Giugno 2011
il TRIBUNO
ORGANO UFFICIALE DEL TRIBUNATO DI ROMAGNA
NUMERO 8
Evoluzione tecnologica del vino
dal Medioevo ai giorni nostri
Prof. Roberto Zironi
Dipartimento di Scienze degli Alimenti Università degli Studi di Udine
Il vino e la sua produzione hanno
attraversato fasi evolutive alterne
prima di giungere allo stadio attuale. Ciò al fine di migliorare la
qualità e portarla all’eccellenza, ovvero al livello di un prodotto che
si distingue per caratteristiche chimico-fisiche, sensoriali, per unicità, tipicità e presenza di un valore
aggiunto emozionale.
Sono diversi i fattori che esercitano la loro influenza in fase di produzione di un vino di qualità indi-
tenze tecniche, frutto del progresso scientifico e di una corretta interpretazione delle esigenze. È necessario riuscire ad organizzare in
maniera coerente e integrata le variabili produttive in campo, al fine
di raggiungere il migliore risultato
possibile grazie all’impiego della
tecnologia più avanzata.
Botti in legno tradizionali
Anfora vinaria
rizzato all’eccellenza; i principali
sono: ambiente naturale, vitigno
ed attività umana.
All’interno del fattore umano è possibile far rientrare - diversamente
combinati tra loro - uve, conoscenza
e tecnologia. L’uva, in quanto punto di partenza della filiera, è oggetto
dell’attività svolta dall’uomo, sia dal
punto di vista pratico che empirico.
Monitorando i processi di crescita e
maturazione delle uve è possibile
valutare il livello qualitativo ottenibile. Affinché ciò sia effettivamente possibile è necessario che vengano impiegate adeguate compe-
Determinante, in tal senso, il ruolo giocato dalle nuove acquisizioni
in materia di know-how e tecnologie.
Per ottenere un vino di qualità al
consumo è opportuno raggiungere
un corretto bilancio tra stabilità microbiologica e stabilità chimico-fisica. Si pensi agli ambienti di stoccaggio e, più in particolare, ai
contenitori. Le civiltà greca e romana hanno fornito il loro contributo in tal senso.
Sono numerose le testimonianze
pervenute fino ai nostri giorni:
basti pensare al cospicuo numero
di anfore e dolia a nostra disposizione. Al passo con il progresso
scientifico e i nuovi standard qualitativi, sono stati introdotti contenitori realizzati in forme e materiali differenti, così si è passati
dall’impiego dell’argilla a quello del
legno per la realizzazione delle botti e del vetro per le bottiglie utilizzate per il confezionamento di quantitativi inferiori di prodotto. I materiali
con i quali sono stati realizzati i contenitori hanno svolto un ruolo determinante per la conservazione del
prodotto e per il mantenimento del-
le qualità dello stesso.
È in epoca medievale che viene
riposta nuova attenzione nei confronti della vitivinicoltura: rilevante il ruolo di Bernard de Clairvaux
(1090-1153). Egli rivalutò l’importanza della vitivinicoltura e si impegnò in una poderosa opera di catalogazione dei vitigni e delle tecniche
di produzione del vino. In particolare, individuando siti e vini, egli
catalogava le condizioni migliori per
ciascun genotipo. La diffusione geografica dell’ordine monastico cistercense, da egli fondato e rappresentato, ha con- tribuito alla
contestuale diffusione dei vitigni e
delle tecniche di coltivazione adottate.
Tornando a considerare, nello specifico, l’evoluzione delle tecniche di
vinificazione, un ruolo fondamentale è stato storicamente riconosciuto alla capacità di gestire l’inIl Tribuno - Periodico di storia e cultura
Giugno 2011, numero 8
Fondato nel 2007 da Massimo Riva e
Lorenzo Cappelli
Autorizzazione del Tribunale di Forlì
del 7/10-12-07 n. 35/07
Editore: Lorenzo Cappelli
Direttore Responsabile: Lorenzo Cappelli
Redazione: Massimo Riva
Via Rossini, 120 - 47023 Cesena
e-mail: [email protected]
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Stampa: Filograf - Forlì
Hanno scritto: Umberto Foschi, Mario
Gramigna, Bruno Marangoni, Mauro
Matassoni, Arturo Menghi Sartorio, Enzo
Pirroni, Domenico Regazzi, Silviero
Sansavini, Roberto Zironi.
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento postale - 70% Commerciale
Business Forlì n. 49/2008
Comitato di Redazione: Flavia Bugani di
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Gresta di MisanoAdriatico, Wilma Malucelli
di Forlì, Mauro Matassoni di Rimini, Nicola
Milandri di Forlì, Marcello Novaga di Milano,
Massimo Riva di Cesena, Giuseppe (Beppe)
Sangiorgi di Casola Valsenio,Andrea Tabanelli
di Brisighella, Marco Tupponi di Forlì, Liliana
Vivoli di Imola.
Il nostro sito è:
www.tribunatodiromagna.org
Sauternes, Picolit.
agli zuccheri, perciò, in presenza
L’evoluzione delle tecniche di vinidi bassa gradazione alcolica si reficazione e l’introduzione di specigistrano pochi zuccheri; per aufiche competenze per la produziomentare la gradazione, pertanto,
ne di nuovi vini e per la realizzazione
basta aggiungere zuccheri: ecco
di contenitori adeguati, segnano l’unascere la moderna e “fortunata”
scita dal Medioevo. In contempoidea della correzione dei mosti.
ranea alla diffusione del vetro scuSulla scia di Lavoisier, Pasteur efro e pesante, iniziano a diffondersi
fettua nuove e rivoluzionarie scole prime forme di marketing del vino
perte e si occupa di vino nel suo
e del territorio: Jean de Pontac
trattato Études sur le Vin (1866).
costruisce Château Haut-Brion (1550)
È questo il periodo in cui, inoltre,
rivoluzionando l’idea allora vigenvengono perfezionati gli studi ineAnfore vinarie rinvenute in area meditteranea
te; il suo è un vino di territorio,
renti la Fillossera della vite. L’esigenza
un prodotto di origine, ben diverso
di approfondire in maniera sempre
dal classico prodotto di assemblaggio
stabilità dal punto di vista chimicopiù dettagliata gli studi inerenti il
per il quale l’area di Bordeaux era
fisico e microbico. A tal proposito
mondo del vino ed i processi di
nota.
è doveroso considerare l’innovadifesa delle piante e miglioramenIl vino di qualità è prodotto in una
zione introdotta con la pratica di
to delle uve favorì la nascita di isticantina di qualità; la qualità tiene
aggiungere “spiriti” al vino, per contuzioni accademiche preposte alla
conto, come variabile, anche del
servarlo in maniera più efficace.
formazione di veri e propri tecnici
territorio di provenienza. A queDate la conoscenza della distillaagrari ed enologi. Il 12 gennaio
sto punto, vengono introdotti nuozione e la disponibilità di alcol fu
1874 in provincia di Trento fu fonvi metodi di controllo della garanpossibile iniziare a produrre vini
dato dal parlamento della regione
zia circa l’origine del vino (ad es.,
molto alcolici (Porto, Marsala, Sherry
austriaca del Tirolo, con sede a
sigilli in ceralacca).
no flor); una volta intrapresi, tra
Innsbruck, l’Istituto Agrario di san
Uno degli aspetti di magMichele
all’Adige (IASMA), attualgiore interesse per il lasmente Fondazione Edmund Mach.
so di secoli preso in esaIl 9 luglio 1876 con Regio Decreto
me è il susseguirsi di
di Vittorio Emanuele, nacque a
teorie scientifiche ineConegliano Veneto la prima Scuola
renti la produzione del
Enologica d’Italia.
vino e le tecniche di ferSe gli studi del XX secolo mirano
mentazione; si attua il
alla comprensione delle conoscenpassaggio dalla tradize empiriche, alla gestione del
zionale tecnica perfecalore, ai coadiuvanti, ai sistemi di
zionata dai monaci-vifiltrazione, ai sistemi di imbottignaioli, all’attenzione da
gliamento, alla razionalizzazione
parte degli scienziati. La
della distribuzione, nel XXI secolo,
voce “vino” è presente
si attua il passaggio dall’enologia
nell’Encyclopedie ou dicsottrattiva all’enologia conservatitionnaire raisonné des
va e si rivaluta la gestione delle stasciences, des art et des
bilizzazioni naturali; è interesmetiers del 1751.
Nel 1785
l’Accademia
Sigilli in ceralacca
dei Georgofili
indice il concorso: “Teoria
l’altro, ulteriori sviluppi microbici,
fisica della fermentai risultati portano all’ottenimento
zione vinosa appoggiadi vini molto alcolici che non dita sull’esperienza”, che
vengono aceti, ma prodotti sucviene vinto da Adamo
cessivamente soggetti a valorizzaFabbroni, con i suoi inzione: Madera, Sherry con flor, Tokay
teressanti studi sulla teoSzamorodni. Analogo discorso vale
ria fisica della fermenper le uve soggette a fermentatazione vinosa.
zione da Botrytis, muffe che conAntoine Lavoisier (1743sentono – in condizioni di con1794) nel suo Traite
trollo, di ottenere: Tokay Aszu,
Elementaire
de Chimie
(1789) espone teorie innovative, entrate a far Chateau Haut-Brion (Bordeaux)
parte della storia del progresso sciensante notare quanto aumenti l’imtifico, che hanno contriportanza della trasmissione di adebuito a rivoluzionare le
guate competenze sensoriali ai conconoscenze del tempo.
sumatori.
