DEL POPOLO ce vo /la .hr dit w.e ww musica & il pentagramma An no IV • n. 1 08 o 20 i a n • Mercoledì, 30 gen De arte saturnalis et de scientia di Patrizia Venucci Merdžo Cari lettori, svanite le bollicine del neonato anno 2008, eccoci nuovamente insieme in compagnia di Messer Carnevale e del suo variopinto corteo di mattacchioni. Prima però di dedicarci al “Carne levare”, non posso esimermi da qualche considerazione sul concerto di Capodanno del teatro fiumano. Mi sto chiedendo se avremo mai l’occasione di sentire nell’ambito del programma del tradizionale concerto i valzer, le polche, insomma le musiche amene che Giovanni de Zajc compose prima e durante il suo periodo fiumano (1855-1862), attingendo brillantemente alle varie peculiarità della sua amata e mai dimenticata città natale; pagine che, non abbiamo motivo di dubitare, si amalgamerebbero meravigliosamente (non dimentichiamo le origini e gusti mitteleuropei di Zajc unitamente alla sua innata e felicissima vena melodica di tipo italico) con le più celebri musiche straussiane. Potremo mai godere dei valzer “La bella fiumana”, “Musicisti fiumani”, “Un pensiero a Milano”, “La bella milanese”, (ricorderemo che Zajc si formò come musicista al Conservatorio milanese) la polca “Postiglion lombardo”, “Natalì quadrille”, “Quadrille sla- va”. Tutti brani che potrebbero concorrere alla promozione ed affermazione della tradizione musicale fiumana ottocentesca in un contesto anche più ampio. Quante sono le città in Croazia che possono menar vanto di uno “Strauss casereccio”? A propria “immagine”? Già, ma è più facile ripiegare sulle strade battute. Alla faccia delle strombazzate giornate di Zajc, intenzionate in teoria a valorizzare la produzione dell’Illustre festeggiato, del quale quest’anno non abbiamo udito nemmeno un brano. Il quale Zajc, personalità centrale della vita musicale fiumana per sette anni, in occasione dei festeggiamenti carnascialeschi compose pure “Arlequin quadrille”, delle variazioni sul celebre tema del Carnevale di Venezia, ma soprattutto il vaudeville, “Il funerale del Carnevale”; che per poco non segnò il suo di funerale. Il maestro infatti diresse la prima con la polmonite, cui fece seguito un tremendo esaurimento nervoso, dopodiché prese la via per Vienna. Una curiosità: l’impresario del Teatro di Fiume nella seconda metà dell’Ottocento, aveva il compito di organizzare nel periodo carnascialesco almeno dodici serate danzanti, le cosiddette “cavalchine”; che ritroviamo pure nelle città dalmate e nella penisola italica. Ed ora, con un bel balzo di palo in frasca, ci trasferiamo dal clima dionisiaco dei “baccanali” in quello asettico-empiricoragionato-esatto-algido eppure eccitante di Madama Scienza! Un équipe di studiosi canadesi ha messo a confronto un gruppo di dodici bambini tra i 4 e i 6 anni che prendono lezioni di musica - sei dei quali frequentano scuole Suzuki - con altri bambini della stessa età completamente digiuni da attività musicali. Gli scienziati hanno verificato in modo empirico che i bambini che studiano musica hanno incrementato potenzialità nella memoria anche a vantaggio dell’intelligenza intuitiva su materie diverse come letteratura e matematica. I ricercatori hanno sottoposto i bambini all’ascolto di suoni e rumori per dodici mesi. È il primo studio al mondo che dimostra scientificamente che le risposte del cervello, tra bambini che studiamo musica e bambini che non la studiano affatto, variano sensibilmente già nello spazio di un anno. L’intera ricerca, diffusa dalla McMaster University di Hamilton, nell’Ontario, è disponibile interamente on line, in inglese, al sito Internet di Brain, un giornale di Neurologia. Morale della favola. Volete figli intellettualmente più duttili e intuitivi? Mandateli al Centro Studi Musica Classica! Carnevalscientificamente Vostra 2 musica Mercoledì, 30 gennaio 2008 RUBRICA Il clima circense-carnascialesco è stato immortalato nella musica colta, Nei pupazzi di segatura tutto il a cura di Patrizia Venucci Merdžo I l Carnevale con il suo alone di mistero che gli deriva dalle sue origini ancestrali e pagane, dall’ignota ed inconscia volontà dell’uomo di proiettarsi in un’altra personalità, di essere “un altra entità”, almeno per breve tempo, e di darsi alla pazza allegria, non ha mancato di infiammare gli animi di non pochi musicisti. Così, a caldo, ci sovviene alla memoria il Carnevale e il Carnevale di Vienna del 1939 di Schumann, specchio felice e disincantato dell’allegra leggerezza del mondo musicale viennese, una leggerezza che, seppur lontana dalla poetica del nostro autore, sembra comunque aver lasciato in lui un segno; oppure il Carnevale degli animali di Saint-Saëns, una divertente rassegna di caricature musicali ispirate al mondo degli animali (dal leone alle tartarughe, dai canguri agli abitanti del mare, agli elefanti e volatili chee al 1886 ed scritta dal musicista francese in occasione di una festa di carnevale tra amici musicisti. Ed ancora la canzone popolare il Carnevale di Venezia, presa a tema da diversi musicisti per comporvi sopra delle variazioni virtuosistiche (celebri quelle di Paganini), oppure la chansonne di Debussy Fantouche (Fantocci) con protagonisti Scaramuccia, Pulcinella e Colombina. La maschera, il clima circense-carnascialesco non sono venuti meno neanche nell’opera lirica e nell’operetta – ricorderemo i celeberrimi Pagliacci, Un ballo in maschera, Il pipistrello, Una notte a Una scena da Petroushka Petrouchka, il balletto su musiche di Igor Stravinsky, fu uno dei primi balletti fra quelli creati dal grande coreografo Michel Fokine. La storia è basata sull’omonimo personaggio della tradizione russa, una marionetta dal corpo di segatura e la testa di legno, che prende vita e riesce a provare dei sentimenti. Assimilabile per molti versi a Pinocchio: “essere” non del tutto reale, le cui passioni provocano il desiderio impossibile di vivere una vita umana. Le sue movenze a scatti rivelano il tormento delle emozioni imprigionate in un corpo di bu- rappresentata per la prima volta al Théâtre du Chatelet di Parigi il 13 giugno 1911. Rappresenta uno tra i primi fermenti di rinnovamento della danza classica del Novecento. Il balletto ora mette in evidenza la sua componente tragica e il ballerino di sesso maschile acquista il ruolo di protagonista. Nonostante il successo della rappresentazione, alcuni critici furono spiazzati dalle musiche imper- Il leggendario Nijinski, primo e insuperato Petroushka ballano una vivace danza russa fra il pubblico stupefatto. . Terminato lo spettacolo, i pupazzi vengono rinchiusi, dal padrone, nei