Giugno 2011 il TRIBUNO ORGANO UFFICIALE DEL TRIBUNATO DI ROMAGNA NUMERO 8 Evoluzione tecnologica del vino dal Medioevo ai giorni nostri Prof. Roberto Zironi Dipartimento di Scienze degli Alimenti Università degli Studi di Udine Il vino e la sua produzione hanno attraversato fasi evolutive alterne prima di giungere allo stadio attuale. Ciò al fine di migliorare la qualità e portarla all’eccellenza, ovvero al livello di un prodotto che si distingue per caratteristiche chimico-fisiche, sensoriali, per unicità, tipicità e presenza di un valore aggiunto emozionale. Sono diversi i fattori che esercitano la loro influenza in fase di produzione di un vino di qualità indi- tenze tecniche, frutto del progresso scientifico e di una corretta interpretazione delle esigenze. È necessario riuscire ad organizzare in maniera coerente e integrata le variabili produttive in campo, al fine di raggiungere il migliore risultato possibile grazie all’impiego della tecnologia più avanzata. Botti in legno tradizionali Anfora vinaria rizzato all’eccellenza; i principali sono: ambiente naturale, vitigno ed attività umana. All’interno del fattore umano è possibile far rientrare - diversamente combinati tra loro - uve, conoscenza e tecnologia. L’uva, in quanto punto di partenza della filiera, è oggetto dell’attività svolta dall’uomo, sia dal punto di vista pratico che empirico. Monitorando i processi di crescita e maturazione delle uve è possibile valutare il livello qualitativo ottenibile. Affinché ciò sia effettivamente possibile è necessario che vengano impiegate adeguate compe- Determinante, in tal senso, il ruolo giocato dalle nuove acquisizioni in materia di know-how e tecnologie. Per ottenere un vino di qualità al consumo è opportuno raggiungere un corretto bilancio tra stabilità microbiologica e stabilità chimico-fisica. Si pensi agli ambienti di stoccaggio e, più in particolare, ai contenitori. Le civiltà greca e romana hanno fornito il loro contributo in tal senso. Sono numerose le testimonianze pervenute fino ai nostri giorni: basti pensare al cospicuo numero di anfore e dolia a nostra disposizione. Al passo con il progresso scientifico e i nuovi standard qualitativi, sono stati introdotti contenitori realizzati in forme e materiali differenti, così si è passati dall’impiego dell’argilla a quello del legno per la realizzazione delle botti e del vetro per le bottiglie utilizzate per il confezionamento di quantitativi inferiori di prodotto. I materiali con i quali sono stati realizzati i contenitori hanno svolto un ruolo determinante per la conservazione del prodotto e per il mantenimento del- le qualità dello stesso. È in epoca medievale che viene riposta nuova attenzione nei confronti della vitivinicoltura: rilevante il ruolo di Bernard de Clairvaux (1090-1153). Egli rivalutò l’importanza della vitivinicoltura e si impegnò in una poderosa opera di catalogazione dei vitigni e delle tecniche di produzione del vino. In particolare, individuando siti e vini, egli catalogava le condizioni migliori per ciascun genotipo. La diffusione geografica dell’ordine monastico cistercense, da egli fondato e rappresentato, ha con- tribuito alla contestuale diffusione dei vitigni e delle tecniche di coltivazione adottate. Tornando a considerare, nello specifico, l’evoluzione delle tecniche di vinificazione, un ruolo fondamentale è stato storicamente riconosciuto alla capacità di gestire l’inIl Tribuno - Periodico di storia e cultura Giugno 2011, numero 8 Fondato nel 2007 da Massimo Riva e Lorenzo Cappelli Autorizzazione del Tribunale di Forlì del 7/10-12-07 n. 35/07 Editore: Lorenzo Cappelli Direttore Responsabile: Lorenzo Cappelli Redazione: Massimo Riva Via Rossini, 120 - 47023 Cesena e-mail: [email protected] [email protected] Stampa: Filograf - Forlì Hanno scritto: Umberto Foschi, Mario Gramigna, Bruno Marangoni, Mauro Matassoni, Arturo Menghi Sartorio, Enzo Pirroni, Domenico Regazzi, Silviero Sansavini, Roberto Zironi. Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento postale - 70% Commerciale Business Forlì n. 49/2008 Comitato di Redazione: Flavia Bugani di Forlì, Francesco Donati di Ravenna, Riccardo Gresta di MisanoAdriatico, Wilma Malucelli di Forlì, Mauro Matassoni di Rimini, Nicola Milandri di Forlì, Marcello Novaga di Milano, Massimo Riva di Cesena, Giuseppe (Beppe) Sangiorgi di Casola Valsenio,Andrea Tabanelli di Brisighella, Marco Tupponi di Forlì, Liliana Vivoli di Imola. Il nostro sito è: www.tribunatodiromagna.org Sauternes, Picolit. agli zuccheri, perciò, in presenza L’evoluzione delle tecniche di vinidi bassa gradazione alcolica si reficazione e l’introduzione di specigistrano pochi zuccheri; per aufiche competenze per la produziomentare la gradazione, pertanto, ne di nuovi vini e per la realizzazione basta aggiungere zuccheri: ecco di contenitori adeguati, segnano l’unascere la moderna e “fortunata” scita dal Medioevo. In contempoidea della correzione dei mosti. ranea alla diffusione del vetro scuSulla scia di Lavoisier, Pasteur efro e pesante, iniziano a diffondersi fettua nuove e rivoluzionarie scole prime forme di marketing del vino perte e si occupa di vino nel suo e del territorio: Jean de Pontac trattato Études sur le Vin (1866). costruisce Château Haut-Brion (1550) È questo il periodo in cui, inoltre, rivoluzionando l’idea allora vigenvengono perfezionati gli studi ineAnfore vinarie rinvenute in area meditteranea te; il suo è un vino di territorio, renti la Fillossera della vite. L’esigenza un prodotto di origine, ben diverso di approfondire in maniera sempre dal classico prodotto di assemblaggio stabilità dal punto di vista chimicopiù dettagliata gli studi inerenti il per il quale l’area di Bordeaux era fisico e microbico. A tal proposito mondo del vino ed i processi di nota. è doveroso considerare l’innovadifesa delle piante e miglioramenIl vino di qualità è prodotto in una zione introdotta con la pratica di to delle uve favorì la nascita di isticantina di qualità; la qualità tiene aggiungere “spiriti” al vino, per contuzioni accademiche preposte alla conto, come variabile, anche del servarlo in maniera più efficace. formazione di veri e propri tecnici territorio di provenienza. A queDate la conoscenza della distillaagrari ed enologi. Il 12 gennaio sto punto, vengono introdotti nuozione e la disponibilità di alcol fu 1874 in provincia di Trento fu fonvi metodi di controllo della garanpossibile iniziare a produrre vini dato dal parlamento della regione zia circa l’origine del vino (ad es., molto alcolici (Porto, Marsala, Sherry austriaca del Tirolo, con sede a sigilli in ceralacca). no flor); una volta intrapresi, tra Innsbruck, l’Istituto Agrario di san Uno degli aspetti di magMichele all’Adige (IASMA), attualgiore interesse per il lasmente Fondazione Edmund Mach. so di secoli preso in esaIl 9 luglio 1876 con Regio Decreto me è il susseguirsi di di Vittorio Emanuele, nacque a teorie scientifiche ineConegliano Veneto la prima Scuola renti la produzione del Enologica d’Italia. vino e le tecniche di ferSe gli studi del XX secolo mirano mentazione; si attua il alla comprensione delle conoscenpassaggio dalla tradize empiriche, alla gestione del zionale tecnica perfecalore, ai coadiuvanti, ai sistemi di zionata dai monaci-vifiltrazione, ai sistemi di imbottignaioli, all’attenzione da gliamento, alla razionalizzazione parte degli scienziati. La della distribuzione, nel XXI secolo, voce “vino” è presente si attua il passaggio dall’enologia nell’Encyclopedie ou dicsottrattiva all’enologia conservatitionnaire raisonné des va e si rivaluta la gestione delle stasciences, des art et des bilizzazioni naturali; è interesmetiers del 1751. Nel 1785 l’Accademia Sigilli in ceralacca dei Georgofili indice il concorso: “Teoria l’altro, ulteriori sviluppi microbici, fisica della fermentai risultati portano all’ottenimento zione vinosa appoggiadi vini molto alcolici che non dita sull’esperienza”, che vengono aceti, ma prodotti sucviene vinto da Adamo cessivamente soggetti a valorizzaFabbroni, con i suoi inzione: Madera, Sherry con flor, Tokay teressanti studi sulla teoSzamorodni. Analogo discorso vale ria fisica della fermenper le uve soggette a fermentatazione vinosa. zione da Botrytis, muffe che conAntoine Lavoisier (1743sentono – in condizioni di con1794) nel suo Traite trollo, di ottenere: Tokay Aszu, Elementaire de Chimie (1789) espone teorie innovative, entrate a far Chateau Haut-Brion (Bordeaux) parte della storia del progresso sciensante notare quanto aumenti l’imtifico, che hanno contriportanza della trasmissione di adebuito a rivoluzionare le guate competenze sensoriali ai conconoscenze del tempo. sumatori. Di tali acquisizioni prenA ciò va aggiunto che si programde atto Jean-Antoine mano e gestiscono le “mode e si Chaptal, nel suo trattaregistra una marcata attenzione to interamente dedicanei confronti dei consumatori, dei to all’arte di fare il vino quali viene costantemente ricer(1807): egli ha il mericato il coinvolgimento, quasi