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• Mercoledì, 30 gen
De arte saturnalis et de scientia
di Patrizia Venucci Merdžo
Cari lettori,
svanite le bollicine del neonato anno
2008, eccoci nuovamente insieme in compagnia di Messer Carnevale e del suo variopinto corteo di mattacchioni. Prima
però di dedicarci al “Carne levare”, non
posso esimermi da qualche considerazione sul concerto di Capodanno del teatro
fiumano.
Mi sto chiedendo se avremo mai l’occasione di sentire nell’ambito del programma del tradizionale concerto i valzer,
le polche, insomma le musiche amene che
Giovanni de Zajc compose prima e durante il suo periodo fiumano (1855-1862), attingendo brillantemente alle varie peculiarità della sua amata e mai dimenticata
città natale; pagine che, non abbiamo motivo di dubitare, si amalgamerebbero meravigliosamente (non dimentichiamo le
origini e gusti mitteleuropei di Zajc unitamente alla sua innata e felicissima vena
melodica di tipo italico) con le più celebri
musiche straussiane. Potremo mai godere
dei valzer “La bella fiumana”, “Musicisti
fiumani”, “Un pensiero a Milano”, “La
bella milanese”, (ricorderemo che Zajc
si formò come musicista al Conservatorio milanese) la polca “Postiglion lombardo”, “Natalì quadrille”, “Quadrille sla-
va”. Tutti brani che potrebbero concorrere alla promozione ed affermazione della
tradizione musicale fiumana ottocentesca
in un contesto anche più ampio. Quante
sono le città in Croazia che possono menar vanto di uno “Strauss casereccio”? A
propria “immagine”? Già, ma è più facile
ripiegare sulle strade battute.
Alla faccia delle strombazzate giornate
di Zajc, intenzionate in teoria a valorizzare la produzione dell’Illustre festeggiato,
del quale quest’anno non abbiamo udito
nemmeno un brano. Il quale Zajc, personalità centrale della vita musicale fiumana per sette anni, in occasione dei festeggiamenti carnascialeschi compose pure
“Arlequin quadrille”, delle variazioni sul
celebre tema del Carnevale di Venezia, ma
soprattutto il vaudeville, “Il funerale del
Carnevale”; che per poco non segnò il
suo di funerale. Il maestro infatti diresse
la prima con la polmonite, cui fece seguito
un tremendo esaurimento nervoso, dopodiché prese la via per Vienna.
Una curiosità: l’impresario del Teatro di Fiume nella seconda metà dell’Ottocento, aveva il compito di organizzare nel periodo carnascialesco almeno dodici serate danzanti, le cosiddette
“cavalchine”; che ritroviamo pure nelle città dalmate e nella penisola italica.
Ed ora, con un bel balzo di palo in frasca,
ci trasferiamo dal clima dionisiaco dei
“baccanali” in quello asettico-empiricoragionato-esatto-algido eppure eccitante
di Madama Scienza!
Un équipe di studiosi canadesi ha messo a confronto un gruppo di dodici bambini tra i 4 e i 6 anni che prendono lezioni di
musica - sei dei quali frequentano scuole
Suzuki - con altri bambini della stessa età
completamente digiuni da attività musicali. Gli scienziati hanno verificato in modo
empirico che i bambini che studiano musica hanno incrementato potenzialità nella
memoria anche a vantaggio dell’intelligenza intuitiva su materie diverse come letteratura e matematica. I ricercatori hanno
sottoposto i bambini all’ascolto di suoni
e rumori per dodici mesi. È il primo studio al mondo che dimostra scientificamente che le risposte del cervello, tra bambini
che studiamo musica e bambini che non
la studiano affatto, variano sensibilmente già nello spazio di un anno. L’intera
ricerca, diffusa dalla McMaster University di Hamilton, nell’Ontario, è disponibile
interamente on line, in inglese, al sito Internet di Brain, un giornale di Neurologia.
Morale della favola. Volete figli intellettualmente più duttili e intuitivi? Mandateli
al Centro Studi Musica Classica!
Carnevalscientificamente Vostra
2 musica
Mercoledì, 30 gennaio 2008
RUBRICA Il clima circense-carnascialesco è stato immortalato nella musica colta,
Nei pupazzi di segatura tutto il
a cura di Patrizia Venucci Merdžo
I
l Carnevale con il suo alone di
mistero che gli deriva dalle sue
origini ancestrali e pagane, dall’ignota ed inconscia volontà dell’uomo di proiettarsi in un’altra
personalità, di essere “un altra entità”, almeno per breve tempo, e
di darsi alla pazza allegria, non ha
mancato di infiammare gli animi di
non pochi musicisti.
Così, a caldo, ci sovviene alla
memoria il Carnevale e il Carnevale di Vienna del 1939 di Schumann,
specchio felice e disincantato dell’allegra leggerezza del mondo
musicale viennese, una leggerezza
che, seppur lontana dalla poetica
del nostro autore, sembra comunque aver lasciato in lui un segno;
oppure il Carnevale degli animali
di Saint-Saëns, una divertente rassegna di caricature musicali ispirate al mondo degli animali (dal
leone alle tartarughe, dai canguri
agli abitanti del mare, agli elefanti e volatili chee al 1886 ed scritta
dal musicista francese in occasione
di una festa di carnevale tra amici musicisti. Ed ancora la canzone
popolare il Carnevale di Venezia,
presa a tema da diversi musicisti
per comporvi sopra delle variazioni virtuosistiche (celebri quelle di
Paganini), oppure la chansonne di
Debussy Fantouche (Fantocci) con
protagonisti Scaramuccia, Pulcinella e Colombina.
La maschera, il clima circense-carnascialesco non sono venuti
meno neanche nell’opera lirica e
nell’operetta – ricorderemo i celeberrimi Pagliacci, Un ballo in maschera, Il pipistrello, Una notte a
Una scena
da Petroushka
Petrouchka, il balletto su musiche di Igor Stravinsky, fu uno dei
primi balletti fra quelli creati dal
grande coreografo Michel Fokine.
La storia è basata sull’omonimo
personaggio della tradizione russa,
una marionetta dal corpo di segatura e la testa di legno, che prende
vita e riesce a provare dei sentimenti. Assimilabile per molti versi a Pinocchio: “essere” non del tutto reale, le cui passioni provocano il desiderio impossibile di vivere una vita
umana. Le sue movenze a scatti
rivelano il tormento delle emozioni imprigionate in un corpo di bu-
rappresentata per la prima volta al
Théâtre du Chatelet di Parigi il 13
giugno 1911. Rappresenta uno tra
i primi fermenti di rinnovamento
della danza classica del Novecento. Il balletto ora mette in evidenza
la sua componente tragica e il ballerino di sesso maschile acquista il
ruolo di protagonista.
Nonostante il successo della
rappresentazione, alcuni critici furono spiazzati dalle musiche imper-
Il leggendario Nijinski, primo
e insuperato Petroushka
ballano una vivace danza russa fra
il pubblico stupefatto. . Terminato lo spettacolo, i pupazzi vengono rinchiusi, dal padrone, nei loro
camerini.
Dietro le quinte, il burattino
conduce una vita miserabile fra le
angherie del Mago e l’amore non
ricambiato per la marionetta Ballerina, cui egli tenta di dichiararsi,
venendo puntualmente respinto.
