Roberto Alonge
Goldoni “Mémoires”: a Parigi si vive meglio
a Paolo Bosisio
I testi, si sa, sono affascinanti perché hanno un segreto, che celano al fondo
della scrittura, a un livello profondo. Talvolta nemmeno l’autore lo conosce. Ma la
missione del critico è portare alla luce quel grumo nascosto.
Quale è il segreto dei Mémoires? Quale è la sua verità autentica, strategica?
Certo, non dobbiamo cercarla alla superficie delle dichiarazioni di Goldoni. Cioè nel
titolo, Mémoires de M. Goldoni, pour servir à l’histoire de sa vie, et à celle de son
théâtre. Un libro per ricostruire il senso della sua riforma teatrale, il senso di una vita.
Troppo giusto, ma anche troppo facile. Soprattutto troppo ideologico. In realtà il suo
teatro finisce nel 1762, quando arriva a Parigi. C’è ancora qualche testo, qualche
eccezione, ma – bene o male – la sua drammaturgia è già tutta lì, compattamente
dispiegata, non oltre la linea di confine del 1762. Perché aspettare più di vent’anni
per spremere il frutto di una impresa già interamente conclusa e conchiusa? Ancora
meno convincente l’istanza di servir à l’histoire de sa vie. La vita di Goldoni non è
interessante, come ammette lui stesso ben due volte nel corso della breve Préface:
“Ma vie n’est pas intéressante” (p. 5)1; “Ce qui m’inquiète et me presse pour le
moment, c’est l’histoire de ma vie. Elle n’est pas intéressante, je le répete” (p. 6). E
dunque?
Dunque deve essere accaduto qualcosa, qualcosa d’altro, fra il 1762 e il 1783
(quando Goldoni comincia a scrivere i Mémoires), che valga a spiegare il significato
di quella operazione di scrittura. Ma cosa è successo? E’ successo la cosa più
semplice del mondo: per più di vent’anni Goldoni ha vissuto a Parigi. E’ l’uovo di
Colombo, come spesso capita. A ben vedere, Goldoni non scrive i Mémoires né per
spiegare la propria vita né per spiegare il proprio teatro. Ha incontrato la modernità –
come direbbe Ciccio De Michelis – e vuole rendere conto di essa2. Goldoni ha
scoperto la metropoli, e ha l’urgenza di raccontarla. Il cuore pulsante dei Mémoires è
nella terza parte, quella dedicata a Parigi. Non è nemmeno un segreto troppo difficile
da individuare e svelare. Basta leggere con intelligenza la Préface, avendo riguardo
agli scarti logici. Appena arrivati al terzo capoverso, leggiamo:
On sera curieux, peut-être, de savoir qui étoit cet homme singulier qui a visé à la réforme du
Théâtre de son pays, qui a mis sur la scene et sous la presse cent cinquante Comédies, soit en vers,
soit en prose, tant de caractere que d’intrigue, et qui a vu, de son vivant, dix-huit éditions de son
Théâtre. On dira sans doute : Cet homme devoit être bien riche ; pourquoi a-t-il quitté sa patrie ?
Hélas ! il faut bien instruire la postérité que Goldoni n’a trouvé qu’en France son repos, sa
tranquillité, son bien-être, et qu’il a achevé sa carriere par une Comédie Françoise, qui, sur le
Théâtre de cette Nation, a eu le bonheur de réussir. (p. 5)
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Qualche passaggio non è perfettamente perspicuo. Perché Goldoni si autodefinisce
ricco? Ricco perché ha molto prodotto, perché ha creato, messo in scena e pubblicato
centocinquanta testi? Sembra sottinteso che il successo porta denaro, ma anche
sottinteso che solo i poveri emigrano, e non i ricchi. Perché dunque Goldoni va
all’estero, pur essendo un personaggio importante, riconosciuto, apprezzato (sebbene
forse non necessariamente ricco)? Si intuisce bene che la composizione dei Mémoires
nasce per rendere conto di una rottura, di un allontanamento, di una fuga, forse anche
di una sconfitta. La vita si riposiziona solo nel nuovo spazio esistenziale di Parigi:
riposo tranquillità e serenità stanno soltano all’interno del vasto perimetro della
metropoli. Lo stesso successo drammaturgico è quello consacrato da una commedia
scritta direttamente in francese, messa in scena –con esito felice – “sur le Théâtre de
cette Nation”. La Comédie Française è un monumento, ben altra cosa rispetto alla
piccola realtà delle italiche compagnie teatrali. C’è un evidente compiacimento di
Goldoni, a sentirsi europeo, integrato nella comunità sovranazionale, anche capace di
esprimersi in una lingua che non è né quella italiana né quella veneziana.