Di tali acquisizioni prenA ciò va aggiunto che si programde atto Jean-Antoine
mano e gestiscono le “mode e si
Chaptal, nel suo trattaregistra una marcata attenzione
to interamente dedicanei confronti dei consumatori, dei
to all’arte di fare il vino
quali viene costantemente ricer(1807): egli ha il mericato il coinvolgimento, quasi a rento di intuire, sulla base
derli testimoni credibili dell’ottedegli
elementi
chimici,
Bozze per lo stampo dei sigilli utilizzati dal Conte Asquini per la
nuta qualità del prodotto.
che l’alcol è collegato
commercializzazione del Picolit
2
LA FACOLTÀ DI AGRARIA NEL POLO VITIVINICOLO DI TEBANO Domenico Regazzi
La Facoltà di Agraria dell’Università
di Bologna, che già vantava al suo
interno rilevanti competenze scientifiche in materia di vitivinicoltura,
iniziò nel 1963 la sua collaborazione con il Comune di Faenza che mise
a disposizione per attività sperimentali i poderi ereditati dal Conte
Cesare Naldi. Inizia così un lavoro
di selezione clonale volto a migliorare sotto il profilo qualitativo la produzione dell’uva. La ricerca e la sperimentazione si estendono poi al
settore enologico, grazie alla realizzazione della Cantina Sperimentale
che prende avvio nel 1968. La collaborazione si sviluppa positivamente
puntando alla valorizzazione dei vini
a denominazione di origine controllata allora riconosciuti e dell’intera
vitivinicoltura romagnola.
La necessità di disporre di piani di
finanziamento adeguati per sostenere l’attività di ricerca indusse la
Facoltà di Agraria ad istituire, nel
1970, il C.RI.VE (Centro di Ricerche
Viticole ed Enologiche), che diventò attivo nel 1972 e che si proponeva di promuovere, coordinare ed
effettuare ricerche di base ed applicate nei settori della viticoltura
e dell’enologia. Il Centro è articolato in sei sezioni (Economica,
Enologica, Fitoiatrica, Fitopatologia,
Microbiologica e Viticola), ognuna
delle quali dispone di una propria
autonomia, operando comunque nell’ambito di programmi integrati e coordinati. Il C.RI.VE crea i presupposti amministrativi per confrontarsi,
unitamente alle altre realtà coinvolte
nell’esperienza di Tebano, con la nascente Regione Emilia-Romagna.
L’amministrazione regionale, dal canto suo, colse subito l’importanza dell’iniziativa e si adoperò per sensibilizzare altre istituzioni (Enti, Consorzi;
Cantine) affinché si approntasse una
struttura di supporto e di collegamento con gli attori della ricerca.
Nasce così nel 1972 l’E.S.A.V.E. (Ente
Studi Assistenza Viticola Enologica
Emilia-Romagna) che vede coinvolti oltre all’Azienda Naldi che ospita
le attività di ricerca e sperimentazione, l’Ente Tutela Vini Romagnoli,
l’Università di Bologna e il Comune
di Faenza. Si trattava di un ente privato, destinato ad operare nell’intero ambito regionale per gestire i
rapporti fra l’innovazione e la filiera
vitivinicola. Nel 1974 inizia la collaborazione fra E.S.A.V.E. e C.RI.VE.
che continuerà con successive convenzioni sino al 1997, anno in cui
nasce il C.R.P.V. (Consorzio Ricerche
Produzioni Vegetali), organismo che
riunisce l’operatività di E.R.S.O.,
E.S.A.V.E. e C.E.R.A.S. Il C.R.P.V.,
la cui base sociale risulta costituita
da Associazioni di Produttori, Istituti
di Assistenza Tecnica e Formazione
Professionale, Aziende Sperimentali
Regionali, Amministrazioni Provinciali
e dalle principali Organizzazioni economiche del settore, si occupa dell’organizzazione della domanda di
ricerca nel comparto delle produzioni vegetali (filiera ortofrutticola,
vitivinicola, olivo-oleicola, grandi colture e sementi) ed in particolare della formulazione di progetti di ricerca e si sperimentazione, del loro
coordinamento e della diffusione dei
risultati.
La ricerca e la sperimentazione che
si svolgono nel polo di Tebano interessano diversi ricercatori della
Facoltà di Agraria, che oltre a trovare in quella realtà risorse e stimoli
per la loro crescita scientifica, coinvolgono nelle diverse attività gli studenti con esercitazioni, visite di studio, preparazione di tesi di laurea.
Tebano rappresenta quindi anche un
valido supporto per la didattica della Facoltà.
Nella consapevolezza di quanto sopra nel 1995 il Consiglio di Facoltà
unanime chiede l’inserimento nello statuto dell’Università di Bologna
del Diploma universitario in Viticoltura
ed Enologia, con l’impegno a svolgere la didattica applicativa presso
il Centro Vitivinicolo Regionale di
Tebano. Fra le motivazioni alla base
della proposta si ricordano: l’importanza della filiera vitivinicola a livello locale e nazionale, la vocazione del territorio, la sensibilità e
l’interesse degli enti di sostegno,
le esigenze di una specifica professionalità (enologo) nel mondo del
lavoro, la disponibilità di adeguate
risorse della Facoltà. Nel 1999, dopo
la stipula di una apposita convenzione fra l’Ateneo, il Comune di Faenza,
la Fondazione Flaminia, la società
SER.IN.AR. e la Società Consortile
Terre Naldi il D.U. in Viticoltura ed
Enologia viene attivato. Dopo appena un biennio, a seguito della riforma dell’ordinamento degli studi
universitari, il D.U. viene trasformato in laurea (triennale) in Viticoltura
ed Enologia. L’iter formativo prevede discipline di base (chimica, matematica, statistica, fisica) e discipline caratterizzanti riguardanti la
coltivazione e la difesa della vite,
la vinificazione, il controllo della qualità, le tecniche di analisi chimiche,
biologiche e sensoriali, il mercato ed
il marketing del vino.
Le attività formative sono svolte
presso il Polo di Cesena per i primi
tre semestri e presso la struttura di
Tebano per i restanti tre semestri.
La gestione di quest’ultima (vigneti, cantina, laboratori, ecc.) è stata
affidata dal Comune di Faenza alla
Società Terre Naldi. Società creata
3
nel 1997 per dotare il territorio di
una realtà in grado di sviluppare idee
innovative per l’agricoltura ed in particolare per la vitivinicoltura.
Il corso di studi ha incontrato fin dall’inizio il favore degli studenti e ogni
anno se ne iscrivono 40-50. Ciò in
virtù sia della qualità dell’offerta formativa proposta, sia in relazione alle
opportunità professionali offerte.
Il corso di laurea forma una figura
in grado di svolgere mansioni e di
ricoprire responsabilità di tipo tecnico e gestionale riguardanti la produzione dell’uva, la sua trasformazione, il controllo dei processi e della
qualità del vino e degli altri derivati, il mercato ed il marketing. Gli
sbocchi occupazionali sono molteplici: aziende agricole per la gestione dei vigneti, aziende di vinificazione, conservazione, imbottigliamento
del vino e degli altri prodotti (succhi, aceto, confetture, distillati),
aziende di distribuzione dei prodotti vitivinicoli e dei mezzi tecnici per
la produzione, laboratori di analisi,
enti, associazioni, consorzi ed enoteche. Va inoltre ricordato che questa laurea fornisce l’abilitazione alla
professione di Enologo riconosciuta
a livello europeo.
Nel 2006 presso il Polo di Tebano nasce la Società ASTRA – Innovazione
e Sviluppo dalla fusione di rami d’azienda di tre importanti realtà operanti nel settore dei servizi alla ricerca e alla sperimentazione, nonché
alle imprese del settore agricolo e
agro-industriale. Trattasi del C.A.T.E.V.
(Centro Assistenza Tecnologica
Produzioni Vegetali), del C.I.S.A. “M.
Neri” (Centro Interprovinciale di
Sperimentazione Agroambientale)
e Terre Naldi relativamente al ramo
d’azienda sperimentale. ASTRA opera nell’ambito delle filiere agro-alimentari fornendo servizi di ricerca, sperimentazione e divulgazione
ad Enti pubblici e privati.
Fa parte del polo di Tebano anche
il C.A.V. (Centro Attività Vivaistiche),
una cooperativa di vivaisti che dal
1982 opera per il miglioramento della qualità del materiale vivaistico
di diverse specie ortofrutticole nell’ambito del Sistema di Certificazione
Nazionale.
La presenza nel Polo vitivinicolo di
Tebano di adeguate strutture di produzione e di trasformazione e delle diverse componenti che si occupano di vitivinicoltura (ricerca,
sperimentazione, divulgazione dell’innovazione e formazione) ha consentito e consente di creare proficue collaborazioni, razionalizzando
l’impiego delle risorse e fornendo risultati utili alla valorizzazione della
filiera vitivinicola locale e nazionale.
IL TENORE ANTONIO MORIGI
Mario Gramigna*
portata in alto. Questa è la vera
storia del “Fornaretto di Cesena”
che, come volevano gli schemi
romantici, dalla miseria popolana degli inizi del secolo scorso,
ascende ai vertici dell’arte. Figlio
di un tornitore, con ascendenti
da Monteleone di Roncofreddo e
di una sarta fanese, Antonio Morigi
nacque nella Cesena del 1894;
primo di sei fratelli dimostrò fin
da subito grandi doti e sensibilità musicali che, però, non tro-
Il Tenore Antonio Morigi 1894-1969
Lo scorrere del tempo ci fa sentire le vicende del passato recente come eventi che già non ci
appartengono più, eppure, il recupero del nostro retroterra definisce la dimensione del nostro
essere attuale; lungi dall’esaltare populisticamente il passato,
sarà cura focalizzare lo sguardo della nostra dissertazione
su di una “vita qualunque” per
poter rinverdire il palpito che l’ha
Soprano Lina Pagliughi 1907-1980
(con dedica ad Antonio Morigi)
varono terreno fertile per lo sviluppo nel forno dove lavorava
come panettiere. Come in ogni
favola nella quale all’eroe la sorte arride, il celebre maestro di
canto Arturo Melocchi, colpito
dalle sue qualità, gli impartì gli
studi necessari alla sua crescita
musicale presso il Conservatorio
“Gioacchino Rossini” di Pesaro,
imponendogli, però, come conditio sine qua non il trasferimento
in terra marchigiana, dapprima nella città materna ed in seguito in quella dell’istituto.
