La Voce di Romagna - ed. Cesena Domenica 3 Luglio 2005 La VocEstate 33 Un palco all’Opera Giulia Vannoni | FIRENZE – La distesa di grano, da cui si intravede qualche croce, è collocata in alto. La vicenda si svolge in ambiente interamente ipogeo e dal livello del suolo scendono cunicoli popolati di personaggi che commentano quanto avviene in palcoscenico: monaci e boiardi scendono e salgono come nere talpe, compiono gesti quotidiani, trasportano oggetti e persino sagome di animali. Protagonista del Boris Godunov, terzo titolo del Maggio Musicale, è il popolo: un’umanità curva e ripiegata su se stessa con le mani immobilizzate da una fasciatura che quasi ne impedisce l’uso. Il bellissimo spettacolo di Eimuntas Nekrosius, uno dei maestri del teatro contemporaneo, è ancor più emozionante del Macbeth che aveva realizzato due anni fa sempre a Firenze, perché qui l’ampio utilizzo dei simboli svolge un ruolo chiarificatore rispetto a una vicenda meno nota di quella shakespeariana. Nel Boris fiorentino non funziona solo l’aspetto visivo, ma si realizza anche un’intesa perfetta con la lettura di Semyon Bychkov; in scena agisce inoltre una splendida compagnia di canto, che sa perfettamente assecondare le intuizioni registiche. Emozionante l’arrivo di Boris: mentre l’orchestra procede in modo sempre più incalzante – anche i secchi e le scope si muovono a ritmo musicale – le enormi colonne nere che ingombrano la scena si aprono, trasformandosi in quattro Boris Ipogeo secondo Nekrosius Al Maggio Fiorentino protagonista un grande Ferruccio Furlanetto sontuosi ambienti dorati. Nell’atto polacco invece l’atmosfera cambia completamente: viene abbandonata la severità precedente e scompare la dimensione sotterranea per lasciare spazio a confortevoli interni con dame morbidamente vestite di azzurro. Le scene sono di Marius Nekrosius, figlio del regista lituano, e i costumi di Nadezda Gultyaeva. Lo spettacolo riesce inoltre a cogliere la dimensione privata e psicologica dei personaggi: durante il racconto del monaco Pimen, il novizio Grigorij per rendere più plausibile la sua identificazione con Dmitrij, di cui usurpa l’identità, si mette a giocare con il fantasma dello zarevic scomparso; Feodor, il figlio di Boris, colpisce invece ripetutamente il padre moribondo, quasi per rimproverarlo dell’abbandono. L’orchestra e il magnifico coro vengono guidati con esemplare eleganza da Bychkov, che è stato anche direttore principale del Maggio Fiorentino: sonorità perfettamente calibrate, in grado di garantire un buon equilibrio tra buca e palcoscenico, attenzione alle sfumature e ricchezza di colori, senza mai perdere di vista la tensione e l’unitarietà dell’opera. Un’impresa forse più difficile del solito perché è stata proposta la seconda versione originale di Musorgskij (quella in nove quadri che, secondo la revisione di Pavel Lamm, non si conclude con la morte di Boris, ma con la scena della foresta) molto più sobria e meno coloristica della consueta orchestrazione di Rimskij-Korsakov. Una volta tanto, protagonisti di ottimo livello, a cominciare da Ferruccio Furlanetto, dominatore assoluto in palcoscenico. Con impeccabile rigore vocale disegna un Boris dalle molte sfaccettaure: terribile e anche dolente, un uomo vittima della solitudine del potere, capace però di tenero affetto verso i figli. Senza elencare tut- ti i numerosi interpreti, vanno menzionati altri bassi: l’ottimo Ayk Martirossian, il monaco Pimen, e un magnifico caratterista, Vladimir Matorin, nelle vesti del frate Varlaam, ma anche una vecchia gloria come Luigi Roni, la guardia Nikitic. Tra i baritoni, l’eccellente Andrei Breus era il consigliere Scelkalov, e Valeri Alexeev il gesuita Rangoni. Da sottolineare la brillante prova dei tenori Philip Langridge, il principe Suiskij, e Torsten Kerl, l’ambizioso novizio Grigorij, colui che poi si spaccerà per Dmitrij. Meno esaltanti le interpreti femminili: il mezzosoprano Julia Gertseva, l’ambiziosa Marina, era vocalmente sicura ma priva della sensualità e delle ambigue sfumature del personaggio; brava invece Tove Dahlberg