E c’è il gusto di esporre ciò che è percepito come un acquisto, una conquista,
un arricchimento. Il punto di partenza può anche essere il passato, il senso ritrovato
di una riforma teatrale attuata in Italia, in mezzo a tante difficoltà, fra gli anni
Quaranta e gli anni Sessanta, ma il centro dei Mémoires si colloca esplicitamente nel
presente (e nel futuro). Non l’autobiografia ma il réportage giornalistico è la cifra
stilistica dei Mémoires, la sua molla inventiva. Come si evince perfettamente da
questo altro brano della Préface:
Les mœurs des deux Nations, leurs goûts mis en comparaison, tout ce que j’ai vu et tout ce que j’ai
observé, pourroit devenir agréable, et même instructif pour les Amateurs.
Je prends donc la tâche de travailler tant que je pourrai, et je le fais avec un plaisir
inexprimable, pour arriver le plutôt possible à parler de mon cher Paris, qui m’a si bien reçu, qui
m’a si bien amusé et si utilement occupé.
[…]
La troisieme Partie de ces Mémoires contiendra mon émigration en France. Je suis si
enchanté de pouvoir en parler à mon aise, que j’ai été tenté de commencer par-là mon Ouvrage ;
mais il faut de la méthode en tout. (pp. 6-7)
Goldoni confessa la sua tentazione, cominciare dalla fine, parlare di Parigi, dove è
l’interesse vero dell’impegno di scrittura. Ma soprattutto riconosce il piacere di
parlarne à mon aise. Eugenio Levi traduce (malamente) in libertà3; Paola Ranzini
traduce poterne parlare a bell’agio4, ma non è tanto un fatto estetico, non è un
parlare a bell’agio, bensì, a proprio agio. Goldoni vuol dire che, dopo più di
vent’anni, è in condizione di scrivere spontaneamente in francese. I vent’anni e più
che sono trascorsi, sono serviti a questa doppia finalità: ad accumulare esperienza
della metropoli, ma anche a accumulare esperienza di lingua. E’ trasparente la
soddisfazione di Goldoni di poter comunicare in una lingua che non è la sua.
Pubblicare in francese è la riconferma del suo essere diventato cittadino di Francia (e
cittadino d’Europa). E’ un punto di arrivo, di un percorso che è stato faticoso, non
facile. Ricordiamoci la considerazione circa il fatto che, all’inizio, molto gli sfuggiva
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delle conversazioni in società e ancor più a teatro: «Mon oreille ne s’étoit pas encore
familiarisée avec le langage François; je perdois beaucoup dans les sociétés et encore
plus au Théâtre » (III, 5, p. 455).
Ma si legga, in questa prospettiva, anche l’incontro con Rousseau. Il grande
illuminista consiglia a Goldoni di tornarsene a casa sua, in patria, visto che gli attori
della Comédie Italienne sono dei “paresseux” e non accettano il suo modo di
lavorare: “je sais qu’on vous desire, qu’on vous attend…” (III, 16, p. 510). Paolo
Bosisio (autore di una importante Introduzione alla nuova traduzione dei Mémoires
citata precedentemente in nota) potrebbe dire che non è vero, che Goldoni mente per
la gola. Ma è comunque interessante la risposta del nostro, e, più in generale, il
complesso del dialogo :
Monsieur, lui dis-je, en l’interrompant, vous avez raison, j’aurois dû quitter Paris d’après
l’insouciance des Comédiens Italiens; mais d’autres vues m’y ont arrêté. Je viens de composer une
Piece en François… – Vous avez composé une Piece en François, reprend-il, avec un air étonné,
que voulez-vous en faire ? – La donner au Théâtre. – A quel Théâtre ? – A la Comédie Françoise. –
Vous m’avez reproché que je perdois mon tems ; c’est bien vous qui le perdez sans fruit. – Ma
Piece est reçue. – Est-il possible ? […] elle est reçue, peut-être, mais elle ne sera pas jouée, et tant
pis pour vous si on la joue. – Comment pouvez-vous juger une Piece que vous ne connoissez pas ?
