prendono il vizio di mangiar le lucertole, e allora non crescono, vengono
malinconici, non si lustrano piú il pelo, e invece di miagolare fanno hhhh. Ma sono
quasi tutti cosí, i collaudatori: non è un mestiere allegro, se uno non ha un po’ di
cattiveria non è un buon collaudatore, e se la cattiveria non ce l’ha gli viene col
tempo, perché quando tutti ti guardano male la vita non è facile. Eppure ci
vogliono anche loro, lo capisco anch’io, alla stessa maniera che ci vogliono i
purganti.
Allora lui arriva, tutti fanno silenzio, lui dà la corrente, si arrampica su su per la
scaletta e si chiude nella cabina, perché a quel tempo nelle gru tutti i comandi erano
ancora nella cabina. Adesso? Adesso sono a terra, per via dei fulmini. Si chiude
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nella cabina, grida giú di fare largo, e tutti si allontanano. Prova la traslazione 24 e
tutto va bene. Sposta il carrello sul braccio: va via bello latino 25 come una barca sul
lago. Fa agganciare una tonnellata e tira su: perfetto, come se il pesantore 26 neanche
lo sentisse. Poi prova la rotazione, e succede il finimondo: il braccio, che è poi un
bel braccio lungo piú di trenta metri, gira tutto a scatti, con degli stridori di ferro da
far piangere il cuore. Sa bene, quando si sente il materiale che lavora male, che
punta, che gratta, e ti dà una pena che neanche un cristiano. Fa tre o quattro scatti, e
poi si ferma di colpo, e tutta la struttura trema, e oscilla da destra a sinistra e da
sinistra a destra come se dicesse che no, per carità, cosí non si può andare.
Io ho fatto che prendere la corsa su per la scaletta, e intanto gridavo a quello
lassú che per l’amor di Dio non si muovesse, non cercasse di fare altre manovre.
Arrivo in cima, e le giuro che sembrava di essere in un mare in tempesta; e vedo il
mio ometto tutto tranquillo, seduto sul seggiolino, che stava già scrivendo il suo
verbale sul libretto. Io il russo allora lo sapevo poco, e lui l’italiano non lo sapeva
niente; ci siamo arrangiati con un po’ di inglese, ma lei capisce che fra la cabina
che continuava a ballare, lo sbordimento 27, e l’affare della lingua, ne è venuta fuori
una discussione balorda. Lui continuava a dire niet, niet 28, che la macchina era
capút29, e che lui il collaudo non me lo dava; io cercavo di spiegargli che prima di
mettere giú il verbale volevo rendermi conto con un po’ di calma, a bocce ferme 30.
A questo punto io avevo già i miei sospetti: primo, perché glielo ho già detto, il
giorno prima avevo fatto le mie prove e tutto era andato bene; secondo, perché mi
ero accorto da un pezzo che c’erano in giro certi francesi, che era aperto un appalto
per altre tre gru uguali a quella, e sapevo che la gara per quella gru noialtri
l’avevamo vinta per un soffio, e che i secondi erano stati proprio i francesi.
Sa, non è per il padrone. A me del padrone non me ne fa mica tanto 31, basta che
mi paghi quello ch’è giusto, e che coi montaggi mi lasci fare alla mia maniera. No,
è per via del lavoro: mettere su una macchina come quella, lavorarci dietro con le
mani e con la testa per dei giorni, vederla crescere cosí, alta e dritta, forte e sottile
come un albero, e che poi non cammini, è una pena: è come una donna incinta che
le nasca un figlio storto o deficiente, non so se rendo l’idea”.
La rendeva, l’idea. Nell’ascoltare Faussone, si andava coagulando dentro di me
un abbozzo di ipotesi, che non ho ulteriormente elaborato e che sottopongo qui al
lettore: il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà
piú accessibile, piú goduto soggettivamente 32, e piú utile al consorzio umano 33,
coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a
svolgerlo.
“Ogni modo: io ho aspettato che lui calasse giú, e poi mi sono messo a guardare
bene come stavano le cose. C’era sicuramente qualche cosa che non andava nella
coppia conica... cos’ha da ridere?”
Non ridevo: sorridevo soltanto, senza rendermene conto. Non avevo piú avuto
niente a che fare con le coppie coniche fin da quando, a tredici anni, avevo smesso
di giocare col Meccano34, e il ricordo di quel gioco-lavoro solitario e intento, e di
quella minuscola coppia conica di lucido ottone fresato 35, mi aveva intenerito per
un istante.
“Sa, sono una roba molto piú delicata degli ingranaggi cilindrici. Anche piú
difficili da montare, e se uno sbaglia il tipo di grasso, grippano 36 che è una bellezza.
Del resto, non so, a me non è mai successo, ma fare un lavoro senza niente di
difficile, dove tutto vada sempre per diritto, dev’essere una bella noia, e alla lunga
fa diventare stupidi. Io credo che gli uomini siano fatti come i gatti, e scusi se torno
sui gatti ma è per via della professione. Se non sanno cosa fare, se non hanno topi
da prendere, si graffiano tra di loro, scappano sui tetti, oppure si arrampicano sugli
alberi e magari poi gnaulano37 perché non sono piú buoni a scendere. Io credo
proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare, ma
che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio
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cosí per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci.
Ma torniamo alla coppia conica: cinque minuti e ho subito capito l’antifona 38.
L’allineamento, capisce? Proprio il punto piú delicato, perché una coppia conica è
come chi dicesse il cuore di una gru, e l’allineamento è... insomma, senza
allineamento una coppia dopo due giri è da buttare a rottame. Non sto a fargliela
tanto lunga: lí su c’era stato qualcuno, qualcuno del mestiere; e aveva riforato uno
per uno tutti i pertugi del supporto 39 e aveva rimontato il basamento della coppia
che sembrava dritto, e invece era sfalsato. Un lavoro da artista, che se non fosse del
fatto che volevano fregarmi me gli avrei fino fatto i complimenti: ma invece ero
arrabbiato come una bestia. Si capisce che erano stati i francesi, non so se proprio
con le loro mani oppure con l’aiuto di qualcuno, magari giusto il mio collaudatore,
quello che aveva tutta quella fretta di fare il verbale.
...Ma sí, certo, la denuncia, i testimoni, la perizia40, la querela: ma intanto resta
sempre come un’ombra, come una macchia d’unto, che è difficile togliersela di
dosso. Adesso sono passati dei begli anni, ma la causa è ancora in cammino: ottanta
pagine di perizia dell’Istituto Tecnologico di Sverdlovsk, con le deformazioni, le
fotografie, le radiografie41 e tutto. Come crede che finirà, lei? Io lo so già, come
finisce, quando le cose di ferro diventano cose di carta: storta, finisce”.
1. coppia conica: coppia di ingranaggi a forma di cono tronco che trasmettono il movimento tra due assi perpendicolari.
2. truschini: trucchi.
3. casa nostra: in Italia.
4. blagueur: burlone (francese).
5. la stagione era precipitata: era arrivato il freddo (siamo in Russia).
6. Ormai era lanciato... storia: ormai aveva cominciato a parlare ed era difficile intuire dall’elaborata premessa (i panneggiamenti del prologo)
quanta sostanza (corpulenza) ci fosse nel racconto introdotto da Faussone.
7. detestabile: di pessimo gusto.
8. questo paese qui: in Russia.
9. Si ricorda del viaggio... lontano: il protagonista si riferisce a una gita sul Volga di qualche giorno prima, nel corso della quale un operaio
russo (Differenza è il cognome tradotto in italiano) ha offerto a loro del vino.
10. Questi qui: i russi.
11. traliccio: struttura di sostegno formata da profilati metallici collegati tra loro a reticolo.
12. picconare via il ghiaccio: rompere il ghiaccio con il piccone.
13. collaudo: verifica del funzionamento di una macchina o di un impianto.
14. la prova di carico: il momento in cui si verifica la capacità della gru di sollevare i pesi.
15. un pochi: pochi (capelli). L’errore rende la parlata fortemente influenzata dal dialetto.
16. prima… combinato: prima dell’ora stabilita.
17. naso… boxeur: naso schiacciato.
18. colcos: i kolchoz erano le cooperative statali di contadini dell’ex Unione Sovietica.
19. vodka: liquore di acquavite che si ottiene dalla distillazione dei cereali.
20. pelandroni: pigri.
21. la piomba: la sbronza; espressione piemontese.
22. pintone: un bottiglione.
23. ramito: strano, bizzarro.
24. traslazione: il movimento della gru su appositi binari.
25. Sposta… va via bello latino: muove il carrello che va via liscio sul braccio della gru.
26. pesantore: il peso di prova.
27. sbordimento: paura.
28. niet, niet: (russo) no, no.
29. capút: dal tedesco kaputt; guasta.
30. a bocce ferme: espressione popolare che significa “con calma”.
31. non me ne fa mica tanto: non me ne importa molto.
32. piú goduto soggettivamente: più goduto dall’individuo.
33. consorzio umano: società.
34. Meccano: gioco di costruzioni meccaniche che con viti, bulloni e ingranaggi (tra cui anche le coppie coniche) consentiva di costruire anche
delle gru in miniatura.
35. ottone fresato: l’ottone è il metallo lavorato alla fresa utensile che incide i denti dell’ingranaggio.
36. grippano: si bloccano.
37. gnaulano: miagolano.
38. ho subito capito l’antifona: ho capito dove stava l’inghippo.
39. pertugi del supporto: buchi del supporto dove si montano gli ingranaggi della coppia conica.
40. perizia: accertamento tecnico svolto da un esperto per individuare le responsabilità dell’errato montaggio.
41. radiografie: controllo dei materiali per verificare la presenza di cedimenti o fratture.
