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Gianni Secondo
La danza vola
al di sopra delle spade
Tre secoli di culture di danza russa
da Pietro il Grande a Stravinskij – Djagilev
Di questo volume
sono state impresse
399 copie
COPIA
EDIZIONI
ANGOLO
MANZONI
SAGGI
INDICE
PAGINA
IX
Presentazione dell’Autore
XI
Premessa
LA DANZA VOLA AL DI SOPRA DELLE SPADE
CAPITOLO PRIMO
3
Semantica degli uccelli. Talismano: L’Oiseau de feu
CAPITOLO SECONDO
25
La seduzione dell’Occidente
La primitiva drammaturgia religiosa
Gli skomoroki
Pietro il Grande e la nuova capitale
Le compagnie amatoriali dei servi della gleba
I comici dell’arte
Le zarine Anna e Elisabetta Petrovna
L’avvento dei maîtres de ballets stranieri
Fondazione del Balletto Imperiale
Hilferding – Landé – Antonio Ranieri Fossano
Canziani – Angiolini – Locatelli
Val’berch primo coreografo russo
Caterina II
L’era di Didelot – Le Picq – Perrot – Saint-Léon – Lev Ivanov
Ballerine, coreografi e musicisti italiani
Ballerine russe
Strage della famiglia imperiale e avvento del comunismo
Agrippina Vaganova
CAPITOLO TERZO
183
Nascita del Modernismo
738
Indice
CAPITOLO QUARTO
197
Dal Simbolismo a Marinetti e al Futurismo russo
Bal’mont
Belyj
Ivanov
Blok
Briusov
Burljuk
Komenskij
Chlebnikov
Kručënych
Komissaržeskaja
Šeršenevič
Mejerchol’d
Majakovskij
Achmatova
Elsin
Elena Guro
Egofuturismo
Mezzanino della poesia
Gileja (Cubofuturismo)
Centrifuga
CAPITOLO QUINTO
287
La Nuova Musica – I Cinque
Mikhail Glinka
Aleksandr Dargomyžskij
Balakirev
Tzezar’ Kjui (César Cui)
Borodin
Musorgskij
Rimskij-Korsakov
CAPITOLO SESTO
327
Djagilev giovane e il «Mir Iskusstva»
CAPITOLO SETTIMO
381
Il giovane Stravinskij
Indice
CAPITOLO OTTAVO
423
L’Oiseau de feu
CAPITOLO NONO
457
Ballets Russes
CAPITOLO DECIMO
551
Léon Bakst – Simon Lissim – Erté – Brancusi
CAPITOLO UNDICESIMO
589
La coppia Gončarova – Larionov
Il Raggismo
I Balli Mascherati
Il cane randagio
La rosa azzurra
Il vivaio dei giudici
La Nijinska
Le Grandi Ballerine Russe
Le Grandi Ballerine Italiane
CAPITOLO DODICESIMO
651
Sipario
Retrospettiva sulle più importanti scenografie
Gli ultimi trionfi imperiali
L’eccidio dei Romanov e la fine di un regno
L’esordio del nuovo secolo
677
APPENDICE FOTOGRAFICA
695
BIBLIOGRAFIA
705
INDICE DEI NOMI
739
Premessa
e la storia della cultura di danza è determinata dalla catena di
riscoperte delle cronache del tempo e dalla varietà di creazioni coreografiche ereditate dal repertorio di spettacoli giunti fino a
noi, il riproporre oggi ciò che è stato acquisito alla tradizione dal rigoglioso ramo della coreutica russa per meglio focalizzarla e farla conoscere al nostro paese può essere un utile contributo ad una complementare valorizzazione della più effimera delle arti, il riconoscente omaggio ai geniali promotori e autori nordici, locali o di adozione,
di tanti capolavori e un attestato di benemerenza agli illuminati governanti che si adoperarono per renderli possibili.
Data la vastità della materia il profilo necessariamente conciso di
questa dinamica liturgia laica non ha altro scopo che di indicare una
traccia del cammino e della maturazione tecnica e interpretativa di
una élite teatrale vista non soltanto come magico sfarfallio di silfidi
alate ma di essenziale supporto al composito patrimonio rappresentativo concernente un lasso di tempo di tre secoli, da Pietro il Grande a Stravinskij e a Djagilev.
Rievocare le sorgenti originali, testuali e figurative, delle più arcaiche danze russe è già stato oggetto di trattazione da parte di storici altamente qualificati, risultandone opere di approfondita orchestica comparata, intendendosi come orchestica il rimando alla gestualità effimera della danza, al suo contesto ideologico, religioso, politico
e sociale avente come scopo quello di condurre l’uomo ad identificarsi con i ruoli interpretati sino ad assumerne le specifiche valenze.
Dalle protodanze rupestri in rapporto con la magia e il divino, primo atto religioso e prima memoria cinetica dell’umanità, alla laicizzazione medievale delle figure orchestiche con la progressiva “erosione del sacro”, dagli interdetti della Chiesa al sorgere delle danze
di corte deificanti i monarchi assoluti; alla definitiva perdita nel Romanticismo delle finalità teologiche sostituite da sentimentali ed esoteriche visioni sino a scadere a materia ludica di esibizione galante e
di beltà formale, vedremo animarsi il variegato mosaico che ha tra-
S
XII
Premessa
mandato da tempo immemorabile il prezioso patrimonio delle eredità tersicoree.
Ma se è una legge di costante evidenza che ad ogni nuova compagine sociale corrisponda una danza nuova, è pur vero che il richiamo del passato può esercitare una seducente attrattiva anche ai giorni nostri e che le attuali forme socializzate di danza, estrose nelle
ideologie e nei contenuti espressivi, reinventate negli schemi e adattate alla estetica contemporanea, lasciano affiorare orditure più arcaiche che rivestono una determinante funzione euristica conferita
loro da una velata ininterrotta sopravvivenza.
Se i gusti generazionali sono cambiati, gli orizzonti culturali si sono ampliati, un pubblico nuovo urge con rinnovate attese, più stimolanti vie alla sensibilità artistica sono state aperte da geniali creatori
di inusitati linguaggi e gestualità non più rispondenti ai vecchi canoni classici, è innegabile che la tentazione di mettere in scena anche
oggi eroine segnate dal destino, torturate da amorose passioni o assillate da delirio di potere, persiste inconsciamente celata nei carismatici modelli del passato.
Con questo libro che raccoglie alcune delle più importanti notizie e documentazioni sparse nelle innumerevoli pubblicazioni sull’argomento, in prevalenza in lingua straniera, abbiamo tentato di rivisitare le tappe di una selezionata umanità attraverso un percorso
che vorrebbe riflettere le inclinazioni, l’indole e il modo di intendere
la danza condizionato dalle trasformazioni del gusto nelle varie epoche storiche, ben consci che i ritmi e gli stili di vita subirono il marchio dell’inesorabile procedere del tempo, responsabile di creazioni
conformi alla natura e personalità di artisti ciascuno dei quali impegnato a far rifulgere la propria ben differenziata individualità.