– Je connois le goût des Italiens et celui des François, il y a trop de distance de l’un à l’autre ; et
avec votre permission, on ne commence pas à votre âge à écrire et à composer dans une Langue
étrangere. – Vos réflexions sont justes, Monsieur, mais on peut surmonter les difficultés. (III, 16, p.
510)
Goldoni si sarà sicuramente inventato che a Venezia lo desiderano e lo attendono, ma
mentendo dice comunque una verità, la sua verità profonda : “d’autres vues m’y ont
arrêté”. La Ranzini traduce con “altre aspirazioni”. E’ giusto, ma è bene insistere
sulla radice etimologica, che riporta a vedute, mire (e quindi aspirazioni). Goldoni
resta a Parigi, perché Parigi gli consente altre visioni, cioè la visione della
modernità. In ogni caso la prima delle sue aspirazioni è di creare in una lingua che
non è la sua. Si osservi la successione delle frasi: « mais d’autres vues m’y ont arrêté.
Je viens de composer une Piece en François…». Scrivere in francese realizza una
delle altre aspirazioni che hanno trattenuto Goldoni a Parigi, al di là della delusione
per la Comédie Italienne. Ma è l’intero scambio di battute con Rousseau che gira
intorno a questo pernio. Il ginevrino non riesce a immaginare che un italiano possa
offrire un testo in francese degno di essere rappresentato, e tanto più rappresentato
dalla massima istituzione teatrale della Francia. Si noti il lavorio di cesello: “La
donner au Théâtre”, dice Goldoni, intendendo il Teatro per eccellenza, con la
maiuscola, le Théâtre Français, cioè la Comédie Française. A Rousseau non passa
nemmeno per l’anticamera del cervello che possa trattarsi della Comédie Française, e
ribatte “A quel Théâtre?”.
Insomma, è evidente che Goldoni è impegnato in una sfida a sé stesso, tutto
teso a “surmonter les difficultés”. Può anche darsi che abbia ragione Bosisio, che
Goldoni non abbia alternative, e che dunque – anche volendo – non possa tornare in
patria5. Ma il punto è che fa di necessità virtù; trasforma un impedimento in una
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occasione di accrescimento, di superamento di sé. E’ il senso di questa virtù che ci
deve interessare, non i pettegolezzi sulle miserie umane. E’ sempre quando il gioco si
fa duro, che i migliori entrano in campo. Sono le difficoltà oggettive che consentono
di rivelare la forza del carattere, la qualità della tempra umana. Oltre tutto Goldoni è
più lucido e crudele (anche con sé stesso) di quanto si possa sospettare. C’è un
momento, in cui esplode la sua gioia di cittadino francese, ma leggiamo attentamente
quello che dice: “Je partageois la joie publique; j’étois, soit par inclination, soit par
habitude, soit par reconnoissance, j’étois, dis-je, François comme les nationaux” (III,
30, p. 565). E’ come se Goldoni rispondesse in anticipo all’amico Bosisio : certo, che
c’è anche la riconoscenza, per la città che lo ha accolto, fuggiasco da Venezia (se così
vogliamo intendere), ma è solo una parte di una verità più complessa, che implica
anche inclinazione e abitudine.
