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Angelo Frosio
La vacca salverà il mondo
Se gn i
Angelo Frosio
La vacca salverà il mondo
ISBN 978-88-6628-254-9
copyright 2013 Caosfera Edizioni
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soluzioni grafiche e realizzazione
INTRODUZIONE
Quasi venti anni fa scrissi un libro intitolato Maghèla.
Era questa la scumagna, il soprannome che mi avevano dato da
bambino ed il libro narra proprio della mia infanzia, riaffiorata alla
mia memoria dopo decenni di polveroso oblio durante i miei viaggi in
Lituania, con flash vivissimi ed incredibilmente precisi.
Non avevo grandi ambizioni letterarie, e alla fine le dodicimila copie
distribuite hanno ecceduto qualunque aspettativa di successo
editoriale. Ma più ancora della quantità delle persone raggiunte, mi
ha sorpreso la qualità delle loro reazioni.
Non riesco a ricordare nemmeno quanti sono stati quelli che mi
hanno chiamato per dirmi che avevano letto il libro d’un fiato, in una
notte, riconoscendo in tante pagine episodi della loro vita. Tantissime
persone, cui l’ho regalato dopo averle conosciute per caso in aereo,
lo hanno voluto iniziare subito, lì sedute vicino a me, e dopo qualche
pagina hanno cominciato a sommergermi di domande, incuriositi
dall’originalità del racconto e a volte increduli per l’atmosfera
fantastica e talvolta mitica che avvolge la narrazione. Molti di questi
sconosciuti sono diventati miei amici ed ho realizzato con loro progetti
importanti.
Da artista posso dirmi soddisfatto per il risultato: per me l’arte è prima
di tutto comunicazione di un messaggio. Non sono uno scrittore, ma
ho voluto scrivere un libro perché pensavo di avere qualcosa da dire.
Con il tempo si è fatta strada dentro di me una nuova esigenza: in
questi anni il mondo è cambiato nuovamente, sono cambiato io e
sono cambiate le persone. Non mi posso accontentare di ricevere
commenti entusiasti, e a volte commossi, di persone anziane che
grazie alle mie pagine rivivono le emozioni di un passato che non
potrà più tornare. Non bastano più alla mia soddisfazione personale
le domande incuriosite dei tanti giovani cui il libro ha aperto le porte
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di un mondo scomparso, estinto, di cui non conoscevano neppure
l’esistenza e cui erano appartenuti i loro nonni e talvolta persino i loro
genitori. Tanti di loro vanno a visitare i paesi baltici, ma fermandosi
solo a Vilnius o a Riga, non riescono a toccare con mano la realtà
che descrivo, e che è tuttora la realtà quotidiana per migliaia di esseri
umani che vivono ancora nella miseria più totale, anche se sono
cittadini dell’Unione Europea.
Io credo che il modello sociale, economico e culturale della civiltà
contadina, così come si è sviluppato nel corso di millenni di storia in
Europa, contenga elementi di valore assoluto, nei quali si nasconde
la soluzione dei problemi del mondo e la via maestra verso un futuro
sostenibile per l’umanità intera.
In poche parole, non voglio che il mio messaggio si esaurisca nella
nostalgia, o si riduca al racconto di un passato bucolico, avvolto nelle
nebbie di una malinconia fine a se stessa. Ed è per questo che mi
rivolgo alle nuove generazioni, ai giovani che avranno il compito di
progettare ed attuare le azioni che dovranno cambiare il pianeta,
rendendolo in modo sostenibile un posto migliore per tutti.
Si tratta di problemi complessi: la sfida è senza dubbio una delle più
difficili tra quelle che l’umanità ha mai dovuto affrontare e non può
ridursi ad un semplice ritorno al passato. Non si possono portare
indietro le lancette dell’orologio, ma si può prendere ispirazione dai
modelli virtuosi del passato, per riformularli in chiave moderna e
riproporli applicando ad essi le tecnologie più moderne. Per fare ciò
occorre un’alleanza tra l’esperienza sapiente dei vecchi e l’energia
creativa dei giovani, sotto l’insegna del fare, cioè dell’operoso e
appassionato agire dell’uomo inteso come continuazione dell’opera
creatrice primigenia, che è a mio parere l’unica vera e genuina
espressione dell’arte.
di comunicare una ricchezza oggi perduta. Oggi percepisco dentro
di me il bisogno di continuare quel cammino ideale, sviluppando
ulteriormente alcuni temi a mio parere centrali per la mia storia
personale e per quella dell’intera umanità. Ma non mi basta più la
soddisfazione del semplice raccontare e del condividere esperienze:
ho il dovere di dare spiegazioni, analizzare i problemi e individuarne
le cause remote, fare proposte concrete di progetti. Me lo sento
chiedere tutti i giorni dai giovani con cui parlo e che mi confidano le
loro paure e speranze.