Per quanto sia difficile con la parola scritta documentare e far rivivere le emozioni visive e i poetici grafismi cinetici di un panorama
di balli cosmopoliti, da una attenta lettura può scaturire un penetrante
messaggio umano e culturale che permetta di identificare nella danza l’immagine più avvincente delle gioie e delle sofferenze esistenziali
di un intero popolo.
Infatti se il teatro è il prestigioso tempio dello spettacolo, la biblioteca resta pur sempre il sacrario della conoscenza e il libro la perenne e trasmissibile entità concreta depositaria del patrimonio di tra-
Premessa
dizioni orali, testimonianze illustrate e insegnamenti pratici di quell’itinerario dottrinale al termine del quale l’informazione si trasforma
in cultura. Una sorta di traslazione spirituale, un ponte tra tempo reale e tempo astratto acquisito allo scrigno della memoria. Questo luogo geometrico della mente dove il passato non è più passato e il presente può diventare futuro scopre nella danza un picco d’intensità
emozionale tra i più seducenti per il vario stratificarsi delle successive concezioni inerenti a coreografie, ruoli e trionfi delle personalità idolatrate, ma custodisce anche una teca di abili intrecci di note di
costume, di caparbie rivalità, di lauti compensi e di gustosi aneddoti, tutti preziosi elementi attraverso i quali scandagliare la psicologia
degli artisti, smitizzare le false immagini create dalla moda e meglio
comprendere la disparità delle varianti interpretative affermatesi nel
volgere dei secoli ad opera dei più grandi maestri.
Un variegato atlante di geografia danzata dove il tempo può perdere la sua isocronia per comprimersi, dilatarsi, accelerare o correre
a ritroso. Un compendio condotto attraverso il vaglio di una quantità
di fonti non di rado lacunose o contraddittorie se non addirittura arbitrariamente integrate nelle pagine mancanti, ma dimostrazione che
la danza può elevarsi a verbo in cui far confluire anche le molteplici
sperimentazioni letterarie, figurative e musicali che caratterizzarono
le varie epoche in cui vissero eccezionali protagonisti maschili e sfolgoranti étoiles elevate da fatue bambole in vetrina a prestigiose interpreti di sofferta umanità. Attestazioni che confermano come la danza sia la più efficace arma contro la violenza e il male di vivere perché la più ecumenica delle arti, depositaria di quell’amore per la terra natia cui sempre ci si ritempra come alla più inestinguibile delle
fiamme: l’altra fiamma della preghiera. Percorrere tutte le sale di questo museo dei ricordi è certamente impossibile, ma cogliere l’intenso
fervore spirituale del popolo russo che danzando si è saputo esprimere in una serie di quadri corali concepiti come frammenti di subentranti affrancamenti nel variegato mosaico di migrazioni di stirpi
o di sanguinose lotte dinastiche, ci rende ragione di come la danza sia
sempre riuscita vittoriosa al di sopra di guerre, invasioni e ribellioni
che avrebbero messo in ginocchio più valorosi eroi. Da questa affascinante cronologia storica apprenderemo che a rinnovare il retaggio
della vecchia Rus’ asiatica de Il canto della schiera di Igor, aprendole imprevedibili prospettive, saranno le primigenie dinastie zariste
XIII
XIV
Premessa
del Cinquecento e l’arcaica drammaturgia religiosa reinterpretata da
colti immigrati europei con il consenso del patriarcato ortodosso di
Bisanzio.
Seguiranno le imprese di Pietro il Grande, solerte nel riscoprire
e rivalutare le tradizioni secolari sgorgate dalle sorgenti inesauribili
del popolo, che lo vedranno fondare una città, varare una flotta, creare un Impero e imporsi come artefice della più stupefacente e feconda rivoluzione militare, sociale e di costume del rinato paese.
Egli stesso abile ballerino fu tra i primi a promuovere complessi
folkloristici e balli di corte sbocciati da un terreno dove dormivano dimenticate quelle reliquie etniche che seppe far coesistere con le moderne novità mutuate dai suoi viaggi all’estero e dall’assiduità ai teatri europei occidentali, diffondendole con trattenimenti di immediata
notorietà non appena salito al trono.
Dopo di lui saranno le zarine Anna Ivanovna, Elisabetta Petrovna e Caterina II a reggere il peso di così possente corona.
Accanto alla spoglia icasticità drammatica dei suoi santi e taumaturghi, muti testimoni della lucida e consapevole desolazione di
generazioni di miserabili servi della gleba, da tempo immemorabile si
era contrapposta una ben più allegra e scostumata arte comica. Quella degli skomoroki, istintivi giullari e istrioni che con le loro burlesche
litanie, scurrili lazzi e il beffardo rovesciamento delle convenzioni,
avevano impersonato il contrasto di due esigenze: una mistica che tendeva a nobilitare l’individuo nel tutto, l’altra laica che voleva il tutto
sfrontatamente assoggettato all’individuo, ribelle e canzonatore.
Una complessa storia russa intinta in un inchiostro antico, seguendo la quale nel corso dell’opera vedremo come a caratterizzare il
XVIII, XIX e XX secolo saranno sagaci e scaltre zarine e lungimiranti
personalità sedotte dalle novità dell’Occidente.
Vi contribuiranno l’indiscusso ascendente esercitato dal balletto
imperiale e dalle celebri artiste che ne reggevano le sorti, educate da
insigni maestri che le resero beniamine della corte e popolari icone
di fanatica venerazione.
Ma non inferiore ruolo giocarono i rivolgimenti politici, bellici e
culturali che progressivamente ammodernarono e raffinarono la precedente impronta militaresca di Pietro: la nascita di un’autoctona musica russa attraverso Glinka, I Cinque, Čajkovskij, Rimskij-Korsakov
Premessa
e Stravinskij; l’influsso esercitato dalle correnti letterarie, filosofiche
e pittoriche della rivista «Il mondo dell’arte» (Mir Iskusstva) e dal
Modernismo approdato al Futurismo e al Costruttivismo; e soprattutto l’incalcolabile peso determinato dalla “dittatura” di Djagilev, dai
Ballets Russes e da tutti gli artisti che vi collaborarono, sino a trasformare le più remote pantomime delle origini di pittoresco effetto nei
drammatici e virtuosistici capolavori impressionisti, simbolisti, o in
astratti balletti concertati.
