ATTUALITÀ LACANIANA
rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi
#12/2010 Il corpo fuori posto
at tualità l ac aniana
rivista dell a Scuol a L ac aniana di Psicoanalisi
#12/2010 Il corpo fuori posto
La vasta configurazione del disagio connesso alla nostra
organizzazione sociale propone spesso alla psicoanalisi scenari
spaesanti nei quali trova con difficoltà le condizioni
essenziali della sua azione. Essa constata l’emergenza di un
corpo fuori posto, irreperibile dove i linguaggi convenzionali
suggeriscono di cercarlo, propenso invece ad apparire dove
non lo accoglie, né una parola che lo legittimi, né uno spazio
in cui esso non appaia abusivo. Autolesionismo, anoressia,
bulimia, debilità, segregazione, alludono ad un corpo perduto
o posseduto solo attraverso immaginazioni che di fatto lo
disarticolano come nel caso estremo della schizofrenia.
Apriamo il numero con una sezione che assume “ il corpo
fuori posto” come tema centrale secondo varie prospettive,
ma il lettore avvertirà che tale traccia accomuna anche
molti altri contributi presenti nella rivista.
sommario
n. 12 /2010
L’agalma della Scuola, di Paola Francesconi
7
parte i – il corpo fuori posto
La disarticolazione del corpo nella schizofrenia, di Maurizio Mazzotti
11
Debilità, o il potere dell’ immaginario, di Nicola Purgato
21
Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza del soggetto, di Giovanna Di Giovanni
53
Volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento. Anoressia e silenzio de lalingua, di Giuliana Grando
61
Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi, di Edy Marruchi
71
parte ii – dalla parte dell’inconscio, torino 2010
Dalla divisione alla scissione, di Fabio Galimberti
113
L’amore… l’analizzante… un lavoro d’amore, di Alide Tassinari
121
Lessico famigliare e inconscio, di Vicente Palomera
127
Il “Che vuoi?” nella mia analisi, di Raffaele Calabria
135
parte iii – approssimazioni al reale
Il tempo nella cura, di Carlo Viganò
143
Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? di Carmelo Licitra Rosa
155
parte iv – testimonianze di passe
L’uomo retto, di Sergio Caretto
173
parte v – new lacanian school, ginevra 2010
Il timone e il femminile, di Gil Caroz
Figlia, madre e donna nel XXI secolo, di Pierre-Gilles Gueguen
189
195
parte vi – emergenze lacaniane
Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere, di Stefania Ferrando
Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica, di Nicolò Fazioni
Complessità e Psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura, di Giuseppa Rociola
203
217
237
parte vii – letture
Maurizio Mazzotti, Prospettive di psicoanalisi lacaniana, Borla, Roma 2009, di Carmelo Licitra Rosa
273
Chiara Cretella e Alessandro Russo (a cura di), Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo sociale,
CLUEB, Bologna 2009, di Alide Tassinari
277
Matteo Bonazzi, Scrivere la contingenza. Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques Lacan,
Edizioni ETS, Pisa 2009, di Adone Brandalise
283
attualità lacaniana
rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi
Via Daverio, 7 – 20122 Milano
direttore
Paola Francesconi
Via Agnesi, 3 – 40138 Bologna
comitato scientifico
Maria Bolgiani, Emilia Cece, Domenico Cosenza, Carmelo Licitra Rosa, Céline Menghi, Alberto Turolla
redazione
Erminia Macola (coordinatrice), Matteo Bonazzi, Fedra Bucelli, Silvia Morrone, Caterina Paderni, Elda Perelli, Alide Tassinari
progetto grafico
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impaginazione
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I testi devono essere inviati a Paola Francesconi [email protected]
L’immagine di Hans Bellmer che appare in copertina può essere protetta da copyright, vi siamo grati se ci avvertite.
7
l’ agalma della scuola
di Paola Francesconi
La Scuola, per noi lacaniani, non è un elenco di praticanti, che, in sé e
per sé, non contiene, come ogni elenco, nulla di agalmatico. L’agalma è
l’effetto di un’operazione che accoglie una domanda, ma mette al lavoro
il desiderio che vi corre sotto, fino a produrre quella sorta di metafora
dell’amore che è il transfert di lavoro. Il transfert immaginario, che può
partire dalla domanda di un’appartenenza, diventa transfert di lavoro
che cerca nella Scuola, proprio in virtù della sua esistenza, una trasformazione del particolare di ciascuno in universale. Jacques-Alain Miller
ci ha insegnato a riconoscere nella passe la modalità della Scuola di mettere a disposizione degli altri il nucleo più profondo e intimo dell’elaborazione di una psicoanalisi personale, contribuendo così, come egli dice,
al bene comune. Questo è un versante, ed è un modo di intendere il
transfert di lavoro in atto.
L’agalma, il bene comune, di cui la Scuola è il contenente, e su cui essa
veglia affinché non subisca il declino “naturale” a palea, è la psicoanalisi
stessa. Questo non vuol dire che la Scuola sia l’unico modo di intendere
la psicoanalisi, essa non ne è il sinonimo, ma il luogo di “cura”, questo
sì. La Scuola è il mezzo per farla crescere, per spingere altri, anche al di
fuori del proprio insieme, a interessarsene, a lavorare per la sua esistenza. La Scuola è lo strumento di obiezione a che la psicoanalisi diventi
palea, a che il bene comune diventi godimento solitario e in cortocircuito rispetto al legame di parola.
L’altro versante in cui intendere il transfert di lavoro in atto è la promozione dello scritto, su cui Lacan ha messo sempre l’accento, già a livello
del suo Atto di Fondazione dell’Ecole Freudienne. Lo scritto è un modo
di mettere in forma un sapere e, successivamente, di metterlo a dispoattualità lacaniana n. 12/2010
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sizione della comunità, è un altro modo di trasformare il particolare di
ciascuno in universale. Lacan ha promosso gli scritti, al punto da intitolare così la sua pubblicazione per eccellenza, mettendo, in tal modo,
l’accento sullo scritto in quanto parte di un insieme, e non insieme esso
stesso, come può esserlo un manuale o un testo monografico. Scilicet,
la rivista che egli fondò, inaugurò una forma di scrittura plurale, dove
non contava l’autore, ma la cosa particolare che ciascuno metteva lì
a disposizione della ricerca, ed era quello il vero nome della sua produzione. Se tale suggerimento, indubbiamente radicale, non ha avuto
poi un seguito, è forse perché può essere sembrato eccessivo castigare
così il principio di autore, in un’epoca in cui la nominazione ha una
sua rilevanza. Tuttavia, noi possiamo conservarne la logica, quella di
promuovere studi e lavori fino a che possano arrivare allo scritto, come
modalità per dare impulso alla psicoanalisi.
Attualità Lacaniana cerca, da questo numero, di ritrovare il filo di questa logica, ora che si fa sempre più necessario operare al servizio di una
agalmatizzazione della psicoanalisi, per resistere alla sua degradazione
contemporanea. Nello scritto, ciascuno mette il proprio particolare al
vaglio del lettore nell’intento che ciò possa contribuire ad apportare il
proprio grano all’universale. Abbiamo chiesto contributi non solo ad
appartenenti alla Scuola, ma anche ad esterni ad essa, attendendo anche
da coloro che vi scrivono, pur non essendo della Scuola, il controllo su
ciò che si produce in essa. È qui che l’universale della Scuola non è un
tutto, in quanto accoglie e si rivolge, nella propria produzione, anche
a non analisti, anche a chi, a diverso titolo, è mosso da interesse per
la psicoanalisi come moderno agalma, come sapere non esclusivo, non
chiuso in sé, non autoreferenziato, ma in giacenza per essere trasformato in bene comune.
parte prima
il corp o fuori posto
11
la disarticolazione del corpo
nella schizofrenia
di Maurizio Mazzotti * 1
Che ne è del corpo in un soggetto schizofrenico? La teorizzazione di Lacan, in particolare la sua elaborazione dell’oggetto a, permette di collocare al giusto posto le
parole del soggetto schizofrenico fino a coglierne “ l’ ironia suprema che sottolinea
l’ impostura del discorso”. Wolfson e Schreber testimoniano qui dei diversi effetti
del mancato inserimento del corpo nel discorso e delle strategie messe in atto per
arginare il devastante godimento dell’Altro.
Parole chiave: schizofrenia, oggetto a, impostura del discorso
la schizofrenia: il corpo disinserito dal discorso
La questione clinica del corpo rappresenta il tema peculiare della schizofrenia, già dal tempo in cui Kraepelin, che non parlava di schizofrenia ma di dementia praecox, riteneva che la sindrome da influenzamento
corporeo fosse uno dei tratti differenziali di questa entità morbosa, da
escludere nella paranoia in cui il soggetto non si sente riguardato nel
suo corpo o negli organi del suo corpo.
Lacan ha anch’egli sottolineato questo tratto schizofrenico quando
ne situa una preclusione specifica. Il soggetto schizofrenico, egli dice,
non riesce a servirsi dell’ausilio offerto dalla struttura del discorso. È
* Maurizio Mazzotti è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Bologna;
è Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica,
la terapia e la scienza.
attualità lacaniana n. 12/2010
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una preclusione che, possiamo dire, disinserisce il corpo schizofrenico
dal discorso. Quest’ultimo si centra attorno alla “produzione” dell’oggetto a ad opera del significante, cioè attorno all’estrazione dal corpo
dell’oggetto più di godere, alla sua messa “fuori corpo” e contemporaneamente al suo coordinamento al sembiante fallico. Come ha precisato
Jacques-Alain Miller il “fuori corpo” 1 va inteso nel senso di “fuori da”
ma ciononostante legato al corpo. È la posizione dell’oggetto in una
zona di exsistenza che Lacan individuava parlando della libido-organo,
in cui l’oggetto non è completamente esterno al corpo, non è alla deriva
senza più alcun legame con il corpo.
Il discorso estrae l’oggetto dal corpo e lo situa in questa zona di exsistenza. In tal modo il discorso ritaglia sul corpo le zone erogene che
strutturano il godimento pulsionale attorno all’oggetto separato, contemporaneamente all’operazione in cui la simbolizzazione separa il sembiante fallico dall’organo del corpo, facendolo diventare l’organo “fuori
corpo” per definizione, cioè investito della significazione generale di
castrazione che permea ogni rapporto con l’oggetto corporeo.
Nella dottrina lacaniana la schizofrenia non trova un ausilio in questa
complessa regolazione del rapporto tra l’oggetto e il corpo ad opera del
discorso, regolazione tipicizzata attorno alla significazione di castrazione del sembiante fallico.
Nella schizofrenia, al suo posto, troviamo invece il formicolare enigmatico di una “generalizzazione” 2 dell’essere fuori corpo degli organi,
come se, in mancanza della separazione iniziale prodotta dal discorso,
gli organi del corpo tendessero ad assumere tutti questa dimensione di
organo staccato dal corpo e senza collegamento alcuno alla significazione fallica. La mancata operatività simbolica del discorso produce la
moltiplicazione indiscriminata degli organi. Nella schizofrenia, anche
fenomenologicamente, ci troviamo confrontati alla generalizzazione
1. J.-A. Miller, “L’invenzione psicotica”, in La Psicoanalisi, n. 36, Astrolabio, Roma 2004, p. 17.
2. Ibidem, p. 15.
Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 13
della dimensione “fuori corpo” in cui vengono coinvolti indiscriminatamente tutti gli organi, come se essi fossero calamitati in questa zona
di exstimità e la conseguenza è che questa generalizzazione fuori corpo
degli organi induce un impoverimento libidico e del sentimento vitale
dell’immagine corporea, come dimostra l’incidenza dell’immagine del
corpo cadavere, pura forma mortificata che Lacan ha chiamato regressione topica allo stadio dello specchio 3.
la macchinizzazione schizofrenica: una supplenza
al disinserimento del corpo dal discorso
In tal senso più che un “corpo senza organi”, secondo la molto citata
espressione di Deleuze e Guattari 4, quello dello schizofrenico è un
“corpo senza discorso” 5. Kraepelin con un’analogia diceva che è come
un’orchestra senza direttore, emblema di un corpo affetto da un disinserimento entropico dal punto di capitone del significante padrone che
avrebbe reso possibile applicare la griglia linguistica del discorso come
supporto della simbolizzazione del corpo e dei suoi organi. Al posto di
questa simbolizzazione troviamo invece la produzione della cosiddetta
fenomenologia clinica della macchina influenzante, la cui elaborazione ha storicamente contrassegnato l’implicazione psicoanalitica nello
stesso concetto di schizofrenia. La macchinizzazione schizofrenica del
corpo supplisce in modo delirante al disinserimento del corpo e dei suoi
organi dall’azione strutturante del significante padrone. È un ampio
ventaglio di fenomeni che vanno dalle trasformazioni più assurde degli
organi all’innesto nel corpo di giunture, leve, cardini, tubi, fili allo
scopo di stabilire un allacciamento degli organi al corpo, di farli stare
3. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti,
Einaudi, Torino 1974, p. 564.
4. G. Deleuze e F. Guattari, L’Antiedipo, Einaudi, Torino 1975.
5. J.-A. Miller, “Schizofrenia e paranoia”, in La Psicoanalisi, n. 25, Astrolabio, Roma 1999, p. 36.
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collegati acuendone però il tratto di pervasività e di influenzamento
esteriore che rende infernale il rapporto con il corpo macchinizzato.
Questo specifico disinserimento schizofrenico è tuttavia qualcosa di
ben diverso dall’estensione contemporanea del corpo macchina attraverso i mezzi più disparati, non ultimi i gadgets di raffinata tecnologia,
offerti come oggetti più di godere dall’attuale economia del godimento
che spinge verso la realizzazione di un ampliamento sempre maggiore
dell’idea di potenza vitale e sessuale del corpo, ampliamento che, non
a caso, affascina il soggetto nevrotico per l’uso che ne può fare nel suo
fantasma fallico come strumento del godimento.
Nel capitolo XI 6 delle sue “Memorie” Schreber descrive minuziosamente le trasformazioni a cui sono andati incontro gli organi del suo corpo.
Egli inizia col descrivere la trasformazione del suo corpo in quello di
una donna di cui ha oramai acquisito la certezza che l’ordine del mondo
la richieda e a lui non resti altra scelta che conciliarsi con questa idea.
È la soluzione che consentirà a Schreber di non restare fissato all’immagine del “cadavere lebbroso che conduce un cadavere lebbroso”, dal
momento che, come ha precisato Lacan, è in quanto donna che manca
a tutti gli uomini che egli potrà riposizionarsi nella neometafora fallica
che gli assicura un’identificazione con il suo essere di vivente, che nello
sviluppo delirante assurgerà a generatore di una nuova umanità.
Questo è il capitolo in cui è Schreber “schizo” che parla. Qui non c’è
organo del corpo di cui Schreber non descriva la trasformazione, le parti
sessuali, i polmoni, le costole, lo stomaco, la laringe, l’esofago, il midollo
spinale, le ossa, i muscoli delle palpebre e avanti così, nella sua “disanatomia” schizofrenica. Per ciascuna trasformazione c’è un miracolo divino
che ne è la causa. In particolare la testa è sottoposta ad uno dei miracoli
più “abominevoli” il “miracolo per allacciare la testa”, in cui i “piccoli
diavoli con una specie di manovella a vite manovrata appositamente
schiacciavano la mia testa come fa un torchio in modo che la mia testa
6. D. P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano 1974, p. 166.
Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 15
assumeva di tanto in tanto una forma prolungata quasi come una pera”. 7
Ritroviamo qui esattamente gli elementi del macchinismo influenzante,
manovelle e viti per “allacciare”, cioè nella supplenza delirante di un
collegamento, ma ne vediamo altresì il limite nella risultante della “testa
a pera”, particolare in cui si sigla il tratto umiliante e derisorio di questa
operazione e che consegna il corpo ad una decadenza solo parzialmente
limitata dalla successiva trasformazione in donna.
Tausk citava il caso di una giovane donna 8 schizofrenica che sviluppava
la sindrome di influenzamento attorno ad una macchina elettrica, coi
suoi fili, i suoi collegamenti, ma soprattutto con la pervasività delle sue
emissioni elettromagnetiche, e questa macchina, diceva la paziente,
aveva la stessa forma del suo corpo, a parte qualche piccola differenza.
Non è l’immagine del corpo che trasmette l’idea della vita del corpo,
ma l’immagine del corpo del tutto esteriorizzato nella macchina per
influenzare, è la macchinizzazione del corpo in quanto “fuori corpo”
esso stesso, i cui organi hanno funzioni non previste da alcun discorso
che simbolizzi queste stesse funzioni, se non funzioni di godimento
pervasivo e nocivo.
wolfson “schizo”
Nel caso di Louis Wolfson, il malato schizofrenico, come egli stesso si
definisce, il disinserimento del corpo e dei suoi organi dal discorso è
contrassegnato radicalmente da una perturbazione della stessa struttura
di bordo con cui si è fissata fin dall’inizio la pervasività della voce della
madre, penetrante nelle sue orecchie con le parole della lingua inglese.
È noto, dal primo fenomenale libro di Wolfson, Le schizo et le langues 9,
7. Ibidem, p. 176.
8. V. Tausk, “Sulla genesi della ‘macchina influenzante’ nella schizofrenia”, in Scritti psicoanalitici, Astrolabio, Roma 1979, p. 158.
9. L. Wolfson, Le schizo et les langues, Gallimard, Paris 1970.
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scritto direttamente in lingua francese, come Wolfson fosse impegnato
in un’incessante lavoro di traduzione omofonica delle parole delle lingua inglese in altre lingue, dal francese al russo, passando per il tedesco
e così via. Wolfson è in collegamento permanente, via radio, via dizionari, con il pluralismo delle lingue del cosmopolitismo newyorkese. È
collegato allo sciame delle lingue. Egli lavora questo sciame de lelingue
attraverso un’incessante traduzione omofonica che gli consenta di poter
ritrovare in primis il suono e in subordine il senso della lingua materna
trasposto però in un’altra lingua, che possa ripararlo e separarlo dalla
voce della madre, dall’“unisono” che la voce inglese della madre fa
risuonare nel suo corpo come fosse esso stesso un’ampia cassa di risonanza del godimento invasivo di quest’ultima.
Questo lavoro di traduzione è, fondamentalmente, decostruzionista,
come la schizofrenia è sempre decostruzionista al livello di quella che
Jakobson avrebbe chiamato “the sound shape” 10, l’ossatura fonica, della
lingua. Infatti si tratta di un lavoro che va sempre ad intaccare l’identità fonatoria stessa della lingua materna, fino al punto che in certi casi
questa identità è del tutto dissolta. Per esempio, uno dei procedimenti
principali messi in atto da Wolfson è lo smembramento della parola
inglese in una moltiplicazione di frammenti o fonetici o di parole di
altre lingue, con il conseguente sparpagliamento dell’ossatura fonica
della lingua. A volte questo procedimento può essere più semplice a
volte diventa difficile quando, come è stato notato da Deleuze 11, la
traduzione omofonica incontra, non a caso, una difficoltà al livello
dell’articolazione delle consonanti, al livello del nucleo più resistente
dell’ossatura fonica della parola, e ciò obbliga Wolfson ad un lavoro
enorme dove al posto di una sola parola inglese in cui sono presenti un
certo numero di consonanti troviamo un vero e proprio sciame di parole di altre lingue o di frammenti omofonici di altre lingue, e qui andia10. R. Jakobson, La charpante phonique du language, Minuit, Paris 1980.
11. G. Deleuze, “Schizologie”, in L. Wolfson, Le schizo et les langues, cit., p. 6.
Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 17
mo verso la dissoluzione. Il risultato di questa “traduzione” è spesso
grottesco e segna anche il limite della formazione di questa “neolingua”
inventata da Wolfson, il limite del suo uso nella misura in cui è qui che
si mostra come sia solo Wolfson, e nessun altro, a conoscere le regole di
trasformazione e la grammatica di questa nuova lingua. Ciononostante
questa traduzione è ciò che gli consente di stendere uno sciame significante a mo’ di barriera che crei anche un bordo di salvaguardia del suo
corpo, con cui ripararsi, separarsi dal godimento dell’Altro materno che
mira a trasformarne gli organi in un unico tubo beante.
l’organo tubo
Wolfson ci dice infatti che la madre sembrava
riempirsi di una gioia macabra quando coglieva l’opportunità di iniettare
le parole che uscivano dalla sua bocca nelle orecchie del proprio figlio, suo
unico possesso come lei gli diceva, sembrando dunque felice di far vibrare
il timpano di questo unico possesso e di conseguenza gli ossicini del suo
orecchio medio all’unisono esatto con le corde vocali di lei 12 .
Nel corpo di Wolfson si destruttura il bordo di separazione degli organi
del suo corpo a favore di un “unisono”, di un neorgano che risuona del
solo godimento dell’Altro materno, a cui si riduce la sua stessa funzione
di organo, e che si estende dalla bocca della madre all’orecchio medio
del soggetto, senza soluzione di continuità.
Ritroviamo la stessa dimensione di continuità di un organo senza bordo
separatore laddove Wolfson parla espressamente dell’organo genitale
femminile: “il vero organo sessuale femminile gli sembrava essere più
che la vagina un tubo in gomma pronto ad essere inserito dalla mano
12. L. Wolfson, Le schizo et les langues, cit., p. 183, (traduzione nostra).
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di una donna nell’ultimo segmento dell’intestino, del suo intestino”. 13 È
dunque un organo tubo che, anche qui, collega due orifizi, due buchi,
dalla vagina della donna all’intestino del soggetto, due aperture che non
danno possibilità di arginare la perfusione del godimento dell’Altro.
Wolfson infatti associa a questa immagine dell’organo tubo quella macchinizzata “degli irrigatori dell’orificio posteriore del canale alimentare,
del trattamento medico, un po’ troppo vigoroso del clistere, ‘lavage’, somministrato da un’infermiera” 14 e come questa immagine di perfusione ha
a che fare con il più antico dei suoi ricordi infantili. Un giorno di estate
la madre chiamò un’infermiera che gli infilò un termometro nell’ano
per provargli la temperatura rettale. Questo atto era stato provocato da
un’ingiunzione della stessa che “imperiosamente” aveva detto al piccolo
paziente, con il suo fare incantatorio abituale “Girati!” (“Retourne-toi !”) 15,
vera e propria ingiunzione sotto la cui spinta tutto il suo corpo diventa
organo beante e macchinizzato del godimento dell’Altro in una fissazione
che si sviluppa attorno alle visioni del “lavage”, del clistere.
un’ironia suprema
Queste visioni le ritroviamo amplificate e contrassegnate nettamente
dal tratto di mortificazione nel secondo libro, Ma mère musicienne est
morte 16, scritto dopo la morte della madre per mesotelioma addominale,
la cui causa Wolfson, secondo il suo macchinismo corporeo, attribuisce
alle emissioni del “tubo” catodico del televisore, l’“assassino diretto” di
fronte al quale la madre trascorreva gran parte del suo tempo. La malattia che colpisce mortalmente la madre crea in Wolfson le condizioni di
una regressione all’immagine del suo corpo cadavere, “che trascino da
13. Ibidem, p. 116.
14. Ibidem.
15. Ibidem, p. 117.
16. L. Wolfson, Ma mère musicienne est morte…, Navarin, Paris 1984.
Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 19
una stanza all’altra della casa” in un contesto in cui tutta l’umanità è
“una grande ammalata.” “Come dice il papa G. Paolo II, l’umanità è
una grande malata. Siamo d’accordo e il trattamento elettivo è l’eutanasia planetaria completa e definitiva” 17. La malattia corporea della madre
lo spinge alla generalizzazione del corpo cadavere e con essa alla radicalizzazione del disinserimento del corpo dal legame sociale. L’unica soluzione alla pervasività dei godimenti che infiltrano senza sosta gli organi
beanti, impossibili da chiudere, a partire dall’orecchio, per passare alla
bocca e giungere all’ano, l’unica soluzione che egli vede è la desertificazione di questo godimento non solo dal suo corpo ma da tutti i corpi. È
il corpo completamento disinserito dal pianeta del vivente.
Come strumento di questa soluzione interviene, in continuità con il già
nefasto “telecolore Magnavox”, la più devastatrice e mortifera macchina
per influenzare:
ben contrariamente che sopprimere le bombe nucleari se ne dovrebbero
fabbricare molte di più, di più grandi, radiottive e utilizzarle per rendere
impossibile ogni vita su questo pianeta infernale […] Checché ne dicano
gli idioti antinucleari […] la sola vera pace è quella del cimitero, il cimitero
planetario! 18
Al contrario di Schreber, che trova una soluzione conciliata e vitale
nella trasformazione nel corpo sessuato de La donna che manca agli
uomini, per Wolfson la pace è nella cadaverizzazione generalizzata dei
corpi, raggiunta attraverso un’opera colossale di lavaggio radioattivo
termonucleare, opera di desertificazione separatrice dall’unisono del
godimento dell’Altro che perfonde l’organo tubo, a cui si riduce il suo
stesso corpo con i suoi organi senza bordo, che non possono chiudersi e
che infernalizzano il suo rapporto al corpo.
17. Ibidem, p. 22, (traduzione nostra).
18. Ibidem, p. 200.
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Lacan nelle ultime righe della Questione preliminare accosta la teodicea di Schreber al dire dell’ “esperienza interiore”: “Dio è una p…(…)” 19
in cui Schreber ritrova in sé una parziale giustificazione del vivente.
In Wolfson questa giustificazione appare preclusa. Egli giunge infatti,
avendolo deciso, non a caso, di dirlo in ebraico, alla formula: “Dio è la
bomba!” 20, in cui la stessa pulsione di morte si fa principio separatore.
Qui affiora l’ironia suprema dello “studente schizofrenico”, l’ironia che
investe direttamente il dire della lingua del Nome-del-Padre, l’ironia
che sottolinea l’impostura del discorso a cui lo schizofrenico si rifiuta
di identificarsi.
19. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti,
cit., p. 579.
20. L. Wolfson, Ma mère musicienne est morte…, cit., p. 170.
21
debilità, o il potere dell’immaginario
di Nicola Purgato *
La debilità, o oligofrenia, non è un concetto molto frequentato dalla psicoanalisi. Eppure Lacan ne parla a più riprese lungo il suo insegnamento e in
diversi modi. Ma, a differenza di una concezione deficitaria – prevalente
tanto ieri quanto oggi –, egli la situa in rapporto ai quattro discorsi e al campo
dell’Altro, dandone una concezione che, anziché appoggiarsi sul deficit, svela
un “troppo” che incaglia il meccanismo che sta alla base del simbolico: l’articolazione significante.
Parole chiave: debilità, ritardo mentale, olofrase
1. la debilità mentale
La debilità mentale non è mai stata una condizione dell’essere che abbia
appassionato gli psicoanalisti, forse perché quando un debile varca
la soglia dello studio di un analista costui “viene subito messo alla
prova” 1. Si tratta di una prova che giunge da più fronti: da parte dei
genitori, pronti ad attendersi il miracolo o rassegnati all’incontro con
l’ennesimo specialista (senza mettere in conto il possibile boicottamento
di fronte ai primi cambiamenti); da parte dal paziente, spesso noioso
e poco loquace in quanto abituato ad essere solo un “oggetto” docile e
buono nelle mani dell’Altro; da parte dell’analista stesso, toccato da un
* Nicola Purgato è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regione Veneto; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la
clinica, la terapia e la scienza.
1. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 63.
attualità lacaniana n. 12/2010
22 | attualità lacaniana
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senso di impotenza nel confrontarsi con qualcuno che “impersona la
morte e la negazione nella propria condotta e nei propri discorsi” 2 .
Questo interesse marginale della psicoanalisi per la debilità, che trova un
riscontro anche nel limitato numero di pubblicazioni, ancor più esiguo
se si eccettuano i testi in cui la debilità è presentata in quanto associata
ad altri quadri clinici (psicosi, autismo…), ha avuto un duplice effetto:
– lasciare questo campo alla prepotenza delle neuroscienze che fanno
del danno organico il perno esclusivo della loro interpretazione;
– ridurre la problematica a semplice handicap investendo esclusivamente
sulla riabilitazione secondo modelli legati alle terapie cognitivo-comportamentali.
Infatti, concepire la debilità come deficit contribuisce solo a isolare il
soggetto nella sua lacuna e trovare i mezzi per colmare il più possibile
questo handicap. “Cercando una causa precisa della debolezza mentale,
neghiamo che essa possa avere un senso, cioè una storia, o che essa corrisponda a una situazione” 3.
Occorre quindi sgomberare il campo da un certo pregiudizio, ormai
automatico, che vede nella debilità solo l’effetto di un danno organico e
che non lascerebbe posto alcuno al discorso psicoanalitico.
L’American Association on Intellectual and Developmental Disabilities
(AAIDD) nell’undicesima edizione del suo Manuale (2010) così definisce il ritardo mentale: “La disabilità intellettuale è caratterizzata da
significative limitazioni sia nel funzionamento mentale che nel comportamento adattivo manifestate nelle abilità concettuali, sociali e di
adattamento pratico. Questa disabilità insorge prima dei 18 anni” 4.
Rispetto alla causa di tale “disabilità intellettuale” la stessa AAIDD che
fino al 2002 affermava che il 40-50% dei casi di ritardo mentale non
2. Ibidem, p. 68.
3. Ibidem, p. 62.
4. American Association on Intellectual Developmental Disabilities, Intellectual Disability.
Definition, classification and systems of supports, 11th edition, Washington 2010, p. 5, (traduzione nostra).
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 23
aveva una causa precisa, oggi “grazie” all’introduzione di una diagnosi
multifattoriale che comprende quattro gruppi di fattori di rischio (biomedici, sociali, comportamentali ed educativi) “la categoria di Disabilità Intellettuale dovuta a cause sconosciute è eliminata” 5. Facile modo
di risolvere l’impasse della clinica: se i buoi non entrano nella stalla, si
allarga la stalla! Rimane tuttavia evidente, anche nella recente edizione
del Manuale e contro una certa vulgata alquanto diffusa, che i fattori
biologici o genetici non riescono a spiegare tale patologia se non in una
percentuale ridotta, sicuramente “inferiore al 50% dei casi” 6.
Si tratta allora di provare a fornire una lettura psicoanalitica di questa
problematica spesso causata da lesioni organiche o associata a particolari disturbi (autismo, paralisi cerebrale, sindrome di down, sindrome
fetale alcolica, sindrome da X fragile), ma frequentemente presente
anche in assenza di tutto ciò. Nei primi casi si tratta di comprendere il
funzionamento mentale
in una situazione in cui l’organismo risulta letteralmente devastato da
lesioni percettive, sensoriali, motorie, linguistiche e di definire come
l’essere vivente che nasce in una condizione così sfavorevole a causa di un
danno organico possa affrancarsi in qualche modo da esso per costituirsi
come soggetto, riscattandosi dal peso dell’organismo violato ed umanizzarsi nella dimensione del desiderio e dell’inconscio 7;
nei secondi di capire “cosa c’è di perturbato al livello del linguaggio
che, esprimendosi per vie traverse, fissa il soggetto nello statuto sociale
che gli è stato conferito e la madre nel ruolo che essa stessa si è data” 8.
Da questo punto di vista lo studio della debilità riporta a quanto già
Freud ricordava nel Compendio di psicoanalisi, ossia che “di ciò che
5. Ibidem, p. 68.
6. Ibidem, p. 59.
7. F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, Franco Angeli, Milano 2008, p. 13.
8. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 38.
24 | attualità lacaniana
n. 12/2010
chiamiamo la nostra psiche (o vita psichica) ci sono note due cose:
innanzitutto l’organo fisico e il suo scenario, il cervello (o sistema nervoso) e, in secondo luogo, i nostri atti di coscienza […]. Tutto ciò che
sta in mezzo fra queste due cose ci è sconosciuto” 9. Nel corso degli anni
tra questi due campi si è scavato un abisso e, nonostante il lodevole tentativo di alcuni di far accoppiare “l’orso polare con una balena” 10, ossia
neuroscienze e psicoanalisi, sembra che gli orsi si siano così tanto impegnati da far sembrare le balene delle mummie. Eppure, il processo di
soggettivazione dell’essere umano non può essere compreso ricorrendo
esclusivamente allo studio del fenomeno anatomo-fisiologico, né interamente spiegato mediante l’appello a teorie che si basano sulla univoca
considerazione del substrato organico. I casi in cui il ritardo mentale è
solo associato a determinate patologie o – ancora di più – quelli in cui
non vi è traccia alcuna di lesione e la cui origine non è identificabile,
denunciano la riduttività di un approccio puramente neurologico o
biologistico. La psicoanalisi può dire oggi una parola contro questo
riduzionismo, ricordando con Lacan di “Una questione preliminare”
“che la condizione del soggetto S (nevrosi o psicosi) dipende da ciò
che si svolge nell’Altro A. Ciò che vi si svolge è articolato come un
discorso (l’inconscio è il discorso dell’Altro) la cui sintassi Freud ha
cercato di definire” 11. Sappiamo che il discorso fondamentale è quello
del padrone, così come Lacan lo formalizza ne Il rovescio della psicoanalisi, infatti, la verità ultima di questo discorso – come ribadirà nel
seminario Les non-dupes errent – non è niente altro che la produzione
del soggetto stesso 12 . Con questa “formula” Lacan cerca, innanzitutto,
di matematizzare il concetto freudiano di identificazione, in cui il ruolo
9. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1979, vol. XI, p. 572.
10. F. Ansermet e P. Magistretti, A ciascuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio, Bollati
Boringhieri, Torino 2008, p. 15.
11. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti,
Einaudi, Torino 1974, p. 545.
12. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXI, Les non-dupes errent, 1973-1974, (inedito) lezione del 12
febbraio 1974, (traduzione nostra).
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 25
dell’Altro è fondamentale nella strutturazione del soggetto. Nel discorso
del padrone infatti l’ è “un marchio preciso in grado di assorbire il
soggetto […] e quando il soggetto è assorbito dal suo marchio non si
distingue da esso”. 13
 
▲
Nel discorso del padrone, equivalente per Lacan al discorso dell’inconscio, il soggetto è sempre identificato.
Il soggetto è sempre identificato nell’Altro. Questo può valere fino al
discorso universale. È da qui che pesca o viene pescato, agganciato da un
significante padrone. Ad agganciarlo è quello che è detto, quello che si
dice, quello che si dice in famiglia, questo piccolo pezzo di particolare. È
da lì che  gioca la funzione eminente nell’inconscio sotto forma di parole
che vi marchiano 14.
E se un soggetto non è ben installato in questo discorso? Nel seminario
Ou pire del 1972 Lacan afferma che il debile si caratterizza proprio perché oscilla tra due discorsi.
Chiamo debilità il fatto che un essere, un essere parlante, non sia solidamente installato in un discorso. In questo consiste il pregio del debile.
Non c’è altra definizione che gli si possa dare, se non quella di essere un
po’ à côté de la plaque (fuori strada, fuori misura, fuori luogo), ossia di
oscillare tra due discorsi. Per essere solidamente installati come soggetto
bisogna attenersi a uno oppure sapere ciò che si fa 15.
13. J.-A. Miller, “Quando i sembianti vacillano”, in La Psicoanalisi, n. 43-44, 2008, p. 12.
14. Ibidem, p. 14.
15. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIX, Ou pire, (inedito), lezione del 12 marzo 1972, (traduzione
nostra).
26 | attualità lacaniana
n. 12/2010
2. cosa definisce la debilità?
La nozione di debilità è stata per lungo tempo tra le più chiare e solide
della psichiatria dal momento che si pensava fosse di natura congenita
o sopravvenisse nei primi due anni di vita a causa di un trauma o di
una infezione. Inizialmente – per la precisione – si parlava di idioti! Nel
1846 Édouard Seguin sostiene che l’idiozia è una infermità del sistema
nervoso che ha per effetto radicale di sottrarre tutte o parte degli organi
e delle facoltà del bambino all’azione regolatrice della sua volontà, liberandolo ai suoi istinti e sottraendolo al mondo morale. L’idiota tipo è
un individuo che non sa nulla, non può nulla e non vuole nulla 16.
È a Dupré che, estendendo al mentale una qualifica fino ad allora riservata al fisico (dal latino de habilis), si deve l’introduzione nel 1909 del
termine “debilità mentale” 17. Bisognerà, invece, attendere Alfred Binet
e Théodore Simon, durante la scolarizzazione di massa al tempo della
III Repubblica, per avere uno strumento in grado di misurare l’intelligenza e – di conseguenza – individuare i “debili mentali” diffondendone così il concetto 18.
Lacan, psichiatra e psicoanalista, si scosta da questa impostazione basata su una definizione deficitaria della debilità mentale, per farne una
“malattia fondamentale del soggetto rispetto al sapere” 19, un “rapporto
particolare dell’essere senza il sapere” 20. In effetti il soggetto debile si
colloca nei confronti del sapere in un evidente rapporto di esteriorità, in
16. E. Seguin, Traitement moral, hygiène et éducation des idiots, Baillière, Paris 1846, p. 107.
17. E. Dupré, “Débilité mentale et débilité motrice associées”, in Revue Neurologique, n. 20,
1910, pp. 54-56.
18. Si tratta della cosiddetta “Scala Binet-Simon” costituita da una cinquantina di item rappresentativi di età comprese dai 3 ai 15 anni. L’insieme degli item superati con successo forniva la
misura dell’età mentale del soggetto la quale veniva confrontata con la sua età cronologica, restituendo così un profilo di normalità, ritardo o precocità. Il debile mentale presentava un ritardo
di due anni se ne aveva meno di 9 o un ritardo di tre se ne aveva più di nove; non superava mai
– tuttavia – il livello mentale tipico dei 10 anni.
19. P. Bruno, “À coté de la plaque, sur la débilité mentale”, in Ornicar?, n. 37, 1986, p. 39, (traduzione nostra).
20. E. Laurent, “La jouissance du débile”, in Analytica, n. 51, 1987, p. 91, (traduzione nostra).
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 27
cui domina il non comprendere niente o poco. E, tuttavia, costui non si
situa, al contrario del soggetto psicotico, fuori discorso.
Nell’insegnamento di Lacan sono stati da tempo identificati due diversi usi del termine debilità. Prima del 1969 viene adoperato nel senso
classico della clinica psichiatrica, per indicare un quadro clinico particolare; successivamente è introdotto, invece, per definire il rapporto di
chiunque con il sapere: si tratta qui della debilità che colpisce tutti e da
cui lui stesso afferma di non essere esente.
Nella lezione del seminario RSI del 10 dicembre 1974 afferma:
Se l’essere parlante si trova destinato alla debilità, è a causa dell’immaginario.
Questa nozione, in effetti, non ha altra origine che nel riferimento al corpo.
E il minimo presupposto che il corpo comporta è questo: ciò che l’essere parlante si rappresenta non è altro che il riflesso del proprio organismo 21.
Qui la caratteristica principale della debilità sta nel fatto che l’essere parlante pensi l’universo a partire dal riflesso del proprio corpo, il macrocosmo a partire dal micro, ossia la propria immagine metro e misura di
tutte le cose. Il debile si appoggia così all’immagine che lo cattura e vi si
fissa, mettendo al posto dell’ideale la verità dell’Uno del suo corpo.
Non è perché il soggetto si mette al posto di una verità che dice il vero. È
piuttosto perché egli si identifica a questo posto che egli non è intelligente,
che egli non può sopportare di leggere tra le righe il tranello dell’Altro.
Sapere ciò che si dice, è sapere che tutto ciò che è detto non ha che senso
fallico e come riferimento l’oggetto. Per leggere tra le righe, bisogna sopportare di sospendere la supposizione del riflesso del corpo. È questo il
reale impossibile da sopportare per il soggetto debile 22 .
21. J. Lacan, Le Séminare, Livre XXII, R.S.I., 1974-75, in Ornicar?, n. 2, 1975, p. 91, (traduzione
nostra).
22. E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 93.
28 | attualità lacaniana
n. 12/2010
Questa nozione di debilità verrà ripresa anche nel 1977, nel seminario
L’ insaputo che una svista sa va alla morra, quando afferma che “l’uomo
non se la cava molto bene in questa faccenda del sapere. È la sua debolezza mentale, né io faccio eccezione perché ho a che fare con lo stesso
materiale di tutti, con il materiale di cui siamo dimora. Con questo
materiale non ci si sa fare” 23.
Per Lacan – sulla scorta della parola latina intelligere – l’intelligenza
è la capacità di leggere tra le righe, andando al di là del senso, perché
al di là del senso c’è qualcosa attorno a cui il discorso gira 24. Così, a
colui che legge tra le righe, Lacan contrappone colui che oscilla tra
due discorsi. Pierre Bruno, che a lungo si è interessato di questo tema,
afferma che “la debilità mentale, in quanto colpisce chiunque, segna
in un modo particolare alcuni, che si fanno notare per una tenace
resistenza, talvolta geniale contro tutto ciò che potrebbe contrastare la
veracità dell’Altro” 25.
Nel testo “Una questione preliminare” Lacan illustrando lo schema R
presenta uno sdoppiamento all’interno del campo dell’Altro, formato
da P (o luogo della Legge in cui si colloca la funzione paterna, l’azione del Nome-del-Padre) e M (“significante dell’oggetto primordiale”,
Altro della simbolizzazione primordiale fondata sull’alternanza presenza/assenza) 26 .
Ebbene, la debilità si pone direttamente in rapporto con quanto accade nel campo dell’Altro, formato sia da M che da P, alla cui “veracità”
il debile si consacra interamente. Vedremo che Lacan, come Mannoni,
collega sempre la debilità a quanto si svolge nel discorso dell’Altro,
nella fattispecie quello genitoriale.
23. J. Lacan, “Il Seminario di Jacques Lacan (1976-77): L’insaputo che una svista sa va alla
morra”, in Ornicar?, 4, 1979, p. 24.
24. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXII, R.S.I., 1974-75, cit., p. 92.
25. P. Bruno, “A cotè de la plaque, sur la débilité mentale”, cit., p. 39.
26. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti,
cit., p. 549.
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 29

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
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
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
3. i riferimenti di lacan alla debilità
3.0 il seminario ii. l’io nella teoria di freud
(1954‑1955)
Troviamo in questo seminario un primo riferimento alla debilità. Si
tratta solo di un accenno ma richiama quanto poi dirà nel 1974 in RSI.
Sono molto importanti i modelli. Non che ciò voglia dire qualcosa – non
vuole dire niente. Ma noi siamo fatti così – è la nostra debolezza animale –
abbiamo bisogno di immagini. E, in mancanza di immagini, capita che dei
simboli non vengano alla luce. In generale, (però) è piuttosto la deficienza
simbolica che è grave 27.
Infatti, in questo seminario Lacan sostiene che la struttura fondamentale della nostra esperienza è di ordine immaginario, così come l’io e
la stessa coscienza. Al contempo, occorre, però, mantenere un certo
27. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, Einaudi, Torino 2006,
p. 103.
30 | attualità lacaniana
n. 12/2010
dualismo salvaguardando quella che Lacan chiama l’ “autonomia del
simbolico” 28, posizione a cui Freud si è sempre tenuto ma che i suoi
allievi hanno rapidamente abbandonato per tornare ad una posizione
confusa e naturalistica dell’uomo che ha finito con il mettere in secondo piano l’inconscio.
3.1 i quattro concetti fondamentali
della psicoanalisi (1964)
Un successivo riferimento risale al 1964 quando nel seminario I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan presenta il concetto
di alienazione significante che “condanna – se il termine condannato
non suscita obiezioni da parte vostra – il soggetto ad apparire in quella
divisione che ho appena articolato sufficientemente, dicendo che, se
esso appare da un lato come senso, prodotto dal significante, dall’altro
appare come afanisi” 29.
L’essere
( il soggetto )
Il
non senso
Il senso
( l’Altro )
La dimensione di precedenza logica secondo cui “l’Altro per il soggetto
[è] il luogo della sua causa” 30 appare qui in primo piano. Non è più il
28. Ibidem, p. 45.
29. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964,
Einaudi, Torino 2003, p. 206.
30. J. Lacan, “Posizione dell’inconscio”, in Scritti, cit., vol. II, p. 844.
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 31
soggetto che si aliena nell’immagine speculare, quanto piuttosto l’Altro
che il soggetto incontra già lì in una esteriorità irriducibile, che determina l’essere del soggetto. L’alienazione, in quanto attiene alla struttura
binaria del significante, illustra la funzione “letale” che questo esercita
sul soggetto e l’esistenza di un ordine sovraindividuale – com’è appunto
quello simbolico – che precede la dimensione dell’alienazione immaginaria dello stadio delle specchio.
Si tratta dell’Altro che Lacan scrive con la lettera maiuscola per indicarne il suo statuto simbolico, irriducibile rispetto all’altro inteso come
simile, immagine speculare, altro io, e quindi depsicologizzato fino a
coincidere con le leggi stesse della cultura e del linguaggio, ossia un
ordine sovraindividuale che determina, soggiogandolo, l’essere dell’uomo. In quest’ottica, il concetto lacaniano di alienazione è diverso sia
da quello elaborato dalla filosofia dialettico illuminista, sia da quello
impiegato nella psicoanalisi post-freudiana.
In questo contesto Lacan arriva a
formulare che, quando non c’è intervallo tra  e , quando la prima coppia
di significanti si solidifica, si olofrasizza, abbiamo il modello di tutta una
serie di casi, anche se, in ciascuno il soggetto non occupa lo stesso posto.
Per esempio, è nella misura in cui il bambino, il bambino debile, prende
il posto di questa S, rispetto a quel qualcosa a cui la madre lo riduce, a
non essere più che il supporto del suo desiderio in un termine oscuro, che
si introduce nell’educazione del debile la dimensione psicotica. È precisamente ciò che la nostra collega Maud Mannoni, in un libro appena uscito
e di cui vi raccomando la lettura, tenta di indicare […] È sicuramente
di qualcosa dello stesso ordine che si tratta nella psicosi. Questa solidità,
questa presa in massa della catena significante primitiva è ciò che proibisce
quell’apertura dialettica che si manifesta nel fenomeno della credenza 31.
31. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit.,
p. 233.
32 | attualità lacaniana
n. 12/2010

0. s, s', s'', s''', …


    a, a', a'', a''', … 

0. s, s', s'', s''', … = serie dei sensi
    a, a', a'', a''', …  = serie delle identificazioni
Lo schema che Lacan qui presenta è effettivamente “un po’ oscuro” 32 ma
se lo si legge a partire dalla polarità che in questo momento caratterizza
il suo insegnamento, ossia la duplicità tra soggetto determinato dallo
scivolamento significante e soggetto del godimento 33, si può intravvedere un’anticipazione dei quattro discorsi (1969-70), in particolare del
discorso del padrone. Ciò che qui conta segnalare è che Lacan lega i due
significanti  e  a tre termini che concernono il soggetto: la X, la serie
dei sensi e la serie delle identificazioni.
Questo mathème riprende quindi la bipolarità tra il soggetto del significante (rappresentato dallo zero in quanto scivola continuamente sotto
la catena significante consentendo però la costituzione della serie dei
sensi) e il soggetto del godimento (in quanto a partire da i(a) si determina il rapporto del soggetto con il godimento dell’Altro – come successivamente indicherà la formula del fantasma – producendo una serie di
identificazioni). Lacan pone così la debilità dal lato di queste identificazioni che hanno attinenza con il soggetto del godimento.
Dal momento che Lacan cita la Mannoni, vale la pena di riportare un
passo significativo del suo libro:
Il bambino ritardato e sua madre formano un corpo unico. Il desiderio
dell’uno si confonde con quello dell’Altro, tanto che i due sembrano vivere
32. E. Laurent, “La psychose chez l’enfant dans l’enseignement de Jacques Lacan”, in Quarto,
n. 9, 1982, p. 7.
33. J. Lacan, “Préface à la traduction des Mémoires de Schreber”, in Le Cahier pour l’Analyse,
n. 5, 1966.
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 33
la stessa storia. […] Rammentiamo prima di tutto di cosa è fatto questo
rapporto fantasmatico.
Per la madre, vera o adottiva, esiste un primo stadio, prossimo al sogno, in
cui essa aspira ad avere “un figlio”; questo figlio è inizialmente una specie
di evocazione allucinatoria di qualcosa della propria infanzia che è andato
perduto.
Quando questo figlio così ardentemente desiderato arriva, cioè quando
la richiesta si realizza, la madre va incontro alla prima delusione: eccola
dunque questa creatura di carne, ma eccola anche separata da lei; mentre a
livello inconscio la madre sognava una specie di fusione.
A partire da questo momento, con questo figlio da lei separato la madre tenterà di ricostruire il suo sogno. A questo figlio di carne si sovrappone un’immagine fantasmatica che ha il compito di ridurre la delusione fondamentale
della madre (delusione che ha una sua storia nell’infanzia stessa della madre).
Si stabilisce così tra madre e figlio una situazione fittizia in quanto il figlio,
nella sua materialità, riveste sempre per la madre il significato di qualche
altra cosa. […] Molto viene quindi richiesto al figlio. […] Il figlio diventa
a sua insaputa il supporto di qualcosa di essenziale per la madre, donde il
fondamentale malinteso tra madre e figlio. Il figlio, destinato a colmare
la mancanza d’essere della madre, non ha altro significato che quello di
esistere per lei e non per sé. […] A sua insaputa, il figlio è come “rapito” nel
desiderio della madre 34.
Tuttavia, a questa tesi Lacan risponde proprio nel seminario undicesimo, sottolineando che ciò che fa Uno tra i due non è il corpo, ma
l’olofrase, meccanismo che è posto come punto di partenza per una
serie clinica che include psicosi, fenomeni psicosomatici e debilità 35. Va
comunque precisato che in questo passaggio la debilità non coincide
tout court con la psicosi, ma la dimensione psicotica si introduce nella
34. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., pp. 70, 76-77.
35. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit.,
p. 233.
34 | attualità lacaniana
n. 12/2010
misura in cui il bambino occupa un certo posto: quello che nello schema del seminario nono sopra riportato è in basso a destra 36.
L’essere umano entra nell’universo del senso, quindi nella dimensione
della condivisione, dello scambio e del legame sociale attraverso l’ingresso in quel discorso che trova già lì quando nasce. Si tratta di un
discorso che si costituisce come un campo ben definito che è quello del
discorso familiare, sociale, culturale, etnico che Lacan definisce come
ciò a cui il soggetto non ha accesso se non come assoggettato.
Ebbene io affermo che il bambino si abbozza come assoggetto. È un assoggetto perché si sperimenta e si sente innanzitutto come profondamente
assoggettato al capriccio di ciò da cui dipende, anche se questo capriccio
è un capriccio articolato 37. […] Dunque, è nella misura in cui il bambino
assume in primo luogo il desiderio della madre – e l’assume in una maniera in qualche modo grossolana, nella realtà del discorso – che è disposto a
iscriversi al posto della metonimia della madre, vale a dire a diventare ciò
che l’altro giorno ho chiamato il suo assoggetto 38 .
È quindi nel desiderio dell’Altro che il soggetto “per un’anteriorità logica
ad ogni risveglio del significato, trova il suo posto significante” 39, cioè
assume una posizione precisa all’interno della rete familiare e sociale,
strutturando così una rappresentazione di sé stesso nel mondo che, a sua
volta, diviene per il soggetto stesso rappresentabile e conoscibile.
L’olofrase è “il nome dato da Lacan all’assenza della dimensione di
metafora” 40, quindi si presta bene a rappresentare la situazione in cui i
rapporti del soggetto con il significante (e quindi con la realtà da esso
36. E. Laurent, “La psychose chez l’enfant dans l’enseignement de Jacques Lacan”, cit., p. 7.
37. J. Lacan, Il Seminario, Libro V, Le formazioni dell’ inconscio, 1957-1958, Einaudi, Torino
2004, p. 191.
38. Ibidem, p. 204.
39. J. Lacan, “La significazione del fallo”, in Scritti, cit., vol. II, p. 687.
40. A. Stevens, “L’holophrase, entre psychose et psychosomatique”, in Ornicar?, n. 42-43, 1987,
p. 66, (traduzione nostra).
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 35
mediata) non sono dialetizzabili. Dal punto di vista linguistico si tratta
di una frase composta da una sola parola ma che – tuttavia – contiene
la struttura minimale di una frase intera, come l’imperativo “Vieni”,
“Aiuto”, “Pane”… Lacan ne parla per la prima volta nel seminario
primo quando, a proposito della teoria dell’Amore primario di Balint,
ribadisce che non vi è passaggio automatico tra l’immaginario e il
simbolico, o tra l’intelligenza animale ed il linguaggio umano (alcuni
linguisti avevano visto nell’olofrase il passaggio tra il grido dell’animale
ed il primo significante umano!).
Pensare è sostituire agli elefanti la parola elefante e al sole un tondo. Vi rendete conto che tra quella cosa che fenomenologicamente è il sole […] e un tondo
vi è un abisso. Il sole in quanto è designato da un tondo non vale niente. Non
vale se non in quanto questo tondo è messo in relazione con altre formalizzazioni, che insieme a quella costituiscono la totalità simbolica, in cui ha il suo
posto. […] Il simbolo vale solo se lo si organizza in un mondo di simboli 41.
La parola in quest’ottica non rimpiazza la cosa, ma la fonda, la rende presente su un fondo di assenza, la trasforma. Essa ha degli effetti sulla realtà.
L’importante è che questo piccolo animale umano sia capace di servirsi
della funzione simbolica grazie alla quale possiamo fare entrare qui gli
elefanti qualunque sia la strettezza della porta. Tutto parte dalla possibilità di nominare, che è contemporaneamente distruzione della cosa e
passaggio dalla cosa al piano simbolico, grazie a cui s’installa il registro
propriamente umano 42 .
L’olofrase è il paradigma dell’unità della frase nella misura in cui codice
e messaggio si trovano uniti. Nell’olofrase il soggetto costituisce con il
41. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, Einaudi, Torino 1978,
p. 278.
42. Ibidem, p. 270.
36 | attualità lacaniana
n. 12/2010
significante un monolito, anzi il soggetto si riduce a questo grido (“Pane”,
“Aiuto”…) che l’identifica alla situazione, alla folla, alla sommossa e non
ha bisogno di nominarsi: l’olofrase lo nomina sufficientemente.
L’olofrase è – secondo la definizione che ce ne dà Lacan – la solidificazione dei due significanti -. Sappiamo, infatti, che ne servono
almeno due perché uno solo () non può rappresentare sé stesso se non
grazie ad un altro (). Tra il primo significante e il secondo non c’è
coincidenza, ma intervallo che permette la dimensione della metafora
(un significante viene al posto di un altro significante) o della metonimia (spostamento tra diversi significanti). Non ci può essere metafora
o metonimia nell’olofrase perché un significante non può sostituirne
un’altro in quanto occupano lo stesso posto. La prima coppia dei significanti, inoltre, è quella che determina la divisione soggettiva, facendo
entrare in gioco il soggetto come mancanza, ma se nell’olofrase la coppia - non ha intervallo, è olofrasata, allora il rapporto del soggetto
con la propria mancanza si trova modificato.
 

Il soggetto non appare più come mancanza ma come monolito, in cui la
significazione è uguale al messaggio enunciato. La mancanza di intervallo tra - significa che il desiderio dell’Altro non appare al soggetto
nella mancanza in cui sarebbe interrogabile e non lascia al soggetto alcuna chance di modellarvi il proprio desiderio. Mancando così la dimensione del desiderio nell’Altro rimane solo il godimento di cui il soggetto non
può che ridursi ad essere l’oggetto. L’olofrase diventa in questo modo una
nozione strutturale, come quella di metafora e metonimia, ma “situata
fuori dal campo discorsivo” 43, cioè “al limite, alla periferia” 44 del simbo43. Stevens, “L’holophrase, entre psychose et psychosomatique”, cit., p. 69.
44. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 279.
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lico, in quella “zona intermedia, ambigua tra il Simbolico e l’ Immaginario” 45. È per questo che essa si presta bene a spiegare, dal punto di vista
strutturale, il caso della debilità. Ricordiamo che nel seminario primo
Lacan aveva detto che l’olofrase si riferisce a quelle situazioni “in cui il
soggetto è sospeso in un rapporto speculare con l’altro” 46.
È qui che il soggetto debile non essendo fuori discorso come nella psicosi,
pur tuttavia oscilla tra i discorsi senza entravi del tutto. Il soggetto debile,
infatti, nel tenersi ad opportuna distanza dal comprendere in cosa consista
questo termine oscuro che ne condiziona il destino, evita la possibilità di
fare chiarezza sulla sua collocazione mantenendosi, viceversa, in quell’atmosfera di incertezza, di nebulosità e di vaghezza che caratterizza la sua
posizione nel mondo; fluttuante ma congelato nella specularizzazione
immaginaria con la madre. 47
3.2 l’atto psicoanalitico (1968)
Riferendosi al concetto di atto psicoanalitico, Lacan rivendica il carattere inedito di questa formulazione posta dal lato dello psicoanalista.
L’atto analitico, infatti, entra in gioco all’inizio di ogni analisi, rendendo possibile “il lavoro dell’analizzante” 48 facendo ritornare al soggetto la
propria domanda in forma invertita. Solo in questo modo l’analizzante
coglie qualcosa della propria responsabilità rispetto all’enigma che la
sua domanda o la sua lamentela cela ed inizia il lavoro analitico vero e
proprio. “Cominciare l’analisi è un atto; esso non è dal lato dell’analizzante ma dal lato dell’analista” 49. L’atto quindi è dalla parte dell’Altro e
45. Ibidem, p. 268.
46. Ibidem, p. 279.
47. F. Lolli, Percorsi minori, cit., p. 32.
48. J. Lacan, Il Seminario. Libro XV, L’atto analitico, (inedito) lezione del 31 gennaio 1968,
(traduzione nostra).
49. Ibidem, lezione del 10 gennaio 1968, (traduzione nostra).
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gli effetti sono dal lato dell’analizzante. È in questo contesto che Lacan
evoca la debilità. “Certamente, capita, come è stato dimostrato in posti
molto buoni, che i bambini scivolino nella debolezza mentale per l’azione degli adulti” 50.
3.3 due note sul bambino (1969)
Il testo “Due note sul bambino” è una lettera scritta da Lacan all’amica
Madame Aubry, pioniera nell’aiuto all’infanzia, che cercava di inventare forme nuove di sostegno per i bambini in difficoltà. Dopo aver parlato del sintomo del bambino come “verità della coppia familiare”, Lacan
passa al punto di maggior interesse per quanto attiene al nostro tema:
L’articolazione si riduce di molto quando il sintomo che giunge a dominare è
di pertinenza della soggettività della madre. In questo caso il bambino è interessato direttamente in quanto correlativo di un fantasma. La distanza tra
l’identificazione con l’ideale dell’io e la parte presa dal desiderio della madre,
se non ha alcuna mediazione (quella che assicura normalmente la funzione
del padre) lascia il bambino aperto a ogni presa fantasmatica. Egli diventa
“l’oggetto” della madre, e non ha altra funzione che di rivelare la verità di
questo oggetto. Il bambino realizza la presenza di ciò che Jacques Lacan designa come l’oggetto a nel fantasma. Egli satura, sostituendosi a quest’oggetto,
il modo di mancanza in cui si specifica il desiderio (della madre), qualunque
ne sia la struttura particolare: nevrotica, perversa o psicotica 51.
Se è vero che ogni bambino piccolo in quanto infans necessita di cure e
quindi di essere oggetto di queste, se è vero che – freudianamente – ogni
bambino in quanto tale partecipa del fantasma della madre (essere il fallo
50. Ibidem, lezione del 21 febbraio 1968, (traduzione nostra).
51. J. Lacan, “Due note sul bambino”, in La Psicoanalisi, n. 1, 1987, pp. 22-23.
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 39
che le manca), è altrettanto vero – secondo Lacan – che se il bambino è
vissuto unicamente come correlativo del fantasma materno, anziché essere considerato un soggetto desiderante incarna l’oggetto a della madre.
Si tratta ancora una volta di far dipendere la sorte del soggetto da quanto si svolge nel campo dell’Altro, qui ben collocato tra la prevalenza del
fantasma materno e l’esclusione della funzione del terzo.
3.4 da un altro all’altro (1968-69)
Nella lezione del 12 febbraio, tornando sulla questione della debilità,
Lacan “rinvia alla chiave di lettura apportata senza fare tanto strepito
dalla nostra cara Maud Mannoni […]. Si tratta del rapporto che i debili
mentali intrattengono con la configurazione che ci interessa, che evidentemente ci brucia, a noi analisti, a livello della verità” 52 .
Mannoni si esprime così a proposito della verità e della menzogna:
Bisogna liberare la parola del soggetto dalla menzogna nella quale è
imprigionata. L’analista deve poter andare al di là del linguaggio oggettivante, anonimo, per condurre il paziente “al linguaggio del suo desiderio”
(Lacan). È attraverso una menzogna che si può ritrovare la verità. […] Il
bambino mentalmente debole affronta spesso nei genitori l’inaffrontabile,
che per lui significa la propria morte. […] Bisognerà far capire ai genitori,
in rapporto alla loro stessa storia, la genesi delle difficoltà del figlio, senza
calcare sui sentimenti di colpa, valorizzando i genitori nel loro ruolo di
genitori, il bambino nella sua condizione di soggetto, pur lasciando intravvedere i malintesi 53.
Lacan, inoltre, in questa lezione del 1969 evoca il fatto che qualcosa
52. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XVI, D’un Autre à l’autre, 1968-1969, Seuil, Paris 2006, p. 174.
53. M. Mannoni, Il bambino ritardato, cit., pp. 91, 99, 169.
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“nella debilità mentale si mette a fluttuare”, termine che riprenderà –
come abbiamo già accennato – nel 1972.
3.5 ou pire (1972)
Qualche anno dopo Lacan pronuncia la frase che abbiamo già incontrato ma ora che vale la pena riprendere.
Chiamo debilità il fatto che un essere, un essere parlante, non sia solidamente installato in un discorso. In questo consiste il pregio del debile.
Non c’è altra definizione che gli si possa dare, se non quella di essere un
po’ à côté de la plaque (fuori strada), ossia di oscillare tra due discorsi. Per
essere solidamente installati come soggetto bisogna attenersi a uno oppure
sapere ciò che si fa 54.
Il debile oscilla quindi tra due discorsi. Nella teoria lacaniana ne conosciamo quattro che rappresentano “l’articolazione significante, ovvero
quell’apparecchio la cui sola presenza o il cui statuto esistente domina e
governa tutto ciò che può eventualmente nascere da parole. Sono discorsi senza la parola, la quale viene solo dopo a trovarvi sistemazione” 55. Nel
funzionamento di questo apparecchio ci sono due termini fondamentali
per comprendere la questione della debilità: il sapere e la verità. Il primo,
, è uno dei quattro termini; la verità è uno dei quattro posti (in basso
a destra). In rapporto al godimento la verità è sorella del godimento 56,
mentre il sapere (l’articolazione simbolica) è solo mezzo di godimento 57.
Eric Laurent sottolinea bene che il paradosso del debile è di premunirsi dal sapere identificandosi ad un posto nel quale, tuttavia, non è
54. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIX, Ou pire, cit., lezione del 12 marzo 1972, (traduzione nostra).
55. J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, Einaudi, Torino
2001, p. 208.
56. Ibidem, p. 288.
57. Ibidem, p. 57, 94.
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solidamente fissato 58. Potremmo usare, a questo proposito, l’immagine
del fanatico religioso: installato nel posto della verità, coincide con essa
financo alla morte, ma proprio per questa coincidenza è escluso dal
sapere che, invece, è articolato, aperto, mobile e, proprio per questo,
in grado di sorprendere. Non a caso Lacan ci insegna che “succhiare il
latte della verità è allettante ma tossico” 59 in quanto da un lato seduce,
ma dall’altro addormenta, ragion per cui bisogna stare allerta perché è lì
“per fregarci”. Anche il sapere è pericoloso quando, anziché presentarsi
come articolazione che gira attorno ad un vuoto, tende a presentarsi
come una totalità chiusa.
L’idea che il sapere possa fare totalità […] lo si sa da molto tempo. L’idea
immaginaria di un tutto, così come è data dal corpo, in quanto si appoggia sulla buona forma del soddisfacimento, su ciò che, al limite, diviene
sferico, è sempre stata utilizzata in politica dal partito del predicozzo. Che
c’è di più bello, ma anche di meno aperto? Che c’è di più simile alla chiusura del soddisfacimento? La collusione di questa immagine con l’idea di
soddisfacimento, ecco contro cosa dobbiamo lottare 60.
È solo nel discorso dell’analista che il sapere occupa il posto della verità
e produce certi effetti, perché qui il sapere si apre e “parla da solo, ecco
l’inconscio” 61.
 
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L’analista, che occupa il posto di a, è lì “per far sì che l’analizzante sappia
tutto quel che non sa pur sapendolo. L’inconscio è questo” 62 . Sapere e verità, tuttavia, ponendosi sul registro del senso, proteggono dal reale, mentre
58. E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 93.
59. J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 231.
60. Ibidem, p. 29.
61. Ibidem, p. 82.
62. Ibidem, p. 138.
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l’esperienza analitica ha di mira proprio “trovare il reale […] dove più che
essere il soggetto a trovarlo è il reale che lo trova, lo raggiunge” 63. Ma proprio perché il discorso analitico possa articolarsi in questo modo, occorre
essere nel discorso del padrone, altro nome del discorso dell’inconscio.