a rento di intuire, sulla base derli testimoni credibili dell’ottedegli elementi chimici, Bozze per lo stampo dei sigilli utilizzati dal Conte Asquini per la nuta qualità del prodotto. che l’alcol è collegato commercializzazione del Picolit 2 LA FACOLTÀ DI AGRARIA NEL POLO VITIVINICOLO DI TEBANO Domenico Regazzi La Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, che già vantava al suo interno rilevanti competenze scientifiche in materia di vitivinicoltura, iniziò nel 1963 la sua collaborazione con il Comune di Faenza che mise a disposizione per attività sperimentali i poderi ereditati dal Conte Cesare Naldi. Inizia così un lavoro di selezione clonale volto a migliorare sotto il profilo qualitativo la produzione dell’uva. La ricerca e la sperimentazione si estendono poi al settore enologico, grazie alla realizzazione della Cantina Sperimentale che prende avvio nel 1968. La collaborazione si sviluppa positivamente puntando alla valorizzazione dei vini a denominazione di origine controllata allora riconosciuti e dell’intera vitivinicoltura romagnola. La necessità di disporre di piani di finanziamento adeguati per sostenere l’attività di ricerca indusse la Facoltà di Agraria ad istituire, nel 1970, il C.RI.VE (Centro di Ricerche Viticole ed Enologiche), che diventò attivo nel 1972 e che si proponeva di promuovere, coordinare ed effettuare ricerche di base ed applicate nei settori della viticoltura e dell’enologia. Il Centro è articolato in sei sezioni (Economica, Enologica, Fitoiatrica, Fitopatologia, Microbiologica e Viticola), ognuna delle quali dispone di una propria autonomia, operando comunque nell’ambito di programmi integrati e coordinati. Il C.RI.VE crea i presupposti amministrativi per confrontarsi, unitamente alle altre realtà coinvolte nell’esperienza di Tebano, con la nascente Regione Emilia-Romagna. L’amministrazione regionale, dal canto suo, colse subito l’importanza dell’iniziativa e si adoperò per sensibilizzare altre istituzioni (Enti, Consorzi; Cantine) affinché si approntasse una struttura di supporto e di collegamento con gli attori della ricerca. Nasce così nel 1972 l’E.S.A.V.E. (Ente Studi Assistenza Viticola Enologica Emilia-Romagna) che vede coinvolti oltre all’Azienda Naldi che ospita le attività di ricerca e sperimentazione, l’Ente Tutela Vini Romagnoli, l’Università di Bologna e il Comune di Faenza. Si trattava di un ente privato, destinato ad operare nell’intero ambito regionale per gestire i rapporti fra l’innovazione e la filiera vitivinicola. Nel 1974 inizia la collaborazione fra E.S.A.V.E. e C.RI.VE. che continuerà con successive convenzioni sino al 1997, anno in cui nasce il C.R.P.V. (Consorzio Ricerche Produzioni Vegetali), organismo che riunisce l’operatività di E.R.S.O., E.S.A.V.E. e C.E.R.A.S. Il C.R.P.V., la cui base sociale risulta costituita da Associazioni di Produttori, Istituti di Assistenza Tecnica e Formazione Professionale, Aziende Sperimentali Regionali, Amministrazioni Provinciali e dalle principali Organizzazioni economiche del settore, si occupa dell’organizzazione della domanda di ricerca nel comparto delle produzioni vegetali (filiera ortofrutticola, vitivinicola, olivo-oleicola, grandi colture e sementi) ed in particolare della formulazione di progetti di ricerca e si sperimentazione, del loro coordinamento e della diffusione dei risultati. La ricerca e la sperimentazione che si svolgono nel polo di Tebano interessano diversi ricercatori della Facoltà di Agraria, che oltre a trovare in quella realtà risorse e stimoli per la loro crescita scientifica, coinvolgono nelle diverse attività gli studenti con esercitazioni, visite di studio, preparazione di tesi di laurea. Tebano rappresenta quindi anche un valido supporto per la didattica della Facoltà. Nella consapevolezza di quanto sopra nel 1995 il Consiglio di Facoltà unanime chiede l’inserimento nello statuto dell’Università di Bologna del Diploma universitario in Viticoltura ed Enologia, con l’impegno a svolgere la didattica applicativa presso il Centro Vitivinicolo Regionale di Tebano. Fra le motivazioni alla base della proposta si ricordano: l’importanza della filiera vitivinicola a livello locale e nazionale, la vocazione del territorio, la sensibilità e l’interesse degli enti di sostegno, le esigenze di una specifica professionalità (enologo) nel mondo del lavoro, la disponibilità di adeguate risorse della Facoltà. Nel 1999, dopo la stipula di una apposita convenzione fra l’Ateneo, il Comune di Faenza, la Fondazione Flaminia, la società SER.IN.AR. e la Società Consortile Terre Naldi il D.U. in Viticoltura ed Enologia viene attivato. Dopo appena un biennio, a seguito della riforma dell’ordinamento degli studi universitari, il D.U. viene trasformato in laurea (triennale) in Viticoltura ed Enologia. L’iter formativo prevede discipline di base (chimica, matematica, statistica, fisica) e discipline caratterizzanti riguardanti la coltivazione e la difesa della vite, la vinificazione, il controllo della qualità, le tecniche di analisi chimiche, biologiche e sensoriali, il mercato ed il marketing del vino. Le attività formative sono svolte presso il Polo di Cesena per i primi tre semestri e presso la struttura di Tebano per i restanti tre semestri. La gestione di quest’ultima (vigneti, cantina, laboratori, ecc.) è stata affidata dal Comune di Faenza alla Società Terre Naldi. Società creata 3 nel 1997 per dotare il territorio di una realtà in grado di sviluppare idee innovative per l’agricoltura ed in particolare per la vitivinicoltura. Il corso di studi ha incontrato fin dall’inizio il favore degli studenti e ogni anno se ne iscrivono 40-50. Ciò in virtù sia della qualità dell’offerta formativa proposta, sia in relazione alle opportunità professionali offerte. Il corso di laurea forma una figura in grado di svolgere mansioni e di ricoprire responsabilità di tipo tecnico e gestionale riguardanti la produzione dell’uva, la sua trasformazione, il controllo dei processi e della qualità del vino e degli altri derivati, il mercato ed il marketing. Gli sbocchi occupazionali sono molteplici: aziende agricole per la gestione dei vigneti, aziende di vinificazione, conservazione, imbottigliamento del vino e degli altri prodotti (succhi, aceto, confetture, distillati), aziende di distribuzione dei prodotti vitivinicoli e dei mezzi tecnici per la produzione, laboratori di analisi, enti, associazioni, consorzi ed enoteche. Va inoltre ricordato che questa laurea fornisce l’abilitazione alla professione di Enologo riconosciuta a livello europeo. Nel 2006 presso il Polo di Tebano nasce la Società ASTRA – Innovazione e Sviluppo dalla fusione di rami d’azienda di tre importanti realtà operanti nel settore dei servizi alla ricerca e alla sperimentazione, nonché alle imprese del settore agricolo e agro-industriale. Trattasi del C.A.T.E.V. (Centro Assistenza Tecnologica Produzioni Vegetali), del C.I.S.A. “M. Neri” (Centro Interprovinciale di Sperimentazione Agroambientale) e Terre Naldi relativamente al ramo d’azienda sperimentale. ASTRA opera nell’ambito delle filiere agro-alimentari fornendo servizi di ricerca, sperimentazione e divulgazione ad Enti pubblici e privati. Fa parte del polo di Tebano anche il C.A.V. (Centro Attività Vivaistiche), una cooperativa di vivaisti che dal 1982 opera per il miglioramento della qualità del materiale vivaistico di diverse specie ortofrutticole nell’ambito del Sistema di Certificazione Nazionale. La presenza nel Polo vitivinicolo di Tebano di adeguate strutture di produzione e di trasformazione e delle diverse componenti che si occupano di vitivinicoltura (ricerca, sperimentazione, divulgazione dell’innovazione e formazione) ha consentito e consente di creare proficue collaborazioni, razionalizzando l’impiego delle risorse e fornendo risultati utili alla valorizzazione della filiera vitivinicola locale e nazionale. IL TENORE ANTONIO MORIGI Mario Gramigna* portata in alto. Questa è la vera storia del “Fornaretto di Cesena” che, come volevano gli schemi romantici, dalla miseria popolana degli inizi del secolo scorso, ascende ai vertici dell’arte. Figlio di un tornitore, con ascendenti da Monteleone di Roncofreddo e di una sarta fanese, Antonio Morigi nacque nella Cesena del 1894; primo di sei fratelli dimostrò fin da subito grandi doti e sensibilità musicali che, però, non tro- Il Tenore Antonio Morigi 1894-1969 Lo scorrere del tempo ci fa sentire le vicende del passato recente come eventi che già non ci appartengono più, eppure, il recupero del nostro retroterra definisce la dimensione del nostro essere attuale; lungi dall’esaltare populisticamente il passato, sarà cura focalizzare lo sguardo della nostra dissertazione su di una “vita qualunque” per poter rinverdire il palpito che l’ha Soprano Lina Pagliughi 1907-1980 (con dedica ad Antonio Morigi) varono terreno fertile per lo sviluppo nel forno dove lavorava come panettiere. Come in ogni favola nella quale all’eroe la sorte arride, il celebre