nel ruolo en travesti di Feodor, il figlio di Boris, e nella divertente canzone dell’anatroccolo – dagli inequivocabili significati sessuali – Francesca Franci, l’ostessa, una vedova piena di pruriti. Comunale affollato fino all’ultima poltrona e successo straordinario per questo ennesimo esempio di teatro di regia che però non riscrive la vicenda ex novo e in modo del tutto arbitrario – come ormai sempre più spesso accade – ma riesce a rispettare musica e libretto. E soprattutto l’intelligenza del pubblico. Floreale Thaïs così poco sensuale Al Teatro dell’Opera di Roma ripreso il vecchio spettacolo di Pier Luigi Samaritani ROMA – (g.v.) Le generalizzazioni potranno essere anche semplicistiche, ma spesso risultano efficaci. Non sarà forse corretto racchiudere in un unico blocco l’intera produzione operistica francese, tuttavia sono numerosi i tratti comuni a lavori realizzati anche in periodi diversi. Perfetto rappresentante del compositore d’oltralpe, Jules Massenet ci ha lasciato una serie di piacevoli opere, ma tranne l’eccezione di Manon – indiscutibilmente un capolavoro – dalla forza drammatica troppo spesso attenuata, diluita da lungaggini che probabilmente all’epoca incontravano il favore del pubblico mentre, sottoposte al giudizio del tempo, rivelano le loro debolezze. Nemmeno Thaïs fa eccezione: la comédie lyrique in tre atti su libretto di Gallet, che aveva adattato un romanzo di Anatole France, presenta pagine musicali molto belle – frutto di una geniale invenzione melodica e armonica – inserite però in un impianto drammatico nell’insieme fragile. Il soggetto è interessante e pone al centro della vicenda una bellissima fanciulla, dedita ai piaceri dei sensi e priva di scrupoli morali, che viene ricondotta sulla retta via da un monaco, il quale però rimane turbato da questo incontro: alla fine sarà lui a perdere la propria anima. Le incongruenze drammaturgiche emergono soprattutto nel secondo atto quasi interamente occupato da pagine strumentali, peraltro gradevoli, ma che determinano una sta- si nell’evoluzione dei personaggi non facendoli lievitare adeguatamente. Inoltre a penalizzare Thaïs è la scarsa varietà nei pezzi d’insieme, con ben quattro duetti tra soprano e baritono negli ultimi due atti. L’opera è andata in scena a Roma in un allestimento del 1978 di Pier Luigi Samaritani, ripreso nell’occasione da Renzo Giacchieri, anche se con molte modifiche rispetto al vecchio spettacolo. All’epoca era stata proposta la bella versione ritmica italiana di Amintore Galli, adesso naturalmente si utilizza il francese; mentre le scene, andate distrutte, floreali e di un elegante liberty, sono state ricostruite sulla base dei bozzetti, con l’aggiunta di proiezioni che ritraggono l’Opéra di Parigi. Nell’insieme lo spettacolo non è brutto, ma la modestia del corpo di ballo fa sembrare interminabili danze dell’atto centrale; inoltre la celeberrima méditation viene arbitrariamente trasformata in un balletto di cui è protagonista Carla Fracci, portata in braccio da alcuni danzatori. Sul versante musicale, il direttore Pascal Rophé si è preoccupato solo di ottenere sonorità corrette dagli strumentisti: la sua lettura era purtroppo priva di qualsiasi sensualità, soprattutto a causa di tempi eccessivamente rapidi. La parte più interessante veniva dal palcoscenico. Perfettamente a suo agio nel ruolo di Thaïs (la Taide che Dante colloca nel XVIII canto dell’Inferno) era la brava Da- nielle Streiff, inspiegabilmente relegata al secondo cast. Il soprano francese non solo possiede solidi mezzi vocali che le consentono di avere tranquillamente la meglio su un’orchestra di notevole spessore fonico, ma è stata capace di far virare il proprio personaggio da un’aggressiva sensualità a un’estenuata estasi mistica. Accanto a lei il baritono Patrice Berger, nell’insieme discontinuo, ha alternato momenti di stanchezza a fasi in cui riusciva a rendere la tormentata psicologia del monaco Athanaël, prima fustigatore dei costumi dissoluti della bella cortigiana, poi soggiogato dal suo fascino. Corretto il tenore Valeriano Gamghebeli, il