Cultura 41 Corriere della Sera Martedì 21 Giugno 2011 Raccolte «Arance e Angeli» Un acquerello dipinto da Tiziano Terzani nel 2001 dalla finestra della baita sull’Himalaya dove visse in quegli anni. Sotto: un ritratto degli ultimi anni. Nell’altra pagina: Terzani nel Sud-est asiatico negli Anni 90 L’autore Tiziano Terzani (Firenze, 14 settembre 1938 – Orsigna, 28 luglio 2004) è stato giornalista e scrittore italiano. Lavorò dapprima all’Olivetti; poi, grazie a una borsa di studio della Columbia University, divenne giornalista. gela Staude, figlia del pittore Hans-Joachim — di una famiglia tedesca colta e cosmopolita trasferita a Firenze nel 1925 — è l’anello forte. Senza di lei, con la sua protettiva pazienza, Tiziano sarebbe potuto finir vittima del suo egocentrismo e far della sua vita una trottola all’avventura. Dopo New York, Milano e «Il Giorno», dunque. Le esperienze olivettiane, l’America, l’hanno fatto decidere. Farà il giornalista. Legge con ammirazione Edgar Snow, George Orwell, Hemingway. Ma non ha velleità letterarie, non cura particolarmente la scrittura, anche perché, per decenni, deve scrivere soprattutto in una lingua che non è la sua. Non è un pensatore, non è un filosofo, non ha implicazioni intellettuali. È un grande cronista, un appassionato, instancabile e curioso viaggiatore del Novecento che vuol sempre partire, vedere, capire, cercare la verità possibile anche nei fatti più ingarbugliati e ambigui della vita, quelli rilevanti e quelli minuti. I suoi libri sono testimonianze autentiche di un cuore messo a nudo, si potrebbe dire. A Milano è ossessionato dalla Cina, il mondo nuovo dove vuole andare, l’alternativa all’Occidente. Il Libretto Rosso di Mao è una piccola Bibbia. Va più volte a Berna dove ha sede l’Ambasciata cinese. L’ambasciatore lo invita a cena, ma ha poco da far leva con il suo stile seduttivo, Terzani. Scrive sull’«Astrolabio», piccola rivista italiana, è difficile che venga concesso il visto per la Cina a uno che manca, allora, dei poteri utili nei giochi del dare e dell’avere. A Tiziano non sfugge che il gentile ambasciatore è solo un fantoccio, a contare è il cameriere che serve in tavola. Non perde una sillaba del colloquio. È Raffaele Mattioli, il presidente della Banca Commerciale Italiana, a risolvere il problema. Un amico che conosce bene il banchiere gli parla di Tiziano, della Normale, dell’Olivetti, della Columbia, della sua intelligenza, del suo cocente desiderio di andare in Cina. «Portamelo», dice semplicemente Mattioli che è stato per decenni il vero custode della più alta cultura italiana. È una sarabanda di narcisi- Seguì la guerra del Vietnam e le vicende cambogiane. Negli ultimi anni scrisse molti libri sulle sue esperienze e si espresse contro la guerra in Iraq in contrasto con la Fallaci Il volume Da oggi Gli appunti inediti e i romanzi L’introduzione è di Franco Cardini Esce oggi in libreria il Meridiano Mondadori dedicato a Tiziano Terzani (Tutte le opere, a cura di Àlen Loreti, con un saggio introduttivo di Franco Cardini, pp. CCXIX-1.554, e 60). Il volume contiene i libri di Terzani pubblicati dal 1966 al 1992: Pelle di leopardo (1972-1973); Giai Phong!, la liberazione di Saigon (1976); La porta proibita (1984); Buonanotte, Signor Lenin (1992). Un secondo Meridiano uscirà in autunno e raccoglierà i libri scritti fino alla morte, avvenuta all’Orsigna, sull’Appennino pistoiese, il 28 luglio 2004. Il volume propone anche brani inediti del diario personale che Terzani tenne a partire dal 1990. In queste pagine ne anticipiamo uno stralcio. Bozzetti italiani del tedesco Ingo Schulze smi, quell’incontro, i due non si risparmiano, in più lingue, tra citazioni