Introduzione
Conseguita una certa reputazione, a volte gli scrittori si lasciano convincere a pubblicare i loro «pezzi d’occasione» (cioè
giornalistici). L’autore accetta, di malavoglia, con modestia:
Martin Amis ha proposto la sua prima raccolta, The Moronic
Inferno, «con tutta l’umiltà del caso» perché questo genere
di assemblaggi, sempre che siano considerati libri, non godono di
grande rispetto.
Il mio caso, e il mio parere su queste raccolte, è un po’ diverso. Avevo appena cominciato a scrivere per riviste e quotidiani e già speravo di vedere un giorno i miei articoli pubblicati in forma di libro. Se volevo pubblicare un libro del genere era soprattutto perché in pratica non leggo mai quotidiani
e riviste. Vedendo il pezzo di uno scrittore che ammiro su un
giornale, è molto raro che lo legga; ma scorrendo i cataloghi
dei libri in uscita, a colpirmi sono proprio le raccolte di quei
pezzi che ho trascurato nel loro contesto originario. Siccome
preferisco leggere l’altrui giornalismo in forma di libro, non è
stata la semplice vanità a farmi desiderare di vedere anche il
mio presentato nella stessa veste. Quando ho ventilato l’ipotesi con il mio editore in Gran Bretagna, alla fine degli anni
Novanta, lui mi ha chiesto se fra i pezzi ci sarebbe stato un
nesso, se esistesse un modo di spacciare quelle carabattole per
un libro coerente organizzato intorno a un argomento ben preciso. Sarebbe stato possibile, per esempio, stilare un libro di
miei scritti sulla fotografia? O sugli scrittori americani?
Possibile sí, ma dal mio punto di vista niente affatto desiderabile, perché era per l’appunto la varietà indocile dei miei in-
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teressi che smaniavo di veder rappresentata in un volume unico. Volevo che il libro, pubblicato nel 1999 con il titolo AngloEnglish Attitudes, servisse quale prova della pervicacia con cui
la mia carriera (ma dovrei subito aggiungere che scrivere, per
me, è sempre stato un modo di non avere una carriera) ha evitato ogni focalizzazione, specializzazione o continuità fuorché
quelle dettate dal mio desiderio di scrivere a proposito di qualunque cosa mi interessasse in un determinato momento.
Mi è parso che una simile policromia fornisse semmai alla
raccolta una specie di unità o di coerenza. Piú variegati i pezzi,
pensavo, piú era ovvio che andassero visti insieme come opera
di una singola persona, perché l’unica cosa che avevano in comune era che a scriverli era stata appunto quella persona. Se c’era
una cosa di cui andavo fiero nella mia non-carriera letteraria
era aver scritto libri tanto diversi fra loro; riunire una raccolta di articoli sarebbe stata un’ulteriore prova di quanto i miei
interessi fossero disparati. Raccolta che avrebbe anche dimostrato l’inscalfibile fedeltà all’esempio del mio mentore, John
Berger. In Ways of Telling, il noioso libretto che ho scritto su
di lui, sostenevo che la capacità di Berger di scrivere a proposito di argomenti tanto diversi in modi tanto diversi era indice non solo delle sue capacità ma anche della sua riuscita come
scrittore; negli anni è stato proprio quello il genere di successo,
il genere di libertà, che ho cercato di ricavare per me stesso.
Nell’introduzione alla sua raccolta di articoli sugli scrittori e i
pensatori francesi, The Word from Paris, John Sturrock dice che
ai giornalisti letterari farebbe «professionalmente bene avere
un territorio dichiaratamente loro, senza vantare una competenza ad ampio spettro che li autorizza a scrivere di chiunque e
a qualunque proposito». Se Sturrock ha ragione, e ce l’ha quasi
di sicuro, mi considero molto fortunato a essermi sbagliato cosí
clamorosamente per cosí tanto tempo.
Si distingue spesso tra il lavoro che gli scrittori fanno per sé
stessi e le cose che scrivono a pagamento. L’ideale, in questo
scenario, è riuscire a dedicare tutto il tempo alle cose che si
scrivono per sé stessi. Anche qui il mio caso è un po’ diverso.
introduzione
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Quasi tutto il giornalismo lo scrivo tanto per me stesso quanto… per me stesso. Mentre Amis dice di aver scritto i pezzi
del suo Moronic Inferno «con la mano sinistra», adattandoli al
pubblico specifico di non so quale testata glieli avesse commissionati, i brani di questo volume sono tutti scritti con la mano
destra (metaforicamente parlando, essendo io mancino per natura). Vale a dire che ho sempre scritto senza tenere conto del
presunto pubblico di una certa testata. Sono stati l’argomento
e l’umore a dettare sempre la forma e lo stile di questi pezzi,
non le testate alle quali erano destinati. Spesso non erano destinati proprio a nessuno; li ho scritti e li ho messi in giro confidando nella buona sorte, per cosí dire, come fossero racconti,
augurandomi che qualcuno li accettasse.