maestro di canto Arturo Melocchi, colpito dalle sue qualità, gli impartì gli studi necessari alla sua crescita musicale presso il Conservatorio “Gioacchino Rossini” di Pesaro, imponendogli, però, come conditio sine qua non il trasferimento in terra marchigiana, dapprima nella città materna ed in seguito in quella dell’istituto. Locandina del 1939. Nel cast il Tenore Antonio Morigi Giunto a Fano, Antonio apprese che il tenore Alessandro Bonci, suo concittadino celebre per la rivalità con Enrico Caruso, per 4 mantenersi agli studi, aveva lavorato come garzone proprio nel negozio di calzature degli zii materni nel quale anch’egli stava adoperandosi ricambiando all’ospitalità offerta dai parenti. Dopo essersi votato completamente al canto con tutta la passione e l’infinita pazienza i risultati divennero manifesti nel 1924, quando affrontò il pubblico concittadino nel teatro comunale gremito in ogni ordine di palchi, mentre “Alessandro Bonci, entusiasta, lo invitò a continuar nel cammino intrapreso”, come commentano, con sincerità, le cronache dell’epoca. Lo studio, però, è lungo e gli entusiasmi iniziali, se minati da tanti sacrifici, possono crollare se alla coscienza delle proprie qualità non si aggiunge il sostegno di familiari ed amici. È bello e doveroso ricordare quanti si prodigarono affinché Morigi potesse fregiarsi dei più dolci allori. Tra di essi è da lodare la generosità dei concittadini Nello Casali (ristoratore ed inventore del cestino da viaggio), Camillo e Renzo Garaffoni (proprietari del Caffè Centrale), il professor Riccardo Simoncelli (valente pianista), Amedeo Ravegnani e Mario Bianchi (il celeberrimo Beniamino Gigli 1890-1957 (con dedica ad Antonio Morigi) ri di prosa. Giunto alla fine degli studi cominciò la carriera teatrale (pare che il debutto sia avvenuto, intorno al 1920, al teatro di Rovigo, nel Don Pasquale di Gaetano Donizetti) ed ebbe, in seguito, l’opportunità di affiancare stelle quali l’esordiente Mafalda Favero, Beniamino Gigli, Ezio Pinza, Giuseppe Lugo e la romagnola d’adozione Lina Pagliughi. Tenore Mario Del Monaco 1915-1982 (foto di scena in Tosca) Monty Banks dei film muti d’oltreoceano). Grazie a questi mecenati, Antonio proseguì gli studi pesaresi con altri famosi artisti tra i quali il riminese Ettore Parmeggiani, anch’egli allievo del Melocchi e primo interprete del “Nerone” di Pietro Mascagni. In questi anni maturò anche amicizie con i compagni di studio tra i quali il compositore Dino Olivieri, autore di “Tornerai”, ed i fratelli Annibale e Carlo Ninchi, atto- Tenore Mario Del Monaco 1915-1982 (con dedica ad Antonio Morigi) Il tratto peculiare della sua arte era certo l’inquietudine costante di scoprire sempre e comunque dimensioni diverse e nuove ad ogni personaggio del repertorio che diveniva via via sempre più impegnativo: ne è testimonianza l’indimenticabile interpretazione in “Traviata”, replicata con sempre maggior successo in numerose città d’Italia, nella quale Morigi univa ad una forte caratterizzazione del personaggio la finezza della dizione. Altra sua grande dote, infatti, fu quella di essere molto ligio ed attento alla tecnica appresa negli studi pesaresi, fino ad applicare quella “sana abitudine” (come soleva definirla) di fare i vocalizzi tra un atto e l’altro per risistemare la voce al fine di evitare carenze e disomogeneità di emissione. Di queste qualità, purtroppo, non è rimasta neppure una testimonianza giacché Antonio non registrò mai la sua splendida voce né in una aria da camera, né in un’opera completa. Ci possono raccontare tutto, però, i suoi numerosi allievi, tra i quali spicca certamente il celeberrimo tenore Mario Del Monaco, del quale Morigi era un caro amico di famiglia. Egli, infatti, fu il primo maestro del celebre interprete di Otello ed intuì subito le grandissime capacità dell’allievo, educandolo con perizia e competenza. Quando ormai era già divo, Del Monaco gli fu riconoscente in diverse circostanze pubbliche e private, tra le quali è impossibile non citare l’articolo comparso sul settimanale “Oggi” nel giugno del 1967 e titolato “Il caro amico a cui devo tutto”. 5 Quando Antonio partì per una lunga tournée nel sud-est asiatico (India, Principato di Golconda, Giava, Sumatra, Borneo, Afghanistan), le strade di Morigi e Del Monaco si divisero, ma non la stima e l’affetto, perpetuate in un epistolario che ora è conservato tra i ricordi più preziosi di chi gli è stato più vicino e che lo serba quale raro documento di commossa gratitudine. Come in ogni libretto di melodramma, vi è anche qui una svol- Arturo Melocchi 1879-1960 Baritono e didatta ta improvvisa che dilania le certezze conquistate con tanta fatica. Morigi, da perfetto uomo incarnante l’ideale romantico, non si perse d’animo ed affrontò un nemico, una cecità che non lo abbandonò mai, concentrandosi ancora di più sul suo lavoro di insegnante. Dapprima riuscì a calcare ancora le scene disimpegnandosi dai ruoli più gravosi, ma dagli inizi degli anni ’40 fu costretto all’abbandono. Una delle ultime apparizioni in scena risale a quel periodo proprio nel Teatro Comunale di Cesena per un allestimento di “Tosca” di Giacomo Puccini accanto all’amico Giuseppe Lugo che lo volle nel cast dell’opera. Da grande interprete diventò, come si è accennato, un eccellente insegnante e tra i suoi al- Una Locandina degli anni trenta. Nel cast il Tenore Antonio Morigi lievi, oltre al già citato Del Monaco, si annoverano Ferruccio Ricordi (in arte Teddy Reno, allora residente a Cesena), celebre voce della musica leggera; Sergio Ballani, basso, che dopo una brillante carriera lavorò presso il coro della RAI di Roma come supplente del direttore e divenne insegnante di canto al conservatorio di S.Cecilia della capitale; Angelo Bartoli, voce dalla fulgida carriera che fu tra i primi tenori del teatro dell’Opera di Locandina del 1941. Nel cast il Tenore Antonio Morigi Roma e la cui figlia, Cecilia, celebre mezzosoprano, è star internazionale; Mario Gramigna, basso che ha cantato in Italia ed Europa e che è stato insegnante presso l’istituto musicale “F.lli Malerbi” di Lugo; Alfredo Pagliarani, brillante tenore vincitore di un concorso lirico indetto dalla RAI negli anni ’40; i tenori Felice Macori e Giorgio Giovagnoli; il bass-baritono Umberto Rossi ed il tenore drammatico Gianfranco Calistri, arti- sta poliedrico di eccellenti qualità. Un’ulteriore luce che illumina Morigi la si può scorgere guardando la sua pudica riservatezza che lo condusse a rifuggire i clamori e le facili gratificazioni dell’artista di successo e che lo accompagnò fino alla morte che lo colse nella sua Cesena nel settembre del 1969. * Le foto e le locandine sono pubblicate per gentile concessione di Mario Gramigna Via Savignano,54 Gatteo (FC) tel 0541-932511 CASA UFFICIO HOTEL www.gardiniperarredare.it 6 40° ANNIVERSARIO DEL TRIBUNATO DEI VINI DI ROMAGNA Bertinoro 25 Marzo, 2007 LA VITICOLTURA ROMAGNOLA FRA PASSATO E FUTURO La viticoltura della Romagna evidenzia ancora oggi, seppure in forma latente, le lontane origini storiche e la sequenza degli eventi socioeconomici che nei secoli hanno modificato il sistema agricolo e le relative produzioni. Scarsa considerazione è sempre stata riservata alla sequenza delle dominazioni ed ai relativi sistemi di governo che si sono succeduti nell’eterogeneo territorio romagnolo. La diversa orografia del territorio, le ampie aree paludose della pianura hanno influenzato le abitudini alimentari delle popolazioni, condizionando anche lo sviluppo viticolo, la tipologia di vino, soprattutto quando questo veniva consumato direttamente dalla comunità che lo aveva prodotto. Il vino al pari del pane veniva considerato alimento ed entrava nella dieta giornaliera con un notevole apporto energetico, richiesto dalla fatica fisica imposta dal lavoro manuale. La vite in epoca romana Nella Romagna, come nella maggior parte dei Paesi dell’area temperata mediterranea, la coltivazione della vite ha seguito l’evoluzione storica e socioeconomica delle popolazioni e ne ha condizionato l’esistenza quotidiana. In origine l’uva era raccolta dalle piante che crescevano spontanee nei boschi delle aree collinari e nei dossi che emergevano dalle zone paludose della pianura, con frequenti allagamenti da parte dei fiumi e torrenti che discendevano dall’Appennino tosco-romagnolo. Con la nascita dell’agricoltura e la successiva stabilizzazione delle popolazioni, le viti venivano coltivate nelle aree pedecollinari, meno esposte alle piene dei fiumi. L’uva prodotta forniva un alimento fresco nel periodo estivo-autunnale e poteva essere conservata per l’inverno per il consumo diretto, su paglia, appesa ai di Bruno Marangoni soffitti o essiccata al sole. Quando i grappoli venivano pigiati, dal mosto si otteneva vino o altri prodotti alimentari. Con l’età del bronzo (1900 a.C.), nell’area emiliano-romagnola si insediano a ovest popolazioni della civiltà terramaricola (modenese, reggiano), nella parte centrale la civiltà villanoviana (bolognese), gli appenninici a sud e gli adriatici a est. Con la stabilizzazione delle popolazioni tribali, il sistema agricolo subisce notevoli cambiamenti, in quanto viene orientato alla produzione dei beni necessari alla comunità sia per gli alimenti sia per i mezzi necessari per la vita quotidiana. I ritrovamenti negli scavi archeologici di falci, coltelli, asce e contenitori per alimenti evidenziano come, nel 1250 a.C., esistessero villaggi gestiti con sistemi di tipo cooperativistico tribale. In queste comunità veniva organizzata la caccia e la pesca, il lavoro per la coltivazione e la bonifica dei terreni e si intrattenevano scambi con le comunità vicine. Le popolazioni Etrusche insediatesi nell’area di Spina intorno al VI secolo a.C. si sostituirono agli Umbro - Sabelli e portarono una nuova civiltà che si richiamava alle popolazioni orientali indo- asiatiche. La disponibilità di terreni agricoli aumentò grazie alle opere di disboscamento e di bonifica degli acquitrini che si trovavano a nord della futura via Emilia. La costruzione dei canali favori la viabilità e il trasporto fluviale. La messa a coltura dei terreni e la regimazione delle acque, anche nelle aree collinari, portò ad un incremento dei vigneti e del consumo di vino, consumato soprattutto dalle popolazioni locali. Scambi commerciali riguardanti le ceramiche, i cereali, vini resinati, esistevano con la Grecia, e la sponda opposta dell’Adriatico. La migrazione degli Etruschi nell’area padana e dell’Italia centrale introdusse l’allevamento dei bovini di origine indo-asiatica a mantello bianco 7 come la razza chianina, e derivate quali, la romagnola e la marchigiana. Le popolazioni etrusche subirono le invasioni celtiche (Lingoni, Senoni, Galli Boi) e le popolazioni galliche si insediarono nelle zone pedecollinari (selva Litana) e nelle area di pianura già bonificate. Le varie tribù galliche costruirono villaggi di capanne, sopraelevate dal suolo, in modo da essere protette dalle frequenti piene dei fiumi. Il loro sistema agricolo era limitato all’allevamento, alla coltivazione dei cereali, legumi e della vite. Il trasporto dei prodotti, a differenza degli etruschi e dei romani, avveniva in contenitori di legno quali mastelli e botti. I Galli introdussero le botti per il trasporto del vino e altri liquidi. La costruzione della via Flaminia e la fondazione di Rimini facilitò l’invasione della Romagna da parte dei romani che, nel 191 a.C. sottomisero definitivamente le popolazioni galliche. I celti sopravvissuti rimasero nei territori romagnoli e contribuirono alla creazione del nuovo sistema agricolo. Da Rimini inizio successivamente la costruzione della via Emilia che modificò l’assetto territoriale, politico e socio economico dell’intera Romagna. La costruzione della nuova strada, ai bordi delle aree paludose, avviò nuove vie di commercio fra il porto di Rimini con le sponde opposte del mare Adriatico. In questo periodo i commerci furono intensificati soprattutto con il porto di Butrinto (attuale sud dell’Albania) che divenne “terminal terrestre” dei paesi orientali per lo scambio commerciale con l’Europa. La vite ebbe larga diffusione durante tutto il periodo della dominazione romana e il territorio romagnolo, grazie alla fertilità del terreno, era considerato per le alte rese produttive dei vigneti. I vini romagnoli erano poco apprezzati, consumati localmente, o dai legionari, abituati a bere Segue a pag. 8 Segue da pag. 7 anche una mistura di acqua e aceto. Il vino come pure l’aceto, miscelato all’acqua, aveva la funzione di rendere potabile l’acqua stessa. Con la caduta dell’Impero Romano d’Oriente, Ravenna divenne la capitale dell’Esarcato e la viticoltura notevole importanza economica ed il vino era, assieme ai cereali e l’allevamento, una delle principali fonti di reddito. Le invasioni barbariche e la decadenza dell’Impero romano portarono anche la riduzione della viticoltura in quanto molti vigneti e zone agricole vennero abbandonate, e la produzione del vino era limitata alle zone adiacenti la città. Il vino, assieme ai cereali (pane in particolare) viene considerato alimento base per la nutrizione quotidiana. La Rinascita della viticoltura. Intorno ai secoli XI e XII si ha in generale il risveglio delle varie attività umane: rifioriscono le arti, il commercio e l’agricoltura e comincia a formarsi una nuova società . Nelle campagne, a seguito del miglioramento economico, gli agricoltori cominciano a produrre, oltre che per il proprio fabbisogno, anche per i mercanti organizzati nel trasporto via terra e via mare. La nuova classe di agricoltori riprende la coltivazione dei vigneti, frutteti, orti, ma anche del frumento, canapa e lino. Il maggese ed i terreni incolti cedono il passo alla specializzazione dei seminativi, delle colture arboree pregiate, degli ortaggi e dei vigneti. In questo periodo riacquistano importanza gli studi agronomici e, accanto alle nozioni lasciate dai classici latini, si accrescono e approfondiscono nuovi insegnamenti desunti dalla pratica agraria del tempo (“De agricoltura volgare” di Pier de Crescenzi). I vini erano tenuti in grande considerazione negli Statuti e nei Bandi comunali dove si imponeva la salvaguardia delle vigne dai ladri e dagli animali domestici, e si stabiliva l’epoca della vendemmia allo scopo di rendere il vino serbevole e più pregiato. Forti erano le sanzioni per chi vendemmiava prima del tempo, per chi non recintava il vigneto, per chi vendeva uve acerbe, e per chi fa- ceva il vino con uve comprate (che quasi sempre erano rubate). I vini ottenuti dalle uve rubate durante la notte al chiaro di luna avevano acquisito il nome di “vèn lunein”. Venivano, a questo proposito, nominati dei guardiani chiamati”Saltuarii” o “BallitoresI manuali e i trattati ottocenteschi degli agronomi emiliani come Filippo Re, Carlo Berti-Pichat, Franceso Luigi Botter, riportano un’ampia casistica di sistemazioni diverse che dipendono soprattutto dalla natura dei terreni: se i terreni sono sciolti viene utilizzata una sistemazione semplice, “a rivale”, con un solo filare lungo campo, a lato della scolina, oppure “doppia”, dove la scolina separa due filari di viti alberate. Il sistema del filare doppio (“i dopi”) viene poi abbandonato per l’eccessivo ombreggiamento fra gli alberi e la minor qualità delle uve. Con l’arrivo di Napoleone, nel 1796, la struttura fondiaria viene profondamente modificata e la proprietà dei terreni passa dal potere ecclesiastico ai privati. Le famiglie più abbienti acquisiscono i poderi dalle abbazie o dalle chiese parrocchiali. L’organizzazione della produzione agricola e del vino, in particolare, subisce una profonda modificazione e inizia la vendita anche al dettaglio da parte delle piccole aziende agricole. Alla fine dell’800 la comparsa della Fillossera e della Peronospora. Questi parassiti portarono a una crisi di grandi proporzioni che si ridimensionò solo con la riconversione totale degli impianti innestandoli su piede americano, e con l’inizio di trattamenti antiparassitari contro i patogeni fungini. Gli anni trenta Il 1929 venne dunque archiviato con il successo del Concordato che creava anche nel nostro paese un clima nuovo nei rapporti tra potere e clero sempre piu’ vicino al regime e con quell’altro indiscutibile successo della prova elettorale. Nella memoria collettiva, quasi a rimuovere momenti di grande imbarazzo (almeno per alcuni) verrà ricordato come l’anno della “neve grossa” a seguito della grande nevicata di fine febbraio e del freddo intenso che raggiunse punte di 20 gradi sotto lo zero con danni forti alle piante. 8 La Festa Nazionale dell’Uva, che proprio in quell’anno prese il via sembrò quasi una beffa per gli agricoltori che videro seccarsi, per il freddo di febbraio, tutte le viti. Ai danni della gelata invernale del 1929 si aggiunse la forte crisi economica e la viticoltura romagnola subì una temporanea crisi e cominciò a riprendersi solo nel 1935 quando entrarono in produzione i nuovi vigneti e quelli recuperati dopo il grande freddo Nello stesso anno la festa della vendemmia riprese in molti paesi della Romagna. I proprietari delle cantine ripresero a vinificare e l’uva veniva commercializzata in “castellate” e raggiunse il prezzo di lire 1000 a castellata (circa 8 qli di uva pigiata) oppure con in navazzi posti sui carri romagnoli. Negli stessi anni l’uva di alcuni vitigni come: chasselas dorèe, rossola di bertinoro, angela bolognese, salamanna, uva d’oro, venivano lavorate in cassette e destinate al consumo fresco oppure appese nei solai per il consumo invernale delle famiglie. In questo decennio molte erano le cantine e il vino costituiva una delle principali fonti di reddito per l’agricoltore, in quanto veniva commercializzato soprattutto nel settentrione d’Italia. Nonostante la forte attività di commercio non vi fu una valorizzazione dei vini romagnoli e nelle zone di pianura del ravennate e forlivese erano più conosciuti gli “acetifici” e altre strutture