Per essere nel discorso dell’inconscio bisogna essere stati afferrati nel
discorso universale, e che questo discorso universale sia calato su di voi,
a battezzarvi, a transustantivificarvi attraverso un significante padrone.
Se non è accaduto così, se qualcosa è fallito in questa cattura iniziale, se
il significante-padrone è stato agganciato male, di traverso, allora non si è
nel discorso dell’inconscio 64.
Se non si è ben ancorati al significante padrone, uno dei possibili
destini è fluttuare ed essere così nella debilità. Peter Walleghem declina alcune modalità di questo fluttuare, ondeggiare, oscillare tra due
discorsi facendo riferimento ad alcuni casi clinici 65:
– un lasciarsi cullare dalle onde dei significanti senza veramente dire
qualcosa, senza rappresentarsi mai come soggetto;
– un ripetere continuamente le stesse parole o le stesse frasi, come se si
girasse intorno ai diversi discorsi senza mai installarsi veramente in uno;
– un continuo galleggiamento tra possibili verità: ogni enunciazione
rappresenta una nuova verità senza che se ne assuma mai una in particolare o si sviluppi un atteggiamento critico.
3.6 lo stordito (1972)
Lacan ad un certo punto di questo testo affronta il tema della sessualità femminile e ironizza su come alcuni autori classici, tra cui Karen
63. J.-A. Miller, “L’esperienza del reale nella cura analitica”, in La Psicoanalisi, n. 25, 1999, p. 205.
64. J.-A. Miller, “Quando i sembianti vacillano”, cit., p. 20.
65. P. Walleghem, “Le débile et son discours. Quelques réflexions cliniques”, in Les Feuillets di
Courtil, n. 6 1997, pp. 113-121.
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Horney, Helene Deutsch ed Ernest Jones, abbiano trattato la questione.
A partire da questa constatazione, con una certa vena ironica, desume
“che la sottigliezza logica non esclude la debolezza di mente che, come
dimostra una donna della mia scuola, risulta dal dire parentale anziché
da un’ottusità nativa” 66.
Si tratta dei casi presentati nel libro della Mannoni, dove – ad esempio
– si fa riferimento al semplice fatto che più il bambino sente dire che
non è capace di fare certe cose, tanto più sarà incapace di farle.
La via che conduce al significato della debolezza mentale passa per la
strada dei genitori. Solo chiarendo a livello dei genitori la posizione che il
bambino occupa nei loro fantasmi, si arriva ad ottenere quel distacco che
permetterà in seguito l’analisi del debole mentale 67.
4. la formazione del concetto
e la costruzione della realtà
Siamo partiti dalla definizione dell’A AIDD per introdurci nel campo
della debilità, tuttavia se tentiamo di precisare la natura del nucleo di
fondo, incistato nella sua immutabilità, a fronte della variabilità fenomenica dell’insufficienza mentale, troviamo che esso si coagula intorno
a quello che potremo definire un difettoso funzionamento del sistema
simbolico, a motivo di una predominanza del registro immaginario che
non permette la formazione del concetto che “è ciò che fa sì che la cosa
sia là, pur non essendoci” 68.
Occorre, tuttavia, sottolineare – in quest’epoca in cui il cognitivo la fa
da padrone su tutto – che per la psicoanalisi il simbolico
66. J. Lacan, “Lo stordito”, in Scilicet 1/4, Feltrinelli, Milano 1977, p. 363.
67. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 67.
68. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 298.
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non va confuso con il cognitivo, non va ridotto o sovrapposto all’intellettivo. Il cognitivo e l’intellettivo, nell’ottica psicoanalitica, possono
svilupparsi nel soggetto a condizione che egli sia ben installato nel sistema
simbolico; dunque l’acquisizione di capacità intellettive è uno degli esiti
della primordiale iscrizione del soggetto nell’universo simbolico, uno degli
effetti possibili di un suo adeguato posizionamento nel mondo che lo accoglie. Se il bambino non incontra questa possibilità di includersi nell’universo significante, le conseguenze sono quelle che Spitz ha ben messo in
luce nelle sue fondamentali osservazioni sui bambini ospedalizzati e istituzionalizzati; il bambino sviluppa una serie di sintomi tra cui, di particolare
interesse, quello che Spitz definisce inibizione intellettiva 69.
Per Lacan, infatti, la parte essenziale dell’esperienza umana, “l’esperienza del soggetto nel vero senso della parola, quella che fa sì che il soggetto esista, si colloca a livello del sorgere del simbolico […] l’apparizione
di una dimensione completamente differente da quella del reale” 70.
Come aveva già detto nel seminario primo “il linguaggio non è concepibile altrimenti che come un reticolo, una rete sull’insieme delle cose,
sulla totalità del reale: esso inscrive sul piano del reale quell’altro piano,
che qui chiamiamo il piano simbolico” 71.
Il linguaggio è, in quest’ottica, una sorta di mantello che copre il
mondo delle cose – il reale – ed è nel linguaggio che l’essere vivente
diventa essere umano. La sua umanizzazione passa attraverso questo
fondamentale snodo che è l’ingresso nell’universo simbolico. Il significante è, infatti, il medium attraverso cui il soggetto può rapportarsi al
mondo assicurando quella giusta distanza dal mondo che rende praticabile il mondo stesso.
Nel seminario settimo Lacan sottolinea spesso la necessità di una giusta
distanza da Das Ding, come luogo mitico di origine da cui proveniamo.
69. F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, cit., p. 37.
70. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 252.
71. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 323.
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Ciò che troviamo nella legge dell’incesto si situa come tale a livello del
rapporto inconscio con Das Ding, la Cosa. Il desiderio per la madre non
può essere soddisfatto perché sarebbe la fine, il termine, l’abolizione di
tutto l’universo della domanda, che è quel che struttura più profondamente l’inconscio nell’uomo. È proprio in quanto la funzione del principio del piacere è di far sì che l’uomo cerchi sempre ciò che deve ritrovare
ma che non può certo raggiungere, che l’essenziale sta proprio qui, in
questa molla, in questo rapporto che si chiama la legge dell’interdizione
dell’incesto. […] Questo ci porta ad interrogare il senso dei dieci comandamenti in quanto essi sono legati nel modo più profondo a ciò che regola
la distanza tra il soggetto e Das Ding, in quanto tale distanza è appunto la
condizione della parola 72 .
In fin dei conti fin dal seminario secondo il simbolico è descritto come
“una successione di assenze e di presenze, o piuttosto della presenza su
un fondo di assenza, dell’assenza costituita dal fatto che una presenza
possa esistere. Non c’è assenza nel reale. C’è assenza se suggerite che
può esserci una presenza dove non ce n’è. Io propongo di situare nell’in
principio la parola in quanto crea l’opposizione, il contrasto” 73. A partire
da questo presupposto può sostenere che è solo dal momento in cui l’oggetto può essere nominato, “che la sua presenza può essere evocata come
dimensione originaria, distinta dalla realtà. La nominazione – dice Lacan
– è evocazione della presenza, e sostegno della presenza nell’assenza” 74.
La nominazione dell’oggetto, infatti, dona all’oggetto stesso un valore
trans-oggettuale: l’oggetto può esistere o può essere evocato anche se
non è presente. In tal modo l’oggetto si svincola dal rapporto immaginario ed esiste al di là di esso, ed al contempo, si svincola pure dalla
dimensione temporale, dalla necessità della presenza. È per questo che
72. J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, Einaudi, Torino 1994,
pp. 83, 86.
73. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., pp. 358-359.
74. Ibidem, pp. 294-295.
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Lacan può dire che “il nome è il tempo dell’oggetto” 75. L’intelligenza,
intesa come capacità di problem solving, è in ultima analisi un saperci
fare con l’assenza dell’oggetto (il proprio corpo in primis !). La distanza
dall’oggetto è posta così all’origine dell’evoluzione del pensiero, dal
momento che solo l’assenza dell’oggetto consente la messa in atto di
quei pensieri di ricerca ed invenzione che sono alla base della umanizzazione. Il simbolico opera, infatti, come una sorta di gigantesca rete
che raccoglie l’intera massa dei dati dell’esperienza promuovendone una
trasformazione significante. “Vi do una definizione possibile della soggettività, formulandola come sistema organizzato di simboli, che tende
a coprire la totalità di un’esperienza, ad animarla, a darle un senso” 76.
Si costituisce così quel “campo simbolico che non è in semplice rapporto di successione col dominio immaginario” 77 ma dimensione che
permette di orientarsi nel mondo e nello spazio.
5. la costruzione del “debile”
Per quanto sia evidente il duplice uso del termine debilità lungo l’insegnamento di Lacan, tale scansione anziché complicarne la concezione la
illumina. Ci sono infatti due fili che con spessore e grana diversa si intrecciano nello snodarsi del percorso. Da un lato, una certa “carenza simbolica” presente a partire dal seminario primo nei termini di “deficienza
simbolica” fino al seminario diciannovesimo nell’immagine del non essere “solidamente installati in un discorso”; dall’altro, il potere di cattura
dell’immaginario che porta con sé il rischio della debilità. Ogni volta che
Lacan evoca qualcosa del registro immaginario mette in guardia da questo rischio, come quando afferma che “l’immagine può condurre ad un
75. Ibidem, p. 195.
76. Ibidem, p. 195, p. 49.
77. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 276.
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notevole rincitrullimento” 78 o che “il sentito come mentale, il sentimentale, è debile, perché per qualche verso sempre riducibile all’immaginario” 79.
Come quindi intrecciare questi due fili? Ci pare stia proprio in questo
particolare annodamento la differenza tra psicosi e debilità. Nella psicosi il simbolico è “saltato” per definizione e le conseguenze di ciò sono
l’assenza di questa “rete che copre il reale” 80 o di questo “sistema organizzato di simboli, che tende a coprire la totalità di un’esperienza” 81, ma
anche una libertà e capacità inventiva che solo nella psicosi possiamo
trovare. Infatti, è proprio quando manca il Nome-del-Padre “che si apre
la dimensione inventiva del sintomo. Noi non domandiamo alcun privilegio per il Nome-del-Padre”. Infatti, lo psicotico, “a differenza degli
altri uomini, non ha una maschera: è lucido, non ha dei sembianti per
supportarsi rispetto al reale, non ha i sembianti di tutti. Lui i propri
sembianti deve fabbricarseli. […] Vediamo che per i soggetti che sono
sprovvisti dei sembianti di tutti è necessaria la creazione del proprio
sembiante” 82 . Certo, la creazione psicotica si staglia sullo sfondo della
forclusione e, come Jacques-Alain Miller ha scritto, l’oggetto d’arte
viene proprio a supplire alla forclusione del Nome-del-Padre 83.

P 0
Così il sinthomo nella sua equivalenza al Nome-del-Padre non è più
riconducibile esclusivamente all’articolazione simbolica o al suo valore
di Legge, ma al suo valore di “apparato”, “cardine”, “annodamento” che
consente di articolare in maniera inedita il significante al godimento 84.
78. J. Lacan, Il Seminario, Libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, 1970-1971,
Einaudi, Torino 2010, p. 20.
79. J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo, 1975-1976, Astrolabio, Roma 2006, p. 35.
80. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 323.
81. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 195, p. 49.
82. J.-A. Miller (a cura di), Il sintomo psicotico. Conversazione di Roma, Astrolabio, Roma 2001, p. 214.
83. J.-A. Miller, “Sette considerazioni sulla creazione”, in La Psicoanalisi, n. 9, 1991, p. 149.
84. Cfr. IRMA, La conversazione di Archachon, Astrolabio, Roma 1999, pp. 123-27, 141-43, 223-26.
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È il reale a permettere di snodare effettivamente ciò in cui il sintomo
consiste, cioè un nodo di significanti. Qui annodare e snodare non sono
metafore, ma vanno presi come quei nodi che si costruiscono realmente
facendo catena della materia significante. Queste catene infatti non sono
di senso, non sono di sens ma di jous-sens, da scrivere come volete conformemente all’equivoco che costituisce la legge del significante 85.
Per Lacan, Joyce ha avuto il privilegio di “testimoniare” la possibilità
che il sinthomo – come nodo e “cosa più singolare di ogni individuo” 86 –, offre nel supplire alla mancanza dell’Altro, al difetto fondamentale della struttura. Attraverso la scrittura, Joyce è riuscito a farsi un
nome, che costituisce per lui una “compensazione della carenza paterna” e, attraverso l’arte, una supplenza alla sua “tenuta fallica debole” 87.
La sua opera come sinthome rappresenta quel quarto anello che viene ad
annodare gli altri registri altrimenti disgiunti, impedendo allo scrittore
di giungere allo scatenamento della psicosi. La creazione artistica, infatti, rappresenta una delle modalità privilegiate attraverso cui è possibile
non solo arrivare a una stabilizzazione post-scatenamento, ma anche a
operare una supplenza evitando radicalmente lo scatenamento 88.
Nella debilità, invece, il simbolico non è del tutto saltato, vi è una
“deficienza simbolica” 89 che riduce il potere del simbolico di fare da
medium nei confronti della realtà e – al contempo – lascia il campo
aperto al dominio del registro dell’immaginario, i cui effetti sono evidenti nella clinica della debilità.
Si tratta allora di capire “cosa c’è di perturbato a livello del linguaggio”,
come si chiedeva Mannoni nel suo libro. Ebbene, è proprio all’interno
del discorso familiare che occorre andare a verificare il posto che il
85. J. Lacan, “Televisione”, in Radiofonia, Televisione, Torino, Einaudi, 1982, p. 74.
86. J. Lacan, “Joyce il sintomo”, La Psicoanalisi, 23, n. 1998, p. 18.
87. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXIII, Le sinthome, 1975-76, Ornicar?, n. 6, 1976, p. 6, (traduzione nostra).
88. J.-A. Miller, “Sette considerazioni sulla creazione”, cit., p. 149-50.
89. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 103.
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 49
bambino debile occupa, perché molto spesso è quello di essere “il pegno
vivente di una menzogna a livello della coppia parentale” 90. Il bambino
rimane così incastrato a difendere una verità, preferendo fluttuare tra
gli elementi che la costituiscono, piuttosto che affrontarne o tradirne
i segreti. Si tratta di una verità che lo seduce, per quanto possa essere
triste o drammatica, urlata o colta tra i silenzi del non detto, presentandosi sempre, come i riferimenti all’immagine del corpo riflesso o al
“sapere chiuso” suggeriscono, con quella buona forma che costituisce
una “trappola” 91 ed un inganno, quello stesso (microcosmo/macrocosmo) evocato da Lacan proprio per spiegare la posizione del debile 92 .
Il bambino mentalmente debole affronta spesso nei genitori l’inaffrontabile,
che per lui significa la propria morte. […] Che si tratti di desiderio di morte
trasformato in amore sublime, nel caso di un bambino molto grave o di un
rifiuto materno che conferisce a un bambino leggermente deficiente l’aspetto di un ritardato grave perché si sente in diritto di esistere solo facendo il
morto; che si tratti del dramma esistente tra i genitori e i loro ascendenti,
dramma che crea in loro il panico appena si trovano a loro volta nei panni
di genitori; o che si tratti di un incidente mortale nel quale il bambino ha
creduto di essere coinvolto 93.
In tutti i casi la funzione del bambino è di proteggere i genitori a prezzo
di una fissità che come l’olofrase “si riferisce a situazioni limite, in cui il
soggetto è sospeso in un rapporto speculare con l’altro… in questa zona
intermedia, ambigua, tra il simbolico e l’immaginario” 94.
Altro che sempre più spesso non è solo la madre, ma la coppia genitoriale all’interno della quale la funzione del terzo anziché mettere in
90. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 69.
91. J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’Angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 275.
92. Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro IX, L’ identificazione, 1961-1962, (inedito), lezione del 13
dicembre 1961, (traduzione nostra).
93. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 99.
94. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., pp. 279, 269.
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moto il discorso del padrone, contribuisce a sigillare questo pezzo di
verità come un  tutto solo, nome che dopo il seminario undicesimo
Lacan dà all’olofrase.
Si tratta quindi di un sapere ridotto all’osso che viene ad occupare il
posto della verità, ma non come dovrebbe essere nel discorso dell’analista, bensì come chiusura radicale all’inconscio e ad ogni altro sapere.
Gli basta quello che sa! Potremmo qui evocare qualcosa dell’ordine del
“significante immaginario” che Lacan introduce a proposito del fallo.
Ci pare di poter dire che ciò che il bambino debile capta nel discorso
familiare ha una struttura significante (fosse anche un’immagine o una
scena dal momento che quando “l’immagine è resa unica può essere
significantizzata” 95) che funziona nel registro immaginario e che ha
un’articolazione piuttosto povera.
“Il debile, bambino o adulto, si identifica deliberatamente a un significante passe-partout che, come risposta, anticipa ogni domanda. Questa
risposta equivale ad un nome proprio – è un’olofrase – e questa blocca
l’equivoco significante della lingua che, altrimenti, obbligherebbe il
soggetto a prendere posizione in rapporto al desiderio” 96. Questo significante passe-partout, il debile lo preleva dal discorso familiare, solo che
anziché venirne marcato in modo tale da entrare nell’articolazione che
produrrebbe il soggetto, resta ancorato a questo significante e fluttua.
Fluttuare non significa andare avanti, cosa che invece attiene al discorso del padrone il cui scopo è “che la cosa funzioni” 97, ma rimanere
incagliati tra qualcosa che, pur lasciando un minimo di lasco, non ne
permette un pieno movimento. Come quando, la barca fissata tra due
ormeggi, fluttua sulle acque leggermente mosse senza prendere il largo.
Nella debilità abbiamo questo  tutto solo, l’Uno della fascinazione
95. J.-A. Miller, “L’immagine regina”, in Delucidazioni su Lacan, Antigone, Torino 2008, p.
396; Cfr. J.-A. Miller, “Silet”, in La Psicoanalisi, n. 24, 1998, p. 234: “l’immagine può benissimo
avere funzione di significante”.
96. A. Di Ciaccia, “Lacan et l’intelligence”, in Preliminaire, n. 5, 1993, p. 100.
97. J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 20.
Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 51
immaginaria, che non apre all’ideale, ma richiude sull’immagine del proprio corpo o sulla bella forma di un sapere chiuso e sferico. “L’Uno del
debile – infatti – non è l’Uno dello psicotico a causa dell’immaginario” 98.
Anche il reale del sesso rimane chiuso in questo circuito e non diventa
né traumatico (il debile generalmente non conosce angoscia), né causa
di interrogazione sull’origine, sulla vita e sulla morte come Freud pensava, tanto da arrivare ad ipotizzare un parallelismo tra precocità sessuale
e precocità intellettuale 99. Anzi, nella debilità il corpo stesso si fa carico
di questa verità monolitica ed anziché aprire all’interrogazione si mostra
nella sua realtà sessuata attraverso l’esibizione masturbatoria, ovverosia
il “godimento dell’idiota” 100.
L’adesione rigida e inflessibile ad una significazione diviene l’identità invariabile del soggetto stesso. La persona con ritardo mentale appare come
marchiata da un tratto incancellabile e irrinunciabile che la rende identica
a se stessa nel tempo e nello spazio, fuori dal ciclo delle mutazioni e delle
trasformazioni che, generalmente, caratterizzano un percorso di ricerca
personale. […] Troviamo un eccesso di identità congelata in una significazione univoca, una fissazione del soggetto che aderisce ad una sorta di sigla
che lo contrassegnerà in maniera definitiva. Non c’è posto per l’incertezza,
per l’interrogazione, per il dubbio. In questi casi viene in primo piano
l’aspetto monolitico della struttura, la corrispondenza puntuale tra l’essere
e l’identità, la coincidenza assoluta tra il soggetto e la significazione scelta
che non lascia spazio a vissuti di titubanza 101.
Non sarà possibile aprire questo “sapere chiuso”, questo  tutto solo,
questo “significante passe-partout” se non liberando la parola del sog98. E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 92.
99. Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1970, vol.
IV, p. 544; S. Freud, Teorie sessuali dei bambini, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1972, vol.
V, pp. 458-459.
100. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 80.
101. F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, cit., p. 51.
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getto dalla menzogna nella quale è imprigionata, menzogna che oggi
sempre più si gioca a livello della coppia genitoriale.
Non è un caso che molti bambini o adolescenti che si presentano oggi
come debili siano l’effetto di certi tipi di separazioni o che – più in
generale – in una società dominata dall’immaginario, la debilità sia –
come già Lacan aveva detto – la normalità.
53
inibizione allo studio,
anoressia, suicidio
come tentativi di esistenza
del soggetto * 1
di Giovanna Di Giovanni ** 2
Nel campo dell’età evolutiva si richiede sempre più spesso agli “esperti” un intervento per le “nuove forme del sintomo” del disagio giovanile. L’ inibizione allo studio, le forme di anoressia, il suicidio tentato o raggiunto sono presi in esame, analizzati al microscopio fenomenologico e comportamentale, nel tentativo di isolare
il “male” del ragazzo. L’Altro familiare, educativo, sociale respinge ogni implicazione e non vuole accorgersi che al fondamento del disagio possa esserci un rifiuto
degli oggetti di consumo già pronti, della via già tracciata, che al giovane sono
presentati come soluzioni di vita “normale” a cui non resta che adeguarsi. Quello
che invece il ragazzo chiede con il rifiuto – talora fino alla morte – è che l’Altro
prenda atto della sua esistenza come soggetto irripetibile, singolare nell’emergere
del desiderio e nella ricerca degli oggetti di soddisfazione.
Parole chiave: disagio giovanile, inibizione allo studio, anoressia, suicidio
Per chi si trova ad operare nel campo dell’età evolutiva e con le diverse
istituzioni che si occupano degli adolescenti e dei giovani, la richiesta
di intervento per queste che sono state dette “nuove forme del sintomo”
* Intervento tenuto nel corso di una tavola rotonda con genitori, insegnanti, ragazzi di Scuole
Superiori sulle “Manifestazioni attuali del disagio giovanile”, dicembre 2008.
** Giovanna Di Giovanni è iscritta all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di
Milano; è Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la
clinica, la terapia e la scienza.
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è sempre più frequente e pressante, talvolta connotata da una sorta di
disperazione, quasi di rabbia o di sfida più che da un desiderio di aiuto
a capire, e comunque di urgenza: vediamo dunque cos’ha da dire, e
soprattutto da proporre o da fare, e in fretta, “l’esperto”.
Questa è infatti una parola-chiave della nostra epoca scientifica, che
sempre più suddivide e rende oggetto l’individuo per stupirsi poi che
questo manifesti in qualche forma di rifiuto il suo essere irriducibile ad
ogni classificazione.
Si è detto “nuove forme del sintomo”, anche se sempre le forme del sintomo sono prese dall’attualità del sociale di ogni epoca, dal Medio Evo,
quando alcune donne apparivano in comunicazione con un misterioso
al di là e per questa comunicazione terrorizzante venivano bruciate sul
rogo, fino all’800, quando invece svenimenti e paralisi mostravano un
appello pur indiretto, ma verso un interlocutore più umano.
Quindi possiamo dire piuttosto forme del sintomo nuove in quanto
attuali. Occorre allora interrogarsi su questa nostra attualità del sociale,
nella quale il giovane viene ad immettersi, e sul ruolo degli adulti con
cui ha a che fare.
Due elementi ci sembrano da notare: la conquista tecnologica e la diffusione della cosiddetta “comunicazione di massa” che, lungi dall’essere
una comunicazione per cui l’individuo è chiamato in causa a dare una
risposta, a prendere una posizione, è pura trasmissione che non cerca
replica ma solo passiva adesione. Correlativa a questo è la difficoltà di
reale comunicazione intersoggettiva, per cui i fenomeni di identificazione immaginaria di gruppo si accrescono enormemente. Vi è inoltre
un isolamento crescente della famiglia, che sempre più appare come un
fortino assediato, un luogo di difesa ad oltranza invece che di addestramento e passaggio ad un sociale più ampio, come Freud auspicava.
Negli adulti spesso la paura predomina sulla fiducia, la chiusura sulla
curiosità e l’interesse, per stupirsi poi se il giovane non riesce a trovare il
coraggio di immettersi tra gli altri. Spesso anche l’istituzione scolastica
non corregge, ma anzi rinforza questa visione. Di fronte alle problema-
Giovanna Di Giovanni | Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza del soggetto | 55
tiche nuove che il rapido mutare sociale presenta anzitutto nella popolazione giovanile e scolastica, capita che gli adulti intorno si ritraggano
nel paragone e nel rimpianto del passato.
Si chiudono allora in un altro fortino contrapposto a quello familiare,
nella guerra di posizione sulla colpa da attribuire gli uni agli altri, che
tanto spesso oppone l’istituzione scolastica a quella familiare. Il ragazzo
resta in mezzo, oggetto del contendere degli adulti e non soggetto per
le cui difficoltà essere in ansia o chiedere un aiuto. Vi è poi la caduta di
ruoli definiti a cui fare riferimento, che – prima ancora del giovane –
mette in crisi l’adulto. Questo secondo aspetto infatti può significare
certo maggior libertà, ma suscita anche grande paura. Tipico infatti
della nostra attualità è reclamare la libertà più ampia ma insieme, fuggirne l’aspetto correlativo della responsabilità. Il non definito, non a
priori delimitato, chiama infatti in causa il soggetto e suscita inevitabilmente angoscia.
È comunque nel mondo sociale dell’adulto che l’adolescente e il giovane
si immettono. Anche il bambino, certo, vive nel mondo sociale, ma in un
modo mediato dai genitori e dagli adulti. Con la pubertà, con lo sviluppo
sessuale questa mediazione viene a cadere. C’è un reale del corpo che non
può essere affidato ad alcuno. E insieme c’è una realtà esterna, di relazione che si presenta altrettanto improvvisamente diversa: i genitori, la
famiglia non sono più assoluti e intoccabili, ma simili o inferiori agli altri
adulti, in un conflitto che pone il giovane tra appartenenza e distacco.
Non vi sono più certezze di alcun genere. Tutto l’assetto pulsionale e
affettivo che fino all’adolescenza può avere retto è rimesso in discussione e richiede un nuovo aggiustamento, perché l’ individuo possa assumere una sua identità personale e sociale. Il legame con l’altro familiare
e la separazione necessaria per esistere come individui sono di nuovo in
questione, diversamente che nell’infanzia e richiedono nuove risposte e
anche più complesse, che chiamino in causa, oltre la famiglia, organismi sociali come la scuola, le istituzioni sanitarie, i gruppi di pari.
L’adolescenza si configura quindi come una situazione a rischio, nel
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senso del rischio di non riuscire a passare all’età adulta, di rimanere invischiati nell’inconsapevole immagine di una impossibile pienezza infantile, rischio di rifiuto dell’ esistere nei suoi diversi aspetti: di conoscenza
per quanto riguarda lo studio, di definizione fisica, per il corpo con il
cibo, di relazione fra gli altri per la morte sfidata o apertamente cercata.
Inibizione allo studio, anoressia, tentati suicidi, aperti o mascherati,
a cui si possono aggiungere le diverse forme di devianza giovanile.
Forme del sintomo, del disagio di vivere diverse ma accomunate
dall’elemento del ritiro, della chiusura, del rifiuto dell’Altro. Il soggetto rifiuta il sapere, il cibo, il modo di vita che l’Altro gli presenta.
Il desiderio, unica molla dell’esistenza, sembra rivolto solamente al
“no”, al rifiuto fino alla morte. Qualcosa ne impedisce la circolazione
e fissa il soggetto in una sfida comunque mortale. Più l’Altro familiare
e sociale si accanisce sul sintomo, più l’individuo esaspera il suo comportamento come per indicare che la questione non è lì ma altrove, in
uno spazio che non si è aperto per il discorso, per il desiderio, che non
può essere se non singolare e irripetibile e che può nascere solo dalla
mancanza accettata e riconosciuta.
Posizione di sfida quindi anzitutto ad un ambiente sociale che propone soluzioni già pronte, oggetti che colmano ogni mancanza per una
norma codificata e che vuole ignorare la solitudine e l’angoscia che
accompagnano il percorso della vita umana.
Infatti, la domanda di genitori, insegnanti e degli adulti intorno è
spesso: – ma cosa vuole ancora da me, da noi? gli abbiamo dato tutto il
possibile, perché non se ne accomoda e ringrazia?
La risposta paradossale di chi rifiuta è appunto questa: – perché il soggetto nella relazione con se stesso e con gli altri non può vivere se non
nell’impossibilità di colmarsi della mancanza squisitamente singolare
e dell’accettazione di questa come molla per il desiderio individuale,
irripetibile, solitario. L’adolescente, il giovane nel loro affacciarsi alla
vita sociale più vasta ripropongono all’adulto le questioni di fondo
dell’esistere, spesso accantonate e che perciò stesso spaventano, ma che
Giovanna Di Giovanni | Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza del soggetto | 57
comunque più sono ignorate e respinte e più si ripresentano nel reale del
corpo e del sociale.
“Non è questo che voglio”, dice con l’atto autolesivo il soggetto, non
il tuo sapere o cibo o modello di vita già pronto ma, caso mai, voglio
vedere la tua personale implicazione, il tuo personale impegno e desiderio nel rapporto con me e con gli altri intorno perché anch’io possa
trovare il coraggio di desiderare e di vivere. Discorso senza parole, ma
che ancor più chiede una risposta personale dell’altro, lo sfida sul terreno dell’atto, che è sempre personale e irripetibile 1.
Proprio questo angoscia le persone intorno all’adolescente, la dimensione di sfida e di richiamo oltre ogni ruolo codificato di genitore,
insegnante, medico, educatore, chiamati in causa invece solo per il
proprio desiderio verso quel soggetto non uniformabile alla generalità,
al gruppo, alla massa.
È vero che c’è un’ambivalenza anche del soggetto adolescente, che vuole
richiamare per sé un’attenzione unica e irripetibile ma anche rifugge
dall’altro aspetto della soggettività, che è appunto l’assunzione della
responsabilità e la solitudine che ciò comporta. Per questo, più che le
parole, il ragazzo guarda al modo di porsi, di essere degli adulti per
coglierne le contraddizioni, la paura, il rifiuto, l’isolamento, l’esclusione
del diverso sotto le apparenze di accettazione, gli aspetti più profondi di
timore oltre le parole comuni di incoraggiamento.
Il giovane, di fronte a questo evitamento degli adulti, fugge a sua volta
e s’innesca un circolo non facile da rompere. Perché di risposte non
adeguate e di modelli di identificazione alienanti il soggetto ne ha già
incontrati e lo manifesta nel rifiuto di apprendere, di nutrirsi, di vivere
che sono appunto l’involucro formale, sintomatico, apparentemente
simile in tutti i casi, ma nella problematica profonda diversi per ciascuno. Spesso gli adulti intorno si fermano a questa apparenza, alla forma
1. J. Lacan, “Prefazione al Risveglio di primavera”, in La Psicoanalisi, n. 7, Astrolabio, Roma,
1990; con particolare attenzione al personaggio dell’uomo mascherato.
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del sintomo, incolpando il gruppo dei coetanei, i modelli estetici e di
vita correnti, ma si ritraggono di fronte alla necessità di provare a comprendere il singolo nel suo personale disagio, nel suo ostacolo a vivere in
relazione con se stesso e con gli altri. Ognuno infatti, pur nella diffusione della forma sintomatica, ha un suo modo di relazione con l’Altro
che non tollera generalizzazioni rassicuranti. Ogni ostacolo all’apprendimento, al nutrirsi, al vivere è singolare e richiede strategie particolari
per poter dare un aiuto a passare dall’atto alla parola, dal rifiuto all’accettazione ad entrare nel mondo simbolico del discorso e del desiderio.
Anche la psicologia come scienza a cui ci si rivolge per un’ultima spiegazione viene messa in scacco in quanto sapere già pronto. Sicuramente
non bastano i discorsi e gli appelli, come mostrano le lamentele degli
adulti intorno e anche il fallire di molta psicologia. Qui è chiamata in
causa anzitutto la dimensione dell’essere, di fronte a chi si mostra solo
nell’agito e non ha ancora trovato la via per una parola che lo rappresenti nel campo dell’Altro simbolico della relazione.
In un recente convegno sui minori in difficoltà e a rischio, tutti gli
intervenuti (giudici, assistenti sociali, psicologi, educatori) si sono trovati concordi nell’indicare come possibili vie di relazione con i giovani in
difficoltà non tanto e subito la dimensione della cura in specialistica e
scientifica, ma piuttosto quella della vita, ad es. cambiamenti di ottica
e di metodo per la scuola, luoghi di aggregazione guidata, esperienze
di vita diverse con gli educatori, in cui il soggetto possa mettersi a sua
volta diversamente alla prova e tentare di rompere la ripetitività e il
blocco che lo immobilizzano mortalmente, per arrivare poi ad interrogarsi su se stesso.
L’analista stesso, in queste situazioni, è chiamato ad aiutare con la sua
particolare ottica anzitutto gli adulti intorno al ragazzo, a contenerne
l’angoscia, perché si apra uno spazio per il discorso, oltre il disturbo, la
malattia.
Quindi, forme nuove del sintomo, nel senso che nessuno degli adulti
intorno può rifarsi a modelli di relazione e di intervento già codificati,
Giovanna Di Giovanni | Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza del soggetto | 59
ma deve accettare di inventare i suoi modi di essere e di manifestare il
desiderio, se vuole che l’ adolescente si interroghi sul proprio.
Responsabilità della struttura sociale familiare, scolastica, educativa,
non perché i giovani non abbiano anch’essi la loro nel disagio in cui si
trovano, ma semplicemente perché gli adulti vengono prima nel tempo,
sono più avanti nel cammino della vita. Questo dà loro una responsabilità non più grande di quella del ragazzo, perché l’atto del soggetto
è etico in ogni epoca dell’esistenza, ma diversa per posizione. Il ruolo
dell’adulto infatti non è comunque pari a quello del giovane, come a
volte viene invece presentato in modo ingannevole per tutti, di amico
o compagno invece che di genitore o educatore. L’adolescente infatti
rende presente più del bambino agli adulti lo scarto generazionale e fa
intravedere la morte. L’ingannevole parità è il segno dell’orrore suscitato
dal trascorrere della vita e insieme il tentativo di negarla. Ma questo falsifica ulteriormente il discorso ed è in questa confusione che il ragazzo
spesso non riesce a trovare nessun modo per una parola sua con cui esistere e paradossalmente ricerca questa esistenza soggettiva nelle forme
appunto estreme e mortali del rifiuto.
Il passaggio all’atto è dal lato del soggetto in quanto questo appare cancellato in modo estremo dalla barra. Il momento del passaggio all’atto è
quello del massimo imbarazzo del soggetto. È allora che, da dove si trova
– ovvero dal luogo della scena in cui soltanto può mantenersi nel suo statuto di soggetto, come soggetto fondamentalmente storicizzato – esso si
precipita e cade fuori della scena 2 .
Chiamarsi fuori dal campo dell’Altro infatti, anche con la morte tentata
o raggiunta, può essere talora l’estremo atto di vita del soggetto.
2. J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 125.
61
volgere uno sguardo coraggioso
al campo di concentramento.
anoressia e silenzio de lalingua
di Giuliana Grando * 1
I sopravissuti dei campi di concentramento mostrano tutti gli effetti del trauma sul corpo e sul linguaggio. Uno degli effetti del trauma è il mutismo che la
lingua incontra perché incapace di dire il reale. Nel campo di concentramento, infatti, il corpo e il linguaggio si riducono al resto che Lacan ha chiamato
l’oggetto a. Questa è la tesi di Anne-Lise Stern deportata ad Auschwitz-Birkenau. Nel testo viene esaminata la ricchezza de lalingua, la prima lallazione
del bambino che congiunge il corpo al linguaggio, non destinata alla comunicazione, per giungere a dire che la lingua che viene colpita nel trauma è
lalingua orginaria. Il trauma de lalingua è infine confrontato ad alcuni casi
di anoressia restrittiva, in cui non si rileva il rifiuto, ma una non avvenuta
trasmissione de lalingua.
Parole chiave: campo di concentramento, trauma, oggetto a, Anne-Lise Stern,
lalingua, anoressia
premessa
La mia riflessione parte da un esame degli effetti prodotti sulla lingua
dal trauma, considerando il mutismo che essa incontra nei genocidi,
* Giuliana Grando è iscritta all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della
Regione Veneto; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per
la clinica, la terapia e la scienza.
attualità lacaniana n. 12/2010
62 | attualità lacaniana
n. 12/2010
come la Shoah, testimoniati dai sopravissuti dai campi di concentramento, dalle deportazioni e dalle pulizie etniche, per considerare infine
la relazione tra l’anoressia e lalingua.
Una possibilità di ricerca mi è data da Anne-Lise Stern, una collega
psicoanalista lacaniana, sopravissuta alla deportazione ad AuschwitzBirkenau e dalla lettura del suo testo che si intitola:
Il sapere deportato 1.
anna-lise stern e la deportazione
Anne-Lise Stern è nata a Berlino, passa la sua infanzia a Mannheim.
Il padre è medico psichiatra e esercita la medicina sociale all’interno
dell’Ospedale locale: entrambi i genitori sono ebrei, militano nel Partito Socialista Tedesco e conoscono l’opera e la pratica clinica di Freud.
Il padre viene perseguitato dal nazismo ma riesce a fuggire e a riparare
in Francia, a Nizza. Anne-Lise in quel momento ha 12 anni. A 22
anni la giovane vive a Parigi, con documenti falsi, ma viene scoperta
e denunciata in quanto ebrea e deportata a Auschwitz-Birkenau. È il
maggio 1944.
Nell’aprile 1945 Anne-Lise viene liberata e ritorna in Francia dai genitori: la madre prende due quaderni di scuola, uno per sé e uno per la
figlia e, pagina dopo pagina, testo a fronte, traduce in tedesco quello
che la figlia scrive in francese sulla sua deportazione.
La scrittura nella lingua non materna, il francese, permette in quel
momento a Anne-Lise di passare per una lingua Altra e di iniziare il
lavoro freudiano di ricordare, ripetere e rielaborare. Anne-Lise riporta
nel suo testo, che sarà anche la sua analisi, ma solo quella con Jacques
Lacan, non con gli analisti precedenti, a ridarle la sua lingua materna,
il tedesco.
1. A.-L. Stern, Le Savoir Deporté, Seuil, Paris 2004.
Giuliana Grando | Volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento. Anoressia e silenzio de lalingua | 63
“Io ci tengo al mio tedesco di Lacan, anche se il tedesco è la lingua
materna che non ho mai cessato di parlare in certe condizioni. Lui me
l’ha restituita 2”.
Anne-Lise rileva in questo modo che ad essere colpita nel trauma è la
lingua materna, che ha dovuto essere riportata in vita, dopo il trauma,
attraverso l’analisi che ha ridato alla lingua un nuovo sembiante.
Nel caso di Anne-Lise la lingua del torturatore era la sua stessa lingua
materna, ma dalle testimonianze che ho letto e anche da quelle che ho
ascoltato da sopravissuti dei campi di concentramento argentini e di
Sebrenika, la lingua materna diventa perturbante, sia nei casi in cui essa
sia la stessa lingua del torturatore, che nei casi in cui non sia la stessa
del torturatore, perché essa viene a contenere, un ulteriore indicibile,
rispetto all’indicibile strutturale, che è il resto del reale di “godimento”
contenuto nella lingua e che non viene assorbito da alcuna significazione simbolica, a cui va a sommarsi il reale del trauma.
l’oggetto a e il campo di concentramento
Nei campi di concentramento, nei sequestri di massa, i deportati
vengono spogliati di tutto, fino ad essere rappresentati da un numero
che viene marchiato sul loro corpo: i significanti vengono sostituiti da
significanti afonetici, tatuaggi, graffiti, numeri e sigle.
Durante la sua analisi Anne-Lise decide di diventare ana-liste e di portare il suo “sapere deportato” dal campo di concentramento, nei luoghi
dove più si incontra il rapporto del corpo con il reale: All’Ospedale
Marmottan per i tossicodipendenti e all’Ospedale des Enfants Malades
di Parigi, sotto la guida di Jeanny Aubry.
2. Ibidem, p. 183.
64 | attualità lacaniana
n. 12/2010
In un articolo dove Anne-Lise si riferisce al campo di concentramento
ma, anche al suo campo di lavoro, scrive:
per noi, è essere stati separati dai nostri amori, dalle nostre madri e dai
nostri padri, e, poi, in un istante, da tutto ciò che sta al posto dell’oggetto:
foto, lettere, bijoux, chignons, vestiti, scarpe, capelli […] per noi c’era stata
data una intimità con ciò che Lacan aveva circoscritto, isolato come oggetto a. Il solo oggetto che ci restava era questo corpo che era noi: l’oggetto a
viene direttamente da Auschwitz 3.
Lacan stesso è colpito dal mutismo dal 40 al 44 e quando riprende a
scrivere nel 45 scrive “Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata” 4, nella cui premessa sottolinea, che le date 44-45 sono date “significanti per molti”, e aggiunge: “Possa questo scritto riecheggiare con una
nota giusta fra il prima e il poi, in cui lo collochiamo in questa raccolta,
anche se dimostra che il poi faceva anticamera perché il prima potesse
prendere posto” 5.
L’après coup, a cui Lacan si riferisce con “il prima e il poi”, è ciò che del
prima si precipita, a posteriori, nell’istante del trauma.
Nei tre tempi del trauma. il 1° Tempo, è il tempo dell’ “effrazione”,
l’istante del vedere, vale a dire il tempo in cui il trauma buca il simbolico e l’indicibile si presentifica; il 2° Tempo è il tempo del comprendere,
ed è il tempo in cui nel buco del reale aperto dal trauma si precipita ciò
che viene “prima” e che riguarda il soggetto, vale a dire il suo modo di
godere legato al fantasma; il 3° Tempo è il tempo di concludere, cioè il
tempo dell’uscita dal trauma attraverso una logica che include il trauma, ma che prevede una risposta soggettiva aldilà della ripetizione.
3. A.-L. Stern, “Quarante-et-un, 18 juin, chiffrage-contage en pèdiatrie”, in La Lettre Mensuelle,
n. 18, École de la cause Freudienne, Paris aprile 1988.
4. J. Lacan, “Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata”, in Scritti, Einaudi, Torino
1974, vol. I, p. 192.
5. Ibidem.
Giuliana Grando | Volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento. Anoressia e silenzio de lalingua | 65
per una linguistica della vita
Nel seminario ventesimo, Ancora, Lacan mette a punto un passaggio
teorico che lo porta dalla linguistica alla linguisteria attraversando
anche una costruzione che chiama lalingua, che non è semplicemente
la lingua materna, ma tutte le emissioni sonore della bambina e del
bambino, le prime lallazioni che costituiscono il campo fertile su cui il
linguaggio si istituisce.
Lacan precisa che “lalingua serve a tutt’altre cose che alla comunicazione” 6 e interrogandosi sull’, il significante padrone, nel contesto
de lalingua, Lacan lo definisce “uno sciame significante, uno sciame
ronzante” […] che assicura l’unità della copulazione del soggetto con il
sapere […]. L’Uno incarnato ne lalingua è qualcosa che resta indeciso
tra il fonema, la parola, la frase, o tutto il pensiero” 7.
Jacques Alain Miller, riprendendo la costruzione di Lacan, scrive che
lalingua “comporta una dimensione […] diacronica, essendo essenzialmente alluvionale. È formata dai depositi che si accumulano per i
malintesi e le invenzioni linguistiche di ciascuno” 8.
Nel VI paradigma del godimento, J.-A. Miller riprende il concetto di
lalingua e di godimento Uno, e scrive che: “Blablabla vuol dire esattamente che, considerata nella prospettiva del godimento, la parola non
mira al riconoscimento, alla comprensione, ma è solo una modalità di
godimento Uno. C’è il corpo che parla. C’è un corpo che gode in differenti modi. Il luogo del godimento è sempre lo stesso, il corpo” 9.
Per Jean-Claude Milner lalingua è “una moltitudine di arborescenze
pullulanti cui il soggetto aggancia il suo desiderio, tanto che può scegliere qualsiasi nodo perché faccia segno” 10.
6. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 138.
7. Ibidem, p. 144.
8. J.-A. Miller, “Il Monologo dell’apparola”, in La Psicoanalisi, n. 20, Astrolabio, p. 27.
9. J.-A. Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001, p. 39.
10. J.-C. Milner, L’amore della lingua, Spirali, Milano 1980, p. 104.
66 | attualità lacaniana
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Per la sua dimensione di “sciame ronzante”, nel suo essere “diacronica
alluvionale” o “una moltitudine di arborescenze pullulanti”, sottratta
alla pura comunicazione, lalingua può unire il corpo al linguaggio,
e diventare il modo in cui il godimento diventa trasmissibile, in altri
termini il modo in cui “una linguistica della vita” diventi trasmissibile.
la deportazione
I compagni di viaggio di Anne-Lise Stern all’inizio cantano i canti
nelle loro lingue materne, in yiddish, in ebraico, in francese. Quando
arrivano al campo trovano scritte ancora piene di speranza sui muri, sui
letti di legno: ritornerò, ci rivedremo, ti amo… esortazioni e preghiere
in tedesco, in ebraico, in francese.
Poi tutto va verso il mutismo.
La scrittrice armena Antonia Aslan racconta che la zia Henrietta,
sopravissuta al genocidio degli Armeni del 1915, era una creatura della
diaspora e non aveva una lingua madre. Parlava molte lingue, compresa
la sua, l’armeno, in modo legnoso, innaturale, come una straniera: in
tutte faceva sbagli e non volle mai raccontare la sua storia” 11.
Paul Celan, il poeta e traduttore ebraico, ci dà una testimonianza sul
destino della lingua nel trauma quando scrive che “accessibile, vicina e
non perduta rimase al centro di tutte le perdite soltanto la lingua. Lei,
la lingua, rimase, non perduta, sì. Malgrado tutto. Ma essa ha dovuto
attraversare le sue proprie assenze di risposta, attraversare un terribile
mutismo, attraversare le mille tenebre portatrici di morte” 12 .
Nel campo i sopravissuti sembrano subire la mutilazione della parte
affettiva della lingua, di quella parte che ha un suono, una materialità,
un godimento che passa attraverso il corpo.
11. J. e V. Altounian, Ricordare per dimenticare, Saggine, Pomezia 2007.
12. P. Celan, Le Meridien et Autres Proses, Seuil, Paris 2002, p. 56.
Giuliana Grando | Volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento. Anoressia e silenzio de lalingua | 67
Potremmo perfino definire lalingua come l’oggetto transizionale per
eccellenza, il condensatore del legame perduto con il materno, che
rende possibile la celebrazione della perdita della Cosa materna, in un
modo del tutto singolare e creativo, per cui ognuno inventa la propria
lalingua.
l’universalizzazione dei soggetti
Nel seminario undicesimo, Lacan fa un riferimento all’olocausto, al
dramma del nazismo, e scrive che “l’ignoranza, l’indifferenza, il distogliere lo sguardo, possono spiegare sotto quale velo questo mistero resti
ancora nascosto”. Occorre, per Lacan, “volgere uno sguardo coraggioso
da parte di chiunque ne sia capace, senza soccombere al fascino del
sacrificio in se stesso” 13.
Nella “Proposta del 9 ottobre del 1967 intorno allo psicoanalista della
Scuola”, Lacan mette in correlazione la perdita della dialettica edipica,
il declino della legge, con l’universalizzazione dei soggetti che procede
dalla scienza, di cui il campo di concentramento ha mostrato l’evidenza
e il nazismo si è mostrato il precursore.
Scrive Lacan:
ciò che abbiamo visto emergere (dal campo di concentramento), con
nostro orrore, rappresenta la reazione di precursori riguardo a ciò che
andrà sviluppandosi […] a opera della scienza e segnatamente dell’universalizzazione che essa introduce qui. Il nostro avvenire basato sui mercati
comuni troverà la sua bilancia con una sempre più dura estensione dei
processi di segregazione 14.
13. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964,
Einaudi, Torino 2003, p. 270.
14. J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola”, in Scilicet ¼,
Feltrinelli, Milano 1977, p. 32.
68 | attualità lacaniana
n. 12/2010
La logica segregativa la ritroviamo anche in quelle logiche di cura attuali che considerano il soggetto umano, un oggetto da classificare, valutare, manipolare, contabilizzare, che vanno verso o fanno il verso alla
logica segregativa a-fallica, di cui l’attuale civiltà ci mostra numerose
declinazioni.
anoressia e trasmissione de lalingua
È stata la clinica dell’anoressia a suggerirmi una ricerca sul trauma e,
conseguentemente, su lalingua nel suo aspetto traumatico e segregativo,
specialmente in pazienti con scarso attaccamento al cibo.
Mi sono trovata a isolare un gruppo di anoressiche che presentavano un
carattere particolare in alcuni tratti comuni per cui sembra, che gusto,
cibo e convivialità non siano stati iscritti nel luogo dell’Altro.
Ho notato che queste donne hanno assunto il cibo finché la madre le
ha nutrite e che, quando si sono trovate da sole a gestire il rapporto con
il nutrimento e non c’era più la madre a mettere la porzione sul piatto,
non sapevano più quale fosse la giusta porzione, quanto si può mangiare e non si può mangiare, perdendo gradatamente la dimensione del
rapporto con il cibo. Qui il significante si trova ad essere slegato dalla
Cosa, per cui il cibo è un resto, un oggetto immasticabile e incommestibile, essendo il significante ciò che rende commestibile La Cosa.
Si tratta di figlie non nutrite – alimentate solo secondo il dettame della
scienza dell’alimentazione, all’interno di una “conoscenza” educativa
pseudo-scientifica, in grado di trasmettere un linguaggio, ma senza il
sapere e il sapore de lalingua.
Trovo che, in questi casi, non ci sia stata una trasmissione di godimento da parte del corpo materno, che a sua volta non l’ha ricevuto dalla
propria madre: non ci sia stata quindi trasmissione de lalingua per
generazioni.
Il silenzio de lalingua, in questi casi, sarebbe ascrivibile ad un trauma
Giuliana Grando | Volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento. Anoressia e silenzio de lalingua | 69
che ha colpito le sorgenti della vita e che sia mancata la trasmissione de
lalingua e di una linguistica della vita fin dall’origine.
Non si tratta, in questi casi, del rifiuto anoressico, ma dell’effetto
olofrasizzante della segregazione e dell’universalizzazione dei soggetti
che troviamo nella categoria dei Nuovi Sintomi, per cui da  non si
“diparte uno sciame ronzante”, ma il mutismo de lalingua, che porta il
soggetto dal lato del godimento mortifero della pulsione di morte.
71
oralità e disturbi alimentari
in psicoanalisi
di Edy Marruchi * 1
In queste pagine vengono indagati i concetti di “pulsione orale” e “oggetto orale” nel
tentativo di comprendere come l’oralità sia implicata nella formazione del sintomo
alimentare. A tal fine insieme ad Abraham ci si interroga su come l’erotismo orale
influisca nella formazione del carattere. Con Freud, Abraham, Klein e Winnicot
vengono messi al lavoro i concetti di “Incorporazione” e “Identificazione” mentre con
Lacan viene studiato il “Complesso di Svezzamento” e le sue implicazioni nell’ insorgenza del disturbo alimentare. A partire dai riferimenti offerti da Freud e Lacan
sul tema dell’anoressia si prosegue attraverso gli studi di altri autori che prendendo
spunto dall’ insegnamento di Miller hanno messo al lavoro la loro esperienza clinica.
Parole chiave: pulsione orale, oggetto orale, erotismo orale, incorporazione,
identificazione, anoressia, bulimia
Nel testo Introduzione alla Psicoanalisi Freud scrive che
la pulsione si differenzia [dall’istinto e dallo stimolo] per il fatto che trae
origini da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza
costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di
fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte,
oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta
l’eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta
* Edy Marruchi è psicoterapeuta. L’articolo è tratto dal suo lavoro di tesi di specializzazione in
psicoterapia presso l’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.
attualità lacaniana n. 12/2010
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n. 12/2010
la pulsione diviene psichicamente attiva. Noi ce la rappresentiamo come
un certo ammontare di energia, che preme verso una determinata direzione. Da questo premere le deriva il nome di pulsione 1.
Per Freud “la pulsione appare come un concetto limite tra lo psichico
e il somatico, come il rappresentate psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una
misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza
della sua connessione con quella corporea” 2 .
La concezione freudiana della pulsione emerge dalla descrizione della
sessualità umana. La nozione di pulsione resta per Freud sempre dualista: il primo dualismo proposto è quello tra pulsioni sessuali e pulsioni
dell’Io o di autoconservazione.
La pulsione sessuale è una spinta interna che si riferisce ad un campo
più vasto di quello dell’attività sessuale. Freud la vede operare prima
come pulsione parziale legata alle singole zone erogene e poi, attraverso
un’evoluzione, sotto il primato della genitalità. L’aspetto psichico di
questa pulsione è designato col termine di libido che costituisce un polo
del conflitto psichico ed oggetto privilegiato della rimozione.
La pulsione di autoconservazione è una funzione legata alle funzioni
somatiche necessarie alla conservazione della vita dell’individuo, come
ad esempio la fame. Questo dualismo è presente secondo Freud, già alle
origini della sessualità in quanto la pulsione sessuale si distacca dalle
funzioni di autoconservazione su cui prima si appoggiava.
Il dualismo pulsionale introdotto da Freud in Al di là del principio di
piacere contrappone, invece, le pulsioni di vita alle pulsioni di morte
e modifica la funzione e la collocazione delle pulsioni nel conflitto. In
questa seconda formulazione della teoria la pulsione sessuale e quella di
autoconservazione vengono unificate essendo entrambe assimilate alle
1. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, (1932), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2003,
vol. XI, p. 205.
2. S. Freud, Metapsicologia (1915), in Opere, cit., vol. VIII, p. 17.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 73
pulsioni di vita o Eros e contrapposta alle pulsioni di morte o Thanatos.
Nella prima edizione dei Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud introduce
la nozione di pulsione parziale. La concezione freudiana dell’oggetto
della pulsione si è formata nei Tre saggi sulla teoria sessuale a partire
dall’analisi delle pulsioni sessuali.
In quanto correlato alla pulsione, l’oggetto è ciò in cui e con cui essa
cerca di raggiungere la sua meta, cioè un certo tipo di soddisfacimento.
Può trattarsi di una persona o di un oggetto parziale, di un oggetto
reale o di un oggetto fantasmatico.
L’oggetto come mezzo contingente del soddisfacimento è l’elemento più
variabile della pulsione, non è originariamente collegato ad essa, ma
le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile
il soddisfacimento. Questa contingenza dell’oggetto non significa che
qualsiasi oggetto possa soddisfare la pulsione, bensì che l’oggetto della
pulsione è determinato dalla storia, soprattutto infantile di ciascuno.
Possiamo riconoscere tre posizioni fondamentali in Freud rispetto all’oggetto 3:
Nel testo del 1905, Tre saggi sulla teoria sessuale, l’oggetto è un surrogato essendo sempre sostitutivo di qualcos’altro. Quando, ci dice Freud,
l’adolescente scopre la bellezza del baciare le labbra che bacia, l’oggetto
che trova è il surrogato del seno, che in quanto tale è sempre perduto.
C’è un’articolazione fondamentale in Freud: l’oggetto della pulsione
(orale in questo caso) è un surrogato dell’oggetto perduto. L’oggetto
perduto è dunque barrato. La pulsione costruisce dei surrogati dell’oggetto perduto.
Nello scritto del 1915 Pulsioni e loro destini Freud definisce variabile
l’oggetto pulsionale. Afferma che è “la parte più variabile” del montaggio pulsionale. Non è necessariamente un oggetto estraneo, ma può
essere altresì una parte del corpo del soggetto. Può venire mutato infi3. M. Recalcati, Il trattamento dell’anoressia-bulimia nel piccolo gruppo monosintomatico, a cura
di F. Galimberti, Unipress, Padova 1998.
74 | attualità lacaniana
n. 12/2010
nite volte durante le vicissitudini che la pulsione subisce nel corso della
sua esistenza. A questo spostamento della pulsione spettano funzioni
importantissime. Può accadere che lo stesso oggetto serva al soddisfacimento di più pulsioni, producendo ciò che Adler chiama “un intreccio
pulsionale”. La bulimia mette in risalto questo aspetto: l’oggetto è assolutamente variabile, l’obiettivo della pulsione è soddisfarsi, “mangiare”.
Lacan esprime questo concetto della variabilità dell’oggetto dicendo che
“il desiderio è una metonimia”. Il desiderio è un continuo rilancio da
un oggetto all’altro e in questo senso è una metonimia.
Nel testo Lutto e melanconia, Freud afferma che l’oggetto è “insostituibile”. Questa teoria sembra inconciliabile con la prima, nella quale
l’oggetto è definito “variabile”. A partire dal fenomeno clinico della
melanconia, Freud scopre che in essa c’è l’identificazione del soggetto
con l’oggetto perduto. Questo oggetto non si lascia sostituire.
Queste teorie freudiane sono alla base dell’idea di Lacan che il soggetto
si diriga, non verso un oggetto qualsiasi, ma verso il vuoto, verso l’oggetto niente. Lacan nel seminario undicesimo, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, afferma che la pulsione che afferra il proprio
oggetto apprende che non è così che essa si soddisfa. Nessun oggetto
può soddisfare la pulsione “Anche se rimpinzaste la bocca – bocca che si
apre nel registro della pulsione – non è del cibo che essa si soddisfa ma,
come si dice, del piacere della bocca” 4. Proprio per questo, ci dice Lacan,
nell’esperienza analitica, la pulsione orale si incontra alla fine, in una
situazione in cui “essa non fa altro che ordinare il menù” 5. Lacan riprende l’esempio della bocca che si bacia da sé. La definisce una bocca cucita 6
dove nell’analisi si può riconoscere, in certi silenzi, l’istanza pura della
pulsione orale che si richiude sulla propria soddisfazione. L’oggetto su cui
la pulsione si richiude, ci dice Lacan, in realtà non è un vuoto occupabi4. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della Psicoanalisi, 1964,
Einaudi, Torino 2003, p. 163.
5. Ibidem, p. 163.
6. Ibidem, p. 174.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 75
le, per riprendere Freud, da qualsiasi oggetto di cui possiamo conoscere
l’istanza solo sotto forma dell’oggetto a. L’oggetto a non è l’origine della
pulsione orale e non è introdotto a titolo di nutrimento primitivo, ma è
introdotto dal fatto che nessun nutrimento soddisferà mai la pulsione
orale, se non contornando l’oggetto eternamente mancante.
A questo riguardo mi sembra interessante l’esempio di Erika, una giovane donna bulimica. Durante lo svolgimento del programma terapeutico
per abuso di droga e alcool che sta compiendo all’interno di una comunità di recupero, a Erika viene richiesto di dipingere il proprio ritratto.
Osservando questo disegno risulta chiaro che per Erika la separazione
dall’Altro materno non si è realizzata. Le due donne sono praticamente
identiche: entrambe senza bocca, mani e seno. Prive cioè di quelle parti
attraverso le quali avvengono i primi contatti tra madre e figlio. Si può
pertanto ipotizzare in Erika un disturbo dell’oralità.
Significativo è anche il racconto di un ricordo legato al padre. Parla di
un episodio in cui l’uomo, scherzando, le dava dei baci ambigui. Erika
76 | attualità lacaniana
n. 12/2010
era adolescente e ricorda di aver provato un forte imbarazzo. Si sentiva
sporca. Alla scena aveva assistito la madre, la quale non sembrava turbata. Esprime il dubbio di essere stata lei a fraintendere l’atteggiamento
del padre e teme di aver considerato come sporca una semplice manifestazione d’affetto.
Erika non riesce simbolicamente a collocare questi atteggiamenti paterni a causa della sua relazione enigmatica con l’aspetto orale.
La difficoltà che Erika ha a livello dell’oralità prende la via del disturbo
alimentare quando aveva 13 anni. Ricorda che in quel periodo provava
un forte astio per la madre. Una sera mentre la madre portava in tavola
un vassoio di tagliatelle al ragù fu attanagliata dal forte odore. Era una
sensazione insopportabile, quasi una morsa che la faceva impazzire e
sentire in trappola. Vomitò tutta la sera. Da quel momento iniziarono
i suoi problemi col cibo: vomita più volte al giorno. Ecco che l’oggetto
orale, insostenibile, deve essere espulso sul piano reale. Nel rifiuto di
Erika verso il cibo saporito preparato dalla madre possiamo riconoscere il
timore di Erika di essere risucchiata dal desiderio materno che deve essere assolutamente rifiutato. Definisce infatti la madre come “una donna
che succhia parecchio”. Secondo Erika per poter essere amata dalla
madre avrebbe dovuto annientarsi, rinunciare alla propria identità e far
coincidere i propri desideri con i suoi. Afferma che la sabbia del disegno
è la madre. Nel disegno c’è un forte odore di sabbia polverosa che soffoca
e toglie il respiro e ingloba in sé ogni cosa: sentimenti, bisogni, volontà.
Odia la madre ma teme che muoia perché ha paura di scomparire con lei.
Lacan specifica che cos’è la pulsione orale:
Si parla di fantasmi di divorazione, di farsi poppare. Tutti sanno, in effetti,
che è proprio questo, confinante con tutte le risonanza del masochismo, il
termine altrificato della pulsione orale. […] Dato che ci riferiamo al poppante e al seno, e che l’allattamento è la suzione, diciamo che la pulsione
orale è il farsi succhiare, è il vampiro. Questo ci illumina, d’altro canto, su
ciò che è quell’oggetto singolare che io mi sforzo di scollare nella vostra
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 77
mente dalla metafora del nutrimento, cioè il seno. Il seno pure è qualcosa
di appiccicato. Che succhia. Che cosa succhia? L’organismo della madre.
In questo modo, è sufficientemente indicato, a questo livello, qual è la
rivendicazione, da parte del soggetto, di qualcosa che è separato da lui, ma
che gli appartiene e di cui si tratta che si completi 7.
Secondo Karl Abraham la suzione costituisce l’elemento principale
dell’erotismo orale:
La suzione o il ciucciare, che si presenta già nel poppante e viene proseguita fin negli anni della maturità o può mantenersi per tutta la vita, consiste
in un contatto di succhiamento aritmicamente ripetuto con la bocca (le
labbra), nel quale lo scopo dell’assunzione di cibo è escluso. Una parte
delle labbra, la lingua, un qualsiasi altro punto della pelle – persino l’alluce
– vengono presi per oggetto sul quale si esegue il succhiamento. […] Il succhiare con delizia è collegato a un completo assorbimento dell’attenzione, e
produce o l’assopimento o anche una reazione motoria […] 8 .
Freud continua affermando che, in questo contesto, la pulsione sessuale
è autoerotica e si soddisfa sul proprio corpo. Inizialmente il soddisfacimento della zona erotica era associato al soddisfacimento del bisogno
di nutrizione. Il bisogno di ripetere il soddisfacimento sessuale viene
necessariamente diviso dal bisogno dell’assunzione di cibo quando
spuntano i denti e il nutrimento non viene più esclusivamente succhiato ma masticato. Il bambino per succhiare non si serve di un oggetto
estraneo, bensì di un punto della propria pelle. Questo perché per lui è
più comodo e lo rende indipendente dal mondo esterno che egli non è
ancora capace di dominare. Tutto ciò permette che si crei una seconda
zona erogena, anche se di minor importanza.
7. Ibidem, p. 190.
8. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905, in Opere, cit., vol. IV.
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K. Abraham 9 afferma che, oltre alla fonte anale un’altra fonte originaria
per la formazione del carattere è l’erotismo orale.
Abraham ricorda che una gran parte dell’investimento libidico della
bocca, proprio della prima infanzia, rimane utilizzabile nella vita successiva. Le porzioni orali della sessualità infantile non hanno perciò
bisogno di essere assorbite nella stessa misura di quelle anali nella formazione di carattere o nella sublimazione.
Durante la prima infanzia è presente un intenso piacere connesso
all’attività del succhiare, piacere non esclusivamente legato ai processi
di nutrizione ma legato all’importanza della bocca come zona erogena. Questa forma primitiva di soddisfacimento del piacere non viene
mai del tutto superata dall’individuo ma continua ad esistere, anche
se mascherata, per tutta la sua vita. Lo sviluppo fisico e psichico del
bambino implica tuttavia una rinuncia sempre più ampia al piacere di
succhiare. Queste progressive rinunce possono avvenire solo a partire da
uno scambio. Il processo di dentizione ad esempio permette di perdere
buona parte del piacere di succhiare in cambio del piacere di mordere.
In questo periodo si stabiliscono relazioni ambivalenti del bambino
verso oggetti esterni. Queste relazioni saranno condizionate dal piacere
di succhiare e di mordere.
In questo stesso periodo il piacere di succhiare inizia una specie di peregrinazione. Quasi contemporaneamente allo svezzamento del bambino
dall’assunzione del cibo mediante suzione ha luogo la sua assuefazione
alla pulizia del corpo.
Un’elaborazione ben riuscita dell’erotismo orale rappresenta il primo e
più importante presupposto di un comportamento futuro normale, dal
punto di vista sociale e sessuale. Molteplici sono però le possibilità di
un disturbo di questo importante momento dello sviluppo.