loro camerini. Dietro le quinte, il burattino conduce una vita miserabile fra le angherie del Mago e l’amore non ricambiato per la marionetta Ballerina, cui egli tenta di dichiararsi, venendo puntualmente respinto. Per giunta, la Ballerina è attratta dal L’ampio fraseggiare della musica romantica viene, più che ignorato, deriso e violentato, e la scarnificazione sonora ben si adatta all’evocazione della spietata dinamica dell’azione scenica, ad esprimere il senso di frustrazione a cui la marionetta deve soggiacere vie, dissonanti, talvolta grottesche. Ad un critico che, dopo una prova generale, chiese: “Ci avete invitato qui per sentire questa roba?”, Diaghilev rispose laconico: “Esattamente”. Quando Diaghilev e il suo corpo di ballo si recarono a Vienna nel 1913, la Filarmonica viennese inizialmente si rifiutò di eseguire la partitura, definendola “schmutzige Musik” (musica sporca). terzo burattino - il Moro - con cui inizia una relazione. La terza scena si svolge nella lussuosa stanza del Moro, che, diversamente dal protagonista, gode del privilegio di una vita agiata. Petroushka, pagliaccio tragico Celebre tema stravinskiano di Petroushka Venezia… - , tuttavia intendiamo rattino. Il balletto attinge all’opera concentrarci su due classici del Balagan del poeta russo Aleksanballetto del Novecento usciti dalla der Blok. penna del geniale Igor Stravinsky, «Schmutzige Musik» ossia Petrouchka e Pulcinella, personaggi che sebben pagliacci- maL’opera fu composta durante rionette-maschere vengono animati da profondi e violenti sentimen- l’inverno del 1910-1911 per i Balletti russi di Sergej Diaghilev e fu ti umani. Siamo a San Pietroburgo, durante la fiera della settimana grassa nel 1830 (in Russo Shrovetide): una festività che precede un lungo periodo di digiuno religioso. Il popolo festeggia prima del periodo di austerità. La strada è affollata da passanti, ballerini di strada, zingare, forze dell’ordine, curiosi, comari, vetturini. L’orchestrazione e i ritmi rapidi e mutevoli suggeriscono l’andirivieni della folla. Un suonatore di organetto e una danzatrice intrattengono il pubblico. Un rullo di tamburi annuncia l’arrivo di un anziano burattinaio, Ciarlatano, col suo teatro di burattini. Si alza il sipario del teatrino, e il Ciarlatano presenta le marionette inanimate: Petrushka, la Ballerina e il Moro. Grazie ad un incantesimo, i burattini si animano, saltano fuori dal loro piccolo palcoscenico e Personaggi di Petroushka nella prima edizione mondiale Petrushka, che finalmente riesce a evadere dalla sua cella, piomba nella stanza per opporsi alla tresca. Tenta di lottare contro il Moro, il Moro lo malmena, scacciandolo infine con la sua scimitarra Nella quarta ed ultima scena, ci ritroviamo alla fiera. L’orchestra si trasforma idealmente in una grande fisarmonica che suona una serie di colorite danze, Nel bel mezzo dei festeggiamenti, un grido si ode provenire dal teatro delle marionette. Petrushka irrompe sulla scena, inseguito dal Moro che brandisce un’ascia. Alla fine questi lo raggiunge e lo colpisce a morte, fra l’orrore dei presenti. Sopraggiunge la polizia, che interroga il Ciarlatano. Questi cerca di riportare la calma scuotendo il corpo inerte di Petrushka, da cui esce segatura, per ricordare agli astanti che si tratta solo di un burattino di legno. A notte inoltrata, la folla si allontana rassicurata, mentre scende la notte, la neve cade dal cielo, e la fiera si chiude. Il Ciarlatano riordina e pulisce il suo teatrino, prima di allontanarsi, portando con sé il burattino rotto. Ma il fantasma di Petrushka compare sul tetto del teatrino, terrificante gesto di scherno. La morte ha infatti liberato il suo spirito dal corpo di marionetta, ed ora egli è tornato per tormentare il suo antico aguzzino, che fugge atterrito. Ma il fantasma di Petrushka compare sul tetto del teatrino, terrificante gesto di scherno. La morte ha infatti liberato il suo spirito dal corpo di marionetta, ed ora egli è tornato per tormentare il suo antico aguzzino, che fugge atterrito. “Mentre stavo scrivendo questa musica, mi vedo davanti una specie di burattino che all’improvviso prende vita. Con cascate di arpeggi indiavolati esso incita e provoca l’orchestra che risponde con fanfare minacciose. Ne sorge un terribile tumulto che diviene addirittura selvaggio e finisce con la caduta del povero burattino che si abbandona lamentandosi, affranto. Quando questo pezzo così bizzarro fù finito, camminai per ore e ore sulle rive del lago di Ginevra tormentandomi alla ricerca di un titolo che in una sola parola esprimesse il carattere della musica e la personalità del protagonista. Un giorno feci un salto di gioia. Petruska il pagliaccio, l’eroe eternamente sfortunato ! Eccolo, avevo trovato il titolo che cercavo !” scriveva Stravinsky nel suo diario. Ritmica pungente, acidi impasti timbrici Musicalmente questo balletto si differenzia notevolmente dalle opere fauve della prima maniera stravinskiana per una più secca e meno musica 3 Mercoledì, 30 gennaio 2008 ma soprattutto in due classici del balletto del Novecento: Petrouschka e Pulcinella dramma e la poesia dell’umano cubista, ed è appunto il frutto di una cultura insieme profondamente russa ( come attestano del resto i temi, le idee melodiche, talora interamente citate dal patrimonio folclorico) e partecipe delle più moderne e sofisticate esperienze cosmopolite. Pulcinella, iconoclastica reinterpretazione pergolesiana Tomba di Nijinski con la scultura di Petroushka sgargiante articolazione discorsiva, per una ritmica pungente, per acidi impasti timbrici. L’ampio fraseg- Il successo di questo capolavoro (Balletto con canto in un atto, libretto e coreografia di Léonide Massine), capace di far assaporare in termini moderni il gusto della Commedia dell’Arte, è in buona misura frutto del genio di Diaghilev, desideroso di presentare al suo pubblico un nuovo balletto tutto italiano dopo ghi e canovacci attorno alla figura di Pulcinella, trovata a Napoli durante le consuete scorribande per musei e librerie antiquarie. Il pezzo scelto, dal titolo I Quattro Pulcinella, ambienta a Napoli un’intricata storia d’amore: due giovanotti corteggiano due ragazze, che, invece, assieme a una terza, si contendono l’amore di Pulcinella. Un gustoso stratagemma dell’astuta Maschera e una serie di travestimenti, che, appunto, quadruplicano il personaggio, ristabilirà i giusti accoppiamenti, dopo una serie di risse ed equivoci caratteristici della Commedia dell’Arte. e il musicista riunì numerosi frammenti di sonate e opere comiche estrapolati dai manoscritti, rimaneggiandoli