Verso di loro, proprio come verso i miei figli, l’intera mia generazione
è in debito. Alle nuove generazioni abbiamo consegnato il benessere
e la ricchezza, senza trasmettere loro i valori e le conoscenze
necessarie per vivere in modo sostenibile. Abbiamo costruito un
mondo nuovo, spesso cancellando completamente le tracce del
passato, senza preoccuparci di dare, a coloro che lo dovranno gestire,
un “libretto delle istruzioni” e motivare le ragioni delle scelte, giuste
o sbagliate, che la mia generazione ha compiuto, senza riconoscere
e spiegare gli errori che abbiamo commesso, perché non si ripetano
più nel futuro, senza riflettere sulle ragioni per cui è davvero una
fortuna nascere poveri e iniziare tutto partendo dal nulla.
Ed è proprio per spiegare tutto questo ai giovani e per proporre loro
possibili soluzioni, sotto forma di progetti concreti da realizzare,
che ho voluto scrivere questo libro intitolandolo “La vacca salverà
il mondo”.
19 marzo 2010
La motivazione principale che mi spinse a scrivere il mio primo libro,
Maghèla, era quella di fissare sulla carta il fiume di ricordi della mia
fanciullezza: ho scritto per non dimenticare e per far conoscere quelle
memorie e il mondo della mia infanzia a quante più persone possibili.
Si trattava quindi di un’esigenza del tutto personale, quasi intima,
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Fin dalla mia infanzia sono convinto che l’Eden è su questa terra:
è il creato, così come ci è stato consegnato da Dio, in tutta la sua
meravigliosa bellezza. Esso ci è stato donato puro ed incontaminato,
in quanto tutto ciò che ne fa parte contiene l’originale scintilla divina.
Tutte le cose sono permeate da quella straordinaria volontà di bene
e di amore che le ha preferite al nulla. Certo, di fronte a questa
possibilità di sublime perfezione, grande era il mio rammarico di
bambino di fronte alla constatazione impotente del male e dentro
di me pensavo: “Peccato che c’è il peccato!”. Chissà come ogni
cosa sarebbe stata meravigliosa e ogni persona più felice se non
ci fosse stato il male, mi ripetevo ogni volta che vedevo qualcosa di
brutto accadere attorno a me, oppure quando sentivo dentro di me
il richiamo subdolo e precoce delle prime tentazioni. Già da allora
mi ponevo questi dubbi, ma la mia fede di bambino era così forte e
genuina che nessun dubbio la poteva scalfire: sapevo che l’amore è
più forte della morte e che il bene avrebbe comunque prevalso.
Gli stessi interrogativi mi perseguitano ancora oggi, anche se sono
meno astratti, meno teologici e più concreti.
A differenza del Maghèla bambino, l’adulto che sono diventato si è
appesantito con gli anni di mille incertezze. Il “gran nemico”, entità
un tempo molto chiaramente distinguibile e definita, restava in
qualche modo prigioniero all’interno di un perimetro ben delineato,
e poteva quindi essere tenuto d’occhio facilmente nel caso avesse
tentato di fare del male a me o alle persone che amavo. Ma con
il tempo il maligno ha perso quella connotazione così precisa e
quasi animalesca, sfumando subdolamente nei volti sorridenti, negli
sguardi fintamente compassionevoli e negli atti delle persone che
mi hanno fatto del male. Inoltre, il peso di nuove responsabilità mi
ha appesantito il cuore e più tormentosi dubbi hanno cominciato ad
assediarmi: sarei riuscito ad allevare i miei figli, tenendoli al riparo
dai pericoli? Sarei stato capace di essere un buon genitore?
Certo il ricordo e l’esempio di mio padre mi sono stati di grande
conforto. Lui mi diceva sempre che la massima libertà sta
nel massimo rigore. Da piccolo non capivo queste parole, mi
sembravano contraddittorie perché per me libertà significava fare
quello che volevo, ma con gli anni il loro significato si è fatto più
chiaro: essere rigorosi significa prima di tutto avere rispetto per gli
altri, ed in casa mia, prima ancora che un precetto etico, il rispetto
delle regole rappresentava una ben precisa necessità pratica, sociale
ed economica.
Eravamo in sette fratelli, tutti diversi l’uno dall’altro per carattere
e attitudini: alla vivacità incontenibile che è naturale per i bambini
si aggiungeva lo stimolo continuo causato dai morsi della fame.
Bastavano poi pochi anni di differenza d’età per rendere visibili gli
effetti del passaggio generazionale, cagionato principalmente dal
mutare degli stimoli e delle condizioni esterne: pensate a come
possa essere stato diverso il mondo conosciuto dalla mia prima
sorella, nata durante la seconda guerra mondiale, e quello del mio
fratellino, partorito proprio all’inizio del boom economico a metà degli
Anni Cinquanta, rispetto alla società ancora ottocentesca da cui di
fatto provenivano i nostri genitori. Come avremmo potuto vivere tutti
quanti sotto lo stesso tetto, se a ognuno di noi fosse stato concesso
di fare quello che voleva? Sarebbe stato impossibile, totalmente
insostenibile e devastante per la nostra stessa sopravvivenza.
Oggi, invece, il rispetto dell’autorità viene visto quasi come una forma
di codardia e di viltà.