Abraham continua sostenendo che il periodo della suzione può essere
9. K. Abraham, Studi psicoanalitici sulla formazione del carattere, 1925, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1997, vol. I.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 79
per il bambino particolarmente ricco di dispiacere e povero di piacere.
Questo dipenderà dalle particolari condizioni della nutrizione.
In altri casi lo stesso periodo può essere invece ricco di piacere. Quello
che ne risulta alla fine è una accentuata difficoltà nello svezzamento del
bambino.
Sia che il bambino in questo primo periodo della vita sia stato forzatamente privato del piacere, sia che sia stato viziato con una quantità
eccessiva di piacere, l’effetto in entrambi i casi è lo stesso: il bambino si
distacca dallo stadio della suzione in condizioni più difficili del normale.
Dal momento che il suo bisogno di piacere, per difetto o per eccesso,
è troppo esigente, il desiderio di piacere del bambino si precipita con
particolare intensità sulle possibilità di piacere dello stadio successivo.
Il pericolo in cui incorre è quello di restare deluso e di reagire a questa
delusione con una tendenza rafforzata alla regressione al primo stadio.
In questi bambini è particolarmente accentuato il piacere di mordere.
L’inizio della formazione del carattere si compie in un bambino di questo
tipo nel segno di un’ambivalenza fortemente accentuata. Può succedere che un bambino che si trova nello stadio dove il cibo viene assunto
mordendo e masticando abbia occasione di vedere un altro bambino che
succhia. In questo caso l’invidia può assumere un particolare incremento. Possiamo riconoscere questi tratti nel travestitismo o nell’avidità di
possedere, specialmente in forma di parsimonia anormale e di avarizia.
Questi tratti che, continua Abraham, appartengono ai fenomeni clinici
del carattere anale “si edificano così sulle macerie di un erotismo orale
danneggiato nel suo sviluppo” 10. Pertanto possiamo affermare che l’erotismo orale fornisce dei contributi direttamente alla formazione del carattere. In certi casi tutta la formazione del carattere è sotto l’influsso orale.
Alcuni individui, quelli viziati nel periodo dell’allattamento, sono dominati dall’aspettativa che sia sempre presente una persona buona da cui
ricevere il necessario per vivere (sostituto della madre). Questo atteggia10. Ibidem.
80 | attualità lacaniana
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mento li conduce all’inattività. Possiamo incontrare persone pervase da
una grave serietà che sfocia addirittura in pessimismo, questo tratto è in
gran parte originato dalla delusione dei desideri orali legati alla prima
infanzia. In queste persone troviamo un atteggiamento sempre apprensivo nei confronti della vita a cui si associa anche l’inclinazione a “darsi
pena” per qualunque cosa e a rendere più difficili del necessario anche
gli eventi più semplici dell’esistenza. L’influenza di tale formazione del
carattere che ha le sue radici nell’erotismo orale, precisa Abraham 11, si
rileva in tutto il comportamento sociale dell’individuo ed è presente
anche nella scelta della professione, delle simpatie e dei passatempi.
Nel comportamento sociale di persone che non riescono a liberarsi
dagli effetti posteriori di un insoddisfacente periodo di allattamento
troviamo la tendenza a pretendere sempre qualche cosa, sia nella forma
del chiedere sia nella forma dell’esigere. “Il modo in cui manifestano i
loro desideri ha in sé qualcosa del succhiare insistente; non si lasciano
distogliere né dalla realtà dei fatti, né da obiezioni razionali, ma continuano a incalzare e insistere. Essi tendono ad attaccarsi agli altri come
sanguisughe” 12 . In alcune persone incontriamo tratti di carattere che
dobbiamo ricondurre a uno spostamento peculiare della sfera orale.
L’intenso desiderio di procurarsi soddisfacimento attraverso la suzione si
è trasformato in loro nel bisogno di dare attraverso la bocca. Troviamo
pertanto un impulso continuo a comunicare con gli altri per via orale.
Da ciò deriva un impulso ostinato a parlare. In tali casi le relazioni più
importanti vengono effettuate attraverso “la scarica orale” 13.
Anche nelle formazioni del carattere derivate dallo stadio sadico-orale il
parlare assume la rappresentanza di altri impulsi rimossi.
Da queste osservazioni Abraham suggerisce che si possono cogliere
quali varietà e differenze esistono nell’ambito della formazione del
carattere orale. Le differenze più importanti dipendono dal fatto che
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 81
una manifestazione di carattere si sia sviluppata sulla base del primo
stadio orale o del secondo, se sia dunque l’espressione di una tendenza
inconscia al succhiare o al mordere.
Le manifestazioni del desiderio e dell’aspirazione più intensi derivano
dallo stadio orale primario; appena necessario ricordare che non dobbiamo
in alcun modo trascurare la partecipazione di altre fonti pulsionali. Le
tendenze di desiderio che derivano da quel primo stadio sono però ancora
libere dall’azione distruttiva dell’oggetto che è propria dei moti pulsionali
dello stadio seguente 14.
Come tratto di carattere orale si trova spesso la generosità. In essa la
persona oralmente soddisfatta si identifica con la madre che dà. Nello
stadio sadico-orale invece, invidia, rancore e gelosia rendono impossibile un tale comportamento.
Secondo Abraham anche nel comportamento sociale esistono significative
differenze a seconda dello stadio evolutivo della libido dal quale deriva
la formazione del carattere. I primi si mostrano sereni e socievoli mentre
coloro che si sono fissati allo stadio sadico-orale risultano ostili e mordaci.
Le persone con carattere orale sono aperte al nuovo.
In molte persone troviamo, accanto ai tratti orali di carattere descritti,
altre manifestazioni psicologiche, che dobbiamo derivare dalle medesime
fonti pulsionali. Si tratta in parte d’impulsi che si sono sottratti ad ogni
trasformazione sociale. Sono da ricordare in particolare l’avidità del cibo
patologicamente accresciuta e la tendenza alle più diverse perversioni orali 15.
Abraham sottolinea l’importanza dell’integrazione di impulsi provenienti da zone erogene diverse per raggiungere dei risultati il più possibile
14. Ibidem.
15. Ibidem.
82 | attualità lacaniana
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favorevoli. Afferma che la pratica psicoanalitica permette di conoscere
le conseguenze di una integrazione poco riuscita. Alcune persone, per
esempio, fanno subito uscire dalla loro bocca ciò che hanno appena
assunto e tendono a vomitare il cibo che hanno appena ingerito. Sono
persone che hanno una estrema impazienza nevrotica; nella loro formazione di carattere manca una combinazione favorevole di impulsi orali
che spingono in avanti e di impulsi anali rallentanti.
Freud considera la fase orale come la prima organizzazione pre-genitale
della libido che si forma nei primissimi mesi di vita del bambino e dura
approssimativamente fino al secondo anno di età. Questa fase è caratterizzata, da una parte, dall’attività della suzione, fonte di piacere, e
dall’altra, dall’introiezione, cioè dall’impossessamento dell’oggetto attraverso l’introduzione orale (incorporazione). Incorporando gli oggetti il
bambino si unisce ad essi e con essi si identifica. La comunione magica
di “diventare la stessa sostanza” è operata dall’atto del mangiare.
Per questa ragione la fase orale è chiamata da Freud anche “cannibalica”.
K. Abraham distingue due stadi della fase orale: uno di tendenza recettivo-passiva, anteriore all’eruzione dei denti, nel quale non vi è alcun
oggetto, ma solo il piacere di succhiare; l’altro, posteriore alla dentizione, che si esprime mordendo gli oggetti e manifestando elementi di
aggressività o sadismo orale.
L’incorporazione, intesa come introduzione e conservazione, reale o
fantasmatica di un oggetto nel proprio corpo è tipica della fase orale.
Freud 16 attribuisce all’incorporazione tre significati:
1 procurarsi un piacere facendo penetrare un oggetto in se stessi
2 distruggere l’oggetto
3 assimilare le qualità dell’oggetto conservandolo dentro di sé.
M. Klein 17 ha visto nel secondo aspetto il tratto tipico della fase sadico-
16. S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1920, in Opere, cit., vol. IX.
17. M. Klein, “Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi” (1935), in Scritti
1921-1958, Bollati Boringhieri. Torino 1997.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 83
anale, mentre Abraham 18 ha colto la relazione tra l’incorporazione e il
cannibalismo dei primitivi.
Cannibalismo inteso in riferimento alla fase orale dello sviluppo libidico
e più specificamente alla componente sadica presente in tale fase dove si
assiste al desiderio di incorporazione dell’oggetto amato che verrà sostituito, nel corso dell’evoluzione psicosessuale, dall’identificazione.
L’incorporazione, o introiezione, rappresenta una forma di identificazione primaria analoga a quella che caratterizza il cannibalismo dei
primitivi motivato, secondo Freud, dalla credenza che “assimilando in
sé, mediante ingestione, parti del corpo di qualcuno, ci si impadronisse
anche delle qualità che a costui erano proprie” 19.
Lo stesso significato di appropriazione viene attribuito da Freud al
“pasto totemico” compiuto agli albori della storia dell’uomo, quando i
figli si allearono fra loro e dopo aver ucciso il padre che interdiceva loro
l’uso delle donne del clan, lo divorarono.
K. Abraham suddividendo la fase orale in due sottofasi:
– di suzione, caratterizzata dalla fusione di libido e aggressività
– di morsicamento
attribuisce l’oggetto cannibalico solo alla seconda, dove distingue un
cannibalismo parziale da un cannibalismo totale. Quest’ultimo “senza
alcuna limitazione” è possibile solo sulla base di un narcisismo illimitato. In questo stadio è tenuto in considerazione soltanto il desiderio di
piacere del soggetto mentre l’interesse dell’oggetto non viene considerato bensì esso viene distrutto senza alcuno scrupolo. Lo stadio del cannibalismo parziale pur portando ancora in sé i segni della sua origine dal
cannibalismo totale ne differisce in modo radicale.
Per la Klein invece questo concetto è impiegato nell’area della patologia depressiva, dove la pulsione cannibalica, se è eccessiva è causa della
melanconia.
18. K. Abraham Vedute psicoanalitiche su alcune caratteristiche del pensiero infantile, 1923 in
Opere, cit., vol. I.
19. S. Freud, Totem e tabù, 1912-13, in Opere, cit., vol. VII, p. 88.
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L’incorporazione è il prototipo dell’identificazione o almeno di determinate modalità identificatorie in cui il processo mentale è vissuto e simbolizzato come una operazione somatica (ingerire, divorare, conservare dentro sé…) ed è incidente per la strutturazione del funzionamento psichico.
In generale, in tutti i casi in cui vi sono problemi di identità, questi
sono connessi con un disturbato rapporto oggettuale, dovuto alle
alterazioni dei processi identificatori così che i quadri clinici che ne
conseguono sono dipendenti dalla gravità e precocità dei fenomeni che
intervengono nell’alterazione di questi processi.
Nell’esperienza psichica del soggetto il cibo assume un significato simbolico in cui la funzione, non essendo solo quella di nutrimento, è anche
quella di essere il primo oggetto che riceve dall’altro, è il primo dono e il
primo segno di riconoscimento della sua esistenza come soggetto.
Tutte le teorizzazioni psicoanalitiche, a partire da Freud (1936), hanno
riservato un posto centrale alla dimensione del cibo e del nutrimento.
Nella fase orale di sviluppo il bambino entra inizialmente in contatto
con il mondo attraverso la bocca, fonte di nutrimento e di eccitazione, ma è anche la prima fase di sviluppo basata sul rapporto primario
nutritivo e di accudimento con la madre, fonte di soddisfacimento dei
bisogni e del piacere sessuale legato alla sensorialità alimentare.
Per Winnicot (1969) la madre trasmetterebbe il suo amore al lattante
non solo nutrendolo e accompagnando l’allattamento con gesti e parole
affettuose ma anche attraverso i contatti corporei che si stabiliscono tra
madre e figlio. Sarebbero questi contatti che permetterebbero al lattante di formare una specie di “membrana di delimitazione” sovrapponibile all’epidermide ed è in questo modo che si formerebbe la percezione
della propria identità e il concetto di esterno e interno. Affinché questo
processo avvenga in modo corretto è necessario anche che l’offerta
materna sia adeguata alle richieste del bambino. Quanto più vasta sarà
stata l’area delle risposte appropriate alle svariate espressioni delle sue
necessità e dei suoi impulsi tanto più il bambino sarà in grado di differenziare e identificare le sue esperienze fisiche da altre sensazioni. La
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 85
mancanza di risposte congrue alle sue necessità priva il bambino, che si
sviluppa, delle basi essenziali su cui costruire la propria “identità fisica”
e la consapevolezza percettiva e concettuale delle proprie funzioni.
L’attività orale rappresenta una forma primitiva di conoscenza e di rapporto con il mondo esterno e l’affettività legata alle prime esperienze
alimentari può influire sul comportamento alimentare molto più delle
caratteristiche dell’alimento. Il comportamento alimentare è quindi il
risultato di influenze precoci che però possono avere effetti duraturi non
soltanto sul comportamento psichico ma anche sulle caratteristiche anatomo-fisiologiche dell’adulto. L’importanza che viene attribuita al cibo
può avvenire perché esso è deviato dalla sua origine naturale attraverso la
manipolazione gastronomica e grazie all’iniziale dimensione relazionale
con l’altro assume la funzione di oggetto pulsionale introducendo nel
campo del soddisfacimento del bisogno un “soddisfacimento pulsionale”.
Il soddisfacimento pulsionale non coincide con il soddisfacimento del
bisogno naturale in quanto la pulsione domanda non tanto il soddisfacimento del bisogno, per esempio di mangiare, ma il soddisfacimento
libico dell’oralità come zona erogena investita dall’azione pulsionale.
La pulsione è un movimento che cerca di scavare nell’Altro un vuoto,
affinché si apra una mancanza nella quale il soggetto possa iscriversi.
Questo è il cannibalismo della pulsione orale.
Un attaccamento particolarmente forte della pulsione al suo oggetto
viene messo in rilievo come “fissazione” della pulsione. La fissazione si
produce spesso in periodi remotissimi dello sviluppo pulsionale e pone
fine alla mobilità della pulsione opponendosi vigorosamente al suo staccarsi dall’oggetto. Da questa e da altre definizioni di Freud è possibile
dedurre che l’impiego della parola “oggetto” avviene seguendo due serie
contrapposte, nelle quali si raggruppano i vari significati: la prima serie
distingue tra oggetto esterno, sia nel senso che appartenga al mondo
esterno, sia che si riferisca ad una parte del corpo del bambino vissuta
come esterna, e oggetto interno che è la rappresentazione dell’oggetto a
cui il soggetto reagisce come di fronte all’oggetto esterno da cui è deriva-
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to mediante introiezione. La seconda serie distingue tra oggetto parziale
che è tanto una parte del corpo (seno, feci, pene) quanto un suo equivalente simbolico (oggetto parziale può essere anche una persona nella
sua totalità, come la madre, ma visualizzata come se fosse un oggetto
che esiste solo per soddisfare i propri bisogni); e oggetto totale che è la
persona con cui il soggetto entra in rapporto, percependola come altro
da sé, con cui è possibile instaurare una relazione psicologica. All’oggetto parziale fanno riferimento le pulsioni parziali, ossia le pulsioni in
cerca ciascuna della propria soddisfazione perché ancora devono trovare
un centro intorno a cui organizzarsi. Tale centro è la genitalità, per cui
pulsioni e oggetti parziali si riferiscono alle fasi pregenitali.
Freud ha messo in evidenza gli spostamenti che si stabiliscono tra i vari
oggetti parziali come nella sequenza bambino-pene-feci-denaro-dono, o
come nel caso della donna che passa dal desiderio del pene al desiderio
dell’uomo, con la possibilità di una regressione dall’uomo al pene come
oggetto del suo desiderio, o le fissazioni ad un oggetto, dette anche
“costanza d’oggetto”, come nel caso del feticismo e in tutti quei casi in
cui il soggetto rifiuta i sostituti di un oggetto familiare.
Rientrano nel gruppo di oggetti legati all’affettività i correlati dell’amore
e dell’odio che caratterizzano la relazione tra una persona totale o istanza dell’io e un’altra persona, entità o ideale o percepito come oggetto
totale. Tali oggetti si incontrano quando si è raggiunta la fase genitale, e
con essi il soggetto ha un rapporto non più biologico ma propriamente
psicologico. Alla scelta oggettuale, che riconosce l’altro nella sua alterità
e non solo come strumento di soddisfazione dei propri bisogni, si perviene dopo aver superato lo stadio narcisistico che assume come oggetto
d’amore il proprio corpo. Questo stadio, scrive Freud, consiste nel fatto
che l’individuo nel corso del suo sviluppo, mentre unifica le pulsioni sessuali già agenti autoeroticamente al fine di procurarsi un oggetto d’amore, assume anzitutto se stesso, vale a dire il proprio corpo come oggetto
d’amore, prima di passare alla scelta oggettuale di una persona estranea.
Con l’espressione “relazione oggettuale” si sottolinea l’originarietà della
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 87
relazione rispetto all’individuo considerato nel suo isolamento. La relazione non si limita ad indicare il modo con cui il soggetto costituisce i
suoi oggetti, ma anche il modo in cui questi agiscono su di lui. Tale è
la posizione di M. Klein secondo la quale gli oggetti proiettati e introiettati esercitano un’azione persecutoria o rassicurante sul soggetto. Le
relazioni oggettuali si riferiscono in psicoanalisi ai momenti evolutivi
come la relazione oggettuale orale, anale, fallica; in psicopatologia alle
forme di estraniazione come, ad esempio, la relazione oggettuale melanconica o maniacale.
Il concetto di “scissione dell’oggetto” è stato introdotto dalla Klein
secondo la quale l’oggetto verso cui convergono le pulsioni erotiche e
distruttive è scisso in “oggetto buono” e “oggetto cattivo” che subiscono
destini diversi nel gioco delle proiezioni e introiezioni. La scissione è
un primitivo meccanismo di difesa contro l’angoscia e si riferisce nella
posizione schizoparanoide a oggetti parziali, e in quella depressiva
all’oggetto totale. Per l’effetto dell’introiezione degli oggetti, anche l’Io
viene scisso in “buono” e “cattivo”.
Winnicot introduce il concetto di “oggetto transizionale” per indicare
un oggetto materiale, per esempio il lembo della coperta o il pupazzo,
che il bambino tra i 4 e i 12 mesi tiene presso di sé per addormentarsi.
Fenomeno normale che consente al bambino di passare dalla prima
relazione con la madre alla relazione oggettuale. L’oggetto transizionale,
pur costituendo un momento di passaggio verso la percezione di un
oggetto nettamente separato dal soggetto, non perde la sua funzione
nel periodo successivo, dove riappare specialmente in occasione di fasi
depressive. Secondo Winnicot, l’oggetto transizionale appartiene a quel
campo intermedio dell’esperienza che è il campo dell’illusione i cui
contenuti non sono riconducibili né alla realtà interna né esterna. Essa
costituisce la parte più importante dell’esperienza del bambino e il suo
protrarsi nell’età adulta alla base della successiva vita immaginativa.
Per quanto riguarda l’anoressia-bulimia a partire da Freud e Lacan fino
ad arrivare ad Abraham e Klein vediamo emergere due paradigmi fon-
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damentali: quello della discontinuità fra le strutture cliniche e quello
della continuità di tali strutture.
Lo sviluppo post-freudiano della psicoanalisi nel campo della clinica
ha imboccato la via del continuismo di nevrosi e psicosi cancellando il
rigore della differenza tra le strutture sostenuto da Freud. L’effetto nella
clinica dell’anoressia e della bulimia è ridurre la psicosi ad una sorta di
nucleo interno arcaico del soggetto come arresto di un passaggio evolutivo normale. Si pensi alla posizione schizoparanoide teorizzata dalla
Klein alla base delle psicosi. È da questo presupposto storico-teorico che
si può ipotizzare l’anoressia come una specie di psicosi localizzata, di
regressione soggettiva a modalità primitive di funzionamento psichico.
Nell’insegnamento di Freud e di Lacan è mantenuta come essenziale
la discontinuità strutturale di nevrosi e psicosi. La nevrosi indica una
posizione del soggetto sostenuta dalla rimozione come simbolizzazione originaria che produce come effetto nel soggetto una perdita di
godimento dal corpo e una pulsionalizzazione del corpo stesso. Nella
psicosi la posizione del soggetto appare invece condizionata da un fallimento dell’azione originaria della rimozione. Questo fallimento della
simbolizzazione edipica lascia il soggetto in balia di un godimento non
localizzato. È ciò che Lacan denomina forclusione del Nome-del-Padre.
Il suo effetto è che il soggetto è oggetto reale del godimento dell’Altro.
A partire da questa prospettiva possiamo considerare che esistano anoressie e bulimie nevrotiche e psicotiche.
Nei Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud correla l’anoressia all’isteria
intendendola come sintomo di conversione, manifestazione sintomatica
dovuta alla rimozione dell’erotismo orale.
Nell’anoressia è una fissazione all’erotismo orale, dunque un’erotizzazione della zona erogena bucco-labiale, che determina una rimozione
dell’appetito. Il disgusto anoressico-isterico è così indice ad un tempo
della fissazione e della rimozione della pulsione orale. L’anoressia isterica lotta contro la pulsione, punta a disgiungere desiderio e soddisfacimento, mira a salvare la purezza del proprio desiderio non inquinato
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dall’orrore della pulsione, che trova il suo punto di fissazione nell’oralità. Il “no” al cibo è un “no” che il soggetto dice per smarcarsi sia dalla
propria pulsionalità che dal godimento dell’altro. Il binomio pulsionegodimento viene sacrificato in nome del desiderio da preservare: mancare all’Altro per essere desiderata, amata.
Il rifiuto come la bramosia irrefrenabile per l’oggetto cibo hanno in
questo quadro una medesima radice. Il rifiuto del cibo e il vuoto ricreato al termine delle abbuffate bulimiche costituiscono il perno del circuito pulsionale in atto nell’anoressia isterica.
Nei tre saggi Freud avanza la tesi della sostituibilità dell’oggetto della
pulsione e dell’esistenza di due distinti tipi di soddisfacimento: uno
legato all’ordine biologico-naturale-istintuale, l’altro non riducibile ad
esso e delimitante il campo pulsionale in quanto tale.
Sia il rifiuto anoressico che la ricerca del vuoto enfatizzano, in questa prospettiva, la purezza dell’attività pulsionale che, non potendosi mai soddisfare attraverso l’incontro con un oggetto, si rianima di volta in volta
proprio nella ripetizione dell’incontro con il vuoto causato dalla perdita.
Così mentre con la scelta anoressica il soggetto punta a raggiungere il
soddisfacimento solamente nell’affermazione pura del desiderio, con la
scelta bulimica il soggetto cerca di staccarsi dal godimento in eccesso
della divorazione, attraverso il vomito, per raggiungere il desiderio.
Nella Minuta G Freud considera l’anoressia come un parallelo nevrotico
della melanconia.
La nevrosi alimentare parallela alla melanconia è l’anoressia. La ben nota
anorexia nervosa delle ragazze mi sembra essere (da osservazioni accurate) una melanconia che si verifica ove la sessualità non è sviluppata.
La paziente asseriva che non mangiava semplicemente perché non aveva
appetito, e per nessun’altra ragione. Perdita di appetito: in termini sessuali,
perdita di libido 20.
20. S. Freud, Minuta G, in Opere, cit., p. 30.
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In questa stessa opera è reperibile anche una seconda matrice che Freud
rinviene all’origine dell’anoressia: quella melanconica. Anoressia come
paradigma della posizione melanconica. “Così non sarebbe inopportuno partire dall’idea che la melanconia consiste nel lutto per la perdita
della libido” 21. Pertanto possiamo constatare che Freud divide l’anoressia melanconica, fondata sulla perdita di libido nella vita pulsionale,
dall’anoressia isterica, basata sul meccanismo della difesa-disgusto. Freud
sottolinea la distinzione tra “dimensione del lutto” e “lavoro del lutto”.
Nell’anoressia il lutto per l’oggetto perduto annienta la possibilità stessa
di un lavoro del lutto.
Nell’anoressia troviamo una fissazione enigmatica all’oggetto perduto.
Fissazione che dapprima spinge Freud, come abbiamo visto, ad avanzare l’ipotesi di una perdita tout court della libido e che, in un secondo
tempo, in Lutto e melanconia, lo condurrà a teorizzare l’identificazione
all’oggetto perduto come una sorta di spostamento della libido (dall’oggetto all’io) che produce l’effetto melanconico vero e proprio come
estensione dell’ombra dell’oggetto sull’io.
Nell’anoressia troviamo sia il rifiuto come scudo del desiderio rispetto
alla domanda dell’Altro, che la riduzione del desiderio stesso a rifiuto,
ovvero rifiuto del desiderio.
Possiamo considerare la prima oscillazione come l’oscillazione isterica
dell’anoressia e la seconda come l’oscillazione melanconica. Nell’oscillazione melanconica dell’anoressia, il desiderio come rifiuto, si verifica
una degradazione del desiderio a rifiuto. Il soggetto non domanda più
nulla. Il desiderio viene rifiutato e si annulla nel godimento puro della
pulsione di morte.
Questo tema è ripreso da Freud in Lutto e melanconia. In questo testo,
come ho anticipato, Freud considera la posizione anoressica come fenomeno che può accompagnare alcune gravi forme di melanconia. “L’Io
vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibali21. Ibidem, p. 30.
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ca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo.
Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per
spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia” 22 . L’ostinato rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di
melanconia è qui inteso da Freud alla luce del cannibalismo che caratterizza la fase orale, in cui la meta sessuale consiste nell’incorporazione
e in cui l’Io vorrebbe incorporare l’oggetto per distruggerlo.
Nella melanconia, a differenza che nel lutto in cui il mondo si svuota
dell’investimento libidico, è l’Io stesso ad essere svuotato. Questo impoverimento dell’Io è causato dall’incapacità di elaborare la perdita d’oggetto, la quale invece di generare il lavoro del lutto produce un’identificazione dell’Io con l’oggetto perduto di modo che l’ombra dell’oggetto
cade sull’Io, come dice Freud.
La libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell’Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per
instaurare una identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato. L’ombra
dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti viene ad essere giudicato
da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto
abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in
una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata in un dissidio
fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione 23.
In questa declinazione l’anoressia incarna realmente il rifiuto della
castrazione: il soggetto anoressico, osso-scarto, rifiuto, permane in uno
stato di identificazione mortificante con l’oggetto perduto. L’identificazione idealizzante nell’anoressia o il ciclo abbuffata-vomito nella
bulimia possono articolarsi come vere e proprie compensazioni del
Nome-del-Padre forcluso: nella posizione anoressica, erigendo una sorta
di barriera tra il soggetto e l’Altro persecutore in modo da rendere così
22. S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere, cit., vol. VIII, p. 109.
23. Ibidem, p. 108.
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possibile la tenuta di un’unità immaginaria dell’io. In quella bulimica invece, mantenendo a distanza l’oggetto a, attraverso il vomito, in
modo da preservare la sua esteriorità rispetto alla posizione del soggetto.
Paola Francesconi 24 ci invita a riflettere sulla mutazione dell’incidenza
della pulsione orale dai tempi di Freud ad oggi. Sottolinea che nessuno penserebbe di diagnosticare l’introiezione cannibalica del Padre
primigenio del mito freudiano Totem e Tabù come passaggio all’atto
bulimico. L’introiezione cannibalica del padre non era espressione di
disfunzione pulsionale, ma movimento di appropriazione delle insegne
ideali dell’Altro. Mangiare il padre è la più antica versione mitica di
modalità di legame con l’oggetto idealizzato. Con questo atto si abolisce la distanza tra sé e l’oggetto idealizzato per garantirsene la presenza
dentro di sé. Freud afferma che “l’Io assimila i tratti dell’oggetto amato,
diventa un po’ come lui” 25.
Questa è la nascita della civiltà: catturare in sé l’oggetto per esserne trasformati. L’incorporazione garanzia di identità, di assunzione simbolica
di un ideale solo nell’uomo. L’introiezione cannibalica degli attributi
paterni non assicura però un’identità alla donna come tale. Il mito di
Totem e tabù non è adatto a rendere conto della posizione femminile.
Quello che possiamo evincere da queste riflessioni è che se da un lato
in Freud troviamo che esiste un registro della pulsione orale sublimabile
in identificazione, è altrettanto vero che nella donna l’oralità non è interamente simbolizzabile. Non è un caso che le patologie della pulsione
orale colpiscano soprattutto le donne. Il dissidio tra pulsione e Ideale è
in germe nella posizione femminile. Paola Francesconi 26 ci propone un
confronto tra il mitico Convivio di Totem e tabù e quello descritto nel
testo L’ultima cena: anoressia e bulimia 27. (Il Convivio dell’Ultima Cena
viene utilizzato da Massimo Recalcati come metafora della rottura del
24. P. Francesconi, “Note sui moderni disagi dell’oralità”, in La Psicoanalisi, n. 22, 1997, Astrolabio, Roma.
25. S. Freud, Totem e tabù, in Opere, cit., pp. 293-298.
26. P. Francesconi, “Note sui moderni disagi dell’oralità”, in La Psicoanalisi, n. 22, cit..
27. M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondatori, Milano 1997.
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patto con l’Altro). Nel primo la pulsione orale sacrifica l’oggetto orale
e si soddisfa di un oggetto trasformato simbolicamente. Nel secondo
abbiamo il cibo simbolizzato, trasformato dalla cucina dell’Altro e investito di valore simbolico. L’anoressia e la bulimia dicono di no a questo
oggetto simbolizzato: la prima rifiutandolo e la seconda facendolo
regredire a oggetto reale. Nelle anoressie e bulimie la pulsione orale è
diventata veicolo privilegiato di un dissenso nuovo con l’Ideale.
Lacan ci insegna a leggere ogni disturbo come modo di rapportarsi con
l’Altro simbolico. Qual è l’Altro dell’anoressia e bulimia? Francesconi in
questo testo mette in risalto come questo Altro sia un “Altro divorante”
che emerge con una consistenza nuova a partire dai moderni disagi
dell’oralità. Nel fenomeno anoressico e bulimico non reperiamo un
appello al padre ma piuttosto una sfida a un padre che non ha niente
da offrire, che può solo assistere al corpo che va alla deriva di un godimento fuori dalla sua legislazione. Nella bulimia la sfida si traduce nello
spettacolo offerto di un corpo degradato a sacco, a pattumiera colma di
cibo. Nell’anoressia la sfida si traduce nella presentazione di un corpo
ridotto a sacco vuoto, a ideale cadaverico.
Una delle funzioni determinanti del Padre simbolico è quella di addomesticare l’Altro materno, di introdurre una legge nel suo desiderio.
L’Altro materno, che il bambino elegge a supporto dei propri oggetti
pulsionali, viene trasformato dal Padre in Altro castrato, mancante del
fallo e orientato a cercarlo nel Padre. Il Padre separa il bambino dall’Altro pulsionale e fa di questo un Altro desiderante il fallo. Rotto il patto
con l’Altro paterno, in conseguenza anche della caduta ideale del Padre
come testimonia il nostro moderno disagio della civiltà, l’anoressia e la
bulimia installano al suo posto l’Altro materno nella forma dell’Altro
divorante. Un Altro che non fornisce più identificazioni. Ciò che non
è simbolizzabile della pulsione orale fornisce il supporto a un modo di
essere non più inquadrato da un’identificazione ideale, ma ridotto a
un modo di godimento. L’obiezione radicale al patto con l’Altro, nelle
patologie da disfunzione della pulsione orale, comporta due possibilità:
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l’anoressia, che si soddisfa confinando l’Altro divorante nell’insoddisfazione facendosi osso immangiabile, dunque separandosi da esso e la
bulimia, che si aliena nell’Altro divorante abolendone l’alterità.
Geneviève Morel 28 ci presenta i casi di due giovani donne bulimiche.
Essi mostrano che i sembianti fallici non bastano a coprire il campo
della femminilità. Questo tema è stato introdotto da Lacan con il concetto di non-tutto. Queste due donne interpretano il non-tutto della
femminilità non con la mascherata ma con la mostruosità del godimento di una donna, nella linea delle antenate materne. In entrambi i casi
infatti l’enunciato non rimosso circa la mostruosità materna (sacrificare
e rinnegare la propria bambina e fare della figlia il proprio assassino)
è un significato materno direttamente connesso al sintomo bulimico.
Ma questo significato rinvia alla significazione infinita del godimento
materno non regolato dalla legge. La loro soluzione consiste nel condensare la parte non fallica del godimento femminile con la divorazione
presa a prestito dalla “madre insoddisfatta” 29 e precipitare metaforicamente il risultato nel sintomo bulimico.
I primi riferimenti di Lacan all’anoressia sono reperibili nello scritto del
1938 intitolato: I Complessi Familiari nella formazione dell’ individuo.
Ne I Complessi familiari Jacques Lacan sottolinea come il complesso di
svezzamento, il più primitivo dello sviluppo psichico, sia interamente
dominato da fattori culturali e quindi radicalmente diverso dall’istinto. Il complesso di svezzamento fissa nello psichismo la relazione di
nutrimento nella modalità parassitaria imposta dai bisogni della prima
infanzia dell’uomo.
Il complesso di svezzamento rappresenta secondo Lacan la forma primordiale dell’imago materna e fonda i sentimenti più arcaici e più stabili che legano l’individuo alla famiglia.
28. G. Morel, “Sui sintomi e sulla femminilità: bulimia e femminilità”, in La Psicoanalisi, n.
22, cit..
29. J. Lacan, Il Seminario IV, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1957, Einaudi, Torino 1996, cap.
IV pag. 71-73.
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Anche se il complesso di svezzamento rappresenta nello psichismo la
funzione biologica della lattazione non può essere considerato un istinto
in quanto condizionato da una regolazione culturale.
L’anoressia si presenta qui come uno degli effetti (accanto a tossicomanie
orali e nevrosi gastriche) dello svezzamento come “trauma psichico”.
“In effetti lo svezzamento, per via di una qualunque delle contingenze
operative che esso comporta, è spesso un trauma psichico i cui effetti
individuali, anoressie mentali, tossicomanie per vie orali, nevrosi gastriche, rivelano le proprie cause alla psicoanalisi” 30. Pertanto il rifiuto dello
svezzamento rivelerebbe la fissazione del soggetto sull’oggetto orale primario rappresentato dalla forma primordiale dell’imago materna.
L’anoressia rende manifesta una fissazione sull’originaria imago materna e una regressione nostalgica del soggetto che si realizza attraverso la
patologia anoressica, verso la fusione con il mitico oggetto del godimento
primario. L’anoressia si presenta in linea con l’avvelenamento lento delle
tossicomanie orali e con i digiuni delle nevrosi gastriche, come una patologia dell’oralità primaria segnata da una spinta fusionale irresistibile al
recupero dell’esperienza di godimento pieno dell’origine e da una inclinazione autodistruttiva che ne fa una delle forme di suicidio non violento.
“L’analisi di questi casi mostra che nel suo abbandono alla morte il soggetto cerca di ritrovare l’imago della madre” 31. L’imago materna si trasforma dunque da “salutare all’origine” a “fattore di morte” poiché resiste
e lavora contro lo sviluppo psicogenetico del soggetto.
Avvicinandosi al quadro melanconico proposto da Freud l’anoressia è
qui connotata da un fondamentale “appetito di morte” marcando così il
carattere regressivo-fusionale del quadro patologico a scapito del carattere
dialettico-separativo. Al centro dell’anoressia viene evidenziata una fissazione orale, proprio come sottolineato da Freud nel parallelismo che fa tra
melanconia e anoressia. Nella declinazione melanconica, infatti, il rifiuto
30. J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’ individuo, 1938, Seuil, Paris 2001.
31. Ibidem.
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del desiderio precipita il soggetto in un godimento larvale e parassitario.
In una fissazione di godimento che si scrive direttamente nel corpo. La
fusione con l’Altro, con il comando superegoico dell’Altro, trionfa. Il
soggetto si riduce ad oggetto. È qui in gioco il rifiuto del significante
come tale nel tentativo di fare esistere un godimento dell’essere puro. Il
muro del linguaggio svuota il soggetto di godimento, stacca l’oggetto a
dal corpo, introduce il principio normativo della castrazione. L’anoressia
nella versione psicotico-melanconica, è esattamente il rifiuto totale di
questa alienazione significante, della perdita dell’oggetto, del distacco
dalla Cosa. C’è identificazione a Das Ding. Il desiderio non è barrato
dalla funzione paterna, pertanto assistiamo al dominio di un Altro superegoico che Selvini Palazzoli definisce “Matriarcato superegoico”.
Freud, nella sua Minuta G sostiene, come abbiamo visto, che l’anoressia nervosa è “una melanconia che si verifica ove la sessualità non si è
ancora sviluppata” e che “la perdita di appetito” è “perdita di libido”.
Quello che è in gioco in questo riferimento è una spinta paradossale
del soggetto a ritrovare l’imago della madre anche a prezzo di un suo
abbandono alla morte messo in atto per sottrarsi all’ineludibile della
scissione. L’anoressia sarebbe dunque sulla linea dell’imago materna, un
tentativo di ritrovare una totalità dell’essere.
Dal testo I Complessi Familiari sembra emergere in Lacan il quadro di
un paradigma psicogenetico-regressivo dell’anoressia. L’anoressia viene
infatti inquadrata nel contesto della civiltà contemporanea, caratterizzata da un “declino sociale dell’imago paterna” e in una cornice familiare
all’interno della quale l’anoressica sviluppa con la madre una relazione
non mediata efficacemente dal riferimento alla funzione dell’Edipo
e caratterizzata dal predominio del Complesso di Svezzamento che la
condanna a “ripetere all’infinito lo sforzo del distacco dalla madre”.
Lacan, nello scritto su “La significazione del fallo” fa riferimento a tre
diverse categorie: bisogno, domanda e desiderio.
Il bisogno definisce uno stato di urgenza, di pressione fisiologica. Il suo
soddisfacimento implica un’azione specifica, fissata geneticamente e
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rivolta verso un oggetto. Così il bisogno alimentare si estingue provvisoriamente solo con l’azione specifica dello sfamarsi attraverso il consumo
del cibo. Ma, come già per Freud, per Lacan il bisogno deve, nel campo
delle relazioni umane, articolarsi in una domanda per essere soddisfatto.
La domanda è una sorta di strettoia in cui il bisogno, per così dire, è
obbligato a passare. La domanda precisa la dipendenza del soggetto dal
campo dell’Altro. Essa è l’articolazione, attraverso il significante, del
bisogno come messaggio rivolto all’Altro come appello all’Altro.
Diversa è la struttura del desiderio. Il desiderio è irriducibile sia al bisogno che alla domanda. Lacan afferma che il desiderio “è al di là della
domanda” 32, il desiderio è una sorta di residuo interno alla domanda.
Il fondo della domanda è il desiderio. Nella domanda che il bambino
rivolge alla madre non chiede solamente di essere soddisfatto nei suoi
bisogni. Il bambino domanda la presenza dell’Altro, domanda di essere
amato, desiderato dall’Altro, poiché il desiderio dell’Altro è proprio ciò
che, al di là della soddisfazione della domanda, particolarizza il bambino, lo fa sentire unico per l’Altro, insostituibile. È esattamente questo
che in fondo il bambino chiede: che l’Altro gli doni la sua particolarità.
Il desiderio non può dunque esaurirsi in nessuna domanda specifica. Il
desiderio come desiderio dell’Altro è desiderio del desiderio dell’Altro
non è desiderio di qualcosa.
In questo senso il desiderio, più che a una soddisfazione, è legato ad
una mancanza, giustamente indicata da Lacan non come mancanza
contingente di qualcosa, ma come mancanza strutturale, come “mancanza ad essere”.
Per Lacan proprio la figura dell’anoressia mentale è la figura clinica che
meglio illumina questa differenziazione strutturale tra bisogno, domanda e desiderio. L’anoressica, infatti, sceglie il niente, decide di mangiare
niente, perché in questo modo reagisce ad un Altro materno che ha
confuso il registro del desiderio con quello del bisogno e alla domanda
32. J. Lacan, “La significazione del fallo” (1966), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. II.
98 | attualità lacaniana
n. 12/2010
del bambino sa solo rispondere col cibo. Per scollare nuovamente il
desiderio dal bisogno l’anoressica deve allora negarsi come soggetto che
ha bisogno di qualcosa. La sua scelta del niente punta infatti a preservare il desiderio, sacrificando per questo la soddisfazione dei suoi bisogni.
Ne “La direzione della cura” Lacan afferma che “Il desiderio è ciò che si
manifesta nell’intervallo scavato dalla domanda aldiquà di se stessa in
quanto il soggetto, articolando la catena significante, porta alla luce la
mancanza ad essere insieme all’invocazione a riceverne il complemento
dell’Altro, posto che l’Altro, luogo della parola, è anche il luogo di questa mancanza” 33.
“In tal modo ciò che all’Altro è dato di colmare, e che è proprio ciò che
non ha perché anche a lui l’essere manca, è ciò che si chiama amore, ma
anche odio e ignoranza”. “La soddisfazione del bisogno appare come
l’illusione in cui la domanda d’amore va a schiantarsi […]” 34.
Nel seminario su La relazione d’oggetto, per Lacan l’anoressia diventa
un modo di imporre all’Altro la differenza tra bisogno e desiderio.
Il dono si manifesta all’appello. L’appello si fa sentire quando l’oggetto non
c’è. Quando c’è, l’oggetto si manifesta essenzialmente solo come segno
del dono, vale a dire come niente in quanto oggetto di soddisfacimento. È
proprio lì per essere respinto, essendo questo niente. Questo gioco simbolico ha quindi un carattere fondamentalmente deludente. Ecco l’articolazione essenziale a partire da cui il soddisfacimento si situa e prende senso.
[…]. Il bambino riduce ciò che è deludente nel gioco simbolico tramite
la presa orale dell’oggetto reale di soddisfacimento, per esempio il seno.
Ciò che lo addormenta in questo soddisfacimento è proprio la delusione,
la frustrazione, il rifiuto che a volte ha provato. […]. È il fondo della relazione del soggetto con la coppia presenza-assenza, […], il bambino riduce
nel soddisfacimento l’insoddisfazione fondamentale di questa relazione.
33. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere” (1958), in Scritti, cit., vol. II,
p. 623.
34. Ibidem, p. 623.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 99
Addormenta il gioco nella presa orale. Soffoca ciò che riguarda la relazione fondamentalmente simbolica. […]. È così che l’oralità diventa ciò che.
Essendo una modalità istintuale della fame, è portatrice di una libido conservatrice del corpo proprio, ma non è solo questo. […]. È libido in senso
proprio e libido sessuale. […]. Dal momento che entra nella dialettica della
frustrazione […] l’oggetto reale non ha alcun bisogno di essere specificato.
Anche se non è il seno della madre, non per questo perderà il valore del
suo posto nella dialettica sessuale da cui dipende l’erotizzazione della zona
orale. Non è l’oggetto a svolgere il ruolo essenziale, ma il fatto che l’attività
ha preso una funzione erotizzata sul piano del desiderio, il quale si articola
nell’ordine simbolico 35.
Lacan continua facendo notare che queste considerazioni mettono in
evidenza la possibilità che per svolgere lo stesso ruolo non ci sia più
alcun oggetto reale. Si tratta solo di ciò che dà luogo a un soddisfacimento sostitutivo della saturazione simbolica: “Solo questo può spiegare
la vera funzione di un sintomo come quello dell’anoressia mentale. Vi
ho già detto che l’anoressia mentale non è non mangiare ma non mangiare niente” 36. Lacan insiste sul “mangiare niente” in quanto “niente”
è qualcosa che esiste su un piano simbolico. Il bambino mangia niente,
che è una cosa diversa da una negazione dell’attività. “Questo punto
è indispensabile per capire la fenomenologia dell’anoressia mentale” 37.
“Di questa assenza gustata come tale, si serve nei confronti di ciò che
ha di fronte, ossia la madre da cui dipende. Grazie a questo niente, la fa
dipendere da lui” 38.
In questo contesto ciò che è messo in rilievo è la funzione dell’appello.
Poiché quel che è invocato può essere respinto, l’appello risulta fondatore dell’ordine simbolico nell’alternanza che inaugura. La vera natura
35. J. Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1956-1957, cit., pp. 197-199.
36. Ibidem, p. 199.
37. Ibidem.
38. Ibidem.
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dell’appello, in quanto ha di mira l’amore, si fa intendere quando l’oggetto non è presente, cioè niente in quanto oggetto di soddisfacimento
e, invece, segno mancato del dono d’amore. Quando invece l’oggetto è
presente è lì per essere rifiutato in quanto è niente in termini di soddisfacimento. La domanda d’amore del bambino risulta talvolta schiacciata sull’attività del succhiare, ma starà soltanto ingannando la sua delusione. In quest’opera Lacan evidenzia una dialettica della frustrazione a
partire da un doppio registro: frustrazione nell’amore e nel godimento.
È perché si subisce una frustrazione sul piano dell’amore che ci si getta
sul registro della soddisfazione, come sostituto dell’amore. Il soggetto
cerca una soddisfazione alla frustrazione d’amore con un oggetto reale,
un oggetto accessibile, oggetto cibo come parte dell’oggetto d’amore,
suo rappresentante.
Ogni volta che vi è frustrazione d’amore, questa si compensa con il soddisfacimento del bisogno. Nella misura in cui la madre manca al bambino
che la chiama, lui si attacca al suo seno e questo seno diventa la cosa più
significativa. Finché lo ha in bocca e se ne soddisfa, da un lato il bambino non può essere separato dalla madre, dall’altro tutto questo lo lascia
nutrito, riposato e soddisfatto. Il soddisfacimento del bisogno è qui la
compensazione della frustrazione d’amore, e allo stesso tempo comincia,
direi quasi, a diventare il suo alibi 39.
È proprio a partire da questa frustrazione sul piano della soddisfazione
che l’oggetto da reale diventa simbolico. A partire da ciò può funzionare come segno d’amore. La soddisfazione del bisogno è sospesa di
fronte alla domanda di un oggetto divenuto segno nell’esigenza d’amore. La privazione interna a questo movimento dialettico introduce alla
scelta anoressica come manovra che punta alla produzione di questo
segno d’amore che si rivolge ad un Altro che lo nega. Che l’Altro, per
39. Ibidem, pag. 188.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 101
soddisfare, dia non quello che ha ma quello che non ha, è quel niente
di soddisfazione in cui il soggetto può rinvenire la marca dell’amore.
L’oggetto si trasforma non appena diviene segno nell’esigenza d’amore.
È proprio questa attività a giocare un ruolo determinante. L’attività di
suzione diviene un’attività simbolica, attività che ha preso una funzione
erotizzata sul piano del desiderio, che si ordina nell’ordine simbolico.
Questa supremazia dell’attività sull’oggetto arriva ad annullare l’oggetto
nel registro del reale, che diventa “niente da mangiare”. Questo niente
esiste, come abbiamo visto, sul piano simbolico. Mangiare niente è
diverso da una negazione di attività, niente è al fondo di ogni domanda d’amore con cui il bambino rovescia la relazione di dipendenza; la
madre ora dipende dal suo desiderio per lui. Il “niente” dell’anoressia
ha un valore simbolico. Questo è ribadito da Lacan anche quando parla
del piccolo Hans. Lacan fa un confronto tra la paura relativa all’assenza
paterna e il niente dell’anoressia. Afferma che questa assenza va intesa
come il “niente” in gioco nell’anoressia.
Il carattere irreale della paura in questione è appunto manifestato, se sappiamo vederlo, tramite la sua forma – la paura di un’assenza, voglio dire
di questo oggetto, appena designato. Il piccolo Hans ha paura della sua
assenza, da intendere come vi dico che bisogna intendere nell’anoressia
mentale – non già che il bambino non mangia, ma che mangia niente. Qui
il piccolo Hans ha paura dell’assenza del padre, assenza che è lì e che egli
incomincia a simbolizzare 40.
La tesi di Lacan in questo quadro è che l’anoressica si nutre di niente
dove il niente assume il valore di significante dell’irriducibilità del desiderio del soggetto alla presa con l’onnipotenza dell’Altro materno. Il
niente di cui l’anoressica si nutre incarna la strutturale metonimia del
desiderio umano nella sua inesauribilità.
40. Ibidem, pag. 377.
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Ne “La direzione della cura e i principi del suo potere” Lacan assume
l’anoressia come esempio dell’irriducibilità strutturale del desiderio al
registro del bisogno. La manovra in atto nel rifiuto anoressico del cibo
portato alle estreme conseguenze del rischio di morte viene intesa da
Lacan come operazione attiva del soggetto per mantenersi vivo presso
l’Altro come soggetto desiderante, anche a rischio della propria morte
come organismo affetto dai bisogni: “La soddisfazione del bisogno
appare come l’illusione in cui la domanda d’amore va a schiantarsi […].
Perché l’essere del linguaggio è il non essere degli oggetti” 41.
L’anoressia mette in rilievo una confusione fondamentale in atto presso
l’Altro genitoriale che soggetto punta inconsciamente a smascherare e
correggere. “Ma il bambino non si addormenta sempre così nel seno
dell’essere, soprattutto se l’Altro, […] al posto di ciò che non ha lo rimpinza della pappa asfissiante di ciò che ha, cioè confonde le sue cure
con il dono del suo amore” 42 .
I genitori rispondono al soggetto somministrandogli accuratamente le
cure e gli oggetti del bisogno, ma restano ciechi davanti alla domanda fondamentale che anima il suo desiderio che è domanda d’amore.
Domanda di un dono che non sia oggetto di soddisfacimento ma segno
dell’amore dell’Altro per il soggetto. Lacan mette in risalto il rapporto
stretto che l’anoressica tesse tra il desiderio e il rifiuto: “È il bambino
nutrito con più amore a rifiutare il nutrimento e orchestrare il suo
rifiuto come un desiderio” 43. È dunque attraverso il rifiuto anoressico
che il desiderio può sopravvivere all’attentato della domanda dell’Altro.
Perché ci sia segno d’amore occorre che l’Altro non riempia il soggetto
somministrandogli la “pappa asfissiante” di ciò che ha, ma piuttosto
gli offra ciò che non ha, la propria mancanza, cioè il proprio amore.
In questa prospettiva l’anoressica orchestra “il suo rifiuto come un
desiderio”, ossia fa funzionare il rifiuto come una domanda inconscia e
41. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere” (1958), in Scritti, cit., p. 623.
42. Ibidem, pag. 623.
43. Ibidem, pag. 624.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 103
silenziosa che interpella l’Altro per ottenere il segno dell’amore, la testimonianza del suo desiderio per lei. Il corpo magro è un corpo che non
si soddisfa dell’oggetto del bisogno per mantenersi vivo per l’Altro come
oggetto di desiderio.
Nell’anoressia isterica la funzione di rifiuto non si riduce tuttavia a
radicalizzare la differenza tra desiderio e bisogno. Il rifiuto rivela l’irriducibilità del desiderio al campo della domanda. Il desiderio, infatti, è
al di qua e al di là della domanda. Il desiderio, come afferma Lacan, è
“la metonimia della mancanza ad essere” 44.
Dewanbrechies-La Sagna 45 chiama “anoressia vera” quella che Lacan, in
questo seminario chiama “anoressia […] in rapporto al mentale” 46.
Afferma che l’anoressia mentale vera non è una clinica del fallo ma una
clinica dell’oggetto. Così l’anoressica rifiutando l’oggetto cibo in nome
del segno d’amore che attende dall’Altro, si fa essa stessa oggetto d’angoscia per l’Altro ponendosi come un oggetto impossibile da nutrire.
Questa posizione di oggetto la mette fuori discorso. Non si tratta del
fuori discorso della psicosi, ma del rapporto con l’oggetto.
Nel seminario del 1964, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan parla dell’anoressia del bambino come incarnazione di una
domanda disperata e muta rivolta dal soggetto ai suoi genitori per verificarne l’amore per lui.
Il soggetto attende dall’Altro genitoriale una risposta che funzioni come
segno d’amore, come parola che dà un posto insostituibile al soggetto
nel desiderio dell’Altro.
Così Pierre Naveau descrive come il sintomo bulimico della sua paziente Clia viene al posto di un “impossibile a dire” 47. La tesi che sostiene
è che il sintomo della sua paziente, la bulimia, sia in rapporto al dire:
44. Ibidem, p. 618.
45. C. Dewambrechies-La Sagna, “L’anoressia vera della ragazza”, in Attualità Lacaniana, n. 5,
2006, FrancoAngeli.
46. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 596.
47. P. Caveau, “L’angoisse dans l’anorexie feminine”, in La Cause freudienne, n. 59, Navarin.
104 | attualità lacaniana
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“dire niente e dire troppo”. Così la bulimia di Clia è legata alla parola
di sua madre e di suo padre mettendo l’accento sul fatto che lei non ha
niente da dire sul loro conto; e, afferma Pierre Naveau, sta proprio qui
il nodo della questione.
In Lacan il riferimento all’anoressia passa anche attraverso la pulsione
orale. Negli Scritti 48 Lacan propone l’esempio del paziente di Kris e
dell’interpretazione di quest’ultimo. Proprio in seguito alla sua interpretazione “Non rubi niente” la pulsione orale emerge nell’acting out delle
“cervella fresche”. Sempre negli Scritti, Lacan afferma: “Ciò che importa non è il fatto che il suo paziente non ruba, ma che non… Nessun
non: che egli ruba niente. […] ciò che gli fa credere di rubare […] che
possa venirgli in mente un’idea sua” 49.
Secondo Lacan ciò che veramente interessa al paziente è di continuare
a mantenere il niente su cui vive l’idea come puntualizza E. Laurent 50
nel suo articolo sull’anoressia. Questo niente su cui vive l’idea altro non
è che il posto del desiderio. Lacan aggiunge “Lei Kris tratta il paziente
come un ossessionato, ma lui Le tende la mano col suo fantasma di
commestibile: per darLe l’occasione di avere un quarto d’ora di anticipo
sulla nosologia della sua epoca con la diagnosi: Anoressia Mentale” 51.
Dewanbrechies-La Sagna 52 osserva che è molto interessante che il caso
elevato da Lacan alla dignità di “anoressia mentale”, come “avversione del paziente per ciò che egli pensa”, sia un uomo. Ciò permette
di collocare l’anoressia come un rifiuto, non della femminilità, come
comunemente si dice, ma come “un rifiuto simbolicamente motivato”
del “desiderio di cui vive l’idea” 53, cioè come un rifiuto del desiderio.
Dewanbrechies-La Sagna afferma che la sua paziente, Catherine, non
48. J. Lacan, “Risposta al commento di Jean Hyppolite”, in Scritti, cit., vol. I, p. 389.
49. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 595.
50. E. Laurent, “Sull’anoressia”, in La Psicoanalisi, n. 15, 1994, Astrolabio, Roma.
51. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., pag. 596.
52. C. Dewambrechies- La Sagna, “Un caso di tossicomania del niente”, in La Psicoanalisi, n.
22, Astrolabio, 1997, Roma.
53. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 596.
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 105
ha idea di poter avere un proprio desiderio, un desiderio che sia il suo.
Quando si sorprende a mangiare, ella preferisce pensare che desidera
rubare piuttosto che desiderare di mangiare. Vale a dire che nei suoi
primi passi verso il desiderio dell’Altro, pensa di commettere una frode
e di non pagarne il prezzo. Pensa che il desiderio è quello del furto, il
che è una versione del desiderio dell’Altro, che corrisponde alla rivelazione di un punto della struttura. L’interpretazione fatta a Catherine
“Cosa ruba?” risponde ad una struttura strettamente inversa rispetto
all’interpretazione di Kris. “Quali ricette?” ricorda alla paziente che si
esclude che si consumi un qualcosa di reale nell’analisi e che ciò di cui
si tratta è ridare il suo giusto posto al desiderio.
Dewanbrechies-La Sagna ricorda che negli anni settanta (seminario
ventunesimo, 9 aprile 1974) Lacan affronta un punto di differenza radicale tra anoressia e isteria. Questo punto riguarda le rispettive posizioni
nei confronti del sapere. L’anoressica suppone all’Altro un desiderio di
sapere. Non gli suppone un sapere ma un desiderio di sapere. L’anoressica è talmente preoccupata di sapere se mangia che, per scoraggiare
questo desiderio di sapere, mangia niente. L’analista deve vigilare per
non sovrapporre sulla propria persona il desiderio dell’analista e il soggetto supposto sapere, perché l’anoressica ritrova allora la supposizione
di un Altro che desidera sapere. È nel separare il desiderio dal sapere,
desupponendo il sapere, vale a dire quel che fa l’interpretazione, che c’è
una possibilità di azione.
Carole Dewambrechies-La Sagna 54 riprende questo tema partendo
dall’esempio del paziente di Kris per mettere in risalto il rapporto che
intercorre tra l’oggetto e il sapere. In questo testo afferma che “il sapere
è una versione del desiderio dell’Altro”.
Nel seminario Il Transfert, troviamo un altro riferimento sull’anoressia 55.
Lacan sostiene che ogni domanda tende a strutturarsi in modo da
54. C. Dewambrechies-P. Lasagna, “Les anorexiques ont-elles une mère?”, in La Cause freudienne, n. 68, Navarin.
55. J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il Transfert, 1960-1961, Einaudi, Torino 2006.
106 | attualità lacaniana
n. 12/2010
evocare nell’Altro una risposta rovesciata, così alla domanda di essere
nutrito risponde la domanda di lasciarsi nutrire. È dal confronto di
queste domanda “che nascono tutte queste discordanze, di cui la più
immaginata è quella del rifiuto di lasciarsi nutrire nell’anoressia detta, a
più o meno giusto titolo, mentale” 56.
Un desiderio rifiuta di sparire come desiderio per il fatto di essere
soddisfatto come domanda. La domanda orale ha del resto, aggiunge
Lacan, un altro significato da quello di soddisfare la fame. È domanda
sessuale, cannibalismo, come afferma Freud e il cannibalismo ha un
senso sessuale. La libido è un surplus che rende vana ogni soddisfazione
del bisogno là dove si colloca.
Aggiunge: “Non è che all’interno della domanda dell’Altro che si costituisce come riflesso la fame del soggetto. L’Altro non è solo fame, ma fame
articolata, fame che domanda. E il soggetto è aperto a divenire oggetto,
ma, se posso dire, di una fame che sceglie. La transizione è fatta dalla
fame all’erotismo attraverso la via di quel che ho chiamato preferenza” 57.
I concetti di “preferenza” e di “fame che sceglie” rimandano alla questione di un desiderio interessato all’oggetto particolare, al registro della
scelta.
Per il soggetto anoressico non c’è fame che sceglie i suoi oggetti ma
la scelta radicale della fame come via di emancipazione radicale nei
confronti dell’oggetto. Nella sponda bulimica invece una spinta pulsionale acefala sommerge la scelta d’oggetto per affermarsi come fame non
scelta che ruota attorno alla potenza bruta dell’oggetto. Da una parte
la scelta della fame per la salvaguardia del desiderio, dall’altra la fame
che travolge ogni scelta. L’oggetto andrà ad assumere il niente e il particolare, ponendosi come causa del desiderio, al di qua della sostanziale
equivalenza degli oggetti della catena.
56. C. Dewanbrechies-La Sagna, “Les anorexiques ont-elles une mère?”, cit., p. 239, (traduzione
nostra).
57. Ibidem, p. 255, (traduzione nostra).
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 107
Con Domenico Cosenza 58 possiamo riassumere i riferimenti essenziali
di Lacan all’anoressia nel seminario undicesimo, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, in quattro nodi essenziali:
1 L’anoressia e il niente come oggetto a prodotto dallo svezzamento
nel tempo della separazione
2 Il bambino anoressico mangia il niente
3 Il “mangiare niente” anoressico e l’oggetto dello svezzamento funzionano come privazione al livello della castrazione
4 L’anoressica, il fantasma della propria sparizione e la questione
che incarna nell’enigma del desiderio dell’Altro parentale: – Può
perdermi?
Il riferimento al niente come oggetto a prodotto dallo svezzamento nel
tempo della separazione si situa al centro della dialettica di alienazione/
separazione entro cui si costituisce il soggetto e mette in luce il passaggio decisivo in gioco nel tempo della separazione. La costituzione del
soggetto presuppone la separazione dell’oggetto a come organo, che
diviene simbolo del fallo in quanto mancante −, ossia della castrazione del soggetto stesso. Lacan afferma che “a livello orale, il niente,
in quanto ciò da cui il soggetto si è svezzato non è più niente per lui.
Nell’anoressia mentale, ciò che il bambino mangia è il niente. Capite
per questa via come l’oggetto dello svezzamento possa venire a funzionare a livello della castrazione come privazione” 59. Per Lacan lo svezzamento è un’operazione attiva del soggetto in via di costituzione e non
qualcosa che subisce.
Nel seminario undicesimo pertanto, Lacan indica la natura separativa
e separabile dell’oggetto. Afferma che occorre che l’oggetto a sia un
oggetto e che abbia un qualche rapporto con la mancanza.
Abbiamo un niente come oggetto che per la sua natura separabile è
messo in grado di svolgere una funzione separatrice. È questo niente di
58. D. Cosenza, Il muro dell’anoressia, Astrolabio, 2008 Roma.
59. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit..
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reale come poppata che si stacca sia dall’Altro che ne è a sua volta privato, sia dal soggetto grazie all’intervento del Nome-del-Padre.
Questa privazione può soddisfarsi nell’oggetto “niente”. Il mangiare
niente del bambino anoressico mostra l’irriducibilità dell’oggetto a al
campo del significante, incarnato da un godimento invisibile e innominabile se non attraverso il significante “niente”.
Lacan espone l’operazione compiuta dal bambino anoressico rispetto al
niente come oggetto a nel tempo logico della separazione. Dinanzi alla
perdita dell’oggetto orale per l’effetto dello svezzamento e all’apertura al
piano strutturale della castrazione −, l’operazione anoressica consiste
in una manovra antiseparativa in cui, attraverso il rifiuto di mangiare
cibo, l’oggetto niente viene trattenuto nella bocca vuota e positivizzato
come godimento reale in atto. Il soggetto anoressico non si separa fino
in fondo dall’oggetto niente, trattenendo il godimento primario nella
bocca. Volendosi sottrarre agli effetti dell’alienazione significante sul
godimento che abita il corpo pulsionale, pur di trattenere il pieno godimento dell’oggetto primario del soddisfacimento, l’anoressica perde così
la possibilità di un recupero di godimento a livello della fallicizzazione
del corpo pulsionale come corpo iscritto nella dialettica del desiderio e
nella significazione fallica.
L’isterica afferma la privazione dell’oggetto, ne produce la caduta per
mantenere la presenza di un puro soggetto del desiderio, perché sussista
sulla scena, come vero protagonista, il desiderio insoddisfatto. L’anoressia appare, in questo contesto, come dimostrazione di quella parte di sé
che l’articolazione significante non può esplicitare. L’anoressia diventa
allora una via di radicalizzazione della posizione isterica. L’anoressica
però, che pure parte come l’isterica, per salvaguardare il desiderio, ne
perde in realtà l’accesso. Il suo desiderio appare deificato, schiacciato
di fronte al godimento. Di qui gli effetti di ricaduta nel reale del suo
corpo: amenorrea nella donna, riduzione al minimo delle forme sessuali
del corpo, prevalere di una forma entropica e inerziale del desiderio
primario che Lacan chiama ne I Complessi familiari “desiderio della
Edy Marruchi | Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi | 109
larva” e situato tra la vita e la morte. Sempre nel seminario undicesimo
Lacan ripropone il tratto melanconico dell’anoressia. “Il fantasma della
sua morte, della sua scomparsa è il primo oggetto che il soggetto deve
mettere in gioco in questa dialettica, e di fatto lo mette. Lo sappiamo
da mille fatti, non fosse che nell’anoressia mentale” 60. Desiderio mortifero che in “Funzione e campo” chiamava “desiderio di morte” e che ne
I complessi familiari definiva “appetito di morte”. In questo seminario a
partire dal richiamo all’anoressia Lacan mette in luce due punti fondamentali del suo insegnamento: l’irriducibilità della funzione simbolica
del desiderio al piano del bisogno e della domanda, come emerge ne
“La direzione della cura” e l’irriducibilità della funzione del godimento
come reale e dell’oggetto a come causa di desiderio all’ordine simbolico
dell’Altro significante.
In questo lavoro ho tentato di indagare come l’oralità sia implicata nella
formazione del sintomo alimentare e come questo ne venga condizionato.
È interessante notare come il disturbo alimentare possa essere una
faccia dell’oggetto orale utilizzata dal soggetto come modalità di separazione dal godimento cattivo della madre. Il caso di Erika ne è un
esempio: come ci mostra bene la sua bulimia l’oggetto è assolutamente
variabile, l’obiettivo della pulsione è soddisfarsi, “mangiare”.
La zona erogena è in rapporto alla pulsione parziale: la bocca è ciò
che mette il limite, che rifiuta, che rimane senza parole. Nel disegno
di Erika la bocca è una bocca cucita, inesistente. Il vomito è l’effetto
d’angoscia di sputare fuori l’oggetto che entrando nella pulsione diviene
insostenibile. Erika ci mostra molto bene come agisce la spinta pulsionale. Ogni tentativo di sublimazione per non restare nella degradazione
dell’oggetto orale sembra fallire lasciandola in balia del desiderio soffocante della madre. Fino a che punto l’Altro è distruttivo?
