Sans papier
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Antonio Maria Logani
Storie di ordinaria periferia
vibrisselibri
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Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non
a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.
© 2010 by Antonio Maria Logani e vibrisselibri
La nostra casa sul Web è: http://vibrisse.wordpress.com
Il lavoro di redazione per questo libro è stato svolto da: Rossella Messina e Mauro Mirci
L’impaginazione è stata curata da: Giulio Mozzi
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Storie di ordinaria periferia
«Desideravo essere un bravo ragazzo. Un ragazzo onesto.
Avrei voluto studiare, lavorare, essere normale. Lo volevo
fortemente, ma non sapevo né a chi chiedere, né come fare».
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... E poi tuo fratello più grande, che nel ’48 aveva 13 anni, ormai viveva fuori casa, ma
rimanendo nei paraggi. Non poteva fare diversamente in quanto papà lo picchiava sempre
per qualsiasi motivo, anche quando motivi non ce n’erano. Le più piccole stupidaggini che
può commettere un ragazzo, le minime richieste innocenti, i fatti più insignificanti erano
motivo di botte per tuo fratello e non solo per lui.
Quando, per qualche giorno, non lo si vedeva, allora significava che se la faceva alla Stazione Termini, dove là passava anche la notte.
Ogni tanto veniva a trovarci, però soltanto quando papà era assente. Si nascondeva nel
palazzo di fronte al nostro e, dalla finestra che era nelle scale, guardava verso la nostra casa.
Se capiva che mamma era sola, quindi più che altro al mattino, emetteva un fischio e lei, con
un gesto, lo faceva venire in casa.
Mamma lo faceva mangiare, lo puliva, raccomandandogli di restare, anche se diceva che
papà purtroppo era fatto così; scorbutico con tutti, ma capo famiglia.
Tuo fratello replicava che non poteva vivere in casa con un papà così, prima di tutto perché
lui voleva un papà vero e non un papà scorbutico e manesco, anche se capofamiglia. Non
poteva e non voleva essere il capro espiatorio delle sue frustrazioni. Non voleva prendersi
tutte le botte perché figlio maggiore. Così ogni qualvolta si avvicinava l’ora del rientro di
nostro padre, tuo fratello si allontanava di nuovo da casa continuando la forzata scelta di
vita nella giungla cittadina.
Prima di scomparire per sempre da Quarticciolo, tornò un’ultima volta accompagnato con
altri due ragazzi più o meno della sua età. Mamma intuì che stava prendendo una cattiva
strada, a nulla valsero i suoi pianti silenziosi.
Il nord aspettava tuo fratello.
So anche che nostra madre, nata a Canosa di Puglia, era una trovatella senza genitori, e
che le brave persone che la adottarono le lasciarono in eredità una casa che avevano di proprietà a Roma, vicino al Colosseo.
Quando ci trasferimmo dal paese, andammo ad abitare in quella casa; credimi, era bellissima. Dalla terrazza, una terrazza talmente grande che sembrava un campo sportivo, si
potevano addirittura vedere la cupola di San Pietro e i monti in lontananza.
Nelle sue stanze infinitamente grandi ci si poteva andare in bicicletta. In inverno i raggi
del sole entravano calorosi dalle persiane e giocando, illuminavano i soffitti ornati di rosoni e
cornici antiche.
Dopo un certo periodo che abitavamo lì, papà vendette la casa e si comprò tutto ciò che più
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gli piaceva. Dopo breve tempo rimase senza una lira e fummo costretti ad andare ad abitare
da nostra zia nelle baracche del Quarticciolo, sotto la salita che costeggiava le grotte del famoso Gobbo, in attesa che il comune ci desse una casa popolare e che lui trovasse un lavoro.
Dopo sei mesi papà fu assunto dal comune di Roma, contemporaneamente ci fu assegnata
una casa nella borgata stessa: via Ostuni, secondo lotto, scala q interno 8. Quarticciolo.
Ricordo che mamma era una donna che sapeva fare un po’ di tutto.
Con i pochi soldi che riusciva a fare di cresta a quella miseria che gli passava papà, comperava pezzi di stoffa e confezionava abitini per il vicinato e per noi. Sapeva anche lavorare la
lana e sono convinta abbia riparato quasi tutti i materassi della zona. Guadagnava qualche
centesimo e così ci comperava qualcosa da mangiare. Lei deperiva giorno dopo giorno.
Ormai si era ammalata. Otto figli, una vita di stenti, un sorriso immortale su di una faccia sguarnita, denti ancora bellissimi. Le gravidanze l’avevano distrutta.
Più giorni passavano, più si indeboliva.
Più si faceva “brutta”, più riceveva botte da papà.
Per lui tutte le scuse erano buone. Poco importava se mamma era incinta, se voleva picchiarla lo faceva e basta. Se lei rimaneva esanime sul pavimento per le botte ricevute, allora
papà iniziava a spaccare quel poco di mobilia che avevamo in casa. Quando ciò accadeva io
vi radunavo tutti portandovi giù nell’androne del palazzo in attesa che le urla di mamma
finissero.
Mamma ricevette il colpo di grazia quando papà si accorse che invece di comperare la carne
di manzo, che era sempre e solo per lui, e il parmigiano per la pastasciutta, comperava la
carne di maiale, facendosi poi macinare le scorze del formaggio che il norcino avrebbe dovuto
buttare.
Così facendo mamma poteva risparmiare e darci qualcosa da mangiare di nascosto.
Capitò un giorno in cui pioveva. Nostra madre era affaccendata a cucinare e allo stesso
tempo fare il bucato nel grande catino di lamiera nel quale ci ha lavati tutti per tanti giorni e
tanti anni. Papà arrivò a casa come un forsennato, con gli occhi rossi di rabbia si scagliò
contro di lei prendendola a calci e pugni dove capitava. Lei era incinta di te. Il primo calcio
la prese dritta sulla pancia. Io sbirciando impaurita dalla porta vedevo tutto, ma non potevo
fare assolutamente nulla; che può fare una bambina di dodici anni contro tanta cattiveria e
brutalità?
La vidi cadere. Rannicchiandosi sul pavimento, strillando non emetteva un filo di voce (i
tuoni molto forti, lampi e l’acquazzone, sembravano volerla difendere) mentre lui, nostro
padre, stava lì a dirle parolacce: «Sei proprio una scrofa, non ti si può toccare che rimani
subito incinta. Non vedi come sei brutta!? Perché non muori!? Almeno non mi darai più
fastidio!».
Poi, girandosi per andarsene, disse ancora: «E stasera quando ritorno voglio vedere tutto
pulito e la cena pronta. Capito!? O saranno guai. Adesso me ne vado al cinema, quando
torno voglio trovare pasta e carne di manzo».
Con un filo di voce, quel poco fiato che le era rimasto per difendere i suoi amori, lei gli si
rivoltò contro: «Sei tu il disgraziato. Sei un padre snaturato, senza cuore. Lasci i tuoi figli
affamati per andare al cinema con quella svergognata della frutteria e...».
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Non fece in tempo a finire la frase che lui prese la pentola che era sul braciere (la nostra
cucina) e gliela versò addosso, poi, insoddisfatto perché l’acqua non bruciava abbastanza,
prese una sedia e la colpì con tutte le forze sulla schiena. Mamma chiuse gli occhi, rimanendo immobile, come fosse morta, sul pavimento della cucina. Lui, bestemmiando, sbatté la
porta e scomparve tra le scale. Avvicinandomi, con forza la trascinai sul letto. Il sangue le
colava dal naso. Il suo corpo, tra le mie mani, sembrava penzolare come un fantoccio. Povera
mamma, povera mamma nostra. Miracolosamente riuscì a partorire te.
Ora toccava a me fare da mamma oltre a te e ai tuoi fratelli, anche a papà e mamma.
Dopo un lungo periodo di sofferenza, e con l’aiuto dei brodini della comare Colecchia,
mamma si rimise un pochino. Un giorno, volendo fare due passi giù nel cortile, provò ad
alzarsi. Si appoggiò a me e mi pregò di prenderti in braccio.
Tu avevi poche settimane e il latte in polvere datoci dal parroco era finito. Scendemmo le
scale e ci sedemmo sul piccolo muro sotto il sole tiepido di settembre. Mamma ormai non
poteva più allattare. Dal suo petto, talmente era secco, non usciva assolutamente nulla.
Fortunatamente la comare, che ci aveva sempre aiutato, si venne a sedere a fianco a noi,
anche lei con la sua bambina da allattare. Alla vista di quelle due grosse poppe piene di
latte, mamma chiese alla comare se, giacché aveva tanto latte, poteva darne una poppata
anche a te. Mettendosi a ridere la comare ti prese in braccio; nella parte sinistra succhiava
sua figlia Annamaria e dall’altra parte tu. Con affondi da pugilatore, succhiavi da affamato. Se avessi potuto vedere la faccia di nostra madre, avresti visto come era contenta.
Ti guardava con quegli occhi dolci, pieni d’amore, ripetendo, come in una tristissima cantilena: «Bello figlio mio, cresci sano e forte».
Stranamente passò un anno tranquillo (tranquillo non tanto, perché vedevo, negli ultimi
mesi, mamma sempre meno ribelle, rassegnata). Sicuramente era arrivata allo sfinimento
mentale e fisico.
Non so con quale coraggio, ma sarebbe meglio dire vigliaccheria, fatto sta che papà la rimise incinta. Dovette venire dal paese la zia Antonietta per darmi una mano ad accudire la
nostra famiglia. La zia Antonietta era forte di braccia, una vera roccia contadina. Rispettava papà, ma non riusciva a volergli bene, non credeva alle bugie che aveva raccontato a
tutto il paese, come sempre facendo la vittima, caricandosi di gesta eroiche familiari.
Mamma ormai stava più a letto che in piedi. La malattia, le gravidanze, i maltrattamenti
che aveva subito, la stavano portando diritta alla tomba. Ogni volta che zia Antonietta
guardava il viso di mamma, i suoi occhi lasciavano scendere sul pavimento un fiume di lacrime. I grazie sussurrati da mamma si stampavano sul soffitto dopo esser rimbalzati tra le
pareti. Per zia Antonietta non valevano le suppliche di mamma che le diceva: «Antonie’,
non piangere sorella mia, non piangere. Non pensare a me, pensa alle creature».
Quella povera donna stava morendo con la pancia grossa.
La malattia l’aveva mangiata tutta. Il viso, anche guardandolo di sfuggita, dava a capire
che un teschio era più grasso, e poi la pancia che si gonfiava sempre più.
Lei, mamma, voleva portare a termine la gravidanza. E ci riuscì. Nacque tuo fratello
Mimmo.
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Zia Antonietta rimase con noi per lungo tempo, e anche Mimmo fu allattato dalla comare.
La zia ripartì in un momento di relativa tranquillità.
Adesso non ho più parole da sputare sulla faccia di nostro padre.
Tu non ci crederai, ma mamma rimase di nuovo incinta.
La mattina del 1° marzo 1955 nacque Concettina che, poveretta, morì poco dopo due settimane per tante di quelle complicazioni che ora, a distanza di cinquant’anni, potrai capire
benissimo da te.
I funerali di quell’anima innocente si svolsero nella povertà assoluta, fummo aiutati dal
parroco della chiesa, sulla sua tomba c’era solo qualche fiore di campo. Mamma non pianse.
Con quali lacrime poteva piangere non avendone più?
Camminava come un fantasma sorretta dalla comare, con lo sguardo perso nell’orizzonte,
fissando un punto indefinito. Dietro di lei c’era papà con la sua tipica e arrogante espressione, alle sue spalle, la fruttivendola.
Il 15 dello stesso mese andai al Commissariato per chiedere aiuto, in quanto quel giorno
mamma stava più male del solito e i dolori non l’abbandonavano un solo momento.
Il dottore sull’ambulanza le iniettò una forte dose di morfina e lei si addormentò.
Dopo circa due settimane di ospedale morì.
Era cieca. Pesava 30 chili. Aveva 39 anni. Era il 30 marzo 1955.
Papà si risposò. Io fui costretta ad andarmene via da casa, perché non volevo fare la serva
a loro e, allo stesso tempo, prendermi tutti i giorni botte e rimproveri dalla matrigna.
Dovevo accudire voi più piccoli, lavare, stirare, cucinare, servirli a tavola (noi non potevamo mangiare insieme a loro).
Quando erano seduti a tavola ci dovevamo rinchiudere in cucina e mangiare pane e cipolla,
se c’era il pane, altrimenti...
Lui con la nuova moglie continuava a fare il galletto per la borgata.
Non potevo mai uscire di casa. Mi limitavo a guardare da dietro le persiane le mie amiche
che sostavano giù in strada in attesa che potessi andare con loro a ballare o a fare una passeggiata, ma niente di più. L’unica aria fresca che potevo avere era quella della loggetta (il
balconcino da cui spesso le mie amiche mi lanciavano “Grand Hotel”) che dava sulla marana dove tu andavi a giocare con il tuo amichetto Riccardo.
Ricordo ancora la meschinità di papà quando mamma morì; fece il vedovo inconsolabile
scrivendo a tutti gli enti assistenziali per chiedere sussidi che gli venivano corrisposti mensilmente.
Tua sorella Nella, che aveva sedici anni, era scappata con il suo fidanzato e vivevano insieme nella casa dei genitori di lui. Lei era bellissima. Tutti al Quarticciolo le facevano la
corte. Fortunatamente se la prese il più serio.
Ogni tanto, quando non c’erano papà e Carmela, Nella faceva capolino da noi dandomi
100, 200 lire per poter fare un pochino di spesa. Purtroppo bastavano solo per un litro di
olio (il latte era un lusso per noi) un chilo di pane e un etto di mortadella, così che, dopo
cinque minuti, erano finiti i soldi.
Papà mise te in collegio a Gubbio, tuo fratello Tonino ad Anagni, Mimmo a Lavinio e
tuo fratello Gianni, che era troppo grande per il collegio, con mille scuse, lo fece rinchiudere
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in un riformatorio, credo fosse Fano.
Ci sono ancora due ricordi, di cui uno terribile e indelebile.
Quando tu avevi circa cinque anni, un giorno venne il maresciallo del Commissariato a
portarci la notizia che eri stato investito da un’auto. Era successo che, mentre uscivi
dall’Istituto Don Bosco dopo aver mangiato, ti mettesti a inseguire un cane randagio e,
nell’attraversare via Prenestina, venisti investito in pieno da un’auto. Ti spezzasti una gamba che poi guarì completamente.
Ma il segreto più terribile che mi sono sempre tenuta dentro e che ti dico ora, anche perché
papà ormai è morto, è questo: quando lui vendette la casa vicino al Colosseo, si comperò la
macchina, una Balilla di color nero.
Un giorno disse a nostra madre che avremmo fatto una scampagnata perché eravamo diventati ricchi e anche perché voleva che mamma imparasse a guidare. Lei inizialmente cercò
di farlo desistere da quella inaspettata, strana e pericolosa idea, poi, per non farlo arrabbiare, accettò.
Dopo circa un’ora che eravamo in auto e avevamo attraversato tutta Roma, giungemmo a
Tor Sapienza. Prendendo una strada sterrata, fatta di sassi e brecciolino, papà fermò l’auto
davanti a dei cespugli dove dal posto di guida non si poteva vedere oltre la grande siepe.
Quindi facendomi sedere davanti con te in braccio, mamma al posto di guida e i tuoi fratelli Tonino, Gianni e Mimmo di dietro, ci raccomandò di stare tranquilli.
Rassicurò nostra madre che guidare era talmente facile, che alla prima prova ci sarebbe riuscita senz’altro anche lei.
Le fece mettere in moto, poi le disse che avrebbe dovuto schiacciare tutto il pedale del gas e
ingranare con forza la prima marcia.
Il motore rombava al massimo e la paura faceva novanta quando papà urlò che era il momento di inserire la marcia. L’auto partì come un razzo in direzione dei cespugli.
Presa da un brutto presentimento mamma iniziò a gridare: «Dov’è il freno!? Dov’è il frenoooo..!? Oh! Mio Diooo!!».
Non so come fece, ma riuscì a premere il pedale della salvezza. In un polverone la macchina si bloccò proprio nel momento in cui le ruote anteriori già avevano scavalcato i cespugli.
Un profondo baratro si apriva davanti ai nostri occhi pieni di paura. Fortunatamente l’auto
rimase in bilico, paurosamente bilanciata.
Con accortezza mamma ci fece uscire tutti dalle portiere di dietro, lei fu l’ultima a venir
fuori. Appena messo piede a terra fu guerra. Lei lo accusava di averlo fatto apposta, che
sapeva che lì c’era il burrone. Lui cercava di recitare la parte dell’innocente, ma infine, non
riuscendoci, usò le sue abituali e persuasive maniere; con uno schiaffo fece dimenticare
l’accaduto a lei e a noi.
Ti ho detto i miei ricordi sperando di aiutarti nell’intento di scrivere la nostra storia e, allo
stesso tempo, ribadire, come tu hai sempre sostenuto, che tutti nasciamo onesti per vergognarci poi di non essere stati capaci di rimanerlo.
Ci sono moltissime cose che potrei ancora raccontarti; particolari momenti di vita familiare,
il rapporto di allora con i nostri vicini di casa e tutto l’insieme dei personaggi di Quarticciolo
che ci hanno aiutati e visti crescere. Certo non ho usato bene la cronologia , ti prego non vo11
lermene, perché sono sicura che farai meglio di me.
L’importante è il contenuto, anche se doloroso e triste.
Vedi caro fratello quante ne abbiamo passate? Ce ne hanno fatte di tutti i colori, eppure
siamo tutti e sette vivi e onesti (non è mai troppo tardi, vero?) mentre coloro che ci hanno
fatto soffrire, coloro che non hanno avuto alcun rispetto per noi, ora non ci sono più. Serve
far del male? Serve abusare dell’innocenza dei bambini? Serve approfittare dei deboli e degli
indifesi? Serve tutto ciò se, quando arriva il momento di morire, ci pentiamo troppo tardi
delle nostre malefatte? Certo, per pentirsi c’è sempre tempo, ma chi risolve i problemi e i
danni che sono stati fatti o che abbiamo lasciato alle nostre spalle? Chi ci darà la gioia di
vivere? E la giovinezza sopraffatta, stracciata e affogata dalle malvagità altrui? Ringraziando Dio ce l’abbiamo fatta a uscire dalla terribile tenaglia della vita fatta di espedienti
per persone che non hanno avuto né arte né parte. Credimi sono felice di sentire, ogni qualvolta ci telefoniamo, che tutto tra noi è “normale”. Sono felice nel sentire che possiamo parlare di vacanze. Di piccoli litigi familiari, di figli e suoceri. Di affitti e rincari. Di lavoro, di
salario e di tasse, di lotterie e di speranze. Sono felice nel sentire che anche noi, sette pulcini
spelacchiati, facciamo parte di quella società onesta e lavoratrice.
Che facciamo parte di quella società da cui abbiamo avuto sempre il timore di essere esclusi. Sono felice nel sapere che avendo perso la strada giusta da bambini siamo riusciti a ritrovarla da adulti.
Fratello mio, ciò mi soddisfa immensamente perché sono sicura che mamma da lassù ci sorride e, allargando le braccia, ci proteggerà sempre.
Ora ti lascio sperando che quando avrai completato questa storia me ne manderai una copia.
Con affetto, tua sorella.
PS. Peccato però non sapere dove portare un fiore quando è la ricorrenza dei morti.
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Parte prima
Infanzia e prima giovinezza
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«…guardatevi intorno e la vedrete giocare con i vostri
bimbi.
e guardate lo spazio, la vedrete camminare nella nube,
tendere le braccia nel bagliore del lampo e scendere con la
pioggia.
la vedrete sorridere nei fiori e, sulle cime degli alberi, sciogliere carezze».
Primi ricordi
Era in quel di Quarticciolo, una delle prime borgate romane costruite nel periodo fascista,
che noi sette, cinque maschi e due femmine, ci sentivamo felici. i lunghi palazzi grigi, divisi
a lotti, tutti uguali, quadrati, uno di fronte all’altro, con rifiniture di travertino alte dal suolo
per circa un metro, li ricorderò sempre con infinita nostalgia.
nei caldi giorni di primavera io e i miei fratelli andavamo a giocare nel fiumiciattolo situato sotto la loggetta della nostra casa. non era proprio un fiume, bensì la discarica delle
fognature di un po’ tutte le abitazioni della borgata. dopo aver giocato nella “marana”, così
noi chiamavamo il fiume-discarica di cui sopra,con il puzzo che dopo esserci puliti alla meglio, ci rimaneva addosso, ci sedevamo al caldo di un sole romano d’aprile nel punto preciso dove i raggi davano l’impressione di essere più caldi.
lì, giocando come tutti i bambini di questo mondo, aspettavamo di sentire la voce che ci
dava la massima sicurezza; quella di nostra madre. tornavamo a casa giocondi, anche se
spesso si andava a letto con lo stomaco vuoto.
La nostra casa era situata al secondo piano del palazzone dell’Ottavo Lotto. Non era
sporca, ma misera nella sua povertà. Pochi mobili e certo non di classe. Tutto nella sua
decenza rispecchiava quel poco di ordine e pulizia che ci può essere in una famiglia dove gli
unici valori sono dettati da una madre senza istruzione, né ricchezza, consapevole di dover
lasciare i propri figli a un padre che veniva a casa solo per mangiare e dormire, evitando,
con gesti e parole, la propria cucciolata e la sua compagna. Lui non ci ha mai amati. Non so
se noi lo abbiamo odiato.
Dormivamo in due camere. Le mie due sorelle nella più piccola con due letti, noi maschi
nella camera grande in un unico letto; tre grandi “da capo”, due piccoli “da piedi” (così si
usava a quei tempi nelle famiglie numerose e povere delle borgate romane). Prima di dormire si faceva sempre un po’ di chiasso prendendoci a cuscinate.
Noi più piccoli non ci rendemmo conto quando mamma fu ricoverata all’ospedale San
Camillo. Morì dopo circa un paio di settimane.
So che soffrì moltissimo, poveretta.
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L’unica cosa di cui ricordo, per noi inusuale, fu la maggiore libertà che ci ritrovammo
all’improvviso.
Come cani sciolti
Adesso a distanza di moltissimi anni, avendo imparato a conoscere bene mio padre, posso
immaginare cosa gli sia passato per la mente durante la malattia di mia madre; lui voleva la
libertà. Non bastava l’aiuto delle mie sorelle; lavare, stirare, tenere noi più piccoli a bada,
fare la spesa con quel poco che lui ci passava mensilmente. Si sentiva prigioniero della situazione, claustrofobico. Troppo giovane per potersi permettere il lusso di invecchiare senza averne l’età.
Da un paio di mesi ormai eravamo senza mamma.
Nostro padre lo vedevamo molto di meno e in quel poco dava l’impressione che fosse più
attivo, in attesa di qualcosa di nuovo, di eccitante per lui.
Un giorno, dopo aver raccomandato alle nostre sorelle di badare a noi, sparì.
Nei giorni della sua assenza vivevamo un po’ come cani sciolti. Ci allontanavamo sempre
più spesso da casa. A volte rimanevamo a giocare fino a tarda sera con i nostri amichetti; er
Negretto l’Indianetto e i Pidocchiosi. Il papà dei Pidocchiosi, emigrato dalla Puglia come la
maggior parte degli abitanti del Quarticciolo, faceva l’ombrellaio, mentre la mamma, donna
grossa da far paura, pascolava le pecore che avevano parcheggiate in una grotta sulla via
Prenestina.
I due maschi più grandi seguivano l’uomo nella ricerca di ombrelli da riparare, camminando giornalmente per chilometri tra le borgate e urlando i loro servigi sotto le finestre di
possibili clienti. Gli altri due figli pascolavano insieme alla loro mamma nell’attesa di imparare il mestiere di pastore. La casa dei “Pidocchiosi”, se casa si poteva considerare, era un
seminterrato sempre al buio, le cui finestre si aprivano a malapena sul livello della strada.
Era perennemente sporca e invasa dal puzzo del bagno che aveva soltanto un buco nel
pavimento a mo’ di turca e tanta miseria tutt’attorno.
Riccardo er Negretto abitava poco distante da noi, in via dei Gelsi, anche la sua casa era
sotto il livello stradale.
La sua famiglia, anch’essa pugliese, era come la nostra; povera, ma dignitosa. Si chiamavano Lo Russo ed erano tutti di carnagione scura. Per noi lui era er Negretto.
Suo papà, proprietario di un triciclo, vendeva la varechina facendo come i “Pidocchiosi”,
più forte si urlava, più era possibile avere delle compratrici, mentre la mamma faceva la
sarta in casa. Tutti i giorni con questi lavori miseri si riuscivano a rimediare pasti ancor più
miseri.
Era bello veder ridere er Negretto. Ogni qualvolta lo faceva, rimanevamo incantati dal
biancore che sprigionavano i suoi denti e la luce dei suoi occhi. Occhi nerissimi. Occhi
buoni.
Riccardo, caro amico di giochi infantili e sorrisi innocenti rubati al sole di un autunno romano. Come la tua vita spazzata via nel mezzo del cammino alla ricerca di una identità
sempre negata.
La “nuova mamma”
In quel periodo, con la morte di nostra madre e l’assenza di nostro padre, ci rendemmo
conto, anche se in modo impercettibile, che per noi qualcosa di nuovo stava accadendo.
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Nostra sorella più grande ci riunì tutti insieme per darci la notizia dell’avvenuto matrimonio di nostro padre. Era stato celebrato a Noto con una moglie trovata tramite inserzione
su di un quotidiano, quindi avremmo avuto anche una “nuova” mamma. Credo che mio
padre sia nato senza coscienza o con il paraocchi su di essa, per non farsi disturbare dalle
responsabilità, per poter guardare solo in una direzione, sempre diritto. Diritto verso
l’egoismo, il disamore, la solitudine. Lei, la “nuova”, era di capelli scuri, non molto alta,
occhi neri e freddi, attorno ai trenta, estranea. Estranea a tutti gli effetti e a ogni affetto,
questo non perché la volessimo sentire noi così, ma semplicemente era ed è stata sempre lei
a sentirci estranei, a non accettarci per ciò che eravamo. E noi bambini, nella nostra necessità d’amore materno, abbiamo sempre tentato di aggrapparci alla sua gonna... inutilmente.
Sapeva scrollarsi molto bene la nostra presenza dalla mente con lamentele, per farsi sentire da nostro padre (subdolo ricatto sessuale).
Per tenerci a bada ci lanciava fulminanti occhiate di vulcani in eruzione. Si infastidiva
molto nel sentirsi chiamare mamma, e non accettava le rimostranze delle nostre sorelle nel
discutere i suoi ordini fatti di arroganza e cattiveria.
Il suo arrivo scombussolò quel poco di regole che si creano tra fratelli e sorelle vissuti insieme con amore e armonia.
Dovemmo dire addio a Biancone, il nostro cane gigante, lo avevamo da più di dieci anni,
era grosso e docile.
Dovemmo dire alla “marana”, e addio ai nostri pomeriggi seduti al sole il più possibile.
Dovemmo anche dire addio ai nostri cari Pidocchiosi, all’Indianetto e al nostro amichetto
Riccardo.
Addio prati in fiore e alberi fruttuosi.
Addio cucina a legna, rimpiazzata con gas.
Addio vecchia “caciera” dagli odori materni, violata e gettata tra i rifiuti.
Addio povere cose nostre di bambini senza arte né parte.
Addio Quarticciolo.
Dovemmo dire addio all’Istituto Don Bosco e alla via Prenestina, odorosa di pecore e pastori.
Addio a Don Borroni che con Gesù non avevi nulla a che fare (la tua sberla, la ricordo
ancora, mi fece girare in lungo e largo tutto l’istituto Don Bosco, portandomi dal campo
sportivo per tutto il Forte Prenestino, lasciandomi, sanguinante in bocca, vicino alle aule
scolastiche. Avevo solo sei anni) e addio Don Pio.
Addio a tutti i preti e a tutte le pastasciutte domenicali e anche addio al cinema pagato con
una preghiera imparata a memoria.
Addio al nostro piccolo mondo puzzolente e felice.
Addio a Felice, figura spastica di curiosi e lieti incontri pomeridiani, sarà ora veramente
felice?
Addio Sora Assunta, Regina Leccornia seduta sul trono caramellato.
Addio cinema Corallo, paradiso d’illusioni periferiche che, sfamando i nostri occhi, davi
speranze alla nostra mente di un mondo, anche per noi, migliore.
Addio gente di borgata con lavori alla giornata.
Addio a voi venditori di varechina, straccivendoli e sartine casalinghe e ombrellai disillusi,
che davate la sveglia con le vostre urla mattiniere in cerca di clienti soddisfatti e molti non
paganti.
Addio Ottavo Lotto e addio a te Settimo Lotto.
Addio Secondo Lotto.
Addio Primo Lotto.
Addio via Lucera e via Ostuni.
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Addio via Manfredonia.
Addio tutte vie di Puglia.
Addio Quarticciolo.
Tutti via
Era la primavera del ‘56. Mio padre, sempre più pressato dalle insistenti lamentele della
“nuova”, cercava, dopo aver fatto mille domande presso il comune di Roma, di farci rinchiudere tutti in istituti comunali.
La maggiore delle nostre sorelle fu costretta ad accasarsi con il suo fidanzato. Il maggiore
dei fratelli se ne andò di casa, mentre l’altra sorella fu anche lei costretta a rifugiarsi in un
convento di suore. Tutto ciò soltanto per colpa dell’ignoranza e della cattiveria della
“nuova”. Non voleva figli estranei e tanto meno che qualcuno di noi reclamasse, in lei, la
propria madre.
A quei tempi qualcosa mi turbava. Ancora non riuscivo a rendermi conto al cento per
cento della mancanza di mia madre, anche perché c’era una persona sconosciuta al suo
posto. Come avrei potuto? C’era troppa confusione nella mia mente, quindi inconsciamente, aiutato da puro istinto naturale, cercavo di riversare tutta la mia attenzione e le mie paure di solitudine verso mio padre, essendo lui l’unico e ultimo punto di riferimento e congiunzione tra me, i miei fratelli e sorelle.
Mio padre era una persona ignorante, analfabeta, senza carattere né principi, non conosceva le parole “umiltà”, “sacrificio”, “dovere”, ma allo stesso tempo era scaltro e opportunista. Non aveva un minimo senso di responsabilità familiare e, se anche lo avesse avuto,
perché influenzato e obbligato un pochino dalla presenza di nostra madre ancora viva, ora
disconosceva i suoi figli. Cercava rispetto, anzi lo pretendeva, ma non rispettava nessuno.
Era il tipico prodotto del Sud, cresciuto nell’ignoranza e nella disoccupazione più acute,
dove l’uomo si poteva pavoneggiare nascondendosi dietro ad antiche e radicate regole di
miserabile mascolinità.
Si era sposato in piena era fascista, quando la propaganda di quei tempi premiava, con
sussidi e altre agevolazioni varie, le famiglie che riuscivano a sfornare più figli possibile per
la patria.
Le donne erano considerate scrofe o giù di lì. E gli uomini si davano da fare, approfittando del sistema. Così fece mio padre; otto figli, uno dopo l’altro.
Bravo, dieci e lode. Facile scopare chi si rifiuta non potendo fare altro se non accettare.
Ebbe un posto, quale operaio, nell’Azienda Tranviaria Romana.
Un giorno mio padre disse che sarei dovuto andare in un collegio, non molto lontano da
Roma, dove avrei potuto studiare insieme ad altri bambini della mia stessa età. Lì sarei stato
benissimo. Lui sarebbe venuto a trovarmi ogni domenica.
La distanza è proprio come il vento, porta via tutto e fa dimenticare chi si crede di amare
o chi non si ama affatto.
Alla stazione Termini mi consegnò nelle mani di una Suora domenicana. Con lei c’erano
altri bambini, più o meno della mia stessa età, una quindicina in tutto. Anche loro figli del
fascismo e delle borgate. Tutti erano accompagnati dai propri genitori e qualcuno già iniziava a piagnucolare, non volendosi staccare dalle grandi mani che stringeva con la sua piccola forza e grande disperazione.
Loro, i familiari, così anche mio padre, cercavano in tutti i modi, con le buone, di farci salire sul treno del quale ormai era stata annunciata la partenza.
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E ci riuscirono; gli adulti vincono sempre.
Ci ritrovammo divisi in due scompartimenti, in ognuno c’era una suora con un sorriso
sulle labbra, dolce e comprensivo per le nostre lacrime.
Noi bambini iniziammo a conoscerci, naturalmente con le bugie.
L’unica bugia che mi è sempre rimasta in mente era che, quasi all’unisono, dicevamo tutti
la stessa cosa, cioè che la nostra famiglia era ricca, che a casa avevamo “la nostra cameretta”
piena di giocattoli e tante altre belle cose.
Mentre bugiavamo, la suora disse che potevamo salutare i nostri parenti dai finestrini, però
lo dovevamo fare con ordine e calma; non fu possibile in quanto la maggior parte di noi
rincominciò a piangere disperatamente e affacciandosi strillavano tra le lacrime:
«Mamma, papà! Mammaaaaa!».
Io guardavo tristemente attorno. Mio padre era sparito. Mi rimisi a sedere.
Chi spingeva di qua chi di là, tutti volevano affacciarsi.
Un viaggiatore, in attesa sul marciapiede, buttando un’occhiata d’intesa verso i nostri genitori, scrollando la testa, disse: «I bambini piangono anche quando vanno in vacanza. Non
sanno i sacrifici che facciamo per mandarceli. Beati loro».
Ci sorrise. Allontanandosi sul marciapiede di travertino freddo e umido, fischiettava Arrivederci Roma.
Il treno partendo trafisse ancor di più la nostra piccola anima, affondando le sue ferrose
mani nei nostri minuscoli cuori.
La suora si dimenava con gentilezza nel tentativo di calmarci, poi, dopo essersi fatta in
quattro, quando stava per gettare la spugna, le si illuminò il viso, le si accese l’aureola e, con
un’espressione da Archimede Pitagorico, vinse.
Vinse dandoci prima un panino con marmellata e poi un cioccolatino per uno.
Mangiando, qualcuno piangeva ancora.
Verso Gubbio
Il viaggio da Roma Termini fino a Gubbio durò, se ancora ricordo bene, circa quattro ore
e mezza, in quanto partimmo alle dodici e trenta e arrivammo che erano passate le cinque
del pomeriggio.
In fila indiana con le due suore che ci controllavano uscimmo dalla stazione di Gubbio
per dirigerci verso l’istituto dove sarei rimasto per quattro anni.
Sempre in fila indiana, attraversammo un tratto della città.
Nessuno più fiatava, eravamo tutti con il naso all’insù, meravigliati, incantati dalla calma
che emanavano le antiche mura della città, colorate dai raggi del sole al tramonto dopo una
giornata di pioggia. Eravamo imbambolati dalla bellezza silenziosa delle case fatte di pietra
lucida, inumidite di acqua piovana. Sembravano castelli da favole. Castelli che noi, bambini
romani di borgate con case fatte di tufo, non avevamo mai visto.
Nelle strade sembrava che ci dovessero camminare soltanto cavalli con il carro al traino.
Eravamo meravigliati e spaesati allo stesso tempo.
Di tanto in tanto qualche donna del luogo si fermava e, indirizzandoci il dito indice, diceva a chi gli era vicino: «Vedi quei bambini? Sono i nuovi orfanelli dell’Istituto di S. Lucia».
Un paio di noi si misero di nuovo a piangere nel sentire ancora quella frase.
Il più rabbioso, Ettore era il suo nome, uscì di corsa dalla fila e svicolando tra la sottana
della suora, che cercava di pararlo, si avvicinò alla signora che aveva appena parlato e, guardandola con lacrime mischiate al muco del naso, in tipico dialetto romano, disse tutto d’un
fiato: «Aoh! Ma che te credi? Anch’io ci ho un padre e ‘na madre!».
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Abbassò la testa e rimettendosi di nuovo a piangere sbatté i piedi nella pozzanghera che si
trovava di fronte alla donna, in questo modo l’acqua schizzò in tutte le direzioni colpendo
la madre con figlio, e noi bambini e le suore.
Una delle due si scusò con la signora, che era rimasta sbalordita dalla reazione di Ettore,
poi lo prese per mano, quindi facendogli una carezza, lo rimise in fila. Le sue lacrime dopo
essersi di nuovo strofinato il naso sulla manica del cappottino, si mischiavano ancor di più
alla pioggia.
Arrivammo a destinazione.
A Gubbio, Istituto S. Lucia
Il grande portone dell’istituto si richiuse dietro le mie spalle. Passando dalla portineria intravidi sulla destra una piccola finestrella a forma gotica, senza vetro. Dietro di essa un faccione semicoperto da un velo nero; sembrava più un subacqueo che una suora. Questa,
scrutandoci con gli occhi di chi non lascia spazio a scuse, ci spogliò nudi dalle nostre malinconie. Proprio come fanno i metaldetector negli aeroporti per individuare armi.
Proseguendo ci ritrovammo in un ampio piazzale con in fondo un portoncino marrone
lucido. I raggi del sole al tramonto aumentavano la malinconia mia e degli altri bambini.
La porta si aprì improvvisa; davanti a noi si ergevano delle scale di marmo lucidissime e
pareti quasi spoglie. Solo una immagine della madonna e un crocefisso là in cima.
Sempre in fila per due, le suore ci condussero su per le scale fino a raggiungere un camerone che, se ben ricordo, poteva essere venti per sette o otto metri quadrati.
I pavimenti splendenti avrebbero potuto essere usati per reclamizzare il miglior detersivo
del mondo. I letti erano ordinati, i materassi piegati in due, e sopra, c’erano lenzuola bianche di cotone e una coperta soffice, tutto sapeva fresco di bucato.
La sedia comodino, di legno chiaro e lucido, accanto al letto di ognuno, poteva essere
usata anche come piccolo ripostiglio, dato che il piano di seduta poteva venir sollevato a
mo’ di cassapanca. La suora, con molta pazienza, ci spiegò come fare il letto. Certo fu una
piccola battaglia per lei fintanto che qualcuno dei bambini continuava piangere.
Fatto questo la stessa suora indicò i bagni, anch’essi spaziosi e puliti. Dopodiché, tutti insieme, dicemmo una preghiera e andammo a letto. La cena ormai, disse la suora, era saltata
e comunque i panini che avevamo mangiato durante il viaggio dovevano essere stati sufficienti.
«Buonanotte bambini e dormite».
Aprì la porta e la richiuse alle sue spalle con delicatezza, lasciando volteggiare nell’aria il
suono secco dei passi mentre si allontanava sottile sul marmo lucido.
Bambini, madri mancate e signorine cretine
Man mano che le giornate passavano, io e gli altri bambini ci abituammo all’ordine e alle
regole del collegio.
La sveglia era alle sette. C’erano sempre due suore che ci sorvegliavano, aiutandoci anche
a vestirci. Dopo esserci lavati e aver rifatto il letto, scendevamo tutti nel refettorio per la
colazione. La sala era molto grande, con tavoli di formica e ferro, i quali formavano mezzo
quadrato nella sala. Al centro una colonna di cemento le cui estremità scomparivano tra
pavimento e soffitto. Ognuno di noi si era trovato il posto preferito vicino ai bambini del
proprio gruppetto, cosicché si formò, anche per noi, una certa gerarchia infantile e innocente. Il centro del refettorio era occupato da una sedia su cui sedeva la suora di servizio
che era sempre la stessa; Suor Maria Gabriella, ora in Guatemala come missionaria. Finita la
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colazione andavamo diritti a scuola.
Dopo la scuola, a mezzogiorno, potevamo andare a giocare in un piccolo cortile subito
fuori dal refettorio, quindi alla mezza tutti a mangiare. Finito il pranzo tornavamo nel cortile dove ci sorvegliavano due “signorine esterne” che ogni tanto andavamo a spiare quando andavano al bagno per fumare di nascosto dalle suore.
Di una mi ricordo il nome: Vera (vera stronza). Erano due cretine che, approfittando
della nostra innocenza, scaricavano su di noi, in maniera molto severa e aggressiva, le loro
zitellanti frustrazioni.
Accadeva, non di rado, che per una spintarella, un innocente diverbio tra noi bambini, ci
dessero degli schiaffoni pesanti e dolorosi tra il collo e la nuca, se qualcuno provava a ribellarsi allora chiudevano il pugno di una mano, così facendo ci picchiavano con le nocche
delle dita sulla testa. Il dolore rimaneva a lungo ed era un avvertimento; bisognava tenere la
bocca chiusa. Non abbiamo mai detto nulla alle suore per paura di rappresaglie, e poi, generalmente, i bambini hanno timore dei grandi.
La mia prima maestra si chiamava Cristina; aveva i capelli castani a caschetto e una faccia
pulita, portava vestiti castigati e senza tanta pretesa, non era molto alta di statura.
Aveva anche due occhi bellissimi che sprigionavano un senso materno pieno d’amore e
dolcezza infiniti, ma allo stesso tempo anche una profonda tristezza e nostalgia, qualcosa di
lontano, struggente, qualcosa passata, di quelle cose che rimangono sempre nel cuore. Ogni
volta che si avvicinava a uno di noi, per farci una carezza o controllare i nostri compiti, il
color marrone dei suoi occhi si accendeva e il più delle volte la lacrima furtiva era più veloce della sua mano. Non le dava il tempo di prendere il fazzoletto, che cadendo sul quaderno, si mischiava all’inchiostro rendendo vano il compito appena terminato.
Fu lei che ci insegnò a leggere e scrivere. Fu lei, con la sua presenza giornaliera, a darci,
con l’affetto e le sue lacrime, la possibilità di dimenticare un pochino la nostra solitudine.
Fu una mamma part-time per orfani virtuali.
Un mattino la signorina Cristina non arrivò. L’orologio dietro la cattedra, a fianco del crocefisso, segnava già le otto e mezza passate. Noi bambini avevamo iniziato a fare baccano.
All’improvviso la porta si aprì ed entrò la Madre Superiora seguita da Suor Maria Gabriella.
Dopo averci guardato senza dire una parola, ci dissero, in coro, come un rosario, un canto
gregoriano, che la signorina Cristina non sarebbe più venuta a insegnarci, perché era dovuta
partire per un viaggio lunghissimo e che avremmo avuto una nuova insegnante.
Quel giorno non ci fu scuola, ma andammo a messa nella cappella dell’istituto. Cosa strana e rara.
Il primo Natale normale
Ci abituammo presto alla nuova maestra. Lei insegnava senza lacrime. Ciò che la facilitava
nel suo compito era la nostra calma e compostezza, l’educazione e tutto quanto avevamo
appreso dalla signora Cristina. Dimenticammo, con lei, carezze e quaderni impiastricciati di
lacrime, inchiostro e tristezze.
Una volta la nuova maestra mi punì.
Fu per la risposta che diedi alla domanda su Maometto e la montagna: Se Maometto non va
alla montagna, cosa fa la montagna? Risposi che se Maometto avesse aspettato che la montagna
si fosse mossa allora “campa cavallo che l’erba cresce”, e poi le dissi che a Roma c’era il
papa che con la sua auto ci avrebbe messo due minuti per arrivare alla montagna perché
tutti i vigili urbani lo avrebbero fatto passare anche con il rosso.
Gli altri scolari scoppiarono a ridere a crepapelle. Anche la maestra accennò una smorfia
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allegra, ma si riprese subito per poi mandarmi in castigo dietro la lavagna. I miei compagni
sghignazzavano ancora.
Passarono le stagioni. Venne l’inverno portando un Natale freddo e nevoso.
Le suore sapevano come farci sentire e gustare i giorni delle vacanze festive. Noi bambini
ci sentivamo contenti nell’immaginare il sapore dei dolci, l’atmosfera piena di allegria, le
vacanze.
Nell’istituto la frenesia e il via vai delle suore confermavano che la festa era iniziata.
Il mattino di Natale, dopo che ci eravamo lavati, ci portarono tutti su nel magazzino dei
vestiti per misurarci, tra mille vestitini, quale era il più adatto a noi.
Completi grigi con pantaloni corti alle ginocchia, camiciola bianca e cravattina nera, scarpe marroni di linea rotonda e classica.
Tutti vestivamo in un modo nuovo. Mio padre, forse, ancora alla “marinara”.
Dopo la messa, che fu solenne e piena di canti natalizi, andammo nel refettorio dove, sul
tavolino che faceva da pianta fissa e da guardiola allo stesso tempo, c’era sistemato un giradischi che lasciava uscire dalla sua tromba il Bianco Natale di Bing Crosby. La musica aleggiava nell’aria, a me e qualcun altro dei miei compagni dava la certezza che avremmo avuto
un Natale come tutti i bambini del mondo. Contentezza, cose buone da mangiare a sazietà,
scarpe e vestiti puliti, anzi nuovi. Cioccolato caldo e pasticcini ricoperti di panna montata.
La nostalgia di casa non la potevo comprendere quasi più, ciò che avevo trovato
nell’istituto non lo avevo mai avuto, e per tutto questo, pur di rimanere a Gubbio, sarei
stato anche capace di rinnegare la mia famiglia.
Nei giorni di freddo, quando non potevamo andare a giocare nel cortile grande, andavamo nella sala di ricreazione dove sempre la stessa suora, facendoci sedere a semicerchio su
dei cuscini poggiati sul pavimento, ci intratteneva con racconti e storielle che non potrò mai
dimenticare.
A Gubbio imparai a capire anche il senso del compleanno che non avevo mai festeggiato.
Quando capitava che un bambino compiva gli anni, le suore preparavano una torta con le
candeline e poi tutti insieme, dopo la scuola, andavamo nel refettorio. Tra canti in allegria,
in coro, con tutte le suore che si mettevano in fila come pinguini, si facevano gli auguri al
festeggiato.
Io ho sempre creduto che le feste, le ricorrenze, toccassero soltanto ai ricchi.
Il tempo passava.
In estate le suore ci portavano in vacanza al mare in una località chiamata Marotta.
Lì ci fermavamo per circa due mesi, poi tornavamo all’istituto e riprendevamo la vita di
sempre, anche se per la maggior parte dei bambini la vita di tutti i giorni è sempre qualcosa
di nuovo, un’avventura.
A volte pensavo ai miei fratelli e sorelle, anche a mio padre: chissà dov’erano.
Mentre mia madre, nonostante l’amassi tanto, stava uscendo dai miei ricordi, con passo
lento quasi per non disturbare, appunto come quando morì.
Il tempo passava e passavano i miei anni.
Arrivò in fretta il mio undicesimo compleanno. Allora dovetti lasciare l’Istituto per essere
riaccompagnato a Roma dalla mia famiglia.
Ancora addio
Addio Istituto S. Lucia, addio Suore.
Addio parrocchia di S. Secondo e anche a te Don Carlo.
Addio signorina Cristina e lacrime di mamma mancata, e a voi “signorine” fumaiole e
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cretine.
Addio Corsa dei Ceri e Palazzo dei Consoli.
Addio a voi sorgenti sulfuree e passeggiate primaverili di bambini virtualmente orfani.
Addio Marotta mare, mi mancheranno i pidocchi presi nel ‘59 e i bagni fatti senza saper
nuotare. Addio cortile grande e battaglie combattute con il pallone.
Addio a voi amichetti miei.
Addio Ettore moccioso e ribelle.
Addio Arcangelo occhiali spessi come fondo di bottiglia e voce bianca invidiata da tutti.
Addio a te Mauro, già filoamericano che inventasti la bomba che uccideva solo comunisti.
Addio Giuseppe, gigante buono e anche a te Fausto che con le tue pisciate notturne ci facevi credere che non eri a letto ma bensì in alto mare.
Addio Aldo, omosessuale appena fiorito, augurandoti non ti sia perso per strada, e a voi
fratelli Sandrini, non si sapeva mai chi dei due fosse l’altro.
Addio Osvaldo balbuziente che tartagliando dicevi di essere stato già tre volte in manicomio, ma se eri appena nato?!
Addio Fiorella bella che nella pubertà ti strofinavi il naso sulla manica della veste, e a te
“mamma” Evelina, rimpiangerò in eterno le tue minestre, addio a tuo figlio Alfredo piccolo
grande uomo.
Addio a te Alessandro, invidiato amichetto di Gubbio con visite domenicali.
Addio Ferruccio, difensore dei più deboli, leggi ancora De Amicis?
Addio Giovanni vanitoso, sei rimasto ancora “io so’ bello, bullo e ballo bene chi e meijo
de me se trucca”?
Addio Salvatore, enciclopedia appena stampata, sapevi tutto, ma non ricordavi mai
“Cavallina Storna”.
Addio dispensa fornitrice di fichi secchi e noci, rubati e distribuiti ai piccoli amici bugiardando che anch’io avevo ricevuto un pacco dono dalla famiglia.
Addio Laika, cagnetta russa nello spazio e prima televisione in bianco e nero.
Addio Gagarin, tu andavi oltre il cielo e il muro si allungava sulla terra.
Addio Lascia o Raddoppia e figurine di calciatori e palline di vetro custodite gelosamente
quali unici nostri valori di scambio.
Addio merende pomeridiane con burro e marmellata.
Addio infantili e innocenti solitari giochi sessuali e cosce di “signorine cretine” spiate
all’ombra del tramonto.
Addio Natali passati normali. Addio fanciullezza.
Addio a voi che mi avete cresciuto nella pazienza e nell’amore, nei bisticci di bimbi appena nati e negli sguardi agrodolci degli adulti.
Addio amici.
Addio Gubbio.
Addio a tutti.
Rannicchiarsi in un angolo e non dare fastidio
Uscendo dall’Istituto ebbi una sensazione nuova. Credevo che, se fossi tornato a casa,
avrei ritrovato i miei fratelli, gli amici che avevo lasciato tanti anni prima, i miei prati, la
marana, i giochi che non avevo più fatto. Credevo che ritornando a Roma avrei ritrovato
ancora un po’ della mia spensieratezza, tutto questo perché nei quasi cinque anni passati in
istituto, senza vedere nessuno della mia famiglia, avevo dimenticato la mia matrigna e altre
tristezze varie.
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Alla stazione Termini già pensavo a Riccardo, ai Pidocchiosi, al mio angolino sotto il sole,
convinto che nulla fosse mutato.
Pensavo alle corse che ancora potevo fare nella campagna sterminata, bellissima in primavera, dietro casa mia in direzione del convento che si ergeva lassù, verso Tor Sapienza.
Pensavo alle mani carezzevoli di mia madre. Forse tutto era rimasto al suo posto. Forse
nulla era cambiato e magari avrei anche ritrovato il mio cane Biancone.
Ma non fu così.
Scesi dall’autobus ci dirigemmo verso casa mia. Camminando mi guardavo intorno sorridente cercando di cogliere, con lo sguardo, qualche viso conosciuto.
L’unica cosa che vedevo invece erano i grandi palazzi grigi, sempre uguali e bui, dove ero
nato e, in parte, cresciuto. Ero contento di essere di nuovo a Quarticciolo, avrei avuto
molti giorni per cercare i miei amichetti.
Mi accorsi che si nasce bambini e il giorno dopo si è subito adulti.
La suora suonò il campanello, dopo qualche secondo la porta si aprì e apparve la “sua”
faccia. La faccia di Carmela.
Facendoci entrare provò a sorridere, ma non ci riuscì molto bene, doveva combattere
contro la sua volontà, contro il disappunto di dover avere di nuovo tra i piedi, e per sempre, ancora figli non suoi.
La suora parlò un po’ con lei, finì il caffè offertole, poi mi raccomandò di fare il bravo e,
sorridendomi, mi fece una carezza tra capo e guancia. Scomparendo lasciò nell’aria il rumore delicato e discreto dei suoi passi.
Avrei voluto correrle dietro, pregandola di riportarmi in Collegio, ma non ce la facevo, lo
sguardo, gli occhi di Carmela, non me ne davano la possibilità, mi bloccavano. Avevo paura
di contrariarla. Mi rannicchiai in un angolo e non detti fastidio.
Finché la sera non tornò mio padre.
In quel lasso di tempo l’unica cosa che lei disse fu che se avessi dovuto fare pipì l’avrei
dovuta chiamare. I suoi occhi “dicevano” che, se non lo avessi fatto, sarebbero stati guai.
Fortunatamente non mi scappò pipì.
Non avrei neanche saputo come chiamarla: Carmela, signora, oppure mamma?
Rimasi rannicchiato tutto il pomeriggio nel mio angolino protettore, passando il tempo a
giocare con un ragnetto.
Quando la porta si aprì intravidi la testa di mio padre.
Dopo avermi dato un’occhiata, sempre con quel suo falso, indifferente sorriso, mi chiese,
come stesse parlando al nulla, se avessi fame. Alla mia risposta affermativa mi fece cenno di
alzarmi e di seguirlo. Mi indicò un posto a sedere in cucina, accanto a lui. Non perché dopo
tanto tempo volesse la mia vicinanza, ma soltanto perché il tavolo non aveva spazio sufficiente per quattro persone. Comunque ero ugualmente contento.
Sentendo un rumore mi girai e vidi “lei”. Per mano aveva un bambino che io non avevo
mai visto. Si chiamava Corrado, era nato durante la mia lontananza. Era bello paffutello,
avrebbe fatto benissimo la pubblicità della Plasmon. Lo vedevo differente da tutti i miei
fratelli e sorelle; noi, sette ragazzi senza arte né parte, magrolini e spelacchiati, lui rotondetto e vestito bene.
La cena, come tradizione, fu a base di pastasciutta e bei pezzi di carne per mio padre. Lei,
come tutte le donne, mangiò solo un po’ di carne e insalatina. Corrado ebbe una bella tazza
di latte con i biscotti, io una bella tazza, con quasi niente latte, molta acqua e un pezzo di
pane di un paio di giorni prima. Mio padre se ne accorse, girò la testa verso di me, poi
guardò Carmela, la girò verso il figlio, infine si rimise a mangiare; in lui c’era un odioso senso di indifferenza. Avrei voluto domandargli, gridando con rabbia, chi fossero quei due che
facevano i padroni a “casa mia”. Avrei voluto gridare che “io” ero proprio “io”, suo figlio
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Ernesto. Ma a che sarebbe servito? Non contavo più di una scopa, di qualcosa che ci deve
essere soltanto per necessità. Non lo feci. Mi sentivo piccolo, piccolo, solo e indifeso, proprio come un orfano. Mi asciugai due lacrime appena spuntate, tirai su di naso
nell’indifferenza di tutti, a parte lo sguardo interrogato dell’altro bambino, e finii il mio
“Luculliano pasto”. Iniziò a nascere in me anche il timore verso mio padre.
Dormii nel ripostiglio, sul materasso vecchio. Sognai il mio collegio, i miei amichetti, le
suore e i dolci. Sognai anche di ritrovare Riccardo e il suo bel sorriso e che i miei fratelli
fossero ritornati a giocare insieme a me, ma all’improvviso un vento ululante e gelido si
portò via tutti.
Nei giorni seguenti mi misi alla ricerca di Riccardo.
Feci a piedi quasi tutto Quarticciolo, passando da dietro il cinema fino alla chiesa, poi dal
primo lotto fino al decimo lotto. Gira e rigira, finalmente lo trovai nell’angolo che divideva
la strada dalle scale del circolo ricreativo dei lavoratori. Era seduto a terra fra altri bambini,
non giocava più con le palline, ma con delle carte che avevano su dei disegni che non avevo
mai visto; assi di spada, sette di coppe, re di danari.
Vedevo anche che ogni qualvolta uno di loro buttava giù le carte, dicendo parole per me
incomprensibili, prendeva da terra tutti i soldi.
Inizialmente ero emozionato, poi facendomi coraggio dissi: «Ciao Ricca’!».
Lui, che sicuramente stava perdendo, alzò la testa un po’ meravigliato e infastidito allo
stesso tempo poi, guardandomi come per capire chi diavolo fossi, esclamò: «Erne’, ma che
sei uscito dal collegio?».
Mi fissò qualche secondo poi con una smorfia quasi di imbarazzo, disse ancora:
«Senti, lasciami in pace che sto a perde’!».
Riprendendo a giocare non mi degnò più di uno sguardo.
I suoi occhi nerissimi erano adesso ancora più scuri di quando lo avevo lasciato e il suo
sorriso buono era rimasto nella marana puzzolente dove, tanti anni prima nei pomeriggi di
aprile, andavamo a giocare tra fango, topi e giuramenti di fedele ed eterna amicizia.
I miei vagabondaggi per Quarticciolo si fecero sempre più frequenti. Dalla mattina alla sera ero fuori casa. Che cosa stavo a farci tutto il giorno in casa? Avrei potuto soltanto giocare con il ragnetto dell’angolino, e aver paura di “lei” solo per aver fatto un respiro troppo
rumoroso.
Era meglio stare fuori dai piedi.
Riccardo, avendo tre anni più di me, era passato ad amici della sua stessa età.
I “pidocchiosi” anche loro erano andati via.
Alla marana, che era ancora lì, non mi andava di andarci da solo.
La Sora Assunta aveva perduto il suo trono. I preti del Don Bosco non facevano più entrare persone esterne, quindi addio pastasciutte, e la via Prenestina aveva ceduto al tram
mandando al quel paese pecore e pastori. Il cinema Corallo, anche lui invecchiato, dava
ormai sempre film vietati ai minori.
Per mangiare mi intrufolavo quasi giornalmente presso i parenti di mia madre. Spesso visitavo anche mia sorella maggiore, la cui suocera, Sora Rosa, non mi rifiutava mai, così come agli altri, un piatto di pasta. A volte rimediavo anche un bagnetto, un pantaloncino e
una maglietta puliti. Una volta la Sora Rosa mi diede un paio di scarpe un po’ larghe e vecchiotte, scarpe del figlio minore che aveva quasi la mia stessa età.
Le lucidai sputandoci sopra, usando olio di gomito e carta di giornale; splendevano che
erano una bellezza e camminavo felice. Non sembravano più larghe, anzi calzavano perfettamente.
Camminando a testa alta sembravo voler dire: Guardatemi tutti, anch’io ho scarpe belle!
A casa cercavo sempre di stare in disparte perché non potevo fare altrimenti; loro, mio
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padre e la mia matrigna, si comportavano come se dessi noia anche con la sola mia presenza. I contatti con Corrado erano rari. A volte mi spiava da dietro la tenda che fungeva da
porta della mia “camera”, poi scappava.
I giorni si susseguivano lenti ed erano sempre gli stessi.
Ero completamente solo. Ormai avevo un’unica speranza; l’uscita dal collegio di mio fratello Tonino di due anni più grande di me.
A papà, non so’ manco segnato
Più i giorni passavano, più mio padre era elegante.
Se prima vestiva con indumenti da operaio, ora invece sembrava una persona importante.
Abito scuro, camicia bianca, cravatta nera e scarpe lucide.
A Corrado venivano comperati giocattoli costosi. Lei ora sfoggiava un orologio bellissimo, sicuramente doveva essere d’oro.
Un mattino, nel ripostiglio dove dormivo, venne a svegliarmi mio padre dicendomi che
sarei dovuto andare con lui. Io, immaginando un po’ d’attenzione nei miei riguardi, mi alzai
svelto svelto, mettendomi in attesa vicino alla porta di ingresso.
Non potevo usare il bagno per lavarmi (i bisogni li dovevo fare fuori casa nel grande condotto di cemento che era stato installato nella marana) altrimenti lei si sarebbe fatta sentire…
Tutto mi era vietato in casa. Proprio tutto.
Sentivo l’odore del caffè e del latte uscire dalla cucina. La fame, come sempre, poteva
aspettare. Non mi interessava proprio nulla, perché sarei uscito solo con mio padre e forse,
stando a tu per tu, lui mi avrebbe detto in gran segreto che si comportava in quel modo per
una ragione che non poteva spiegarmi, ma che tra pochissimi giorni lei e il suo bambino
sarebbero andati via per sempre e lui avrebbe fatto ritornare mia madre e i miei fratelli tutti
insieme, proprio come una volta.
Le parole di mio padre «Svegliati! Che fai dormi ancora!?» urlate con fredda indifferenza e
cinica determinazione dentro il mio orecchio, mi fecero tornare alla realtà.
Salimmo sulla sua nuova auto e, dalla via Prenestina, ci dirigemmo verso la Casilina in direzione di Torre Angela, precisamente alla borgata Andreis.
Durante il tragitto mi spiegò, con molta furbizia, appunto come ha sempre saputo fare
con chiunque, che aveva comperato un pezzo di terra sulla quale doveva costruire una casa
e poi un giorno sarebbe stato tutto di noi figli. Mi raccomandò di non parlarne con nessuno, e di non dire a chicchessia che stavo lavorando con lui. Sarebbero stati guai seri. Io ci
credetti.
Due persone stavano dandosi da fare attorno alle fondamenta. Faceva freddo, c’era un
po’ di nebbia e avevo fame.
Mio padre disse ai due operai che, giacché io quella mattina non ero andato a scuola, sarei
rimasto lì a dare una mano.
Incominciai a portare blocchetti di tufo, pesanti credo quattro, cinque chili l’uno. Dovevo
andarli a prendere a una distanza di circa trenta metri per poi portarli ai due muratori.
Le mie mani iniziarono a gelarsi, e mi stancai molto. Mi sedetti sulla montagna di mattoni;
la campagna grigia di nebbia, il fiato caldo che usciva dalla bocca dei muratori, l’umidità che
mi stava prendendo le ossa, e la brina sui fiori, mi facevano venire voglia di piangere. Non
ebbi il tempo di far uscire la prima lacrima, che mio padre mi venne incontro con una faccia brutta e nera. A forza di calci e strattonate mi alzai, quindi senza pregarlo, ormai era
inutile, mi rimisi al lavoro con .
Dopo qualche ora che guardava e istruiva gli operai, si allontanò con l’auto per poi ritor26
nare a mezzogiorno. Aveva nelle mani un grosso incarto con un panino, per me naturalmente, se no cosa avrebbe detto ai muratori i quali stavano già mangiando? Che suo figlio,
oltre a non andare a scuola, era anche a dieta? Mangiai con ingordigia sotto lo sguardo sorpreso degli operai e la cantilena di mio padre:
«Mio figlio mangia sempre così, anche a casa quando...» Alzando un pochino la voce e dirigendola espressamente verso gli operai, continuò: «...la madre gli dà la pasta con la carne».
Non lo sentivo, continuavo a mangiare svelto, per paura che, se i muratori avessero minimamente girato la testa, lui mi avrebbe tolto il panino.
La costruzione cresceva in fretta e cresceva in fretta anche un muro nel mio cuore. Quando furono finite le pareti esterne, le stuccature interne, messe porte e finestre, ci trasferimmo tutti in quella nuova casa.
Fece, me lo ricordo benissimo, anche agli uomini dei trasporti lo stesso discorso che aveva fatto ai muratori, cioè che giacché quel giorno non avevo scuola, avrei dato una mano a
portare giù i mobili e caricarli sul camion. E io lì a lavorare come un facchino dei mercati
generali.
In un istante di ribellione, avendone piene le scatole e non so con quale coraggio, gridai in
direzione di mio padre: «A papà, ma con tutto ‘sto da fare che c’ho, chi me lo da il tempo
di anda’ a scola? E poi non so’ manco segnato!».
A quel punto lui farfugliò qualche maledizione e, senza dar retta alle occhiate perplesse
dell’elettricista, minaccioso fece cenno di venire verso di me; io scappai a gambe levate.
Su una cosa aveva ragione mio padre; io, come tutti i giorni, non avevo scuola.
Quella fu la prima notte in cui dormii all’addiaccio nel garage non ancora terminato.
C’erano solo le mura, porte e finestre non erano ancora montate, mi riparai dall’aria gelida
con gli stracci e i cartoni che erano sul pavimento di cemento.
Nessuno mi cercò. Era l’inverno 1960. Avevo 11 anni.
In casa non mancava mai nulla
Nel passare dei mesi si può dire che la mia vita si fosse fermata stantia alla borgata Andreis.
Tutti i giorni facevo le stesse cose; lavavo i pavimenti, il bagno, pulivo di qua e di là. Mangiavo poco, male e mi sorbivo la loro cattiveria.
Anche in quella nuova casa era stato fatto un ripostiglio che per comodità di lei, era divenuto “la mia camera”.
C’era il solito vecchio materasso, una coperta bucata anch’essa vecchia, e per mobilio uno
scopettone, un secchio, delle vernici, un ferro da stiro, dei cartoni, insomma tutto ciò che
può esserci in un ripostiglio, compresi insetti e puzze varie.
A tavola non avevo il coraggio di reclamare qualcosa di diverso dal solito, per me c’era
sempre e soltanto un piatto di sola pasta e la sera, come cena, la solita bella tazza con poco
latte e tanta acqua. I miei accenni di ribellione, se così si può dire, erano sempre distrutti
dagli sguardi fulminanti di lei, anzi uccisi nei miei pensieri ancor prima di nascere.