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ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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IL PRIMO NOVECENTO
L’autore
Eugenio Montale
Analisi del testo – L’arca
• Leggi con molta attenzione la lirica L’arca (D1), le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite sulla produzione letteraria di Montale.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
Scrivi la parafrasi della lirica esponendone il contenuto informativo.
2. Analisi del testo
2.1 Il primo verso evoca un fenomeno naturale e, nello stesso tempo, si carica di un ulteriore significato. Quale?
Secondo te, quale potrebbe essere una sua definizione appropriata?
2.2 Nella lirica, la struttura sintattica e il lessico pongono in rilievo il ricordo dell’infanzia del poeta: in quali versi ciò si
evidenzia in modo particolare?
2.3 Nel contesto della lirica l’arca (v. 21), il trabocchetto (v. 10), il salce (v. 8) e la magnolia (v. 18) rappresentano
altrettanti correlativi oggettivi che hanno un ruolo centrale poiché si caricano di significati profondi: quali?
3.
Interpretazione complessiva e approfondimenti
Esponi il significato complessivo della lirica, rifacendoti ad altri testi di Montale a te noti e sulla base delle seguenti
indicazioni:
• le caratteristiche tematiche ricorrenti nella raccolta La bufera e altro tenendo presente che la lirica fa parte della
prima sezione di questa raccolta – Finisterre – originariamente pubblicata come raccolta autonoma;
• le caratteristiche linguistiche e stilistiche tipiche della produzione poetica dell’autore con analogie e differenze
rispetto alle raccolte precedenti (Ossi di seppia e Le occasioni) e a quella successiva (Satura);
• il confronto con Ungaretti (Non gridate più, T63) e con il suo modo di rappresentare la tragedia della Seconda
guerra mondiale.
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ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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Dossier
D1
Eugenio Montale
Finisterre
L’arca
in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1979
La lirica appartiene alla raccolta Finisterre, pubblicata autonomamente dall’autore a Lugano, nel 1943, e in seguito
confluita nel terzo libro poetico di Montale, La bufera e altro (1956), di cui costituisce la prima sezione. I quindici testi di
Finisterre, composti fra il 1940 e l’inizio del 1943, hanno come motivi ispiratori i lutti familiari (soprattutto la perdita della
madre, avvenuta nel 1942), la guerra e i suoi orrori. In apertura della raccolta Montale pose una provocatoria epigrafe
contro i tiranni, tratta da una poesia di Théodore Agrippa d’Aubigné (1552-1630), autore francese dell’età barocca: «I
principi non hanno occhi per vedere queste meraviglie, le loro mani servono solo a perseguitarci».
La tempesta di primavera ha sconvolto
l’ombrello del salice,
al turbine d’aprile
s’è impigliato nell’orto il vello d’oro
5 che nasconde i miei morti,
i miei cani fidati, le mie vecchie
serve – quanti da allora
(quando il salce era biondo e io ne stroncavo
le anella con la fionda) son calati,
10 vivi, nel trabocchetto. La tempesta
certo li riunirà sotto quel tetto
di prima, ma lontano, più lontano
di questa terra folgorata dove
bollono calce e sangue nell’impronta
15 del piede umano. Fuma il ramaiolo
in cucina, un suo tondo di riflessi
accentra i volti ossuti, i musi aguzzi
e li protegge in fondo la magnolia
se un soffio ve la getta. La tempesta
20 primaverile scuote d’un latrato
di fedeltà la mia arca, o perduti.
2. l’ombrello del salice: la chioma del salice, la pianta che presso i Romani era sacra ai Lari, le divinità protettrici della casa e della famiglia.
4. il vello d’oro: riferimento mitologico al vello d’oro di un ariete sacro conquistato da Giasone e i suoi compagni, detti gli Argonauti perché
imbarcati sulla nave Argo; nella lirica è l’immagine simbolica di un manto o di un sudario che, una volta sollevato, svela i ricordi.
8. salce: salice.
9. anella: gli anelli, cioè i rametti del salice.
13-15. dove bollono… piede umano: durante la guerra, per motivi igienico-sanitari, i cadaveri venivano ammassati in fosse poi cosparse di
calce.
15-17. Fuma… musi aguzzi: il poeta rivede una scena del passato riflessa sulla superficie di un mestolo di rame, su cui si concentrano i volti dei
cari defunti e i musi aguzzi dei cani riuniti nella cucina della casa dell’infanzia.
19. se un soffio ve la getta: se un soffio di vento fa rientrare la magnolia nell’inquadratura della scena riflessa nel mestolo.
20-21. latrato di fedeltà: un lamento di fedeltà che i cani e il poeta rivolgono all’arca per chiedere aiuto.
21. o perduti: i cari scomparsi.
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IL PRIMO NOVECENTO
L’autore e l’opera
Giuseppe Ungaretti
Analisi del testo – Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto
• Leggi con molta attenzione la lirica Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto (D1), tratta da Giorno per giorno, la
seconda sezione della raccolta Il dolore, le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite sulla produzione letteraria di Ungaretti.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
Esponi il contenuto informativo delle singole strofe.
2.
2.1
2.2
2.3
Analisi del testo
Spiega i motivi tematici della.
Qual è la forma sintattica prevalente? Individua le inversioni e precisa quale tono conferiscono ai versi.
Ricostruisci la forma metrica del componimento. I versi sono tutti di una stessa misura? Osserva le particolarità della
strofa 4 e fai il computo delle sillabe con precisi riferimenti alle eventuali figure metriche (sineresi, sinalefe). Ricorda
che i versi sdruccioli prevedono nel conteggio metrico una sillaba in meno; i versi tronchi una sillaba in più.
3.
Interpretazione complessiva e approfondimenti
Esponi il significato complessivo della lirica, rifacendoti ad altri testi di Ungaretti a te noti e sulla base delle seguenti
indicazioni:
• le caratteristiche tematiche ricorrenti nelle raccolte L’Allegria, Sentimento del tempo, Il dolore;
• le caratteristiche linguistiche e stilistiche tipiche della produzione poetica dell’autore, dalla essenzialità che isola la
parola sulla pagina alla ricerca di nuove forme espressive;
• il confronto con Montale sul tema del «male di vivere» e sul piano formale del linguaggio.
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ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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Dossier
D1
Giuseppe Ungaretti
Il dolore
Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto
in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Mondadori, Milano 1998
5
10
15
«Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto...»
E il volto già scomparso
ma gli occhi ancora vivi
dal guanciale volgeva alla finestra,
e riempivano passeri la stanza
verso le briciole dal babbo sparse
per distrarre il suo bimbo...
2.
Ora potrò baciare solo in sogno
Le fiduciose mani...
E discorro, lavoro,
Sono appena mutato, temo, fumo...
Come si può ch’io regga a tanta notte?...
3.
Mi porteranno gli anni
chissà quali altri orrori,
ma ti sentivo accanto,
m’avresti consolato...
4.
Mai, non saprete mai come m’illumina
L’ombra che mi si pone a lato, timida,
Quando non spero più...
20
25
30
5.
Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce
che in corsa risuonando per le stanze
sollevava dai crucci un uomo stanco…?
La terra l’ha disfatta, la protegge
un passato di favola...
6.
Ogni altra voce è un’eco che si spegne,
ora che una mi chiama
dalle vette immortali...
7.
In cielo cerco il tuo felice volto,
ed i miei occhi in me null’altro vedano
Quando anch’essi vorrà chiudere Iddio...
8.
E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!...
I d e e p e r in s e g n a r e l’it a l i a n o c o n …
Pa n e b i a n c o , Gin e p r i n i, S e m i n a r a LE T T E R A U T O R I
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2. volto già scomparso: il volto del
bambino è distrutto dalla malattia e i
suoi
lineamenti
sono
quasi
irriconoscibili.
3. vivi: luminosi.
11. Sono appena mutato: il poeta
avverte la contraddizione tra il
permanere esteriore di gesti quotidiani e
il profondo dolore che lo devasta.
12. tanta notte: un dolore così atroce.
17. m’illumina: riaccende la speranza.
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ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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IL PRIMO NOVECENTO
L’autore e l’opera
Italo Svevo
Analisi del testo – Zeno conosce Guido
• Leggi con molta attenzione il brano della Coscienza (D1) in cui Zeno conosce Guido Speier, tratto dal capitolo V del
romanzo (La storia del mio matrimonio), le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite sulla produzione letteraria di Svevo.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
Individua il tema centrale di questo episodio, poi illustralo con qualche breve ma preciso riferimento al testo.
2. Analisi del testo
2.1 Spiega quali sono i sentimenti di Zeno nei confronti di Guido e di Ada.
2.2 L’ironia è un elemento costante dello stile dello scrittore. In questo passo nasce dagli alibi che il protagonista si crea
nel non voler accettare l’evidente simpatia di Ada nei confronti di Guido. Rintraccia tali alibi e spiega perché sono
molto importanti nell’ottica complessiva del romanzo.
2.3 Il tema della “malattia” e del suo contrario, la “salute”, percorre tutta la Coscienza: individuane le caratteristiche e il
significato profondo che esso assume all’interno del romanzo. Il narratore stabilisce un netto confine tra “malattia” e
“salute”? Parlane con riferimento al personaggio di Zeno e di Guido.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
3.1 Spiega perché Italo Svevo, sia per la sua “triestinità”, sia per il suo ruolo di letterato “non professionista” rappresenti
un elemento di grande peculiarità nella cultura italiana del tempo.
3.2 Spiega l’evoluzione delle forme narrative del romanzo sveviano da Una vita a La coscienza di Zeno.
3.3 Quali sono le opinioni di Italo Svevo sulla psicoanalisi, al di là dell’utilizzo “letterario” che egli ne fa nel suo romanzo?