Per giunta, la Ballerina è attratta dal
L’ampio fraseggiare della
musica romantica viene, più che
ignorato, deriso e violentato, e
la scarnificazione sonora ben si
adatta all’evocazione della spietata
dinamica dell’azione scenica, ad
esprimere il senso di frustrazione a
cui la marionetta deve soggiacere
vie, dissonanti, talvolta grottesche.
Ad un critico che, dopo una prova
generale, chiese: “Ci avete invitato qui per sentire questa roba?”,
Diaghilev rispose laconico: “Esattamente”.
Quando Diaghilev e il suo corpo di ballo si recarono a Vienna nel
1913, la Filarmonica viennese inizialmente si rifiutò di eseguire la
partitura, definendola “schmutzige
Musik” (musica sporca).
terzo burattino - il Moro - con cui
inizia una relazione.
La terza scena si svolge nella
lussuosa stanza del Moro, che, diversamente dal protagonista, gode
del privilegio di una vita agiata.
Petroushka,
pagliaccio tragico
Celebre tema stravinskiano di Petroushka
Venezia… - , tuttavia intendiamo rattino. Il balletto attinge all’opera
concentrarci su due classici del Balagan del poeta russo Aleksanballetto del Novecento usciti dalla der Blok.
penna del geniale Igor Stravinsky,
«Schmutzige Musik»
ossia Petrouchka e Pulcinella, personaggi che sebben pagliacci- maL’opera fu composta durante
rionette-maschere vengono animati da profondi e violenti sentimen- l’inverno del 1910-1911 per i Balletti russi di Sergej Diaghilev e fu
ti umani.
Siamo a San Pietroburgo, durante la fiera della settimana grassa nel 1830 (in Russo Shrovetide):
una festività che precede un lungo
periodo di digiuno religioso. Il popolo festeggia prima del periodo di
austerità. La strada è affollata da
passanti, ballerini di strada, zingare, forze dell’ordine, curiosi, comari, vetturini.
L’orchestrazione e i ritmi rapidi e mutevoli suggeriscono l’andirivieni della folla. Un suonatore
di organetto e una danzatrice intrattengono il pubblico. Un rullo
di tamburi annuncia l’arrivo di un
anziano burattinaio, Ciarlatano, col
suo teatro di burattini.
Si alza il sipario del teatrino, e
il Ciarlatano presenta le marionette
inanimate: Petrushka, la Ballerina e
il Moro. Grazie ad un incantesimo,
i burattini si animano, saltano fuori dal loro piccolo palcoscenico e
Personaggi di Petroushka
nella prima edizione mondiale
Petrushka, che finalmente riesce
a evadere dalla sua cella, piomba
nella stanza per opporsi alla tresca.
Tenta di lottare contro il Moro, il
Moro lo malmena, scacciandolo infine con la sua scimitarra
Nella quarta ed ultima scena, ci
ritroviamo alla fiera. L’orchestra si
trasforma idealmente in una grande fisarmonica che suona una serie di colorite danze, Nel bel mezzo
dei festeggiamenti, un grido si ode
provenire dal teatro delle marionette. Petrushka irrompe sulla scena,
inseguito dal Moro che brandisce
un’ascia. Alla fine questi lo raggiunge e lo colpisce a morte, fra
l’orrore dei presenti.
Sopraggiunge la polizia, che
interroga il Ciarlatano. Questi cerca di riportare la calma scuotendo il corpo inerte di Petrushka, da
cui esce segatura, per ricordare agli
astanti che si tratta solo di un burattino di legno.
A notte inoltrata, la folla si allontana rassicurata, mentre scende
la notte, la neve cade dal cielo, e la
fiera si chiude. Il Ciarlatano riordina e pulisce il suo teatrino, prima di
allontanarsi, portando con sé il burattino rotto.
Ma il fantasma di Petrushka
compare sul tetto del teatrino, terrificante gesto di scherno. La morte
ha infatti liberato il suo spirito dal
corpo di marionetta, ed ora egli è
tornato per tormentare il suo antico
aguzzino, che fugge atterrito.
Ma il fantasma di Petrushka
compare sul tetto del teatrino, terrificante gesto di scherno. La morte
ha infatti liberato il suo spirito dal
corpo di marionetta, ed ora egli è
tornato per tormentare il suo antico
aguzzino, che fugge atterrito.
“Mentre stavo scrivendo questa
musica, mi vedo davanti una specie di burattino che all’improvviso
prende vita. Con cascate di arpeggi indiavolati esso incita e provoca
l’orchestra che risponde con fanfare minacciose. Ne sorge un terribile tumulto che diviene addirittura
selvaggio e finisce con la caduta
del povero burattino che si abbandona lamentandosi, affranto. Quando questo pezzo così bizzarro fù finito, camminai per ore e ore sulle
rive del lago di Ginevra tormentandomi alla ricerca di un titolo che in
una sola parola esprimesse il carattere della musica e la personalità
del protagonista. Un giorno feci un
salto di gioia. Petruska il pagliaccio, l’eroe eternamente sfortunato
! Eccolo, avevo trovato il titolo che
cercavo !” scriveva Stravinsky nel
suo diario.
Ritmica pungente,
acidi impasti timbrici
Musicalmente questo balletto si
differenzia notevolmente dalle opere fauve della prima maniera stravinskiana per una più secca e meno
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Mercoledì, 30 gennaio 2008
ma soprattutto in due classici del balletto del Novecento: Petrouschka e Pulcinella
dramma e la poesia dell’umano
cubista, ed è appunto il frutto di una
cultura insieme profondamente russa ( come attestano del resto i temi,
le idee melodiche, talora interamente citate dal patrimonio folclorico) e
partecipe delle più moderne e sofisticate esperienze cosmopolite.
Pulcinella,
iconoclastica
reinterpretazione
pergolesiana
Tomba di Nijinski
con la scultura di Petroushka
sgargiante articolazione discorsiva,
per una ritmica pungente, per acidi
impasti timbrici. L’ampio fraseg-
Il successo di questo capolavoro
(Balletto con canto in un atto, libretto e coreografia di Léonide Massine), capace di far assaporare in termini moderni il gusto della Commedia dell’Arte, è in buona misura
frutto del genio di Diaghilev, desideroso di presentare al suo pubblico
un nuovo balletto tutto italiano dopo
ghi e canovacci attorno alla figura
di Pulcinella, trovata a Napoli durante le consuete scorribande per
musei e librerie antiquarie. Il pezzo scelto, dal titolo I Quattro Pulcinella, ambienta a Napoli un’intricata storia d’amore: due giovanotti corteggiano due ragazze,
che, invece, assieme a una terza,
si contendono l’amore di Pulcinella. Un gustoso stratagemma dell’astuta Maschera e
una serie di travestimenti, che, appunto, quadruplicano il personaggio,
ristabilirà i giusti accoppiamenti, dopo
una serie di risse
ed equivoci caratteristici della Commedia
dell’Arte.
e il musicista riunì numerosi frammenti di sonate e opere comiche
estrapolati dai manoscritti, rimaneggiandoli così profondamente,
per armonizzarli tra loro, da fornire un prodotto assolutamente
originale, pensato per una piccola
orchestra.
