Pier Giovanni Bresciani
Professore a contratto Università di Genova
e
Università di Bologna
Studio Méta & associati
DAL TRAINING AL LEARNING
Un nuovo paradigma
per la gestione delle risorse umane
Relazione al convegno
‘Le politiche per le risorse umane in Europa’
Trento, 13-14 dicembre 2005
In corso di pubblicazione su Professionalità, n.93, 2006
Nel mio intervento vorrei presentare alcune considerazioni che
costituiscono il necessario sviluppo della riflessione proposta da Rullani
in apertura del seminario, e più diffusamente argomentata nell’ambito del
recente volume del quale è co-autore, significativamente intitolato ‘Il
capitalismo
personale’:
dove
vengono
quindi
coniugati
‘programmaticamente’, a partire dal titolo, aspetti della struttura socioeconomica (il capitalismo) con aspetti riferiti alla individualità dei
soggetti che in tale struttura si trovano ad operare, dandole forma e
contribuendo dialetticamente a determinarla (personale).
Si tratta, a ben vedere, di una analogia con ciò che sta avvenendo in
questa fase di preparazione del nuovo periodo di programmazione dei
Fondi Strutturali UE per il periodo 2007-2013: in tale ambito, infatti, si
sta sviluppando una dialettica consistente (che in qualche caso assume la
forma del conflitto di potere, quando non del conflitto per la
sopravvivenza) tra le ragioni dello sviluppo produttivo, socio-economico
e territoriale da un lato e le ragioni dello sviluppo individuale dei diversi
tipi di soggetti autori ed attori di tale sviluppo dall’altro (imprenditori,
dirigenti, lavoratori occupati, lavoratori ‘flessibili’ e lavoratori ‘precari’,
inoccupati, etc.).
Questa dialettica ha assunto la forma del confronto anche aspro tra
esigenze dello sviluppo dell’economia del territorio ed esigenze dello
sviluppo delle ‘risorse umane’; tra FESR e FSE; tra economisti, statistici,
ingegneri, geologi, architetti da un lato e psicologi, pedagogisti e
formatori dall’altro; tra ‘scienze hard’ e ‘scienze soft’.
Tutto questo è comprensibile, ma vorrei fare osservare come in realtà ci
troviamo, proprio in forza del ‘vincolo’ rappresentato dall’ormai certo
ridimensionamento del flusso di risorse comunitarie sulle quali il nostro
Paese potrà contare (in particolare in alcune regioni) alle soglie di una
storica occasione per il necessario ripensamento del rapporto tra queste
due istanze, tra questi due approcci, tra queste due strategie di intervento.
Non c’è dubbio infatti che la abbondanza di risorse finanziarie nel
periodo di programmazione che si sta concludendo abbia favorito
(insieme al consolidamento di esperienze e modelli di intervento
appropriati ed innovativi, che costituiscono un prezioso patrimonio da
valorizzare in prospettiva) anche forme di auto-referenzialità della
formazione, e di schizofrenia tra questa e i processi economici e di
sviluppo reali con i quali dovrebbe invece ‘andare insieme’.
La tesi che vorrei sostenere è che è essenziale in prospettiva superare
questa auto-referenzialità, ma che nello stesso tempo occorre non cadere
nella tentazione (che mi appare presente in questo avvio di dibattito e
confronto) di sostituire ad essa una altra auto-referenzialità di segno
opposto (quella della economia dello sviluppo) che costituirebbe soltanto
una ‘illusione di alternative’ e non contribuirebbe a superare i limiti che
le analisi più attente hanno consentito di riscontrare in molti degli
approcci fino ad ora adottati nel nostro Paese quando si sono affrontati i
problemi della formazione e dello sviluppo del risorse umane.
Se affermo queste cose, è anche perché, nelle fasi preliminari di
discussione che accompagnano ad esempio la elaborazione del QSN (il
Quadro Strategico Nazionale) mi pare si possano cogliere con chiarezza
le tracce del rischio al quale mi riferisco.