Locandina del 1939.
Nel cast il Tenore Antonio Morigi
Giunto a Fano, Antonio apprese
che il tenore Alessandro Bonci,
suo concittadino celebre per la
rivalità con Enrico Caruso, per
4
mantenersi agli studi, aveva lavorato come garzone proprio nel
negozio di calzature degli zii materni nel quale anch’egli stava
adoperandosi ricambiando all’ospitalità offerta dai parenti.
Dopo essersi votato completamente al canto con tutta la passione e l’infinita pazienza i risultati divennero manifesti nel
1924, quando affrontò il pubblico concittadino nel teatro comunale gremito in ogni ordine
di palchi, mentre “Alessandro
Bonci, entusiasta, lo invitò a continuar nel cammino intrapreso”,
come commentano, con sincerità, le cronache dell’epoca. Lo
studio, però, è lungo e gli entusiasmi iniziali, se minati da tanti sacrifici, possono crollare se
alla coscienza delle proprie qualità non si aggiunge il sostegno
di familiari ed amici. È bello e
doveroso ricordare quanti si prodigarono affinché Morigi potesse fregiarsi dei più dolci allori. Tra di essi è da lodare la
generosità dei concittadini Nello
Casali (ristoratore ed inventore del cestino da viaggio), Camillo
e Renzo Garaffoni (proprietari
del Caffè Centrale), il professor Riccardo Simoncelli (valente pianista), Amedeo Ravegnani
e Mario Bianchi (il celeberrimo
Beniamino Gigli 1890-1957
(con dedica ad Antonio Morigi)
ri di prosa. Giunto alla fine degli studi cominciò la carriera teatrale (pare che il debutto sia avvenuto, intorno al 1920, al teatro
di Rovigo, nel Don Pasquale di
Gaetano Donizetti) ed ebbe, in
seguito, l’opportunità di affiancare stelle quali l’esordiente
Mafalda Favero, Beniamino Gigli,
Ezio Pinza, Giuseppe Lugo e la
romagnola d’adozione Lina
Pagliughi.
Tenore Mario Del Monaco 1915-1982
(foto di scena in Tosca)
Monty Banks dei film muti d’oltreoceano). Grazie a questi mecenati, Antonio proseguì gli studi pesaresi con altri famosi artisti
tra i quali il riminese Ettore
Parmeggiani, anch’egli allievo
del Melocchi e primo interprete
del “Nerone” di Pietro Mascagni.
In questi anni maturò anche amicizie con i compagni di studio tra
i quali il compositore Dino Olivieri,
autore di “Tornerai”, ed i fratelli Annibale e Carlo Ninchi, atto-
Tenore Mario Del Monaco 1915-1982
(con dedica ad Antonio Morigi)
Il tratto peculiare della sua arte
era certo l’inquietudine costante di scoprire sempre e comunque dimensioni diverse e nuove ad ogni personaggio del
repertorio che diveniva via via
sempre più impegnativo: ne è
testimonianza l’indimenticabile
interpretazione in “Traviata”, replicata con sempre maggior successo in numerose città d’Italia,
nella quale Morigi univa ad una
forte caratterizzazione del personaggio la finezza della dizione. Altra sua grande dote, infatti, fu quella di essere molto ligio
ed attento alla tecnica appresa
negli studi pesaresi, fino ad applicare quella “sana abitudine”
(come soleva definirla) di fare i
vocalizzi tra un atto e l’altro per
risistemare la voce al fine di evitare carenze e disomogeneità di
emissione. Di queste qualità, purtroppo, non è rimasta neppure
una testimonianza giacché Antonio
non registrò mai la sua splendida voce né in una aria da camera, né in un’opera completa.
Ci possono raccontare tutto, però,
i suoi numerosi allievi, tra i quali spicca certamente il celeberrimo tenore Mario Del Monaco, del
quale Morigi era un caro amico
di famiglia. Egli, infatti, fu il
primo maestro del celebre interprete di Otello ed intuì subito
le grandissime capacità dell’allievo, educandolo con perizia e
competenza. Quando ormai era
già divo, Del Monaco gli fu riconoscente in diverse circostanze
pubbliche e private, tra le quali
è impossibile non citare l’articolo comparso sul settimanale “Oggi”
nel giugno del 1967 e titolato “Il
caro amico a cui devo tutto”.
5
Quando Antonio partì per una
lunga tournée nel sud-est asiatico (India, Principato di Golconda,
Giava, Sumatra, Borneo,
Afghanistan), le strade di Morigi
e Del Monaco si divisero, ma non
la stima e l’affetto, perpetuate
in un epistolario che ora è conservato tra i ricordi più preziosi
di chi gli è stato più vicino e che
lo serba quale raro documento
di commossa gratitudine.
Come in ogni libretto di melodramma, vi è anche qui una svol-
Arturo Melocchi 1879-1960
Baritono e didatta
ta improvvisa che dilania le certezze conquistate con tanta fatica. Morigi, da perfetto uomo
incarnante l’ideale romantico,
non si perse d’animo ed affrontò un nemico, una cecità che non
lo abbandonò mai, concentrandosi ancora di più sul suo lavoro di insegnante. Dapprima riuscì a calcare ancora le scene
disimpegnandosi dai ruoli più
gravosi, ma dagli inizi degli anni
’40 fu costretto all’abbandono.
Una delle ultime apparizioni in
scena risale a quel periodo proprio nel Teatro Comunale di
Cesena per un allestimento di
“Tosca” di Giacomo Puccini accanto all’amico Giuseppe Lugo
che lo volle nel cast dell’opera.
Da grande interprete diventò,
come si è accennato, un eccellente insegnante e tra i suoi al-
Una Locandina degli anni trenta. Nel cast il Tenore Antonio Morigi
lievi, oltre al già citato Del Monaco,
si annoverano Ferruccio Ricordi
(in arte Teddy Reno, allora residente a Cesena), celebre voce
della musica leggera; Sergio
Ballani, basso, che dopo una brillante carriera lavorò presso il
coro della RAI di Roma come supplente del direttore e divenne insegnante di canto al conservatorio di S.Cecilia della capitale;
Angelo Bartoli, voce dalla fulgida carriera che fu tra i primi
tenori del teatro dell’Opera di
Locandina del 1941. Nel cast il Tenore Antonio Morigi
Roma e la cui figlia, Cecilia, celebre mezzosoprano, è star internazionale; Mario Gramigna,
basso che ha cantato in Italia ed
Europa e che è stato insegnante presso l’istituto musicale “F.lli
Malerbi” di Lugo; Alfredo
Pagliarani, brillante tenore vincitore di un concorso lirico indetto dalla RAI negli anni ’40; i
tenori Felice Macori e Giorgio
Giovagnoli; il bass-baritono
Umberto Rossi ed il tenore drammatico Gianfranco Calistri, arti-
sta poliedrico di eccellenti qualità. Un’ulteriore luce che illumina Morigi la si può scorgere
guardando la sua pudica riservatezza che lo condusse a rifuggire i clamori e le facili gratificazioni dell’artista di successo
e che lo accompagnò fino alla
morte che lo colse nella sua
Cesena nel settembre del 1969.
* Le foto e le locandine sono pubblicate per gentile concessione
di Mario Gramigna
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40° ANNIVERSARIO DEL TRIBUNATO DEI VINI DI ROMAGNA
Bertinoro 25 Marzo, 2007
LA VITICOLTURA ROMAGNOLA FRA PASSATO E FUTURO
La viticoltura della Romagna evidenzia ancora oggi, seppure in forma latente, le lontane origini storiche e
la sequenza degli eventi socioeconomici che nei secoli hanno modificato il sistema agricolo e le relative produzioni. Scarsa considerazione è
sempre stata riservata alla sequenza delle dominazioni ed ai relativi sistemi di governo che si sono succeduti nell’eterogeneo territorio
romagnolo.
La diversa orografia del territorio,
le ampie aree paludose della pianura hanno influenzato le abitudini
alimentari delle popolazioni, condizionando anche lo sviluppo viticolo,
la tipologia di vino, soprattutto quando questo veniva consumato direttamente dalla comunità che lo aveva
prodotto. Il vino al pari del pane veniva considerato alimento ed entrava nella dieta giornaliera con un notevole apporto energetico, richiesto
dalla fatica fisica imposta dal lavoro
manuale.
La vite in epoca romana
Nella Romagna, come nella maggior parte dei Paesi dell’area temperata mediterranea, la coltivazione della vite ha seguito l’evoluzione
storica e socioeconomica delle popolazioni e ne ha condizionato l’esistenza
quotidiana. In origine l’uva era raccolta dalle piante che crescevano spontanee nei boschi delle aree collinari e
nei dossi che emergevano dalle zone
paludose della pianura, con frequenti allagamenti da parte dei fiumi e
torrenti
che
discendevano
dall’Appennino tosco-romagnolo.