letterarie e politiche. Ne ha conosciuti tanti, Mattioli, nella vita, di uomini di valore. Tiziano, anche con il suo scoperto voler piacere, gli va a genio. Il banchiere ha in mente di aprire una filiale della banca a Singapore e ha bisogno di informazioni. Chiama, subito, il capo del personale della banca, e gli affida Tiziano. Avrà un contratto a termine pagato mille dollari al mese, dovrà fare degli studi e delle inchieste congiunturali sui Paesi di quell’area. La filiale nascerà. Il gioco è fatto. Il 3 gennaio 1972 Tiziano parte per Singapore, continua a collaborare a «Il Giorno», si arrangia. Ma non è sufficiente quel che guadagna. Nel marzo dell’anno prima, a Milano, è nata Saskia, Tiziano si dà da fare, cerca lavoro a «Die Zeit», a «Le Monde», all’«Express», senza successo. Ottiene quello di cui ha bisogno ad Amburgo, a «Der Spiegel», prima come collaboratore, in seguito come corrispondente dall’Asia, Cina, Giappone, India. Ha scritto migliaia di articoli, Terzani — «Il Giorno», «l’Espresso», «la Repubblica», il «Corriere della Sera» — assai faticosi quelli più importanti, per «Der Spiegel», dove una settantina di Dokumentationsjournalisten, altamente specializzati, verificano l’esattezza e l’attendibilità dei fatti riportati in ogni articolo, dati, citazioni, dettagli. I libri di Tiziano Terzani. Giai Phong!, lo sfacelo del regime di Thieu, la fuga da Saigon degli americani e dei collaborazionisti, l’emozionante arrivo dei vietcong, i soldati contadini che hanno sconfitto il Paese più potente del mondo: è tra i suoi libri più freschi e più autentici, meritoria la sua ripubblicazione. Terzani è coraggioso, ma anche prudente, sa ascoltare e sa scegliere le persone giuste. È un inno alla libertà, Giai Phong!. Inimmaginabile che il suo autore ardente sia il santone pacificato con la barba bianca della fine della vita nella baita sull’Himalaya. La porta proibita racconta della Cina tanto amata, vista nei più segreti cunicoli della sua antica bellezza distrutta dai comunisti, che ripaga un uomo libero come lui è, umiliandolo, espellendolo. Buonanotte, Signor Lenin: un affascinante viaggio dall’Asia alla Siberia alla Georgia alla piazza Rossa, davanti al famoso mausoleo, nell’Unione Sovietica disfatta. Raccolgono storie di delusioni e di sconfitte i libri di quell’uomo straordinario. Speranze tradite. Un nuovo Il Dio che è fallito, di Arthur Koestler. Nelle pagine è palpabile il piacere di raccontare. Nonostante tutto Tiziano è un perenne entusiasta, con le sue passioni mascherate, con l’angoscia per i vecchi mondi amati che via via scompaiono. Nel secondo Meridiano, usciranno tra gli altri le Lettere contro la guerra dell’inizio di questo secolo e poi, ma non è certo, il libro parlato, La fine è il mio inizio, sulla vita e sulla serena morte raccontato a Folco, il piccolo figlio dei funerali di Pinelli. di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI P er fortuna ci sono i tedeschi che non si lasciano scoraggiare da nulla e continuano a venire in Italia per vacanze, viaggi, esplorazioni, come se venissero in paradiso, o quasi; che amano il nostro Paese in blocco con i suoi abitanti, che accettano e perdonano, che si ostinano a credere nel loro sogno italiano fatto di monumenti e paesaggi incomparabili, di clima dolce, di diffusa, umana genialità e, naturalmente, di vino e cibo sopraffini; tedeschi che tornano e ritornano, da aprile a ottobre ma anche fuori stagione, con devozione irremovibile come fedeli che visitano e rivisitano un qualche miracoloso santuario sia pure da anni stanco di prodigi. Meglio ancora se il germanico appassionato di Italia è uno scrittore che non si limita a gustare con entusiasmo il