Prima di rispondere rifletti su questo breve estratto da una lettera che Svevo scrisse nel 1927 al letterato Valerio
Jahier, che voleva curarsi a Vienna con la terapia di Sigmund Freud (il brano è tratto da I. Svevo, Carteggio con J.
Joyce, V. Larbaud, B. Crémieux, M.A. Commène, E. Montale, V. Jahier, a cura di B. Maier, Dall’Oglio, Milano 1978).
Certo è ch’io non posso mentire e debbo confermarle che in un caso trattato da Freud in persona non si
ebbe alcun risultato. Per esattezza debbo aggiungere che il Freud stesso, dopo anni di cure implicanti
gravi spese, congedò il paziente dichiarandolo inguaribile. Anzi io ammiro il Freud, ma quel verdetto
dopo tanta vita perduta mi lasciò un’impressione disgustosa. […] Letterariamente Freud è certo più
interessante. Magari avessi fatto io una cura con lui. Il mio romanzo sarebbe risultato più intero.
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ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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Dossier
D1
Italo Svevo
La coscienza di Zeno
Zeno conosce Guido
Dall’Oglio, Milano 1978
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Ma dietro di noi si sentì un’invocazione esitante:
– Se permettete, signorina!
Mi volsi indignato. Chi osava interrompere le spiegazioni che non avevo ancora
iniziate? Un signorino imberbe, bruno e pallido, la guardava con occhi ansiosi. A mia
volta guardai Ada nella folle speranza ch’essa invocasse il mio aiuto. Sarebbe bastato
un suo segno ed io mi sarei gettato su quell’individuo a domandargli ragione della
sua audacia. E magari avesse insistito. I miei mali sarebbero stati guariti subito se mi
fosse stato concesso d’abbandonarmi ad un atto brutale di forza.
Ma Ada non fece quel segno. Con un sorriso spontaneo perché mutava
lievemente il disegno delle guance e della bocca ma anche la luce dell’occhio, ella
gli tese la mano:
– Il signor Guido!
Quel prenome1 mi fece male. Ella, poco prima, mi aveva chiamato col nome mio
di famiglia.
Guardai meglio quel signor Guido. Era vestito con un’eleganza ricercata e
teneva nella destra inguantata un bastone dal manico d’avorio lunghissimo, che io
non avrei portato neppure se m’avessero pagato perciò una somma per ogni
chilometro. Non mi rimproverai di aver potuto vedere in una simile persona una
minaccia per Ada. Vi sono dei loschi figuri che vestono elegantemente e portano
anche di tali bastoni.
Il sorriso di Ada mi ricacciò nei più comuni rapporti mondani. Ada fece la
presentazione. E sorrisi anch’io! Il sorriso di Ada ricordava un poco l’increspatura
di un’acqua limpida sfiorata da una lieve brezza. Anche il mio ricordava un simile
movimento, ma prodotto da un sasso che fosse stato gettato nell’acqua.
Si chiamava Guido Speier. Il mio sorriso si fece più spontaneo perché subito mi
si presentava l’occasione di dirgli qualche cosa di sgradevole:
– Lei è tedesco?
Cortesemente egli mi disse che riconosceva che al nome tutti potevano crederlo
tale. Invece i documenti della sua famiglia provavano ch’essa era italiana da varii
secoli. Egli parlava il toscano 2 con grande naturalezza mentre io e Ada eravamo
condannati al nostro dialettaccio.
Lo guardavo per sentire meglio quello ch’egli diceva. Era un bellissimo giovane:
le labbra naturalmente socchiuse lasciavano vedere una bocca di denti bianchi e
perfetti. L’occhio suo era vivace ed espressivo e, quando s’era scoperto il capo,
avevo potuto vedere che i suoi capelli bruni e un po’ ricciuti, coprivano tutto lo
spazio che madre natura aveva loro destinato, mentre molta parte della mia testa
era stata invasa dalla fronte.
Io l’avrei odiato anche se Ada non fosse stata presente, ma soffrivo di quell’odio
e cercai di attenuarlo. Pensai: – È troppo giovine per Ada. – E pensai poi che la
confidenza e la gentilezza ch’essa gli usava fossero dovute ad un ordine del padre.
Forse era un uomo importante per gli affari del Malfenti e a me era parso che in
simili casi tutta la famiglia fosse obbligata alla collaborazione. Gli domandai:
– Ella si stabilisce a Trieste?
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Mi rispose che vi si trovava da un mese e che vi fondava una casa commerciale.
Respirai! Potevo aver indovinato.
Camminavo zoppicando, ma abbastanza disinvolto, vedendo che nessuno se ne
accorgeva. Guardavo Ada e tentavo di dimenticare tutto il resto compreso l’altro
che ci accompagnava. In fondo io sono l’uomo del presente e non penso al futuro
quando esso non offuschi il presente con ombre evidenti. Ada camminava fra noi
due e aveva sulla faccia, stereotipata, un’espressione vaga di lietezza che arrivava
quasi al sorriso. Quella lietezza mi pareva nuova. Per chi era quel sorriso? Non per
me ch’essa non vedeva da tanto tempo?
1. prenome: nome.
2. toscano: l’italiano secondo l’antica designazione della lingua letteraria.
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ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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IL PRIMO NOVECENTO
L’autore e l’opera
Luigi Pirandello
Analisi del testo – La veste lunga
• Leggi con molta attenzione La veste lunga (D1) tratta dal IV volume delle Novelle per un anno, le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite e ad altri testi pirandelliani già letti e
analizzati.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
La novella presenta un “caso” che presuppone una “inchiesta” problematica sul destino e sul senso della vita.
Riassumi la vicenda in 20 righe circa.
2. Analisi del testo
2.1 Zúnica, paese da cui il padre recava, a Didì bambina, frutti freschi e profumati, è luogo mitico della fantasia e luogo
reale allo stesso tempo. Quale significato assume questa opposizione nella ideologia pirandelliana del conflitto vitaforma?
2.2 Rifletti sul titolo della novella e sui segmenti testuali. Poi spiega di che cosa è simbolo la veste lunga indossata per
la prima volta dalla protagonista e quali sensazioni suscita in lei nel corso del viaggio in treno.
Ma forse la tristezza era fuori: fuori, là, nel mondo, ove a una certa età, lasciati i sereni, ingenui affetti della famiglia,
si entrava coi calzoni lunghi gli uomini, con le vesti lunghe le donne (rr. 221-223).
E le avevano messo quella veste lunga, ora cosí… su un corpo, che lei non si sentiva. Assai piú del suo corpo
pesava quella veste! Si figuravano che ci fosse qualcuna, una donna, sotto quella veste lunga, e invece no; invece
lei, tutt’al piú, non poteva sentirvi altro, dentro, che una bambina.
2.3 Quale profondo significato assume la scelta estrema della protagonista? Parlane brevemente con precisi riferimenti
ai pensieri di Didì e al suo percorso interiore.
3.
Interpretazione complessiva e approfondimenti
Il viaggio, in treno con il suo spostamento nello spazio, rappresenta l’incontro esistenziale con il sé. Spiega la
diversa funzione che assume il treno per Didì, Belluca ( Il treno ha fischiato, T32), Mattia Pascal (Mattia
“battezza” Adriano Meis, D1, pp. 302-304), precisando
• l’impossibilità comunicativa e la solitudine dell’individuo;
• i protagonisti perdenti e soffocati dalla “forma” delle convenzioni sociali;
• la pietà dell’autore nei confronti del dolore del vivere dei personaggi.
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Dossier
D1
Luigi Pirandello
Novelle per un anno
La veste lunga
in Tutte le opere di Pirandello, Mondadori, Milano 1992
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Era il primo viaggio lungo di Didì. Da Palermo a Zúnica. Circa otto ore di
ferrovia.
Zúnica per Didì era un paese di sogno, lontano lontano, ma piú nel tempo che
nello spazio. Da Zúnica infatti il padre recava un tempo, a lei bambina, certi
freschi deliziosi frutti fragranti, che poi non aveva saputo piú riconoscere, né per
il colore, né per il sapore, né per la fragranza, in tanti altri che il padre le aveva
pur recati di là: celse more 1 in rustici ziretti di terracotta2 tappati con pampini3 di
vite; perine ceree da una parte e sanguigne dall’altra, con la corona; e susine
iridate e pistacchi e lumíe 4.
Tuttora, dire Zúnica e immaginare un profondo bosco d’olivi saraceni 5 e poi
distese di verdissimi vigneti e giardini vermigli con siepi di salvie ronzanti d’api e
vivai muscosi e boschetti d’agrumi imbalsamati di zagare 6 e di gelsomini, era per
Didì tutt’uno, quantunque già da un pezzo sapesse che Zúnica era una povera
arida cittaduzza dell’interno della Sicilia, cinta da ogni parte dai lividi tufi arsicci
delle zolfare7 e da scabre8 rocce gessose fulgenti alle rabbie del sole, e che quei
frutti, non piú gli stessi della sua infanzia, venivano da un feudo 9, detto di Ciumía,
parecchi chilometri lontano dal paese.
Aveva queste notizie dal padre: lei non era mai stata piú là di Bagheria 10, presso
Palermo, per la villeggiatura: Bagheria, sparsa tra il verde, bianca, sotto il
turchino ardente del cielo. L’anno scorso, era stata anche piú vicino, tra i boschi
d’aranci di Santa Flavia, e ancora con le vesti corte.
Ora, per il viaggio lungo fino a Zúnica indossava anche, per la prima volta, una
veste lunga.
E le pareva d’esser già un’altra. Una damina proprio per la quale 11. Aveva lo
strascico finanche negli sguardi; alzava, a tratti, le sopracciglia come a tirarlo su,
questo strascico dello sguardo; e teneva alto il nasino ardito 12, alto il mento con la
fossetta, e chiusa la bocca. Bocca da signora con la veste lunga; bocca che
nasconde i denti, come la veste lunga i piedini.