Ho insistito sul fatto che – per il nostro – Parigi è una visione, immagine della
modernità. Goldoni coglie subito, con lucido intuito, l’essenza della metropoli, che è
ordine di grandezza, quantità: «Paris est un monde. Tout y est en grand; beaucoup de
mal, et beaucoup de bien. Allez aux Spectacles, aux promenades, aux endroits de
plaisirs, tout est plein. Allez aux Eglises, il y a foule par-tout. Dans une ville de huit
cens mille ames, il faut de toute nécessité qu’il y ait plus de bonnes gens et plus de
vicieux que par-tout ailleurs, on n’a qu’à choisir. Le débauché trouvera facilement de
quoi satisfaire ses passions, et l’homme de bien se verra encouragé dans l’exercice de
ses vertus » (III, 3, p. 449). Pare che gli abitanti fossero 550.000 e non 800.000,
glossano i commentatori, ma il discorso non cambia. La quantità si rovescia in
qualità, in polarizzazione degli estremi. Goldoni mantiene sotto controllo
l’articolazione del proprio pensiero, ma è evidente che è affascinato dalla radicalità
della débauche, della trasgressione, del vizio. La metropoli è esperienza dell’eccesso,
in una pienezza e in una oltranza che non sono quelle della provincia. Goldoni
assicura di aver conservato anche a Parigi la sua «maniere de vivre ordinaire, aimant
les plasirs honnêtes», senza lasciarsi «entraîner dans l’inconduite» (III, 3, p. 449), ma
più parla e più si capisce bene quanto sia forte – per lui – la seduzione della
«inconduite», cioè della mala condotta, della dissolutezza. Ogni volta che evoca
Parigi, Goldoni sottolinea la dimensione del rischio, del pericolo, del danger (inteso
in senso morale), spesso anche solo in un inciso, in una piega della frase che quasi
non si percepisce. Come in questo incipit del capitolo 4: «De retour à Paris, je
regardai d’un autre œil cette Ville immense, sa population, ses amusemens et ses
dangers» (III, 4, p. 451).
La metropoli è visione di misure amplissime, gigantesche, colossali. Il giardino
delle Tuileries gli appare «immense», «unique dans l’Univers; je le vois dans toute sa
longueur, et mes yeux ne peuvent pas en mesurer l’étendue» (III, 2, p. 445). E ancora:
En sortant de cet endroit enchanteur, voilà un autre spectacle frappant. Une riviere
majestueuse, des ponts très-commodes et multipliés, des quais très-vastes ; une affluence de
voitures, une foule de monde perpétuelle ; j’étois etourdi par le bruit, fatigué par la course, épuisé
par la chaleur excessive ; j’étois en nage, et je ne m’en appercevois pas. (III, 2, p. 445)
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4
Arrivato a questo punto, Paolo Bosisio si arrabbia, e annota: “I complimenti sperticati
del Goldoni nei confronti di Parigi che pure, a quel tempo, possedeva aspetti tutt’altro
che piacevoli (il fetore, per esempio, e il fango nelle strade), rivelano la volontà del
memorialista che intende manifestare la propria riconoscenza nei confronti della città
che lo ha ospitato per un lunghissimo periodo della sua vita”6. Mi sembra un po’
eccessivo. Anche oggi, a Parigi, financo nelle raffinate case borghesi, può capitare di
trovare delle petites souris che non si trovano a Torino o a Milano, nemmeno in
abitazioni proletarie (si pensi alla sequenza di Quell’oscuro oggetto del desiderio di
Buñuel, quando il cameriere in guanti bianchi esibisce l’animaletto pizzicato nella
trappola per topi). Sono gli inconvenienti delle metropoli. Bisogna accettare di pagare
dei prezzi. Goldoni è sudato perché gira la città a piedi, e non in carrozza (dialogo
con l’amico ospite: “Je ne verrai rien dans un fiacre. Sortons à pied. – Mais c’est loin.
– N’importe! – Il fait chaud. – Patience », III, 2, p. 444). Il bicchiere è sempre mezzo
pieno o mezzo vuoto. Goldoni lo vede mezzo pieno, ma è il modo giusto di
rapportarsi alle cose, il solo per apprezzare la bontà del vino contenuto nel bicchiere.
Gli altri – quelli del bicchiere mezzo vuoto – il vino, nemmeno lo vedono,
condannati a registrarne soltanto l’assenza.