I piatti li dovevo sempre lavare io; d’inverno in cucina, mentre lei e mio padre giocavano a
carte, d’estate, per grazia ricevuta, avrei potuto lavarli fuori, in un angolino nascosto nel
giardino dove era stato fatto mettere un rubinetto per innaffiare i fiori, anche questo era
compito mio.
Il più delle volte lei mi mandava a comperare la carne per suo figlio, doveva essere una
bella fettina di vannino o del fegato fresco, perché lui, piccolino, doveva essere nutrito.
Ed io? Magro come un grissino. Sembravo Pinocchio.
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In casa non mancava mai nulla: era a me che mancava tutto.
Quando era bel tempo avevo la “fortuna” di potermi lavare fuori nel giardino, altrimenti,
se proprio era freddo, lo facevo di nascosto in cucina, durante la notte, riuscendo anche a
lavarmi la testa con il detersivo dei piatti.
Molte volte cercavo di attirare l’attenzione di mio padre facendo finta di esser malato, oppure, dopo aver lavato i piatti, rovesciando il secchio con cui pulivo il pavimento. Non
posso ricordare che lui abbia mai speso una parola a mio favore, a lui ero indifferente,
mentre Carmela mi riservava attenzioni manesche e forti. A lei “piaceva” darmi schiaffi in
faccia, quando accadeva ciò mio padre girava i tacchi e se ne andava. Mentre io, senza lacrime, accettavo e, con l’impronta digitale di tutta la mano di lei sulle mie guance, me ne
andavo nella mia “cameretta”.
Anche quella volta che mi ferii espressamente, si comportarono come se io, vittima, avessi
meno diritti di uno scolapasta.
Stavo lavando i piatti come al solito. Per attirare l’attenzione di mio padre presi un mattone e, chiudendo gli occhi, me lo diedi con forza appena sotto il ginocchio. Il dolore fu terribile e il sangue incominciò a uscire veloce. Contemporaneamente lasciai cadere dei piatti
in terra e mi misi a urlare. Lei fu la prima ad affacciarsi dalla porta, mentre la voce di mio
padre, dietro le sue spalle, chiedeva cosa fosse accaduto.
Dopo aver dato un’occhiata attorno, lei iniziò come sempre a sbraitare in siciliano che ero
uno sfaticato, un mangiapane a tradimento. Che mi doveva rinchiudere per sempre e che
avevo fatto apposta a rovinarle il “servizio buono”.
Mio padre, ritto sulla porta, guardava me, poi la mia gamba, poi i piatti, quindi, puntandomi l’indice, disse: «Pulisci e sbrigati, che dopo facciamo i conti».
Poi rivolto a sua moglie: «Andiamo Carme’. Facciamoci una partita a carte che a quel disgraziato ci penso io».
Dopodiché rientrarono e sentii l’odore della moka che faceva il caffè. Mi fasciai la gamba
con uno straccio trovato lì attorno.
Così finì il mio “attentato all’indifferenza paterna”.
Quando mi ordinava di andare a comperare nuove bombole di gas, dovevo caricare quelle
vuote, tre o quattro, su una carriola e portarle, cercando di non farle cadere, ma cadevano
spesso, fino al centro della borgata.
Lì fortunatamente c’era il figlio del proprietario che mi aiutava sia a scaricare, sia a caricarle. Per me era faticoso trascinare in equilibrio quel peso, ma a ogni caduta delle bombole
mi dovevo fermare, poi, aiutandomi con i piedi e le ginocchia, rimettevo il carico nella carriola.
Non era mica facile, perché appena messa la prima bombola e accennato a caricare la seconda, la carriola, come volesse stare dalla parte di Carmela e farmi dispetti, cadeva
dall’altro lato.
Ricordo quella volta a Pasqua quando uscirono tutti e tre, lui, lei e il figlio, lasciandomi
solo, chiuso fuori casa. Mio padre mi disse che sarebbero tornati nel pomeriggio e che se
avressero fatto tardi mi sarei dovuto rinchiudere nel garage.
Gironzolai tutto il pomeriggio nei paraggi. Spiai altre abitazioni e giardini. Vidi bambini
felici giocare tra loro, mangiare merende imbottite, vidi genitori sorridenti, e gare di pallone.
Salii su un albero, presi delle mele acerbe e le mangiai. Rincorsi una lucertola, la feci prigioniera, lasciandola andare soltanto dopo che le ebbi mozzato la coda. Tirai sassi alle rane.
Quando non ebbi più voglia di giocare nel canale, essendo anche stufo di girare attorno alle
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case, mi assalì la curiosità; mi arrampicai sulla finestrella del bagno che rimaneva sempre
aperta. M’intrufolai nella casa, che per me era un luogo sconosciuto nonostante avessi contribuito alla sua costruzione. Dopo essermi calato all’interno con infantile sveltezza e circospezione, rovistai in tutti i cassetti e armadi per trovare la scatola dei biscotti che lui, loro
figlio, mangiava la sera insieme al latte.
La trovai nella cassettiera in camera da pranzo.
Non li mangiai tutti, ne presi soltanto tre o quattro poi, mettendomeli in bocca uno dopo
l’altro, rimisi a posto la scatola. Passando dal corridoio, la curiosità mi aggredì di nuovo,
aprii la porta della camera del figlio e rimasi sbalordito: c’era un bel lettino dalle spalliere di
legno lucido, una bella coperta sopra tutta ricamata di fiori e uccellini, un piccolo tavolo che
poteva servire da scrittoio, una sedia ai piedi del letto.
Sui muri c’erano quadri che raffiguravano pupazzi visti in televisione, e molti giocattoli
sparsi qua e là. A capo del letto, sulla parete, c’era una foto in cui si vedevano ritratti solo
loro tre. Mi misi a piangere dalla rabbia, pensando tra me che prima o poi avrei ucciso quel
bambino e sua madre, perché loro avevano “rubato” mio padre.
Scavalcai di nuovo la toilette e mi ritrovai fuori con la speranza che, al loro ritorno, “lei”
non si accorgesse della mancanza dei biscotti.
Purtroppo se ne accorse.
La sera non appena aprì la porta fece un urlo, ma un urlo talmente forte e animalesco che
fu come se avesse trovato la casa completamente svaligiata.
Mio padre sentendo l’urlo di Tarzan corse in aiuto. A voce sempre più alta lei gridava:
«Quel disgraziato di tuo figlio ha rubato cose che non gli appartengono. Si è mangiato
tutti i biscotti. Con cosa cenerà stasera mio figlio!?».
Poi, facendo la sceneggiata, come per dargli più colore e drammaticità, e dopo essersi
buttata a terra come un’invasata, iniziò a schioppettare in siciliano: «Oh...povero figlio mio,
oh... povero figlio... ’stu disgraziatu del figlio tuo s’arrubbò tutti i biscotte du’ piccireddu...io
nun za’ fazzu cchiu co ‘stu magna pane a tradimento. Lo devi arringhiudere... lo devi. Io
nun za’ fazzu cchiu!».
Ed ecco che non riuscii a nascondermi nel garage. Mio padre fu più svelto di me e mi prese. La sua cinghia di cuoio si abbatté sulle mie natiche, che per la bisogna lui aveva denudato tenendomi fermo per un braccio. Strillavo non soltanto per il dolore, ma anche sperando che avesse un minimo di pietà. Non posso dire che smise di picchiarmi per le mie
implorazioni, comunque smise.
Il didietro infiammato mi rimase a lungo, per cui, nelle due settimane successive, fu difficile sedermi. Mangiavo in piedi.
Carme’, l’Onorevole mi ha dato i soldi
Una sera, ricordo ancora chiaramente, mio padre rincasò più tardi del solito. Dalla mia
cameretta udivo tutto. Si sentì l’auto che entrava nel garage e dopo un paio di minuti si aprì
la porta. Lui aveva sul viso un sorriso raggiante di felicità. La sua espressione era quella di
una persona che aveva vinto il totocalcio.
Chiamò “lei” e, tirando fuori da una grossa busta bianca un mazzo di banconote, che
messe assieme avrebbero formato la Treccani completa, le disse: «Carme’, l’Onorevole mi
ha dato i soldi».
Lei dopo aver sgranato gli occhi davanti a tutto quel ben di Dio, lo guardò di soppiatto facendogli cenno di non parlare, quindi dopo essersi accertata che io dormissi, se lo portò in
cucina.
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Mi alzai con calma e a passo felino mi avvicinai alla porta della cucina per poter vedere dal
buco della serratura tutti quei soldi sparsi sul tavolo, sparsi come non avrebbe saputo far
meglio neanche Paperon De Paperoni.
Lei preparava da mangiare mentre lui contava il danaro.
«Sono ventitré milioni esatti che mi ha dato l’Onorevole Il Sindaco, anche a nome di
Bubbico e Sbardella, come ringraziamento per i servigi svolti per il nostro partito».
Poi, dopo averle raccomandato di nascondere nel migliore dei modi quel bel gruzzolo,
disse ancora:
«E sai anche chi c’era insieme all’Onorevole? Niente di meno che Crociani, l’amico del
Presidente, che mi ha assicurato che tra un paio di mesi ci sarà una nuova sanatoria edilizia,
quindi per questa casa possiamo stare tranquilli. Comunque c’è l’avvocato che pensa a tutto».
Mio padre, non so come e né con quale titolo di studio, fondò un partito politico chiamato “Uomo del Popolo-Diritti e Doveri”.
Lui, detto il Commendatore, era il Presidente, Vincenzo “tre dita” era il ragionierefactotum, e il fratello della mia matrigna, Salvatore, carabiniere, era una garanzia istituzionale. Ma la cosa più assurda è che il Presidente Onorario di questo partito era niente di
meno che Aldo Moro, naturalmente all’oscuro delle intenzioni truffaldine del Commendatore e dei suoi gregari.
Spesso al seguito dei tre, papà, Salvatore e il Ragioniere, c’ero quasi sempre anch’io. La
mia funzione era quella di garzone tuttofare e guai se avessi detto ad alcuno che ero il figlio
del Commendatore! Si sarebbe vergognato di me; un ragazzo con un ciuffo nero di capelli,
magro e con vestiti da disastrato.
Toccava a me aiutare a montare e smontare le impalcature ogni volta che dovevano fare
un comizio. Io dovevo andare al bar e comperare l’acqua minerale (spesso i proprietari non
me la facevano pagare, al “Commendatore” veniva offerta).
Dovevo andare, non importa che tempo facesse, ad affiggere manifesti del partito nelle
borgate dove si sarebbe svolto il prossimo comizio. Per questo lavoro mio padre mi dava i
soldi precisi per l’autobus. Con il secchio della colla, il rotolo dei manifesti 60x40 e un pennello grande, mi avviavo senza voglia per i quartieri in zone periferiche della città. Una sera
toccò a Primavalle. Arrivai che potevano essere le dieci. Dovevo affiggere trecento manifesti dove mi aveva raccomandato il Ragioniere: accanto alle saracinesche degli alimentarti,
delle macellerie, delle farmacie, sui muri delle chiese, accanto ai circoli ricreativi e in tutti i
luoghi di grande passaggio.
Avevo già affisso una decina di manifesti. La pioggia, insieme al vento, arrivati
all’improvviso, non mi davano pace. Ero lì a combattere con carta, colla e pennello, quando
mi sentii afferrare per le spalle.
«Ah! Eccolo quello che ha attaccato i manifesti davanti alla nostra sezione!».
Erano due ragazzi più grandi di me, sia d’età che di fisico. Quello che aveva parlato mi
prese per una manica girandomi violentemente. Il primo schiaffo mi fece scuotere la testa
nello stesso modo in cui i cani si liberano dell’acqua. Il compagno di quello che mi aveva
schiaffeggiato diede un calcio al secchio con la colla, facendolo rotolate qualche metro in là.
«Qui non ci devi più venire, capito?», disse quello che mi teneva e che nel parlare mi sputava in faccia.
«Questa borgata è nostra, è comunista e rimarrà sempre rossa».
Io non capivo un accidente di quello che diceva.
La sua faccia era cattiva. Sembrava un cane con la rabbia. Il suo spintone mi fece rotolare
in terra. I manifesti andarono per fatti loro. I due scomparvero e io, inzuppato fradicio e
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con un piccolo rigagnolo di sangue al lato della bocca, dovetti aspettare l’autobus sotto la
pioggia per una ventina di minuti.
Fortuna che avevo ancora i soldi per pagare il biglietto. Rimasi per tutto il tragitto in piedi,
starnutendo. Qualcuno dei passeggeri mi guardava sospettoso.
«A ragazzi’, che hai fatto? Chi t’ha menato?».
La vecchia signora, preoccupata, continuava a fissarmi aspettando la mia risposta.
«Niente signo’. Sono caduto correndo per non perdere l’autobus».
«Sicuro?! Sicuro che stai bene e che nessuno t’ha menato?».
«No signo’, nessuno m’ha menato. Non si preoccupi».
«Mah! Se lo dici tu…».
Si girò rimanendo a guardarmi dallo specchietto retrovisore posto sulla testa dell’autista.
Cosa avrei raccontato a mio padre? La verità! Cos’altro?! Mi avrebbe picchiato ancora?
Chi se ne frega!
Dopo aver sentito la storia, senza chiedere se avessi dolore, se avessi qualcosa di rotto, se
avessi freddo o fame, o dove fossero finiti manifesti, secchio, colla e pennello, disse soltanto:
«Là in cucina c’è un po’ di pasta».
Il suo sguardo era arrabbiato. Non avevo finito il lavoro.
Carmela mi osservava , dal piccolo spiraglio tra la porta e il telaio dalla stanza da letto.
Mangiai, lavai la pentola dove poco prima c’era la pasta, pulii il pavimento e mi ritirai nella
mia cameretta. Appesi i vestiti allo scopettone in modo che si asciugassero, mettendomi
sotto la coperta soltanto con le mutandine strizzate, ma ancora bagnate.
Generalmente i comizi venivano fatti nelle piazze delle borgate. Mio padre, rivolto al
pubblico dal palco, diceva che le borgate erano il “miglior pascolo per le sue parole, per la
sua onestà, per il partito” e “che troppa acqua è passata sotto i ponti”. Erano sempre le
stesse frasi fatte, inventate dal Ragioniere. Parole di cui mio padre, nella sua ignoranza, non
poteva capire il significato.
Se per caso, durante un comizio, iniziava a piovere, loro tre andavano subito nel Bar più
vicino, mentre io dovevo nascondermi in auto o sotto il palco, in attesa che loro continuassero il comizio o sgombrassero.
Un giorno dovetti affiggere tantissimi manifesti in tutta Centocelle, Quarticciolo, Tor de
Schiavi e Villa Gordiani.
Quella Domenica ci fu comizio al cinema California a Centocelle.
La sala era gremita. Le locandine dicevano che sarebbe stato presente sul palco anche
l’Onorevole Il Sindaco per dar man forte al Partito dei Diritti e Doveri.
Mio padre non sapeva parlare, era il Ragioniere che gli scriveva i termini più difficili e gli
consigliava di nominare sempre gli stessi politici che avevano fatto l’Italia, quali De Gasperi
e Di Vittorio. Di quest’ultimo, diceva con orgoglio che era stato un suo “caro amico”, che
erano “cresciuti assieme a Cerignola”, e che “avevano studiato ambedue all’Università di
Foggia e Bari”.
Mio padre si fidava del Ragioniere e questi doveva fare in modo che la folla credesse che
veramente il Commendatore fosse un politico, una persona colta, istruita, una persona per
bene.
Mio padre, a Cerignola, ha frequentato la seconda elementare. Non è mai stato promosso
in terza perché era sempre assente. A malapena sapeva scrivere il suo nome.
Il comizio, al cinema California, andò avanti tra paroloni e applausi, poi ci fu un film gratis per tutti, voti per l’Onorevole e soldi contanti, sottobanco, a mio padre.
Mi trovavo nel magazzino del cinema, appisolato su delle vecchie sedie le cui spalliere mi
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coprivano e nessuno mi poteva vedere.
«Commendatore, questi sono i soldi, ne faccia buon uso e mi raccomando i nostri iscritti,
voglio più voti possibili…».
«Non si preoccupi Onorevole, il nostro partito è benedetto dall’alto. Sono sicuro che lei
sarà il nuovo Sindaco di Roma».
«Grazie Commendatore. Se ha bisogno di me mi chiami pure».
«Grazie a Lei Onorevole e a presto».
Dalla mia postazione vidi la busta passare da una mano all’altra e, tra mille riverenze, il
magazzino si svuotò.
Uno da capo, uno da piedi
Era tempo che mio fratello doveva ritornare a casa. Sentivo quasi tutti i giorni il vociferare di mio padre e “lei”, ed erano sempre le stesse discussioni.
“Lei” che si lamentava già abbastanza della mia presenza, una volta tornato anche Tonino, sarebbe uscita pazza.
Spesso rinfacciava a mio padre che gli accordi presi prima della nascita di suo figlio, dovevano essere rispettati, altrimenti, lei e suo figlio, se ne sarebbero tornati in Sicilia e lui non li
avrebbe mai più rivisti.
Le parole ricorrenti erano sempre le stesse: «Carme’... non ti preoccupare, vedrai che li faremo di nuovo rinchiudere uno per uno. Stai tranquilla che quando usciranno Mimmo e
Gianni, con una telefonata a chi so io, faremo rinchiudere anche loro. Adesso pensiamo a
quei due».
Tonino fu accompagnato a casa da un prete che Carmela liquidò garbatamente con un
grazie falso e secco. Senza neanche farlo entrare in casa od offrirgli un bicchiere di acqua,
lo ringraziò richiudendo la porta alle sue spalle, poi si diresse, sguardo corvino e mani ai
fianchi, verso di noi.
Mio fratello passò dal sorriso innocente e infantile di felicità per essere di nuovo a casa, a
una espressione meravigliata per la fredda accoglienza riservatagli, per poi essere trafitto dal
senso di estraneità che lei emanava dai suoi occhi freddi, che anche lui, come me, aveva
dimenticato.
“Lei” non ci fece la predica, ma ci diede degli ordini da prigione o da caserma.
Lo fece in modo talmente autoritario e cattivo che noi due rimanemmo impietriti.
Grande e traumatica fu la sorpresa di mio fratello quando provò a chiedere, con un accenno di ribellione, dove fosse nostro padre; venne interrotto a mezza frase da uno schiaffone. Mettendosi la mano sulla guancia dolorante, mi guardò con occhi pieni di lacrimosi
interrogativi, stringendosi in silenzio a me.
«Allora ve lo dico per l’ultima volta e aprite bene le orecchie. Non voglio che stiate in casa
e se proprio ci dovete stare rimanete sempre nel ripostiglio e non uscite mai a meno che
non vi chiami io, se provate a fare un benché minimo rumore saranno guai seri. Con mio
figlio non ci dovete né parlare né giocare. A tavola mangerete quello che vi darò, e senza
fiatare. Dormirete nel ripostiglio, uno da capo e l’altro da piedi, “come avete sempre dormito” (frase detta con disprezzo). Quando andate al bagno fate in modo di sporcarlo il
meno possibile e comunque pulitelo sempre. Per lavarvi, se non potete andare fuori, fatelo
in cucina e lasciate tutto a posto. Dopo che tutti quanti avremo mangiato, dovrete sparecchiare, lavare i piatti, strofinare in terra e se minimamente dovessi sentire un lamento uscire
dalla vostra bocca vi farò il culo nero di botte e se non vi basterà lo dirò a vostro padre...»,
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alzando la voce ancora di più, con arroganza, continuò dicendo qualcosa che ci fece estremamente male: «...perché io non sono quella bottana di vostra madre».
Fissandoci negli occhi con un movimento ancor più catastrofico di un terremoto, terminò: «Adesso andate nel ripostiglio e non uscite fino a mio ordine».
Ci ritirammo sconfitti, impotenti, con la coda tra le gambe.
Quando mio padre seppe che anche Tonino era ritornato, lo sentimmo esclamare: «Ah! è
già qui!?».
La sera stessa, mentre eravamo a tavola davanti alle solite belle tazze con poco latte e
molta acqua, disse che era contento che anche Tonino fosse ritornato così, giacché aveva
intenzione di costruire ancora una casa sul terreno rimasto, ci avrebbe impiegato per iniziare le fondamenta già dal giorno dopo.
Per mio padre non sono mai esistiti né architetti, né geometri, né scrupoli, né leggi. Per lui
bastava un quadrato sul terreno fatto con un pezzo di legno e le misure erano prese, le regole fatte e le leggi rispettate.
Nella nostra “cameretta” eravamo al sicuro finché dovevamo andare al bagno, oppure in
cucina per prendere un bicchiere di acqua. Bisognava trattenersi e aspettare la notte quando
tutti dormivano.
Facemmo anche un programma di ciò che dovevamo fare giornalmente. Giacché mio
fratello si sentiva un po’ responsabile nei miei confronti, essendo più grandicello, disse che
non era il caso di preoccuparci, ci avrebbe pensato lui a fare in modo che tutto si svolgesse
senza intoppi.
Nei giorni seguenti iniziammo a scavare le fondamenta della casa che doveva esser costruita. Il lavoro più pesante lo svolgeva lui, mentre io con la pala smottavo la terra.
Eravamo soli a lavorare.
Quella mattina non c’erano ancora muratori, quindi andavamo un po’ lenti con i metraggi
giornalieri che ci aveva imposto nostro padre. La colpa era soltanto della nostra fanciullezza
che il più delle volte ci faceva smettere di spalare per darci il tempo di giocare con i topi del
canale che scorreva lì vicino e che serviva anche come pozzo d’acqua.
Stavamo giocando a chi faceva la pipì più lunga, mirando all’altra sponda del canale.
Il sole stava salendo sempre più in alto e la giornata si presentava calda. Si udiva soltanto
il cinguettare degli uccelli. All’improvviso si sentì un urlo alle nostre spalle, troppo riconoscibile per non sapere di chi fosse: «Disgraziati, ecco come lavorate quando non c’è vostro
padre, ma giuro su San Corrado che questa sera glielo dico e vi farò riempire di cinghiate!».
Ci ricomponemmo alla svelta e ricominciammo di nuovo a scavare. Ormai mio fratello
faceva tutto lui. Scavava, spalava, sudava e io a guardare, perché diceva che da solo lavorava
meglio e poi, così facendo, avremmo recuperato un po’ di metri e magari “lei” non lo
avrebbe detto a papà, o perlomeno, anche se glielo avesse detto, “lui” non ci avrebbe picchiati perché un bel po’ di lavoro era stato fatto.
Era pomeriggio iniziato, noi stavamo ancora a combattere con quelle fondamenta, quando sentimmo la macchina di nostro padre arrivare. Dopo qualche minuto si sentirono le
urla isteriche di Carmela, che urlava contro di noi le solite frasi, sempre schioppettate in
dialetto per fare effetto “Vespri Siciliani”.
«San Corrado miu... me sento mali, aiutame... iu nun za’ fazzu ‘cchiu...! Li devi rinchiudere
subito a ‘sti due, e si nu lo fai me ritiro addomani stesso a Noto co’ ‘u picciriddu. iu nun za’
fazzu cchiu!».
La porta si aprì improvvisa e la figura minacciosa di “lui” si presentò imponente. Teneva
nella mano destra la cinghia dei pantaloni, che io avevo già assaggiato. Avvicinandosi lentamente verso di noi, volteggiava l’arma nell’aria come una fionda. Io mi nascosi dietro mio
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fratello in attesa che desse il via per la fuga, ma non lo fece.
Mentre mio padre si avvicinava svelto e minaccioso, Tonino piantava sempre più i suoi
piedi nella terra fangosa. Capii che era pronto alla battaglia e io, stringendomi di più al suo
corpo, gli dicevo: «Guarda che già mi ha picchiato una volta con quella cinghia. A lui non
gli frega più niente di noi. Perché non scappiamo?».
«Statti zitto e non ti muovere» fece con voce tritata dai denti.
Mio padre si parò davanti a lui che lo guardava senza battere ciglio con un’espressione di
sfida negli occhi.
Quando fu a non più di due passi da noi, alzò la mano in cui teneva la cinghia facendo il
gesto di colpire ma, tentennando, si fermò, rimanendo con la mano in alto, come fosse
paralizzata.
Mio fratello era pronto a reagire, a ribellarsi, difendermi e anche prendersi tutte le cinghiate.
I suoi piccoli muscoli erano tesi in paurosa attesa. Le lentiggini, che gli avevano sempre
marcato il viso con dolcezza, ora sembravano tipici dipinti di guerra indiani. I suoi capelli
rossi, scomposti e sudati al sole, erano adesso di fuoco.
Si stavano già combattendo. Gli sguardi, da ambedue le parti, erano terribili mentre si
scambiavano fulmini penetranti. La mano di mio padre (sembrava tremasse) stringeva con
spasmi la cinghia, mentre mio fratello non cambiava le sue intenzioni. Il tutto durò una
manciata di secondi che sembrarono un’eternità. Le nuvole coprivano a scatti il sole.
Come fosse stato colpito da un pensiero devastante, mio padre abbassò la mano con cui
teneva la cinghia, poi, facendo finta di essere comprensivo e imbarazzato, in effetti era rimasto sbalordito dalla ferma e determinata reazione di Tonino, che lo aveva sconfitto, umiliato dalla battaglia persa ancor prima di iniziare, ci disse:
«Sentite, lo so che quella non è vostra madre, ma purtroppo io ormai l’ho sposata e avete
anche un nuovo fratello. Io non ci posso fare nulla e se lavorerete senza farla arrabbiare
potete stare qui. In fondo non è cattiva... se non date fastidio. Adesso andate a casa, lavatevi che poi mangeremo».
Il timbro morto della sua voce, l’espressione spenta degli occhi, il disamore che sprigionava tutto il suo essere, l’indifferenza, la sua miserabile vigliaccheria, ci fecero capire che quel
giorno perdemmo per sempre nostro papà. A cena, vicino alla solita pasta, questa volta
c’era anche un pezzo di carne.
Pane e legnate
Passò qualche giorno e capitò ancora un guaio per la nostra naturale testardaggine di essere ragazzi. Fu quando nostro padre telefonò per dire che non sarebbe venuto a pranzo e
che quindi non avrebbe potuto portare la carne per Corrado.
Lei ci chiamò dicendo che per un’oretta potevamo smettere di lavorare. Saremmo dovuti
andare in centro a comperare un poco di riso e un pezzo di carne per il figlio e dovevamo
fare presto in quanto il bambino aveva fame.
E noi no!? Comunque, presi i soldi, ci incamminammo.
Arrivati nella strada dei negozi io, che avevo avuto i soldi in consegna, titubavo
nell’entrare nella macelleria. Non avevo nessuna intenzione di comperare riso o carne.
Domandai a mio fratello se era d’accordo che con quei soldi ci fossimo comperati un panino con la mortadella. Quando mi chiese che cosa avrei detto a “lei”, essendo ritornato senza carne né riso, gli risposi che non era un grande problema. Avrei detto semplicemente
che i soldi li avevo persi.
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Ci fermammo davanti al negozio di salumeria. Entrati ci facemmo fare dal droghiere due
panini nei quali il pane quasi non si vedeva. Era più companatico che altro. Poi, dopo aver
mangiato seduti su di un piccolo muretto, senza tener conto del tempo che passava, con il
rimanente dei soldi ci comperammo anche due aranciate.
Dopo aver goduto di quelle leccornie era ormai arrivato il tempo di ritornare a casa, anche
se non eravamo poi molto convinti di farlo. Comunque ci facemmo coraggio.
Arrivati che fummo, la tragedia si consumò tra urla di disperazione e rabbia da parte sua
per non avere la carne di vannino da dare al figlio e per essere stata beffata così ingenuamente da due bambini di cui non doveva fidarsi.
Si precipitò in cucina, prese da un angolo un manico di scopa e correndomi dietro come
una forsennata cercò di colpirmi, senza riuscirci. Correvo snello con le mie gambe magroline. Finché non inciampai in una sedia, quindi, cadendo in terra, non ebbi vie di scampo.
“Lei”, con un sorriso vittorioso da strega, scatenò su di me la sua crudele rabbia.
Mio fratello, fermo in un angolo, guardava la scena impotente. Cosa avrebbe potuto fare?
Prendere un coltello e ucciderla?
Provò a fermarla prendendole il braccio con tutte e due le mani e tirandolo all’indietro.
Lei si divincolò come una belva, continuando a urlare mentre il bastone si abbatteva di
nuovo sulla mia schiena. Faceva molto male. All’improvviso lasciò cadere il bastone, si
chiuse di scatto la porta della cucina dietro le spalle gridando selvaggiamente di andarcene
via e subito.
Le sue urla non potevano essere sentite da alcuno perché la casa era in aperta campagna e
non esisteva altra abitazione nel raggio di 500 metri.
In un lampo fummo fuori e dopo aver corso per una decina di minuti ci fermammo col
fiato alla gola. Sembrava che i nostri occhi volessero uscire dalle orbite e scappare anche
loro, mentre il nostro cuore batteva talmente forte che avrebbe potuto esplodere, per di più
a me faceva male la schiena per le bastonate ricevute.
Vita randagia
Stava facendosi buio e l’umidità serale iniziava a farsi sentire. Per fortuna arrivammo in
una casa in costruzione. Da quelle parti ce n’erano tantissime, quasi tutte abusive, una
molto distante dall’altra. L’unica che aveva un tetto non ancora totalmente coperto fece al
caso nostro, anche se soltanto un angolo poteva darci riparo durante la notte.
Piano piano entrammo, dentro non c’era nessuno. Sparse un po’ ovunque si potevano
vedere delle coperte ammucchiate, come quelle che occorrono per proteggere i mobili
quando si deve traslocare.
Così, a pancia vuota, con la consapevolezza che eravamo in salvo, ci preparammo un letto, addormentandoci poco dopo tra coperte polverose, cartoni e fame.
Rimpiangevamo il collegio.
L’acqua che sembrava provenire dalla vasca da bagno dei sogni, era in realtà pioggia.
Nel cuore della notte ci svegliò un acquazzone terribile che ci fece rimanere svegli e inzuppati come spugne per quasi il resto della notte. Ci riappisolammo, senza coperte, con la
testa tra le ginocchia.
Il mattino seguente molto presto ci svegliarono i rumori di automezzi che stavano facendo i lavori fuori quella casa.
Alzandoci in fretta, sgattaiolammo verso l’uscita, prendendo poi la strada che ci avrebbe
portati nella nostra borgata.
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La campagna era umida, il sole sorgeva dando vita alle cose e i muschi nebbiosi affievolivano la vista.
Non ricordo che sorta di vestiti avessimo o quali scarpe, sicuramente residui del collegio,
lavati e rilavati nel periodo in cui stavamo a “casa”, comunque indumenti di certo molto
malmessi.
Saremmo andati in giro per Quarticciolo, avremmo avuto la possibilità di andare da nostra
sorella Nella e, se lei non avesse potuto ospitarci, avremmo trovato rifugio da qualche altra
parte.
Male che fosse andata avremmo dormito in una delle tante case ancora diroccate o in costruzione che erano sparse nei dintorni della borgata.
Prendemmo la Prenestina, più conosciuta da noi, che era l’unica via che dalla borgata Andreis ti portava diritta al Quarticciolo. L’alba si stava diradando e noi ci sentivamo liberi di
non fare cose che non avremmo mai voluto fare, come scavare fondamenta o mangiare
latte annacquato.
Camminavamo ai bordi della strada che dalla Borgata Andreis si dirige verso Settecamini
per poi scendere da Tor Sapienza verso Quarticciolo. Il traffico si faceva sempre più intenso in direzione di Roma.
Arrivati ci dirigemmo verso il luogo dove sicuramente avremmo trovato qualcuno dei nostri vecchi amici, e comunque quella era la nostra borgata, lì ci sentivamo a casa.
Arrivati davanti al cinema Corallo vedevamo i ragazzi, che anni prima erano stati bambini
come noi, ora grandi. Er Barone de Quarticciolo giocava a Nizza ed era il migliore. Franco
Stirapalle, con tendenze un po’ strane, era sdraiato in malo modo sul muretto d’angolo, a
fianco al piccolo bar del cinema.
Maialetto si era comperato un motorino in società con Roberto “er monco”, claudicante
sin dalla nascita.
Nessuno si interessava a noi, quindi ci allontanammo, iniziando a fare un giro tra i palazzi
che ci videro bambini. Erano stati rimessi a nuovo. Non ricordavamo più il colore originale, ma in effetti erano più belli del grigiore di una volta.
Lo sterrato, che separava un palazzo dall’altro, tanti anni prima nudo e freddo ora aveva
accolto fiori colorati di molte varietà. Così la povertà che si respirava nell’aria nel tempo
passato, rispecchiando lo stato di chi abitava lì, adesso aveva sembianze di benessere.
C’erano più vita, colori, pulizia, più odori di cucina. C’era molto di più... ma mancavamo
noi.
La grande casa di via Lucera, perennemente in costruzione, divenne per qualche tempo la
nostra dimora. Da lì nessuno ci avrebbe mandati via, in quanto i lavori erano stati bloccati
già da molto tempo e la casa abbandonata a se stessa e agli straccioni.
Rubandole dal cassone di un camion, rimediammo delle coperte e, con due brande da
letto trovate per strada, facemmo il nostro piccolo rifugio.
Di giorno ci avventuravamo verso altre borgate vicine o nelle campagne che a quei tempi
non erano ancora state invase da costruzioni.
Mangiavamo elemosinando tra parrocchie e conventi, c’era sempre qualcuno che, dopo
aver richiesto una preghiera, sempre il Padre Nostro, ci dava qualcosa da mettere nello
stomaco. Il tutto si svolgeva tra Quarticciolo, Centocelle e altre borgate limitrofe. A volte,
come prime incursioni fuori dall’atmosfera di borgata, davamo un’occhiata al centro di
Roma. Andavamo anche a trovare nostra zia (quella delle baracche, sorella di nostra madre)
che ci dava il suo piccolo aiuto alimentare facendoci capire che anche lei aveva dei figli e
che la nostra non doveva diventare un’abitudine giornaliera. Questo accadeva anche quando chiedevamo aiuto a qualche altro parente, oggi posso capire il perché.
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A Quarticciolo ci andavamo solo per dormire. Più che altro andavamo in giro senza far
nulla, o rimediare ogni giorno “cose” da vendere per guadagnare due lire.
Scoprimmo gli “scarichi” durante le nostre lunghe camminate nelle campagne.
Gli “scarichi” non erano altro che i depositi dell’immondizia di tutta di Roma. Lì vi si
poteva trovare di tutto. Ci andavamo giornalmente, rovistavamo tra sacchi unti, sporchi e
puzzolenti, pieni di tutto ciò che veniva buttato perché avanzato, usato o rotto. Oltre tutti
gli immaginabili rifiuti casalinghi, in mezzo a tutto quel sudiciume, si poteva trovare anche
qualcosa da mangiare; mele guaste ripulite e subito mangiate. Flaconi di medicine quasi
vuoti con ancora qualche pillola o un po’ di sciroppo ingoiati senza pensarci, in quanto
dolci. E poi barattoli vuoti di marmellata e nutella ripuliti fino in fondo con dita maestre.
Ossa di bistecche che rosicchiavamo con talento fin quando non fossero diventate fini come stuzzicadenti. Avanzi di pranzi buttati che noi riciclavamo con gusto.
Negli “scarichi” vi era proprio tutto; dalle pentole di alluminio, buttate perché anch’esse
ormai vecchie, ai sacchi pieni di scarpe e vestiti usati (avevamo a volte la possibilità di trovare anche qualcosa adatto a noi) e poi buoni sconto tolti con pazienza dai barattoli vuoti
dei pelati “Cirio Punti Cirio” che noi andavamo a vendere a un piccolo negozio di alimentari che si trovava alla borgata Alessandrina.
Campavamo così, vendendo alluminio allo straccivendolo e i punti Cirio e quando raggiungevamo una “bella cifra” ci compravamo una busta di latte, in un piccolo bar a fianco
del cinema Platino, di fronte la piazza adiacente l’Istituto San Felice a Centocelle, dei pasticcini chiamati napoletani, fatti con tutti gli avanzi di pasticceria. Poi di corsa, dentro il cinema: Jerry Lewis e Ercole (Steeve Reeves) erano i nostri beniamini. Quando si faceva tardi, quasi sempre vedevamo il film due o tre volte, andavamo a dormire nei vagoni dei treni
nella vecchia stazione di Centocelle, di fronte l’aeroporto.
Capoccione, quello dei punti Cirio
Un giorno Capoccione, l’autista del camion della nettezza urbana a cui non interessava la
nostra presenza nello scarico, parcheggiò il suo automezzo vicino al recinto dei maiali.
Mentre noi eravamo nel capannone a cercare tra gli stracci qualcosa che poteva esserci utile,
ci chiamò dicendo:
«A rega’, io m’assento una mezz’oretta. Date un’occhiata che non viene nessuno a rubbà
che poi ve faccio smucina’ in mezzo alla mondezza?».
Noi rispondendogli che non si doveva preoccupare perché avremmo fatto buona guardia,
riprendemmo il nostro da fare.
Quando lo vedemmo scomparire dietro gli alti cespugli che separavano la strada dallo scarico, quasi all’unisono dicemmo: «Voi vede’ che Capoccione va a fa l’amore con Nerina?
Chissà quanti punti Cirio raccoglie in una settimana».
Non ricordo di chi fu l’idea, ma andammo guardinghi vicino al camion della spazzatura.
Mio fratello mi disse di fare da palo. Dopo essersi accertato che la giacca della divisa di
Capoccione fosse nella cabina, disse: «Erne’, fai bene la guardia che io guardo se dentro la
giacca c’ha i punti Cirio».
Salì piano piano, come se non volesse svegliare quel mostro di camion. Rovistò per un
po’, poi scese con cura e, prendendomi per la mano, esclamò:
«A Erne’, corriamo forte che ho preso tutti i punti che s’era conservato. Svelti che stasera
se compramo un pollo arrosto e annamo pure al cinema!».
Mentre correvamo notavo che mio fratello stringeva nella mano, come fosse un rotolo di
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banconote dal valore inestimabile, il grande mazzo di punti Cirio appena rubati. Per noi
erano contanti.
Pollo arrosto, mezzo litro di latte a testa e “Tom Mix” al cinema.
Non ritornammo più allo scarico di via Prenestina, indirizzandoci invece in quello di Settecamini, sulla via Collatina.
Lo conoscevamo perché lo avevamo sentito nominare da Capoccione che scaricava lì
l’immondizia prima di essere trasferito al Prenestino.
In mezzo ai mucchi della monnezza
Frequentando lo scarico di Settecamini, le tre persone che vi lavoravano si abituarono alla
nostra presenza perché non davamo nessun fastidio, anzi il più delle volte le aiutavamo a
dividere l’immondizia.
Venne anche il giorno che una operaia, poteva avere 60 anni circa, faccia patita e
un’espressione rassegnata, sempre sporca e unta, ci chiese se volessimo lavorare lì. Alla
nostra risposta affermativa ed entusiasta, ci disse che ne avrebbe parlato al proprietario e
che comunque ci dovevamo far vedere il giorno dopo.
La mattina successiva ci presentammo di buon ora.
Gli operai erano in procinto di iniziare il lavoro, quando ci sentimmo chiamare dalla donna:
«Ragazzi venite qui, c’è il proprietario che vi vuol parlare».
Un uomo elegante fece cenno di avvicinarci.
«Sentite...» disse «...so che venite qui quasi tutti i giorni. La signora Maria mi ha anche
detto che siete capaci di dividere la mondezza in modo svelto e accurato. Io sarei d’accordo
a prendervi a lavorare, potrei anche darvi 500 lire durante la settimana e 1000 di sabato e
domenica, però dovete essere molto svelti a capare la mondezza perché i sacchi che vi saranno dati da smaltire non dovranno rimanere per il giorno dopo. Dovete iniziare alle otto
di mattino e smettere alle sei di sera, come tutti gli altri. Se nei sacchi della spazzatura trovate qualcosa che può servirvi ve la potete tenere, ma non vi permetto di portarvi via da qui
neanche un etto di alluminio».
Rispondemmo che eravamo d’accordo e che, avendo lavorato in un altro scarico, avevamo esperienza, quindi poteva contare su di noi.
«Allora siamo intesi, domani alle otto sarete qui e la signora Maria vi spiegherà tutto».
Mentre stavamo dandoci da fare tra sacchi e schifezze varie, si girò verso di noi e, come
per chiudere il contratto verbale, ci disse ancora: «Dimenticavo una cosa, non dovete dire
assolutamente a nessuno che lavorate qui, nemmeno ai vostri genitori, perché se lo direte a
qualcuno sarà inutile che torniate. Io non vi conosco e ho dei testimoni».
Girò la testa verso i tre che stavano lavorando e questi, in segno d’intesa, accennarono
con il capo un sì automatico. Il capo ci guardò concludendo: «D’accordo?».
Dopo avergli fatto presente che non avevamo genitori e che non eravamo tanto matti da
sputare nel piatto in cui mangiavamo, gli chiedemmo un acconto di 500 lire dicendogli che
ci occorrevano per pagare la pensione nella quale dormivamo. Si guardò attorno un po’
sorpreso, la signora Maria si strinse nelle spalle e gli altri due non si interessarono affatto a
noi, così lui, tirando fuori dalla tasca cinque monete da cento lire, disse: «Sentite, adesso ve
li do, ma non chiedetemi più acconti perché io pago solo una volta a settimana».
Porgendoci i soldi salì su una Fiat 103 e scomparve, lasciandoci tra puzze di maiali, gente
sporca e avanzi di cucina.
La sera, non prima di esserci comperati la solita busta piena di napoletani e un litro di latte
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a testa, andammo al cinema Platino a vedere un film di Tarzan. Vedemmo due volte il film
poi, dopo essere usciti, iniziammo a camminare in direzione di Quarticciolo prendendo via
dei Castani per proseguire fin giù via delle Palme, via che portava dritta dritta al nostro rifugio.
Le ricche vetrine dei negozi venivano illuminate dai lampioni della strada. Tante erano le
nostre soste che ogni volta fantasticavamo nel vedere quel ben di Dio. I riflessi della pioggia, mentre veniva giù lentamente, formavano un arcobaleno serale sui vetri e noi, incuranti
dell’acqua, sognavamo.
Vi erano negozi di scarpe di ogni sorta e forma, di vestiti, radio e televisori. Negozi di
barbiere, bar dove non eravamo mai entrati e nei quali si poteva vedere gente elegante che
fumava allegra tra caffè e risolini. Come dovevano essere buoni e profumati i polli, color
oro, del girarrosto della rosticceria.
«Le altre persone hanno tutto, forse siamo noi differenti?».
Mio fratello si girò verso di me, guardandomi con un punto interrogativo negli occhi e riprese a camminare. Non mi ero accorto di aver pensato a voce alta.
In quel periodo i giorni si susseguivano tra montagne di vetri e cocci da una parte, carta e
derivati dall’altra. Plastica là, metalli di qua. Eravamo diventati esperti in immondizia.
Ogni tanto infilando le mani in mezzo ai mucchi della monnezza, poteva capitare di tagliarsi. Grazie alla signora Maria adottammo un metodo che usavano anche gli altri e che preservava dalle infezioni; bastava fare pipì sulla ferita e tutto passava.
Era arrivato il giorno di paga. Tutti aspettavamo il “principale” il quale arrivò puntualmente alle sei. Fermò l’auto, scese con calma, pagò i due uomini e la signora Maria che se
ne andarono salutando, poi si rivolse a noi chiedendoci se avremmo voluto lavorare anche
il sabato e la domenica. Io e mio fratello concludemmo che, se avessimo lavorato anche i
due giorni festivi, ci saremmo ritrovati in tasca, a conti fatti, 7.500 lire. Accettammo pregandolo di darci ancora un piccolo anticipo in attesa della domenica. Lui, senza pensarci
due volte (sicuramente ci aveva già ben pensato prima) ci diede ancora 500 lire dicendoci
qual era l’immondizia che avremmo dovuto smaltire in quei due giorni.
La sera fermandoci alla rosticceria mangiammo un piattone di spaghetti scotti con una
salsa che sembrava voler dire “Indovina chi sviene a cena?”, dopodiché decidemmo di
andare ancora una volta al nostro solito cinema. Quella sera ridemmo con Totò.
Arrivò la Domenica.
Dopo aver passato il giorno a smistare ogni maldicenza, si fece sera e finalmente fu l’ora
di smettere. Unti e sporchi, avevamo mezzelune di grasso nero sotto le unghie, iniziammo a
lavarci nell’abbeveratoio dei maiali, usando detersivi e quanto altro poteva trovarsi tra i
rifiuti. Mentre facevamo piccoli sogni su come avremmo speso i soldi guadagnati, si sentì
l’auto del principale fermarsi.
Scendendo dalla macchina ci si fece incontro, poi chiamandoci tirò fuori dalle tasche
qualche biglietto da mille.
Ci asciugammo in fretta con qualche vecchio straccio che avevamo sottomano.
«Allora...» disse «...avete lavorato una settimana, quindi sono 4.500 lire, meno 1000 lire
che vi ho anticipato, mi rimane da darvi ancora 3.500 lire».
Noi rimanemmo sorpresi dal modo con cui aveva conteggiato i nostri giorni lavorativi, a
questo punto mio fratello esclamò: «Ma come, avevate detto che ci davate cinquecento lire
al giorno per ognuno e adesso ci date di meno?».
«Sentite ragazzi, io non ho mai parlato di cinquecento lire a testa, ma bensì di cinquecento
lire al giorno...». Quindi facendosi un po’ scuro in faccia, come volesse minacciare, riprese
con sfacciata prepotenza: «Qui ci sono 3.500 lire, se le volete bene se no ancora meglio».
Tendendo la mano con i soldi, si mise in attesa.
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Tonino si fece avanti. Prendendoli disse: «Però non è giusto. Abbiamo lavorato tutta la
settimana come bestie e adesso fate così?».
Lui non rispose, girò i tacchi, salì in auto partendo a tutto gas.
«A Tonì...» dissi io «forse è stato meglio così, mica potemo lavora’ sempre agli scarichi!».
«Sì, sì è vero...» rispose mio fratello «...andiamocene. Però i soldi li tengo io perché dobbiamo stare molto attenti a spendere. Ci devono bastare finché non troviamo un altro lavoro».
Prendendo la lunga strada che portava verso il cinema Platino, ci fermammo al solito piccolo bar.
Quella sera, invece dei napoletani, comperammo maritozzi con panna.
(I maritozzi non consumati dai clienti venivano conservati dal proprietario e la sera ce li
vendeva, diceva lui, al prezzo di costo, dieci lire in meno del mattino. Noi risparmiavamo e
lui non li buttava) Dopo il bar, via di corsa al cinema. Alberto Sordi in “Un Americano a
Roma” ci faceva morire dalle risate.
Anche quella notte rimanemmo a dormire nei vagoni in sosta alla stazione di Centocelle.
Ancora randagi
Il giorno dopo mio fratello volle andare a fare l’amore con Nerina. Alle mie rimostranze
lui rispose che non avevamo soldi sufficienti per due, ma che la prossima volta sarebbe
toccato a me, adesso mi dovevo accontentare di guardare, senza però farmi vedere.
Senza passare dallo scarico di Capoccione, ma aggirandolo, ci incamminammo verso il
luogo dove si prostituiva Nerina. Io mi fermai dietro una siepe mentre mio fratello proseguì fin dove stava lei.
Seduta sul ciglio della strada, la gonna tirata sopra le ginocchia “che si vedeva tutto”, i capelli nerissimi come gli occhi, le lunghe gambe aperte da gazzella, mentre le auto andavano
su e giù, Nerina aspettava clienti.
Mio fratello attraversò la strada di corsa e piantandosi con le gambe ferme e un po’ divaricate da ometto davanti a lei, disse: «Ciao Nerì».
Lei lo guardò con il suo sorriso da dolce maliarda:
«Ciao roscietto, che vuoi?».
Lui, avvicinandole la bocca all’orecchio sinistro, le sussurrò qualcosa. Dopo che ebbero
confabulato un pochino tra loro, lei, mettendosi a ridere, lo prese per mano, quindi, dopo
avergli fatto una carezza in testa, se lo portò tra le siepi. Piano piano mi misi in posizione di
veduta. La curiosità per la situazione era grande e forte, perché non avevo mai visto due
persone fare all’amore. Vedevo le spalle di mio fratello, i suoi pantaloni calati, i suoi movimenti. Nerina stava con le gambe aperte. Il suo sguardo sorridente, svincolando tra i cespugli, raggiungeva i miei pensieri.
Sorrideva Nerina.
Ero lì, intento a guardare, quando all’improvviso mi sentii dare un calcio nel sedere talmente forte che mi fece cadere con la faccia in terra. Voltandomi istintivamente vidi il viso
di Capoccione; era più rosso di un fiasco di vino.
«Ah!...v’ho preso, brutti ladri, adesso ce penso io a voi!».
Pieno di paura mi alzai con un repentino scatto. Correndo in direzione del luogo dove
stava mio fratello, urlavo: «Tonino, Toninooo, scappamo che Capoccione ci ha trovati!».
Fuggendo a gambe levate mio fratello si teneva i pantaloni su con le mani. Corremmo per
un bel pezzo finché le gambe non ressero più. Fermandoci con i polmoni che parevano
scoppiare, crollammo sul prato con la testa rivolta verso il cielo; il sole e le nuvole ricam40
biavano i nostri sguardi.
Riprendemmo a girare per le borgate e le campagne senza meta fissa, ancora elemosinando tra conventi e chiese.
Non sempre si riusciva a mandare giù qualcosa.
Una sera, ritornando al nostro rifugio in via Lucera mi sentii male. Il dolore allo stomaco
si fece forte. A notte inoltrata mi presero i crampi. Crampi di fame. Eravamo da due giorni
senza mangiare. Il freddo notturno entrava dalle finestre senza vetri e il coprirsi con le vecchie coperte non bastava.
Tutt’attorno alla costruzione il vento gelido ululava.
I dolori allo stomaco erano troppo forti per poterli sopportare, ma mio fratello non sapeva cosa fare.
Lì non avevamo proprio niente di niente. In un momento di estrema disperazione mi assicurò che mi avrebbe portato all’ospedale più vicino. Ma come?!
Uscì dal fabbricato dicendomi di aspettare un momento che sarebbe tornato subito. Ritornando dopo dieci minuti circa, disse di alzarmi perché aveva parlato con il conduttore
del tram che faceva capolinea lì vicino; lui ci avrebbe portati fino alla stazione Termini, poi
da lì saremmo andati a piedi all’ospedale S. Giovanni, dove sicuramente mi avrebbero visitato e, capendo che ero un po’ denutrito, magari mi avrebbero dato anche qualcosa da
mangiare.
Il conducente ci fece sedere su due sedili accanto a lui. Fortunatamente il tram era vuoto
quindi non avevamo nessuno con cui vergognarci.
Arrivati alla stazione, ci incamminammo verso l’ospedale. Prendemmo via Principe Amedeo, poi giù Santa Croce in Gerusalemme, proseguendo lungo via Carlo Felice, fino ad
arrivare a S. Giovanni.
Quando fummo dentro l’ospedale ci guardammo intorno; non si vedeva anima viva.
Certo era notte inoltrata, ma possibile che non ci fosse neanche un inserviente? Mio fratello
mi fece sedere su una sedia e andò in cerca di qualcuno. Dopo aver fatto un paio di passi fu
bloccato dalla voce di una donna che chiese cosa facessimo lì a quell’ora. Rispose che stavo
male. L’altra, senza dargli nemmeno il tempo di proseguire, disse che mi avrebbe portato
dal dottore e che lui, mio fratello, non si doveva muovere da lì. Sorreggendomi (quasi non
ce la facevo più a camminare talmente i crampi allo stomaco erano forti) la donna mi portò
in una stanza dove si trovava, sdraiato su una barella e mezzo addormentato, un uomo che
capii essere un dottore perché aveva il camice bianco.
Alzandosi di scatto domandò alla signora: «Cos’ha questo bambino? Perché è stato portato qui a quest’ora?».
L’infermiera facendomi sdraiare sulla barella ora libera, rispose:
«Non lo so. L’ha portato un altro ragazzo che dice di essere suo fratello, mi ha soltanto
detto che ha dolori fortissimi di pancia».
Io in quella condizione non ce la facevo neanche a parlare. Alla domanda del dottore, il
quale chiese cosa avessi, non potei far altro che mimare facendo dei gesti con le mani; portai la mano destra all’altezza della bocca già aperta e gli feci cenno che volevo mangiare,
mentre con la mano sinistra mi premevo sulla pancia per dimostrare che avevo dolore.
Senza farmi alcuna visita, o perlomeno assicurarsi di persona cosa avessi veramente, il
dottore disse alla infermiera: «Senta, lei che ha dei figli cosa pensa abbia questo bambino?».
Udendo quelle parole feci un sospiro di sollievo, sicuro che la signora avrebbe capito che
il mio male cronico era fame e nient’altro.
«Dotto’ so’ anni che faccio la portantina a ‘st’ ospedale e ne ho visti molti di ragazzi venire qui con lo stesso problema di questo, poi ho anch’io dei figli e so cosa vuol dire quando
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un bambino fa indigestione di dolci».
Indigestione?!
Nel sentire quelle parole iniziai ad agitarmi ancor di più, ma lei, imperterrita, proseguì:
«Lo vede dotto’, talmente avrà mangiato che non ha neppure la forza de parla’».
Poi rivolta a me disse con fare materno e deficiente: «A ragazzi’, statte fermo che adesso il
dottore te fa un bel clistere e poi vedrai che te sentirai molto meglio. E la prossima volta...»
continuò da ebete «invece de gioca’ fino a tardi in mezzo al fango, vattene a vede’ la televisione a casa e mangia de meno».
Il dottore la guardò perplesso, poi, quasi di malavoglia, preparò il clistere:
«Senta, giacché sta studiando per prendere il diploma da infermiera, faccia lei il clistere al
ragazzo, le farà bene un po’ di pratica».
Le poche forze rimaste mi abbandonavano sempre più.
L’infermiera, dopo aver compiuto l’operazione, guardò il dottore sbalordita e preoccupata; dalla mia pancia non uscì assolutamente niente, solo un pochino di aria che avrei voluto
rimanesse dentro per non sentirmi completamente vuoto.
La meraviglia del dottore si tramutò in allarme, disse alla donna di misurarmi il battito del
polso e la pressione. Dato uno sguardo agli indici, sgomento e arrabbiato, il dottore sbuffò:
«Presto una flebo! Questo ragazzo è denutrito, sta morendo di fame. Si muova invece di
stare lì impalata! Sapientona!».
Finita l’operazione mi addormentai sotto il caldo delle coperte e la flebo che mi dava
nuove energie. Rimasi tutta la notte al pronto soccorso con mio fratello accanto. Quando
gli infermieri seppero che non avevamo né genitori e neanche una casa, ci fecero stare una
settimana all’ospedale; mi rimisi un po’ in forze. Mio fratello dormiva nel letto accanto al
mio. Per mangiare ci arrangiavamo con i pasti che passavano lì. Arrivato il momento di
lasciare l’ospedale il personale fece una colletta per noi.
Racimolammo qualche lira, dei vestiti puliti e un po’ di forze.
Furti e pedate nel culo
Dal giorno che uscimmo dall’ospedale continuammo a dormire nella casa “abbandonata”.
Le giornate le passavamo anche inoltrandoci spesso in luoghi dove non eravamo mai stati.
Le baracche abusive di via Prenestina erano piene di disperati come noi. Tavole inchiodate alla meno peggio, recinti sgangherati che delimitavano lo status di proprietà per gente
del “nulla”. Gente uscita da una bassa gerarchia sociale come noi; la povertà, la miseria, gli
espedienti.
La nostra fortuna, se così si può chiamare, era che attorno a Roma, a quei tempi, c’erano
molti cantieri. Palazzi in via di costruzione che si estendevano da nord a sud della città.
Il lavoro ci veniva rifiutato regolarmente perché eravamo troppo piccoli, quindi, spremendo le meningi, trovammo il modo di sbarcare il lunario.
Così, per costrizione, per sopravvivere, imparammo a rubare.
Ogni qualvolta vedevamo un cantiere con dei muratori al lavoro ci sedevamo a debita distanza e, studiando la situazione come facevano gli indiani prima di assalire il forte dei
bianchi, cercavamo di capire in quale aerea della costruzione si cambiassero gli operai. Dopo aver individuato il luogo, dicevo a mio fratello di farmi la guardia. Cercando di non farmi scorgere entravo nel recinto dei lavori e andavo nello spogliatoio dove erano appesi i
vestiti dei lavoratori. Rovistando nelle tasche delle giacche e dei pantaloni riuscivo a portare
via tutti i portafogli, nei quali si trovavano spesso soldi, documenti e fotografie di familiari.
Dopo esserci presi il danaro, imbucavamo gli effetti personali nella prima cassetta per la
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posta, sicuri che i derubati avrebbero riavuto indietro almeno quelli.
Spesso mi appropriavo anche di vestiti, scarpe e delle borse che contenevano il pranzo,
poi, correndo a perdifiato verso un posto tranquillo, ci sedevamo a mangiare e potevamo
anche cambiarci.
Arrivò anche il giorno che ci andò male.
Eravamo a vagabondare nella zona di Villa dei Gordiani, zona in cui c’erano una decina di
cantieri in piena attività. Ne avvistammo uno in cui si potevano vedere gli operai indaffarati
all’esterno. Decidemmo di entrare tutti e due.
Con circospezione ci infilammo nella prima costruzione. Le scale facevano benissimo da
copertura, avendo grandi tavole inchiodate a corrimano. Passando chinati, fermandoci,
facendo capolino, cercavamo di camuffarci.
Quasi in procinto di raggiungere “la stanza del tesoro”, fummo bloccati dalla voce di un
operaio:
«Che ci fate qui voi due!?».
La risposta venne automatica: «Cercavamo il principale per chiedere se avesse bisogno di
due manovali» dissi con malcelata verità.
L’altro, guardandoci perplesso, ci disse di andarcene che lì non c’era lavoro per ragazzini.
Facendo finta di ridiscendere le scale, dopo che l’operaio fu scomparso, ci intrufolammo in
un’altra direzione e camminando piano piano, trovammo la stanza interessata.
Eravamo intenti a frugare nei vestiti. Già avevamo preso qualche portafogli e ammucchiati un po’ di abiti e scarpe, quando sentimmo alle nostre spalle la voce dell’operaio di
prima che, con tono minaccioso, esclamò: «Ah! E voi sareste quelli che cercavano lavoro?!».
Ci girammo di scatto. Nella stanza c’erano altri quattro o cinque operai, i loro volti non
assicuravano nulla di buono.
Quello che ci aveva sorpreso prima sulle scale si avvicinò e, senza tanti preamboli, diede
prima uno schiaffo a me per poi fare altrettanto con mio fratello. Il bruciore sul viso fu
talmente forte da farmi vedere tutte le stelle della galassia, mentre mio fratello, credo, vide
tutti i pianeti dell’Impero di Asimov.
Nell’attimo in cui provammo a guadagnare le scale, cercando di passare velocemente in
mezzo al gruppo inferocito, ci arrivò una scarica di pugni e calci che ci fecero rotolare fin
giù; io finii con la testa contro il muro e mi ferii, mio fratello si ritrovò incastrato con un
piede tra le tavole che erano state messe come corrimano provvisorio.
Mi misi la mano sulla testa per fermare il sangue che colava, mentre lui strillava cercando
di divincolarsi da quella dolorosa posizione. Vedemmo venire i muratori verso di noi,
grintosi e cattivi come leoni nel Colosseo. Con la forza della disperazione mio fratello liberò il piede e ci buttammo a precipizio giù per le scale.
Usciti fuori non pensammo minimamente a guardarci le spalle, il nostro solo pensiero era
scappare. Correre il più lontano possibile.
Non avemmo neanche il tempo di pensare che ci poteva andar peggio, che da una finestra
sentimmo dire parolacce di tutti i colori, seguite da un lancio di pietre e mattoni i quali,
miracolosamente, non ci colsero. Anche se malconci continuammo a correre come quella
volta che ci trovò Capoccione, solo che stavolta era diverso; mio fratello aveva una caviglia
slogata e io la testa rotta.
Quel giorno non mangiammo nulla.
La sera, nel nostro rifugio, si aprì la discussione tra me e mio fratello.
«A Toni, perché non ritorniamo a casa? Io non ce la faccio più a fa’ ‘sta vita. Stiamo tutti i
giorni a rubare, a prendere botte o a mangiasse la mondezza. Almeno a casa bene o male un
piatto di pasta si rimedia…» mi lamentai.
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Lui, ancora dolorante per la caviglia, facendo una smorfia, disse: «Senti Erne’, a casa non
ce possiamo torna’ perché papà prima di tutto ce menerebbe per come siamo scappati, in
quanto avrà dovuto prendere due manovali a pagamento, e poi c’è “lei” che ce farebbe
senti’ in galera a casa nostra».
Proseguendo con il suo ragionamento da fratello maggiore, aggiunse: «Ma te ce vedi ancora a scava’, a lava’ i piatti, a magna’ peggio dei cani?».
«C’hai ragione, ma che possiamo fare? M’è venuta anche fame…».
Massaggiandosi la caviglia mi guardò come se avesse avuto un’idea meravigliosa.
«Lo sai che facciamo? Andiamo alla borgata Andreis, ci avviciniamo piano alla finestra del
bagno de casa che rimane sempre aperta, entriamo dentro e, senza far rumore, andiamo a
prende’ tre o quattro scatolette de tonno che stanno nella credenza in cucina, riscavalchiamo la finestrella ed ecco che abbiamo rimediato qualcosa da magna’».
«Ma per arrivare fino lì ce vogliono minimo un paio d’ore…» replicai.
Lui, con una logica innocente, rispose: «Ancora meglio, perché adesso è notte, saranno
più o meno le dieci, quindi andando piano, perché io non posso mica cammina’ svelto,
impiegheremo un paio di ore e saremo lì verso mezzanotte. A quell’ora dormono sicuro!».
Mugugnai un “occhei”.
Costeggiando la strada vedemmo, credo dopo un paio di ore, le prime case che dalla via
Prenestina portavano al centro della borgata. Iniziava leggermente a piovere. Poco importava, ormai eravamo arrivati. Vedevo che i lavori di muratura della casa nuova erano quasi
finiti. La rabbia mi assaliva; “possibile che a quell’età, con i soldi che aveva nostro padre,
noi dovevamo fare i barboni? Eppure non avevamo mai chiesto nulla, nulla più di quel
poco che ci era dovuto. Il nostro unico desiderio era rifare parte della famiglia di nostro
padre”.
Arrivammo a destinazione. Buio pesto.
Ci acquattammo sotto la finestrella aperta nella parete del bagno, rimanendo in quella posizione una decina di minuti, attenti a sentire qualsiasi genere di fruscio.
Tutto era silenzio. Si udiva solo la pioggia che cadeva su di noi e sul tetto della casa. Mio
fratello volle andare per primo, quindi, appoggiando un piede sulle mie mani unite, si arrampicò e in un attimo, sgusciando silenzioso, fu dentro.
La sua mano uscì dalla finestra, io mi ci aggrappai e, aiutandomi con i piedi contro il muro, fui dentro. In silenzio assoluto andammo nella cucina, iniziando a rovistare senza fare il
minimo rumore. Mi misi nella camicia tre scatolette di tonno, altrettante di Simmenthal e
anche due pacchi di biscotti, mentre Tonino si era impadronito di due bei salami e qualcos’altro.
Eravamo in procinto di squagliarcela che la porta si aprì all’improvviso; strillando come
una pazza, “lei” accese la luce. Alla nostra vista l’ugola le si bloccò per un secondo, poi
ripresasi dall’attimo di smarrimento, si armò del bastone che si trovava accanto alla porta e
incominciò a picchiare a destra e a manca, come quella volta in cui non comprammo la
carne per Corrado. Urlava come una strega il nome di nostro padre, evidentemente per
svegliarlo.
«Leonardo!! Leona’... ci sono quei due disgraziati dei tuoi figli che stanno rubando tutto!
Aiuto! Aiutoooooo!».
Tentando di fuggire quasi ci incastrammo nella finestra. Comunque accadde il finimondo.
Tutto ciò che avevamo preso si seminò in terra. Le nostre urla di dolore si mischiavano
agli acuti di “lei” e alla voce minacciosa di nostro padre che si stava avvicinando.