così profondamente, per armonizzarli tra loro, da fornire un prodotto assolutamente originale, pensato per una piccola orchestra. Pulcinella segnò la fine del “periodo russo” di Stravinsky, caratterizzato da L’Oiseau de Feu, Petroushka, Le Sacre du Printemps, ricchi di sonorità che rimandano al folklore russo. Sempre musicalmente – non coreograficamente – segnò il passaggio di Stravinsky al periodo neoclassico, ossia al momento, venuto a piena maturità tra le due guerre mondiali, in cui i compositori mostrarono un rinnovato interesse per la musica del ‘700 e, in parte, anche per la musica Barocca. Un prodotto assolutamente originale Fu ancora Diaghilev a pensare alla musica di Pergolesi; aveva scoperto manoscritti inediti di musica settecentesca nel corso delle sue periodiche ricerche, effettuate con Stravinsky in biblioteche italiane, librerie napoletane e antiquari londinesi. Memore di ciò si recò con Massine nella biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Maiella, per scegliere poco più di una quindicina di pezzi strumentali inediti, La grande Tamara Karsavina come Pimpinella allora creduti tutti di pugno di Pergolesi. In seguito molti non confermarono quella paternità, ma si rivelarono comunque di maestri contemporanei al compositore marchigiano. Diaghilev chiese a Stravinsky di comporre una musica basata su quelle fonti Come rileva Marino Palleschi i timbri risultano seccamente scanditi, per l’ironico sentimentalismo di alcune pagine. Anzichè rifarsi in tutto e per tutto a Pergolesi, Stravinski conserva e anzi evidenzia le prerogative personali, e il materiale archeologico viene usato iconoclasticamente, per il meglio mistificare il dislivello storico. Secondo Pestolozza quando scrive che “è indispensabile porre l’accento sul permanere di una costante stilistica che dà poi sapore ed espressione all’imprestito settecentesco, lo imbalsama, lo cristalizza in una classicità erosa dal patetismo e dall’umorismo pergolesiani trasformati in spettrali volute musicali che stimolano un’azione di fantasmi, che evocano un mondo senza più vita.” Leonid Massine, il primo Pulcinella giare della musica romantica viene, più che ignorato, deriso e violentato, e la scarnificazione sonora ben si adatta all’evocazione della spietata dinamica dell’azione scenica, ad esprimere il senso di frustrazione il trionfo de Les Femmes de Bonne Humeur, basato su una commedia di Goldoni. Allorché Massine gli comunicò il desiderio di creare un balletto basato sulla Commedia del- Pulcinella segnò la fine del «periodo russo» di Stravinsky, caratterizzato da L’Oiseau de Feu, Petroushka, Le Sacre du Printemps, ricchi di sonorità che rimandano al folklore russo. Sempre musicalmente – non coreograficamente – segnò il passaggio di Stravinsky al periodo neoclassico a cui la marionetta deve soggiacere. Il politonalismo sagomato e violentemente dissonante, ricorda per nitore e forza dei contorni la pittura l’Arte, l’impresario accolse immediatamente la proposta e, per il soggetto, gli passò una raccolta manoscritta, datata 1700, di dialo- Schizzo di Picasso per i costumi di “Pulcinella” per il quale creò pure la scenografia 4 musica Mercoledì, 30 gennaio 2008 Mercoledì, 30 gennaio 2008 5 È volato nel cielo della Musica Fallelo de Banfield Tripcovich TRIESTE - Un altro Patriarca dell’Arte e della Cultura giuliano-dalmata ha varcato la soglia dei Campi elisi: se ne è andato in punta di piedi il Maestro Raffaello de Banfield Tripcovich che della Musica e del Teatro Musicale ha fatto il suo Credo personale e la sua principale e forse unica ragione di vita. Era la notte del sette gennaio di questo 2008. Le Parche hanno aspet- e con essa vivere il teatro per il teatro”. Ciò malgrado avesse a disposizione nella splendida villa di famiglia di Gretta (Villa Tripcovich) un apparato di “servitù” che non gli permetteva nemmeno d’infilarsi le scarpe da solo. Già da fanciullo “vessava” amichetti ed amichette e l’unica sorella improvvisando rappresentazioni teatrali (specialmente operistiche) che predisponeva e dirigeva un pi- un certo punto, specialmente considerando la dalmatica “parsimonia” del padre che tendeva a tenere economicamente “a stecchetto” il figlio per convertirlo alla produttività manageriale. Talché era solo la madre a sovvenzionarne i sogni musicali. E ciò con molta circospezione per non contrariare il marito. A riprova di ciò è significativo il seguente episodio degli Anni Settanta. Andai a trovarlo in villa con Da allora il balletto “Le Combat” ha avuto più di tremila repliche: due mesi di rappresentazioni a Parigi, tre mesi a New York, altri tre mesi nel resto degli USA. Addirittura due Compagnie americane (N.Y. Ballet e American National Ballet) eseguono contemporaneamente “Combat”, incluso nei repertori stabili di Colon, Opèra, Staatsoper, Belgrado, Sarajevo, Zagabria, Lubiana, Spagna, Tokio tato la Befana per tagliare il sottile filo che ancora lo legava a questo mondo. Non sembri cinica l’ipotesi che Sorella Morte fu per lui forse la più gradita strenna epifanica. Profondamente cattolico credente, figlio dell’”Aquila di Trieste” Goffredo de Banfield originario dalle Bocche di Cattaro, e della contessa dalmata Maria Tripcovich, si affacciò alla vita (Newcastle, 2.6.1922) dotato d’ogni dono terreno: sensibilità, intelligenza, bellezza e la ricchezza di un impero armatoriale famigliare fra i maggiori del ramo, non solo in Europa. La sua stessa nascita in Inghilterra fu collegata all’attività di “ricuperi marittimi” del padre che poi ottenuta la “cittadinanza italiana” (1923), si stabilì definitivamente a Trieste (1925) con la moglie ed il figlio, portando la società armatrice Tripcovich nel Gotha internazionale. glio severo e professionale. Ciò deliziava sua madre, che l’appellava dolcemente “Falello” ed indispettiva il suo pragmatico e realistico padre per il quale era solo burberamente “Ràphael”, con l’erre arrotato alla tedesca. Goffredo sognava di preparar- un’automobile nuova appena acquistata. Mi venne incontro ed ammirò la mia nuova utilitaria sospirando: “beato te che te la puoi permettere!”