Se succede qualcosa che mi commuove nel profondo – il
tipo di sensazione che ispirerebbe un poeta – io per istinto la
esprimo e l’analizzo in un saggio. Con i saggi mi sento nel mio
elemento. Sono ciò che piú mi piace leggere e scrivere. Quando
ho finito l’università pensavo che essere uno scrittore significasse scrivere romanzi; altrimenti eri un critico che scriveva
a proposito dei romanzi degli scrittori. Qualche anno dopo,
durante quello che tuttora considero il mio periodo di sviluppo intellettuale piú intenso (anche detto «campare di sussidi
a Brixton») ho scoperto Roland Barthes, Walter Benjamin,
Nietzsche, Raymond Williams e, fondamentale, Berger, e ho
capito che esisteva un altro modo di essere scrittore, al quale potevo permettermi di aspirare. Al pari di Aldous Huxley,
perciò, mi considero «una specie di saggista ingegnoso quanto
basta da cavarsela a scrivere un tipo di narrativa assai limitato». La vita del romanziere di lungo corso, tra l’altro, non mi
ha mai allettato quanto quella costituita dalle forme piú svariate di scrittura, fasi narrative incluse. Cosa potrebbe esserci
di piú bello che scrivere un giorno la recensione di un romanzo o di una mostra e quello dopo partire per Mosca e scrivere
di un volo a bordo di un MiG-29? Detta cosí fa sembrare lo
scriba con la pipa e le toppe di pelle ai gomiti un cimelio o un
fossile di un’epoca letteraria che fu; questo stile free lance,
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invece, rappresenta l’incarnazione contemporanea di un’idea
profondamente tradizionale dell’uomo di Lettere. Sembrerà
immodesto asserire che questo libro lascia intravedere un modo di essere abbastanza rappresentativo dell’uomo di Lettere
di fine-xx-inizio-xxi-secolo?
Avevo vent’anni quando ho letto My First Acquaintance with
Poets di Hazlitt e ho capito subito di voler emulare quell’uomo che aveva bighellonato tutta «la vita leggendo libri, guardando quadri, andando a teatro, ascoltando, pensando, scrivendo quello che piú [gli] piaceva». Cosa potrebbe esserci di
meglio (a condizione, sia chiaro, di sostituire «cinema» a «tea­
tro»)? Parte cruciale di una vita simile sta nel bighellonare,
senza la minima intenzione di entrarci, fuori dall’accademia,
non intralciato da specializzazioni (ovviamente) e dai rigori
del metodo imposto. Sempre piú disinvolto con i ghiribizzi
della mia indole, ho cominciato ad apprezzare il fatto che interessarmi a una certa cosa mi portava a interessarmi moltissimo a un’altra, tanto che, spesso, qualunque cosa mi avesse
totalmente inchiodato poco prima adesso non mi interessava
piú per niente. Si spera che, da una tale staffetta di interessi
destati e abbandonati, nelle pagine che seguono emerga una
specie di scomposta narrazione.
Questo libro è una scelta tratta da due scelte di saggi pubblicate in Gran Bretagna: Anglo-English Attitudes (che contiene pezzi dal 1984 al 1999) e Working the Room (dal 1999
al 2009). Da qui a un decennio, quando sarò sulla sessantina,
mi auguro di avere abbastanza materiale da ricavarne un terzo volume. Il fatto è che ho una nomina a tempo indeterminato per questa carica singolarmente vacante… o dovrei dire
cariche. È un lavoro per la vita; a essere piú precisi, è una vita, e non passa giorno che non mi meravigli del fatto che sia
piú o meno vivibile.
Il mio modo di lavorare è rimasto immutato negli ultimi vent’anni, anche se un aspetto del contesto in cui lavoro ha subito un
cambiamento importante. Negli ultimi dieci mi hanno chiesto di
scrivere l’introduzione a un certo numero di libri, vuoi classici
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letterari ripubblicati vuoi monografie e cataloghi fotografici. Adoro farlo e sono davvero molto grato agli editori che hanno avuto
sentore del mio interesse per Rebecca West, Richard Avedon e
altri e mi hanno dato la possibilità di infilarmi tra le copertine di
un volume condiviso con loro. Mi sembra il piú grande privilegio
da poter offrire a qualsiasi lettore, anche se inficia leggermente
l’idea di essere – come sostengo in un brano che si trova all’interno di questo volume – un imbucato.
Londra, giugno 2010.
geoff dyer
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