“Lei” slittò sui biscotti e le altre cose che avevamo lasciato cadere, facendo un tonfo che
le permise di urlare ancora più forte. Tra tutto quel trambusto in un balzo fummo fuori e
correndo doloranti sotto la pioggia e nel fango, sentimmo le loro voci che gridavano mi44
nacce contro di noi. Corremmo talmente tanto che arrivammo al nostro rifugio con la velocità di centometristi, ma in modo pietoso. Eravamo mezzi morti per la fame, la stanchezza, sporchi e con le ossa a pezzi per le bastonate ricevute.
Raccattammo stracci e coperte, addormentandoci dimenticammo un po’ tutto.
Er poraccio, ladro di prosciutti
Ancora doloranti e affamati, il mattino dopo prestissimo ci incamminammo verso Centocelle. Il cielo era chiaro e già si vedevano persone dirette al lavoro.
Non era la prima volta che rubavamo le ceste dei cornetti o del pane appena sfornati e
depositati davanti a qualche negozio ancora chiuso.
Camminando senza trovare nulla finimmo nella borgata Torre Maura, sulla via Casilina.
Girando e rigirando per le vie del centro della borgata, scorgemmo, davanti a un negozio
di alimentari, una cesta ricoperta di carta, da cui si vedeva venir fuori una lunga fetta di
pizza bianca. Dopo un’occhiata d’intesa ci avvicinammo guardinghi alla cesta e senza pensarci due volte prendemmo tutto l’involucro, poi fuggimmo via di corsa in direzione del
prato.
I morsi erano grandi ma anche attenti e gustosi; quella pizza ancora calda era fantastica.
«Aoh! A cosiii, me ne date un pezzo?».
La voce proveniva da dietro le nostre spalle. Girandoci attenti vedemmo un ragazzo, più
o meno della nostra stessa età che, fermo in attesa di una risposta, disse ancora: «V’ho visto
quando avete rubato la pizza e ve so’ venuto appresso».
Poi con voce più supplichevole: «Me lo date un pezzo che c’ho fame anch’io!?».
Al nostro cenno si avvicinò sedendosi accanto a noi.
Lui si chiamava Antonio ma tutti alla sua borgata lo avevano soprannominato Er poraccio
e non sapeva perché. Credo venisse da San Basilio o da Primavalle ed era fuori casa come
noi, senza meta.
La sua giovane faccia era marcata da lineamenti duri, già adulti, mentre i suoi occhi avevano l’innocenza di chi ancora non può essere colpevole.
Finita tutta la pizza, c’incamminammo senza meta con il nostro nuovo amichetto. Le domande erano reciproche e le risposte quasi uguali.
Anche lui aveva conosciuto gli scarichi. Anche lui aveva conosciuto fame e miseria. Conosceva anche botte e maltrattamenti. Aveva fatto anche dei piccoli furti e sapeva cosa
volessero dire soldi e donne. Quando era senza soldi, se non aveva nulla da rubare, andava
alla Torraccia. Lì, di sera, cercava il “pederasta” con cui poteva avere un rapporto omosessuale ed essere pagato per questo.
Nel raccontare queste cose si atteggiava da coatto, da duro.
“Camminava” spesso con un suo amico chiamato Straccaletto e, diceva, con lui aveva
fatto un sacco di “cappotte” ai pederasti. Avevano fatto la cappotta anche a Pier Paolo
Pasolini il regista, prendendogli il portafogli con quasi centomila lire dentro.
Pasolini, diceva lui, andava con la macchina girando per tutte le borgate di Roma per rimorchiare i ragazzi e poi farsi picchiare dietro la schiena e pagarli.
Noi ascoltavamo a bocca aperta.
Arrivati verso la borgata di Torpignattara, Er poraccio ci disse se volevamo fare un furto,
quando gli chiedemmo che cosa avremmo dovuto rubare ci rassicurò dicendoci di lasciarlo
fare.
La piazza della borgata iniziava a riempirsi. I negozi alzavano le saracinesche e il via vai di
gente si faceva sempre più intenso e rumoroso.
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Il nostro amico si allontanò per circa un quarto d’ora, per poi ritornare con un motorino
che disse aver rubato in un garage. Aveva anche studiato il piano; io, il più piccolo, avrei
fatto da palo, lui e mio fratello avrebbero svaligiato il primo furgone che si sarebbe fermato
a scaricare davanti alla panetteria lì di fronte, poi, dopo aver preso la refurtiva, saremmo
scappati in direzione del prato dove avevamo mangiato la pizza.
Ci mettemmo in attesa della nostra preda.
Il furgone parcheggiò davanti alla panetteria e il conducente, dopo aver preso un grosso
pacco dal cassone, lasciò la porta aperta per dirigersi nel negozio. Fu a quel punto che Er
poraccio mi disse:
«Te aspetta qui e fischia se vedi qualcuno che s’avvicina».
E rivolto a mio fratello: «E tu vieni con me, e fa come ti dico».
Er poraccio era sicuro di quello che diceva e faceva.
Mise in moto il motorino e, con mio fratello seduto dietro, schizzò veloce in direzione del
negozio.
Quando furono dietro il furgone, Er poraccio fermò il motorino poi, facendosi aiutare da
mio fratello, salì sopra l’automezzo, prese due grandi prosciutti, li gettò con una agilità sorprendente a “cavallo” del motorino, ridiscese e... ebbero appena il tempo di fare i primi
metri che si sentì la voce dell’autista che a squarciagola urlava: «Al ladro! Al ladrooo!
M’hanno rubbato tutti li prosciutti! Al ladroooo! Fermateli!».
Er poraccio, sempre con mio fratello ben avvinghiato al suo corpo, evitava con abilità da
esperto le persone che provavano a ostacolarlo. Schivava, accelerava, schivava ancora,
mentre a tutta velocità si dirigeva verso l’angolo dove io facevo da palo. Nel momento in
cui era quasi fatta, il peso di uno dei prosciutti sbilanciò il motorino e si sentì uno schianto
secco. Er poraccio e Tonino erano caduti, fortunatamente senza farsi quasi nulla. Io, dal
mio punto di guardia, osservavo la gente che accorreva minacciosa con a capo l’autista del
furgone. Mi feci coraggio e di corsa andai ad aiutarli, alzai il motorino liberandoli da quella
posizione che “odorava di Porta Portese”, dopodiché corremmo a quattro zampe verso la
campagna. Sfiancati, ma salvi, ci buttammo tra il grano imprecando per il mancato guadagno.
Lasciavamo che i raggi del sole, passando tra le spighe d’oro, alleviassero la nostra stanchezza e sfortuna.
La giornata passò tra prati di fave e frutteti che ci saziarono con i loro frutti. Ormai il sole
stava tramontando e lui, Er poraccio, ci lasciò dicendo che sarebbe ritornato alla sua borgata. Prendendo la strada del ritorno, ci salutò e si diresse nella parte opposta alla nostra.
Prima di scomparire all’orizzonte strillò verso di noi: «Aoh! A cosiii! se non sapete rubba’
annate coi pederasti che mica stanno solo alla Torraccia, stanno anche al Pincio... se guadagna di più e se rischia di meno!».
Poi agitando la mano urlò ancora: «Aooh! Io so un coatto mica vado a rubbà i cornetti.
Ciao, se vedemo!».
Ladri di polli
Vivendo per strada avevamo acquisito un forte istinto di sopravvivenza. Rubavano, quando capitava, ed è capitato spesso, le ceste della spesa ai “cascherini” (i ragazzi con la bicicletta che dovevano consegnare la spesa a domicilio), oppure raccattavamo per le vie ciò
che era vendibile: pentole rotte di alluminio, pezzi di rame e piombo o altro.
Ma il vero furto con destrezza lo compiemmo quando ci mettemmo d’accordo per scippare
un pollo arrosto alla rosticceria di via dei Castani.
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Il piano era semplice: mio fratello doveva fare il cliente e, dopo aver ordinato un pollo da
portare via che il rosticciere aveva già incartato e posato sul bancone, doveva far finta di
chiedermi i soldi per pagare, poi, nell’attimo in cui il proprietario avesse girato lo sguardo
verso di me, avrebbe dovuto afferrare il pollo e fuggire a tutto gas.
Cose che avvennero in perfetta sincronia.
Mentre fuggivamo correndo a più non posso, felici della furbizia che avevamo dimostrato, immaginavamo l’amara sorpresa stampata sulla faccia del rosticciere, e ridevamo a crepapelle.
Pier Paolo Pasolini
Dopo una delle tante giornate passate come sempre, ritornando verso il nostro rifugio, ci
accorgemmo che un’auto bianca ci seguiva. Io senza girarmi dissi a mio fratello: «Quello
con la macchina è mezz’ora che ci viene appresso, ma chi è? Che vuole? Ma che è, la polizia?».
Lui, sempre coraggioso, mi disse di fare finta di nulla e di proseguire fino al nostro rifugio, da lì lo avremmo spiato.
Una volta dentro, ci nascondemmo dietro il muro dove una finestra aperta (non c’erano
vetri bensì pochi cartoni inchiodati alla meglio) ci permetteva di vedere cosa stesse facendo
il nostro inseguitore. Questi parcheggiò l’auto, un’Alfa Romeo Giulietta di colore bianco,
quindi, dopo aver scrutato la costruzione, vi entrò.
Noi appiattiti contro il muro mantenevamo il fiato per non farci scoprire, poiché pensavamo fosse qualcuno della polizia.
Sentimmo la sua voce che chiamava: «Ragazzi, dove siete? Vorrei parlarvi».
Parlava senza inflessioni dialettali. Era calmo.
Comunque decidemmo di giocare allo scoperto, tanto avevamo una chance in più; si poteva sempre scappare.
Con intuizione, come avesse letto nella nostra mente, continuò: «Ragazzi, non sono della
polizia, anzi vorrei farvi guadagnare qualche soldo... uscite per favore», disse in modo convincente e gentile.
Uscendo lo vedemmo; non sembrava “uno di borgata” bensì una persona dei “quartieri
alti”. Indossava un impermeabile color crema, occhiali da vista con montatura squadrata e
nera, i capelli erano anch’essi neri e i lineamenti del viso molto marcati, con le guance infossate. Ci dette un’occhiata sbrigativa da capo a piedi, poi ripeté: «Ragazzi volete guadagnare dei soldi?».
Mio fratello, senza lasciarmi il tempo di fare io la domanda, chiese:
«Come?».
Lui, nel modo più naturale che ci possa essere, proseguì: «Sapete chi sono io?».
Alla nostra risposta negativa continuò: «Non ha importanza, quello che vi chiedo è che
dovete solo picchiarmi dietro la schiena uno per volta e poi dovete farmi i vostri bisogni sul
petto».
Senza darci il tempo di aprire bocca, aggiunse: «Io non vi toccherò affatto, in compenso
vi darò mille lire a testa».
Mio fratello, facendosi coraggio, gli domandò con voce sorpresa che cercava di far sembrare “vissuta”: «Aoh, nun è che fai scherzi da prete? Guarda che io so’ uno che mena forte, capito?».
Riprendendosi, meravigliato dalla perversa offerta dell’uomo, disse ancora: «Ma come te
dovemo mena’? Ma che sei scemo?».
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L’uomo con calma spiegò: «Non vi preoccupate. Picchiatemi forte dietro la schiena uno
per volta, dopo che lo avrete fatto vi darò i soldi promessi. D’accordo?».
La sua voce gentile ci rassicurò. Dopo che accettammo si tolse l’impermeabile, lo ripose
in terra con cura, si denudò completamente e, sdraiandosi sui cartoni a pancia in giù, disse
che potevamo iniziare.
Mio fratello fu il primo. Si mise a cavalcioni sull’uomo e prese a picchiare, con i pugni
chiusi, ai fianchi. L’uomo iniziò a mugolare di piacere, poi man mano pregò mio fratello di
essere più brutale.
Dopo circa cinque minuti venne il mio turno. Tonino si alzò, io lo guardai perplesso e lui,
facendomi un cenno con la testa, mi fece capire che non dovevo far altro se non imitarlo.
Così feci. Mi misi a cavalcioni sull’uomo iniziando a picchiare. I miei piccoli pugni si abbattevano sulla “vittima” inizialmente con timore, per poi accelerare e proseguire quasi con
una rabbia incontrollabile, incomprensibile.
Smisi soltanto quando mio fratello mi prese per un braccio scrollandomi.
Come se avesse sudato sette camicie, l’uomo si mise a sedere, pregandoci di attendere
qualche istante per l’altra “operazione”.
Stando in piedi senza alcun tipo di imbarazzo o cose del genere, disse:
«Ora ragazzi io mi sdraierò di nuovo, voi, uno per volta, dovrete fare i vostri bisogni sul
mio petto con la schiena rivolta verso la mia faccia facendo finta di essere veramente al
bagno, quindi senza appoggiare il vostro sedere su di me. Va bene?».
Con un’alzata di spalle e un po’ di vergogna mio fratello iniziò “l’operazione”. Io, senza
farmi vedere, presi dai pantaloni dell’uomo il portafogli e le chiavi della sua auto. Aprendolo trovai trentamila lire e la patente, sui dati anagrafici, vicini la foto, c’era scritto a macchina: Pasolini Pier Paolo, professione maestro elementare, poi data e paese di nascita.
Presi i soldi, rimisi a posto il portafogli restando in attesa che mio fratello terminasse la
schifezza. Quando ebbe finito si scostò e andò a cercare dei giornali per pulirsi, mentre
l’uomo, dopo essersi pulito a sua volta con della carta igienica tirata fuori dalla tasca del suo
impermeabile, si alzò venendo verso di me. Sapevo che era il mio turno ma lui mi bloccò
dicendo che avrebbe voluto rimaner solo qualche minuto, quindi si allontanò nel corridoio.
Rimasti soli qualche attimo, dissi sottovoce a mio fratello di andare a vedere nell’auto del
regista se poteva trovare qualcosa di interessante.
Gli porsi le chiavi e lui si allontanò dicendo a voce alta, in modo che anche l’altro sentisse,
che andava a prendere dell’acqua.
Ricomparendo, dopo essersi pulito alla meglio, l’uomo si sdraiò di nuovo in attesa che facessi quello che aveva fatto poco prima mio fratello. Mentre ero su di lui, l’uomo, con gli
occhi fissi nel “momento del fatto”, non si accorse che mio fratello era ritornato; in mano
aveva il libretto di circolazione dell’auto e altre cose personali. Quando ebbi finito e mi
alzai, l’uomo, come fosse in estasi, rimase in quella posizione ancora un poco, dopodiché si
pulì, si rivestì e, mettendosi a sedere in terra, ci chiese se potevamo raccontargli qualche
fatto che avevamo combinato. Ci disse che per lui era importante sentire dalla bocca dei
“ragazzi di vita” come si viveva nelle borgate di Roma, in quanto era sua intenzione prendere appunti per poi farne dei film e se lo avessimo aiutato nella sua ricerca ci avrebbe fatto
lavorare nel cinema.
Io dissi a mio fratello di parlargli del furto con Er poraccio.
L’uomo ascoltava il racconto prendendo appunti su di un blocco notes che aveva tirato
fuori dalla giacca. Ricordo che sbirciando sulla prima pagina lessi una parola strana per me;
Nemesi, Memesi, non ricordo bene, poi altri nomi e frasi quali, “Magro non male. Straccaletto bacio focoso. Amico riluttante. Militare desiderio sfrenato. Zingaro fa tutto. Pecetto
sportivo, restio. Pera rifiuto. Riccetto favoloso per film. Quasi tutti chiesto soldi. Io dato.”
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E via di questo genere. Tantissimi soprannomi con a fianco frasi spezzate da aggettivi, e
poi nomi di borgate e paesi; Torre Maura, Ostia, Frascati, Tufello, Idroscalo, Fiumicino,
Quarticciolo, Madrione, San Basilio. Pietralata, Porta Furba, Primavalle, Donna Olimpia,
Pincio.
Sembrava un itinerario tra le borgate romane e fuori, alla conoscenza dei bulli di periferia.
Quando ebbe finito di scrivere il nostro racconto, che volle fosse pieno di particolari, rimettendosi il taccuino in tasca, prese il portafogli dai pantaloni per trovare i soldi che ci
aveva promesso ma, con studiata sorpresa, come se lo sapesse, come se lo aspettasse,
esclamò:
«Ma qui non c’è più una lira! Mi avete rubato tutti i soldi, fortuna che mi avete lasciato la
patente...». Mio fratello, facendo finta di raccogliere qualcosa da terra, disse: «A sor mae’, ti
abbiamo riconosciuto! Te sei Pasolini, quello che fa i film. A noi non ce freghi! Queste so’
le chiavi, t’ho preso pure il libretto, che se non ce dai tutti i soldi che c’hai, butto le chiavi
dalla finestra e strappo il libretto!».
A questo punto, con finto nervosismo, l’uomo si passò la mano nei capelli, come chi ha
ceduto a debolezze senza rendersi conto delle conseguenze, poi, infilando la mano nel taschino della giacca, tirò fuori un biglietto da diecimila lire e avvicinandolo a mio fratello gli
chiese di riavere indietro le sue cose. Lui, facendo la voce da duro, riuscì a farsi dare tutti i
soldi, circa ventimila lire e consegnandogli le sue cose gli disse: «Aoh! A sor mae’, qui non
ce devi più torna’ perché noi due mica siamo froci come te... E ringrazia Dio che non te
meno veramente. Adesso vattene e non farti più vedere e i film… Falli fa’ all’altri!».
L’uomo non obiettava, sembrava abituato a certi incontri di schifezze, minacce e ricatti.
Dava l’impressione che tutto dovesse andare a quel modo. Dava la certezza che se avessimo agito differentemente da come avevamo fatto, che se la scena fosse stata recitata in un
altro modo e che se le nostre battute non avessero avuto certi toni, lui non ne sarebbe stato
soddisfatto. Prima di uscire dalla costruzione disse, come un invito, come se nulla fosse
successo: «Ragazzi, se avete bisogno di lavorare, andate tutte le mattine presto a Cinecittà
che lì cercano spesso delle comparse per fare dei film».
Uscì calmo, partendo con l’auto senza quasi fare rumore.
Un anno a Maccarese
Avevamo ancora qualche soldo in tasca, quindi per un po’ di giorni saremmo potuti andare avanti. Cosicché, come sempre, ci ritrovammo in giro per Roma.
In quegli anni, dal 1961 a fine 1963, credo che io e mio fratello abbiamo percorso migliaia
e migliaia di chilometri a piedi, per questo eravamo abituati a camminare senza sosta in
lungo e in largo. Potevamo andare in un giorno da sud a nord, da est a ovest della città senza stancarci. Sempre partendo da Quarticciolo siamo andati a piedi a Fiumicino, a Ostia.
Abbiamo raggiunto Borgate fuori Roma e altre località lontane.
Una volta andammo a Maccarese, e fu in quest’ultimo paesello della campagna romana
che trovammo lavoro e ci fermammo quasi un anno.
Passando tra campi di grano e girasoli, un casale in cima all’altura mi fece balenare
un’idea: avremmo chiesto lavoro ai contadini. Chiedemmo a un fattore che si trovava lì, se
aveva bisogno di contadini. Rimanendo seduto sul trattore fermo, ci guardò incuriosito e ci
domandò cosa sapevamo fare.
Rispondemmo che avevamo lavorato negli scarichi dove c’erano anche i maiali, e che li
avevamo accuditi.
Sorridendo, ci disse che se volevamo rimanere, avremmo dovuto lavorare nei campi e
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quando fosse finita la stagione dei raccolti, saremmo potuti rimanere ad accudire gli animali
nelle stalle. Il lavoro, ci disse, sarebbe stato molto pesante.
Lui ci avrebbe insegnato a mietere il grano e fare covoni di fieno. Ci avrebbe insegnato
come tagliare, raccogliere e mettere nelle ceste meloni, pomodori e altra frutta e verdura. E,
con le scale sugli alberi, come disinfestare i meli e gli aranci.
Avremmo guadagnato duecento lire al giorno a testa, più vitto, alloggio, lavati e stirati.
Paga settimanale.
Accettammo. Imparammo a pulire le stalle e il pollaio (ogni mattina di nascosto bevevamo due uova freschissime).
Nei giorni festivi si faceva una capatina al centro di Maccarese, una giocatina al flipper del
bar della piazza centrale, la sera un film all’aperto nella piazza del paese. Qualche dolce in
pasticceria e poi di nuovo a casa.
La prima volta che assistemmo alla macellazione del maiale fu traumatico. Il signor Peppe, il fattore, prese il maiale più grande, grosso quasi come una cinquecento Fiat, lo chiuse
in uno steccato, gli appoggiò una specie di pistola in testa e dopo un tonfo sordo, l’animale
crollò a terra in un lago di sangue. Subito la moglie si avvicinò con un secchio in cui raccolse il sangue che fuoriusciva dalla testa del maiale, ne riempì quattro bicchieri e porgendone
uno a me e uno a mio fratello disse:
«Bevete! Questa è tutta salute».
Noi due rimanemmo a guardarci con occhi sgranati, mentre i nostri datori di lavoro stavano con il bicchiere a mezz’aria aspettando che bevessimo.
Diedi io il primo sorso mandando giù, senza gioire e senza sputare, quella schifezza.
«Bravo!» dissero in coro Peppe e la moglie.
Ora fissavano mio fratello come aspettando l’arrivo dei marziani.
Mio fratello trattenne tutto in bocca finché non lo vidi con gli occhi fuori dalle orbite, e in
un attimo di schifo iniziò a correre verso la cupola di fieno. Appena fu fuori di vista si sentì
chiaramente che stava vomitando. E loro, i contadini, ridevano a crepapelle.
Dopo aver poggiato il maiale su dei teli di iuta, aiutammo Peppe a portarlo verso la stalla.
Sua moglie arrivò con dei secchi di acqua bollente a li versò sull’animale. La pelle della bestia diventò rossa e noi tutti, con spazzole di metallo e raschiando con i coltelli, iniziammo
a togliere i peli. Dopodiché Peppe legò le zampe di dietro a una grossa fune, la passò su
una ruota appesa al telaio della stalla e il maiale in dieci minuti fu messo in croce.
In terra c’erano dei grossi catini di zinco e in ognuno vi fu depositata una parte del maiale
che Peppe tagliò con sapienza dopo averlo aperto in due.
Mio fratello aveva ancora rigurgiti di vomito.
Comunque quella sera non ci fu pasta e fagioli ma una scorpacciata di carne veramente
fresca e buona.
Dormivamo in una baracca vicino il porcile.
La moglie del fattore era più larga che alta, ma era brava persona come suo marito.
Peppe assomigliava ad Aldo Fabrizi; brontolone ma buono e di uguale stazza.
Peppe morì sotto il trattore.
Accadde un mattino mentre eravamo a pulire la porcilaia.
Da lontano sentivamo urla disperate che provenivano dal centro del campo di grano.
Lasciammo tutto e iniziammo lentamente a cercare la fonte di quei terribili richiami.
Il trattore di Peppe, che normalmente si poteva vedere passare tra i girasoli, era scomparso, ma una strana scia si era aperta tra le piante e portava direttamente sul canale
d’irrigazione. Lì inginocchiata la moglie di Peppe piangeva portandosi le mani al viso. Era
successo, non so perché, che il trattore aveva preso a mietere verso destra, mentre la mietitura avveniva, tenendo le spalle al casale, in verticale. Probabilmente Peppe aveva perso la
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guida del trattore, oppure dirigendosi verso il canale, aveva avuto un malore per cui la macchina si era ribaltata e lui era affogato. Non potemmo fare nulla.
La polizia era appena giunta sull’aia. Da dietro il covone di fieno guardavamo la moglie di
Peppe, la quale parlando alla polizia faceva anche i nostri nomi. Non so come accadde o
per quale motivo, forse avevamo semplicemente paura della polizia, fatto sta che scappammo a più non posso, lasciando dietro di noi anche i nostri risparmi.
Un camion che trasportava pozzolana ci diede un passaggio fino Roma. E la casa in eterna costruzione ci riaprì le sue braccia puzzolenti con i soliti materassi ora più che mai sporchi, le solite puzze e le solite idee; domani ci facciamo una doccia alla delegazione e cerchiamo un lavoro. Domandiamo anche a Cinecittà.
Riciar Burto era imbriaco
Per arrivare da Quarticciolo a Cinecittà, senza impiegare molto tempo, si doveva attraversare la campagna che delimitava l’aeroporto di Centocelle che era chiamata Torraccia per
via di un vecchio rudere di torre, per poi finire tra Porta Furba e via Tuscolana.
Proseguendo in direzione opposta al centro di Roma, sempre sulla Tuscolana, si arrivava
facilmente agli stabilimenti cinematografici.
Lì, su un muro eretto a ponte, con una guardiola che sembrava da sostegno al ponte stesso e che serviva da controllo per chi entrava o usciva, si poteva leggere a caratteri cubitali la
scritta CINECITTÀ.
Quella mattina di giovedì, eravamo lì davanti ai cancelli di buonora.
L’entrata era deserta e non si vedeva anima viva.
Qualche auto passava tirando dritto in direzione di Roma e viceversa.
Facemmo capolino dentro la guardiola, nessuno. Attorno, nessuno. Mentre ormai sfiduciati stavamo per andarcene, una voce si fece sentire: «Hei! Voi due!».
L’uomo si trovava dietro i cancelli dalla parte interna degli stabilimenti.
«Dico a voi» ripeté «se siete qui per fare le comparse su Cleopatra, siete venuti troppo
presto. I cancelli aprono alle sette, quindi tornate tra un paio d’ore».
Ci guardammo con gli occhi pieni di contentezza, poi mio fratello chiese all’uomo, che nel
frattempo si era seduto, se potevamo rimanere lì ad aspettare, questi ci guardò da capo a
piedi, fece un’alzata di spalle e si rimise a leggere la “Gazzetta dello Sport”.
Man mano che il tempo passava si vedevano arrivare altre persone che come noi speravano di fare le comparse.
Ogni tanto una grossa auto si infilava tra i cancelli, che venivano aperti dal guardiano con
mille inchini e riverenze. A seconda dei casi, diceva: «Buongiorno Maestro! Buon giorno
Dottore».
Ormai la folla di persone in attesa fuori dai cancelli si era fatta enorme e pressante.
Il brusio era forte e i discorsi sembravano fatti da attori veri. Chi diceva che aveva lavorato con Fellini, chi con Germi, qualcuno ancora pretendeva di aver fatto la controfigura di
Totò.
Qualcun altro si vantava di aver conosciuto personalmente Mastroianni, De Sica e Sordi,
un altro ancora insisteva di essere amico di Aldo Fabrizi.
Noi guardavamo fin dove si poteva la massa di comparse, sicuramente gente come noi
senza arte né parte, ma con molte speranze e infinita fame.
Ce n’erano di tutti i tipi; volti magrissimi aggrappati a colli di giraffe, altri ancora secchi da
far paura, con facce da circo equestre. Visi rotondi e grassi su carcasse di balene.
Si potevano vedere anche facce ingentilite da creme e capelli stretti dalla brillantina.
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Nell’insieme la massa sembrava una enorme bocca ruggente, voracissima, in procinto di
addentare i cancelli di Cinecittà.
Eravamo un po’ spaesati da tutto quel casino di gente e voci. Chi premeva di qua, chi di
là.
«A me mi devono prendere a lavorare, io so recitare!» diceva tra sé un “attore”.
«E che ti credi che io so’ monco?» ribatteva un altro.
«Ma che ne sai di come si fa l’attore, te che hai fatto solo quattro comparsate!».
Là tutti erano qualcuno. Tutti avevano fatto dei film e tutti conoscevano il tal regista, il
tale attore o il tal dei tali della produzione, mentre noi non conoscevamo nessun nome importante.
Dopo un paio di ore di attesa una parte del cancello si aprì improvvisa, l’uomo prese il tavolino della guardiola e, salendoci sopra con un megafono in mano, urlò: «Attenzione! Attenzioneeee! Vi prego di fare silenzio!».
Dopo aver ripetuto due volte la frase, il magma sembrò placarsi, allora, dopo aver squadrato la marea di persone, l’uomo riprese: «Oggi ci servono tantissime comparse, perciò
non vi affannate che ci sta lavoro per tutti. La selezione avverrà iniziando dai più piccoli di
statura e dai più scuri di pelle. Adesso però dovete fare largo e mettervi ai lati del marciapiede perché devono entrare con la loro machina Lizze Tailo e Riciar Burto».
Scendendo, rimise tavolino e megafono al loro posto, appena fu di nuovo fuori dal cancello si sbracciò cercando di mantenere la strada il più libera possibile da tutte quelle persone.
I primi due motociclisti arrivarono sui loro rombanti cavalli d’acciaio, mentre la Rolls
Royce di Liz Taylor e Richard Burton rallentava attirando l’attenzione di tutta la massa,
inclusi noi due. Dopo essere riuscita a superare il mare di gente e aver ricevuto centinaia di
flash da parte dei fotografi in attesa, l’auto si fermò e il cancello venne richiuso immediatamente dal guardiano.
Scesero loro, le due stelle del momento; Marcantonio e Cleopatra.
Molte persone gli si affannarono attorno.
Cinque o sei individui parlavano in inglese mentre facevano ancora foto. Liz e Richard
stringevano mani o salutavano la massa che, dietro a cancelli, premeva ancora più forte.
Poi, dopo averci mandato mille sorrisi e bacini, risalirono in auto scomparendo nei viali in
direzione degli studi.
La selezione delle comparse venne fatta in modo molto sbrigativo. Chi aveva la pelle scura doveva passare per primo, dopodiché anche gli altri potevano entrare.
In una camera a parte, senza tanti preamboli o domande, venivamo fatti sedere sotto delle
fortissime luci per poi essere dipinti di nero, compresi i capelli.
Quando fu il mio turno provai a chiedere se era proprio necessario:
«A regazzi’, voi lavora’? Se sì, statti zitto, se no, alzati e vattene che io non ci ho tempo da
perde’».
Mi rinchiusi nelle spalle dando un’occhiata a mio fratello il quale, quando la prima spennellata di “qualcosa puzzolente e nero” si posò sulla mia faccia, iniziò a ridere.
Finita l’operazione lo stesso uomo mi mandò in un’altra camera dove avrei dovuto essere
vestito con dei panni tipo egiziano, per poi essere spedito, insieme a tutti gli altri già pronti,
fuori dallo studio nel quale era stato allestito un set fatto di cartapesta, in stile faraonico.
Da lontano si notavano due troni con altrettante persone sedute. Dovevano essere gli attori principali ma, da quella distanza, non riuscivo a distinguere bene le figure. Ricordo solo
che dalle otto di mattino fino alle due del pomeriggio ci fecero andare avanti e indietro,
sempre nello stesso modo e alla stessa distanza, trenta metri avanti e trenta indietro. Dopo
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esserci lavati e cambiati ci misero in fila indiana, in direzione dei cancelli di uscita. Man mano che ognuno oltrepassava la guardiola, gli veniva data una busta contenente mezzo pollo
arrosto, patate fritte e tremila lire di paga giornaliera.
La marea umana, che il mattino premeva ai cancelli, ora era tutta fuori, seduta sull’erba in
un silenzio indescrivibile. Si sentiva soltanto il rumore della ganasce che combattevano
contro la gola per non farle inghiottire il pollo prima di essere stato masticato a dovere.
Noi facevamo altrettanto.
Vicino a noi c’era l’uomo che quel mattino diceva di aver conosciuto, anzi di essere amico, di molti attori. Mi venne voglia di fargli una domanda.
«Senti, scusa, ma giacché tu hai fatto tanti film con attori famosi e per di più ne conosci
moltissimi, perché ci hanno fatto stare tutto il giorno in piedi, ad andare avanti e indietro?».
L’uomo si girò verso di me e, guardandomi con la bocca piena di pollo e ossa, rispose:
«Ma che non te sei accorto che ci hanno fatto ripete la scena quindici volte?!».
«Come sarebbe a dire ci hanno fatto ripetere la scena quindici volte! E perché?».
Allora l’uomo, senza smettere di martoriare quel povero osso di pollo, che adesso stava
usando come stuzzicadenti, con molta pazienza rispose:
«Ma che non lo sapete che già dalla prima scena Riciar Burto era imbriaco? E poi non se
voleva leva’ manco l’orologio pe’ paura che glie lo rubassero. Aoh!? Ma che ne sapete voi…
io ho studiato e so che l’antichi romani non portavano ancora l’orologi…».
Disse tutto ciò talmente convinto che a me e mio fratello ci scappò una risata fortissima
seguita da quella canzonatoria delle altre comparse sparse nel prato. Qualcuno, nello spiazzo, si sbudellava dalle risa, altri neanche gli dettero retta, mentre un altro quasi si strozzava
per colpa della bocca piena all’inverosimile di patate fritte e pollo.
L’attore, con uno scatto, si alzò in piedi stizzito, iniziando a gridare contro la massa: «Siete
tutti invidiosi de me perché io so’ un grande attore e voi soltanto delle miserabili comparse.
Siete tutti degli stronzi gelosi!».
La platea ormai si stava scaldando, quindi sul più bello dell’arrabbiatura una voce da fondo campo urlò: «Aoh! A Marce’, se sei un grande attore perché non t’hanno fatto fa’ la
parte di Marcantonio?!».
Marcello “il grande attore” stava per scoppiare, ma non s’arrese, anzi salì su una grossa
pietra – con la sua lunga barba grigia, sembrava un antico oratore – e iniziò a urlare contro
la plebe:
«Ignoranti! Voi tutti e tutti quelli che lavorano nel cinema. Anche li reggisti e la produzzione.
Tutti ci hanno paura che gli rubo er mestiere o che gli chiedo un sacco de sordi a firme!».
Alzando di più la testa in modo di poter vedere meglio il pubblico, agitando un braccio e
svolazzandolo a mezz’aria, continuò: «Ma cosa ne sapete voi, animali e morti de fame! Io
ho lavorato con Germi e De Sica, io sono un attore neolaristico avete capito?!».
Poi rimettendosi a sedere continuava a ripetere frasi di gelosia, invidia, nomi di attori, registi e titoli di film a cui diceva aver preso parte.
Mentre la folla continuava a sghignazzare, noi ci allontanammo in direzione di Centocelle,
verso il cinema Platino. Quella sera davano un film di Karaté.
Il giorno dopo, a Cinecittà, si presentò la stessa scena. L’oceano di persone era uguale al
giorno prima, così i volti; Liz Taylor e Richard Burton sul trono, l’usciere sulla sedia nella
guardiola con la Gazzetta dello Sport, la massa di soldati (noi appunto), scena muta, tre
passi indietro, cinque avanti. Molti “schiavi” stesi in terra. Tanta salsa di pomodoro sparsa
su volti e corpi, cavalli di cartapesta morti. Altri soldati “lancia in su, lancia in giù, morite!”.
Le riprese andavano avanti.
Dopo circa otto ore fu tutto finito.
All’uscita mezzo pollo, patate fritte, tremila lire.
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Ganasce piene sul piazzale.
Marcello oratore preso in giro, risate a squarciagola, “stronzi invidiosi”… e a domani.
Nei giorni a venire, quando finirono i soldi, per i nostri stomaci cercavamo “rifugio” ricorrendo sempre ai soliti conventi, dove un pasto gratis e caldo, non sempre gli avanzi di
cucina, si poteva trovare senza difficoltà (appunto come ho detto qualche pagina avanti; un
“Padre Nostro” e la scodella era sempre pronta). Ci capitò anche il “prete-quiz”.
Questo Don Michele era parroco di una chiesa, se ricordo bene, sulla via Casilina, e prima
di darci la scodella con baccalà e patate voleva sapere, facendoci delle domande sulla Passione di Cristo, a quale “stazione” si riferisse la tale figura di Gesù sul tale quadretto della
via Crucis. Fortunatamente avevamo ancora i ricordi del collegio e delle preghiere fatte
assieme alle suore, così rimediavamo, oltre al baccalà, anche cento lire a testa e dei vestiti
puliti, comprese scarpe, il tutto usato. Quando ci trovavamo da quelle parti facevamo un
salto da Don Michele e lui, atteggiandosi come Mike Bongiorno a Lascia o Raddoppia, iniziava con le sue domande su preghiere, canti, nomi di santi e altre cose religiose; non andavamo mai via a mani vuote. Eravamo dei piccoli campioni.
Film + Rivista + Soubrette: prezzo unico
Un giorno come tanti, vagabondando in centro, vedemmo incollate sui muri, iniziando da
Porta Maggiore, locandine di spettacoli, “Film + Rivista + Soubrette: prezzo unico”, che si
davano al Cinema Teatro Ambra Jovinelli.
Camminando ci trovammo a piazza Vittorio.
Il mercato stava sbancando e le giostrine invece si stavano accendendo. Il tram girava
tutt’attorno e il mago delle tre carte, ma anche di fumo negli occhi, sotto i portici faceva
buoni affari, essendo circondato da un nugolo di persone.
Ci mettemmo a sedere ai piedi di un’antica costruzione situata nei giardini in attesa che gli
spazzini finissero di pulire la piazza con i loro idranti e grosse scope uguali a quelle delle
streghe. Guardavamo in silenzio tutte le persone indaffarate tra le siepi e i banchi vendita
smontati.
Il colonnato tutt’attorno imprigionava la piazza come due grosse braccia materne a proteggere ciò che stava nel centro: piante e siepi, mercanti e acquirenti, giostrai e bambini in
attesa, antichità diroccate, tram e automobili, spazzini, rari venditori di accendini, carte taroccate e naturalmente noi due.
Vista con gli occhi di allora e la mente di adesso, rimpiango la tranquillità di quella piazza
tinta in quel bianco e nero neorealistico e sincero che man mano è andato scomparendo sin
dalla fine degli anni ’70.
Oggi tutto l’Esquilino è divenuto un quadro astratto dipinto da un pazzoide impressionista, caotico. Non ci sono più i vari “bazar” riciclatori di piccole cose rubate. Non ci sono
quei posteggiatori abusivi che, nonostante non gli si dava la mancia, ti guardavano lo stesso
la macchina e con un’alzatina di spalle dicevano Non fa niente, dotto’.
Non ci sono più scopini in grembiule blu e carrettino al seguito, giornale spiegazzato nella
tasca dei pantaloni e cicca tra le labbra, adesso ci sono “operatori ambientali” con diploma
da ragioniere, occhiali da sole e walkman alle orecchie. Il vecchio tram è rimasto in garage e
la “metro” vola. Le amorevoli matrone sono scomparse lasciando il posto alla geisha d’oltre
mare impadronitasi della piazza e di tutti i gatti per il suo ristorante Cinese, tra sauté, ananas, sorrisi ammiccanti e discutibili tortellini in brodo.
Il porticato, il colonnato, il chiostro da me amato e “vissuto” negli anni di “fuori casa”,
ora è pieno all’inverosimile di “tutti i colori del mondo”. I romani sono emigrati vendendo i
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propri averi e svendendo la propria identità. Le giostrine hanno lasciato il posto alla Torre
di Babele; non più “buon giorno”, ma “vo’ cumprà!?” e zingari appiccicosi.
Lassù, Santa Maria Maggiore guarda in silenzio.
«Che belle le giostre» dissi.
«A cosa stai pensando?» chiese mio fratello intuendo il mio desiderio.
«A niente. Guardavo solo le giostre».
«Non mi dirai che vuoi fare un giro?».
«No! Non serve, magari poi non ci bastano i soldi per il Cinema» risposi.
«Andiamo a chiedere dove sta lo Jovinelli.» Così dicendo, mio fratello si alzò e io lo seguii.
Lo Jovinelli era a due passi dalla piazza, direzione Centrale del Latte.
Arrivati ci fermammo per vedere le locandine esposte e dare anche un’occhiata al biglietto
d’entrata. Sì, avevamo soldi abbastanza.
«Ma che ti sei incantato?».
La voce di mio fratello mi svegliò frantumando il mio sogno tra le braccia della soubrette,
che insisteva a sorridermi dalla locandina.
«Dai entriamo che la vediamo in carne e ossa…».
Prendemmo biglietti e posti in prima fila. La sala era piena di fumo e di uomini, molti in
divisa militare.
Il sipario era aperto e, dopo circa dieci minuti, iniziò un film-documentario di donnine
nude intitolato “Bellezze al Mare”: qualche mezzo petto di donna al vento, molte cosce
scoperte non più di tanto, un uomo e una donna dietro una cunetta di sabbia e gambe
all’aria, “eccitati se sei capace di immaginare ciò che stiamo facendo”, e mugolii vari, il tutto
chiuso alla svelta dalla cinepresa (censura).
Poi il silenzio assoluto rotto dai militari in sala “Quadroooo! Quadrooooo!”.
Il varietà era composto da un comico rotondetto, non molto alto, con pochi capelli e la
parlata pugliese. “Quattro ballerine Quattro” di antica data di nascita, sbavate di rossetti e
tinture, e poi “lei”, quella delle locandine. Anche lei di antica data, con un parruccone
biondo, impiastricciamenti sul viso e sugli occhi, e la bocca da cavallo. A me piaceva.
L’orchestra comprendeva un pianista tipo Einstein, capelli dritti, scomposti e grigi, un
piano sottopalco, un chitarrista con la scoliosi, un mandolino senza denti con due ciuffi di
capelli soltanto appena sopra le orecchie, e per il resto tabula rasa. Clarinetto e trombetta
sembravano gemelli: occhialoni e al posto del naso una proboscide. Gli orchestrali avevano
tutti gli occhi infossati e sui loro volti si notava una magrezza bellica;
L’Orchestrina era in procinto di svenire per la fame.
Quando capitava una piccola stonatura della tromba per mancanza di fiato, dalla sala il
solito borgataro urlava «Aoh! A trombettie’ sonace er silenzio che ormai sei arivato!» e giù
una grande e fragorosa risata generale.
Il ballo della “prima ballerina” consisteva nel muovere il culo a destra e a manca, lo faceva
fuori tempo, mantenendo il sorriso a trentadue denti, anzi credo che di denti ne avesse
molti meno, perché, in un attimo di fischiettante entusiasmo degli spettatori, allargando le
fauci, lasciava intravedere delle finestre non proprio nel profondo della bocca.
Le canzoni, come da copione, furono “Grazie dei Fior” e poi, col coro delle ballerine,
un’altra molto allegra che parlava del capitano di una nave in mezzo al mare e dei marinai.
Compensava lo scompenso dentistico e canoro alzandosi ogni tanto la merlatura che la
ricopriva, nel mostrare di più le cosce e aumentando i movimenti del seno e del sedere. Le
sue occhiate, ammiccanti e assonnate, sotto palpebre grandi come ombrelloni, invogliavano
il pubblico a sproloqui, inviti, «a bona!» e fischi vari.
Di rimando la nostra star ogni tanto, sempre mantenendo aperta la bocca da un orecchio
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all’altro, lanciava un “a tu’ sorella!” e il pubblico giù risate a crepapelle.
Il comico, con l’eterna sigaretta accesa in mano, incravattato come Chaplin, raccontava
qualche barzelletta a doppio senso che il pubblico non capiva restando incerto se ridere o
no.
Per riprendersi dall’ignoranza degli spettatori «Aoh! ripeti che non avemo capito!», iniziava a ballare il tip tap roteando il bastone tra le mani e dissertando sulla bellezza femminile
come un venditore di cocomeri.
Le parolacce che riceveva non lo toccavano affatto, anzi con la sigaretta sbuffava di più.
Dal bibitaio ci comprammo due mostaccioli (biscotti tra il verde scuro e il marrone, spugnosi, duri, ma buoni) e due aranciate.
Lo spettacolo era finito.
Per noi, per la prima volta al varietà, fu uno spettacolo bellissimo. Indimenticabile.
Il più bel posto del mondo
Piazza di Spagna, con la scalinata di Trinità dei Monti, è il più bel posto del mondo.
A piazza di Spagna, se ti siedi sulla Barcaccia o sui gradini, sei il padrone di Roma.
A piazza di Spagna con l’infiorata, la Madonna e un raggio di sole ti passano tutte le malinconie.
A piazza di Spagna puoi fare nuovi incontri e avere nuovi amici.
Sulla scalinata c’era molta gente. I soliti vigili, i soliti americani, i soliti chitarristi e tanti
bulletti di periferia, chi bene e chi male tutti vestiti alla moda con la sigaretta tra le labbra.
Scendevamo piano da via Sistina. Da lassù si poteva vedere tutta la piazza. Dopo un po’
di scalini, mio fratello mi diede una leggera gomitata.
«Guarda chi c’è laggiù».
Provai a mettere a fuoco la vista. In quel marasma non era poi così facile distinguere le
persone.
«Ma quello è Er poraccio!» esclamai sorpreso.
«Andiamo» disse mio fratello.
Er poraccio era lì a parlare con quel suo gesticolare tipico. Vedendoci si alzò di scatto.
«Aoh! A rubbacornetti, che ci state a fa’ qui? Venite che ve presento due amici miei!».
Insieme a lui si trovavano altri due ragazzi più o meno della nostra età.
Nel parlare scoprimmo che anche loro avevano passato come noi la gioventù tra collegi,
famiglie povere, mancanza di affetto, di valori, di una casa, genitori troppo impegnati a
sbarcare il lunario per educare.
Uno era soprannominato Diavoletto e l’altro er Cipolla.
Il primo magro con la faccia furba e i capelli rossi, il secondo un po’ rotondetto, con un
bel ciuffo di capelli neri talmente lucenti che non si poteva fare a meno di ammirarli.
Er Cipolla e Diavoletto avevano idee ballerine, per questo venivano giornalmente a piazza
di Spagna. Volevano essere notati da qualche persona dello spettacolo con la speranza di
entrare in televisione.
Il sole era molto caldo e la fame si stava facendo sentire, quindi, parlando tra noi cinque,
decidemmo che era arrivato il momento di mangiare, già, ma dove?!
Cipolla disse: «Aoh! Aspettate un momento che prima vado a fa’ una bevuta alla fontana,
e poi ve dirò come possiamo magna’ senza paga’».
Quando ritornò aveva una sigaretta in bocca, chiesta sicuramente a qualche passante.
Ogni scalino era un colpo di tosse, nonostante cercasse di mostrare, in malo modo, di saper
fumare senza problemi. Ci raccolse, con fare carbonaro, attorno a sé.
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«Lo sapete che famo? Andiamo alla trattoria che sta qui dietro, ci mettiamo a un tavolo
vicino alla porta e poi, quando abbiamo finito de magna’, chiedemo il conto al cameriere,
nel momento che il cameriere gira le spalle e s’allontana verso la cassa, via de filata tutti
fuori a corre’».
Così accadde.
Spolveratina ai vestiti, lavatina al viso nella barcaccia, pettinata, sputazzata e lucidatura
delle scarpe con carta tirata fuori dal cestino dell’immondizia.
Mangiammo con educazione per non dare nell’occhio.
Il cameriere zoppicava e camminava tenendo il corpo, dalla pancia all’insù, all’indietro,
come guardasse il soffitto. Per non dare nell’occhio, quando il “cameriere controvento” si
fosse avvicinato a noi, dovevamo parlare di scuola e professori. Chiedemmo il conto dopo
la torta. E la fuga fu facile; via della Spiga, via Condotti e via del Corso. Correndo ridevamo
a crepapelle.
Ben presto esaurimmo le prede. Tutte le trattorie e i ristoranti del centro ci avevano dato
da mangiare, e non rimanevano che i soliti conventi a cui rivolgerci.
Per dormire, oramai che avevamo formato una banda, andavamo sotto la collina dei Parioli. Là si trovavano, scavati nella terra, dei cunicoli dove, oltre noi, si rifugiavano barboni
e disastrati. A volte queste specie di grotte erano tutte occupate, quindi bisognava cercare
un riparo altrove. Se si riusciva a trovare un camion dei traslochi, era cosa fatta, in quanto
dentro il cassone c’erano sempre coperte, anche se impolverate, su cui poggiarsi o coprirsi.
I nostri giorni si consumavano così, tra piazza di Spagna, trattorie e fughe, conventi miserevoli, camion dei trasporti, cunicoli, barboni, gattare e vecchie mignotte.
A pancia piena era bello stare seduti sotto il sole, sulla scalinata di piazza di Spagna.
Molta gente passava, altri sostavano.
C’era Ringo, alto un chilometro, che aveva una lunga chioma di capelli biondi da far invidia alle donne. Ringo conosceva sia Cipolla che Diavoletto. Quando si avvicinava per salutarli, iniziava sempre a parlare di cinema e del Piper; del cinema perché diceva di lavorare
spesso in film di cowboy, del Piper perché lì aveva molti amici più o meno famosi e la sera,
a suo dire, il proprietario lo faceva entrare gratis.
Conosceva Patty Pravo, anzi diceva di essere un suo caro amico e di aver fatto con lei dei
film e dell’altro.
E poi c’era Renato, che qualche altro sbandato come noi chiamava Renata. Renato aveva
capelli corvini e lucenti. Qualche leggero filo di mascara attorno gli occhi, il viso bianco e le
pupille marroni rendevano il suo sorriso magico, la sua espressione ambiguamente furba.
Lo si ammirava, in special modo, quando saliva o scendeva la scalinata. A volte il cretino
di turno faceva battute ironiche, ciniche e allusive alla sua omosessualità, ma tutti noi lo
guardavamo con ammirazione, rispetto e amicizia. Il suo fantastico modo di camminare, il
suo portamento da gazzella, il suo sguardo fermo da “borgataro fine”, facevano da deterrente all’invidia di altri “ragazzi di vita” perché lui, Renato, era unico; un diamante nero tra
cento zirconi.
Estrosamente vestito di nero, indossava spesso zatteroni ai piedi, cappello nero a falde,
ogni volta, dopo aver scambiato qualche battuta con noi, incurante delle battutacce altrui,
con fare sereno e amichevole, ci salutava così: «Ciao nì!».
Scendeva giù per la scalinata come una diva del cinema, spesso era accompagnato dalla
sua amica Loredana, anch’essa estroversa e un po’ pazzerella. Sembrava che i suoi passi non
toccassero terra, era come volasse sul travertino. Quando il sole stava per calare, salutava da
“Sciantosa” con un “Se vedemo al Piper” e scompariva come era venuto; in un calmo silenzio.
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Il pane quotidiano
Passavamo il tempo girovagando per Roma alla ricerca del pane quotidiano.
Come spesso facevamo, prendemmo via del Corso, piazza del Popolo, di nuovo via del
Corso direzione piazza Navona, e infine Fontana di Trevi.
Un giorno, quando ci mettemmo a sedere sul bordo della fontana, Er poraccio disse sottovoce: «Aoh!, che ne dite se famo uno scippo!?».
«E a chi?!» chiesero in coro Cipolla e Diavoletto.
«Come a chi?» esclamò Er poraccio, poi aggiunse: «Strappiamo la borsetta alla prima donna che capita».
Il tono della voce non tradiva emozioni. Per lui la cosa era talmente normale, talmente
semplice, che noi ci sentimmo un po’ stupidi nel guardarlo meravigliati.
Come avesse letto i nostri pensieri, disse ancora: «Voi due restate qui e fate da palo, io e
loro cerchiamo di strappa’ tre borsette a tre donne diverse, se nel frattempo vedete la polizia fate un fischio. Se ce vedete core co’ le borsette, se ritrovamo tutti a piazza di Spagna e
se dividemo i soldi».
Ci guardò uno per uno fisso negli occhi, come cercasse un unanime consenso.
«Siamo d’accordo?».
Cipolla fece un gesto di disappunto, ma fu subito bloccato dallo sguardo fermo di Er poraccio.
C’incamminammo attorno Fontana di Trevi.
Er poraccio fece cenno con la testa agli altri due in modo che capissero che lui già aveva
scelto le prede anche per loro. Con le mani abbassate, e impercettibili cenni con le stesse, ci
indicò il luogo in cui avremmo dovuto fare da “palo”.
Ed ecco all’improvviso l’urlo d’aiuto sparato in aria da due vittime. Una urlava in inglese,
l’altra, molto più forte, in italiano, la terza se ne stava lì imbambolata senza proferire alcun
suono guardandosi attorno per riordinare le idee e capire ciò che le era accaduto.
Noi due che facevamo da palo fummo colti di sorpresa e, come il pregiudicato che di
fronte a un allarme scappa anche se non sta facendo nulla, iniziammo a correre come matti
dietro di loro. Arrivammo in un baleno nelle grotte dormitorio dei Parioli. Lì, con soddisfazione, dividemmo il contenuto della razzia.
Un mondo fantastico
Decidemmo di andare a mangiare in una rosticceria vicino al Piper. Dopo aver mangiato
supplì e pollo, andammo in discoteca.
Per me e mio fratello quel luogo era qualcosa di nuovo, affascinante, curioso, perché non
eravamo mai stati in una sala da ballo.
Luci molto basse, musica rompitimpani. Tutto era bellissimo.
C’erano ragazze, tante ragazze lì dentro. Minigonne che non facevano soltanto vedere il
colore degli slip, ma addirittura lasciavano intravedere il sesso femminile così com’è, perché
qualcuna, disinvoltamente, non portava mutandine. Una di queste senza slip era l’amica di
Renato, la quale, nella sua danza, si torceva in modo sensualissimo, sia che “Renato” ballasse con lei, sia che rimanesse sola nella pista. Quando ciò accadeva, tutti i presenti
all’unisono la nominavano – LO-RE-DA-NA! LO-RE-DA-NA! - e lei, con quel suo fare,
quel suo ancheggiare, il trucco marcato, l’ammiccare, gli slip lasciati a casa (o nella borsetta),
faceva “svegliare” tutti i sensi, scombussolando mente e corpo.
Eravamo meravigliati e stupiti nel constatare che esisteva un altro mondo parallelo al no58
stro. Un mondo fantastico.
Io e mio fratello ci mettemmo in un cantuccio, mentre gli altri tre andarono in mezzo alla
sala, mischiandosi, ancheggiando come facevano tutti attorno a Loredana e Renato.
Sul palco c’era lei, Patty Pravo. Si muoveva e cantava allegra, i capelli biondi sciolti sulle
spalle, le sue movenze particolari, il sorriso tra labbra sensuali e denti bellissimi, gli occhi
dalle lunghe ciglia, incantavano. Aveva grazia, poesia e qualcosa di nuovo nel suo magico
gesticolare.
Sotto il palco il suo amico Ringo si torceva come un forsennato, sembrava avesse dolori
di stomaco. La sua chioma svolazzante si poteva intravedere anche stando sdraiati sul pavimento, tanto era alto. Renato, in compagnia di altre persone, provò ad accennare qualche
canzone, ma quando capì che non era il momento adatto per esprimersi rimise a posto le
corde vocali, gettandosi nella mischia e iniziando a ballare.
I suoi movimenti erano differenti da quelli che avevamo visto fino allora. Lui si muoveva
con fare calmo e aggraziato, facendo sventolare le mani come volesse avvolgere l’intera sala
e accarezzare la testa di ognuno. Volteggiando su se stesso lasciava che i suoi pantaloni neri
e il foulard svolazzassero dal basso verso l’alto e viceversa, sempre con la grazia che aveva
quando camminava per strada.
Uscimmo dal locale inoltrandoci in via Tagliamento per raggiungere il nostro rifugio.
La pioggia, lungo il tragitto, iniziava a essere ossessiva, inzuppandoci come spugne.
Quando fummo quasi arrivati vedemmo molte auto della polizia e un’autoambulanza che,
ferme e a sirene ululanti, ostruivano il passaggio verso le grotte.
Ascoltando il vociferare dei curiosi capimmo che Claudio (un ragazzo che come noi era
sempre a piazza di Spagna e il più delle volte sembrava ubriaco, anche se sapevamo che
non beveva alcool) si era suicidato, appeso a un albero, lasciandosi imprigionare dalla cima
delle sue ideologie di libertà, amore libero, no al Vietnam, scuole occupate e marijuana. Con
tristezza, senza pensare all’appuntamento con gli altri tre, che erano rimasti nella discoteca,
quella sera andammo di nuovo a dormire nel piccolo camioncino parcheggiato in via della
Croce.
Piaceri
Il rumore del nostro letto (il camioncino) ci fece sobbalzare. Si era messo in moto iniziando a marciare. In un balzo, ancora mezzi assonnati, fummo fuori prima che acquistasse
velocità. La pioggia era cessata, il sole appena sorto. Sciacquatina alla barcaccia.
Avevamo ancora qualche soldo in tasca, quindi decidemmo di fare colazione nell’unico
bar aperto così presto. Vedendo i prezzi di listino esposti fuori, cambiammo idea intrufolandoci nel forno che i nostri nasi, seguendo l’odore di pane appena sfornato, trovarono
subito dopo aver girato un angolo di via Condotti.
Pizza bianca calda e croccante… che leccornia!
Addentando la nostra colazione, ci dirigemmo verso la scalinata, appena pulita dagli spazzini, per gustarci quella bontà.
«Aoh!? A rubbacornetti, non è che co’ tutta quella pizza vi ingrassate?! Me ne date un pezzo?».
Er poraccio era lì a dieci metri in compagnia del Cipolla e Diavoletto. Vennero a sedersi
accanto a noi. Un pezzo di pizza a destra, un altro a manca, e la colazione andò a finire
quasi tutta nelle bocche ospiti.
Diavoletto iniziò a raccontare: la sera prima, usciti dalla discoteca, non erano andati alle
grotte, ma su al Pincio a caccia di pederasti. Lì avevano rimorchiato un pezzo grosso della
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televisione che viaggiava su una Maserati coupè di color grigio metallizzato. Dopo essere
saliti in auto erano andati a Villa Borghese. Parcheggiata la macchina, l’uomo si era sdraiato
su una panchina di marmo e loro, mettendosi ai suoi lati, si erano masturbati lasciando cadere il loro “umore”, appunto come desiderava l’uomo, sul suo viso.
Invece di aspettare che la vittima si fosse ripresa dai suoi “piaceri” e gli desse i soldi promessi, i tre avevano iniziato a frugargli nelle tasche. Le minacce del Cipolla lo avevano fatto
desistere da ogni reazione. Orologio, portafoglio, anello e altri effetti personali furono il
bottino. Poi parolacce schifose a non finire. Le chiavi dell’auto buttate nel laghetto e, come
ringraziamento, una scarica di botte.
«Aoh! L’abbiamo lasciato proprio mezzo morto, quel frocio schifoso!».
Da come la raccontavano sembrava avessero fatto una cosa fantastica.
Se ne vantavano con quell’atteggiamento da veri teppisti di periferia. Noi due, anche se li
avevamo assecondati fino a quel momento, sapevamo benissimo che quello non era il nostro modo di vivere, non era il nostro mondo. Mio fratello disse che ce ne saremmo tornati
al Quarticciolo.
Il mercato non aveva ancora chiuso, quindi, non potendo fare, come ci eravamo ripromessi, un giro sulle giostre in mezzo la piazza, passammo la giornata andando avanti e indietro tutt’attorno le vie dell’Esquilino.
Nel suo negozio di via Tasso, er Nasone vendeva di tutto. Oggetti riciclati, ricettati e articoli nuovi. Ci fece lavorare per tutto il pomeriggio scaricando da furgoni ogni tipo di articolo; televisori, radio, mobiletti, chincaglieria varia e cosi via. La sera venne la mamma,
tipica matrona romana, e ci portò un piatto di spaghetti alla amatriciana che mangiammo
nel negozio. Nasone ci regalò della scarpe nuove, due pullover, anch’essi nuovi, e mille lire
a testa. Cambiati e sazi uscimmo riproponendoci per l’indomani.
«Non lo so» fu la sua risposta «comunque quando volete passate». Era una brava persona.
Al cinema Apollo, lì vicino, davano un film di “Ercole”. La sala era buia. Prendemmo posto in un angolo. Vicino a me venne un uomo che sedendosi mi toccò con il gomito. Per
dargli spazio scostai il mio braccio.
Una decina di minuti dopo la “prima fatica di Ercole”, sentii la mano dell’uomo toccarmi
il ginocchio, poi salire lentamente verso la chiusura dei pantaloni. Scostai la sua mano con
un gesto stizzito.
«Ma cosa vuoi?» dissi ad alta voce.
L’uomo non fiatava. Qualche testa si girò.
«Silenzio!».
«Cosa ti ha fatto Erne’?» chiese mio fratello.
«Mi stava toccando tra le gambe» risposi.
Mio fratello si alzò iniziando a infierire contro il pederasta il quale, per difendersi, diceva
che non era stata sua intenzione toccarmi tra le gambe.
«Silenzio! Silenzio!».
Molti spettatori spazientiti ci invitavano ad andare a litigare fuori.
«Ma io ti spacco le ossa, brutto porco che non sei altro!» mio fratello era furioso.
Lo prese per il bavero della giacca.
Ormai l’uomo, prigioniero dalla presa, veniva sballottato avanti e indietro.
Il film non fu interrotto, ma in compenso si accesero le luci. La maschera del cinema ci
venne incontro e, senza domandare cosa diavolo stesse accadendo, urlò alla cassiera, che
nel frattempo si era affacciata in sala, di chiamare la Celere.
«Presto signorina chiami la celere che ho preso quel porco che infastidisce sempre gli
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spettatori».
Seguimmo la maschera mentre portava fuori dalla sala l’uomo. Arrivati nell’atrio, questi,
con uno scatto disperato e repentino, si divincolò dalla presa riuscendo a guadagnare
l’uscita.
Noi anche, chissà per quale paura, levammo le tende e, appena fuori, prendemmo la direzione Stazione Termini.
Non avevamo visto tutte “Le Fatiche di Ercole”, e l’amatriciana, mangiata un’oretta prima, era adesso diventata un frullato di pasta, pancetta e pecorino.
La carrozzeria del Commendatore
La nostra via, la Prenestina, ci fece raggiungere subito il rifugio; la casa di via Lucera in
perenne costruzione, davanti al capolinea del tram 14.
Tutto era rimasto come lo avevamo lasciato qualche giorno prima; reti e materassi erano
al loro posto, e così le coperte che avevamo preso in “prestito” molto tempo prima nei
camion dei trasporti. Ci addormentammo non prima di aver discusso sul da farsi nei giorni
a venire. C’era urgenza di una sistemazione definitiva. Non potevamo continuare a fare gli
“sfollati”, stare in mezzo alla strada, elemosinare il mangiare, non avere una casa, insomma
essere così, senza arte, né parte, anzi di meno. Magari avessimo potuto trovare un lavoro. A
Roma c’è tantissima buona gente, e chiedere non sarebbe costato nulla.
Il giorno dopo, di buon ora, ci incamminammo verso Cinecittà, speranzosi di poter lavorare in qualche film.
I cancelli erano spalancati. L’uomo nella guardiola ci disse che per qualche settimana non
c’era bisogno di comparse.
Riprendendo la via Tuscolana decidemmo di chiedere lavoro a ogni negozio che avremmo incontrato.
Il primo tentativo, in un alimentari, andò a vuoto; eravamo troppo giovani. E così il secondo, il terzo, e anche il quarto, sempre troppo giovani.
Le speranze, come il sole, quel giorno si stavano affievolendo.
Sulla via di Torpignattara avemmo la fortuna di entrare in una carrozzeria. Al lavoro c’era
soltanto una persona che si qualificò come il proprietario. Anche se non sapevamo fare
nulla, ci assunse come guardiani. Sì proprio guardiani. Ci avrebbe dato da mangiare, dormire e mille lire a settimana a testa in cambio della pulizia del locale e di piccoli lavoretti
nell’officina. Se poi in futuro avessimo imparato a lavorare un pochino sulle auto, ci avrebbe aumentato la paga.
I giorni passavano strofinando con le mani e carta inumidita sulle carrozzerie delle auto in
riparazione, risistemando gli arnesi e pulendo il locale. Il camper parcheggiato vicino al
bagno diventò la nostra casa… Finalmente un po’ di “modernità”.
Arrivò il giorno in cui il principale ci disse che aveva “comperato” (occupato abusivamente) un pezzo di terreno tra Quarticciolo e Centocelle, su via Palmiro Togliatti, via
chiamata anche “lo stradone”. Lì avrebbe aperto uno sfasciacarrozze, dove, se avessimo
voluto, avremmo potuto lavorare. Eravamo d’accordo.
Avrebbe costruito, a parte il capannone nel quale sarebbero stati custoditi i pezzi di ricambio, anche una baracca per noi perché, diceva, “mi si spezza il cuore vedere due bravi
ragazzi come voi senza famiglia”. Traslocammo senza il camper perché era stato venduto.
La prima costruzione fu il magazzino, fatto alla meno peggio, poi la recinzione, sulla quale
il principale scrisse, in modo strambo, “autodemolizzioni”. Io gli feci presente che doveva
scrivere il cartello con una sola zeta, e lui:
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«Aoh! Ma che mi frega! Stamo al Quarticciolo mica ai Parioli!».
La baracca per noi non fu mai costruita. Domani, domani, domani.
Essendo più muscoloso di me, mio fratello doveva tagliare, con una grossa ascia, le carrozzerie delle auto portate in demolizione. A me toccava portare, dopo che mio fratello li
aveva smontati, i pezzi di ricambio riciclabili nella baracca/magazzino/dormitorio.