Goldoni vede, guarda, osserva (e inventaria) i movimenti della città. Parigi è
une ville qui bouge, come dicono i francesi di oggi, e il nostro ne è pienamente
consapevole: «On ne fait que bâtir actuellement à Paris: les nouvelles rues que l’on a
percées, et les nouveaux bâtimens que l’on a élevés depuis vingt ans, formeroient une
ville très-considérable en Province » (III, 28, p. 557). La Salle de la Porte SaintMartin è costruita «dans l’espace de soixante-six jours» (III, 30, p. 564), e non è un
affarino da poco : pianta circolare, quattro ordini di palchetti, palcoscenico largo 27
metri e profondo 24, come precisa Bosisio7. Particolarmente grazioso il capitolo
Observations sur quelques établissemens dans Paris, che trattano delle forze
dell’ordine (che rendono sicura la città), delle carrozze pubbliche, degli uffici di
collocamento per chi cerca lavoro (comprese le balie), ma anche dei pompieri e delle
« machines à feu pour donner de l’eau en abondance dans toutes les rues et dans
toutes les maisons de Paris » (III, 34, p. 582). Parigi è sventrata dagli scavi e dai
cantieri, ma Goldoni chiosa con compiacenza fintamente impassibile: «On continue
à poser les tuyaux dans les rues» (III, 34, p. 583). Il progetto non è nuovo, è già stato
sperimentato a Londra, ma non è possibile – conclude giustamente Goldoni – «que la
Nation la plus éclairée de la terre se refuse à en reconnoître l’avantage» (III, 34, p.
583).
Il nostro mostra di apprezzare il comfort delle abitazioni domestiche : «quant
à l’intérieur des maisons, il ne laisse rien à desirer, toutes les commodités s’y
trouvent » (III, 28, p. 557). Ma anche la cura dei corpi garantita dai progressi della
medicina suscita l’attenzione di Goldoni: «L’Académie Royale de Chirurgie est
encore plus utile que les autres: il y a long-tems que le François excellent dans cet art
nécessaire à l’humanité; c’est dans cette Société que le bons éleves se forment sous
des maîtres très-habiles et très-éclairés. Ses Mémoires périodiques sont connus, sont
traduits, sont étudiés par-tout ; on y voit des découvertes intéressantes, soit pour les
maladies, soit pour les remedes ; on y trouve d’heureuses inventions pour les
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5
instrumens, et de nouvelles méthodes qui simplifient les opérations » (III, 28, p.
557).
Naturalmente ciò che impressiona maggiormente Goldoni è la dimensione
meritocratica, così sempre drammaticamente assente in Italia (oggi, ma non meno nel
Settecento): “Tout se perfectionne de jour en jour à Paris; il y a de l’encouragement
pour tous les talens; il y en a même pour les Etrangers » (III, 28, p. 557). Se Goldoni
ha inclinazione (sottolineavo prima, con una certa enfasi) a sentirsi cittadino
francese, è perché la Francia riconosce il merito, le talen, fosse pure il merito di uno
straniero. Quando il contratto con la Comédie Italienne volge al termine, Goldoni è
incerto sulla strada da intraprendere, e per un attimo pensa di andare a lavorare in
Portogallo, la cui corte gli aveva fatto «présent de mille écus pour un petit Ouvrage
qui avoit réussi à Lisbonne” (III, 7, p. 464). La dichiarazione è leggermente
altisonante, ma convinta e convincente : « j’avois lieu d’espérer que ma personne
n’auroit pas été refusée dans un pays où les Spectacles dans ce tems-là fleurissoient,
et les talens étoient récompensés » (III, 7, p. 464). Sempre l’ossessione del talen, del
valore professionale, della qualità artistica, che in Italia non hanno riconoscimento,
ma che godono di apprezzamento in Europa: a Lisbona, ma anche a Londra, dove
sono applaudite molte opere giocose di Goldoni. La gratificazione del drammaturgo è
scoperta, trasparente: « On me demandoit à Londres; c’est le seul pays qui puisse
disputer en Europe la primauté à Paris » (III, 13, p. 494).