Pulcinella segnò la fine del
“periodo russo” di Stravinsky, caratterizzato da L’Oiseau de Feu,
Petroushka, Le Sacre du Printemps, ricchi di sonorità che rimandano al folklore russo. Sempre musicalmente – non coreograficamente – segnò il
passaggio di Stravinsky al
periodo neoclassico, ossia al momento, venuto a
piena maturità tra le due
guerre mondiali, in cui
i compositori mostrarono un rinnovato interesse per la
musica del ‘700
e, in parte, anche
per la musica
Barocca.
Un prodotto
assolutamente
originale
Fu ancora Diaghilev
a pensare alla musica di
Pergolesi; aveva scoperto manoscritti inediti di
musica
settecentesca
nel corso delle sue periodiche ricerche, effettuate con Stravinsky in
biblioteche italiane, librerie napoletane e antiquari londinesi. Memore di ciò si recò con
Massine nella biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Maiella,
per scegliere poco più di una quindicina di pezzi strumentali inediti,
La grande Tamara
Karsavina
come Pimpinella
allora creduti tutti di pugno
di Pergolesi. In seguito molti
non confermarono quella paternità, ma si rivelarono comunque di
maestri contemporanei al compositore marchigiano. Diaghilev
chiese a Stravinsky di comporre
una musica basata su quelle fonti
Come rileva Marino Palleschi i timbri risultano seccamente scanditi,
per l’ironico sentimentalismo
di alcune pagine. Anzichè rifarsi in tutto e per tutto a Pergolesi,
Stravinski conserva e anzi evidenzia le prerogative personali,
e il materiale archeologico viene usato iconoclasticamente, per
il meglio mistificare il dislivello
storico. Secondo Pestolozza
quando scrive che “è indispensabile porre l’accento sul permanere di una costante stilistica
che dà poi sapore ed espressione all’imprestito settecentesco,
lo imbalsama, lo cristalizza in
una classicità erosa dal patetismo
e dall’umorismo pergolesiani trasformati in spettrali volute musicali che stimolano un’azione di fantasmi, che evocano un mondo senza più vita.”
Leonid Massine, il primo Pulcinella
giare della musica romantica viene,
più che ignorato, deriso e violentato, e la scarnificazione sonora ben
si adatta all’evocazione della spietata dinamica dell’azione scenica,
ad esprimere il senso di frustrazione
il trionfo de Les Femmes de Bonne
Humeur, basato su una commedia di
Goldoni.
Allorché Massine gli comunicò il desiderio di creare un balletto basato sulla Commedia del-
Pulcinella segnò la fine del
«periodo russo» di Stravinsky,
caratterizzato da L’Oiseau de Feu,
Petroushka, Le Sacre du Printemps,
ricchi di sonorità che rimandano al
folklore russo. Sempre musicalmente
– non coreograficamente – segnò il
passaggio di Stravinsky al periodo
neoclassico
a cui la marionetta deve soggiacere.
Il politonalismo sagomato e violentemente dissonante, ricorda per nitore e forza dei contorni la pittura
l’Arte, l’impresario accolse immediatamente la proposta e, per
il soggetto, gli passò una raccolta
manoscritta, datata 1700, di dialo-
Schizzo di Picasso per i costumi di “Pulcinella” per il quale creò pure la scenografia
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musica
Mercoledì, 30 gennaio 2008
Mercoledì, 30 gennaio 2008
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È volato nel cielo della Musica Fallelo de Banfield Tripcovich
TRIESTE - Un altro Patriarca dell’Arte e della Cultura giuliano-dalmata ha varcato la soglia dei Campi elisi:
se ne è andato in punta di piedi il Maestro Raffaello de Banfield Tripcovich
che della Musica e del Teatro Musicale ha fatto il suo Credo personale e la
sua principale e forse unica ragione di
vita. Era la notte del sette gennaio di
questo 2008. Le Parche hanno aspet-
e con essa vivere il teatro per il teatro”. Ciò malgrado avesse a disposizione nella splendida villa di famiglia
di Gretta (Villa Tripcovich) un apparato di “servitù” che non gli permetteva nemmeno d’infilarsi le scarpe
da solo.
Già da fanciullo “vessava” amichetti ed amichette e l’unica sorella improvvisando rappresentazioni
teatrali (specialmente operistiche)
che predisponeva e dirigeva un pi-
un certo punto, specialmente considerando la dalmatica “parsimonia”
del padre che tendeva a tenere economicamente “a stecchetto” il figlio
per convertirlo alla produttività manageriale. Talché era solo la madre
a sovvenzionarne i sogni musicali. E
ciò con molta circospezione per non
contrariare il marito.
A riprova di ciò è significativo
il seguente episodio degli Anni Settanta. Andai a trovarlo in villa con
Da allora il balletto “Le Combat” ha avuto più di tremila
repliche: due mesi di rappresentazioni a Parigi, tre mesi a
New York, altri tre mesi nel resto degli USA. Addirittura due
Compagnie americane (N.Y. Ballet e American National
Ballet) eseguono contemporaneamente “Combat”, incluso
nei repertori stabili di Colon, Opèra, Staatsoper, Belgrado,
Sarajevo, Zagabria, Lubiana, Spagna, Tokio
tato la Befana per tagliare il sottile filo
che ancora lo legava a questo mondo.
Non sembri cinica l’ipotesi che Sorella Morte fu per lui forse la più gradita
strenna epifanica.
Profondamente cattolico credente,
figlio dell’”Aquila di Trieste” Goffredo de Banfield originario dalle Bocche di Cattaro, e della contessa dalmata Maria Tripcovich, si affacciò
alla vita (Newcastle, 2.6.1922) dotato d’ogni dono terreno: sensibilità, intelligenza, bellezza e la ricchezza di
un impero armatoriale famigliare fra i
maggiori del ramo, non solo in Europa. La sua stessa nascita in Inghilterra fu collegata all’attività di “ricuperi
marittimi” del padre che poi ottenuta la “cittadinanza italiana” (1923),
si stabilì definitivamente a Trieste
(1925) con la moglie ed il figlio, portando la società armatrice Tripcovich
nel Gotha internazionale.
glio severo e professionale. Ciò deliziava sua madre, che l’appellava
dolcemente “Falello” ed indispettiva il suo pragmatico e realistico padre per il quale era solo burberamente
“Ràphael”, con l’erre arrotato alla tedesca. Goffredo sognava di preparar-
un’automobile nuova appena acquistata. Mi venne incontro ed ammirò la
mia nuova utilitaria sospirando: “beato te che te la puoi permettere!”. Nel
parcheggio troneggiavano fuoriserie
da sogno delle più famose marche:
“mi prendi in giro?” gli chiesi. “Ah,
scusami” mi rispose arrossendo. Poi
compresi che quelle fuoriserie, delle quali pur poteva usufruire (autista
in livrea compreso) non erano “sue”
ma della Compagnia. Il padre non gli
avrebbe perdonato il “capriccio” d’un
utilitaria tutta sua, né la madre si sarebbe sognata di contrariare il marito
consentendogli tale “capriccio” non
giustificabile come “investimento”,
mentre come “investimenti” le era
riuscito di giustificare gli appartamenti acquistati per Falello a Londra,
a Parigi e a New York.
L’istinto giramondo
“Villa Banfield” a Veruda, a circa 4 km dal porto militare di Pola
(1910)
Vola il Cigno
figlio d’Aquila
Ma, se madre e padre dimorarono
da allora sempre a Trieste, Raffaello aveva l’istinto del “giramondo”.