La madre non è la madre del dono bensì la madre cattiva, la madre
persecutoria. La madre è un Altro persecutorio ma anche un Altro che
60. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit..
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non parla pertanto in parte indecifrabile. Vediamo qui come la Metafora Paterna descritta da Lacan non è sufficiente a significare il desiderio
della madre né la Funzione Paterna è adeguata a trattarne il godimento.
La parola del padre non sembra assumere simbolicamente la forma
della metafora, non occupa il posto del “paletto” che divarica le fauci
materne, ed ecco apparire il vomito come tentativo di trattamento del
godimento della madre.
La parola della madre non permette al padre di istituirsi come metafora
anzi lo colloca come prolungamento del godimento mortifero materno.
I baci del padre non possono essere significati e divengono sporchi e
ambigui.
Nel seminario L’Angoscia Lacan ci parla dell’oggetto d’angoscia e della
separazione. Erika è l’altra faccia della medaglia di sua madre, nonostante l’odio non può separarsi da lei pena la sua stessa scomparsa. Nel
disegno appare infatti una stella nera, un’ombra, un buco nero dal
quale Erika potrebbe venire risucchiata da un momento all’altro.
parte seconda
dall a parte dell’ inconscio, torino 2010
113
dalla divisione alla scissione
di Fabio Galimberti *1
A partire dal titolo del Convegno “Dalla parte dell’ inconscio”, l’autore del testo
pone due questioni: qual è la parte dell’ inconscio quando il soggetto stesso è fatto
di più parti? Quale ruolo gioca la verità inconscia nel mostrare il reale della partizione del soggetto?
Parole chiave: inconscio, verità, partizione del soggetto
“Niente gli è più dissimile di se stesso”
(D. Diderot, Il nipote di Rameau)
la divisione
Alcune nozioni psicoanalitiche sono ormai penetrate nel sapere generale, quasi fanno parte del senso comune. Eppure capita, in seduta, di
ascoltare affermazioni che smentiscono questa penetrazione, come ad
esempio la seguente di un paziente che vedo da qualche anno: “Dottore,
non avrei mai pensato venendo qui di scoprire di avere un desiderio per
mia madre!”. Al suo ha fatto seguito il mio stupore nell’ascoltare questa
frase, pronunciata da un uomo di trentacinque anni, laureato e di cultura media. Mi sono domandato: ma la psicoanalisi ha ancora queste
* Fabio Galimberti è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della
Regione Lombardia; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano
per la clinica, la terapia e la scienza.
attualità lacaniana n. 12/2010
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n. 12/2010
scoperte in serbo? Ha ancora la possibilità di simili effetti di sorpresa
sul soggetto?
Sappiamo che c’è una separazione tra sapere e verità. Anzi che il sapere
è un buon modo per non saperne niente della verità. Lo constatiamo
nelle nostre analisi, soprattutto in quelle di chi si forma come analista
e ha una frequentazione assidua con la teoria analitica. In queste stesse
analisi il soggetto scopre sulla propria pelle l’abc della dottrina in modo
inaspettato: aveva sotto il naso la verità, ma non ne sentiva l’odore.
La verità, però, se mantiene un effetto di sorpresa non ha sempre un
potere di risoluzione. Per il mio paziente, infatti, questa “rivelazione”
non ha nel tempo risolto un sintomo che ne affligge la vita amorosa e
sessuale, che rimane scissa in due direzioni opposte. Il lavoro analitico
non ha intaccato una modalità permanente di godimento che si esprime
nella nota forma maschile di degradazione della vita amorosa: là dove il
soggetto ama non desidera, là dove desidera non ama. Il paziente dice
chiaramente che vorrebbe trovare una donna che gli dia “il 100% di
soddisfazione affettiva e il 100% di soddisfazione sessuale”. In termini
lacaniani diremmo che vuole trovare La donna, quella capace di riunire “la corrente di tenerezza” e “la corrente sessuale” che sono invece
divergenti. Secondo Miller, Freud era convinto, quanto il mio paziente,
che questa donna esistesse. Convinto teoricamente, perché nella vita
non ne ha mai incontrata una che gli consentisse di far convergere le
due diverse correnti. Eppure Freud non faceva dipendere solo dall’incontro giusto la possibilità di questa convergenza. Perché pensava che
fosse necessario per chi volesse diventare “libero e perciò felice nella vita
amorosa” superare “il rispetto dinanzi alla donna” e abituarsi “all’idea
dell’incesto con la madre o la sorella” 1. Era convinto fosse necessario
da parte del soggetto il raggiungimento di questa consapevolezza e di
questa accettazione.
1. S. Freud, Sulla più comune degradazione della vita amorosa, in Opere, Bollati Boringhieri,
Torino 1994, vol. VI, p. 427.
Fabio Galimberti | Dalla divisione alla scissione | 115
la spaltung
Lacan ha riletto la frattura libidica nelle due correnti nei termini della
divergenza tra desiderio e domanda. E riteneva che la loro scissione non
fosse ricomponibile. Per parlarne ha spesso fatto riferimento all’articolo
“La scissione dell’Io nel processo di difesa” che ha sempre visto come
il lascito testamentario di Freud. Ogni volta che lo cita aggiunge che
Freud l’ha scritto appena prima che la penna gli cadesse di mano. In
effetti è una nota del 1938, incompleta, che è stata pubblicata soltanto postuma. Ma perché Lacan dà tanta importanza a questo testo? Lì
Freud avanza l’idea che in un soggetto possano coesistere due atteggiamenti contrapposti di fronte alla scoperta capitale della vita soggettiva:
la castrazione. Non si tratta di due reazioni sentimentali differenti, non
si tratta dell’ambivalenza affettiva. È un’ovvietà analitica e non solo
analitica che un soggetto possa provare sentimenti contrastanti di fronte ad una stessa esperienza. Qui si tratta di due giudizi diversi, di un
“sì” e di un “no” detti alla castrazione, che sono pronunciati dallo stesso
soggetto. “Come è possibile?” domanda Freud. È possibile – risponde –
solo a condizione che l’Io si scinda. Si scinda in un Io che riconosce la
castrazione e in un Io che la rifiuta. Così – scrive – le “due impostazioni
coesistono per tutta la vita una accanto all’altra, senza mai influenzarsi
a vicenda” 2. È questo “senza mai influenzarsi a vicenda” che è cruciale.
Perché la conseguenza è che la scissione, la Spaltung, rimarrà definitiva
e che davvero uno stesso soggetto conterrà in sé due Io: è – dice Freud –
“una lacerazione che non si cicatrizzerà mai più”. L’Io stesso è spaccato,
tagliato in due. Ma questa non è forse la condizione della psicosi e più
esattamente di quella schizofrenica? Freud lo riconosce, ma è costretto
ad ammettere, con la sua caratteristica sottomissione ai dati della clinica, che questa condizione vale anche per la nevrosi. Che cosa distingue
allora la scissione dell’Io nell’uno e nell’altro caso?
2. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in Opere, cit., vol. XI, p. 630.
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n. 12/2010
la stoffa dell’io
Per rispondere torniamo alla descrizione freudiana dei due Io. Uno,
quello che riconosce la castrazione e sottosta alla minaccia superegoica, rinuncia alla soddisfazione. In termini lacaniani si colloca dal lato
del desiderio contro il godimento. È il soggetto articolato nella catena
significante che cercherà di ritrovarsi nel campo dell’Altro. Con tutte
le vicissitudini e le impasses che questo comporta. L’altro Io, quello
che rinnega la castrazione, non rinuncia alla soddisfazione pulsionale e
gode. Sceglie il godimento contro il desiderio. Ha trovato l’oggetto del
suo soddisfacimento perché – scrive Freud – “come sostituto al pene
che manca alla donna si è creato un feticcio” 3. Ha trovato l’oggetto a.
Dunque, con la scissione dell’Io, abbiamo da una parte il soggetto barrato ( ) e dall’altra l’oggetto a. Già in questa riformulazione tramite
i matemi lacaniani risulta evidente che la nevrosi si differenzia dalla
psicosi perché articola  ed a nel fantasma. La scissione dell’Io non è
superata nemmeno nella nevrosi, ma è affrontata con lo strumento del
fantasma. Il fantasma è il modo in cui il soggetto cerca di ricomporre la
frattura dell’Io. È per questo che Lacan lo definisce “la stoffa dell’Io”. È
la stoffa con cui il soggetto cerca di rammendare lo strappo originario.
presenza
Ma è possibile ricucire questo strappo? Questa è la follia egoica. Già
Freud in quella nota metteva in questione la presunta attività di sintesi
dell’Io. Ma è Lacan che ha avuto le parole più dure contro l’idea di una
funzione unificante dell’Io. L’unità egoica è un miraggio, è “la malattia
mentale dell’uomo”, come ha detto nel seminario primo. E come ha
ribadito nel “Discorso sulla causalità psichica” “il rischio della follia si
3. S. Freud, La scissione dell’Io nel processo di difesa, in Opere, cit., vol. XI, p. 559.
Fabio Galimberti | Dalla divisione alla scissione | 117
misura sull’attrazione delle identificazioni in cui l’uomo impegna ad un
tempo la sua verità e il suo essere” 4.
Allora perché il piccolo altro, ossia l’immagine, esercita sul soggetto
questo potere di fascinazione? Perché nell’unificazione immaginaria il
soggetto aspira a ritrovarsi. Ed è quel che gli risuona seduttivo anche
negli inviti odierni del mercato e della cultura a ritrovare se stesso. Ma il
soggetto non si trova da nessuna parte. Il soggetto è un’assenza. Non ha
ubicazione precisa, è ciò che scivola nella catena significante, che si posiziona sempre in modo spostato, dislocato nelle formazioni dell’inconscio.
Il fantasma, invece, questo delirio privato, lo fissa in una presenza, gli
assegna un posto stabile in uno scenario. “Nel fantasma il soggetto è
lì” 5 scrive Miller ed è per questo che ha l’illusione di potersi ritrovare.
Ma anche l’oggetto è lì. Anzi è proprio il raccordo permanente e simultaneo di soggetto ed oggetto che sorregge l’inganno fantasmatico. Perché tramite il fantasma è come se il soggetto potesse dire “io” mentre
gode dell’oggetto ed è come se potesse smentire la natura acefala della
pulsione facendosene padrone. Il fantasma è il sostegno di ogni aspirazione del soggetto al recupero di sé, di ogni anelito al proprio riscatto,
al ritorno allo status quo ante, al ripristino di una felicità perduta, al
restauro di un’essenza mai esistita.
ubiquità
Il godimento però è un’effrazione dell’immagine o, per dirlo con
Bataille, è una distruzione della forma, una violenza fatta all’identità. Il
godimento è ostacolo al riconoscimento. Riconduce il soggetto alla sua
frattura originaria. Mostra il limite della soluzione fantasmatica. Così
come il lavoro analitico che mira a ridurre la consistenza narcisistica,
4. J. Lacan, “Discorso sulla causalità psichica”, in Scritti, Einaudi, Torino 1994, p. 170.
5. J.-A. Miller, “Sintomo e fantasma”, in Logiche della vita amorosa, Astrolabio, Roma 1997, p. 108.
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a separare il soggetto dalle identificazioni che ne hanno impegnato la
verità e l’essere. È ciò che chiamiamo attraversamento del fantasma. Al
termine del quale ritroviamo non il soggetto identificabile, non il sé,
ma la scissione che lo taglia in due. Lacan nel Seminario XVII indica
che questa scissione è il reale del soggetto. Il reale come impossibile,
perché la scissione fa sì che il soggetto si trovi contemporaneamente
in due posti differenti, il che appunto è impossibile, cioè reale. Questo
trovarsi in due posti differenti non è un ritrovamento, ma la perdita
definitiva della propria individualità. Stare dalla parte dell’inconscio
significa anche procedere in questa direzione. Procedere nella direzione
di questa incrinatura narcisistica, perché il soggetto ne abbia abbastanza
del suo non volerne sapere niente.
C’è un modo poetico per dire questa discordia di fondo che segna il
soggetto. È il modo di Elias Canetti, che scrive quanto segue su un’intuizione infantile divenuta più chiara nella maturità.
Allora non sapevo ancora che cosa è la vastità, eppure lo intuivo: il poter
contenere in sé moltissime cose, anche tra loro contraddittorie, sapere che
tutto ciò che sembra inconciliabile sussiste tuttavia in un suo ambito, e
questo sentirlo senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chiamarlo col suo nome e meditarci sopra: ecco la cosa che […] è la vera gloria
della natura umana 6.
Tornando al paziente di cui ho parlato risulta evidente questo: che non
è l’oggetto, ossia il partner, la donna, che deve sapere riunire le due correnti libidiche che frazionano il soggetto. Forse è così che si può intendere quel passo un po’ imbarazzante di Freud, quando invita a perdere
il rispetto dinanzi alla donna. Forse è un’esortazione a non credere
all’esistenza de La donna. Ma, se non è nell’oggetto che si deve cercare
una soluzione, la domanda allora diventa un’altra. Il soggetto sarà capa6. E. Canetti, La lingua salvata, Adelphi, Milano 1991, p. 217.
Fabio Galimberti | Dalla divisione alla scissione | 119
ce di questa vastità? Il soggetto sarà quell’ambito in cui l’inconciliabile
verrà accolto, in cui l’impossibile avrà ospitalità? Credo che questa sia
una scommessa dell’analisi.
121
l’amore… l’analizzante…
un lavoro d’amore
di Alide Tassinari *
La questione dei rapporti tra i sessi nasce a partire da un apparire. I due sessi biologici sono iscritti nel registro del sembiante: l’uno appare come un uomo, l’altra
come una donna. Gli esseri umani, in quanto parlanti, hanno a che fare con la
mancanza strutturale ad essere.
Parole chiave: rapporti tra i sessi, sembiante, apparire, mancanza ad essere
Il Soggetto, barrato dal linguaggio, soggetto dell’Inconscio, quindi in
perdita di godimento, manca d’essere. Le identificazioni che il Soggetto
preleva dall’Altro sono una risposta a questo non essere. Sono abiti che
si incarnano nel corpo, infatti l’io (maiuscolo?) si presentifica attraverso l’immagine del corpo come prodotto da questo processo inconscio.
Ma ciò che l’io si dice di essere non trova riscontro nell’inconscio. La
mancanza ad essere spinge al desiderio, l’oggetto a è causa di questo
desiderio di completarsi da parte di chi manca, è l’oggetto che “[…]
sembra dare il supporto dell’essere” 1. Ma la vera natura dell’oggetto a,
non è né di struttura né di sostanza, è un sembiante d’essere, cioè “[…]
è della medesima stoffa, della medesima trama di quella di sembiante” 2.
Il maschile e il femminile sono due metafore messe in forma, attraverso
* Alide Tassinari è iscritta all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia Romagna; è Membro della SLP e Membro dell’AMP, lavora a Cesena.
1. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 94.
2. J.-A. Miller, “Della natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi, n. 14, Astrolabio, Roma 1987,
p. 133.
attualità lacaniana n. 12/2010
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i registri dell’essere e dell’avere; ciò porta a proteggere ciò che si ha e a
mascherare ciò che non si è. Questo è l’antecedente e il presupposto per
i giochi dell’amore e del desiderio che fanno del rapporto tra i sessi la
commedia giocosa e tragica che vela il non c’è rapporto sessuale, vela
l’impossibile rapporto matematico tra i sessi. Il + e il − non sono articolabili e non c’è operazione possibile tra questi due operatori. Alla mancanza d’essere, rivestita dai tratti di appartenenza sessuale, si affianca
l’impossibilità, del non c’è rapporto sessuale. I due sessi sono ripartiti,
non dai sembianti d’essere, ma dalle diverse modalità di godimento: dal
lato uomo il godimento dell’uno, godimento misurabile, suscitato da un
tratto, da un nonnulla che una donna ha, da ciò che lei incarna, diventando così sintomo dell’uomo; dal lato donna vi è una ripartizione dei
godimenti: un godimento fallico (come quello dal lato uomo) e il godimento Altro, aperto, infinito; entrambi i godimenti sono resi possibili
dall’amore con la sua faccia di ravage, di devastazione e di rapimento.
Una donna, che si colloca dal lato destro delle formule della sessuazione, è errante, ricerca una nominazione possibile: l’amore le fornisce
questa possibilità. Ciò che esiste per una donna è l’amore, in quanto
essa lo cerca e lo domanda.
Spesso le donne confidano che se viene loro a mancare l’amore nulla
ha più senso. L’amore può essere un nome per una donna: è l’amante e
l’amata. Può rivestire la figura della borghese, di una madame Bovary
che si sacrifica lanciandosi sotto il simbolo della tecnica maschile tesa
verso l’ideale di un mondo nuovo e più veloce. Oppure essere la figura
tragica della folle innamorata, che abbandonata uccide, oltre a se stessa, i
figli avuti dall’uomo amato. Ma fuori dalla tragedia e dal romanzo, nella
maggior parte dei casi, l’amore può funzionare come elemento stabilizzatore del suo rapporto col mondo, in quanto fa da bordo al godimento
fuori senso, poiché le permette di mettere in atto una nominazione. Solo
l’amore limita probabilmente l’illimitato del godimento non fallico e dà
consistenza all’impossibile che la donna incarna, anche per se stessa.
La domanda d’amore di una donna è amplificata e senza limite perché
Alide Tassinari | L’amore… l’analizzante… un lavoro d’amore | 123
domanda quel niente in cui l’amore consiste: nell’esserci per l’Altro, va
alla ricerca del segno d’amore, del dono offerto come segno dell’amore.
Lacan dice che godere del corpo dell’Altro non è un segno dell’amore.
Una donna questo lo sa e prende il desiderio di un uomo come un
semblant non come il segno dell’amore che è sempre Altro. A lei non
interessa l’oggetto ma il segno. Nella sua saggezza sa che non è mai
quello. Il niente dell’oggetto e il niente dell’amore rispecchiati uno
nell’altro. Nella clinica è l’oggetto niente di cui l’anoressia si nutre e
il troppo d’oggetto dell’ancora di cui la bulimia testimonia, a giocarsi
nella domanda d’amore verso l’Altro.
Ma fuori dalla clinica, nel mondo, le donne, una per una, hanno un
certo rapporto con l’amore. Un rapporto in cui la nostalgia si intreccia
sia con la delusione del non aver avuto abbastanza sia con la virata verso
un padre che ha fatto di un’altra donna l’oggetto del suo desiderio.
La prima delusione non viene sanata: ciò che non le è stato dato non ha
un controvalore anzi viene raddoppiato dal non c’è trasmissione possibile tra madre e figlia, se non attraverso il linguaggio che la dice femmina.
Ma essere biologicamente femmina non dice della femminilità, almeno
per la psicoanalisi. Stella, una figlia che non riesce a fare il taglio dei
lunghi capelli, curati dalla propria madre, madre lei stessa e giovane
donna obesa, cerca incessantemente nella cura analitica di scoprire chi
è una donna, la risposta in un sogno in cui a un uomo viene tagliata
la testa: una donna è un uomo senza testa, e lei alla sua testa ci tiene!
Commenterà: “A volte penso di essere un uomo in un corpo di donna”.
Per lei l’impossibile viene ad essere significato da un altro sogno: lei
attraversa un centro benessere per soli uomini, è alla ricerca di due borse,
una verde militare e una bianca di pelle: “Una borsa che non è da me”
commenterà. Cerca in tutte le stanze, trova quella militare, quella bianca
la vede su una sedia dentro a una bacheca. Il sogno termina sull’impossibilità di prendere quella borsa perché non sa come aprire la bacheca.
Neanche la maternità significa la femminilità, tra madre e donna c’è
uno iato, la donna è collocata nel lato della mancanza, la madre in
124 | attualità lacaniana
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quello dell’avere in quando ha, per dirsi tale, un figlio. Dal punto di
vista della psicologia, i tratti psicologici attribuiti alle donne, che fanno
parte della loro identità, possono essere indifferentemente l’uno e il contrario dell’altro: la strega, la fata, la borghese, la passionaria; c’è per le
donne nel simbolico la possibilità di una congiunzione tra gli opposti;
al contrario, per gli uomini, c’è la tendenza alla disgiunzione, che sottende una certa omologazione che porta ad avere un tratto o l’altro. Un
modo questo di rivestire la tendenza all’ideale propria dell’uomo.
Una donna può avere un utilizzo dei semblant molto più libero, perché
pur servendosene non ci crede fino in fondo, rimane sempre un po’
più soggetto. Soggetta a ciò che è sconosciuto a lei stessa, non avendo
nessun significante che la dica tutta. Il posto vuoto, la barra sul grande
Altro la interroga e la mette nella condizione di una ricerca di potersi
dire, dirsi tutta. Per l’isterica questo sapere che non c’è è collocato
nell’altra donna; per una donna che abbia trovato un certo saperci fare
con la mancanza, ciò viene a collocarsi nell’altra che lei è per se stessa. È
qui che si colloca l’amore, l’amore per una donna nell’incontro con l’Altro, pur incontrando un altro; tentativo non mai riuscito di far esistere
la possibilità di un rapporto impossibile tra i sessi.
Nel suo incontro con un altro che ama, lei deve poter rivestire la posizione di oggetto del desiderio. Non è una posizione facile perché per
una donna il sesso, paradossalmente anche nella nostra società così
liberata dalla sessuofobia e con una spinta al godimento ad ogni costo,
non è di facile approccio. Lei che è il sesso per antonomasia, lei che non
è un secondo sesso ma il sesso, a lei servono le parole, la significazione
dell’amore per poter accedere a quella posizione che la metta nella condizione di godere fallicamente e di accedere al godimento femminile, a
quel sovrappiù che le viene anche se non sa dirne.
L’amore come supplenza mai del tutto compiuta la espone all’incontro
con il sesso, l’altro da sé ma anche l’Altra che lei rappresenta per se stessa. È questo incontro che Cinzia rifiuta. Cinzia soffre di una gelosia che
non la lascia vivere: è gelosa dell’uomo che ora sta con lei, è convinta
Alide Tassinari | L’amore… l’analizzante… un lavoro d’amore | 125
contro ogni evidenza che lui la tradisce con un’altra. Nel labirinto costituito dalla sua vita amorosa questo è la prima volta che è gelosa di un
uomo, prima erano gli uomini che ha avuto ad essere gelosi di lei. Racconta che dopo tre gravidanze il suo seno, in seguito all’allattamento,
era sparito; il secondo marito Luigi, padre della sua terza figlia, non la
cercava sessualmente da anni ma era un marito responsabile e un padre
affettuoso, al contrario del primo marito che era brutale. Chiede alla
chirurgia estetica per avere ciò che le manca: un bel seno così da piacersi un po’ di più. Luigi è contrario ma alla fine accetta. Nella loro quotidianità lui andava frettolosamente al lavoro, ma dopo l’operazione, ogni
giorno prima di uscire le dava castamente un bacio su ogni seno fino a
che una mattina, vedendola a seno nudo, è preso dal desiderio ma lei lo
rifiuta. Dopo poco tempo lo lascia. In seduta esclama: Di questo seno
nuovo lui non ha goduto, era il seno non me che desiderava.
Le donne vivono la mancanza di significazione del chi è una donna, una
donna oscilla come una funambola sul filo teso sopra al vuoto scavato
tra lei e l’altra se stessa che incontra nel godimento così detto femminile, di cui non sa e non può dire, anche se con l’apporto dell’amore supposto a un uomo, che fa da relais, ritrova nella contiguità del suo corpo
ciò che le mistiche hanno trovato in rapporto all’Altro esistente come
essenza. Se l’amore non ha oggetto, ognuno dei partner nell’amore dona
ciò che non ha proprio perché mira all’essere, all’essere dell’altro.
Nel farsi semblant di oggetto di un uomo, una donna domanda amore
e, nello stesso tempo, chiede che non sia solo l’oggetto a rispondere. Nel
trasporto amoroso, si fa oggetto del desiderio dell’altro. Si fa oggetto
senza crederci troppo, senza identificarvisi e ritrova in questa operazione la possibilità di un incontro con l’Altro godimento e con l’Altra da se
stessa. Incontro in cui il rapimento, il ravage silenzioso della pulsione di
morte e della sparizione del soggetto rimandano ad Altro ancora.
C’è in una donna il far semblant d’oggetto. Lei è l’oggetto per lui ma
senza crederci troppo, si riveste dell’oggetto. In questo sta la dissimmetria dei sessi. Le donne amano l’amore, sono affette dal narcisismo del
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narcisismo, amano essere amate si, ma per loro stesse! Una donna vuole
essere amata per se stessa in quanto una, diversa da ogni altra e non per
ciò che ha e ciò che mostra. Anche se ha molto e mostra di avere molto.
Il legame d’amore si crea, nonostante i paradossi, le ambiguità, le contraddizioni che ognuno dei partner rappresenta. Un legame tra i partner si realizza nel percorso accidentato dell’amore, tramite la disidentificazione dall’oggetto e accettare di occupare la posizione di sembiante.
La relazione amorosa è la traccia del modo con cui ognuno testimonia di
come, attraverso il sintomo e l’amore, ha dato risposta al non c’è rapporto
sessuale. L’amore è dare ciò che manca e ciò che manca deriva dal proprio
rapporto con la castrazione simbolica, per l’uno e per l’Altro sesso. È sulla
traccia dell’esilio che si innesta la parola d’amore, la poesia, la lettera.
La posizione femminile divisione tra il riferimento al godimento fallico,
proprio del campo della significazione e quindi fuori corpo, e il godimento Altro, illimitato, supplementare che è del corpo, non legato ad
alcun sembiante, vale a dire non causato da un oggetto. Doppia divisione: come soggetto in quanto essere parlante e come l’Altro che ha a che
fare con un godimento fuori senso.
Fra l’uomo e la donna il muro che conviene è quello che trasformato
dalle parole diviene amore. Ma spesso è lei che ama, l’amore per un
uomo è solo abbozzato, è ingombrato da ciò che ha. Solo se è un poeta,
può avvicinarsi all’amore perché come lo apostrofa Lou Andreas Salomè
è femmina. L’amore è un lavoro d’amore per superare la fondamentale
dissimmetria che è una dissimmetria dei godimenti ma è responsabilità
di ogni soggetto dove collocarsi al di là degli attributi che si hanno.
L’analisi portata al suo estremo limite testimonia sostanzialmente di
questo impossibile a dirsi. Il lavoro analitico come partitura musicale
che l’analizzante cerca incessantemente di completare perché manca
un accordo, una frase musicale che se ci fosse la completerebbe. È la
frase mancante che cerca ininterrottamente fino a che si rende conto
che manca strutturalmente! L’analizzante così da amato può accedere,
grazie al Desiderio dell’Analista, alla funzione dell’amante.
127
lessico famigliare e inconscio
di Vicente Palomera *
In questo testo l’autore ci conduce nella questione del “ familiare” così come Lacan
l’ ha elaborata in quanto luogo di iscrizione del soggetto in relazione con un Altro
che lo ha preceduto. Diversamente dalle teorie dell’attaccamento e dal considerare
il familiare come “ impronta naturale”, l’autore richiama il neologismo lalingua.
Attraverso di esso Lacan designa la traccia che la parola lascia nell’ inconscio nella
nostra relazione originaria con il “ lessico familiare” in quanto separata dalla
struttura del linguaggio e della comunicazione.
Parole chiave: familiare, lessico familiare, lalingua, inconscio
Fin dagli inizi la clinica psicoanalitica ha mostrato incessantemente il
legame tra sintomo, inconscio e storia famigliare. Appena il nevrotico
inizia a lamentarsi dei suoi sintomi, passa a lamentarsi dei suoi genitori,
rivelando ciò che non funzionava nella loro relazione di coppia.
J. Lacan lo sottolinea dicendo che: “l’analizzante parlando si concentra
sempre di più su qualcosa che da sempre si oppone alla polis, ovvero,
sulla sua famiglia. L’inerzia che fa sì che un soggetto parli soltanto di
papà e mamma è un tema assai curioso”. 1
* Vicente Palomera, A.E., membro ELP, AME. Dottorato di Psicoanalisi all’Università di Parigi
VIII, Docente della Sezione Clinica di Barcellona.
1. J. Lacan, “Conférences Américaines”, in Scilicet, Seuil, Paris 1976, n. 6/7, p. 44. “L’analysant
(si l’analyse, ça fonctionne, ça avance) en vient à parler d’une façon de plus en plus centrée, centrée sur quelque chose qui depuis toujours s’oppose à la polis (au sens de cité), c’est à savoir sur sa
famille particulière. L’inertie qui fait qu’un sujet ne parle que de papa ou de maman est quand
même une curieuse affaire. A dire n’importe quoi, il est curieux que cette pente se suive, que ça
fasse, ça finisse par faire comme l’eau, par faire rivière, rivière de retour à ce par quoi ont tient à
sa famille, c’est à dire par l’enfance”.
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Questo “curioso tema” cui allude Lacan rimanda al fatto che l’analizzante, parlando di una famiglia particolare, parla fondamentalmente
del luogo d’iscrizione delle origini della sua vita in una storia, cioè,
della sua esistenza soggettiva legata a un Altro che lo precede. In questo
modo uno entra sempre nell’esperienza dell’inconscio, si analizza come
figlio, non come padre.
L’inerzia che fa sì che un soggetto non faccia che parlare di papà e
mamma non è condizionata, come sostenne uno psicoanalista, da un
attaccamento che fissa i vincoli che uniscono le successive generazioni
in tutte le specie animali, in particolar modo nei mammiferi, un attaccamento che dovrebbe stare alla base del rapporto tra i membri della
famiglia umana. Questa teoria dell’attaccamento, molto diffusa tra gli
etologi, cercava di capire come hanno inizio le condotte programmate
nella famiglia naturale cortocircuitando il sapere inconscio, un sapere
strettamente annodato con il materiale del linguaggio.
Se ciò che interessa è capire come si iscrive e si colloca nella famiglia
particolare di ciascuno questa struttura dell’inconscio, niente di meglio,
in questa bella città di Torino, che evocare il libro di Natalia Ginzburg,
Lessico famigliare, nel quale si mostra come si inscrive l’essere parlante
nella trama famigliare e come si trasmette nell’inconscio come vocabolario. Lei lo chiamò “lessico famigliare”.
Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno
all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo
essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una
parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite
e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo
venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”,
per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e
giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di
quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli,
nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro
Vicente Palomera | Lessico famigliare e inconscio | 129
latino, […] testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma
che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione
del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità famigliare,
che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti
più diversi della terra, quando uno di noi dirà – egregio signor Lippman – e
subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: “Finitela con questa storia! L’ ho sentita già tante di quelle volte!” 2.
Vediamo come Natalia Ginzburg non localizzi l’attaccamento famigliare
in nessuna specie di impronta naturale, ma – come indicherà Lacan in
una conferenza a Ginevra – in una specie di crivello che uno attraversa,
“nel quale l’acqua del linguaggio lascia qualcosa dietro di se, dei detriti
con cui uno potrà giocare” 3. Effettivamente, l’espressione “lessico famigliare” ha vaste risonanze in ciò che Lacan comincia a sviluppare a partire dal 1973: lalingua. Lacan precisò, nel 1970, che aveva scelto questo
neologismo lalingua, in una sola parola, “per designare ciò che è affar
nostro, di ognuno, lalingua cosiddetta materna, e non a caso così detta” 4.
Lalingua è una parola più adatta di altre per collocare la struttura stessa
dell’inconscio. Jacques-Alain Miller la spiegò a partire da un ricordo
infantile di un altro grande scrittore, Michel Leiris 5. Fece notare un
ricordo che Leiris evoca, in un’età in cui non era stato ancora iniziato
alla lettura e alla scrittura, cioè, quando le parole potevano essere da
lui colte solo nella loro forma sonora, quindi udite. Leiris scrive che in
quell’età aveva a che fare con strane figure. Tra altre, ricorda un verso
che cantava sua sorella e proveniva dal duo di Manon Lescaut intitolato
“Adieu, notre petite table” e spiega come lei cantasse i versi pronunciando
coscienziosamente la e muta che separa le due t di petit(e)table. Ciò che
2. N. Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1963 e 2010, p. 22.
3. J. Lacan, “Conférence à Genève sur le symptôme”, Le Bloc-Notes de la psychanalyse, n. 5, Paris
1985, p. 11.
4. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, Einaudi, Torino 1983, p. 138.
5. Cfr., J.-A. Miller, La fuite du sens, Corso del 1995, inedito.
130 | attualità lacaniana
n. 12/2010
restava come ritaglio di quel verso era tetable. Ciò che si isolava – in
quello che udiva – era la e della te de petitetable. 6 “La sillaba te – continua Leiris – cominciò a prendere consistenza attaccandosi al sostantivo
table: essa aveva cambiato la nostra tavola (table) in tetable o in totable”. 7
Leiris spiega poi come tetable o totable sarebbe diventato per lui un nome
per battezzare qualunque oggetto: una stalla, un quadro, un totem, un
lavandino in cui usciva acqua potabile, ecc., ecc., cioè tutte le vocali che
gli venivano in testa in quel momento per etichettare qualcosa di indefinito o del quale l’unica cosa che sapeva era che era un oggetto 8.
Lalingua è qualcosa che si costruisce come il tetable di Leiris, cioè come
qualcosa che è il risultato degli equivoci prodotti dal linguaggio. Lalingua
è in definitiva la parola quando è separata dalla struttura del linguaggio
e della comunicazione, è un termine che serve a designare ciò che rimane
in ciascuno di noi, della nostra relazione con la lingua materna, nell’età
in cui non sappiamo ancora né leggere, né scrivere, quando ci troviamo,
in modo specifico, confrontati con quella dimensione di equivoci propria
del linguaggio. Diciamo che i significanti de lalingua si forgiano a partire
da vincoli che non rispondono all’ordine del lessico. Lalingua è un effetto
degli imbrogli e delle trame delle assonanze, dei tagli singolari, dove la
frase più banale può trasformarsi nella cosa più oscura. 9
Lacan presenta in questo modo l’inconscio come un sapere indelebile
depositato ne lalingua, un sapere che si presenta come un’impronta,
un’iscrizione, una traccia, una scrittura di ciò che fu la nostra relazione
originaria con il “lessico famigliare”. Tuttavia, cosa fa che questo si fissi
ed eternizzi in modo indelebile, cosa fa che, come scrive acutamente
Natalia Ginzburg, “sopravviva nei suoi testi, salvati dalla furia delle
acque e dalla corrosione del tempo” 10?
6. M. Leiris, Biffures, Gallimard, Paris 1948 e 1975, p. 13.
7. Ibidem.
8. M. Leiris, Biffures, cit., p. 21.
9. M. Leiris, Biffures, cit., p. 13.
10. N. Ginzburg, Lessico famigliare, cit., p. 22.
Vicente Palomera | Lessico famigliare e inconscio | 131
Lacan annota due ragioni: la prima concerne il carattere enigmatico
dei significanti in gioco. Il significante di lalingua presenta un carattere
enigmatico perché è isolato dalla catena significante, non articolato con
gli altri significanti, separato da qualunque valore di significazione. È
un significante separato dal suo significato, che funziona come una
lettera, questa è la ragione per cui può rimanere incomprensibile ed
enigmatico. Il sapere depositato ne lalingua è un sapere costituito da
una serie di significanti isolati, cioè lettere che il soggetto non sa cosa
vogliano dire. Già Freud aveva osservato l’importanza di questo fenomeno nel sottolineare come il bambino si trovi spesso di fronte a esperienze che rimarranno incomprese, conservando il ricordo di cose udite,
stampate nella sua memoria, mentre gli sfugge il senso.
La seconda ragione, che spiega perché questo sapere inconscio si fisserà
in modo indelebile, è che questi significanti da soli (), incarnati ne
lalingua, fisseranno qualcosa del godimento del corpo nell’istante stesso
in cui il soggetto fa l’esperienza di un impossibile. Sono significanti
separati ( (  (  ( )))) che hanno un valore di godimento perché si
sono collocati nel corpo quando il soggetto ha fatto un incontro con ciò
che resta fuori senso: esperienza di un impossibile che concerne questo
godimento. Lacan insiste effettivamente sulla dimensione dell’impossibile. Il sapere dell’inconscio è un deposito, “un sedimento che si produce in ciascuno quando inizia ad avvicinarsi a questa relazione sessuale
alla quale però non giungerà mai” 11.
Lacan articola la realtà sessuale, per un verso, cioè l’esperienza del godimento che fa il soggetto, e l’impossibile, per un altro verso, col quale
il soggetto si confronta nel tentativo illusorio di raggiungere questo
rapporto sessuale. L’idea è che questa coalescenza o saldatura che interviene tra la realtà sessuale e il linguaggio corrisponda all’incontro che
il soggetto fa inevitabilmente con questo impossibile, con questo buco
11. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXI, Le non-dupes errent, 1973-1974, inedito, lezione del 12
febbraio 1974.
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nel sapere che concerne il godimento, con questo fuori senso nel sapere,
rivelato in qualche modo nel momento stesso in cui sorge il godimento.
Lacan definisce come reale questa assenza di rapporto sessuale, questo
buco nel sapere. Ecco la cosa traumatica, il buco (trou) nel sapere, ragione per cui Lacan trasforma il traumatismo in troumatisme.
Questo è il nuovo modo di pensare l’inconscio che Lacan ci propone:
l’inconscio è fatto de lalingua, è costituito da una serie di significanti
isolati che fissano punte di godimento, con la particolarità che non producono significazione e rimangono incomprensibili al soggetto.
Questo sapere inconscio che è giunto a depositarsi nel lessico famigliare,
ne lalingua, come un tratto, una scrittura, è un sapere per il quale non
c’è “nessun soggetto che lo sappia”. È un sapere indelebile, dice Lacan
e, allo stesso tempo, non soggettivato. Detto altrimenti: a proposito di
ciò che lo concerne in quanto ha di più intimo, il soggetto non può dire
nulla. È un sapere che rimane in attesa, che, da questo punto di vista,
ha la stessa struttura di un fenomeno elementare. L’inconscio parla
piuttosto con un “semi-dire” enigmatico, un dire a metà che introduce
qualcosa di discordante nella famiglia.
La famiglia che il nevrotico porta nel suo inconscio, il suo “lessico
famigliare”, è una specie di famiglia-fiction (Lacan la chiamò “mito
individuale”). Questa famiglia che si inventa con l’intreccio tra il Simbolico e l’Immaginario, come la trama di un fantasma, serve per dare
supporto e schermo al reale indicibile de lalangue, reale che fa buco nel
sapere ed è la “maledizione sul sesso” inerente alla sessualità umana. A
questo punto, la cosa straordinaria è che Lacan arrivi a indicare che la
“produzione di un corpo nuovo di parlante è l’effetto della trasmissione
di un malinteso” e che “il corpo non fa la sua apparizione nel reale se
non malinteso”. 12
Quindi, contro la idea di Rank del trauma della nascita, Lacan precisa che “essere umano vuol dire nascere malinteso”. Leggiamo meglio
12. J. Lacan, “Le malentendu”, (10 giugno 1980), in Ornicar? nn. 22/23, 1981.
Vicente Palomera | Lessico famigliare e inconscio | 133
quello che ha detto: “Non dico che il verbo è creatore, dico che il verbo
è inconscio, ovvero, malinteso” e aggiunge: “La prodezza della psicoanalisi è sfruttare il malinteso con, alla fine, una rivelazione che è di
fantasma”. Farsi umano è allora “nascere malinteso” 13.
Poi, senza soluzione di continuità, Lacan prosegue:
dobbiamo essere in questo caso radicali: il vostro corpo è il frutto della
discendenza e buona parte della vostra disgrazia proviene dal fatto che
nuotava in pieno nel malinteso… nuotava per il semplice fatto che parlavaessere testardamente. […] È ciò che vi è stato trasmesso nel darvi la
vita, come si suol dire. Ereditate questo… il malinteso poiché fin da prima
di questo bel regalo, fate parte della balbuzie dei vostri ascendenti. Non
occorre che balbettiate voi stessi, già da prima ciò che vi sostiene a titolo
di inconscio radica lì […] nascere desiderato o no fa lo stesso, dato che si
tratta del parlessere 14.
Vediamo allora come l’inconscio veicoli la trasmissione, nella famiglia,
di questo malinteso del verbo che parla dicendo a metà e non sapendo
quello che dice. L’inconscio è il “libretto” che fa del caso un destino.
L’inconscio come parlessere sembra suddiviso – come Giuseppe e Lidia,
i genitori del romanzo di Natalia Ginzburg – tra due parlanti, che non
parlano la stessa lingua, due che quando parlano non si ascoltano; due
che alla fine non si capiscono. Due che complottano per la riproduzione, però di un malinteso realizzato che i loro corpi trasferiranno nella
cosiddetta “riproduzione”.
In fin dei conti, far nascere un bambino è voler scongiurare l’impossibile del rapporto tra i godimenti, è ciò di fronte a cui il testo di Natalia
Ginzburg ci pone, ovvero, che il “lessico famigliare” abita questo iato
irriducibile nel dialogo impossibile tra i sessi. Lacan sottolineava che ciò
13. Ibidem.
14. Ibidem.
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che c’è è il malinteso, ed è il malinteso che fa sì che gli uni e gli altri
continuino ancora a parlare, insieme, ma separati nel loro dire.
E l’amore che ruolo ha in tutto ciò? È fondamentale, l’amore è proprio
ciò che può fare in modo che tutto questo sia sopportabile.
(Traduzione di Erminia Macola)
135
il “che vuoi? ” nella mia analisi
di Raffaele Calabria *
L’autore ripercorre in breve il proprio percorso psicoanalitico per giungere al
momento in cui il “Che vuoi?” apre le porte ad un nuovo rapporto con il proprio
inconscio, permettendo il definitivo installarsi della regola fondamentale analitica.
Il desiderio, nel suo slancio vivificante in opposizione ad un godimento mortifero,
conduce il soggetto verso la domanda di passe che sigilla il suo legame con la Scuola.
Parole chiave: analisi, desiderio, inconscio, passe, “Che vuoi?”
Un po’ rassicurato dalle mie riflessioni, mi rannicchio, rimango immobile,
pronuncio l’evocazione con voce nitida e ferma e, calcando i suoni, scandisco per tre volte e a brevi intervalli Belzebù. Un brivido mi corse lungo
le vene, i capelli mi si drizzarono in testa. Avevo appena finito che davanti
a me, in alto, sulla volta, si spalanca una finestra. Dalla breccia sgorga
un torrente di luce più abbagliante del mattino, e fa capolino una testa
di cammello orrenda sia per dimensioni che per forma. Soprattutto aveva
orecchie smisurate. L’odioso fantasma apre la bocca e, in un tono che ben
si addice a tutta l’apparizione, mi risponde: “Che vuoi?”. Ogni volta, ogni
cavità dei dintorni risuona a più non posso del terribile “Che vuoi?”. Non
saprei descrivere la mia situazione; non potrei dire chi diede manforte al
mio coraggio e m’impedì di venire meno davanti a quella visione, al rumore più terrificante ancora che mi echeggiava nelle orecchie 1.
* Raffaele Calabria è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della
Regione Emilia Romagna; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.
1. J. Cazotte , Il diavolo innamorato, Donzelli Editore, Roma 2005.
attualità lacaniana n. 12/2010
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È questo il passo da dove Lacan ha tratto la famosa formulazione del
Che vuoi?, cavatappi che stura l’effervescenza del desiderio e che conduce la struttura del grafo “verso la sua forma completa”. Di questa stura
nella mia analisi, del suo gorgoglio e del suo sfogo, vorrei dare una piccola e breve testimonianza.
io so quello che vuoi…
Il percorso con lo Psicodramma Freudiano, durato circa 8 anni, mi
aveva lasciato con alcune questioni irrisolte, tra cui: una certa aggressività, che permeava ogni mia relazione amicale ed affettiva, ed una
insopportabile condizione di gelosia che marchiava il mio essere come
escluso e bandito da ogni possibile godimento, sentito come interdetto
e ad esclusivo appannaggio degli altri. Avevo sì guadagnato un certo
spazio vitale tra gli uomini ma rimanevo segregato nella mia gabbia,
abbarbicato alle sbarre della mia finestra a guardare in solitario livore
l’illusoria libertà di movimento degli altri.
In queste condizioni inizio la mia analisi, non sapendo dove mi avrebbe
condotto ma deciso a venir fuori da una condizione soggettiva insostenibile. Una decisione che mi offriva al contempo la certezza circa il
sapere ciò che il mio analista voleva. Non saprei dire in realtà cosa lui
volesse, ma questa certezza era anche il fulcro e la spinta del mio parlare: eravamo sulla stessa barca, confidavo sulla sua capacità di timoniere,
ma lo tenevo d’occhio guardando a vista ove mi conduceva.
… tanto ti frego.
Già, lo guardavo a vista, lo tenevo sotto mira ben attento a fregarlo ad ogni
occasione propizia. Non poteva sgarrare, non doveva cedere sulla decisione
iniziale; tutto doveva procedere con una perfezione irreprensibile.
Raffaele Calabria | Il “che vuoi?” nella mia analisi | 137
Da dove proveniva la mia certezza su ciò che lui voleva? Credo di non
sbagliare se faccio risalire il tutto alla mia credenza di certezza sul desiderio di mia madre. Questa me lo aveva fatto intendere in tutti i modi
che io, il secondo di tre figli, ero quello prediletto, il suo bambino, il suo
amore da mangiare, il predestinato alla fama e alla gloria della famiglia.
Eppure, l’avevo tradita per ben due volte: dapprima non seguendo le
orme di mio zio arcivescovo (di cui porto scolpite le insegne di nominazione), poi non diventando quel medico che tanto l’avrebbe inorgoglita.
Dunque, l’affidarmi al mio analista nascondeva una feroce trappola,
l’avrei tradito al primo passo falso, rivelando così a me stesso il paradosso della mia domanda isterica: so che voglio guarire, ma quello che
tu (analista) non sai è che incomprensibilmente e colpevolmente non
voglio guarire. In questo modo avrei reso vano ogni desiderio su di me,
mantenendo intatta la mia condizione nevrotica: trastullo per l’Altro,
reso però insoddisfatto attraverso i miei inganni seduttivi e tradimenti.
Era questo il nocciolo della mia certezza, rendere vano ogni tentativo
dell’Altro, tentativo che io stesso avevo alimentato.
che vuoi?
È sulla questione paterna che si realizzerà quel viraggio fondamentale
che mi condurrà ad incontrare il terribile Che vuoi? E qual era la colpa
che attribuivo a mio padre, al punto da renderlo il responsabile per
eccellenza della mia nevrosi? Quella di aver smesso di desiderare; quella
di essersi ritirato dalla vita sociale e lavorativa (in realtà un ictus lo aveva
menomato nella deambulazione e nel linguaggio) e di essere diventato
sia lo zimbello che la più grande preoccupazione di mia madre. Per anni
ho disprezzato, con ripugnante cattiveria, l’immagine degradata dei
suoi ultimi anni di vita, confrontandola con quella gioviale e bonacciona, pur se tremenda, degli anni della mia infanzia.
Nonostante il disprezzo però, la passione per quest’uomo è stata quanto
138 | attualità lacaniana
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di più intenso e profondo io abbia mai provato. Negli anni ero diventato persino uguale in tutto e per tutto a lui. Ricordo che mia sorella,
tempo fa, rimase inorridita e spaventata da quanto avessi fatto proprie le
sembianze di nostro padre!
Durante il lento e faticoso scardinamento di questa impalcatura identificatoria scopro finalmente la mia posizione nei suoi confronti e il legame amoroso che tanto mi aveva tenuto stretto a lui. Ed è in coincidenza
di questa scoperta che diabolicamente mi si affaccia, come un lampo
a ciel sereno e in una formulazione e tonalità tutta nuova, il Che vuoi?
così tanto segretamente agognato in analisi.
che voglio?
Questa scoperta ha degli effetti immediati: mi scalza definitivamente
dalla posizione di certezza, nella quale a tratti continuavo ancora a collocarmi, svela la funzione ortopedizzante che il padre aveva avuto fino a
quel momento per me, mi apre le porte ad un nuovo rapporto con l’inconscio palesando un sottile, profondo ma tremendamente accattivante
interrogativo sul desiderio dell’Altro.
E il Che vuoi? si sdoppia inesorabilmente in due tronconi: Che vuole da
me, come effetto della frantumazione della certezza con tutta la portata castratrice del non-sapere e, soprattutto, Che voglio, come nuova
e sorprendente apertura sul mio desiderio. Ed è così che mi si rivela la
vecchia da sempre, per me, enigmatica formula lacaniana : il desiderio
dell’uomo è il desiderio dell’Altro. In un rapporto di sospensione della
verità data come assodata circa il che vuole l’Altro da me, si sgretola la
mia sicumera e sorge un’ineffabile domanda su cosa voglio io.
Il nuovo è ormai all’orizzonte e, pacificato dal radicale svanimento
di un coriaceo velo depressivo, mi inoltro in sconosciute frontiere di
confine. Innanzitutto una strana rabbia nei confronti di mia madre di
cui mal sopporto, per la prima volta, persino la voce. Poi un inedito
Raffaele Calabria | Il “che vuoi?” nella mia analisi | 139
sguardo sulla mia passione immaginaria, causa e fondamento del principio paranoico della conoscenza umana, passione che mi ha spinto a
farmi non solo oggetto dell’Altro ma soprattutto a fare ciecamente degli
oggetti dell’altro l’unica realtà di desiderio.
Infine, nel luogo dell’analisi, dopo un certo periodo di tempo durante il quale la mia parola faceva timido capolino tra silenzi carichi di
angosciosa attesa che qualcosa del mio pensiero prendesse forma, il mio
dire si rivela fluente, caotico, illogico, intrecciato da significanti che
sembrano sorgere dal nulla, e svela nuovi percorsi che si affastellano con
insospettabile vigore. Non so cosa dico ma sono preso costantemente
dall’effetto di quel che dico. Incappo così in quella sovradeterminazione significante di cui il sogno è la massima espressione. Prima di ogni
seduta penso: chissà cosa dirò oggi? Per poi trovarmi meravigliato delle
novità emerse dal gioco delle libere associazioni. È il definitivo instaurarsi della regola analitica fondamentale, che conoscevo da sempre, ma
che solo ora assaporo nella sua succulenta fragranza.
avrò il coraggio del mio desiderio?
È questa la domanda che mi si pone nella contemporaneità. Codardo
ed infingardo da sempre, mi tengo al di qua di ogni atto e, al riparo
delle mie incertezze acquisite, scavo la mia nicchia preferendo il dormire allo stare svegli, nel soporifero caldo dell’Altro.
Ma, mi chiedo, di quale desiderio si tratta? E poi, desiderio di cosa?
Non so rispondere alla prima questione. Della seconda invece, sin
dall’inizio, ho ben chiaro il responso. Ho desiderio di verità sulla mia
origine, sulla mia originalità, sulla particolarità che mi caratterizza,
sull’unicità che mi contraddistingue, sul reale in gioco nel sintomo che
mi marchia. Forse il coraggio impiegato finora è ben poca cosa rispetto
a quello che sarà necessario per compiere un atto che testimoni del mio
pezzo unico nella più completa solitudine.
140 | attualità lacaniana
n. 12/2010
Cazotte nell’epilogo del suo racconto così giustifica l’assenza di una
conclusione compiuta del testo:
… a 25 anni, sfogliando l’edizione completa delle opere del Tasso, ci
imbattemmo in un volume che conteneva la spiegazione delle allegorie
racchiuse ne La Gerusalemme Liberata. Ci guardammo bene dall’aprirlo.
Eravamo amanti appassionati di Armida, di Erminia, di Clorinda; saremmo stati privati di troppo piacevoli chimere, se quelle principesse fossero
state ridotte a null’altro che semplici emblemi.
Al contrario, io metaforicamente voglio tenere aperto sia il libro della
Gerusalemme Liberata, per non privarmi delle effimere ma piacevoli
chimere, sia quello delle spiegazioni delle allegorie. Perché penso che
ambedue rappresentino il libro del mio inconscio, il luogo delle mie
invenzioni, la sorgente della mia rigenerante creatività, la bussola della
mia vita. Ma tutto si rivela eccessivamente aperto, senza confini; tutto
troppo libero, senza limiti. Il desiderio richiede invece una legge, fondamento di ogni scelta che trovi nell’inconscio la sua radice sinthomatica e
di legame. Ed è per questo che desidero fare la passe.
parte terz a
approssim azioni al reale
143
il tempo nella cura *
di Carlo Viganò **
Viene avanzata l’ ipotesi che si possa andare oltre l’affermazione di Freud secondo
la quale della tecnica di una cura possiamo dire solo le mosse di partenza e di
conclusione, come per una partita di scacchi. L’ introduzione della categoria del
Reale da parte di Lacan ci permette di isolare oltre all’ inizio e alla fine, delle
scansioni interne al processo della cura. Queste scansioni si possono sintetizzare
in quello che Lacan definisce atto analitico. Esso è l’evento di un cambiamento
soggettivo, legato al prodursi di una sincronia che taglia la durata della cura
come effetto di reale. Il taglio sincronico trasforma il tempo-durata in uno spazio
topologico che permette di scrivere degli eventi della cura: interruzioni, scansioni
del discorso, cicli. Questi eventi toccano la forma del godimento e quindi della
vita come rapporto con il corpo.
Parole chiave: tempo, discorso, atto, cambiamento
Miller con il suo intervento a Milano (1993 1) “L’uscita dall’analisi”,
inaugurò una ricerca sul tempo nel processo analitico, che ne interroga in modo nuovo la conclusione, non solo in modo finalistico, come
passaggio dalla posizione dell’analizzante a quella dell’analista, ma
mettendone in questione il valore nell’esperienza della cura come tale,
* Intervento al Seminario AMP di Milano del 19 dicembre 2009.
** Carlo Viganò è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Milano; è
Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la
terapia e la scienza.
1. J.-A. Miller, “L’uscita d’analisi: sue congiunture d’innesco in Freud”, in Agalma, n. 9, Milano
1993.
attualità lacaniana n. 12/2010
144 | attualità lacaniana
n. 12/2010
cioè quello di un reale che ne può causare l’arresto. Per questo egli fece
l’ipotesi che vi fosse una simmetria con il momento di avvio.
Egli, quindi, considerò le cure freudiane prendendole nel loro versante
“indifferenziato”, senza però adottare un metodo sociologico, nello
stile, ad esempio, di una ricerca fatta da C. Viviani nel 1975 sul “vissuto” e sui “perché” di ventotto interruzioni di analisi 2, ma secondo i
modi di una corretta ricerca clinica, che va al di là delle idee ricevute 3.
Per questo egli scelse di accostare le scansioni temporali, inizio e arresto, a quella della “congiuntura di scatenamento” della psicosi.
Analizzando la struttura della psicosi nel seminario terzo, Lacan introdusse nella clinica psicoanalitica la dimensione logica del tempo, sovvertendo la logica nosografica dello “sguardo clinico”. Si tratta di un
punto cruciale della ricerca di quella “causalità psichica”, che guida il
ritorno a Freud di J. Lacan, perché a questo punto lo psichico si libera
da ogni riferimento fenomenologico alla comprensione, per accogliere
l’indeterminismo che connota la causalità soggettiva.
Nell’incontro precedente del nostro Seminario, E. Laurent ha sviluppata in modo dettagliato questa congiuntura, attraverso il quadrato 4
che mostra l’articolazione tra simbolico e immaginario, la dialettica
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2. C. Viviani, Psicanalisi interrotta, Sugarco, Milano 1975.
3. Riprendiamo qui l’espressione di Flaubert, come fa Lacan nel seminario undicesimo, per
criticare il metodo codificato dalla ricerca clinica, che consiste nell’applicarvi i modelli della
ricerca sociologica, la cosiddetta “validazione empirica” della cura. Si rende calcolabile la scelta
singolare del soggetto mediante la statistica: la logica congetturale che presiede alla politica del
sintomo cede a quella dell’epidemiologia, che piace di più agli amministratori. Il danno è enorme: in nome di un sembiante di scienza (il calcolo) si perde proprio l’aggancio con la scienza,
cioè il calcolo al limite del godimento soggettivo (oggetto a).
4. Lo schema L:
 ltro
Carlo Viganò | Il tempo nella cura | 145
del simbolico come innovativa rispetto a quella filosofica di Hegel:
il simbolico come rottura della simmetria speculare io-tu e irruzione
“reale” dell’atto di parola. Esso produce il luogo dell’Altro, con l’effetto
di rompere il “muro del linguaggio”, l’asse immaginario che ostacolava
la relazione del soggetto con l’Altro.
Rispetto all’interrogazione sul tempo della cura come durata, questa scansione si è dimostrata significativa per indicare un elemento
dinamico all’opera nella cura analitica nei più diversi momenti del
suo svolgersi: all’inizio, nell’interpretazione “efficace”, nell’interruzione, nella fine. La costante di questa dinamica, se si considerano i
casi clinici di Freud, viene indicata da Miller come un’operazione del
desiderio dello stesso Freud. Miller ne dà una lettura: Freud non vuole
far fare un altro giro al desiderio del paziente, perché nella sua ricerca
è maggiormente interessato al guadagno di sapere ottenuto, che alla
prosecuzione della cura:
– in Dora, quando non vuol prendere atto della caduta dell’identificazione con il signor K (sogno della morte del padre e della chiamata
della madre).
– nella giovane omosessuale, quando il passaggio all’atto lo fa desistere
dalla cura, invece che portare la paziente ad elaborarlo come atto di
separazione.
– nell’uomo dei topi, quando accondiscende al desiderio autodistruttivo
del paziente: partire volontario per il fronte.
– nel piccolo Hans, quando si accontenta della costruzione del fantasma come uscita dall’angoscia.
– nell’uomo dei lupi, quando, dopo avere solo “ricostruito” il fantasma,
il paziente viene affidato ad un altro analista perché lo faccia assumere dal soggetto in un atto sintomatico 5.
Miller osservava che questi interventi del desiderio di Freud giocarono come “sottrazioni di desiderio” dell’analizzante e che, in quanto
5. J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 284.
146 | attualità lacaniana
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tali, essi provocarono un arresto della cura. Questo ci suggerisce una
possibile aggiunta al titolo generale del nostro Seminario, che ricalca
quello del Convegno della NLS: “When the [talking] cure stops”. Essa
preciserebbe che il fenomeno temporale nella cura va posto in relazione
con l’atto di parola.
Ciò che si arresta nelle cure di Freud è il discorso, quando viene a
mancare il partner nel transfert, con un intervento che è di stop and go,
per la ricerca clinica, ma che può avere effetti soggettivi nel paziente
che non sono di fine analisi, ma di interruzione.
Nella cura della parola, infatti, il processo assume una temporalità
complessa, dove l’atto di parola produce contingenze di scatenamento
del sintomo che possono essere di inizio, di scansione interna, di rottura, di fine anticipata, ecc. Per questo la strategia della parola si deve
affidare ad una politica del sapere 6 , affinché l’azione del Simbolico
sull’Immaginario segua la sequenza SIR: simbolizzare l’immaginario
del reale 7. Nella conferenza i tre registri venivano ancora articolati in
una catena di inferenze duali, di un registro sull’altro. Solo con l’elaborazione dei discorsi l’annodamento dei tre registri sostituirà la catena
dei cicli duali e permetterà, quindi, di scrivere la politica analitica del
sintomo. Senza di quella un arresto non sarebbe logicamente differenziabile da una “interruzione”, appunto di tipo strategico 8.
6. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974,
p. 585.
7. Questo era il programma scientifico che Lacan propose nella conferenza “Il Simbolico, l’immaginario e il reale” tenuta nel 1953, quando uscì con molti altri dalla Societé Psychanalitique
de Paris.
8. L’indistinzione tra politica e strategia ha permesso di pensare a politiche, del tutto immaginarie, per trattare il sintomo attraverso una sua delimitazione “focale”, dette “analisi breve”.
Mi sembra più chiara la logica di chi afferma di limitarsi alla strategia per definire il limite
temporale di una cura e rinuncia alla politica analitica del sintomo, come fa Nardone con la sua
“psicoterapia strategica breve”.
Carlo Viganò | Il tempo nella cura | 147
il rovesciamento
Il rovesciamento da SIR a RSI, risponde ad un progresso nella politica
della cura, cioè all’esigenza di regolarne gli arresti a partire da quel reale
che la parola genera. Precisiamo subito che non si tratta di un cambiamento di programma, da quello della Conferenza SIR, a quello della religione:
realizzare il simbolico dell’immagine (che è il progetto della mistica).
Andando “al di là dell’Edipo” 9, Lacan fonda la cura analitica su un primato del reale che rivela la vera radice dell’esperienza, cioè la rimozione
primaria come dato della struttura soggettiva. Lo mostra bene l’annodamento dei tre registri in un Uno che possa fare frontiera verso il reale
della pulsione di morte, l’intreccio “borromeico”:
I
R
S
Possiamo capire allora che l’effetto di “rovescio” è puramente discorsivo ed è connesso alla politica dell’analista, che, pur scrivendo il nodo
iniziando dal Reale, lo mantiene in una forma levogira, cioè con R che
incide su S. Nella religione invece esso è destrogiro, con S che incide
9. Così J.-A. Miller intitola la seconda parte del seminario diciassettesimo dove Lacan formula
il discorso dell’analista come il punto di ancoraggio al reale del soggetto che potrebbe sganciare il
discorso dal primato del simbolico. Introduce cioè il soggetto dell’inconscio in una logica intuizionista che colloca il soggetto della scienza (discorso del padrone) come il suo rovescio.
148 | attualità lacaniana
n. 12/2010
su R. Il discorso dell’analista corrisponde ad un progresso nella politica
della cura, che tiene conto dell’esigenza di regolarne gli arresti a partire
da quel reale che la parola (e quindi il discorso della scienza) genera.
L’algoritmo dei discorsi permette di mostrare questo rovesciamento: il
resto che si produce nel discorso dei sembianti viene a sua volta messo
nel posto del sembiante: la resistenza diventa la molla del transfert.
→
▲
rovescio di
→
▲
Non possiamo svilupparlo in questa sede, ma il discorso dell’analista,
ponendo il resto reale di godimento del discorso dialettico, quello del
Padrone con il suo derivato contemporaneo dell’Università, al posto del
sembiante, crea un legame transferale con il sinthòmo, quarto anello di
un annodamento che la cura potrà rendere borromeico, cioè in grado di
fare da bordo al godimento.
Nelle cure la funzione della parola può trasformarsi in atto 10 tramite
il desiderio dell’analista che riguarda le “manifestazioni residue”, di
cui parlava Freud in Analisi finita e infinita e che dunque, come osservava Miller, non sono residui della cura, ma del fatto che in essa si
parli o meglio “che si dica”, che cioè al di là dell’enunciato si produca
dell’enunciazione. In altri termini l’interpretazione del detto (SIR)
punta al senso del sintomo, mentre l’atto tratta il godimento che il dire
deposita ne lalingua, al di là del senso (inconscio reale 11).
quando il discorso non sarebbe del sembiante
L’algoritmo che può mettere in relazione l’enunciazione con la processualità temporale della cura e con le posizioni che il soggetto vi può
10. In termini anglosassoni: da speach act a change.
11. J.-A. Miller, “L’inconscio reale”, in La Psicoanalisi, n. 42, Roma 2007, pp. 112-172.
Carlo Viganò | Il tempo nella cura | 149
prendere, è quello dei discorsi e dei passaggi di discorso. Essi possono
mostrare i rilanci che il desiderio dell’analista può o non può fare di
questi resti che la parola del paziente produce in una cura sotto transfert.
Si tratta di uno sviluppo del quadrato della parola e del muro del linguaggio, creato da Lacan per potere elaborare il tempo in cui la parola nella
cura arriva, grazie al transfert, a scalfire il godimento del senso (comune)
e quindi a sottrarre l’Altro ad un ancoraggio archetipico alla dea ragione
(o alla sragione psicotica). Questo permette di sostituire all’asse immaginario a-a’, il resto di reale che l’immaginario ha raccolto e che resiste alla
dialettica significante: a. È l’oggetto niente, che, anche quando nel sintomo contemporaneo non riceve la luce dell’Ideale (fantasma), può essere
sottratto alla feticizzazione dalla pragmatica dell’analista.
Vorrei illustrare questo rovesciamento utilizzando un commento del
discorso dell’analista che Lacan fece in una “improvvisazione”. È nel
suo giro americano, credo presso il MIT, dove mette in evidenza il desiderio dell’analista quando si fa sembiante dello scarto della parola (il
suo “silenzio”) nella cura (vedi Figura 1 a pag. page 150).
Di fronte a ciò che il soggetto non dice l’analista può incarnare il sembiante di scarto (a) e intervenire a livello del soggetto, grazie non ad un
“rapporto di comprensione”, ma ad una supposizione di comprensione
(la linea tratteggiata) che si produce come effetto a cascata dal suo dire
(i vettori che portano ad a).