. Nel parcheggio troneggiavano fuoriserie da sogno delle più famose marche: “mi prendi in giro?” gli chiesi. “Ah, scusami” mi rispose arrossendo. Poi compresi che quelle fuoriserie, delle quali pur poteva usufruire (autista in livrea compreso) non erano “sue” ma della Compagnia. Il padre non gli avrebbe perdonato il “capriccio” d’un utilitaria tutta sua, né la madre si sarebbe sognata di contrariare il marito consentendogli tale “capriccio” non giustificabile come “investimento”, mentre come “investimenti” le era riuscito di giustificare gli appartamenti acquistati per Falello a Londra, a Parigi e a New York. L’istinto giramondo “Villa Banfield” a Veruda, a circa 4 km dal porto militare di Pola (1910) Vola il Cigno figlio d’Aquila Ma, se madre e padre dimorarono da allora sempre a Trieste, Raffaello aveva l’istinto del “giramondo”. Negli Anni Cinquanta, in una delle sue rare e brevi “rimpatriate” triestine, data la consuetudine che avevo da sempre con lui e la sua famiglia, mi confidò: “Avrei voluto far parte di una compagnia di guitti girovaghi si un erede alla successione dell’impero Tripcovich. A Falello, invece, di quell’impero non importava niente ed inseguiva solo i suoi sogni musicali e teatrali. Fin troppo facile argomentare che le smisurate possibilità economiche della sua famiglia gli consentivano tali artistiche fantasie. Ma… fino ad Il maestro triestino Vito Levi fu il primo insegnante di composizione di Falello e rimase sempre il suo mèntore ed il suo saldo punto di riferimento. Ma Falello, sempre avido di nuove esperienze, era un cigno sempre in volo. Venezia e la scuola di Gian Francesco Malipiero gli portarono subito fortuna e, nell’immediato se- condo dopoguerra, alcune sue pagine per soprano ed orchestra qui eseguite sotto la sua direzione gli valsero l’invito da parte del Ministero dell’Educazione francese a frequentare il Conservatorio di Parigi, dove si stabilì nel 1946. Ma il Conservatorio parigino rappresentò per lui solo un breve scalo. Poulenc, Auric e Sanguet gli consigliarono come pedagoga la famosa docente Nadia Boulanger, alla cui scuola rimase per oltre due anni. Stravinsky gli consiglierà poi di lasciarla poiché la Boulanger tendeva ad influire troppo pesantemente sulla personalità dei suoi allievi che voleva forgiare a propria immagine, comprimendone l’originalità. Però fu proprio durante la docenza della Boulanger che Falello ebbe la sua prima grande occasione. Roland Petit, il celeberrimo coreografo e “patron” dei “Ballets de Paris” era alla ricerca della “novità” da presentare al “Princess Theatre” di Londra. Alla data già fissata per questa “prima” (24 febbraio 1949) mancavano solo due mesi. Petit propose a Falello di comporgli questo Balletto. E Falello accettò. Più tardi confiderà anche a me che il suo non fù “coraggio ma autentica incoscienza”. Il lavoro fu naturalmente febbrile e ricorrenti allora furono le sue “scappate” a Trieste per con- Falello de Banfield in una delle ultime fotografie sultarsi con Vito Levi. Ma anche Vito Levi volò a Londra, nelle settimane che precedettero questa “prima”. Era infatti occorso il tipico “inconveniente teatrale”: il coreografo (William Dollar) non aveva fatto a tempo a trovare un’idea che gli piacesse per il “passo a due” finale e voleva cancellarlo con la relativa musica. Ci fù, tra Goffredo de Banfield con la moglie Marta, contessa Tripcovich appena sposati (1920) Dollar e Falello un violento “braccio di ferro”. Inconciliabile. Falello, ad una delle ultime prove, ritirò la partitura per non consentire che il suo Sarajevo, Zagabria, Lubiana, Spagna, Tokio. Nel 1956 il disco di “Combat” è al terzo posto fra quelli più venduti negli USA e Karajan ne prepara una nuova incisione. Fra le sue interpreti Galina Ulanova e Maja Plissetskaja. Il ricordato “passo a due” diventa “pezzo d’obbligo” nelle Accademie di Danza Moderna. Direttori come Karajan, De Sabata, Bernstein, Toscanini sono unanimi nel giudicarlo un “capolavoro”. Il tenero episodio dello scontro mortale di Tancredi e Clorinda della “Gerusalemme liberata” … arriverà a Trieste solo nel 1970, in “coabitazione” con “Salome” di R. Strauss. Sull’onda di questi successi, Falello si trasferì a New York, dove rimase fino al 1957, mantenendo comunque il suo “quartier generale” a Parigi fino al 1972. La vena intimista Se in “Le Combat” la struttura musicale predominante appare quella ritmica e percussiva, tanto da evidenziare l’energia cinetica dei duellanti (pur alternata da oasi liricamente commosse) la sensibilità di Falello guarda al- ste. Qualche lirica nel 1972, la cantata “Pulchra” (Dal Cantico dei Cantici) nel 1974. Nel 1977 trionfa a Londra la Cantata per soprano e orchestra “For Ophelia” e nel 1979 Falello è chiamato da Menotti alla direzione artistica del Festival di Spoleto del quale diventerà anche vicepresidente. Al servizio della Città Qualcosa era cambiato nella vita di Falello. all’istinto dei “giramondo” era subentrato lo “spirito di servizio”. Nel 1972 Trieste lo aveva chiamato a reggere le sorti musicali del Teatro Verdi quale Direttore Artistico. Aveva, commosso, risposto all’appello, per non abbandonare, finché la salute glielo consentì, l’amato Teatro della sua adorata città che (1973) lo rimeritò insignendolo del “S. Giusto d’Oro”. Come responsabile artistico del Teatro Verdi (e successivamente come “consulente artistico”) profuse ogni sua facoltà in tali incarichi guadagnando a questo Teatro ampio prestigio internazionale, favorendo (anche a proprio scapito) la musica ed i Come responsabile artistico del Teatro Verdi (e successivamente come “consulente artistico”) profuse ogni sua facoltà in tali incarichi guadagnando a questo Teatro ampio prestigio internazionale, favorendo (anche a proprio scapito) la musica ed i musicisti della nostra area geografica lavoro fosse presentato così mutilato. A questo punto, piuttosto che annullare l’esecuzione, Dollar cedette, “arrangiò” un generico “passo a due” finale, non senza predire a Falello un risultato “disastroso”. Ma fu un pessimo profeta: “Le Combat” (Il Duello) questo il titolo del Balletto, conseguì un successo clamoroso (quindici chiamate all’autore). Da allora “Le Combat” ha avuto più di tremila repliche: due mesi di rappresentazioni a Parigi, tre mesi a New York, altri tre mesi nel resto degli USA. Addirittura due Compagnie americane (N.Y. Ballet e American National Ballet) eseguono contemporaneamente “Combat”, incluso nei repertori stabili di Colon, Opèra, Staatsoper, Belgrado, l’intimismo. Lui stesso si definiva un temperamento “eminentemente lirico, affascinato dalle voci femminili specie nei cambi di registro”. Ciò soprattutto quando alla base emozionale ritrovava i temi della solitudine, del bisogno d’amore, del rimpianto della trascorsa giovinezza. Qui la sua adesione musicale è assoluta e determinante. Siamo negli Anni Cinquanta. La lettura dell’atto unico di Tennesse Williams “Una lettera d’amore di Lord Byron”, pubblicato su una rivista italiana di letteratura, lo affascinò subito. Chiese a Williams di ricavarne per lui un libretto d’opera. Williams, che mai prima