La decisione di far precedere al testo il capitolo Semantica degli
Uccelli si deve al fatto che ci si è voluti adeguare ad una delle più
diffuse consuetudini propiziatrici delle letterature classiche: quella di
affidare il patrocinio dell’opera ad uno scaramantico talismano che
ne agevoli il successo. La scelta di quest’ultimo non poteva cadere
che su l’Uccello di fuoco (l’Oiseau de feu), sia perché è il più celebre protagonista fra gli alati che animano i balletti russi di risonanza
mondiale, sia per ricordare quanto fosse diffuso, sin dai tempi più remoti, coinvolgere volatili quali comprimari di miti e leggende, silenziosamente presenti anche se talora poco avvertibili, ma sempre risolutivi nel condurre a felice esito le missioni assegnate.
La danza più che una teoria da analizzare è una disciplina da vivere, meglio se integrata da una cultura atta a manifestare con il corpo la propria vita interiore.
È quanto avvenne agli inizi del Novecento quando si affacciarono alla ribalta russa i nuovi movimenti letterari divenuti occasione di
sperimentazioni coreutiche tra le più impreviste e sorprendenti, per
il sottile piacere di corrodere il repertorio tradizionale altrettanto che
la prassi canonica e di rimettere in discussione lo statuto etico delle
classi sociali.
Con l’avvento di movimenti come Simbolismo, Futurismo, Raggismo, Acmeismo, Suprematismo, Costruttivismo e di riviste come «Stephanos», «Gileja», «Apollon», una qualificata élite culturale era venuta riscoprendo i silenti impulsi tesi alla riconquista della libertà di
pensiero e di azione, non più succube degli apporti stranieri italiani
e francesi. Principio che avrebbe trovato conferma nella editoria, in
sala e sulla scena.
La direzione dei Teatri Imperiali avrebbe così riaperto gli occhi si-
XV
XVI
Premessa
gillati da secolari incrostazioni, e il corpo di ballo dello zar, trionfante simbolo dell’aristocrazia togata e coronata, per non rimanere escluso dalla modernità avrebbe ceduto ad originali proposte e ad autonome diversioni senza per questo perdere la regale identità.
Anche se soltanto nelle più qualificate storie della danza ve ne è
esauriente cenno, le poesie e i drammi simbolisti, le pubblicazioni di
linguistica futurista e i saggi filosofici di letterati, che qui ricorderemo, godevano di ampia diffusione negli ambienti colti, tanto che a subirne il fascino erano stati per primi i pittori, presto seguiti da prestigiosi solisti della danza come la Pavlova, la Karsavina e Nijinsky.
Lo stesso Fokin ne era stato toccato quando aveva spopolato dagli dei
cielo e terra sotto l’influsso di Isadora Duncan e dei suoi scritti. Djagilev, Bakst (pseudonimo di Lev Samoilovič Rosenberg) e Benois avevano fondato con Filosofov e Nouvel «Il mondo dell’arte» e Marinetti, conquistati Burljuk, Kamenskij e Chlebnikov, avrebbe trasformato con il Futurismo russo ogni branca di spettacolo in un laboratorio
d’avanguardia farcito di indisponenti provocazioni.
Anche la danza avrebbe subito tre distinte modalità di rappresentazione. Mediante la prima i balletti venivano rimontati nelle versioni originali da coreografi-riproduttori impegnati a metterli in scena con convincente fedeltà valendosi della tradizione orale attinta dai
primitivi protagonisti. Con la seconda modalità i balletti di repertorio
assumevano una nuova versione coreografica scaturita dall’estro creativo di chi voleva offrirne una personale interpretazione.
Nella terza modalità il balletto originale non era più che un pretesto per ricreare nuove trame, nuovi passi e una utilizzazione dello
spazio e del tempo non di rado tra loro confliggenti per impostazione
cinetica e musicale.
In effetti tra originalità, riproducibilità e reinvenzione non sempre emersero confini precisi, ma un lento e insensibile digradare di
dosatura interna, di metamorfosi, di più moderne risonanze, che giunsero a scalzare il balletto tradizionale e consacrato dal suo piedestallo di intangibilità, per immetterlo, talora in maniera traumatica, nella dimensione cronologica e sociale del mondo contemporaneo.
Quanto allo svolgimento dei temi semantici essi rispondevano a
tre paradigmi. Nel primo il personaggio simbolo, eroe dalle virtù positive o antagonista dalle virtù negative è un ribelle non privo di no-
Premessa
biltà come Igor, Sadko, Albrecht, Spartacus; oppure diabolicamente
crudele come Mirta, Odile, Thamar, Rothbart e Kaščej.
Nel secondo il tema amore-morte oscilla nelle sue molteplici accezioni: dalla raggiunta felicità coniugale (Bella addormentata,
Schiaccianoci, Pulcinella) al più tragico destino (Shéhérazade, Giselle, Lac des cignes, Romeo e Giulietta). Nel terzo l’avventura-codice
viene decodificata attraverso varie chiavi psicanalitiche (L’Oiseau de
feu, Le spectre de la rose, Petrouchka, L’histoire du soldat, Renard).
Polivalenza semantica tesa alla liberazione dell’io-danzante dai rigidi coaguli accademici in favore di un più indefinito ma brillante legame fra virtuosismo, dramma e spettacolarità. Anche l’idea della
morte, per dirla con Otto Rank, diventa più sopportabile se c’è un
“doppio” che dopo questa vita ne assicura una seconda. È quanto avviene in Petrouchka che mediante un sibillino sdoppiamento rigenera se stesso con sottile malizia.
Ma è con la nascita dei Ballets Russes che si attua la vera rivoluzione e che Djagilev, novello Mosè, avrà il destino di condurre gli affrancati artisti dei Teatri Imperiali fuori dalla soggezione zarista verso la libera Europa, dove la loro arte potrà compiutamente esprimere
tutta se stessa.
Anche la musica avrebbe conquistato l’autorevolezza di una “vis
generatrice” affrancandosi dal vassallaggio di stereotipata routine sonora per miti o leggende, e così sprigionare l’imperiosità di più scintillanti timbri e potenziali tematici tradotti in cifra di speranza o delusione, di successo o sconfitta, di ottimistico slancio o catastrofiche
cadute. Asserzione che non varrà sempre per Musorgskij che nel comporre il Boris Godunov avvalorò il concetto che il potere zarista restava intatto ed estraneo al contestato servaggio delle masse popolari che
lo subivano. Concetto musicalmente espresso mediante la parola rivalutata in quanto tale, specchio dei tremendi conflitti morali e di autorità di un lacerato Boris.
Un recitativo cui spetta lo sviluppo dell’azione e un’aria proiezione sentimentale degli eventi drammatici vissuti nel recitativo.
Schema compositivo che raggiungerà più compiuta attuazione nella
successiva opera Chovanščina.