Tutto questo non significa affatto che Goldoni a Parigi sia un vincente. E’
opportuno però fare un po’ di pulizia metodologica intorno al modo di leggere i
Mémoires. La scuola positivista ha molto insistito su “errori e inesattezze celati nelle
pagine baldanzosamente perentorie dei Mémoires”8, ma a torto, perché ciò che conta
è la verità della mezogna, il significato profondo di quegli errori e di quelle
inesattezze. Non si tratta nemmeno di invocare le attenuanti generiche per i vuoti di
memoria di un memorialista che necessariamente è un povero vecchio di ottant’anni
(corrispondenti in realtà ai novanta/novantacinque di oggi), per di più cieco di un
occhio. Occorre riconoscere a Goldoni la libertà e il diritto di ritrovare un senso alla
sua attività artistica, di ricostruirla a partire da uno sguardo determinato, in qualche
modo parziale. Ma occorre sopratutto riconoscere a Goldoni la libertà e il diritto di
vivere la sua vita. Ci sono alcune pennellate dell’amico Bosisio che mi sembrano
ingenerose, persino un po’ ingiuste, per esempio quando parla di “un’esistenza ormai
stabilmente insignificante, trascorsa fra una partita a carte, una passeggiata e una cena
frugale, per necessità di economia, più che per scelta dietetica”9. Quest’ultima, forse,
è propriamente una malignità, visto che Goldoni – un po’ grasso di corporatura – si
tiene giustamente leggero a cena, perché – si sa – è difficile smaltire ciò che viene
ingurgitato alla sera. In una lettera del 6 settembre 1762, quando non aveva ancora
problemi di soldi, Goldoni ricorda infatti che lui, normalmente, si sottrae all’impegno
gastronomico della cena10. Ma decisamente crudele quest’altro brano, più ampio, del
nostro studioso goldonista:
Si può comprendere come anch’egli abbia sofferto amaramente, nel silenzio autopunitivo che si
imponeva, per le aggressioni degli avversari che non menziona mai, per le sconfitte che presenta
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come successi di stima, per la malattia nervosa che lo perseguita con l’astenia, la depressione
patologica, il desiderio di morire e ch’egli contrabbanda come una banale ipocondria, per
l’abbandono forzato della patria che giustifica con una lusinghiera occasione professionale, per
l’esilio che descrive come un’interminabile, deliziosa vacanza, per la povertà che tace, per la
solitudine che maschera, per il dolore fisico che tramuta in un accidente trascurabile, per la fine
ingloriosa che rimane necessariamente esclusa dalle pagine autobiografiche che si arrestano al
178711.
C’è un accanimento acre, implacabile, che riesco a spiegarmi solo con il fatto che
l’amico Bosisio, quando sigilla queste righe, nel 1993, è un bel giovinotto di
quarantaquattro anni, ancora senza malanni e nessun problema di ingrassamento
dovuto all’età. Forse, lavorando su Goldoni, praticava qualche forma di esorcismo
autobiografico, come capita solo ai critici più bravi e più intelligenti. Poi,
invecchiando – fatalmente – dobbiamo diventare tutti più tolleranti e comprensivi.
Comunque, non capisco il silenzio autopunitivo che si imponeva, per le aggressioni
degli avversari che non menziona mai. No, non penso proprio che sia così. Goldoni,
piuttosto, semplicemente, vuole punire gli avversari. Del negativo non si fa storia;
inutile parlare di modesti antagonisti, di autori tanto meno grandi di Goldoni. Nel suo
silenzio c’è una strategia, una intenzione polemica, niente affatto un ripiegamento
mistificante e autoconsolatorio. In quanto all’abbandono forzato della patria, ho già
detto prima: Bosisio può anche avere ragione, ma è tuttavia interessante seguire
Goldoni nel suo percorso, verificare come faccia di necessità virtù, come arrivi a
prendere contezza e coscienza di una civiltà superiore, a scoprire che, in ogni caso, si
vive meglio a Parigi che in Italia. Ricordiamo sinteticamente questa bella immagine:
« La mode a toujours été le mobile des François, et ce sont eux qui donnent le ton à
l’Europe entiere, soit en Spectacles, soit en décorations, en habillemens, en parure,
en bijouterie, en coëffure, en toute espèce d’agrémens ; ce sont les François que l’on
cherche partout à imiter » (III, 37, pp. 592-593). Parigi è la capitale dell’Europa :
nella moda, e in tutto. Perché vivere alla periferia dell’impero, se si può vivere nel
cuore dell’impero?
Insomma, in Francia, a Parigi, c’è un livello superiore. S’intende, non tutti gli
emigranti fanno fortuna, ma il paese dove gli emigranti arrivano, normalmente, è più
ricco di quello da cui sono partiti. Goldoni non riesce a farsi pagare abbastanza, ma
gli attori della Comédie Italienne se la sfangano bene (anche meglio di quelli della
Comédie Française), e “tutte le case di questi comici, e francesi e italiani, sono ricche
di damaschi e di argenterie, e tutti si trattano generosamente, con una tavola
sufficiente all’arrivo improvviso de’ loro amici”12. Goldoni ha un contratto con la
Comédie Italienne di 6000 franchi annui, ma i Comédiens Italiens ne guadagnano
15.00013. Profitti non paragonabile con quelli dei poveri comici italiani, ma perché a
Parigi il teatro è un’altra cosa, è un’industria che tira: a Venezia lo spettatore seduto
in platea paga dieci soldi, e a Parigi – per stare sempre in platea, ma in piedi – quattro
volte di più14.