Se non che, seduto dirimpetto a lei, c’era Cocò, il fratello maggiore, quel
birbante di Cocò il quale, col capo abbandonato su la spalliera rossa dello
scompartimento di prima classe, tenendo gli occhi bassi e la sigaretta attaccata al
labbro superiore, di tanto in tanto le sospirava, stanco:
– Didì, mi fai ridere.
Dio, che rabbia! Dio, che prurito nelle dita!
Ecco: se Cocò non si fosse rasi i baffi come voleva la moda, Didì glieli avrebbe
strappati, saltandogli addosso come una gattina.
Invece, sorridendo con le ciglia alzate, gli rispondeva, senza scomporsi:
– Caro mio, sei un cretino.
Ridere della sua veste lunga e anche, se vogliamo, delle arie che si dava, dopo
il serio discorso che le aveva tenuto la sera avanti a proposito di questo viaggio
misterioso a Zúnica…
Era o non era, questo viaggio, una specie di spedizione, un’impresa, qualcosa
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come la scalata a un castello ben munito in cima a una montagna? Erano o non
erano macchine da guerra per quella scalata le sue vesti lunghe? E dunque, che
c’era da ridere se lei, sentendosi armata con esse per una conquista, provava di
tratto in tratto le armi col darsi quelle arie?
Cocò, la sera avanti, le aveva detto che finalmente era venuto il tempo di
pensare sul serio ai casi loro.
Didì aveva sgranato tanto d’occhi.
Casi loro? Che casi? Ci potevano esser casi anche per lei, a cui pensare, e per
giunta sul serio?
Dopo la prima sorpresa, una gran risata.
Conosceva una persona sola, fatta apposta per pensare ai casi suoi e anche a
quelli di tutti loro: donna Sabetta, la sua governante, intesa donna Bebé, o donna
Be’, come lei per far piú presto la chiamava. Donna Be’ pensava sempre ai casi
suoi. Investita, spinta, trascinata da certi suoi furibondi impeti improvvisi, la
poveretta fingeva di mettersi a frignare 13 e, grattandosi con ambo le mani la
fronte, gemeva:
– Oh benedetto il nome del Signore, mi lasci pensare ai casi miei, signorina!
La prendeva per donna Be’, adesso, Cocò? No, non la prendeva per donna Be’.
Cocò, la sera avanti, le aveva assicurato che proprio questi benedetti casi loro
c’erano, e serii, molto serii, come quella sua veste lunga da viaggio.
Fin da bambina, vedendo andare il padre ogni settimana e talvolta anche due volte
la settimana a Zúnica, e sentendo parlare del feudo di Ciumía e delle zolfare di
Monte Diesi e d’altre zolfare e poderi e case, Didì aveva sempre creduto che tutti
questi beni fossero del padre, la baronia dei Brilla.
Erano, invece, dei marchesi Nigrenti di Zúnica. Il padre, barone Brilla, ne era
soltanto l’amministratore giudiziario14. E quell’amministrazione da cui per
vent’anni al padre era venuta la larga agiatezza, della quale loro due, Cocò e Didì,
avevano sempre goduto, sarebbe finita tra pochi mesi.
Didì era veramente nata e cresciuta in mezzo a quell’agiatezza; aveva poco piú
di sedici anni; ma Cocò ne aveva ventisei; e Cocò serbava una chiara, per quanto
lontana memoria dei gravi stenti tra cui il padre s’era dibattuto prima d’esser
fatto, per maneggi e brighe15 d’ogni sorta, amministratore giudiziario
dell’immenso patrimonio di quei marchesi di Zúnica.
Ora, c’era tutto il pericolo di ricadere in quegli stenti che, se anche minori,
sarebbero sembrati piú duri dopo l’agiatezza. Per impedirlo, bisognava che
riuscisse, ora, ma proprio bene e in tutto, il piano di battaglia architettato dal
padre, e di cui quel viaggio era la prima mossa.
La prima, no, veramente. Cocò era già stato a Zúnica col padre, circa tre mesi
addietro, in ricognizione16; vi si era trattenuto quindici giorni, e aveva conosciuto
la famiglia Nigrenti.
La quale era composta, salvo errore, di tre fratelli e di una sorella. Salvo errore,
perché nell’antico palazzo in cima al paese c’erano anche due vecchie
ottuagenarie17, due zônne (zie-donne), che Cocò non sapeva bene se fossero dei
Nigrenti anche loro, cioè se sorelle del nonno del marchese o se sorelle della nonna.
Il marchese si chiamava Andrea; aveva circa quarantacinque anni e, cessata
l’amministrazione giudiziaria, sarebbe stato per le disposizioni testamentarie il
maggior erede. Degli altri due fratelli, uno era prete – don Arzigogolo, come lo
chiamava il padre – l’altro, il cosí detto Cavaliere, un villanzone. Bisognava
guardarsi dall’uno e dall’altro, e piú dal prete che dal villanzone. La sorella aveva
ventisette anni, un anno piú di Cocò, e si chiamava Agata, o Titina: gracile come
un’ostia e pallida come la cera; con gli occhi costantemente pieni d’angoscia e
con le lunghe mani esili e fredde che le tremavano di timidezza, incerte e schive 18.
Doveva essere la purezza e la bontà in persona, poverina: non aveva mai dato un
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passo fuori del palazzo: assisteva le due vecchie ottuagenarie, le due zônne;
ricamava e sonava «divinamente» il pianoforte.
Ebbene: il piano del padre era questo: prima di lasciare quell’amministrazione
giudiziaria, concludere due matrimoni: dare cioè a Didì il marchese Andrea, e
Agata a lui, Cocò.
Didì al primo annunzio era diventata in volto di bragia 19 e gli occhi le avevano
sfavillato di sdegno. Lo sdegno era scoppiato in lei piú che per la cosa in se
stessa, per l’aria cinicamente rassegnata con cui Cocò la accettava per sé e la
profferiva20 a lei come una salvezza. Sposare per denari un vecchio, uno che
aveva ventotto anni piú di lei?
– Ventotto, no, – le aveva detto Cocò, ridendo di quella vampata di sdegno. –
Che ventotto, Didì! Ventisette, siamo giusti, ventisette e qualche mese.
– Cocò, mi fai schifo! Ecco: schifo! – gli aveva allora gridato Didì, tutta
fremente, mostrandogli le pugna21.
E Cocò:
– Sposo la Virtú, Didì, e ti faccio schifo? Ha un annetto anche lei piú di me; ma
la Virtú, Didì mia, ti faccio notare, non può esser molto giovane. E io n’ho tanto
bisogno! sono un discolaccio, un viziosaccio, tu lo sai: un farabutto, come dice
papà: metterò senno: avrò ai piedi un bellissimo pajo di pantofole ricamate, con le
iniziali in oro e la corona baronale, e un berretto in capo, di velluto, anch’esso
ricamato, e col fiocco di seta, bello lungo. Il baronello Cocò La Virtú 22… Come
sarò bello, Didì mia!
E s’era messo a passeggiare melenso melenso 23, col collo torto24, gli occhi
bassi, il bocchino appuntito25, le mani una su l’altra, pendenti dal mento, a barba
di capro.
Didì, senza volerlo, aveva sbruffato una risata 26.
E allora Cocò s’era messo a rabbonirla 27, carezzandola e parlandole di tutto il
bene che egli avrebbe potuto fare a quella poveretta, gracile come un’ostia,
pallida come la cera, la quale già, nei quindici giorni ch’egli s’era trattenuto a
Zúnica, aveva mostrato, pur con la timidezza che le era propria, di vedere in lui il
suo salvatore. Ma sí! certamente! Era interesse dei fratelli e specie di quel cosí
detto Cavaliere (il quale aveva con sé, fuori del palazzo, una donnaccia da cui
aveva avuto dieci, quindici, venti, insomma, non si sa quanti figliuoli) ch’ella
restasse nubile, tappata lí a muffir 28 nell’ombra. Ebbene, egli sarebbe stato il sole
per lei, la vita. La avrebbe tratta fuori di lí, condotta a Palermo, in una bella casa
nuova: feste, teatri, viaggi, corse in automobile… Bruttina era, sí; ma pazienza:
per moglie, poteva passare. Era tanto buona poi, e avvezza a non aver mai nulla,
si sarebbe contentata anche di poco.
E aveva seguitato29 a parlare a lungo, apposta, di sé solamente, su questo tono,
cioè del bene che pur si riprometteva di fare, perché Didì, stuzzicata cosí da una
parte e, dall’altra, indispettita di vedersi messa da canto, alla fine domandasse:
– E io?
Venuta fuori la domanda, Cocò le aveva risposto con un profondo sospiro:
– Eh, per te, Didì mia, per te la faccenda è molto, ma molto piú difficile! Non
sei sola.
Didì aveva aggrottato le ciglia.
– Che vuol dire?
– Vuol dire… vuol dire che ci sono altre attorno al marchese, ecco. E una
specialmente… una!
Con un gesto molto espressivo Cocò le aveva lasciato immaginare una
straordinaria bellezza.
– Vedova, sai? Su i trent’anni. Cugina, per giunta…
E, con gli occhi socchiusi, s’era baciate le punte delle dita.
Didì aveva avuto uno scatto di sprezzo.
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– E se lo pigli!
Ma subito Cocò:
– Una parola, se lo pigli! Ti pare che il marchese Andrea… (Bel nome, Andrea!