Durante i primi giorni di lavoro a mio fratello iniziarono a crescere delle vesciche sulle
mani.
Fu per via dell’ascia, fatto sta, che dopo un po’ di giorni le ferite si rassodarono formandogli dei calli sui palmi delle mani.
Ricordo che mio fratello, con quelle bolle d’acqua sulle mani, soffrì molto. Quando il
principale gli domandò perché se le fosse fasciate con gli stracci, lui, per paura che ci mandasse via, rispose che lo aveva fatto per dare più forza ai colpi che menava sulle auto.
La baracca/magazzino/dormitorio era pavimentata con cartoni racimolati per strada, questo per non camminare nel fango e nel grasso che si staccavano dalle nostre scarpe, dato
che tutto il giorno eravamo indaffarati a smontare motori e svuotare serbatoi per riempire,
con olio e benzina succhiati dalle vecchie auto, quelli del nostro “principale”.
I letti erano quelli presi nella “nostra vecchia abitazione”.
Il gigantesco telone, che venne messo sulla casa, copriva il tetto di legno in modo che se
avesse piovuto non ci saremmo bagnati.
Parlando tra noi, quella sera, decidemmo che era arrivato il momento di chiedere un aumento al signor “Commendatore”, come si faceva chiamare il “principale”.
Ormai avevamo imparato a fare un pochino di tutto; demolire le auto, ordinare e catalogare i pezzi di ricambio, tenere a bada fantomatici ladri.
Quel mattino, dopo aver aperto il cancello, costruito da noi e fatto di filo spinato, ci mettemmo in attesa del “Commendatore”.
Quando arrivò ci diede la solita busta della colazione/pranzo/cena, che non conteneva
altro che gli avanzi dei pasti della sua famiglia. Non ci voleva molto per capirlo, perché si
trattava di irregolari pezzi di carne (quando c’era, quindi quasi mai) e pane, oppure quantità
varie di pasta e salse strane.
Allora mio fratello gli si fece incontro, gli chiese gli arretrati e un piccolo aumento dato
che “mille lire a settimana a testa” non è che facevano arricchire.
Il signor “Commenda”, dopo aver ascoltato con dovizia le nostre richieste, ci diede gli arretrati che ci doveva e sentenziò che da quel giorno avremmo avuto “duemila lire, due” a
settimana a testa.
Ringraziando non per la sua magnanimità, ma soltanto per la nostra contentezza di avere
qualche spicciolo di più in tasca, iniziammo con buona lena il lavoro tra olii, grassi, motori,
sportelli, molle, sporcizia e dolori di mano.
Dracula, così si chiamava il mastino napoletano che faceva da guardia come noi, era un
cane bruttissimo, e pericoloso. Il “Commenda” trattava la bestia come fosse un suo figliolo.
Una volta al giorno dovevo andare in una macelleria nelle vicinanze di piazza dei Mirti a
comperare un chilo e mezzo di “carne per cani” (avanzi del negozio).
Questo grosso e bavoso cane era legato a una catena massiccia in un angolo della baracca
dove erano custoditi i “pezzi” di ricambio pregiati.
La bestia, con il tempo, si era abituata alla nostra presenza e, per costrizione, noi alla sua.
Ci conosceva ormai, ma se un estraneo gli si avvicinava allora la sua bocca iniziava a sbavare e sbraitare, digrignando denti taglienti come lame di rasoio, lunghi come sciabole e assetati di sangue umano come quelli di un vampiro.
La bestia funzionava mille volte meglio del più sofisticato allarme. Talmente era orrendo
che se gli avessimo messo davanti agli occhi uno specchio, sarebbe morto d’infarto
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all’istante.
La settimana passò veloce e il giorno di paga arrivò presto.
All’una di pomeriggio il “Commenda” disse che sarebbe andato a casa a pranzare e che al
suo ritorno ci avrebbe pagati. Durante la sua assenza accendemmo un fuoco con sopra un
grosso catino pieno di acqua per poterci lavare.
«Ecco» disse il “Commenda” una volta tornato, «queste sono quattromila lire di questa
settimana e questo è il mangiare di oggi».
Poi, voltandosi in direzione dell’auto, aggiunse: «Riguardo il mangiare di domani, arrangiatevi perché vi pago abbastanza e non posso più portarvelo da casa. Anzi…» guardandoci
in modo furbo, proseguì «…potete comperarvi delle cose e cucinarvele direttamente qui,
così potrete dare gli avanzi a Dracula».
Per puro senso di sopravvivenza, rispondemmo che era una buona idea, quindi non doveva preoccuparsi, alla bestia ci avremmo pensato noi. Andandosene urlò: «A lunedì e fate
buona guardia».
Scomparve lasciandoci padroni del campo.
A piazza dei Mirti, angolo via dei Castani, direzione San Felice Cinema Platino, c’era una
trattoria dove, con 350 lire a persona, si poteva mangiare un piatto caldo. Così facemmo
quella sera: spezzatino con patate, due aranciate, mancia: 800 lire.
Da quella postazione, seduti sulla veranda fatta di tavole, mentre ci gustavamo la cena,
potevamo spaziare in lungo e largo per tutta la piazza. Si vedeva il Bar di “Carletto” affollato da “ragazzi di vita”. Altri stazionavano fuori, vicini ai binari del trenino, che faceva
capolinea nella piazza stessa.
Le loro auto, Ferrari, Porsche, Alfa Romeo, Maserati, Lamborghini e altre di piccola cilindrata, stavano parcheggiate disordinatamente quasi in mezzo alla strada, tra il Bar, la Tintoria e la trattoria “da Guido”.
Mentre la musica strombazzava fuori dai finestrini delle auto, molti di loro accennavano
passi di danza. Dalla nostra postazione potevamo vedere, alla nostra sinistra in via dei Platani, la farmacia aperta e, sulla destra, l’edicola chiusa sotto le luci accese del trenino in attesa di viaggiatori.
Guardavamo affascinati la piazza intera. Luci ovunque, gente con altra gente, famiglie e
bambini e poi quei ragazzi elegantissimi con quelle belle auto. Davano l’impressione di non
avere problemi di soldi.
Ogni tanto qualcuno di loro saliva in auto e sgommava a tutta velocità, girava un paio di
volte nella rotonda al centro della piazza facendo stridere fortemente le ruote, ritornando
poi al punto di partenza, dove riceveva elogi dai suoi amici.
Quella sera dopo il cinema c’incamminammo verso il nostro rifugio.
Dracula, al buio, con gli occhi molto più fluorescenti della luce del lampione e assetati di
sangue, faceva paura perfino a noi. Evitandolo, entrai nella baracca e presi la busta degli
avanzi, poi, senza tanti preamboli, ma con molta cautela, la gettai ai piedi del mostro che
iniziò a ringhiare ingoiando il tutto, compresa la busta di plastica.
Entrammo nella nostra reggia. Il mostro aveva smesso di combattere con il pranzo. Sicuramente si era addormentato o soffocato. Comunque…
Sulle nostre brande, smettemmo di desiderare tante cose, entrando nel mondo dei sogni.
La domenica arrivò con un sole caldo e splendente. Molte piante nei dintorni erano fiorite, i loro colori, svariati e con mille sfumature, davano un senso di freschezza e libertà.
Ci lavammo nell’acqua intiepidita che era nel fusto posto sotto i raggi del sole.
Forse un raggio di quel sole ci colpì quando, senza parlare, ma soltanto con uno sguardo
d’intesa, decidemmo di abbandonare, seduta stante, la puzza di olio, di benzina e di sporcizia. Liberarci dalla solitudine, dall’obbligo di dormire in una baracca tra motori copertoni,
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frizioni, macchie di grasso, dalla necessità di fare i “bisogni” nell’orto del vicino, dal grigiore, e dal mostro con le sembianze di cane.
Dopo aver chiuso alla meglio il cancello, andammo verso la piazza che la sera precedente
ci aveva meravigliati.
Attraversandola vedemmo le stesse cose della sera prima; belle auto, ragazzi seduti sui cofani che ascoltavano musica e ballavano senza interessarsi alla gente che, incuriosita, si girava a guardare. Affascinava la loro sicurezza nell’essere padroni della piazza e della situazione. Affascinava il loro modo di essere, i loro vestiti all’ultima moda; camicie strette in vita e
aperte sul petto, pantaloni a campana attillati, mocassini senza calze, capelli perfettamente a
posto, freschi di barbiere. E poi quelle grandi catene d’oro con grandi ciondoli a forma di
crocefisso appese al collo. Qualsiasi lavoro facessero, comunque sembravano felici.
Passammo un paio di giorni girovagando lì attorno, la sera ci rifugiavamo nella vecchia
casa. Materassi e coperte di cartoni e, il mattino, ossa doloranti. Una doccia, lire 25, alla
Delegazione del Quarticciolo ci toglieva di dosso puzze di strada e odori di povertà. Oltre a
svolgere servizi di anagrafe, aveva anche una dependance di Docce Pubbliche.
A Villa Gordiani
A Villa Gordiani il cantiere in costruzione era lì davanti a noi. Grande e lungo, sembrava
un serpente addormentato.
Il piano era il solito; saremmo entraticon la scusa di chiedere lavoro, ma con l’intenzione
di arraffare ciò che ci sarebbe capitato tra le mani. Passando da una camera all’altra, da un
corridoio all’altro, guardinghi, finalmente trovammo la stanza del “tesoro”. Molti abiti erano appesi al muro, sotto di essi scarpe e borse, sicuramente quest’ultime con dentro il
pranzo dei muratori.
Non volendo perdere tempo, chiesi a mio fratello se, invece di fare la guardia, potesse
darmi una mano. Quel giorno avremmo preso tutto ciò che si trovava nella stanza.
In un attimo ripulimmo gli attaccapanni da tutto quello che vi era appeso; vestiti, scarpe,
borse e ombrelli che avremmo rivenduto assieme ai vestiti la domenica a Porta Portese.
Mio fratello, mettendoseli nelle tasche, già si era impossessato dei portafogli.
Il grande sacco, formato da un giaccone, era ormai pieno di vestiario e altro. Per poterlo
trasportare fuori da lì, talmente era pesante e gonfio, dovevamo trainarlo in due.
Eravamo arrivati quasi all’uscita quando si sentì l’urlo di Tarzan echeggiare per tutto il
“serpente” di cemento e mattoni. E il “serpente” si svegliò.
«Aoh!…Ce stanno a ruba’ tutti li vestitiii… accoreteee… al ladroo!».
Credo che se il muratore che diede l’allarme avesse saputo che gli sarebbe caduta una
bomba atomica sulla testa, avrebbe gridato meno.
La sirena iniziò a ululare e la massa del “serpente”, un attimo prima sonnecchiante, incominciò a snodarsi nella nostra direzione.
Presi di sprovvista lasciammo cadere il grande fagotto e, come due persone che vogliono
battere il record di velocità calzando scarpe di marca “mezzasolamezza”, iniziammo la gimcana tra i muratori che ci si erano parati tutt’intorno come per vedere chi fosse il più svelto
in quel tunnel di mani alzate, se noi o i loro pugni…
Vinsero loro; tatatata-tatatata-tatatata.
I pugni chiusi si abbattevano sulle nostre schiene, ed erano talmente ripetitivi (tipo spari
di mitragliatrice) che era impossibile schivarli. Fortunatamente i nostri giovani movimenti,
le nostre snelle gambe, ci salvarono un pochino dalla scazzottatura.
Fuori dal cantiere, continuando a correre a perdifiato, qualche sasso fischiava sulle nostre
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teste, comunque schivato in modo professionale.
Ci fermammo quando fummo sicuri che la distanza e il fiatone erano sufficientemente
grandi e che il pericolo era passato.
I portafogli erano otto, mentre il contante non molto sostanzioso; tremila lire in tutto.
Abbastanza per un paio di giorni. Mettemmo qualche patente e altri effetti personali nella
prima buca delle lettere che ci capitò. Andammo poi verso la Stazione Termini.
Il girovagare lì dentro, tra treni, annunci, chiasso e una miriade di persone era, allo stesso
tempo, affascinante e curioso.
Dopo aver mangiato, in una rosticceria dalle parti di via Giolitti, un piatto di spaghetti
sfatti ce ne andammo al Cinema Roma, vicino piazza Vittorio. Davano un film con Stanlio
e Onlio. Risate. Usciti dal cinema, di nuovo verso la Stazione Termini.
A Milano nel trentotto c’eri tu amore mio
Man mano che il sole andava dall’altra parte del mondo, il via vai, che c’era stato fino a
quell’ora nella stazione, si assottigliava. Camminando ci ritrovammo nella sala d’aspetto di
seconda classe. Ci affacciamo nella prima classe, ma i volti combattivi e sospettosi della
gente che vi era dentro, le loro mani strette sulle valigie perché aspettava veramente di prendere il treno, ci avevano spinto ad andare nella sala d’aspetto a fianco.
Nella “seconda” la maggior parte delle persone sedute non aspettava altro che l’ora di
sdraiarsi sulle panche, che passasse il treno del tempo e dei sogni e che li caricasse tutti. In
un angolo vicino a un grande termosifone c’era uno spazio libero che occupammo alla
svelta per paura che qualche altro sbandato come noi ci anticipasse e ne facesse il suo giaciglio privato.
Passammo tutta la notte con un occhio aperto, in quanto qualche “ospite” non prometteva nulla di buono. Altri russavano rumorosamente. Comunque la notte passò tranquilla.
Il mattino seguente, al grido di “pulizie, pulizie, sgombrare la sala” da parte degli addetti,
aprimmo l’unico occhio che non aveva fatto la guardia durante la notte e, stirandoci per
alleviare le giunture anchilosate e doloranti, ci avviammo verso i bagni per lavarci.
Molti barboni erano là, indaffarati tra lavandini e toilette. Un paio di loro usavano il rasoio
elettrico infilato nella presa vicino allo specchio, mentre “quello di pennello e sapone” si
era quasi denudato e, cercando di lavarsi alla meglio con l’acqua fredda, teneva una cicca in
bocca. Altri tiravano fuori dai propri bagagli biancheria rimediata nelle parrocchie; una maglietta troppo stretta e piccola, una camicia così così. Un paio di scarpe possibilmente “in
servizio” per altri cento, duecento chilometri e un pantalone, come dicono in Puglia, alla
“zumpafoss”. E ancora: un panino lasciato a metà dalla sera prima, per farci colazione
mentre ci si lava. Il “tenore” inneggiava al “pagliaccio” pregandolo di ridere, mentre chi
rideva eravamo noi, e infine, in disparte, c’era la dolce signora Rosetta.
Da come avevamo potuto capire la sera prima, nella sala d’aspetto, mentre rannicchiata in
un angolo cantilenava una vecchia nenia “Per voi viaggiatori di seconda classe. Per voi che
siete veri viaggiatori e non avete mai prossime stazioni”, per poi alzarsi e fare qualche passo
di danza, Rosetta era stata una famosa ballerina della Scala di Milano.
Adesso si trascinava appresso, uniche cose care e preziose, una vecchia carrozzina per
bambini piena di buste di plastica rigonfie, una valigetta marrone consumata dagli anni e
tanta tristezza contornata da malinconie, traumi e amori (sb)andati.
I suoi lunghi e grigi capelli, raccolti a cipolla dietro la testa, le donavano un’aria misteriosa
e gentile, sicuramente da giovane doveva essere stata una bella donna. Gli occhi, puntati
sulla sua stessa immagine riflessa nello specchio, erano più azzurri e profondi del mare. Lo
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sguardo oltrepassava le mura della stazione e del mondo, lasciando scivolare la solita lacrima furtiva, quella che sanno piangere in sacro silenzio soltanto persone che hanno sofferto
molto.
Rosetta prese la valigetta che teneva sulla carrozzina e, aprendola, la posò sul bordo del
lavandino. Tirò fuori una spugna quasi bianca poi, insaponandola, se la passò sul viso.
Quando ebbe finito di sciacquarsi e asciugarsi, fece uscire, sempre dalla sua “toilette”, matite e pennellini, incominciando a truccarsi; una spennellata, con sapienza perduta, di là, una
sotto gli occhi di qua.
In pochi secondi quel viso, che un giorno fu sicuramente angelico e ammirato, adesso riacquistava un pochino di annebbiata e patetica bellezza. Una sbavatura di rossetto rimase
curva ai bordi delle labbra, formando una strana smorfia, quasi un sorriso di dolore.
E Rosetta cantava con un filo di voce “a Milano nel trentotto c’eri tu amore mio. Sai? Nel
nostro amor chi ha pagato son soltanto io”. La nenia era la stessa della sera prima.
Accattoni e artisti
«Spavtaco dove vai a mangiave oggi?».
Chiedeva un uomo, il quale, con un certo fare signorile, si stava sbarbando. L’altro, quasi
nudo, che con l’acqua fredda si stava bagnando tutto il corpo, dalle ascelle alle orecchie,
rispondeva:
«Caro principe, giacché oggi è mercoledì e i frati di Trastevere non fanno entrare nessuno,
andrò dalle suore del Bambin Gesù. E voi principe?».
Il “principe”, girandosi in modo gentile, aristocratico, con un simpatico movimento della
mano libera dal rasoio, disse: «Ma vedi, cavo Spavtaco, oggi andvò dai Fvati di via del Covso, i quali conoscono da secoli me e la mia famiglia che, come tu sai, eva pvopvietavia del
palazzo dove ova stanno lovo e mi fanno sempve entvave pev l’ova di pvanzo».
Sembrava di stare nei bagni del purgatorio; tutti insieme in attesa e piangerci sotto per gli
appuntamenti mancati
Nonostante le moltissime vicissitudini passate, lì non ci sentivamo a nostro agio; la sala
d’aspetto, quei barboni veri, i bagni presi d’assalto da brutti ceffi, principi dall’accento strano e comico, ballerine che furono, uomini mezzi nudi con valige di cartone, buste di plastica piene di non so cosa e scarpe senza tacco, insomma quella specie di abitudinaria e stantia
povertà delle persone presenti, le quali “lì” potevano sentirsi a “casa propria” , ci fece subito uscire dalla stazione inseguiti dal fischio di un treno.
Arrivati senza renderci conto a piazza di Spagna, vedemmo due ragazzi che danzavano e
un gruppetto di giovani che gli era attorno incitandoli.
Per curiosità ci avvicinammo, scoprendo così che i due ballerini non erano altri che er Cipolla e Diavoletto. Er poraccio guardava.
Erano lì che facevano lo show con classe borgatara, cioè muovevano il corpo in modo da
far vedere, attraverso i pantaloni attillati, le forme genitali. Chissà forse a qualche attore o
regista sarebbero interessati. “Più mostri, più attiri la loro attenzione”, così dicevano loro.
Ci avvicinammo e i due, dopo aver smesso di danzare, ricevettero l’applauso degli spettatori.
«Aoh, a rubagalline!» disse Er poraccio «Che sete venuti di nuovo in mezzo l’artisti?».
«No, passavamo di qui per caso…» rispose mio fratello come per rifiutare anticipatamente
qualche offerta delinquenziale.
Lui, guardandoci perplesso, disse rivolto agli altri due: «Annamo rega’, andiamocene a ri66
media’ ‘a pappata».
Poi rivolto a noi: «E voi due, se volete veni co’ noi, potete veni’».
Restando seduti senza rispondergli, li vedemmo salire le scale e prendere la direzione del
Pincio.
Piazza di Spagna è sempre bellissima, ma in primavera è qualcosa di speciale, di magico.
Posso sicuramente dire che è la piazza più bella di Roma, anzi del mondo.
A piazza di Spagna un alito di vita aleggia da sempre sui marmi e sulle mura, entra nei
polmoni della gente e insieme ai raggi del sole ti fa sentire nel centro dell’universo.
I venditori ambulanti di gelati e di fiori, i turisti che ti siedono vicini e tu allora che fai
finta di non avere i problemi che hai. E poi la gente allegra in mezzo al profumo dei fiori
messi su per la scalinata o cresciuti sui balconi delle case che la fiancheggiano.
Trinità dei Monti maestosa si specchia sui marmi fino a farsi vedere all’orizzonte di via dei
Condotti e oltre.
I nuovi pittori con i loro pennarelli sporcano tele dandosi arie da Monet, Renoir, Van
Gogh. Chitarristi improvvisati copiano gli idoli del momento. Due carabinieri passano tra i
turisti, pavoneggiandosi col pennacchio. Giapponesi sparano a raffica colpi di flash in ogni
direzione, mettendosi spesso in posa tra i due tutori dell’ordine.
Tra americani curiosi, i venditori di souvenir con la solita assillante cantilena provano a
mettere all’asta le loro cartoline, mentre il sole sta tramontando lasciando filtrare dagli spazi
tra i palazzi i suoi raggi come spade lucenti, penetrando nel marmo delle scale e della fontana come volessero conficcarcisi dentro.
Ecco, questa è piazza di Spagna.
La fame si stava facendo sentire e la notte faceva capolino. Non sapevamo dove poter
chiedere qualcosa da mangiare. Meglio andare a dormire nel camioncino parcheggiato in via
della Croce.
«Perché non chiediamo lavoro in quel ristorante?».
Con la mano mio fratello indicava l’insegna luminosa di una trattoria poco distante da dove era parcheggiato il furgone che ci avrebbe ospitati per la notte.
«Ma è una buona idea!» esclamai.
La donna che ci ricevette e che disse essere la proprietaria, ci guardò da capo a piedi, si
strofinò una mano sulla fronte, poi si prese il labbro inferiore tra due dita, se lo grattò un
paio di volte pensierosa, ci rivolse un sorriso giocondo e ci disse di seguirla.
Molta gente mangiava nella sala gremita. Uomini eleganti in compagnia di donne dal risolino facile. Giovani allegri e pizze varie.
«Angelo?» sbottò la matrona «vedi se hai qualcosa da far fare a questi due ragazzi. Alle
undici, dopo che hanno pulito tutto, dagli da mangiare e, se io non sono in giro, dagli anche
mille lire e mandali via». Poi scomparve come un capitano tedesco.
Il cuoco/pizzaiolo/lavapiatti, unto come la padella in cui stava friggendo del pesce, si girò
verso di noi e senza dire nulla, per paura che gli cadesse la sigaretta dalla bocca, ci indicò
con un lento gesto della testa una pila di piatti e pentole da lavare.
Iniziammo con lena. Io avevo una grande esperienza personale nell’insaponare e sciacquare, avendolo fatto quando ero a “servizio” da Carmela, e anche per ripagare mio fratello del
suo coraggio avuto nel combattere e vincere nostro padre, mi misi al lavoro di insaponatura
e risciacquo. Lasciai lui alle “rifiniture”: asciugare e fare le pile.
Alle undici avevamo finito di lavare qualche centinaio di piatti e decine di pentole.
«Regà» disse il cuoco/pizzaiolo che non aveva mai smesso di fumare sin dal momento
che avevamo messo piede nella trattoria, «adesso so’ le undici. I piatti l’avete lavati» guardandoci furbescamente, aggiunse, «e se ve sbrigate a puli’ per terra e un po’ dappertutto, ve
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farò magna’ a crepapelle. Vabbè!?».
Con un vabbè di ritorno prendemmo scopa, secchio, sapone, stracci e via all’opera.
Di sicuro quel cuoco doveva essere un mago, una sorta di Silvan, perché, mentre cucinava
i suoi piatti forti, per i quali ogni tanto la voce del cameriere gli faceva dei calorosi
“complimenti da parte del cliente”, aveva tenuto sempre una sigaretta accesa tra le labbra,
ma ciò che più mi colpì era che aveva cucinato tutto quel tempo senza aver avuto un portacenere a portata di mano. Chissà qual era il suo trucco nel far sparire la cenere.
La cucina era uno specchio. Mangiare tanto, (già pronto perché non finito dai clienti),
mezze pizze da portare via e mille lire.
«Se domani avete ancora bisogno di lavorare, venite verso mezzogiorno».
«Sicuro che veniamo».
Il primo arresto
Il furgone ci ospitò per la notte. Coprendoci alla meglio con coperte e polvere, entrammo
nel mondo dei sogni. All’improvviso il sogno tranquillo e bello si tramutò in panico.
«Presto! Fuggiamo! C’è il terremoto!».
Il telone che ci faceva da tetto iniziò a tramutarsi in roccia cadente. Tutto ormai traballava.
Una forte scossa ci fece cadere dall’albero in cui ci eravamo rifugiati senza darci
l’opportunità di aggrapparci alla cinghia che mio padre, seduto in cima, sventolava a
mezz’aria. Gli scossoni del terreno, sempre più forti, furono seguiti da una voce:
«Uscite! Voi due, uscite! Altrimenti vi vengo a prendere io!».
La voce tuonante ci svegliò definitivamente, facendoci cadere dall’albero. Non appena
mettemmo la testa fuori, fummo presi per i capelli e gettati brutalmente sul selciato
«Sì, sono loro due!» disse un ometto che, con un dito puntato verso noi, ci guardava gettandoci sul patibolo.
«Sì sono proprio loro due che la sera vengono a dormire nel mio camioncino» ripeté.
Poi, rivolgendosi verso gli agenti che qualche momento prima avevano scrollato il telone,
riprese:
«Li dovete portare in galera a questi delinquenti! Non fanno nulla dalla mattina alla sera,
stanno sempre seduti sulle scale di piazza di Spagna, quando non li vedi lì, sicuramente
vanno a rubare, e poi la sera vengono qui a rompere i coglioni agli onesti lavoratori».
«Non si preoccupi» disse un agente «adesso ci pensiamo noi a questi due delinquenti».
Un paio di finestre si erano illuminate per lo schiamazzo.
«Bravi agenti! Portateli in galera a quei delinquenti fannulloni!».
Qualche persona affacciata gridava di onestà, lavoro, droghe, fucilazione e Regina Coeli.
Nell’auto della polizia, direzione Questura Centrale, chiesi a mio fratello:
«Tonino, ma che ci portano in carcere?».
La risposta mi fu data in anticipo dall’agente a fianco all’autista.
«E certo che vi portiamo in carcere, così imparate a disturbare la quiete pubblica».
Io dissi: «Signor maresciallo, noi siamo fuori casa perché abbiamo la matrigna che ci tratta
male».
Lo dissi con la speranza che si commuovesse, ma quello invece ribatté sarcastico: «E a me
che me ne frega? Adesso statevene zitti e non rompete le palle».
«Ma noi non abbiamo fatto niente di male. Perché ci portate in prigione?».
Mio fratello era impaurito quanto me per ciò che stava accadendo.
«Ho detto che dovete stare zitti, capito?».
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La sua faccia, girata a metà, era cattiva e prepotente. Avevamo capito. Abbassammo la testa immaginando la bruttezza del carcere.
Via san Vitale. Questura. Fummo portati in una camera dove ci fotografarono a turno. Di
fronte, di profilo e figura intera, quindi, dopo averci impiastricciate ambedue le mani di una
tinta nera, ci fecero appoggiare i palmi su dei fogli per prendere le nostre impronte digitali,
dopodiché vi apponemmo anche il nostro nome e cognome.
Eravamo sconvolti e angosciati per il trambusto che si era venuto a creare soltanto perché
avevamo dormito in un furgone “invadendo la proprietà altrui e disturbando la quiete pubblica”.
Nella stanza dove fummo portati un signore in borghese stava scrivendo a macchina.
«Maresciallo Spatafora mi scusi, questi sono i due che abbiamo arrestato in via della Croce».
L’uomo dietro la macchina da scrivere si fermò un momento e, guardando noi e poi il
poliziotto, disse: «Ah. Ho capito. E perché sono stati arrestati?»
«Perché dormivano in un furgone parcheggiato».
«Capisco» disse il maresciallo passandosi la mano dietro il collo. Poi, con calma, riprese:
«Hanno rubato qualcosa? Hanno fatto danni alle persone o cose? Hanno fatto schiamazzi?
Si sono opposti ai vostri ordini? Hanno danneggiato il furgone?».
Con il mento poggiato sulle mani, gli occhi quasi chiusi, aspettava, con un’espressione più
sofferente che curiosa, la risposta.
«No, signor maresciallo, ma se non vado errato li dobbiamo arrestare in quanto hanno invaso la proprietà privata senza previa autorizzazione del proprietario e questo per legge è
un reato».
Soddisfatto nell’aver dato una risposta da Corte d’Assise, logica e tutta d’un fiato, l’agente
si mise sull’attenti con in viso una smorfia soddisfatta da giustiziere.
«Appuntato, mi sa dire se in via della Croce è vietato il parcheggio?».
«Sissignore, maresciallo, le posso dire che nella suddetta via, per causa lavori in corso, è
vietato momentaneamente il parcheggio».
«Però il furgone vi era parcheggiato lo stesso».
«Sissignore».
Il maresciallo prima si strofinò gli occhi, poi, guardando da sotto le spessi lenti, disse con
tono molto, molto paziente e di sopportazione: «Caro appuntato Gargiulo, se dovessimo
arrestare tutte le persone che dormono nei camion, se dovessimo arrestare tutti quelli che
dormono alla Stazione Termini, se dovessimo arrestare tutti i disgraziati che dormono sotto
i ponti, se dovessimo arrestare tutti i pensionati che fanno il pisolino sulle panchine dei
parchi, se dovessimo arrestare tutte le persone che dormono nei posti più impensabili allora, caro il mio appuntato Gargiulo, le carceri sarebbero stracolme e il nostro commissariato
diventerebbe la succursale della Caritas, e poi dovremmo anche arrestare tutti i ministri e
deputati che spesso si addormentano durante le sedute parlamentari e, cosa grave, durante
lo svolgimento delle loro funzioni. E i veri criminali dove li dovremmo mettere? Nei campeggi? Magari ospitandone un paio anche a casa nostra?».
Adesso il maresciallo guardava dritto negli occhi dell’appuntato il quale, con la faccia più
rossa di un peperone, in un ultimo accenno di ragione, provò ad aprire bocca «Ma io...».
Il maresciallo non lo fece continuare. Lo zittì poggiando i pugni sulla scrivania sollevandosi in piedi ma restando curvato. Il suo sguardo severo da sotto gli occhiali sembrava dire
“la prego Gargiulo, non me ne faccia un’altra. La prego di cuore!”.
«Appuntato, per favore, mandi via questi due ragazzi»
«Via così? Liberi?».
«Sì appuntato, me ne prendo la responsabilità».
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Il maresciallo stava per avere un attacco di bile.
«Agli ordini maresciallo» Portandosi una mano al lato del berretto, l’appuntato fece
schioccare gli stivali, si girò e, aprendo la porta, ci fece uscire per primi.
Il suono metallico dei tacchi credo fosse stato un ulteriore distruttivo colpo al fegato del
maresciallo.
A notte inoltrata eravamo di nuovo liberi.
Il triciclo
Le baracche del Borghetto Prenestino che si estendevano sul lato sinistro in direzione periferia, stavano scomparendo. Il loro posto era stato preso da grandi palazzi in costruzione.
Camminando guardavamo quei mostri di cemento tanto alti da far venire il torcicollo. Dei
loro mille occhi alcuni erano illuminati, sicuramente dietro di essi vivevano famiglie con
bambini a pancia piena in un caldo e pulito letto. Padri che davano sicurezza, calore, protezione e madri indaffarate a cucinare cose buone per i propri cari, e ancora figli capricciosi
che avrebbero potuto rifiutare qualcosa se non fosse stata di loro gusto. Beati loro.
Camminando ancora, il vecchio rudere antico che si ergeva sulla sinistra a Villa Gordiani
ci ospitò per il resto della notte. Le stelle e la luna non smettevano di fissarci. Chissà se
anche lassù, tra le nuvole, sulla luna, c’erano ragazzi fuori casa. Raggomitolati in un angolino cercavamo di non sentire freddo. La notte era umida. Qualche dispettosa soffiata di
vento gelido non ci faceva chiudere occhio, ma poi la stanchezza ebbe il sopravvento. Sogni.
“Fate le fondamenta, fate le fondamenta, fate le fondamenta, fate le fondamenta, ho la
cinghia. Fate le fondamenta”. “Mangiapani a tradimendo. Figli di sottana”. “Appuntato li
metta in galera per sempre”. “Suo figlio è pederasta”. “Delinquenti”.
Il rumore del traffico, in special modo lo stridere delle ruote del tram sulle rotaie, ci fecero
da sveglia alle sei, facendomi smettere di sentire “lui” e “lei” urlare in combutta con mille
Demoni.
Le stelle e la luna stavano ancora a naso all’ingiù, mentre noi, intirizziti e doloranti, ci alzammo in mezzo all’umidità e con tanta delusione nel cuore. Pulitura del naso sulla manica
del maglione, strofinata agli occhi e via, di nuovo a camminare.
Eccoci a Tor de’ Schiavi.
Qualche luce accesa e, tra le case, un terribile rumore di motorino e una vecchia macchina
che non vuole partire coprivano le note di una radio appena accesa che uscivano dalla finestra al pian terreno. Lo straccivendolo parcheggiò il triciclo pieno di cianfrusaglie accanto a
un’aiuola, e iniziò la sua cantilena mattutina:
«Robba vecchia! Avete robba vecchia da vendere? Robba vecchia!».
Le sue urla facevano eco tra i palazzi intrufolandosi nei portoni e oltrepassando le persiane ancora chiuse al fresco del mattino. Ogni tanto una finestra si apriva e il “signore dei
metalli” veniva invitato “su”. Poco dopo ne usciva con sacchi pieni di stoffe e pentole vecchie di rame e alluminio. Per noi quelle vecchie pentole erano metalli preziosi che si sarebbero potuti vendere con facilità agli sfasciacarrozze che pullulavano attorno a via Prenestina.
Guardavamo il via vai dello straccivendolo e l’idea si fece strada nei nostri cervelli.
«Che ne dici?» chiese mio fratello «Gli rubiamo il triciclo?».
«Be’…non sarebbe una brutta idea così andiamo a venderci tutto il rame e rimediamo un
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po’ di soldi» risposi.
«Certo! Tanto è un vecchio e non ce la farebbe a correrci dietro» aggiunsi.
«Sicuro, però tu ti metterai davanti dove c’è il rame e io pedalerò perché so andare in bicicletta, va bene?».
Naturalmente ero d’accordissimo.
Quando l’uomo fu entrato in un altro portone, dopo che una signora gli aveva urlato che
aveva molte cose da vendere, ci avvicinammo di soppiatto al triciclo. In un balzo fummo in
sella. Io sul piano dove erano i “metalli preziosi”, aggrappato con le mani ai lati del calesse
in modo da non essere sbalzato fuori durante la corsa, mentre mio fratello si mise alla guida
e… via a pedalare.
Andavamo già abbastanza veloci. Sono convinto che il rumore metallico delle cianfrusaglie sotto il mio sedere a diede l’allarme al proprietario dell’industria metalmeccanica di cui ci
eravamo appropriati. Comunque non ci interessava. Mio fratello pedalava a più non posso.
Tra la paura e il divertimento per quell’azione da marines, strillai a mio fratello:
«E stasera un pollo arrosto, un litro di latte e magari anche al cinema Platinooooo!».
Qualche auto ci sorpassava tirando dritta. Eravamo sicuri che ce l’avremmo fatta.
All’improvviso vedemmo alcune auto che sorpassandoci, con sirene ululanti, luci e stridore di ruote, si bloccarono davanti a noi. Mio fratello, per evitare l’impatto inevitabile provò
a girare a destra, ma ci riuscì soltanto a metà. Il calesse prese la fiancata dell’auto e, dopo
averla raschiata tutta nella sua lunghezza, si capovolse. Rotolando a terra, mezzi storditi,
sentimmo la voce dello straccivendolo:
«Capiten, sti disgrazieti manno arrubbeto tuttecos. Songono loro che manno arrubbeto lu
tricicle. A me che songo una persone onesto, che paghe i tassa e che fatiga nei metalle!».
Noi, più morti che vivi, rimanemmo lì in terra, mentre l’uomo iniziò a raccogliere i suoi
averi.
Un poliziotto parlava alla radio della sua macchina, un altro ci osservava senza attenzione,
un altro ancora chiedeva all’industriale se volesse sporgere denuncia di furto nei nostri confronti.
Nessuno di loro si preoccupò di noi, fino al momento in cui ci dissero di alzarci ed entrare in auto. Tutti al Commissariato di Quarticciolo. Eravamo pieni di acciacchi per la caduta,
ma nessuno se ne preoccupò.
Aspettammo su una panca, mentre l’industriale metallico ci denunciava, gridandoci contro
che eravamo dei ladriassassini. Firmammo su un foglio e via, ci trovammo di nuovo in questura centrale, per di più davanti allo stesso appuntato, nella stessa camera, con lo stesso
maresciallo il quale, togliendosi gli occhiali con lo stesso fare spazientito di chi ha le scatole
piene della stessa persona.
«Maresciallo questi due delinquenti hanno rubato il triciclo a uno straccivendolo, si sono
opposti alle forze dell’ordine e, tentando la fuga, hanno danneggiato le nostre auto di servizio, quindi li dobbiamo arrestare per vari reati». L’appuntato parlava vittorioso.
Dietro la macchina da scrivere il maresciallo si rimise gli occhiali, appoggiò i pugni sul ripiano di lavoro e, rivolgendosi all’agente, disse: «Senta Gargiulo, la legge la conosco benissimo, ho molti più anni di servizio di lei, quindi non mi parli in quel modo tanto arrogante
quanto la sua ignoranza, e poi» proseguì guardando furioso il suo subalterno, «se hanno
commesso tutti i reati da lei elencati e il proprietario del calesse ha sporto denuncia, li porti
a Porta Portese!».
Il maresciallo era una palla di fuoco. Ci aspettavamo che a momenti emanasse fiamme
dalla bocca e fumo dalle orecchie. Rimase con le nocche delle dita appoggiate sulla scrivania e lo sguardo fisso chissà dove.
«Agli ordini signor maresciallo».
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Mano alla fronte e schiocco di tacchi. Il modo di fare dell’appuntato era veramente irritante, comunque ci ordinò di seguirlo. In venti minuti ci ritrovammo nel carcere minorile.
Porta Portese
L’auto della polizia entrò nel grosso portone che erano quasi le dieci di mattina.
I soffitti altissimi, le mura scure, per non dire sporche, il puzzo di muffa e il grigiore che
era nell’aria, il freddo che tutto quell’insieme sprigionava, ci misero addosso non tristezza,
ma una profondissima angoscia.
«Voi due venite avanti, toglietevi le cinghie dei pantaloni e i lacci delle scarpe, svuotatevi
le tasche e depositate i vostri averi qui sul tavolo».
I nostri averi?!
«Scusi signora guardia, cosa sono i nostri averi?» Trovai la mia domanda logica.
«Prima di tutto mi devi chiamare superiore e secondo poi per tuoi averi intendo ciò che
avete nelle tasche; chiavi, soldi e altre cose personali».
La guardia era arrabbiata, comunque prese il foglio che il nostro accompagnatore gli porgeva e ci fissò truce.
«E se trovo droga, saranno guai seri per voi due!».
Io e mio fratello ci guardammo stupiti e ignoranti.
“Ma questo non si preoccupa delle ferite che abbiamo?” “Ma come?! Siamo mezzi morti e
non gliene frega niente?” “Ma per chi ci hanno preso?! Soldi? Droga?! Impronte digitali?
Ma che sono diventati tutti matti?”.
La Sala Genca, così era chiamato il grande salone dove fummo introdotti, aveva i soffitti
altissimi e immensamente grandi. Il soffitto si perdeva all’infinito. Sui muri c’erano finestroni protetti da sbarre di ferro. Sulla sinistra tre o quattro piani di ballatoi con molte porte
tutte uguali e, al centro di ognuna di queste, una piccola finestrella scrostata e grigia, non
più grande del palmo di una mano; sicuramente le celle dei carcerati. Le ringhiere dei ballatoi, anch’esse di un triste e freddo grigiore, lasciavano poco spazio nell’immaginare le celle
stesse.
Come comportarci in galera? Da ragazzi usciti dal collegio con una grande esperienza di
chiesa e suore, oppure ci dovevamo immedesimare e adattarci al più presto nella situazione
in cui, sfortunatamente, ci eravamo venuti a trovare? Far finta, quindi, che anche noi eravamo abituati a furti e carceri minorili? Fare discorsi sempre mischiati di “cazzo” e
“coglioni”? Avremmo dovuto imparare a sputare in terra? O fumare le sigarette fatte con
tabacco raccolto in strada e riciclato? Masturbarci come facevano tutti?
Nella sala la maggior parte del rumore proveniva dalle celle. Tanti occhi curiosi scrutavano dallo spioncino (fessura di 15x15cm sulla porta delle celle) che, insieme a mani penzoloni
messe fuori da quella fessura, ci spiavano. Una voce gridava “lasciate ogni speranza voi che
entrate” e un’altra “a Mauroooo, che me le mandi du’ sigarette?!”.
Dopo averci fatto prendere da un magazzino, coperta, lenzuola, cuscino, scodella, bicchiere e posate di alluminio, alcuni fogli di carta che sarebbero dovuti servire da carta igienica, il superiore ci portò in una cella al primo piano.
Un letto era occupato dalla faccia di una bambina in un corpo di ragazzo e gli altri due
erano vuoti.
Il nostro compagno di cella si chiamava Massimo, ma era anche chiamato “Massimina” o
“Bamboletta”. Aveva capelli tinti di biondo e occhi azzurri su, come dicevo, una faccia da
bambina. Il suo sguardo emanava furbizia, sicurezza e, allo stesso tempo, dolcezza.
“Lei” era stata arrestata nei pressi di Castel Sant’Angelo perché l’avevano trovata a battere
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assieme ad altre due sue amiche: “Cassandra” e “Debora”.
Parlava sempre al femminile di sé. Ci abituammo subito a chiamarlo “Massimina” e finché
alloggiammo nella stessa cella venimmo rispettati da tutti gli altri delinquenti. “Massimina”,
nonostante fosse un giovanissimo travestito (14 anni), era un po’ come il beniamino
dell’Istituto.
Quando si andava nel cortile grande, che poi era il luogo dell’ora d’aria per la passeggiata
pomeridiana e dove venivano mischiati sia i meno delinquenti, cioè quelli della Sala Genca,
sia i più pericolosi, quelli della Sala Clementina, “Massimina” veniva avvicinato da altri suoi
amici “travestiti” e tranquillamente si mettevano a sedere sulle scale che portavano alle officine, dove qualche altro recluso stava lavorando. Fumavano e ridevano con gentili movenze
tipiche dell’uomo che vuol copiare la donna. “Massimina” diceva che “i travestiti hanno
modi di fare molto più sensuali e chic delle donne vere e sono meglio delle modelle e delle
amanti”.
Comunque quando qualcuno faceva delle battute cattive o stupide nei loro riguardi, allora
“Massimina” sfoderava la sua mascolinità ed erano guai per chi aveva osato fare il cretino.
Senza paura si alzava e con sicurezza si dirigeva verso l’inconsapevole malcapitato, quindi,
con uno schiaffone ben assestato, gli faceva capire che non era il caso di fare “il maschio”.
I problemi, anzi potrei dire i guai, iniziarono quando “Massimina” fu chiamato da una
guardia perché doveva lasciare Porta Portese.
Erano circa le quattro del pomeriggio quando vennero a prelevarlo dalla nostra cella. Il
superiore, affacciandosi allo spioncino, urlò:
«A Massimi’, preparate che sei libero! Metti tutte le cose in mezzo a un lenzuolo che te
vengo a prendere tra mezz’ora».
«Beato te che esci» dissi io con malcelata contentezza.
«Quando sei fuori, ci spedisci una cartolina?» ribatté mio fratello.
Mettendoci una mano sulla testa, prima l’uno, poi l’altro, scapigliandoci i capelli, disse:
«Speriamo che anche voi due usciate presto, perché questo non mi sembra proprio il posto per voi».
Dopo lo schioccare delle chiavi nella serratura della porta che si aprì, “Massimina” uscì
seguito dai nostri sguardi.
Gli addii si diffondevano per tutta la sala Genca.
Chi prometteva di andarlo a trovare. Chi chiedeva, come avevamo fatto noi, una cartolina,
chi domandava se l’avrebbe trovato sempre a Castel Sant’Angelo e qualcun altro si dichiarava disposto a fargli da pappone quando sarebbe stato libero. “Massimina” scomparve dietro la porta con i ciao! urlati tra tutto quel fracasso. La sala riacquistò i rumori di sempre; gli
spioncini si liberarono dalle mani che qualche momento prima sventolavano fuori, la solitudine riprese con forza il suo regno, togliendo speranze alle celle, dentro le quali non c’era
null’altro che due o tre letti, un secchio di ferro, con coperchio rotto a metà dove si dovevano fare “tutti” i bisogni e tutt’attorno tanti sogni infranti di ragazzi mai stati bambini.
Il mattino la sveglia era alle sette. Dopo aver fatto la fila ai lavandini, dovevamo rifare i
letti e andare in una specie di refettorio dove potevamo fare colazione con un piatto di latte
e una ciriola (tipico panino romano). Il latte che ci veniva dato, me lo ricordo benissimo, era
dello stesso sapore e della stessa densità di quello che avevo avuto per molto tempo quando vivevo con mio padre, sua moglie e il figlio di loro; latte annacquato.
Anche lì!?
A Porta Portese non si faceva nulla tutto il giorno.
Gli istitutori, che avrebbero dovuto seguirci ed educarci, non combinavano nulla neanche
loro. Se c’era sole ci portavano nel cortile grande e lì i più grandi, ovvero i prepotenti, pote73
vano giocare a pallone, mentre i fanelli (ingenui, alle prime armi) come noi dovevano guardare e stare zitti, seduti sulle panchine di cemento che erano ai lati del cortile. A volte scoppiava la rissa tra i giocatori e, chissà perché, gli istitutori intervenivano sempre dopo che i
due contendenti se ne erano date un po’.
Quel giorno, come sempre, il gruppo del Pugile e di er Voto, dopo aver giocato soltanto
loro a pallone, si sedettero sulle scale che portavano nel laboratorio dei materassi. Noi, seduti dalla parte opposta, li vedevamo confabulare tra loro.
Mio fratello si alzò incamminandosi nella loro direzione per chiedere una sigaretta. Nel
breve tragitto lo vidi muoversi come non l’avevo mai visto prima, mostrando un viso spavaldo. Il movimento delle braccia e delle gambe, con la schiena incurvata, mi ricordavano
Totò nel film “Totò le Mokò”. Cercava di adattarsi ai movimenti dei prepotenti, e lo faceva
bene. Arrivato vicino a loro, con una mano in tasca e la sfacciataggine incosciente di chi
non sa a quali guai potrebbe andare incontro, si fermò e con fare da malandrino, tipo Er
poraccio, chiese una sigaretta. Meravigliato da tanto coraggio er Voto lo guardò con aria
cattiva, mentre gli altri, parlando tra loro, non ci badavano per niente. Dopo aver letto negli
occhi fermi e sicuri di mio fratello che lui non aveva assolutamente paura di loro, er Voto
tirò fuori dalla tasca un paio di sigarette e gliele diede.
Ritornando al posto dove ero io, mi disse: «Erne’, lo sai che ho sentito mentre gli chiedevo la sigaretta!?».
Lo guardai con occhi interrogativi restando in silenzio. Lui aggiunse: «Dicono che vogliono portare Cassandra dentro all’officina e se lo vogliono “fare”».
«Ebbè!?» risposi con la mia logica di allora.
«Sì. Ho capito, ma quelli se lo vogliono fare con prepotenza e … a me non mi va» disse
accendendosi una sigaretta che buttò subito via.
Er Voto e il Puggile, si alzarono dirigendosi verso “Cassandra” che stava seduto in un angolo del cortile a fianco al suo amico “Debora”.
I due, vedendoli avvicinare, si strinsero un pochino uno all’altro, come avessero capito
che uno di loro sarebbe stata la preda del giorno.
Er Voto si piazzò davanti a “Cassandra” e in piedi, con le gambe larghe che annuciavano
con cattiveria voglie sessuali, gli fece cenno con la testa di andare verso il magazzino dei
materassi. Scomparvero poco dopo.
Mio fratello si alzò e girò la testa a trecentosessanta gradi.
Gli altri ragazzi continuavano a giocare a pallone, e gli istitutori, o non avevano visto, o
non volevano vedere. Forse non volendo neanche sentire gli strilli fatti quasi a mezza voce
dalla vittima, continuavano a parlare tra loro con la testa rivolta alla parte opposta dal luogo
della violenza.
«Andiamo a dirglielo alle guardie» disse mio fratello dirigendosi verso uno degli istitutori.
Io rimasi a sedere guardandolo come per dire “ma chi te lo fa fare?».
L’istitutore, infastidito dall’allarme che aveva dato mio fratello, si diresse a passo comodo
versa la zona del misfatto e, dopo cinque minuti nei quali non si vide uscire nessuno, la
prima persona a venir fuori fu er Voto seguito dal Puggile, dopodiché lo stesso istitutore.
Quindi, dopo un’interminabile attesa silenziosa, si vide “Cassandra”.
Il poveraccio era tutto ammaccato. Il labbro inferiore gonfio alla Louis Armstrong e i
pantaloni tirati su alla meglio. Sembrava trattenesse le lacrime per mestiere, ma sicuramente
era soltanto orgoglio.
Dopo non accadde proprio niente. Fu come se quel povero ragazzo non avesse subito alcuna violenza. Fu come se tutto ciò rientrasse nella normalità della vita quotidiana del carcere minorile. Il Puggile e er Voto presero a tirare calci al pallone, la guardia, appoggiata al
muro, continuava a farsi la manicure, mentre “Cassandra” e “Debora” rimasero le puttane
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del battaglione.
Era arrivata l’ora del rientro, quando si sentirono i tuoni e la grandine cadere come fossero pietre. In fila indiana, ognuno si recò verso la propria cella e le porte furono chiuse.
La sera stava già calando e per poter far passare il tempo quando non si ha nulla da fare,
quindi specialmente nelle carceri, la migliore cosa da fare è dormire il più a lungo possibile.
Mi svegliai di soprassalto nel sentire strani rumori. Con la vista ancora annebbiata dal
sonno vidi due persone che picchiavano con pugni e calci mio fratello, al quale avevano
buttato addosso una coperta. Dopo un’impossibile reazione da parte di lui, i due uscirono
di corsa, sparendo, senza fare alcun rumore, come erano venuti.
Si sentì soltanto la chiave che girava nella serratura e nient’altro.
Mi alzai di scatto e andai verso mio fratello che si lamentava per il dolore delle botte ricevute. Aveva un occhio pesto e il labbro superiore spaccato. Il sangue colava coagulandosi
sulla sua maglietta bianca.
Avrei voluto chiamare la guardia, ma lui mi pregò di lasciar stare che sarebbe stato inutile,
e poi il mattino dopo, disse, sarebbe andato dal direttore e gli avrebbe raccontato tutto
quello che era accaduto il giorno prima.
Il mattino, mentre eravamo intenti a mangiare pane e latte annacquato, mio fratello fu
chiamato dalla guardia, che non era la stessa del giorno prima. Il Signor Direttore lo voleva
vedere e chiedergli delle ferite che si era “procurato il giorno prima giocando a pallone”.
Finito di mangiare fummo portati nel cortile piccolo. Mi sedetti in un cantuccio in attesa
che mio fratello ritornasse.
Chi si stava fumando uno spinello, chi giocava a carte, chi passeggiava su e giù.
La guardia si faceva il manicure con un coltellino, mentre altri avevano in mente di darmi
una piccola lezione. Vidi er Voto e il suo amico pugile che, dall’angolo opposto al mio,
parlottavano indirizzando i loro sguardi feroci contro di me. Alzandosi lentamente vennero
nei miei paraggi, quando mi accorsi delle loro intenzioni fu troppo tardi, ricevetti uno
schiaffone da tutti e due. Mi fu dato con tanta violenza che per non riceverne altri, tirai su
le ginocchia e ci infilai la testa dentro.
«Così ve imparate a fa’ la spia» dissero.
Sentii i loro passi allontanarsi.
Mi stavo riprendendo a malapena dal mezzo svenimento che mi avevano procurato i due
sganassoni, quando udii la voce di mio fratello che, guardando uno per uno tutti gli altri
ragazzi seduti, chiedeva chi mi avesse picchiato. Nessuno rispose e tanto meno io, ma i due
risposero in un silenzio di sfida.
Mio fratello si avvicinò nel momento in cui anche er Voto si mosse nella sua direzione e
in un lampo furono attorcigliati l’uno all’altro dalla foga di far capire chi era il più forte. Per
mio fratello contava far capire soltanto chi era nel giusto.
Er Voto gli aveva cinto la schiena con le sue braccia e con la sua pesante mole impediva a
mio fratello di divincolarsi e respirare. Nel tentativo disperato di non cedere per non far
brutta figura con me e gli altri, anche per un futuro fatto di rispetto e tranquillità per il tempo che avremmo dovuto stare chiusi lì dentro, mio fratello, usando le poche forze che gli
rimanevano, si divincolò fulmineo cingendo il suo braccio sinistro attorno al collo
dell’avversario, incominciando a stringere il più possibile, sempre più forte. Nel momento
in cui l’altro allentò la presa, mio fratello iniziò a colpirlo con la mano destra. I pugni si
scaricavano sulla faccia del Voto a una velocità incredibile. Il sangue iniziò a colargli dal
naso e dalla bocca. La tensione che si era venuta a creare nell’aria, il circolo formatosi attorno ai due combattenti, e il tifo quasi unanime solo per il Voto, fecero smettere la guardia
di farsi la manicure e, dopo aver recepito lo sguardo del Puggile, che con un cenno della
mano gli aveva “detto” che era arrivato il momento di vederli, si avvicinò ai due che, il
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Puggile dalla parte del suo compagno, la guardia dalla parte di mio fratello, furono divisi.
La guardia sussurrò qualcosa ai due, poi si allontanò ritornando al suo posto e riprese a
farsi il manicure.
Da quel giorno “Cassandra” e “Debora” furono lasciati in pace, finché anche per loro
non venne il momento tanto atteso della libertà.
I giorni passavano noiosi, lasciando arrivare il sabato velocemente.
Il sabato era un giorno particolare in quanto veniva a farci visita Padre Agostino Casaroli.
Non molto alto, quasi pelato, occhiali da vista e quel sorriso bonario e comprensivo che
rendeva piacevole vederlo, perché almeno c’era qualcuno che ti sorrideva senza farti domande e senza chiederti nulla in cambio.
Quando veniva Padre Agostino a Porta Portese, la voce “Aoh! C’è Padre Agostino, venite
che ce dà le sigarette der Vaticano” si spargeva tra le celle come una ventata di Ponentino.
Lui, Padre Agostino, aspettava, girando la testa tra i ballatoi, che chi avesse avuto desiderio di vederlo gli aprisse la porta. In un batter d’occhio era accerchiato da ragazzi festanti. Il
Voto e il Puggile non riuscivano mai ad avere un contatto con Padre Agostino, credo che
attorno a “lui” si creasse una forza tale da riuscire a tenere a distanza chi non era meritevole, specialmente “quei due”.
Lui infilava la mano sotto la tonaca e la faceva ricomparire tenendo in pugno una manciata di sigarette Nazionali con lo stemma del Vaticano impresso. Due sigarette a destra,
due a sinistra. Un buffetto sulla guancia destra e uno sulla sinistra.
«Come stai Ernestino?».
Ero l’unico che “lui” chiamava con un vezzeggiativo.
Qualcuno dopo aver preso le sigarette si allontanava subito, mentre altri gli si facevano
attorno iniziando così un discorso semplice, amichevole e comprensivo.
Molti la domenica avevano visite familiari. Quindi biancheria pulita, un po’ di mangiare
extra e, cosa più importante, la possibilità di parlare dei propri guai con i genitori.
In me e mio fratello non c’era invidia verso i nostri compagni di sventura, ma soltanto
una tristezza, un vuoto d’animo assoluto, come il freddo della solitudine. Noi non avevamo
visite. Quando, dopo le visite, andavamo all’aria noi due guardavamo in silenzio gli altri
ragazzi mangiare cose di casa e indossare abiti nuovi o puliti.
Una volta la psicanalista mi fece sedere di fronte a lei e tirò fuori da una borsa dei disegni
in bianco e nero, mettendomeli uno a uno davanti agli occhi, volle sapere, dopo circa qualche secondo, cosa rappresentassero. Qualche disegno non aveva senso, perlomeno per me,
mentre altri davano l’impressione che fossero genitali maschili e altri femminili.
«Questo cosa rappresenta?» mi chiese la psicologa mostrandomi un disegno dove si vedeva chiaramente la vagina.
Io, arrossendo un po’, rimanevo in silenzio, poi, dopo le sue insistenze, risposi che era il
sesso di una donna.
«Sei mai stato con una donna?».
Anche se dentro di me avrei voluto dirle che avevo avuto molte donne, la verità prevalse
e risposi di no, che non ci ero mai stato. Lei facendomi alzare e prendendomi la mano,
sempre stando seduta, tirandomi a se, mi disse di calarmi i pantaloni perché non credeva
che non ero ancora stato con donne, quindi lei mi avrebbe messo alla prova.
Stando in piedi con i pantaloni calati, sentivo la sua mano su di me. Non avevo mai provato certe sensazioni. Mi sentivo caldo e l’eccitazione era al massimo. La psicologa iniziò
lentamente a masturbarmi. I suoi occhi fissi sul mio viso. Quando fu il momento di eiaculare, avvicinò la sua bocca al mio sesso e, come un assetato che beve un po’ d’acqua dopo
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una marcia sotto il sole cocente del deserto, iniziò a succhiare in modo avido il mio
“umore”, facendo in modo con la lingua di non lasciare alcuna traccia di sporco.
Mi fece sedere di nuovo, guardandomi negli occhi mi disse che quelle erano visite segrete.
Guai se avessi parlato con qualcuno, sarebbe stata capace di farmi allungare la permanenza
in carcere. Promisi.
Lo dissi a mio fratello, sentendomi rispondere: «Magari mi chiama pure a me!».
Il signor Bellotti, un ex pugile alto e grosso, era il nuovo istitutore. Il suo naso storto
combaciava perfettamente con le piccole cicatrici che aveva sul volto e con tutto il resto. Il
suo arrivo portò un pochino di ordine e tranquillità in mezzo a noi. Non gli andavano giù le
prepotenze che qualche ragazzo subiva dai tipi come er Voto o il Puggile.
Questi ultimi due impararono molto presto a rimanere al loro posto e non essere i padroni del campo neanche quando si andava a giocare a pallone nel cortile grande.
Quindi il tempo in questa situazione passava, finalmente, molto più tranquillo.
A turno potevano giocare a pallone, senza aver paura dei due.
Anche i ragazzi più deboli, con la presenza del signor Bellotti, potevano farsi la doccia
senza più paura che i due prepotenti facessero o provassero a fare ciò che dovettero subire
“Cassandra” e la sua amica.
Il signor Bellotti, con fermezza e furbo buonismo, metteva ordine in tutte le divergenze di
noi ragazzi.
Al campeggio
L’estate era alle porte, si sentiva e si vedeva fuori dalle grandi finestre. Il sole entrava per
fare visita al carcerato, lasciandoci la sera dopo averci regalato un pochino di calore.
Venne il giorno che il Signor Bellotti ci portò nel cortile grande, ci mise in fila e lui, con le
spalle al muro di cinta, così alto da sembrare che toccasse il cielo, ci disse che il Ministro di
Grazia e Giustizia aveva organizzato per noi un campeggio vicino a Viterbo, precisamente
a Cura di Vetralla. Chi fosse stato intenzionato a parteciparvi doveva farsi avanti. Quasi
tutti eravamo entusiasti e sorpresi. Noi, piccoli delinquenti rinchiusi nel carcere minorile,
potevamo andare al campeggio!? Uscire, anche se per pochi giorni, da lì? Fantastico!
Molti sorrisi si affacciavano sui volti dei miei compagni e una agitazione felice si trasmetteva tra tutti quelli che sicuramente avrebbero detto di sì.
Tre o quattro non volevano venire perché influenzati anche dai discorsi di er Voto.
«Ma dove andate!? » diceva guardando la fila.
«Ma che vi credete che ve portano al naitteclebbe?! Ar campeggio ce vanno solo i ragazzini e i froci!» ribatteva il Puggile.
Il viso rabbuiato e severo del signor Bellotti li fece tacere.
Comunque già qualcuno aveva cambiato idea.
La settimana passò in fretta. Chi veniva chiamato per preparare la lista dei partecipanti,
chi si interessava a fare un elenco delle vettovaglie, chi andava su nel magazzino a prendere
e controllare tende e vestiario. Chi faceva una cosa, chi l’altra. L’euforia era al settimo cielo;
saremmo usciti dal carcere, dal chiuso, anche se per una settimana e avremmo potuto essere come “i ragazzi normali”; senza celle, né sbarre, con l’aria e lo spazio illimitati.
Nei giorni seguenti er Voto e il Puggile non perdevano occasione nel ribattere che chi
fosse andato al campeggio avrebbe ricevuto, da loro, un bel regalo quando sarebbe rientrato.
Sicuramente queste “promesse” incutevano paura, ma, giacché c’era il signor Bellotti e poi
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anche perché nessuno voleva perdere l’occasione di poter uscire dopo tanti mesi di chiuso,
nessuno dava più importanza alle loro minacce.
Il treno. Il treno mi ricordava la partenza, di quando ero piccolo, da Roma per Gubbio.
La Stazione Termini, i binari, il via vai della gente, erano sempre gli stessi, ma anche adesso
non c’era differenza; quasi tutti gli altri ragazzi avevano i genitori a salutarli, mentre io e
mio fratello non sapevamo chi salutare. Comunque andavamo in vacanza veramente.
Il viaggio non fu molto lungo. Arrivati a Viterbo nelle prime ore del pomeriggio, fummo
trasportati con un bus sulle alture di Vetralla. Era tutta un’altra cosa in confronto al carcere;
l’aria aperta, il sole oltre l’orizzonte, il verde dei prati e gli alberi pieni di frutta che già ci
facevano immaginare scorpacciate di fichi e di mele, e ancora i grandi fornelli a gas che
dovevano servire da cucina, il montare le tende e lo scegliere i compagni di tenda, e poi
grande la sicurezza che ci dava il “nostro” istitutore.
La sera dopo aver mangiato dei panini, il signor Bellotti ci riunì attorno a un grande falò
che aveva acceso, facendoci sedere in circolo, guardandoci uno per uno negli occhi, disse:
«Sentite ragazzi, questa è la prima volta che fate un campeggio e sicuramente per quasi
tutti voi è una cosa nuova. Vi voglio soltanto raccomandare di comportarvi bene con la
gente del paese quando andremo a prenderci un gelato, di non prendere assolutamente
nulla di ciò che non vi appartiene, di non bestemmiare nella strada e in nessun altro posto.
Di stare in piccoli gruppi, ma sempre vicini, non andate in luoghi dove io non sappia o
dove non è consentito andare. Cercate di divertirvi in questa settimana, liberatevi dalle vostre malandrinate e godetevi questa vacanza e …». Tacque per un momento, come per riordinare i propri pensieri, quindi continuò con voce quasi metallica, seria e calma «… mi
auguro che qualcuno non provi minimamente a scappare, innanzitutto perché la responsabilità è mia, e secondo perché chi lo farà verrà denunciato per evasione e si ritroverà nei
guai, mi raccomando. Intesi?».
Tutti avevamo buoni propositi, quindi in coro dicemmo: «Non si preoccupi, signor Bellotti, non si preoccupi».
La serata finì tra barzellette e vecchi ricordi di gare sul ring e non molte vittorie.
Io e mio fratello eravamo abituati a dormire sul materasso buttato in terra (non so gli altri)
e, per la stanchezza, dopo aver girato gli occhi da tutte le parti, aver scambiato qualche
battuta con il nostro compagno di tenda, che era un calabrese, stirammo le braccia e ci addormentammo contenti, forse anche con un sorriso sulle labbra.
I giorni a venire furono consumati tra scampagnate, visite alle chiese sparse sulle colline
ed escursioni in altri paesi vicini. Tutto andava per il meglio. Merende fatte sull’erba a base
di panini ripieni di ciò che non potevamo avere in carcere e libertà desiderata da sempre.
Tutto andava per il meglio finché non venne il giorno, a dire il vero la sera, che mio fratello decise la grande fuga.
Era già un po’ di tempo che stava sempre con il calabrese e, in quel tempo, avevano deciso di scappare. Non mi dissero nulla. Dopo aver trascorso la sera come al solito, tra chiacchiere e racconti attorno al falò, quando fummo nella tenda il calabrese disse: «Allora siamo
d’accordo? Quando si saranno addormentati tutti, ce ne andremo via».