Negli Anni Cinquanta, in una delle
sue rare e brevi “rimpatriate” triestine, data la consuetudine che avevo
da sempre con lui e la sua famiglia,
mi confidò: “Avrei voluto far parte
di una compagnia di guitti girovaghi
si un erede alla successione dell’impero Tripcovich. A Falello, invece, di
quell’impero non importava niente ed
inseguiva solo i suoi sogni musicali
e teatrali.
Fin troppo facile argomentare che
le smisurate possibilità economiche
della sua famiglia gli consentivano
tali artistiche fantasie. Ma… fino ad
Il maestro triestino Vito Levi fu il
primo insegnante di composizione di
Falello e rimase sempre il suo mèntore ed il suo saldo punto di riferimento. Ma Falello, sempre avido di nuove esperienze, era un cigno sempre
in volo. Venezia e la scuola di Gian
Francesco Malipiero gli portarono
subito fortuna e, nell’immediato se-
condo dopoguerra, alcune sue pagine
per soprano ed orchestra qui eseguite
sotto la sua direzione gli valsero l’invito da parte del Ministero dell’Educazione francese a frequentare il Conservatorio di Parigi, dove si stabilì
nel 1946. Ma il Conservatorio parigino rappresentò per lui solo un breve scalo. Poulenc, Auric e Sanguet gli
consigliarono come pedagoga la famosa docente Nadia Boulanger, alla
cui scuola rimase per oltre due anni.
Stravinsky gli consiglierà poi di lasciarla poiché la Boulanger tendeva
ad influire troppo pesantemente sulla
personalità dei suoi allievi che voleva
forgiare a propria immagine, comprimendone l’originalità.
Però fu proprio durante la docenza della Boulanger che Falello ebbe la
sua prima grande occasione. Roland
Petit, il celeberrimo coreografo e “patron” dei “Ballets de Paris” era alla ricerca della “novità” da presentare al
“Princess Theatre” di Londra. Alla
data già fissata per questa “prima” (24
febbraio 1949) mancavano solo due
mesi. Petit propose a Falello di comporgli questo Balletto. E Falello accettò. Più tardi confiderà anche a me
che il suo non fù “coraggio ma autentica incoscienza”. Il lavoro fu naturalmente febbrile e ricorrenti allora furono le sue “scappate” a Trieste per con-
Falello de Banfield in una
delle ultime fotografie
sultarsi con Vito Levi. Ma anche Vito
Levi volò a Londra, nelle settimane
che precedettero questa “prima”. Era
infatti occorso il tipico “inconveniente teatrale”: il coreografo (William
Dollar) non aveva fatto a tempo a
trovare un’idea che gli piacesse per il
“passo a due” finale e voleva cancellarlo con la relativa musica. Ci fù, tra
Goffredo de Banfield con la moglie Marta, contessa Tripcovich
appena sposati (1920)
Dollar e Falello un violento “braccio
di ferro”. Inconciliabile. Falello, ad
una delle ultime prove, ritirò la partitura per non consentire che il suo
Sarajevo, Zagabria, Lubiana, Spagna,
Tokio. Nel 1956 il disco di “Combat”
è al terzo posto fra quelli più venduti
negli USA e Karajan ne prepara una
nuova incisione. Fra le sue interpreti
Galina Ulanova e Maja Plissetskaja.
Il ricordato “passo a due” diventa
“pezzo d’obbligo” nelle Accademie
di Danza Moderna. Direttori come
Karajan, De Sabata, Bernstein, Toscanini sono unanimi nel giudicarlo
un “capolavoro”. Il tenero episodio
dello scontro mortale di Tancredi e
Clorinda della “Gerusalemme liberata” … arriverà a Trieste solo nel 1970,
in “coabitazione” con “Salome” di R.
Strauss. Sull’onda di questi successi,
Falello si trasferì a New York, dove
rimase fino al 1957, mantenendo comunque il suo “quartier generale” a
Parigi fino al 1972.
La vena intimista
Se in “Le Combat” la struttura musicale predominante appare quella ritmica e percussiva, tanto da evidenziare l’energia cinetica dei duellanti (pur
alternata da oasi liricamente commosse) la sensibilità di Falello guarda al-
ste. Qualche lirica nel 1972, la cantata “Pulchra” (Dal Cantico dei Cantici)
nel 1974. Nel 1977 trionfa a Londra la
Cantata per soprano e orchestra “For
Ophelia” e nel 1979 Falello è chiamato da Menotti alla direzione artistica
del Festival di Spoleto del quale diventerà anche vicepresidente.
Al servizio
della Città
Qualcosa era cambiato nella vita
di Falello. all’istinto dei “giramondo”
era subentrato lo “spirito di servizio”.
Nel 1972 Trieste lo aveva chiamato
a reggere le sorti musicali del Teatro
Verdi quale Direttore Artistico. Aveva, commosso, risposto all’appello,
per non abbandonare, finché la salute glielo consentì, l’amato Teatro
della sua adorata città che (1973) lo
rimeritò insignendolo del “S. Giusto
d’Oro”. Come responsabile artistico
del Teatro Verdi (e successivamente
come “consulente artistico”) profuse
ogni sua facoltà in tali incarichi guadagnando a questo Teatro ampio prestigio internazionale, favorendo (anche a proprio scapito) la musica ed i
Come responsabile artistico del Teatro Verdi
(e successivamente come “consulente artistico”) profuse ogni
sua facoltà in tali incarichi guadagnando a questo Teatro
ampio prestigio internazionale, favorendo (anche a proprio
scapito) la musica ed i musicisti della nostra area geografica
lavoro fosse presentato così mutilato. A questo punto, piuttosto che annullare l’esecuzione, Dollar cedette,
“arrangiò” un generico “passo a due”
finale, non senza predire a Falello un
risultato “disastroso”. Ma fu un pessimo profeta: “Le Combat” (Il Duello) questo il titolo del Balletto, conseguì un successo clamoroso (quindici
chiamate all’autore). Da allora “Le
Combat” ha avuto più di tremila repliche: due mesi di rappresentazioni a
Parigi, tre mesi a New York, altri tre
mesi nel resto degli USA. Addirittura
due Compagnie americane (N.Y. Ballet e American National Ballet) eseguono contemporaneamente “Combat”, incluso nei repertori stabili di
Colon, Opèra, Staatsoper, Belgrado,
l’intimismo. Lui stesso si definiva un
temperamento “eminentemente lirico, affascinato dalle voci femminili
specie nei cambi di registro”. Ciò soprattutto quando alla base emozionale ritrovava i temi della solitudine, del
bisogno d’amore, del rimpianto della
trascorsa giovinezza. Qui la sua adesione musicale è assoluta e determinante. Siamo negli Anni Cinquanta.
La lettura dell’atto unico di Tennesse Williams “Una lettera d’amore di
Lord Byron”, pubblicato su una rivista italiana di letteratura, lo affascinò
subito. Chiese a Williams di ricavarne
per lui un libretto d’opera. Williams,
che mai prima aveva accettato richieste del genere, accondiscese e vi introdusse anche numerose modifiche
suggeritegli dallo stesso Falello. Vi
domina il clima del rimpianto della
giovinezza e del sogno d’amore (solo
sognato) dalla vecchia protagonista,
stretto nel nastro di seta che avvolge le vecchie lettere d’amore (vere
o fasulle). Nel 1953 Falello ultimava la partitura. Nel 1955 il pubblico
di New Orleans (17 gennaio) ne saluta il grande successo per undici serate. Entusiasmi che si ripetono al Lyric
Theatre di Chicago nella stagione lirica d’autunno. L’opera arriva a Trieste nel 1956 ed è la prima, in ordine di
tempo, di Falello che i triestini conoscono ed applaudono fervidamente.