Senti come suona bene: il marchese Andrea… In confidenza però potresti
chiamarlo Nenè, come lo chiama Agata, cioè Titina, sua sorella.) È davvero un
uomo, Nenè, sai? Ti basti sapere che ha avuto la… la come si chiama… la
fermezza di star vent’anni chiuso in casa. Vent’anni, capisci? non si scherza…
dacché tutto il suo patrimonio cadde sotto amministrazione giudiziaria. Figurati i
capelli, Didì mia, come gli sono cresciuti in questi venti anni! Ma se li taglierà.
Puoi esserne sicura, se li taglierà. Ogni mattina, all’alba, esce solitario… ti piace?
solitario e avvolto in un mantello, per una lunga passeggiata fino alla montagna.
A cavallo, sai? La cavalla è piuttosto vecchiotta, bianca; ma lui cavalca
divinamente. Sí, divinamente, come la sorella Titina suona divinamente il
pianoforte. E pensa, oh, pensa che da giovine, fino a venticinque anni, cioè finché
non lo richiamarono a Zúnica per il rovescio finanziario, lui «fece vita», e che
vita, cara mia! fuori, in Continente30, a Roma, a Firenze; corse 31 il mondo; fu a
Parigi, a Londra… Ora pare che da giovanotto abbia amato questa cugina di cui
t’ho parlato, che si chiama Fana Lopes. Credo si fosse anche fidanzato con lei.
Ma, venuto il dissesto, lei non volle piú saperne e sposò un altro. Adesso che egli
ritorna nel primiero32 stato… capisci? Ma è piú facile che il marchese, guarda, per
farle dispetto, sposi un’altra cugina, zitellona questa, una certa Tuzza La Dia, che
credo abbia sospirato sempre in segreto per lui, pregando Iddio. Dati gli umori del
marchese e i suoi capelli lunghi, dopo questi venti anni di clausura, è temibile
anche questa zitellona, cara Didì. Basta – aveva concluso la sera avanti Cocò, –
ora chinati, Didì, e tienti con la punta delle dita l’orlo della veste su le gambe.
Stordita da quel lungo discorso, Didì s’era chinata, domandando:
– Perché?
E Cocò:
– Te le saluto. Quelle ormai non si vedranno piú!
Gliele aveva guardate e le aveva salutate con ambo le mani; poi, sospirando,
aveva soggiunto:
– Rorò! Ricordi Rorò Campi, la tua amichetta? Ricordi che salutai le gambe
anche a lei, l’ultima volta che portò le vesti corte? Credevo di non dovergliele piú
rivedere. Eppure gliele rividi!
Didì s’era fatta pallida pallida e seria.
– Che dici?
– Ah, sai, morta! – s’era affrettato a risponderle Cocò. – Morta, te lo giuro, gliele
rividi, povera Rorò! Lasciarono la cassa mortuaria aperta, quando la portarono in
chiesa, a San Domenico. La mattina io ero là, in chiesa. Vidi la bara, tra i ceri, e mi
accostai. C’erano attorno alcune donne del popolo, che ammiravano il ricco abito da
sposa di cui il marito aveva voluto che fosse parata 33, da morta. A un certo punto,
una di quelle donnette sollevò un lembo della veste per osservare il merletto della
sottana, e io cosí rividi le gambe della povera Rorò.
Tutta quella notte Didì s’era agitata sul letto senza poter dormire.
Già, prima d’andare a letto, aveva voluto provarsi ancora una volta la veste
lunga da viaggio, davanti allo specchio dell’armadio. Dopo il gesto espressivo,
con cui Cocò aveva descritto la bellezza di colei… come si chiamava? Fana…
Fana Lopes… – si era veduta, lí nello specchio, troppo piccola, magrolina,
miserina… Poi s’era tirata su la veste davanti per rivedersi quel tanto, pochino
pochino, delle gambe che aveva finora mostrato, e subito aveva pensato alle
gambe di Rorò Campi, morta.
A letto, aveva voluto riguardarsele sotto le coperte: impalate, stecchite;
immaginandosi morta anche lei, dentro una bara, con l’abito da sposa, dopo il
matrimonio col marchese Andrea dai capelli lunghi…
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Che razza di discorsi, quel Cocò!
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Ora, in treno, Didì guardava il fratello sdrajato sul sedile dirimpetto e si sentiva
prendere a mano a mano da una gran pena per lui.
In pochi anni aveva veduto sciuparsi la freschezza del bel volto fraterno,
alterarsi l’aria di esso, l’espressione degli occhi e della bocca. Le pareva ch’egli
fosse come arso, dentro. E quest’arsura interna, di trista 34 febbre, gliela scorgeva
negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine 35 della pelle,
segnatamente36 sotto gli occhi. Sapeva ch’egli rincasava tardissimo ogni notte;
che giocava; sospettava altri vizi in lui, piú brutti, dalla violenza dei rimproveri
che il padre gli faceva spesso, di nascosto a lei, chiusi l’uno e l’altro nello
scrittojo. E che strana impressione, di dolore misto a ribrezzo, provava da alcun
tempo nel vederlo da quella trista vita impenetrabile accostarsi a lei; al pensiero
che egli, pur sempre per lei buon fratellino affettuoso, fosse poi, fuori di casa,
peggio che un discolo, un vizioso, se non proprio un farabutto, come tante volte
nell’ira gli aveva gridato in faccia il padre. Perché, perché non aveva egli per gli
altri lo stesso cuore che per lei? Se era cosí buono per lei, senza mentire, come
poteva poi, nello stesso tempo, essere cosí tristo per gli altri?
Ma forse la tristezza era fuori: fuori, là, nel mondo, ove a una certa età,
lasciati i sereni, ingenui affetti della famiglia, si entrava coi calzoni lunghi gli
uomini, con le vesti lunghe le donne. E doveva essere una laida 37 tristezza, se
nessuno osava parlarne, se non sottovoce e con furbeschi ammiccamenti, che
indispettivano chi – come lei – non riusciva a capirci nulla; doveva essere una
tristezza divoratrice, se in sí poco tempo suo fratello, già cosí fresco e candido,
s’era ridotto a quel modo; se Rorò Campi, la sua amicuccia, dopo un anno
appena, ne era morta…
Didì si sentí pesare sui piedini, fino al giorno avanti liberi e scoperti, la veste
lunga, e ne provò un fastidio smanioso: si sentí oppressa da una angoscia
soffocante, e volse lo sguardo dal fratello al padre, che sedeva all’altro angolo
della vettura, intento a leggere alcune carte d’amministrazione, tratte da una
borsetta di cuojo aperta su le ginocchia.
Entro quella borsetta, foderata di stoffa rossa, spiccava lucido il turacciolo
smerigliato di una fiala. Didì vi fissò gli occhi e pensò che il padre era, da anni,
sotto la minaccia continua d’una morte improvvisa, potendo da un istante all’altro
essere colto da un accesso del suo male cardiaco, per cui portava sempre con sé
quella fiala.
Se d’un tratto egli fosse venuto a mancarle… Oh Dio, no, perché pensare a
questo? Egli, pur con quella fiala lí davanti, non ci pensava. Leggeva le sue carte
d’amministrazione e, di tratto in tratto, si aggiustava le lenti insellate 38 su la punta
del naso; poi, ecco, si passava la mano grassoccia, bianca e pelosa, sul capo calvo,
lucidissimo; oppure staccava gli occhi dalla lettura e li fissava nel vuoto,
restringendo un po’ le grosse palpebre rimborsate. Gli occhi ceruli, ovati, gli
s’accendevano allora di un’acuta vivezza maliziosa, in contrasto con la floscia
stanchezza della faccia carnuta e porosa, da cui schizzavano, sotto il naso,
gl’ispidi e corti baffetti rossastri, già un po’ grigi, a cespugli.
Da un pezzo, cioè dalla morte della madre, avvenuta tre anni addietro, Didì
aveva l’impressione che il padre si fosse come allontanato da lei, anzi staccato
cosí, che lei, ecco, poteva osservarlo come un estraneo. E non il padre soltanto:
anche Cocò. Le pareva che fosse rimasta lei sola a vivere ancora della vita della
casa, o piuttosto a sentire il vuoto di essa, dopo la scomparsa di colei che la
riempiva tutta e teneva tutti uniti.
Il padre, il fratello s’erano messi a vivere per conto loro, fuori di casa, certo; e
quegli atti della vita, che seguitavano a compiere lí insieme con lei, erano quasi
per apparenza, senza piú quella cara, antica intimità, da cui spira quell’alito 39
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familiare, che sostiene, consola e rassicura.
Tuttora Didì ne sentiva un desiderio angoscioso, che la faceva piangere
insaziabilmente, inginocchiata innanzi a una antica cassapanca, ov’erano
conservate le vesti della madre.
L’alito della famiglia era racchiuso là, in quella cassapanca antica, di noce,
lunga e stretta come una bara; e di là, dalle vesti della mamma, esalava, a
inebriarla amaramente coi ricordi dell’infanzia felice.
Tutta la vita s’era come diradata e fatta vana, con la scomparsa di lei; tutte le
cose pareva avessero perduto il loro corpo e fossero diventate ombre. E che
sarebbe avvenuto domani? Avrebbe ella sempre sentito quel vuoto, quella smania
di un’attesa ignota, di qualche cosa che dovesse venire a colmarglielo, quel vuoto,
e a ridarle la fiducia, la sicurezza, il riposo?
Le giornate eran passate per Didì come nuvole davanti alla luna.
Quante sere, senz’accendere il lume nella camera silenziosa, non se n’era stata
dietro le alte invetriate40 della finestra a guardar le nuvole bianche e cineree 41 che
avviluppavano42 la luna! E pareva che corresse la luna, per liberarsi da quei
viluppi. E lei era rimasta a lungo, lí nell’ombra, con gli occhi intenti e senza
sguardo, a fantasticare; e spesso gli occhi, senza che lei lo volesse, le si erano
riempiti di lagrime.