che lavoravano i sottoprodotti della vinificazione (vinacce, fecce, ecc.). Il vino veniva commer- cializzato all’ingrosso in botti da 5 hl (botti da viaggio) poste su camion, vagoni o birocci mentre al minuto veniva venduto in damigiane. Nel commercio era molto usato il fiasco impagliato da l,75 litri, adottato inizialmente per il chianti toscano. Il vino era messo in commercio in modo anonimo, distinto per colore, e utilizzato industrialmente per il taglio di altri, e per la produzione di vermouth, brandy e aceto. Una particola re produzione riguardava i filtrati dolci e i “mosti muti” venduti soprattutto nelle zone emiliane come componenti dei vini lambrusco emiliani. Nel periodo fra le due guerre molto attivi sono i Consorzi Provinciali di Viticoltura e la formazione tecnica viene gestita dalle Cattedre Ambulanti di Agricoltura, che formano i tecnici per la costituzione dei nuovi vigneti. Si inizia a sostituire l’albero vivo con il tutore morto (pali di castagno e di cemento) anche in pianura con la costituzione dei vigneti specializzati. Nascono le prime Cantine sociali e gli Enopoli consortili ed i produttori di uva si raggruppano e diventano partecipi nella trasformazione dell’uva in vino e nella commercializzazione del prodotto. Già all’inizio del ‘900 erano iniziate le polemiche sulla scelta tra vigneto specializzato e coltura promiscua, disputa che si risolverà solo nell’ultimo dopoguerra a favore del vigneto specializzato. La ragione di queste controversie nasce dall’esigenza di ottimizzare gli impianti produttivi e di trasformazione in modo da razionalizzare l’uso dei mezzi tecnici disponibili. Il passaggio dal vigneto tradizionale a quello specializzato significava un forte cambiamento del sistema agricolo, in quanto venivano a mancare i sottoprodotti degli alberi di sostegno come foglie e legna utilizzati dalla famiglia contadina. Fino agli anni ’50 era radicata la credenza che l’uva di vigna fosse di qualità inferiore per cui veniva quotata mediamente due lire al quintale in meno dell’uva di alberata, poiché il vino che si otteneva era ritenuto meno conservabile. La vita economica di un’alberata era ritenuta pari a settant’anni, mentre quella di un vigneto era solo di quarant’anni. È in questi anni che la vecchia “alberata romagnola” caratterizzata da mantenere la fascia produttiva fra gli alberi si trasforma in un pergolato molto denso ed espanso, che insieme ad una potatura lunga e ricca consente una produzione più elevata fra tutti i sistemi “maritati”. Le alberate divennero poi doppie e triple distanziandosi le une dalle altre di 57 metri invece dei 25-30 tradizionali. Al loro interno ogni 5-7 metri vi era un olmo, si avevano così 100-200 ceppi/ha nell’alberata doppia e 200300 nella tripla e per ogni olmo si potevano ottenere fino a 25-30 kg di uva. Grazie allo studio della fisiologia, si abbandonò gradualmente la potatura biennale o alla “modenese”, che creava gravi squilibri vegetativi con ripercussioni sulla longevità della pianta, a favore di quella annuale (messa a punto nel faentino) in modo da rendere la pianta più equilibrata dal punto di vista vegetativo e produttivo. Fra le diverse tecniche sperimentate per i lambruschi si adottò il metodo della “tirella speronata”. Altro grosso problema che affliggeva la viticoltura in questo periodo era l’elevato grado di diffusione della “grafiosi dell’olmo”, tentativi di sostituzione dei sostegni delle viti vennero fatti introducendo altre specie da diversi paesi come l’Ulmus pumila e l’Ulmus buisman, oltre al piop- po e all’acero, ma i risultati ottenuti erano scarsi; questo fu quindi il principale motivo di scomparsa delle alberate. Questo fattore unitamente all’invasione fillosserica furono i fattori che hanno portato all’incremento dello sviluppo della coltura specializzata. Il passaggio al vigneto specializzato fu favorito anche dal progressivo incremento della fertilità dei terreni dovuto al crescente uso dei concimi minerali e soprattutto organici disponibili grazie all’intenso sviluppo della zootecnia. Le nuove conoscenze che si andavano acquisendo sulla vite e la loro divulgazione capillare (Cattedre ambulanti di agricoltura) sono un ulteriore stimolo al miglioramento della tecnica viticola. A partire dal 1950 la viticoltura in Romagna subisce un profondo mutamento e dal sistema promiscuo (filari) si passa a quello fortemente specializzato, con una riduzione delle superfici destinate a vigneto ma con aumento delle produzioni unitarie di uva. Il vino viene prodotto con tecniche non molto raffinate e vi è, soprattutto nelle aree pianeggianti, l’adozione dei torchi a coclea o continui per la produzione di vino “torbolino” che veniva commercializzato in cisterne, spesso insieme alle fecce, per la produzione di altri vini e derivati. L’uso del torchio continuo era molto diffuso presso le cantine sociali e private, grazie anche alla presenza in Romagna delle Ditte che producevano queste attrezzature. Un tale sistema di vinificazione influenzò negativamente la qualificazione dei vini della bassa Romagna. Lo sviluppo industriale degli anni “1960” induce l’esodo della popolazione dedita all’agricoltura verso le nuove aree, che necessitano manodopera e consentono una continuità occupazionale. La migrazione dalle aree agricole, in particolare quelle collinari, provoca un nuovo assetto del sistema agricolo romagnolo che deve rinnovarsi sia sotto l’aspetto sociale sia tecnologico. Inizia la ristrutturazione dei vigneti, con il miglioramento delle tecniche enologiche si ha una forte aggregazione viticoltori con l’aumento, non sempre razionale, delle “cantine sociali. Questi cambiamenti, come già avvenuto altre volte nel passato, hanno determinato una diversa distribuzione della proprietà fondiaria con conseguente passaggio dalla mezzadria alla coltivazione diretta dei poderi. Molti agricoltori passano dalla semplice produzione di uva alla vinificazione e relativa commercializzazione del prodotto. In questo periodo si ha finalmente la consapevolezza della qualità e validità dei prodotti enologici romagnoli e si creano i Consorzi di Tutela dei vini di Romagna, che vengono unificati nell’Ente Tutela Vini Romagnoli. Grazie alla intraprendenza, capacità, e lungimiranza di Enti pubblici e Privati e di Persone che hanno lavorato con grande passione per il rin9 novo della viti-vinicoltura romagnola. Vengono intraprese azioni per il rinnovo e la specializzazione degli impianti, si introducono nuove tecniche di gestione del vigneto e viene avviata la qualificazione dei prodotti enologici . I tre principali vitigni romagnoli (Albana, Trebbiano romagnolo e Sangiovese) ottengono la denominazione di origine controllata (DOC) e possono finalmente entrare nel novero dei vini di alta qualità. Nel 1967 viene fondato il Tribunato dei Vini di Romagna che si propone di avvicinare fra loro i Romagnoli, di aprire il dialogo fra le Istituzioni culturali e quelle scientifico-tecnologiche per favorire la conoscenza storica e tradizionale del territorio romagnolo. Il Tribunato e l’Ente Vini di Romagna riescono a combinare un matrimonio che sembrava impossibile, avviando una convenzione con la Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna per la sperimentazione vitivinicola creando il CRIVE, per la parte universitaria e l’ESAVE per la parte Regionale e del Comune di Faenza. Vengono avviate molte iniziative sia per il settore viticolo sia per quello enologico che portano forti innovazioni pratico applicative e migliorano fortemente la gestione dei vigneti e la qualità dei vini. In questo periodo si ha finalmente la consapevolezza della qualità e validità dei prodotti enologici romagnoli e si creano i Consorzi di Tutela Vini. Si intraprendono azioni per il rinnovo e la specializzazione degli impianti, si introducono nuove tecniche di gestione del vigneto e viene avviata la qualificazione dei prodotti enologici. I tre principali vitigni romagnoli (Albana, Trebbiano romagnolo e sangiovese) ottengono la denominazione di origine controllata (DOC) e possono finalmente entrare nel novero dei vini di alta qualità. L’attuale situazione del mercato che si è allargato a livello internazionale ha portato anche in Emilia-Romagna forti cambiamenti del sistema di produzione e trasformazione delle uve con una forte differenziazione fra i vini prodotti e di altri derivati ( mosti concentrati, zucchero d’uva, acido tartarico, aceto, saba, agresto,ecc.). I sistemi viticoli attualmente presenti nell’area romagnola sono caratterizzati da due tipologie di prodotto e in particolare suddivise fra la pianura e la collina. In pianura la produttività dei vigneti è più elevata ed i vini , di medio standard qualitativo, vengono commercializzati attraverso grandi Enopoli che ricorrono anche a contenitori diversi dalla tipica bottiglia in vetro. La produzione collinare, integrata con quella di pianura, sta dando ottimi risultati nella qualificazione e esportazione dei vini romagnoli che hanno trovato la