aveva accettato richieste del genere, accondiscese e vi introdusse anche numerose modifiche suggeritegli dallo stesso Falello. Vi domina il clima del rimpianto della giovinezza e del sogno d’amore (solo sognato) dalla vecchia protagonista, stretto nel nastro di seta che avvolge le vecchie lettere d’amore (vere o fasulle). Nel 1953 Falello ultimava la partitura. Nel 1955 il pubblico di New Orleans (17 gennaio) ne saluta il grande successo per undici serate. Entusiasmi che si ripetono al Lyric Theatre di Chicago nella stagione lirica d’autunno. L’opera arriva a Trieste nel 1956 ed è la prima, in ordine di tempo, di Falello che i triestini conoscono ed applaudono fervidamente. Dovranno attendere fino al 1963 per conoscerne un’altra. Frattanto Falello compone e mette in scena “Agostino” balletto su testo di Moravia (Genova 1956), “Quatuor” balletto (Montecarlo 1957), “Colloquio col tango“ un atto su libretto di Terron (Como 1959) che approderà a Trieste solo nel 1963, “Alissa”, un atto su testo di Miller che Trieste rappresenterà solo nel 1967 (la “prima” a Ginevra fù nel 1965). “Agostino” e “Quatour” non sono ancora mai stati rappresentati a Trieste. Dal citato “Combat” (1970), tolte alcune liriche di Falello presentate a Trieste nel 1968, ben scarse le esecuzioni di musiche di de Banfield a Trie- musicisti della nostra area geografica, compositori (contemporanei e non) compresi (da Smareglia a Bugamelli a Viozzi ed altri, fra i quali l’estensore di queste note) cui mai arrise a Trieste un periodo più propizio e stimolante di affermazioni e successi. per il balletto “Colloquio col Tango” Aveva, sul suo telaio ispirativo, altre opere di ampio respiro come una “Discesa d’Orfeo” su testo di Tennesse Williams, e una “Dulcinèe” (da Cervantes), ma le disattese per l’urgere di troppi impegni, limitandosi alla stesura di brevi composizioni cameristiche. Me ne parlò, qualche volta, come, anni prima mi aveva tenuto al corrente sulla stesura della sua ultima opera, “Alissa”, di natura metapsichica, ispirata ad uno strano fatto di cronaca riportato dai media. Narrava d’un giovane poeta che, sul punto di soccombere al peso della sua solitudine, riesce ad avvertire la presenza d’una giovane da anni scomparsa che si “materializza” davanti a lui. Tornato a cercarla troverà solo la sua tomba ed il suo sbiadito ritratto col suo nome: Alissa. Ma “Orphèe” e “Dulcinèè” non erano destinate ad essere portate in palcoscenico. Come nel destino di Falello c’era una predestinazione: quella della solitudine. Solitudine che s’acuì drammaticamente alla morte dell’amatissima madre Maria e successivamente alla scomparsa del padre, dopo la quale si trovò a doversi occupare in prima persona anche del colosso armatoriale Tripcovich, impegno pratico per il quale non era assolutamente tagliato né interessato. Frattanto incombeva la chiusura per restauri del Teatro Verdi che, in carenza di una sede alternativa per gli spettacoli, avrebbe privato per cinque anni dell’attività liricosinfonica la città, con serie ipoteche sulla possibilità di riprenderla, a restauro avvenuto. E qui Falello operò un autentico “mira- colo”. Riuscì a trasformare la dismessa e fatiscente ex Stazione Autocorriere di piazza Libertà in una splendida sala teatrale che poi si chiamò “Sala Tripcovich” dotata di ottima acustica e perfetta visibilità per tutto il pubblico. L’inaugurò, costretto su una sedia a rotelle, dopo un tremendo incidente automobilistico, occorsogli nei pressi di Parigi, che poteva costargli la vita e, per mero “caso”, evitando anche l’amputazione d’una gamba, già diagnosticata come “inevitabile”. Non smise d’occuparsene nemmeno durante la lunga degenza ed il dolorosissimo e lungo periodo di “riabilitazione”. Naturalmente i fondi che permisero il “miracolo” dell’erezione di questa Sala venivano dalla sua Compagnia Tripcovich. Il sinistro automobilistico parigino scoperchiò il Vaso di Pandora di Falello e cominciarono a succedersi disgrazie a grappolo: il fallimento della Compagnia Tripcovich e la perdita d’ogni avere, Villa Tripcovich compresa; la posizione di Direttore Artistico al Verdi che si trasformò in “consulenza”; anni di processi e di martellamento sui media locali ed internazionali su questo clamoroso fallimento. Tanto che la figura di Falello, prima celebrato come geniale compositore, divenne nota solo come quella del ““grande uomo di finanza falli- to”. Ciò al punto che, alla sua recente morte, giornali e media impazzirono per imbastire il “coccodrillo” celebrativo di rito e, disponendo solo dell’infinita “letteratura” relativa al fallimento, tempestarono pochi “noti” addetti ai lavori per aver qualche frettolosa informazione sul musicista. Il crepuscolo di Falello fù all’insegna dell’amarezza: tormentato dai progetti comunali di radere al suolo il suo “gioiello” (la Sala Tripcovich), gratificato come “onorario” alla consulenza artistica del Teatro Verdi e da ultimo “giubilato” del tutto. E’ morto in un appartamento d’affitto, con ancora negli imballaggi quella piccola parte della storia sua e della sua famiglia che aveva potuto salvare dallo sfratto. Da ultimo, un ictus gli bloccò la favella, quella sua bella voce calda e morbida della quale era tanto orgoglioso. Ma gli lasciò la lucidità crudele della coscienza ed il dono inestimabile della Fede. Nella Calza della Befana trovò l’agognata pace, premio della serenità che seppe conservare anche nei momenti più duri. Addio Falello e grazie per come ti sei donato anche a quelli che non ti vollero bene. Spetta ora alla tua Città ricordarti degnamente e non solo occasionalmente, per il musicista che sei stato, magari portando al Teatro Verdi quelle tue opere mai ancora qui approdate. 