Non voleva esser triste, no; voleva anzi esser lieta, àlacre, vispa. Ma nella
solitudine, in quel vuoto, questo desiderio non trovava da sfogarsi altrimenti che
in veri impeti di follia, che sbigottivano la povera donna Bebé.
Senza piú guida, senza piú nulla di consistente attorno, non sapeva che cosa
dovesse fare nella vita, qual via prendere. Un giorno avrebbe voluto essere in un
modo, il giorno appresso in un altro. Aveva anche sognato tutta una notte, di
ritorno dal teatro, di farsi ballerina, sí, e suora di carità la mattina dopo,
quand’erano venute per la questua 43 le monacelle44 del Boccone del povero. E un
po’ voleva chiudersi tutta in se stessa e andar vagando per il mondo assorta nella
scienza teosofica45, come Frau Wenzel, la sua maestra di tedesco e di pianoforte;
un po’ voleva dedicarsi tutta all’arte, alla pittura. Ma no, no: alla pittura
veramente, no, piú: le faceva orrore, ormai, la pittura, come se avesse preso corpo
in quell’imbecille di Carlino Volpi, figlio del pittore Volpi, suo maestro, perché
un giorno Carlino Volpi, venuto invece del padre ammalato, a darle lezione…
Com’era stato?… Lei, a un certo punto, gli aveva domandato:
– Vermiglione o carminio46?
E lui, muso di cane:
– Signorina, carminio... cosí!
E l’aveva baciata in bocca.
Via, da quel giorno e per sempre, tavolozza, pennelli e cavalletto! Il cavalletto
glielo aveva rovesciato addosso e, non contenta, gli aveva anche scagliato in
faccia il fascio dei pennelli, e lo aveva cacciato via, senza neanche dargli il tempo
di lavarsi la grinta47 impudente, tutta pinticchiata48 di verde, di giallo, di rosso.
Era alla discrezione49 del primo venuto, ecco… Non c’era piú nessuno, in casa,
che la proteggesse. Un mascalzone, cosí, poteva entrarle in casa e permettersi,
come niente, di baciarla in bocca. Che schifo le era rimasto, di quel bacio! S’era
stropicciate fino a sangue le labbra; e ancora a pensarci, istintivamente, si portava
una mano alla bocca.
Ma aveva una bocca, veramente?… Non se la sentiva! Ecco: si stringeva forte
forte, con due dita, il labbro, e non se lo sentiva. E cosí, di tutto il corpo. Non se
lo sentiva. Forse perché era sempre assente da se stessa, lontana?… Tutto era
sospeso, fluido e irrequieto dentro di lei.
E le avevano messo quella veste lunga, ora cosí… su un corpo, che lei non si
sentiva. Assai piú del suo corpo pesava quella veste! Si figuravano che ci fosse
qualcuna, una donna, sotto quella veste lunga, e invece no; invece lei, tutt’al piú,
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non poteva sentirvi altro, dentro, che una bambina; sí, ancora, di nascosto a tutti,
la bambina ch’era stata, quando tutto ancora intorno aveva per lei una realtà, la
realtà della sua dolce infanzia, la realtà sicura che sua madre dava alle cose col
suo alito e col suo amore. Il corpo di quella bimba, sí, viveva e si nutriva e
cresceva sotto le carezze e le cure della mamma. Morta la mamma, lei aveva
cominciato a non sentire piú neanche il suo corpo, quasi che anch’esso si fosse
diradato, come tutt’intorno la vita della famiglia, la realtà che lei non riusciva piú
a toccare in nulla.
Ora, questo viaggio…
Guardando di nuovo il padre e il fratello, Didì provò dentro, a un tratto, una
profonda, violenta repulsione.
Si erano addormentati entrambi in penosi atteggiamenti. Ridondava al padre da
un lato, premuta dal colletto, la flaccida giogaja 50 sotto il mento. E aveva la fronte
imperlata di sudore. E nel trarre il respiro, gli sibilava un po’ il naso.
Il treno, in salita, andava lentissimamente, quasi ansimando, per terre desolate,
senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro intenso e cupo del
cielo. Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino della vettura; solo, di
tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, arido anch’esso, coi quattro
fili che s’avvallavano appena.
Dove la conducevano quei due, che anche lí la lasciavano cosí sola? A
un’impresa vergognosa. E dormivano! Sí, perché, forse, era tutta cosí, e non era
altro, la vita. Essi, che già c’erano entrati, lo sapevano; c’erano ormai avvezzi e,
andando, lasciandosi portare dal treno, potevano dormire… Le avevano fatto
indossare quella veste lunga per trascinarla lí, a quella laida impresa, che non
faceva piú loro alcuna impressione. Giusto lí la trascinavano, a Zúnica, ch’era il
paese di sogno della sua infanzia felice! E perché ne morisse dopo un anno, come
la sua amichetta Rorò Campi?
L’ignota attesa, l’irrequietezza del suo spirito, dove, in che si sarebbero
fermate? In una cittaduzza morta, in un fosco palazzo antico, accanto a un vecchio
marito dai capelli lunghi… E forse le sarebbe toccato di sostituire la cognata nelle
cure di quelle due vecchie ottuagenarie, seppure il padre fosse riuscito nella sua
insidia.
Fissando gli occhi nel vuoto, Didì vide le stanze di quel fosco palazzo. Non
c’era già stata una volta? Sí, in sogno, una volta, per restarvi per sempre… Una
volta? Quando? Ma ora, ecco… e già da tanto tempo, vi era, e per starvi per
sempre, soffocata nella vacuità 51 d’un tempo fatto di minuti eterni, tentato da un
ronzio perpetuo, vicino, lontano, di mosche sonnolente nel sole che dai vetri
pinticchiati delle finestre sbadigliava sulle nude pareti gialle di vecchiaia, o si
stampava polveroso sul pavimento di logori mattoni di terracotta.
Oh Dio, e non poter fuggire… non poter fuggire… Legata com’era, qua, dal
sonno di quei due, dalla lentezza enorme di quel treno, uguale alla lentezza del
tempo là, nell’antico palazzo, dove non si poteva far altro che dormire, come
dormivano quei due…
Provò a un tratto in quel fantasticare che assumeva nel suo spirito una realtà
massiccia, ponderosa, infrangibile, un senso di vuoto cosí arido, una cosí
soffocante e atroce afa della vita, che istintivamente, proprio senza volerlo, cauta,
allungò una mano alla borsetta di cuojo, che il padre aveva posato, aperta, sul
sedile. Il turacciolo smerigliato della fiala aveva già attratto con la sua iridescenza
lo sguardo di lei.
Il padre, il fratello seguitavano a dormire. E Didì stette un pezzo a esaminare la
fiala, che luceva52 col veleno roseo. Poi, quasi senza badare a quello che faceva, la
sturò pian piano e lentamente l’accostò alle labbra, tenendo fissi gli occhi ai due
che dormivano. E vide, mentre beveva, che il padre alzava una mano, nel sonno,
per scacciare una mosca, che gli scorreva su la fronte, lieve.
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A un tratto, la mano che reggeva la fiala le cascò in grembo, pesantemente.
Come se gli orecchi le si fossero all’improvviso sturati, avvertí enorme,
fragoroso, intronante il rumore del treno, cosí forte che temette dovesse soffocare
il grido che le usciva dalla gola e gliela lacerava… No… ecco, il padre, il fratello
balzavano dal sonno… le erano sopra… Come aggrapparsi piú a loro?
Didì stese le braccia; ma non prese, non vide, non udí piú nulla.
Tre ore dopo, arrivò, piccola morta con quella sua veste lunga, a Zúnica, al paese
di sogno della sua infanzia felice.
1. celse more: le grandi more del gelso.
2. ziretti di terracotta: piccoli vasi panciuti di terracotta.
3. pampini: foglie di vite.
4. lumÍe: frutti simili ai limoni.
5. olivi saraceni: alberi dal tronco molto grande e dalla chioma ampia risalenti alla dominazione araba in Sicilia. L’olivo è simbolo di pace.
6. zagare: fiori d’arancio.
7. lividi tufi… zolfare: pietre bruciate dal sole nelle miniere di zolfo.
8. scabre: ruvide.
9. feudo: grande possedimento terriero.
10. Bagheria: paese nei pressi di Palermo.
11. Una damina proprio per la quale: una vera signorina.
12. ardito: sicuro.
13. frignare: piagnucolare.
14. amministratore giudiziario: amministratore scelto dalla legge.
15. maneggi e brighe: intrighi e discussioni.
16. ricognizione: sopralluogo.
17. ottuagenarie: ottantenni.
18. schive: impacciate.
19. di bragia: color rosso fuoco.
20. profferiva: presentava.
21. le pugna: i pugni.
22. la Virtú: Agata, nelle parole di Cocò, diventa la personificazione di tutte le virtù.
23. melenso melenso: imitando gli atteggiamenti eleganti degli aristocratici.
24. col collo torto: con la testa piegata.
25. bocchino appuntito: stretto cannello nel quale viene inserita la sigaretta oppure il sigaro.
26. aveva sbruffato una risata: aveva riso fragorosamente.
27. rabbonirla: calmarla.
28. muffir: invecchiare.
29. seguitato: continuato.
30. Continente: espressione con cui i siciliani indicano la penisola dell’Italia.
31. corse: attraversò viaggiando.
32. primiero: precedente.
33. parata: rivestita.
34. trista: cattiva.
35. rossedine: rossore.
36. segnatamente: soprattutto.
37. laida: turpe.
38. insellate: collocate.
39. alito: soffio vitale.
40. invetriate: vetri.
41. cineree: color cenere, grigie.