loro giusta collocazione sul mercato. Le produzioni di pianura possono essere notevolmente migliorate sotto l’aspetto qualitativo e integra- te anche con la messa in coltivazione di vitigni internazionali e locali. L’adozione di vitigni integrativi nel “panorama ampelografico romagnolo” caratterizzato, in pianura, dal tradizionale “Trebbiano di Romagna” può contribuire ad una maggior internazionalizzazione vinicola della Romagna. I vecchi vitigni romagnoli erano diffusi nelle piccole aziende familiari, spesso condotte a mezzadria, distribuiti in filari misti ed avevano la funzione di assicurare la produzione del vino per la famiglia. Infatti questi vitigni avendo epoche di germogliamento, resistenza alle malattie, buona produttività (es. Pagadebit), potevano sfuggire alle avversità e garantire l’alimento vino per l’intero anno. Questi vecchi vitigni e le uve da loro prodotti costituiscono, oltre a un recupero della storia e della tradizione del territorio, una fonte di vini che altrimenti sarebbero andati perduti. Queste produzioni sono da riferirsi a limitate quantità di vini di nicchia, di norma prodotti da piccole aziende o da consorzi appositamente predisposti. Si possono creare delle linee di produzione originali che possono avere sbocchi commerciali e creare nicchie di mercato, valorizzando anche il territorio e collegare il vino con la tipicità dei prodotti locali. Quale futuro? Nei prossimi anni la viticoltura emilano-romagnola dovrà adeguarsi alla forte evoluzione del mercato vitivinicolo mondiale cercando di adeguarsi alle condizioni economiche e abitudini alimentari delle popolazioni dei Continenti e non più della singola Nazione, per mantenere un buon livello di esportazione. Si dovrà tener conto della forte concorrenza dei paesi emergenti (America Latina), della facilità e costi di trasporto, della qualità dei vini che raggiungono il mercato europeo e italiano. In questo contesto è opportuno dimostrare apertura nei confronti anche di Paesi che iniziano a consumare vino (per esempio Cina e India). Molto forte è l’interesse del continente Asiatico che sta sviluppando la viticoltura da vino in quanto le loro produzioni sono assai limitate (es. la Cina non raggiunge i 5 milioni di hl di vino), e necessitano delle tecnologie di produzione e trasformazione delle uve. Le azioni di informazione sul sistema viti-vinicolo dell’Emilia-Romagna nei Paesi che stanno incrementando la produzione vinicola, non sempre sono coordinate e incisive come quelle di Paesi concorrenti, (es. Francia, Spagna, Sud africa, Australia), che hanno una presenza continua nei territori interessati ed agiscono sulla formazione tecnica anche in loco (es. Università di Montpellier –INRA per la Francia). Sarebbe opportuna una maggiore collaborazione fra le Strutture produttive (cooperative e private), gli Enti (pubblici e privati) preposti alla promozione della viticoltura emiliano-romagnola, Enti di ricerca, Università compresa, per intraprendere azioni coordinate e incisive sull’intera linea produttiva (dal campo fino alla tavola). Per avere una presenza con- Modi di dire romagnoli tinua anche sul mercato occorre una “organizzazione” capace di promuovere, a livello internazionale, le conoscenze della tecnologia e del prodotto della vitivinicoltura emiliana e romagnola, senza individualismi e tenendo presente la moltitudine dei piccoli produttori presenti nel territorio. I Paesi concorrenti non vanno visti solo come tali, ma con una visione più aperta, di competizione sul mercato, e anche nel contesto di fornitura di tecnologie per l’intero settore vitivinicolo. In futuro i produttori emiliano-romagnoli dovranno confrontarsi con i produttori vitivinicoli del mondo e dovranno dimostrare la loro capacità ad essere competitivi, caratterizzando il prodotto e affrontando con un sistema comune il collocamento dei loro vini e altri derivati ell’uva. . L’Emila-Romagna in questo settore dovrà essere viva e non lasciarsi vivere come molte volte è accaduto. di Umberto Foschi L’è e’ do ’d brescula. Si dice di chi conta poco o niente, in quanto il due è la più piccola delle briscole nel gioco comunissimo fatto con le carte e chiamato appunto briscola. Si dice che le carte da gioco siano state inventate nel 1391 da un certo Jamin Gringonneur per distrarre, dalla sua pazzia, Carlo VI. Anche i Romagnoli giocavano, un tempo, per distogliersi dalle loro preoccupazioni e per fare mostra di scaltrezza e di capacità, cosa che li ripagava dalle tante frustrazioni quotidiane. Mi piace ricordare i nomi che essi avevano dato ad alcuni simboli forse per renderli più facilmente riconoscibili ai bambini con i quali spesso solevano giocare a camisa lorda (il due di spade), a sumaròn (l’asso di bastoni), o a rubamazzo. Eccone alcuni fra i tanti: l’asso di denari era l’ov fret, quello di coppe la pivarola, quello di spade l’anzol, il due di bastoni al gamb dla nona, il due di denari j occ dla zveta, il quattro di spade la bara. Il Tribunato è retto da un Praesidium, articolo 8 dello Statuto, ed è composto da: Sen. Prof. Lorenzo Cappelli Primo Tribuno Enologo Giordano Zinzani Tribuno Vicario Per. Agr. Franco Albertini Consigliere Dott. Nicola Milandri Consigliere Dott. Flavio Ricci Consigliere Prof. Silviero Sansavini Consigliere Ing. Massimo Riva Cancelliere 10 NICOLA GHETTI TRA CRONACA E STORIA, RIMINI NEL REGNO D’ITALIA 1813-1883 L’uomo camminava svelto sotto il sole quando un improvviso, forte calore all’inguine lo costrinse a portare le mani a premere fortemente sui pantaloni. Gli zolfanelli che portava in tasca per lo strofinio provocato dal camminare si erano improvvisamente infiammati e solo la sua rapida azione era valsa ad evitargli dei guai. L’uomo, per accendersi il sigaro, usava i fiammiferi, invenzione che risaliva ai primi decenni del 1800. In precedenza per ottenere del fuoco bisognava colpire con una barretta di metallo in rapida successione una pietra focaia, sulla quale era posta una sostanza infiammabile. Nel 1827 in Inghilterra iniziò l’uso dei fiammiferi, asticciole di legno impregnate di zolfo e con una capocchia di solfuro di ammonio, clorato di potassio e colla arabica per tenere insieme il tutto. L’accensione avveniva mediante sfregamento su carta vetrata. Nel 1834 in Austria fu sostituito il solfuro di ammonio con fosforo bianco. Da questa data comincia la produzione su scala industriale dei fiammiferi che però presentavano un inconveniente: al minimo sfregamento si accendevano con piccole esplosioni che, se avvenivano vicino alla faccia, potevano essere pericolose. Nicola Ghetti, nato a Rimini nel 1813 da umile famiglia di bottegai, nel 1837 aveva iniziato a costruire da sé nella propria abitazione un piccolo numero di scatole del nuovo ritrovato. Ma i vicini timorosi che la presenza nella casa del nostro di una notevole quantità di materiale esplodente fosse di pericolo per loro e per i loro beni, tanto dissero, tanto fecero, che l’autorità comunale lo obbligò a trasferire altrove il luogo di produzione. Ghetti portò la sua attività in un capannone isolato che però poco dopo fu distrutto da un incendio, quasi a voler dar ragione ai vicini timorosi. Trasportò allora la fabbrica fuori Porta Montanara. Intanto andava sperimentando una nuova miscela che, pur accendendosi con facilità, non lo facesse al minimo sfregamento e non avesse l’effetto esplodente. Nel contempo cercava di razionalizzare la produzione per ridurre l’incidenza di malattie professionali, che colpivano gli operai addetti al confezionamento dei fiammiferi. A causa del maneggiamento del fosforo infatti i lavoratori erano frequentemente colpiti da malattie alla mandibola che rendevano difficoltosa la masticazione. Lui stesso ne era stato colpito. Finalmente il Ghetti riuscì a risolvere la questione “pel trovato tutto suo – è Carlo Tonini nel suo “Compendio della Storia di Rimini” – di sostituire nella fabbricazione del fosforo micidiale altra sostanza innocua, ed insieme di sicurezza, non essendo accensibile per qualunque leggero stropicciamento. Onde a’ suoi fiammiferi venne il titolo di nuovi fiammiferi alla Ghetti innocui e di sicurezza, e a lui inventore il brevetto e la medaglia dell’Istituto di Scienze ed Arti.” Il Ghetti non si dedicò solo alla sua industria, ma partecipò attivamente alla vita politica della città. Nel 1848, durante il breve periodo liberale del pontificato di Pio IX, scoppiata la prima guerra d’indipendenza, a Rimini fu formato un battaglione di 400 uomini su tre compagnie. Le prime due furono spedite al fronte e il Ghetti era in sott’ordine al comandante della seconda compagnia, Conte Ruggero Baldini, l’altro capitano era l’avvocato Carlo Galli e aveva in sott’ordine Enrico Serpieri. Al termine di quell’infausta campagna il 20 ottobre 1848 Ghetti fu nominato nella deputazione incaricata di raccogliere fondi in favore di Venezia che resisteva all’Austria. Con Ghetti formavano quel comitato Don Giuseppe Fonti, il Conte Ruggero Baldini, il Tenente Gaetano