Mio fratello, accennando con il capo, tirò fuori da una busta di plastica una grossa pagnotta e, mostrandola con orgoglio, disse: «Questa l’ho presa oggi di nascosto dalla tenda
della cucina, così potremo mangiare qualcosa durante la fuga».
A me personalmente non andava la loro idea e lo dissi con disappunto, ma lui insisteva a
dire che era meglio scappare che rimanere nel carcere e che poi si era anche stufato di dovermi sempre proteggere contro tutti, mica era Nembo Kid? Infatti aveva ragione, ma io
intestardito ripetei ancora che sarei rimasto lì e che non li avrei seguiti.
La notte doveva essere per forza profonda, perché non si vedevano luci accese nelle altre
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tende e anche perché il silenzio, intrufolandosi tra pioggia cadente e camuffandosi d’acqua,
faceva capire a qualsiasi altro rumore di essere superfluo.
Nel buio, schiarito dalla luce della luna, la pioggia la faceva sempre da padrona cadendo
giù a rovesci.
Mio fratello dette prima una spinta alle spalle del calabrese il quale si svegliò subito, poi
mi chiamò sottovoce dicendomi che era arrivato il momento di andare.
Girandomi verso di lui, con gli occhi aperti a metà, risposi che non mi sarei mosso da lì e
che sarebbe stato inutile scappare perché poi ci avrebbero sempre cercati e che il Signor
Bellotti, se noi fossimo scappati, avrebbe avuto grossi guai.
Ma nulla da fare. Insistette ancora un po’ ma giacché mi ero rimesso sotto le coperte dandogli la schiena, lasciò perdere.
Prima di uscire dalla tenda mi ricordò che sarebbe andato da nostra sorella a Como e lì mi
avrebbe aspettato.
Quando capii che erano veramente scappati, alzai la testa, diedi una occhiata in giro per
assicurarmi che non avevo sognato e mi riaddormentai. Il mattino seguente successe la
guerra. Venne fatta la conta dei presenti; ne mancavano due.
Naturalmente dissi che non sapevo nulla, che non avevo visto nulla e che non avevo
udito nulla avendo dormito profondamente, a dimostrare tutto questo, con una logica semplice, era la mia presenza ancora lì. Fummo riportati il giorno stesso a Porta Portese senza
aver finito il campeggio. Certo che adesso mi sentivo spogliato dei superpoteri e mi sentivo
talmente vulnerabile che, anche se la giornata era caldissima, avevo freddo.
Il Signor Bellotti non si vide più in servizio, al suo posto venne la guardia che c’era prima
di lui; quello che si faceva sempre le manicure lasciando noi ragazzi alla mercé del Voto e
del Puggile.
Loro ci avevano promesso che dopo il campeggio, appena ritornati, ci avrebbero fatto un
regalo. E così accadde per tutto il tempo che rimasi lì.
Ogni sera, prima di salire le scale che ci avrebbero portati alle nostre celle, i due si paravano davanti alla nostra fila indiana e, dandoci prima l’uno poi l’altro uno schiaffo molto forte
sulle guance, dicevano: «Siete stati al campeggio? Era bello?». Pam!, lo schiaffo di er Voto.
«Adesso eccovi il regalo che vi avevamo promesso!» Pam!, lo schiaffo del Puggile.
Tutte le sere la stessa storia. Uno schiaffone a te e uno all’altro. Nessuno fiatava, a dire il
vero avevamo tutti paura e il superiore, che rimaneva sempre appoggiato al muro con il
coltellino in mano a farsi le manicure peggio di una puttana. Non vedeva e non sentiva
niente. Noi, con le nostre lacrime represse, speravamo di addormentarci sognando che
tutto fosse un sogno, di svegliarci in collegi fatti di suore, di preti, di signorine cretine e
fumaiole, di schiaffi dati non troppo forte e con attenzione.
Tutto era come all’inizio. Con il pallone giocavano soltanto i più grandi.
Le prepotenze sessuali erano rivolte a ragazzi nuovi, spaesati e impauriti dalla miserabilità
del carcere minorile, dalla cattiveria dei coatti e dal menefreghismo degli istitutori.
Mi mancava mio fratello ma, avendo un forte spirito di adattamento, camuffavo la solitudine con la presenza di nuovi compagni di cella.
I nuovi compagni di sventura erano altri due ragazzi di Roma, uno di Primavalle e l’altro
della zona Cinecittà-Quadraro. Il primo era Orsetto, non molto alto, rotondetto, che
avrebbe fatto in futuro “carriera” a Regina Coeli, mentre il secondo, di corporatura grossa,
veniva chiamato er bello; chissà perché! Eppure non era differente da tutti noi. Anche il
Mostro, come molti figli di borgata, sarebbe stato futuro cliente delle patrie galere. Ci eravamo affiatati e stavamo sempre insieme, non ci separavamo mai. In loro compagnia non
ricevetti più schiaffi dai due prepotenti. Anzi er Voto e il Puggile evitavano con accortezza i
miei nuovi amici.
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Accadde che, quando uno dei miei compagni si ammalò di appendicite, capii come era facile poter uscire da lì senza scappare.
Appendiciti all’uovo
Era sera, noi chiusi nella cella giocavamo a carte; carte fatte con dei pezzi di cartoncino
con sopra disegnate spade, coppe, denari e bastoni. All’improvviso Orsetto si mise una
mano sulla parte destra dell’inguine e iniziò a gridare per il dolore. La guardia del turno di
notte si affacciò allo spioncino per poi correre al telefono e dare l’allarme; nel giro di
un’ora, il nostro amico fu portato via dalla cella e ricoverato all’ospedale San Camillo. Passata una settimana ancora non si vedeva. Parlando con altri ragazzi si venne a sapere che il
Ministero di Grazia e Giustizia dava a ogni ragazzo che aveva avuto un’operazione o una
grave malattia, una licenza di convalescenza di tre settimane da passare presso la propria
famiglia.
L’idea mi venne dopo che anche er bello fu liberato. Ero solo in cella in attesa di nuovi
inquilini. E stando solo non volevo più ricevere, come tanti mesi prima, la “buonanotte” da
er Voto e il Puggile.
Anch’io me ne dovevo andare. L’idea mi balenò all’improvviso.
Sarei andato a Como a raggiungere mio fratello e mia sorella, forse lì avrei anche potuto
trovare lavoro in una di quelle tante fabbriche che al nord Italia non sono mai mancate.
La mia fuga aveva bisogno di un paio di uova sode per essere messa in atto.
Il barbiere/materassaio/cuoco, Fred “Buscaglione” (era la copia esatta del mitico cantante) fu la persona che fece al caso mio.
Tutti i mercoledì, veniva a tagliare i capelli ai ragazzi che si erano messi in lista e io sapevo
che il mercoledì lui aveva per colazione nella sua borsa due uova sode, una bottiglia di vino
da un quarto e un’arancia. Se fossi riuscito a prendergli le uova, sarei stato libero.
Mi misi in attesa per il barbiere. Quando mi sedetti sotto la forbice di Fred, gli chiesi se mi
dava un uovo sodo, e lui mi disse che dopo avermi tagliato i capelli, avrei potuto prenderle
tutte e due, ma non dovevo toccare il vino altrimenti sarebbe finito nei guai. Così feci.
Con le due uova in tasca mi ritirai nella mia cella e, per dar credito a un attacco di appendicite, mandai giù le bucce sminuzzate delle uova con un bicchiere di acqua, buttando via
l’interno. Mi misi sul letto in attesa che i dolori si facessero sentire.
Rimasi sdraiato un paio di ore, ma non accadde niente, sicuramente la digestione sarebbe
iniziata dopo due o tre ore, quindi mi rilassai e mi addormentai.
La voce del “superiore” mi svegliò: «Dormi? E allora spegni la luce!».
Svegliandomi all’improvviso, realizzai che il trucco delle uova non aveva funzionato, fintanto che non fossi andato al bagno le bucce sarebbero state nel mio stomaco, con la speranza che qualche piccola parte di esse finisse nella mia appendice.
Girandomi verso lo spioncino e facendo una smorfia di grande dolore dissi che avevo
come dei crampi alla parte destra sopra l’inguine e che stavo per morire.
Senza perdere un attimo di tempo la guardia aprì la porta della cella, si avvicinò a me e
vedendo le smorfie di dolore sul mio viso, si mise a urlare che nella cella uno si sentiva
male, anzi malissimo. Dovetti recitare veramente bene perché in un batter d’occhio mi ritrovai all’Ospedale San Camillo.
Camere singole non ce ne erano, quindi venni messo assieme ad altri degenti “civili”.
Ero l’unico che avrebbe dovuto essere sorvegliato, ma accanto al mio letto non c’era
nemmeno l’ombra di un sorvegliante e tanto meno fuori. Non c’era nessuno che espletasse
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questa funzione, meno male, perché così i compagni di stanza non avrebbero saputo la mia
provenienza. Ciò mi faceva veramente piacere, mi sentivo uno come loro.
Nell’orario delle visite rimanevo seduto sul letto, invidiando gli altri ragazzi ricoverati perché aspettavano con ansia i loro parenti e quando questi fossero venuti gli avrebbero portato biscotti, succo d’arancia e altro.
Speravo sempre che anche per me venisse qualcuno, mia sorella o qualche altro familiare,
ma i miei occhi fissi sull’entrata vedevano soltanto estranei e infermiere.
Fare amicizia con coetanei non è difficile, basta avere quasi la stessa età e più o meno gli
stessi interessi.
Dopo avermi fatto le lastre, l’infermiera mi riportò al mio posto.
Nei giorni della mia permanenza lì, feci amicizia con altri degenti. Qualcuno aveva capito
che nessuno mi avrebbe fatto visita, quindi a turno mi regalavano sempre qualcosa da mangiare o da leggere. Dopo un paio di giorni che ero lì qualche mamma dei miei vicini di letto
iniziò a portarmi giornalmente le stesse cose che portava per il proprio figlio.
Accettando i doni, ringraziavo sommessamente con un pochino di vergogna, ma nel
contempo ero felice perché mi sentivo anch’io del gruppo.
Tutti mi coccolavano, specialmente le infermiere. Molte si interessavano di farmi avere
biancheria pulita portata dalle loro case, altre, passando con il carrello del pranzo, mi davano sempre qualcosa di extra da mangiare e non c’è stato mai nessuno che mi abbia mai
chiesto perché non avevo visite o da dove venissi. Adesso ripensandoci, credo lo sapessero.
Arrivò il giorno dell’operazione.
Il mattino mi venne a prendere l’infermiera che più di tutte mi stava sempre accanto. Mi
ritrovai in un ambulatorio, dove, con un rasoio e sapone da barba, l’infermiera mi depilò
tutto il basso ventre dicendomi che il pomeriggio mi avrebbero operato e che purtroppo
quel giorno non avrei avuto nulla da mangiare per la buona riuscita dell’operazione stessa.
Il pomeriggio la stessa infermiera portandomi in sala operatoria, mi rassicurò che non
avrei sentito nulla, che dopo un paio di ore mi sarei svegliato già operato di appendicite.
Sdraiato sul letto sentii il dottore chiederle le mie lastre.
«Ma questo ragazzo ha nella sua appendice tutte le bucce di un cesto di uova, come è possibile che non ha mai avuto dolori? E chi è quell’incosciente di un genitore che lascia il figlio ingoiare certe cose?».
La voce era meravigliata e lo sguardo fisso sull’infermiera in attesa di una risposta.
Avvicinando le labbra vicino l’orecchio del dottore, lei gli sussurrò qualcosa. Lui accennò
con il capo dicendo: «Capisco».
Poi la donna si accostò a me, mi mise una mano sulla fronte rassicurandomi che
l’iniezione che teneva tra le mani non mi avrebbe fatto male alcuno e che in dieci secondi
mi sarei addormentato. Mi sorrise ancora e, infilandomi nell’avambraccio l’ago, mi disse di
contare fino a dieci; non arrivai che a sette.
Yolanda, cara Yolanda
Mi risvegliai nel letto che era il giorno dopo, avevo una flebo infilata sul dorso della mano. Non potevo muovermi in quanto il dolore all’inguine si faceva sentire a ogni piccolo
movimento. Sul comodino a fianco del mio letto qualcuno aveva messo una bottiglia di
aranciata e un pacco di biscotti che non toccai per tutto il pomeriggio, finché venne la
“mia” infermiera. Questa, dopo avermi fatto cenno di non parlare, mi inumidì la bocca con
un tovagliolino inzuppato nell’acqua poi, con molta calma, mi fece mandare giù un biscotto
bagnato nel latte.
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Il tempo passava tranquillo e veloce. La “mia” infermiera, quando era in servizio, mi rivolgeva molte attenzioni, sembrava che fossi l’unico ricoverato. Mi aiutò molto nella convalescenza.
Tutti i giorni c’era viavai di pazienti. Chi usciva e chi entrava, mentre il signor Giovanni,
quello del letto 12, andò in sala operatoria e non ritornò più nel camerone. Dicevano che
era morto sotto i ferri.
Erano già quindici giorni che stavo in ospedale e quindi era arrivato il momento di ritornare a Porta Portese.
Il mattino verso le dieci si presentò davanti al mio letto una persona in borghese la quale,
qualificandosi come agente di polizia, mi disse che mi dovevo vestire perché sarei dovuto
essere riportato al carcere minorile. La “mia” infermiera era indaffarata con un altro paziente, ma quando vide quella persona vicino al mio letto vi si precipitò in un istante e, con
una faccia piena di speranza, gli chiese additandomi: «Mi scusi, lei è un suo familiare?».
L’altro con fare automatico tirò fuori dalla tasca un foglio e porgendolo all’infermiera rispose:
«Pubblica Sicurezza devo far rientrare questo ragazzo ai minorenni».
Lei, guardando con disappunto prima la faccia di quell’uomo e poi, con perplessità, la mia,
tenendo stretto il foglio nelle mani, disse: «Non credo sia possibile far uscire il ragazzo oggi
stesso, e comunque dovrei chiedere al primario di corsia».
Allontanandosi a passo svelto, sparì dalla vista per ritornare dopo dieci minuti seguita da
un dottore.
«Buongiorno» disse il dottore «sono il primario del reparto. In cosa posso esserle utile?».
L’altro, presentandosi come dipendente del Tribunale dei Minori, disse: «Ho qui un foglio
del Giudice nel quale c’è scritto che se non c’è qualche parente che si prende la responsabilità di tenerlo a casa, come da legge, per il tempo necessario di convalescenza, o se non è
guarito o che non possa guarire nel riformatorio, lo debbo prelevare oggi stesso».
In attesa di una risposta, l’uomo guardava l’orologio come se avesse fretta. L’infermiera e
il dottore si allontanarono un paio di passi e, dopo aver confabulato tra loro con domande
e piccoli cenni del capo, tornarono vicino al mio letto, e il dottore disse: «Il ragazzo ha ancora bisogno di qualche giorno di riposo quindi è impossibile farlo uscire oggi».
L’agente alzò le spalle, scrisse qualcosa sul foglio che aveva ricevuto indietro e, dopo
averlo fatto firmare al primario, salutò dirigendosi verso l’uscita.
Facendomi l’occhiolino, si allontanarono anche loro due.
Ero lì sul letto immaginando ancora qualche giorno di tranquillità, quando il sorriso della
“mia” infermiera illuminò, come un’alba di primavera, tutto il camerone. I suoi occhi erano
più vivi e più belli che mai.
Mettendosi a sedere sulla sponda del letto mi guardava con amore. Il suo sguardo era dolcemente ambiguo e rassicurante. La prima cosa che mi chiese, fissandomi negli occhi e
stringendomi le mani tra le sue che tremavano di emozione, fu: «Ti piacerebbe non andare
più a Porta Portese?». Poi, prima che potessi aprire bocca, continuò:
«Ti vorrei portare a casa mia …». Cercando di non dare ancora risposte alle mie mute
domande, proseguì: «…però prima mi devi raccontare un po’ di te e della tua famiglia. Va
bene ?».
Al mio assenso mi fece una carezza sulla guancia e alzandosi, non prima di avermi detto
di fare il bravo, tirò fuori dalla tasca del suo camice una grossa cioccolata e me la porse.
«Ciao a domani» disse allontanandosi.
I suoi capelli biondi e lucenti, lasciarono una scia di profumo nell’aria.
Nei giorni a seguire, sia quando era in servizio, sia quando non lo era, mi prelevava dal
camerone e andavamo a passeggiare nei giardini dell’ospedale.
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Lei aveva avuto, fino a qualche anno prima, un marito e un figlio ma, diceva, purtroppo
non c’erano più, e ora era sola. Ripeteva che se io avessi voluto, avrei potuto andare a vivere a casa sua per sempre e mi avrebbe trattato proprio come il suo figlio scomparso.
Avevo deciso di sì, sarei andato volentieri con lei. Cosa altro avrei potuto fare?
Venne il mattino della mia uscita. Lei si presentò con dei fogli del Tribunale dei Minori e,
mostrandomeli con eccitazione, disse che era riuscita a farsi affidare il sottoscritto finché lo
stesso Tribunale non avesse rintracciato i miei genitori.
Vestendomi con dei pantaloni lunghi e una camiciola, sicuramente dovevano essere del
figlio, e facendomi calzare un paio di scarpe appena comprate, mi prese la mano e mi portò
fuori di lì. In corsia, qualche sua collega, si rallegrava con lei.
Finalmente potevo camminare di nuovo sotto il sole. Potevo salire sul tram tra persone
“per bene” e lei, sempre con la mia mano nella sua, mi faceva sentire sicuro. Il viaggio in
salita con il tram durò pochi minuti.
Scendemmo a una fermata da dove si poteva vedere l’ospedale giù in lontananza. Dopo
pochi passi entrammo in un portone, per poi salire al secondo piano e quindi nella sua abitazione.
La casa, ammobiliata in modo discreto e sobrio, sussurrava nell’aria la presenza, tanto
tempo prima, di due altre persone. Potevo capirlo dalla mobilia e da qualche foto appesa al
muro che ritraeva un uomo e un ragazzo. Sull’attaccapanni all’ingresso era appeso, fresco di
lavanderia, un cappottino da ragazzo.
La cucina era spaziosa e luminosa avendo le finestre che davano nel cortile interno. Il
soggiorno era lucente e ben pulito e sul comò della sala da pranzo c’era la foto dello stesso
uomo e bambino con al centro lei. Si notava sulla foto Yolanda mentre sorrideva felice,
non aveva neanche una ruga, mentre adesso delle occhiaie scure (eppure non erano ancora
passati due anni dalla scomparsa dei suoi cari) le rovinavano quel sorriso che era riuscito a
conquistarmi.
L’uomo doveva avere 40 o 45 anni, mentre il bambino, capelli castano scuri e un po’ mingherlino, poteva avere più o meno la mia stessa età, 13 o 15 anni. Yolanda aveva 38 anni.
Mi fece accomodare su una poltrona. Dopo esser andata in cucina tornò con una tazza di
latte fumante e una fetta di pane con sopra burro e marmellata, si sedette vicino a me e,
come volesse pregarmi, iniziò:
«Vedi Ernesto, tu sei proprio come mio figlio, hai lo stesso colore dei suoi occhi e anche i
capelli, certo non siete al cento per cento uguali e…». Si fermò un momento come per deglutire, riuscendo non molto bene a nascondere un singhiozzo che prometteva lacrime, poi
riprese:
«… anche i tuoi occhi e la tua voce sono uguali a quelli suoi…».
Tacque ancora. Dopo un attimo di riflessione, allungando una mano sui miei capelli,
scombussolandomeli tutti, quindi fissandomi con i suoi occhi ormai sciolti dalla commozione, aggiunse: «… anche lui si chiamava Ernesto».
Io seduto, con la fetta di pane e marmellata quasi finita, la guardavo pieno di interrogativi,
sperando che si decidesse a dirmi cosa dovevo fare per meritarmi tutte quelle attenzioni.
«Vorrei che tu rimanessi qui con me finché sarai grande, ma per adesso mi raccomando,
anche se dovessimo uscire per strada o che so io, ti prego di chiamarmi zia Yolanda, questo
soltanto perché molta gente non capirebbe se tu mi chiamassi Signora Yolanda, mamma,
oppure solo Yolanda».
Continuando ancora a fissarmi si avvicinò e stringendomi al suo petto, mi sussurrò:
«Ernesto, va bene tutto ciò che ti ho detto? Hai domande da farmi ?».
Contento di avere una casa, una camera tutta per me, da mangiare quando si doveva, e
tutto ciò che non avevo mai avuto, risposi: «Anch’io voglio rimanere sempre con te Yolan83
da!».
Senza dargli un secondo per replicare alla mia spontaneità, aggiunsi subito «però quando
saremmo fuori di casa ti chiamerò zia Yolanda!».
Mi si strinse contro ancor di più e, dopo qualche secondo, tenendomi sempre per mano,
mi fece fare il giro della casa.
Nella “mia” cameretta c’erano molti giochi e peluche. In un angolo c’era un piccolo armadio dove, in un ordine esagerato, c’erano tanti abitini di tutte le fogge. Sulla scrivania
c’erano una radio e dei giochi a incastro, mentre sul muro delle foto di calciatori e un poster
di Topolino.
Un giradischi era invece sullo scaffale con a fianco qualche disco e una enciclopedia per
ragazzi. Sì! La stanza mi piaceva moltissimo. Era quella che avevo sempre desiderato.
Lei, dormiva nella camera da letto che, molto tempo prima, aveva sicuramente ospitato
due persone e che ora era solo per una donna triste, ma non più di tanto, almeno finché
fossi rimasto con lei.
Mangiavamo in cucina uno di fronte all’altro, con la piccola radio accesa. Io la aiutavo nel
preparare la cena e lei era felice. A volte diceva che finalmente un po’ di voglia di vivere le
era ritornata e che molti brutti pensieri che l’avevano assalita in momenti di solitudine stavano scomparendo giorno dopo giorno. Yolanda era felice. Si sentiva proprio felice in mia
compagnia. E aveva preso a cantare. Lo faceva mentre era in casa a sbrigare le faccende
domestiche o mentre lavava i piatti. Sono convinto l’abbia fatto anche molti anni prima
quando ancora c’erano i suoi cari, comunque quando cantava sembrava non avesse avuto
dolori in passato, tanto era contenta.
Io da parte mia, le raccontai tutto di me, tralasciando il rubare nei cantieri e altro che non
ritenevo importante; sinceramente non volevo rovinare tutto.
Del resto, però, non mi sentivo di dire bugie.
Quando era al lavoro, ero io che andavo a fare la spesa dal fornaio e dal fruttivendolo.
Senza fare la cresta sui soldi della spesa che lei mi dava, spesso con qualcosa extra, potevo
comperarmi quello che più desideravo, giornalini di Topolino e Paperino nell’Edicola che si
trovava all’angolo, in fondo al palazzo.
Spesso andavamo insieme al mercato di Monteverde e, tra le bancarelle, compravamo un
po’ di tutto, specialmente cose per me.
Con lei sono stato allo zoo, io che neanche sapevo che a Roma ci fosse uno zoo. Sono
potuto andare una volta al Circo Equestre e, anche se di malavoglia, tre volte a settimana
ricevevo lezioni private di scuola per recuperare anni persi.
Passavano i giorni, le stagioni e le lezioni nella più assoluta tranquilla routine quotidiana,
finché non arrivò dicembre con le sue infiocchettate di neve. Le lezioni furono interrotte
dalle feste Natalizie e dalle vacanze.
Nei giardini che erano al di là della strada, si era stabilito un venditore di alberi di natale.
Tutta eccitata, Yolanda, quella mattina mi venne a svegliare con una tazza di cioccolato
caldissimo e passandomela sotto il naso mi chiamò:
«Ernesto, svegliati che andiamo a comprare l’albero di Natale».
Aprendo gli occhi annusai il profumo del cioccolato. Mi misi a sedere sul letto iniziando a
sorseggiare quel nettare divino. Sedendosi a sua volta e guadandomi mentre facevo in
modo di non bruciarmi la lingua, continuò:
«O preferisci fare il presepio?».
Dissi che andava bene l’albero in quanto, come già le avevo raccontato in precedenza, di
presepi ne avevo visti abbastanza in collegio e poi anche perché l’albero di Natale faceva
più festa.
Dopo averlo comprato, facemmo a chi riusciva a mettere sull’albero più palle senza rom84
perne nessuna, intanto la musica usciva dalla radio. Quando completammo il lavoro, Yolanda andò nella sua camera e ritornò con due pacchi avvolti in carta dorata, dicendo che
uno ero il mio regalo e l’altro era per lei.
Li avremmo aperti la mattina di Natale. Le piccole luci che avevamo acquistato al mercato, brillavano come un cielo in una notte di mezza estate sul nostro albero pieno di stelle
intermittenti. Quel giorno avremmo mangiato a pranzo non in cucina, ma in sala con la
tavola apparecchiata a festa come fosse già Natale, anche se mancavano ancora due giorni.
Avevamo appena finito di mangiare la minestra. Yolanda si apprestava ad andare in cucina per prendere il secondo (aveva fatto i cannelloni ripieni che a me piacevano moltissimo),
che si sentì il campanello della porta squillare. Appoggiando i piatti vuoti sul tavolo si diresse verso l’ingresso. Udendo lo scatto della serratura che si allentava, sentii anche la voce di
una donna, voce a me vagamente familiare.
«Buongiorno» disse la voce femminile, «sono la psicologa del Tribunale del Minori e ho
qui con me la revoca dell’affidamento di Ernesto nei suoi confronti».
Sentivo rumore di carta e passi. Si aprì la porta della camera da pranzo e, con un sussulto
di paura, vidi due poliziotti in divisa; con loro era anche la signora che mi aveva fatto le
porcherie qualche tempo prima a Porta Portese.
La discussione si incentrava più che altro sulle preghiere di Yolanda. Non era possibile
che il Tribunale dei Minori avesse così drasticamente deciso, senza ragione alcuna. Lei mi
faceva studiare, mi dava tutto ciò di cui avevo bisogno, non era giusto che mi portassero
via così, all’improvviso.
Non ci fu nulla da fare. I due poliziotti mi presero così com’ero e, alla richiesta di Yolanda
di cosa avrebbe dovuto fare per poter far annullare la revoca, la psicologa rispose che poteva sempre rivolgersi al Tribunale dei Minori con un’istanza scritta, comunque non le assicurava nulla.
Non volevo staccarmi da lei e così lei non voleva staccarsi da me. Mi teneva stretta la mano con più vigore del normale. Arrivati vicino alla porta che dava sul pianerottolo, mi prese
e mi strinse fortemente al petto. Le sue lacrime erano calde e salate sul mio viso, e i suoi
“non ti preoccupare che ti farò di nuovo tornane qui” erano detti con poca convinzione e
tante speranze. Ricordo benissimo che l’addio fu straziante per lei, anche se dignitoso. Non
riuscì a nascondere la sua disperazione mentre, tenuto tra due fuochi, scendevo le scale.
I suoi singhiozzi si mescolavano alle lacrime, cadendo giù nel sottoscala e rimbombando
per tutto il palazzo come un cuore impazzito. Molti inquilini sbirciavano da dietro porte
socchiuse.
Dopo i primi tre giorni di Porta Portese, ricevetti un pacco da Yolanda, dentro c’era biancheria pulita e una lettera dove era scritto che si riprometteva di venirmi a trovare al più
presto. Mi scriveva anche di stare su col morale in quanto si stava interessando presso il
Tribunale per farmi uscire.
Comunque nelle lettere che ricevetti in seguito capii che non poté mai venirmi a trovare
perché ciò era permesso soltanto a familiari stretti. Dopo qualche mese, durante i quali mi
mandava regolarmente la biancheria pulita, non ricevetti più pacchi, ma un giorno, inaspettatamente, un’ultima lettera.
Adorato Ernesto,
scusami se non mi sono fatta più viva ma, dopo la tua forzata partenza, ho avuto dei problemi di salute.
Ma tu come stai!? Mi auguro veramente che dove ti trovi non ti facciano mancare nulla e che ti diano anche
la possibilità di andare a scuola. Ho provato di tutto a dappertutto per riaverti qui con me, inutilmente. Il
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Tribunale dal quale tu dipendi mi ha mostrato una denuncia nei miei confronti fatta dai vicini di casa dove
vi si potevano leggere delle brutte cose contro di noi. Ti dico soltanto che la gente che lo ha fatto ha detto che
io sono una poco di buono e che era scandaloso che alloggiassi con me un ragazzino. Soltanto noi due sappiamo la verità, cioè che ci siamo amati come può essere l’amore spirituale tra una mamma e un figlio e
questo per me varrà per sempre. La gente è quasi sempre cattiva.
Ti vorrò bene in eterno e non ti dimenticherò mai. Con la tua presenza ho vissuto dei mesi e specialmente
dei momenti che avevo quasi dimenticato. La tua presenza, anche in mezzo al temporale più buio, riusciva
a scaldarmi e a farmi vedere il sole e mi dava la certezza che a volte vale la pena di vivere. Insieme abbiamo
passato giorni spensierati e felici come non avevamo quasi più avuti. Insieme abbiamo respirato l’aria dei
prati e bevuto l’acqua della sorgente e nella nostra intimità, eravamo vivi e non più soli. Insieme abbiamo
vissuto ancora un po’.
Carissimo Ernesto, vorrei scriverti ancora di più. Vorrei scriverti che non ho ancora disfatto l’albero di
Natale. Ti ricordi quando lo abbiamo comprato? E poi le lampadine che non si accendevano? E le passeggiate fatte in centro con le strade addobbate a festa? E le caldarroste comprate in via del Corso? Che bello,
vero? La tua fotografia è sul mio comodino, assieme agli altri miei cari. Sono sicura che, se mi darai retta,
tutto ciò verrà di nuovo, almeno per te.
E mi raccomando, fai in modo di non essere triste, di studiare, di non fare a pugni con i tuoi compagni e
di rispettare tutti, se seguirai questi miei consigli, vedrai che presto sarai libero e la mia casa sarà, come
prima, anche la tua casa. Anzi, la nostra casa.
E io ti aspetterò.
Con questi pochi soldi che ti mando insieme alla lettera, comprati qualcosa che ti sia utile e non preoccuparti di scrivermi, lo farò io. Adesso ti lascio perché sono stanchissima e ti do tantissimi bacioni sapendo che
anche tu mi pensi.
Ciao Ernesto, ciao e fai il bravo.
Yolanda
Nel mezzo della lettera l’inchiostro era sbavato come se ci fosse caduta su una goccia di
acqua.
Di nuovo a Porta Portese
La psicologa mi fece sedere, poi, mostrandomi le stesse foto in negativo di molto tempo
prima.
Alzò lo sguardo sudi me, mi fissò e disse: «Vedi, caro Ernesto, questi sono gli stessi disegni che tu hai visto l’altra volta, quindi adesso non è il caso che indovini cosa significhino,
però vorrei capire se nel tempo che sei stato fuori, hai avuto contatti con donne e se la signora Yolanda ti abbia fatto dormire con lei». Fissandomi ancora più profondamente negli
occhi, scrutando la mia faccia, continuò:
«Spero capirai cosa voglio dire».
Rimanevo perplesso alla sua domanda, in quanto capivo e non capivo. Alla fine capii.
Avrei voluto dirgli moltissime parolacce. Avrei voluto gridare che era lei la puttana e non
Yolanda. Avrei, avrei voluto molte cose, ma rimasi seduto e composto. Sottomesso alla sua
autorità. Lei, senza aspettare un mio assenso, riprese:
«Io potrei ancora farti mandare in licenza premio, questo dipende da te. Quello che ti
chiedo è soltanto di lasciarti fare un’analisi per vedere se nel frattempo sei diventato un
uomo».
Quindi, prendendomi per la mano, cercò di avvicinarmi a se. Mentre io, tenendo stretta
l’altra mano sul bordo della scrivania, facevo resistenza. Lei, ancora con più insistenza, tira86
va in modo uniforme e forte. Nello sbilanciamento delle due forze, la mano aggrappata al
tavolo lasciò la presa e, spostandosi di scatto in avanti assieme al mio corpo, andò a finire
sul petto della psicologa, che ebbe un attimo di esitazione. Tutto ciò che era sulla scrivania
finì sul pavimento. L’inchiostro di un calamaio le si rovesciò addosso senza pietà. Io, stando ancora steso a metà sulla scrivania e con la mano aggrappata al suo seno, cercavo con gli
occhi di poter scorgere un qualche lume di buon senso in quelli della psicologa. Ma, da
buona attrice, con uno scatto felino mi spinse indietro, facendomi ritrovare a sedere. Qualche bottone della sua camicetta era saltato.
Un urlo le si levò dalle labbra. Chiamava tutti a squarciagola, “guardie”, “direttore”
“aiuto”, “delinquente”, “maniaco sessuale”.
Spaventato fuggii di corsa. Aprendo la porta e richiudendomela alle spalle, mi fermai sulle
scale in attesa di un silenzio che non arrivava.
Non avevo neanche avuto il tempo di riprendere coscienza della situazione, che mi sentii
afferrare da due mani gigantesche le quali mi sollevarono da terra come se pesassi un paio
di etti e, in un batter d’occhio, mi ritrovai in una cella oscura e buia.
Doveva essere una delle celle di isolamento, di quelle nelle quali venivano rinchiusi i delinquenti più ribelli.
Stando lì, non si poteva minimamente capire quando fosse giorno o notte. La lampadina
sul soffitto rimaneva sempre accesa, facendo venire un mal di testa che durava giorni e
giorni, in quanto, non avendo nulla da fare o da vedere, non rimaneva altro che fissare il
pavimento o il soffitto.
Il bugliolo era senza coperchio ed emanava un odore terribile di residui di urina e feci
ammuffite. Le mura piene di scritte e implorazioni d’amore o d’infamità. La finestrella in
cima alla parete doveva essere non più grande di 30 per 30 centimetri. Il letto era di cemento e senza materasso, con un cuscino dalla fodera sporca, quasi nera, e la solita coperta
militare erano il complemento d'arredo della cella.
Non so che ora fosse, ma doveva essere notte quando sentii la porta aprirsi. Non ebbi
modo di vedere con chiarezza. La luce, eternamente accesa, era ora stranamente spenta.
Ombre nel buio.
Chi era? Senza avere il tempo di trovare una risposta, o darmi il tempo di capire, o fare
una qualsivoglia reazione, quelle ombre iniziarono a colpirmi con pugni e calci. Uno dei
tanti, dopo ogni pugno o calcio, inveiva contro di me dicendo che “con questa lezione imparerai a non tentare di violentare chi si sacrifica per i ragazzi sbandati e difficili come te.
Non devi mai più ribellarti verso la psicologa, perché se lei dice no alla tua domanda di
licenza, una ragione c’è e comunque la psicologa è una santa donna che ha aiutato molti
ragazzi a uscire”. Capii la lezione (che altro potevo fare?) e, sdraiandomi sul tavolaccio (il
letto di cemento) cercai, prima di addormentarmi, il dente che mi era saltato al primo pugno ricevuto. Non lo trovai. Mi misi il fazzoletto tra le labbra per fermare il sangue e dormii, se così si può dire. Il mattino alle sette svuotamento del bugliolo e sciacquatina al viso,
poi colazione con pane “non appena sfornato” e un po’ di latte e acqua. Pranzo e cena di
ultima categoria.
Dopo una settimana venni portato dal direttore. E questi mi fece la ramanzina.
Se io ero rinchiuso al riformatorio una ragione ci doveva essere per forza. Se avevo fatto
quello che avevo fatto alla psicologa era perché nella mia mente c’erano delle distorsioni
psichiche molto gravi e pericolose. Se io non fossi cambiato e non avessi seguito gli istitutori e non avessi ascoltato la mia famiglia, sarei divenuto sicuramente un delinquente incallito. E la prossima volta che avessi fatto qualcosa che non andava in accordo con le regole
dell’istituto, avrei sicuramente passato più tempo nelle celle di rigore. E se “fossi caduto di
nuovo giocando a pallone” sarei dovuto subito andare in infermeria a farmi medicare le
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ferite riportate.
“Ma quali istitutori? Ma quale famiglia? Violenza sessuale? Io non avevo proprio fatto
nulla di male! Cascato? Ma quale pallone? se i grandi non ci fanno mai giocare…” tutto
rimase sospeso in aria.
Avevo imparato che era inutile cercar di parlare con qualcuno lì dentro.
I giorni scorrevano allo stesso modo. Con la prepotenza dei grandi, l’ignoranza degli istitutori, il non far niente tutti i giorni. Il latte annacquato e l’aspettare Padre Agostino per
ricevere un paio di Nazionali. Un sorriso e uno scappellotto sulla guancia. Il contare i giorni
che rimanevano per tornare in libertà.
Quel giorno arrivò per me come un raggio di sole.
Mi trovavo in cortile a guardare gli altri giocare a pallone quando mi sentii chiamare.
Senza immaginare minimamente il perché, mi avviai verso l’istitutore. Lui mi disse che
dovevo andare in matricola perché ero libero. Dopo poche formalità, senza che nessuno mi
chiedesse dove sarei andato o cosa avrei fatto, oppure se avessi genitori, mi ritrovai fuori il
grande portone di Porta Portese. Ero spaesato. Non sapevo dove andare. Non avevo neanche un soldo in tasca e, giacché tutto era accaduto così all’improvviso, mi sentivo talmente
sperduto che rivolsi uno sguardo quasi nostalgico alle mie spalle. Poi facendomi coraggio
mi diressi automaticamente in direzione del Lungotevere, Stazione Termini, Porta Maggiore, fino a prendere la via Prenestina ed arrivare a Quarticciolo.
Si era fatto buio.
Fuori
L’eterna casa in costruzione, era sempre lì. Gli intonaci non finiti nella sua totale lunghezza, le sue finestre senza telai né vetri, parevano mille teschi con bocche aperte e sdentate.
Il tram attendeva tranquillo con le luci accese al capolinea di via Lucera. Sembrava che
non fosse cambiato nulla mentre ero stato assente. Anzi, tutto lì attorno sembrava dimenticato anche da Dio.
Speravo di trovare mio fratello nella camera che avevamo occupato molti mesi prima.
Mi feci coraggio ed entrai nella costruzione. Passando nel corridoio impestato di carta ed
escrementi umani, mi avviai con fare ansioso verso il “nostro” giaciglio.
Sentivo delle voci venire da quella direzione. Speranzoso di ritrovare mio fratello, allungai
il passo, ritrovandomi davanti alla porta che qualcuno aveva aggiustato alla meno peggio,
quindi aprendola di scatto rimasi impietrito.
Seduti sui “nostri” materassi vi erano due sconosciuti con un fiasco di vino in mano, i
quali appena mi videro nascosero qualcosa dietro la schiena e mi squadrarono per qualche
secondo. Poi riprendendosi simultaneamente dal primo stupore, i due riuscirono ad aprire
bocca per primi:
«Chi sei? Che voi?» disse il più brutto.
«Come chi sono?» esclamai guardandomi un po’ in giro.
«Questa roba è mia» dissi facendo cenno con la mano rivolta verso il letto. «Questa roba è
mia e di mio fratello che se lo viene a sapere vi mena a tutti e due» minacciai.
In risposta i due si alzarono e barcollando si diressero verso di me con un bastone in mano. Io indietreggiai allontanandomi con passo spedito in direzione dell’uscita. Dietro le
spalle sentivo gridare: «Se ti prendiamo te damo tante de quelle legnate che dimenticherai
de ritornare ancora!».
Aumentando la mia corsa, udivo le loro grida sorpassarmi e dire che mio fratello gli
avrebbe fatto qualcos’altro. Corsi, e corsi in salita. Anche se le mie scarpe finivano sulla
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merda, continuai a correre.
Via della Palme (dove un tempo c’era la casa del mio amichetto d’infanzia Riccardo, ora
soltanto macerie) saliva da via Lucera fino a Centocelle e da lì potei andare a piazza dei
Mirti. Là, vicino alla trattoria dove avevo mangiato qualche volta con mio fratello nel tempo in cui lavoravamo allo sfasciacarrozze del “Commenda”, c’erano sempre parcheggiati
dei camion per i trasporti della ditta Rossi & figli.
Ne scelsi uno a caso e lo usai come giaciglio per quella notte, riproponendomi che il giorno dopo sarei andata a cercare lei, Yolanda.
Fame non ne avevo ancora e il rumore delle macchine dei ragazzi che stazionavano nella
piazza, che ogni tanto facevano il solito giro sgommando a tutta velocità, non mi disturbavano affatto, anzi mi davano sicurezza e curiosità. Prima di infilarmi sotto le coperte puzzolenti e polverose, li spiai da un buco nella tenda per un bel pezzo.
Il mattino prestissimo, al primo rumore di traffico, mi svegliai e scesi guardingo dal cassone del camion. Appena fuori cercai di ricordarmi dove era la fontanella pubblica, quindi,
passando davanti al cinema Broadway, mi diressi verso la piazza dove già molte persone
stavano montando le bancarelle per il mercato. Mi lavai un pochino nell’acqua fredda, dopodiché mi misi alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
La saracinesca del bar era ancora abbassata e la cesta con le paste e i cornetti era lì sul
marciapiedi, invitante e urlante il suo profumo verso di me. Con indifferenza volpina mi
avvicinai facendo attenzione che nessuno mi vedesse, poi allungai la mano per afferrare
qualcosa a caso che si trovava nella cesta. Il cornetto era ancora caldo e sotto i miei denti
sapeva di fantastico. Buonissimo.
«Al ladro!!! Al ladroooo!».
La voce urlava dal balcone sopra la mia testa dove la signora stava sbattendo il tappeto,
più urlava e più sbatteva il tappeto, sembrava che, con il battipanni, volesse schiacciarmi
come una mosca.
I fruttivendoli del mercato volsero la loro attenzione verso la signora, poi, abbassando il
tiro, mi puntarono, iniziando, prima al trotto poi al galoppo, a venire minacciosi nella mia
direzione. Non potei fare altro se non quello che avevo fatto fin dalla nascita; scappare,
scappare e ancora scappare. Scappare in discesa verso il rifugio di via Lucera.
Addio Yolanda
Il tram, affollatissimo, stava ormai per partire e io ero troppo stanco per andare fino a
Monteverde a piedi. Decisi che tra tutta quella gente che andava in centro mi sarei potuto
intrufolare senza dare nell’occhio. Mi accodai a tre persone ritardatarie e frettolose e, sgattaiolando tra gli altri passeggeri, mi ritrovai stretto tra quella massa di gente come una sardina. Anche se impaurito ero soddisfatto di averla fatta al bigliettaio che, seduto al suo posto, scrutava con minacciosa attenzione i viaggiatori per assicurarsi che tutti pagassero il
biglietto. Mi andò bene.
Al capolinea del tram (la Stazione Termini) scesi e, senza pensare al mio stomaco e alla
distanze che mi separava dalla casa di Yolanda, mi incamminai.
Il Lungotevere, in quella giornata di sole, nascondeva la sua acqua sporca. I ponti con tutti
i marmi eretti a indicare il cielo, con le barche attraccate ai suoi lati, con il traffico che si
stava facendo caotico, con i suoi alberi che pareva volessero proteggerlo dall’invasione delle
automobili, e il Tevere con il sole che lo guidava nella sua andatura calma verso il mare,
erano qualcosa di affascinante da vedere; bellissima Roma.
Attraversai Ponte S. Angelo in direzione di Viale Trastevere.
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La strada era ancora molta da fare, ma per me l’importante era arrivare fino all’Ospedale
S. Camillo, da dove sarebbe stato facile camminare fino a casa di “lei”.
Arrivai dopo un’oretta.
Ormai le scale, per arrivare alla porta che avevo aperto e chiuso tante volte quando abitavo lì, non mi affaticavano minimamente, anzi la stanchezza era quasi scomparsa. Avrei rivisto Yolanda, le avrei detto che ero libero e che non sarei più andato via.
Suonai una sola volta. Sentii dei passi avvicinarsi. Mi aggiustai i capelli con una manata,
preparandomi a un nostalgico abbraccio.
La porta si aprì e la faccia di una sconosciuta prima mi squadrò da capo a piedi, poi mi
chiese, chiudendo un pochino la porta come volesse proteggersi chissà da chi, cosa volessi.
Alla mia domanda se c’era la signora Yolanda, mi sentii rispondere che la vecchia padrona
era morta quattro mesi prima e che i suoi parenti avevano venduto la casa a loro.
Io ancora speranzoso che non avesse capito bene la mia domanda, chiesi se intendeva,
come vecchia padrona, la signora Yolanda Proietti.
«Sì. Sì. La vecchia padrona, si chiamava Yolanda e si è ammazzata perché, dicono, teneva
in casa un minorenne e ci faceva l’amore e un giorno è venuta la polizia e glielo ha portato
via e lei per la disperazione si è bevuta l’acido muriatico e…».
Si interruppe un momento per aguzzare ancor di più i suoi piccoli occhi verso di me, poi
accostando ancora un pochino la porta, ormai quasi letteralmente chiusa, aggiunse con fare
scrutante: «…forse sei tu quello zozzone che ci andava a letto!».
Non so perché, ma abbassando la testa, risposi: «No! Signora, non sono io».
Mi girai verso le scale mentre la porta, dove avevo trovato qualche tempo prima calore e
conforto, si richiudeva dietro le mie spalle con estraneità. Per strada presi a calci un barattolo.
Il cimitero, il Verano, è quasi sempre aperto ed è, insieme alle chiese di Roma, uno degli
unici posti della città dove regna quel silenzio rispettoso che aggrava ancor di più le tristezze e le sofferenze della gente.
Arrivato lì nel primo pomeriggio, mentre il cielo si stava preparando per l’acquazzone,
cercai di scervellarmi su come potevo fare per comperare un seppur piccolo, un mazzo di
fiori. Potevo avvicinarmi alla bancarella che li vendeva e rubarne uno quindi correre e… a
chi li avrei dati poi?
Fortunatamente l’ingresso del cimitero non si paga e neanche le informazioni riguardanti i
nomi dei morti, così riuscii a trovare, dopo aver setacciato tutto il sacro luogo, la tomba di
lei.
La pioggia iniziava a scendere e le persone che erano lì per i loro cari acceleravano il proprio da fare attorno alle tombe in modo di prendersi meno acqua possibile.
Il sorriso di Yolanda sulla lapide mi aspettava. Sotto una dicitura;
«È qui sepolta per la cattiveria della gente».
Rubai un fiore dalla tomba accanto e lo deposi sotto la lapide.
Il temporale incominciò a farsi sentire. I tuoni sembravano volermi mettere paura con le
loro urla e l’acqua scendeva a catinelle. Arrivato al cancello, mi girai e sottovoce mandai
l’ultimo saluto a lei:
«Ciao Yolà».
Chissà perché non cercai anche la tomba di mia madre.
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Attorno e sopra di me la pioggia
Ero inzuppato fradicio, quindi mi riparai dentro un portone dalle parti dello Scalo San
Lorenzo.
La pioggia, o meglio l’acquazzone, non voleva saperne di smettere.
Ricordo che tremavo e iniziava a salirmi la febbre. Non sapevo assolutamente dove andare. La fame stranamente mi era passata (colpa della febbre?) e i tremiti del mio corpo sembrava fossero scossi da una bufera da polo nord.
Aspettando che spiovesse cercai di pensare come avrei dovuto fare per racimolare qualche spicciolo e potermi comprare un bicchiere di latte caldo. Fui distolto dai miei pensieri
da un uomo, il quale di corsa si infilò dentro il portone parandosi davanti a me. Mi guardava con occhi sinistri, girò l’ombrello che teneva in mano nella mia direzione e, aprendolo
con dei movimenti svelti, apri e chiudi, apri e chiudi, schizzò tutta l’acqua, racimolata per
non bagnarsi la testa, su di me, poi, in un lampo, sparì sulle scale che aveva preso di corsa.
Mi ritrovai ancora più zuppo di prima. In qualche appartamento sopra la mia testa adesso
qualcuno stava litigando. Pensai sicuramente fosse l’uomo che era entrato poco prima, in
quanto fino alla sua venuta non si era sentito null’altro che una radio accesa. Poi le urla
femminili mischiate a grida maschili cessarono all’improvviso come la pioggia. Mi girai in
procinto di andarmene quando il portone, dove qualche minuto prima si era intrufolato
l’uomo che mi aveva preso per il suo portaombrelli si aprì e, senza avere il tempo di rigirarmi o rendermi conto di ciò che accadeva, sentii sollevarmi da terra da un calcio datomi
con forza e rabbia dal cretino dell’ombrello. Mi ritrovai seduto sul marciapiede proprio
nell’unica pozzanghera che c’era nel raggio di cento metri (cosa rara a Roma in quanto le
pozzanghere si trovano ogni due metri e sono antiche come il Colosseo). Mi alzai ancora
più inzuppato e guardando l’uomo mentre si allontanava borbottando, presi la strada verso
Portonaccio.
Dopo il temporale il sole, ormai al tramonto, lasciava sciolti i suoi raggi per l’ultimo gioco
serale. Attraversando tutte le borgate che separano via di Portonaccio da via Casilina, mi
ritrovai nei paraggi del vecchio aeroporto di Centocelle.
Quella notte avrei potuto dormire sulle carrozze dei treni in perenne sosta alla piccola stazione del quartiere, oppure, se lì non fosse stato possibile, sui camion della ditta “Rossi &
figli”, parcheggiati in semicerchio a piazza dei Mirti. Prima però dovevo per forza rimediare
trenta o quaranta lire per un bicchiere di latte e magari anche un “napoletano” da consumare nel Bar vicino al Cinema Platino. Ma come fare? Sentivo freddo, molto freddo.
Nella mia mente si fecero spazio le parole che io e mio fratello avevamo sentito spesso
dal nostro amico di sventura Er poraccio “alla Torraccia ci sono sempre i pederasti che
pagano”.
La testa mi diceva di no, mentre la pancia era titubante.
Quella sarebbe stata la mia seconda esperienza dopo l’avventura avuta con Pasolini, comunque se avessi trovato un pederasta disposto a pagarmi, gli avrei detto che non mi piacevano i rapporti sessuali con uomini, al massimo avrei potuto fargli vedere e toccare il mio
pene, ma nulla di più però.
Come non volessero che dessi retta al mio stomaco, i tuoni ricominciarono a brontolare.
Iniziai a camminare rasentando la rete che delimitava l’aeroporto dalla campagna. Il buio
faceva il suo dovere non facendomi vedere dove andavano a finire i miei piedi. SplashSplash. Acqua e fango sulle e nelle mie scarpe aperte, mentre i pollici dei piedi si erano ritirati nel loro guscio, come quando da piccolo con mio fratello e il nostro amichetto er Negretto toccavamo per gioco le antenne alle lumache.
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Mi mancava mio fratello. Mi mancava il collegio. Mi mancava mia madre e mi mancava
Yolanda. Mi mancava Quarticciolo, tutti e tutto.
I tuoni, preceduti da lampi, avvicinandosi sempre più, mi distolsero da queste nostalgie.
Le nuvole nere e minacciose coprivano quel poco di luce che la luna si sforzava di offrirmi.
Due ombre si stagliavano a malapena nel buio. Andando nella loro direzione speravo in
un facile guadagno, immaginando già una dormita a pancia piena sotto le coperte polverose
dei camion o sotto le tendine calde strappate ai finestrini dei treni e, chissà, la febbre sparita.
Avvicinandomi ai due non dissi nulla, in quanto non sapevo cosa dire. Uno di loro, con
gesti e voce effeminata, mi chiese: «Ciao bel ragazzo, cosa fai qui?».
Nella mia ingenuità risposi sforzandomi di essere il più naturale possibile: «Niente. Passavo di qui perché devo andare a casa mia che si trova dall’altra parte dell’aeroporto».
Poi, per dare maggiore credito alle mie parole, aggiunsi: «Abito sulla via Tuscolana, e voi?»
chiesi di rimando, sicuro che avrebbero capito il perché ero lì.
Quello con la voce effeminata rispose in modo gentile e ammiccante:
«Sai, noi siamo qui in cerca di bei ragazzi come te per farci l’amore».
Girandosi verso il suo compagno, il quale mi scrutava come volesse analizzare la mia persona o capire che razza di tipo fossi, fece: «Cosa ne dici di questo bel ragazzo, Mimma?».
«Sai Marisa, per me va bene. È giovane e carino e sembra un pulcino spelacchiato tanto è
bagnato».
Il socio lo guardò con occhio furbo e d’intesa.
Io dal canto mio non riuscivo a capire cosa intendessero “fare l’amore”, sicuramente volevano soltanto toccare il mio pene. Quello che dei due sembrava il più autorevole mi guardò aggiungendo:
«Senti bel ragazzo, se farai quello che diremo noi poi ti daremo cinquecento lire. Va bene?».
Sicuro che la cosa sarebbe stata facile, risposi: «Va bene. Cosa devo fare?».
«Spogliati e sdraiati con la pancia in giù e stai fermo che non ti faremo del male, anzi ti
piacerà».
«Come mi devo spogliare?» esclamai con un piccolo moto di ribellione «Mica sono frocio
io!».
Mi ritrassi un poco, ma loro, dopo essersi scambiati uno sguardo che diceva le loro vere
intenzioni, mi si pararono uno davanti e l’altro di dietro bloccandomi ogni via di scampo.
«Senti ragazzi’» disse quello che per tutto il tempo aveva fatto la voce effeminata, ma che
adesso era diventato rude e cattivo, «noi non siamo froci e se tu fai ancora il difficile te meniamo e non te damo una lira». Sentivo adesso le loro mani stringermi sulle spalle togliendomi ogni possibilità di fuga o di ribellione. Con una mossa fulminea mi svincolai dalla
presa di dietro cercando di prendere di sorpresa chi mi era davanti, ma la mossa non riuscì.
Sentii un grande schiaffone venire dal di dietro prendendomi in tutta la parte destra del
viso, dall’orecchio fino al naso. Poi, con una presa al collo, venni buttato violentemente con
la faccia nel fango. Qualcuno mi strappava i pantaloni, sentivo il suo alito puzzolente e affannato.
Uno disse: «Prima io».
Il dolore fu terribile. Le mie urla si abbassarono quando mi fu messa una mano sulla testa,
infossandomi la bocca sempre più nel terreno divenuto palude. A malapena riuscivo a respirare. La pioggia aveva aumentato il fango tutt’attorno. Ed ecco ancora mia madre.
Mio padre, con la cinghia dei pantaloni minacciosa tra le sue mani, si avvicinava. I miei
fratelli, Riccardo e il mio cane, erano tutti lì in silenzio a soffrire con me di un estremo e
miserabile peccato. Le suore buone di Gubbio e i miei amichetti piangevano, e il sole
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splendeva dietro il monte di S. Ubaldo appena finita la Corsa dei Ceri. Signorina Cristina lei
non ha figli? Perché piange sempre? Signora Carmela mi fa dormire nel ripostiglio tra le
ragnatele e le cose vecchie? Non darò alcun fastidio e prometto che laverò i piatti tutti i
giorni. Tonino, Riccardo, perché vi allontanate da me? Cosa accade?
Sentii per la seconda volta ancora quel terribile dolore. La mia bocca, sempre più pressata
contro il fango, ingoiava terra e acqua. I tuoni si erano fatti più minacciosi, come volessero
anche loro contribuire alla violenza. Finalmente libero, dopo un’eternità, rimasi sdraiato nel
fango a pancia in giù.
Sentivo un dolore immenso, non avevo la forza fisica di alzarmi. I pantaloni strappati
all’altezza della vita li tenevo con una mano e aiutandomi con l’altra mi misi in ginocchio. E
sempre in ginocchio mi allontanai dal luogo dove qualcuno poco prima, ipotecando il mio
futuro, mi aveva ferito in modo crudele ed eterno.
I due erano spariti. Attorno e sopra di me la pioggia, questa volta miserevole, aiutava a togliermi di dosso tutto lo sporco che due adulti avevano lasciato su di me.
Stando sempre nella posizione genuflessa, mi liberai e lavai alla meglio da quello schifo,
aiutandomi con le mie vecchie calze bucate. Poi mi alzai in piedi facendo confondere le mie
lacrime con la pioggia. Il viso rivolto in alto per poter prendere più acqua possibile. Silenziosamente imploravo a tutta la pioggia del mondo di riversarsi su di me per cancellare e
mandare via ciò che non fosse mio.
E il cielo capì. I tuoni, seguendo i fulmini, si fecero molto più rabbiosi. L’acqua sembrava
cadere solo per me. Ora tremavo ancora di più di un freddo quasi innaturale.
“Scendi acqua, scendi su di me. Bagnami tutto, inzuppami e fammi affogare. Porta via
tutto da qui. Porta via il fango dai miei piedi e ciò che non è mio dal mio corpo. Sradica le
reti e gli alberi, uccidimi i pensieri e fammi volare via dove ci possa essere più acqua di te e
lasciami lì. Pulisci il fango e tutto e non mi tradire. Sii mia amica acqua, coprimi per sempre”.
A mia madre
(melanconia)
Stavo crescendo e rivoli di marane puzzolenti mi riempivano le dita dei piedi che
uscivano dalle scarpe rotte di un odore a me familiare.
Stavo crescendo e i miei piedi ingrossati dall’età ancora puzzavano dello stesso
odore a me familiare.
Stavo crescendo ed ero felice.
Stavo crescendo.
E potrei disperarmi a chiamarti ancora
Madre Dolcissima
per dirti che i miei piedi dove ora non entra più il puzzo dei rivoli di marane puzzolenti
hanno ancora bisogno delle tue mani.
Riuscii ad alzarmi e, in quello stato, mi diressi verso i vagoni in attesa al deposito sotto la
collinetta di via delle Tuberose. Entrai nel vagone in disuso parcheggiato alla stazione di
Centocelle sicuro che non ci fosse nessuno, entrando in uno scompartimento con ancora le
tendine intatte alla finestra. Appena dentro vidi che su un sedile c’era qualcuno sdraiato.
Puzza d’alcool tutt’attorno.
L’ubriacone si svegliò, alzò la testa, mi guardò da capo a piedi in quella penombra e, con
gli occhi mezzi chiusi dal sonno alcolico, disse che se avessi voluto dormire lì, a casa sua,
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non dovevo fare alcun rumore, per il resto potevo bere un po’ di vino dalla bottiglia che
aveva ai piedi del “letto”, detto ciò si rimise a russare.
Svuotai la bottiglia e con il calore e il giramento di testa che mi aveva procurato il vino a
stomaco vuoto, mi addormentai ancora bagnato e sporco di fango. Tutta la notte sognai
che mio padre e la sua seconda moglie mi staccavano le dita delle mani a una a una e io
avevo paura. Non volevo perdere le dita delle mani. Li imploravo. Ogni supplica era un
dito in meno, però stranamente nel sogno, non sentivo dolore. Provavo soltanto una profondissima angoscia. Mi svegliai quando ormai erano arrivati a togliermi l’ultimo dito; il
mignolo della mano sinistra. Il mio urlo non svegliò l’ubriaco, giacché se ne era già andato.
Il sudore, mischiato ai miei vestiti, mi faceva sentire più freddo della sera precedente. L’alba
era ancora buia e il traffico si poteva sentire in lontananza.
Che potevo fare? Dove e da chi potevo andare a piangere il mio dolore?
L’unico posto che mi venne in mente fu la Stazione di Polizia di Quarticciolo, sulla piazza
stessa della borgata.
Camminai a faccia in giù per la vergogna che provavo perché convinto che tutti vedere
cosa mi era accaduto.
Arrivai al commissariato. Salii le scale di travertino e appena entrato, il piantone, che sedeva dietro una scrivania, vedendomi in quello stato, mi chiese: «Ehi tu, cosa ti è accaduto?
Sei finito sotto una macchina?».
Io risposi soltanto che ero caduto in strada, che avevo la febbre e che cercavo i miei genitori, che non ricordavo più il mio indirizzo di casa e che erano due giorni che non mangiavo. Dopo avermi fatto sedere sulla sedia in un angolo, tastandomi la fronte, urlò verso
una porta aperta: «Brigadié, vado un attimo al Bar, nel frattempo può dare un’occhiata a
questo ragazzo che è seduto qui? Mi sembra che stia male e abbia fame». Poi uscì.
Il brigadiere mi si avvicinò, scrutandomi mi chiese cosa era accaduto, non prima di aver
appoggiato anche lui il palmo della sua mano destra sulla mia fronte. Gli dissi le stesse cose
che avevo detto qualche attimo prima al piantone.
Lui ritirando la mano disse: «Ma tu hai la febbre!».
Si avvicinò alla scrivania, aprì il cassetto tirando fuori due aspirine, me le porse dicendomi
di non muovermi da lì e di prenderle quando sarebbe ritornato il piantone.
“Perché devo aspettare il piantone?” pensai. “Non mi può dare lui stesso un bicchiere di
acqua per mandarle giù?” Dopo qualche istante capii.
Il piantone ritornò con in mano un bicchiere di latte caldo, latte che fumava come una
vaporiera, nell’altra una piccola busta bianca tenuta delicatamente tra due dita.
Mangiai il cornetto ancora caldo quasi in un solo boccone e con il primo sorso di latte
mandai giù le due aspirine. Avevo l’impressione di sentirmi già meglio.
Dopo aver ripetuto la storia della caduta nella strada e aver detto il mio nome e cognome,
iniziarono le ricerca per vedere dove abitassi. Non valsero a nulla le bugie nel dire che non
avevo genitori. Poi il brigadiere si chiuse nella sua stanza e il piantone si sedette al suo tavolo.
Con la faccia da brava persona e buon padre di famiglia mi teneva sotto controllo.
«Come va? Ti senti meglio?».
«Sì, marescia’. Adesso sto un po’ meglio, grazie. Posso andare adesso?».
«No, no, dove vuoi andare così ridotto?» disse poggiandomi una mano sulla spalla.
Passò circa un’ora quando il brigadiere aprì la porta. Avvicinandosi a me disse:
«Abbiamo rintracciato i tuoi genitori. Saranno qui tra poco».
Guardandomi con la severità di chi ha che fare con bambini difficili, continuò:
«Ma perché scappi sempre da casa? Ho parlato con tua madre e mi ha detto che tu e i tuoi
fratelli la fate disperare e che tuo padre non ce la fa più a combattere con voi». Poi con fare
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paternale, aggiunse: «Senti ragazzino, anch’io ho due figli e so quanto è difficile mantenerli
sulla giusta via, e da come ha parlato tua madre so che ti vuole molto bene, quindi cerca di
essere bravo con loro e non farli disperare. Comunque la prossima volta che scappi da casa
e ti troviamo ti porto in prigione dove ci sono i delinquenti veri. Capito?».
Il suo dito indice, minaccioso nella mia direzione, mi incuteva timore e dato che ormai era
inutile parlare, abbassai la testa in un accenno affermativo e così rimasi fino al “loro” arrivo.
Non provai nessun sentimento quando sentii i loro passi e neanche provai nulla quando
mi si pararono davanti con lo sguardo falso e severo.
Non dissero nulla, soltanto qualche smanceria verso il piantone che mi guardò sott’occhi,
poi questi li introdusse nella stanza del brigadiere. Ero lì che volevo prendere la porta di
corsa, ma me li ritrovai davanti, con il brigadiere che bisbigliava contro l’orecchio di mio
padre.
«A casa facciamo i conti» disse mio padre con un’indicibile cattiveria nello sguardo.
«Non sia troppo severo con suo figlio che in definitiva, si è scappato da casa, ma non ha
fatto nulla di male. E mi raccomando portatelo a visitare dal dottore perché credo abbia la
febbre» disse il brigadiere.
Mio padre, per dare un tono veritiero alla sua preoccupazione, con mille inchini rispose:
«Non si preoccupi signor brigadiere, sarà la prima cosa che farò, comunque la ringrazio
ancora, ma una lezione gliela devo dare perché come tutti i suoi fratelli hanno sempre fatto
quello che volevano a casa e...» con un dito nella direzione di sua moglie proseguì, «e questa
poveretta dalla mattina alla sera a lavare e stirare e cucinare per loro. Per ringraziamento
soltanto dispiaceri».
Il brigadiere, con un’alzata di sopracciglia e spalle, accennò comprensivo:
«La capisco perché anch’io ho due figli, comunque arrivederci e tu fai il bravo, se no la
prossima volta lo sai dove ti portiamo» disse rivolto a me.
Strattonato da mio padre, salii in macchina. Non avevo nessuna paura di loro. Sentivo
soltanto dolore e non potevo quasi camminare. E volevo esser lasciato solo. In macchina
assoluto silenzio.
Durante il tragitto si aprì la discussione; riguardava soltanto me. Lei a dire che non mi
voleva in casa neanche una notte. Le risposte rassicuranti di lui erano sempre le stesse.