Dovranno attendere fino al 1963 per
conoscerne un’altra.
Frattanto Falello compone e mette in scena “Agostino” balletto su testo di Moravia (Genova 1956), “Quatuor” balletto (Montecarlo 1957),
“Colloquio col tango“ un atto su libretto di Terron (Como 1959) che
approderà a Trieste solo nel 1963,
“Alissa”, un atto su testo di Miller che
Trieste rappresenterà solo nel 1967
(la “prima” a Ginevra fù nel 1965).
“Agostino” e “Quatour” non sono ancora mai stati rappresentati a Trieste.
Dal citato “Combat” (1970), tolte
alcune liriche di Falello presentate a
Trieste nel 1968, ben scarse le esecuzioni di musiche di de Banfield a Trie-
musicisti della nostra area geografica,
compositori (contemporanei e non)
compresi (da Smareglia a Bugamelli
a Viozzi ed altri, fra i quali l’estensore
di queste note) cui mai arrise a Trieste
un periodo più propizio e stimolante
di affermazioni e successi.
per il balletto “Colloquio col Tango”
Aveva, sul suo telaio ispirativo, altre opere di ampio respiro come una
“Discesa d’Orfeo” su testo di Tennesse Williams, e una “Dulcinèe” (da
Cervantes), ma le disattese per l’urgere di troppi impegni, limitandosi alla
stesura di brevi composizioni cameristiche. Me ne parlò, qualche volta,
come, anni prima mi aveva tenuto al
corrente sulla stesura della sua ultima opera, “Alissa”, di natura metapsichica, ispirata ad uno strano fatto di
cronaca riportato dai media. Narrava
d’un giovane poeta che, sul punto di
soccombere al peso della sua solitudine, riesce ad avvertire la presenza
d’una giovane da anni scomparsa che
si “materializza” davanti a lui. Tornato a cercarla troverà solo la sua tomba ed il suo sbiadito ritratto col suo
nome: Alissa.
Ma “Orphèe” e “Dulcinèè” non
erano destinate ad essere portate in
palcoscenico. Come nel destino di
Falello c’era una predestinazione:
quella della solitudine. Solitudine che
s’acuì drammaticamente alla morte
dell’amatissima madre Maria e successivamente alla scomparsa del padre, dopo la quale si trovò a doversi
occupare in prima persona anche del
colosso armatoriale Tripcovich, impegno pratico per il quale non era assolutamente tagliato né interessato.
Frattanto incombeva la chiusura
per restauri del Teatro Verdi che, in
carenza di una sede alternativa per gli
spettacoli, avrebbe privato per cinque
anni dell’attività liricosinfonica la città, con serie ipoteche sulla possibilità
di riprenderla, a restauro avvenuto. E
qui Falello operò un autentico “mira-
colo”. Riuscì a trasformare la dismessa e fatiscente ex Stazione Autocorriere di piazza Libertà in una splendida sala teatrale che poi si chiamò
“Sala Tripcovich” dotata di ottima
acustica e perfetta visibilità per tutto
il pubblico. L’inaugurò, costretto su
una sedia a rotelle, dopo un tremendo incidente automobilistico, occorsogli nei pressi di Parigi, che poteva
costargli la vita e, per mero “caso”,
evitando anche l’amputazione d’una
gamba, già diagnosticata come “inevitabile”. Non smise d’occuparsene
nemmeno durante la lunga degenza
ed il dolorosissimo e lungo periodo di
“riabilitazione”. Naturalmente i fondi
che permisero il “miracolo” dell’erezione di questa Sala venivano dalla
sua Compagnia Tripcovich.
Il sinistro automobilistico parigino scoperchiò il Vaso di Pandora di
Falello e cominciarono a succedersi disgrazie a grappolo: il fallimento della Compagnia Tripcovich e la
perdita d’ogni avere, Villa Tripcovich compresa; la posizione di Direttore Artistico al Verdi che si trasformò
in “consulenza”; anni di processi e di
martellamento sui media locali ed internazionali su questo clamoroso fallimento. Tanto che la figura di Falello,
prima celebrato come geniale compositore, divenne nota solo come quella del ““grande uomo di finanza falli-
to”. Ciò al punto che, alla sua recente
morte, giornali e media impazzirono
per imbastire il “coccodrillo” celebrativo di rito e, disponendo solo dell’infinita “letteratura” relativa al fallimento, tempestarono pochi “noti” addetti ai lavori per aver qualche frettolosa informazione sul musicista.
Il crepuscolo di Falello fù all’insegna dell’amarezza: tormentato dai
progetti comunali di radere al suolo
il suo “gioiello” (la Sala Tripcovich),
gratificato come “onorario” alla consulenza artistica del Teatro Verdi e da
ultimo “giubilato” del tutto. E’ morto
in un appartamento d’affitto, con ancora negli imballaggi quella piccola
parte della storia sua e della sua famiglia che aveva potuto salvare dallo
sfratto. Da ultimo, un ictus gli bloccò
la favella, quella sua bella voce calda
e morbida della quale era tanto orgoglioso. Ma gli lasciò la lucidità crudele della coscienza ed il dono inestimabile della Fede. Nella Calza della
Befana trovò l’agognata pace, premio
della serenità che seppe conservare
anche nei momenti più duri. Addio
Falello e grazie per come ti sei donato
anche a quelli che non ti vollero bene.
Spetta ora alla tua Città ricordarti degnamente e non solo occasionalmente, per il musicista che sei stato, magari portando al Teatro Verdi quelle
tue opere mai ancora qui approdate.
6 musica
Mercoledì, 30 gennaio 2008
VITA NOSTRA Il prezioso operato del complesso musicale «Calegaria»
Toccare l’anima del pubblico
e far riaffiorare la memoria
di Helena Labus
CAPODISTRIA - Il mantenimento della tradizione, la salvaguardia del proprio patrimonio
culturale è un tema particolarmente sentito in un mondo che sta diventando sempre più uniformato
in seguito alla globalizzazione.
La conservazione dell’identità è
oggigiorno uno degli obiettivi più
importanti in qualsiasi settore dell’attività culturale e con ciò anche
nella musica. La musica quale linguaggio universale, comprensibile
in ogni angolo del mondo, è pertanto un veicolo di comunicazione ineguagliabile, capace di unire
Oblak (voce e fisarmonica), Sergio Settomini (voce e basso) e Ivo
Marc (voce e batteria), hanno sfornato in marzo dello scorso anno il
loro primo cd, intitolato appunto
“Primo”, e sono attualmente impegnati nella preparazione del secondo. In un colloquio con Leonardo
Klemenc abbiamo voluto conoscere più da vicino questo particolare
complesso musicale.
Come e quando è nato “Calegaria”?
Ci siamo riuniti quattro-cinque
anni fa come un gruppo di amici
che volevano stare un po’ insieme e divertirsi suonando, per poi
passare a un discorso serio. Ini-
Il complesso “in azione”
culture diverse, nonostante le loro
particolarità.