Non è nemmeno totalmente vero che Goldoni taccia della sua povertà. Si
apprezzi questa chiusa di capitolo:
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7
Paris est beau, ses Environs sont délicieux, ses Habitans sont aimables ; cependant il y a du monde
qui ne s’y plaît pas. On dit que pour en jouir, il faut beaucoup de dépense : cela est faux ; personne
n’a moins d’argent que moi, et j’en jouis, je m’amuse et je suis content. Il y a des plaisirs pour tous
les états : bornez vos desirs, mesurez vos forces, vous serez bien ici, ou vous serez mal par-tout.
(III, 19, p. 520)
Certo, Goldoni è uomo del Settecento, controlla le sue emozioni, valorizza la
razionalità. Almeno a prima vista, riesce perfino a guardare in faccia la morte («je
regarde la mort de sang-froid, comme le tribut de la nature dont la raison doit nous
consoler», III, 35, p. 584). Ma può avere ragione Paolo Bosisio. Quest’ultima
citazione suona effettivamente un po’ falsa, forse è davvero una formula astratta15.
Forse c’è una vena nascosta in Goldoni, una nevrosi, che dovremmo però una buona
volta indagare con pazienza e con grande finezza di analisi16. Non credo tuttavia al
desiderio di morire espresso da Bosisio (di cui – almeno – non vedo tracce, non trovo
riscontri testuali). Vedo però la dignitosa accettazione del limite. Ciò che Paolo
Bosisio chiama (con troppa durezza) esistenza insignificante (ma insignificante
rispetto a quale parametro?), fine ingloriosa della vita di Goldoni. Ai mie occhi
emergono accenti commoventi, persino poetici:
Pour le reste du tems, je mene ma vie ordinaire à la Ville; je me leve a neuf heures du matin,
je déjeûne avec du chocolat de santé ; c’est Madame Toutain, rue des Arcis, qui m’en fournit
d’excellent ; je travaille jusqu’à midi, je me promene jusqu’à deux heures ; j’aime la société, je vais
la chercher, je dîne en Ville très-souvent, ou chez moi avec la société de ma femme.
[...]
Après mon dîner, je n’aime ni le travail, ni la promenade; je vais aux Spectacles quelquefois,
et le plus souvent je fais une partie jusqu’à neuf heures du soir; je rentre toujours avant les dix; je
prends deux ou trois diablotins, avec un verre d’eau et de vin, et voilà tout mon souper; je fais la
conversation avec ma femme jusqu’à minuit ; nous nous couchons maritalement en hiver, et dans
deux lits jumeaux dans la même chambre en été ; je m’endors bien vite, et je passe les nuits
tranquillement. (III, 38, pp. 598-599)
E’ un vecchio che continua a lavorare, che fa funzionare il cervello, ma con misura,
alternando la scrittura con il passeggio, la conversazione in società, il gioco d’azzardo
che gli piaceva tanto. Non esita ad abbandonare in casa la povera moglie che non ha
mai imparato il francese17, ma qualche volta pranza in sua compagnia, e comunque,
quando torna a casa, la sera, dopo la sua giornata vissuta per conto suo, parla fino a
mezzanotte del più e del meno con la buona consorte. Colei che gli è stata data in
sorte, che ha sopportato i suoi infiniti tradimenti con attrici e attricette. Così vero e
così delicato quel dettaglio: che dormono insieme, nel letto matrimoniale, in inverno,
per tenersi reciprocamente caldo, e risparmiare sulla legna, mentre in estate ognuno
sta più liberamente nel suo lettino, ma sempre “dans la même chambre” – precisa
puntigliosamente Goldoni – perché l’affetto riconoscente e la civile dolcezza non
sono mai venuti meno, pur in mezzo al tourbillon di attrici e attricette. Un calmo
trantran da fine ingloriosa, sì, forse. Ma è sempre ingloriosa una esistenza che si
spegne, fra acciacchi, menomazioni fisiche, umiliazioni della carne, sul limitar della
morte. Almeno Goldoni resta lucido sino alla dipartita, e nell’ultima pagina dei
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8
Mémoires ha il coraggio di riconoscere che il tempo è scaduto. Un amico
aristocratico e poeta gli ha promesso di venire a fargli visita, e Goldoni ne è onorato e
ringrazia, ma avverte: « mais, de grace, qu’il se dépêche, car ma carriere est fort
avancée, et ce qui est encore pis, je suis extrêmement fatigué » (III, 40, p. 604).