I ragazzi di oggi, pur di apparire e di farsi notare, compiono spesso
bravate o atti vandalici e li giustificano come un atto di sfida verso
un’autorità cieca e dittatoriale, una manifestazione di libertà e di
autodeterminazione contro un “potere” ingiusto.
Capita spesso di vedere giovani che trattano persone più anziane con
il cipiglio di chi non vuole essere da meno, e lo fanno per dimostrare
di non avere paura. Nessuno ha insegnato loro che rispettare non
significa sottomettersi, bensì mettersi allo stesso livello di chi è
rispettato.
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EDEN
Il rigore non è una gabbia in cui la nostra libertà langue incatenata,
ma l’impalcatura sopra cui essa può crescere e costituire l’ossatura
della nostra moralità e della nostra capacità di influenzare il corso
degli eventi.
Forse è questo uno dei tanti possibili significati del racconto della
Genesi: persino nell’Eden Dio ha voluto porre dei vincoli, quasi a
voler dire all’uomo che il dono della libertà deve essere gestito con
intelligenza e che il suo valore sta anche nel fatto che non è illimitato,
ma vincolato all’interno di regole.
E la libertà si autodistrugge, vittima della propria superbia, quando
pretende di dettare autonomamente le sue proprie regole e di
determinare ciò che è bene e ciò che è male per sé.
Quanta sapienza ritrovo ancora oggi nei precetti della cultura
contadina! Il valore di una cosa non sta nella cosa in sé, ma nel
suo prezzo, cioè nell’importanza che ha per noi e nello sforzo che
ci è costato ottenerla. Trovo questo stesso principio in una frase di
Confucio, che con straordinaria capacità di sintesi dice: “Un grande
uomo dà tutto di sé, un uomo da poco vuol tutto per sé”.
Il salto di qualità per ognuno sta nel comprendere che il valore è
dentro di noi, nei nostri sforzi, nelle nostre volontà, nelle nostre
aspirazioni, non nelle cose esteriori: quelle le possiamo possedere,
le possiamo comprare o le possiamo rubare, ma in sé non valgono
nulla. La grandezza di una persona si misura sulla base di quanto ha
dato per raggiungere un certo obbiettivo, nella capacità di sacrificio,
di dedizione, di continuità, di pazienza e di costanza.
Insomma, il Maghèla adulto ha dolorosamente compreso quello che
da bambino viveva a livello istintivo e puramente emotivo, e cioè che
la vita è una grande rappresentazione e che ci è stato donato un
palcoscenico meraviglioso per metterla in scena: il creato.
Anche se i contorni e le regole della sfida contro il male possono
mutare negli anni, rendendola sempre più difficile ed insidiosa,
occorre tenerci sempre saldamente aggrappati ad alcuni punti fermi,
a convinzioni così forti da resistere anche ai momenti più critici.
La più importante è che tutto ciò che viene dal cielo è bene per
l’uomo e per la natura. Ma dal cielo vengono anche leggi ferree, dalla
cui comprensione e dal cui rispetto dipende la consapevolezza dei
nostri limiti e della trasgressione. Certo è difficile accettare alcune
verità, che ho compreso solo dopo anni di esperienza: quando
parlo con i miei collaboratori, a volte nascono discussioni molto
accese, quasi sempre per argomenti su cui non andiamo d’accordo.
Sono infatti le divergenze di opinioni a dare origine alle dispute più
fruttuose e produttive, e un tema che spesso mi piace affrontare è
quello del giusto premio per il bene fatto: tutti ci aspettiamo che chi
fa il bene debba ottenerne un’adeguata ricompensa e ci lamentiamo
se in cambio riceviamo invece ingratitudine e ingiustizia. Al contrario,
penso che sia una cosa normale: il male che facciamo lo subiscono
sempre gli altri, noi non ne portiamo le conseguenze, mentre il
bene che facciamo lo sopportiamo noi. Un volontario un giorno mi
disse: “Se vuoi fare il bene, preparati a sopportarne l’ingratitudine”.
All’inizio pensai che questa frase fosse assurda e provocatoria, ma
l’esperienza mi ha insegnato quanto corrisponda alla realtà.
Nessuno di noi (o quasi) compie il male volontariamente, tutti anzi in
buona fede pensiamo di agire nel modo più giusto per noi stessi e
per gli altri anche quando portiamo a termine una cattiva azione. Tutti
in fondo facciamo il male per paura di perdere ciò che possediamo,
perché temiamo che rinunciando a ciò che ci appartiene rimaniamo
poveri e nudi. “Igha mia püra: l’amor al fines mai, püsè ta’n det, püsè
ta gha net” diceva un proverbio che avevo imparato da piccolo nel
mio paese: non avere paura, l’amore non finisce mai, più ne dai, più
ne hai.
L’unico modo di guadagnare tutto è perdere tutto, perché l’amore è
infinito e si accresce quando lo doniamo agli altri. Il bene non cerca
la ricompensa e paradossalmente il giusto è chiamato a pagare
per il male che fanno gli altri, senza rendersene conto. È questa
la consapevolezza che dentro di noi dobbiamo avere quando ci
proponiamo di fare qualcosa di bello per gli altri: in altre parole, la
nostra croce in mezzo al giardino dell’Eden.
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