Il complesso musicale “Calegaria” di Capodistria, è una realtà importante in seno alla Comunità Nazionale Italiana in quanto si
prefigge di tenere viva la tradizione istriana e le canzoni popolari in
dialetto istro-veneto. Nei numerosi concerti che ha tenuto finora, il
complesso ha saputo sempre toccare l’anima del proprio pubblico,
facendo riaffiorare con le proprie
note i tempi che furono e che sembrano dimenticati. I “Calegaria” che portano il nome della via principale di Capodistria - di cui fanno
parte Leonardo Klemenc (direzione artistica, arrangiamenti, mandolino, tastiere, percussioni e voce),
Stojan Stankovič (voce e chitarra),
Danilo Fermo (chitarra), Jadranko
zialmente si era formato un gruppo mandolinistico, poi ho pensato
di ‘allargare’ ancora il discorso in
quanto avevo in mente di dedicarmi a una musica più vicina ai nostri gusti.
Perché proprio la musica tradizionale istro-veneta?
Lavorando alla radio mi trovo
per forza a contatto con l’ambiente
musicale. In precedenza avevo fatto delle produzioni con altri musicisti: Dario Marušić, Emil Zonta,
Marino Kranjac e altri nomi storici
che curarono la musica popolare.
Poi, a un certo punto, ho pensato
di poter fare anch’io questo percorso, in quanto sentivo di avere
un modo nuovo per presentare la
musica tradizionale. Ciò vuol dire
fare musica, per così dire, vecchia,
ma suonandola in maniera più mo-
derna. A giudicare dalle reazioni del pubblico ai nostri concerti,
posso dire che le persone apprezzano quello che facciamo, in quanto cerchiamo di rispettare quanto
più la forma originale di ciascun
brano.
Quale territorio, per così
dire, ricopre il vostro repertorio
musicale?
Ricopre più o meno il territorio
che va da Capodistria fino a Cittanova, ossia l’area nordovest dell’Istria. Vorrei, però, ribadire che si
tratta di una divisione approssimativa, in quanto molti tra i brani del
nostro repertorio vengono cantati
in tutta l’Istria. Noi abbiamo, però,
scelto di eseguire le canzoni come
le cantavano nei succitati territori.
Possiamo dunque constatare
che il suo lavoro consiste pure
nello “scavare” nel repertorio
popolare alla ricerca di brani?
Assolutamente. In questo contesto si possono seguire due strade: quella di usare il materiale che
esiste già nelle raccolte di spartiti, come è quella dello scomparso
Giuseppe Radole - un personaggio
molto importante per aver profuso grande impegno nella raccolta
e pubblicazione di molte di queste canzoni -, per poi andare anche ‘sul terreno’ onde verificare
se queste canzoni che ho trovato
scritte corrispondono a quello che
viene cantato tra la gente. Posso
dire che mi succede spesso di individuare delle differenze, ma ciò
non è niente di strano, visto che
la musica popolare varia in continuazione.
Nell’arrangiamento dei brani,
invece, cerco di mantenere la freschezza originale della melodia
senza troppe aggiunte, in quanto
ritengo che la melodia sia la base
di ogni brano, ovvero ciò che ci
hanno tramandato i nostri avi. Il
canto è la parte più importante.
Negli ultimi due decenni si
nota un interesse particolare per
la musica popolare, la “world
music” e l’”ethno” si sono guadagnati pure una notevole fetta
di pubblico mondiale. Come si
inserisce “Calegaria” in questo
contesto?
La copertina del primo album, intitolato “Primo”
Si inserisce assolutamente perché, in realtà, oltre al gusto di suonare questo tipo di musica, uno dei
nostri obiettivi è proprio quello di
allargare la coscienza della gente
nei confronti di questa musica. È
interessante che la mia generazione – e sono nato nel 1953 – è praticamente l’ultima che conserva
ancora dei ricordi. I giovani, almeno dalle nostre parti, non la conoscono. È perciò importante trovare
una formula per arrivare non solo
agli amanti del genere, ma anche
a un pubblico più vasto che potrà
apprezzare e ricordare più avanti
negli anni questo prezioso patrimonio.
I giovani, dunque, non hanno
troppa familiarità con questo repertorio?
Dalle nostre parti certamente
no, in quanto credo che Capodistria abbia risentito in modo più
drammatico delle altre città delle vicissitudini del secolo scorso.
Molta gente è andata via, mentre
quelli che sono rimasti non hanno
mantenuto questa memoria.
L’interesse tra i giovani forse ci sarebbe, ma bisogna offrirglielo, non è una cosa che nasce
spontaneamente dal nulla. I giovani devono poter sentire e farsi
un’idea di tutto quanto per poter
eventualmente divenire interessati coltivatori di canzoni che magari
erano cantate dai loro nonni. Realizzando il primo cd – e mi auguro
che sia il primo della serie – abbiamo voluto presentare al pubblico
le canzoni conosciute, ma anche
quelle che nel corso dei decenni
sono state dimenticate. Credo che
proprio quest’ultime abbiano il valore più grande.
Il secondo cd è in preparazione?
Lo stiamo realizzando con
cura, in quanto il secondo disco
è sempre più impegnativo del primo in termini di mantenimento di
un certo standard di qualità. Siamo molto attenti nella ricerca della
giusta impostazione, delle canzoni adeguate. Speriamo, quindi, di
uscire con il secondo cd entro la
fine dell’anno.
A tutta birra!
musica 7
Mercoledì, 30 gennaio 2008
L’EVENTO Al Comunale di Vicenza la Camerata Musicale Vicentina
Il Tango, dalle origini
alle sue evoluzioni più recenti
VICENZA - Il 4 febbraio
2008 al nuovo Teatro Comunale
di Vicenza (è stato inaugurato un
mese fa, dopo 60 anni di assenza
di una struttura stabile in città) la
Camerata Musicale Vicentina diretta dal maestro di origini istrodalmate Alessandro Boris Amisich (ore 21.15) terrà un concerto
dedicato all’evoluzione del tango
argentino, dalle origini a Piazzolla e al Tango Nuevo. Il concerto è
organizzato in collaborazione col
Comune di Vicenza.
Accanto all’organico della
Camerata Musicale Vicentina, un
ruolo importante sarà rivestito
dal pianista Carlo Dalla Battista,
che gli amici di Pola ricorderanno
essersi esibito in duo con lo stesso Amisich alla Comunità Italiana in occasione del concerto in
omaggio alla memoria di Sergio
Endrigo: Dalla Battista suonerà nelle quattro “Stagioni Portegne” di Astor Piazzolla e accompagnerà la voce del baritono Andrea Zaupa.
Il tutto sarà reso ancora più affascinante da una coppia di ballerini argentini Jessica Lull ed Emiliano Fernandez.
Il programma comprende brani di Enrique Francini (1916 1978) La vi llegar, Carlos Gardel (1890? – 1935) El dia que me
quieras, Mariano Mores (1918
- ) Cristal, A. Piazzolla (1921 1992) Escualo, Mariano Mores
(1918 - ) La calesita, A. Piazzolla (1921 - 1992) Verano Porteño,
Alessandro Boris Amisich
Joseph Lacalle(1860 - 1937)
Amapola, A. Piazzolla (1921 1992) Libertango, Mariano Mores (1918 - ) Cafetin de Buenos
Aires, Carlos Gardel (1890? –
1935) Volver, A. Piazzolla (1921
- 1992) Otoño Porteño e Invierno
Porteño, Charlo (Carlos J. Perez)
(1905 – 1990) Fueye…! Sebastiam Yradier (1809 - 1865) La
paloma, A. Piazzolla Oblivion e
Primavera Porteña.