Intendo dire che quando dalla impostazione ‘strutturale’ che l’approccio
socio-economico (alimentato dagli opportuni dati statistici) propone ed
‘impone’ quale framework per la definizione delle strategie di in
intervento, si passa alla definizione delle linee di indirizzo che sul piano
delle azioni di formazione dovrebbero costituirne nello stesso tempo il
complemento e lo strumento di concretizzazione, si avverte chiaramente
uno iato, che mi pare riconducibile proprio alla mancanza di ‘cultura
formativa’ e di esperienza specifica a tale riguardo; cultura ed esperienza
che in tutti questi anni (se pure, come indicato, incorrendo non di rado in
un limite di autoreferenzilità) il ‘mondo della formazione’ ha invece
potuto e saputo consolidare, e che è in grado di consegnare come
‘patrimonio’ al nuovo periodo di programmazione.
A questo punto, quindi, quello che occorre non è tanto ‘cambiare registro’
nel senso manicheo e banale di passare da una presunta autosufficienza
della formazione ad una presunta autosufficienza dello sviluppo, quanto
piuttosto cogliere l’occasione storica di integrazione effettiva tra queste
due prospettive, che la nuova fase di programmazione presenta come
opportunità (ed io aggiungo: come necessità ai fini dell’efficacia).
Ciò sarà tanto più possibile quanto più il confronto si possa sviluppare a
partire da alcuni assunti di base che occorrerebbe condividere, poiché da
essi deriva un certo ‘modo di inquadrare’ i problemi e le sfide che lo
scenario propone, e quindi di individuare soluzioni.
Sinteticamente, nella economia di questo breve intervento, vorrei
richiamare soltanto per titoli alcuni di tali assunti di base.
Il primo assunto è che alla fine di qualsiasi ‘filiera’ (produttiva o
formativa) ‘le cose le fanno le persone’: che lavorano, intraprendono e
che scelgono se, come, quanto, quando, e dove farlo: certo, le persone
fanno questo nei limiti che sono ad esse dati; ma anche in quelli che sono
in grado di ridefinire e modificare.
Il secondo assunto è che se è così, allora occorre chiedersi che cosa fa sì
che le persone ‘facciano quello che fanno’: e la risposta che non
tarderemo a darci è che questo ‘che cosa’ è dato (insieme ed in maniera
indissolubile) da un lato dalla ‘cultura’, dalle conoscenze e dalle
competenze delle persone; e dall’altro lato dalle ‘condizioni’ (in senso
lato ‘hard’ e ‘soft’) in cui le persone si trovano ad operare, e dalle ‘risorse
a disposizione’ che esse si trovano ad avere o che sono in grado di
acquisire e mobilitare.
Come si può osservare ciò significa che è nell’intreccio indissolubile di
interventi sulle risorse umane (FSE) ed interventi sugli assetti strutturali e
sulle risorse del territorio (FESR) che può essere identificata la ‘strada
maestra’ per fare fronte alle sfide del futuro con maggiori chance rispetto
a ciò che si è riusciti a fare fino ad ora.
Un elemento particolarmente interessante è che nel tentativo di definire
quali siano le dimensioni dell’agire individuale che maggiormente sono
in grado di ‘spiegare’ i comportamenti effettivi delle persone (e quindi
anche il loro modo di lavorare professionalmente, di ‘fare management’,
e di ‘fare impresa’), è proprio un economista come Rullani, e non il
‘solito’ psicologo o pedagogista umanista, a riconoscere la assoluta
centralità di elementi quali le motivazioni, gli interessi, i valori, le
emozioni, le attribuzioni di senso, le intenzioni ed i progetti di vita; pena
il non avere sufficienti categorie esplicative di ciò che osserviamo come
comportamento effettivo sul mercato del lavoro e nel territorio.