Concluderemo la nostra esposizione d’intenti avvertendo che in
questo libro non vengono accolti i giganti della letteratura russa né in-
XVII
XVIII Premessa
dagate le loro opere; che dei diaghileviani Ballets Russes saranno ricordati i massimi capolavori degli esordi, e che nemmeno la vasta
produzione ballettistica e operistica di Pëtr Il’ič Čajkovskij troverà
spazio per la miriade di studi, analisi critiche e biografie di pubblico
dominio. Quel Čajkovskij che, come scrisse Luigi Pestalozza, fu un
musicista che non compose musica nazionale ma fece del nazionalismo musicale: “Identificò cioè la Nazione con il bello, seguendo un
concetto mutuato dai critici tedeschi che non implicava il grado delle tensioni emotive nell’opera d’arte, bensì l’eliminazione da essa di
ogni indeterminatezza e accidentalità”.
CAPITOLO SESTO
Djagilev giovane e il «Mir Iskusstva»
Djagilev giovane e il «Mir Iskusstva»
329
racciare un profilo di Sergej Djagilev, creatore dei Ballets Russes e carismatica figura di dominatore nella storia della danza, vuol dire tentare di
restituire l’immagine di un uomo sul quale sono stati scritti parecchi volumi, della
cui personalità alcuni lati, nonostante lo zelante impegno di contemporanei, collaboratori, antagonisti e storici del teatro restano tuttora un non svelato mistero, e la
cui inimitabile opera si continua a meditare con non sopita nostalgica ammirazione, riconoscendone il determinante ascendente esercitato sull’evoluzione della danza teatrale del ’900, ancor oggi resistente alla scolorina del tempo dopo oltre un secolo di spericolate sperimentazioni.
Ne emerge una figura ombrosa, complessa, di incomparabile audacia e accorta chiaroveggenza, ma anche dispotica e collerica, e omosessualmente orientata,
talmente rivoluzionaria da essere identificata con la sua stessa eredità.
Tutto quanto si può dire ad esaltazione o a biasimo di un uomo, Djagilev lo
ascoltò da vivo, dagli inizi lungo l’arco dell’intera esistenza, nondimeno consensi
o riprovazioni, entusiasmi o anatemi non mutarono di una sola linea la sua condotta.
Pochi uomini al mondo hanno portato a termine senza ripensamenti e senza un
attimo di riposo la consegna avuta dal destino di ergersi a dominatori dei tempi e
dei climi culturali nei quali la ventura li condusse a vivere.
Nella sua poliedrica logorante attività di tagliafuoco contro le anticaglie del
passato e di coordinatore di lessici interdisciplinari, a procurargli inestinguibile
fama furono ovviamente quei Ballets Russes che gli stupiti contemporanei immediatamente accolsero con entusiastici consensi, ma che successivamente inadeguati impresari e non sempre eccellenti compagnie teatrali fraintesero e, imitandoli,
talora snaturarono.
Con i loro spettacoli i Ballets Russes svelarono ad un pubblico avido di novità
come un sentimento potesse atteggiarsi in gesto e la mimica ricomporsi in dramma,
o un suono comunicare l’armonioso accordo fra immaginazione e realtà.
Comunque i successi di una o più stagioni non sarebbero bastati per durare nel
tempo. Occorreva che la storia del teatro ne ratificasse la portata e la consegnasse
alla posterità.
È quanto avvenne nell’arco degli anni compresi fra il 1909 e il 1929, quando
la loro rinomanza si diffuse nel mondo intero elevandoli a simbolo di un’epoca e ad
araldi della danza moderna del XX secolo.
La sua compagnia fu il risultato di una disciplina di ferro, di sfibranti prove, di
T
330
Djagilev giovane e il «Mir Iskusstva»
sofferte rinunce, di un totale fondersi nell’atto creativo e non l’effetto di una cornice che sostituisse il quadro.
Vestito ogni sera con frac, monocolo e tuba sul largo viso mongolico atteggiato
a un lieve sorriso arguto, ciocca bianca tra i neri capelli che gli aveva meritato il
soprannome di “Cincillà”, devoto officiante di una vocazione religiosamente laica
realizzata attraverso l’acume della fantasia e l’ardore della passione, audace nelle
scelte di scandaloso coraggio e insieme di sprezzante orgoglio, Djagilev seppe superare tempeste e insuccessi sanando rapidamente quelle ferite che Cocteau avrebbe definito «nobili cicatrici, come quelle che onorano il volto degli eroi», sempre
fulmineo nel rialzare la testa per misurare il cielo.
Designato da quel nume silente che già recava in sé Sergej Pavlovič Djagilev,
detto Serge, era nato il 19 marzo 1872.
La famiglia da cui proveniva era stata titolare sin dal lontano passato dei requisiti di quella che veniva denominata nobiltà minore. Il più lontano antenato di
una antica famiglia moscovita di cui si trova traccia nel ’700 è Vassili Dmitrievič
Djagilev, già iscritto nei ruoli dell’amministrazione pubblica quale dipendente del
ministero delle Finanze, seguito dal figlio Dmitri Vassilievič, il primo a potersi fregiare di un titolo ereditario.
Assai meno vaghi sono i riferimenti anagrafici del nonno Pavel Dmitrievič Djagilev (1803-1883).
Dopo aver militato quale ufficiale nei Cavalieri della Guardia, aver meritato la
Croce di San Vladimiro per il coraggio dimostrato nelle campagne di guerra in Persia e Turchia e aver contribuito a sedare l’insurrezione polacca, nel 1831 aveva
sposato Anna Ivanovna, figlia dell’ammiraglio Sulmenev, proprietario di fertili latifondi nel governatorato di Perm.
Congedatosi dal reggimento nel 1850 e trasferitosi in questa provincia degli
Urali a 1800 chilometri da Mosca ai confini con la Siberia, aveva ottenuto il monopolio delle redditizie distillerie di vodka della regione. Stabilitosi nella tenuta di
16 000 ettari di Bikbarda, vi abitava una enorme villa di trenta stanze con giardini e scuderie per sei mesi all’anno. Negli altri sei mesi si spostava con la famiglia
a Pietroburgo per consentire ai figli l’educazione scolastica.
Di idee liberali, assai umano nel trattare la servitù che da lui riceveva persino
un salario, era anche stato eletto rappresentante dei proprietari locali e si era fatto
estremamente ricco con la corretta, oculata gestione delle sue distillerie. Ma invecchiando Pavel Dmitrievič Djagilev era caduto preda di una crisi mistica e di sleali
monaci che ne avevano approfittato, sino a scivolare in una forma di follia ascetica
che gli aveva fatto donare somme ingenti per la costruzione di chiese e monasteri no-
Djagilev giovane e il «Mir Iskusstva»
331
nostante la fiera opposizione della moglie Anna Ivanovna, donna peraltro molto generosa ma ovviamente preoccupata e ostinata nell’evitare la rovina della famiglia.