È a questo punto che interviene il desiderio dell’analista: o questo sapere
detto a metà mette in evidenza “ciò che il soggetto non dice” e quindi
produce arresto del discorso dei sembianti (figura in alto), oppure esso
fornisce un nuovo nome () a ciò che l’inconscio produce e questo fa
continuare la cura grazie ad un cambiamento del (o nel) discorso. In un
caso il soggetto è condizionato da ciò che enuncia (arresto del discorso)
e nell’altro da ciò che non dice (avvio della cura).
Questa struttura discorsiva rende ragione dei cicli della cura della parola in funzione del tempo logico del discorso. L’analisi è un tempo del
parlessere che ritaglia la durata non solo della seduta, ma anche della
150 | attualità lacaniana
n. 12/2010
()

ce qu’il énonce


ce qu’il ne dit pas
()

savoir inconscient

ce que l’inconscient produit, plus de jouir parlêtre

cura, conferendo un valore specifico ad ogni sua scansione: inizio, arresto, interruzione, ripresa di tranche.
In questa logica tra inizio e fine si producono una serie di rovesciamenti
successivi, dal sintomo al fantasma… e ritorno, meglio: ad una nuova
scrittura del sintomo e così via. Sulla ri-scrittura del sintomo si sono
arrestate le analisi di Freud, tranne quella dell’uomo dei lupi, dove un
nuovo analista ha dato un altro nome al sintomo. Oggi diremmo: dalla
nominazione della lettera di godimento (sinthòmo) al sintomo come
supplenza del N-d-P.
Nel seminario ventesimo, Lacan inserisce questo rovesciamento nel
tempo logico dell’apologo dei tre prigionieri. È molto utile per mostrare
come l’oggetto a, in quanto manifestazione residua di una cura, sia la
Carlo Viganò | Il tempo nella cura | 151
chiave di volta del tempo per concludere un’analisi o un ciclo nell’analisi. Egli lo scrive: Uno + a, dove quest’ultimo, che Miller riconduce alle
“manifestazioni residue”, “tetizza la funzione della fretta”. Il tempo logico cioè apporta alla cura come situazione di intersoggettività “qualcosa
di salutare”, mostra come ciascuno dei tre interviene nella relazione “solo
in qualità di quell’oggetto a che egli è, sotto lo sguardo degli altri” 12.
Gli arresti delle cure, allora, pongono la questione dei tre prigionieri,
che in realtà sono due più a. “Questo due più a, nel punto di a, si riduce, non agli altri due, ma a Uno più a”. Lacan ricorre a queste funzioni
per “rappresentare l’inadeguatezza del rapporto dell’Uno con l’Altro”.
Quando la cura si arresta è di questa inadeguatezza che si tratta e
dell’insufficienza nel “punto di a” di un sembiante che inneschi la funzione della fretta, cioè del sembiante che incarna il desiderio dell’analista. When I care stops, the cure start.
un caso
Illustrerò questo passaggio con uno stralcio di caso clinico. Una donna
quarantenne, scrittrice e docente universitaria, che ha fatto 10 anni
di analisi junghiana per la depressione, poi 4 di analisi lacaniana per
disturbi alimentari, viene da me perché ormai dipendente dalle “canne”.
Non intende tornare dal secondo analista perché questi le dice che lei
ora ha la scrittura che la sostiene e che prima o poi si stuferà di fumare
hashish. La ascolto e la invito ad andare anche al CAD per un supporto
medico. Smette subito di fumare la “sostanza”, ma, per poter arrivare
a scrivere, riprende con le sigarette, intanto racconta di una vita spesa
a ricercare la verità maschile 13 e a sfuggire la seduzione paterna. Una
volta, è passato poco più di un mese, faccio la “voce grossa” perché,
12. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 48.
13. Il titolo del suo primo romanzo, che ha già avuto due ristampe, suona: “Non è come lui dice”.
152 | attualità lacaniana
n. 12/2010
per rifiutare il farmaco che gli propone il medico del CAD, gli dice
che sono io ad essere contrario. Reagisco quindi all’uso del mio nome,
che mi rivela come lei collochi il luogo della mia enunciazione secondo
una sua costruzione narrativa dell’Altro (lo psicoanalista che è contrario
all’uso del farmaco), che le serve per rifiutare l’Altro. La volta successiva
mi comunica che il mio rimprovero ha fatto crollare l’immagine che
aveva di me e che vuole arrestare l’analisi: “sono già 15 anni che faccio
analisi…”. Le propongo di prendersi una pausa e che intanto io aspetto
che mi richiami, dal momento che sono certo che lei possa stare meglio
e che quindi desidero che arrivi a fare un’analisi.
Mi richiamerà una settimana dopo per dirmi che la sua stima nei miei
confronti non è mutata. Sta male, è angosciata, si è accorta che a volte
fa la voce della bambina, come io avevo osservato. Nella cura il posto
dell’Altro che l’accudiva si è trasformato nell’Uno angosciante, però lei
ha potuto relazionarsi di nuovo con me grazie alla stima, forse potrà
avere accesso all’essere per la via dell’amore (stima). L’arresto ha avuto
una funzione di tempo logico che ha scatenato un momento di cambiamento nel discorso: si stupisce di parlare per la prima volta della madre
non come vittima di suo padre o comunque come quella che “non
parla”, ma della propria esperienza di ravage nel rapporto con la madre
(che, già dai tempi del telefono fisso, non è mai riuscita a stare più di
due ore senza verificare dove lei si trovasse). Mi aspetto di poter lavorare
su questo oggetto primario della sua dipendenza.
In conclusione possiamo dire che l’analisi è un processo e come tale si
può arrestare, ma il suo procedere non è lineare. Essa è il processo del
cambiamento. Di che cosa? Non dei sembianti che il godimento prende
per il soggetto, ma della scelta che quest’ultimo può fare di un discorso
che non sarebbe del sembiante. Perciò è sufficiente, ma non necessario,
che l’uscita sia simmetrica all’entrata. L’uscita non è che l’après-coup
dell’entrata e per questo non può obbedire ad un giudizio sintetico a
priori (la diagnosi). Essa può solo essere l’oggetto di una costruzione.
Entrata ed uscita non implicano uno spazio chiuso, definito da un
Carlo Viganò | Il tempo nella cura | 153
interno ed un esterno, ma uno spazio reso infinito dal buco dell’Uncorpo 14, dell’incorporeo che mantiene in vita il parlessere. Il buco come
organo incorporeo si rivela dunque essere l’erede della funzione fallica.
Di qui l’infinito dei cicli della cura e il finito della passe.
14. Neologismo creato da Lacan, che usa l’ “Un” nella funzione di negazione che esso assume
quando viene usato come suffisso in tedesco.
155
esiste un discorso che non sarebbe
del sembiante?
di Carmelo Licitra Rosa *1
Il testo si propone di reperire la tessitura di fondo dell’ultimo capitolo del seminario diciottesimo. Di un discorso che non sarebbe del sembiante di Lacan, capitolo
in cui va a confluire tutta la complessa elaborazione dei capitoli precedenti. Si
vuole dimostrare come dallo studio di questo capitolo si possa estrarre la risposta
– affermativa – a quella domanda rimasta in sospeso, che costituisce il titolo del
Seminario. Questa risposta scaturisce da un’esplicazione straordinaria e avvincente del “non c’ è rapporto sessuale”, esplicazione che assume come perno la logica
del  , congiunta con una illuminante rivisitazione della clinica dell’ isteria.
Parole chiave: non c’ è rapporto sessuale, nome e fallo, uccisione del padre
1. c ’è almeno un discorso che non è del sembiante
Come ben sappiamo, i discorsi isolati da Lacan sono quattro: Discorso del
Padrone, Discorso dell’Isterico, Discorso dell’Analista, Discorso dell’Università. L’ordine in cui si susseguono, che è poi quello in cui li abbiamo
elencati, ha soltanto una giustificazione storica – precisa Lacan – quella
riconducibile in ultima analisi alla cronologia della loro comparsa.
Hanno in comune una proprietà: il posto che organizza ciascuno di
essi – detto posto dell’agente o posto del padrone – è anche quello che
potrebbe essere chiamato posto del sembiante. Sottolineiamo che si
* Carmelo Licitra è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Roma; è
Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia
e la scienza.
attualità lacaniana n. 12/2010
156 | attualità lacaniana
n. 12/2010
stanno considerando i posti, e non gli elementi, che invece – come è
noto – possono scivolare in questi posti, attraverso una rotazione di un
quarto di giro della rigida catena in cui sono montati, configurando
ogni volta un tipo particolare di discorso. Ma ritorniamo al fatto che il
posto del padrone, che abbiamo detto strutturare ciascuno dei quattro
discorsi, sia un posto di sembiante: se così è, la diretta conseguenza è
che ognuno dei quattro discorsi è dell’ordine del sembiante.
Ciò detto, s’impone spontanea una domanda: se il discorso psicoanalitico condivide questa proprietà comune ai quattro discorsi, perché
mai e in forza di che cosa esso dovrebbe essere un discorso privilegiato?
In altre parole, se il discorso psicoanalitico è anch’esso un discorso
dell’ordine del sembiante, perché mai dovrebbe godere di uno statuto
privilegiato? Lacan, senza punto smentire l’eccezione che il discorso psicoanalitico rappresenta, afferma che il suo privilegio discende dal fatto
di articolare un certo sapere, capace di illuminare l’articolazione – il
giunto potremmo dire – tra verità e sapere inerente a ciascun discorso 1.
E tuttavia, dopo questa prima parziale conclusione – con la quale
abbiamo escluso che il discorso analitico, malgrado l’eccezione che esso
costituisce, potesse non godere della proprietà generale del discorso
di essere dell’ordine del sembiante – rimane aperto l’interrogativo di
Lacan che campeggia nel titolo del seminario, così che dobbiamo continuare a investigare, ad esplorare la possibilità che esista un discorso che
non sia dell’ordine del sembiante. Ebbene, se questa possibilità sussiste,
allora è chiaro che un tale ipotetico discorso, presunto affrancarsi dalla
caratteristica, comune a tutti, del sembiante, dovrebbe necessariamente
essere un quinto discorso, un discorso cioè non riconducibile a nessuno
dei quattro classicamente delineati. In effetti è proprio quello che Lacan
insinua nel capitolo finale del seminario, in un modo discreto, quasi
impercettibile. Infatti, alla pagina 156 Lacan parla di un discorso che
1. Cfr J. Lacan, Il Seminario, Libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, Einaudi,
Torino 2010, p. 153.
Carmelo Licitra Rosa | Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? | 157
non sarebbe e che non è nel sembiante. Questo discorso è, come egli
espressamente asserisce, il discorso del nevrotico. Tale discorso sarebbe
capace di dire una verità. Lacan afferma alla pagina 154 che bisogna
essere grati ai nevrotici, isterici o ossessivi che siano, proprio per la speciale occasione che essi ci offrono – sì, proprio loro, i malati, gli infermi, rigettati spesso ai margini della vita sociale – di attingere ad una
verità così importante. Con questa verità, che i nevrotici rivelano, siamo
nel solco di quella verità che costituisce il nerbo dell’enunciazione freudiana, ma che appartiene anche al retaggio più genuino della tradizione
religiosa giudaico-cristiana.
2. il discorso del nevrotico enuncia una verità speciale
In che modo il discorso del nevrotico avrebbe questa proprietà di palesare
questa verità? Evidentemente attraverso i sintomi, con cui questo discorso
parla. Già da alcuni anni Lacan aveva fatto di Marx il vero inventore del
sintomo: Marx precede Freud nella concezione del sintomo. La nozione
di sintomo infatti sovverte la concezione tradizionale della conoscenza,
giunta al suo culmine con la cogitazione hegeliana (pur nell’originalità
di quest’ultima di palesare uno slittamento incessante fra sapere e verità),
portando in primo piano lo scandalo di una conoscenza come paradossalmente contrassegnata da disconoscimento e ignoranza. Esemplare a tal
riguardo è l’analisi marxiana del feticcio, inteso come sembiante intorno
a cui ruota una certa organizzazione del sistema capitalistico.
C’è da aggiungere che la verità, in questo seminario, presenta una
caratteristica peculiare, in cui consiste tutta la novità della sua ripresa.
La verità è stata senza dubbio uno dei concetti cardinali degli esordi
dell’insegnamento di Lacan; qui la ritroviamo con un accento particolare, ovvero la sua proprietà di rivestire, di avviluppare il reale, il reale
del godimento. Sotto la verità della denuncia marxiana del feticcio, ad
esempio, si nasconde il plusvalore – fa notare Lacan. Questa solidarietà
158 | attualità lacaniana
n. 12/2010
tra la verità e il reale che essa ricopre, spiega come mai la denuncia di
tale verità non sia sufficiente per abbattere, a sradicare il discorso capitalistico; come mai tale discorso prosperi, anzi quasi si consolidi, grazie
alla denuncia marxiana, che piuttosto sembrerebbe assicurarlo nei suoi
fondamenti; e come mai il cosiddetto proletario, in quanto anch’esso
verità situata a ricoprire questo nocciolo duro di reale, appaia come un
misero residuo di entificazione umanistica.
Dunque, riprendendo il filo del nostro discorso, il nevrotico sarebbe
dentro ad un discorso, sarebbe portatore di un discorso specialmente
idoneo a svelare la verità nascosta dietro il sembiante. In tal modo il
nevrotico si troverebbe ipso facto ad animare una certa dialettica tra
sembiante e verità, dialettica che si situa allo stesso livello del cosiddetto rapporto sessuale. In altri termini, è la tensione singolare di questo
discorso del nevrotico, in grado di divaricare verità e sembiante, che
situa il nevrotico stesso in una zona estremamente contigua, limitrofa a
quella del rapporto sessuale. In questo modo, seguendo Lacan alla pagina 156, si potrebbe parlare di “discorso del nevrotico”, con ciò volendo
indicare un certo sapere in grado di enunciare la seguente verità: “non
c’è rapporto sessuale”.
Ebbene, questo discorso del nevrotico sarebbe esattamente quell’unico
discorso a non essere dell’ordine del sembiante: esso appare come una
sorta di limite verso cui è proiettato il discorso, ogni discorso, allorché
esso è chiamato a confrontarsi con la spinosa questione del rapporto
sessuale. In altre parole, questo quinto discorso – discorso del nevrotico
– sarebbe il discorso limite sotteso a tutti e quattro i discorsi strutturati;
e proprio in questo farebbe eccezione, in questo si potrebbe dire che
non è dell’ordine del sembiante.
Questo limite si ritaglia, si delinea, diventa riconoscibile in uno scacco
della logica, della logica che governa ciascuno dei quattro discorsi. E
poiché ogni logica si regge sulla scrittura, questo scacco della logica
dovremo poterlo reperire in qualche modo a livello di uno scacco della
scrittura. È esattamente quello che verifichiamo. Lo scacco della scrit-
Carmelo Licitra Rosa | Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? | 159
tura diventa palese nelle cosiddette formule della sessuazione. Come
dice Lacan alla pagina 136, le due barre di negazione poste sopra i
simboli del quantificatore universale e del quantificatore esistenziale,
di per sé non sono da scrivere, non sono scrivibili; e dunque il fatto
di scrivere delle formule che di per sé non sono scrivibili è l’indice del
paradosso stridente che esse incarnano. Tale paradosso è in qualche
modo necessitato dal fatto di aver voluto piegare la logica, la logica in
quanto scrivibile, a catturare la verità, la quale in quanto tale è inconciliabile con la formalizzazione logica: se si vuole immettere la verità nella
formalizzazione, il prezzo che immancabilmente si paga è il sorgere di
un paradosso in seno alla formalizzazione che si sta costruendo. Lacan
dice chiaramente che queste due barre che si scrivono pur non potendo
essere scritte (dunque questo paradosso) costituisce ciò che è “capace
di rispondere al sembiante del godimento sessuale” 2, dove il sembiante
del godimento sessuale altro non è che la verità, come delucidato in un
passaggio immediatamente precedente del testo di Lacan: il paradosso
delle formule della sessuazione è dunque il prezzo che si paga per non
aver arretrato dinanzi alla formalizzazione dell’informalizzabile, cioè
della verità.
3. discorso del nevrotico e miti psicoanalitici
Lacan costruisce ora una coppia in cui abbina da una parte il discorso
del nevrotico (dentro cui comprendiamo tutti gli elementi finora articolati: non del sembiante, limite del non c’è rapporto sessuale, scacco
della logica, paradossi della scrittura) e dall’altra il discorso freudiano,
prima forma del discorso dello psicoanalista, con i suoi miti, appositamente forgiati – soggiunge Lacan – in risposta all’ascolto del discorso
del nevrotico. In effetti, all’origine della psicoanalisi c’è il dispiega2. Ibidem, p. 136.
160 | attualità lacaniana
n. 12/2010
mento del discorso del nevrotico da un lato e Freud dall’altro, che lo
ascolta pazientemente: che ascolta e risponde. E la risposta di Freud è
precisamente la fabbricazione di alcuni miti, i quali nel loro insieme
costituiscono il primo abbozzo del discorso dello psicoanalista. Lacan
distingue questi miti in due categorie: miti dettati direttamente dal
nevrotico (si tratta del complesso di Edipo, e il nevrotico che detta è
l’isterico) e miti forgiati come per far eco alla parola del nevrotico (si
tratta di Totem e Tabù, e il nevrotico che parla è l’ossessivo e, perché
no!, Freud stesso).
4. tre livelli
Per entrare nel merito dello schema che Lacan ci propone nel capitolo
X – il capitolo conclusivo del seminario diciottesimo – potrebbe essere
agevole costruire tre livelli successivi. Questi tre livelli non sono reperibili direttamente nel seminario: costituiscono il mio contributo alla
delucidazione del testo.
Il primo livello, basale, sarebbe quello in cui il non rapporto sessuale
è in qualche modo sopportabile, sostenibile ed emendabile grazie alla
funzione operativa della castrazione. Ci spieghiamo meglio. Forse
l’eccessiva insistenza sull’espressione non rapporto sessuale ci ha fatto
perdere di vista che per Lacan c’è un reale residuale di questo rapporto
sessuale. Ciò è del resto estremamente congruente con un punto classico della dottrina lacaniana: l’impossibile circoscrive un reale. In questo
caso l’impossibile del rapporto sessuale circoscrive il reale del rapporto
sessuale: ciò che è impossibile è l’articolazione a livello del discorso, ma
da questo impossibile risulta un reale. Se non si può parlare di rapporto
sessuale – aveva detto prima Lacan alla pagina 121 – si potrà quanto
meno parlare, proprio in considerazione di questo reale del rapporto
coniugato con l’impossibile del rapporto, di rapporto “sessuato”. Sempre sulla stessa linea, richiamo un passaggio di pagina 139 in cui Lacan
Carmelo Licitra Rosa | Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? | 161
parla chiaramente di un discorso che “instaura” il rapporto sessuale.
Tale rapporto sessuale, instaurato da un certo discorso, non ha un
corrispettivo nel campo della verità; il che induce a rettificare un po’ il
modo di intendere la caratteristica di sembiante di questo discorso: se
esso è del sembiante – come di certo lo è – non è perché rinvia ad una
qualche verità (il binomio sembiante/verità è una costante) ma perché
schiude la via a dei godimenti che sono solo la parodia del godimento
effettivo, condannato a rimanere estraneo. All’inizio del capitolo IX
Lacan aveva infatti definito l’uomo e la donna come fatti di discorso,
come a dire che c’è un discorso che li può legare come uomo e donna,
salvo che la loro intesa non può instaurarsi se non tacendo, giacché
è proprio del discorso, rigorosamente parlando, di essere un discorso
senza parole: da qui il sorriso, il sorriso delle statue arcaiche, a suggellare il raggiungimento di tale intesa.
Ebbene, “un rapporto sessuale, così come si dà in una qualunque
realizzazione, si sostiene, si basa precisamente su quella composizione
tra il godimento e il sembiante che si chiama castrazione” 3. È molto
importante fissare bene questo punto di partenza: potremo così vedere
stagliarsi davanti a noi una figura elementare in cui appaia la beanza del
non rapporto, con inserito al suo interno un elemento, in cui possiamo
far consistere la castrazione (sorta di lega fra sembiante e godimento, a
cui è riportabile la lettera di Lituraterra, da differenziare severamente
dalla lettera della logica), grazie a cui il reale del rapporto sessuale può
essere abbordato. Vale la pena di ricordare che questa lettera, secondo
Lacan, non è un’iscrizione, ma piuttosto il risultato della dissoluzione
del sembiante. Essa è un osso di cui il linguaggio sarebbe la carne. La
scrittura, non il linguaggio, forma l’osso di tutti quei godimenti che, per
il tramite del discorso, si schiudono all’essere parlante: anche dunque di
quei godimenti che non hanno linguaggio, come il godimento sessuale.
Lacan, riallacciandosi ai fatti a lui contemporanei dello sbarco sulla
3. Ibidem, p. 156.
162 | attualità lacaniana
n. 12/2010
luna, differenzia due modi di rapportarsi alla luna. Uno, il modo tradizionale, prescientifico, consiste nella contemplazione della luna, che
sempre ha ispirato poeti e artisti: possiamo dire che questa posizione è
quella riconducibile all’uso del simbolo fallico nel rapportarsi al godimento. Lacan, ricordando di aver visto in un museo giapponese un
uomo imbalsamato e con lo sguardo trasognato rivolto alla luna, ne fa il
prototipo di questa modalità fallica.
L’altro modo è quello che solo la scienza permette: non più contemplarla,
ma addirittura osare mettere il piede sulla luna, arrivare a lasciare un’impronta sul suo suolo. Certo, per poterlo fare, bisogna munirsi di scafandri, di un qualche mezzo (cioè non lo si può fare in maniera diretta), ma
rimane che la traccia del piede sulla luna è la realizzazione del significante S(). La lettera dunque. A margine, Lacan ricorda che l’astronomia
equatoriale è stata per i cinesi un ostacolo all’avvento del discorso scientifico, e dunque un ostacolo a spostarsi dal fallo alla lettera.
Su questo sfondo, che è per Lacan il modo ordinario di far fronte al non
rapporto sessuale (la castrazione come unico rimedio al non rapporto
sessuale), vediamo profilarsi il dramma del nevrotico, dramma che è al
tempo stesso una tensione, una forzatura, che proietta il discorso da lui
tenuto all’orizzonte limite dei quattro discorsi e ne fa un’eccezione, per
l’appunto un discorso non dell’ordine del sembiante. La parola chiave
per accedere a questo secondo livello si trova sempre a pagina 156 del
seminario ed è: “timore”, “evitamento”. Precisamente il nevrotico è
qualcuno che cerca in tutti i modi di evitare, di schivare la castrazione;
Lacan aggiunge che ciò dipende dal fatto che il soggetto della nevrosi si
presume in qualche modo inadatto alla castrazione. Il contrappeso fatale di tale evitamento è una sorta di insistente intrusione di questa stessa
castrazione schivata, come per rimbalzo. E così la castrazione evitata si
tramuta in qualche modo nel fantasma di una castrazione che incombe dappertutto. È per questo che il nevrotico, che da un lato sfugge
alla castrazione, è anche colui che dall’altro si presta elettivamente a
rivelarla, in quanto ne è per così dire assediato, ingombrato. Come
Carmelo Licitra Rosa | Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? | 163
dice Lacan, la letteratura analitica attesta abbondantemente, sotto ogni
forma e modalità, della ricorrenza della tematica della castrazione: e in
questo certamente si vede che questa castrazione è come obbligata, ma
anche che il nevrotico è sottilmente compiacente nei confronti di essa.
Questa castrazione evitata equivale dunque a una sorta di riapertura
della beanza, così da rendere più acuta e cocente la denuncia del non
rapporto sessuale: in altre parole, il venir meno della castrazione come
rimedio non può che far risorgere in modo più puro e bruciante quello
iato che la castrazione è deputata a rendere sopportabile.
Dunque il nevrotico è un paladino della verità del non rapporto sessuale, nella stessa misura in cui è qualcuno che ha votato la sua vita a
scansare la castrazione, quella castrazione che avrebbe potuto pacificarlo rispetto al non rapporto sessuale.
D’altra parte però la zona critica del non rapporto sessuale, una volta
allontanato l’elemento della castrazione, non rimane soltanto occupata dal reale del rapporto sessuale. Lateralmente, proprio a ridosso dei
confini di ciascuno dei due fronti (maschile e femminile) del discorso,
è reperibile l’elemento . Infatti , nei capitoli precedenti, era già stato
elaborato da Lacan come un simbolo, non come l’immagine di un
organo, ma come quel simbolo terzo – terzo ma non mediatore, si precisa – a cui può essere riconducibile, riportabile, il godimento di ciascuna delle due metà che mirano a incontrarsi, in quanto messo in impasse
dal non rapporto sessuale. In qualche modo  sussume in sé il godimento sempre inadeguato, insufficiente, inadatto, in cui va ad arenarsi,
a schiantarsi miseramente la traiettoria del rapporto sessuale. Ebbene,
questo godimento inadatto, col suo simbolo , può diventare esso stesso un elemento terzo; ovviamente un elemento terzo non appropriato,
un simbolo che non è il simbolo del reale del rapporto sessuale, ma il
simbolo del godimento sistematicamente insufficiente in cui il non rapporto sessuale ha potuto incontrare la sua ennesima, deludente verifica.
Alle pagine 137-138 Lacan spiega perché questo simbolo venga prescelto
come sembiante del godimento, sembiante denunciato dalla verità pura.
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Questo simbolo è presunto condensare il sapere supposto alla fecondità
e come tale è adorato nei misteri antichi nella figura di un sembiante
d’organo; al tempo stesso esso ha qualcosa di acefalo, in quanto il godimento sessuale non può essere subordinato alla scelta dell’uomo e della
donna come portatori di un certo genotipo: al massimo è il fenotipo che
sovrintende al loro incontro. Inoltre Lacan spiega come mai esso si presti a designare il posto del godimento sessuale, all’interno del discorso,
sotto forma di un buco: questo buco deriva da uno sbarramento, da una
resistenza invincibile di tale godimento a farsi riassorbire nel discorso, o
se si vuole da una resistenza di tale godimento a essere commutato in
un elemento del discorso, cosicché in corrispondenza di tale godimento
refrattario, al livello del discorso non può che ritagliarsi una lacuna.
Ora, come già dicevamo, è proprio su questo  che si addensano e convergono i fantasmi di intrusione della castrazione, come contrappeso
necessario dell’evitamento ostinato perseguito dal nevrotico.
Al tempo stesso, se il nevrotico dà voce alla verità del non rapporto
sessuale, e se per farlo ha bisogno di appoggiarsi su  come elemento
cruciale di quel discorso che è capace di annunciare tale verità, allora
è grazie al nevrotico che noi possiamo dire che  non è il simbolo del
godimento sessuale, che  non è il simbolo del godimento  insito nel
reale del rapporto sessuale, essendo  nient’altro che il simbolo del
godimento deficitario, del godimento del fallimento del rapporto sessuale. Ora, di questa disgiunzione tra  e  siamo precisamente debitori all’isterico – puntualizza Lacan.
Siamo così in grado di accedere al terzo livello dello schema puramente
didattico che abbiamo elaborato per situare la soluzione propria del
nevrotico. Sì, perché il livello precedente costituisce una soluzione evidentemente instabile, che Lacan qualifica con l’aggettivo indecidibile:
l’indecidibile caratterizza il rapporto sessuale in quanto non esiste 4.
4. Poco sopra Lacan aveva detto che non si poteva concludere se questa beanza del rapporto sessuale era la conseguenza del fatto che l’essere umano è parlante, oppure la conseguenza del fatto
che tale rapporto non è parlabile.
Carmelo Licitra Rosa | Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? | 165
Rimane il fatto che il nevrotico effettivamente risolve questa condizione di sospensione con delle costruzioni con cui si augura di poter tamponare tale beanza. Queste costruzioni sono precisamente i sintomi, o
meglio, qualsivoglia tipo di discorso in quanto suscettibile di fungere
da sintomo 5, da cui ci si attende una soluzione artificiosa al non rapporto sessuale.
5. la soluzione isterica
Vediamo adesso in concreto come appare nel caso dell’isterica questo
Sintomo/Discorso che ella costruisce per far fronte al non rapporto
sessuale, e su cui si sostiene nella sua esistenza. Il perno della manovra
isterica è rappresentata da  come elemento a disposizione del discorso, di cui ella si appropria, e da  come punto di mira che il discorso
dovrebbe raggiungere perché possa esserci rapporto sessuale. Detto con
la massima semplicità possibile, per afferrare effettivamente questa 
occorrerebbe che in qualche modo l’elemento simbolico atto a designarla fosse in grado di rispondere, di emettere una risposta all’appello:
perché – come altrove ribadito da Lacan – è nella parola che può darsi
qualcosa del rapporto sessuale.
Ora, precisamente l’isterica chiama  a designare , salvo poi constatare l’impotenza di , designatore di , a rinviare una risposta da quel
posto di designatore in cui lo ha installato: ciò equivale a istituirlo come
designatore ultimo e al contempo a sancirne l’impotenza come designatore ultimo. Questa manovra non è astratta ma si incarna, si incarna
nel partner, il quale è precisamente colui che è identificato a questo
. Ne deriva che il partner, identificato a , è quindi identificato a un
elemento del discorso che, se ha la prerogativa di designare questo godimento nel rapporto sessuale, al tempo stesso è destinato a rivelare lo
5. È da notare:  = discorso.
166 | attualità lacaniana
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scacco di non poter dire la parola ultima che questa funzione richiederebbe per essere davvero tale.  dunque, per quanto significante speciale, fallisce nella sua funzione di designatore ultimo del godimento, ed
è in questo che l’isterica arriva a disgiungere  e , suggerendoci così
le formule della sessuazione. Ma questo scacco è anche lo scacco del
partner posto sotto , partner sul quale l’isterica ha deviato la castrazione che ella ha voluto a tutti i costi scansare: si tratta in definitiva in
questa castrazione dell’impossibilità a designare il godimento ultimo.
Si annodano così: 1) evitamento della castrazione che viene ribaltato
sul partner, 2) denuncia del non rapporto sessuale attraverso  ≠  e
3) sintomo isterico, che abbraccia nel complesso tutta questa manovra.
Inoltre deve essere chiaro che tutto questo artificio è dovuto al fatto
che il nevrotico, l’isterico in tal caso, è qualcuno che non rinuncia alla
verità, come Lacan dice alla pagina 142, qualcuno che non rinuncia
alla verità nemmeno a proposito del non rapporto sessuale, che come
tale esorbita dal campo della verità 6. Pertanto l’isterico è qualcuno che
riprende forzatamente sul piano della verità una questione che di per sé
non può entrare nel campo della verità, non può cioè essere impostata
secondo le coordinate della verità, perché il campo della verità è ad essa
eterogeneo; d’altronde, farla entrare nel campo della verità vuol dire
anche sottometterla al dominio della parola, dato che la parola ha rapporto con la verità: la verità parla … 7
Lacan non articola tutto ciò in modo esplicito. Bisogna estrarlo attraverso una paziente ricostruzione che passa attraverso la coppia Connotazione/Denotazione, la coppia Sinn/Bedeutung di Frege – al cui riguarda Lacan sottolinea il superamento che questi ha fatto di Leibniz – e
infine il nominatum di Carnap. Si tratta per Lacan di dimostrare che
la Bedeutung di Frege, il designatore ultimo a cui  è riducibile, non è
6. Impossibile ≠ Verità.
7. Questo anche se parlare – nota Lacan – comporta una divisione irrimediabile fra godimento
e sembiante giacché la verità è godere a far sembiante oppure alternativamente far sembiante di
godere. Questa oscillazione è la nuova versione del semi-dire della verità.
Carmelo Licitra Rosa | Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? | 167
identificabile con il nominatum di Carnap. Quest’ultimo ha a che fare
col nome, la cui proprietà, come Lacan ha dimostrato nei capitoli precedenti, è appunto quella di rispondere all’appello.
Il nome è tale in quanto il nominato risponde all’appello, mentre un
designatore in nessun modo può rispondere all’appello.
Ora, è precisamente questa la forzatura a cui si abbandona l’isterica:
fare del designatore un nome, con la conseguenza di votare questo designatore allo scacco inevitabile. Il nome infatti è qualcosa di più di un
designatore, perché appunto risponde, mentre il designatore non risponde. Prendere  come nome significa dunque destinare  allo scacco, e
destinare quindi il partner, in cui  si incarna, allo scacco. È in questo
che si può cogliere in che senso la castrazione è riversata sul partner. Il
fine ultimo di tutta questa manovra, in cui precisamente riconosciamo
il senso dell’espressione sopra adoperata limite del discorso, è la dimostrazione della verità del non rapporto sessuale. L’isterico dunque fa
del fallo un Nome-del-Padre, il che vuol dire anche, inversamente, che
il Nome-del-Padre è in qualche modo una creazione dell’isterico: e in
effetti, forse il modo migliore per inquadrare questo Nome-del-Padre
è di vederlo come un prodotto, un  del discorso analitico. Il padre è
dunque un referenziale: del resto non si analizza mai qualcuno in quanto padre, ricorda Lacan. In ultima analisi, il padre è il depositario, il
detentore ultimo se si vuole, di questa x irraggiungibile.
6. che cos’è il mito?
Per completare la nostra disamina, Lacan ci indica come al livello del
mito, del mito forgiato dall’isterico, siano chiaramente reperibili le tracce inequivocabili di questa castrazione rifiutata. Si tratta solo di leggere
bene le componenti di questo mito. La genialità di Lacan è di istituire
un legame tra elementi molto eterogenei e distanti l’uno dall’altro.
La prima componente del mito che Lacan mette in rapporto con la
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castrazione rifiutata è l’uccisione del padre. Riguardo a questo assassinio bisogna che non ci sfugga che esso è sempre già dato, mai rappresentato sulla scena della tragedia.
La seconda componente, che mette in valore una sorta di strutturazione matematica del mito, è la contabilità come supporto della genealogia e del posto della paternità nella successione delle generazioni. I
padri sono sempre indicati da un numero, come è ben evidente nelle
dinastie. Lì dove c’è un padre, lì dove vige un’organizzazione fondata
sull’ordine patriarcale, è sempre necessario contare, la qual cosa non
è invece preminente nelle società matriarcali. Ora, per contare, come
ha dimostrato Peano con i suoi famosi cinque postulati 8 che fondano
l’aritmetica, è necessario un elemento base, lo zero. Uno dei cinque
postulati di Peano è che zero è un numero. Il colpo di genio di Lacan
è di collegare l’assassinio del padre con lo zero di Peano. Come l’assassinio paterno è all’origine del mito, così lo zero di Peano è all’origine
della numerazione, ivi compresa la numerazione necessaria per indicare
la successione delle generazioni, la numerazione che assegna un posto
al padre. Entrambe le cose, l’assassinio paterno e lo zero di Peano, sono
da mettere in rapporto col rifiuto della castrazione: il padre è il frutto
del rifiuto della castrazione.
C’è un terzo elemento che Lacan fa giocare qui, e cioè la torsione della
funzione di  come papludun, ovvero la torsione di  in una logica
dell’eccezione. A margine va detto che bisogna differenziare il touthomme dalla serie: au moins un, homminzin, un en peluce. Infatti, come dice
Lacan, anche se il  ha un rapporto con la castrazione, non è certo
nelle formule della sessuazione che questo rapporto risulta desumibile,
dato che piuttosto in queste formule il  è in rapporto con l’ecce8. Gli assiomi di Peano sono un gruppo di assiomi ideati dal matematico Giuseppe Peano al fine
di definire assiomaticamente l’insieme dei numeri naturali. Essi sono: 1. Esiste un numero naturale, 0; 2. Ogni numero naturale ha un numero naturale successore immediato; 3. Numeri diversi
hanno successori immediati diversi; 4. 0 non è il successore immediato di alcun numero naturale;
5. Ogni insieme di numeri naturali che contenga lo 0 e il successore immediato di ogni proprio
elemento coincide con l’intero insieme dei numeri naturali (assioma dell’ induzione matematica).
Carmelo Licitra Rosa | Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? | 169
zione, cioè con il campo degli eletti, di coloro che sono esentati, che
sono immuni dalla castrazione. È anche per questo che il monoteismo
appare a Lacan come il tentativo di forgiare un padre a misura di questa
logica del  papludun 9.
Vale la pena di sottolineare che questa funzione del  ha a che fare
col godimento e che va differenziata da un’altra funzione che esso gioca
parimenti in rapporto col desiderio. Quanto al godimento, il problema
femminile non è né il touthomme, che essa alla stregua di un maschio
è in grado di immaginarizzare (dunque il problema non è l’identificazione maschile di cui si sa che l’isterica è perfettamente capace), e nemmeno il problema è costituito dal fallo di cui ella si considera castrata,
poiché il godimento fallico ella lo ha dalla sua parte. Il problema per la
donna sorge nel momento in cui essa si dovesse interessare al rapporto
sessuale. È allora che ella deve interessarsi al fallo come elemento terzo;
e non può interessarvisi se non in rapporto all’uomo, di cui però non è
affatto sicuro che ve ne sia almeno uno. Ecco perché tutta la sua politica
sarà volta verso questo almeno uno, di cui si tratterà di verificare e di
assicurare l’esistenza.
Tutto ciò ha ripercussioni inevitabili per quanto riguarda il versante
della verità. Come si legge alla pagina 143, l’isterica, paladina della
verità, custodisce un sapere ferreo sulla verità del suo godimento, sapere
che è il seguente: l’Altro idoneo a causare questo godimento è il fallo,
cioè un sembiante. Da qui non solo il rivendicarlo, il reclamarlo, ovvero la sua spasmodica ricerca dell’almeno uno; non solo lo scacco che
riserva al padrone, rigettandolo nel sapere (si vedano tutte le gustose
considerazioni di Lacan sul teatro, sulla festa di carità, sulla clinica
lussureggiante, associate all’amore della verità proprio dell’isteria); ma
9. E del resto ci sono delle tracce che conservano questo marchio di fabbricazione squisitamente
femminile del monoteismo, reperibili nel fatto che Akhenaton, che è il prototipo di monoteismo,
è anche una divinità profondamente effeminata, e in più coronata da tutta una serie di raggi
provvisti di piccole mani in procinto di solleticare numerosi bambini, tutti rassomiglianti tra di
loro come dei fratelli, o forse ancor più come delle sorelle – precisa Lacan.
170 | attualità lacaniana
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anche gli sviluppi logici e le loro ripercussioni sul piano del desiderio. A
tal riguardo, metteremo in evidenza che nelle formule della sessuazione
compare due volte la , pur non trattandosi della stessa . La prima,
quella associata al quantificatore è un’incognita, la seconda, quella
associata alla funzione fallica, è una variabile. L’isterica, facendo del suo
essere un papludun, si situa nel posto dell’incognita, che è invariabile,
rispetto alla quale articolare tutte le possibili variabili, ovvero tutte le
possibili variazioni situazionali. Il tutto allo scopo di poter dire: non
è di ogni donna che si può dire che ella sia funzione del fallo. Il suo
auspicio è sicuramente che questo si potesse arrivare a dire di ogni
donna, ma non ci si arriva. In altre parole, il suo desiderio di isterica è
che tale funzione si potesse enunciare di ogni donna, ma appunto questo desiderio rimane insoddisfatto perché non si può dire di ogni donna
che ella sia funzione del fallo. Non si può dire di ogni donna, cosicché
alla fine una donna ne risulta, che tuttavia non è l’isterica in persona.
Questi brevi cenni basteranno ad evocare la potenza logica implicata
nella manovra isterica.
parte quarta
testimonianze di passe
173
l’uomo retto
di Sergio Caretto *1
Il testo è la testimonianza di un’analisi giunta al suo termine e messa in forma grazie a quell’esperienza particolare che Lacan pone a fondamento della sua Scuola: la
passe. Analogamente ad un setaccio che estrae le pepite portandole alla luce del sole,
l’analisi ha qui consentito al soggetto di isolare quei significanti fondamentali che
ne orientavano la vita e che portavano la traccia di quegli oggetti a cui il soggetto
ancorava tenacemente il suo godimento. L’uomo retto, significante inscritto nel suo
nome proprio, diveniva al contempo simbolo di una dimensione ideale del padre,
quella della rettitudine, e del suo rovescio, il retto inteso come luogo del corpo in cui
fare defluire lo scarto anale. Il percorso analitico in fondo consentiva al soggetto di
operare quel passaggio dal padre ideale al padre come scarto reale, fino ad arrivare
a sputare l’oggetto che egli stesso era stato nel fantasma che si era costruito.
Parole chiave: Padre Ideale, oggetto anale, fantasma, voce, amore, aggressività,
corpo, sintomo, inibizione, vestito, super io
Aveva 21 anni quando varcò per la prima volta la soglia dello studio di
colei che, di li a poco, sarebbe diventata la sua analista per i successivi
22 anni. Due tratti, a lui non estranei, contribuirono ad orientare la
scelta dell’analista: il rigore e la passione con cui ella affrontava la lettura dei testi freudiani all’interno di un seminario di psicoanalisi e il
tono della voce acuto. In occasione dell’incontro, il giovane, nel timore
* Sergio Caretto, A.E., iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della
Regione Piemonte; è Membro della SLP e Membro dell’AMP; Docente dell’Istituto Freudiano
per la clinica, la terapia e la scienza, insegna all’Università di Torino.
attualità lacaniana n. 12/2010
174 | attualità lacaniana
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di vedere rifiutata la sua domanda, si era portato con sé le dispense
del seminario dell’anno precedente al fine di rispondere alle eventuali
domande dell’analista. Di fatto, appena entrato nello studio, la sua
attenzione si concentrò sul prezioso tappeto che l’arredava e che avrebbe dovuto calpestare per arrivare a prendere posto sulla sedia; per un
istante, il pensiero che le sue scarpe potessero essere sporche di cacca e
lasciare tracce sul tappeto, ne avevano inibito il passo.
la domanda
Due difficoltà contribuirono a fare precipitare la sua domanda d’analisi.
Allievo brillante all’università aveva sostenuto in tempo record tutti gli
esami del biennio per dimostrare al padre e a sé stesso di essere all’altezza degli studi intrapresi, studi che si ponevano in rottura col percorso
scolastico precedente di tipo tecnico scientifico, scelto più per seguire
le orme del padre ingegnere che per interesse o passione personali. Per
accedere alla specializzazione in psicologia dell’età evolutiva non gli
restava ora che passare una “semplice” prova di inglese nella quale invece veniva ripetutamente bocciato. Curioso inciampo tenuto conto che
la madre, da sempre, aveva dedicato il suo tempo ad insegnare proprio
la lingua inglese ai bambini delle scuole elementari così come ai suoi
tre figli, la maggiore dei quali laureata in lingue. Di fronte all’angoscia
nel vedere allontanarsi il momento in cui si sarebbe potuto formare alla
cura dei bambini in difficoltà e abbandonati dall’Altro, Ergi non trovava altra risorsa che tornare, a fianco di sua madre, a studiare e ripetere
quella lingua a lui interdetta. Nello stesso periodo il giovane aveva iniziato a svolgere un lavoro educativo con bambini e adolescenti psicotici;
il senso di impotenza di fronte al muro dell’autismo e lo scarto che
incontrava tra la teoria che andava studiando e la sua applicazione pratica, l’avevano portato a rimettere radicalmente in discussione gli studi
intrapresi. Dunque l’impasse nella teoria lo allontanava dal riconosci-
Sergio Caretto | L’uomo retto | 175
mento di una pratica così come l’impotenza provata nella pratica rimetteva in discussione la teoria che avrebbe dovuto illuminarla.
l’uomo Retto
Sorpreso nel vedere accolta la sua domanda si poneva ora il problema
di come pagare l’analisi, tenuto conto che l’analista aveva all’incirca
raddoppiato la cifra da lui proposta per le sedute nonché il numero
delle stesse. Ciò che Ergi aveva tralasciato di dire all’analista era che,
il mese prima, suo padre aveva smesso di lavorare, chiudendosi in uno
stato di grande sofferenza all’interno delle mura domestiche. Al rientro
dal lavoro dove aveva per anni ricoperto importanti ruoli dirigenziali,
il padre si presenterà una sera ai famigliari dicendo: “Non mi hanno
licenziato, mi hanno retrocesso (retro-cesso) ed io non accetto!”. Da
uomo Retto qual era agli occhi del figlio a uomo retro-cesso, ovvero
caduto come un resto anale che, dal retro, si deposita nel cesso. Confrontata a questa improvvisa caduta del marito, la madre di Ergi si
avvicinava ora al figlio domandandogli aiuto affinché questi, dati anche
gli studi intrapresi, si occupasse di risollevare il padre dalla depressione.
Il sintomo inibitorio legato alla lingua inglese che impediva al giovane
di proseguire gli studi e abilitarsi nel trattamento dei bambini in difficoltà, di fatto consentiva al soggetto di tenersi, non senza angoscia,
saldamente ancorato al materno e, al contempo, di mantenere una
distanza dal padre, primo tra tutti i bambini abbandonati. Infatti il
padre, proveniente da una famiglia numerosa, povera e segnata dal lutto
di tre fratelli, era stato costretto all’età di 10 anni a recarsi in un collegio in cui aveva poi proseguito diligentemente i suoi studi. Prima di
trovare riparo dalla guerra che incombeva sulla sua città, il padre aveva
conosciuto colei che sarebbe poi divenuta sua moglie e che, figlia di un
panettiere, offriva al bambino magro e denutrito il pane e i dolci della
panetteria di famiglia.
176 | attualità lacaniana
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“Tu sei come il nonno!” diceva ad Ergi la madre indicandogli una foto
sul comodino che lo ritraeva, all’età di un anno, in braccio al nonno
che, di li a qualche mese, sarebbe morto improvvisamente di ictus
mentre era intento a mangiare una ciliegia rimasta serrata nella bocca
come una perla nella conchiglia. Gran lavoratore ammirato dalla figlia
ed esempio per il nipote che ne portava il nome, il nonno era colui
che non tratteneva niente di ciò che guadagnava in quanto era dedito
aiutare gli amici più in difficoltà. Il nonno e il padre di Ergi facevano
dunque parte di coloro che, come ricordava la madre in un proverbio,
“Lanciano denaro in cielo e vedono ricadere merda” a differenza di
quanti invece “Lanciano la merda e si trovano pieni di denaro”. Sulla
scia di non fare mancare niente all’Altro Ergi, fin dalla più tenera età,
era solito recarsi in un orfanotrofio con la madre per lasciare ai bambini meno fortunati i suoi giocattoli e i risparmi che aveva accumulato
facendo delle buone azioni. “L’uomo Retto” diveniva pertanto l’ideale
che Ergi prelevava sul padre e sul nonno materno, figure che indirizzavano l’amore e le lamentele della madre e che si alimentava del discorso
religioso che orientava la sua formazione primaria svolta in un convento
gestito da suore dove, sulla porta d’entrata, era scritto l’adagio “Gli ultimi saranno i primi”. Occorreva dunque farsi ultimo prestandosi a non
fare mancare niente all’Altro al fine di divenire primo nella mancanza e
brillare così agli occhi della madre. Retto, era anche ciò che era inscritto nel suo cognome Ca-retto dove ca, nel dialetto piemontese, vuole
dire casa; dunque la casa del retto. Lungo questo ideale di rettitudine
Ergi traeva le identificazioni falliche che lo sostenevano nella relazione
con l’altro, col quale non mancava di ingaggiare una rivalità senza pari
ogni qualvolta la mancanza, la macchia, faceva, suo malgrado, capolino
sulla scena. Confrontato al desiderio dell’Altro, l’altro veniva ad assumere le sembianze di padre cattivo e ingrato, riducibile a sguardo che
giudica e rifiuta, e dal quale occorreva pertanto prendere le distanze.
Ben presto lo stesso campo analitico divenne luogo in cui esercitare
questa competizione con l’analista. Un sogno: Ergi in un grande anfi-
Sergio Caretto | L’uomo retto | 177
teatro partecipa alle psichiadi (olimpiadi di psicoanalisi) rivaleggiando
con la sua analista, con Jacques-Alain Miller, Laurent e altri. Di fronte
all’ultimo ostacolo, in preda ad un crampo, Ergi si arresta per fare passare il rivale, cosa che puntualmente gli capitava nelle gare di corsa alle
quali da giovane partecipava arrivando immancabilmente secondo dopo
essersi fatto superare nel rettilineo finale. “Non è detto che se supera
suo padre costui debba necessariamente morire!”, disse l’analista svelando al giovane il desiderio di morte che, all’orizzonte, sosteneva tutta la
competizione col padre e, al contempo, tutti i suoi sforzi per puntellare
l’ideale di rettitudine a cui si aggrappava tenacemente.
l’uomo retto
Retto era sì il sembiante di purezza ideale ma, al contempo, segnalava
bene il luogo del corpo, l’intestino retto, adibito a fare passare lo scarto
anale pronto per l’espulsione. Anche qui, come per i soldi, si trattava
di non trattenere niente, pena il fatto che i vermicelli, di cui la madre
aveva la fobia, avrebbero potuto intaccare la purezza di quell’oscuro
resto. D’altronde la madre non perdeva occasione per sottolineare il
primato del figlio rispetto agli altri fratelli, nel raggiungere il controllo
degli sfinteri e nel fare il suo dono là dove era domandato. Altre volte
ricordava in pubblico e divertita quel giorno in cui il figlio era stato da
lei trovato nel box, seduto sul vasetto, tutto imbrattato di cacca e con
in bocca un grissino appena intinto. “Fare la cacca per mia madre” così
l’analista aveva concluso una seduta limitandosi a ripetere le parole di
Ergi il quale, peraltro, faticava non poco nel duro compito dell’associazione libera, non fosse che per il fatto che questa regola minava una
delle regole d’oro dell’uomo Retto trasmessagli dal padre: “Prima di
parlare occorre contare almeno fino a 10…meglio fino a 20…ottimo fino
a 30”. Uscito dalla seduta gli fu chiaro come un lampo: “Aveva passato
tutta la sua vita a farsi cacca per l’Altro materno, sotto lo sguardo atten-
178 | attualità lacaniana
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to del padre”. Dal lavoro analitico Ergi estraeva infatti un ricordo in cui
la cacca fatta per la madre veniva successivamente messa sotto lo sguardo attento del padre che, con una grossa lente d’ingrandimento da lui
gelosamente custodita, ne verificava la purezza e l’assenza di vermicelli.
Questa pratica si intensificò all’età di sei anni, momento in cui il fratello minore venne ricoverato in fin di vita per meningite; nell’attesa del
medico la madre aveva fatto un enorme clistere al figlio, atto a suo dire
miracoloso grazie al fatto di averne liberato l’intestino retto dove avrebbe potuto risiedere la causa della malattia. Al di là di un vetrata che lo
separava dal fratello posto in isolamento per il rischio di contagio, Ergi
fece il suo voto a Dio: “Se mio fratello si salva gli do tutto quello che
ho, compresa la bicicletta, e mi dedicherò ai bambini malati”. Il fratello uscì dall’ospedale e Ergi iniziò ad entrarci per importanti problemi
d’asma che lo conducevano fin sull’orlo dell’asfissia e che si protrassero
fino all’adolescenza. Inoltre, per un certo tempo nella vita del piccolo,
trovarono posto rituali ossessivi legati al lavaggio e alla preghiera per
arginare la paura del contagio. Di quella paura, da adulto, rimase una
certa reticenza ad avere contatti troppo fisici con l’altro nonché una
certa insofferenza per le situazioni gruppali.
Che il padre avesse un approccio scientifico a quell’oggetto che Ergi
andava via via isolando nella sua analisi, lo testimonia un altro ricordo
che l’analisi portava alla luce in cui il figlio, incuriosito, vede il padre
con una potente pistola ad aria calda passare ore ed ore nel tentativo di
ridurre e estinguere la cacca lasciata dal cane nel cortile. La conclusione
del bizzarro esperimento era che sarebbe stata solamente questione di
tempo ma che, idealmente, Il resto si sarebbe potuto riassorbire completamente, scomparendo. Analogamente, Ergi e alcuni amici si erano un
giorno divertiti a fare scoppiare una merda per strada con un petardo,
un po’come vengono fatte brillare le mine nelle cave. Ciò che rendeva divertente il tutto era che si vedeva saltare la merda per aria e, per
evitare di sporcarsi il vestito, occorreva allontanarsi correndo il più in
fretta possibile. Aimè, il proverbio materno si dimostrava essere fallace
Sergio Caretto | L’uomo retto | 179
in quanto, lanciando la merda per aria, non pioveva comunque denaro!
“Fare la cacca per l’Altro”, rivelava ad Ergi come sotto le vesti dell’amore ideale rivolto all’Altro, alla cui domanda offriva diligentemente il
proprio obolo al quale era primariamente identificato, dimorava di fatto
l’odio, espresso nell’attentato al vestito dell’altro che si rivelava essere
nient’altro che il suo stesso vestito.
la caduta del vestito dell’analista
Due sogni condurranno Ergi, a distanza di 10 anni dall’inizio della
sua analisi, a domandare la passe all’entrata della Scuola. Il primo è
composto di due scene e prende spunto dall’avere visto l’analista, quel
giorno, prendere il suo stesso treno per recarsi ad un appuntamento di
scuola. – Il treno, prima dell’arrivo in stazione, si ferma. Il soggetto
si accorge che manca il macchinista. Angosciato scende di corsa dal
vagone e il suo sguardo, dopo avere visto in lontananza l’arrivo, si fissa
sull’immondizia presente davanti ai binari. La scena cambia. Il soggetto
è ora di fronte alla tazza di un water dove, in superficie, vede una perla
di cacca che non riesce a defluire nello scarico nonostante i ripetuti tentativi di tirare l’acqua. Orientata dal pensiero di una possibile soluzione,
la mano si allunga, prende la perla di cacca e la porta alla bocca nel
tentativo di ridurla digrignando i denti. – Fantastico! Disse l’analista
chiudendo lì la seduta. Questo sogno ne preannunciava un secondo
che veniva a suggellare una svolta nella cura. –Il soggetto entra in una
baita di montagna molto povera e semplice dove vive l’analista ormai
vecchia, taciturna e vestita di un solo saio. I due sono soli e devono
dirigersi verso la cucina attraversando, coi loro corpi disposti fianco a
fianco, un passaggio molto stretto. Il corpo si contorce sfiorando quello
dell’analista mentre lo sguardo del soggetto è catturato, a lato, da un
bellissimo vestito da sera lasciato cadere per terra. Giunto in cucina
il soggetto fa per sedersi al tavolo dell’analista e condividere con lei la
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gustosa zuppa che era intenta a mangiare. Costei tuttavia gli fa intendere che non avrebbe potuto mangiare la stessa minestra, indicando
all’ospite una grossa pentola fumante contenente dei resti che ancora
occorreva cucinare. Il soggetto prende pertanto il mestolo e si mette a
girare quegli scarti che galleggiavano in superficie. Le associazioni del
sogno condussero ad un piatto piemontese molto rinomato e amato dal
padre, la finanziera, fatto di tutte le interiora di animali cotte a fuoco
lento. “Finanziera” richiamava al contempo le finanze, precisando
ulteriormente il nesso tra lo scarto e il denaro. Terminata la seduta, al
momento di congedarsi, Ergi fa per dare la mano all’analista e questi si
accartoccia al suolo come un abito dismesso. “Oh my goodness!” esclamò
col cuore in gola il soggetto. My goodness! era un’esclamazione della
madre corrispondente all’esclamazione italiana Madonna! o Mio Dio!
Cadeva così, d’un sol colpo, l’identificazione all’ideale paterno di cui
Ergi aveva rivestito l’analista, lasciando emergere un appello al materno
e l’apertura ad una nuova e silenziosa partita in cui all’analizzante non
rimaneva altra scelta che cucinare quel resto di corpo. Che sorpresa
inspiegabile e insopportabile: abbonato fino a quel momento all’oggetto
anale, sogni e associazioni conducevano ora all’oralità.
Nello stesso periodo cadde il vestito dell’amore ideale: la moglie, dopo
tre anni di matrimonio, congedò Ergi perché insoddisfatta del loro
rapporto di coppia. Disperazione, vuoto di senso, vertigine e angoscia.
Eppure Ergi aveva seguito anche qui le orme del padre sposandosi alla
sua stessa età e con gli studi ancora in corso e portando all’altare la
donna che era stata la sua animatrice in parrocchia e con la quale aveva
consumato le sue prime esperienze amorose. Fare l’uomo Retto conduceva il soggetto, ancora una volta, all’espulsione. Gli ci volle tempo per
cogliere come un amore concepito sull’ideale non poteva che svuotarsi
in breve tempo del desiderio, rendendolo un legame ripetitivo e privo di
vita. Sorprendenti furono le associazioni che, a partire dal colore di un
abito, contribuirono a fare cogliere le contingenze della scelta amorosa.
L’aveva rivista di ritorno da un viaggio nell’Europa dell’est vestita di un
Sergio Caretto | L’uomo retto | 181
abito viola. Anche il padre, quando Ergi era piccolo, si recava con frequenza in quel paese portando ogni volta dei doni alla moglie e ai figli.
Un giorno aveva regalato alla moglie una preziosa matrioska viola, il cui
uso era stato interdetto ai figli per il pericolo che ne ingerissero parte
del contenuto. Il piccolo riuscì un giorno ad appropriarsi della desiderabile matrioska viola perdendo però la più piccola delle bamboline
contenute all’interno e andando così incontro ai severi rimproveri del
padre. Peraltro la madre, per compiacere il marito che amava il viola,
indossava sovente abiti di quel colore, non senza tuttavia lamentare il
fatto che quello stesso colore era anche quello dei paramenti sacri indossati a lutto. È da notare che la donna che Ergi ritrovava e che avrebbe
successivamente sposato era segnata dal lutto di un fratello morto in un
incidente stradale, incidente analogo a quello capitato alla sorella del
padre di Ergi. Il viola pertanto condensava amore e morte, divenendo
per Ergi scintilla dell’incontro.
ergi!
L’ideale dell’uomo Retto era in fondo un impossibile tentativo di evitare
l’incontro con la dimensione pulsionale del corpo, corpo che trovava nel
pensiero la sua rigida armatura. L’analisi, costringendo il soggetto a passare attraverso la parola fino a ritrovarsi nel dire, riapriva ora l’incontro
con la vita del corpo e con un’angoscia inedita, meno localizzabile nel
sintomo ossessivo a lui caro. Il lavoro analitico si rivelava essere sempre
meno ricerca appassionata di una verità da decifrare e l’analista non era
più convocato nella funzione di interprete. L’intensità dello sguardo, il
tono della voce e la sua stretta di mano modulavano e scandivano ora
una presenza silenziosa, corporea dell’analista il quale era chiamato a
sostenere un soggetto confrontato ad una fragilità a lui sconosciuta,
disorientato dal fatto di non reperirsi più in alcuna immagine. – In
un sogno il soggetto è nudo, col corpo imbrattato di cacca, intento a
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lavarsi seduto sul bordo di una vasca con al suo fianco l’analista che non
dice una parola ma accompagna con uno sguardo discreto quel rituale.
Nonostante la vergogna il soggetto accoglie quella presenza familiare ma
al tempo stesso estranea che attende la sua uscita. – Non era più ora lo
sguardo paterno giudicante bensì quello della madre che Ergi ritrovava
nel ricordo di quando, all’età di 10 anni, l’aveva sostenuto in un medesimo rituale per un’improvvisa evacuazione di cui si era molto vergognato.
Occorreva pertanto staccare dal corpo quel vestito di merda che il soggetto si era fabbricato per rispondere all’enigma del desiderio dell’Altro.
Ergi, soprannome che era risultato della caduta della prima e ultima
lettera del suo nome inscritto su una maglietta regalatagli dalla madre al
suo ritorno da un viaggio in America, si rivaleva al contempo l’imperativo superegoico ERGI! al quale il soggetto si sottometteva per sostenere
la figura di un Altro non toccato dalla mancanza. ERGI! l’uomo Retto!
finché morte non ci separi
Non sapere più cosa cercare, non vedere più un termine alla propria
analisi, non riuscire più a dominare quegli eventi di corpo che facevano la loro inattesa comparsa come quando il soggetto venne ricoverato
per un accesso d’asma in occasione della nascita della sua prima figlia.
Odiava l’analista per averlo condotto in quelle sabbie mobili che ne
risucchiavano il corpo, ma allo stesso tempo non riusciva a pensare
ad una separazione dallo stesso, se non del tipo “finché morte non ci
separi!”. Ovviamente, essendo lei più vecchia, sarebbe toccato prima a
lei. Puntuale era giunto l’intervento dell’analista: “Non crederà mica
di accomodarsi nell’attesa!”. Il significate attesa richiamava peraltro
un fantasma di gravidanza che l’analisi aveva portato alla luce in cui il
soggetto, identificato alla madre ricoverata in ospedale per la nascita del
fratellino, aveva temuto di essere rimasto lui stesso incinta in seguito
ad un gioco fatto col cuginetto. Questo incedere faticoso di fatto si
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accompagnava a cambiamenti significativi nella propria vita, tra i quali
una nuova relazione amorosa dalla quale nasceranno in breve tempo
due figlie e l’essere chiamato ad insegnare all’Università. L’angoscia che
prima era causa di inibizione adesso diveniva la molla dell’atto.
sputare l’oggetto
Due sogni lo condurranno alla conclusione della sua analisi. –Il soggetto, in una giungla, deve superare una serie di prove. Si accorge di
essere solo, non ci sono altri concorrenti. Superati una serie di ostacoli
giunge di fronte ad una spessa tavola di legno scuro dove sono presenti
tre buchi con altrettanti oggetti che li tappano. Lo sguardo del soggetto
si concentra sul buco centrale otturato da un oggetto vivo, che ha le
sembianze di una scimmietta di peluche e al contempo di un bimbo
piccolo che lo guarda. Ad un tratto l’oggetto cade al di là dell’asse di
legno che lo supportava, lasciando lo sguardo del soggetto di fronte ad
un buco. Un’angoscia invade il sognatore che tuttavia trova la forza di
oltrepassare l’asse per andare al di là. Con sua sorpresa, vede il pupazzo
allontanarsi e si accorge che stavano girando un film, che tutto quel
percorso era stata una finzione. Pur accorgendosi che la gente che stava
lavorando non era lì ad ascoltarlo dice sgomento: “Potevate anche dirmelo che era tutta una finta!”. La scena cambia: il soggetto è ora su una
sedia con la bocca aperta. Una mano che non sa dire se è la propria o
quella dell’Altro, si infila nella bocca e fa per estrarre qualcosa. Il soggetto piange, si dimena, resiste fino allo sfinimento, fin quando sputa
con forza in quella mano estranea una perla di cacca. L’angoscia e le
lacrime lo svegliano violentemente. –
Corre dall’analista ma, al momento di raccontare il secondo frammento
del sogno, il soggetto sperimenta la medesima resistenza provata quella
notte: piange e si dimena sul lettino non riuscendo, fino all’ultimo, a
fare fuoriuscire la voce. Il soggetto è come sparito. Riuscito in questa
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impresa disumana e dopo avere aggiunto, con amarezza, “Che discorso
di merda!” si alza scosso e agitato. L’analista lo guarda dritto negli occhi
gonfi e dice: “Non mi resta che prendere atto di ciò. Le domando solo
di tornare ancora una volta a dire il legame tra lo sguardo e la cacca”.
Le lacrime continuano a scendere, sconvolto prende l’agenda ma,
nonostante cerchi affannosamente, non riesce a trovare un posto vuoto
per segnare un nuovo e forse ultimo appuntamento; decide dunque di
andare via e che avrebbe chiamato l’analista successivamente. Un sogno
giunto a distanza di tre settimane da quell’incontro traumatico gli dava
ora la forza di tornare in seduta. – Il soggetto è a casa dell’analista per
una festa. Pur essendoci persone della scuola tra gli invitati, si rende
conto che è solo. Vede dei tappeti preziosi che, con sua sorpresa, sono
appesi anche alle pareti e al soffitto. Sorpreso dal vedere che l’analista
sta allontanandosi lasciando vuota la sua casa, il soggetto gli va incontro ricevendo da lui un dono, si tratta di un oggetto, una specie di
mappa elettronica utile per orientarsi. Preso questo oggetto tra le mani
il soggetto dice di non avere tuttavia il programma per poterlo leggere.