Con la nascita dell’agricoltura e la successiva stabilizzazione delle popolazioni, le viti venivano coltivate nelle aree pedecollinari, meno esposte
alle piene dei fiumi. L’uva prodotta
forniva un alimento fresco nel periodo estivo-autunnale e poteva essere
conservata per l’inverno per il consumo diretto, su paglia, appesa ai
di Bruno Marangoni
soffitti o essiccata al sole. Quando
i grappoli venivano pigiati, dal mosto
si otteneva vino o altri prodotti alimentari.
Con l’età del bronzo (1900 a.C.), nell’area emiliano-romagnola si insediano a ovest popolazioni della civiltà terramaricola (modenese,
reggiano), nella parte centrale la civiltà villanoviana (bolognese), gli appenninici a sud e gli adriatici a est.
Con la stabilizzazione delle popolazioni tribali, il sistema agricolo subisce notevoli cambiamenti, in quanto viene orientato alla produzione dei
beni necessari alla comunità sia per
gli alimenti sia per i mezzi necessari per la vita quotidiana. I ritrovamenti negli scavi archeologici di falci, coltelli, asce e contenitori per
alimenti evidenziano come, nel 1250
a.C., esistessero villaggi gestiti con
sistemi di tipo cooperativistico tribale. In queste comunità veniva organizzata la caccia e la pesca, il lavoro
per la coltivazione e la bonifica dei
terreni e si intrattenevano scambi
con le comunità vicine.
Le popolazioni Etrusche insediatesi
nell’area di Spina intorno al VI secolo a.C. si sostituirono agli Umbro
- Sabelli e portarono una nuova civiltà che si richiamava alle popolazioni orientali indo- asiatiche. La disponibilità di terreni agricoli aumentò
grazie alle opere di disboscamento e
di bonifica degli acquitrini che si
trovavano a nord della futura via Emilia.
La costruzione dei canali favori la viabilità e il trasporto fluviale. La messa a coltura dei terreni e la regimazione delle acque, anche nelle aree
collinari, portò ad un incremento
dei vigneti e del consumo di vino, consumato soprattutto dalle popolazioni locali. Scambi commerciali riguardanti le ceramiche, i cereali, vini
resinati, esistevano con la Grecia, e
la sponda opposta dell’Adriatico. La
migrazione degli Etruschi nell’area
padana e dell’Italia centrale introdusse l’allevamento dei bovini di origine indo-asiatica a mantello bianco
7
come la razza chianina, e derivate
quali, la romagnola e la marchigiana.
Le popolazioni etrusche subirono le
invasioni celtiche (Lingoni, Senoni,
Galli Boi) e le popolazioni galliche
si insediarono nelle zone pedecollinari (selva Litana) e nelle area di pianura già bonificate. Le varie tribù galliche costruirono villaggi di capanne,
sopraelevate dal suolo, in modo da
essere protette dalle frequenti piene
dei fiumi. Il loro sistema agricolo era
limitato all’allevamento, alla coltivazione dei cereali, legumi e della vite.
Il trasporto dei prodotti, a differenza
degli etruschi e dei romani, avveniva in contenitori di legno quali mastelli e botti. I Galli introdussero le
botti per il trasporto del vino e altri
liquidi.
La costruzione della via Flaminia e
la fondazione di Rimini facilitò l’invasione della Romagna da parte dei romani che, nel 191 a.C. sottomisero
definitivamente le popolazioni galliche. I celti sopravvissuti rimasero
nei territori romagnoli e contribuirono alla creazione del nuovo sistema agricolo. Da Rimini inizio successivamente la costruzione della via
Emilia che modificò l’assetto territoriale, politico e socio economico dell’intera Romagna. La costruzione della nuova strada, ai bordi delle aree
paludose, avviò nuove vie di commercio fra il porto di Rimini con le
sponde opposte del mare Adriatico.
In questo periodo i commerci furono
intensificati soprattutto con il porto
di Butrinto (attuale sud dell’Albania)
che divenne “terminal terrestre” dei
paesi orientali per lo scambio commerciale con l’Europa.
La vite ebbe larga diffusione durante tutto il periodo della dominazione romana e il territorio romagnolo,
grazie alla fertilità del terreno, era
considerato per le alte rese produttive dei vigneti. I vini romagnoli erano
poco apprezzati, consumati localmente, o dai legionari, abituati a bere
Segue a pag. 8
Segue da pag. 7
anche una mistura di acqua e aceto. Il vino come pure l’aceto, miscelato all’acqua, aveva la funzione
di rendere potabile l’acqua stessa.
Con la caduta dell’Impero Romano
d’Oriente, Ravenna divenne la capitale dell’Esarcato e la viticoltura notevole importanza economica ed il
vino era, assieme ai cereali e l’allevamento, una delle principali fonti di
reddito. Le invasioni barbariche e la
decadenza dell’Impero romano portarono anche la riduzione della viticoltura in quanto molti vigneti e zone
agricole vennero abbandonate, e la
produzione del vino era limitata alle
zone adiacenti la città. Il vino, assieme ai cereali (pane in particolare)
viene considerato alimento base
per la nutrizione quotidiana.
La Rinascita della viticoltura.
Intorno ai secoli XI e XII si ha in generale il risveglio delle varie attività
umane: rifioriscono le arti, il commercio e l’agricoltura e comincia a
formarsi una nuova società . Nelle
campagne, a seguito del miglioramento economico, gli agricoltori cominciano a produrre, oltre che per il
proprio fabbisogno, anche per i mercanti organizzati nel trasporto via terra e via mare. La nuova classe di agricoltori riprende la coltivazione dei
vigneti, frutteti, orti, ma anche del
frumento, canapa e lino. Il maggese ed i terreni incolti cedono il passo alla specializzazione dei seminativi, delle colture arboree pregiate,
degli ortaggi e dei vigneti. In questo periodo riacquistano importanza gli studi agronomici e, accanto alle
nozioni lasciate dai classici latini, si
accrescono e approfondiscono nuovi
insegnamenti desunti dalla pratica
agraria del tempo (“De agricoltura
volgare” di Pier de Crescenzi). I vini
erano tenuti in grande considerazione negli Statuti e nei Bandi comunali dove si imponeva la salvaguardia delle vigne dai ladri e dagli
animali domestici, e si stabiliva l’epoca della vendemmia allo scopo di
rendere il vino serbevole e più pregiato. Forti erano le sanzioni per chi
vendemmiava prima del tempo, per
chi non recintava il vigneto, per chi
vendeva uve acerbe, e per chi fa-
ceva il vino con uve comprate (che
quasi sempre erano rubate). I vini ottenuti dalle uve rubate durante la notte al chiaro di luna avevano acquisito il nome di “vèn lunein”. Venivano,
a questo proposito, nominati dei guardiani chiamati”Saltuarii” o “BallitoresI
manuali e i trattati ottocenteschi degli agronomi emiliani come Filippo Re,
Carlo Berti-Pichat, Franceso Luigi
Botter, riportano un’ampia casistica
di sistemazioni diverse che dipendono soprattutto dalla natura dei terreni: se i terreni sono sciolti viene utilizzata una sistemazione semplice, “a
rivale”, con un solo filare lungo campo, a lato della scolina, oppure “doppia”, dove la scolina separa due filari di viti alberate. Il sistema del filare
doppio (“i dopi”) viene poi abbandonato per l’eccessivo ombreggiamento fra gli alberi e la minor qualità delle uve.
Con l’arrivo di Napoleone, nel 1796,
la struttura fondiaria viene profondamente modificata e la proprietà dei
terreni passa dal potere ecclesiastico ai privati. Le famiglie più abbienti acquisiscono i poderi dalle abbazie
o dalle chiese parrocchiali.
L’organizzazione della produzione
agricola e del vino, in particolare, subisce una profonda modificazione e inizia la vendita anche al dettaglio da
parte delle piccole aziende agricole.
Alla fine dell’800 la comparsa della
Fillossera e della Peronospora. Questi
parassiti portarono a una crisi di grandi proporzioni che si ridimensionò solo
con la riconversione totale degli impianti innestandoli su piede americano, e con l’inizio di trattamenti antiparassitari contro i patogeni fungini.
Gli anni trenta
Il 1929 venne dunque archiviato con
il successo del Concordato che creava anche nel nostro paese un clima
nuovo nei rapporti tra potere e clero sempre piu’ vicino al regime e con
quell’altro indiscutibile successo della prova elettorale.
Nella memoria collettiva, quasi a rimuovere momenti di grande imbarazzo (almeno per alcuni) verrà ricordato come l’anno della “neve grossa”
a seguito della grande nevicata di fine
febbraio e del freddo intenso che raggiunse punte di 20 gradi sotto lo zero
con danni forti alle piante.
8
La Festa Nazionale dell’Uva, che proprio in quell’anno prese il via sembrò
quasi una beffa per gli agricoltori che
videro seccarsi, per il freddo di febbraio, tutte le viti.
Ai danni della gelata invernale del
1929 si aggiunse la forte crisi economica e la viticoltura romagnola subì
una temporanea crisi e cominciò a riprendersi solo nel 1935 quando entrarono in produzione i nuovi vigneti e quelli recuperati dopo il grande
freddo
Nello stesso anno la festa della vendemmia riprese in molti paesi della
Romagna. I proprietari delle cantine
ripresero a vinificare e l’uva veniva
commercializzata in “castellate” e
raggiunse il prezzo di lire 1000 a
castellata (circa 8 qli di uva pigiata) oppure con in navazzi posti sui
carri romagnoli. Negli stessi anni l’uva di alcuni vitigni come: chasselas
dorèe, rossola di bertinoro, angela
bolognese, salamanna, uva d’oro, venivano lavorate in cassette e destinate al consumo fresco oppure appese nei solai per il consumo invernale
delle famiglie.