Alienazione mentale che aveva indotto Pavel, poco prima della morte, a masticare e inghiottire frammenti di croci di madreperla e a percorrere ossessivamente
la camera con passi di automa fino a perdere conoscenza. Dei suoi otto figli la maggiore, Anna Pavlova, aveva sposato Vladimir Filosofov, consigliere di Stato. Essa si
era subito distinta quale singolare figura di femminista ante litteram, di riformista
liberale, ardita militante di quel movimento di opposizione statale che agiva in stretto rapporto con i Peredvižniki, il gruppo di pittori Ambulanti così denominati a motivo delle loro esposizioni itineranti di quadri aneddotici con temi sociali, in netto
contrasto con la paludata pittura accademica dell’epoca.
Dopo l’assassinio nel 1881 dello zar Alessandro II, nel ripristinato clima repressivo di vieto conservatorismo Anna Pavlova era stata temporaneamente esiliata dal nuovo zar Alessandro III per le idee eversive e per aver prestato aiuto a rivoluzionari e anarchici.
Quella zia Anna la cui forte personalità dovette condizionare il carattere del nipote già da allora prepotente ed arrogante, tanto da dirimere spesso le dispute a
suon di pugni, memore dell’insegnamento che il concetto “non è possibile” doveva essere dimenticato, perché “quando uno vuole, può”.
Pavel Pavlovič Djagilev, il figlio più giovane padre di Sergej, aveva sposato Eugenia Nikolaevna Efreinova, nobile di antico lignaggio il cui albero genealogico risaliva al ’400 e la cui famiglia era originaria di Novgorod.
Quando il venticinquenne luogotenente di guarnigione era di stanza nella caserma Selitchev a Grusino nei dintorni di Novgorod, il 19 marzo 1872 la moglie
diede alla luce Sergej.
Ma per complicanze nel travaglio di parto, dovute all’inusitata dimensione della testa del neonato, Eugenia Efreinova morì pochi giorni dopo. Il bimbo venne
quindi affidato a Maria, la sorella minore del padre e crebbe sotto le cure della balia Dunia già nutrice alla madre; la fedelissima njanja che gli resterà accanto tutta la vita e la cui sembianza è tuttora visibile sullo sfondo di un ritratto di Djagilev
dipinto da Bakst.
Il padre di Sergej era un gentiluomo alla moda ovunque ben accolto per l’indole
sincera, il buon umore, la vivace intelligenza interessata a qualsiasi novità ed era
dotato di una eccellente voce di tenore che lo rendeva capace di interpretare con
grazia e sentimento tanto le arie da opere liriche quanto le romanze da salotto o le
canzoni popolari, avendo studiato musica e canto con celebri insegnanti come il
professore di Conservatorio Rotkovsky e imparato a memoria tutta l’opera di Glinka Ruslan e Ljudmila.
332
Djagilev giovane e il «Mir Iskusstva»
Nel 1874 Pavel sposò in seconde nozze Elena Valerianovna Panaeva nata in
una famiglia di musicisti, la cui sorella Aleksandra, apprezzato soprano allieva della sorella della Malibran, aveva come suocera una Čajkovskij. Fu tramite questa
parente acquisita che l’adolescente Sergej ebbe l’opportunità di recarsi a rendere
visita a Klin al grande compositore di opere e balletti, ricordato poi sempre con venerazione come “zio Piotr”. L’affettuosa matrigna Elena, estroversa e nobile persona che crebbe Sergej con tale dedizione da meritarsi il suo riconoscente amore e
l’indelebile memoria, era l’affascinante fulcro di un salotto letterario e musicale di
ferventi melomani.
Un centro di vita artistica per le serate di musica da camera con lo zio Vania,
ottimo violoncellista, nelle quali si eseguivano le opere di Glinka, Schumann, Mozart e Beethoven.
Spesso presente in qualità di semplice accompagnatore al pianoforte era l’ancora sconosciuto Musorgskij cui non si chiedevano mai musiche proprie.
Dopo un temporaneo soggiorno a Pietroburgo dove la famiglia abitava un appartamento nella caserma di via Shpalernaya, Pavel, che nel frattempo era caduto
in mano ad usurai, fu convinto dal padre, che ne aveva ripianato i debiti, a dare le
dimissioni dall’esercito e a tornare nella tenuta di proprietà. Dimissioni che inaspettatamente non furono più necessarie per l’improvviso trasferimento da Perm
del locale comandante della Guardia, casualità che permise a Pavel di sostituirlo
pur continuando ad occuparsi con il fratello maggiore delle distillerie paterne.
Il decenne Sergej fu così iscritto alla scuola di Perm dove compì gli studi ginnasiali dimostrandosi allievo dotato anche se poco studioso, favorito da una cultura
molto superiore alla media, aiutato dai compagni pronti a suggerirgli le risposte e dai
privilegi del censo, ma portato ad apprendere più dalle colte conversazioni dei cosmopoliti intellettuali frequentatori della famiglia che dai libri, particolarmente attratto da una passione per la musica piuttosto che dalle regolari lezioni scolastiche.
Quando andrà a Pietroburgo per frequentare l’Università, convinto di possedere una bella voce di baritono, prenderà lezioni di canto dall’illustre maestro italiano Cotogni e ritenendosi dotato anche per la composizione diventerà allievo di Sokolov, professore di armonia nel locale Conservatorio.
Il giudizio nettamente negativo espresso sui suoi saggi canori da Rimskij-Korsakov, presuntuosamente contraddetto dalla risposta di Djagilev: «L’avvenire vi dimostrerà che avete torto» e dopo essersi esibito in romanze per nulla entusiasmanti secondo il parere degli amici, decise infine di mettersi in gioco in una prova d’appello. Interpretò dinanzi a loro il ruolo del falso Dmitrij nella scena della fontana
di un Boris Godunov di sua creazione in duetto con la zia Panaeva, celebre sopra-
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no prestatasi a ricoprire la parte di Marina. Scoraggiato dalle pesanti riserve espresse dall’uditorio si convinse di non essere un genio del canto e, aborrendo la mediocrità, rinunciò ad ogni ambizione musicale e rivolse i suoi interessi alla pittura.
Come esteta cosmopolita accorderà la sua ammirazione alle più versatili forme
d’arte, ma alla radice del suo amore prevarranno la sempre riaffiorante incondizionata passione per lo spoglio paesaggio russo, le emozioni suscitate dai luminosi
mattini e dagli accesi crepuscoli, dai viottoli addormentati sotto centenarie betulle
a corona dei campanili e dei vecchi casolari, o la idillica pace dei campi innevati
di silenziosi villaggi nelle “notti bianche”.
Il suo non sarà mai un nazionalismo patriottico né tanto meno reso ad una Russia statalista e politica. Chiarirà meglio il suo pensiero scrivendo: «Il solo nazionalismo ammissibile è quello inconscio del sangue: prezioso tesoro che scorre nella natura umana e che è parte integrante di noi».