Il terzo assunto che va condiviso è che nello scenario del lifelong
learning e del lifewide learning cambiano radicalmente le politiche di
intervento in grado di supportare gli individui e le imprese a sostenere il
cambiamento (come dirò in seguito: non solo formazione iniziale; non
solo apprendimento ‘formale’; etc.) ma soprattutto cambia il modo di
concepire la formazione, per come l’abbiamo conosciuta in questi anni,
perché essa si rivela con assoluta evidenza come soltanto uno degli
strumenti (in prospettiva, forse, non necessariamente il più importante)
mediante il quale è possibile sviluppare apprendimento nelle persone e
nei contesti di lavoro.
In altre parole, stiamo assistendo da qualche anno a quel ‘cambiamento di
focus’ dal training al learning la cui conseguenza sul piano operativo
consiste nella differenziazione delle modalità di sviluppo
dell’apprendimento e nella relativizzazione della ‘modalità formativa’
tradizionale (i corsi in aula).
È interessante osservare come da tutto questo, un poco paradossalmente,
vengano fatte discendere politiche di intervento volte a valorizzare
essenzialmente proprio la formazione ‘tradizionale’.
Come ho altrove osservato, infatti, se analizziamo le tipologie di
intervento ‘raccomandate’ in una prospettiva di lifelong learning
possiamo verificare che si tratta in realtà pressoché esclusivamente di
interventi di formazione, come se quindi lifelong learning significasse in
realtà lifelong training.
D’altra parte, mentre si afferma questo, contemporaneamente si afferma
che ‘la formazione non basta’, e da questo proposito si fa riferimento ad
una gamma più ampia di strumenti e politiche (in una logica di workfare;
di capacity building; etc.) ed alle tante e diverse ‘azioni
di
accompagnamento’ integrative della formazione che in questi anni
(proprio grazie al FSE) hanno arricchito il panorama delle soluzioni
disponibili per favorire l’apprendimento e lo sviluppo di conoscenze e
competenze: l’analisi in ingresso per la personalizzazione dei percorsi; il
riconoscimento dei crediti; il tutorato e l’accompagnamento;
l’orientamento in ingresso e in itinere; il bilancio di competenze; la
certificazione; l’alternanza tra contesto della formazione e luogo di
lavoro; etc.
Se quindi cerchiamo di riordinare l’insieme delle suggestioni che il
dibattito ha fatto emergere in questi anni per affrontare con successo la
sfida del lifelong learning e del lifewide learning, potremmo
schematicamente osservare che la soluzione al problema
dell’apprendimento (il learning come differenziale competitivo per le
persone, per le imprese, per i territori, per i Paese: come anche proposto
da Rullani nel suo intervento) è così esprimibile: da un lato ‘più
formazione’ (magari demand-side e individualizzata, secondo una
sollecitazione che Rullani fa propria, ma che è ben presente nel dibattito
di questi anni); e ‘più azioni di accompagnamento’ in grado di integrare
la formazione ‘tradizionale’ (ed anche qui Rullani, evocando ad esempio
l’esigenza di certificazione, si colloca in realtà in sintonia con un dibattito
specifico che già da diversi anni ha posto questo tema all’attenzione dei
decisori).
In ogni caso, ciò che emerge secondo l’impostazione prevalente è che
l’effetto/risultato ‘apprendimento’ viene considerato essenzialmente
come un portato dei curriculi formativi formali, in questo modo
rischiando di depotenziare il senso di quella vera e propria ‘rivoluzione
copernicana’ che consiste nel mette il learning (e non il training, che è
solo uno degli strumenti per perseguirlo) al centro dell’attenzione e delle
politiche.
Oltre alla formazione tradizionale ‘arricchita’ dalle azioni integrative
(FAD, project work, action learning, e quelle già in precedenza indicate)
almeno altre tre direzioni di intervento possono qui sinteticamente essere
richiamate.
La prima consiste nella costruzione di progetti reali di innovazione e
cambiamento organizzativo/produttivo (a livello aziendale e/o territoriale)
nei quali intenzionalmente la gestione dei processi di implementazione
‘tenga insieme’ gli aspetti di intervento organizzativo e gli aspetti di
apprendimento.