Carlini. Il 23 marzo 1862 l’Associazione 11 Emancipatrice Italiana eleggeva una commissione direttiva per la costituzione in Rimini del tiro al bersaglio, nato in quell’anno in Torino su sollecitazione di Garibaldi. Nicola Ghetti fu nominato in quella commissione. Fu anche assessore nelle giunte comunali succedute alla proclamazione del Regno d’Italia. Ma torniamo alla fabbrica dei fiammiferi. Il crescere dell’attività costrinse il Ghetti a comprare un terreno in Borgo San Bartolo (ora Borgo San Giovanni) ed a costruirvi un grande fabbricato a pianta quadrata con ampio cortile centrale. Adiacente a quel terreno esisteva la fabbrica per la distillazione dell’alcol di Vittorio Tisserand. Acquistatolo diede inizio alla costruzione del palazzo ancora oggi chiamato palazzo Ghetti. Al momento della massima espansione la produzione raggiunse i 1.500 pacchi al giorno. Ogni pacco conteneva 72 scatole di 40 fiammiferi ciascuna. Vi lavorarono fino a 400 operai, 100 dei quali donne. Intorno al 1870 inventò macchine che gli consentivano di preparare le asticciole per i fiammiferi che prima venivano acquistate all’estero. Poi la crisi che colpì le piccole industrie a seguito del pieno funzionamento della ferrovia, che trasportava materiale fabbricato dalle industrie del nord in gran numero, di ottima qualità ed a basso prezzo, travolse anche la fabbrica di fiammiferi del Ghetti , che ridottosi a produrre 200 pacchi al giorno, fu costretto a fondersi, praticamente a vendere, alla Società Anonima Fabbriche Riunite di Fiammiferi di Milano. Il 9 gennaio 1883 Ghetti venne a diverbio con un congiunto per la custodia di un cane particolarmente aggressivo. La discussione degenerò e l’antagonista di Ghetti estratta una pistola, esplose un colpo colpendolo al capo. Morì perdonando il suo aggressore. Le onoranze funebri furono imponenti. Più di 4.000 persone resero omaggio alla salma nella camera ardente. I funerali si svolsero alla presenza del Sindaco, Ruggero Baldini, e dell’intero consiglio comunale. Genesio Morandi e Biagio Orioli tennero le orazioni funebri. Arturo Menghi Sartorio RICORDO DI UN TRIBUNO GUIDO NOZZOLI Il ricordo vaga lontano e mi porta alla mia insicura e vorace giovinezza allorché ascoltavo rapito le innumeri, fantastiche, affascinanti réveries verbali di Guido Nozzoli nelle quali trovava posto, tra i tanti argomenti, anche la storia del Tribunato di Romagna, che lo vedeva tra i fondatori. Tenendo dietro alle sue parole, mi immaginavo questa associazione come un consesso autorevolissimo di studiosi insigni e di cultori di tutto ciò che in maniera più autentica si riferiva a questa nostra terra. Scorrevano nelle affabulazioni dell’inviato speciale de “ Il Giorno”, i nomi di personaggi quali Max David ed Alteo Dolcini ed io, che in cuor mio desideravo, già d’allora, saperne di più, mi sono trovato indegnamente e dopo tanti anni, a farne parte con mia grandissima soddisfazione. Io che ho avuto la fortuna di godere dell’amicizia di Guido, ho vissuto codesta mia appartenenza al Tribunato, come una sorta di ideale passaggio di testimone, se non altro per l’intensità di interesse, l’amore per tutto ciò che riguarda la Romagna, la sua storia, i suoi costumi, tra me e il mio caro e indimenticato fraterno amico. Nello scrivere queste righe mi invade una grande nostalgia ed un sordo rimpianto: il non aver potuto condividere questa mia esperienza, per me così gratificante, col vecchio eccezionale cronista e Tribuno Guido Nozzoli, il quale era approdato alla quiete eterna prima che io entrassi a farne parte. Ora, perché una figura come quella di Guido, non finisca nelle cianfrusaglie di Chronos, per permettere anche ai Tribuni che non hanno avuto la fortuna di conoscerlo , non hanno potuto ascoltare i di lui racconti, veri e propri capolavori di narrazione, né apprezzare le sue alte qualità morali ed intellettuali, vorrei ricordarlo attraverso le mirabili parole scritte da un amico comune all’indomani della sua morte : era il 2000 e ci avvolgeva un lacrimoso e freddo novembre: da quel momento, tutti noi, ci sentimmo più soli. Mauro Matassoni Tribuno La folta schiera di amici morti in questi ultimi anni , oltre che portarmi un lugubre annuncio di vecchiezza mi ribadisce una assoluta, per quanto dura da accettare, verità: non c’è alcun rimedio contro il tempo. Anche Guido Nozzoli se ne è andato. Quando morì era il 12 novembre del 2000. Dignitosamente, tra le viscose foschie autunnali ha intrapreso l’ultimo, definitivo viaggio verso la “ lontana, deserta isola del silenzio, immersa nella penombra, avviluppata nel mistero”. Iniziò la professione di giornalista nell’immediato dopoguerra allorché venne assunto al “Progresso” di Bologna insieme ad un altro giovane intellettuale riminese: Gino Paglierani , passò quindi all’ “Unità” ed infine a “Il Giorno”. Nei primi anni 60, allorché i miei coetanei ed io, cominciavamo a leggere i giornali, cercando di capirci qualcosa, la firma di Guido Nozzoli era notissima. I protagonisti della generazione precedente alla sua, da Mario Missiroli, Giovanni Ansaldo, Orio Vergani, rimanevano, per noi, ciò che in realtà erano stati ed erano: vecchi mestieranti compromessi con una stagione ormai tramontata, screditati da un atteggiamento morale scettico e da un inevitabile approccio cinico con la realtà e con la notizia. Guido Nozzoli, con la sua bravura, con la simpatia che ogni suo scritto sapeva trasmettere, con la spregiudicatezza che l’ha sempre contraddistinto, aveva, ai nostri occhi, il grande merito di non imprimere mai, sui suoi servizi, sulle sue corrispondenze, il marchio avvilente della ufficialità. Parlando della sua professione diceva: “Per essere un bravo giornalista occorre soprattutto saper ascoltare e sapere dove cercare le notizie. Bisogna, inoltre usare le gambe almeno quanto il cervello, nel senso che è indispensabile, prima di licenziare un articolo, verificare le informazioni, ma pretendere di dire la verità e tutta la verità con un giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un’ocarina. Lo strumento non è propriamente adatto”. Fu in Sicilia, cronista rigoroso, all’indomani di quel torrido 5 luglio 1950, allorché il corpo del bandito Salvatore Giuliano venne trovato privo di vita nel cortile di una casa di Castelvetrano. Fu da una Modena insanguinata e offesa che Guido Nozzoli scrisse uno dei suoi servizi più toccanti, 12 fremente per indignazione e passione civile, nel momento in cui raccontò della proditoria strage, compiuta dai “celerini” del ministro Scelba, i quali sparando dai tetti delle Fonderie Orsi sulla folla di scioperanti, lasciarono sul terreno sei morti ed una decina di feriti. Fu tra i primi a riferire circa le immani devastazioni provocate dallo straripamento Po nelle località Occhiobello e Paviole , il 17 novembre 1951 ed immediatamente accorse, il 10 settembre 1963, in una apocalittica Longarone, dopo che una frana, caduta nel bacino artificiale del Vayont , aveva provocato una improvvisa, colossale inondazione che causò migliaia di morti. Per Guido Nozzoli, fare giornalismo ha voluto dire occuparsi dei mali dell’uomo, condividere i dolori di molti, esprimere coraggiosamente le proprie idee, criticare e giudicare, il tutto con la massima partecipazione ed onestà intellettuale. Fu come inviato speciale di guerra che Guido Nozzoli diede il meglio di sé. Già nel 1954, quando ancora scriveva per l’ Unità, venne a contatto con i massimi vertici del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino sposandone da subito la causa. Da codesta particolare posizione: cronista e fiancheggiatore dei “terroristi ribelli”(così gli uomini dell’OAS (Organisation de l’Armèe Sècrete) chiamavano i patrioti africani che combattevano per l’indipendenza e per la libertà del proprio paese), il giornalista riminese, raccontò, vivendolo in prima persona,tutto il conflitto. Magistrali furono le interviste effettuate a Ben Bella, al generale Yves Godard, capo del reparto strategico dell’organizzazione dei Pieds Noir e nel 1962, allo scrittore francese Andrè Malraux, allora ministro della cultura, chiamato espressamente a quell’incarico dal presidente De Gaulle. Poi venne il Vietnam ed anche qui il nostro uomo, non poteva che schierarsi da una parte. Nella lontana Indocina, tra le paludi insalubri, la fitta jungla , le bombe al napalm, scelse di stare dalla parte dei Vietnamiti del Nord. Con profetica esattezza, in tempi non sospetti, dalle colonne de “Il Giorno”, Guido Nozzoli si era detto sicuro della disfatta dell’esercito americano. Ebbe ragione. La guerra del Vietnam, costò agli Stati Uniti 55000 morti, 300000 feriti e110 miliardi di dollari. Essa, per di più, contribuì ad offuscare, mettendola decisamente in crisi, l’immagine degli USA nel mondo. Poi, a cinquantacinque anni, nella pienezza dei suoi mezzi espressivi, senza una ragione plausibile, staccò la spina. Ripose la fidata Olivetti lettera 22 nella custodia ed andò in pensione. Non ne volle più sapere né di collaborazioni