È da queste premesse che discende il suo radicato amore per la grande lezione
lasciata dai pittori Levitan, Maljutin e dalla troppo presto scomparsa Machenka Yacuntelukova, i più dotati nel ricreare quelle atmosfere liriche e familiari capaci di
far vedere con occhi russi i paesaggi russi, le immense foreste, i cimiteri di campagna con le loro croci sghembe, le diroccate recinzioni di sperduti conventi o le distese dei prati fioriti dove le eroine di Puškin attendono che i loro sogni si avverino.
Ma torniamo al 1890, quando Djagilev si ritrasferì a Pietroburgo per seguire le
lezioni di diritto, non per vocazione, ma per conseguire quella laurea in Legge indispensabile ad aprire le porte alle brillanti carriere di funzionario di corte. Decisione resa necessaria dal fatto che l’ereditato titolo di nobiltà di provincia era troppo modesto per consentirgli una rapida affermazione in ambienti dominati da principi, blasonati dignitari e membri della più antica aristocrazia.
Giunto nella capitale, tramite il cugino Dima Filosofov si legò di amicizia con
i compagni di corso Aleksandr Benois, Walter Nouvel, Konstantin Somov, ai quali
si era da poco aggiunto Lev Rosenberg, il pittore ebreo che diverrà celebre con il
nome di Léon Bakst.
Prima di iscriversi all’Università compì il suo primo viaggio in Occidente in
compagnia del cugino Dima, cui lo legò un amore ambiguo, toccando Berlino, Firenze dove subirà il fascino dei pittori italiani del Rinascimento, Vienna dove ascolterà il Lohengrin che lo renderà convinto wagneriano tanto da ricordare ancora il
Tristano poco prima di spegnersi, e soprattutto Venezia, la città lagunare cui resterà legato in vita ed in morte.
Rientrato a Pietroburgo anziché quattro impiegherà sei anni a laurearsi in Legge nel 1896.
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Frequentò le serate musicali al Conservatorio diretto da Anton Rubinštein, andò ad ossequiare emozionato la sorella di Glinka, si avvicinò al Gruppo dei Cinque,
è spettatore alla prima de La bella addormentata che in futuro avrà un effetto determinante nel conquistarlo all’arte del balletto e, poco più che ventenne, conobbe
quella Lady de Grey che, divenuta Lady Ripon sarà l’organizzatrice delle prime
rappresentazioni dei Ballets Russes a Londra nel 1911, dopo aver contribuito a lanciare sulle scene internazionali il grande soprano Nellie Melba.
Nel 1891 ascoltò nel Teatro Mariinskij Francesco Tamagno trionfare nell’Otello alla presenza dello zar, mentre l’Eugenio Onegin e La dama di picche innescarono quel culto per Čajkovskij rinsaldato poi dalla musica dello Schiaccianoci, una
calorosa presa di posizione in netto contrasto con la primitiva ostilità del pubblico.
Il 23 novembre 1893 assistette commosso alla prima esecuzione de La patetica di Čajkovskij, la sesta sinfonia diretta dall’autore pochi giorni prima di morire.
Alla notizia della morte del compositore, affranto, parteciperà alle esequie accanto a Rimskij-Korsakov, al direttore d’orchestra Nápravník, al tenore Nikolai Figuier e a Vsevolojski, direttore dei Teatri Imperiali. Una folla immensa ne seguirà
il feretro dal Teatro Mariinskij sino alla Cattedrale di Kazan.
A diciassette anni gli era parso di innamorarsi di una cugina ma dopo aver scoperto che era affetta da una grave malattia, di cui per altro non ci è nota la diagnosi, ne rimase terrorizzato e sentì sorgere un’incoercibile avversione sessuale nei riguardi delle donne.
La disillusione giovanile lo segnò irreparabilmente e contribuì a renderne palese la latente omofilia. Passerà la vita a cercare “l’unico da amarsi”. Non sarà lui
ad essere incostante bensì, come riferisce Serge Lifar, saranno i prescelti ad abbandonarlo.
Ciò che in una relazione passionale soprattutto lo attirava erano il talento, la genialità e la presenza di una spontanea sensibilità per l’arte. L’eros era un fattore
secondario che gli serviva per conquistare ogni nuovo amante e rivelarlo al mondo.
Nasceva da questo presupposto il suo desiderio di possesso e l’amore esclusivo rivolto al compagno di vita. Ma tutti questi “unici amati” finivano per lasciarlo
e magari, come Nijinsky, per sposare una donna.
Si era presto reso conto che ciò che di più pericoloso offrivano le donne non era
il corpo ma la loro femminilità e l’aureola romantica. Ormai avanti negli anni ed ammalato, Djagilev finirà per consigliare a Lifar di sposarsi, ansioso di godere in via
riflessa di una famiglia non sua, lasciando intendere il desiderio di poter essere il
padrino e quasi il nonno dei figli che Lifar avrebbe avuto.
Tra il 1890 e il 1895 Djagilev divide il domicilio fra l’appartamento di via Ga-
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lernya e la grande dimora estiva dei Filosofov a Bogdanovskoie nella provincia di
Pskov, pur continuando a frequentare il principale circolo d’avanguardia della città imperiale ribelle al conservatorismo polveroso dell’Accademia delle Belle Arti.
Circolo rivolto alle culture occidentali del quale erano fondatori i già citati amici: l’introverso e caustico cugino Dima, il pittore e critico d’arte Aleksandr Benois,
l’esperto musicista Walter Nouvel, il diplomatico francese ambasciatore Charles
Birlé, gli intellettuali Kalinin, Skalon e il pittore Léon Bakst, futuro creatore di molte splendide scenografie e costumi dei Ballets Russes.
I partecipanti che discutevano di arte, letteratura, filosofia, dottrine sociali ma soprattutto di pittura, si erano dati lo scherzoso appellativo dickensiano di Pickwickiani della Neva dal nome del fiume che scorre a Pietroburgo, in opposizione agli Ambulanti, l’altro circolo antineoclassico dissidente dall’Accademia, sorto con lo scopo
dichiarato di richiamarsi ad un realismo pittorico per contrastare l’influenza dei simbolisti e degli impressionisti francesi nel nome di un’arte fatta da e per russi i russi.
Verso la fine del 1893 Djagilev e Dima Filosofov compirono un secondo viaggio in Europa toccando Nizza, Berlino, Monaco dove Sergej acquistò un quadro di
Liebermann di cui andrà molto fiero. Assistettero a Parigi alla prima dell’opera
Thaïs di Jules Massenet che li invitò a casa per far loro ammirare una icona russa
della Vergine da lui particolarmente venerata, e proseguirono per Genova, Milano,
Bologna e di nuovo Venezia e Firenze. Viaggio durante il quale Sergej andò a rovistare in tutti i magazzini di robivecchi acquistando mobili antichi, vasellame e statuette di bronzo.