Belpaese ma poi mette nero su bianco ricordi, impressioni e sensazioni. È il caso di Ingo Schulze, classe 1962, tra i maggiori scrittori tedeschi viventi, romanziere, saggista e drammaturgo, nato a Dresda e residente a Berlino. Arance e Angeli s’intitola il suo libro di «bozzetti italiani» — secondo quanto recita il sottotitolo — corredato da una serie di istantanee — a loro volta fulminanti bozzetti — di Mattias Hoch (Feltrinelli, pp. 187, e 16), che riunisce una decina di scritti tra racconti, appunti, schizzi di paesaggi e personaggi che l’autore ha elaborato durante il suo soggiorno romano in qualità di ospite dell’Accademia tedesca di Villa Massimo. Il contorno della prestigiosa residenza romana deve, certo, aver influenzato lo stato d’animo dello scrittore, diffondendo un’aura favorevole su tutto quanto ha visto e vissuto in Italia nel corso dell’anno che vi ha trascorso, tuttavia l’appassionato stupore con il quale egli descrive gli angeli e le arance, i luoghi e le persone, le manie e le follie, le bellezze ma anche le bruttezze italiane non può essere legato soltanto alla magnificenza della dimora che lo ha ospitato assieme alla famiglia. Sotto sotto — lo si sente — cova, infatti, amore vero, non interessato, non influenzato, non opportuniLo scrittore sta. Un novello reportage da un Ingo Schulze (1962) è nato grand tour? Sì e no. Sì, perché la a Dresda. Ha esordito con storia, l’arte, i monumenti e i pa«33 momenti di felicità» esaggi sono costantemente presenti nel racconto e causa, per lo scrittore, di meravigliato incanto; no perché Ingo Schulze, tra i personaggi che immortala nel corso delle peregrinazioni, non soltanto romane ma anche nel resto d’Italia, non si sofferma su intellettuali, artisti, nobili, borghesi e magari pure grandi ecclesiastici — come era l’uso presso i viaggiatori di un tempo — bensì su immigrati, prostitute, lavavetri, ambulanti, mendicanti, vecchi bizzarri e solitari: un amalgama di umanità che a buon diritto fa parte della vita quotidiana del nostro Paese, anche se molti di loro probabilmente italiani nemmeno lo sono. La leggera ironia e anche l’autoironia che piacevolmente segnano la serie dei bozzetti, sottolineano la fondamentale sprovvedutezza del pure avveduto viaggiatore tedesco di fronte alle innumerevoli, tortuose, misteriose incongruità nostrane. Né — così sembra — ci sono preparazione e informazione che tengano, poiché ogni volta, anche quando tutto sembra nella buona norma ampiamente condivisa, arriva un gesto, una parola, una manovra sorprendente e imprevedibile, come lo può essere la mossa del cavallo nello schema lineare degli scacchi. E il bello è che lo scrittore-viaggiatore, pur ogni tanto frastornato o perfino esasperato, non soltanto rientra in patria tenendo a mente quasi esclusivamente il bello e il positivo che gli sono toccati, ma progetta anche di tornare con regolarità per scoprire dell’altro, visitare regioni che ancora non conosce, senza tralasciare, nel frattempo, di riassaporare il già visto e il già noto. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA Interpretazioni Un cofanetto della Filmoteka Narodowa ha raccolto in tre dvd i film e i documentari dedicati all’illustre compositore Com’è difficile, per i polacchi, raccontare (con onestà) Chopin di PAOLO MEREGHETTI C he la sua musica potesse infiammare rivoluzioni e rivoluzionari l’aveva messo in conto, e anche auspicato. Ma diventare il «paladino» del nazionalismo territoriale polacco o addirittura il «difensore» del realismo socialista made in Varsavia, questo non l’aveva certo immaginato, nemmeno nei suoi più accesi deliri febbrili. Eppure a Fryderyk Franciszek Chopin è successo e proprio in