In questo decennio molte erano le
cantine e il vino costituiva una delle principali fonti di reddito per l’agricoltore, in quanto veniva commercializzato soprattutto nel
settentrione d’Italia. Nonostante la
forte attività di commercio non vi fu
una valorizzazione dei vini romagnoli e nelle zone di pianura del ravennate e forlivese erano più conosciuti gli “acetifici” e altre strutture che
lavoravano i sottoprodotti della vinificazione (vinacce, fecce, ecc.). Il vino
veniva commer- cializzato all’ingrosso in botti da 5 hl (botti da viaggio)
poste su camion, vagoni o birocci
mentre al minuto veniva venduto in
damigiane.
Nel commercio era molto usato il fiasco impagliato da l,75 litri, adottato
inizialmente per il chianti toscano.
Il vino era messo in commercio in
modo anonimo, distinto per colore, e
utilizzato industrialmente per il taglio
di altri, e per la produzione di vermouth, brandy e aceto. Una particola re produzione riguardava i filtrati
dolci e i “mosti muti” venduti soprattutto nelle zone emiliane come
componenti dei vini lambrusco emiliani.
Nel periodo fra le due guerre molto
attivi sono i Consorzi Provinciali di
Viticoltura e la formazione tecnica
viene gestita dalle Cattedre Ambulanti
di Agricoltura, che formano i tecnici
per la costituzione dei nuovi vigneti.
Si inizia a sostituire l’albero vivo con
il tutore morto (pali di castagno e di
cemento) anche in pianura con la costituzione dei vigneti specializzati.
Nascono le prime Cantine sociali e gli
Enopoli consortili ed i produttori di
uva si raggruppano e diventano partecipi nella trasformazione dell’uva
in vino e nella commercializzazione del prodotto.
Già all’inizio del ‘900 erano iniziate
le polemiche sulla scelta tra vigneto specializzato e coltura promiscua,
disputa che si risolverà solo nell’ultimo dopoguerra a favore del vigneto specializzato. La ragione di queste controversie nasce dall’esigenza
di ottimizzare gli impianti produttivi e di trasformazione in modo da razionalizzare l’uso dei mezzi tecnici
disponibili. Il passaggio dal vigneto
tradizionale a quello specializzato significava un forte cambiamento del
sistema agricolo, in quanto venivano a mancare i sottoprodotti degli alberi di sostegno come foglie e legna utilizzati dalla famiglia contadina.
Fino agli anni ’50 era radicata la credenza che l’uva di vigna fosse di qualità inferiore per cui veniva quotata
mediamente due lire al quintale in
meno dell’uva di alberata, poiché il
vino che si otteneva era ritenuto meno
conservabile. La vita economica di
un’alberata era ritenuta pari a settant’anni, mentre quella di un vigneto
era solo di quarant’anni.
È in questi anni che la vecchia “alberata romagnola” caratterizzata da
mantenere la fascia produttiva fra gli
alberi si trasforma in un pergolato
molto denso ed espanso, che insieme ad una potatura lunga e ricca consente una produzione più elevata fra
tutti i sistemi “maritati”. Le alberate divennero poi doppie e triple distanziandosi le une dalle altre di 57 metri invece dei 25-30 tradizionali.
Al loro interno ogni 5-7 metri vi era
un olmo, si avevano così 100-200
ceppi/ha nell’alberata doppia e 200300 nella tripla e per ogni olmo si potevano ottenere fino a 25-30 kg di
uva.
Grazie allo studio della fisiologia, si
abbandonò gradualmente la potatura biennale o alla “modenese”, che
creava gravi squilibri vegetativi con
ripercussioni sulla longevità della
pianta, a favore di quella annuale
(messa a punto nel faentino) in modo
da rendere la pianta più equilibrata
dal punto di vista vegetativo e produttivo. Fra le diverse tecniche sperimentate per i lambruschi si adottò il metodo della “tirella speronata”.
Altro grosso problema che affliggeva la viticoltura in questo periodo era
l’elevato grado di diffusione della “grafiosi dell’olmo”, tentativi di sostituzione dei sostegni delle viti vennero fatti introducendo altre specie
da diversi paesi come l’Ulmus pumila e l’Ulmus buisman, oltre al piop-
po e all’acero, ma i risultati ottenuti erano scarsi; questo fu quindi il
principale motivo di scomparsa delle alberate. Questo fattore unitamente all’invasione fillosserica furono i fattori che hanno portato
all’incremento dello sviluppo della
coltura specializzata. Il passaggio al
vigneto specializzato fu favorito
anche dal progressivo incremento
della fertilità dei terreni dovuto al crescente uso dei concimi minerali e soprattutto organici disponibili grazie
all’intenso sviluppo della zootecnia.
Le nuove conoscenze che si andavano acquisendo sulla vite e la loro
divulgazione capillare (Cattedre ambulanti di agricoltura) sono un ulteriore stimolo al miglioramento della
tecnica viticola.
A partire dal 1950 la viticoltura in
Romagna subisce un profondo mutamento e dal sistema promiscuo (filari) si passa a quello fortemente
specializzato, con una riduzione delle superfici destinate a vigneto ma
con aumento delle produzioni unitarie di uva. Il vino viene prodotto con
tecniche non molto raffinate e vi è,
soprattutto nelle aree pianeggianti,
l’adozione dei torchi a coclea o continui per la produzione di vino “torbolino” che veniva commercializzato in cisterne, spesso insieme alle
fecce, per la produzione di altri vini
e derivati. L’uso del torchio continuo
era molto diffuso presso le cantine
sociali e private, grazie anche alla
presenza in Romagna delle Ditte che
producevano queste attrezzature. Un
tale sistema di vinificazione influenzò negativamente la qualificazione
dei vini della bassa Romagna.
Lo sviluppo industriale degli anni
“1960” induce l’esodo della popolazione dedita all’agricoltura verso le
nuove aree, che necessitano manodopera e consentono una continuità occupazionale. La migrazione
dalle aree agricole, in particolare quelle collinari, provoca un nuovo assetto del sistema agricolo romagnolo
che deve rinnovarsi sia sotto l’aspetto
sociale sia tecnologico. Inizia la ristrutturazione dei vigneti, con il miglioramento delle tecniche enologiche si ha una forte aggregazione
viticoltori con l’aumento, non sempre razionale, delle “cantine sociali.
Questi cambiamenti, come già avvenuto altre volte nel passato, hanno determinato una diversa distribuzione della proprietà fondiaria con
conseguente passaggio dalla mezzadria alla coltivazione diretta dei poderi. Molti agricoltori passano dalla
semplice produzione di uva alla vinificazione e relativa commercializzazione del prodotto.
In questo periodo si ha finalmente la
consapevolezza della qualità e validità dei prodotti enologici romagnoli e si creano i Consorzi di Tutela dei
vini di Romagna, che vengono unificati nell’Ente Tutela Vini Romagnoli.
Grazie alla intraprendenza, capacità, e lungimiranza di Enti pubblici e
Privati e di Persone che hanno lavorato con grande passione per il rin9
novo della viti-vinicoltura romagnola.
Vengono intraprese azioni per il rinnovo e la specializzazione degli impianti, si introducono nuove tecniche di gestione del vigneto e viene
avviata la qualificazione dei prodotti enologici . I tre principali vitigni romagnoli (Albana, Trebbiano romagnolo e Sangiovese) ottengono la
denominazione di origine controllata (DOC) e possono finalmente entrare nel novero dei vini di alta qualità.
Nel 1967 viene fondato il Tribunato
dei Vini di Romagna che si propone
di avvicinare fra loro i Romagnoli,
di aprire il dialogo fra le Istituzioni
culturali e quelle scientifico-tecnologiche per favorire la conoscenza storica e tradizionale del territorio romagnolo. Il Tribunato e l’Ente Vini
di Romagna riescono a combinare
un matrimonio che sembrava impossibile, avviando una convenzione con la Facoltà di Agraria
dell’Università di Bologna per la sperimentazione vitivinicola creando il
CRIVE, per la parte universitaria e
l’ESAVE per la parte Regionale e
del Comune di Faenza. Vengono avviate molte iniziative sia per il settore viticolo sia per quello enologico che portano forti innovazioni pratico
applicative e migliorano fortemente la gestione dei vigneti e la qualità
dei vini.
In questo periodo si ha finalmente la
consapevolezza della qualità e validità dei prodotti enologici romagnoli e si creano i Consorzi di Tutela Vini.
Si intraprendono azioni per il rinnovo e la specializzazione degli impianti,
si introducono nuove tecniche di gestione del vigneto e viene avviata
la qualificazione dei prodotti enologici. I tre principali vitigni romagnoli
(Albana, Trebbiano romagnolo e sangiovese) ottengono la denominazione di origine controllata (DOC) e possono finalmente entrare nel novero
dei vini di alta qualità.
L’attuale situazione del mercato che
si è allargato a livello internazionale ha portato anche in Emilia-Romagna
forti cambiamenti del sistema di produzione e trasformazione delle uve
con una forte differenziazione fra i
vini prodotti e di altri derivati ( mosti concentrati, zucchero d’uva, acido tartarico, aceto, saba, agresto,ecc.).
I sistemi viticoli attualmente presenti nell’area romagnola sono caratterizzati da due tipologie di prodotto e in particolare suddivise fra la
pianura e la collina. In pianura la produttività dei vigneti è più elevata
ed i vini , di medio standard qualitativo, vengono commercializzati attraverso grandi Enopoli che ricorrono anche a contenitori diversi dalla
tipica bottiglia in vetro. La produzione collinare, integrata con quella di
pianura, sta dando ottimi risultati
nella qualificazione e esportazione
dei vini romagnoli che hanno trovato la loro giusta collocazione sul mercato. Le produzioni di pianura possono essere notevolmente migliorate
sotto l’aspetto qualitativo e integra-
te anche con la messa in coltivazione di vitigni internazionali e locali.