«Non ti preoccupare, adesso ti accompagno a casa poi porto lui dal dottore, anche se non
ho tempo, perché il brigadiere ha detto che per farlo rinchiudere a Porta Portese oppure a
Casal de’ Marmi, devo avere insieme alle carte che mi ha dato, anche un certificato medico
che attesti la sua asocialità». Poi, come importantissima cosa, aggiunse ancora: «A proposito, cosa mangiamo stasera?». Lei rispose che se voleva potevano andare fuori per cena così
si sarebbero rilassati e distratti.
Per ciò che mi riguardava, me ne stavo seduto dietro, vicino lo sportello, con i miei pensieri e le mie solitudini. “Che mi portassero pure ai minorenni, anzi era molto meglio così,
almeno lì avrei mangiato tutti i santi giorni e avrei anche potuto dormire al coperto”.
Arrivati verso la Borgata Alessandrina, dopo aver lasciato lei dalle parti di piazza delle Iris,
parcheggiò l’auto vicino a un portone con la targhetta che diceva “Dottor Morbegno Medicina Generale” primo piano int. 3.
Aprendo lo sportello mi fece scendere, anche se non volevo, prendendomi per un braccio
con una presa da tenaglia, quindi mi trascinò fino all’ambulatorio.
Quando fummo dentro, giacché non c’era nessuno nella sala d’attesa, fui introdotto dal
dottore, mentre lui fu pregato di attendere fuori.
Il dottore, dopo avermi messo un termometro sotto l’ascella, mi chiese cosa avessi.
Gli dissi soltanto che mi sentivo male. Allora mi fece sdraiare sul lettino da visita e iniziò,
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con lo stetoscopio poi, dopo non avermi trovato nulla di grave, mi fece sedere e prendendo
una sedia si accomodò per qualche minuto davanti a me con fare investigativo. Si alzò, uscì
dalla stanza e ritornò poco dopo.
«Tuo padre mi ha detto che sei un ragazzo molto difficile. Scappi sempre da casa e non ne
vuoi sapere di andare a scuola». Facendo una pausa per rendersi conto del mio stato pietoso, continuò:
«Senti, conosco tuo padre da tanti anni e so che è una persona rispettabile. Mi ha detto
che sei scappato di casa un paio di settimane fa e chissà dove hai dormito e cosa hai fatto in
questo tempo». Poi, con fare dolce, proseguì: «Mi vuoi dire cosa ti è accaduto in queste due
settimane? Se me lo dici ti prometto che farò in modo che non ti rinchiuderanno ai minorenni. Va bene Ernesto?».
Dissi ciò che mi veniva in mente e che era la verità. Cioè che avevo girovagato per Roma.
Che non era vero che erano due settimane che ero fuori casa, ma bensì anni. Che la mia
matrigna non trattava male soltanto me, ma anche tutti i miei fratelli e sorelle. Che non ci
dava da mangiare e che a mio padre non gli interessava nulla di noi. Che non ci volevano in
casa in nessun modo. E che per vivere avevo fatto ogni sorta di lavoro. «...e poi ieri sera mi
sentivo male e pioveva a dirotto e non avevo cinque lire neanche per comprarmi una caramella e quindi sono andato alla Torraccia a vedere se era vero quello che diceva il mio amico Er poraccio e...».
Il dottore mi interruppe chiedendomi molto incuriosito:
«Cosa diceva il tuo amico Er poraccio?».
Ed io: «Lui diceva sempre che quando non aveva soldi, andava alla Torraccia e lì c’erano i
pederasti che per fare le zozzerie lo pagavano».
«Quindi tu, Ernesto, ieri sera sei andato a cercare i pederasti? e hai avuto rapporti con loro?».
Io risposi di sì abbassando la testa. Speravo che non mi facesse altre domande. Qualche
lacrima mi colava sulle guance per finirmi sulle ginocchia.
Il dottore, facendosi ancora più guardingo, chiese ancora:
«Perché piangi Ernesto? È che forse dopo il rapporto sessuale non ti sei sentito bene?».
Feci sì con la testa. Il dottore, trovando la cosa interessante, rizzò la schiena sulla sedia e
si mise più comodo: «Raccontami tutto ciò che ti è successo Ernesto».
La sua voce, falsamente dolce e persuasiva cantilena nel formulare le domande, mi dava
fastidio.
Cercando di fargli cambiare discorso mi tolsi il termometro che lui aveva dimenticato
sotto la mia ascella e porgendoglielo dissi:
«Guardi dottore, non ho più la febbre, posso andare via?».
«No!» disse con fermezza e un senso di vittoria nella voce. Mi fissava e io ebbi paura.
«Prima mi devi dire tutto di ieri sera e poi ti lascerò andare. Va bene?».
Non avendo altra scelta e tenendo sempre la testa chinata, iniziai il racconto.
Quando ebbi finito mi disse di non muovermi da lì, quindi alzandosi si affacciò sulla porta
chiamando mio padre.
Adesso lo sguardo di mio padre pesava su di me. Gli vedevo soltanto le scarpe, ma sapevo che era in piedi a fissarmi per fulminarmi.
Non volevo sentire nessuno. Non volevo che “lui” sapesse. Non volevo più prendere
botte. Non volevo vedere il suo viso cattivo. Volevo soltanto alzarmi e andarmene per fatti
miei.
«Suo figlio ha tendenze omosessuali» disse il dottore con scoramento e un’espressione di
chi capisce certi drammi, di chi tutti i giorni ne vede di cotte e di crude.
Nella sua ignoranza, sicuro di fare bella figura, mio padre lo guardò con interrogazione e
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chiese:
«Dottore, lei vuol dire tendenze uomosessuali?».
Il dottore con fare paziente e allo stesso tempo un’espressione scema, rispose:
«Caro signore, tutti gli uomini normali di questo mondo sono uomini sessuali, ma divisi in
due categorie; una, gli eterosessuali, è la categoria della gente normale che fa l’amore con un
partner del sesso opposto, quindi come me e lei, mentre la seconda, gli omosessuali, sono
un’altra categoria e hanno strane tendenze, cioè preferiscono avere rapporti sessuali con
partner del loro stesso sesso».
Mio padre, per non fare più la figura del cafone ignorante, chiese ancora:
«Mi scusi dottore, mi potrebbe dire in parole povere cosa è accaduto e se mio figlio è
normale?».
Nella mia posizione sul lettino mi raggomitolai con le ginocchia sotto il mento come per
proteggermi da quello che sarebbe avvenuto da lì a momenti.
«Ripeto» continuò il dottore, «suo figlio ha tendenze omosessuali. Mi ha raccontato che va
spesso in un posto chiamato La Torraccia e lì, dietro pagamento, si incontra con altre persone del suo stesso sesso per avere rapporti sessuali».
Io, nel sentire ciò, dissi che non era vero, che era una bugia. Scesi dal lettino per andare
verso il dottore e ribellarmi alla sua bugiarda verità, quando questi mi prese per un braccio
in una ferrea morsa e stringendomelo fortemente mi teneva fermo.
Tentennando nella voce, mio padre chiese:
«Dottore, in poche parole mio figlio è frocio?».
«Sì, suo figlio è come dice lei, ha tendenze omosessuali. Suo figlio è nato con più cromosomi femminili che maschili. Quindi rimarrà sempre così».
Lo schiaffo di mio padre mi arrivò in faccia così forte e improvviso che mi fece sfuggire
alla stretta presa del dottore, così da farmi ritrovare sotto la scrivania.
Il naso mi sanguinava.
Il dottore prese un tovagliolo di carta, me lo porse e rivolgendosi a mio padre disse:
«Lo porti a casa e lo faccia curare da uno specialista. Anzi ne conosco uno che fa proprio
al caso suo. Ne ha curati molti e sono tutti guariti. È uno psicologo privato quindi dovrà
pagarlo di tasca propria perché la mutua non lo passa».
Quindi porgendo un bigliettino da visita a mio padre, insieme a un foglio che avrebbe dovuto presentare all’ingresso di Porta Portese, con fare di chi ha risolto un grandissimo problema, aggiunse: «Vedrà che guarirà anche suo figlio giacché è ancora molto giovane».
Ed ecco mio padre tirarmi giù per le scale prendendomi per il braccio. Sembravo un sacco
di patate trascinato giù da una rampa. Ma che voleva staccarmelo quel braccio?
Mi strattonò fino alla macchina, aprì lo sportello di dietro, mi diede una spinta e mi ritrovai sdraiato sul sedile.
La macchina iniziò la corsa e dopo un’oretta si fermò. Io rimanevo così come ero salito;
sdraiato e in silenzio. Avevo fame, anche se avrei preferito dormire. Lo sportello davanti si
aprì e immaginai che sicuramente era salita lei.
«Cosa ha detto il dottore?» chiese.
«Carme’, il dottore ha detto che è uomosessuale».
«Uomosessuale?!».
«Ricchione Carme’, ricchione!».
«Vuoi dire che è femmina? Che non è un ragazzo normale?!«Proprio così. ‘Sto delinquente, come tutti i suoi fratelli, è nato male e il dottore mi ha
detto che qualche giorno fa è stato ad avere rapporti uomosessuali con persone del suo
stesso sesso e che non ne può fare a meno e che i suoi... come si dice? ...e che i suoi cromosomi sono differenti dalle persone del suo stesso sesso».
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E lei, come sempre, per far la sceneggiata, iniziò a schioppettare in dialetto siciliano:
«Iu di ‘sti cose, di ‘sti malattie, nun sacciu niende e nun ne capisco, in tutti i modi iu u sapevi che ‘stu figghiu tui era fimmena e forse è megghiu accussì, sarà chiù facili fallo arrinchiudere ind’ù riformatorio».
Parlavano di me come se avessero vinto una battaglia, come se si fossero tolti un peso dal
groppone a tutta ragione.
La macchina, dopo un breve percorso, si fermò davanti a un palazzone, che io stando ancora sdraiato sul sedile posteriore, riconobbi come le mura di Porta Portese.
Mio padre scese raccomandando a lei di non farmi scappare, che sarebbe ritornato dopo
qualche minuto. Prese delle carte che erano sul cruscotto dell’auto e s’incamminò verso il
grande e massiccio portone.
Vedevo lo sguardo di lei, riflesso dallo specchietto retrovisore, cattivo e vincitore su di
me.
Sarei potuto benissimo scappare, ma la mia scelta cadde sul riformatorio.
Mio padre ritornò dopo una decina di minuti.
«Carme’» disse, «qui non hanno posto. Mi hanno dato un foglio per l’altro istituto che si
trova a Montemario». Fermandosi un momento per leggere il nome, disse ancora: «Ah,
ecco qua. Si chiama Istituto di Rieducazione Casal De’ Marmi, si trova appunto sulla via
Trionfale che porta dove una volta c’era il manicomio».
Si interruppe per un attimo, poi riprese: «Il Maresciallo di guardia mi ha detto che lo possiamo portare anche adesso e che lo accetteranno di sicuro perché ha anche letto la lettera
del dottor Morbegno e ne ha visto l’urgenza. Farà anche un fonogramma in cui dirà che il
ragazzo tal dei tali verrà portato oggi o domani in quell’istituto perché qui è pieno e non c’è
posto neanche per una mosca. Anzi lo sai cosa ti dico, Carme’?».
Girò la faccia verso di lei, come se avesse trovato la soluzione della fusione a freddo
dell’energia atomica: «Ce lo portiamo adesso così non ci pensiamo più, anche perché domani ho molto da fare con l’onorevole, poi andremo a mangiare in qualche posto».
Casal de’ Marmi
Arrivammo che era buio. La strada che portava al riformatorio era divisa in due dalla
campagna.
L’istituto si avvicinava sempre di più e il cancello chiuso, come sbarre di cella a cielo
aperto, non so perché, mi dava tranquillità. Lì dentro avrei avuto da mangiare, da dormire e
nuovi amici, proprio come mi aveva detto il commissario che in quell’istituto non c’erano
veramente delinquenti, ma soltanto ragazzi che la famiglia non poteva tenere o che comunque non avevano commesso reati gravi.
La macchina si fermò con il muso davanti al cancello, lui scese e suonò a un campanello
che si trovava sulla sinistra e in cui era scritto portineria.
Dalla casupola, che poteva trovarsi a circa dieci metri di distanza, uscì un uomo con in
mano un grande mazzo di chiavi e, dopo che ebbe chiesto a mio padre cosa volesse e aver
ricevuto le carte attraverso il cancello ancora chiuso, iniziò ad armeggiare con una grossa
chiave attorno alla serratura del cancello, finché lo aprì.
Disse a mio padre di fermarsi con l’auto vicino alla casupola, dopodiché ci raggiunse.
«Allora» disse l’uomo rivolgendosi a mio padre dopo aver sbirciato tra le carte e tirandomi
ogni tanto un’occhiatina superficiale, «questo ragazzo è suo figlio e da come ci ha spiegato
sul fonogramma il maresciallo del Commissariato di Quarticciolo, giacché a Porta Portese
non hanno posto, dovremmo prenderlo in consegna noi».
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Mio padre e “lei”, facendo lo sguardo addolorato di chi si stacca da una cosa quasi con
dispiacere, risposero in coro:
«Sì Signor maresciallo. Abbiamo fatto del tutto per non farlo rinchiudere, ma purtroppo
questo nostro figlio ha la testa malata e non ha voglia di studiare, quindi un pochino di riformatorio non gli farà male».
L’uomo, guardandoli da sotto gli occhiali disse:
«Non sono maresciallo, comunque firmate qui e potete andare e non dimenticate che le
visite familiari ci sono di domenica e tutti gli altri giorni festivi dell’anno. Per visite extra
bisogna prima telefonare al Direttore e poi eventualmente fare la visita fuori dall’orario di
scuola e dai turni di apprendimento pratico».
«Grazie maresciallo. Lo terremo presente».
Salirono sulla macchina e scomparvero nel buio della stretta strada. Naturalmente non ci
fu un ciao, non ci fu un addio, non ci fu nulla di nulla, nell’aria rimase solo il puzzo del
motore dell’auto e lo sguardo sorpreso dell’uomo.
Il piantone mi fece sedere su una sedia, prese la cornetta del telefono, formò un numero
di tre cifre, disse qualcosa e, dopo circa dieci minuti, arrivò un uomo in borghese. Sicuramente era un “istitutore”.
Mi guardò da capo a piedi, poi mi disse di seguirlo.
I viali che dividevano i fabbricati del complesso erano molto belli e in ordine. Le palazzine sparse tra gli alberi e le siepi moderne e quadrate, davano senso di pulito. Lampioni alti
illuminavano le vie e le finestre ancora accese facevano vivere il tutto.
Dopo aver camminato per circa dieci minuti, mi ritrovai con l’istitutore in un magazzino
grandissimo.
Chiedendomi il numero di scarpe e dopo avermene trovate un paio, mi fece misurare
pantaloni, tuta da lavoro e altri vestiti che avrei dovuto tenere in consegna per tutto il tempo che sarei rimasto lì. Dopo che mi fui cambiato mi portò nella prima palazzina a destra
del magazzino e, salendo le scale, entrammo in una specie di ufficio-ambulatorio.
Mentre ero seduto, la guardia mi elencò grossolanamente un po’ di regole per poter convivere tranquillamente con gli altri ospiti dell’istituto. Regole elementari.
Non litigare, non fare troppo chiasso, rispettare i turni del calcio-balilla o del ping-pong e
degli altri sport fatti in comune. Il mattino sveglia alle sette, lavarsi, fare i letti e la colazione
alle otto meno un quarto. Poi a scuola (io fui assegnato alla prima media) dopodiché, a
mezzogiorno, pranzo tutti insieme, compresi gli istitutori. Dall’una fino alle due e trenta
ricreazione, poi nelle officine: falegnameria, meccanica, litotipografia e altre attività di corsi
pratici.
Chi non seguiva queste regole sarebbe stato trasferito di nuovo a Porta Portese.
Accennai con il capo un segno affermativo, quindi alzandoci mi introdusse in una sala
dove il vociferare degli altri ragazzi fino a quel momento chiassoso, appena fummo entrati,
si affievolì.
Qualcuno però continuava a giocare a calcetto e non fece molta attenzione alla nostra
entrata.
«Ragazzi» disse ad alta voce la guardia, «qui abbiamo un nuovo venuto, si chiama Ernesto
e farà parte del nostro gruppo».
Anche quelli che poco prima non si erano fermati, si bloccarono e mi sentii addosso gli
occhi di tutti. I loro sguardi furono come il mio. Curiosi e allo stesso tempo innocenti. La
guardia richiuse la porta lasciandomi in loro compagnia.
Mi sedetti su una panca di legno che era in un angolo vicino al calcetto. Alcuni ragazzi
avevano ripreso a giocare. Guardavo le pareti bianche sulle quali non c’era traccia di quello
sporco che normalmente c’era dove c’erano ragazzi.
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Mi distolse dalle mie osservazioni la voce di uno di loro.
«Ciao, come ti chiami?». Si sedette vicino a me e continuò: «Io mi chiamo Antonio e sono
qui perché sono scappato di casa e tu cosa hai fatto?».
Gli risposi che anche io ero scappato di casa. Lui si tolse dalla bocca lo spinello quasi finito e me lo porse invitandomi a fare due tiri. Per non contraddirlo lo presi e tirai una lunga
boccata. All’improvviso iniziai a tossire come un tubercolotico. Le lacrime mi uscivano
dagli occhi contemporaneamente al fumo dalla bocca, la mia faccia era diventata più rossa
di un peperone rosso. Antonio si mise a ridere in modo sfrenato dicendo ad alta voce rivolto ai suoi compagni:
«Aoh! Questo non sa neanche fuma’!». Poi tranquillamente riprese nella mia direzione:
«Anch’io quando sono entrato qui non sapevo fumare, poi con il tempo mi ci sono abituato». Mettendomi una mano sulle spalle, dopo aver dato lui stesso le ultime tirate allo
spinello, che già iniziava a bruciargli la punta delle dita, disse ancora:
«Ti va di fare una partita a bigliardino in coppia con me?».
Gli dissi di sì ma che non sapevo giocare, mi rassicurò dicendo che avrei imparato molto
presto. Diventammo amici inseparabili.
Abitava dalle parti di Campo dei Fiori. Per la sua età era un pochino troppo alto, magro
ma non troppo, aveva i capelli radi e biondi e uno splendido color azzurro negli occhi.
Aveva quindici anni ed era lì da sei mesi.
Quasi tutte le storie dei miei compagni combaciavano con la mia e di tutti quelli che avevo avuto occasione di incontrare fino ad allora sia in strada sia a Porta Portese; ragazzi senza padre o madre, figli di genitori poveri, ragazzi cresciuti alla svelta per non soccombere
alla gioventù troppo lenta fatta di solitudine e privazioni e altro.
Ragazzi come me, senza arte né parte, nati in borgate dove una parte degli abitanti non
sapeva cosa volesse significare “vivere in modo decente”, non avendo altro da fare che
cercare di sbarcare il lunario in qualsiasi modo per racimolare la “pappata” giornaliera.
Ma lì dentro, a Casal De’ Marmi, c’era un’atmosfera che ci faceva sentire responsabili della
nostra spensierata e ritrovata gioventù.
Con il passare dei mesi e con il metodo educativo che ci veniva, non imposto, ma consigliato dagli istitutori e dall’insieme di regole autogestite da noi ragazzi, regole che si fondevano con il senso di rieducazione e responsabilità, che poi sono due importanti e fondamentali basi del vivere in comunità, noi ragazzi diventavamo come camaleonti quando
cambiano di pelle per avvenuti mutamenti di stagione.
Anche noi con il passare del tempo dimenticavamo il nostro corto passato di bambini,
passato fatto di botte, violenze e altre brutalità subite a causa degli adulti. Lì era molto diverso da Porta Portese.
Non c’erano prepotenti quando si giocava a pallone. Lì c’era un vero e proprio campo
sportivo dietro l’officina meccanica.
Tutti eravamo tranquilli e un solo istitutore era sufficiente a tenere a bada i piccoli screzi
che potevano venire a crearsi.
La parola “educatore”, per chi ci seguiva giornalmente, sia a scuola, sia nei lavori nelle officine, sia nel tempo libero, si adattava letteralmente alle necessità di noi ragazzi.
Gente professionalmente preparata che era lì con la coscienza di dover assistere chi non
aveva avuto la fortuna di essere nato in un miglior contesto familiare.
Le domeniche, dopo la colazione fatta di cioccolato, latte e biscotti (là il latte era veramente intero) si andava a messa in una chiesa che era al centro del grande viale subito dopo
l’ingresso principale e stava a formare il punto centrale di tutta l’area del complesso.
In attesa del pranzo, dopo la messa, andavamo tutti nel grande campo sportivo e lì, con
gli altri gruppi delle altre palazzine A, B, C, D e F, facevamo gare di pallone.
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L’atmosfera era sempre di competizione. Questa volta vinceva la Palazzina A, un’altra
volta la B, e così via.
Corri dietro il pallone, passa, corri ancora, “fermati perché non è la polizia che ti sta dietro”, “tira, fai goal. Bravo!!”.
Era bello fare la doccia e mettersi addosso vestiti puliti, parlare di tecnica calcistica e lustrarsi le scarpette da calcio in attesa della prossima gara. Era bello non essere cacciati in un
angolo a giocare con un ragnetto. Era fantastico sentirsi ragazzi e non scarti da gettare.
Il più delle volte, nei giorni festivi, si poteva andare con il nostro istitutore, uscendo
dall’Istituto, in centro. Qualche volta al cinema, altre volte al circo e altre ancora allo stadio
Olimpico a veder partite di serie A. Ricordo che andammo anche a vedere un film in
“prima visione” al cinema Capranichetta (io che ero stato soltanto nei cinema di periferia)
dove trasmettevano il film con Salvo Randone “Le mani sulla città”, dopo il film tutti a
mangiare un pizza dalle parti di via del Corso.
Se capitava che qualcuno di noi non aveva voglia di andare al cinema in centro, poteva
benissimo rimanere a “casa”, oppure farsi un giro da solo a Montemario o andarsene al
cinema di zona “Edelweiss”. I soldi per queste cose ci venivano dati dalla direzione
dell’Istituto. Non ricordo che sia mai scappato qualcuno per questa fiduciosa libertà di movimento.
Il tempo passava in un modo alquanto spensierato.
I rapporti con gli insegnanti erano buoni.
Nell’officina meccanica il professore girava tra i banchi di lavoro. Era alto, tondiccio, capelli biondi con inizio di calvizie, sulla trentina e dotato di un’infinita pazienza. Persona
molto calma, quasi remissiva. Ogni tanto, anzi spesso, tirava fuori dal grembiule un bocchino di plastica, poi dall’altra sacca un pacchetto di sigarette Stop senza filtro, ne spezzava
una in due e, dopo aver messo una metà di nuovo nel pacchetto, infilava l’altra metà nel
bocchino, fumando con profonde aspirate.
Alle richieste di farci fumare anche a noi rispondeva sempre di no. Il suo era un no secco
e definitivo. Non ricordo quanto tempo passò, ma non lo rivedemmo più nella nostra officina.
A scuola il maestro, già dall’inizio dell’anno, incominciò le sue lezioni con un ripasso generale di ciò che si insegna alle elementari. Questo perché un buon cinquanta per cento di
noi non era quasi mai stato a scuola prima di allora. Non è che il suo compito fosse facile;
innanzitutto c’erano da frenare i bollenti spiriti di qualche bulletto appena arrivato, poi cercare di far capire, a quei ragazzi che le elementari le avevano già fatte, che purtroppo non si
poteva fare altrimenti, quindi che il ripasso era necessario. Ciò di cui avevamo bisogno era
saper leggere e scrivere, fortunatamente tutti sapevamo farlo. Questo professore, un po’
come tutti gli altri che venivano a dare lezione nell’istituto, era un “factotum”, doveva insegnare le più svariate discipline: storia, matematica, tecnologie varie, esercizi fisici e lingua
francese.
Qualcuno di noi ancora aveva bisogno di imparare le tabelline. Il professore mentre insegnava doveva anche tenere a bada i ragazzi un po’ chiassosi, a volte irriverenti e maleducati;
far smettere di fumare chi accennava a questa intenzione, togliere giornalini con donnine
nude a chi li sfogliava sotto il banco, mandare fuori chi dava fastidio e che con un piccolo
senso di ribellione non voleva uscire, e altre cose del genere.
Rossetti veniva a lavorare da fuori (lui era un esterno) e noi, con la sua presenza, non ci
sentivamo prigionieri, anche se diceva che molti suoi amici gli avevano raccontato che in
Istituto c’erano delinquenti pericolosi e ladri incalliti, lui doveva stare attento che prima o
poi gli avrebbero rubato il portafoglio e non doveva fare amicizia con alcuno altrimenti
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sarebbe diventato anche lui un ladro. Sfatando, inconsapevolmente, certe innocenti leggende metropolitane, Rossetti si era talmente affiatato col nostro gruppo che la sera, per poter
restare un po’ di tempo di più con noi, rientrava tardi a casa, e l’istitutore doveva chiamare i
suoi genitori per tranquillizzarli. Quando invece questi chiamavano, lui smettendo di giocare a calcio-balilla, inforcava la sua bicicletta e giù via di corsa verso casa.
Quel pomeriggio Rossetti era al tornio. Doveva farci vedere come si poteva lavorare con
facilità e senza pericoli, un quadrato di ferro che poi sarebbe un pezzo di ricambio per
motore. Noi eravamo tutti presi dalla sua capacità e sicurezza nel gestire la macchina.
Dal motore acceso proveniva un ronzio velocissimo. Il rubinetto dell’acqua lasciava cadere un piccolo rigagnolo sul ferro caldissimo e lui, Rossetti, con professionalità ad armeggiare attorno alla macchina. Nello stesso tempo il professore spiegava il tutto.
Le nostre orecchie erano rivolte al professore mentre i nostri occhi erano come ipnotizzati dalla capacità di Rossetti di lavorare quel pezzo di ferro, come fosse stato un giocoliere
che armeggia con i suoi trucchi.
Il quadrato di ferro stretto dalla morsa del tornio prendeva forma mano a mano che la
manovella veniva girata.
All’improvviso si sentì un forte rumore stridente, come una punta di trapano che perfora
a tutta velocità qualcosa di asciutto e molto resistente, poi un botto secco. La piastra di
ferro si sganciò dalla morsa del tornio e a velocità incredibile andò a sbattere sulla mano
sinistra di Rossetti.
Tre dita della sua mano volarono in aria e il sangue schizzò da tutte le parti mentre lui,
guardandosi la mano, cercava di realizzare se effettivamente le dita volate in aria erano le
sue. Il professore staccò la presa di corrente della macchina e togliendosi il camice blu, cercò di fasciare la mano del nostro amico tornitore che ora si era reso conto che le tre dita
volate in aria erano le sue. Sangue dappertutto.
Stranamente non sentiva dolore o perlomeno non urlava. Antonio corse a dare l’allarme.
Rossetti, dopo che noi avevamo raccolto e messo in un sacchettino di plastica quello che
era saltato dalla sua mano e dopo che fu fatto salire su di un’auto, venne portato credo
all’ospedale San Camillo.
Di corsa arrivò il direttore, il signor Del Turco, e riunendoci tutti fuori dopo aver chiuso
l’officina, disse che per quel pomeriggio la lezione era finita e che potevamo ritirarci nelle
nostre palazzine.
Il resto del giorno passò come al solito. Chi al calcio-balilla, chi a giocare a dama e chi vedeva la televisione. La sera venne presto.
Io e Antonio eravamo seduti sulla panca a parlare di cosa sarebbe accaduto alle dita di
Rossetti, se gliele avrebbero riattaccate come fanno in America, oppure se sarebbe rimasto
monco. Stavamo fumando uno spinello di tabacco riciclato (tabacco che sua madre gli
portava ogni domenica e che sapevamo essere di cicche raccolte in strada), quando fummo
interrotti dalla voce del nostro istitutore che, spalancando la porta della sala di ricreazione
seguito dal direttore, disse a voce alta per farsi sentire da tutti:
«Ragazzi, per qualcuno di voi c’è una bella notizia, quindi fate un momento di silenzio!».
Tutti tacquero volgendosi verso di lui.
Mettendosi da parte fece largo al dottor del Turco. Questi con un sorriso furbo, nello
stesso tempo benevolo, disse:
«Il Ministero di Grazia e Giustizia mi ha inviato un fonogramma dove si legge che è stato
aperto un altro istituto a Parma, in nord Italia. In quell’istituto ci sono più officine che qui
da noi, non ci sono camerate, ma chi ci vuole andare avrà una cameretta per sé così dormirà più tranquillo. C’è un grande orto dove chi vorrà fare del giardinaggio avrà tutto lo spazio e il tempo possibile. Le sale di ricreazione sono tre: una per chi vuol solo vedere la tele102
visione, una per chi vuol leggere o scrivere, oppure giocare a dama e l’altra, ancora più
grande delle altre, avrà tutti i giochi possibili, dal calcio-balilla al ping-pong, dal tennis alla
palla canestro e infine ci sarà un angolo per chi vuole imparare a suonare strumenti musicali
come la chitarra, il basso, il saxofono o la batteria. Chi vorrà andare lì avrà la possibilità di
imparare le lingue, di poter fare dei corsi di specializzazione che saranno validi, dopo aver
ricevuto l’attestato di frequenza, per poter entrare nel mondo del lavoro. Non ci sarà un
solo professore per tutte le materie, ma un professore per ogni materia, quindi avrete
l’opportunità di apprendere meglio e, cosa ancora più importante, è che avrete la possibilità
nel tempo libero di fare dei lavoretti all’interno dell’Istituto stesso e per questi piccoli lavori
guadagnare qualcosa».
Facendo una piccola pausa e allo stesso tempo scrutandoci uno per uno con i suoi occhi
molto furbi, riprese: «Quindi potete pensarci tutta la sera e domani mattina chi vuole andare a Parma lo faccia presente al proprio istitutore, la partenza sarà dopodomani alle sei di
pomeriggio».
Si interruppe di nuovo quasi avesse avvertito la domanda silenziosa di qualcuno. Con voce calma riprese: «In quanto alle vostre famiglie penseremo noi ad avvertirle e a tranquillizzarle, adesso riprendete la vostra ricreazione e spero di vedervi tutti domani iscritti per la
partenza».
Girando sui tacchi, scomparve chiudendosi la porta alle spalle.
Il Signor Notarnicola, il nostro istitutore, ci riunì tutti a sedere e iniziò a raccontare cosa
aveva visto e saputo sull’Istituto Raffaele Lambruschini di Parma.
«Sono stato a Parma per conto del Ministero la settimana scorsa e vi posso dire che non
ho mai visto un istituto di rieducazione così grande e aperto. Non ci sono sbarre alle finestre, e le sale di ricreazione sono grandissime, con il soffitto, credo, alto cinque-sei metri.
Poi il campo sportivo, proprio come lo stadio olimpico, e le docce che vi potete fare subito
dopo aver giocato a pallone perché sono a ridosso degli spogliatoi. Ho potuto visitare anche le officine, ce ne sono di tutti i tipi, dalla meccanica alla falegnameria, dalla tipografia
alla elettrica. Le scuole hanno i banchi come quelli della città, così i refettori dove non ci
sono le panche, ma le sedie e potrete mangiare con il cucchiaio, la forchetta e il coltello,
non come qui che il coltello è vietato e…» Si schiarì la voce e con uno strano entusiasmo,
poi continuò, «...e in poche parole lì avrete veramente la possibilità di imparare un mestiere
e di studiare e in futuro essere reinseriti nella società. Pensateci bene perché questa è
un’opportunità unica per voi».
Fermandosi un momento per riprendere fiato, disse concludendo: «Pensateci bene e domani nell’orario di colazione fatemi sapere chi accetta. Va bene?».
Anche lui, come il direttore, girò i tacchi e uscendo si chiuse la porta alle spalle.
Noi rimasti soli e spiazzati da quella fretta con cui ci avevano imbambolati, iniziammo a
chiederci se valeva la pena andare via da Roma per Parma. E perché? Molti erano entusiasti, qualcuno no. Io in cuor mio già avevo accettato, cosa avevo da perdere? Mentre il mio
amico Antonio non ne voleva sapere di spostarsi da lì, quindi non sarebbe venuto. Lui
amava troppo Trastevere.
La sera stessa ci presentammo in dodici (su tredici) davanti all’istitutore e lui, dopo aver
scritto i nostri nomi su un foglio, disse che avevamo fatto una buona scelta.
Il giorno dopo lo passammo tra il campo sportivo e la sala ricreazione, non ci furono lezioni. Sembrava che le regole fossero state accantonate temporaneamente. La sera a letto
presto e poi, pronti per il viaggio.
L’indomani mattina la sveglia arrivò come una doccia fredda alle sette e mezzo.
La campanella suonava a più non posso e noi ancora mezzi addormentati ci dovemmo
sorbire le parole dell’istitutore.
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«Lasciate i letti sfatti, lavatevi alla svelta e andate subito a fare colazione e se volete salutare i vostri compagni delle altre palazzine fatelo prima delle cinque di questo pomeriggio,
perché dobbiamo essere alla stazione Termini alle sei meno un quarto. Va bene ragazzi?».
Qualcuno accennò a un assonnato sì, mentre altri, compreso me, cercavano di far ordine
nella propria testa in modo da riassettare le parole non memorizzate bene per via del casino
che aveva contemporaneamente fatto la campanella della sveglia.
Ora l’unico pensiero che avevo era di andare a salutare il mio amico Antonio.
Non ne ebbi il tempo. Fui chiamato dall’istitutore con un cenno della mano. Quando mi
passò davanti dissi al mio amico prima che scomparisse:
«Antonio ci salutiamo quando ritorni, va bene?».
«Certo poi ti lascio anche l’indirizzo di casa mia, così quando sarai fuori puoi venirmi trovare».
Antonio scomparve assieme all’istitutore, dietro la porta della camerata.
Salimmo su un furgone, quei furgoni che trasportano i detenuti dal carcere al tribunale e
con la scritta ai lati POLIZIA.
Alla mia domanda perché Antonio non era ritornato neanche a fare colazione, il signor
Notarnicola disse che non lo sapeva e che non era il momento dei saluti e che avevamo
fretta in quanto eravamo un pochino in ritardo per il treno.
Seppi poi che Antonio fu svegliato una notte e portato direttamente a Porta Portese.
Stranamente di tutti i ragazzi che avevano assistito all’incidente di Rossetti, nessuno era
rimasto a Casal De’ Marmi.
Alla stazione ci fecero scendere dalla parte di via Filippo Turati. Molta gente si fermò a
guardarci, mentre due agenti di PS ci controllavano.
Qualche passante commentava: «Guarda, così piccoli e già delinquenti».
E noi con profonda vergogna e quasi per nasconderci abbassando la testa, allungammo il
passo soltanto con la speranza di allontanarci il più possibile dal pulmino della polizia e di
entrare nello scompartimento del treno a noi assegnato.
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Parte seconda
Via da Roma
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Istituto Raffaele Lambruschini – Certosa. Parma
Arrivammo alla stazione di Parma nel tardo pomeriggio. Pioveva e tirava un vento talmente forte che non si sapeva da che parte volgere la schiena per avere un pochino di riparo. Quando fummo entrati nella sala d’aspetto, una delle guardie che ci avevano accompagnati nel tragitto Roma-Parma, e che doveva essere di grado superiore all’altra, ci fece sedere tutti sulle panche della sala vuota. Non c’erano persone in attesa di prendere il treno,
quindi dicendoci di asciugarci alla meglio, dato che eravamo zuppi, aiutato dal suo collega
iniziò a distribuire il rimanente dei panini avanzati e che non avevamo mangiato sul treno.
Dopo che ebbero finito l’operazione, si accese una sigaretta e disse rivolto a noi: «Ragazzi,
tra un paio di minuti arriverà il pulmino della stazione di polizia di qui, mi raccomando non
fate casino e salite con calma perché altrimenti la gente penserebbe che siete pericolosi e
creerà tanti guai a voi e a noi» Fece un’ultima boccata di fumo, aggiunse: «Questa è una
città calma e tranquilla, non ci sono né delinquenti e neanche riformatori quindi, e lo dico
per voi stessi, comportatevi bene e vedrete che la gente di qui vi tratterà come ragazzi normali. Capito?».
Il sì fu detto all’unisono e il brigadiere, in piedi vicino al suo collega, si sentì soddisfatto.
Entrarono quattro agenti in divisa, due si misero a destra e gli altri due sulla sinistra, quindi dopo aver fatto firmare dei fogli ai nostri accompagnatori, ci fecero salire sul furgone.
Uno per uno ci accomodammo, chi da una parte chi dall’altra. Le panche erano fredde e ci
facevano male alle natiche.
Due di essi salirono assieme a noi e, mettendosi a sedere vicino alla porta, dissero agli altri
due che erano pronti, che si poteva andare. La porta si chiuse senza lasciar entrare le parole
dei nostri accompagnatori che ci raccomandavano di non dimenticare quello che avevano
detto nella sala d’aspetto, cioè di comportarci bene.
Durante il tragitto qualcuno sbirciava dal furgone con la testa dietro due piccole finestrelle
con sbarre.
Si vedeva qualche bicicletta e pochissime auto in circolazione e non si notavano quasi luci
di negozi.
Naturalmente, non era mica Roma lì!
Il tragitto durò circa una mezz’oretta. La strada che portava nel luogo a noi assegnato era
lucente per i riflessi che emanava la pioggia sull’asfalto. Il furgone rallentò e prese una stradina sulla destra. Le buche fangose, di tanto in tanto, ci facevano sobbalzare e noi facevamo del nostro meglio per tenerci aggrappati alle panche e per non sbattere la testa contro la
lamiera. In lontananza si poteva vedere una luce che, man mano si avvicinava, si ingrandiva
sempre più.
Era “il Lambruschini”.
Una costruzione immensa. Le mura altissime e lunghissime che ci davano una comune
idea: la parte interna prigioniera, la parte esterna libera.
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Il grande portone di legno, in uno stato di invecchiamento precoce perché non tenuto
sotto controllo, appunto come la nostra gioventù, era ora illuminato dalla stessa lampada
che aveva guidato il furgone fin lì. Sotto la luce potente di quel riflettore si potevano notare, sul portone, crepe e macchie nella vernice dovuti al disinteresse per la manutenzione.
Sotto uno stemma medievale la stessa forte luce irradiava una targa di metallo che, insieme
all’impressionante grande portone, sembrava essere stata messa lì apposta come deterrente
a chi avesse avuto cattive intenzioni, diceva: “Istituto Raffaele Lambruschini. Casa di rieducazione per Minorenni. Parma”.
Il grande e massiccio portone si aprì dopo che l’autista del nostro mezzo di trasporto ebbe suonato due volte. Richiudendosi alle nostre spalle con rumore cigolante, ci lasciò indifferenti al suo sferragliare. Eravamo abituati ai rumori metallici, avendo sentito nella nostra
ancor breve vita più rumori di chiavi e catenacci che parole d’amore.
Il furgone si arrestò nel centro di un quadrato dove ai lati di questo si potevano vedere
un’infinità di porte e, sotto il porticato, panche di cemento.
Scendemmo uno per volta sotto il controllo vigile di tutti e quattro i poliziotti, mentre altre quattro persone, mai viste prima, ci scrutavano con curiosità e sorrisi accennati. Lì si
ripeté la scena che a noi era nota; i nostri accompagnatori fecero firmare dei fogli a una
delle persone che era lì ad accoglierci, fecero l’appello facendoci uscire fuori dalla fila e facendoci ripetere il nostro nome a voce alta, misero le loro carte di nuovo nella cartella, salutarono portandosi la mano alla visiera, e salirono sul furgone che mettendosi in moto
lasciò uscire dalla marmitta una nube di fumo più nero del nero e che ci asfissiò per buoni
dieci minuti, facendoci tossire tutti finché non si dissolse a fatica nell’aria resa pesante dalla
pioggia.
In tutta quella cerimonia mi domando perché qualcuno non abbia accennato all’inno di
Mameli. Ci sarebbe stato benissimo.
Il direttore dell’istituto si fece avanti nella sua autorevole e “grande” statura. Era tale e
quale una botticella di vino di un metro e mezzo di altezza per uno di larghezza. Ci salutò
formalmente: “Benvenuti ragazzi io sono il direttore di questo istituto e se avete bisogno di
qualcosa fatemelo sapere”, e ci lasciò ai nostri istitutori girandoci la schiena che poteva benissimo essere la sua pancia talmente si confondeva in tutto il suo tondeggiare. Scomparve
dietro una delle tante porte che si trovavano lì attorno.
Il signor Severino aveva occhiali dalle lenti spesse e quando guardava aguzzava gli occhi in
quanto, anche con quei fondi di bottiglia che portava sul naso, dava l’impressione che vedesse sempre nebbia. Aveva pochi capelli sparpagliati sulla testa, e questa sembrava una
unica noce di cocco sul tronco del suo albero. Comunque era simpatico e affabile.
Il signor Arena era una persona magrolina, capelli ondulati, folti e neri, baffetti su una
faccia sicura e sveglia. Era sempre in camicia bianca e cravatta nera. Tutto l’insieme del suo
aspetto lo documentavano come siciliano; brava e responsabile persona. A lui spettava il
compito di organizzare lì la nostra vita.
Il Signor Vella (per noi ragazzi “zio Vella”), che abitava al primo piano in una camera la
cui unica finestra dava sul chiostro, avrebbe dovuto sostituire il personale addetto alla nostra sorveglianza quando ce ne sarebbe stato bisogno e non si è mai saputo perché abitasse
nel complesso da solo e perché si lavasse la biancheria nella propria stanza, stendendola
poi, come quando si appendono le bandiere al vento sulle balaustre per la festa della liberazione, sulla finestra che dava nel chiostro, facendoci così sapere quante volte si cambiasse le
mutande settimanalmente: una volta.
Il signor Atzori, che sicuramente non era emiliano, aveva sempre la faccia sorridente e il
suo fare nei nostri confronti era più amichevole che “poliziotto”. Il ciuffo di riccioli neri,
con quegli occhi piccolini sotto sopracciglia anch’esse nere, incutevano in noi ragazzi un
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senso di amicizia e di rispetto.
«Ragazzi» iniziò a dire il signor Arena rivolto a noi «ora è tardi per poterci conoscere meglio, il signor Severino e il signor Atzori vi porteranno nelle vostre camerette, vi assegneranno il vostro posto e domani mattina ci vediamo tutti al campo sportivo. Adesso vi lascio. Buonanotte».
Girò la schiena (che belle scarpe aveva) e s’incamminò in direzione della porta dove era
scomparso il direttore, signor Napolitano.
«Ragazzi seguitemi» fece il signor Atzori prendendo la via di una scala.
Il signor Severino rimase dietro e appoggiando le sue braccia sulle spalle di chi gli era vicino, domandava “da quale città vieni” oppure “hai fratelli” o ancora “sai giocare a pallone?”.
Il camerone era grandissimo, mentre le nostre camerette non erano altro che dei cunicoli,
un metro e mezzo per due, uno accanto all’altro, senza porte e con un letto già fatto. Una
sedia doveva servire da comodino.
Il Signor Severino e il Signor Atzori ci comandarono con garbo di prenderci ognuno la
sedia della propria cameretta e di radunarci tutti attorno al tavolo di ping-pong che padroneggiava il centro del grande stanzone.
Quando fummo seduti il signor Severino iniziò a parlare:
«Ragazzi in quest’istituto siamo otto persone che devono stare attente a voi. Noi non faremo i difficili se voi non lo sarete, il primo che sgarrerà sarà punito severamente. Noi istitutori dobbiamo salvaguardare chi non vuol avere a che fare con i ribelli».
Si zittì facendo roteare la sua faccia a destra e a manca, poi, guardandoci uno per uno fisso negli occhi da dietro i fondi di bottiglia, riprese:
«Qui è il signor Atzori che insieme a me sarà il vostro angelo custode. Domani mattina
non andrete a scuola, ma faremo un po’ di sport e spero che tra voi ci sia qualcuno che
sappia giocare a pallone. Ora sceglietevi il posto per dormire e spegnete la luce prima di
mezzanotte e non andate a letto se non dopo esservi lavati i denti. Mi raccomando non fate
chiasso e non mettetevi a giocare al ping pong perché ormai è tardi». Si alzò e riportando la
sedia dove l’aveva presa, aggiunse:
«Allora ragazzi ci vediamo domani mattina alle sette, l’ora della sveglia. Buonanotte e mi
raccomando». Girò i tacchi e seguito dal suo assistente, scomparve dalla porta dal quale
eravamo entrati una oretta prima.
Noi tutti rimanemmo pensierosi sul da farsi. Ci guardavamo con mille punti interrogativi
negli occhi cercando di realizzare se effettivamente eravamo in un’altra città o stavamo
ancora a Roma.
Se così fosse stato (stare a Roma) era facile fare casino e metterci a giocare a ping-pong,
anzi sarebbe stato normale, quasi un obbligo (a Porta Portese il rumore era di norma e finiva dopo mezzanotte, se finiva) ma lì, l’atmosfera, il silenzio che emanava la campagna circostante, il non sentire lo sferragliare delle serrature e le battitura delle sbarre alle finestre, il
non sentire il “mamma” gridato da nuovi piccoli e sventurati amici, il non sentire “presto!
presto! un infermiere! quello della cella ventiquattro si è tagliato le vene”, non sentire tutto
ciò, che in cuor nostro non avevamo mai desiderato udire, ci fece cambiare idea dandoci lo
stimolo di usare quella opportunità per poter vivere in un posto tranquillo, fuori da matricole, impronte digitali, celle chiuse e numerate, ufficiose violenze sessuali e istitutori/manicure. Latte poco, acqua tanta. Qualche “scintilla capitolina” si raffreddò subito, non
trovando sostenitori e si mischiò nella schiuma dello spazzolino da denti.
Molti, ormai vinti dalla stanchezza, già russavano sotto le coperte, altri invece facevano
ressa dietro ai grandi finestroni che davano sul campo sportivo, chi con la testa in sù a
guardare il cielo, chi invece scrutava il campo sottostante dove il mattino dopo avremmo
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potuto far valere le nostre virtù sportive. Altri invece avevano lo sguardo perduto lontano,
sulle luci che Parma rifletteva in tutte le direzioni.
Pino, er Killer
Il mattino dopo il signor Atzori ci svegliò con il battito delle mani «Sveglia ragazzi, sveglia!».
Scuotendoci uno per uno per i piedi aggiunse «Adesso lavatevi per bene e non dimenticate di usare lo spazzolino e il dentifricio per i denti invece del dito inumidito d’acqua, dopo aver rifatto i letti andremo a fare colazione, dopodiché al campo sportivo formeremo
due squadre di pallone».
Mentre parlava si stropicciava i suoi piccolissimi occhi, furbescamente sorridenti. Quando
tutti furono pronti e dopo aver rifatto ognuno il proprio letto, ci mettemmo in fila disordinatamente e, guidati dal signor Atzori, scendemmo le scale che portavano dritte al refettorio.
Quando fummo arrivati la mia prima impressione fu di tranquillità, perché la sala era tale
e quale il refettorio di quando, ancora bambino, ero in collegio a Gubbio; i tavoli in formica
bianca e le sedie con la struttura di metallo e la seduta della stessa materia.
«Ragazzi con calma prendete posto dove volete» disse il signor Atzori.
Alcuni si sedettero senza guardare chi avrebbero avuto a fianco, altri invece cercavano di
formare il gruppetto dei più grandi. Tutto si svolse in ordine e il signor Atzori si sedette
anche lui in uno dei tavoli dove c’era ancora un posto libero. Il profumo del latte che già
era sui nostri tavoli, con accanto dei panini che dovevano esser stati appena sfornati, emanavano un profumo vaporoso che passando sotto il nostro naso, poi via verso le orecchie,
ci sussurravano “io non sono pane rifatto”, “io non sono latte annacquato”. L’interazione
tra noi e il cibo fu interrotta dalla voce del signor Atzori: «Ragazzi un pochino di attenzione».
Il nostro vocio si interruppe ed egli continuò: «Questa è la prima volta che fate colazione
qui ed è la prima volta, e sicuramente non sarà l’ultima, che la facciamo insieme».
S’interruppe di nuovo un momento per fissarci, questa volta in modo serio, poi, dopo
averci guardato con profondità proseguì: «Normalmente, così mi hanno insegnato i miei
genitori che purtroppo ormai non ci sono più, prima di ogni pasto dico sempre una piccola
preghiera di ringraziamento al Signore e so che molti di voi non sono abituati a certe cerimonie, comunque potete iniziare a fare colazione soltanto dopo che io avrò detto buon
appetito e chi mi vuol seguire si faccia il segno della croce insieme a me e dica quello che
dirò io. Va bene?».
Abbassando la testa disse: «Signore ti ringraziamo» si fece la croce e augurò buon appetito.
Quasi tutti seguirono quel gesto talmente piccolo, talmente semplice, ma molto importante per il signor Atzori. Soltanto Pino, quello di Ostia chiamato “er Killer”, stette immobile a testa alta a guardare gli altri come per dire: “Aoh! Ma che sete tutti preti?!”.
Il signor Atzori, credo fosse telepatico, disse rivolto a lui: «Pino a te non te ne importa
nulla di seguire i tuoi compagni, questo l’ho capito, però la prossima volta non fissarli come
se avessero fatto la cosa più strana di questo mondo, se tu non vuoi partecipare alla vita in
comune tienilo dentro di te e... buon appetito».
Pino più disarmato che imbarazzato, si sedette, prese il panino, lo guardò portandoselo
davanti agli occhi, gli diede un piccolo morso, diresse il suo sguardo verso il signor Atzori
e, dopo che questi gli fece l’occhiolino sorridendo, spezzettò il pane nella ciotola e iniziò a
mangiare.
Quando tutti ebbero finito di mangiare, il Signor Atzori si alzò in piedi e disse: «Ragazzi
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ora che abbiamo finito di fare colazione....».
Non poté continuare perché la voce ironica di Pino “er Killer” sorpassò in volume la sua.
«Aoh!...adesso ce farà dì un’altra preghiera. Preparatevi!».
Aspettava il consenso e una risata generale che non avvenne, e il signor Atzori riprese rivolgendosi a Pino con calma: «Sentimi bene Pino, innanzitutto il Signore non ha bisogno di
tante parole o moine, secondo poi ti ricordo che questa non è una chiesa, ma un istituto di
rieducazione, terzo volevo soltanto avvisarvi che dopo colazione andremo in magazzino
per trovare dei vestiti adatti a voi e vedere quali magliette possiamo usare per fare le squadre di pallone».
L’imbarazzo che prese Pino lo rese ridicolo, la sua furbizia borgatara non riusciva più a
prendere piede nei ragazzi che fino a qualche tempo prima lo avevano assecondato, e poi
c’era il signor Atzori così disarmante e calmo che, con il suo modo di fare, era riuscito a
conquistare le simpatie dei “suoi” compagni nel giro di qualche ora.
Il magazzino del vestiario si trovava nell’androne dove la sera prima eravamo sbarcati.
Il signor Atzori bussò e la porta si aprì. Sembrava di essere entrati in un ufficio postale. Il
bancone lunghissimo di legno scuro si perdeva nell’immensità del magazzino. Lì dietro, un
omino appoggiato con tutte e due le mani sul banco sembrava aspettasse che qualcuno gli
ordinasse un etto di mortadella, un chilo di pane o un francobollo.
Alle sue spalle c’erano grandissimi scaffali alti fino al soffitto, ognuno con un numero sopra, pieni di mutande, scarpe, pantaloni e tanti vestiti che sarebbero bastati a vestire un
reggimento.
Il signor Atzori disse: «Buongiorno signor Mario dobbiamo vestire questi ragazzi, però
prima vorrei cercare insieme a lei delle magliette e pantaloncini per formare due squadre di
pallone».
Il Signor Mario, mettendosi un metro da sarto sulle spalle, rispose: «Va bene».
Poi rivolgendosi a noi: «Entrate uno per uno da quel passaggio alla fine del bancone così
vi prenderò le misure, il signor Atzori nel frattempo vi darà le magliette e i pantaloncini con
le scarpe da tennis per giocare a pallone. Dopo che avrete finito la partita e vi sarete fatti la
doccia metterete la roba sporca in questo grande sacco di iuta che vi farò trovare nelle docce insieme ai vestiti che dovrete indossare».
Facendosi vicino al primo ragazzo, iniziò a misurarne la lunghezza, l’altezza, i fianchi, etc.
etc.
Mentre la fila si affievoliva dal signor Mario, si ingarbugliava dal signor Atzori. C’era chi
voleva le scarpe da tennis all’americana, cioè blu e bianche alte fin sotto il polpaccio, chi
invece voleva avere i pantaloncini attillati dicendo che non era abituato a portare i mutandoni del nonno.
Lui, il signor Atzori, faceva finta di arrabbiarsi, ma a guardarlo attentamente si capiva benissimo che i suoi occhi, in quel marasma, scoppiavano dal ridere.
Il pallone era di quelli veri. Cuoio quasi giallo e cucito a mano. Uscimmo tutti di corsa attraversando l’androne e seguendo il signor Atzori ci ritrovammo in un immenso campo
sportivo con reti e strisce bianche ai lati.
«Adesso ragazzi fate un pochino di corsa intorno al campo così vi riscaldate un po’, poi
formeremo le squadre».
Dopo una breve pausa il signor Atzori aggiunse: «Anzi seguitemi di corsa in fila indiana».
Iniziò a correre non molto velocemente, seguito da tutti noi.
Il “killer” che era al nono posto, man mano cercava di risalire la coda e si ritrovò, dopo
aver dato spintoni a destra e a manca, subito dietro al signor Atzori e questi fece finta di
nulla.
Finita la corsa, dopo due giri e con il fiatone, ci sedemmo tutti a centro campo.
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«Allora ragazzi sceglietevi i compagni e proviamo a vedere chi è il migliore di voi».
Il killer si alzò in piedi e con fare malandrino fece rivolto a noi:
«Aoh!, chi vo’ gioca’ co’ me se faccia avanti».
Avendo intuito che non sarebbe stata la migliore cosa lasciare al killer la scelta dei propri
compagni di squadra, il signor Atzori, che nel frattempo non gli aveva tolto lo sguardo di
dosso, si alzò e disse: «No! No! Fermi tutti, a fare le squadre ci penso io».
Quindi dopo averci divisi, uno di qua, uno di là, ebbe inizio la partita.
Tutti giocavamo a pallone. Si correva dietro la palla con agonismo, passandola a destra e a
sinistra, soltanto il killer non giocava a pallone; lui combatteva con(tro) il pallone.
Correva come un forsennato da un lato all’altro del campo. Quando non aveva palla andava dritto verso chi la possedeva e, compagno di squadra o no, se ne impossessava con
prepotenza, poi correva dritto verso la porta avversaria.
Ogni volta che riusciva a fare goal si riportava subito al centro campo, ma quando non
segnava era lo stesso; centro campo e occhi ancora più combattivi. Era come se non volesse perdere tempo ed essere il primo attore di una grande battaglia in una disputa tra ragazzi.
Era come volesse avvisare tutti noi, compreso il signor Atzori, che lui non era uno scemo
come tutti gli altri. Era come se il pallone rappresentasse tutti i suoi complessi, tutte le sue
frustrazioni, tutto il suo essere ribelle. Come se quel pezzo di cuoio gonfiato fosse la cosa
che più odiava al mondo e contro cui scaricare la propria rabbia.
Il signor Atzori, da metà campo, osservava la situazione con gli occhi puntati sul killer e
nel contempo ne studiava il comportamento, perché il suo modo di fare era prepotente,
perché era quello che correva più di tutti senza fermarsi quasi mai come fosse un kamikaze
e, fondamentale, perché poteva avere un pericoloso influsso sugli altri.
Comunque la partita finì senza incidenti.
Le docce, a fianco del magazzino dei vestiari, erano un grande bagno con delle panche di
legno e con sei scomparti divisi da mura dove appunto ci si poteva lavare.
Sulle panche c’erano vestiti puliti, sopra c’erano dei foglietti di carta con su scritto il nome
di ognuno di noi. Mutande di cotone bianco, canottiera anch’essa bianca, calzini marroni e
pantaloni dello stesso colore. Le scarpe erano nuove e con la suola di cuoio.
Il chiostro, detto anche “garage”, era bellissimo.
Il colonnato, che si estendeva a quadrato, sembrava non finire mai. Nel centro c’era un
pozzo, naturalmente chiuso. In un ricavo nella parete quasi sotto la finestra dello zio Vella,
dove le sue mutande e altra biancheria sembravano bandiere al vento, erano stati costruiti
dei gabinetti. Il chiostro sarebbe diventato il luogo dei momenti di attesa che avrebbero
preceduto sia il pranzo che la cena, la scuola o le lezioni di officina.
Il corso celere di scuola elementare, abbinato alle medie, era tenuto da tre maestri;
uno per la geografia, la storia, il disegno, un altro per l’italiano, la matematica e tecnologia,
e una maestra che ci dava lezioni di francese.
La scuola iniziava alle otto del mattino e durava, dopo la prima colazione, fino a mezzogiorno, si aveva un pochino di ricreazione prima e dopo il pranzo.
Verso le tre del pomeriggio si andava nel laboratorio di elettricità dove un altro insegnante
ci dava lezioni nel campo elettrico.
Una volta alla settimana avevamo anche lezione di musica con strumenti veri: chitarre
elettriche, violini, saxofono e batteria, il tutto intervallato da lezioni teoriche di solfeggio.
Dopo le sei del pomeriggio si cenava e si faceva ancora ricreazione con tv nella sala giochi.
I giorni passavano lenti con il “killer” che non voleva, oppure non poteva, integrarsi col
modo di vivere nell’Istituto. Aveva sempre problemi con tutti noi, specialmente con gli
educatori.
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Addio Pino “er Killer”
Venne il giorno in cui il Direttore diede il permesso al signor Atzori di portarci a fare una
passeggiata in quel di Parma. Eravamo in eccitazione in quanto, nei tre mesi che eravamo
arrivati all’Istituto, non avevamo mai avuto la possibilità di uscire dal perimetro in cui eravamo rinchiusi. Il Signor Atzori, riunendoci, iniziò con le raccomandazioni, cioè: non dovevamo uscire dal gruppo e tanto meno raccogliere cicche dalla strada e, “per favore, mi
raccomando”, che nessuno provasse a scappare, in quanto sarebbe stato subito ripreso e
punito severamente.
Il grande portone si aprì, quindi, in ordine scomposto, iniziammo a camminare sul vialone
che dall’istituto portava sulla via di Mantova, per poi prendere la direzione della città.
Il signor Atzori era sempre vicino a Pino. Lo teneva d’occhio sperando che non facesse
sciocchezze.
La giornata era bellissima e, a dire la verità, credo che nessuno avesse voglia di scappare,
perché in fondo non c’era motivo. Nella piazza dove si trovava il Battistero, sotto i portici,
c’era una gelateria con tanti tavolini fuori. Il signor Atzori ci fece sedere ai tavoli, ognuno
con il proprio gruppo, poi disse a Pino che lui lo doveva seguire per andare a ordinare il
gelato per tutti.
Quindi si alzarono dirigendosi verso l’ingresso della gelateria. Scomparendo dietro la
grande vetrata, il resto si svolse in una frazione di secondo.
Il signor Atzori uscì con nelle mani sei gelati. Distribuendoli a noi ragazzi disse che da lì a
un minuto sarebbe venuto Pino con i rimanenti gelati.
Il signor Atzori fece soltanto in tempo a vedere Pino che a tutta velocità usciva dalla gelateria e, in una corsa sfrenata, si allontanava lungo la strada. Il signor Atzori ci lanciò un
urlo «Ragazzi non vi muovete da qui che torno subito» e dopo essersi affacciato nella gelateria e avere gridato che qualcuno telefonasse alla polizia perché un ragazzo dell’istituto
stava fuggendo, si mise all’inseguimento.
Vedendoli correre avevo l’impressione che Pino guadagnasse terreno.
Nel momento che ebbe girato l’angolo in modo velocissimo, si sentì un tonfo sordo ma
forte, e le urla disperate del signor Atzori: «Oh! mio Dio! Oh mio Dio! Fate presto! Chiamate un’ambulanza!».
Molta gente si riunì dietro l’angolo. Chi strillava isterico, chi nominava tutto il paradiso.
Era accaduto che Pino, nel momento in cui in piena corsa girava l’angolo, non aveva
avuto la possibilità di evitare il pullman dei turisti che stava facendo retromarcia, quindi,
dopo averci sbattuto contro, era finito sotto le ruote, morendo all’istante.
Fummo riportati nell’istituto da un furgone della polizia e lasciati in sala di ricreazione in
compagnia di un commissario che iniziò a fare domande a ognuno di noi per sapere se
sapevamo dei piani di Pino. La sua voce era arrogante e cattiva, o forse lo faceva apposta
per metterci paura, fatto sta che nessuno di noi diede risposte affermative. Lui, il commissario, diceva che qualcuno di noi doveva per forza sapere che Pino voleva scappare ed era
meglio per tutti che parlassimo altrimenti ci avrebbe fatti trasferire nel carcere San Francesco in mezzo a veri delinquenti. Tra noi iniziò a crescere un senso di insicurezza.
Il commissario sembrava una belva in gabbia. Girava attorno a noi con le mani sui fianchi
e i suoi occhi sembravano iniettati di un colore unico: rosso sangue.
La porta si aprì e il signor Atzori entrò. Era ancora terribilmente sconvolto dall’accaduto
ma, appena sentì dire dal commissario le ultime e accusatorie frasi contro di noi, divenne
ancor più sconvolto e parandosi di fronte a questi, fissandolo negli occhi (non lo avevamo
mai visto così fuori di sé) iniziò: «Ma cosa crede di fare così? Cosa pensa di poter raggiungere con questa arroganza? Pensa che spaventando i miei ragazzi le aumentino i gradi!? O
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crede che arrestino il pullman con l’autista, tutti i turisti e anche i miei ragazzi? Lei non deve assolutamente permettersi di fare accuse così idiote, infondate e arbitrarie e se anche
qualcuno dei miei ragazzi avesse, per ipotesi, saputo che il loro compagno aveva un piano
per fuggire, non può essere accusato di nulla. La spia, alla loro età, non si fa, perché quello
che gli ho sempre insegnato è che l’importante è non partecipare ad azioni che siano contro
la legge o contro gli altri e se proprio vuole interrogare i ragazzi li denunci, anzi denunci
anche il sottoscritto perché anch’io faccio parte di loro, quindi, caro commissario lasci questa stanza e non si faccia più vedere».
Il commissario con il viso che quasi scoppiava dalla rabbia, sentenziò: «Lei verrà denunciato per insubordinazione e farò rapporto al tribunale dei minori. Vedrà, le farò passare
brutti guai».
«Faccia quello che vuole, ma lasci questa stanza immediatamente», disse il signor Atzori
con il braccio destro allungato e il dito indice in direzione della porta.
Sbuffando, il commissario uscì sbattendosi la porta dietro le spalle.
«Ragazzi» disse con un muso lungo e due occhietti che ora non ridevano «Pino è morto.
È morto perché voleva raggiungere quella libertà a cui aspirate voi tutti. Ma vi ripeto ancora
che la libertà non si guadagna fuggendo e questo lui non l’ha mai voluto capire. Lui, Pino,
era un bravo ragazzo, proprio come tutti voi. Era molto intelligente, ma quel non voler
stare nel gruppo, quel non rispettare le regole, quell’aver voluto sempre la supremazia sugli
altri e, cosa più importante, la sua innocenza uccisa ancor prima di nascere, hanno fatto in
modo che la società, indirettamente, lo uccidesse. Mi dispiace veramente per ciò che è accaduto e leggo sui vostri volti la stessa cosa. Ricordiamolo come un buon compagno e un
caro amico».
Poi alzandosi, con il fazzoletto portato sotto il naso, aggiunse: «Ora vi lascio soli e non
dimenticate che oggi pomeriggio avete lezione di musica e mi raccomando, fate i bravi perché io fino a domani non ci sarò».
Scomparve in fondo al corridoio.
Guarnera, giovane gay
Il tempo aggiusta tutto. Il tempo fa dimenticare molte cose. Così accadde a noi. Pino entrò nel dimenticatoio; più passavano i mesi, meno se ne parlava. Più venivano all’Istituto
dei nuovi ospiti, meno ricordi avevamo di lui. Crescevamo e altri interessi entravano nella
nostra mente.
Finché un giorno arrivò Guarnera proveniente da Reggio Emilia.
Era alto e affusolato Guarnera. Movimenti da gazzella e ancheggiare femminile. Il passo
era da Catwalk, gentile, quasi pauroso di dover toccare il pavimento. I pantaloni, nonostante fossero stretti come quelli di tutti noi, sembrava contenessero forme femminili.
Il Signor Arena dopo la scuola ci volle tutti nel campo di pallone. Guarnera non c’era.