L’analista è però già uscito e lui è lì, ora senza angoscia, in quella casa,
la casa dell’analista, vuota. – Nelle associazioni il programma risultava
il programma paterno non fosse che per le competenze del padre in
informatica. L’analista lo congedò così: “Ora può servirsi del padre pur
facendone a meno”.
liberare la voce assente
Pur provando un sentimento di certezza a lui tendenzialmente estraneo
legato al fatto che una conclusione era precipitata, il soggetto dovette
correre a fare la passe per formalizzare qualcosa circa quell’uscita e renderla atto. Il peluche vivo richiamava un bambolotto di scimmia che la
madre, in ospedale, aveva regalato al figlio di 4 anni in occasione della
nascita del fratellino. L’equivalenza simbolica bambino nato – bambino
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abbandonato – bambino malato – oggetto anale, nella loro connessione
con lo sguardo erano lì a tappare il buco nell’Altro e a dare una consistenza identificatoria al soggetto. Peraltro l’asse di legno scuro era l’asse
di ciliegio, legno usato dal padre per fare i mobili di famiglia. Dunque
occorreva oltrepassare l’asse paterno ideale per intravedere il carattere
di sembianza della costruzione dell’Altro e degli oggetti che ne avevano
suturato la faglia. Il ciliegio tuttavia non poteva non richiamare il frutto, la ciliegia, rimasta serrata nella bocca del nonno paterno al momento della sua morte. Le ciliegie erano anche il frutto che Ergi raccoglieva
con destrezza nel suo giardino per poi venderle e ricavarne dei soldi. La
cosa particolare era che tale frutto andava raccolto prima della festività di San Giovanni (patrono della sua città) per evitare che le ciliegie
sviluppassero al loro interno il vermicello. Peraltro Giovanni è anche il
nome del padre di Ergi. Occorreva tenersi al di qua dell’ideale paterno,
Ergere la purezza dell’uomo Retto, per evitare di incontrare l’ impurità
dell’uomo retto. Il detto materno “Tu sei come il nonno!” lasciava ora
intravedere al soggetto, per un istante, l’identificazione all’immagine
mortifera del nonno morto con la ciliegia in bocca. Sulla via dei vermicelli, l’oggetto orale ciliegia si spostava sull’oggetto cacca andando a
tappare la bocca del soggetto e fissandolo ad un’immagine ideale mortifera. La perla si associava alla berla, nome piemontese dello sterco delle
pecore simile, per colore e forma arrotondata, alle pastiglie di liquirizia
preferite dal padre. Sputare con forza quel resto che era stato nel suo
fantasma, gli consentiva ora, a sua insaputa, di liberare la voce assente.
parte quinta
new l ac anian school , gine vr a 2010
189
il timone e il femminile *1
di Gil Caroz **
Le diverse modalità con cui si può assumere la responsabilità di governare, di stare
al timone, dipendono dal rapporto di un soggetto con l’ inconscio. Dal lato uomo
significa procedere con la barra rigidamente puntata sulla rotta predefinita, come il
sultano Shariar che rinsavisce solo grazie ai racconti incompiuti di Sherazade. Dal
lato donna, c’ è il rischio di andare del tutto fuori rotta, come nel racconto biblico
della regina Ester. È possibile una dialettica tra le due logiche? Ma oggi non è più
un problema di governance, la politica sta cedendo il posto alla gestione delle cifre
che “si basa sulla forclusione dell’ inconscio” e non ammette differenze: c’ è la possibilità inquietante che la scienza e lo scientismo passino al timone. Per farvi fronte
Gil Caroz propone alla psicoanalisi il ruolo di “reintrodurre la logica femminile
nelle considerazioni scientifiche”, più adatta a fronteggiare, caso per caso, le nuove
esigenze del reale, ad adattare la rotta alle imprevedibili sorprese della “ fortuna”.
Parole chiave: logica maschile e femminile, inconscio, scienza
Propongo di pensare il modo che può avere un soggetto di stare al
timone a partire dal suo rapporto con il discorso del padrone, vale a
dire con l’inconscio. Questo ci porta a distinguere due logiche, una
maschile e una femminile. Dal lato dell’uomo, a cui piace reggere la
barra – si tratta di una specie particolare – ci si aspetta che lo faccia a
* Relazione introduttiva al Convegno della NLS, Ginevra 2010.
** Gil Caroz è psicoanalista e esercita la sua attività a Bruxelles. È Presidente dell’EuroFederazione di Psicoanalisi, Membro dell’École de la Cause Freudienne e della New Lacanian School,
Membro onorario della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi. È Docente della Sezione Clinica
dell’Istituto del Campo Freudiano a Bruxelles.
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partire dal suo aggancio all’ e al fallo. Egli ci crede, si crede lì e applica al suo modo di stare al timone il metro della regola fallica: una sola
legge per tutti, salvo eccezioni.
In un mondo in cui il padre si è fatto timido, governare solo a partire
dalla logica maschile equivale a condannarsi allo scacco. Il padrone
contemporaneo non gode del rispetto che un tempo si nutriva nei confronti di colui che era pronto a mettere in gioco la propria vita. L’ che
dava un peso alla sua parola ha perso forza. Anzi, il dovere del padrone
contemporaneo converge piuttosto con quello dello schiavo. Deve sottomettersi alla volontà del popolo e ai suoi giudizi. Il godimento fallico
non incoraggia questo genere di dialettica. Il fallo, dice Lacan, è una
obiezione di coscienza al servizio da rendere all’altro 1. È autoerotico,
implica cioè l’esigenza che le cose si facciano “a modo mio e solo a
modo mio” per poter concludere il prima possibile perché bisogna che
continui a circolare.
Poiché una donna ha un legame con il fallo e con la trama significante,
il suo rapporto con l’inconscio non è estraneo all’uomo. L’uomo vi si
riconosce in quanto è una posizione che si regola su di lui. “È da dove
la vede l’uomo, e nient’altro che da lì, dice Lacan, che la cara donna
può avere un inconscio” 2. Nonostante abbia un rapporto con il fallo,
una donna non agisce in modo simmetrico all’uomo. Locatrice, più che
proprietaria, del fallo, essa non ha niente da perdere ed è dunque meno
incline all’esitazione. Gli esempi si moltiplicano da qualche decennio a
questa parte. “Più uomo di così, si diceva di Golda Meïr, non si può”.
Eppure questa sua posizione maschile lasciava trasparire altre cose: un
rapporto piuttosto blando con il sembiante fallico e una facilità a separarsene a favore dell’atto per ciò che questo ha di più autentico.
Lo si nota anche nel rapporto del femminile con la legge in quanto universale. Jacques-Alain Miller ha già sottolineato la tendenza femminile a
1. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino, 1975, p. 8.
2. Ibidem, p. 98.
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umanizzare la legge 3. Di fronte a ciò che non va, una donna preferisce
rivolgersi al giudice, soggetto supposto saper interpretare la legge per adattarla al caso particolare, piuttosto che alla legge ordinaria e senza pietà.
Se l’azione di governare si misura a partire dall’abilità ad affrontare un
reale senza legge che Machiavelli definiva “fortuna”, la logica femminile
del trattamento del godimento a partire dal caso per caso è senza dubbio
molto più appropriata del principio di una legge per tutti. Nessuna legge
prestabilita può essere applicabile a tutti gli eventi del reale.
Ma il rapporto di una donna con il significante della mancanza nell’Altro ci conduce in un altro terreno. In questa zona inaccessibile al significante, una donna non ha rapporto con l’inconscio in quanto strutturato come un linguaggio ma con il buco nel simbolico di cui l’ombelico
del sogno è un esempio parlante.
Qui non si tratta più semplicemente di una umanizzazione della legge
o di un rapporto più blando con il sembiante. In questo caso la logica
femminile è motivata da un punto senza legge, o meglio, in altre parole,
dalla legge del capriccio. I miti ci sono d’aiuto per parlare degli orrori
che questo punto può implicare. Evocherò quello della regina Ester,
moglie ebrea del re Assuero ai tempi dell’esilio da Babilonia. Ester riesce
a smascherare il complotto del ministro Haman che voleva massacrare
gli ebrei del regno. Il re cede sull’ infatti affida il suo anello regale a
Ester e allo zio Mardocheo affinché redigano, a loro piacimento, un
decreto a nome del re e lo firmino con il suo sigillo. Come conseguenza, Haman, i suoi dieci figli e qualche migliaia di nemici degli ebrei nel
regno, vengono uccisi. Dopo che tale vendetta ha avuto luogo, per Ester
i conti non sono ancora chiusi. Quando il re le rivolge un “che cosa
vuoi ancora?”, lei risponde : “Beh, riprendiamo domani”. Affascinato da
Ester, Assuero non ha nulla da obiettare alla sua richiesta. Egli cede sul
limite fallico aprendo così la strada ad una vendetta senza limite. Questa in ogni caso è l’interpretazione del regista israeliano Amos Gitaï, in
3. J.-A., Miller, “Teoria di Torino sul soggetto della Scuola”, in Appunti, n. 78, novembre 2000.
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un film dedicato ad Ester. I saggi del talmud discutono senza fine tentando di capire se Assuero era un imbecille o un furbo 4. Comunque sia,
il racconto biblico del suo legame con Vashti, la prima moglie, mostra
chiaramente la sua difficoltà con le donne.
Oggi il silenzio del padre è diventato un fenomeno generalizzato, ma
non per cedere il mondo al principio femminile quanto piuttosto per
cederlo alla scienza e allo scientismo che l’accompagna. Da qualche
anno a questa parte, ci inquieta vedere il riassorbimento del politico
nell’amministrativo, la gestione che viene a sostituire la governance.
Questa mutazione dell’Altro, accompagnata dalla contemplazione delle
cifre, non ammette la differenza nemmeno tra uomo e donna. Essendo
negata l’assenza di significante nell’inconscio per dire la donna, ognuno
conta per Uno. Di conseguenza, se le due logiche per dirigere il timone
si regolano sul rapporto dell’uomo e di una donna con l’inconscio, la
gestione basata solo sulle cifre si sostiene sulla forclusione dell’inconscio.
Parafrasando Lacan, propongo che il ruolo della psicoanalisi oggi possa
essere quello di “reintrodurre la logica femminile nelle considerazioni scientifiche”. Questo implica una certa tolleranza al capriccio. La
psicoanalisi qui è machiavellica nell’accezione positiva del termine.
Un principe che non modifica la sua azione per adattarla alle novità e
alle sorprese che la “fortuna” gli riserva, è condannato a fallire. Tutto
sommato, per far fronte alla fortuna, è meglio essere, quando occorre,
imprevedibile quanto il reale.
Basandosi su una logica maschile un tale modo di governare sembra
capriccioso. Una visione politica fissa e stabile, sempre la stessa, non
è che un fantasma maschile. Il principio maschile insorge quando i
dirigenti politici danno prova di una qualche inconsistenza. Il maschile
cerca la buona soluzione, il buon orientamento valido una volta per
tutte. Ci crede. Il principio femminile, al contrario, è tollerante all’inconsistenza perché, rispetto al significante, è l’inconsistenza stessa.
4. Talmud di Babilonia, Trattato Meghilla.
Gil Caroz | Il timone e il femminile | 193
In questa prospettiva, nella vita politica di una comunità le “crisi” sono
il nome che si dà ai momenti in cui una politica si adatta alle nuove
esigenze del reale. Non è facile introdurre un nuovo ordine perché, dice
Machiavelli, “lo introduttore ha per nimico tutti quegli che delli ordini
vecchi fanno bene e ha tiepidi defensori tutti quelli che delli ordini
nuovi farebbero bene” 5. Per cui le crisi, molto spesso dolorose, sono
altrettanto spesso fruttuose.
Reintrodurre la logica femminile nel mondo contemporaneo significa far
sì che il padrone, senza abbandonare l’, si lasci interpellare dal principio femminile e soprattutto da ciò che questo tenta di far esistere per
mezzo della parola. Possiamo fare riferimento a un altro mito che ci sia
da guida su questo punto. Restiamo in Persia, il paese della regina Ester,
per ricordare la storia che fa da cornice ai racconti delle Mille e una notte.
Il sultano Shahriar, cornuto, decide di vendicarsi uccidendo ogni mattina
la donna che ha sposato il giorno prima. Sherazade riesce a mettere fine
a questa procedura omicida raccontando ogni sera una storia incompiuta
che apre sul vuoto del significante mancante. Questa  che lei lascia in
sospeso, alimenta il desiderio del sultano e la mette al riparo dall’esecuzione. Shahriar finisce con l’abbandonare il suo progetto. Paradossalmente, la sua apertura verso l’illimitato della parola al di là del fallo, fa da
limite all’accumulo fallico di una vendetta ripetitiva e mortifera.
È possibile una dialettica tra le due logiche, maschile e femminile? Si
può cogliere qualcosa di questo al di là del fallo a partire da una logica
maschile? Ancorato al suo godimento autistico, l’uomo può stare solo
sul bordo dei limiti fallici, tendere l’orecchio e cercare di ascoltare quello che succede dall’altra parte, nella zona del pastout che per lui rimane
ermetica. Non è facile per un uomo essere tollerante verso quanto ascolterà dietro a questa porta. L’inconsistenza che vi si ascolta può facilmente essere vissuta come una debolezza del super-io o dell’ideale, come un
5. N. Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino, 1995, cap. VI.18, p. 35. (Colui che l’ introduce
ha come nemici tutti coloro che traggono vantaggio dal vecchio ordine e come tiepidi difensori tutti
coloro che potrebbero trarre vantaggio dal nuovo).
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godimento cattivo a cui quasi sempre il discorso del padrone risponde
con l’ingiuria. La formula di Freud era senza dubbio molto appropriata
quando diceva che il super-io delle donne non sarà mai tanto “impersonale” 6 quanto quello degli uomini che obbedisce a ideali universali.
Lacan non dice nulla di diverso quando elabora la sua logica del pastout.
Questo non toglie che se l’uomo a cui piace stare al timone fa un’analisi, forse un giorno avrà un lampo d’intuizione: ciò che gli è più intollerabile, più estraneo, è anche ciò che ha di più intimo. Allora saprà che
anche lui ha un piede, e a volte entrambi i piedi, nell’Altro godimento.
Che anche lui, in certi casi, può trovarsi nelle scarpe di una donna.
Allora potrà allentare un po’ la presa sulla barra, non solo per abbordare
uno a uno gli eventi della fortuna ma anche per dare un nome nuovo ai
suoi capricci. Perché la fortuna, dice Machiavelli, è donna 7.
(Traduzione di Giuliana Zani)
6. S. Freud, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi (1925), in Opere,
Bollati Boringhieri, 1989, vol. X, p. 216.
7. N. Machiavelli, Il Principe, cit., cap. XXV, p. 167.
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figlia, madre e donna
nel xxi secolo *1
di Pierre-Gilles Gueguen **2
Da un lato il discorso del femminismo oggi non ha più alcuna presa, dall’altro il
discorso moralista fa scomparire la donna a favore della Madre. La civiltà contemporanea inoltre, spingerebbe la donna a un’ identificazione isterica all’uomo. Risalta così ancor più l’originalità della psicoanalisi lacaniana che riconosce alla posizione femminile un ruolo creativo e sovversivo in contrasto con la spinta all’unisex
e la negazione delle differenze. Posizione che necessariamente deve essere declinata
una per una, facendo così del non-tutto la possibilità per ognuna di dirne qualcosa.
Parole chiave: figlia, madre, donna, spinta unisex
Se per Freud quello che vuole la donna è una questione, per Lacan è
il godimento femminile che deve essere interrogato, non tanto ciò che
una donna vuole ma ciò di cui essa gode nel supplemento al godimento
del fallo. Tuttavia, come sappiamo, la risposta giunge alle soglie del
semi-dire solo una per una, perché della sostanza godente reale non si
può dire niente direttamente, la si può solo approcciare per mezzo dei
sembianti, degli eventi di corpo e della messa in funzione dell’inconscio
autorizzata dall’analisi.
* Relazione introduttiva al Convegno della NLS, “Figlia, madre e donna nel XXI secolo”, Ginevra 2010.
** Pierre-Gilles Gueguen è psicoanalista e esercita la sua attività a Parigi e a Rennes.
È analista Membro dell’École de la Cause Freudienne, Membro della New Lacanian School,
già Presidente della New Lacanian School. È Maître de Conférences presso il Dipartimento di
Psicoanalisi dell’Università Parigi VIII.
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Tra i sembianti lacaniani c’è La Donna con la barra sul La: vuol dire
che nessuna donna può incarnare quel tutto che sarebbe La Donna.
Vuole dire anche che ognuna detiene una verità parziale su che cos’è
una donna. E allora come si fa a tenere un Congresso sul tema “Figlia,
madre e donna” senza, cosa che Lacan dà per certa quando si parla di
loro, diffamarle? Ma qui si tratta proprio di un esame caso per caso, ne
parleremo solo una per una.
Diciamo subito che i tre termini del titolo di questo Congresso sono già
tre facce della femminilità, tre facce che dividono profondamente l’essere
femminile. Freud l’aveva già ben delineato nella sua Lezione 33 sulla
femminilità facendo notare che la bambina, al contrario del bambino,
deve distaccarsi dalla madre fin dall’infanzia. Secondo Freud, questo
doloroso cambiamento d’oggetto è all’origine di molti sintomi successivi
e dell’angoscia nella bambina, più dell’angoscia di castrazione che concerne piuttosto il bambino. È certamente anche il motivo per cui Simone de
Beauvoir, a dispetto del suo femminismo, diceva che donna non si nasce.
Se dunque il XX è stato il secolo del femminismo e delle sue istanze, il
XXI è forse il secolo in cui le istanze del femminismo non suscitano più
entusiasmo, il secolo in cui, con riferimento al titolo di un’opera americana del 1991 della giornalista premio Pulitzer Susan Faludi, domina
il Backlash, l’onda reazionaria contro le conquiste del femminismo.
Un recente saggio di Elisabeth Badinter che elenca alla rinfusa tutte le
minacce alle conquiste delle femministe in particolare “post ‘68” è sulla
stessa linea.
È vero, certamente. Scommetterei però che il successo di vendite di
questo saggio è dovuto più al suo titolo che non al suo contenuto:
Madre e Donna, il conflitto.
Si tratta in effetti del conflitto che la psicoanalisi antecedente a Lacan
non è stata in grado di ridurre, Freud l’ha interpretato puntando tutto
sul diventare madre (che già in sé è una divisione) e sulla sparizione della
donna desiderante. I filosofi, i sociologi e i saggisti del XXI secolo sanno
interpretarlo solo in termini di lotta di potere neo-hegeliana tra i sessi.
Pierre-Gilles Gueguen | Figlia, madre e donna nel XXI secolo | 197
Questo mette ancor più in risalto l’originalità della lettura che ne fa
la psicoanalisi, quella insegnata da Lacan. La via della psicoanalisi
lacaniana non conduce dal lato dell’entusiasmo del femminismo conquistatore che, come ogni entusiasmo, è soggetto al disincanto e ancor
meno dal lato del moralismo che cerca sempre di ricondurre la donna
alla madre (combattendo contro l’IVG, ad esempio – l’incredibile
movimento “pro life” negli USA – o contro le tecniche di procreazione
assistita in nome della legge divina o di quella della natura, che è la
stessa cosa). Ai due termini di questo conflitto se ne aggiunge un terzo,
l’amore della bambina per il padre che Freud aveva chiamato timore
dell’abbandono e che Lacan ricondurrà a una forma di solitudine che è
il partner di ogni donna. Solitudine sulla quale l’amore getta un ponte
significante che comporta delle soddisfazioni ma anche delle insidie
perché l’amore è una forma di godimento che non può dirsi, non più di
quello del corpo. Lacan lo riconduce all’anima (la cui etimologia designa un soffio di vento).
La posizione femminile però, per il rapporto privilegiato che le donne
hanno con il sembiante, non ha niente a che fare con un presunto
“eterno femminino”. È ben ancorata al suo tempo e ai costumi. Così
le parole conclusive di Lacan in “Appunti direttivi per un Congresso
sulla sessualità femminile” valorizzano il ruolo civilizzatore dell’eros
dell’omosessualità femminile, incarnato ad un certo momento dal
movimento delle Preziose, in opposizione all’entropia sociale del
comunitarismo verso cui tenderebbe l’omosessualità maschile. Detto
altrimenti, le donne per il fatto che non si lasciano rinchiudere in un
insieme chiuso e per il loro rapporto più incredulo rispetto al sapere stabilito, sarebbero portatrici di creazione e sovversione: tutto il contrario
dell’idea che le donne sarebbero poco dotate per la creazione artistica,
ad esempio. Senza dubbio è da ricondurre al fatto che una donna preferisce ciò che Lacan chiama il “narcisismo del desiderio” in opposizione
al narcisismo dell’ego.
Egli indica anche che “l’istanza sociale della donna sarebbe trascendente
198 | attualità lacaniana
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all’ordine del contratto che il lavoro fa propagare”. Infatti il lavoro presuppone la prevedibilità la quale implica il contratto, il consenso delle
volontà, il modello della norma, non tollera l’eccezione. Presuppone un
altro identico a sé stesso, perlomeno nell’espressione della sua volontà che
crede irremovibile. Una donna, per il fatto di essere più vicina all’Altro
che non esiste, è anche più realista, più pronta ad affrontare il non conosciuto al quale il contratto tenta di fare barriera. La si dice incostante, la
si diffama: è invece al corrente dell’inconsistenza dell’Altro.
Però questo realismo non mette le donne al riparo dalle sorprese e il
paradosso è che il non avere niente da perdere le può condurre sulla
strada della perdita e su quella altrettanto inarrestabile della passione, dell’amore fino al ravage, fino all’oblio di sé. Spesso è proprio in
queste frontiere che lo psicoanalista le incontra, sui bordi più o meno
immediati degli abissi della distruzione dell’altro (la rabbia femminile)
o di sé stessa (che Lacan ha inizialmente designato come privazione). A
questo proposito Lacan ha parlato di follia femminile, un’altra parola
per designare una forma di libertà delle donne rispetto ai limiti. Egli la
distingue con precisione dalla follia clinica, presente anch’essa in soggetti femminili psicotici, ne avremo degli esempi.
In effetti le donne, se non sono psicotiche, hanno un rapporto con il
godimento fallico. Grazie a questo rapporto con il sembiante fallico il
loro godimento trova i suoi limiti.
Tuttavia la civilizzazione, con la sua spinta all’unisex in particolare tramite la legge che regola il lavoro ma anche attraverso l’egualitarismo che
questa diffonde e il rapporto speculare che instaura tra i sessi, accentua
e fissa questo rapporto con il fallo presente nelle donne, sia per identificazione isterica all’uomo, sia per l’accentuarsi del dominio della donna
madre all’interno della cellula familiare. Lacan vi fa riferimento quando
dice che il soggetto moderno non ha più tanto un rapporto con il Nomedel-Padre quanto piuttosto con un “essere nominato a…” materno.
La civiltà contemporanea spingerebbe dunque le donne all’isteria anche
se questo sintomo è sparito dal DSM. In compenso la psicoanalisi
Pierre-Gilles Gueguen | Figlia, madre e donna nel XXI secolo | 199
offre la speranza a ogni donna, una per una, di disfarsi di questo peso
e di poter dare al suo essere di donna uno spazio in cui si coniughi il
rapporto del suo godimento con il sembiante fallico grazie a un legame d’amore con un uomo e a un accesso più moderato al godimento
supplementare, pacificato dalla parola d’amore. C’è – diceva tempo fa
Jacques-Alain Miller – un modo giusto e uno sbagliato di capire quello
che Lacan ha chiamato il “non-tutto” femminile: “ci si immagina –
diceva – che il non-tutto… si definisca rispetto alla ‘logica del tutto’
che introdurrebbe il ‘questo manca’… Mentre il non-tutto vuol dire che
c’è una dimensione in cui è in gioco qualcos’altro che non la mancanza
e ciò che la tappa” 1.
Con il nostro convegno verificheremo i presupposti di questa introduzione. Auguro a tutti buon lavoro.
(Traduzione di Giuliana Zani)
1. J.-A. Miller, “La natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi, n. 13, 1993.
parte sesta
emergenze l ac aniane
203
che ci fa qui la psicoanalisi?
povertà, miseria, maniere *1
di Stefania Ferrando **2
In questo testo incrocio due linee di interrogazione: la prima si rivolge al modo in
cui la psicoanalisi, un sapere e una pratica ben più giovane della filosofia, sa collocarsi nel nostro presente in cui la parola “crisi” non smette di tornare; la seconda
guarda a che cosa può significare rapportarsi in modo creativo alla povertà, e come
fare spazio al desiderio – spazio che la psicoanalisi vuole difendere – consenta di
distinguere tra la povertà e la miseria.
Luogo di incrocio delle due piste è il concetto di “maniere”.
Parole chiave: miseria, maniere, povertà, pensiero della differenza sessuale,
niente, politica
I. Vorrei partire da una questione che, in modo un po’ sbrigativo, ha
preso la forma di un “che ci fa qui la psicanalisi?”. È una domanda che
nasce da uno stupore, che mi interroga quando penso che la psicoanalisi ha una storia così recente, quella di una pratica che, a un certo punto,
tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, è nata. Quel che colpisce
così profondamente è il contrasto fra la presa che riesce ad avere su ciò
che ci capita, la potenza teorica che mette in campo, gli orientamenti
che riesce a fornire, le parole che riesce a trovare, e questo suo venire
* Questo testo è stato originariamente pensato per uno degli incontri organizzati a Padova dai
dottori Alberto Turolla, Nicola Purgato ed Erminia Macola, che ringrazio insieme agli altri
partecipanti alle discussioni.
** Stefania Ferrando è dottoranda di filosofia all’Università di Padova e all’École des Hautes
Études en Sciences Sociales di Parigi.
attualità lacaniana n. 12/2010
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alla luce così prossimo a noi. “Ma perché prima certe cose non sono
state viste? Perché ora?”: questa è la domanda che affiora. Per qualcuno
che, come me, si dedica alla filosofia vi è, in un tale contrasto, qualcosa
di sorprendente: la filosofia non si accompagna facilmente all’idea di
una nascita, di una pratica che a un certo punto compare e che resta
segnata in sé dai modi in cui è praticata e dalle esigenze e contingenze
che l’hanno portata ad essere quello che è. E quanto più la filosofia
vive l’illusione di potersi esaurire nei propri contenuti, tanto più manca
la possibilità di interrogare il suo rapporto con la circostanza in cui è
emersa, e in cui di volta in volta viene riattivata.
Per questo, ancora di più, lo stupore nei confronti della posizione tutta
diversa della psicanalisi si ravviva. A questo stupore può essere data una
forma più strutturata disciplinarmente, quella della domanda che la
tradizione classica della sociologia francese (penso al filo che lega Durkheim, Mauss e Dumont soprattutto) porrebbe: perché una certa pratica emerge in una certa società? Quali valori e disequilibri di quest’ultima intercetta? Quali giochi consente di tenere aperti, quali, invece, di
scompigliare rinnovandoli? Cioè, quale dinamismo, quale movimento,
specifico è capace di produrre nella società in cui è nata?
Si tratta di domande che fanno un altro giro attorno alla psicoanalisi,
che non è immediatamente quello della domanda singolare che, uno
per uno, le si può rivolgere quando si intraprende un’analisi. Ma queste
diverse questioni, quelle che uno sguardo sociologico può porre, non
sembrano tuttavia estranee: se da un lato è vero che la psicanalisi “non
prende l’uomo in massa – come osserva Miller – ma uno per uno, lo
ritira dalla scena pubblica, lo sottomette a un’esperienza singolare” 1,
dall’altro lato un tale lavoro – che polemicamente e ironicamente Miller descrive nell’intervista appena citata come un immenso lavoro di
“educazione privata” – si raccorda a un “progetto” che investe i modi di
1. Jacques-Alain Miller, “Lacan et la politique”, in Cités, Psychanalyse et politique, n. 16, 2003,
p. 106, (traduzione nostra).
Stefania Ferrando | Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere | 205
vita della società (per Freud era il progetto di un Illuminismo psicoanalitico, osserva Miller), si intreccia a certi modi d’essere, a certe maniere,
che in quella società vivono e chiedono di essere tenute in vita.
In rapporto a quest’ultima osservazione, la riflessione sociologica, ci
consente di osservare anche un altro lato della questione: se qualcosa è
nato, e ha una storia, non solo, evidentemente, non è lì da sempre, ma,
anche, non ci è garantito per sempre: la sua fragilità ci interroga, perché la sua vita dipende, in qualche modo, da noi, dalle maniere e dalle
forme di vita che intesseremo e che gli offriranno, o meno, un ambiente
in cui potrà vivere. Il dibattito in corso sui destini della psicoanalisi,
in rapporto all’efficienza e alla scientificità delle psicoterapie mi pare
mostrare bene il punto in questione. Curiosamente, anche la filosofia è
sottoposta a un rischio di sé in qualche modo simile, ma, per quel che
ricordavo poco sopra, è meno pronta a capirlo, e a rischiare se stessa per
trovare nuove pratiche con cui sottrarsi al crollo di ciò che non riesce
più a stare in pari con quanto accade. E in qualche modo le prove cui
sono sottoposte entrambe, psicanalisi e filosofia, hanno a che fare con il
tema di cui tratteremo, quello della povertà.
Anzi, è proprio a partire dalla questione della povertà, che si potrà
declinare la questione della sociologia francese a proposito della psicoanalisi: quali giochi consente di tenere aperti? Che movimento innesca
nella società? Quali forme di vita, quali maniere, quali disposizioni
soggettive al contempo richiede e produce?
II. Alcuni mesi fa ho frequentato la scuola di scrittura pensante organizzata
da Luisa Muraro e Clara Jourdan presso la Libreria delle donne di Milano. Il tema della scuola era la povertà, come risorsa della scrittura. Parto
di qui perché è in quel contesto che ho cominciato a mettere a fuoco la
questione della povertà. Per accostarla, mi sembra necessario introdurre
una duplice distinzione: quella tra povertà e miseria, e quella tra povertà
materiale, o esteriore, e povertà simbolica, o interiore, o morale. Incontriamo questa seconda distinzione già all’inizio della predica di Meister
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Eckhart, “Beati pauperes spiritu quoniam ipsorum est regnum caelorum”
(Beati i poveri nello spirito perché loro è il regno dei cieli):
Ci sono due specie di povertà. C’è una povertà esteriore che è buona ed
è altamente apprezzabile nell’uomo che la esercita volontariamente per
amore di Nostro Signore Gesù Cristo, poiché egli stesso l’ha esercitata
sulla terra. Di questa povertà non voglio ora dire di più. Ma c’è un’altra
povertà, una povertà interiore, quella che ci fanno capire le parole di
Nostro Signore quando dice: “Beati sono i poveri in spirito” 2.
La predica di Eckhart è tutta un lavoro di differenziazione di questa
seconda povertà, interiore, dall’altra, esteriore, e dalle forme di povertà
che, pur apparendo interiori, di fatto ancora permangono nell’esteriorità, cioè nella scissione, nella distinzione tra Dio e le sue creature. Di
fronte ai percorsi arditi e inattesi che la predica così dischiude, dobbiamo, però, riconoscere che la prospettiva da cui noi, oggi, possiamo
accostare tale differenza è diversa: se nel testo di Eckhart si tratta di
problematizzare il riferimento ad una povertà materiale che era vista e
predicata come una virtù, per noi il tentativo di distinguerle scaturisce
dallo sforzo di avere a che fare con una povertà che da un lato, tra
angosce e paure, viene continuamente rimasticata negli articoli di giornale, nei programmi televisivi che parlano della crisi economica e delle
sue conseguenze e che, dall’altro, continua a restare in qualche modo
ritirata dal gioco, non simbolizzabile al di là di quel continuo ripetitivo
chiacchierarne (Luisa Muraro, ad esempio, ci faceva osservare che nel
nostro orizzonte marcato dall’imperativo del successo, i poveri non
posso più vestirsi da poveri, e che con fatica si dice, non in astratto, ma
nelle concretezze della vita – come uscire a mangiare una pizza o andare
al cinema – di essere poveri).
2. Maestro Eckhart, “Beati pauperes spiritu quoniam ipsorum est regnum caelorum”, in Trattati e Prediche, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1982, p. 365.
Stefania Ferrando | Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere | 207
III. È per avere a che fare con questa povertà che la distinzione tra
povertà interiore ed esteriore, e quella, che la incrocia, tra povertà e
miseria, diventa, per noi, urgente, e sensata. Per provare a chiarire in
quale direzione ci si muova facendo riferimento a una povertà interiore,
bisogna prima dire qualcosa su quella tra povertà e miseria.
A questo proposito, faccio riferimento a un testo del 2003, dell’iraniano
Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria 3. La tesi del testo è
che questo movimento, dalla povertà alla miseria, non è categorizzabile
come un passaggio da uno stato di indigenza in cui l’essenziale è comunque garantito a uno nel quale anche il necessario vitale manca – come
invece si tende a fare quando si auspica un incremento della produzione per far fronte alla mancanza del minimo vitale nei paesi africani o
dell’est asiatico. Poiché la prospettiva di un incremento produttivo non è
considerata dall’autore risolutiva nemmeno degli stati di povertà totale,
egli cerca di articolare diversamente la differenza tra miseria e povertà,
peraltro a suo dire presente nella maggior parte delle lingue 4: la povertà
diventa miseria quando non è più capace di avere un’economia sua propria, cioè di avere un suo proprio ordine e movimento con cui riesce ad
avere a che fare con ciò che manca. La povertà ha una sua economia, un
suo ordine simbolico, che dà un posto alla mancanza, a ciò di cui si è
poveri. La miseria no. Per questo è scavata dal desiderio di avere, e per
questo è imbruttente 5. Come scrive Illich, citato da Rahnema,
nella povertà tradizionale le persone potevano sempre fare affidamento sul
fatto che c’era sempre una brandina culturale su cui posarsi […] Tutto ciò
non ha più significato. I reietti di oggi non sono né barboni, né mendican3. Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria (Quand la misère chasse la pauvreté –
2003), trad .it. di C. Testi, Einaudi, Torino 2005.
4. Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 242.
5. Anche in questo caso, mentre il testo può permettersi, per la posizione e la storia di chi lo
scrive, di tenere un tale discorso anche riguardo a condizioni di povertà estreme, io, invece, qui,
lo farò solo giocare rispetto alla questione della povertà – del ritorno e dello spettro della povertà
dopo la crisi – che ci tocca qui, in Occidente, o forse qui in Europa, o in una parte di essa.
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ti, ma vittime dei bisogni loro attribuiti da certi “mezzani della povertà”.
Sono scivolati giù oltre la linea della povertà e ogni anno che passa diminuiscono le loro possibilità di risalire nuovamente sopra la linea e soddisfare i bisogni che ora loro stessi si attribuiscono 6.
Oltre la linea della povertà c’è la miseria, dove nessuna brandina culturale consente un appoggio. E allora resta solo la corsa per rimontare
la china e recuperare quel che manca. E quel che manca ci si presenta
come quel che manca perché lo si è perso, per una nostra mancanza e
responsabilità, perché non si è lavorato abbastanza, perché non si sono
sfruttate abbastanza le risorse, le capacità e le possibilità disponibili.
E così i mendicanti non hanno più posto. Foucault lo mostra in Sorvegliare e punire 7: nei piccoli ma profondi movimenti che attraversano
il XVIII secolo, il mendicante, o il vagabondo, non è più chi forma
la propria vita su una povertà e una mancanza che hanno ancora un
valore simbolico, ma diventa un pericolo per la tenuta della società, una
minaccia per la proprietà. E, in prigione, trova giustamente il disciplinamento che lo rende compatibile con la società, che incanala le sue
energie e lo mette al lavoro. È tutto un capovolgimento di prospettiva
che si gioca attorno alla figura di chi porta in giro la sua povertà. Come
osserva Miller in “Segno dell’amore” prima di intrecciare le figure del
mendicante e dell’analista, oggi “questi mendicanti sono dei disoccupati. È piuttosto difficile ritrovare l’eminente valore che il mendicante ha
avuto nella storia, prima che il lavoro diventasse un valore essenziale e
entrasse nel Super-Io” e prosegue poi chiarendo:
oggi si trattano male le bocche inutili, che si dedicano a presentificare il
buco, il buco che ha dei diritti su di voi, voi che avete, voi che siete rim6. Ivan Illich, “Bisogni”, in W. Sachs (a cura di), Il dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1998, p. 76, citato in Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 235.
7. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (Surveiller et Punir. Naissance de
la prison – 1975), trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, 1993.
Stefania Ferrando | Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere | 209
pinzati. È un invito a decompletarvi. Per uno spiacevole viraggio, sono
diventati dei fannulloni […] nella storia del nostro bell’Occidente non si
è pensato altro che a metterli al lavoro, i fannulloni, che a estrarre la loro
forza lavoro per la produzione. È quanto ha permesso di farne dei disoccupati, perché gli altri lavorino ancora di più, del resto, e per molto meno. È
l’uso del disoccupato 8.
IV. Per ritrovare il valore di questa antica figura del mendicante,
occorre riconoscere che là vi era la possibilità di riconoscere e praticare,
secondo l’indicazione di Miller, “un supplemento di niente”, un niente
che “viene in sovrappiù” 9 perché solo così, quando viene in sovrappiù,
il niente ha valore. Per questo non basta una trasformazione simbolica
frettolosa, una rivalutazione attuale dell’indigenza, un richiamo all’essenziale, alla decrescita. In questi inviti manca quel di più di niente che
ci fa davvero operare una trasformazione. Bisogna trovare un posto per
la tristezza della donna che non sa se tingersi i capelli grigi per risparmiare: certo è una strada difficile, perché dall’altro lato c’è lo spettro
di una legittimazione del consumo, eppure il richiamo all’essenzialità
non dice tutto. Manca il niente che viene in sovrappiù. In un recente
intervento al Seminario di Diotima 10, Annarosa Buttarelli proponeva
di pensare, come sfida alla riflessione economica attuale, una solidarietà tra l’essenziale, da un lato, e il lusso, il superfluo, quel che viene in
aggiunta, un quasi niente di maniere e gusto, dall’altro, come modo per
sorpassare la logora e infruttuosa coppia di opposti “utile-inutile”. C’è
dell’essenziale e c’è del lusso, e in qualche modo i due si richiamano più
di quanto la questione dell’utilità possa farci immaginare. Forse la direzione che cerco di suggerire qui non si discosta molto da quella che, con
questa indicazione, lei tracciava.
8. J.-A. Miller, “Il segno dell’amore”, in La Psicoanalisi, n. 24, 1998, pp. 29-30.
9. Cfr. ibidem, p. 29.
10. Seminario di Diotima 2010, “Il disorientamento è la nostra prova”, incontro dell’8 ottobre
con Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, “Appunti per un’economia del soprammercato”.
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n. 12/2010
E in qualche modo la povertà interiore si allaccia a questo supplemento
di niente, al surplus di niente che nel rapporto tra essenziale e lusso
appare, e che nella figura del mendicante ci è dato di intravvedere.
Ed è di qui che passa la posta in gioco del problema di saper avere a
che fare con ciò che manca, cioè di ripercorrere al contrario il cammino
che, dalla povertà, con la sua economia interna ed equilibrio, ha portato
alla miseria. E questo supplemento di niente, questa povertà capace di
riordinarsi attorno a ciò che manca, non sono guadagnabili in leggi e
codici che trasformino lo stato attuale. Non è questione di una riforma
politica, nel senso comune del termine, che trasformi le istituzioni e gli
equilibri di forze. Quel che si richiede, infatti, è una trasformazione
dei soggetti, che possa collocarsi sullo stesso piano della trasformazione
antropologica che il liberalismo ha operato (quella che, per dirlo con una
formula, ha plasmato il cosiddetto homo oeconomicus) e che ha portato
Foucault a tentare un’analisi del liberalismo non come teoria economica,
ma come modo di governo, cioè come modo in cui i soggetti vengono
costituiti, come insieme di pratiche, credenze, aspettative che orienta le
loro possibilità di azione, che li struttura nel loro modo di essere 11.
Anche Rahnema ne parla, mettendo in luce le modalità di costruzione
sociale dell’invidia e la frattura nella percezione dei bisogni; ma un
aspetto soprattutto della sua analisi è interessante mettere in luce:
l’individuo atomizzato delle società moderne punta unicamente sul valore
materiale per proteggersi dalle brutte sorprese della vita, poiché dipende
sempre più da un ambiente che l’ha privato di tutti i legami sociali di cui
godevano i sui antenati” 12. A che cosa si chiede ciò che manca? Da dove si
crede che possa arrivare la risposta a un bisogno o a quel che accade e che
11. Cfr. Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979)
(Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979 – 2004, édition établie sous la
dir. de F. Ewald e A. Fontana par M. Senellart, Seuil-Gallimard, Paris), trad. it., di M. Bertani e
V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005.
12. Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., pp. XI-XII.
Stefania Ferrando | Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere | 211
ci mostra scoperti? Non più dai rapporti sociali, non più dall’Altro. E così
tanto nella gestione dei figli o degli anziani, quanto nel rapporto al sapere: a
chi chiedo quel che non so e da quale autorità mi aspetto qualcosa per quel
che non ho? È la questione che Google fa emergere e che Hebe Tizio sottolineava così lucidamente in una conferenza a Padova di alcuni anni fa 13.
È rispetto a ciò che occorre lavorare se si cerca un’elaborazione diversa
della questione della povertà. È una nuova forma di vita che va intessuta, sono diverse maniere che vanno recuperate, inventate, praticate. È
qualcosa che non si presenta con la solidità e compattezza di una riforma politica, ma che è un quasi niente grazie a cui si ha a che fare diversamente con ciò che si è, con ciò che ci accade e con ciò che ci manca.
Rahnema osserva che chi riesce a fare questo spostamento, e per questo
non è preso nelle maglie della miseria, è chi non lascia indebolire il proprio centro di gravità, il proprio “tempio interiore”, così lo chiama, che
si alimenta dall’interno e non a partire dalle esigenze di un sistema di
cui si è parte 14. Trattando di questa risorsa del soggetto, che ci mette già
in qualche modo sulla strada della povertà di spirito, l’autore è portato
a una considerazione che, nella sua paradossalità, chiede un di più di
riflessione: in questo diverso rapporto a sé e in un certo diverso modo
di costituirsi come soggetti si può trovare il guizzo per poter fare a
meno anche del necessario 15. Ora, tutta la questione sta nel pensare quel
che consente un tale scarto, quel che permette di ritesse un altro ordine
simbolico, quel che, come un polo di gravità, attrae e orienta spostando
il soggetto da una dinamica di consumo di sé nel consumo delle cose.
V. In un modo che pare paradossale, la possibilità di scartare da un tale
consumo di sé passa per una certa libertà da sé, una libertà dall’ingom13. Conversazioni introduttive organizzate dalla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi (Segreteria di
Padova), incontro del 1 maggio 2008 con Hebe Tizio, “L’enigma dell’adolescenza”.
14. Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 238.
15. Ibidem, p. 243.
212 | attualità lacaniana
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bro dell’io. È di lì che passa la possibilità di imparare a saperci fare con
ciò che manca, di non intenderlo come un vuoto da colmare, ma come
qualcosa da mettere al lavoro. Alla scuola di scrittura pensante una parte
degli esercizi era rivolta a questo: imparare a non dire “io” nei testi che
componevamo, e questo non per guadagnare un’oggettività neutra, ma
anzi per essere sé diversamente, nella non coincidenza con sé, in cui
non si butta via niente perché niente è comparato con un’immagine che
non si è realizzata, ma tutto può essere messo all’opera per farci qualcosa, come risorsa e invenzione. Ad esempio, se nella scrittura il modello
di riferimento chiede di purificarsi dagli strascichi del dialetto, vi sono
autori, come Luigi Meneghello 16, che, di quegli strascichi, e di quel
difetto rispetto alla lingua pura, hanno fatto una risorsa espressiva, li
hanno mobilitati in un lavoro senza bloccarsi nella percezione di un’insufficienza. Si intercetta così quel di più che sta attorno a ciò che manca
e che si vede e che si libera nelle sue energie a patto di accettare che
qualcosa manchi e che non possa essere saturato, né messo in pari con
le preoccupazioni dell’Io. Questo movimento paradossale di un guadagno di sé che passa attraverso una perdita di sé ci porta alla povertà di
spirito, o povertà interiore, cui, come si è accennato, Meister Eckhart
dedica una delle sue più celebri prediche, “Beati pauperes spiritu”.
VI. Dunque, ritornando alla questione da cui sono partita, che cosa ci
fa qui – qui tra la povertà e la miseria, qui nella ricerca di un niente che
venga in aggiunta, qui rispetto alla posizione mistica che indica la possibilità di una perdita dell’io e delle sue preoccupazioni, per poter avere
a che fare con ciò che manca e guadagnare quel che si produce attorno
a una tale mancanza – che ci fa dunque qui la psicoanalisi?
In un articolo apparso su Via Dogana (n. 34/35, dicembre 2007) Erminia Macola e Adone Brandalise, suggeriscono un curioso inquadramento della psicoanalisi: la psicoanalisi come scienza della miseria in quanto
16. Ad esempio Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Rizzoli, Milano 2006.
Stefania Ferrando | Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere | 213
“scienza immateriale ma di sudici oggetti che porta in sé questa duplice
determinazione: coglie l’elemento della complessità delle nostre condizioni d’esistenza e in qualche modo lo ritrova all’interno del prodursi di
queste in ogni evento individuale” 17. Ed è proprio nell’articolazione di
questi due piani, delle condizioni d’esistenza e dell’evento individuale,
e nel suo essere scienza immateriale di un male immateriale, ma che fa
presa su dei sudici oggetti, che la pratica analitica sembra poter incrociare la questione della povertà e della miseria.
Miller, nell’articolo già citato, “Il segno d’amore”, dice, dopo aver osservato l’incapacità simbolica di valorizzazione del mendicante:
abbiamo comunque salvato una forma contemporanea del fannullone ed
è lo psicoanalista. Dobbiamo riconoscere che ascoltare senza fare niente
è comunque alla base della posizione, il risultato della posizione del fannullone 18.
In questo, riprendendo Lacan, Miller vede il punto di caratterizzazione
della posizione dello psicoanalista, che non è quella del seno, dell’avere,
ma nella posizione del santo (saint, santo, si pronuncia come sein, seno)
come mendicante, che non fa nulla perché mette al lavoro, perché tiene
aperto uno spazio per un supplemento di niente. Vi è un passaggio
curioso in questo testo, in cui Miller richiama l’imbarazzo di alcuni, e
anche suo, quando era passato dall’essere professore all’essere analista:
una delle cose che mi hanno più colpito come differenza era di tendere la
mano, di tendere la mano perché ci mettessero dei soldi. Dopo non ce ne
accorgiamo addirittura nemmeno più. Ma conservo il ricordo dell’emergenza di questa piccola conca, così, dove, finalmente, si deposita un’offerta
al mendicante, al fannullone. Vi sono, a volte, dei praticanti che, per molto
17. E. Macola e A. Brandalise, “Le difficoltà del nascere”, in Via Dogana. Rivista di pratica politica, n. 34/35, dicembre 2007, p. 7.
18. Jacques-Alain Miller, “Il segno dell’amore”, cit., p. 30.
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tempo, mantengono una sorta di senso di colpa nell’essere pagati per non
fare niente. Non è il caso mio 19.
C’è qui qualcosa di interessante, nel meccanismo che Miller richiama,
e nel modo in cui si intreccia con le comuni pratiche di scambio in cui
le prestazioni si legano a compensi, e che qui sono invece sottoposte a
una torsione, a uno spostamento che però al contempo fa leva, per funzionare, su quelle stesse pratiche che disarticola: che cosa è quel dare i
soldi alla fine della seduta, che sembra così tanto inserirsi in una logica
di scambio – denaro per prestazione –ma che invece da quella logica
non riesce ad essere preso del tutto? Sarebbe un punto interessante da
approfondire della pratica analitica e delle sue maniere.
Proseguendo nella sua riflessione sul mendicante e sul supplemento di
niente che vi appare, Miller fa un rapido, ma inteso passaggio sulle Preziose, un movimento di donne che, dalla fine del 1600 alla Rivoluzione
francese hanno animato i salotti della Francia dell’Ancien Régime, esercitando la loro influenza tanto sulla politica quanto sul gusto, la letteratura e le maniere. E a questo proposito che Miller scrive che “le donne
in Occidente sono riuscite […] a far rispettare il niente agli uomini” 20.
Hanno intessuto le maniere, maniere che consentissero di non scagliarsi
sull’oggetto del bisogno, ma che scavassero uno scarto, che richiedessero
un giro più lungo, in cui quel che si guadagnava era in fondo in questo
giro e in questo scarto, più che nell’oggetto. La riforma della lingua francese e del gusto che le Preziose promossero si inseriscono in una tale prospettiva. E in fondo con queste maniere è proprio un niente in sovrappiù
che viene ad aggiungersi, e a mettersi all’opera attorno alla mancanza:
non vi sono buone maniere – chiosa Miller – che quelle che contornano il
buco, una mancanza, un non c’è. Le buone maniere sono il sembiante che
19. Ibidem, p. 31.
20. Ibidem, (corsivo nostro).
Stefania Ferrando | Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere | 215
ci vuole attorno alla mancanza, a condizione che la si rispetti e che, a un
tratto, si rispettino i sembianti. Rispettare i sembianti è sempre rispettare
la castrazione 21.
Ora, è esattamente un lavoro sulle maniere, su questo niente che si
aggiunge in sovrappiù, cioè un lavoro sul piano sociale e non politico
(intendendo con il primo termine quell’insieme vivente di relazioni, tradizioni, costumi che fa la società e con il secondo l’insieme di istituzioni
che elaborano decisioni valide per l’intero corpo collettivo) che sembra
apparire quando si pone alla psicoanalisi la questione che ho provato a
chiarire nel primo paragrafo di questo testo: non la domanda che chiede
di prendere uno a uno, ma quella che interroga il movimento specifico
che la psicoanalisi è capace di introdurre nella società in cui nasce e vive.
Nell’intervista già citata sulla politica, Miller – in parte, occorre tenerlo
presente, spinto da una certa ironia – chiedendosi se la politica cambia
davvero così tanto il mondo come pretenderebbe, osserva che la psicanalisi opera piuttosto dal lato della società, delle sue maniere e costumi, e per questo la sua influenza sul corpo collettivo è “accordata alla
lunga, o, diciamo, alla media durata, ed è per questo – aggiunge – che
il riferimento di Freud all’Aufklärung mi sembra appropriato. La sua
influenza è come un contagio, un tranquillo dilatarsi, lo spandersi di
un profumo, uno spirito invisibile che si impossessa di tutte le viscere,
di tutti gli organi della vita spirituale” 22. Per questo la psicoanalisi non
si intreccia con la politica e con le identificazioni che questa richiede
cercando di catturare i soggetti attraverso dei “signifiants-maîtres”,
delle ideologie, degli ideali. Anzi, si attiva proprio nel disfarle, nel
rimetterle in gioco 23. Ma questo non come un’operazione a resto zero,
ma come una pratica che si rapprende nelle maniere, che, come un
profumo, si insinua nelle forme di vita, e che, al contempo, proprio per
21. Ibidem, p. 32.
22. J.-A. Miller, “Lacan et la politique”, cit., p. 108, (traduzione nostra).
23. Cfr. ibidem, p. 112.
216 | attualità lacaniana
n. 12/2010
questo, è esposta alla fragilità che le caratterizza. Maniere di avere a
che fare con il niente e di mettere all’opera quel che cresce sui contorni
di ciò che manca. Maniere per averci a che fare diversamente, e che
in qualche modo fanno circolare nella trama vivente dei rapporti altre
possibilità di soggettivazione che scartano da quelle richieste e realizzate
nelle pratiche che riducono la povertà alla miseria.
È in questo senso, mi pare, che la psicoanalisi risulta, come dice qui
Miller “sovversiva” e non rivoluzionaria 24.
Alla fine dell’intervista, però, questa distinzione tra campo politico e
campo delle maniere pare complicarsi, rimettendo in gioco la posizione
stessa della psicoanalisi e il suo modo di imprimere un dinamismo ai
rapporti in cui si trova a operare:
se mi accordate che il godimento è diventato un fattore della politica, allora
la psicoanalisi conserverà, dovrà conservare la stessa distanza sarcastica nei
riguardi della politica come nell’età delle ideologie? Non credo che potrà.
Il privato diventa pubblico. Vi è lì un grande movimento, un destino della
modernità, e la psicoanalisi vi è trascinata, per il meglio e per il peggio 25.
E, per averci a che fare, delle nuove maniere ci saranno richieste.
24. Cfr. ibidem, p. 118.
25. Ibidem, p. 122.
217
politica del reale, politica della tyche
appunti su psicoanalisi e politica
di Nicolò Fazioni *
Lacan intorno al suo ultimo insegnamento realizza un attraversamento della
politica e del pensiero filosofico-politico che intende metterne in questione la presunta coerenza. Egli, grazie agli strumenti concettuali della psicoanalisi, pone in
evidenza una serie di problemi e di domande ( in particolare intorno a desiderio,
reale e godimento) che la scienza politica e la filosofia non sanno porre o evitano.
Attraverso la topica dei quattro discorsi Lacan mette in gioco la stessa psicoanalisi
costringendola ad interrogarsi sulla sua capacità di realizzare un’etica e una politica che si confrontino con il disagio e con il reale.
Parole chiave: politica della psicoanalisi, topica dei discorsi, reale, disagio,
godimento
1. una logica seriale e “politica”: a partire da l’envers
La svolta inaugurata da Lacan nel suo insegnamento a partire dal Seminario XVII 1 introduce un radicale attraversamento psicoanalitico del
campo politico. Il discorso di Lacan, così come si configura durante
le lezioni de L’envers, si situa nel contesto di una diffusa crisi dei concetti e delle figure tradizionali della politica: la politica viene sempre
più rimossa, data la sua appartenenza alla dimensione di un reale non
immediatamente simbolizzabile; essa incontra nel contemporaneo
* Nicolò Fazioni è Dottorando in Filosofia all’Università di Padova.
1. J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, Einaudi, Torino 2001.
attualità lacaniana n. 12/2010
218 | attualità lacaniana
n. 12/2010
una sfocatura e una convergenza verso l’economia e quei saperi che ne
promuovono una progressiva smorzatura. La burocrazia, presentandosi come innocua gestione ed espansione della sicurezza e della nostra
libertà, connota, o più grossolanamente denota, il quarto di giro in cui
la politica viene coperta dai suoi sembianti in una forma di costruzionismo della realtà socio-politica nella quale il sistema rappresentativo
ci permette di vivere senza spenderci nella polemicità che investe ogni
relazione. Il pensiero di Lacan non interviene dunque solo sullo scenario problematico del ‘68 francese ma, grazie alla sua lucida e lungimirante analisi delle logiche del capitalismo, disegna i contorni dell’attuale
dispiegarsi della politica.
L’interrogativo a cui sembra si debba indirizzare l’analisi del campo
politico che Lacan realizza con la sua topica dei discorsi, consiste nel
chiedere quali siano le condizioni che la psicoanalisi è in grado di formulare affinché sia possibile una modalità altra di pensare la politica 2.
Sulla scorta di tale interrogativo la psicoanalisi lacaniana approfondisce
la sua concezione del soggetto e del desiderio, del potere e della verità;
termini quest’ultimi che realizzano il reticolato concettuale della scienza politica odierna.
Ora, senza poter ricostruire completamente la topica dei discorsi del
Seminario XVII 3, si dovrà render conto del modo in cui la sua formulazione tracci le linee direttive del tardo insegnamento di Lacan. Non
si tratta, però, solo di un incalzante lavorio atto a ricostruire un sistema
di pensiero quanto piuttosto di un mutamento di strategia: strategia
nell’affrontare e citare i propri riferimenti (in particolare filosofici) e nel
perimetrare lo spazio (la scena) d’indagine in cui la psicoanalisi partendo da un inusuale punto “esterno” attraversa il campo politico. Questo
2. Questo interrogativo si presenta come un’ulteriore determinazione della questione che sostiene lo scritto di A. Badiou e S. Lazarus, È pensabile la politica?, Franco Angeli, Milano 1987, al
cui fondo si dovrebbero rintracciare con precisione alcuni concetti lacaniani.
3. Per un’esposizione chiara e completa dei quattro discorsi si veda M. Recalcati, Per Lacan,
Borla, Roma 2005, pp. 80-114. Silvia Cimarelli, “Una lettura introduttiva ai quattro discorsi di
Lacan”, in Attualità Lacaniana, n. 11, 2010, pp. 147-186.
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 219
spazio, che senza esaurirvisi dovrebbe essere quello delle contestazioni
studentesche, circoscrive quindi il duplice labor limae con cui Lacan
ridispone tanto le categorie e i concetti della politica quanto quelli della
stessa psicoanalisi. Sono difatti le categorie fondamentali della psicoanalisi lacaniana ad intercettare e a porre necessariamente le problematiche
legate ad una modalità “altra” del pensare la politica. Se la psicoanalisi,
come dimostra il gesto con cui Lacan avvia il seminario diciassettesimo,
deve aprirsi verso il suo “esterno” (il campo politico), questo risponde ad
una sua esigenza costitutiva che riguarda il suo realizzarsi come etica.
Come ricordano a più riprese Di Ciaccia e Recalcati nella loro limpida
presentazione dell’insegnamento di Lacan 4, uno degli esiti più decisivi della classica posizione dell’inconscio strutturato come linguaggio
è rappresentato dall’estroflessione dell’inconscio stesso. L’etica di cui
parla Lacan, caratterizzandosi come pratica anti-filosofica del soggetto,
opta per una precisa destrutturazione di ogni fondamento. L’inconscio
non può essere, come vorrebbe Jung, la profondità dove si accalcano i
significati della nostra esistenza. L’inconscio come sistema linguistico
e la costituzione del soggetto nel discorso dell’Altro che lo precede e lo
scinde () realizzano “l’effetto superficie” tramite cui la psicoanalisi si
sbarazza delle pretese onto-teologiche del fondamento e della pienezza originaria del soggetto. L’inconscio non può configurarsi come un
nuovo fondamento, il nucleo dei significati, perché esso è “fuori” 5, esteriore ed in questo anche politico, anche sociale. Si spiega così l’apparente iperbole con la quale Lacan introduceva già nel seminario quattordicesimo uno dei capisaldi de L’Envers: “Non dico nemmeno la politica è
l’inconscio, ma semplicemente l’inconscio è la politica” 6.
La posizione di una questione politica all’interno del discorso di Lacan
4. A. Di Ciaccia e M. Recalcati, Jacques Lacan. Un insegnamento sul sapere dell’ inconscio, Mondadori, Milano 2000.
5. Si veda S. Givone, “Mantenersi all’esterno”, in La Psicoanalisi, 11, 1992.
6. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIV, La logique du fantasme, 1966-1967, (inedito). Visto che il
seminario è inedito si cita dalla trad. it. di J. -A. Miller, “Intervento al convegno La Primavera
della psicoanalisi”, in La Psicoanalisi, 33, 2003, pp. 134-148, qui p. 134.
220 | attualità lacaniana
n. 12/2010
si profila come conseguenza della mossa con cui egli riconosce nella
materialità del significante il fattore determinante per la costituzione
soggettiva. Il linguaggio, descrivendo nel duplice scorrimento delle serie
lacaniane il ruolo del significante padrone (), contiene già la matrice
politica dell’inconscio 7. Lacan torna più volte su questo tassello del
suo ragionamento, spingendoci a comprendere che “se non esistesse il
linguaggio, non esisterebbe il padrone, che il padrone non si dà mai
per forza o, semplicemente, perché comanda, e che poiché il linguaggio
esiste, voi ubbidite […]” 8.
Qui la teoria della Vorstellungsrepräsentanz (facente-funzione della
rappresentazione) si esplica nel rapporto tra il significante padrone e la
batteria dei significanti (). Si tratta di un meccanismo che inscrive il
soggetto nel sociale: il soggetto sorge dal movimento seriale per cui un
significante lo rappresenta presso un altro significante in uno scorrimento che non ne fornisce la Vorstellung (rappresentazione; non si tratta
infatti di un’immagine ma del facente-funzione della rappresentazione
di cui parla Freud 9) ma l’alienazione. Il soggetto è colto dal discorso
dell’Altro, è rappresentato presso l’Altro, cioè è estroflesso dalla propria
chiusura individuale e innestato nella dimensione sociale, culturale:
questa socialità lacaniana, se la si può chiamare così, è senza dubbio
profondamente polemologica.
La teoria “linguistica” su cui Lacan innesta il suo “ritorno a Freud”
costituisce già una logica intrinsecamente politica. Proprio per questo
l’analisi dei dispositivi discorsivi che attraversano il piano socio-politico
del moderno e del contemporaneo appare a Lacan come lo strumento
più idoneo: ci sono quattro discorsi (del padrone, dell’isterica, dell’università, dell’analista), quattro posti sempre identici (agente, Altro,
7. Sul rapporto tra potere e linguaggio e in particolare tra potere e parola in psicoanalisi si è
soffermato M. Focchi, Il cambiamento in psicoanalisi, Boringhieri, Torino 2001, cap. XIII, pp.
187-196.
8. J. Lacan, Lacan in Italia, La Salamandra, Milano 1978, p. 47.
9. Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960, Einaudi, Torino
1994, pp. 75-77.
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 221
verità, scarto), quattro termini (, , , oggetto a) che muovendosi di
un quarto di giro ruotano di posto in posto creando le condizioni del
passaggio da un discorso all’altro. Si capisce a questo punto il duplice
snodo per cui la psicoanalisi è costitutivamente diretta verso la politica e quest’ultima si trova a dover aprire un confronto con le modalità
psicoanalitiche di trattare il soggetto e il disagio, di “localizzare i modi
specifici della dipendenza degli enunciati soggettivi da determinati tipi
fondamentali di enunciazione” 10.
2. il circolo politico: psicoanalisi, filosofia, scienza politica
Per Lacan, come per Foucault 11, ciò che è in gioco nel discorso è il
potere nelle sue relazioni con i termini con cui si trova strutturalmente
connesso, come la verità, il soggetto e il desiderio. Questa precisazione
che connette l’insegnamento lacaniano ai moduli della scienza politica
moderna, innesca allo stesso tempo una precisa pratica testuale e concettuale rivolta ai classici del discorso filosofico. La filosofia, secondo
Lacan, è rea di aver offerto la spalla al padrone, rigorizzandone le pretese: la filosofia è scienza del padrone in quanto fonda il furto del sapere
su cui si regge (non senza qualche nitido richiamo a Marx) la padronanza 12. Di fronte a questa critica radicale della filosofia, la psicoanalisi
s’impegna in un lavoro anti-filosofico che non intende identificarsi con
il discorso del padrone: un lavoro che non significa in alcun modo un
abbandono della filosofia ma un continuo attraversare ed interrogare
quest’ultima per riportare alla luce la rete concettuale che essa non ha
pensato fino in fondo, come è il caso del concetto di desiderio. La stessa
10. M. Recalcati, Per Lacan, cit., p. 81.
11. Si veda M. Foucault, “L’ordine del discorso” in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 19691984, Einaudi, Torino 2001.
12. Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., pp.
17-20.
222 | attualità lacaniana
n. 12/2010
radicalizzazione del concetto freudiano di desiderio, che Lacan articola
tra il seminario settimo e il seminario undicesimo 13, è una delle vie per
riflettere sulla politica della psicoanalisi che è appunto politica del desiderio e del disagio (Unbehagen) 14.
Freud parla del desiderio e dei concetti che vi ruotano attorno (la legge,
l’identificazione, il programma della civiltà) in alcuni testi fondamentali: Totem e tabù (1913), Psicologia delle masse e analisi dell’ io (1921), Il
disagio della civiltà (1929) 15. Quello che fa Lacan, rileggendoli, consiste
nel considerarli come momenti imprescindibili dell’indagine che la
psicoanalisi può svolgere intorno al meccanismo del sociale e del politico, nonché sulle condizioni della loro pensabilità. Nel fare ciò appare
chiaro come la strategia teoretica adottata da Lacan nella sua ri-lettura
di Freud incontri e si ramifichi, per usare la terminologia di Miller, nel
susseguente “parricidio lacaniano di Hegel”. Sul piano politico tracciato dal seminario diciassettesimo non si tratta tanto di una radicale
presa di distanza da Hegel ma di un’analisi critica del “circolo politico”
teorizzato nel momento eticità dei Lineamenti 16. Secondo Lacan, Freud
può essere infatti considerato un autore davvero decisivo nella decostruzione del momento eticità, inteso come la compiuta ricomposizione
dell’incontro tra reale e razionale sul piano dell’effettualità politica.
Lacan però non sostiene mai che il circolo del razionale e del reale non
sussista (che la dialettica sia ineffettuale) ma ritiene piuttosto che il
luogo del loro combaciare sia attraversato dalla fessura dell’Unbehagen,
della singolarità del soggetto scisso, di quel nucleo di reale che non si
simbolizza così come emerge dal concetto freudiano di ripetizione 17.
13. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Torino, Einaudi 2003.
14. Si veda M. Recalcati, “Posizione del soggetto nel legame sociale. Disagio, desiderio, godimento”, in La Psicoanalisi, n. 12, 1992, pp. 77-86.
15. Rispettivamente in S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino 2005, vol. VII, pp. 1-164; Opere
IX, 2006, pp. 257-330; in Opere, 2006, vol. X, pp. 553-630.
16. G W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 2010.
17. Sulla questione della coincidenza tra reale e razionale si veda J. Lacan, “Conferenze sull’etica
della psicoanalisi” (1960), in La Psicoanalisi, n. 16, 1994.
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 223
La complessità di questa decostruzione si spiega alla luce della più
generale rilettura lacaniana della dialettica hegeliana, della valorizzazione teoretica del concetto freudiano di Verneinung (denegazione),
dell’interpolazione di quest’ultimo all’interno della stessa dialettica. Il
rapporto tra la denegazione e la Aufhebung è quello per cui il meccanismo dialettico si produce senza poter eliminare un residuo di negatività (il rimosso non viene tolto anche quando l’analizzante accetta di
tornare sulla denegazione) 18, si produce producendo (o anzi meglio,
riproducendo) questo residuo. La dialettica si trova bloccata ma non per
questo destituita di ogni sua forza teoretica: essa produce ancora il suo
lavoro, l’incontro del reale e del razionale, solo che non si tratta mai di
un risultato compiuto bensì della ripetizione di un processo non concludibile. Se il momento speculativo esiste ancora esso si trova ogni volta
decompletato dalla singolarità di ciò che non cessa di non iscriversi (dal
reale del disagio, del godimento in perdita) ed il processo dialettico è
perciò forzato a ricominciare il suo esercizio simbolico, forzato dalla
violenza di un reale che il linguaggio stesso ha creato (oggetto a) senza
poterlo più ricomprendere (pertinentizzarlo direbbero i linguisti). La
dialettica perde il suo telos, si ritrova acefala, diretta verso la sua continua riapertura ma proprio perciò costantemente presente nel ragionamento di Lacan 19.