Ricorderemo che Alessandro
Boris Amisich è allievo di Romolo Gessi (Master in direzione d’orchestra conseguito presso
l’Accademia Europea di Vicenza), di Giulio Cattin per la musicologia (laurea in lettere con
una tesi in storia della musica,
Università di Padova, 1983); di
Giuseppe Ceccato e Paolo Muggia per la chitarra (diploma in
chitarra, Conservatorio di Padova, 1979).
LA CRITICA In margine al «Tristano e Isotta»
Accademia del brutto
e clima da«Lumpenproletariat»
MILANO – Al primo posto assoluto tra le 13
Fondazioni Liriche italiane (e con un vertiginoso
distacco) in quanto a dipendenti (800), contributo
statale (31 milioni di Euro), contributi comunali,
provinciali e regionali (18.5 milioni di Euro) ed
un bilancio complessivo di 115 milioni di Euro, il
Teatro alla Scala di Milano ha Festeggiato S. Ambrogio con l’inaugurale “Tristano e Isotta” di Wagner. Si è trattato di un grande evento internaziona-
le, quanto “esclusivo” per i prezzi dei biglietti, che
ha visto in sala la crema delle massime autorità non
solo nazionali ed i fortunati “paperoni” che potevano permetterselo. Ma, si sa, la Scala è la Scala e
così và il mondo.
I melomani “qualunque” del resto d’Italia (e
non solo), hanno, questa volta, potuto assistere all’evento attraverso la televisione su “Classica Sky”
(40 milioni di abbonati) o seguirlo su RAI 3. Pare
che i tifosi dell’Opera siano in aumento. Ciò anche se le Istituzioni che dovrebbero occuparsi del
problema non ne hanno alcun merito, dato che
poco o nulla se ne occupano. Né registi come Patrice Chéreaum scenografi come Richard Peduz-
zi e costumisti come Moidele Bickel, ancorati da
quarant’anni ad un’estetica “ideologica” ripetitiva
e sorpassata, comprendono ancora che un “ritorno
alle origini” rappresenterebbe una gradita “novità”
per gli spettatori ed incrementerebbe la frequentazione ai teatri dei “normali” cittadini della Repubblica.
Invece, in quanto alla parte scenica e visuale,
insistono nella trita “Accademia del Brutto”: ambientazioni nella contemporaneità, fogge brechtiane, clima “operaio” da Lumpenproletariat, cadente
archeologia industriale entro la quale la nave diviene un pontone da portaerei sul quale una specie di
“Corte dei Miracoli” s’accanisce in azioni di basso
facchinaggio. Isotta pare un’ortolana discesa dal
contado, Brangania la sua aiutante. Tristano è drappeggiato come un barbone metropolitano, Kurwenal è soffocato da un cappottaccio di quarta mano,
Re Marke pare un mandriano, il resto di personaggi e figuranti non se la passano meglio.
La magìa del “filtro” sembra aver sfogo solo
nell’arrappamento erotico dei due amanti rotolantisi al suolo per la gioia. Grandguignolesco il finale con abbondanza di sangue sia per Tristano che
per Isotta.
Per fortuna il maestro Daniel Baremboin dirige
portentosamente l’autentico Wagner, assecondato
con smalto e partecipazione dalla prestigiosa orchestra scaligera. Waltraud Meier è un’Isotta d’antologia. Ian Storey (Tristano) è pletorico ma corretto. Matti Salminen (Marke) nobilita con gli accenti l’abito che è costretto ad indossare. Michelle
Deyug, per il timbro troppo simile alla sua signora,
può aver confuso i radioascoltatori, ma si è dimostrata una valente Brangania. Poco appropriata la
versione italiana di Franco Serpa esibita nei “sopratitoli”. Successo a forti tinte, non senza qualche
dissenso per la messinscena. (fa.vi)
Per alcuni anni è stato direttore e direttore artistico dell’Orchestra Padova Classica.
Ha seguito seminari e corsi
di perfezionamento in Italia ed
all’estero (con Julius Kalmar e
Donato Renzetti per la direzione
d’orchestra, con Angelo Gilardino per la chitarra, con Giovanni
Acciai per la direzione di coro e
per la prassi e la notazione antica; con Andrea von Ramm per
la musica medioevale; con Nino
Albarosa e Alberto Turco per il
canto gregoriano). Si è esibito
come direttore e come esecutore in numerose città italiane,
nonché in Croazia, Slovenia,
Ungheria, Grecia, Austria, Ger-
mania, Spagna, Irlanda, Cechia,
Belgio, Svizzera, Tunisia. Ha
pubblicato revisioni musicali di
opere ottocentesche per Berben
e Zanibon. Suoi studi ed articoli sono pubblicati da CD Classica, Orfeo, Il Fronimo, La Cartellina, Guitart, La Voce in più
Musica (supplemento musicale
de La Voce del Popolo di Fiume). Ha pubblicato un volume
sul musicista ottocentesco Giulio Regondi per Ottocento Edizioni di Ancona.
Nel 2000 è stato invitato dalla Società Croata di Musicologia
per un convegno internazionale
a Zagabria sul chitarrista croato
Ivan Padovec.
I trionfi di Martina Filjak
artista purosangue
VERCELLI - Al Concorso pianistico internazionale “Viotti” di
Vercelli, gloriosa manifestazione
giunta quest´anno alla 58.ma edizione, al termine di 3 prove solistiche
e della finale con l´Orchestra Filarmonica di Torino, ha trionfato Martina Filjak, 29 anni, vero purosangue della scena pianistica internazionale, vincitrice solo quest´anno
del 5° premio al “Busoni”, dell´Ibla
Grand Prize di Ragusa e del 3° premio al “Grieg” di Oslo. La Filjak ha
portato a casa 12.500 euro e numerosi concerti. Secondo posto (4.000
euro) al russo Sergey Artsibashev,
a cui è andato anche il premio del
pubblico di 1.000 euro. Medaglia
di bronzo (3.000 euro) all´irlandese
Cathal Breslin. I 120 candidati sono
stati valutati dalla giuria formata da
Pietro Borgonovo, Roberto Cappello, Marcella Crudeli, Sergej Dorensky, Bryce Morrison, Mariana Gurkova e Jozef Stompel.
Ricorderemo che Martina Filjak, fiumana per parte di madre,
nella primavera scorsa ha regalato
uno splendido concerto alla CI di
Fiume.
8 musica
Mercoledì, 30 gennaio 2008
LE DIVINE DELL’OTTOCENTO Isabella Colbran
Voce di velluto e interprete
appassionata
I
sabella Colbran (Madrid,
2 novembre 1785 - Castenaso, Bologna, 7 ottobre
1845) fu celeberrimo soprano e
compositrice spagnola.
Figlia del violinista Giovanni Colbran, dopo aver iniziato
lo studio del canto in Spagna,
si trasferì a Napoli. L’esordio
in pubblico avvenne a Parigi
nel 1801, mentre la prima esibizione in Italia fu nel 1807 a
Bologna.
QUIZ
Il primo successo della cantante lirica è dovuto alla sua interpretazione al Teatro alla Scala nel Coriolano di Gian Battista
Niccolini.