filosofo Nicias amante della protagonista, mentre tra i personaggi minori merita una citazione il basso-baritono Roberto Nencini, il vecchio cenobita Palémon, per il potente volume e l’emissione morbida anche se non valorizzata appieno in una tessitura per lui troppo grave. Cosa ascoltare A Trieste Cedolins Vedova Allegra TRIESTE – È arrivato al suo trentaseiesimo anno il Festival Internazionale dell’Operetta che il Teatro Verdi di Trieste organizza ogni estate in appendice alla propria stagione lirica. Da qualche tempo, inoltre, la rassegna tenta una più ampia ricognizione attorno al repertorio cosiddetto leggero, dalla zarzuela al musical. Il titolo d’apertura è comunque una delle più classiche operette della Felix Austria, ancorché proposta nell’ormai tradizionale versione ritmica italiana di Gino Negri: Il pipistrello, capolavoro di Johann Strauss jr. e banco di prova di molti grandi e grandissimi direttori, da Furtwängler e Karajan a Carlos Kleiber: il secondo atto – con la sua struttura modulare, che si presta a una serie infinita di innesti, anche con musiche di altra provenienza – è stato spesso eseguito isolatamente in forma di concerto. In scena fino al 9 luglio, con la direzione di Michael Tomaschek e l’antica regia di Gino Landi. Nel cast, interamente italiano, spiccava il nome del tenore Danilo Formaggia, già interprete della parte di Alfred nel recente Pipistrello dell’Opera di Roma. La Compagnia della Rancia presenterà invece il 13 e 14 luglio – non al Verdi ma alla Sala Tripcovich – Nunsense, una traduzione e adattamento italiano di Fabrizio Angelini (autore anche di regia e coreografia) e Gianfranco Vergogni del Musical delle suore, grande successo d’oltreoceano di Dan Goggin, per otto anni consecutivi sui palcoscenici di Broadway. Ancora un musical è Grease di Jim Jacobs e Warren Casey: tutti ne ricorderanno la versione cinematografica con John Travolta. L’adattamento è di Saverio Marconi, autore anche della regia. Tre rappresentazioni alla Sala Tripcovich, 15, 16 e 17 luglio. Grandissima l’attesa per una altro classico dell’operetta, La vedova allegra di Franz Lehár, che vedrà il debutto nel ruolo del titolo del soprano Fiorenza Cedolins, finora adusa ai grandi ruoli drammatici. Non è un esordio in questo titolo – ma una prova comunque carica di aspettative – quello di Daniel Oren, direttore musicale del Teatro Verdi; tra gli altri interpreti spiccano Daniela Mazzucato, storica interprete di Valencienne, il veterano Alberto Rinaldi, Max René Cosotti e la voce recitante di Elio Pandolfi nel comicissimo ruolo di Negus. Anche in questo caso viene ripresa la vecchia regia e coreografia di Gino Landi. In tutto sei recite – dal 19 al 29 luglio – al Teatro Verdi con due differenti cast: dalla seconda locandina citiamo il direttore Daniel Pacitti e la protagonista Amarilli Nizza. Nella suggestiva cornice del parco di Miramare andrà invece in scena, dal 31 luglio al 6 agosto, Elisabeth, musical di Michael Kunze e Sylvester Levay sulla imperatrice d’Austria. Coprodotto con i Teatri Riuniti di Vienna – l’allestimento, in forma semiscenica, porta la firma di Liane Maynard – lo spettacolo è una rivisitazione moderna, anticonvenzionale e a tratti anche dissacrante, del mito di Sissi, la sovrana austriaca immortalata sullo schermo da Romy Schneider. Sul podio Caspar Richter, mentre la compagnia è quella del Theater an der Wien. Ancora al parco di Miramare (10, 11 agosto) e sempre in versione semiscenica – l’adattamento, oltre alla traduzione ritmica italiana, è di Nicolò Ceriani – verrà presentato Gasparone di Carl Millöcker. Incentrata sulle vicende di un celebre brigante, quasi alla maniera del Fra Diavolo di Auber, questa gentile e divertente operetta aveva conosciuto un piccolo momento di gloria ai tempi di Beniamino Gigli, che ne cantava volentieri quella che è la pagina più famosa: il cosiddetto Valzer della felicità. Fabrizio Ficiur salirà sul podio della Camerata Strumentale Italiana, mentre a fare da collante tra i vari momenti di questa rielaborazione sarà la voce dell’attore Elio Pandolfi.