6 musica Mercoledì, 30 gennaio 2008 VITA NOSTRA Il prezioso operato del complesso musicale «Calegaria» Toccare l’anima del pubblico e far riaffiorare la memoria di Helena Labus CAPODISTRIA - Il mantenimento della tradizione, la salvaguardia del proprio patrimonio culturale è un tema particolarmente sentito in un mondo che sta diventando sempre più uniformato in seguito alla globalizzazione. La conservazione dell’identità è oggigiorno uno degli obiettivi più importanti in qualsiasi settore dell’attività culturale e con ciò anche nella musica. La musica quale linguaggio universale, comprensibile in ogni angolo del mondo, è pertanto un veicolo di comunicazione ineguagliabile, capace di unire Oblak (voce e fisarmonica), Sergio Settomini (voce e basso) e Ivo Marc (voce e batteria), hanno sfornato in marzo dello scorso anno il loro primo cd, intitolato appunto “Primo”, e sono attualmente impegnati nella preparazione del secondo. In un colloquio con Leonardo Klemenc abbiamo voluto conoscere più da vicino questo particolare complesso musicale. Come e quando è nato “Calegaria”? Ci siamo riuniti quattro-cinque anni fa come un gruppo di amici che volevano stare un po’ insieme e divertirsi suonando, per poi passare a un discorso serio. Ini- Il complesso “in azione” culture diverse, nonostante le loro particolarità. Il complesso musicale “Calegaria” di Capodistria, è una realtà importante in seno alla Comunità Nazionale Italiana in quanto si prefigge di tenere viva la tradizione istriana e le canzoni popolari in dialetto istro-veneto. Nei numerosi concerti che ha tenuto finora, il complesso ha saputo sempre toccare l’anima del proprio pubblico, facendo riaffiorare con le proprie note i tempi che furono e che sembrano dimenticati. I “Calegaria” che portano il nome della via principale di Capodistria - di cui fanno parte Leonardo Klemenc (direzione artistica, arrangiamenti, mandolino, tastiere, percussioni e voce), Stojan Stankovič (voce e chitarra), Danilo Fermo (chitarra), Jadranko zialmente si era formato un gruppo mandolinistico, poi ho pensato di ‘allargare’ ancora il discorso in quanto avevo in mente di dedicarmi a una musica più vicina ai nostri gusti. Perché proprio la musica tradizionale istro-veneta? Lavorando alla radio mi trovo per forza a contatto con l’ambiente musicale. In precedenza avevo fatto delle produzioni con altri musicisti: Dario Marušić, Emil Zonta, Marino Kranjac e altri nomi storici che curarono la musica popolare. Poi, a un certo punto, ho pensato di poter fare anch’io questo percorso, in quanto sentivo di avere un modo nuovo per presentare la musica tradizionale. Ciò vuol dire fare musica, per così dire, vecchia, ma suonandola in maniera più mo- derna. A giudicare dalle reazioni del pubblico ai nostri concerti, posso dire che le persone apprezzano quello che facciamo, in quanto cerchiamo di rispettare quanto più la forma originale di ciascun brano. Quale territorio, per così dire, ricopre il vostro repertorio musicale? Ricopre più o meno il territorio che va da Capodistria fino a Cittanova, ossia l’area nordovest dell’Istria. Vorrei, però, ribadire che si tratta di una divisione approssimativa, in quanto molti tra i brani del nostro repertorio vengono cantati in tutta l’Istria. Noi abbiamo, però, scelto di eseguire le canzoni come le cantavano nei succitati territori. Possiamo dunque constatare che il suo lavoro consiste pure nello “scavare” nel repertorio popolare alla ricerca di brani? Assolutamente. In questo contesto si possono seguire due strade: quella di usare il materiale che esiste già nelle raccolte di spartiti, come è quella dello scomparso Giuseppe Radole - un personaggio molto importante per aver profuso grande impegno nella raccolta e pubblicazione di molte di queste canzoni -, per poi andare anche ‘sul terreno’ onde verificare se queste canzoni che ho trovato scritte corrispondono a quello che viene cantato tra la gente. Posso dire che mi succede spesso di individuare delle differenze, ma ciò non è niente di strano, visto che la musica popolare varia in continuazione. Nell’arrangiamento dei brani, invece, cerco di mantenere la freschezza originale della melodia senza troppe aggiunte, in quanto ritengo che la melodia sia la base di ogni brano, ovvero ciò che ci hanno tramandato i nostri avi. Il canto è la parte più importante. Negli ultimi due decenni si nota un interesse particolare per la musica popolare, la “world music” e l’”ethno” si sono guadagnati pure una notevole fetta di pubblico mondiale. Come si inserisce “Calegaria” in questo contesto? La copertina del primo album, intitolato “Primo” Si inserisce assolutamente perché, in realtà, oltre al gusto di suonare questo tipo di musica, uno dei nostri obiettivi è proprio quello di allargare la coscienza della gente nei confronti di questa musica. È interessante che la mia generazione – e sono nato nel 1953 – è praticamente l’ultima che conserva ancora dei ricordi. I giovani, almeno dalle nostre parti, non la conoscono. È perciò importante trovare una formula per arrivare non solo agli amanti del genere, ma anche a un pubblico più vasto che potrà apprezzare e ricordare più avanti negli anni questo prezioso patrimonio. I giovani, dunque, non hanno troppa familiarità con questo repertorio? Dalle nostre parti certamente no, in quanto credo che Capodistria abbia risentito in modo più drammatico delle altre città delle vicissitudini del secolo scorso. Molta gente è andata via, mentre quelli che sono rimasti non hanno mantenuto questa memoria. L’interesse tra i giovani forse ci sarebbe, ma bisogna offrirglielo, non è una cosa che nasce spontaneamente dal nulla. I giovani devono poter sentire e farsi un’idea di tutto quanto per poter eventualmente divenire interessati coltivatori di canzoni che magari erano cantate dai loro nonni. Realizzando il primo cd – e mi auguro che sia il primo della serie – abbiamo voluto presentare al pubblico le canzoni conosciute, ma anche quelle che nel corso dei decenni sono state dimenticate. Credo che proprio quest’ultime abbiano il valore più grande. Il secondo cd è in preparazione? Lo stiamo realizzando con cura, in quanto il secondo disco è sempre più impegnativo del primo in termini di mantenimento di un certo standard di qualità. Siamo molto attenti nella ricerca della giusta impostazione, delle canzoni adeguate. Speriamo, quindi, di uscire con il secondo cd entro la fine dell’anno. A tutta birra! musica 7 Mercoledì, 30 gennaio 2008 L’EVENTO Al Comunale di Vicenza la Camerata Musicale Vicentina Il Tango, dalle origini alle sue evoluzioni più recenti VICENZA - Il 4 febbraio 2008 al nuovo Teatro Comunale di Vicenza (è stato inaugurato un mese fa, dopo 60 anni di assenza di una struttura stabile in città) la Camerata Musicale Vicentina diretta dal maestro di origini istrodalmate Alessandro Boris Amisich (ore 21.15) terrà un concerto dedicato all’evoluzione del tango argentino, dalle origini a Piazzolla e al Tango Nuevo. Il concerto è organizzato in collaborazione col Comune di Vicenza. Accanto all’organico della Camerata Musicale Vicentina, un ruolo importante sarà rivestito dal pianista Carlo Dalla Battista, che gli amici di Pola ricorderanno essersi esibito in duo con lo stesso Amisich alla Comunità Italiana in occasione del concerto in omaggio alla memoria di Sergio Endrigo: Dalla Battista suonerà nelle quattro “Stagioni Portegne” di Astor Piazzolla e accompagnerà la voce del baritono Andrea Zaupa. Il tutto sarà reso ancora più affascinante da una