18. L’intenso ragionamento lacaniano sulla denegazione, che qui abbiamo solo richiamato, si
sviluppa intorno all’intervento sul tema di Hyppolite nel corso del primo seminario di Lacan.
Ciò che emerge è come il rimosso non possa essere completamente tolto anche quando l’accettazione intellettuale sembrerebbe produrne una prima negazione. La ripetizione di un nucleo
rimosso non toglibile (non soggetto ad Aufhebung) rappresenta il punto di stacco tra la dialettica
hegeliana e la sua rilettura in Lacan. Su questo tema si veda S. Freud, La negazione, in Opere,
Boringhieri, Torino 2006, vol. X, pp. 193-221. L’intervento di Hyppolite si trova in J. Lacan,
Scritti, cit., pp. 885-893. Si veda anche E. Macola e A.Brandalise, “La negazione e il soggetto
dell’inconscio. A proposito del Seminario IX ”, in La Psicoanalisi, n. 26, 1999, pp. 135-144. Per
la lettura di Lacan si veda Ibidem, pp. 361-372 e 373-390. Su tali questioni anche W. Ver Eecke,
Denial, Negation and the Forces of Negative. Freud, Hegel, Lacan, Spitz and Sophocles, Suny Press,
New York 2005.
19. Si veda in particolare J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960,
cit., pp. 32-37.
224 | attualità lacaniana
n. 12/2010
Il rapporto tra Lacan ed Hegel, sul duplice versante teoretico e politico,
permette di visualizzare la specificità del neostrutturalismo di Lacan:
l’effettualità della struttura, la necessità espressa dalle leggi linguistiche
del simbolico non costituiscono in alcun modo un sistema ermeticamente chiuso, il certificato di decesso del soggetto. Lo sforzo di Lacan,
di pensare insieme la struttura e il soggetto, la fondazione della categoria modale della necessità ed il persistere della contingenza, si concretizza nella teorizzazione del meccanismo logico per cui è la stessa struttura
che producendosi produce lo spazio della contingenza e della singolarità
(lo spazio dell’oggetto a).
Il disagio rappresenta dunque il persistere della contingenza all’interno del piano di realizzazione della necessità della struttura: affrontare
questa convivenza costituisce il cuore dell’etica e della politica della
psicoanalisi. L’attenzione che la psicoanalisi rivolge alle diverse forme
del disagio si presenta come una precisa modalità politica di non cedere
sul “reale malato” 20, di costituire uno spazio di comprensione per ciò
che appare come il semplice inciampo locale di un sistema, quello capitalistico, che riesce comunque a realizzare il suo circolo 21, a far circolare
l’allucinazione di un godimento senza perdita. La pretesa di poter realizzare la chiusura del sistema politico, che Lacan sembra attribuire ad
Hegel e nello specifico al momento eticità dei Lineamenti, corrisponderebbe dunque all’illusione di poter simbolizzare tutto il reale, di poter
riassorbire tutto il negativo, di soddisfare risolutivamente l’originaria
perdita del godimento 22.
20. E. Macola, Introduzione a J. Alemàn, L’antifilosofia di Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano
2003, p. 14.
21. Si veda il brillante saggio di M. Focchi, “Gli attacchi di panico”, in E. Macola - A. Turolla,
Scenari dell’Angoscia, Borla, Roma 2008, pp. 172-195, dove tra gli altri temi si mette in risalto la
forte connessione fra panico e disgregazione della vita contemporanea, quindi fra psicoanalisi e
campo socio-politico (p. 187).
22. Ora bisognerebbe capire se il target colpito da Lacan sia il vero Hegel o, come ci pare più
probabile, l’Hegel di Kojève, della fine della storia, del compimento della dialettica: ciò non
toglierebbe nulla alla forza del discorso lacaniano ed anzi permetterebbe di comprendere come
la filosofia hegeliana mostri una spiccata affinità teoretica con quest’ultimo.
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 225
Il desiderio, che è sempre qualcosa di non immediatamente pacificabile, designa per Freud un’altra linea, una posizione dicotomica rispetto
a qualsiasi adattamento, omologazione al programma della Civiltà (il
discorso del padrone), che a sua volta spinge in ogni modo verso il suo
sacrificio (la religione e la morale potrebbero essere interpretate come
esperimenti sociali, come strumenti del programma della Civiltà). L’insistenza di Lacan sulla logica eccentrica del desiderio e di conseguenza
del disagio diviene la fondamentale dimostrazione dell’impossibilità per
qualsiasi costruzione socio-politica di effettuarsi come perfetta totalità,
o meglio di chiudere il “vuoto” non simbolizzabile ove è possibile l’accadere dell’eccezione. Sembra pertanto questo il versante politico delle
criptiche affermazioni programmatiche che sostengono ed introducono
le svolte del tardo pensiero di Lacan: una politica che prenda sul serio
“l’assenza di rapporto sessuale” 23 e la disillusa radicalità del “niente,
come dico è tutto” 24. La psicoanalisi, come chiariremo, definisce le
basi per pensare la singolarità e l’eccezione, impegnandosi a realizzare
la concreta possibilità di un loro affiorare sul piano politico. Questa
possibilità concreta è affidata ai concetti chiave dell’etica lacaniana, ed
in particolare alla radice non rappresentativa costituita dal reale, alla
finitezza e alla scissione del soggetto. Sono queste le coordinate e le condizioni entro cui la psicoanalisi ci permette di strutturare un’esperienza
politica in grado di fare i conti con la singolarità dell’evento.
Lacan nel seminario diciassettesimo scopre nell’idea di “totalità” il
punto di volta del discorso filosofico-politico:
L’idea che il sapere possa fare totalità, se mi è consentito, è immanente al
politico in quanto tale – cosa che sembra fatta a posta per mostrare quanto
23. Si veda in particolare J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi,
Torino 1983. Su tale posizione lacaniana si innesta e trae spunto l’incisiva ed autonoma analisi di J.L. Nancy, Il “c’ è” del rapporto sessuale, Sé, Milano 2002. Su questi punti si veda anche
A. Badiou e B. Cassin, Il n’y a pas de rapport sexuel. Deux leçons sur “L’Étourdit” de Lacan,
Fayard, Paris 2010.
24. J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 61.
226 | attualità lacaniana
n. 12/2010
poco conti l’incidenza delle scuole. Lo si sa da molto tempo. L’idea immaginaria di un tutto, così come è data dal corpo, in quanto si appoggia sulla
buona forma del soddisfacimento, su ciò che, al limite, diviene sferico, è
sempre stata utilizzata in politica, dal partito del predicozzo politico. Che
c’è di più bello, ma anche di meno aperto? Che c’è di più simile alla chiusura del soddisfacimento? 25
La dimensione politica del discorso del padrone non sta tanto in ciò
che è inquadrato dal suo occhio di bue (le istituzioni, lo Stato, i suoi
problemi socio-economici) quanto invece nell’indice di totalizzazione, nell’istanza di chiudere il circolo della sovranità, della legge
e della sicurezza. Tale indice combacia in modo imbarazzante con
il fondamento umanistico delle scienze, la filosofia e la psicologia
cognitiva su tutte, ovvero l’io (moi). Il discorso del padrone è, come
dice Lacan, una io-crazia 26, e cioè un’istanza e un’azione rivolte
all’omologazione, al divieto: ciò che il padrone chiede è di rinunciare
al desiderio 27. In questo modo, perpetuando il disagio della civiltà,
esso promuove l’applicazione della regola senza alcuna eccezione.
Questa funzione unificante che si trova al posto dell’agente è proprio
quella dell’io che annulla la presa di consapevolezza del disagio della
barratura della S. Il discorso di Lacan (politica della psicoanalisi) non
si configura mai come progetto freudo-marxista (psicoanalisi della
politica). Quest’ultima posizione teorico-pratica tende, infatti, a conformare la realtà al desiderio, nella convinzione che sia possibile individuare sul piano sociale i referenti del potere e che la loro eliminazione ci libererà dalla padronanza e dal disagio. Lacan insegna invece
agli studenti di Vincennes, che la sovversione come eliminazione del
25. Ibidem, p. 29.
26. Ibidem, p. 72.
27. Ci limitiamo a segnalare una risonanza filosofico-politica di questi schemi di pensiero, che
– opportunamente variati – agiscono anche nei lavori di G. Deleuze e F. Guattari. Si veda Id.,
L’Anti-Edipo, Einaudi, Torino 2002.
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 227
disagio e del referente del padrone non portano che alla creazione di
un nuovo padrone. La via lacaniana, negandosi come pratica semplicistica di annullamento del disagio, s’impegna nella rielaborazione
e nella lavorazione dei termini e dei concetti che costituiscono il
dispositivo discorsivo della padronanza: è questo il primo compito
“politico” del discorso dell’analisi.
A tal proposito può essere significativo richiamare la netta opzione
con la quale J. A. Miller bipartisce il pensiero politico contemporaneo
e frustra le illusioni democratiche di certi ambienti psicoanalitici: Kelsen vs Schmitt. 28 Miller si rivela piuttosto critico nei confronti di Kelsen, e della politica dell’uomo di sinistra, il fool (il semplice, lo sciocco
ma insieme anche il buffone) di Lacan 29, che tenta di rattoppare
l’astrazione pseudo-umanistica del “tutti uguali”. La considerazione
di Miller tocca il punto in questione quando dice che la formulazione
attribuibile a Kelsen, quella di uno Stato che amministra senza governare, è il vero sogno della democrazia, ed in quanto tale va analizzato
sul doppio piano di ciò che manifesta e di ciò che cela, dato che esso
ha già proceduto al suo spostamento e alla sua condensazione.
Il concetto di democrazia racchiude, infatti, il nocciolo politico intorno a cui gira la proliferazione degli usi della parola “democrazia” e il
nostro appellarci ad essa. Ed è proprio perché quel nocciolo concettuale
viene puntualmente mancato che noi possiamo credere che sarà la
democrazia, con i suoi strumenti (il potere costituente, la rappresentanza), a sopprimere i vincoli che costringono la nostra libertà, a rimuovere
alla fine la stessa peculiarità della politica, la sua natura conflittuale.
L’ingenuo atteggiamento di chi si appella alla democrazia per vincere la
stretta del potere rivela impietosamente come la libertà e il potere stesso non siano altro che il nucleo ossimorico, ma non per questo meno
28. Si veda J.-A. Miller, “Della natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi, nn. 11-18, 1992-1995,
qui pp. 183-191.
29. J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960, cit., pp. 230-233. Si
veda S. Žižek, “Lacan ovvero l’ontologia del godimento”, in Aut Aut, n. 315, 2003, pp. 29-41.
228 | attualità lacaniana
n. 12/2010
coeso, della scienza politica moderna (in particolare da Hobbes in poi)
e della costruzione delle forme statuali. Il potere, concetto che su tutti
rivela lo scacco della metafisica del referente e della designazione 30, è un
dispositivo, una ragnatela concettuale che motiva la presenza medesima
della democrazia, di quella democrazia che oggi vive i suoi “presagi
crepuscolari” 31.
La democrazia e con essa più in generale gli stati nazionali sono attraversati dalla parabola di quella che, senza simpatizzare troppo per
questo termine, potremmo chiamare globalizzazione, e che per quanto
riguarda l’interesse che qui vi indirizziamo, sta a significare l’esigenza
di una ridefinizione delle categorie, dei concetti e delle figure della
politica moderna. La politica moderna costruisce artificialmente l’unità
della sovranità, nell’atto paradossale della rappresentanza e della legittimazione del potere del monarca mentre la democrazia riproduce la
continuità logico-concettuale di tale meccanismo nel potere costituente 32. Il sistema rappresentativo finisce quindi per sottrarre l’individuo
e il popolo (formato non prima dell’atto costituente in cui legittima il
sovrano o i rappresentanti) di qualsiasi capacità di dissociazione rispetto
a ciò che essi stessi hanno voluto, il rappresentante del potere e di conseguenza le sue leggi. Mantiene, a tal proposito, tutta la sua pertinenza
la provocazione di Brandalise, che invita a pensare il meccanismo della
rappresentanza politica attraverso lo specchio della Vorstellungrepräsentanz: un significante rappresenta un soggetto presso un altro significante in uno scorrimento che non raffigura mai la sua presenza né tanto
meno i bisogni concreti che quest’ultima comporterebbe 33.
30. Si veda S. Chignola e G. Duso (a cura di), Sui Concetti politici e giuridici dell’Europa, Franco
Angeli, Milano 2005, pp. 65-100 e 159-193; G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come
filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 1999.
31. A. Brandalise, “Democrazia e decostituzionalizzazione”, in Filosofia Politica, n. 3, dicembre
2006, pp. 403-414, qui p. 403.
32. Si veda G. Rametta, “Le ‘difficoltà’ del potere costituente”, in Filosofia Politica, n. 3, dicembre 2006, pp. 391-401.
33. Si veda A. Brandalise, “Democrazia e decostituzionalizzazione”, cit., p. 411.
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 229
Non possiamo riassumere in modo completo queste analisi, dalle quali
dobbiamo comunque trarre un punto fondamentale: la democrazia e
le forme costituite dal dispositivo della politica moderna non possono
liberarci dal controllo e dalla norma espansa ed espandibile del potere
in quanto anch’esse affette dalle aporie del potere medesimo.
L’analisi dei discorsi di Lacan permette di approfondire il motivo dello
scacco del politico odierno, pur senza che questo ci porti a pretendere
di riconoscere una sintonia di fondo tra il suo lavoro e alcuni di quelli
appena richiamati. Dicevamo che per Miller la coppia Kelsen-Schmitt
si traduce nella faglia aperta tra la norma del “tutti uguali” e l’idea per
cui la politica accade, invece, solo laddove l’eccezione compie il movimento della sua presentazione. Questa opposizione finisce per riprodurre quella che la psicoanalisi medesima si trova a dover combattere,
nel tentativo di differenziarsi dalle ortopedie dell’io e dalle pedagogie
istituite per salvare la società: i nuclei distintivi delle quali girano attorno alla presunzione “moralistica” di poter ricostituire ortopedicamente
l’io del paziente, innestandovi un complesso di regole, ovvero l’io dello
psicoterapeuta stesso 34.
Questi spunti lacaniani ci impegnano a riconnettere la politica al godimento e al reale, che come insegna Alemán è profondamente ingiusto,
sempre fuori tempo, sempre mancante di qualsiasi reciprocità. Lacan
parlando del reale ci impone di pensare all’eccedenza di una serie concettuale di cui la giustizia è il termine fondamentale. Quest’ultima (si veda
il commento di Lacan all’Antigone) non si riduce né s’iscrive completamente nelle maglie del diritto, della formalizzazione moderna della politica e della sparizione della sua determinazione etica. La pratica analitica
ci spinge a pensare ad una giustizia che non si spiega nel diritto, all’ingiustizia dell’eccezione rispetto ai piani dell’omologazione politica, alla
sua capacità di produrre esperienze politiche di reale emancipazione. Ci
34. Per un originale approfondimento della specificità della clinica psicoanalitica si veda M.
Recalcati, “L’ideale della salute e il reale del sintomo? Sulla singolarità nella pratica della psicoanalisi”, in Aut Aut, n. 340, 2009, pp. 134-152.
230 | attualità lacaniana
n. 12/2010
si deve chiedere, quindi, cosa comporterebbe l’ideologia dell’uguaglianza
quando a partire dal diritto venga promossa ad assioma di ogni campo
della vita e del sapere? 35 O ancora a cosa porta la riduzione del governo
all’amministrazione, della giustizia alla legge e quindi alla sicurezza?
3. i sembianti del capitalismo
e il discorso dell’analista
Il quarto di giro in cui, di volta in volta, si ha lo scorrimento dei quattro discorsi, rappresenta il progressivo potenziarsi dei sembianti e degli
pseudo-eventi della democrazia. Di fronte all’apertura apparentemente
liberale del discorso dell’università – il cui secondo nome (discorso
della burocrazia) è senza dubbio più adatto ad indirizzarci al punto in
questione –, all’operazione bonaria con cui esso disinnesca la polemicità
delle relazioni politiche, assistiamo ad una diffusione interstiziale del
padrone. Con l’università il padrone s’infiltra ove prima non riusciva
a giungere, realizzando una copertura quasi complessiva del tessuto
sociale. La burocrazia e le scienze del padrone (su tutte, per il loro ruolo
attivo, la filosofia e la psicologia), seguendo un programma che alla
giustizia ha sostituito la sicurezza, danno vita ad una più sottile forma
di padronanza, ad una polizia che vigila senza portare l’uniforme, alla
produzione di individui (gli a-studati) formati per ricoprire gli spazi
istituzionali aperti e legittimati dal potere e dalla burocrazia.
Ma ciò che il padrone e l’università tentano solamente di creare, la
chiusura del circolo politico, il sogno immaginario delle economie
della Civiltà di far circolare il godimento senza perdita alcuna, non
può dirsi ancora realizzato. Solo il quinto discorso di Lacan, quello del
capitalismo, di cui si inizierà a parlare nel 1972, è in grado di superare
35. Contro l’ideologia del “tutti uguali” si muove nella sua complessa tattica “nomade” anche il
pensiero di Nietzsche (si veda per la sua chiara sinteticità F. W. Nietzsche, Ecce Homo, Adelphi,
Milano 2007).
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 231
l’ostruzione strutturale che nella topica discorsiva si configura come
sbarramento tra la produzione e la verità 36, come interruzione della
“felice” circolarità dell’intero. Solo il discorso del capitalismo invera la
circolarità assoluta della produzione dando l’impressione che ogni bisogno sia soddisfatto dagli oggetti prodotti e che ogni oggetto prodotto lo
sia per soddisfare un qualche bisogno reale.
L’oggetto a (plus-godere) rappresenta lacanianamente un modo di
contenere la perdita; perdita destinata alla sua mortifera ripetizione.
L’oggetto a costituisce anche il modo in cui Lacan eredita alcuni degli
approdi concettuali di Marx, su tutti l’idea che ciò che il padrone
ruba all’operaio sia il plus-lavoro 37. Il capitalismo espande la funzione
del plus-godere, vela la presenza della “perdita” coprendola tramite la
circolarità della produzione e da ciò sorge la presupposizione che non
ci siano limiti al godimento. L’imperativo del Super-io diventa, allora,
quello di continuare a godere, come dimostrano alcune tra le dipendenze (alcol, droghe) più note: si continua così a ripetere il gesto che provoca godimento, dichiarando inconsapevolmente che esso non basta,
che non sa far godere pienamente 38. È propriamente questa la logica
che domina la produzione della latusa, con cui Lacan ci insegna che
l’essenza della verità è la litote, è il dirsi sempre a metà, e al contempo
ci segnala la presenza costitutiva di uno sbarramento tra la produzione
(scientifica e politica) e l’accesso alla verità del suo prodotto.
Le latuse appaiono come un supplemento del godimento, ed esattamente come il supplemento necessario e sufficiente per colmare la faglia
della castrazione e superare i limiti che la struttura medesima impone
ad una logica della circolarità; ma nel mantenere “dimenticata” una
parte della verità le latuse non lasciano affiorare ciò per cui non sono
36. Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 131.
37. Sui rapporti tra Lacan e Marx rimandiamo a J. Alemàn, L’antifilosofia di Jacques Lacan, cit.,
pp. 91-104.
38. A questo proposito si veda la chiara spiegazione di M. Recalcati, “Posizione del soggetto nel
legame sociale. Disagio, desiderio, godimento”, cit., p. 86.
232 | attualità lacaniana
n. 12/2010
mai in grado di soddisfare. Si ripete, così, la sussunzione/assunzione di
nuovi gadgets, di nuovi slogan e di nuove parole d’ordine: la politica, così
come si presenta nel discorso del capitalismo, si regge sulla produzione
e la gestione di una pratica di “cattiva ripetizione” in cui ciò che si offre
è l’identico sotto la veste del differente.
Lo pseudo-Evento o la latusa che s’impone come Evento sono, allora, la
motrice del discorso capitalista e del benessere, dell’apertura democratica, che quest’ultimo, comportandosi come Grande Altro restaurato,
garantisce davanti ai nostri occhi: la latusa sembra essersi tolta il velo
per festeggiare la sua completa disponibilità e dissimulare il lato della
verità che dovrebbe restare celato. Ne segue la latitanza dei Significanti
padrone, che viene visibilmente celebrata come vessillo del progresso
politico e culturale; celebrazione che nell’atto stesso in cui supera l’otturazione tra produzione e verità coopera da una parte alla microframmentazione dell’ e dall’altra alla comparsa dei sostituti del discorso
del padrone (il discorso delle bande, il discorso razzista…). Il discorso
del capitalismo, quindi, realizza l’economia del godimento e controlla,
anestetizza, perfino blocca la politica del desiderio insegnando che non
esiste alcun disagio, che non c’è soggetto scisso ma io pieno. Lacan
mostra invece che il discorso del capitalista è una grande operazione
di chiusura di quel “posto vuoto” che dovrebbe rivelarsi come il punto
“non rappresentabile” su cui si regge tanto la fondazione del soggetto
quanto la costruzione del sociale e che Stavrakakis illustra come “the
priority of a real which is, however, unrapresentable, but, neverthelles, can
be encountered in the faiulure of every construction” 39.
L’analisi di Stavrakakis, che meriterebbe tutt’altra attenzione, ci introduce all’aspetto fondamentale del tentativo lacaniano di riformulare i
cardini e le modalità del pensare la politica. Questo punto è rappresentato dalla capacità della prassi analitica di orientarsi “verso ciò che, nel
39. Y. Stavrakakis, Lacan and Political, Routledge, London/New York 1999, p. 86. “la priorità
di un reale che, per quanto non sia rappresentabile, può ciò nonostante essere incontrato nell’insuccesso di ogni costruzione” (traduzione nostra).
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 233
cuore dell’esperienza, è il nocciolo del reale” 40. Lacan (e Žižek e Stavrakakis sulla sua scia) insegna la differenza tra il reale e la realtà, differenza che sul piano politico si esplica nella dicotomia fra realtà sociopolitica da un lato e politica dall’altro. La realtà sociale “costruita” sulle
basi di una jouissance fantasmatica, sulla postulazione di una chiusura
armonica del circolo politico ed economico, non riescono a fare i conti
con il punto non simbolico e a-rappresentativo che sta alla sua origine.
La realtà politica, in quanto è il frutto della scienza politica moderna,
procede al nascondimento della causalità della tyche che fonda la sua
presenza, di quella causalità che si può leggere come il paradosso che
frustra l’opera di simbolizzazione dei diversi linguaggi disciplinari.
Lacan indicava, infatti, la peculiarità del suo “real-ism” fin dall’elaborazione di L’etica della psicoanalisi, dove Das Ding affiora come un luogo
sempre da colmare, intorno al quale si esercitano gli sforzi dell’arte e
della poesia, così come il tentativo che la scienza politica e la scienza
più in generale, hanno prodotto nella convinzione di poterlo occupare definitivamente 41. La politica, allora, differenziandosi dalla sua
smorzatura e dalla concettualizzazione euclidea con cui è stata rivestita
dalla propria forma moderna, si riconosce come pratica del reale e della
sua impossibilità, come pratica che dovendo riconoscere il disagio e la
castrazione, non intende imporre una simbolizzazione forzata del luogo
del proprio accadere.
Una politica che eviti la causalità della tyche, dell’incontro o – per
lavorare sull’inglese (to Knock) di cui si serve Lacan – dello scontro (to
Knock against), e perciò anche dell’eccezione, è il frutto del passaggio
storico concettuale in cui la pratica politica viene progressivamente
sopravanzata dalla sua costituzione come scienza. Lo smantellamento di
un paradigma etico (nel senso classico, ma anche lacaniano del termine)
40. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, cit.,
p. 53.
41. Su questo “vuoto non rappresentabile” si veda E. Macola e A. Brandalise, Bestiario lacaniano, Milano, Mondadori 2007, pp. 7-11.
234 | attualità lacaniana
n. 12/2010
con cui far interagire il politico, conduce alla sostituzione della giustizia con la sicurezza, della plurivocità delle relazioni politiche con la
monocromaticità del “tutti uguale”. Le trame del discorso del padrone,
l’estensione di quello burocratico, la tenacia di quello capitalistico, nel
proclamare la necessità di un potere in grado di realizzare la sua totalità, di un godimento senza perdita, finiscono per essere degli schermi
che ci mantengono al riparo dalla tyche, intesa come quella causalità che
è sempre in grado di creare le condizioni per una riapertura del circolo
della realtà socio-politica e dei quadri categoriali delle discipline che la
eleggono a loro oggetto preferenziale.
Di fronte alla capacità discorsiva con cui il capitalismo sembra mostrarci
la nudità della realtà politica ed economica, la sua autentica bontà (i prodotti sono sempre diretti ai nostri bisogni, i nostri rappresentanti garantiscono le nostre esigenze presso qualcun altro che poi le rappresenterà a
sua volta, i padroni formalmente spariscono), la reazione, se di reazione
si tratta, non può essere quella del discorso dell’isterica. Qui si gioca
molta della forza (o della debolezza) delle logiche politico-partitiche alle
quali ci richiamiamo. Se le pagine del seminario settimo in cui Lacan
parla del fool e dello knave (il furfante, il briccone, la canaglia) rimangono giustamente celebri, è proprio perché raddoppiano l’amara constatazione delle parti che esauriscono il copione del teatro politico: da una
parte l’isterico, con la sua trasgressione “localizzata” o “localizzabile”
tramite cui crede di essersi ripreso parte della jouissance che l’Altro gli
avrebbe sottratto, dall’altra l’ossessivo che si spende per la proliferazione
degli slogan e delle campagne di partito, dietro alle quali riposa la ripetizione della stessa storia e della sua stessa narrazione. Solo l’intellettuale
di sinistra (il fool) e quello di destra (lo knave) abitano questo teatro.
La psicoanalisi individua nel discorso della Civiltà e in quello del
capitale un meccanismo atto a chiudere il “posto vuoto” dell’incontro
con il reale, saturare e risolvere il punto non-rappresentabile che sta al
“centro” della fondazione tanto del soggetto quanto della costruzione
sociale. In questo suo sguardo la psicoanalisi agisce come il rovescio del
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 235
discorso del padrone, come un dispositivo che riconnette la politica al
reale, costringendola a riaprire le sue categorie, forse – come direbbero
Foucault o Deleuze – a pensare oltre le categorie.
La psicoanalisi si confronta con la realtà storico-politica, così come
con i sistemi filosofici che ad essa si sono rivolti, lavorando sul riconoscimento che “c’è una causalità che opera dietro, un’articolazione,
un’assiomatica, un certo numero di principi che operano all’insaputa
del soggetto e che mettono in scena questa esperienza” 42. Si tratta del
fantasma che è “la macchina originale che il soggetto mette in scena” 43.
L’analisi rileva il ruolo di  come significante-padrone “che è ciò che
rende leggibile e sensibile, è il principio della vostra esperienza, anche di
quella più immediata.” 44
Il discorso analitico consiste nel non saturare preventivamente il posto
dell’incontro del reale, riconoscendovi l’apertura e la possibilità di un
esterno, muovendosi in rapporto al quale Lacan non ha problemi ad
asserire che il suo insegnamento era sempre “in ritardo” 45. Il ritardo del
suo discorso si connota nell’apertura inesausta dei quadri concettuali
delle discipline causata dall’incontro e dallo scontro con il reale, nel
reciproco attraversamento che una compie nell’altra, rifiutando di colonizzarla per fornirne un metadiscorso (c’è solo politica della psicoanalisi, mai psicoanalisi della politica).
La psicoanalisi è allora la pratica che affrontando la rimozione della
conflittualità agente sui bordi della riconciliazione irrealizzabile tra il
regime del possibile e ciò che da sempre lo abita, il perturbante (unheimlich) dell’impossibilità, costringe le discipline e su tutte la filosofia e
la politica a ridefinire i propri schemi concettuali, recuperando così lo
sforzo teoretico che è stato capace di sostenerne e rinnovarne la portata
42. J.-A. Miller, Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII, “Il sinthomo”, Astrolabio,
Roma 2006, p. 107.
43. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, Einaudi, Torino
2002, pp. 580-642, qui p. 633.
44. J. A. Miller, Pezzi staccati, cit., p. 104.
45. J. Lacan, Lacan in Italia, cit., p. 45.
236 | attualità lacaniana
n. 12/2010
dietro la torsione storiografica e la smorzatura della loro pratica di pensiero e di “scrittura”. Se è così, però, la politica come problematizzazione
della realtà, la filosofia e le altre discipline, lungi dall’essere smontate e
ricostruite dalla macchina analitica, sono destinate a retroagire verso
la psicoanalisi lacaniana come l’esterno a partire dal quale essa dovrà
mantenere aperte le sue categorie, affrontare il pericolo di fidarsi dei
suoi sembianti e di anticipare il proprio ritardo.
237
complessità e psicoterapia.
esplorazione e fondazione
delle condizioni di possibilità
della prassi di cura
di Giuseppe Rociola *1
Il mentale, dispositivo deputato alla relazione con il mondo e al contempo frutto di questa relazione, è un prodotto della complessità cerebrale. Il Paradigma
della Complessità permette di affermare che questo fenomeno emergente, pur
in continuità con il substrato fisiologico, è da considerarsi un dominio diverso,
che funziona secondo proprie leggi organizzative. In particolare, il sistema
nervoso dell’Homo Sapiens Sapiens, per mezzo dell’esposizione ad un ambiente
socio-linguistico in un periodo critico produce l’emergenza di una caratteristica mentale che chiamiamo psiche. Le peculiarità del linguaggio simbolico
producono alcuni fenomeni fra cui l’ inconscio, la presenza a sé, la sofferenza e,
correlativamente, la possibilità della cura attraverso la psicoterapia. A partire
da questo modello, si traggono alcune conseguenze clinico-metodologiche.
Parole chiave: psicoterapia, complessità, relazione, emergenza, soggetto,
mente, psiche, inconscio, implicito, sofferenza, riflessività, linguaggio
* Giuseppe Rociola è psicologo e psicoanalista, già membro ordinario della SIPRe (Società
Italiana di Psicoanalisi della Relazione) e dell’IFPS (International Federation of Psychoanalytic
Societies). Insegna “Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione” e “Scienze e Tecniche della
Riabilitazione Psichiatrica” presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi
di Roma Tor Vergata; è strutturato presso l’Unità Operativa di Psichiatria del Policlinico dello
stesso Ateneo. Si occupa dei temi della coscienza, della complessità e dei processi neurofisiologici
affettivo-cognitivi in soggetti psicotici.
attualità lacaniana n. 12/2010
238 | attualità lacaniana
n. 12/2010
introduzione
Ho a lungo riflettuto sull’opportunità di utilizzare il termine psicoanalisi o psicoterapia; differenza la cui articolazione comporterebbe
un lavoro a parte. Ad ogni modo, ho deciso per l’ultimo, poiché in
questa sede ci si vuole riferire alle condizioni di possibilità di ogni
talking cure 1.
Il paradigma utilizzato è quello dei fenomeni di complessità. L’etimologia suggerisce che ciò che è complesso è il risultato di un intreccio. Da questa origine, il termine è stato utilizzato in diversi modi
e discipline per indicare un approccio a fenomeni altrimenti non
pienamente descrivibili a causa della loro inestricabilità; con la promessa, al contempo, di superare il riduzionismo dei paradigmi classici, ma anche un certo olismo che provoca sovente un appiattimento
misticheggiante fra diversi fenomeni del reale. Infatti, il Paradigma
della Complessità (PdC) 2 permette una chiara definizione del livello
di osservazione.
Qui per complessità si intenderà una caratteristica di sistemi composti da un “alto numero” di elementi, meglio definiti “agenti”,
che sviluppano “numerose interazioni” locali “non-lineari” 3. Le
1. S. Freud e J. Breuer, Studi sull’Isteria, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. I, pp.
437-8.
2. Convenzionalmente si può attribuire una prima formalizzazione di questo paradigma ad E.
Morin, Introduction à la pensée complexe, Seuil, Parigi 1990; trad. it., Introduzione al pensiero
complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993 ed a I. Prigogine e I. Stengers, La Nouvelle Alliance, Gallimard, Parigi 1979; trad. it. La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi,
Torino 1981. Una buona e recente panoramica si può reperire nel testo di Réda Benkirane,
La Complexité, vertice ou promesses: 18 histoire de sciences, Le Pommier, Parigi 2002; trad. it.
La teoria della complessità, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Da circa un decennio questo
paradigma è stato, diciamo così, ufficializzato come paradigma concorrente attraverso la pubblicazione di due dossier speciali degli autotri R. Gallagher, R. Appenzeller, “Beyond Reductionism”, in Science e Nature, Science, vol. 248, n. 5411, 1999; K. Ziemelis, Complex Systems,
Nature, vol. 410, n. 6825, 2001.
3. O. Nicrosini, Aspetti teorici generali: la complessità. Intervento al convegno “Scienze, supercomputing e grid computing”, Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Roma 2004,
testo disponibile al sito: http://www1.unipv.it/complexity/press/complexity_Nicrosini.pdf.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 239
risultanti rappresentazioni scientifiche sono, pertanto, modelli di
sistemi – dotati di struttura e comportamento – e correlativi problemi; ogni sistema osservato è a sua volta da considerarsi immerso in
un sistema che lo comprende e che si chiama “ambiente”. Che cos’è
ambiente, che cosa sistema e problema è frutto della scelta del livello
di osservazione 4.
Nei sistemi viventi i fenomeni di complessità sono ubiquitari, pertanto utilizzare l’epistemologia dei sistemi complessi per l’uomo ed in
psicoterapia non può dire nulla dello specifico dell’umano: resta un
contenitore vuoto… da riempire. Solo nel momento in cui avremo
compreso e modellizzato le peculiarità del mentale umano potremo
comprendere cosa accade fra i sistemi complessi in questione – due
esseri umani che interagiscono. Per giunta, poiché la psicoterapia è
una prassi che prevede un’interazione con contesto e finalità particolari, bisognerà porsi anche la domanda su questa specifica interazione. Bisognerà chiedersi cosa deve accadere perché almeno uno
dei due partecipanti vada incontro ad un cambiamento, vale a dire:
come si crea “artificialmente” una relazione non finalizzata al pour
parler, né all’adattamento ad un contesto predefinito bensì alla cura?
È vero che tante esperienze, relazioni, eventi possono essere mutativi
e migliorativi per un individuo: ma cosa fare perché proprio questa
interazione, tra un terapeuta ed un paziente, non sia un rapporto di
ripetizione come tutti o tanti altri ma che sia terapeutico?
Infine, il PdC è di tipo descrittivo, non prescrittivo: questo comporta che gli aspetti applicativi dipendano in via del tutto peculiare
dagli obiettivi e dal tipo di sistema considerato.
Vi sono tre termini cardinali – relazione, complessità, emergenza
– che ci accompagneranno lungo tutto il percorso e che pertanto
necessitano di un’esplicazione preliminare.
4. H. R. Maturana e F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del Vivente, Marsilio,
Venezia 2001.
240 | attualità lacaniana
n. 12/2010
relazione
Per relazione vogliamo intendere “connessione o corrispondenza che
intercorre, in modo essenziale o accidentale, tra due o più enti” 5. L’intercorrere descrive una caratteristica fondamentale della relazione, in quanto implica un processo di interazione e influenza reciproca. Saranno utilizzati i termini relazione ed interazione volendo sottolineare, di volta in
volta, con “interazione” l’aspetto più diacronico dello scambio relazionale, mentre con “relazione” la corrispondenza colta nella sua sincronicità.
Il biofisico Robert Rosen può dire, a buona ragione – quella di fisica e
biologia quando riflettono su se stesse – che “this is a relational universe” 6. Ma se il fatto è che tout se tient, ogni insieme di agenti si tiene in
modo diverso; l’interazione gravitazionale fra sole-terra-luna o fra due
pulsar non dice nulla delle interazioni fra le molecole all’interno del
ciclo di Krebs e nessuno di questi fenomeni aiuta a spiegare il funzionamento cerebrale: si possono, certo, reperire alcune analogie che non aiutano però a comprendere la peculiarità di quella specifica interazione.
complessità
È utile un ulteriore chiarimento che metta su due piani differenti gli
oggetti a cui possiamo riconoscere l’attributo della complessità da quelli
che definiremo complicati. La radice è comune dal sanscrito prak (poi
il greco pleko) e vuol dire di cose mischiate, congiunte; da cui in latino sono derivate due ulteriori radici: plesso, che vuol dire intrecciato,
mischiato e plico che vuol dire piegato, avvolto. Da cui deriva che un
fenomeno complicato si può s-piegare nei suoi componenti costitutivi
mantenendo, anzi aumentando, la comprensione dell’insieme; al con5. Treccani, Vocabolario della lingua italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1997.
6. R. Rosen, Essays on Life Itself, Columbia University Press 2000.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 241
trario la trama di un fenomeno complesso non si può sciogliere se non
perdendone il senso poiché quest’ultimo è effetto proprio dell’intreccio,
dell’organizzazione 7. Nei termini del PdC i sistemi complicati sono
lineari, quelli complessi non-lineari – vale a dire che in questi ultimi
l’output non è proporzionale all’input. Ad ogni modo, un sistema
complicato può essere anche molto difficile da descrivere perché può
contenere un gran numero di elementi, connessioni e parti nascoste. In
natura i sistemi complicati sono una rara eccezione; per tale ragione è
invalsa l’utile equazione fra lineare, complicato e artificiale.
il sistema complesso
Per descrivere al meglio il concetto di sistema complesso, è utile discernere la sua particolarità rispetto ai sistemi semplici, complicati e caotici.
Seguendo Nicrosini 8, possiamo considerare “sistemi semplici” – come un
pendolo – oppure “complicati” – come un cronometro meccanico ad alta
precisione – i quali evolvono in modo prevedibile. Da un altro lato osserveremo sistemi, siano essi strutturalmente complicati oppure semplici
come il pendolo doppio (fig. 1), i
quali, pur governati da una dinamica deterministica, si comportano in
modo di fatto imprevedibile: sono
i cosiddetti “sistemi caotici”. Gli
effetti non-lineari fanno sì che, in
certe situazioni, essi manifestino un
comportamento criticamente dipenFigura 1
dente dalle condizioni iniziali 9.
7. Ibidem; E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit..
8. O. Nicrosini, Aspetti teorici generali: la complessità, cit..
9. Ciò vuol dire che a partire da variazioni infinitesimali delle variabili al tempo iniziale T0, il
sistema avrà traiettorie evolutive imprevedibili e divergenti in modo anche esponenziale.
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I “sistemi complessi” non sono né facilmente prevedibili né caotici e
le leggi del loro funzionamento non sono deducibili dalle leggi valide
per gli agenti che li compongono. Un tale sistema manifesta alcune
proprietà dette “emergenti”. In questi sistemi l’analisi retrospettiva è
complicata, quella previsionale è complessa. Vi sono diverse tipologie
di organizzazione complessa ed il mentale appartiene a quei sistemi che
presentano una forte resilienza 10 ed una struttura molto organizzata in
schemi piuttosto stabili, in template di relazione.
I sistemi complessi funzionano come in-es-plicabile collettività – fondata sulla relazione fra agenti, i quali possono essere anch’essi sistemi
complessi ma la cui struttura diventa subordinata al comportamento.
Per comprendere quest’ultima affermazione, prendiamo come esempio
la formica: in quanto essere vivente è un sistema complesso ma ha un
comportamento relativamente semplice basato sostanzialmente sull’antennazione e sulla scia feromonale.
Eppure il formicaio è un sistema di straordinaria complessità, dovuta
alla numerosità (infatti, società più numerose esibiscono comportamenti più complessi) e all’aleatorietà dell’esito interazionale fra le singole formiche: due sistemi complessi, dunque, come nel caso di due
formiche, possono intrattenere fra loro una relazione non complessa.
Un ottimo esempio di situazione esattamente inversa è data da quella
figura piana delimitata da un contorno frattale che va sotto il nome di
“Insieme di Mandelbrot” (fig. 2). Il programma che lo genera consiste
di poche righe (la struttura è cioè non complessa), ciononostante esso è
stato definito come l’oggetto geometrico dal comportamento più complesso che si sia mai visto nella matematica.
10. Il termine indica sia la capacità di resistere a forze di rottura che l’attitudine a riprendere,
dopo una deformazione, l’aspetto originale.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 243
Figura 2
emergenza
Le proprietà che emergono nel sistema complesso – come nel caso del
nostro formicaio – non sono predicibili in quanto rappresentano un
nuovo livello di evoluzione. Ciò è dovuto al fatto che i comportamenti
sistemici non sono proprietà dei singoli agenti.
Una delle ragioni per cui si verifica un’emergenza è che il numero di
interazioni non-lineari tra le componenti di un sistema aumenta combinatoriamente con il numero delle componenti stesse. Alcuni esempi
di sistemi complessi sono gli ecosistemi, i grandi sistemi sociali, quelli
economici e gli organismi viventi.
Questo è l’ambito concettuale in cui ci muoveremo per affrontare la
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nostra pertinenza, che non sarà l’uomo dal punto di vista della medicina o della chimica o della sociologia. Non sarà il cervello che sicuramente è un sistema complesso bio-chimico-elettrico 11. Non sarà la
società umana, sistema complesso, frutto del comportamento statistico
– e a questo livello “cieco” – di migliaia e milioni di individui.
Noi ci occuperemo di quel fenomeno che emerge dall’interazione fra
l’embodied brain 12 ed il mondo: la mente, dispositivo degli organismi
viventi deputato alla gestione della relazione con l’ambiente e, al contempo, frutto di quella stessa interazione 13.
body-mind problem ed emergenza
In primo luogo siamo costretti ad attraversare la questione del bodymind problem, al fine di circoscrivere chiaramente il nostro livello di
osservazione e, di conseguenza, l’oggetto di cui ci andremo ad occupare. Oggi il problema del rapporto mente-cervello è posto o nei termini
di una sostanziale estraneità della mente a qualsiasi substrato oppure,
dalla stragrande maggioranza degli studiosi, come assimilazioneriduzione della mente al corpo, cioè alle forze fisico-chimiche (come
nel caso di LeDoux o Damasio 14). Assoun, già nel 1981 aveva definito
quest’ultimo indirizzo come un “riduzionismo che si oppone a qualunque forma di emergentismo che postuli ordini irriducibili” 15: se un
fenomeno è espresso da un organismo allora esso sarà comprensibile
nell’organico – in cui operano, in ultima analisi, forze fisico-chimiche.
11. G.M. Edelman e G. Tononi, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi, Torino 2000.
12. A. Damasio, Emozione e coscienza. Adelphi, Milano 2000.
13. D. J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, R. Cortina,
Milano 2001.
14. J. LeDoux, Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo, Raffaello
Cortina, Milano 2002; Damasio, Emozione e coscienza, cit..
15. P.L. Assoun, Introduzione all’epistemologia freudiana. Theoria, Roma-Napoli 1988.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 245
Vale a dire che il mentale si dovrebbe ridurre alle dinamiche cerebrali.
Il fenomeno dell’emergenza permette una soluzione alessandrina a
questo problema in quanto ammette, al contempo, continuità fra i due
ambiti e distinzione fenomenologica. Come non esiste cellula senza
molecole o molecola senza atomi – eppure ciascun dominio riconosce e
funziona secondo proprie leggi non riducibili direttamente a quelle del
substrato ma da esso prodotte secondo processi emergenziali – allo stesso modo la mente è il prodotto della complessità del cervello; quest’ultimo è un sistema, ovviamente in interazione con il mondo, di interazioni non-lineari e probabilistiche di miliardi di agenti non-intelligenti
– i neuroni quanto al comportamento di scarica nervosa. Questa mente
che emerge è a sua volta sistema: semplice come nel caso di un verme
piatto oppure molto complesso come la mente umana.
Non si tratta di dualismo, bensì della scelta di un livello di osservazione; è d’accordo Maturana, per il quale
i sistemi viventi sono entità composte, strutturalmente determinate, che
esistono in due domini fenomenici che non si intersecano. […]. [Dunque]
non è possibile giungere ad una riduzione fenomenica fra essi. Nel caso del
sistema vivente questi due domini fenomenici sono i domini della sua anatomia e fisiologia e, rispettivamente, il dominio del suo comportamento.
Tale punto di vista invalida la possibilità di ridurre la condotta alla fisiologia che la rende possibile 16.
In tal modo è possibile discernere l’ambito medico del cervello (vedi §
“L’infante, colui che non parla”), l’ambito psichico della mente, l’ambito sociologico dei grandi gruppi sociali in cui di nuovo, ma ad un livello diverso, si possono produrre leggi e fenomeni peculiari. Questo non
vuol dire che il mentale non influisca sul reale del corpo o sul livello
16. A. B. Ruiz, “Humberto Maturana contribution in complexity science and psychology”, in
Journal of Constructivist Psychology, 9: 4, oct.-nov., pp. 283-302, 1996, (traduzione nostra).
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sociale e viceversa: anzi, sappiamo che è proprio così 17 ma a causa della
continuità e non della coincidenza di dominio.
Il mentale di cui stiamo parlando fin qui è quel fenomeno generico
che possiamo osservare in molte specie viventi: è giunto il momento di
qualificare il mentale umano che, come cercheremo di dimostrare, si
distingue dalle altre menti conosciute in natura.
lo specifico dell’essere umano
Nei sistemi complessi è essenziale la comprensione dei processi caratterizzanti, perché ogni strumento che vorremo essere efficace dovrà essere
omologo, essere della stessa “specie”, parlare la stessa lingua. Come sostiene Maturana, nella sua dinamica di interazioni un sistema è influenzato
solo da quegli agenti esterni che la sua struttura ammette e che in tal
modo specifica 18. A maggior ragione ne dobbiamo tenere conto in vista
di una strumentalità modificativa, nel nostro caso detta terapeutica.
Da diverso tempo si afferma che, in qualche misura, vi sono degli
effetti terapeutici a prescindere dall’orientamento teorico-clinico di chi
somministra il trattamento. Questa democraticità del fattore terapeutico dipenderebbe, deducono, principalmente dai fattori aspecifici di
una intersoggettività che potremmo definire “buona” 19. Così, almeno,
17. Y. Kozorovitskiy et al. hanno dimostrato come l’esperienza nell’accudimento di prole
da parte di genitori più esperti di primati del genere Callithrix aumenti la sinaptogenesi e la
neurogenesi nel cucciolo; Y. Kozorovitskiy, M. Hughes, K. Lee, E. Gould, “Fatherhood affects
dendritic spines and vasopressin V1 a receptors in the primate prefrontal cortex”, in Nature Neuroscience, sep., 9 (9):1094-5, 2006. Wykes et al. hanno “fotografato” i cambiamenti nell’attività
cerebrale a seguito di interventi psicoterapici in soggetti schizofrenici, T. Wykes, M. Brammer,
J. Mellers, P. Bray, C. Reeder, C. Williams, J. Corner, Effects on the brain of a psychological treatment: cognitive remediation therapy: functional magnetic resonance imaging in schizophrenia, Br. J.
Psychiatry, aug, 181:144-52, 2002.
18. A. B. Ruiz, “Humberto Maturana contribution in complexity science and psychology”, cit..
19. M. J. Lambert e D. E. Barley, Research summary on the therapeutic relationship and psychotherapy outcome. Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 38(4), 357-361, 2001; J. L.
Krupnick, S. M. Sotsky, I. Elkin, S. Simmens, J. Moyer, J. Watkins, P. A. Pilkonis, The role of
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 247
affermano le testimonianze – certo non sempre cristalline ed in buona
fede – della comunità scientifica per il tramite di quel servo esigente
come un padrone che è la Evidence Based Medicine. In uno studio di
trent’anni fa i risultati indicarono, addirittura, che docenti “esperti in
relazione” ottenevano migliori risultati in una terapia breve rispetto a
psicoterapeuti professionisti 20.
Al di là del giudizio sulla bontà di questi studi, bisogna comunque
chiedersi se è veramente l’implementazione di una “buona” dinamica
intersoggettiva il fattore aspecifico. Noi crediamo che, in realtà, la relazione in psicoterapia costituisca il supporto funzionale in cui bisogna
riconoscere fenomeni specifici che dobbiamo dedurre dalla costituzione
peculiare della mente dell’Homo Sapiens Sapiens. D’altronde, è possibile che i nostri pazienti non abbiamo mai in vita loro incontrato delle
“buone” persone, capaci di avere “buone” relazioni?
La relazione è senza dubbio l’elemento su cui si gioca la terapia, ma
solo in quanto è la condizione perché un qualsiasi processo possa essere
messo in atto; farla assurgere a fattore terapeutico porta ad un appiattimento nella teoria e poi nella clinica. Se l’intersoggettività, chiunque
la somministri o, meglio, la amministri, ha degli effetti, dobbiamo
chiederci cos’è che viene veicolato o messo in funzione attraverso essa.
In ogni dominio ciò che abbiamo chiamato interazione è un processo informazionale 21, nella sua totalità, comprendente anche la nonrelazione che può essere comunque una relazione informativa 22. Il
paradigma della complessità permette di comprendere al meglio questa
comunicazione, questa relazionalità, che nei sistemi viventi assume un
the therapeutic alliance in psychotherapy and pharmacotherapy outcome: findings, in The National
Institute of Mental Health Treatment of Depression Collaborative Research Program, J. Consul.
Clin. Psychol. 64:532-539, 1996.
20. H. H. Strupp e S. W. Hadley, Specific vs. nonspecific factors in psychotherapy: a controlled
study of outcome, Arch.. Gen Psychiatry 36:1125-1136, 1979.
21. G. Tononi, Galileo e il fotodiodo. Cervello, complessità e coscienza, Laterza, Bari 2003; R.
Nobili, Basi fisiche della complessità biologica e genesi della coscienza, 2001. Testo disponibile al
sito: http://www.psychiatryonline.it/ital/nobili.htm.
22. R. Rosen, Essays on Life Itself, cit..
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connotato palesemente simbolico. Come afferma Morin 23, c’è “un trattamento di simboli”, e “lo specifico di ogni organizzazione vivente […]
è la sua dimensione cognitiva inseparabile dall’organizzazione”. Pattee
scrive che nei sistemi complessi in cui emerge la vita c’è bisogno di un
insieme di meccanismi di controllo e auto/etero-regolazione 24 (risuona
qui l’auto-eco di Le Moigne 25) che ad ogni livello di osservazione si
presenta come un insieme di vincoli coerenti che crea un contenuto
simbolico o un messaggio in strutture fisiche; in altre parole, un insieme di vincoli che si costituisce come struttura di linguaggio. Ancora,
rispetto all’essere umano, secondo Tronik 26 “la regolazione interattiva
e l’autoregolazione si intrecciano in un continuo scambio. Ogni comportamento è al tempo stesso comunicativo e auto-regolativo”. Ora,
dovrebbe essere chiaro come, a questo dettaglio di descrizione, pur
cogliendo un aspetto fondante del funzionamento dei sistemi, non è
possibile distinguere adeguatamente le interazioni che avvengono fra
le molecole nel ciclo di Krebs, fra due formiche, in una chiacchierata al bar fra amici o, peggio, nell’interazione paziente-terapeuta.
Bisogna fare un passo in avanti e porre la domanda in modo corretto:
qual è lo specifico processo informazionale dell’organizzazione sistemica che produce ed ha prodotto l’emergenza del mentale umano e che in
tal modo lo specifica? La nostra risposta è che se ogni dominio di complessità è fondato sull’emergenza di processi informazionali che negli
esseri viventi assumono un connotato simbolico, nell’uomo assistiamo,
stupefatti, ad una radicalizzazione: esiliato dalla coincidenza con i linguaggi dei livelli precedenti (fisici, chimici, biologici – dove per gli altri
viventi c’è solo il bisogno e non il desiderio) l’essere umano va ad abi23. E. Morin, “Computo, ergo sum”, in Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3:263-282, 2007.
24. H. H. Pattee, “The physics of symbols: bridging the epistemic cut”, in Biosystems. 60:1-3,
pp. 5-21, May 2001.
25. J. L. Le Moigne, “I tre tempi della modellizzazione dei sistemi: entropico, antropico, teleologico”, in Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3: 283-298, 2007.
26. E. Tronik, “Dyadically expanded states of consciousness and the process of therapeutic
change” in Infant Mental Health Journal, XIX, 3:290-99, 1998.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 249
tare una terra straniera dove tutto per lui è allegoria e corrispondenza
arbitraria: la terra del linguaggio simbolico delle società umane.
In questo senso, per comprendere il mentale umano dobbiamo fare un
passo ulteriore rispetto al fenomeno emergenziale della mente – vedi
la “Teoria del complesso cosciente” di Tononi 27 – e definire il mentale
umano come quel complesso cosciente linguistico. Sosteniamo che sia
proprio il linguaggio il fattore che determina l’emergenza di un dominio specifico il quale, rispetto alle altre forme mentali, va molto al di
là dei processi di regolazione automatica e procedurale, mettendo in
secondo piano (non certo escludendo) gli aspetti strutturali e funzionali
dei processi psicofisiologici sottostanti.
L’eccezionalità del linguaggio dell’essere umano, che ciascuno coglie
con l’intuito, consiste nel fatto che “pur avendo altre specie di animali
un linguaggio, si tratta sempre di forme rudimentali non paragonabili
né qualitativamente né quantitativamente al linguaggio umano” 28. E
sono proprio “quantità” e “qualità” (caratteristiche chiave nel PdC) del
linguaggio simbolico del Sapiens a produrre le condizioni di possibilità
della complessità e quindi l’ulteriore emergenza del mentale umano che
chiamiamo “psiche”.
Non siamo soli nella contemplazione di questa straordinarietà che si fa
peculiarità: Edelman (ibidem) sostiene che “la riflessività autocosciente
dell’uomo s’inscrive nell’orbita del linguaggio e sorge in concomitanza
ad esso”. Maturana afferma che “noi esseri umani siamo sistemi viventi
che esistono nel linguaggio” e chiama l’essere umano il linguaggiante 29
– espressione che ricorda il precedente parlessere di Lacan. Varela considera la sua eccentrica coscienza inseparabile “dalla vita del linguaggio,
dall’intero ciclo dell’interazione empatica socialmente mediato” 30.
27. G. Tononi, ibidem.
28. M. D. Hauser, N. Chomsky, W. T. Fitch, “The Faculty of language: What is it, who has it,
and how did it evolves”, in Science, vol. 298, no. 5598, pp. 1569-1579, 1998.
29. H. Maturana, Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina, Milano 1993.
30. F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli, Milano
1992.
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Damasio (ibidem), infine, sostiene che la coscienza estesa “raggiunge il
suo massimo livello con gli esseri umani, grazie al linguaggio” 31.
Nonostante tutto, si può non dare retta alla peculiarità che l’ordine simbolico assume per l’uomo: se si vuole considerare che egli, in fondo, non
presenta discontinuità rispetto ad altri viventi; se si riduce – bisognerà
accludere alla gamma dei riduzionismi anche quello psicoanalitico – se
si riduce l’Inconscio ad un suo aggettivo potendosene perciò liberare
con l’adozione dell’“implicito”; se si dà al linguaggio una funzione
puramente strumentale e graduale nell’evoluzione senza riconoscergli
l’effetto rivoluzionario e decisivo nella costituzione dell’essere umano.
il linguaggio
Il linguaggio dell’Homo Sapiens Sapiens è una facoltà che si costituisce
in struttura strutturante come sistema di comunicazione e di pensiero.
Secondo le tesi saussuriane e gli sviluppi della pragmatica, ha le seguenti caratteristiche:
– è fondata su di un’astrazione originaria;
– si costituisce sulla base di un’arbitrarietà;
– a partire da tale arbitrarietà, però, si fonda un convenire sociale, mai
completo e conchiuso, che scivola sul piano inclinato della storia;
– è una struttura di relazioni: il valore proprio di un elemento significante deriva dal suo confronto e dalla sua opposizione ad altri elementi;
– è azione.
Il non-verbale, termine a cui spesso si riduce l’apparato dell’implicito,
viene usualmente contrapposto al verbale. Al contrario qui si sostiene
che bisogna leggere il linguaggio come una “macroemergenza” 32, un
elemento, cioè, che ha ristrutturato l’interezza del sistema mentale, di
31. A. Damasio, Emozione e coscienza, cit..
32. E. Pessa, Emergence, Self-Organization, and Quantum Theory, in G. Minati (a cura di), First
Italian Conference on Systemics, Apogeo, Milano 1998.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 251
cui si coglie la forma solo peculiarmente nella sua forma verbale. In
realtà, un ebanista che intaglia un ciocco, in silenzio, sta parlando. Una
donna che arrossisce sta solo tradendo un segreto inconfessabile, che ne
sia consapevole o no 33. A causa della macroemergenza possiamo dire
che il linguaggio impasta gli altri registri. Tanto è immerso in questo
universo linguistico l’essere umano che anche il non-verbale si deve
inscrivere in un registro prettamente simbolico, come ha scoperto Freud
negli atti sintomatici ed in quelli mancati 34. Il non-verbale, tutt’al più,
concorre alla cifra dell’Inconscio in maniera maggiore che all’intenzionalità conscia. Non è un caso che nell’evoluzione l’uso delle parole
coincida con la capacità (non verbale) di compiere movimenti raffinati
come testimonia il livello degli utensili trovati negli strati archeologici
risalenti a circa 200.000 anni fa 35, in concomitanza con la speciazione
dell’Homo Sapiens. Questo mette bene in evidenza come il linguaggio si
situi nella dimensione dell’azione, come verbale e non verbale siano per
l’uomo affetti dal linguaggio; nell’uso, difatti, la maggior parte degli
enunciati servono a compiere delle vere e proprie azioni 36.
Possiamo perciò rispondere ad una delle domande poste prima, forse la
più importante, affermando che la “materia” caratteristica del processo
informazionale dell’essere umano è la comunicazione simbolica, non
quella che, a questo punto, dobbiamo chiamare parasimbolica – diminutio necessaria – o immaginaria degli altri sistemi viventi. Possiamo
definire il linguaggio parasimbolico come la capacità di comunicare
con alcune “parole” in un codice immaginario propriamente associativo 37. A nostro avviso non è un caso che animali con un linguaggio
– immaginario – più evoluto riescano ad esprimere abilità evolute,
nonostante substrati nervosi e linee evolutive anche molto differenti.
33. “Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori”,
S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’ inconscio, in Opere, cit..
34. S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere, cit., vol. IV.
35. G. A. Miller, Linguaggio e parola, Il Mulino, Bologna 1983.
36. J. L. Austin, Come fare cose con le parole. Trad. it. Marietti, Genova 1987.
37. E. M. Macphail, The Evolution of Consciousness, Oxford University Press, Oxford-New York.
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Per esempio animali privi di neocorteccia come le gazze ladre possono
riconoscersi allo specchio 38, sono cioè presenti a(d un abbozzo di) sé 39:
non ci dovrebbe stupire a questo punto che questi volatili passino molto
tempo in “conversazione” 40. Ancora, un insetto come l’ape mellifera,
dotata di un linguaggio molto evoluto – la famosa danza delle api, è
capace di riconoscere face-like stimuli (stilizzazioni di volti umani) fra
altri stimoli 41. Ciò è straordinario per due motivi: per le api i volti sono
stimoli biologicamente irrilevanti; tale capacità viene sviluppata con un
minuscolo e molto semplice apparato nervoso, quando la stessa abilità
coinvolge diverse ed estese aree del cervello di mammiferi e dell’uomo
in particolare. Si tratta di prove, indirette, dell’ipotesi emergenziale del
mentale; di conseguenza del fatto che tale nuovo dominio può esprimere funzioni e proprietà non spiegabili attraverso le strutture sottostanti.
Infine, indica che l’Io è un prodotto immaginario, che ha a che fare
con la dimensione dell’intelligenza e della cognizione e che, di conseguenza, procede secondo logiche additive, addestrative.
La comunicazione immaginaria fra animali è data; vi possono certo
essere alcune “inflessioni dialettali” ma resta comunque chiusa e finita.
38. H. Prior, A. Schwarz, O. Güntürkün, Mirror-Induced Behavior in the Magpie (Pica pica):
Evidence of Self-Recognition, PLoS Biol. August, 6(8): e 202, 2008.
39. Una simile facoltà era stata documentata in alcuni primati: M. D. Hauser, J. Kralik, C. Botto-Mahan, M. Garrett, J. Oser, Self-recognition in primates: phylogeny and the salience of speciestypical features, Proc. Natl. Acad. Sci. U S A, nov. 7;92(23):10811-14, 1995. Nei delfini: D. Reiss,
L. Marino L., Mirror self-recognition in the bottlenose dolphin: a case of cognitive convergence, Proc.
Natl. Acad. Sci. U S A, May 8;98(10):5937-42, 2001. Negli elefanti: J. M. Plotnik, F.B.M de
Waal, D. Reiss, “Self-recognition in an Asian elephant”, in Proceedings of the National Academy of
Sciences, vol. 103, n. 45, 2006. Si trattava comunque di mammiferi con grossi cervelli e dotati di
neocorteccia. Ha suscitato molte questioni il fatto che ne sia capace anche un uccello, che ha una
linea evolutiva molto diversa dai mammiferi ed un cervello così “primitivo”. Potremmo ipotizzare che la capacità di riconoscere se stessi (la propria immagine) sia l’apice evolutivo del processo
informazionale immaginario. Questa psicologia comparata avvalla l’intuizione lacaniana di un
io di natura sostanzialmente immaginaria.
40. J. M. S. Ellis, T. A. Langen & E. C. Berg, “Signalling for food and sex? Begging by reproductive female white-throated magpie-jays”, in Animal Behaviour, vol:78(3), 615-623, 2009.
41. A. Avarguès-Weber, G. Portelli, J. Benard, A. Dyer, M. Giurfa, Configural processing enables discrimination and categorization of face-like stimuli in honeybees, J. Exp. Biol. Feb, 213(Pt
4):593-601, 2010.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 253
Ciò vuol dire che se anche è possibile reperire differenze fra un alveare
e l’altro o fra un pod di delfini e l’altro i significati sono pre-fissati. Tale
comunicazione si può attestare più che altro sull’emozione o l’intenzione di quel preciso momento, in uno stato confusivo, come è l’immaginario del sé e dell’altro; quella umana, simbolica, è non-finita e separata
dal significato: non è l’unità della parola che determina un significato
in maniera inequivocabile, bensì è la catena, la successione, il discorso
che genera un significato. Questa distanza dal significato 42 al contempo
permette di riferirsi anche alla non attualità, oppure alla descrizione
dello stato di un altro individuo percepito come altro da sé 43. Difatti,
è il linguaggio umano che propriamente introduce l’alterità. Una scimmia non può riferire di un avvenimento accaduto ad un’altra scimmia
e un’ape non può indicare con la sua danza dove spera di trovare cibo
domani. Un’ape costruirà sempre celle esagonali; gli architetti hanno
progettato un’innumerabile varietà e continueranno a farlo. Il linguaggio simbolico umano produce un processamento informazionale radicalmente diverso, basato su di un’astrazione fondamentale, originaria,
attraverso cui la corrispondenza con la cosa, Das Ding, è definitivamente perduta. È attraverso questa strada che si accede di diritto o, quantomeno, di potenzialità al genere umano.
Tale astrazione non può che nascere all’interno di un’interazione primaria con i caregiver, vere e proprie agenzie di linguaggio. Nell’ontogenesi il linguaggio continua a venire da fuori per ogni infante; inoltre è
“esterno”, “altro” non solo perché lo precede ma anche nel senso che esso
può essere considerato come l’espressione di un processo di progressiva
ritualizzazione del riconoscimento delle relazioni sociali 44. Il linguaggio
è relazione, è interiorizzazione di relazioni, è trascrizione di relazioni.
42. Con la conseguente proprietà ricorsiva del linguaggio umano, cioè che un enunciato possa
essere oggetto di un altro enunciato.
43. Lo aveva già notato Aristotele; vedi Id., Politica, Il Mulino, Bologna 2009.
44. I. Eibl-Eibesfeldt et al., Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento,
Bollati Boringhieri, Torino 1993.
254 | attualità lacaniana
n. 12/2010
Qualcosa di simile ci aveva già annunciato Lévi-Strauss: nell’essere
umano, il linguaggio è la simbolizzazione, la matematizzazione delle
relazioni sociali, che sono a loro volta un linguaggio 45 – affermazione
che possiamo sottoscrivere nell’ottica dei sistemi complessi.