L’adozione di vitigni integrativi nel
“panorama ampelografico romagnolo” caratterizzato, in pianura, dal tradizionale “Trebbiano di Romagna” può
contribuire ad una maggior internazionalizzazione vinicola della Romagna.
I vecchi vitigni romagnoli erano diffusi nelle piccole aziende familiari,
spesso condotte a mezzadria, distribuiti in filari misti ed avevano la
funzione di assicurare la produzione
del vino per la famiglia. Infatti questi vitigni avendo epoche di germogliamento, resistenza alle malattie,
buona produttività (es. Pagadebit),
potevano sfuggire alle avversità e garantire l’alimento vino per l’intero
anno. Questi vecchi vitigni e le uve
da loro prodotti costituiscono, oltre a
un recupero della storia e della tradizione del territorio, una fonte di vini
che altrimenti sarebbero andati perduti. Queste produzioni sono da riferirsi a limitate quantità di vini di nicchia, di norma prodotti da piccole
aziende o da consorzi appositamente predisposti. Si possono creare delle linee di produzione originali che
possono avere sbocchi commerciali
e creare nicchie di mercato, valorizzando anche il territorio e collegare
il vino con la tipicità dei prodotti locali.
Quale futuro?
Nei prossimi anni la viticoltura emilano-romagnola dovrà adeguarsi alla
forte evoluzione del mercato vitivinicolo mondiale cercando di adeguarsi alle condizioni economiche e abitudini alimentari delle popolazioni dei
Continenti e non più della singola
Nazione, per mantenere un buon livello di esportazione. Si dovrà tener conto della forte concorrenza dei
paesi emergenti (America Latina),
della facilità e costi di trasporto, della qualità dei vini che raggiungono il
mercato europeo e italiano. In questo contesto è opportuno dimostrare
apertura nei confronti anche di Paesi
che iniziano a consumare vino (per
esempio Cina e India). Molto forte è
l’interesse del continente Asiatico che
sta sviluppando la viticoltura da vino
in quanto le loro produzioni sono assai limitate (es. la Cina non raggiunge i 5 milioni di hl di vino), e
necessitano delle tecnologie di produzione e trasformazione delle uve.
Le azioni di informazione sul sistema
viti-vinicolo dell’Emilia-Romagna nei
Paesi che stanno incrementando la
produzione vinicola, non sempre sono
coordinate e incisive come quelle di
Paesi concorrenti, (es. Francia, Spagna,
Sud africa, Australia), che hanno una
presenza continua nei territori interessati ed agiscono sulla formazione tecnica anche in loco (es. Università
di Montpellier –INRA per la Francia).
Sarebbe opportuna una maggiore collaborazione fra le Strutture produttive (cooperative e private), gli Enti
(pubblici e privati) preposti alla promozione della viticoltura emiliano-romagnola, Enti di ricerca, Università
compresa, per intraprendere azioni
coordinate e incisive sull’intera linea produttiva (dal campo fino alla
tavola). Per avere una presenza con-
Modi di dire romagnoli
tinua anche sul mercato occorre una
“organizzazione” capace di promuovere, a livello internazionale, le conoscenze della tecnologia e del prodotto della vitivinicoltura emiliana
e romagnola, senza individualismi
e tenendo presente la moltitudine dei
piccoli produttori presenti nel territorio.
I Paesi concorrenti non vanno visti
solo come tali, ma con una visione
più aperta, di competizione sul mercato, e anche nel contesto di fornitura di tecnologie per l’intero settore vitivinicolo. In futuro i produttori
emiliano-romagnoli dovranno confrontarsi con i produttori vitivinicoli
del mondo e dovranno dimostrare la
loro capacità ad essere competitivi,
caratterizzando il prodotto e affrontando con un sistema comune
il collocamento dei loro vini e altri derivati ell’uva. . L’Emila-Romagna in
questo settore dovrà essere viva e
non lasciarsi vivere come molte volte è accaduto.
di Umberto Foschi
L’è e’ do ’d brescula.
Si dice di chi conta poco o niente, in quanto il due è la più piccola delle briscole nel gioco comunissimo fatto con le carte e chiamato appunto briscola.
Si dice che le carte da gioco siano state inventate nel 1391 da un certo Jamin
Gringonneur per distrarre, dalla sua pazzia, Carlo VI. Anche i Romagnoli giocavano, un tempo, per distogliersi dalle loro preoccupazioni e per fare mostra
di scaltrezza e di capacità, cosa che li ripagava dalle tante frustrazioni quotidiane. Mi piace ricordare i nomi che essi avevano dato ad alcuni simboli forse
per renderli più facilmente riconoscibili ai bambini con i quali spesso solevano giocare a camisa lorda (il due di spade), a sumaròn (l’asso di bastoni), o
a rubamazzo. Eccone alcuni fra i tanti: l’asso di denari era l’ov fret, quello di
coppe la pivarola, quello di spade l’anzol, il due di bastoni al gamb dla nona,
il due di denari j occ dla zveta, il quattro di spade la bara.
Il Tribunato è retto da un Praesidium, articolo 8 dello Statuto, ed
è composto da:
Sen. Prof. Lorenzo Cappelli
Primo Tribuno
Enologo Giordano Zinzani
Tribuno Vicario
Per. Agr. Franco Albertini
Consigliere
Dott. Nicola Milandri
Consigliere
Dott. Flavio Ricci
Consigliere
Prof. Silviero Sansavini
Consigliere
Ing. Massimo Riva
Cancelliere
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NICOLA GHETTI
TRA CRONACA E STORIA, RIMINI NEL REGNO D’ITALIA
1813-1883
L’uomo camminava svelto sotto
il sole quando un improvviso, forte calore all’inguine lo costrinse
a portare le mani a premere fortemente sui pantaloni. Gli zolfanelli che portava in tasca per lo
strofinio provocato dal camminare si erano improvvisamente
infiammati e solo la sua rapida
azione era valsa ad evitargli dei
guai. L’uomo, per accendersi il sigaro, usava i fiammiferi, invenzione che risaliva ai primi decenni
del 1800. In precedenza per ottenere del fuoco bisognava colpire con una barretta di metallo
in rapida successione una pietra focaia, sulla quale era posta
una sostanza infiammabile. Nel
1827 in Inghilterra iniziò l’uso dei
fiammiferi, asticciole di legno impregnate di zolfo e con una capocchia di solfuro di ammonio,
clorato di potassio e colla arabica per tenere insieme il tutto.
L’accensione avveniva mediante
sfregamento su carta vetrata. Nel
1834 in Austria fu sostituito il solfuro di ammonio con fosforo bianco. Da questa data comincia la
produzione su scala industriale
dei fiammiferi che però presentavano un inconveniente: al minimo sfregamento si accendevano con piccole esplosioni che,
se avvenivano vicino alla faccia,
potevano essere pericolose.
Nicola Ghetti, nato a Rimini nel
1813 da umile famiglia di bottegai, nel 1837 aveva iniziato a
costruire da sé nella propria abitazione un piccolo numero di scatole del nuovo ritrovato. Ma i vicini timorosi che la presenza nella
casa del nostro di una notevole
quantità di materiale esplodente
fosse di pericolo per loro e per i
loro beni, tanto dissero, tanto fecero, che l’autorità comunale lo
obbligò a trasferire altrove il luogo di produzione.
Ghetti portò la sua attività in un
capannone isolato che però poco
dopo fu distrutto da un incendio,
quasi a voler dar ragione ai vicini timorosi.
Trasportò allora la fabbrica fuori
Porta Montanara. Intanto andava sperimentando una nuova miscela che, pur accendendosi con
facilità, non lo facesse al minimo
sfregamento e non avesse l’effetto esplodente. Nel contempo
cercava di razionalizzare la produzione per ridurre l’incidenza di
malattie professionali, che colpivano gli operai addetti al confezionamento dei fiammiferi. A causa del maneggiamento del fosforo
infatti i lavoratori erano frequentemente colpiti da malattie
alla mandibola che rendevano difficoltosa la masticazione. Lui stesso ne era stato colpito.
Finalmente il Ghetti riuscì a risolvere la questione “pel trovato
tutto suo – è Carlo Tonini nel suo
“Compendio della Storia di Rimini”
– di sostituire nella fabbricazione del fosforo micidiale altra sostanza innocua, ed insieme di sicurezza, non essendo accensibile
per qualunque leggero stropicciamento. Onde a’ suoi fiammiferi venne il titolo di nuovi fiammiferi alla Ghetti innocui e di
sicurezza, e a lui inventore il brevetto e la medaglia dell’Istituto
di Scienze ed Arti.”
Il Ghetti non si dedicò solo alla
sua industria, ma partecipò attivamente alla vita politica della
città. Nel 1848, durante il breve
periodo liberale del pontificato di
Pio IX, scoppiata la prima guerra d’indipendenza, a Rimini fu formato un battaglione di 400 uomini su tre compagnie. Le prime
due furono spedite al fronte e il
Ghetti era in sott’ordine al comandante della seconda compagnia, Conte Ruggero Baldini, l’altro capitano era l’avvocato Carlo
Galli e aveva in sott’ordine Enrico
Serpieri.
Al termine di quell’infausta campagna il 20 ottobre 1848 Ghetti
fu nominato nella deputazione incaricata di raccogliere fondi in favore di Venezia che resisteva
all’Austria. Con Ghetti formavano quel comitato Don Giuseppe
Fonti, il Conte Ruggero Baldini, il
Tenente Gaetano Carlini.