coppia di ballerini argentini Jessica Lull ed Emiliano Fernandez. Il programma comprende brani di Enrique Francini (1916 1978) La vi llegar, Carlos Gardel (1890? – 1935) El dia que me quieras, Mariano Mores (1918 - ) Cristal, A. Piazzolla (1921 1992) Escualo, Mariano Mores (1918 - ) La calesita, A. Piazzolla (1921 - 1992) Verano Porteño, Alessandro Boris Amisich Joseph Lacalle(1860 - 1937) Amapola, A. Piazzolla (1921 1992) Libertango, Mariano Mores (1918 - ) Cafetin de Buenos Aires, Carlos Gardel (1890? – 1935) Volver, A. Piazzolla (1921 - 1992) Otoño Porteño e Invierno Porteño, Charlo (Carlos J. Perez) (1905 – 1990) Fueye…! Sebastiam Yradier (1809 - 1865) La paloma, A. Piazzolla Oblivion e Primavera Porteña. Ricorderemo che Alessandro Boris Amisich è allievo di Romolo Gessi (Master in direzione d’orchestra conseguito presso l’Accademia Europea di Vicenza), di Giulio Cattin per la musicologia (laurea in lettere con una tesi in storia della musica, Università di Padova, 1983); di Giuseppe Ceccato e Paolo Muggia per la chitarra (diploma in chitarra, Conservatorio di Padova, 1979). LA CRITICA In margine al «Tristano e Isotta» Accademia del brutto e clima da«Lumpenproletariat» MILANO – Al primo posto assoluto tra le 13 Fondazioni Liriche italiane (e con un vertiginoso distacco) in quanto a dipendenti (800), contributo statale (31 milioni di Euro), contributi comunali, provinciali e regionali (18.5 milioni di Euro) ed un bilancio complessivo di 115 milioni di Euro, il Teatro alla Scala di Milano ha Festeggiato S. Ambrogio con l’inaugurale “Tristano e Isotta” di Wagner. Si è trattato di un grande evento internaziona- le, quanto “esclusivo” per i prezzi dei biglietti, che ha visto in sala la crema delle massime autorità non solo nazionali ed i fortunati “paperoni” che potevano permetterselo. Ma, si sa, la Scala è la Scala e così và il mondo. I melomani “qualunque” del resto d’Italia (e non solo), hanno, questa volta, potuto assistere all’evento attraverso la televisione su “Classica Sky” (40 milioni di abbonati) o seguirlo su RAI 3. Pare che i tifosi dell’Opera siano in aumento. Ciò anche se le Istituzioni che dovrebbero occuparsi del problema non ne hanno alcun merito, dato che poco o nulla se ne occupano. Né registi come Patrice Chéreaum scenografi come Richard Peduz- zi e costumisti come Moidele Bickel, ancorati da quarant’anni ad un’estetica “ideologica” ripetitiva e sorpassata, comprendono ancora che un “ritorno alle origini” rappresenterebbe una gradita “novità” per gli spettatori ed incrementerebbe la frequentazione ai teatri dei “normali” cittadini della Repubblica. Invece, in quanto alla parte scenica e visuale, insistono nella trita “Accademia del Brutto”: ambientazioni nella contemporaneità, fogge brechtiane, clima “operaio” da Lumpenproletariat, cadente archeologia industriale entro la quale la nave diviene un pontone da portaerei sul quale una specie di “Corte dei Miracoli” s’accanisce in azioni di basso facchinaggio. Isotta pare un’ortolana discesa dal contado, Brangania la sua aiutante. Tristano è drappeggiato come un barbone metropolitano, Kurwenal è soffocato da un cappottaccio di quarta mano, Re Marke pare un mandriano, il resto di personaggi e figuranti non se la passano meglio. La magìa del “filtro” sembra aver sfogo solo nell’arrappamento erotico dei due amanti rotolantisi al suolo per la gioia. Grandguignolesco il finale con abbondanza di sangue sia per Tristano che per Isotta. Per fortuna il maestro Daniel Baremboin dirige portentosamente l’autentico Wagner, assecondato con smalto e partecipazione dalla prestigiosa orchestra scaligera. Waltraud Meier è un’Isotta d’antologia. Ian Storey (Tristano) è pletorico ma corretto. Matti Salminen (Marke) nobilita con gli accenti l’abito che è costretto ad indossare. Michelle Deyug, per il timbro troppo simile alla sua signora, può aver confuso i radioascoltatori, ma si è dimostrata una valente Brangania. Poco appropriata la versione italiana di Franco Serpa esibita nei “sopratitoli”. Successo a forti tinte, non senza qualche dissenso per la messinscena. (fa.vi) Per alcuni anni è stato direttore e direttore artistico dell’Orchestra Padova Classica. Ha seguito seminari e corsi di perfezionamento in Italia ed all’estero (con Julius Kalmar e Donato Renzetti per la direzione d’orchestra, con Angelo Gilardino per la chitarra, con Giovanni Acciai per la direzione di coro e per la prassi e la notazione antica; con Andrea von Ramm per la musica medioevale; con Nino Albarosa e Alberto Turco per il canto gregoriano). Si è esibito come direttore e come esecutore in numerose città italiane, nonché in Croazia, Slovenia, Ungheria, Grecia, Austria, Ger- mania, Spagna, Irlanda, Cechia, Belgio, Svizzera, Tunisia. Ha pubblicato revisioni musicali di opere ottocentesche per Berben e Zanibon. Suoi studi ed articoli sono pubblicati da CD Classica, Orfeo, Il Fronimo, La Cartellina, Guitart, La Voce in più Musica (supplemento musicale de La Voce del Popolo di Fiume). Ha pubblicato un volume sul musicista ottocentesco Giulio Regondi per Ottocento Edizioni di Ancona. Nel 2000 è stato invitato dalla Società Croata di Musicologia per un convegno internazionale a Zagabria sul chitarrista croato Ivan Padovec. I trionfi di Martina Filjak artista purosangue VERCELLI - Al Concorso pianistico internazionale “Viotti” di Vercelli, gloriosa manifestazione giunta quest´anno alla 58.ma edizione, al termine di 3 prove solistiche e della finale con l´Orchestra Filarmonica di Torino, ha trionfato Martina Filjak, 29 anni, vero purosangue della scena pianistica internazionale, vincitrice solo quest´anno del 5° premio al “Busoni”, dell´Ibla Grand Prize di Ragusa e del 3° premio al “Grieg” di Oslo. La Filjak ha portato a casa 12.500 euro e numerosi concerti. Secondo posto (4.000 euro) al russo Sergey Artsibashev, a cui è andato anche il premio del pubblico di 1.000 euro. Medaglia di bronzo (3.000 euro) all´irlandese Cathal Breslin. I 120 candidati sono stati valutati dalla giuria formata da Pietro Borgonovo, Roberto Cappello, Marcella Crudeli, Sergej Dorensky, Bryce Morrison, Mariana Gurkova e Jozef Stompel. Ricorderemo che Martina Filjak, fiumana per parte di madre, nella primavera scorsa ha regalato uno splendido concerto alla CI di Fiume. 