42. avviluppavano: avvolgevano.
43. questua: richiesta di beneficenza.
44. monacelle: suore.
45. scienza teosofica: dottrina mistico-religiosa del XIX secolo relativa alla conoscenza del divino (fonde elementi cristiani, orientali e filosofici).
46. vermiglione o carminio: tonalità di rosso vivo.
47. grinta: faccia tosta.
48. pinticchiata: colorata.
49. alla discrezione: in balia.
50. giogaja: doppio mento.
51. vacuità: inutilità.
52. luceva: brillava.
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IL PRIMO NOVECENTO
L’autore e l’opera
Umberto Saba
Analisi del testo – Ed amai nuovamente
• Leggi con molta attenzione il sonetto Ed amai nuovamente (D1), le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite sulla produzione letteraria di Saba.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
Scrivi la parafrasi della lirica, avendo cura di sostituire il normale ordine sintattico nei versi in cui compaiono delle
inversioni.
2. Analisi del testo
2.1 Completa la mappa, individuando in ciascuna strofa elementi e temi a cui il poeta associa la personalità di Lina.
1° Strofa
la figlia Linuccia
4° strofa
Lina
…………………………………………..
2° strofa
…………………………………………..
3° strofa
………………………………………………………………..
2.2 La descrizione di Lina è tutta interiore. Facendo riferimento al testo, individua le caratteristiche psicologiche della
donna e spiega per quale motivo, secondo te, è completamente assente la descrizione fisica.
2.3 Ricerca nei versi sostantivi e forme verbali che ricorrono più di una volta e precisa quale relazione si instaura tra l’io
lirico e la figura della moglie.
2.4 La lirica presenta numerosi enjambement nelle prime tre strofe. Individuali e spiega quale funzione poeticoespressiva assumono. Per esempio, nei versi 1-2 (fu di Lina / dal rosso scialle) si concentra l’attenzione sul rosso
scialle (simbolo di vitalità e amore).
3.
Interpretazione complessiva e approfondimenti
Ti proponiamo alcuni versi che danno spazio alle figure amate da Saba: la moglie, la figlia. Individua le analogie fra
queste immagini di Lina e Linuccia con quelle tratteggiate dal poeta in Ed amai nuovamente. Poi approfondisci
l’argomento in relazione alle tematiche del Canzoniere.
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A mia moglie (T50)
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Ritratto della mia bambina
[…]
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
[…]
72. non hai quest’arte: non hai questa capacità, abitudine.
75. sentiva ed era: sentivo.
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La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi color del cielo
e dell’estiva vesticciola: «Babbo
– mi disse – voglio uscire oggi con te».
Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
[…]
5. parvenze: forme e fenomeni naturali, aspetti delle cose.
7. assomigliare: paragonare.
Dossier
D1
Umberto Saba
Il Canzoniere
Ed amai nuovamente
Einaudi, Torino 1978
Ed amai nuovamente di Umberto Saba (1883-1957) è un sonetto in cui l’io lirico si rivolge alla donna amata. Il poeta
dedica un’accorata dichiarazione di amore imperituro alla moglie Lina, simbolo di forza vitale e generosa passione: egli,
pur riconoscendo turbamenti e crisi del rapporto coniugale, afferma la fedeltà del proprio animo e riconferma con forza la
volontà di continuare a scegliere la donna cui è legato da anni.
Questa lirica è un omaggio d’amore del poeta alla moglie Lina. Le strofe del sonetto rimano secondo lo schema
alternato nelle quartine (ABAB, ABAB) e ripetuto nelle terzine (CDE, CDE).
Ed amai nuovamente; e fu di Lina
dal rosso scialle il più della mia vita.
Quella che cresce accanto a noi, bambina
dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.
5
10
Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di più ardita
sincerità; né dalla sua fu fin’
ad oggi mai l’anima mia partita.
2. il più: la maggior parte.
4. è dal suo grembo uscita: è stata partorita da lei.
6-7. ardita sincerità: coraggiosa sincerità. I versi alludono alla sezione del
Canzoniere Trieste e una donna, dedicata, sullo sfondo della sua città,
a Lina in un momento di forte crisi coniugale.
8. partita: allontanata.
10. torrei: prenderei, comincerei.
12. l’altezze: l’intensità, la profondità.
13. scaltra: furba, calcolatrice.
Ogni altro conobbi umano amore;
ma per Lina torrei di nuovo un’altra
vita, di nuovo vorrei cominciare.
Per l’altezze l’amai del suo dolore;
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,
e tutto seppe, e non se stessa, amare.
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ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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CLASSE ……………… DATA ………………………………
IL SECONDO OTTOCENTO
L’autore e l’opera
Gabriele D’Annunzio
Analisi del testo – L’eroe
• Leggi il testo L’eroe (D1), le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite sulla produzione di D’Annunzio.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
Dopo una o più letture dell’intero testo, riassumi il contenuto informativo della novella in non più di 120 parole.
2. Analisi del testo
2.1 Individua il tema della novella e spiega come è vissuto il sentimento religioso nel corso della festa popolare.
2.2 Sofferma la tua attenzione sul protagonista, spiega quali sono i tratti rilevanti del suo temperamento e commentali,
servendoti di opportune citazioni dal testo.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
3.1 Esponi il significato complessivo della novella e le caratteristiche della poetica dannunziana.
3.2 Rifacendoti alle tendenze coeve che si manifestavano nella letteratura italiana, precisa se la scelta stilistica di
D’Annunzio prevede una fusione tra lingua letteraria e dialetto abruzzese.
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ATTIVITÀ DI POTENZIAMENTO
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Dossier
D1
Gabriele D’Annunzio
Novelle della Pescara
L’eroe
a cura di Istituto Nazionale per l’edizione di tutte le opere di D’Annunzio, Mondadori, Milano 1930
Il brano, tratto dalla raccolta Novelle della Pescara (1902), racconta di una festa popolare che in
settembre si celebrava a Mascàlico, in Abruzzo, in onore di San Gonselvo, patrono del paese.
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Già i grandi stendardi di San Gonselvo erano usciti su la piazza ed oscillavano
nell’aria pesantemente. Li reggevano in pugno uomini di statura erculea, rossi in
volto e con il collo gonfio di forza, che facevano giuochi.
Dopo la vittoria su i Radusani1, la gente di Mascàlico celebrava la festa di
settembre con magnificenza nuova.
Un meraviglioso ardore di religione teneva gli animi.
Tutto il paese sacrificava la recente ricchezza del fromento 2 a gloria del Patrono.
Su le vie, da una finestra all’altra, le donne avevano tese 3 le coperte nuziali. Gli
uomini avevano inghirlandato di verzura le porte e infiorato le soglie. Come
soffiava il vento, per le vie era un ondeggiamento immenso e abbarbagliante di cui
la turba4 si inebriava.
Dalla chiesa la processione seguitava a svolgersi e ad allungarsi su la piazza.
Dinanzi all’altare, dove San Pantaleone era caduto, otto uomini, i privilegiati,
aspettavano il momento di sollevare la statua di San Gonselvo; e si chiamavano:
Giovanni Curo, l’Ummàlido, Mattalà, Vincenzio Guanno, Rocco di Céuzo,
Benedetto Galante, Biagio di Clisci, Giovanni Senzapaura. Essi stavano in silenzio,
compresi della dignità del loro ufficio, con la testa un po’ confusa. Parevano assai
forti; avevano l’occhio ardente dei fanatici; portavano agli orecchi, come le
femmine, due cerchi d’oro. Di tanto in tanto si toccavano i bicipiti e i polsi, come
per misurarne la vigoria; o tra loro si sorridevano fuggevolmente.
La statua del Patrono era enorme, di bronzo vuoto, nerastra, con la testa e con le
mani di argento, pesantissima.
Disse Mattalà:
– Avande5!
Intorno, il popolo tumultuava per vedere. Le vetrate della chiesa
romoreggiavano6 ad ogni colpo di vento. La navata fumigava 7 di incenso e di
belzuino8. I suoni degli stromenti 9 giungevano ora sì ora no. Una specie di febbre
religiosa prendeva gli otto uomini, in mezzo a quella turbolenza.
Essi tesero le braccia, pronti.
Disse Mattalà:
– Una!… Dua!… Trea10!…
Concordemente, gli uomini fecero lo sforzo per sollevare la statua di su l’altare.
Ma il peso era soverchiante: la statua barcollò a sinistra. Gli uomini non avevano
potuto ancora bene accomodare le mani intorno alla base per prendere. Si
curvavano tentando di resistere.
Biagio di Clisci e Giovanni Curo, meno abili, lasciarono andare. La statua piegò
tutta da una parte, con violenza.
L’Ummàlido gittò un grido.
– Abbada! Abbada!11 – vociferavano intorno, vedendo pericolare il Patrono.
Dalla piazza veniva un frastuono grandissimo che copriva le voci.
L’Ummàlido era caduto in ginocchio; e la sua mano destra era rimasta sotto il
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bronzo. Così, in ginocchio, egli teneva gli occhi fissi alla mano che non poteva
liberare, due occhi larghi, pieni di terrore e di dolore; ma la sua bocca torta non
gridava più. Alcune gocce di sangue rigavano l’altare.
I compagni, tutt’insieme, fecero forza un’altra volta per sollevare il peso.
L’operazione era difficile. L’Ummàlido, nello spasimo, torceva la bocca. Le
femmine spettatrici rabbrividivano.
Finalmente la statua fu sollevata; e l’Ummàlido ritrasse la mano schiacciata e
sanguinolenta che non aveva più forma.
– Va a la casa, mo 12! Va a la casa! – gli gridava la gente, sospingendolo verso la
porta della chiesa.