Al suo ritorno a Pietroburgo accarezzò persino l’idea di fondare un museo che
portasse il suo nome e di affidarne la direzione all’amico Aleksandr Benois.
Al 1895 risale il terzo viaggio, il grand tour che lo condusse in Francia, Germania e Olanda. Per apparire ovunque un dandy alla moda dilapidò la cospicua
somma di denaro regalatagli dalla madre ma affinò sempre più la sua sensibilità artistica e il portamento aristocratico che gli piaceva sottolineare con abiti di qualità, candido sparato, cilindro e monocolo. Comperò alcuni quadri di Lenbach, Menzel, Zorn, Ludwig Dill e Puvis de Chavannes. Si recò ad Anversa per vedere i dipinti e la casa di Rubens e a Parigi rese visita alle celebrità del momento: Gounod,
Saint-Saëns, Böcklin e Zola.
Rientrato in Russia e abbandonata definitivamente ogni mira museale, nel 1897
cominciò a collaborare come critico d’arte al periodico «Novosti» (Les nouvelles).
Nello stesso anno organizzò nel palazzo del barone Stieglitz di Pietroburgo, patrocinata dalla Società per l’Incoraggiamento delle Arti, la sua prima mostra.
Un’esposizione di acquarellisti inglesi e tedeschi incentrata sulla scuola di Glasgow, la prima ad aver subito l’influenza dell’Impressionismo francese.
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Ad essa fece seguire in ottobre, ancora nella Galleria Stieglitz, una seconda
mostra di pittori d’avanguardia scandinavi, tra cui il norvegese Munch accanto a
Zorn e ai finlandesi.
Scelta ovviamente giudicata in modo negativo dal grande pittore Il’ja Repin che
Djagilev peraltro stimava per quadri come I cosacchi del Dniepr e Ivan il Terribile
con il figlio morente, nonostante che Repin fosse il riconosciuto capo degli Ambulanti.
La mostra fu allestita da Bakst con scenografica profusione di piante e fiori negli ambienti e con la presenza di un’orchestra che attaccò la musica protocollare all’ingresso della famiglia imperiale.
Djagilev fu presentato all’autocrate di tutte le Russie e da allora si industriò
per ricevere dallo zar un incarico che gli consentisse di essere ammesso fra le classi nobili dell’Amministrazione cui spettava di diritto presenziare ai favolosi ricevimenti di corte insieme agli alti ufficiali in uniforme di gala e copricapo con aquile
dorate, accompagnati da dame con diadema e da diplomatici stranieri con spose in
zibellino. Anche negli anni successivi continuerà la sua opera di organizzatore in
ben sedici mostre di pittura in patria e all’estero.
Due grandi collezionisti erano intanto saliti alla ribalta: Sergei Shchukin e Ivan
Morozov. I capolavori internazionali da loro donati allo stato sono ora l’orgoglio del
Museo Ermitage di Pietroburgo e del Museo Puškin di Mosca.
Basti ricordare che del primo mecenate posseggono 6 Renoir, 8 Matisse, 8 Cézanne, 14 Gauguin e, dal 1914, ben 50 Picasso.
Di Morozov è parimenti divenuta famosa la raccolta dei Van Gogh e dei pittori
Nabis.
Il tempo era dunque maturo per la nascita di una rivoluzione “modernista” e di
una nuova classe sociale rivolta tanto contro il conservatorismo e l’Accademia che
contro i più accesi esterofili.
Essa precedette di poco la nascita della rivista «Il mondo dell’arte» sulla quale torneremo.
Accanto a questi chiaroveggenti precursori in grado di arricchire il proprio paese con molti dei più celebri quadri contemporanei europei dovevano presto emergere due personalità di eminente statura intellettuale: il finanziere Savva Mamontov e la principessa Marija Teniševa, creatori entrambi di cenacoli artistici prodighi di strepitosi riverberi.
Mamontov era uno di quegli audaci finanzieri che, accanto ad impresari della
stessa levatura come Bakhrushin, Tret’jakov o Riabouchinsky diedero avvio ai primi imperi commerciali, iniziando quella trasformazione economica che dal latifon-
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do di una Russia semifeudale doveva approdare ad un moderno capitalismo prima
di spegnersi dopo la rivoluzione dell’Ottobre 1917 nell’esiziale socialismo marxista-leninista e nelle sue avvilenti e punitive filiazioni bolsceviche e comuniste.
Furono questi maggiorenti, capitani d’industria, banchieri, illuminati e coraggiosi ingegneri che tracciarono la planimetria dei canali e delle prime strade ferrate, che impiantarono i primi opifici di mobili e tessuti, cartiere, raffinerie, agenzie di credito; tutte premesse indispensabili ad una moderna rivoluzione industriale.
Ma se accumularono cospicue ricchezze furono anche solleciti, per lungimiranza e
non comune sensibilità sociale, a destinare una rilevante parte dei loro guadagni ad
istituzioni filantropiche e culturali.
Quelli dotati di più accorto intuito divennero anche grandi collezionisti di opere d’arte. Guidati da squisito gusto e perizia critica acquistarono capolavori di pittori russi ma anche stranieri oltreché pregiate icone, gioielli d’epoca, porcellane,
opere di oreficeria e mosaicate ebanisterie. Alcuni di loro non esitarono ad aiutare
finanziariamente giovani promettenti artisti e a fondare veri e propri musei come Pavel Tret’jakov, il creatore della omonima Galleria che precedette quella statale dello zar Alessandro III.
Savva Ivanovič Mamontov era nato in Siberia nel 1841 da una famiglia di ricchi commercianti trasferitasi a Mosca nel 1849, dove aveva proseguito gli studi frequentando la facoltà di Giurisprudenza.
Rivelatosi abile e ardimentoso imprenditore si era gettato negli affari. Divenuto il principale azionista delle ferrovie statali, aveva costruito la prima rete di strade ferrate da Arcangelo sul Mar Bianco sino al Mar d’Azov per collegare e rendere
più agevole lo sfruttamento del bacino carbonifero del Donec.
Aveva inoltre immesso ingenti capitali in fiorenti industrie di legnami e nelle
banche. Ma rischiosi investimenti e una troppo disinvolta gestione condotta con
metodi non proprio legali lo avevano portato al crollo finanziario seguito da un’inchiesta giudiziaria per malversazione e da temporaneo arresto.
Tuttavia non si perse mai d’animo. Durante i sei mesi di detenzione in attesa del
processo da cui fu scagionato, scrisse il testo per un’opera lirica intitolata La collana, tradusse in russo il libretto del Don Giovanni di Mozart, e scolpì piccoli busti dei suoi carcerieri. Tornato libero era stato costretto dalla malferma salute a ridimensionare decisamente la propria attività prima di spegnersi a Mosca nel 1918.