Il 23 marzo 1862 l’Associazione
11
Emancipatrice Italiana eleggeva una commissione direttiva per
la costituzione in Rimini del tiro
al bersaglio, nato in quell’anno in
Torino su sollecitazione di Garibaldi.
Nicola Ghetti fu nominato in quella commissione. Fu anche assessore nelle giunte comunali succedute alla proclamazione del
Regno d’Italia.
Ma torniamo alla fabbrica dei fiammiferi. Il crescere dell’attività costrinse il Ghetti a comprare un
terreno in Borgo San Bartolo (ora
Borgo San Giovanni) ed a costruirvi un grande fabbricato a
pianta quadrata con ampio cortile centrale. Adiacente a quel terreno esisteva la fabbrica per la
distillazione dell’alcol di Vittorio
Tisserand. Acquistatolo diede inizio alla costruzione del palazzo
ancora oggi chiamato palazzo
Ghetti.
Al momento della massima espansione la produzione raggiunse i
1.500 pacchi al giorno. Ogni pacco conteneva 72 scatole di 40
fiammiferi ciascuna. Vi lavorarono fino a 400 operai, 100 dei quali donne. Intorno al 1870 inventò macchine che gli consentivano
di preparare le asticciole per i
fiammiferi che prima venivano
acquistate all’estero.
Poi la crisi che colpì le piccole
industrie a seguito del pieno funzionamento della ferrovia, che
trasportava materiale fabbricato
dalle industrie del nord in gran
numero, di ottima qualità ed a
basso prezzo, travolse anche la
fabbrica di fiammiferi del Ghetti
, che ridottosi a produrre 200 pacchi al giorno, fu costretto a fondersi, praticamente a vendere,
alla Società Anonima Fabbriche
Riunite di Fiammiferi di Milano.
Il 9 gennaio 1883 Ghetti venne a
diverbio con un congiunto per
la custodia di un cane particolarmente aggressivo. La discussione degenerò e l’antagonista di
Ghetti estratta una pistola, esplose un colpo colpendolo al capo.
Morì perdonando il suo aggressore.
Le onoranze funebri furono imponenti. Più di 4.000 persone resero omaggio alla salma nella camera ardente. I funerali si svolsero
alla presenza del Sindaco, Ruggero
Baldini, e dell’intero consiglio comunale. Genesio Morandi e Biagio
Orioli tennero le orazioni funebri.
Arturo Menghi Sartorio
RICORDO DI UN TRIBUNO
GUIDO NOZZOLI
Il ricordo vaga lontano e mi porta alla mia insicura e vorace giovinezza allorché ascoltavo rapito
le innumeri, fantastiche, affascinanti réveries verbali di Guido
Nozzoli nelle quali trovava posto,
tra i tanti argomenti, anche la storia del Tribunato di Romagna,
che lo vedeva tra i fondatori.
Tenendo dietro alle sue parole,
mi immaginavo questa associazione come un consesso autorevolissimo di studiosi insigni e di
cultori di tutto ciò che in maniera più autentica si riferiva a questa nostra terra. Scorrevano nelle affabulazioni dell’inviato speciale
de “ Il Giorno”, i nomi di personaggi quali Max David ed Alteo
Dolcini ed io, che in cuor mio desideravo, già d’allora, saperne di
più, mi sono trovato indegnamente e dopo tanti anni, a farne parte con mia grandissima soddisfazione. Io che ho avuto la
fortuna di godere dell’amicizia di
Guido, ho vissuto codesta mia appartenenza al Tribunato, come
una sorta di ideale passaggio di
testimone, se non altro per l’intensità di interesse, l’amore per
tutto ciò che riguarda la Romagna,
la sua storia, i suoi costumi, tra
me e il mio caro e indimenticato
fraterno amico. Nello scrivere queste righe mi invade una grande
nostalgia ed un sordo rimpianto:
il non aver potuto condividere questa mia esperienza, per me così
gratificante, col vecchio eccezionale cronista e Tribuno Guido
Nozzoli, il quale era approdato alla
quiete eterna prima che io entrassi a farne parte. Ora, perché
una figura come quella di Guido,
non finisca nelle cianfrusaglie di
Chronos, per permettere anche
ai Tribuni che non hanno avuto la
fortuna di conoscerlo , non hanno potuto ascoltare i di lui racconti, veri e propri capolavori di
narrazione, né apprezzare le sue
alte qualità morali ed intellettuali,
vorrei ricordarlo attraverso le mirabili parole scritte da un amico
comune all’indomani della sua
morte : era il 2000 e ci avvolgeva un lacrimoso e freddo novembre: da quel momento, tutti noi,
ci sentimmo più soli.
Mauro Matassoni
Tribuno
La folta schiera di amici morti
in questi ultimi anni , oltre che
portarmi un lugubre annuncio di
vecchiezza mi ribadisce una assoluta, per quanto dura da accettare, verità: non c’è alcun
rimedio contro il tempo. Anche
Guido Nozzoli se ne è andato.
Quando morì era il 12 novembre
del 2000.
Dignitosamente, tra le viscose
foschie autunnali ha intrapreso
l’ultimo, definitivo viaggio verso
la “ lontana, deserta isola del silenzio, immersa nella penombra,
avviluppata nel mistero”. Iniziò
la professione di giornalista nell’immediato dopoguerra allorché
venne assunto al “Progresso”
di Bologna insieme ad un altro
giovane intellettuale riminese:
Gino Paglierani , passò quindi all’
“Unità” ed infine a “Il Giorno”.
Nei primi anni 60, allorché i miei
coetanei ed io, cominciavamo a
leggere i giornali, cercando di capirci qualcosa, la firma di Guido
Nozzoli era notissima. I protagonisti della generazione precedente alla sua, da Mario Missiroli,
Giovanni Ansaldo, Orio Vergani,
rimanevano, per noi, ciò che in
realtà erano stati ed erano: vecchi mestieranti compromessi con
una stagione ormai tramontata,
screditati da un atteggiamento
morale scettico e da un inevitabile approccio cinico con la realtà e con la notizia. Guido Nozzoli,
con la sua bravura, con la simpatia che ogni suo scritto sapeva trasmettere, con la spregiudicatezza che l’ha sempre
contraddistinto, aveva, ai nostri
occhi, il grande merito di non imprimere mai, sui suoi servizi, sulle sue corrispondenze, il marchio
avvilente della ufficialità. Parlando
della sua professione diceva:
“Per essere un bravo giornalista
occorre soprattutto saper ascoltare e sapere dove cercare le notizie. Bisogna, inoltre usare le
gambe almeno quanto il cervello, nel senso che è indispensabile, prima di licenziare un articolo, verificare le informazioni,
ma pretendere di dire la verità
e tutta la verità con un giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un’ocarina. Lo strumento non è
propriamente adatto”. Fu in Sicilia, cronista rigoroso, all’indomani di quel torrido 5 luglio
1950, allorché il corpo del bandito Salvatore Giuliano venne
trovato privo di vita nel cortile di
una casa di Castelvetrano. Fu da
una Modena insanguinata e offesa che Guido Nozzoli scrisse
uno dei suoi servizi più toccanti,
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fremente per indignazione e passione civile, nel momento in
cui raccontò della proditoria strage, compiuta dai “celerini” del
ministro Scelba, i quali sparando dai tetti delle Fonderie Orsi
sulla folla di scioperanti, lasciarono sul terreno sei morti ed una
decina di feriti. Fu tra i primi a
riferire circa le immani devastazioni provocate dallo straripamento Po nelle località Occhiobello
e Paviole , il 17 novembre 1951
ed immediatamente accorse, il
10 settembre 1963, in una apocalittica Longarone, dopo che
una frana, caduta nel bacino artificiale del Vayont , aveva provocato una improvvisa, colossale inondazione che causò
migliaia di morti. Per Guido
Nozzoli, fare giornalismo ha voluto dire occuparsi dei mali dell’uomo, condividere i dolori di
molti, esprimere coraggiosamente le proprie idee, criticare
e giudicare, il tutto con la massima partecipazione ed onestà
intellettuale. Fu come inviato
speciale di guerra che Guido
Nozzoli diede il meglio di sé. Già
nel 1954, quando ancora scriveva per l’ Unità, venne a contatto con i massimi vertici del
Fronte di Liberazione Nazionale
(FLN) algerino sposandone da
subito la causa. Da codesta particolare posizione: cronista e fiancheggiatore dei “terroristi ribelli”(così gli uomini dell’OAS
(Organisation de l’Armèe Sècrete)
chiamavano i patrioti africani che
combattevano per l’indipendenza e per la libertà del proprio paese), il giornalista riminese, raccontò, vivendolo in prima
persona,tutto il conflitto. Magistrali
furono le interviste effettuate a
Ben Bella, al generale Yves
Godard, capo del reparto strategico dell’organizzazione dei
Pieds Noir e nel 1962, allo scrittore francese Andrè Malraux, allora ministro della cultura, chiamato
espressamente
a
quell’incarico dal presidente
De Gaulle. Poi venne il Vietnam
ed anche qui il nostro uomo, non
poteva che schierarsi da una parte. Nella lontana Indocina, tra le
paludi insalubri, la fitta jungla ,
le bombe al napalm, scelse di
stare dalla parte dei Vietnamiti
del Nord. Con profetica esattezza, in tempi non sospetti, dalle
colonne de “Il Giorno”, Guido
Nozzoli si era detto sicuro della
disfatta dell’esercito americano.
Ebbe ragione. La guerra del
Vietnam, costò agli Stati Uniti
55000 morti, 300000 feriti e110
miliardi di dollari. Essa, per di
più, contribuì ad offuscare, mettendola decisamente in crisi, l’immagine degli USA nel mondo.