«Ragazzi vorrei dirvi qualcosa» disse dopo averci fatti accomodare seduti vicino alla porta
del campo.
«Voi conoscete il nuovo venuto. È un ragazzo, in un certo modo, differente da voi tutti.
Lui è nato in una famiglia dove ha sofferto veramente tanto e appunto per questo, non
essendoci stati dei buoni rapporti con i suoi genitori, è finito qui. Proprio come tutti quanti
voi. Ma lui, Guarnera, è particolare».
Girando gli occhi investigatori con calma imbarazzante su ognuno di noi, per capire se
avevamo intuito che Guarnera era un omosessuale, continuò: «Dicevo che è un ragazzo
particolare quindi mi raccomando non lo prendete in giro per il suo modo di fare, giocateci
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al pallone e trattatelo come uno di voi. E se sentirò che qualcuno ha fatto con lui “qualcosa
che non avrebbe dovuto fare”, beh... allora è meglio che io non lo venga a sapere, perché il
colpevole sarà trasferito direttamente al carcere dei maggiorenni e lì non ci sono scuse!».
Prendendo il pallone, che fino a quel momento aveva tenuto nascosto dietro la schiena, il
signor Arena lo alzò in aria e lanciandolo gridò: «Adesso fate una partita senza scegliervi i
compagni di squadra e vediamo chi è il più forte».
Il sole tiepido primaverile, la piena giovinezza, i polmoni ancora intatti e vigorosi, la mancanza di prepotenti, davano la sensazione di essere in paradiso, senza onte né macchie. Sarebbe durato?!
Imparavamo molte cose dentro il “Raffaele Lambruschini”.
Chi iniziava ad avere confidenza stretta con gli strumenti musicali, chi sfoggiava, durante
le lezioni, la propria preparazione nelle materie scolastiche, chi ancora andava sicuro
nell’officina elettrica e ti faceva un impianto per abitazione civile senza commettere errori, e
chi, in vena di esterofilia, scriveva lettere in francese alla propria famiglia; chissà se poi lo
avrebbero capito. Guarnera faceva parte anche lui di tutto ciò e noi non eravamo affatto
gelosi se gli istitutori avevano un occhio di riguardo per lui.
Purtroppo anche quella apparente tranquillità, stava andando a farsi friggere.
Romeo e Nicola, da quando era venuto Guarnera, avevano iniziato a confabulare sempre
più spesso, sempre più in segreto. A volte di soppiatto mandavano un’occhiata in direzione
di Guarnera, inconsapevole vittima designata di prossime attenzioni sessuali.
Accade una notte di vento e pioggia torrenziale. La pioggia spazzata dal vento sui grandi
finestroni, sembrava bussasse per entrare e ripararsi dal casino che lei stessa stava combinando fuori.
I tuoni non davano alcun disturbo e i lampi conciliavano il sonno di noi ragazzi.
Ma i tuoni non coprono tutti i rumori e la luce dei lampi, anche se a scatti, lascia sempre
intravedere le ombre.
«Cosa volete da me?... Lasciatemi vi prego!».
«Stai zitto che facciamo presto, e poi... ci sei abituato…».
«No! No! Fermi lasciatemi» “gridava” sottovoce Guarnera.
Le sue suppliche arrivarono confuse alle mie orecchie, quasi trapassandole. Non mi rendevo conto se stessi sognando, se ciò che sentivo era soltanto il rumore del temporale, oppure...
Ormai con gli occhi bene aperti e la mente concentrata sui quei bisbigli che, assieme alle
ombre, volteggiavano nell’aria, riuscii a capire cosa stava accadendo. Mi alzai piano piano e,
avvicinandomi nel luogo da dove provenivano i rumori soffusi, rividi.
Tra nebbie lontane e sudori freddi nel fango, rividi.
Rividi due uomini sopra di me. Riprovai dolori e umiliazione quasi dimenticati.
«Prima io poi tu».
E il fango mi copriva la faccia. E la pioggia veniva giù a catinelle, impietosa nel cadere mi
pulì cuore e anima. Non mi difese la pioggia, lasciando consumare il peccato dei grandi
sull’innocenza dei piccoli. Bagnami acqua. Puliscimi acqua, porta via da me ciò che non è
mio, affogami acqua.
Un lampo ancora più intenso, seguito dal tuono secco e rumoroso, mi fece smettere di
tremare e sudare, riportandomi al presente.
Scesi dal letto e piano mi avvicinai a quello di Marco, lo tirai per un braccio, svegliandolo
gli feci cenno di stare zitto e seguirmi.
Marco, per tutti noi ragazzi, era la figura che dava sicurezza ai deboli e faceva stare all’erta
i malandrini, essendo lui più grande di tutti, sia di età, sia fisicamente.
La figura imponente di Marco si scagliò, come una furia terribile, su Nicola e dandogli
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una manata sul viso lo scaraventò sulla sedia comodino che, traballando, rovinò sul pavimento insieme al malcapitato. Poi sollevò letteralmente Romeo dal corpo del povero
Guarnera e, tenendolo con tutte e due le mani, lo lasciò cadere di peso in terra.
Guarnera adesso si era rannicchiato come un feto tra le lenzuola del suo letto.
Piangeva mugolando, scostandosi con stizza non voleva che nessuno lo toccasse.
Appoggiandogli una mano sulla spalla, mi sedetti al suo fianco senza dire nulla.
Mentre si formava un circolo dei nostri compagni ormai svegli, Marco prese i due schifosi
per il bavero e disse con i denti stretti e una smorfia che faceva veramente paura:
«Statemi a sentire voi due, da quando siamo qui sono accadute delle brutte cose ai nostri
compagni, e non è mai stata colpa di nessuno di noi, ma quello che avete fatto a Guarnera
io non lo sopporto proprio per niente».
Tirandoli ancora a sé e tenendogli una mano stretta nella gola, quasi sbavando, aggiunse:
«Quindi domani mattina voi due vi metterete a colloquio con il direttore e gli direte che
volete essere trasferiti in un altro istituto di rieducazione perché io e tutti gli altri nostri
compagni non vi vogliamo più tra di noi». Guardandoli ancor più ferocemente dritto negli
occhi, continuò:
«Ci siamo intesi?».
La sicurezza, la stazza, la rabbia, mischiate alla cattiveria che sprigionò, non davano modo
ai due di rifiutare un vergognoso, vigliacco e miserabile “sì”.
Poi rivolto a noi concluse: «Ragazzi andiamo a dormire prima che arrivi qualcuno».
Quindi rivolto a Guarnera, aggiunse: «E a te , io non so proprio cosa dirti. Quei due schifosi pagheranno quello che ti hanno fatto, però noi non possiamo fare la spia e quindi non
lo diremo agli istitutori, ma se vorrai fare una denuncia tu stesso al signor Direttore, noi
faremo da testimoni».
Mentre ognuno stava dirigendosi verso il proprio cunicolo per riprendere il sonno interrotto, la porta del camerone si aprì all’improvviso e si videro entrare il signor Arena, il signor Severino e il signor Atzori per ultimo. La voce del signor Arena bloccò la nostra corsa: «Fermi dove siete!» disse con voce autoritaria e ferma.
Poi rivolto agli altri due e indicando con un dito Romeo e Nicola, aggiunse: «Signor Severino, signor Atzori, prendete questi due e portateli nelle celle di rigore».
E rivolto al signor Vella che era entrato proprio in quel momento, disse: «Signor Vella
prenda Guarnera e lo porti in infermeria e lo faccia dormire in una stanza chiusa a chiave
perché non vorrei che commettesse qualche sciocchezza».
Ed ancora rivolto a tutti noi, ma con lo sguardo insistente su Marco, continuò: «Per
quanto riguarda voi, domani mattina dopo colazione e prima di andare a scuola, vi voglio
vedere tutti riuniti in sala ricreazione. Va bene!? Adesso andate a dormire».
Poi come per tranquillizzarci, aggiunse: «Abbiamo sentito tutto da dietro la porta e
l’allarme ci è stato dato dal rumore e dal trambusto che avete fatto».
Girò i tacchi e sparì dove erano scomparsi pochi minuti prima, istitutori e piccoli delinquenti in un dubbioso (bi)sogno omosessuale.
Il mattino dopo ci ritrovammo tutti nella sala di ricreazione. C’era, insieme ai nostri istitutori, anche il direttore, mancavano soltanto Nicola, Romeo e Guarnera.
«Ragazzi...» iniziò il Signor Arena «...quello che è accaduto ieri sera a uno dei vostri compagni è stata una cosa che non avrei mai immaginato accadesse tra giovani».
Si interruppe grattandosi il mento con la mano destra, come per trovare le parole più
adatte in un così difficile discorso, poi riprese con calma: «Ragazzi ascoltatemi molto bene.
Il vostro compagno Guarnera verrà trasferito per un breve periodo di osservazione in un
altro istituto che si trova a Bologna, adatto a ragazzi come lui, cioè ragazzi che hanno subito traumi i quali, purtroppo, rimarranno nelle loro menti per tutta la vita, mentre gli altri
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due che “hanno fatto qualcosa” che non dovrà assolutamente più accadere tra queste mura,
saranno trasferiti in un carcere minorile vicino a Torino e sicuramente vi resteranno per
molto tempo. Riguardo voi» fece ancora una pausa grattandosi di nuovo il mento, «dicevo,
riguardo voi, cercate di dimenticare ciò che è successo ieri nel dormitorio e vi raccomando
ancora una volta, se volete uscire da qui con l’intenzione di reinserirvi nella società onesta e
lavoratrice, cercate sempre di non farvi influenzare da chi pretende, nonostante sia ancora
giovane come voi, di essere un vissuto; saranno lucciole prese per lanterne. In poche parole
non date retta a chi dice delle cose belle e a volte anche tentatrici, ma che sono fuori dalle
regole del buon vivere civile, quali lo studiare, il lavorare, fare sport, e innanzi tutto l’onestà
e il rispetto verso il prossimo, chiunque sia. Mi sono spiegato bene?». Girando lo sguardo a
trecentosessanta gradi, finì dicendo: «ora andate a fare colazione e poi continuate la giornata come sempre e non dimenticate che oggi pomeriggio avete musica».
Visita inaspettata
I giorni passavano quasi tutti uguali e tranquilli. Sveglia, colazione, scuola, ricreazione,
pranzo, ricreazione, officina, ricreazione, cena, televisione, ricreazione e a dormire.
La domenica venivamo quasi sempre portati fuori dell’istituto per una passeggiata, con
gelato se era estate, nella città di Parma. A volte il nostro accompagnatore era uno degli
educatori, altre volte era il frate che diceva messa nella bella cappella dell’istituto stesso. In
estate, finite le scuole e dopo la raccolta dei pomodori fatta da noi ragazzi (quest’ultima
avveniva nei campi dell’istituto stesso facendoci guadagnare qualche soldino che la direzione depositava su un libretto comune e che noi ragazzi potevamo utilizzare per poter comprare qualche sigaretta da fumare in più persone e anche l’ultimo disco uscito dei Beatles
che potevamo ascoltare e ballare nella sala ricreazione) potevamo fare i bagagli e andare in
una colonia, di proprietà del comune di Reggio Emilia, per passarvi le vacanze estive. La
casa colonica restaurata si trovava sulle colline emiliane e precisamente nel comune di Guastalla. Lì passavamo circa un mese in lunghe passeggiate sempre alla ricerca di qualcosa di
nuovo. Bellissime vacanze.
Una sera, saranno state circa le otto, mentre la pioggerellina, picchiettando sui finestroni
della sala ricreazione, sembrava volesse fare il verso alla pallina da ping-pong, mi sentii
chiamare dal signor Atzori. Diceva che lo dovevo seguire in direzione perché avevo una
visita. Io!? Una visita!? E da chi!? Cos’era, uno scherzo!?
Mio fratello era lì, elegantissimo. Il cappotto di cammello, i pantaloni neri e stiratissimi,
camicia e cravatta, le scarpe nuove e l’orologio al polso, mi fecero sussurrare meravigliato
verso di lui: «Ciao, come sei bello, ma che sei diventato ricco!?».
Mi disse che poteva fermarsi soltanto dieci minuti, perché qualcuno lo aspettava fuori con
la macchina, mi diede tre pacchetti di sigarette, lasciò dei soldi per me alla direzione e mi
assicurò che sarebbe tornato a trovarmi al più presto possibile. Accostandomi alla finestra
che dava sul cortile, lo vidi salire su una grande auto americana guidata da una persona per
me sconosciuta. Seguii la corsa dell’auto finché sparì sotto la pioggia e dai miei occhi.
Mio fratello mi fece visita ancora una volta. Quest’ultima volta mi parlò di dove viveva e
cosa faceva.
Quando fummo lasciati soli dal signor Severino a passeggiare nel chiostro, disse che si
trovava ospite da Campioni. Campioni era un personaggio noto a Lucca. Assieme a lui faceva la spola settimanalmente tra Viareggio e la Svizzera caricando dentro grosse automobili migliaia pacchetti di sigarette. Con Campioni aveva anche lavorato nostro fratello maggiore, poi messosi in proprio in quel di Torre del Lago Puccini. Con questo genere di lavo117
ro si guadagnavano un sacco di soldi. Mi lasciò anche l’indirizzo di nostra sorella, raccontandomi che, dopo essere stata chiusa per qualche anno nella Casa della Ragazza di Como,
si era sposata con un bravo ragazzo calabrese. Tutti e due lavoravano in una fabbrica di
orologi nel Canton Ticino, e si erano comperati, a Monte Olimpino sulla via di Bellinzona,
quasi vicino la Dogana di Chiasso, la casa dove avevano abitato in affitto per anni.
Mi piaceva avere buone notizie, perché un po’ di benessere era anche nei miei desideri.
Dopo circa venti minuti che eravamo a passeggiare, e avevo avuto molte informazioni
sulla nostra famiglia, compresa la notizia che nostro padre, insieme a Carmela, aveva comprato una grande casa a Centocelle con i soldi ricevuti per aver fondato un partito politico.
Mi disse ancora che mia sorella e suo marito sarebbero stati felici di avermi con loro a
Como e che mi avrebbero trovato anche un lavoro, quando fossi uscito dall’istituto.
L’altro nostro fratello si trovava in Germania nel carcere di Dortmund per rapina, mentre
il più piccolo stava ancora in Collegio dai preti a Lavinio.
Tutte queste notizie mi rimasero a lungo nelle orecchie e dentro il cervello. Ancora non
riuscivo a recepire bene il senso delle parole “contrabbando” o “rapina”, anche sapendo
bene che erano reati gravi. Nel complesso però provavo un senso di fastidio, perché
nell’istituto ero considerato, e mi sentivo, alla stregua di tutti: un ragazzo normale e non più
un potenziale delinquente e, in fondo, non mi ritenevo un tipo avventuroso come alcuni
dei miei fratelli.
Per lungo tempo non rividi più mio fratello.
Estate
L’Estate del mio terzo anno al Lambruschini si avvicinava in gran fretta e il signor Vella
sembrava si fosse comperato delle mutande nuove, perché sulla finestra della sua camera
vedevamo stese, dal giardino del chiostro, più mutande del solito.
Il signor Atzori era ormai uno di noi, i suoi sorridenti occhi, la sua comprensione, il suo
gioire con noi, la nostra spensieratezza, ci davano uno stimolo di miglioramento e di speranza.
Il signor Arena mi faceva impazzire con le sue scarpe nuove ma sempre le stesse; che le
facesse risuolare ogni anno?
Il signor Severino non cambiava mai, era sempre uguale; capelli tipo pochi spinaci, naso a
patata e fondi di bottiglia sempre più spessi al posto degli occhiali.
Il direttore era rimasto una botticella di vino discreto senza dar a capire dove avesse il
tappo; davanti o di dietro.
Mentre il signor Mario, del magazzino del vestiario, che fungeva anche da infermiere e altro, stava dandosi da fare per mettere insieme dei nuovi vestiti per la prossima estate.
Nell’insieme la vita sembrava stazionaria, stantia come una palude che si movimenta per
qualche secondo dopo il salto del rospo, eppure noi ragazzi stavamo crescendo e imparando, accompagnati dall’Hully Gully e da Adamo che rivolgeva a Paola parole d’amore.
Anche quell’estate andammo a Guastalla. Il treno ci portò fino a Reggio Emilia e da lì,
con un bus, via verso la casa che ci aveva ospitato l’anno passato.
Tutto era intatto come avevamo lasciato.
La grande pergola quasi copriva la spianata fuori del casolare. La cucina e le camere con i
letti a castello, le mura, un pochino scure e vecchie, erano le stesse; forti e resistenti. Tutto
era come prima, anzi sembrava che non fossimo mai andati via da lì.
Quell’estate, come tutte le altre passate, fu consumata tra gite verso i canali che pullulavano nei dintorni e visite a vecchie cascine dove i contadini del luogo, forse avvertiti anzitem118
po della nostra venuta, ci offrivano sempre qualcosa da mettere sotto i denti.
Cose buone di campagna: formaggio, pane fatto in casa e appena sfornato, un mezzo bicchiere di vino e se qualcuno non amava il sapore nuovo del vino, poteva sempre avere un
bel bicchiere di latte appena munto. La sorpresa grande fu quando, dopo una giornata di
escursioni, ritornammo verso la nostra casa.
Il signor Vella, che non era mai venuto a Guastalla, era lì in attesa e con lui c’era il nostro
Guarnera. Dopo sei mesi di Bologna, grazie alle pressioni dei nostri istitutori e con l’aiuto
presso il Tribunale dei Minorenni da parte del nostro Direttore, aveva avuto la possibilità di
poter ritornare insieme a noi.
La serata passò in fretta. Il grande fuoco nell’aia antistante la casa rimase acceso fin quasi
a notte inoltrata.
La nostra cena si rosolò sulle grandi griglie di ghisa e scomparve rapidamente nei nostri
stomaci ascoltando Guarnera raccontare come era stato a Bologna.
La sua faccia dava l’impressione che fosse tranquillo, anche se a momenti sembrava non
volesse continuare il racconto.
Che tipo di istituto era Bologna, non ce lo disse mai. Diceva che avrebbe voluto rimanere
lì; quello era il suo ambiente, anche se con noi, al Lambruschini, diceva di star bene.
Bologna era un’altra cosa.
Il ritorno anticipato all’istituto fu condizionato da un attacco di tosse che attanagliò la
gola di Marco.
Accadde dopo una lunga scampagnata di sali e scendi tra le colline, veloci corse sui prati
verdi, piccole amichevoli scaramucce di ragazzi. A un certo momento Marco si mise a sedere in terra con il fiato grosso e iniziò a tossire in un modo strano, forte e convulso. Ogni
colpo di tosse, un po’ di sangue gli colava dal lato della bocca.
Fortunatamente eravamo vicini al casolare. L’ambulanza arrivò in un batter d’occhio e fu
portato all’ospedale più vicino. Noi partimmo il giorno dopo per l’istituto. Dopo un paio di
settimane, Marco ritornò tra noi per restare ancora due giorni. Nel frattempo sembrava
stesse meglio, comunque dovette lasciarci per essere accompagnato a Roma, con lui partì
anche il Signor Arena. Venimmo a sapere che era stato ricoverato al San Filippo Neri per
una forma grave di tubercolosi e che quando sarebbe guarito sarebbe ritornato tra di noi.
Non sentimmo più parlare di lui.
Guarnera, che non venne più molestato da nessuno, sembrava avesse legato una stretta
amicizia con un nuovo compagno venuto da un istituto di Torino. Fu rimandato a Bologna
il giorno stesso che venne sorpreso dal signor Atzori nei bagni del chiostro in compagnia
del torinese mentre facevano sesso. Non so dove fu spedito il torinese.
La fuga
Un giorno al Lambruschini arrivò un ragazzo di Modena. Con il suo modo di fare (noi
credevamo che i malandrini fossero soltanto di Roma o di Napoli) dava l’impressione che
la sapesse più lunga di tutti. Ben presto diventò come un piccolo ma interessante punto di
riferimento per noi nel tempo libero e nei momenti di ricreazione.
Ci riunivamo tutti intorno a lui, sia nel chiostro, sia in sala tv, e con furbizia (sembrava il
mio amico Er poraccio, soltanto che il modenese era meno gesticolante) iniziava a raccontare le sue avventure a Modena e dintorni.
Motorini rubati, scorribande nei paesini attorno alla sua città. Scippi, furti e soldi. Discoteche e avventure sessuali. E non solo con donne.
Nella nostra fragile mente di ragazzi, labile e molto influenzabile, per via dei suoi racconti,
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si formavano dei varchi che, giorno dopo giorno, divennero dei grandi fossi dove qualcuno
poteva sognare la bellezza delle scorribande su motorini rubati con qualche spicciolo in
tasca in direzione delle discoteche e magari la prima avventura sessuale con una puttana.
Il modenese aveva fatto breccia nella mente di tutti. A scuola andava benissimo, così
nell’officina meccanica.
Il signor Atzori riusciva a leggere nella mente di noi tutti. Fin dal momento che il modenese era entrato al Lambruschini, aveva capito che la sua accondiscendenza, la sua buona
volontà di cambiare, la sua sfrenata voglia di studiare, non erano altro che pagine scritte di
un copione buttato giù in fretta al momento del suo arresto.
Il modenese covava in seno la “Grande Fuga”.
Si sa che, durante le feste natalizie, in tutte le istituzioni pubbliche e non, molto personale
si prende qualche giorno di riposo per festeggiare con la propria famiglia. Così fece anche il
signor Atzori. Partì il 20 dicembre raccomandandoci di non fargli trovare delle brutte sorprese al suo ritorno, sarebbe rientrato il giorno di Natale per passarlo insieme a noi.
Il signor Arena abitava nell’istituto come il direttore e il signor Vella, mentre il signor Mario credo che abitasse nella cascina dietro all’istituto, perché la domenica mattina lo vedevamo, da dietro i finestroni, che usciva da lì e si dirigeva, in pompa magna, verso la grande
chiesa dell’istituto per aiutare il prete durante la messa.
Nei giorni che precedettero le feste natalizie eravamo sempre in compagnia del signor
Vella.
La scuola era chiusa e noi avevamo molto tempo a disposizione. Adamo faceva scendere
la neve sul suo cuore infranto da Paola, mentre i Beatles chiedevano “Help”.
Era il pomeriggio della vigilia di Natale. Il Signor Vella, in sala ricreazione, fumava una sigaretta fatta con le sue mani, mentre noi ragazzi eravamo ognuno ai propri posti; chi al
calciobalilla, chi al ping-pong, altri erano invece intenti a guardare la televisione mentre in
un angolo, il modenese parlava sottovoce con il barese.
Il pomeriggio passò così, tranquillamente. Dopo cena fummo portati, come sempre di inverno, di nuovo in sala ricreazione. Avevamo ancora un paio d’ore prima di andare a dormire. In quel lasso di tempo il modenese e il barese rimasero sempre in disparte a confabulare.
Dato che mancava il signor Atzori, quindi l’equivalente di tre persone, venimmo a saper
che quella notte il signor Vella avrebbe dormito nel cunicolo vicino la porta; non poteva
passare la notte nella sua camera sopra il chiostro perché era stata verniciata di fresco.
“Tutti a letto, luci spente e buonanotte”.
Intorno alle tre di notte il signor Vella russava forte. La luna dirigeva i suoi flebili raggi tra
le grandi vetrate della camerata e le ombre che si stagliavano sulle mura davano animo ai
movimenti di un direttore d’orchestra: «Svegliati! Svegliati!».
Con una mano sulla bocca fui svegliato dal modenese che mi faceva cenno di non fiatare.
Anche il barese era indaffarato a svegliare tutti gli altri compagni.
Qualcuno di noi li seguì nel cunicolo del primo, mentre altri li mandarono al diavolo, dicendogli di lasciarli dormire in santa pace e che non ne volevano sapere nulla della fuga.
«Sentite ragazzi» il modenese parlava sottovoce e con fare grave, «ho appena spaccato lo
sgabello in testa al signor Vella e l’ho legato come un salame».
Facendoci segno di seguirlo in fila indiana, ci portò dove il povero signor Vella era veramente infagottato. Ci affacciammo uno per uno a guardare la vittima; era rannicchiato in un
angolo con un rivolo di sangue che dalla fronte gli colava caldo sul mento per poi cadere in
terra, aveva gli occhi tumefatti e mezzi chiusi e non si lamentava affatto. Delle lenzuola
strappate gli chiudevano la bocca e altri pezzi di stoffa lo avvolgevano in modo stretto.
Forse era ancora svenuto. E se fosse morto?
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«Non credo sia morto, comunque non mi interessa perché io e il barese da qui dentro ce
ne andremo adesso e chi vuol venire con noi venga!».
Le parole da capobanda del modenese erano paurose.
«Ho anche un piano per allontanarci da Parma al più presto possibile. Nelle fattorie qui
attorno ci sono sempre delle biciclette fuori l’aia, ne ruberemo una per ognuno di noi e via
di corsa in direzione di Bologna. Poi lì ognuno per la sua strada».
Ci guardò velocemente in faccia, allungò la mano verso il povero signor Vella sfilandogli
un mazzo di chiavi dalla giacca e si diresse verso la porta del dormitorio. Anch’io seguii la
banda in quella disgraziata avventura. Eravamo in sette.
La nostra silenziosa corsa giù per le scale che dal camerone portavano al campo sportivo,
poteva far invidia alla Pantera Rosa; piano piano, quatti quatti, scemi scemi.
La pioggia non cercava minimamente di smettere e noi, attraversando il campo sportivo,
ci inzuppammo come dei pulcini appena sgusciati dall’uovo. Arrivati di corsa al muro di
recinzione alto non più di due metri, lo scavalcammo. I più corti erano aiutati dai lunghi e
così ci ritrovammo nella campagna. Corri e corri, scruta e scruta, avvistammo il primo casale; tre biciclette. Tre in sella, tre in canna. Il Sardo a piedi.
Il modenese dirigeva il gruppo e questa era certamente la nostra tacita scelta. Invece di
prendere la provinciale via Mantova, che il capo diceva essere era troppo pericolosa, prendemmo le stradine che fiancheggiano il fiume Taro.
A volte sembrava di fare il ciclocross; buche, fango, pioggia e cadute.
L’Alba si avvicinava e il fango, quando la pioggia aveva smesso di rallentare la nostra corsa, si seccava sui nostri vestiti. Ancora un casale. Due biciclette, questa volta con il Sardo in
canna. Via a pedalare in direzione di Casalmaggiore. Per le strade di campagna iniziava a
vedersi qualche auto e qualcuno ci guardava incuriosito vedendo cinque giovanissimi ciclisti
così presto sulle strade del loro circondario. Il modenese, sempre in testa, guidava quel
Tour d’Emilia
Prima di arrivare al paese, dove in lontananza già si intravedeva il campanile della chiesa,
facemmo ancora una sosta in una cascina, lì prendemmo le ultime due biciclette e quasi
tutti i vestiti sullo stenditoio. Il cane abbaiò, ma la nostra fu una vera fuga in velocità.
Il paesino era piccolo e la piazzetta principale deserta, con i negozi ancora tutti chiusi. Ci
rifugiammo in chiesa e, per non dare nell’occhio, facemmo finta di pregare mentre il modenese, facendosi fare da palo da tutti noi, iniziò a girare tra gli altarini delle offerte alla
ricerca di qualche spicciolo da rubare. Le cassette delle elemosine erano tutte vuote. Meno
male, pensavo io, ci mancherebbe pure di dover rubare in chiesa.
Che bel paesino era Viadana. Pulito, ordinato e neanche un rumore di motorini. Forse era
ancora troppo presto o forse in nord Italia non sono casinari come a Roma e giù di lì.
Si erano fatte le otto del mattino e il sole iniziava a illuminare la chiesa lasciando passare i
suoi raggi tra le alte vetrate sopra l’altare.
«Ragazzi» disse il modenese, «aspettatemi qui che io andrò al negozio di oreficeria che si
trova sulla piazzetta e venderò la mia catenina d’oro, così potremo fare colazione».
Noi, sempre facendo finta di pregare con devozione, non disturbammo né le pie vecchine
che nel frattempo erano entrate, né il parroco stesso mentre diceva messa, anche se i loro
sguardi, puntati su di noi, erano pieni di curiosità.
Il modenese arrivò con una manciatina di soldi e al collo non aveva più quella bella catenina d’oro con crocifisso.
Usciti di chiesa comprammo dal panettiere panini e mortadella, li mettemmo nelle sacche
delle biciclette e via di corsa verso un posto tranquillo dove poter consumare la colazione.
Il sole già si era alzato per indicarci la via da proseguire e noi, dopo aver mangiato i panini
e bevuto alla fontana della fattoria (nella grande vasca dove bevevano mucche e buoi) che
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era stata la nostra stazione di riposo sotto gli occhi benevoli e inconsapevoli del fattore che
si era limitato a osservarci per tutto il tempo, riprendemmo la nostra fuga.
Arrivammo in quel di Guastalla che il sole era al centro del cielo e i nostri stomaci iniziavano di nuovo a lamentarsi. Parcheggiammo le biciclette sullo spiazzo vicino alla grande
griglia dove in estate c’erano allegria e bistecche al sangue. La porta d’ingresso, in un attimo, fu abbattuta dai calci del modenese e ci ritrovammo dentro la casa.
Il “capo” ci riunì in quella che nelle giornate piovose estive era la sala di ricreazione.
«Adesso che siamo arrivati qui, dobbiamo seriamente fare un piano. Se andare a Bologna
insieme, oppure dividerci ora. Quindi chi vuol venire con me alzi la mano».
Il Sardo fu il primo, mentre qualche altro ragazzo l’alzò soltanto dopo aver avuto
l’appoggio dello sguardo del modenese.
Quattro lo avrebbero seguito, altri tre no. A me non andava il suo modo di fare. Lo trovavo troppo padrone della cattiveria. E se il signor Vella era morto?
«Va bene» disse guardando gli altri tre che lo avrebbero seguito l’indomani, «siamo
d’accordo così. Però adesso dobbiamo cercare il mangiare per questa sera e siccome tutti
quanti dobbiamo mangiare, tutti quanti andremo a caccia di galline».
Le biciclette erano tutte ammucchiate accanto alla grande griglia e noi, dentro la cascina, a
studiare come e dove potevamo cacciare i polli.
Il piano fu fatto, la tattica studiata e l’armata era pronta alla battaglia campestre.
Tra le nuvole, il sole cercava di fare capolino.
Ci armammo con bastoni e con degli arnesi di ferro che trovammo vicino la grande griglia, poi, dopo esserci divisi in due gruppi, iniziammo la caccia alla nostra cena.
Sull’altro versante della collina dove avevamo iniziato la ricerca dei polli, si potevano vedere benissimo altri casolari, evidentemente abitati perché dai loro caminetti un filo di fumo si innalzava verso il cielo, nel frattempo le nuvole stavano cercando di sopprimere un
attimo di ribellione avuto dai raggi del sole.
La cascina presa di mira fu la più distante, anche perché sembrava quella con gli animali
più vivaci nell’aia e nel campo.
Il modenese chiamò il gruppo distaccato dicendo che sarebbe stato molto meglio se tutti
insieme avessimo assaltato la nostra cena in quell’unica cascina. Avremmo dato meno
nell’occhio e avuto maggiori chance nel catturare i polli.
L’Armata Brancaleone era pronta all’attacco.
Tre di noi avrebbero dato l’assalto iniziale davanti, mentre i rimanenti quattro avrebbero
attaccato da dietro facendo in modo così che la selvaggina alla vista dei cacciatori si ritirasse
spaventata. Quelli che si erano nascosti strategicamente dietro, avrebbero attaccato improvvisamente le prede fuggitive con buoni risultati di vittoria.
Successe il finimondo. Le urla dell’armata frontale spaventò in modo terribile i polli fuggiaschi che nel caos andarono direttamente verso il rimanente dell’armata appostata dietro
il pollaio, qui i “soldati” nascosti iniziarono a menare a destra e a manca. Non avevo mai
visto dei polli correre così spaventati e veloci. Il casino di penne svolazzanti a mezz’aria, lo
strillare di noi nella battaglia, le galline che con salti mortali si ritrovavano sul tetto della
stalla, tutto questo dava l’impressione che stessimo vincendo a Waterloo.
Un pollo volò sui rami di un albero e non ridiscese mai più. La bastonata datagli dal Sardo, come quando si colpisce una pallina da golf, fu talmente forte che la testa del povero
animale, staccandosi, si andò a spiaccicare sulla finestra del primo piano della cascina,
mentre il corpo rimase a dimenarsi sui rami.
Una tendina si scostò per una frazione di secondo mentre la testa del pollo scivolava sui
vetri lasciandosi dietro un alone di sangue.
La pioggia iniziava a scendere e noi, con la cacciagione tra le mani, ci ritrovammo in un
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batter d’occhi nel nostro rifugio.
Non si potevano cucinare i polli fuori fintanto che la pioggia non avesse smesso, quindi
l’opzione fu di iniziare a racimolare un po’ di ramoscelli secchi e accendere il camino della
grande cucina interna del nostro rifugio.
Appiccare il fuoco alla legna umida trovata sotto il porticato si rivelò una operazione alquanto difficile e fumogena. La legna non prendeva fuoco e il fumo iniziava a inondare
tutte le stanze, i polli sanguinolenti sporcavano tutto il pavimento, mentre il Sardo, che era
addetto alla pulizia degli stessi, sembrava un capo indiano, con le penne non solo sulla testa, ma incollate in tutto il corpo.
Il modenese disse di togliere la legna umida dal caminetto che avrebbe pensato lui stesso a
trovare delle tavole asciutte. Uscendo dalla grande cucina, seguito dal suo luogotenente, salì
le scale dirigendosi nelle camere dove erano i letti a castello.
Si sentirono dei rumori di calci e di rotture e dopo circa una decina di minuti, li rivedemmo tornare con le braccia piene di tavole asciutte e lunghe. Molti letti a castello erano diventati legna da bruciare.
Lo schioppettare delle tavole sul fuoco vivo, arrostiva i polli e faceva uscire molto fumo
dal caminetto, nel contempo i nostri vestiti si asciugavano. I polli erano quasi tutti arrostiti
e le nostre fauci pronte per la battaglia quando si sentirono dei rombi di automobili che si
spegnevano in fretta e una voce che dava ordini: «Tre di voi si mettano dietro la casa e voi
con me».
All’improvviso ci ritrovammo a faccia a faccia con un nugolo di carabinieri che con fermezza ci imposero di non muoverci. Qualcuno di loro cercava di spegnere il fuoco, ora
veramente acceso. Dopodiché ci fecero salire tutti sulle camionette.
Gli ultimi due carabinieri chiusero la porta del casolare alle loro spalle con un grosso catenaccio e salendo sulla jeep di comando, dissero all’unisono verso l’autista:
«Possiamo andare. Nella casa non c’è nessun altro».
Le camionette si avviarono giù per le stradine della campagna.
Molti di noi tenevano la testa abbassata provando quel senso di colpevolezza che ti prende quando capisci che il gioco iniziale si è tramutato in una brutta avventura.
Passammo per la stradina che fiancheggiava il casolare, campo dei nostri scontri contro i
polli.
Sulla finestra del primo piano ancora si poteva vedere la traccia di sangue che aveva lasciato la testa del pollo ucciso dal Sardo, mentre fuori sul piazzale, oltre ai resti di una battaglia amatoriale, era schierato il plotone del casolare che, quando passammo, ci fissò come
per dirci: «Vi sta bene, piccoli delinquenti».
Poi, quando le camionette ebbero sorpassato l’aia, il plotone, composto dal vecchio e la
vecchia, si girò e rientrò nella propria casa. Mentre ci allontanavamo, vedemmo ancora la
vecchia che, con un panno, puliva il sangue del pollo sui vetri.
Il posto di polizia di Guastalla era molto vecchio. Fuori, le mura con la bandiera e lo
stemma della Repubblica, era tutto di un vecchio grigiore e tutt’attorno non si vedeva anima viva. Soltanto lo zampillo della piccola fontana, la quale era situata in un minuscolo
giardino antistante la caserma, sembrava l’unica cosa vitale di quel paesino d’Emilia.
In piedi e sotto lo sguardo severo del maresciallo, ascoltavamo le accuse e i possibili rischi
a cui andavamo incontro per ciò che avevamo fatto sia nell’istituto, sia lì.
«E ancora non riesco a capire con quale speranza sareste riusciti a farla franca, non riesco
a capire come avete fatto a mettervi in questi grossi guai».
Passandosi una mano sulla fronte il maresciallo riprese: «Sapete quali sono i capi d’accusa
nei vostri confronti? Eh?! Lo sapete?».
Ora il maresciallo ci guardava uno per uno per poter capire se effettivamente ci rendessi123
mo conto della situazione, quindi aprì un cassetto e ne estrasse un libro:
«Questo è il codice di procedura penale e ora vi elencherò i probabili capi d’accusa nei vostri confronti».
Iniziò a sfogliare: «Primo: avete quasi ucciso uno dei vostri istitutori e qui come minimo
sussiste l’accusa di tentato omicidio o perlomeno lesioni gravi. Secondo: siete scappati da
un luogo di restrizione e qui c’è l’accusa di evasione. Terzo: avete per più di una volta rubato biciclette e qui sussiste il furto aggravato e continuato. Quarto: avete danneggiato beni
dello stato e qui c’è l’accusa di danneggiamento. Quinto: avete con violenza ucciso e rubato
i polli e qui ancora sussiste l’accusa di furto aggravato e continuato, maltrattamenti agli
animali e, ancora se non bastasse, in tutto questo c’è anche l’accusa di associazione a delinquere in quanto eravate, nelle vostre malefatte, un gruppo con più di tre persone e tutte in
accordo tra loro».
Chiuse il libro e tacque volgendoci il suo sguardo severo.
Il maresciallo era veramente arrabbiato. Arrabbiato come quando qualcosa di recuperabile
sta sfuggendo definitivamente a un lavoro certosino.
Ci sentivamo vulnerabili. Avevamo una paura terribile per aver sentito tutto ciò.
E lo so! Se avessimo potuto saremmo ritornati indietro nel tempo, evitando tutti quei
guai.
Fummo messi in una cella in attesa che il tribunale dei minori decidesse la nostra sorte,
così disse la guardia che chiuse la porta con un forte sferragliare di chiavi. Anche il modenese era chiuso in una cella, ma a parte e fuori dalla nostra vista. A tarda sera venne un
agente e distribuì a ognuno panini con la mortadella. Mangiavamo senza appetito, qualcuno
non mangiava affatto, pensando che la nostra vita ormai sarebbe finita nel carcere dove
sicuramente ci avrebbero portati. Qualcuno diceva: “L’ho detto di non dar retta al modenese”, e che sarebbe stato molto meglio rimanere al Lambruschini.
Avevamo commesso una grande cretinata.
Dopo qualche ora in camera di sicurezza la guardia che prima ci aveva rinchiusi con lo
sferragliare di chiavi, ora, quasi costringendoci a uscire, ci fece ritornare nell’ufficio del maresciallo. Lì presenti c’erano loro; il signor Atzori e il signor Severino, i loro volti erano
neri. I loro occhi ci fissavano come volerci penetrare e farci male. Nell’insieme sembrava
che se avessero aperto bocca le fiamme che ne fossero uscite ci avrebbero inceneriti
all’istante.
Non dissero una parola. Ci guardavano con rabbia. Fu il maresciallo ad aprire bocca:
«Ecco qui i vostri ragazzi, gli abbiamo dato da mangiare dei panini. Il loro compagno,
Molteni, è stato trasferito, come voi sapete, al Beccaria di Milano, quindi se volete firmare
qui» allungò un foglio verso di loro, «ve li potete riprendere».
Entrammo dentro un piccolo pullman in attesa là fuori. Il signor Atzori e il signor Severino erano incuranti della pioggia che scendeva in modo scrosciante e che li stava bagnando
impietosamente.
Durante il tragitto da Guastalla fino a Parma nessuno aprì bocca. Il silenzio assoluto, interrotto dal rumore del pullman, creava una situazione terribilmente angosciosa. Il signor
Atzori e il signor Severino stettero per tutto il tempo del viaggio seduti ai primi due posti a
fianco dell’autista volgendoci le spalle con una noncuranza. Si sentiva nell’aria il loro grave
disappunto e la voglia di prenderci a schiaffi per averli traditi.
Questa opportunità, se avessero voluto, non gliel’avremmo negata.
Il viale che divideva la via Mantova dall’istituto fu percorso traballando, il pullman si intrufolò dentro il grande portone. Al ricevimento c’erano tutti ed erano schierati uno a fianco all’altro.
Sui loro volti non si leggeva nulla di buono. Lo Zio Vella, con la testa fasciata e ancora dei
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gonfiori blu su tutto il volto, era l’unico che non ci guardava con rabbia, ma perplesso con i
suoi occhi chiari. Tutti raggruppati senza alcun riparo sulle nostre teste, noi tenevamo lo
sguardo in terra, non potendo fare altro. In quella strana situazione si sentì all’improvviso la
voce metallica del direttore che, senza profferire suoni melodiosi, disse:
«Portateli nelle celle di punizione». Girò i tacchi e sparì nell’androne.
Punizione
Le celle di punizione si raggiungevano, passando per il chiostro ed entrando nella porta
che portava all’abitazione di Zio Vella, proprio sotto l’abitazione di questi. Fummo rinchiusi in celle differenti. Si sentivano i catenacci girare, rumori a me familiari di chiavi e lucchetti. La finestrella da dove si poteva vedere un minimo cielo si trovava in alto ed era
protetta da sbarre.
Il signor Atzori, prima di chiudere la porta principale, urlò seccamente e pieno di rabbia:
«Chi deve andare al bagno aspetti. Tornerò tra un’ora».
Io mi rannicchiai sul letto di cemento cercando di avvolgermi il più possibile nei miei vestiti per riscaldarmi in quell’addiaccio.
«Cosa ci faranno!?».
La voce di uno dei miei compagni echeggiò in tutte le celle e in risposta ognuno diceva la
sua.
«Ci rimanderanno da dove siamo venuti».
«No! No! Ci manderanno al carcere dei maggiorenni».
«No! Prima ci faranno un processo e dopo la condanna ci spediranno al San Francesco».
Ognuno diceva la sua e tutti avevamo una paura terribile.
Dopo circa un’oretta sentimmo di nuovo il rumore di chiavi. Era il signor Atzori accompagnato dal signor Severino. Iniziarono ad aprire le celle dicendoci che chi aveva bisogno di
andare al bagno avrebbe dovuto farlo in quel momento perché fino al mattino dopo non
sarebbe stato possibile. Tutti eseguimmo la bisogna e prima di rientrare nelle celle dovemmo prenderci delle coperte che i due avevano portato.
Senza altre parole fummo rinchiusi di nuovo e il silenzio regnò, anche aiutato dalla nostra
stanchezza e dal sonno che non tardò ad arrivare.
Non sentimmo lo sferragliare delle chiavi, bensì la voce del signor Severino che aprendo
le celle a una a una, diceva: «Sveglia. È ora che vi alziate e che vi laviate, dopo vi porteremo
la colazione».
Si mise a sedere su di una sedia vicino alla porta d’ingresso e da sotto i suoi spessi occhialoni ci osservava attentamente uno per uno. Noi da parte nostra andavamo al bagno e
poi ai lavandini e ritornando nelle nostre celle, nessuno aveva il coraggio di tener testa allo
sguardo dell’istitutore.
La colazione ci fu portata, dopo che fummo di nuovo rinchiusi, dentro delle ciotole di alluminio. Latte caldo e pane fresco e profumato.
Verso le dieci si sentì aprire di nuovo la porta principale, dopo di questa la porta della
prima cella. Passato un quarto d’ora la porta della cella si richiuse.
Ero a fantasticare su cosa fosse accaduto al mio compagno della prima cella, quando sentii aprire la mia. Il Signor Severino mi fece cenno con la testa di seguirlo. Mi fece accomodare sulla sedia e con un tosatore da barbiere, iniziò a pelarmi.
Fummo tutti rasati a zero.
L’isolamento (avremmo meritato molto di più), oltre la pelata, durò una settimana esatta e
in quel lasso di tempo non vedemmo mai il signor Atzori.
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L’unica persona che vedemmo, oltre al signor Severino che veniva tutti i giorni per il lavaggio e la colazione e il pranzo, fu padre Umberto.
Apparve il giorno prima della nostra uscita dalle celle di punizione. Nelle nostre confessioni dicemmo tutti la stessa cosa, cioè che l’accaduto era stato qualcosa di brutto e che ce
ne pentivamo ed eravamo tutti d’accordo per essere stati puniti.
Padre Umberto ci consigliò molto sul modo in cui avremmo dovuto dimostrare il nostro
pentimento e la buona volontà nel voler pagare la nostra colpa.
Avremmo fatto i lavoretti interni all’istituto, che generalmente ci venivano retribuiti, per
un lungo periodo di tempo e il nostro guadagno sarebbe stato devoluto allo Zio Vella.
La maggiore pena per noi fu il giorno dopo al campo sportivo. Il signor Atzori, che non
vedevamo da tanti giorni, si presentò e iniziò la sua ramanzina con furore, rabbia, profondo
disappunto e accenni di sfida, il tutto mischiato a una forte delusione. Il signor Severino
uscì dal campo richiudendosi la porta, che dava all’interno, alle spalle.
Eravamo soli con il signor Atzori; colui che ci aveva accettati sin dall’inizio senza riserva
alcuna o domande indiscrete, inutili. Colui che per tutti noi era il fratello maggiore, comprensivo e cosciente della fragilità del fratello minore. Colui con cui non ci si poteva sentire
soli. Colui con cui il tacito accordo valeva molto più di mille contratti scritti. Colui con
cui…Colui che avevamo tradito.
In piedi davanti la porta, aspettavamo l’inizio di una battaglia già in partenza persa e che
sicuramente ci avrebbe uccisi dentro, comunque, forse, ci avrebbe aperto un po’ le porte
della ragione.
«Ma che diavolo avete combinato!?» Incominciò. «Che cosa diavolo vi è saltato in mente?
Avete quasi rovinato lo Zio Vella! Lo avete mezzo ammazzato! Avete distrutto quella fiducia che tutti noi dell’istituto vi avevamo accordato senza remore!».
Il suo sfogo, e sfogo molto incazzato era, andava in crescendo. Dalla bocca gli si potevano veder uscire fili di saliva, tanto era arrabbiato con noi. I suoi occhietti, un tempo di una
bellezza straordinaria e sempre sorridenti, adesso erano dei piccoli fori dai quali un raggio
laser usciva per ridurci tutti in un cumulo di polvere.
«Siete qui da un paio d’anni» riprese dopo averci di nuovo passato in rassegna, «siete qui
da un paio d’anni e credevo vi avessimo insegnato qualcosa. Credevo che la vostra solitudine fosse stata alleviata dalla nostra vicinanza. Credevo che avevate compreso il valore
dell’onestà e il rispetto degli altri. Credevo che il vostro recupero fosse questione di tempo
e pazienza. Credevo che finalmente avreste capito quali sono i veri valori nella vita e che si
deve e si può vivere senza fare delle stronzate, non come avete fatto voi. Credevamo di
poter contare su di voi. Noi tutti ci siamo fatti in quattro per farvi sentire normali. E qual è
il ringraziamento?! In un paio di giorni avete buttato al vento tutto ciò che abbiamo creato
per voi e insieme a voi in due anni. Ve ne rendete conto? Vi rendete conto cosa avete combinato?! Vi rendete conto quali gravi conseguenze questo può avere sul vostro futuro?! Vi
rendete conto che ci avete tradito?! Vi rendete conto che “mi” avete tradito?! Vi rendete
conto ragazzi?!».
Il suo sguardo penetrante si sentiva fin dentro l’anima. I sensi di colpa e la costrizione per
aver “giocato” con il signor Atzori, colui che aveva sempre agito seriamente nei nostri confronti anche durante i giochi veri, ci fecero crollare.
Anche volendo non riuscivamo a sollevare la testa. I nostri occhi rimanevano incollati sul
campo sportivo, sulla terra umida, fissando la punta delle scarpe.
Il signor Atzori si girò di scatto e scomparve dietro la porta che portava all’interno
dell’istituto.
Nessuno di noi parlava. Cosa ci sarebbe stato da dire? Proclamare inesistenti innocenze?
Dare la colpa al modenese? Fare le vittime? No! Non c’era proprio nulla da fare se non
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vergognarsi per aver tradito chi ci aveva teso una mano senza chiederci nulla in cambio.
Adesso i giorni passavano mesti e svogliati. Il signor Atzori era sempre nell’istituto e forse
non era ancora in condizioni mentali per riprendere i rapporti con noi. Al suo passare nei
corridoi non c’erano più scambi di saluti amichevoli e scherzosi. Adesso soltanto un silenzio colpevole da parte nostra. Mentre lui tirava avanti con meno rabbia, come sentisse ora
soltanto un senso di fastidio nei nostri confronti.
Chi ci seguiva adesso era il signor Severino, con meno sorrisi e occhiali sempre più spessi.
Istitutori
Il signor Atzori se ne andò. Si fece trasferire chissà dove. Al suo posto venne un istitutore
che, non ricordando il nome, chiamerò Caserta, sua città di provenienza.
Caserta era molto giovane. Credo avesse sui ventiquattro anni. Sembrava un bulletto più
che un educatore. Il suo modo di fare era sbrigativo e senza cognizione di causa. Dava
l’impressione che fosse letteralmente uno di e come noi. Dormiva in un cubicolo nella nostra camerata e faceva tutte le cose che avrebbero dovuto fare gli internati: rifare il letto,
lavarsi nei bagni, colazione, ricreazione, pranzo e cena. Unica eccezione: non frequentava i
nostri corsi e ciò lo differenziava da noi.
Non dava stimoli o motivazioni e tanto meno gli interessava la nostra educazione.
Sicché, per questo suo modo di agire, nelle partite di pallone si iniziarono a udire parolacce che, qualche volta, si tramutavano in litigi.
Ciò che avevamo messo da parte con il signor Atzori, ora, senza di lui, stava ritornando a
galla.
A Caserta non importava molto se intervenire o meno per placare le nostre liti, lui si limitava a dirci che avrebbe fatto semplicemente rapporto al direttore.
Sbagliava molto Caserta a non capire che i suoi modi, se ne aveva, non erano quelli giusti
nel campo educativo. Da parte nostra sentivamo la mancanza del signor Atzori e della sua
capacità di farci sentire responsabili, sentivamo la mancanza delle sue parole e del suo aiuto.
Sentivamo la mancanza della sua presenza fisica e della sicurezza che ci poteva infondere.
Insomma il signor Atzori ci mancava in tutto il suo insieme; e ora era troppo tardi ormai.
Potevamo soltanto desiderarlo e vivere nei ricordi di molti bei momenti avuti con lui e da
lui.
Caserta quel giorno volle giocare a pallone assieme a noi. Si fece la squadra da sé, scegliendo quelli che gli erano più simpatici e più grandi.
Tira, passa il pallone, fallo di mano.
La partita andava avanti, però la palla era sempre in possesso della squadra di Caserta. Il
Sardo, che fino a quel momento non era riuscito nemmeno a dare un calcio al pallone, si
buttò a capofitto verso Caserta cercando di togliergli quello che sembrava essere proprietà
dell’educatore: il pallone.
Questi, essendo più grosso, si divincolava con facilità, sbeffeggiando il Sardo nei suoi ripetuti attacchi. Quest’ultimo non mollava la presa e non avendo avuto fino a quel momento nessuna chance, si tuffò sui piedi di Caserta togliendogli il pallone con le mani.
L’educatore si bloccò sorpreso per un momento, per poi calciare il pallone che il Sardo
teneva stretto come fosse un salvagente durante l’affondamento del Titanic.
«Lascia il pallone! Lascialo!» urlava Caserta mentre continuava a scalciare sulle mani del
Sardo.
Questi si alzò all’improvviso e, sempre tenendo il pallone tra le mani, si avviò di corsa
verso il muro di recinzione, poi, con una pedata data con rabbia, lo lanciò dall’altra parte.
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Rimanendo immobile si rivolse a Caserta, che nel frattempo si stava avvicinando, e gli urlò
contro:
«Adesso vattelo a prendere!».
Quando fu a distanza minima dal Sardo, Caserta gli allungò uno schiaffo che mandò il
poveretto a rotolare fin sotto il muro di cinta. Della reazione di Caserta, rimanemmo tutti
di stucco; non era mai accaduto che qualcuno picchiasse i ragazzi e in modo così prepotente e brutale.
«La ricreazione è finita e adesso tutti dentro!».
L’ordine perentorio di Caserta ci mise in una situazione strana, imbarazzante.
I nostri sguardi si incrociavano rimbalzando su ognuno di noi. Le domande silenziose
non davano risposta. Ammutinarsi? Rimanere al campo sportivo e non rientrare? Assalire
tutti insieme Caserta e fargli pagare le botte che aveva dato al nostro compagno? No! In
una, per noi ragazzi, incomprensibile e telepatica simbiosi, rinunciammo; non era proprio il
caso di nuove ribellioni. Rientrammo in sala tv e ci sedemmo tutti in disparte, lasciando
solo Caserta.
Il Sardo si lisciava la guancia dolorante e rossa, mentre qualche lacrima faceva capolino
dai suoi occhi. Nessuno fiatava.
Caserta era in disparte a leggere un giornale, quando all’improvviso il Sardo, con un urlo
spaventoso, si alzò come un forsennato, un invasato, e di corsa gli si scagliò contro. Preso
alla sprovvista Caserta rotolò con tutta la sedia all’indietro. Il Sardo gli era incollato addosso
e, mi ricordo benissimo, strillava letteralmente:
«Tu mamma non la devi picchiare. Tu non ci devi più toccare. Io non andrò più a raccogliere la legna. Babbo!... Babbino, non mi picchiare sulle mani... Babbo!».
Sembrava che quel nostro compagno, piccolino e dai capelli corvini a cespuglio, non stesse a combattere con Caserta, ma contro qualcun altro.
Il Sardo stringeva e urlava soltanto, non picchiava. Quando Caserta riuscì a liberare un
braccio da quella morsa, anche se forte e innocente, rifilò al piccolo “ribelle” tanti di quei
pugni che il nostro amichetto fu costretto a lasciare la presa e rinchiudersi in angolo. Noi
ancora in silenzio, attoniti dalla fulminea e (ir)razionale vendetta del piccolo amico, il quale
sicuramente aveva avuto, un po’ come tutti noi, un padre padrone, vedemmo Caserta dirigersi verso il bagno, sicuramente per pulirsi. Io cercai di comprendere le espressioni dei
miei compagni girando la testa di qua e di là. Eravamo tutti abbattuti. Sembrava di essere
ritornati alle carceri minorili dove i superiori ti potevano picchiare e magari farsi anche la
manicure.
Però guardandomi intorno vidi che mancava uno di noi.
La porta si aprì e comparvero il signor Severino e il signor Arena, seguiti da Pino, quello
del Quadraro. Era accaduto che durante la zuffa del Sardo con Caserta, Pino era corso a
dare l’allarme.
Il Sardo, ora calmo e piangente, era ancora seduto e aspettava di andare ai bagni per rinfrescarsi l’occhio destro, che stava diventando blu, e gli altri lividi. Caserta non fece in tempo a rientrare in sala che la voce ferma e autorevole del signor Arena lo fulminò:
«Lei esca dalla sala e aspetti fuori».
Le parole e il tono della voce non lasciavano spazio a risposte, poi rivolto al signor Severino aggiunse: «Lei porti il ragazzo in infermeria e chieda al signor Mario di medicarlo e
vedere se ha riportato lesioni».
Rimasti soli con il signor Arena confermammo ciò che Pino gli aveva accennato mezz’ora
prima, cioè la prepotenza del Caserta e la brutalità del suo comportamento.
Caserta non lo rivedemmo più, fortunatamente.
La vita scorreva normale. Scuola, officina, laboratorio, musica, mangiare, poche motiva128
zioni e stimoli nel campo ricreativo.
L’estate ormai non era lontana. Dopo la chiusura delle scuole e la raccolta dei pomodori,
saremmo andati al campeggio con il signor Severino e forse con qualche altro nuovo istitutore.
Il ritorno
Quel giorno il sole era alto e la campagna dentro l’istituto era tutta rossa. La distesa di
piante di pomodori coloriva anche il cielo, e noi, in pantaloncini, facevamo a chi riusciva a
mettere insieme più cassette possibili. Eravamo tanti indaffarati che non facemmo molto
caso a una persona che già da qualche minuto ci osservava da lontano. Era immobile accanto al signor Mario, a braccia conserte e sembrava un viso familiare ma, a quella distanza,
non riconoscibile.
«Chi sarà quello che sta vicino al signor Mario?» mi domandò il Sardo.
«Sicuramente sarà un nuovo istitutore per il campeggio» ribattei con semplice logica.
«Sì, però…non lo so… mi sembra una faccia conosciuta» aggiunse curioso lui.
«E chi vuoi che sia? Il signor Atzori?» feci io con una punta d’ironia
«Andiamo a vedere».
Lasciando perdere per un momento i pomodori, ci avvicinammo in modo che i due fossero ben visibili. E ci bloccammo. I nostri occhi cercavano di intrufolarsi ora tra le molecole del cervello per frenare l’adrenalina che stava salendo a tutta birra aumentando i battiti
del cuore e dando alle corde vocali l’acuto che neanche Mario del Monaco aveva avuto in
febbraio al Teatro dell’Opera di New York.
I suoi occhietti sorridevano ed erano umidi e lucidi. Anche il signor Mario sorrideva ora,
cosa che non aveva mai fatto.
La nostra chiamata generale, credo fu sentita fino a Parma e oltre.
«Ragazziiii…Ragazziiii… è tornato il signor Atzori! è tornato il signor Atzori!».
Le urla mie e del Sardo fecero rizzare tutti i nostri compagni piegati nella raccolta che,
dopo un primo momento di smarrimento, iniziarono a correre verso di noi. Chi inciampava
sulle piante di pomodori, chi le calpestava. Chi si rialzava rosso di salsa, chi correndo li
tirava in aria.
«Calma ragazzi, calma» provò a dire il signor Mario.
Non servivano a nulla le sue parole. Eravamo tutti intorno a “lui”.
Chi lo toccava sulla spalla, chi lo abbracciava. E “lui”, come qualcuno che perdona perché
è giusto farlo, sorrideva di quel sorriso fatto di denti bianchi e piccolissimi occhi che un
giorno, per colpa nostra, si erano abbuiati. Finalmente il signor Atzori era di nuovo tra noi.
«Ragazzi adesso smettetela, andate a mettere in ordine l’orto, ci vediamo dopo la doccia
nel campo sportivo».
Le parole del signor Atzori, dette in quel modo e con quel tono, ci riportarono alla mente
i tempi spensierati che avevamo avuto con lui e che speravamo ritornassero.
Giù al campo sportivo attendevamo con ansia. Ci eravamo messi in ordine sparso vicino
la porta di pallone e speravamo in cuor nostro che la bufera che avevamo creato tempo
addietro non fosse più ricordata. E così fu.
Entrò nel campo sportivo da solo, come era stata sempre sua abitudine, con il pallone in
mano. Si diresse al centro del campo e, con fare cerimonioso, si avviò verso di noi. Camminava lento scrutandoci. Appena arrivato alla distanza di un paio di metri, mise il pallone
in terra e disse:
«Ragazzi sono qui per voi. È stata dura per me superare i momenti difficili nei quali mi
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avete, ci avete, fatti trovare. La battaglia per salvarvi è stata durissima; prima con la direzione di qui, poi con il Tribunale dei Minori che ha chiuso un occhio su ciò che è accaduto
durante la vostra fuga. Questa volta il tribunale vi ha perdonato, la prossima volta non lo
farà. Quindi comportatevi bene e fate conto che ciò che è successo molto tempo fa, ciò che
avete combinato, ci serva da lezione. Siete dei bravi ragazzi e per questo mai e poi mai dovete dar retta a chi vi vuol far credere che la delinquenza paghi». Tacque.
Poi allungando un calcio al pallone disse per sdrammatizzare la situazione: «E adesso vediamo qual è la squadra più forte e se siete ancora in gamba come una volta».
Fantastico il signor Atzori.
Per la prossima estate c’era una novità inattesa, non saremmo andati al campeggio
ma…tutti i ragazzi che avessero avuto la possibilità di essere accettati dai propri genitori o
da un membro diretto della propria famiglia sarebbero potuti andare a passare un mese
presso di loro.
Eravamo entusiasti di ciò. Io da parte mia avevo soltanto una persona a cui rivolgermi.
Avrei scritto a mia sorella che era a Como per chiederle se voleva che passassi un mese da
lei.
La risposta arrivò in tempo brevissimo e fu positiva. Era contenta di vedermi dopo molti
anni e anche il marito mi avrebbe accettato per le vacanze estive.
«Ragazzi» disse il signor Atzori che era coadiuvato dal signor Severino «tra un’oretta vi accompagneremo alla stazione di qui così ognuno di voi prenderà il treno per la sua città.
Ricordatevi di non smarrire il biglietto perché altrimenti il ritorno lo dovete pagare di tasca
vostra. E non dimenticate la cosa più importante e che è scritta sulla lettera che vi abbiamo
dato per i vostri parenti; il trentuno agosto dovete essere di nuovo in istituto prima delle
quattro del pomeriggio. Intesi!?».
All’unanimità accennammo un sì corale.
Dalla panca di cemento il Sardo, l’unico che rimaneva in istituto non sapendo dove andare, in silenzio ci supplicava da sotto le ciglia nerissime: “Mi fate venire con voi? Che faccio
io da solo tutto il mese? Mica posso raccogliere tutti i pomodori dell’orto…”.
Como
Il treno, dalla stazione di Parma a quella di Como, fece in fretta. Era una bella giornata di
sole.
Mia sorella era lì ad aspettarmi con suo marito. Furono felici di vedermi.
Avevano una moto che sembrava essere un motorino. Lei disse che era meglio che io andassi sulla moto con suo marito, lei avrebbe preso il bus per tornare a casa.
La loro casa si trovava sulla via di Bellinzona in direzione Chiasso. Era una casa vecchia
con il cesso sul pianerottolo e in comune con un’altra famiglia. Un giorno la pulizia toccava
a mia sorella e il giorno dopo ai nostri dirimpettai.
La giornata passò tra mille chiacchiere. Cosa avevo studiato a Parma, che intenzione avessi per il futuro. Alla domanda quando sarei dovuto rientrare in istituto risposi che non dovevo più rientrare perché avevo finito la “pena” e che anzi la direzione avrebbe mandato al
più presto una lettera che appunto affermava la mia libertà. Dubbiosi, ma ignoranti in merito, accettarono queste mie parole.
Comunque, in tutto il tempo che rimasi da mia sorella, non arrivò mai nessuna lettera da
parte dell’istituto e nessuno mai mi cercò.
I giorni passavano tra l’anagrafe per richiedere la residenza e altri documenti e le molte visite a fabbriche che si trovavano lì nei dintorni e in Svizzera.
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Durante le prime due settimane non trovai alcun lavoro. Però feci delle conquiste nel vicinato. Giuseppina, la figlia della nostra dirimpettaia, si era innamorata di me, mentre Ornella, la ragazza che abitava al piano terra e molto più bella di Giuseppina, voleva soltanto
avere la mia “compagnia”... in soffitta, in quanto lei era già fidanzata.
Quel giorno andavo verso la fermata del bus per scendere a Como, non avevo nulla da
fare in casa essendo mia sorella e suo marito al lavoro. Camminavo sul marciapiede quando
vidi, a circa duecento metri dalla nostra casa, un grande cancello con l’insegna “Stamperia
Guzzetti”. La signora dietro la scrivania, mi chiese cosa sapessi fare o se fossi specializzato
in qualcosa. Quando risposi di no, mi chiese dove abitassi. Accennandogli che abitavo a
non più di duecento metri mi rispose che se avessi voluto lavorare come operaio semplice a
90.000 lire al mese (tempo pieno) avrei potuto iniziare il mattino dopo alle sette trenta. Accettati ringraziando.
La contentezza di aver trovato un lavoro e per di più in regola e in una fabbrica, mi faceva
sentire al settimo cielo. Aspettavo il momento di dirlo a mia sorella e mio cognato.
Non andai a Como quel giorno. Tornai a casa e rimasi affacciato alla finestra finché non li
vidi arrivare sulla moto.
Furono meravigliati e contenti che avessi fatto tutto da solo. Mia sorella era anche sorpresa che mi avessero preso a lavorare alla Guzzetti, perché, diceva, il cartello che si trovava
sul cancello della fabbrica parlava chiaro.
Mangiammo in allegria ed è anche naturale che parlammo di spese e altro: mica potevo
stare sulle spalle loro. Mio cognato alla fine della cena mi offrì una sigaretta e io andai in
cerca di Ornella.