Innamorato delle arti si era dimostrato un versatile quanto dotato dilettante, e
nell’arco della vita si era decorosamente cimentato come cantante, scultore, attore,
drammaturgo e regista teatrale.
Aveva viaggiato a lungo anche in Italia e studiato canto a Roma.
Fu in questa città dove si trovava in compagnia dello scultore Antokol’skij e del
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pittore moscovita Vasilij Polenov che ebbe la prima idea di fondare in patria una comunità di artisti che divenisse il centro propulsore per la rinascita dell’arte russa.
Un cenacolo artistico, condiviso con la moglie Elizaveta Grigor’evna, che nacque ufficialmente il 31 dicembre 1878 ed ebbe sede iniziale nella sua stessa casa
moscovita di via Sadovaja-Spasskaja.
Esso accoglieva anche un teatrino domestico divenuto espressione della prima
concezione unitaria dello spettacolo nelle sue componenti di rinnovata recitazione,
allestimento scenico e pertinenza di costumi. Componenti coordinate dalla personalità di un regista intesa in senso moderno, con il compito di dirigere e vitalizzare l’azione scenica alla luce dell’epoca, dello stile e delle finalità insite nell’opera
da rappresentarsi. Il Circolo Mamontov esordì con i cosiddetti “quadri viventi” di
Giuditta e Oloferne, Il demone e Tamara, Apoteosi delle arti, ideati da Prachov, Polenov e da Vasnetsov su antiche byline; quadri cui lavorarono i più quotati rappresentanti dell’arte contemporanea.
Savva Mamontov, secondo quanto afferma Donatella Gavrilovich nel suo volume Profumo di Rus’, fu assai vicino al modo di intendere l’arte e al pittore Vasilij
Dmitrievič Polenov, promotore di una corrente di ispirazione populista e filosoficoumanitaria che intendeva il teatro come strumento di educazione al bello da diffondere per favorire l’alfabetizzazione delle campagne.
A lui si deve la rivalutazione del decoratore di scena, l’abolizione delle quinte
sostituite da un unico fondale panoramico e l’uso del colore in accordo con l’atmosfera nella quale gli attori dovevano recitare.
Gli spettacoli amatoriali iniziati nel teatrino domestico di via Sadovaja vennero dotati di pregevoli scene e pannelli dipinti dagli illustri ospiti, e si rivelarono la
più efficace premessa a quelle creazioni d’autore rapidamente impostesi nei teatri
statali sino allora impensabili sui palcoscenici tradizionali, e destinati ad affossare un polveroso deposito di obsoleti scenari.
Non si dimentichi che la fiaba-dramma di Ostrovskij La fanciulla di neve (Snegurochka), era già stata recitata per la prima volta su bozzetti scenici e figurini di
Viktor Vasnetsov nel domicilio dei Mamontov, prima di essere replicata nel 1884,
assieme all’arguta commedia Il turbante nero nella quale il meritorio complesso di
attori e pittori aveva avuto persino il coraggio di esibire in satira i propri difetti
mettendo in scena un parodistico Savva Mamontov impegnato in una recitazione
deliberatamente buffonesca.
Repertorio che dopo qualche anno di affinamenti sempre più professionali si sarebbe mutato nei programmi della Chastnaja Opera Mamontov ovvero Teatro dell’Opera Privata Mamontov: una compagnia lirica ospitata nell’edificio di proprietà
dell’industriale Solodovnikov nella moscovita via Dimitrova.
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La Chastnaja Opera aveva esordito il 9 gennaio 1885 con la Rusalka di Dargomyžskij, seguita l’8 ottobre dello stesso anno da Snegurochka nella versione di opera lirica musicata da Rimskij-Korsakov, ricreata ancora da Viktor Vasnetsov con
scene e costumi di tale fantasia da fare veramente identificare i fiabeschi interpreti con i loro ruoli.
Ad inaugurare nel 1897 la stagione il 26 dicembre a Mosca sarà la citata opera epica Sadko di Rimskij-Korsakov diretta dal maestro italiano Esposito, seguita
nel 1900 da La fiaba dello zar Saltan mentre Mamontov si trovava agli arresti. Negli anni di attività del teatro tra le numerose rappresentazioni proposte figureranno
anche con straordinaria premonizione opere che sarebbero diventate famose, come
La pskovitaine, la Chovanščina, La pucelle d’Orléans, Le allegre comari di Windsor,
Orfée et Euridice oltreché alcuni già celebri capolavori di Bizet, Verdi e Salieri.
Ad acquistare travolgente risonanza sarà anche l’eccezionale voce e il talento interpretativo di Fëdor Ivanovič Šaljapin, il mitico e possente protagonista nei ruoli di
basso che lo stesso Mamontov aveva scoperto, il futuro Boris Godunov che Djagilev
accortamente sceglierà per la sua prima stagione operistica in terra di Francia.
Lo spiazzante evento teatrale della Chastnaja Opera, cui facevano capo personalità non solo belcantistiche ma anche sinfoniche come Rimskij-Korsakov che ne
era il direttore artistico, maestri della tavolozza come Vrubel’ e Repin e che si avvaleva della originale regia drammaturgica di Stanislavskij, si era reso possibile
perché soltanto nel 1882, come abbiamo già riferito, era stato promulgato il decreto imperiale che sanciva la fine dell’esclusivo privilegio zarista di gestire qualsivoglia produzione teatrale.
Altro grande merito di Mamontov, che precedette lo stesso Djagilev, era stato
quello di indurre a lavorare in veste di scenografi e bozzettisti di costumi un nutrito numero di ottimi pittori da cavalletto, come Polenov, Vasnetsov e Vrubel’, anziché rivolgersi agli anonimi e routinari decoratori che operavano nei teatri di stato,
quasi sempre demotivati, privi di geniali folgorazioni e sottoposti all’arbitrio di troppi interlocutori, i cui mediocri fondali venivano indifferentemente usati per le più
eterogenee opere e balletti.
La compagnia di ballo di Mamontov, che saltuariamente affiancava i cantanti,
comprendeva anche un nucleo di virtuosistici elementi maschili tra cui Mordkin,
Novikov, Volinin, Tikhomirov e, non di rado, ospitava Aleksandr Gorskij maître de
ballet del Teatro Bol’šoj di Mosca, l’iniziatore della drammatizzazione del balletto
reso più organicamente strutturato e trascinante mediante l’introduzione di virili
danze folkloriche, già sperimentate da Petipa con un successo superiore al previsto nelle riedizioni de Il lago dei cigni e del Don Chisciotte per il Teatro Mariinskij
e per il Bol’šoj di Mosca.
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