Estremo sussulto di decoro, persino un po’ vibrante, sulla soglia dell’abisso. Ma si
ammiri anche la scelta oculatamente ambigua delle parole: dice ma carriere, per
intendere la mia vita, sull’etimo del latino tardo carraria via, cammino dei carri,
corso, e dunque corso di una vita. Ma la vita coincide con la carriera dell’uomo di
teatro. Una vita per il teatro.
1. Cito – con la sola indicazione di pagina, oltre a capitolo e parte – da Carlo
Goldoni, Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, Mondadori, Milano 1959
[prima edizione 1935], vol. I.
2. Mi riferisco al prezioso libretto di Cesare De Michelis, Goldoni nostro
contemporaneo, Marsilio, Venezia 2008.
3. Carlo Goldoni, Memorie, con un’appendice di scritti goldoniani, a cura di
Guido Davico Bonino, traduzione di Eugenio Levi, Einaudi, Torino 1993, p. 7.
4. Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Paolo Bosisio, traduzione di Paola Ranzini,
Mondadori, Milano 1993, p. 23.
5. “Goldoni non può partire [da Parigi] perché non può rientrare a Venezia, dove
il pubblico si sta già dimenticando di lui, mentre i suoi nemici, guidati da un
Gozzi trionfatore delle scene con le sue Fiabe, lo accoglierebbero con
pericolosa aggressività” (Paolo Bosisio, Goldoni e il teatro comico, in
AA.VV., Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da Roberto
Alonge e Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino 2000-2003, vol. II, p. 172).
6. Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Paolo Bosisio, cit., pp. 1084-1085, n. 4.
7. Cfr. Ivi, pp. 1139-1140, n. 5.
8. Paolo Bosisio, Introduzione a Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Paolo
Bosisio, cit., p. XIX.
9. Ivi, p. XVI.
10. “La sera da Zanuzzi vi fu un gran soupè, ma lo sapete, je ne soupe pas” (Carlo
Goldoni, Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, cit., vol. XIV, p. 260).
L’Ortolani annota: “Si sa che da vecchio il Goldoni si accontentava la sera di
due o tre diablotins (pasticche di cioccolata) con un bicchiere d’acqua e vino”
(Ivi, p. 802).
11. Paolo Bosisio, Introduzione, cit., p. XXIII.
12. Lettera del 6 settembre 1762, in Carlo Goldoni, Tutte le opere, a cura di
Giuseppe Ortolani, cit., vol. XIV, p. 260.
13. In una lettera a Francesco Albergati del 10 gennaio 1764 il buon Goldoni non
può far a meno di indignarsi: “Aggiungasi a questo che seimila franchi l’anno a
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Parigi non bastano per un galantuomo, e non posso darmi pace che un attore il
più inabile ne guadagni quindicimila, e che io abbia a contentarmi di sei”
(Carlo Goldoni, Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, cit., vol. XIV, p.
308).
14. E’ un annotazione di Ortolani, in Carlo Goldoni, Tutte le opere, a cura di
Giuseppe Ortolani, cit., vol. XIV, p. 802.
15. Cfr. Paolo Bosisio, Introduzione, cit., p. XXVII.
16. Una pista, in questa direzione, è offerta dalle pagine di Siro Ferrone, Il
personaggio Goldoni, in “Il castello di Elsinore”, 17, 1993, pp. 5-12.
17. Goldoni, ancora in una lettera a Francesco Albergati del 25 ottobre 1762: “Ella
[la moglie di Goldoni] sidiverte poco a Parigi a causa che non intende, e non sa
farsi intendere. Io all’incontro, bene o male, parlo e capisco e mi diverto”
(Carlo Goldoni, Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, cit., vol. XIV, p.
269).
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