Una femmina si tolse il grembiule e gliel’offerse per fasciatura. L’Ummàlido
rifiutò. Egli non parlava; guardava un gruppo d’uomini che gesticolavano in torno
alla statua e contendevano.
– Tocca a me!
– No, no! Tocca a me!
– No! A me!
Cicco Ponno, Mattia Scafarola e Tommaso di Clisci gareggiavano per sostituire
nell’ottavo posto di portatore l’Ummàlido.
Costui si avvicinò ai contendenti. Teneva la mano rotta lungo il fianco, e con
l’altra mano si apriva il passo.
Disse semplicemente:
– Lu poste è lu mi’13.
E porse la spalla sinistra a sorreggere il Patrono. Egli soffocava il dolore
stringendo i denti, con una volontà feroce.
Mattalà gli chiese:
– Tu che vuo’ fa’?
Egli rispose:
– Quelle che vo’ Sante Gunzelve14.
E, insieme con gli altri, si mise a camminare.
La gente lo guardava passare, stupefatta. Di tanto in tanto, qualcuno, vedendo la
ferita che dava sangue e diventava nericcia, gli chiedeva al passaggio:
– L’Ummà, che tieni?
Egli non rispondeva. Andava innanzi gravemente, misurando il passo al ritmo
delle musiche, con la mente un po’ alterata, sotto le vaste coperte che sbattevano al
vento, tra la calca che cresceva.
All’angolo d’una via cadde, tutt’a un tratto. Il Santo si fermò un istante e
barcollò, in mezzo a uno scompiglio momentaneo: poi si rimise in cammino.
Mattia Scafarola subentrò nel posto vuoto. Due parenti raccolsero il tramortito e lo
portarono nella casa più vicina.
Anna di Céuzo, ch’era una vecchia femmina esperta nel medicare le ferite, guardò
il membro informe e sanguinante; e poi scosse la testa. – Che ce pozze fa’?15
Ella non poteva far niente con l’arte sua.
L’Ummàlido, che aveva ripreso gli spiriti, non aprì bocca. Seduto, contemplava
la sua ferita, tranquillamente. La mano pendeva, con le ossa stritolate, oramai
perduta.
Due o tre vecchi agricoltori vennero a vederla. Ciascuno, con un gesto o con una
parola, espresse lo stesso pensiero.
L’Ummàlido chiese:
– Chi ha purtate lu Sante?
Gli risposero:
– Mattia Scafarola.
Di nuovo, chiese:
– Mo che si fa?
Risposero:
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– Lu vespre ’n mùseche16.
Gli agricoltori salutarono. Andarono al vespro. Un grande scampanìo veniva
dalla chiesa madre.
Uno dei parenti mise accanto al ferito un secchio d’acqua fredda, dicendo: –
Ogne tante mitte la mana a qua. Nu mo veniamo. Jame a sentì lu vespre 17.
L’Ummàlido rimase solo. Lo scampanìo cresceva, mutando metro. La luce del
giorno cominciava a diminuire. Un ulivo, investito dal vento, batteva i rami contro
la finestra bassa.
L’Ummàlido, seduto, si mise a bagnare la mano, a poco a poco. Come il sangue
e i grumi cadevano, il guasto18 appariva maggiore.
L’Ummàlido pensò:
– È tutt’inutile. È pirduta19. Sante Gunzelve, a te le offre.
Prese un coltello, e uscì. Le vie erano deserte. Tutti i devoti erano nella chiesa.
Sopra le case correvano le nuvole violacee del tramonto di settembre, come mandre
fuggiasche.
Nella chiesa la moltitudine agglomerata cantava quasi in coro, al suono degli
stromenti, per intervalli misurati. Un calore intenso emanava dai corpi umani e dai
ceri accesi. La testa argentea di San Gonselvo scintillava dall’alto come un faro.
L’Ummàlido entrò. Fra la stupefazione di tutti, camminò sino all’altare. Egli
disse, con voce chiara, tenendo nella sinistra il coltello:
– Sante Gunzelve, a te le offre.
E si mise a tagliare in torno al polso destro, pianamente 20, in cospetto21 del
popolo che inorridiva. La mano informe si distaccava a poco a poco, tra il sangue.
Penzolò un istante trattenuta dagli ultimi filamenti. Poi cadde nel bacino di rame
che raccoglieva le elargizioni di pecunia 22, ai piedi del Patrono.
L’Ummàlido allora sollevò il moncherino sanguinoso; e ripeté con voce chiara:
– Sante Gunzelve, a te le offre.
1. Dopo la vittoria su i Radusani: nella novella Gli idolatri, si racconta che gli abitanti di Radusa, devoti a san Pantaleone, avevano profanato la
statua di san Gonsalvo, patrono della cittadina rivale di Mascàlico, per sostituirla con la propria statua di san Pantaleone. Ma gli abitanti di
Mascàlico avevano validamente difeso il proprio patrono.
2. fromento: frumento; è grafia arcaica.
3. avevano tese: avevano steso.
4. turba: folla; è termine letterario.
5. Avande: avanti; è termine dialettale.
6. romoreggiavano: rumoreggiavano; è grafia arcaica.
7. fumigava: esalava fumo; è un latinismo.
8. belzuino: benzoino, è una resina profumata; è termine ricercato e arcaico.
9. stromenti: strumenti; è grafia arcaica come nella Pioggia nel pineto (T22).
10. Una… Trea: uno, due, tre; termini dialettali.
11. Abbada! Abbada!: bada, stai attento; termini dialettali.
12. mo: subito.
13. Lu poste… mi’: il posto è il mio.
14. Quelle che… Gunzelve: quello che vuole san Gonsalvo.
15. Che… fa’?: che cosa ci posso fare?
16. Lu vespre ’n mùseche: il vespro in musica, cioè nella liturgia cattolica la celebrazione vespertina con l’accompagnamento musicale.
17. Ogne… vespre: ogni tanto metti la mano qua. Noi torniamo presto. Andiamo (Jame) a sentire la celebrazione vespertina.
18. il guasto: la ferita.
19. È pirduta: è persa (la mano).
20. pianamente: adagio.
21. in cospetto: sotto gli occhi.
22. le elargizioni di pecunia: le offerte di denaro.
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IL SECONDO OTTOCENTO
L’autore e l’opera
Giovanni Pascoli
Analisi del testo – Nella nebbia
• Leggi la poesia Nella nebbia (D1), le note e le attività.
• Compila le singole risposte alle attività che ti orientano nella comprensione, nell’analisi, nell’interpretazione e nella
contestualizzazione d’insieme (Traccia di lavoro).
• Organizza le risposte in un testo omogeneo di relazioni logiche, grammaticali e sintattiche.
• Svolgi la tua trattazione con riferimenti anche alle conoscenze acquisite sulla produzione di Pascoli.
• Non superare le 4 colonne di foglio protocollo, se scrivi a mano, e 2000 caratteri in corpo grafico 12, spazi esclusi, se
digiti il testo al computer.
TRACCIA DI LAVORO
1. Comprensione del testo
1.1 Rintraccia le presenze oggettuali, animali e umane, che caratterizzano il paesaggio pascoliano pur nella sua
indeterminatezza.
1.2 Individua il tema della lirica.
2.
2.1
2.2
2.3
2.4
Analisi del testo
L’io lirico è presente nella scena rappresentata?
Riconosci, nelle prime quattro strofe, l’enumerazione per polisindeto e chiarisci l’effetto che produce.
Spiega il significato dell’espressione uccelli spersi per quel mondo vano.
Quale valore simbolico assume la valle sommersa da un mare di nebbia? L’immagine ti sembra corrispondere alla
concezione pascoliana dell’esistenza?
2.5 Dopo aver riletto i vv. 19-20, esplicita il significato allegorico dell’ombra errante. Quale famosa immagine
leopardiana del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia sembra richiamare? Trovano risposta le domande
rivolte a quell’ombra sul mistero della vita?
2.6 Individua e spiega le metafore presenti nel testo.
2.7 Rileva lo schema metrico del componimento.
3.
Interpretazione complessiva e approfondimenti
Riferendoti anche ad altri testi letti e ai dati biografici da te conosciuti, chiarisci la visione che l’autore ha della realtà
evidenziando come questa abbia influenzato la sua poetica.
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Dossier
D1
Giovanni Pascoli
Primi poemetti
Nella nebbia
in Opere, a cura di G. Contini, Mondadori, Milano 1974
La poesia è compresa nella raccolta Primi poemetti (1897): il paesaggio pervaso dalla nebbia che annulla i contorni delle
cose suscita una sensazione di mistero e d’inquietudine.
E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz’onde, senza lidi, unito.
5
E c’era appena, qua e là, lo strano
Vocio di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenziosi eremitaggi.
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15
Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;
eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne. E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
Chiesero i sogni di rovine: – Mai
non giungerà? – Gli scheletri di piante
chiesero: – E tu chi sei, che sempre vai?-
20
io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante
con sopra il capo un largo fascio. Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.
Sentii soltanto gl’inquïeti gridi
d’uccelli spersi, l’uggiolar del cane,
e, per il mar senz’onde e senza lidi,
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le péste né vicine né lontane.
3. senza lidi, unito: la pianura gli appare sconfinata, informe.
4-5. strano vocio: insolito verso.
6. vano: inconsistente.
7. scheletri di faggi: tronchi privi di foglie.
8. sospesi: sembrano non radicati alla terra; rovine: le abitazioni sembrano ruderi che appaiono in sogno.
10. uggiolava: guaiva.
11. péste: passi.
13. né tarde né preste: né lente né veloci.
17. non giungerà: la domanda è riferita al viandante sconosciuto di cui si odono le péste.
21. e più non vidi: è dunque solo un’illusione.
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Potenziamento 3 - Prof.ssa Monica Guido