La seconda consiste nella costruzione di una ‘via italiana’ al WPL
(workplace learning: un tipo di approccio per il quale in altri Paesi siamo
già ai dispositivi ‘di terza generazione’) magari a partire dalla
valorizzazione dello spazio che in tale direzione può essere identificato
nella nuova filiera dell’apprendistato professionalizzante (senza
sottovalutarne i rischi; ma senza farsene paralizzare).
La terza consiste nella diffusione di forme e consulenza di supervisione
ad individui e a gruppi di lavoro nell’ambito dei contesti organizzativi
reali: pervenendo, sotto questo profilo, anche ad una razionalizzazione di
quella ampia e forse già eccessivamente variegata tipologie di esperienze
che viene a volte impropriamente aggregata sotto l’unica etichetta di
coaching.
Ma se si vuole andare oltre, ed elaborare in funzione della futura
programmazione una sorta di ‘catalogo’ degli interventi e delle misure di
‘sistema’ necessari per favorire lo sviluppo dei tipi di esperienze che ho
finora delineato (raccogliendo e sintetizzando anche quanto emerso nel
dibattito di questo seminario) allora è possibile proporre il seguente
catalogo:
a) ridurre (fino ad eliminare, si afferma con l’ottimismo della
volontà) le persistenti barriere che ancora si frappongono
all’accesso alle opportunità di apprendimento (barriere hard come
gli orari di lavoro, la mancanza di servizi di conciliazione, le
risorse economiche necessarie; e barriere soft come la mancanza di
informazione, di competenze-chiave per l’accesso, di fiducia e di
autostima, di supporto, etc)
b) massimizzare le opportunità di apprendimento, diversificandone i
luoghi ed i tempi (self learning; workplace learning; training)
c) garantire le infrastrutture necessarie per la fruizione del ‘diritto
individuale all’apprendimento’: congedi formativi; servizi di
conciliazione; personalizzazione anche tramite i voucher; gamma
di offerta ampia
d) supportare e accompagnare gli individui nel processo di
apprendimento: prima, mediante l’informazione, l’orientamento e
la consulenza; e durante, mediante la ricostruzione
dell’esperienza, la riflessione, il supporto alla meta-cognizione
e) diversificare gli interventi: per target, per ciclo di vita individuale,
per ciclo di vita aziendale, per territorio
f) integrare gli interventi di formazione e per l’apprendimento nelle
politiche di sviluppo aziendale, settoriale e territoriale
g) sviluppare e diversificare le metodologie per il training e per
learning, valorizzando le esperienze, le buone pratiche ed i
modelli di intervento consolidati nel precedente periodo di
programmazione del FSE
h) riconoscere i crediti, e certificare le competenze (libretto
formativo; validazione delle esperienze; Europass; etc.)
i) creare ‘convenienza’ all’investimento in apprendimento, sia per gli
individui sia per le imprese (certificando; offrendo servizi di
conciliazione; mediante un sistema di voucher; magari innovando
le modalità di influenzare la propensione al risparmio, come è
avvenuto in altri Paesi non solo europei con la formula dei conti
correnti finalizzati –es. ILA IDA, ILDA, a seconda delle finalità e
dei Paesi- nei quali l’ente pubblico versa un contributo per
incentivare il cofinanzimento individuale)
j) definire modalità di riconoscimento economico e di
rendicontazione amministrativa per le ‘nuove’ forme di learning
che le rendano praticabili e ‘competitive’ (dal punto di vista dei
soggetti che devono programmarle/progettarle) rispetto alle
modalità ‘tradizionali’ di fare formazione.
Occorre dunque creare nelle persone e nelle imprese una ‘disposizione
all’apprendimento’: e questo può essere fatto dai soggetti pubblici di
programmazione mediante una ‘ecologia’ di infrastrutture e dispositivi
che possa orientare i comportamenti in una direzione che sia insieme
‘etica’ e ‘conveniente’.
Scarica

Pier Giovanni Bresciani - Portale Sangro Aventino