né di soldi né di nulla. Abbandonò definitivamente Milano e ritornò a Rimini nella vecchia casa paterna e qui, quasi andasse alla riscoperta di un panorama compiutamente familiare, avvolto nel proprio dolore come in un velo di favola (l’amata figlia Serena se ne era andata per sempre, divorata da un male che non perdona), si sottrasse un poco alla volta alla vita. Spesso, durante le nostre lunghe conversazioni mi confessò di non possedere più la forza di aderire al proprio destino. Mi confessò che ormai il mondo gli pareva assurdo ed inestricabile e che non vedeva come fosse possibile trovare la salvezza mediante un atto di volontà. In quella stanza surriscaldata, in quel luogo, ingombro di libri, affastellato di oggetti che a capriccio, senza un sistema sta- vano sparsi su tavoli, in bilico su pencolanti mensole, serrati dentro severi armadi, consumavamo intere nottate, mentre le parole del mio anziano amico, in affascinanti traslazioni metaforiche, riuscivano a creare vere e proprie sinfonie lessicali. Non sembrava neppure di appartenere al mondo reale. Era quasi una proiezione dell’immaginario. In quella sorta di laboratorio che era il suo studio Guido Nozzoli, mi accoglieva per trascorrere insonni nottate tra sfere armillari, inutili mercatanzie, preziose minuterie, stormi di quadri, vasi di diaspro, cucurbite, alambicchi, recipienti per coagoli e gatti. Tanti gatti. Vecchi felini, taluni oppressi dalla obesità, alcuni orbati, altri compunti e felpati che, con indifferenza, quasi movendosi nel sogno, trasportavano la loro demonia nell’irridescente splendore di drappi luminosi. La scienza di codesto vecchio giornalista si collocava in un delicato punto d’incontro tra immaginazione e conoscenza, per cui attraverso precise rivisitazioni che, grazie alla perizia verbale di Guido, trapassavano in racconti, si ridestavano le memorie lontane, cronache dimenticate riapparivano intatte, accadimenti remoti risplendevano di repentina, attuale chiarezza. Succedeva, nelle viscose ore notturne del torvo inverno rivierasco, di avvilupparsi nell’intricatissimo simbolismo mistico della letteratura rabbinica ed allora Guido Nozzoli, con la naturalezza derivantegli da un’antica consuetudine, mi erudiva circa le differenze tra il talmud gerosolimitano e quello babilonese, mi accompagnava con soave immediatezza, procedendo di citazione in citazione, attraverso la gimatreya, ovvero l’interpretazione delle lettere per mezzo del loro valore numerico che è, senza dubbio l’aspetto più affascinante dell’ermeneutica cabbalistica, mi conduceva in una vertigine di segreti , ponendomi domande, di volta in volta sempre più inquietanti, per i sette sentieri della Torah, facendomi infine approdare alle enigmatiche acque del Sefer ha-zohar (Il libro dello splendore). Succedeva anche, che un’improvvisa nostalgia di giovinezza, un senile, irresistibile bisogno di ritornare al passato, inducesse Guido a rievocazioni di personaggi famosi o di compagni che in tempi passati 13 si erano esibiti, chi come augusto chi come clown bianco, sotto lo zingaresco chapiteau del giornalismo. Incantevole e malinconico riusciva (e questo fino agli ultimi giorni), ad ammaliarti in virtù dell’uso magico della parola e nella minuscola “casina” dove, tra montagne di libri, erano affastellate a capriccio bottiglie di seltz, pupazzetti di panno Lenci, cofanetti di cristallo di rocca, specchi di Boemia, scudisci dancali, maioliche dai molti colori, ritornava ad essere quell’animoso, lucido, implacabile argomentatore che durante la campagna elettorale del 1948 demoliva col suo rigore dialettico la “paranoia controriformistica” dei vari padri Samoggia e Lombardi. Nel dicembre del 1999, il comune di Rimini lo volle onorare attribuendogli il “Sigismondo d’oro”. In quell’occasione, di fronte ad assessori distratti ed arroganti, giovani politici voraci che nulla conoscevano di lui né della di lui storia, Guido fu dissacrante, autoironico riuscendo ad impartire a tutti i presenti una lezione di stile e di umiltà. Negli ultimi tempi le sue apparizioni in Piazza Cavour, consueto luogo di incontro con gli amici (Marino Vasi, Tale Benzi, Floriano Biagini, Quarto Perazzini, Alberto Miliani) si erano diradate. Spesso mi telefonava: una volta era per avere chiarimenti circa una parola provenzale antica e voleva che risolvessi i suoi dubbi andando a cercare nel monumentale: Lexique roman ou dictionnaire de la langue des Troubadours, di Raynouard, un’altra volta per aver conferma di una certa data o di un nome che non riusciva a ricordare o soltanto, più semplicemente, per dirmi di andarlo a trovare. Non c’era in lui, al di là dell’increscioso problema della vecchiezza, il minimo indizio che lasciasse supporre la fine . Era soltanto stanco. Nel giorno del funerale il melodioso fruscio delle foglie cadute sull’acciottolato del pletorico camposanto si mischiava al sommesso parlottio dei vecchi amici che lentamente, sotto un cielo novembrino, si allontanavano, dopo avergli reso l’estremo saluto. Ora che Guido non c’è più fitte di insicurezza e di sgomento trafiggono l’incongruità della mia esistenza ed il mio atroce desiderio di vivere. Enzo Pirroni Al nôvi caparëli de’: 28/09/2008 Cav. Vincenzo Ossani di Faenza, esperto frutticolo nel settore vivaistico e nella creazione di nuove varietà. Ci ha lasciato PUBLIO MARZOCCHI, un Tribuno Publio Marzocchi è stato un grande personaggio forlivese, che riassumeva in sé molti dei connotati che il Tribunato di Romagna richiede ai propri membri: tenere alta la proficua identità culturale e tramandare i valori delle tradizioni romagnole ovunque questi non siano abbastanza noti ed apprezzati. L’avevo conosciuto tanti anni fa quale lettore della “Pié” e anche quale utente della sua tipografia di via Flavio Biondi a Forlì e successivamente della sua derivata MDM gestita da Sauro Casadei, per la stampa di alcuni volumi monografici da me curati per conto del mio Dipartimento universitario e della Camera di Commercio di Forlì. Publio Marzocchi era persona molto consapevole del suo ruolo pubblico, quasi istituzionale, acquisito nel campo professionale dell’editoria; sul piano umano ispirava fiducia e simpatia, sapeva esprimere momenti di grande generosità e comprensione dei bisogni della città. Fra i tanti ricordi che conservo, il più significativo, forse, fu quello della sua puntigliosa cronistoria delle vicissitudini della “Pié” che tenne all’Hotel della Città qualche anno fa, in occasione dell’anniversario fondativo della rivista, con la quale volle dimostrare quanto aveva fatto, anche in condizioni estreme, per salvare nei momenti critici, sostenere e rilanciare il più antico e prestigioso periodico forlivese, appunto la “Pié”. Conservò poi a lungo una sorta di malcelato rancore, specialmente verso la proprietà della Rivista, appartenuta alle eredi del grande 14 Spallicci, per la decisione di trasferire ad Imola (Direttore il dr. Castronovo) l’intera gestione della “Pié”. Lo considerava un tradimento ed un imperdonabile sgarbo, una forma di ingratitudine nei suoi confronti. Aveva poi ritrovato serenità ed energie, rimaste almeno fino all’incolmabile vuoto lasciato dalla perdita della signora Ilva. Publio però non si dava mai per vinto. Andava orgoglioso soprattutto del periodico “Il Melozzo”, sua ultima creatura, che dimostrava e dimostra come, in una città relativamente piccola come Forlì, si possa essere assieme critici e propositivi, ricercando memorie ed argomentazioni storiche di alto profilo, senza essere dipendenti dal potere economico e dalla politica. Mi auguro che la città lo voglia degnamente ricordare, anche per i suoi ideali di uomo post-risorgimentale, continuatore del pensiero storico ancorato ai valori etici e patriottici che avevano ispirato i grandi personaggi repubblicani forlivesi e romagnoli dall’Unità d’Italia in poi. Silviero Sansavini La «Cà de Bé» saluta Friederich Schürr, il grande glottologo che ha dato un contributo fondamentale agli studi sulla «parlata» romagnola. Umberto Pallotta, a nome dei Tribuni che tanto operano per la ricerca scientifica sui nostri vini, relaziona sul lavoro svolto. La consegna delle artistiche targhe ceramiche (opera di Domenico Matteucci) ai primi benemeriti per aver prodotto il «Vino del Tribuno», il meglio del meglio della Romagna dei vini. Un autentico «Senato romagnolo»: (da sin.) Rino Alessi, Luigi Pasquini, G. G. Archi, Friederich Schürr, Francesco Serantini e, sul podio, Mons. Salvatore Baldassari. 15 Ristorante Via Casale 213 47826 Villa Verucchio (RN) telefono 0541 678449 @@=HPNE HPNE P PAILE ANKE AN KE @=H 1861-2011 1861 1861-2 2 2011 011 150° anniversario Unità d’Italia 1 ANKE AN KE KCKCJECJE CEKNJK =H PQK PQK BE=J? BE=J?K ?K MQKPE@E=J=IAJPA MQKPE@E=J=IAJPPA JAHH JAHH== PPQ= Q= ==PPEREP` P PEREP` A JAHH= JAHH = PQ= PQ= REP= REPP= CIVIS AUGUSTUS IL RUBICONE RIMINI CESENA TM R RONDA F A AENTINA FAENTINA CITIES SER SERVICE ER VICE CE POLICE II.V.R. . V.. R . FA E N Z A CERVIA RA AV VENNA