8 musica Mercoledì, 30 gennaio 2008 LE DIVINE DELL’OTTOCENTO Isabella Colbran Voce di velluto e interprete appassionata I sabella Colbran (Madrid, 2 novembre 1785 - Castenaso, Bologna, 7 ottobre 1845) fu celeberrimo soprano e compositrice spagnola. Figlia del violinista Giovanni Colbran, dopo aver iniziato lo studio del canto in Spagna, si trasferì a Napoli. L’esordio in pubblico avvenne a Parigi nel 1801, mentre la prima esibizione in Italia fu nel 1807 a Bologna. QUIZ Il primo successo della cantante lirica è dovuto alla sua interpretazione al Teatro alla Scala nel Coriolano di Gian Battista Niccolini. Dopo varie tournèe a Bologna, Venezia e Roma, la Colbran divenne la prima donna del Teatro San Carlo di Napoli dal 1811 al 1822. Nella città partenopea conobbe Gioacchino Rossini nel 1815, con il quale lavorò in molte opere, tra le quali Otello (1816), CHISSÀ CHI LO SA? 1. All’epoca del movimento Hippie, iniziato nella seconda metà degli Anni ’60 del secolo scorso, numerosi gruppi di persone appartenenti al movimento negli Stati Uniti usavano riunirsi “sotto lo stesso tetto” in comunità per vivere a contatto con la natura. Una comunità del genere era composta pure da due grandi gruppi rock dell’epoca. Questi erano… a) i Jefferson Airplane e i Grateful Dead b) i Chicago e i Boston c) i Mamas & Papas e i Electric Light Orchestra 2. I trovatori furono poeti attivi nei secoli XII e XIII nelle corti aristocratiche che componevano canti monodici, ovvero a una sola voce, e rispecchiavano un gusto raffinato esprimendo il piacere per la vita e la natura. I primi trovatori furono attivi in... a) Toscana b) Catalogna c) Provenza 3. Si basa sulla canzone del compositore spagnolo-americano Iradier l’aria più famosa dell’opera “Carmen” di Bizet, intitolata... a) Haradeña b) Habadera c) Habañera 4. La canzone “Ti si sav moj bol”, nata all’epoca del “Novi val” nell’ex Jugoslavia, a cavallo tra gli Anni ’70 e ’80, fu uno dei più grandi successi della band serba... a) Električni orgazam b) Ekatarina Velika c) Šarlo Akrobata 7. Chopin dedicò la seconda delle sue quattro ballate per pianoforte a un grande compositore e pianista tedesco, dopo che questi gli aveva dedicato una bella recensione in un giornale musicale. Parliamo di... a) Franz Schubert b) Robert Schumann c) Carl Maria von Weber Rossini e la Colbran si sposarono il 15 marzo 1822 a Castenaso, dove la donna possedeva una villa. Dopo l’insuccesso dell’ultima opera rossiniana rappresentata al Teatro La Fenice a Venezia, decise di abbandonare le scene e si trasferì a Parigi con il marito, dal quale si separò nel 1837 a Bologna. Isabella Colbran fu una grande artista, ammirata da Stendhal, ed interprete capace di infondere passione ed intensità drammatica nel suo canto, nonchè autrice di quattro raccolte di canzoni. Le spoglie mortali di Isabella Colbran riposano nella Certosa di Bologna. dal vecchio album Qual vezzoso minuetto...! Frédéric Chopin 8. Si intitola “Candide” la composizione considerata quale migliore ouverture del XX secolo, composta da... a) Leonard Bernstein b) Aaron Copland c) John Cage 9. Il recentemente scomparso attore polese Galliano Pahor, oltre che per il suo grande talento drammatico, era noto pure per le sue notevoli doti vocali, che ebbe occasione di dimostrare, tra l’altro, come vocalist della band fiumana... a) Mrtvi kanal b) Xenia c) Public 5. Chi è l’autore del noto poema sinfonico “L’apprendista stregone”, il quale ha ispirato pure un cartone animato di di Walt Disney? a) Claude Debussy b) Paul Dukas c) Erik Satie 6. Per quale pianista e compositore, che conosceva a memoria tutti i 48 preludi e fughe tratte dalla raccolta “Il clavicembalo ben temperato”, l’opera completa di J.S.Bach rappresentava la vera essenza della musica? a) Frédéric Chopin b) Franz Liszt c) Johannes Brahms Armida (1817), Mosè in Egitto (1818), Ermione (1819), La donna del lago (1819), Maometto secondo (1820), Zelmira (1822). Dapprima contralto, poi soprano ebbe timbro caldo e limpido, grande virtuosismo, fraseggio nobile, fascino scenico. Galliano Pahor 10. La rinomata cantante africana Cesaria Evora, oltre che per la sua musica e l’inconfondibile voce, è nota pure per il fatto di cantare... a) nel buio totale b) senza microfono c) scalza Un-due-tre! Si piega il piedino/si fa un inchino/ la giravolta/un’altra volta/con vezzo, con grazia/con gran dignità/il minuetto eccolo qua!/ Dottor Balanzone, che sciccheria! Qual giustacuore! Quale jabot! Madamigella, leggiadra e snella, dietro il ventaglio qual bel visin! Boccoli d’or, rasi e merletti pei minuetti di Carneval! Ecco qua signori, i Carnevali dei nostri nonni e bisnonni. Ignoriamo le identità delle due belle mascherine. Certo è che sono del Capodistriano, probabilmente di Crevatini. Chi saranno mai? (Un-due-tre! Un-due-tre....) battutacce...battutacce...battutacce...battutacce Che cosa hanno in comune il fulmine e le dita di un violista? Entrambi non colpiscono mai due volte nel medesimo posto. Come impedire il furto di un violino? Basta metterlo nella custodia di una viola. Che differenza c’è tra viola e violino? 1. La viola brucia più a lungo. 2. La viola contiene più birra. 3. Il violino può essere accordato. Come si fa ad ottenere che un violista suoni un pianissimo tremolo? Basta scrivere “solo” sullo spartito. Che differenza c’è tra una viola e una bara? La bara ha il morto all’interno. Che cosa si fa con un violista morto? Lo si sposta nell’ultimo leggìo. Che differenza c’è tra una viola e un trampolino? Per saltare su un trampolino ci si tolgono le scarpe. Che differenza c’è tra una viola e una cipolla? Nessuno piange se si taglia una viola. Qual’è la definizione di seconda minore? Due violisti che suonano all’unisono. Come mai i violisti sostano sempre a lungo sui portoni delle case? Non trovano la chiave, e non sanno quando entrare. Qual’è la differenza tra una lavatrice e una viola? Il vibrato. Come mai tanta gente ci mette un attimo ad odiare la viola? Per risparmiare tempo. Come si fa a dire se un violista sta stonando? Basta vedere se l’arco si muove. Chi inventò il canone? Due violisti che tentavano di suonare all’unisono. Perché un assolo di viola è simile a una bomba? Quando lo senti è ormai troppo tardi. Sei perduto nel deserto, quando vedi un bravo violista, un cattivo violista e un’oasi. Dove ti dirigi? Verso il cattivo violista; gli altri sono miraggi. Anno IV / n. 1 30 gennaio 2008 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: MUSICA Redattore esecutivo: Patrizia Venucci Merdžo / Impaginazione: Andrea Malnig Collaboratori: Helena Labus, Fabio Vidali Il presente supplemento viene realizzato nell’ambito del Progetto EDIT Più in esecuzione della Convenzione MAE-UPT n. 1868 del 22 dicembre 1992 Premessa 8, supportato finanziariamente dall’UI-UPT e dal Ministero Affari Esteri della Repubblica italiana. Soluzioni: 1. a), 2. c), 3. c), 4. b), 5. b), 6. a), 7. b), 8. a), 9. c), 10. c).