patria, nella natia Polonia, dove volle che fosse seppellito almeno il suo cuore (il corpo, come si sa, è sepolto al Père Lachèse di Parigi, dove morì a 39 anni, nel 1849). Lo svela un elegantissimo cofanetto della Filmoteka Narodowa, la cineteca polacca (www.fn.org.pl) che ha raccolto su tre dvd i film e documentari dedicati all’illustre musicista e prodotti nella sua terra d’origine. Permettendo di scoprire come, a seconda dei governi e delle contingenze politi- Musicista Fryderyk Franciszek Chopin (Zelazowa Wola, 1810 – Parigi, 1849), è stato uno dei maggiori compositori di pianoforte di tutti i tempi che, la musica e la vita di Chopin venissero «adattate» e «selezionate» per favorire questa o quella lettura. Perché, per esempio, di tutta la sua produzione musicale, fino agli anni Sessanta e oltre, sugli schermi polacchi si sentivano soprattutto mazurke? Perché diversamente dai Notturni o dagli Studi, quelle erano le sole composizioni con la certificazione d’origine controllata: polacche al cento per cento, visto che si trattava di variazioni su arie di balli locali. Lo conferma il documentario Chopin w Paryzu (Chopin a Parigi) di Stanislaw Grabowski del 1969, dove il cuore del film non è mai la musica ma lo «spirito polacco» del compositore. Vent’anni prima, invece, il nodo politico era un’altro: giustificare il diritto della Polonia sui territori tedeschi che la conferenza di Potsdam aveva annesso a Varsavia. Così, nel 1947, il documentarista Tadeusz Makarczynski cancella ogni segno di vita dalle immagini dei «monti della Silesia» che ac- compagnano Recital Chopinowski w Dusznikach (un concerto per ricordare il recital che il diciottenne Chopin aveva tenuto nell’allora tedesca Duszniki, nel 1826), come a suggerire l’assoluta insignificanza della popolazione — tedesca — che fino a poco tempo prima viveva in quei luoghi (più conosciuti come Sudeti). Mentre, solo due anni dopo ma già in pieno regime comunista, lo stesso regista trasformava la registrazione del quarto Concorso Chopin a Varsavia in un paradigma del «realismo socialista»: nessun svolazzo romantico, nessuna concessione naturalista né panorami incontaminati per Mazurki Chopina (1949), solo macchina fissa e pianisti impettiti. Oltre a tante «polacchissime» mazurke. Naturalmente queste «regole» estetico-politiche funzionano anche per i film di finzione, quelli che ricostruiscono la vita del compositore. Così Mlodosc Chopina (La giovinezza di Chopin), diretto nel 1951 da Aleksander Ford, stempera le idee politi- Sequenza di uno dei film proposti dalla cineteca polacca Filmoteka Narodowa che del musicista (poco in sintonia con il regime filo-sovietico di allora), stravolge la verità storica (cancellando la sua adesione ai movimenti rivoluzionari) per trasmettere allo spettatore un gusto e una nostalgia del tempo passato, grazie a una grande attenzione alla scenografia e a una minuziosa ricostruzione storica. Questo non vuol dire che, finita l’influenza sovietica, le cose siano molto cambiate: quando, nel 2002, Jerzy Antczak sceglie di giocare la carta dello spettacolo hollywoodiano per raccontare lo Chopin «privato» — il suo tormentato rapporto d’amore con George Sand — il musicista non riesce comunque a scrollarsi di dosso il peso dei film-col-messaggio. E in sintonia con l’ascesa dei fratelli Kaczynski Chopin. Pragnienie milosci (Chopin. Desiderio d’amore) diventa un «campione» di quel nazionalismo un po’ peloso che rivendica la purezza dell’identità nazionale di fronte alla contrastata apertura della Polonia verso l’Europa unita. Come a confermare che proprio i polacchi sono i meno indicati per raccontare la grandezza del polacco Chopin. © RIPRODUZIONE RISERVATA