Dopo varie tournèe a Bologna, Venezia e Roma, la Colbran
divenne la prima donna del Teatro San Carlo di Napoli dal 1811
al 1822. Nella città partenopea
conobbe Gioacchino Rossini nel
1815, con il quale lavorò in molte
opere, tra le quali Otello (1816),
CHISSÀ CHI LO SA?
1. All’epoca del movimento Hippie, iniziato nella seconda
metà degli Anni ’60 del secolo scorso, numerosi gruppi di persone appartenenti al
movimento negli Stati Uniti usavano riunirsi “sotto lo
stesso tetto” in comunità per
vivere a contatto con la natura. Una comunità del genere
era composta pure da due
grandi gruppi rock dell’epoca. Questi erano…
a) i Jefferson Airplane e i Grateful Dead
b) i Chicago e i Boston
c) i Mamas & Papas e i Electric
Light Orchestra
2. I trovatori furono poeti attivi nei secoli XII e XIII nelle
corti aristocratiche che componevano canti monodici, ovvero a una sola voce, e rispecchiavano un gusto raffinato
esprimendo il piacere per la
vita e la natura. I primi trovatori furono attivi in...
a) Toscana
b) Catalogna
c) Provenza
3. Si basa sulla canzone del
compositore spagnolo-americano Iradier l’aria più famosa dell’opera “Carmen”
di Bizet, intitolata...
a) Haradeña
b) Habadera
c) Habañera
4. La canzone “Ti si sav moj
bol”, nata all’epoca del
“Novi val” nell’ex Jugoslavia, a cavallo tra gli Anni ’70
e ’80, fu uno dei più grandi
successi della band serba...
a) Električni orgazam
b) Ekatarina Velika
c) Šarlo Akrobata
7. Chopin dedicò la seconda
delle sue quattro ballate
per pianoforte a un grande compositore e pianista
tedesco, dopo che questi gli
aveva dedicato una bella
recensione in un giornale
musicale. Parliamo di...
a) Franz Schubert
b) Robert Schumann
c) Carl Maria von Weber
Rossini e la Colbran si sposarono
il 15 marzo 1822 a Castenaso, dove
la donna possedeva una villa. Dopo
l’insuccesso dell’ultima opera rossiniana rappresentata al Teatro La Fenice a Venezia, decise di abbandonare le scene e si trasferì a Parigi con il
marito, dal quale si separò nel 1837
a Bologna. Isabella Colbran fu una
grande artista, ammirata da Stendhal, ed interprete capace di infondere passione ed intensità drammatica nel suo canto, nonchè autrice di
quattro raccolte di canzoni. Le spoglie mortali di Isabella Colbran riposano nella Certosa di Bologna.
dal vecchio album
Qual vezzoso
minuetto...!
Frédéric Chopin
8. Si intitola “Candide” la composizione considerata quale
migliore ouverture del XX
secolo, composta da...
a) Leonard Bernstein
b) Aaron Copland
c) John Cage
9. Il recentemente scomparso attore polese Galliano
Pahor, oltre che per il suo
grande talento drammatico, era noto pure per le sue
notevoli doti vocali, che
ebbe occasione di dimostrare, tra l’altro, come vocalist della band fiumana...
a) Mrtvi kanal
b) Xenia
c) Public
5. Chi è l’autore del noto poema sinfonico “L’apprendista stregone”, il quale ha
ispirato pure un cartone
animato di di Walt Disney?
a) Claude Debussy
b) Paul Dukas
c) Erik Satie
6. Per quale pianista e compositore, che conosceva a memoria tutti i 48 preludi e fughe tratte dalla raccolta “Il
clavicembalo ben temperato”, l’opera completa di
J.S.Bach rappresentava la
vera essenza della musica?
a) Frédéric Chopin
b) Franz Liszt
c) Johannes Brahms
Armida (1817), Mosè in Egitto
(1818), Ermione (1819), La donna del lago (1819), Maometto secondo (1820), Zelmira (1822).
Dapprima contralto, poi soprano ebbe timbro caldo e limpido,
grande virtuosismo, fraseggio nobile, fascino scenico.
Galliano Pahor
10. La rinomata cantante africana Cesaria Evora, oltre
che per la sua musica e l’inconfondibile voce, è nota
pure per il fatto di cantare...
a) nel buio totale
b) senza microfono
c) scalza
Un-due-tre! Si piega il piedino/si fa un inchino/
la giravolta/un’altra volta/con vezzo, con grazia/con
gran dignità/il minuetto eccolo qua!/
Dottor Balanzone, che sciccheria! Qual giustacuore! Quale jabot! Madamigella, leggiadra e snella,
dietro il ventaglio qual bel visin! Boccoli d’or, rasi e
merletti pei minuetti di Carneval!
Ecco qua signori, i Carnevali dei nostri nonni e
bisnonni. Ignoriamo le identità delle due belle mascherine. Certo è che sono del Capodistriano, probabilmente di Crevatini. Chi saranno mai? (Un-due-tre!
Un-due-tre....)
battutacce...battutacce...battutacce...battutacce
Che cosa hanno in comune il
fulmine e le dita di un violista?
Entrambi non colpiscono mai
due volte nel medesimo posto.
Come impedire il furto di un
violino?
Basta metterlo nella custodia
di una viola.
Che differenza c’è tra viola e
violino?
1. La viola brucia più
a lungo.
2. La viola contiene più birra.
3. Il violino può essere accordato.
Come si fa ad ottenere che
un violista suoni un pianissimo
tremolo?
Basta scrivere “solo” sullo
spartito.
Che differenza c’è tra una
viola e una bara?
La bara ha il morto all’interno.
Che cosa si fa con un violista
morto?
Lo si sposta nell’ultimo leggìo.
Che differenza c’è tra una
viola e un trampolino?
Per saltare su un trampolino
ci si tolgono le scarpe.
Che differenza c’è tra una
viola e una cipolla?
Nessuno piange se si taglia
una viola.
Qual’è la definizione di seconda minore?
Due violisti che suonano all’unisono.
Come mai i violisti sostano sempre a lungo sui portoni
delle case?
Non trovano la chiave, e non
sanno quando entrare. Qual’è
la differenza tra una lavatrice
e una viola?
Il vibrato.
Come mai tanta gente ci mette un attimo ad odiare la viola?
Per risparmiare tempo.
Come si fa a dire se un violista sta stonando?
Basta vedere se l’arco si muove.
Chi inventò il canone?
Due violisti che tentavano di
suonare all’unisono.
Perché un assolo di viola è simile a una bomba?
Quando lo senti è ormai troppo tardi.
Sei perduto nel deserto, quando vedi un bravo violista, un
cattivo violista e un’oasi.
Dove ti dirigi?
Verso il cattivo violista; gli altri sono miraggi.
Anno IV / n. 1 30 gennaio 2008
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: MUSICA
Redattore esecutivo: Patrizia Venucci Merdžo / Impaginazione: Andrea Malnig
Collaboratori: Helena Labus, Fabio Vidali
Il presente supplemento viene realizzato nell’ambito del Progetto EDIT Più in esecuzione della Convenzione MAE-UPT n. 1868
del 22 dicembre 1992 Premessa 8, supportato finanziariamente dall’UI-UPT e dal Ministero Affari Esteri della Repubblica italiana.
Soluzioni: 1. a), 2. c), 3. c), 4. b), 5. b), 6. a), 7. b), 8. a), 9. c), 10. c).
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30. 1.2008 - EDIT Edizioni italiane