Così, per l’uomo, la relazione è sia linguaggio esplicito che linguaggio
implicito, incorporato, sempre funzionale perché nato in quella interazione (in quel processo informazionale) e quindi organizzato in una
biografia possibile. Questa intima relazione ci permette di palesare una
delle condizioni di possibilità della prassi psicoterapica in quanto ogni
enunciato o proposizione linguistica enunciante, raffigura proprio quella relazione fra elementi mentali che, nel loro auto riferimento continuo, configurano l’individuo nella sua soggettualità. Soggettualità che,
per la natura del linguaggio, può essere oggetto di riflessività sempre
nell’istante successivo, mai nel medesimo 46 come successiva e differenziale è la parola nel linguaggio.
Un ultimo argomento. Non è questo il luogo per presentare nel dettaglio le storie degli enfant sauvage che si impongono come la prova più
trascurata della determinazione dell’ambiente linguistico umano sullo
sviluppo dell’umano stesso – non intendo, sia chiaro, che è l’ambiente da solo a decidere dello sviluppo della soggettualità, ma che senza
ambiente socio-linguistico non ci può essere soggettualità. I bambini
selvaggi non hanno empatia (quel tipo di comunicazione immaginaria
che osserviamo negli esseri umani) – nonostante i neuroni specchio
funzionanti – e non fanno domande. Hanno un occhio spento, bovino
– come riportano invariabilmente le cronache 47 – tanto che le loro condizioni, spesso irreversibili nonostante i migliori tentativi, suggerirono
a Linneo, nel suo furor ordinandi, di distinguerli dall’Homo Sapiens
Sapiens. Nessuno può oggi condividere l’impietosa burocrazia del
catalogatore; noi li includeremmo – e li includiamo visto che l’ultimo
45. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Edizioni Net, Milano 2002.
46. H. Maturana, Autocoscienza e realtà, cit..
47. A.M. Ludovico, Anima e corpo. I ragazzi selvaggi alle origini della conoscenza, Aracne, Roma.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 255
è stato trovato pochi anni fa in India – con un grande abbraccio nella
nostra comunità, come peraltro nella prassi è stato quasi sempre fatto,
al di là del giudizio scientifico, anche se fosse per la sola potenzialità
profonda di cui sono comunque portatori.
l’infante, colui che non parla
Quando negli anni ‘70 si andò ad interrogare direttamente il bambino fin dalla nascita, vi fu una vera e propria rivoluzione nell’intendere
sia lo sviluppo che il modo di stare al mondo del cucciolo d’uomo. In
sintesi, l’infante si dimostrò attivo, alla ricerca di stimoli, con un suo
corredo – invero molto limitato – di tendenze istintive, fra cui una
propensione all’abbinamento al suo caregiver – il cosiddetto “attaccamento” 48 – e ad una regolazione ecologica (dunque sia auto che etero)
per a-ccordarsi con l’ambiente attuale allo scopo di vivere 49. Questo
movimento di indagine scientifica, detto dell’Infant Research, deve a
Sander il primo modello interpretativo, attraverso i suoi studi sull’interazione nel sistema diadico madre-bambino 50. I risultati sorprendenti di queste ricerche hanno tuttavia portato ad un traboccamento
dei suoi modelli nella psicoterapia dell’adulto 51. In questa traslazione,
uno dei concetti di maggior fortuna è stato quello di implicito che, in
sostanza, fa riferimento alla memoria procedurale. Se a Freud hanno
dato colpa di aver inventato un bambino a partire dall’adulto patologico, gli stessi hanno prodotto un’invenzione ben più pindarica:
48. J. Bowlby, Attaccamento e perdita: La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino 1975, vol. II.
49. Abbinamento è da intendersi couplage (Varela, ibidem); a-ccordarsi, per via etimologica, ha il
senso di con-venire, in-tendersi attraverso o, meglio, nel couplage; per attuale si intende l’ambiente in atto, così com’è; vivere, infine, ha il senso di stare-al-mondo.
50. L. Sander, “The regulation of exchange in the infant-caretaker system and some aspect of
the context-content relationship”, in M. Lewis, L. Rosenblum (a cura di), Interaction, Conversation, and the Development of Language, Wiley.
51. B. Beebe e F. M. Lachmann, Infant Research e Trattamento degli Adulti. Un modello sistemico
diadico delle interazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.
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un adulto – patologico e normale – a partire dall’infante, da colui
che non parla. Alla sottovalutazione della discontinuità di dominio
(cerebrale-procedurale/soggettuale) si è aggiunto il misconoscimento
di quella frattura storica dovuta alla macroemergenza che si installa
a partire dall’acquisizione sociale del linguaggio. Ribadiamo che si
tratta di una discontinuità non assoluta bensì delle leggi organizzative che regolano il livello della soggettualità: per così dire, nessuno
può realmente muovere la mano, nessun soggetto può, cioè, inviare
l’impulso nervoso dai centri motori corticali, ai centri sottocorticali,
al cervelletto, ai motoneuroni del tronco dell’encefalo ed infine al
midollo spinale. Piuttosto si può prendere un oggetto, manipolarne
un altro, stringere una mano, decidere di muoverla. Allo stesso modo
Husserl ebbe a dire che non intendiamo sensazioni uditive, bensì una
canzone 52. Semplificando enormemente, se nel couplage, tendendo la
mano, non ho trovato nessuno oppure un qualcuno molesto forse la
muoverò in modo timido, impacciato oppure, al contrario, d’impulso
o ancora in modo aggressivo. In questa irriducibile incertezza delle
conseguenza di un’assenza o di una presenza molesta, la disgiunzione,
la frattura tra implicito e soggettualità risulta già evidente.
Partire dall’infante nei termini della scuola dell’implicito, porta ad una
visione dell’uomo che lambisce soltanto il dominio in cui si sviluppa la
soggettualità – pertanto non vi può far presa se non accidentalmente,
quell’accidentalità che viene denominata “fattore aspecifico” delle psicoterapie, la quale, in realtà, deriva dall’inevitabile utilizzo del linguaggio in ogni approccio. Inoltre ne risulta un che di pedagogico nella
concezione della clinica ed infatti la letteratura è pervasa da termini
quali imparare, fare esperienza, apprendere – con l’evidente proposito
di aggiungere qualcosa alle “deficienze” del paziente. Per questi lontani
colleghi, il terapeuta deve assumere “i ruoli interattivi che permettono
al paziente di trovare gli ingredienti per costruire le dimensioni di
52. E. Husserl, Ricerche logiche, Ed. Net, Milano 2005.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 257
funzionamento mentale (i MOI) che gli mancano per avere relazioni
di attaccamento soddisfacenti” 53. Questa concezione può essere di pertinenza del sistema cervello oppure, a seconda dei casi, dell’Io a cui il
procedurale – teoricamente e clinicamente – si deve riferire: a questo
livello è concepibile, perché no!, una terapia bottom-up che possa “attenuare le perdite funzionali” causate per esempio dal decorso della schizofrenia 54. Si tratta di terapie di cognitive remediation le quali, partendo
dai risultati sperimentali che evidenziano un certo deficit nella working
memory dei pazienti schizofrenici, mettono in atto una serie di sedute
addestrative che migliorano tali facoltà implicite.
Qualora fosse il procedurale a cambiare, cioè per apprendimento, sarebbe di nessun interesse ai fini della cura della soggettività. Tali apprendimenti si producono con tecniche addestrative o anche di Human
Resource and Development e di Empowerment; ora, poiché una prassi
di cura della soggettività deve avere il suo riferimento nell’etica 55 e non
certo nell’estetica, non vedremmo la ragione di continuare a tirar su la
Sagrada Familia del corpus teorico delle talking therapy, quando è sufficiente una piccola porzione per avere l’effetto salvifico dell’indulgenza.
Se, comunque, ci volessimo situare al livello dei processi impliciti,
dovremmo, anche qui, evidenziare, come fa lo stesso Rizzolatti, che “la
cosa interessante circa la scoperta dei neuroni specchio 56 è che essi sono
stati osservati in un’area cerebrale dei primati che sembra essere corrispondente all’area di Broca negli esseri umani” 57. Negli esseri umani,
53. C. Albasi, Attaccamenti traumatici. I Modelli Operativi Interni Dissociati, Utet, Torino.
54. R. A. Adcock, C. Dale, M. Fisher, S. Aldebot, A. Genevsky, G. V. Simpson, S. Nagarajan,
S. Vinogradov, When top-down meets bottom-up: auditory training enhances verbal memory in
schizophrenia, Schizophr. Bull. Nov.; 35(6):1132-41.
55. J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1994. Il termine
va qui inteso nel senso “dell’apporto specifico della rivoluzione freudiana riguardo il rapporto
dell’azione con il desiderio che la abita; desiderio che comporta la dimensione dell’Inconscio”.
56. Non a caso altro cavallo di battaglia della scuola dell’implicito.
57. E. Kohler, C. Keysers, M. A. Umiltà, L. Fogassi, V. Gallese, G. Rizzolatti (2002), Hearing sounds, understanding actions: action representation in mirror neurons in Science, Aug. 2;
297(5582):846-8.
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l’attività dei cosiddetti neuroni specchio è cioè senz’altro da collegarsi al
linguaggio 58.
Per concludere, affermiamo che è a partire dalla macroemergenza linguistica che possiamo addentrarci nella comprensione dei processi peculiari
che osserviamo nell’essere umano. È a questo livello che possiamo cominciare a parlare di soggetto Sapiens che si distingue dal soggetto Canis
per la non presenza a sé e dal soggetto Koko – merita almeno la parola
del nome la gorilla famosa per il suo utilizzo del linguaggio dei segni
che fu vista riconoscersi allo specchio – per un abbozzo di presenza a sé.
Dunque, si arriva al cuore dell’esperienza umana solo se la si legge nel
suo statuto simbolico.
il soggetto sapiens
Sappiamo che ogni sistema complesso si costituisce attraverso lo sviluppo di regolarità nell’interazione con l’ambiente. Questo processo autoeco-regolativo, il couplage di Varela, negli esseri viventi appare dotato
dello scopo di stare-al-mondo. Nell’uomo il linguaggio pesa in maniera
determinante in questa interazione e, al livello psichico, costituisce la
sua dimensione soggettuale. Questo processo che avviene per la mediazione linguistica produce l’esilio dell’uomo dalla coincidenza con se
stesso e con il mondo e, correlativamente, la possibilità di una presenza
a se stesso: “è nel linguaggio e mediante il linguaggio che l’uomo si
costituisce come soggetto” 59. A differenza delle altre specie viventi, si
può ritrovare non solo osservatore di sé ma anche narratore di ciò che
– noi lo sappiamo ma il soggetto che prendiamo in cura spesso no –
nell’ambiente in cui è venuto al mondo egli stesso ha co-costruito. Le
58. G. Buccino, F. Binkofski, G. R. Fink, L. Fadiga, L. Fogassi, V. Gallese, R. J. Seitz, K.
Zilles, G. Rizzolatti, H. J. Freund, Action observation activates premotor and parietal areas in a
somatotopic manner: an fMRI study in Eur. J. Neurosc., Jan.; 13(2):400-4.
59. E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Trad. it. Milano, Saggiatore 1994.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 259
regolarità che costituiscono il suo essere-al-mondo, però, gli risultano
intemporali, impersonali e incantatorie: eludono questa “responsabilità”
agli occhi del soggetto stesso. Tant’è che ciascuno afferma la supposta
oggettività, “cosità” della sua propria articolazione fantasmatica: il
mondo, gli altri, il sintomo sembrano dati. D’altronde, questa “resistenza” è comprensibile: infatti, cosa troverebbe il soggetto sapiens dietro il
suo aver articolato queste regolarità, questo couplage? Il vero sé di Winnicott? L’autenticità di Rogers? Sartre afferma che l’essere umano è a se
stesso insufficiente in quanto non può essere se stesso ma solo presenza
a se stesso 60. La visione del filosofo trova una ragione logica nel matematico: la dimostrazione di Gödel dell’incompletezza dell’aritmetica – e
quindi di ogni linguaggio di cui la matematica è, in un certo modo, il
compimento – colloca l’uomo nell’unico luogo possibile per un soggetto
parlante che è solo la presenza a sé 61. Al di qua e al di là di questa presenza, per l’uomo, non c’è niente 62: nel senso che vi è una realtà incommensurabile se non per quella presa parziale dell’ordine simbolico. Ciò
istituisce nell’esistenza umana una “mancanza” insita e correlativa alla
60. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991.
61. Un’altra conseguenza che vogliamo trarre dalla straordinaria opera di Gödel riguarda il
rapporto mente-cervello e va a corroborare la tesi di una diversità di dominio. La dimostrazione
è indiretta: R. Penrose, La Mente Nuova dell’Imperatore, Rizzoli Ed., Milano 2000; sostiene
che a causa della dimostrazione di incompletezza viene vanificata ogni ipotesi computazionale
della mente; e poiché parte dall’ipotesi della assoluta coincidenza fra mente e cervello ne deduce
che nel sistema nervoso vi devono essere fenomeni di tipo non meccanicistico, quali sono quelli
quantistici. In effetti, a partire dall’ipotesi della coincidenza fra mente e cervello non vedremmo
neanche noi altra via d’uscita. Recentemente, però, M. Tegmark, “The importance of quantum
decoherence in brain processes”, in E. Physical Review, Vol 61:4194-4206, 2000, ha dimostrato
che la scala di tempo di attivazione ed eccitazione di un neurone (nelle sinapsi è di 10 −1 e nei
microtubuli è di 10 −3) è enormemente più bassa di quella dei fenomeni quantistici (da 10 −13 a
10 −20). Confutata l’ipotesi quantistica, non resta che l’ipotesi della complessità linguistica che
qui tentiamo di dimostrare. Ad ogni modo, per rispetto della cautela che portò Gödel a non
trarre mai dai suoi teoremi delle conclusioni sulla filosofia della mente, bisogna ricordare che
una teoria non è nient’altro che un insieme di proposizioni sistematizzate in costruzioni razionalizzate e altamente sviluppate, che hanno un notevole grado di coerenza interna, una volta
ammessi gli assunti di base: questa è anche la definizione di delirio data da Frazier: S. H. Frazier
e A. C. Carr, Introduction to Psychopathology, Jason Aronson, New York, citato in R. Goldestein,
Incompletezza. La dimostrazione e il paradosso di Kurt Gödel, Codice ed., Torino 2006.
62. J.-A. Miller, Logiche della vita amorosa, Astrolabio, Roma 1997.
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soggettualità: non è mancanza degli altri, non è mancanza causata dagli
altri, bensì è l’insufficienza dell’ordine simbolico a ricoprire interamente il reale, è l’effetto di quel ritaglio simbolico che produce il soggetto
e di conseguenza la possibilità della presenza a sé. D’altronde se l’uomo
può, in una certa misura, essere libero è proprio a causa di questo suo
ergersi su di un piedistallo sospeso sul nulla.
Tale organizzazione ad essere nel linguaggio si costituisce nel e costituisce il paradosso fra soggettività strutturata-strutturante e incompletezza;
fra ripetizione del couplage e possibilità di un cambiamento; fra libertà
condizionata e nulla. Il cambiamento e la soggettività, che è invenzione
di una singolarità, possono darsi solo grazie al nulla su cui poggiano,
a quella libertà sartriana che può esistere solo in quanto “scelta” – tra
virgolette perché inconscia – di una strutturazione significante che
chiamiamo soggetto. All’interno di questa organizzazione singolare, possiamo definire l’inconscio come la struttura stessa del soggetto: che va
senz’altro distinto dall’io, parte immaginaria frutto e motore dei processi
identificativi – compresi pertanto quelli empatici, le specularità “infantili”, la reciprocità non-verbale e così via. È vero, come affermò Meyerhold,
che “le parole non dicono tutto” 63: il problema è che non c’è altro modo
di dirlo; e la soggettualità del Sapiens nasce dall’essere detto e con il dire.
Se ci riferiamo al non-linguistico nella sua “cosità” esso non esiste per
l’uomo; se esso esiste per l’uomo vuol dire che si presenta e si articola
nella sua propria struttura. La cosa, nel suo essere irriducibile alterità,
può essere solo lambita dal linguaggio che diventa così unico mare in cui
l’uomo naviga, ma lo stesso unico mare che può lambire le fatidiche ed
impossibili sirene, che nel mito non si possono avvicinare se non nel frangersi contro gli scogli dell’ultimo momento. Come ha affermato Heidegger “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo” 64.
E se, come aggiunge l’ultimo filosofo, i pensatori ed i poeti sono i custo63. V. Meyerhold, La Rivoluzione teatrale, Editori Riuniti, Roma 2001.
64. M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, Adelphi, Milano 1995.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 261
di di questa dimora, noi diremo che lo psicoterapeuta ne è il domestico.
Infine, è grazie alla centralità attribuita al linguaggio e sulla base della
complessità che esso genera, che possiamo pensare il conscio e l’inconscio come fenomeni emergenti ed indagare la peculiarità di altri fenomeni che osserviamo nella soggettualità del Sapiens.
la sofferenza, peculiarità del soggetto sapiens
Fra i fenomeni che risiedono nella pertinenza della soggettualità
dell’uomo vi è quello della sofferenza – cosa ben diversa dal dolore
che pertiene al reale 65 – che scegliamo fra gli altri perché è ciò con cui
comunemente si dice abbia a che fare la nostra professione; e i nostri
clienti, infatti, sono chiamati pazienti – coloro che soffrono. Le talking
therapy, difatti, nascono per occuparsi della sofferenza soggettiva, della
sofferenza del soggetto. Sofferenza che deriva:
– dal sintomo (a);
– da una qualche falla nell’abbinamento con il mondo (b);
– da eventi esogeni (ambiente esterno o interno) (c);
– dalla condizione esistenziale stessa dell’uomo (d).
L’ultima è la più importante, in quanto è con essa che la psicoterapia deve
fare i conti ed è solo a partire da essa che le prassi di cura dello psichico
sono terapeutiche: infatti l’esistenza dell’uomo dipende dagli effetti istituiti dal linguaggio. Se, riprendendo i punti precedenti, rispettivamente:
– i sintomi si risolvono;
– il couplage può essere “ricamato” e alla fine di una cura “attraversato” 66,
65. Il dolore inerisce la coscienza sensoriale, in quanto conseguenza di uno stimolo potenzialmente nocivo per la sopravvivenza dell’organismo: la sofferenza umana che ogni clinico “psi”
osserva e cura quotidianamente quasi sempre non ha nulla a che fare con una reale minaccia alla
sopravvivenza. Inoltre, se non si ponesse questa distinzione si dovrebbe sostenere che gli altri
animali, compresi i primati superiori, non provano dolore, come fa Macphail (E. M. Macphail,
The Evolution of Consciousness, cit.).
66. J.-A Miller, Logiche della vita amorosa, cit..
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– le ripercussioni psichiche di un lutto (evento esterno) o di una malattia organica (evento interno) possono essere elaborate,
– è solo perché anche essi sono effetti di linguaggio e dunque i punti
(a), (b) e (c) possono e devono essere inscritti in (d).
Per questo possiamo affermare che, se queste sono le dimensioni di cui si
può occupare la psicoterapia, essa, in ultima analisi, non si occupa direttamente di sofferenza bensì della soggettualità e delle sue conseguenze.
l’interazione fra soggetti
A partire dallo statuto simbolico della soggettualità umana, dobbiamo affermare che la relazione tra uomini è un luogo di catastrofe, che costituisce una voragine dell’esperienza per tre motivi. Il
primo è che, a causa della macroemergenza linguistica, il rapporto
con il reale perduto va incontro ad una necessaria mediazione fantasmatica, quella del couplage, in cui non c’è una corrispondenza
comunicativa data, diretta. Il secondo è che essendo il soggetto
della coscienza diviso da quello dell’inconscio, ciascuno non sa
ciò che dice all’interlocutore e viceversa. Il terzo è che ogni soggetto legge il mondo a partire dal suo proprio couplage rendendo
in tal modo la componente proiettiva e reiterativa determinante e
pressoché inconscia – nei termini della complessità detta autopoiesi sistemica. Quest’ultimo fenomeno è stato osservato e descritto
nelle diverse discipline che studiano il mentale anche se, dietro
le diverse denominazioni, vi sono concettualizzazioni molto differenti, alcune delle quali più complesse ed esaustive delle altre.
Dunque, l’occhio di molti studiosi è caduto sullo stesso oggetto: l’esistenza di una struttura stabile di abbinamento con il mondo, frutto
delle interazioni storiche del soggetto – in particolar modo quelle più
precoci – e al contempo sua singolare costruzione costituitasi nell’intersoggettività e, da lì in poi, determinante l’intersoggettività. Se
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Freud ha colto nell’apparato psichico la tendenza ad una ripetizione 67,
altri dopo di lui ne hanno descritto diffusamente aspetti e meccanismi. Citiamo, in ordine cronologico, alcune delle maggiori o più
conosciute concettualizzazioni: il fantasma di Lacan (Miller, ibidem);
i modelli operativi interni (Bowlby, ibidem); gli schemi concettuali
(Neisser 68); il relationship theme (Luborsky 69); i modelli predittivi
(Rosen 70); le interazioni ripetute generalizzate (Stern 71); le scene
modello e l’organizzazione motivazionale (Lichtenberg 72); lo schema
di couplage (Varela, ibidem); le immagini mentali (Edelman, ibidem).
Questo eterogeneo elenco, in sostanza, rimanda al riconoscimento
di uno schema nella relazione con il mondo, a partire dal quale ogni
atto umano si definisce nell’intenzionalità che gli è propria: difatti,
per quanto non-finito, ogni atto umano è sicuramente de-finito da
questa intenzionalità inconscia.
Tale soggettualità-in-interazione, costituitasi dunque come struttura,
insiste nel luogo in cui si è formata che è l’individuo. In quanto struttura ha una sua fisionomia, una certa coerenza fra i suoi elementi
e, qualunque sia il grado di coerenza, una relazione fra tutti i suoi
elementi – comprendendo non-relazione, incoerenza, divergenza. Per
questa ragione è possibile scoprire la struttura psichica e le sue funzionalità attraverso un’analisi retrospettiva – nel nostro caso diciamo
anamnestica.
Una volta costituitasi nei periodi sensibili dello sviluppo, la soggettualità-in-interazione preesiste, in maniera relativamente stabile, alle
future relazioni per una naturale inerzia sistemica – possiamo dire
67. S. Freud, Ricordare, ripetere e rielaborare, in Opere, cit., vol. VII, pp. 355-56.
68. U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna 1981.
69. L. Luborsky, “Measuring a pervasive psychic structure in psychotherapy: The core conflictual relationship theme”, in Freedman e Grand (a cura di), Communicative structures and psychic
structures,), Plenum Press, New York 1997, pp. 367-95.
70. R. Rosen, Anticipatory Systems: Philosophical, Mathematical and Methodological Foundations,
Pergamon Press, Oxford 1985.
71. D. N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Boringhieri, Torino 1987.
72. J. D. Lichtenberg, Psicoanalisi e sistemi motivazionali, Cortina Raffaello, Milano 1995.
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identitaria, funzionale: nell’incontro con un’altra soggettualità-ininterazione si combinerà come possibile, a partire dalle rispettive
modalità strutturali, data per assodata la tendenza a ripetere, affermare ciascuna se stessa 73. La relazione sarà complicata o, meglio, coimplicata – volendo evidenziare che l’articolazione fra i due soggetti si
produrrà per mezzo delle parti nascoste, delle intenzionalità inconsce.
Nel caso di due adulti, allora, la relazione darà come risultato un
sistema basato sul couplage di entrambi, i cui modi dipenderanno
dalle possibili combinazioni inconsce dei partecipanti: l’intersoggettività, propriamente decifrabile, esplicabile attraverso la cifra dell’Inconscio, si presenterà, ad ogni modo, come un’intenzionalità che
inviluppa il soggetto-altro.
Nel caso particolare della relazione bambino-caregiver vi è un vettore
diseguale di influenza: la soggettualità in fieri del neonato, sistema
complesso, si auto-organizzerà in modo del tutto singolare ma a partire dai “mattoni significanti” di quell’ambiente. Come dire che, per
esempio, di un dado possono uscire solo quelle facce che quell’ambiente culturale pre-dispone ma quale sarà la faccia o, meglio, l’esatta
successione delle facce ai diversi lanci è impossibile saperlo previsionalmente. Allo stesso modo, quel bambino a partire da quei precisi
e precipui elementi ambientali si auto-organizzerà in una singolarità
portatrice di una originalità.
artificio e dissimmetria del dispositivo psicoterapico
In questa sede siamo interessati ad una interazione fra esseri umani di
tipo particolare, un artefatto abbastanza recente, anche se evidenze del
suo precedente utilizzo sono rintracciabili sin dalle epoche più antiche 74.
73. M. Minolli, Studi di Psicoterapia Psicoanalitica, Edizioni Centro Diffusione Psicologia,
Genova 1993.
74. Si pensi ad un esempio che riporta Freud, relativo ad Alessandro Magno: l’imperatore,
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 265
L’interazione fra terapeuta e paziente è, come ogni altra, co-implicata ma
in più è artificiale, prodotta ad arte. Per entrambi questi motivi non è
complessa e, soprattutto, non lo è per l’assenza di numerosissimi agenti e
correlative interazioni. D’altronde è un bene che sia così, poiché gli agenti
di un sistema complesso non sanno – in senso stretto non possono e non
devono – del sistema cui appartengono ma ne accusano gli effetti. Quando ne sanno, afferma Deneubourg, non si può parlare in senso stretto
di auto-organizzazione, quanto piuttosto di organizzazione 75. Lo scienziato – che si occupa della complessità delle società di insetti – nota che
quando ci troviamo di fronte a comportamenti determinati da pattern
cognitivi bisogna porre dei necessari distinguo rispetto alla magia dell’auto-organizzazione, pena un’inutile complicazione teorica e un misconoscimento della logica propria di quel sistema. Se vi sono dei template,
vale a dire schemi cognitivi di organizzazione, il sistema frutto dell’interazione non risulterà da una dinamica non-lineare tra diversi elementi,
ma corrisponderà a una struttura preesistente che non siamo in grado di
vedere immediatamente – come, nel nostro caso, l’inconscio. È l’inconscio che organizza il campo e, dunque, non vi è auto-organizzazione.
In quest’ottica, il dispositivo psicoterapico è un artificio che ha lo scopo
di produrre un campo organizzato dall’inconscio del paziente in modo
che si possa riaprire il processo di couplage – nei nostri termini diremmo
di risignificazione. Ciò può avvenire anche in natura, ma l’artificio del
dispositivo deve essere costruito perché ciò sia programmatico: come fare?
Dicevamo che è nella mancanza la condizione di libertà dell’uomo:
bisognerà allora presentificarla, renderla operativa. Innanzitutto il
soggetto-della-cura si trova di fronte ad un altro che egli suppone pormentre assediava la città di Tiro, nel 332 a.C. sognò un satiro che danzava su uno scudo; interrogò un interprete di sogni il quale gli disse che il satiro in realtà stava per sa Tyros che in greco
significa “Tiro è tua”. Dopo alcuni giorni, Alessandro Magno entrò in Tiro. Freud scrive che
fu un’ottima interpretazione. Anche Socrate utilizzò questo particolare tipo di interazione, J.
Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il transfert, Einaudi, Torino 2008.
75. J. L. Deneubourg, “Emergenza e insetti sociali” in Réda Benkirane (a cura di), La teoria
della complessità, cit..
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tatore di un sapere da lui non conosciuto 76. Se da un lato è vero che
il terapeuta possiede un sapere, successivamente il soggetto-della-cura
scoprirà che l’Inconscio è detentore del suo singolare sapere e che lo
stesso soggetto può prendersi la responsabilità nella cura del suo proprio
Inconscio. La proficua credenza del soggetto-della-cura di trovarsi di
fronte ad un soggetto-che-sa costituisce la prima, fondamentale, dissimmetria che porta al transfert. A questo punto, con grande intensità,
il paziente non può far altro che implementare inconsciamente il suo
couplage anche con questo “estraneo”.
Una seconda dissimmetria si aggiunge in quanto il terapeuta fa in
modo che sia la struttura del paziente a dispiegarsi prepotentemente
nella relazione stessa: gli elementi di disclosure o enactment con cui si
entusiasmano soprattutto i colleghi d’oltreoceano, frutto della soggettività del terapeuta, sono elementi che partecipano certamente alla strutturazione del campo intersoggettivo ed il terapeuta deve tenerne conto
– è da postulare che egli abbia portato avanti un percorso di cura personale che gli fornisca gli strumenti per riconoscere tali dinamiche. Ma la
decisione di far partecipare la soggettività del terapeuta in modo pieno
e programmatico non potrebbe far altro che dispiegare un processo fondamentalmente basato su identificazioni e contro-identificazioni, cosa
che non andrebbe a toccare le fondamenta del couplage del paziente ma
porterebbe solo a dei suoi aggiustamenti, producendo – come siamo abituati ad osservare in quasi tutte le prassi psicoterapiche – quegli spostamenti iniziali del sintomo o la sua parziale remissione – fenomeni certo
non negativi ma tutt’altro che risolutivi. Questo tipo di relazione, più
naturale – nel senso di ordinaria nelle consuete relazioni interpersonali
– è capace al massimo di realizzare un riconoscimento – il luogo della
stasi hegeliana – in cui dovremmo sperare esserci, ragionando per assurdo, un terapeuta non “supposto sapere” ma “realmente sapiente” – come
76. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi,
Torino 2003.
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 267
accade più o meno frequentemente che gli psicoterapeuti siano – che
possa in tal modo “aggiungere” qualcosa alla soggettività del paziente.
In sostanza, con un approccio basato sul gioco immaginario della reciprocità – in cui il paziente si muove attraverso identificazioni e apprendimenti, cioè nel gioco egoico – è possibile soltanto ottenere un contenimento
sintomatologico, attraverso un migliore adattamento, cioè sulla base
di una normalizzazione ai valori socio-culturali dominanti: per Renik,
il cui discorso ruota attorno al beneficio sintomatico 77, le linee guida
del processo psicoterapico sono imperniate sull’utilità, con una chiara
impostazione pragmatica, non a caso eminenti espressioni dello spirito
statunitense. Con questo, non vogliamo affatto denigrare gli approcci
di cura dell’io: la pet-therapy, ad esempio, funziona molto bene in tutti
quei soggetti in cui l’io va supportato, puntellato, corroborato in funzioni
deficitarie o “aggiunto” di parti mancanti – abilità, informazioni.
La diade psicoanalitica, dunque, non costituisce un sistema complesso.
E se lo fosse, dovremmo pre-occuparci di come semplificare 78 per poter
agire in via professionale, in quanto in un sistema complesso perderemmo
qualsiasi senso e possibilità di espletare una qualsivoglia direzione della
cura. Si tratterebbe infatti di un processo completamente spontaneo, se
non caotico, indotto da quella particolare dinamica sistemica in cui, per
giunta, l’intenzionalità degli agenti sarebbe esclusa al livello degli effetti
di sistema. Né il terapeuta né tantomeno il paziente potrebbero avere voce
in capitolo. Sarebbero oggetti e ostaggi delle dinamiche di complessità e
addio soggetto. La gioiosa credenza che la relazione paziente-terapeuta sia
“auto-organizzante e complessa” (come sostenuto da Seligman 79) sembra
77. O. Renik, Psicoanalisi pratica per terapeuti e pazienti, Cortina Raffaello, Milano 2007.
78. Anche in presenza di complessità, si ricorre spesso all’ipotesi di linearità per finalità applicative. In questo modo, si costruiscono modelli lineari approssimati in modo tale che gli effetti di
non-linearità siano trascurabili: tale procedimento si chiama linearizzazione. Per esempio tutti
gli amplificatori audio sono non-lineari ma, entro certi limiti di frequenza, al fine di utilizzare i
più semplici, come i più sofisticati, impianti hi-fi presenti nelle nostre case, con alcuni accorgimenti tecnologici, si fa in modo che esso si comporti in modo lineare.
79. S. Seligman, Le Teorie dei Sistemi Complessi come meta-inquadramento della Psicoanalisi.
Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3:309-346, 2007.
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n. 12/2010
derivare dalla sottovalutazione o dal misconoscimento dell’Inconscio e
quindi dell’intenzionalità inconscia che informa ogni scambio relazionale
– sempre puntuale, precisa, ripetitiva, incurante non solo del tempo ma
anche dei contesti se non per richiamarne precostituiti nessi.
Stessa sorte di negligente abbandono sta subendo un altro fenomeno:
il Transfert. A questo proposito il discorso stesso ci porta dalla dissimmetria alla mésaillance freudiana. Fenomeno grazie al quale, nella prassi
psicoterapica, il fra-intendimento costitutivo di ogni intersoggettività
viene sfruttato e potenziato in modo che da un lato sia l’inconscio del
paziente a dispiegarsi in maniera preponderante; dall’altro perché sia il
motore della cura stessa.
Queste dissimmetrie – in parte vere, in parte immaginarie – permettono la messa in moto di una particolare modalità del couplage che,
seguendo Maturana (1980), chiameremo ricorsività: mentre nella ripetizione una data operazione è realizzata di nuovo indipendentemente
dalle conseguenze della sua precedente realizzazione, la ricorsività comporta la possibilità che la struttura tenga conto di una nuova informazione; che possa, nei nostri termini, risignificarsi.
In conclusione, la relazione di cura è artificiale e dissimmetrica – basata
sul transfert. È realmente efficace nell’unico universo accessibile all’uomo – di conseguenza unico universo nel quale si può incontrarlo – che
è quello del linguaggio delle società umane, dove si articola e si dispiega
la dimensione soggettuale – conscia ed inconscia.
concludendo
L’utilizzo del paradigma del PdC permette una chiara comprensione
della peculiarità del mentale umano e fornisce un modello esaustivo
della sua nascita. Inoltre, indicando la via d’accesso alla sua comprensione, permette anche di tracciare alcune coordinate metodologiche della
clinica. La chiave di volta, sia nella caratterizzazione del mentale umano
Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 269
che nella comprensione di una prassi di cura che ha ormai un secolo,
risiede nel linguaggio. Da ciò scaturiscono una serie di conseguenze
teorico-cliniche che, pur essendone una logica derivazione, mettono in
secondo piano la cornice epistemologica per giungere ad osservare de
visus gli oggetti di cui ci occupiamo: il soggetto umano, l’interazione,
l’inconscio, la cura, il transfert, il cambiamento, la sofferenza.
Il fascino dell’aldilà del linguaggio, come la formidabile seduzione del
riconoscimento, della smodata gioia che procura, sono tutti fattori che
influenzano le teorizzazioni recenti, segno di quella mancanza ad essere
che il linguaggio presentifica. In nome di una supposta scientificità – in
realtà dell’idolatria dell’empiria che senza le giuste domande è come il
bimbo di Salomone per cui ciascuno crede di poter rivendicare la sua
parte – si assiste alla riduzione della psiche alle dinamiche cerebrali – a
volte persino di roditori – sancendo il ritorno ad un tipo di scienza
immaginaria, come quella medioevale della corrispondenza alchemica
fra microcosmo e macrocosmo 80, ma con minor ricchezza e profondità
di visione. Lo studio delle complessità oggi rende noto che le miriadi
di oggetti del nostro universo condividono delle forme ma, parimenti,
che, nei diversi domini, ogni sistema o gruppo di sistemi lavora secondo
leggi anche molto diverse.
L’applicazione indebita o superficiale di modelli e concetti mutuati da
altri ambiti porta inevitabilmente ad un poderoso impoverimento della
comprensione dell’essere umano e, probabilmente, ad una perdita di efficacia della clinica. Miguel Virasoro, parlando di analoghi problemi che
incontra nel suo campo che è la fisica teorica, ha affermato che “al massimo possiamo dire che i paradigmi trovati per certi sistemi complessi possono aiutarci ad affrontarne altri. Nulla di più. Per il resto sembra quasi
la ricerca di metafore vincenti, più che un serio lavoro di ricerca” 81. Il suo
collega Riccardo Zecchina, esponente di punta della scuola dei “com80. “Quod est inferius, est sicut quod est superius”, si legge nella Tabula Smaragdina.
81. Da un’intervista di Fabio Pagan sul quotidiano “Il Piccolo” del 3 giugno 2003, consultabile all’indirizzo internet: http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2003/06/03/NZ_23_PAG1.html.
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plessologi” triestini, ha affermato, parimenti, che l’utilizzo totalizzante
del PdC, come è stato nell’approccio di Prigogine, “appare oggi utopistico e paradossalmente poco interdisciplinare. (Prigogine) voleva ridurre
tutti i sistemi complessi ad un unico schema, ma senza successo” 82.
Nell’ambito della teoria e della tecnica delle talking therapy il pericolo
è quello di seguire la moda attuale abdicando ad una seria ricerca del
funzionamento della psiche; così fu la tendenza ai tempi di Mach 83
ad interpretare la dinamica sostanziale di ogni oggetto in termini di
energia – concetto allora nuovo, affascinante, molteplice e in apparenza
toti-esplicativo – e pertanto fumoso – come la complessità oggi.
In sostanza, uno psicoterapeuta con gli occhiali di una epistemologia
della complessità e basta, ha degli occhiali eccellenti in una stanza buia:
non è elegante forzare troppo la metafora, ma possiamo aggiungere che
la stanza è buia, gli occhiali sono quelli giusti, ci servono allora delle
buone orecchie – noi crediamo quelle che da Freud fino ad ora abbiamo
sempre utilizzato: quelle sintonizzate sull’inconscio.
Abbiamo utilizzato il PdC per descrivere le condizioni di possibilità dello
psichico; e, quindi, di una correlativa prassi di cura, formalmente inventata nel secolo scorso da Freud. Crediamo, così facendo, di aver evitato
sia riduzionismi che olismi e di aver chiarito l’ambito di pertinenza di
ogni talking cure – di conseguenza il suo rapporto con le altre discipline.
Se vogliamo spingerci ancora più in là, ancora più a fondo; se desideriamo davvero capire l’essere dell’essere umano, tuffiamoci non solo nella
letteratura psicoanalitica ma anche, come afferma Morin ne “la letteratura, la musica, il cinema (che) sono ottime lenti per capire in modo
corretto la complessità umana. La complessità umana si trova in Balzac,
Proust, Dostoevskij” 84, Borges.
È per questa via che la talking cure è possibile e che può denunciare gli
effetti terapeutici che produce.
82. Ibidem.
83. P.L. Assoun, Introduzione all’epistemologia freudiana, cit..
84. E. Morin, Il complesso, ciò che è tessuto insieme in Réda Benkirane (a cura di), La teoria della
complessità, cit..
parte se t tima
let ture
273
maurizio mazzotti
Prospettive di psicoanalisi lacaniana
Borla, Roma 2009
di Carmelo Licitra Rosa * 1
Il lavoro di Maurizio Mazzotti si impone all’attenzione per la sua agilità, la sua chiarezza e la sua efficacia.
Queste tre caratteristiche sono la risultante di uno stile di ricerca e
di scrittura che non perde mai di vista uno degli scopi fondamentali
dell’impegno teorico in psicoanalisi, ovvero la trasmissione dell’insegnamento psicoanalitico. Nel caso specifico penso si possa dire che
questa trasmissione si rivolga in pari misura ad un pubblico avvertito
– ossia più o meno addentro alle tematiche psicoanalitiche – così come
ad un pubblico per così dire profano, purché animato da un minimo di
curiosità intellettuale.
È certamente dalla ferma tenuta di questo intento che è alimentata la
tensione argomentativa che attraversa da cima a fondo tutta la trattazione. Tensione in cui è certamente ravvisabile una passione soggettiva
dell’autore, analista di lunga esperienza e già presidente della Scuola
Lacaniana di Psicoanalisi, che in questo volume condensa il suo lavoro
e la sua esperienza pluriennali. Ogni articolo è infatti costruito attraverso la connessione di elementi teorici precisi, previamente isolati e
ritagliati in modo da dissipare qualsiasi confusione o approssimazione.
Successivamente ognuno di loro è esplorato grazie a un uso sapiente
delle risorse linguistiche che, con una semplicità non disgiunta dall’incisività, sanno contornare, circoscrivere il profilo del concetto con un
effetto esplicativo sempre molto calibrato, tale cioè da condurre il let* Carmelo Licitra Rosa, A.E., medico, psichiatra, membro SLP, docente dell’Istituto Freudiano,
iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Roma.
attualità lacaniana n. 12/2010
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n. 12/2010
tore alla soddisfazione della comprensione in modo naturale, diretto: se
mi si permette l’accostamento, direi che la lettura risulta proprio una
Dolce salita, come suggerito dal felice titolo del dipinto di Kandinskij,
che campeggia nella copertina. Infine i singoli elementi sono concatenati fra di loro in modo serrato, secondo delle linee argomentative
sempre molto rigorose e convincenti.
Non è poi affatto secondario che il piano meramente dottrinale sia sempre sostenuto da ciò che costituisce in ultima istanza la sola piattaforma
su cui può erigersi un’elaborazione psicoanalitica degna di questo nome,
ovvero il dato clinico, esemplificato in frammenti di notevole impatto
e forte suggestione. Se infatti l’elaborazione psicoanalitica smarrisce
l’ancoraggio della clinica è sempre a rischio di scivolare verso una speculazione filosofica, dagli esiti malcerti e discutibili.
Il volume è diviso in tre parti. La prima raccoglie tre contributi che ruotano intorno alla seduta psicoanalitica lacaniana. Nel primo contributo
è possibile cogliere nitidamente come la logica della seduta lacaniana,
in completa rottura con ogni standard, presupponga la riformulazione
dell’inconscio a partire dal transfert, ovvero a partire dall’immistione
della temporalità, nonché la definizione del futuro anteriore come tempo
vivente del soggetto e del “voler essere” dell’inconscio. Il secondo contributo riunisce diversi spunti: la differenza tra il non agire e la neutralità;
l’opposizione fra tempo scandito e tempo misurato; una rassegna dei
poteri della parola attraverso il fondamentale riferimento ai lavori di
René Daumal, a cui sono riportabili le risonanze dell’interpretazione e
l’evocazione della parola, quali sono reperibili in Funzione e Campo di
Lacan; una limpida articolazione della celebre dialettica padrone-schiavo, secondo la torsione speciale che Lacan le imprime rispetto all’originale versione di Hegel, evidenziando la luce potente che essa proietta sulla
clinica delle nevrosi; la pratica zen ed il risveglio provocato dall’impatto
del reale. Il tutto sfocia in una differenziazione puntuale, e di inusuale
lucidità, fra seduta variabile e seduta breve. I due esempi clinici di docilità e di indocilità alla seduta breve, che vengono presentati con uno
Letture | 275
stile accattivante nel terzo contributo, mostrano bene come la pratica
dell’analista lacaniano non risponda ad alcun protocollo tecnico prefissato, ma si pieghi ogni volta al particolare della logica del singolo caso.
Davvero notevole è poi la seconda parte, intitolata “Clinica e formazione dello psicoanalista”. Si segnalano il capitolo quarto, in cui si mette a
fuoco molto nitidamente la differenza tra la sofferenza/soddisfacimento
primario del sintomo e il più di soddisfazione implicato dal tornaconto
secondario; il capitolo quinto, in cui è delineata un’efficace sintesi della
teoria dell’angoscia; il capitolo sesto, in cui la tematica della depressione viene inquadrata alla luce di alcuni penetranti spunti psicoanalitici,
primo fra tutti quello del lutto, con un guadagno dottrinale e clinico
di grande pregnanza rispetto alla piattezza della prospettiva psichiatrica
dominante. Di particolare rilievo è il capitolo ottavo, che permette una
comparazione efficace fra l’insegnamento di Lacan e la Teoria del sé,
assumendo come perno un famoso caso di Kohut. Il capitolo settimo
svolge una critica molto pertinente alla clinica degli standard, il nono
illustra la ratio della supervisione analitica, mentre il decimo mette in
rilievo lo stretto rapporto che per ogni analista si istituisce tra la propria
formazione e la Scuola come orizzonte.
Decisamente appassionanti il capitolo undici e il capitolo dodici, il
primo per l’analisi inedita condotta sull’opera di Basaglia, il secondo
per una dotta ricostruzione dei rapporti del giovane Lacan con l’ambiente psichiatrico della prima metà del Novecento, ricco di fermenti e
di spunti che si ritroveranno poi, debitamente rielaborati e rimaneggiati, nelle sue posizioni più mature.
Chiudono la raccolta il capitolo tredici, che sulla scorta di una puntuale
differenza fra scienza e scientismo, illustra bene la convergenza della
psicoanalisi con la scienza e il suo parallelo conflitto con lo scientismo;
e infine il capitolo quattordici che, traendo spunto da un episodio
inscrivibile nel contesto delle sfide etiche contemporanee, ha il merito
di dimostrare come la psicoanalisi sia in grado di interloquire con la più
viva attualità sociale e culturale, senza rischio di obsolescenza.
276 | attualità lacaniana
n. 12/2010
Sono pertanto sicuro che questo libro concorrerà in maniera decisiva,
soprattutto per il taglio clinico da cui è sostenuta l’elaborazione, a
contestare e smentire l’idea peregrina, ciclicamente riesumata, che la
psicoanalisi appartenga al retaggio dell’età vittoriana, e ad avvalorare
invece la convinzione che essa, viva più che mai, si qualifica come solida interlocutrice della contemporaneità nelle sue impasses e nelle sue
laceranti contraddizioni.
277
chiara cretella e alessandro russo (a cura di)
Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo sociale
CLUEB, Bologna, 2009
di Alide Tassinari
Il testo raccoglie i contributi di otto specialisti operanti in campi differenti: sociologia, psichiatria, psicoanalisi, economia e problemi militari,
presentati nel corso di Sociologia Generale con il titolo “Tipi sociali
e singolarità soggettive”, della Facoltà di Scienze della Formazione
dell’Università di Bologna.
Le conferenze rivolte a studenti, nel luogo del sapere esposto, nella loro
concisione, favoriscono una apertura verso una posizione soggettiva
rispetto alla conoscenza. Gli studenti sono sollecitati a confrontarsi con
ciò che nel mondo può essere conosciuto, conoscenza sempre al limite
della verità, attraverso l’ambiguità e la non specificità del codice linguistico di appartenenza.
I curatori, Chiara Cretella e Alessandro Russo, hanno operato una traslazione dal corpus delle relazioni, difformi nelle loro stesure per i piani
dissimili che toccano e le hanno organizzate raccogliendole sotto il bel
titolo di Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo sociale.
In questo modo viene perduta – a ragione – la iniziale schematizzazione
di tipi sociali, che collocava i contenuti delle relazioni su di un unico
piano. Mantenere il termine tipi, utilizzato nel titolo del corso, avrebbe
rimandato al significato di una qualche classificazione personalogica
togliendo così spessore alle argomentazioni.
Al contrario l’utilizzo dei termini corpi, soggetti, figure evidenzia l’intreccio epistemologico di piani difformi dei saperi che si intersecano,
fondando una costruzione di ciò che in una società è sempre presente: il
bambino, il folle, la donna, il lavoratore, l’imprenditore, il militare e il
migrante. Quest’ultimo, figura emblematica, trasversale, rappresenta in
attualità lacaniana n. 12/2010
278 | attualità lacaniana
n. 12/2010
sé la condizione umana esiliata nella sua intima costituzione. Il migrante raccoglie in sé tutti i soggetti: può essere un bambino, un folle, una
donna, un lavoratore, un imprenditore, un militare.
L’introduzione, scritta dai curatori, ha come filo conduttore la precarietà sociale che i corpi (sociali e individuali) patiscono in questo nostro
tempo così globale e così frammentato.
I curatori si richiamano allo scritto Logiques des mondes di Alain
Bodiou, filosofo contemporaneo nella cui opera specifica come per la
doxa odierna non ci sono altro che “corpi e linguaggi.”
La psicoanalisi, quella di Lacan, concorda. Ciò che fa parvenza d’essere è la parvenza di cui il corpo è immagine e che patisce l’affronto di
un reale del godimento, in perdita, che lo investe fin dalla nascita ad
opera del linguaggio. Il linguaggio, di cui l’essere, attraverso il corpo si
appropria nel lungo processo della vita, altro non è che vita parlata e,
se possibile, goduta attraverso la sintomatizzazione della vita stessa. Ci
appropriamo del corpo e possediamo il linguaggio in quanto viventi.
Freud ha scoperto il soggetto dell’inconscio e Lacan ne ha ha svelato
la struttura: l’essere umano, più parlato che parlante, ha un corpo che
parla attraverso i sintomi e patisce il disagio della civiltà. Quel corpo
parlante, ridotto nella clinica contemporanea all’evanescenza dei comportamenti, non più osservati come sintesi scaturita nell’incontro del
soggetto con la società, è bollato come disagevole, disturbante, perturbatore, inadeguato per il raggiungimento di un supposto benessere,
ormai prescritto come unico fine. La prescrizione del ben-essere e della
ricerca dell’armonia con sé stessi, con il proprio corpo e con gli altri,
misconosce ciò che Freud, nel Disagio della civiltà considerava il risultato del compromesso necessario tra le esigenze pulsionali dell’individuo
e le richieste dell’Altro. Ogni società, ogni organizzazione sociale, sottace il piano soggettivo; eclissa sotto la barra quel piano inconscio che
costituisce la verità del soggetto e nello stesso tempo cerca di governarlo
attraverso le norme e le istituzioni.
È quel piano mai del tutto occultato che fa nascere ogni soggetto alie-
Letture | 279
nato nell’Altro e ne fomenta la separazione nella ricerca creativa di un
modo soggettivo di essere nel mondo. Il soggetto trova nelle crepe e
negli interstizi della doxa imperante, la possibilità di una realizzazione,
uno per uno, in un percorso originale e unico per coniugare la vita e il
godimento attraverso i Discorsi che costituiscono l’unico modo umano
di fare legame. Infatti l’individuo è incluso nella società di appartenenza di cui patisce le contraddizioni, accuratamente negate nella generalizzazione del sapere e della conoscenza coeva al soggetto stesso.
Di seguito alcune parole di commento sui contributi del testo seguendo
l’ordine, non casuale, dell’indice.
I primi tre saggi sono di psicoanalisti e enigma è il sostantivo che li
accomuna.
L’inclusione dell’individuo con il corpo sociale, avviene in primis nella
famiglia, costituita dalle funzioni materna e paterna. L’infans – il senza
voce – figura delineata da Adriana Monselesan viene indagato nelle
dimensione del corpo: godimento, immagine, corpo parlato, attraverso
gli utensili teorici lacaniani: il reale, il simbolico, l’immaginario.
L’ esxcurus, mettendo al centro il corpo del parlessere, si basa sulla teoria
freudiana e si serve di quella lacaniana. Per la psicoanalisi, corpo infans,
corporizzato dal linguaggio, non può essere ridotto né alla sua maturazione biologica né al suo vissuto: per il parlessere non c’è fisiologia. È la
scienza medica che reifica il corpo umano e riducendolo al suo funzionamento neuronale, cerca inutilmente di sciogliere l’enigma del corpo
proprio. Con Lacan si può dire che il corpo è l’espressione sinthomatica
del proprio modo di legare insieme i tre registri attraverso gli eventi di
corpo: modo che, nell’incontro con l’Altro, un bambino inizia a tessere,
fin da subito, essendo immerso nel mondo simbolico che gli preesiste.
Tutto questo processo avviene “naturalmente” a meno che un individuo
non sia folle.
Il folle è l’unica figura che si allontana definitivamente da una qualche
forma di generalizzazione. Maurizio Mazzotti nel suo scritto ci illustra
in poche e suggestive pagine l’iter attraverso il quale il folle si qualifi-
280 | attualità lacaniana
n. 12/2010
ca come colui che è fuori da ogni discorso. Discorso come “struttura
di linguaggio che va distinta dalla parola che ciascuno di noi articola
individualmente e che si colloca sempre entro un discorso che orienta
il significato generale della parola”. Mazzotti introduce in questo modo
l’orizzonte lacaniano dei Quattro Discorsi che orienta e definisce i possibili modi tra le persone di fare legame sociale. È perché siamo dentro
a questo orizzonte di discorsi che non possiamo dirci folli. Il folle avendo preclusa la metafora paterna è rimasto fuori discorso e in difficoltà
con il legame sociale. Il Nome-del-Padre, metafora lacaniana che implica la castrazione del godimento primario, produce, quando si instaura,
una perdita imperfetta ma assicura l’apertura al desiderio e la collocazione del soggetto nell’ambito delle nevrosi come universo composito
dei diversi stili di accettazione di tale perdita. Non così per il folle il
cui delirio ha sempre la finalità di riparare, non la perdita che non è
avvenuta, ma il fallimento della metafora paterna attraverso la metafora
delirante. Anche quando il delirio non è espresso c’è la possibilità che,
improvvisamente, in seguito a congiunture analiticamente descritte
dalla clinica psicoanalitica e nel contesto di una cura, sia attivato. Ma
non diventa folle chi vuole, solo chi lo era già anche se nascosto da un
equilibrio precario. Gli esempi di cui l’autore si serve sono diversi per
storia di vita e tra loro distanti cronologicamente: Daniel Paul Schreber,
Aimée, Georg Cantor; follie enigmatiche svelate in après-coup.
Il saggio di Paola Francesconi  donna introduce un ulteriore enigma:
quello della femminilità, luogo vuoto, che la barra sull’articolo determinativo presentifica e che aveva indotto Lacan a dire provocatoriamente
che La donna non esiste. Paola Francesconi pone la questione di come
un corpo sessuato accede al godimento e non solo a una identificazione. L’identificazione per quanto inconscia si installa a livello dell’io del
soggetto ma al godimento si accede tramite la sessuazione del corpo.
La barra sulla  rimanda a un’altra barra a quella del simbolico sulla
 che manca di un significante che possa dire della femminilità per
quanto le donne nella loro esistenza lo cerchino. Il paradosso è che
Letture | 281
viene cercato nel simbolico dove al contrario c’è l’assenza. Per questo
Lacan introduce la femminilità come non-tutta nel simbolico, qualcosa
rimanda a un al di là. La tesi di Paola Francesconi è che una donna nel
suo rapporto con l’enigma della femminilità è una identità senza attributo. Da questa constatazione ogni donna, per dirsi tale, deve trovare
un nome che la possa dire, in una identità senza attributo, sospesa nel
vuoto di significazione. Ma questo vuoto, questo mancare, secondo la
tesi lacaniana porta alla possibilità per una donna di trovare un percorso
ancora più originale e creativo perché le possibili variazioni sono infinite
quante sono le donne che si collocano al lato destro dello schema della
sessuazione elaborato da Lacan e presentato nel suo seminario Ancora.
Anche il contributo di Rossella Ghigi è centrato sul corpo e sulla sua
plasticità conosciuta fin dall’antichità: fin dall’origini dell’umanità il
corpo viene manipolato, abbellito, martoriato, esaltato, disprezzato,
velato, esposto. L’autrice descrive in questo saggio storico-sociologico
le origini della chirurgia plastica oggi divenuta estetica. Ciò che stava
alla base della chirugia palstica era la necessità di un rifacimento di una
parte del corpo proprio teso a nascondere segni (il naso, il taglio degli
occhi, le orecchie a sventola) che con la loro presenza rimandavano a
appartenenze, a gruppi sociali non adeguati socialmente e vissute come
inferiori; oggi non è più così dal corpo plastico si è giunti, grazie alla
chirurgia, al corpo estetico. Oggi è impellente la necessità di dare una
forma estetica a un corpo intero per uniformarlo a un modello di corpo
ritenuto perfetto. Si cerca non più una modificazione per essere inclusi
in una società e essere uguali agli altri ma una richiesta di intervento
che si sostanzia di una sempre più profonda e illusoria padronanza sul
corpo proprio inteso come oggetto, per essere come il modello. Un
narcisismo esasperato utilizzato per contrastare le contraddizioni vissute
dal soggetto in relazione alla società e per evitare di incontrare il limite
di ciò che Freud con la scoperta dell’inconscio decretò essere la non
padronanza assoluta con quel “nessuno è padrone a casa propria.”
Gli ultimi quattro saggi: “Il lavoratore flessibile” di Valerio Romitelli,
282 | attualità lacaniana
n. 12/2010
“L’imprenditore globale astratto” di Giorgio Gattei, “Il migrante” di
Ferruccio Gambino, “Il soldato” di Fabio Mini trattano di figure sociali e di modi con cui la società del consumo, negli ultimi decenni, ha
fronteggiato i cambiamenti del mercato del lavoro. I lavoratori dell’immenso e frammentato mercato globale, ivi compresi quei particolari
lavoratori che sono i militari, sono corpi sociali inconsistenti che non
riescono più a costituire corpi soggettivi collettivi. Il potere economico
ha plasmato le vite degli individui sottraendoli ai luoghi, simbolici e
fisici, in cui avrebbero potuto esprimere una qualche appartenenza; gli
Stati con la scelta di pace che si alimenta di guerre sempre più lontane hanno aperto a professioni che fanno della difesa una prevenzione
contro il rischio e l’insicurezza nella ricerca di una garanzia totale. Il
Discorso del padrone nella sua versione capitalistica mostra la sua persitenza e l’immagine che ne viene è quella di una società frammentata,
disgregante e disgregata che poggia la sua esistenza sul potere delle
merci e degli oggetti. Una società costituita da individui immersi in un
reticolo di servitù, che credono di essere padroni di loro stessi, è una
società che non riesce ad individuare un padrone. Ma la psicoanalisi e
gli psicoanalisti, collocandosi dalla parte dell’inconscio, rispondono a
un Altro discorso, umanizzano una società di non luoghi facendo del
soggetto dell’inconscio il luogo e la fucina da cui operare.
283
matteo bonazzi
Scrivere la contingenza. Esperienza, linguaggio, scrittura
in Jacques Lacan
Edizioni ETS, Pisa 2009
di Adone Brandalise * 1
Già il titolo indica come il volume sia mosso dall’esigenza di sviluppare le potenzialità di una congiuntura che per varie vie si manifesta
attuale. Da un lato la nozione di scrittura si presta, in virtù di quella
funzione registica del lessico lacaniano che essa è andata progressivamente acquistando nel protrarsi del Seminario, a fungere da traliccio,
ma anche da principio ordinatore di un ripercorrimento globale della
pratica lacaniana del pensiero nel suo farsi strada attraverso i luoghi
cruciali in cui la filosofia ad un tempo la chiama ad agire, mentre sembra poterne e doverne fare a meno. D’altro lato questa modalità svela
molto di ciò che la rende legittima e utile quando la si colga come consanguinea all’esigenza che invita a cogliere la centralità della nozione
di contingenza, come indispensabile per comprendere in che modo la
psicoanalisi si collochi, nel caso di Lacan, all’interno di un’organizzazione storico-culturale del pensiero che essa non può che sovvertire nel
momento stesso di ogni suo effettivo accadere.
Per questo la proposta del volume non può che riconoscere la relazione
decisiva della psicoanalisi con il proprio di una filosofia, realizzata e
sovvertita ad un tempo, perché la psicoanalisi rimette in questione
quel suo assetto identitario che si chiude sulla rimozione del desiderio
che la sospinge.
Non a caso, nella trama in cui il volume reintesse le linee fondamentali
* Adone Brandalise, Docente di Teoria della letteratura all’Università di Padova, direttore del
master di studi Interculturali.
attualità lacaniana n. 12/2010
284 | attualità lacaniana
n. 12/2010
dell’opera lacaniana, sembra trasparire un ordito concepito a partire
dall’assunzione dei modi propri della fase cronologicamente più avanzata dell’itinerario lacaniano, secondo un arco che congiunge in un’unica
prestazione strutturante Lituraterra e il Seminario XXIII.
Non sorprende ormai che un itinerario sifatto possa anche corrispondere ad un più compiuto e produttivo insediamento del discorso di psicoanalisi e filosofia nel luogo in cui Lacan lo situa, quello che si evidenzia
qualora si colga l’effettiva portata della nozione di antifilosofia.
Il libro infatti ci sembra procedere dalla convinzione che il rapporto tra
filosofia e psicoanalisi non è da concepirsi come mutuazione reciproca
di lessici e strategie di composizione del discorso, ma riguarda la realizzazione della psicoanalisi in un movimento che non può che passare
attraverso la radicale messa in questione della posizione del pensiero
nella filosofia, una messa in questione che ad un tempo confuta l’autorappresentazione della filosofia e assume il desiderio che in essa parla
e promuove un pensare e un dire di cui si deve intendere e praticare
l’effettiva ragione, assumendone effettivamente la causa.
Di qui si potrebbe dire che il libro opera a partire da una esigenza, crediamo oggi vastamente sentita tra coloro che intrattengono con Lacan
un rapporto avvertito come necessario al di là di una adesione scolastica
ad una ortodossia lacaniana. Si tratta di comprendere come si ricollochi
il pensiero a partire da ciò che Lacan attiva come pratica nella scrittura
cui dà luogo il suo fare, e che rapporto intercorre tra questo luogo e la
forma dell’operare filosofico. Insomma, se Lacan attraverso il suo esercizio continua ad evitare che la contingenza sia cancellata a favore di
qualche universale che consenta al soggetto di non essere in questione,
occorrerà approfondire come questo movimento detti le condizioni e
indichi le potenzialità di uno “scrivere la contingenza”.
Lo stile, genialmente clownesco del Lacan dei Seminari riapre costantemente la contingenza di un momento presente in cui la teoria è più
attiva proprio perché è tutta arrischiata nella pratica che la produce,
non come prodotto finale, ma come condizione continuamente riatti-
Letture | 285
vata della propria apertura. Anche quando il pensiero lacaniano sembra
disporsi nelle forme di un’imponente architettura schematica è ben lontano dal rilasciare queste sue figure come edificio dottrinale. Esse sono
la sbarra cui si appoggia il danzatore nel suo quotidiano esercizio.
Lacan produce una scrittura della contingenza assolutamente singolare,
ma proprio per questo non “particolare”, non a caso esposta sempre al
rischio della propria seduttività che chiama a rispondere alla proposta
che la anima nella forma di una imitazione a volte prossima alla recitazione mantrica. Bonazzi, nel suo libro, si assume il compito di far
funzionare una fruttuosa castrazione che eviti di rispondere all’angoscia
di sentire la portata decisiva del pensiero lacaniano come ciò che spinge
a ridirne gli stilemi, a rirecitarne gli eventi linguistici e propone invece
la via di una assunzione per il pensare gli effetti essenziali dell’esempio
lacaniano oggi.
Si tratta di ricavare da quell’accordo che si percepisce agire in una vasta
sinergia tra le formule essenziali della pratica lacaniana, la traccia a partire dalla quale riconoscere una posizione non meramente immaginaria,
né immaginariamente simbolica del pensare nel nostro tempo, ovvero
di scrivere la contingenza.
“Nel 1976 Lacan, gettando uno sguardo vertiginoso all’indietro, dice
ciò che non ha mai detto e che in fondo non si può dire: il vero sul vero.
E lo dice rivelando, non tanto il senso che sostiene il suo dire, ma l’atto
che orienta il suo fare o il suo dire in quanto fare. Si tratta di ‘fare ciò
che ho effettivamente fatto, né più, né meno: seguire le tracce del reale’
(Seminario XXIII, p. 63). Dire il vero sul vero significa mostrare nel
detto che si dice, questo è il punto reale che si cela dietro il cortocircuito
dire-intendere” (Bonazzi, p. 186).
La psicoanalisi propone alla filosofia di riconoscere nel singolare non
ciò che l’universale deve superare, ma quanto ad esso manca perché il
desiderio che ne ha prodotto la condizione linguistica e ideale non vi
trovi la sua morte, ma possa dare al suo sviluppo quella relazione con il
reale in cui sta la sua potenza.
attualità lacaniana
n. 11/2010 - verso i grandi temi della modernità
rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi
Presentazione. Rilanciare la Scuola, di Marco Focchi
5
parte i – rilanciare la scuola
Il programma di godimento non è virtuale, di Eric Laurent
9
parte ii – i grandi temi della modernità
Siamo tutti disinseriti, di Pierre-Gilles Gueguen
L’uomo nuovo ha un cuore antico. Il ritorno delle passioni nella tarda modernità, di Silvia Vegetti Finzi
Varianti dell’amore nella superficie del gusto, di Vilma Coccoz
La crisi dell’epoca “ della conoscenza”, di Valerio Romitelli
40
58
parte iii – versioni della psicoanalisi
Non ci sono psicoanalisti in istituzione, ma effetti analitici, di Daniel Matet
Glitch, di Marco Focchi
Grethe, lo specchio infranto della Regina delle Nevi, di Fulvio Sorge
79
85
90
21
27
parte iv – psicoanalisi a teatro
Conferenza al teatro Coliseo, di Jacques-Alain Miller
109
parte v – psicoanalisi al cinema
Videodrome, o dello spettacolo, di Maria Teresa Catena
139
parte vi – concetti base
Una lettura introduttiva ai quattro discorsi di Lacan, di Silvia Cimarelli
147
parte vii – testimonianze di passe
Non solo un destino, di Massimo Termini
Il n’y a d’analyste qu’ à ce que ce desir [du savoir scientifique] lui vienne, di Carmelo Licitra Rosa
187
197
parte viii – i libri di cui si parla
J. Lacan, Il seminario VIII. Il transfert (di Roberto Cavasola)
Laura Pigozzi, A nuda voce (di Alessandra Milesi)
Giovanni Sias, Fuga a cinque voci. L’anima della psicoanalisi e la formazione degli psicoanalisti (di Costanza Costa)
Bruno Moroncini, L’autobiografia della vita malata (di Mariangela della Valle)
211
219
221
241
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Attualita lacaniana 12 2010 - slp-cf