Poi, a cinquantacinque anni, nella pienezza dei suoi mezzi espressivi, senza una ragione plausibile, staccò la spina. Ripose la
fidata Olivetti lettera 22 nella custodia ed andò in pensione. Non
ne volle più sapere né di collaborazioni né di soldi né di nulla. Abbandonò definitivamente
Milano e ritornò a Rimini nella
vecchia casa paterna e qui, quasi andasse alla riscoperta di un
panorama compiutamente familiare, avvolto nel proprio dolore come in un velo di favola
(l’amata figlia Serena se ne era
andata per sempre, divorata da
un male che non perdona), si
sottrasse un poco alla volta alla
vita. Spesso, durante le nostre
lunghe conversazioni mi confessò
di non possedere più la forza
di aderire al proprio destino. Mi
confessò che ormai il mondo
gli pareva assurdo ed inestricabile e che non vedeva come
fosse possibile trovare la salvezza
mediante un atto di volontà. In
quella stanza surriscaldata, in
quel luogo, ingombro di libri, affastellato di oggetti che a capriccio, senza un sistema sta-
vano sparsi su tavoli, in bilico su
pencolanti mensole, serrati dentro severi armadi, consumavamo intere nottate, mentre le parole del mio anziano amico, in
affascinanti traslazioni metaforiche, riuscivano a creare vere e
proprie sinfonie lessicali. Non
sembrava neppure di appartenere al mondo reale. Era quasi
una proiezione dell’immaginario. In quella sorta di laboratorio che era il suo studio Guido
Nozzoli, mi accoglieva per trascorrere insonni nottate tra sfere armillari, inutili mercatanzie,
preziose minuterie, stormi di quadri, vasi di diaspro, cucurbite,
alambicchi, recipienti per coagoli
e gatti. Tanti gatti. Vecchi felini, taluni oppressi dalla obesità,
alcuni orbati, altri compunti e felpati che, con indifferenza, quasi movendosi nel sogno, trasportavano la loro demonia
nell’irridescente splendore di
drappi luminosi. La scienza di codesto vecchio giornalista si collocava in un delicato punto d’incontro tra immaginazione e
conoscenza, per cui attraverso
precise rivisitazioni che, grazie
alla perizia verbale di Guido, trapassavano in racconti, si ridestavano le memorie lontane, cronache dimenticate riapparivano
intatte, accadimenti remoti risplendevano di repentina, attuale chiarezza. Succedeva, nelle viscose ore notturne del torvo
inverno rivierasco, di avvilupparsi nell’intricatissimo simbolismo mistico della letteratura rabbinica ed allora Guido Nozzoli,
con la naturalezza derivantegli
da un’antica consuetudine, mi
erudiva circa le differenze tra il
talmud gerosolimitano e quello
babilonese, mi accompagnava
con soave immediatezza, procedendo di citazione in citazione, attraverso la gimatreya, ovvero l’interpretazione delle lettere
per mezzo del loro valore numerico che è, senza dubbio l’aspetto più affascinante dell’ermeneutica cabbalistica, mi
conduceva in una vertigine di segreti , ponendomi domande, di
volta in volta sempre più inquietanti, per i sette sentieri della Torah, facendomi infine approdare alle enigmatiche acque
del Sefer ha-zohar (Il libro dello splendore). Succedeva anche,
che un’improvvisa nostalgia di
giovinezza, un senile, irresistibile bisogno di ritornare al passato, inducesse Guido a rievocazioni di personaggi famosi o di
compagni che in tempi passati
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si erano esibiti, chi come augusto chi come clown bianco, sotto lo zingaresco chapiteau del
giornalismo. Incantevole e malinconico riusciva (e questo fino
agli ultimi giorni), ad ammaliarti in virtù dell’uso magico della
parola e nella minuscola “casina” dove, tra montagne di libri,
erano affastellate a capriccio bottiglie di seltz, pupazzetti di panno Lenci, cofanetti di cristallo
di rocca, specchi di Boemia, scudisci dancali, maioliche dai molti colori, ritornava ad essere quell’animoso, lucido, implacabile
argomentatore che durante la
campagna elettorale del 1948
demoliva col suo rigore dialettico la “paranoia controriformistica” dei vari padri Samoggia e
Lombardi. Nel dicembre del 1999,
il comune di Rimini lo volle onorare attribuendogli il “Sigismondo
d’oro”. In quell’occasione, di fronte ad assessori distratti ed arroganti, giovani politici voraci che
nulla conoscevano di lui né della di lui storia, Guido fu dissacrante, autoironico riuscendo ad
impartire a tutti i presenti una
lezione di stile e di umiltà. Negli
ultimi tempi le sue apparizioni in
Piazza Cavour, consueto luogo
di incontro con gli amici (Marino
Vasi, Tale Benzi, Floriano Biagini,
Quarto Perazzini, Alberto Miliani)
si erano diradate. Spesso mi telefonava: una volta era per avere chiarimenti circa una parola
provenzale antica e voleva che
risolvessi i suoi dubbi andando
a cercare nel monumentale:
Lexique roman ou dictionnaire
de la langue des Troubadours,
di Raynouard, un’altra volta per
aver conferma di una certa data
o di un nome che non riusciva
a ricordare o soltanto, più semplicemente, per dirmi di andarlo a trovare. Non c’era in lui, al
di là dell’increscioso problema
della vecchiezza, il minimo indizio che lasciasse supporre la fine
. Era soltanto stanco. Nel giorno
del funerale il melodioso fruscio
delle foglie cadute sull’acciottolato del pletorico camposanto si
mischiava al sommesso parlottio dei vecchi amici che lentamente, sotto un cielo novembrino, si allontanavano, dopo
avergli reso l’estremo saluto. Ora
che Guido non c’è più fitte di insicurezza e di sgomento trafiggono l’incongruità della mia esistenza ed il mio atroce desiderio
di vivere.
Enzo Pirroni
Al nôvi caparëli de’: 28/09/2008
Cav. Vincenzo Ossani di Faenza, esperto frutticolo nel settore vivaistico e nella creazione di nuove varietà.
Ci ha lasciato PUBLIO MARZOCCHI, un Tribuno
Publio Marzocchi è stato un grande personaggio forlivese, che riassumeva in sé molti dei connotati che
il Tribunato di Romagna richiede ai
propri membri: tenere alta la proficua identità culturale e tramandare i valori delle tradizioni romagnole ovunque questi non siano
abbastanza noti ed apprezzati.
L’avevo conosciuto tanti anni fa quale lettore della “Pié” e anche quale
utente della sua tipografia di via
Flavio Biondi a Forlì e successivamente della sua derivata MDM gestita da Sauro Casadei, per la stampa di alcuni volumi monografici da
me curati per conto del mio Dipartimento universitario e della Camera
di Commercio di Forlì.
Publio Marzocchi era persona molto consapevole del suo ruolo pubblico, quasi istituzionale, acquisito
nel campo professionale dell’editoria; sul piano umano ispirava fiducia e simpatia, sapeva esprimere
momenti di grande generosità e
comprensione dei bisogni della città. Fra i tanti ricordi che conservo,
il più significativo, forse, fu quello
della sua puntigliosa cronistoria delle vicissitudini della “Pié” che tenne
all’Hotel della Città qualche anno fa,
in occasione dell’anniversario fondativo della rivista, con la quale volle dimostrare quanto aveva fatto,
anche in condizioni estreme, per salvare nei momenti critici, sostenere e rilanciare il più antico e prestigioso periodico forlivese, appunto
la “Pié”.
Conservò poi a lungo una sorta di
malcelato rancore, specialmente
verso la proprietà della Rivista, appartenuta alle eredi del grande
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Spallicci, per la decisione di trasferire ad Imola (Direttore il dr.
Castronovo) l’intera gestione della “Pié”. Lo considerava un tradimento ed un imperdonabile sgarbo, una forma di ingratitudine nei
suoi confronti. Aveva poi ritrovato
serenità ed energie, rimaste almeno fino all’incolmabile vuoto lasciato
dalla perdita della signora Ilva. Publio
però non si dava mai per vinto.
Andava orgoglioso soprattutto del
periodico “Il Melozzo”, sua ultima
creatura, che dimostrava e dimostra come, in una città relativamente
piccola come Forlì, si possa essere assieme critici e propositivi, ricercando memorie ed argomentazioni storiche di alto profilo, senza
essere dipendenti dal potere economico e dalla politica.
Mi auguro che la città lo voglia degnamente ricordare, anche per i
suoi ideali di uomo post-risorgimentale, continuatore del pensiero storico ancorato ai valori etici e
patriottici che avevano ispirato i
grandi personaggi repubblicani forlivesi e romagnoli dall’Unità d’Italia
in poi.
Silviero Sansavini
La «Cà de Bé» saluta Friederich Schürr, il grande glottologo che ha dato un
contributo fondamentale agli studi sulla «parlata» romagnola.
Umberto Pallotta, a nome dei Tribuni che tanto operano per la ricerca scientifica sui nostri vini, relaziona sul lavoro svolto.
La consegna delle artistiche targhe ceramiche (opera di Domenico Matteucci)
ai primi benemeriti per aver prodotto il «Vino del Tribuno», il meglio del meglio
della Romagna dei vini.
Un autentico «Senato romagnolo»: (da sin.) Rino Alessi, Luigi Pasquini, G. G.
Archi, Friederich Schürr, Francesco Serantini e, sul podio, Mons. Salvatore
Baldassari.
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Ristorante
Via Casale 213 47826 Villa Verucchio (RN) telefono 0541 678449
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150° anniversario Unità d’Italia
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