Lei era in giardino che rincorreva il cane e il venticello le alzava la gonna di cotone molto
leggera. Rimanemmo in soffitta a fare l’amore fino le dieci. Anche lei era contenta che avevo un lavoro così sarei rimasto molto tempo lì.
La Stamperia Guzzetti aveva contratti con molti fabbricanti di stoffe per cui doveva
stampare colori sulle stesse; lini, cotoni, sete e sintetici. Imparai subito dopo un corto apprendistato.
Il lavoro iniziava alle sette e mezzo e finiva alle quattro, a parte gli straordinari che facevo
volontariamente quasi tutti i giorni. Così il salario cresceva di un pochino.
I colleghi, di cui la maggior parte molto più vecchi di me, mi presero a benvolere in
quanto “romano de Roma”, divertiti dal mio accento.
Di donne ve ne erano due, una cicciona e racchia, l’altra invece molto bella e giovane; era
veneziana, mora di capelli e due occhi neri talmente belli che sembrava parlassero.
La prima busta paga arrivò finalmente di venerdì; novanta mila lire di stipendio più quindici di straordinario, fantastico, non avevo mai visto tanti soldi in una sola volta in vita mia.
Mettendomi la busta con i soldi dentro i pantaloni, anzi a dir la verità dentro le mutande,
m’incamminai verso casa facendo i conti: avrei dato trentamila lire a mia sorella e con settemila avrei comprato un regalo a Ornella e dei fiori a Giuseppina, qualche altro soldo lo
avrei usato per comperare una stecca di sigarette al marito di mia sorella, altri per un orologio e con il resto mi sarei comperato qualche vestito al mercato.
Mi sentivo molto eccitato di esser padrone di quei soldi.
Salii le scale di casa e, aprendo la porta, vidi mia sorella che mi aspettava.
Guardandomi mentre appoggiavo la busta paga sul tavolo sorrideva soddisfatta.
Io dal canto mio ricambiavo il suo sguardo per aver potuto guadagnare in modo onesto
quei soldi che nessuno mi poteva togliere. Lei di sott’occhi osservava la scena.
Fu contenta quando le porsi il suo dovuto. Mi consigliò di non sciupare il resto dei soldi
in cose inutili. Dopo qualche complimento verso di me, ci mettemmo a tavola.
Il loro sguardo nei miei confronti, intendeva molte cose buone. Appena finito di mangiare
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mi alzai dirigendomi verso la porta.
«Dove vai adesso?» chiese lei.
«Esco un pochino per comprare dei fiori a Giuseppina e torno subito».
Mentre uscivo, il marito mi strizzò l’occhio, da uomo a uomo, perché sapeva che andavo
dalla Ornella.
Il mattino dopo, sabato, presi il bus per Como e, dopo circa venti minuti, mi ritrovai giù a
piazza Cavour. La giornata era bellissima. Gli alberi attorno la piazza erano di un bel verde
vivo, le aiuole erano in fiore e io ero felice alla ricerca di un negozio di scarpe.
Guardavo le vetrine e i prezzi, quindi entrai in un negozio che mi sembrava più economico e lì acquistai due paia di scarpe: un bel mocassino estivo di color marrone e un paio di
scarpe di camoscio con i lacci, che facevano tanto signore. Poi al mercato, sulle bancarelle
acquistai un paio di pantaloni leggeri a quadrettini che andavano di moda e una camicia
celeste assieme a un pullover blu, due paia di calze e due mutande.
La “doccia popolare” era dietro il comune, alle spalle del mercato; vi entrai e ne riuscii che
sembravo un altro; lavato e stirato.
Girovagai per Como. Le montagne alte verso la Svizzera, il lago stesso che vi si inoltrava,
i paesi lassù, come incollati sui dirupi, i traghetti che sostavano o che andavano, infine
quella grande gelateria con i tavolini fuori che m’inebriò con il suo gelato gustato sul parapetto. Lo sguardo perduto nel brusio del lago e la quiete tutt’attorno mi facevano sentire al
settimo cielo.
Maria del Borgo Vecchio
La mia collega di lavoro veneziana mi aveva adocchiato. Lei avrebbe dovuto istruirmi su
come maneggiare stoffe, colori e stampi. Con sorrisi e moine era riuscita a farmi divenire
suo compagno fisso di lavoro.
Inizialmente si stabilì un contatto amichevole (credo lei avesse una decina d’anni più di
me) poi in seguito mi invitò a casa sua per una cena, dicendo che lei faceva bene una specialità veneziana con carne di maiale e broccoli.
Maria abitava al Borgo Vecchio di Como. La casa era modesta, da operaia e, sorpresa,
aveva un figlio. Lo aveva avuto, stando alle chiacchiere di “radio fabbrica”, da uno dei titolari che, dopo averle comprato la casa in cui abitava, l’aveva scaricata. Comunque non diedi
molto peso al fattaccio, anche perché lei non me ne parlò mai.
Maria voleva fare soltanto l’amore, non chiedeva altro. Ma prima di ogni incontro dovevamo parlare un pochino del più e del meno. Ridevamo a crepapelle e, poi finivamo allegramente nel letto. Altre volte dove capitava; sul tavolo da cucina, addirittura da contorsionisti sulla sedia, o sul tappeto della camera.
Era dolce Maria, con i suoi sguardi lucidi e penetranti, le labbra rosse di sangue e le mani
sapienti.
Ormai le mie serate dopo il lavoro si perdevano in quel di Borgo Vecchio.
Ornella aveva trovato altre fonti di passatempo, mentre Giuseppina, che non si dava pace
per le mie assenze sempre più frequenti, iniziò a confabulare con mia sorella.
Venne la resa dei conti.
Finita la cena e quasi in procinto di uscire, mia sorella mi bloccò:
«Dove vai così in fretta!?».
«Niente, esco a fare due passi».
«Vai per caso a Borgo Vecchio!?».
Rimasi sbalordito, nel frattempo lei si era parata davanti a me come per dire “io so tutto”.
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«Sì vado a Borgo Vecchio» dissi deciso.
«Ah! Vai da quella donnaccia!».
Essì, qualcuno mi aveva seguito e aveva scoperto le mie uscite.
«Non è una donnaccia, è una brava donna».
«Come fa a essere una brava donna se ha un figlio e non è sposata, e poi va con te che sei
più giovane di lei di dieci anni?».
Chiusi la porta per non far sentire fuori e dissi cercando di persuaderla:
«Non capisco cosa ti dia fastidio».
«Mi da fastidio il fatto che non è normale ciò che fai e….» s’interruppe.
Mio cognato da sottecchi ci guardava, anzi guardava mia sorella con un senso di fastidio,
come se lei avesse dovuto lasciar perdere perché, in fin dei conti, che male facevo?
Mia sorella continuò:
«...e poi lo sai che io sono testimone di Geova e queste cose non le voglio neanche pensare». Concluse con fare trascendente e da diluvio universale.
Non dissi nulla per il rispetto che le portavo. Aprii la porta e, uscendo, la sbattei.
Il bus arrivò in fretta. Una volta in città, mi incamminai verso casa di Maria. Arrivato
sotto il portone mi bloccai, guardai in su, verso la sua finestra illuminata, girai le gambe e
m’incamminai verso piazza Cavour.
La sera era tranquilla, i traghetti scorrazzavano in lungo e largo sul lago e io mi ritrovai a
mangiare il solito gelato sulla solita balaustra della solita biglietteria.
Forse mia sorella aveva ragione; ero troppo giovane per avere un rapporto con una donna
più grande di me.
Rientrai più presto del solito e appena fui nella camera, sentii un bisbiglio e piccoli rumori. Mia sorella entrò nella stanza, mi guardò con curiosa furbizia e mi abbracciò, credendo
di aver salvato un giovane dalle grinfie del diavolo.
Lei era contenta, io non avevo perso nulla, mentre Maria, sicuramente, aveva perso qualcosa: un po’ di primaverile gioventù, due risate e nuove illusione.
Il mattino dopo, in fabbrica, feci in tutti i modi per non guardare negli occhi “lei” e farmi
cambiare reparto; fui assegnato all’asciugatoio delle stoffe. Lontano da Maria e dalla vergogna di non saperle spiegare quell’improvviso cambiamento.
Lei, da lontano, ogni tanto mi guardava come volesse incrociare il mio sguardo e dare risposte alle sue domande. Io evitavo. Comunque nei giorni a venire la tristezza iniziale
scomparve dal suo viso e le ricomparve la rassegnazione che avevo visto nei miei primi
giorni in cui entrai in fabbrica.
Era ritornata quella che era prima di conoscermi; una donna abituata a essere delusa dalla
vita, dai luoghi comuni e specialmente dall’egoismo degli uomini.
Famiglia riunita
Era di sabato verso l’ora di pranzo. Stavamo per sederci a tavola quando all’improvviso
sentimmo delle voci, stranamente familiari, che urlavano il nome di mia sorella dalla strada.
Lei posò la posata che aveva in mano per girare la salsa e si diresse di corsa verso il balconcino. Giù nell’ingresso c’erano gli altri due miei fratelli: Antonio e Giovanni.
«Cosa fate qui?!» esclamò mia sorella.
«Come siete arrivati? Salite dai che mangiate anche voi!».
In un balzo furono su. Eravamo tutti contenti di quella rientrata, soltanto nostro cognato
rimase un pochino interdetto dalla calata dei barbari, e con uno sguardo, domandò tante
cose a nostra sorella.
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Lei, anticipando tutti e dopo aver presentato gli altri miei fratelli a suo marito, mentre da
tre piatti di pastasciutta ne faceva uscire cinque e dopo aver fatto le domande di rito, disse
che il lunedì avrei dovuto chiedere lavoro alla fabbrica anche per i miei fratelli, così non
avrebbero pesato sulle loro spalle e nessuno avrebbe avuto qualcosa da ridire. Dopo aver
mangiato, nostro cognato andò in palestra e noi, mentre lei lavava i piatti, rispondevamo
alle sua domande.
Io mi impegnai a far entrare in fabbrica i miei fratelli, se ciò fosse accaduto, loro avrebbero versato, come il sottoscritto, ogni mese trentamila lire a testa della loro paga a mia sorella, appunto per il sostentamento giornaliero: lavati, stirati e da mangiare.
Tonino non contrabbandava più sigarette, il suo “datore di lavoro” era stato arrestato.
Gianni, uscito dal collegio di Vasso, rifiutato da Carmela e da nostro padre, era andato in
quel di Viareggio per poi venirsene qui anche lui.
Non fu poi così difficile farli entrare in fabbrica. Vennero accettati subito, forse in quel
momento ne avevano bisogno. Furono assegnati uno di qua, uno di là.
Il lavoro andava bene, non era difficile e non ci si sporcava, almeno non come al reparto
stampaggio.
Tonino nell’ora di pausa, e questo accadeva ormai da un paio di settimane, cercava di allontanarsi dal gruppo degli uomini, camminando a testa bassa verso la parte delle donne.
E certamente! Maria lo aveva adocchiato.
Trascorrevamo il tempo tra la fabbrica, la casa, le docce pubbliche, il sabato al mercato e i
tentativi di coprire nostro fratello nelle sue scappatelle da Maria.
Quando lui aveva l’appuntamento, noi due andavamo al cinema e dopo raccontavamo a
Tonino quale film avevamo visto, così non c’era pericolo che nostra sorella scoprisse la
tresca.
Ornella si era sposata e Giuseppina aveva traslocato, quindi nella nostra palazzina non
c’erano più “avventure”.
Gianni ormai era saturo del lavoro in fabbrica, aveva voglia di tornare a Roma e ritrovare
amici che aveva conosciuto nella casa di rieducazione.
Anche quel sabato dopo la doccia pubblica ci ritrovammo seduti sulla panchina davanti
alla biglietteria dei traghetti di piazza Cavour.
«A me non va più di stare qui a Como. E a voi?» disse Gianni, mentre addentava il cono
del gelato.
«Io non lo so…» rispose indeciso Tonino.
Poi rivolgendosi a me, chiese:
«E tu?».
«Non lo so neanche io, ma se andiamo a Roma cosa facciamo là?».
«Al riformatorio ho conosciuto molti ragazzi che a Roma hanno un sacco di soldi e la
macchina. Ho anche il loro indirizzo, quindi se andiamo da loro ci aiuteranno. Perciò ho
deciso, stasera dirò a nostra sorella che domani parto».
Dalle sue parole si capiva benissimo che era ormai convinto ad andarsene.
«Che pensi tu Tonino?» chiesi.
«Non lo so, anzi credo che resterò qui. Ma che ci andiamo a fare a Roma senza soldi o
una casa?».
«Già, è vero, però lui ha detto che conosce un sacco di gente e…».
Non mi fece finire la frase che aggiunse: «Boh! Fate come vi pare, ma io resto qui».
Quella sera a mia sorella, quando udì le parole di Gianni, il cucchiaio con la zuppa si fermò a metà strada, tra mento e bocca.
«Come vuoi andare a Roma? E perché?».
«Non ce la faccio più in fabbrica… sempre le stesse noiose cose. Quindi domani con una
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scusa mi licenzio».
Le sue parole non lasciavano possibilità di appello.
«Ma qui avete tutto. Avete un lavoro, una casa e non ci sono cattive amicizie. Non riesco
proprio a capire…».
Tutti tacevano, suo marito aveva ragione a non aprire bocca. Tonino non aveva nulla da
dire perché sarebbe rimasto lì e io…
«Anch’io partirò con lui» dissi senza pensarci più di tanto.
«Ma come anche tu?».
Facendomi coraggio ripetei:
«Sì, anch’io voglio andare a Roma».
«Sentite, se andate a Roma vi rovinerete. Lì è una jungla e non c’è nessuno che vi aspetta a
braccia aperte. Pensateci bene…» lei sapeva ciò che diceva.
La cena riprese in silenzio. Gianni da sotto il tavolo mi diede un calcetto allo stinco e mi
fece l’occhiolino.
Tonino rimase a casa mentre io e Gianni andammo a fare una passeggiata per Monte
Olimpino.
«Ma se andiamo a Roma dove dormiamo e chi ci darà i soldi per vivere!?».
Le mie domande non sorpresero mio fratello
«Già te l’ho detto, quando saremo a Roma telefono a un mio amico e lui ci ospiterà a casa
sua. Non ti preoccupare che se poi va tutto bene ci compriamo anche la macchina, pensa
che io già ce l’ho in mente».
«Cosa hai in mente?» chiesi un pochino confuso.
«Come? Non mi stai ascoltando? Ho detto che ho in mente la macchina che voglio comprarmi ed è l’Alfa Romeo 1900 Bertone».
«Bella» risposi.
Avrei voluto domandare il senso delle altre sue parole “...che se poi tutto va bene...” ma
stetti zitto. Non mi interessava capire.
Il mattino dopo entrati in fabbrica, Tonino si diresse verso gli spogliatoi per poi prendere
il suo posto di lavoro, mentre io e l’altro mio fratello ci dirigemmo verso la direzione.
Aprii bocca io con fare triste e grave, Gianni mi assecondava nella tragica scena.
«Signora direttrice abbiamo ricevuto un telegramma da mio padre dove ci comunica che
nostra madre è morta e dobbiamo partire subito per Roma e se lei non ha nulla in contrario
l’altro nostro fratello rimarrà qui. E poi c’è un’altra cosa ancora, ci dovrebbe pagare tutto
ciò che ci aspetta perché abbiamo bisogno di soldi per ciò che è accaduto».
«Oh! Mi dispiace moltissimo, poveri ragazzi, comunque in questa situazione, anche se è
contro le regole di contratto, non posso fare a meno di lasciarvi andare, ma nel contempo
vi conserverò il posto di lavoro, mi raccomando una settimana di tempo. Va bene?».
Eravamo contenti che non ci fossero state complicazioni.
«La ringraziamo di cuore» dicemmo insieme.
«Aspettate un momento» disse, quindi prese il telefono e, dopo aver fatto i nostri nomi, la
sentimmo aggiungere: «Insieme alle buste paga dei due ragazzi e ci aggiunga il 25% in più».
Dopo un paio di minuti arrivò un uomo, sicuramente il ragioniere, con due buste.
«Ecco ragazzi, questi sono i vostri soldi e con qualcosa in più che sicuramente vi potrà
servire. Quando tutto sarà finito, tra una settimana, vi voglio rivedere di nuovo qui al lavoro». Alzandosi si avvicinò e stringendoci la mano con calore, aggiunse:
«Mi dispiace veramente. Condoglianze.».
«Grazie, grazie».
Uscimmo a passo lento passando sotto lo sguardo fulminante di Tonino, innanzi tutto
perché avevamo inventato una misera bugia e poi perché sarebbe toccato a lui sorbire con135
doglianze e battute di spalle sia da parte della direzione che dei colleghi.
Senza neanche passare da nostra sorella, ci dirigemmo alla stazione ferroviaria di Como
per prendere il primo treno che andava verso sud. Non essendoci il treno per Roma decidemmo di prendere quello che stava partendo per Firenze, poi lì avremo preso la coincidenza per la capitale.
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Parte terza
Milano-Roma-Milano
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Quanto sei bella Romaaaaaa
Arrivammo a Roma nel tardo pomeriggio. Già l’aver messo piede fuori dalla stazione
Termini ci dava un certo senso di eccitazione. Era come se fossimo tornati a casa tra gente
conosciuta e familiare. Il frastuono di piazza dei Cinquecento, con i suoi taxi, gli autobus, lo
stridio dei tram e le auto, davano la scossa all’adrenalina che man mano ci saliva su.
Le palme, che si perdevano a vista d’occhio fino a piazza Esedra, sembravano far ombra
anche sotto i portici tutt’attorno. Che bella Roma.
«Andiamo a mangiare qualcosa così avrò modo di telefonare al mio amico Ettore» fece
mio fratello e io, senza bisogno di aprir bocca, lo seguii nella rosticceria.
Dopo meno mezz’ora che eravamo lì entrò un bel ragazzo, alto, nerissimo di capelli e super agghindato. Era il suo amico Ettore. Si abbracciarono e dopo essersi presentato, si sedette al nostro tavolino.
«Allora ce l’hai fatta a trovarmi!» disse contento rivolto a mio fratello.
«Certo. Te lo avevo detto che quando sarei uscito ti avrei cercato cosi possiamo “fare
qualcosa” insieme».
«Naturalmente. Adesso finite di mangiare che poi andiamo a fare un giro, poi vi porterò a
casa mia dove potrete stare quanto tempo volete. Okay?».
«D’accordo».
Dopo aver pagato ci ritrovammo fuori. Sul marciapiede una Giulia Alfa Romeo 1300 decappottabile di color rosso, nuova di fabbrica, era la macchina di Ettore.
«Ammazza che macchina che hai!» esclamò mio fratello lasciandosi sfuggire un fischio di
ammirazione.
«L’ho comprata un paio di settimane fa. Quella che avevo prima non mi piaceva più» disse come fosse la cosa più normale di questo mondo.
«Adesso salite che andiamo a fare un giro».
Io mi accomodai dietro e, appena la porta al lato di mio fratello fu chiusa, l’auto partì con
una grande sgommata. Un giro attorno alla fontana di piazza dell’Esedra a tutta velocità,
poi in direzione di via Manin, fin quando si fermò davanti a una porta dove c’era l’insegna
“biliardi”.
Scendemmo e dopo un paio di passi ci ritrovammo in una grande sala, con molte luci al
neon e tanto di quel fumo di sigarette che, io e mio fratello, iniziammo a tossire. La risata
ironica del suo amico ci fece smettere di tossire.
Molti giovani erano intenti a giocare a biliardo e tutti, proprio tutti, stavano fumando.
«Ciao Ettore».
«Ettore come va!?».
Molti si erano fermati per un momento e lo salutavano con confidenza.
«Qui passo la maggior parte delle giornate. Vengo a trovare gli amici e ci giochiamo qualche diecimila lire a biliardo. Mica vinco sempre!». E giù un’altra risata.
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Gianni si guardava attorno come per trovare, a fianco del suo amico, consensi alla sua
presenza, mentre io mi sentivo un po’ a disagio. Tutta quella gente coi vestiti attillati e alla
moda, i soldi sul bordo dei biliardi, le sigarette sparse qua e là, tazzine di caffè a metà, qualche bicchiere di liquore e parole nel “gergo” di chi giocava, mi facevano sentire spaesato,
ma allo stesso tempo mi affascinavano. Restammo nella sala una mezz’ora, giusto il tempo
di essere presentati ai suoi amici e bere una bibita. Dopodiché risalimmo nella sua fiammante spider e, sempre sgommando, arrivammo in via Cavour.
Ettore parcheggiò l’auto senza curarsi del divieto di sosta e salimmo al secondo piano, in
un appartamento. Aperta la porta si sentì una voce femminile: «Sei tu Ettore?».
«Sì sono io e ho con me due amici miei» rispose quasi urlando.
La donna in vestaglia e ciabatte ci venne incontro mezza assonnata e con una sigaretta in
bocca.
Aveva il trucco sfatto di chi non si è pulita prima di andare a letto, i capelli biondi all’insù
e scomposti, il corpo snello con sotto gli occhi delle borse che, nonostante fosse giovane, la
facevano sembrare un minatore appena uscito dalla miniera; senza età.
«Maria» disse Ettore verso la donna «questi sono due miei amici e si fermeranno qui da
noi qualche giorno. Va bene?».
Parlò in un modo strano, sembrava fosse un ordine più che una domanda.
«Va bene Ettore, se lo dici tu.» Poi aggiunse: «Per dormire si possono accomodare nella
stanza di là. I materassi ci sono e così le coperte».
Quindi, senza aggiungere altro, si diresse in fondo al corridoio, verso la cucina.
«Maria!» urlò Ettore, «ci sono due miei amici e tu te ne vai senza presentarti?».
Lei si fermò, tirò una grande boccata dalla sigaretta, poi, girandosi lentamente, disse: «Scusami Ettore, è che stanotte ho lavorato tanto e sono stanchissima. Adesso vi preparo subito
un caffè. Comunque piacere». Lo disse come una cantilena smorta.
Ci sedemmo in cucina e, dopo averci portato il caffè, Maria scomparve.
«Ma lo sai» disse Ettore rivolto a mio fratello, «ma lo sai che tante volte mi viene voglia di
riempirla di botte? Lo sai che tante volte non le va neanche d’andare a lavorare?».
«Eh! Caro amico mio, con le donne ci vuole pazienza. Che ci vuoi fare?» lo assecondò
mio fratello.
«Vabbè» assentì Ettore, «però adesso andiamo a mangiare perché tra un paio d’ore la devo
portare a lavorare».
Poi rivolto verso una porta continuò: «Maria noi andiamo a mangiare, vuoi che ti porti
qualcosa?».
«No! Ho un panino nel frigo, mangerò quello. Andate pure.».
«Va bene! Allora tra un paio d’ore ti vengo a prendere. Mi raccomando fatti trovare
pronta e bella. Okay?».
Dall’altra parte della porta si sentì un “vabbè” sussurrato.
Dopo che mio fratello ebbe detto che avevamo già mangiato, Ettore decise di andare di
nuovo nella sala biliardi dove un’ora prima ci eravamo intossicati.
Parcheggiò l’auto ed entrammo.
«Ettore te la fai una partitella a carambola?» urlò un giovane dall’altra parte della sala.
«Va bene, però ci giochiamo diecimila lire a partita. Ok?» rispose lui avvicinandosi a un
biliardo libero.
«Va bene!»
«Sapete giocare voi?» fece Ettore nella nostra direzione.
«Ma che ti sei dimenticato che al riformatorio non ci sono biliardi?» disse mio fratello.
«Ah già, è vero. Ma che volevi anche il biliardo in galera?» e giù una risata catastrofica.
A me personalmente quell’Ettore dava fastidio. Era un tipo troppo sicuro di sé, rideva
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troppo facilmente, era irritante il suo modo di comportarsi da padrone in ogni situazione.
Era troppo… uno di quei tipi che non hanno il minimo senso della misura e rispetto per il
prossimo.
«Sedetevi qui e bevetevi qualcosa perché tra un paio d’ore abbiamo finito e… vinco io»
disse rivolgendosi verso di noi facendoci l’occhiolino da furbo e... giù un’altra risata
sguaiata.
Poi girandosi verso l’uomo che asciugava bicchieri dietro il bar, il quale si trovava in fondo alla sala, urlò «Domenico dai da bere a questi due miei amici che dopo pago io!».
La partita durò effettivamente più o meno due ore come aveva detto, e la vinse anche.
Prese i soldi che erano buttati sul biliardo, guardò il suo avversario e sbottò: «Domani ti
do la rivincita» E ancora l’odiata risata.
Pagò le bibite e ci ritrovammo in giro per Roma sulla sua fiammante spider. Via Nazionale, Colosseo, via dei Fori, via del Corso, piazza del Popolo e poi a ritroso verso via Cavour fino a fermarci sotto casa sua, comunque obbligatoriamente sul divieto di sosta.
«Allora Maria, sei pronta?» chiese canticchiando a voce alta, quando fummo dentro
l’appartamento.
«Eccomi!».
Da una stanza uscì la donna che avevamo conosciuto qualche ora prima.
Era bellissima adesso. Attorno ai trent’anni. I biondi capelli sciolti fin su le spalle, il trucco
marcato come volesse dire a chiunque: “Guardate, mi sono truccata per voi”.
La maglietta super attillata e la gonna cortissima e tacchi a spillo, la facevano sembrare veramente ciò che avrei scoperto in seguito: una prostituta d’alto bordo.
L’unica cosa che stonava in tutto quell’insieme erano i suoi occhi; trasparenti come spiagge coralline di mari esotici e di un blu più blu del cielo d’estate illuminato dal sole, però,
con un pochino d’attenzione, vi si poteva leggere una tristezza immensa come l’oceano.
Qualcosa non andava d’accordo tra quel corpo meccanico e quegli occhi tristi.
La spider si avviò sgommando in direzione di via Veneto.
Appena giunti a piazza Barberini Ettore si fermò davanti la farmacia, quindi scendendo
disse: «Aspettate un minuto che torno subito».
Dopo un paio di minuti ritornò e sedendosi a fianco della donna, le porse una piccola busta.
«Ecco i preservativi, sono dieci e stasera li devi finire tutti perché domani devo pagare
un’altra rata della macchina. Va bene amore?».
Maria li prese mettendoli nella borsetta, poi con uno sguardo di commiserazione rivolto a
Ettore, aprì la portiera della macchina e si allontanò dicendo: «Stasera salgo a piedi, stanotte
vienimi a prendere verso le quattro». Sbatté la portiera e s’incamminò in salita verso via
Veneto.
Ettore ci guardò, quindi come per scusarsi balbettò: «Fa sempre così, ma adesso vi faccio
vedere io».
Scavalcando l’auto come fa il cowboy col cavallo, rincorse la donna.
«Maria! Maria!».
Lei si fermò senza girarsi, mentre lui, ormai vicino, gli si parò davanti, la prese per le
spalle, la guardò fissa negli occhi e iniziò quel discorso che credo gli facesse ogni sera.
«Dai micetta mia, lo sai che ti voglio bene e se non pago la macchina me la tolgono. Dai
non fare così, eh?».
Lei impassibile non diceva nulla, lo fissava soltanto, al che lui le fece una carezza sulle
guance, le diede un bacio non corrisposto sulle labbra, e la lasciò dicendo: «Dai che domani
ti faccio un bel regalo. Dai micetta bella, adesso vai a lavorare e fai la brava, okay? Ti vengo
a prendere verso le quattro. Ciao!».
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La lasciò che aveva ripreso a camminare verso la via del suo lavoro; via Veneto angolo via
Bissolati.
Risalì in macchina e con una sgommata partì a tutta velocità su via Barberini. Mentre guidava cantava a squarciagola: “Quanto sei bella Romaaaaaa”.
«Avete visto come si fa con le donne?» disse interrompendo la canzone. «Bisogna saperci
fare, altrimenti fanno come vogliono loro. Mica la posso sempre menare, e poi mica la posso mandare a lavorare piena di lividi. Oh no?».
Ettore cercava consenso alle sue parole.
«Essì! Hai proprio ragione» lo assecondò mio fratello.
Io me ne stavo in silenzio.
«Adesso andremo a Centocelle dove ci sono altri amici miei. E c’è anche una trattoria dove si mangia ch’è una favola».
Prese di corsa la via Prenestina arrivando in un lampo a piazza dei Mirti.
Era la piazza che avevo ammirato, guardando dal telone bucato del camion dei trasporti,
molto tempo prima.
Con noncuranza fermò la macchina quasi sui binari del tram e scendemmo.
Molti altri ragazzi erano sparsi lì attorno, alcuni erano a gruppetti; chi era seduto nell’auto
con gli sportelli aperti ascoltando musica a tutto volume, chi giocava a garaghé , un gioco
che si faceva lanciando in aria due monetine per riuscire a riprendere due teste o due croci.
Tra tutti i ragazzi ce n’era uno particolarissimo; aveva pochi capelli in testa, era rotondetto
e super elegante. Indossava mocassini estivi marroni senza calzini, pantaloni blu notte a
zampa d’elefante e camicia bianca sbottonata. Sul petto si intravedeva una pesantissima
capezza (grande catena d’oro) con un grande crocifisso a mo’ di ciondolo. Ballava al suono
della musica e tanti altri, come lui, tutt’attorno lo incitavano.
Tutti, indistintamente, erano vestiti alla moda. Capelli freschi di barbiere, capezze al collo,
orologi di marca al polso e soldi nelle tasche. E poi c’erano le loro auto; Maserati, Porsche,
Ferrari, Lancia, Alfa Romeo e Fiat. Erano tutte sparpagliate nella piazza in modo disordinato, dove capitava, non si vedeva l’ombra di un vigile o di un poliziotto.
Anche il trenino spesso faticava a passare, ma il conduttore, con un po’ di pazienza e una
piccola squillata, aspettava che i ragazzi mettessero in moto spostando le macchine dai binari.
Ettore si mise a parlare insieme a due tipi come lui. Usavano termini come ricotta (il ricavato dallo sfruttamento di una donna), mecca o skaja (prostituta). Parlavano di corse di auto
sullo “stradone” (via Palmiro Togliatti, la via disastrata che collegava Centocelle a Quarticciolo negli anni ’70).
Nel frattempo mio fratello aveva raggiunto altri ex compagni di riformatorio.
Io ero rimasto in auto, quando all’improvviso si avvicinò una fiat 500 bianca con dentro
un uomo di bella presenza, capelli sale e pepe, ben pettinato.
«Ciao!» mi disse «Chi sei tu? Come ti chiami?».
Risposi che ero un amico di Ettore e fratello di Gianni.
«Ah!» fece. «Io mi chiamo Claudio».
Dopo un paio di minuti passati in silenzio scrutandoci a vicenda, disse: «Ciao me ne vado».
Mentre partiva notai che nella sua auto, sovrapposto al normale volante, ce n’era un altro
piccolino e metallico che lui strinse con le mani prima di mettere la marcia, dopodiché,
lasciandolo, partì anche lui sgommando. La voce improvvisa di Ettore mi impedì di guardare l’auto con il suo strano autista che si allontanava.
«Andiamo a mangiare che stasera pago io» disse ancora con quella sua tipica spavalderia.
Entrammo nella trattoria che era vicino alla tintoria e ci sedemmo a un tavolo. Eravamo
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in sei: io, mio fratello, Ettore, il Barone (il primo ballerino della piazza e il più elegante),
Tiberio e er Pancho.
Dopo due minuti si aggregò, ospite indesiderato ma sopportato, Luciano er Capoccione.
Parlavano di donne, auto, sòle (truffe, imbrogli) e rapine.
Io pensavo soltanto a mangiare, non è che mi interessassero tanto il loro discorsi.
Fu stappata qualche bottiglia di vino e probabilmente le risate di Ettore si sentirono per
tutta la piazza.
Fuori molti continuavano a giocare a garaghé, mentre altri ballavano al suono dei Santana.
Però che bella vita facevano. Un po’ li invidiavo.
Finita la cena Ettore chiamò il proprietario.
«Sor Guido, fatemi il conto per favore».
Dopo aver pagato si rivolse ai suoi compagni dando appuntamento al Kinky, un night
club, ritrovo di papponi e affini, in via Palermo, una via vicino al Ministero degli Interni.
Usciti dal ristorante salutammo tutti e via di nuovo sgommando verso il centro.
Arrivati a casa sua, come al solito, parcheggiò la macchina in divieto di sosta e salimmo su
nell’appartamento.
«Senti Gianni» disse rivolto a mio fratello «Adesso ti do dei vestiti miei così ti fai bello che
poi andiamo insieme al night».
«E lui?» fece Gianni indicando me.
«Beh! Gli do i soldi per il cinema così si diverte anche lui».
Quindi tirando fuori cinquemila lire me le sventolò sotto il naso ma, nel momento in cui
tentai di afferrarle, spostò la mano dall’altro lato. Il gioco, bontà sua, durò meno di un minuto, poi con un dribbling di testa e di mano, le presi e le misi in tasca. La sua divertita e
antipatica risata non influenzò più di tanto mio fratello.
«Però furbo il ragazzino.» E giù di nuovo a ridere.
“Madonna mia che antipatico ‘sto Ettore”.
«E certo che è furbo. È mio fratello» disse Gianni.
Sedendomi sul divano, accesi la televisione, mentre loro due erano spariti in camera da
letto.
Dopo pochi minuti ritornarono. Mio fratello, la cui faccia era divenuta come il sole
d’agosto, si mise in mostra davanti a me.
«Eh! Ti piace?» disse pavoneggiandosi come una modella.
Era vestito proprio bene: giacca e pantaloni grigi, camicia nera aperta sul petto, mocassini
anch’essi neri e al polso un orologio.
«Sei proprio fico così. Lo sai?» esclamò Ettore.
Mio fratello era radioso, sembrava un pavone in tempo d’amore.
«Occhei! Adesso andiamo e a te lascio le mie chiavi così puoi ritornare quando vuoi. Va
bene? Noi ritorniamo con Maria. E se hai fame guarda nel frigo».
«Va bene. Non vi preoccupate per me» ribattei con un’alzata di spalle.
Mio fratello mi fece l’occhiolino accompagnato da un sorriso smagliante e seguì il suo
amico fuori. Ora ero solo, non c’erano risate fastidiose e nemmeno sgommate d’auto.
Avrei potuto riflettere sul da farsi e pentirmi di non essere rimasto a Como.
Decisi comunque di soddisfare innanzi tutto la mia curiosità. Iniziai a gironzolare per
l’appartamento. La cucina era pulita e nel frigo c’era un po’ di formaggio e del salame.
La camera da letto era in disordine e sfatta. Vestiti buttati alla rinfusa, scarpe femminili di
tutte le fogge con tacchi e trampoli giganteschi. Reggiseni appesi alle spalliere del letto, su
una sedia mutandine talmente piccole che parevano lacci da scarpe, e poi rossetti aperti e
chiusi sul comò, profumi di vario genere e, sopra due bolle di plastica, un paio di parrucche;
una rossa e una mora con capelli corti a caschetto. Si notava benissimo che nessuno mette143
va mai in ordine in quella casa.
Il bagno si trovava in fondo al corridoio, aprii la porta e vidi che anche lì c’era disordine
tra shampoo, saponette, bagno schiuma, lacche per capelli, ciabatte e asciugamani, comunque non era sporco. La voglia di farmi una doccia ebbe il sopravvento. Mi spogliai, riempii
un secchio di acqua calda e detersivo, ci immersi la canottiera, la camicia e i pantaloni, dopodiché lavai nel lavandino le mutande e i calzini, poi iniziai a lavare la biancheria nel secchio tirandola fuori e poi di nuovo dentro, fuori e dentro, finché non fu pulita. La strizzai il
più possibile e la misi sul termosifone, chiusi tutti gli altri e accesi il riscaldamento, in
un’oretta sarebbe asciugata e se avessi avuto tempo l’avrei anche stirata. Mi sbarbai (quattro
peli sotto il mento) con l’occorrente trovato lì e via sotto la doccia a pensare sul da farsi.
L’acqua scendeva tiepida ed era fantastico sentirla scorrere dalla testa ai piedi. Lo shampoo era profumatissimo e così il bagnoschiuma. Finita la doccia, dopo circa mezza ora che
ero sotto l’acqua a godermi quel senso di pulizia, mi asciugai, poi m’infilai le mutande e i
calzini ormai asciutti e, in attesa che anche l’altra biancheria fosse pronta, andai in cucina a
farmi un panino “grosso così” con tutto ciò che trovai in frigo, due fette di salame e una di
formaggio. Poi con l’accappatoio di Maria addosso (non so perché, ma non volli assolutamente usare quello di Ettore) il panino e una Coca Cola, mi misi sul divano a guardare la
televisione.
Si stava bene su quel divano; la pancia era piena, la cola finita, l’accappatoio mi copriva
riscaldandomi, il programma televisivo era molto noioso e il sonno arrivava lento. Lento
ma inesorabile.
Ettore
Giravo per Quarticciolo con una grande macchina. Avevo al polso un orologio d’oro e un
anello al dito. La “Sora Assunta” seduta su una sedia andava su e giù nell’aria come un
ascensore, lanciando caramelle. Riccardo “er negretto” era rannicchiato in un angolo come
se avesse freddo, coperto da migliaia di carte da gioco, i suoi occhi mi fissavano tristi. Seduti sul muretto delle scale, mia sorella e suo marito contavano soldi, tanti soldi, mentre
mia madre, dalla loggetta, sorridendo, diceva a ripetizione: «La pasta asciutta è pronta! La
pasta asciutta è pronta! La pasta asciutta è pronta! La pasta asciutta...».
Fui svegliato all’improvviso da rumori, voci concitate e urla.
«E a te, brutta troia, adesso ti faccio vedere io!».
Neanche feci in tempo a rendermi conto di ciò che stava accadendo, che sentii mio fratello dire: «Ernesto, svegliati e vai di corsa nell’altra stanza e restaci, che io arrivo subito!».
Lo feci lentamente ancora mezzo assonnato. Chiusa la porta alle mie spalle ci appoggiai
l’orecchio e capii il perché di quella baraonda.
«Come faccio domani a pagare la rata della macchina, me lo vuoi dire?».
«Ma non ho potuto lavorare bene perché c’è stata sempre la polizia in giro!».
«Ma brutta disgraziata non potevi cambiare posto?».
«Ma come facevo? Dove sarei potuto andare?».
Poi si sentirono chiaramente rumori di schiaffi e altro, la voce piagnucolante di Maria e le
implorazioni di mio fratello.
«Dai Ettore, non fare così che la stai ammaccando tutta!».
«Le devo spaccare le ossa a questa stronza perché non è la prima volta che non guadagna
come si deve. Io ho anche altre spese!».
Poi rivolgendosi di nuovo a quella povera crista, continuò «Eh!? Che devo fa io per farti
stare bene, Eh? Me lo vuoi dire? Devo per caso andare a fare il manovale!?».
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Si sentì ancora un tonfo sordo e di nuovo la voce di mio fratello «No! Ettore non darle
calci ai fianchi che così l’ammazzi!».
Le urla di lei si fecero più acute.
Nell’attimo in cui si sentì l’ultima parola detta da Ettore, “stronza!”, iniziò a squillare il
campanello dell’ingresso.
«Aprite! Aprite! Polizia!!».
Tutti nell’appartamento tacquero. Ora i miei sguardi si incrociavano con quelli di mio
fratello, mentre Ettore, puntando il dito e facendo la faccia da duro, indirizzando minacce
alla sua donna, diceva: «Se mi denunci o dici qualcosa contro di me, ti faccio a pezzi, nonostante sai che ti voglio bene!».
Il suo sguardo era cattivo, ma aveva nel suo insieme un che di miserevole, una sorta di
supplica verso Maria l’ingenua.
Fece un cenno a mio fratello che andò ad aprire la porta.
Tre poliziotti di cui due in divisa erano in attesa di avere spiegazioni.
«Abbiamo ricevuto una telefonata in cui si diceva che come tutte le sere qui si bisticcia e
una donna viene picchiata. Quindi vi prego di farci entrare».
«Ma s’accomodi Marescià» fece Ettore ossequioso. «Prego Marescià» con la mano indicò il
sofà.
«Un caffè? Una bibita? Marescià?».
«Lo sai benissimo Alfano che in servizio non beviamo neanche un bicchiere d’acqua, e
ora voglio sapere perché l’inquilina di sopra ci ha telefonato».
Dopo essersi accomodato, rifece la domanda «Allora Alfano cosa è accaduto questa volta?»
«Niente Marescià, è solo che stiamo passando un momento di crisi. Succede a tutti, no?»
«Un momento di crisi tu?» rise il maresciallo. «Le crisi tu le fai venire agli altri. Comunque,
Alfano se sentirò ancora dei lamenti nei tuoi confronti da parti dei vicini di casa, la prossima volta ti arresto, capito?» la sua voce era decisa e ferma.
«Sì, Sì! Marescià, ho capito».
Si alzò e prima di arrivare alla porta con gli altri due agenti, si girò e rivolto a Ettore,
puntandogli l’indice, lo apostrofò guardandolo con gli occhi di chi sa molte cose.
«A proposito di arresto, lo sai che abbiamo arrestato il vigile di zona per corruzione? Sì
Alfano, quel vigile che veniva pagato dai negozianti e dagli abitanti della zona per poter
parcheggiare dove non è permesso. Tu per caso lo conosci?».
«Signor maresciallo, io ho sempre parcheggiato fuori zona e non conosco nessun vigile».
«Certo! Sicuro! e di chi è quella macchina sulle strisce pedonali?» fece sarcastico l’agente.
«Però stai attento che se il vigile farà, e li farà, i nomi di chi lo ha pagato, saranno guai per
tutti, te incluso. E adesso vai a spostare la tua macchina».
Senza profferire altro uscì dall'appartamento seguito dai due agenti.
Il resto fu talmente improvviso e drammatico che non l’avrei mai dimenticato.
La porta non si era ancora chiusa dietro le spalle degli agenti, che si vide Maria, senza
scarpe, piena di lividi e sangue attorno le labbra, correre dalla camera da letto fino la porta
d’ingresso urlando come una disperata «Maresciallo! Maresciallo! Aiuto! Aiutooo!».
Ce la vedemmo passare davanti come un fulmine e scomparire sul pianerottolo dove erano fermi gli agenti. In un attimo Ettore finì nel bagno e ci si chiuse dentro. Il maresciallo
con un agente entrò di corsa e dopo che avemmo risposto alla sua domanda dove si fosse
nascosto Ettore, si precipitarono in quella direzione.
«Alfano non fare lo stupido. Apri subito la porta. Non rendere le cose più difficili!»
«Se non ve ne andate mi butto giù dalla finestra. Stavolta lo faccio sul serio Marescià!».
Io e mio fratello eravamo rimasti bloccati da quella improvvisa situazione. Sembrava la
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scena di un film.
«Agente Carpuso sfondi la porta e lei chiami i pompieri, un’ambulanza e rinforzi».
«Signorsì, Signor maresciallo».
Tra spallate alla porta, telefonate, ingiunzioni di uscire dal bagno e “la devi finire con la
solita manfrina del suicidio”, molta gente si era riunita sul pianerottolo sbirciando da dietro
la porta rimasta socchiusa.
Da lontano si sentivano le sirene, mentre l’agente Carpuso provava a buttare giù la porta
del bagno che era così massiccia che ogni spallata del povero agente era un urlo di dolore.
«Dai Alfano non fare così che la situazione non poi è tanto grave. Dai esci!».
«No! Marescià non esco. In galera non ci voglio andare, piuttosto mi ammazzo!».
Certo le urla di Ettore ora si potevano udire in tutto il circondario. Adesso le sirene erano
più vicine e noi dalla finestra vedevamo in strada macchine della polizia e un’ambulanza
che nel frattempo stava caricando Maria.
«Allora Alfano esci o no?».
Il maresciallo parlava da esperto sapendo che in questi casi bisogna agire sempre con
calma e tranquillità.
L’agente che aveva preso a spallate la porta del bagno, senza riuscire a combinare nulla, si
stava massaggiando la spalla dolorante. Noi in un angolo vedemmo entrare i pompieri con
una grossa ascia in mano dirigendosi nel luogo dove era rinchiuso Ettore. Dopo tre o
quattro colpi d’ascia, la porta si spaccò in due e il maresciallo con un altro pompiere entrarono, Ettore non c’era.
Il bagno era vuoto e la finestra spalancata. Ettore comminava sul cornicione, dando
l’impressione di cadere da un momento all’altro.
«Senti ora la stai facendo proprio grossa, Alfano» disse il maresciallo.
«No, Marescià! Non mi prenderete perché in galera non ci voglio andare».
Questa della galera sembrava una cantilena.
«Alfano, per l’ultima volta, torna indietro. Ma non lo vedi che stai aggravando ancor di
più la tua situazione? Non vedi che giù c’è anche il Questore? È venuto apposta per tutto il
casino che stai facendo!».
Si sentì un urlo improvviso e la voce del Maresciallo gridare: «Oh mio Dio! Oh mio Dio!».
Poi un tonfo sordo giù in strada. Qualcuno urlava e la polizia teneva a distanza i curiosi.
Ettore era scivolato (?) dalla balaustra e era finito spiaccicato su una macchina in sosta.
Ma non era morto.
In punta di piedi sgattaiolammo da quella confusione e appena girato l’angolo del palazzo
iniziammo a correre a più non posso.
Mio fratello, come me, aveva ancora qualche soldo in tasca, quindi alla Stazione Termini
prendemmo il 12 che portava a Centocelle.
Arrivati ci dirigemmo verso il nuovo complesso Ristorante Bar Gregorio & Fiorucci. Lì
mio fratello avrebbe trovato i suoi amici che, in un modo o nell’altro, ci avrebbero ospitato
per un po’ di tempo.
Alberto era il più figo, vestito bene e un pochino malandrino. Aveva una spider 1600 Alfa
Romeo decappottabile. Era elegante e sempre con i soldi in tasca, suo padre era proprietario di due negozi di calzature. Poi c’erano altri gruppi di ragazzi, anche loro ben vestiti e
curati e altre macchine parcheggiate in disordine, sicuramente di loro proprietà. Quando
videro mio fratello tutti gli si avvicinarono per salutarlo. Chi ci offrì un caffè, chi un aperitivo.
Il tempo passò nel raccontare la disgrazia di Ettore.
Ognuno diceva la sua. «Se ero io mi facevo arrestare».
«Io invece neanche l’avrei picchiata. Mica so’ scemo a sputare nel piatto in cui mangio!».
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Un altro diceva che aveva fatto bene a buttarsi giù dal palazzo, mentre un altro ancora ribadiva che alla propria mecca si deve applicare la legge della “carota e bastone”.
Altri invece dicevano che per Maria era finita la cuccagna, che sicuramente nessuno
l’avrebbe più lasciata “lavorare” a Roma, etc. etc. etc.
Parlavano come se la cosa in un “certo ambiente” fosse sì grave, ma non tanto da farne
una tragedia. Il ragionamento di alcuni di loro era che in un paio di giorni tutto sarebbe
stato dimenticato.
Restammo davanti a quel Supermercato, oziando, fumando e guardando la gente che passava.
Arrivò sera e tutto finì a casa di Occhialino, che viveva solo, e dove io dormii su un materasso in terra, mio fratello in un letto pieghevole.
Il mattino seguente, dopo esserci lavati, scendemmo in strada con Occhialino e, come
fosse il posto di lavoro, ci ritrovammo di nuovo davanti a Gregorio & Fiorucci.
Uno dei ragazzi del giorno prima già era lì a fumare e leggere un quotidiano. Non appena
ci vide, con fare sospettoso, ci chiamò mostrandoci il giornale. Il titolo in prima pagina
diceva “Una vecchia conoscenza della polizia tenta di suicidarsi lanciandosi dal quarto piano dopo che la sua compagna lo ha denunciato per sfruttamento della prostituzione. Si
cercano due complici in quanto implicati nel pestaggio e nello sfruttamento della donna”.
Io ingenuamente chiesi «E chi saranno i due complici?».
Tutti si girarono verso me come se avessi detto la più grande scemenza del mondo.
«Come chi sono i due complici?» fece mio fratello «Siamo noi. Noi eravamo a casa di Ettore!».
«E allora? Non abbiamo fatto nulla di male!» ribattei.
«Sì, ma la polizia questo non lo sa e quindi adesso siamo ricercati! Però non hanno le nostre foto e quindi è difficile che ci prendano. Comunque dobbiamo cambiare zona».
«E dove andiamo?» chiesi.
«Non lo so, però qualcosa dobbiamo fare!».
Occhialino iniziò a grattarsi il mento, poi chiamò mio fratello in disparte mettendosi a
confabulare.
Dopo alcuni istanti mio fratello mi si avvicinò e fissandomi disse: «Senti, Occhialino mi
ha detto che non può più ospitarci insieme quindi ho un’idea».
«E quale?» feci senza preoccuparmi.
«Penso che la miglior cosa è che tu te ne torni a Como da tua sorella e ti rimetti a lavorare. Insieme non possiamo più stare».
«A Como?» esclamai, pensando alla brutta figura che avevo fatto fare a mia sorella. E poi
in fabbrica non mi avrebbero più preso.
«Lo sai che faccio?» dissi «Me ne andrò a Milano e cercherò lavoro lì, però non ho quasi
più una lira e chissà quanto costa il treno».
«Per questo non ti devi preoccupare. Mi farò prestare dei soldi da Occhialino così potrai
pagare il biglietto e mangiare qualcosa durante il viaggio. Va bene?»
«Per me va bene» borbottai con un’alzata di spalle.
Milano '68
Mi ritrovai sul tram che andava alla Stazione Termini. Seduto vicino al finestrino vedevo
che altri ragazzi si erano uniti al mucchietto davanti al bar. Li osservavo, mentre il tram si
allontanava, sperando in un saluto da qualcuno di loro o perlomeno da mio fratello. Macché! Erano lì, attorno alle macchine parcheggiate, a pavoneggiarsi nei loro vestiti super sti147
rati sotto i raggi caldi del sole. Ero stato come un’invisibile meteora. Una meteora talmente
insignificante che avrebbe fatto passare la voglia di esprimere un desiderio anche agli innamorati.
La Stazione Termini, si sa, è sempre stata (perlomeno era) un’isola felice dove gli
“abitanti” andavano sempre d’accordo.
Stranieri non ce n’erano, gli unici inquilini di quell’isola erano cinque o sei barboni (qualcuno lo avevo conosciuto tempo prima) che dormivano nei depositi sotterranei o nelle sale
d’aspetto. Durante il giorno scomparivano, quindi era raro vedere nullafacenti. Stavo guardando il cartellone degli orari dei treni con il panino in mano che avevo appena comperato
quando mi ricordai che dovevo correre in biglietteria.
La fila era lunga e l’uomo di turno allo sportello cercava di spiegare a voce chiara al cliente
che per andare alla Cecchignola non c’era bisogno di prendere il treno, ma bensì si doveva
recare giù la scalinata dove c’era scritto Metropolitana. L’altro insisteva a dire che non voleva prendere la metropolitana ma il treno per la Puglia. Sicuramente il bigliettaio era un pochino sordo e il pugliese un po’ troppo pugliese, perché all’improvviso si sentì la voce di un
tizio che disse: «A biglietta’, nu’ lo capisci che quer disgraziato deve anda’ a Cerignola in
provincia de Foggia e no alla Cecchignola? Ma che je voi fa fa’ er militare n’altra volta
all’età sua?».
La sua risata, seguita da quelle degli altri, si alzò alta. Anche qualche donna rise sboccatamente. Il bigliettaio guardò il povero pugliese, allungò il collo fuori dallo sportello, fissò gli
occhi del cretino che ancora sghignazzava, rialzò lo sguardo sul pugliese e, con tanta pazienza, chiese: «Cerignola eh!? Solo andata?».
Il pugliese, per non fare altre brutte figure, fece un cenno di sì con la testa. Prese il biglietto dirigendosi verso il binario indicatogli dal bigliettaio. Passando vicino al tizio che
aveva riso poco prima, posò la valigia che doveva essere pesantissima, e lo apostrofò «Io
sarò nu puglies’ che parl in dialett, ma anche voi, come romene, non è che parlet bene
l’italiene!».
Con molto orgoglio riprese il suo pesante bagaglio e fissò dritto negli occhi il cretino, che
rimasto spiazzato da quella reazione e si diresse al binario 11.
Finalmente venne il mio turno. Pagai il biglietto per Milano e mi rimase ancora qualche
lira per comperarmi qualcosa da mangiare.
Il chiosco ambulante vendeva molti panini imbottiti. Ne scelsi uno con la mortadella che
“sembrava” essere veramente imbottito e, dopo averlo pagato, mi misi a guardare gli orari.
Già al primo morso un piccolo allarme mi risuonò tra i denti. Aprii il panino e, con mia
grande sorpresa, vidi che all’interno c’era soltanto pane. Della mortadella neanche l’ombra.
Era stata messa solo tra i due bordi, ma non all’interno. Ritornai dall’ambulante e gli spiegai
la cosa. Questi prese il panino, lo aprì, si guardò a destra e sinistra, come volesse assicurarsi
che non ci fosse nessuno nelle vicinanze poi, con prepotenza, mi sbottò in faccia: «Aoh!
Ma che voi co’ cento lire? Che te ce metto anche un chilo de mortadella dentro er panino!?
Per favore famme lavora’ in pace se no mi incazzo pure. Vabbé?».
E andai a guardare l’orario dei treni.
Il treno sarebbe partito dopo mezz’ora, quindi mi diressi nella sala d’aspetto di seconda
classe sedendomi nell’angolo vicino al termosifone, dove qualche tempo prima avevamo
passato la notte io e mio fratello. Dall’altra parte della sala, un giovane, più o meno della
mia stessa età, stava leggendo il quotidiano il Giorno. Pensai quindi che dovesse andare a
Milano anche lui, perché il Giorno è un giornale milanese. Mi alzai andandomi a sedere al
suo fianco.
«Ciao» dissi «che vai anche tu a Milano?».
148
L’altro mi guardò curioso «Sì! Vado a Milano per lavoro. E tu?».
«Anch’io ci vado per lavoro e speriamo che lo trovi».
«Ma è facile!» esclamò «Guarda questo annuncio».
Mettendomi sotto il naso il quotidiano lesse sottolineando con il dito: “Cercasi operai generici per lavori manuali in fiere, esposizioni e nei padiglioni Fiera. Paga giornaliera.” C’era
indicato l’indirizzo.
«Ma allora è tutto risolto!» feci quasi con felicità.
«Certo!» disse il mio nuovo amico. «Quando saremo arrivati verrai con me e andremo direttamente a questo indirizzo. Vedrai che il giorno dopo siamo a lavorare».
Già trovare qualcuno con cui stare, un compagno d’avventura, mi dava tranquillità.
Il treno partì in orario. Durante il tragitto ci raccontammo un po’ della nostra vita.
Si chiamava Franco. La sua famiglia abitava a Primavalle. Il papà era morto e la mamma
pensionata. Aveva 20 anni e la licenza media.
A Roma non si trovava lavoro e se lo si trovava era sempre in nero e pagato male, quindi
dopo aver letto quell’annuncio aveva deciso, in accordo con la mamma, di “salire su”, al
nord. A Milano.
Il viaggio fu relativamente lungo e tranquillo. Ci conoscemmo meglio sorprendendoci che
anche i nostri gusti combaciavano. Ci saremmo cercati una pensione dove dormire e una
trattoria di quelle economiche in cui andare a mangiare con pochi soldi.
Arrivammo alla Stazione Centrale che ormai era buio. L’acqua scendeva giù a catinelle,
comunque la pioggia non ci interessava. Non ci sentivamo più ragazzi di borgata senza
soldi e lavoro, con la fame che ti corre dietro, ma due giovani pronti a ricominciare dopo
essersi lasciati dietro le spalle un mondo di delusioni e fame.
Il problema era anche dove dormire. Ma lui, Franco, conosceva l’indirizzo di una pensione dove c’era sempre posto per tutti; la “Pensione Sommaruga”, vicino piazzale Loreto.
Il mio amico aveva una valigia, io nulla. Uscendo dalla stazione prendemmo il tram che ci
avrebbe portati alla pensione. Fu un tragitto spaesato. Eravamo bagnati, in piedi in fondo al
tram, con gli occhi delle persone sedute puntati su di noi.
Arrivammo in una ventina di minuti. La pioggia continuava a inzupparci mentre cercavamo la via in cui doveva essere la pensione. Gira di qua, gira di là, finalmente la trovammo.
L’ingresso si trovava dietro una siepe tagliata in modo da formare un piccolo arco verde.
Superammo tre scalini e, dopo che la porta fu aperta, ci trovammo in una saletta dove una
signora vecchia e pienotta ci chiese cosa volessimo.
«Signora» iniziò Franco, «siamo appena arrivati da Roma e non sappiamo dove andare a
dormire. Ci hanno detto che da lei c’è sempre posto».
La donna ci squadrò da capo a piedi: «In questa pensione ci sono tre camere con venticinque posti letto e sono tutti occupati quindi non posso fare nulla per voi».
Ci rifece le lastre ancora un momentino, poi con fare furbo e misterioso continuò «però
se mi promettete di pagarmi in anticipo la nottata e di non parlarne con nessuno, avrei due
materassi che potrete mettere in cucina sul pavimento. Va bene?».
«Benissimo» rispose il mio amico.
La cicciona ci portò in una specie di sottoscala dove erano ammucchiati dei materassi. Ci
disse di sceglierne due. Noi, dopo aver preso i più puliti, la seguimmo in quella che doveva
essere la cucina.
Aperta la porta, mettendosi l’indice sulle labbra, la signora disse «fate piano che gli altri
stanno dormendo» quindi accese una tenue luce e ci indicò il pavimento.
«Ecco, dormirete sotto il tavolo. Per lavarvi vi toccherà il turno» disse indicando il lavello
posto vicino ai fornelli del gas.
La cucina più che altro sembrava un dormitorio; era piena zeppa di letti e materassi in ter149
ra occupati da altri disgraziati come noi. La puzza, mischiata a quella degli avanzi di cibo,
era forte e così il russare di quei corpi ammucchiati, ognuno con a fianco il proprio bagaglio. Dormivano tutti vestiti. Alcuni addirittura con le scarpe ancora ai piedi. Anche volendo, non si poteva assolutamente camminare. Sembrava l’inferno dantesco. Bisognava stare
attenti a non calpestare le mani o la testa di qualcuno.
Posammo i nostri bagagli sul pavimento, tra i fornelli e il tavolo da pranzo, (anch’esso occupato con sopra un materasso e un dormiente) e seguimmo la vecchiarda per regolare i
conti.
«Allora» iniziò la cicciona appena fummo usciti dal dormitorio-rifugio-cucina-bagnocampo di battaglia, «siete in due e a 350 lire a persona fa 700 lire, se poi volete riservare il
posto anche per domani, mi dovete lasciare una caparra».
Rimase a mano tesa aspettando soldi e una risposta.
Con sapienza Franco tirò fuori i soldi soltanto per quella notte dicendole che per il domani ci avremmo pensato su. La cicciona prese il danaro e prima di scomparire disse ancora:
«Se dovete andare al gabinetto, si trova vicino dove avete preso i materassi. Tirate l’acqua
soltanto se dovete fare di “grosso”, per pulirvi usate i giornali attaccati al chiodo, comunque non sporcate e non fate chiasso che non voglio disturbare i miei clienti».
Poi, mentre si girava, bisbigliò con voce roca: «Ah! Mi dimenticavo. La mattina chi si alza
per primo ha la possibilità di non dover fare la fila per lavarsi, e poi state attenti voi due
che, giacché dormite vicino al lavandino potreste essere calpestati, quindi alzatevi prima di
tutti e in special modo alzatevi prima di Salvatore, che è mio cliente da tre anni. Lui si alza
alle sei perché inizia a lavorare alle sette, in tutti i modi alle otto tutti fuori. Buonanotte».
La vecchiarda cicciona scomparve lasciandoci a bocca aperta.
Io e il mio amico ci guardammo perplessi, quindi Franco disse: «Lo sai cosa facciamo? Ce
ne andiamo a dormire, poi domani mattina ci alziamo prestissimo e per domani sera un
altro posto migliore lo troveremo senz’altro».
Piano piano rientrammo nel rifugio alluvionati e, facendo attenzione agli ospiti, ci
sdraiammo sui nostri materassi coprendoci con coperte usurate e polverose.
Gli abitanti di Milano si chiamano Terroni
Lo scorrere dell’acqua nel lavandino, i colpi di tosse, il rumore di chi si sta soffiando il naso, ci svegliarono. La luce dell’alba entrava dalla finestra iniziando a dare la sveglia anche
agli altri. Salvatore, il vecchio e fedele cliente della cicciona, si stava lavando facendo dei
rumori assurdi; insaponatura fin sopra i capelli, risciacquo anche nelle orecchie, tirata di
naso a ripetizione nel lavandino, gorgoglio alle corde vocali, asciugatura dalle ascelle ai piedi, capelli tirati indietro con un pettine sdentato e “Sciuri-sciuri-sciuri di tuttu l’aannuu”
come sottofondo musicale. Da bravi ragazzi ci mettemmo in fila. Eravamo secondo e terzo. Sciuri sciuri si scostò dal lavandino e si diresse verso il suo giaciglio, aprì un cartone,
tirò fuori una moca di color nero (ma le moca non sono di color alluminio?) poi infilò una
mano nella tasca interna della giacca facendo magicamente comparire un sacchettino che
sicuramente conteneva caffè. Riempì d’acqua la macchinetta, la appoggiò sul piccolo ripiano della cucina, ritornò verso lo scatolone, l’aprì di nuovo “et voilà”, tra le mani aveva un
fornellino a gas da campeggio. Oramai Franco aveva finito di lavarsi e, mentre a mia volta
iniziavo l’operazione, nell’asciugarsi gli sentii chiedere: «Scusate, ma sicuramente voi siete il
signor Salvatore…».
Alla risposta affermativa col cenno della testa di quest’ultimo, Franco proseguì «ma per150
ché usate il fornello da campeggio per farvi il caffè e non adoperate la macchina del gas?».
Sciuri sciuri lo guardò con furbizia e con un sorriso selvaggiamente paziente e benevolo
sulle labbra.
«Minchia! Fessi! Pirla!» esclamò in siciliano/italiano/milanese mettendo la macchinetta sul
fornellino e accendendo il gas. «Sono sicuro che tu sei nuovo in questo Hotel a cinque
stelle, perché fino a ieri sera non ti ci ho mai visto, quindi ti dirò il perché. Sono più di tre
anni che dormo qui e sai quanti soldi ho risparambiato accattando questo fornellino?».
Franco lo guardava con interesse misto a stupore.
«Ho risparambiato un sacco di piccioli, perché tu non lo sai, ma se vuoi usare il gas per cucinarti o farti il caffè, prima devi andare dalla signora, pagare cinquanta lire a fornello per
un’ora e poi, se la macchina del gas è libbera, puoi fare i tuoi affari».
Guardandoci tutti e due, Sciuri sciuri continuò: «…ma, dato che ho capito che siete nuovi,
questa mattina il caffè ve lo offro io. Però soltanto questa mattina, siamo intesi? Altrimenti
succede come gli altri che avevano preso l’abitudine di bere il caffè a sbafo».
Il caffè era nero come la moca, più nero dei suoi occhi, baffi e capelli messi assieme, ma
veramente buono.
La cucina/dormitorio/lager si stava svuotando. I materassi venivano ammucchiati in un
angolo. Su un paio di sedie delle valigie vecchie e rotte, attorcigliate da spago e cinghie,
avrebbero aspettato la sera i loro proprietari. Qualcuno aveva pagato il consumo del gas e si
stava scaldando del latte. Tutti, indistintamente, venivano dal sud Italia. Lo si capiva, a
parte la fisionomia, più che altro per l’inflessione dialettale tipica della Puglia, della Sicilia e
della Campania.
Prima di andarsene Sciuri sciuri ci diede ancora un consiglio: «Se avete pochi soldi e volete mangiare bene, andate a via San Maurilio, che è una traversa di via Torino, sulla destra
partendo dal Duomo. Lì c’è un trattoria dove danno primo, secondo, pane e vino al prezzo
fisso di cinquecento lire a persona, comunque quando siete lì, dite al cameriere che è un
mio compaesano di Agrigento, che vi manda Salvatore, in questo modo la porzione ve la
farà più grande».
Si imbrillantinò baffi e capelli e lo vedemmo scomparire fischiettando “O mia bela madunina”.
Quando fummo pronti anche noi, mettemmo i materassi sotto il tavolo.
Franco prese la sua valigia.
Appena usciti da “Villa Sommaruga”, cercammo una cabina telefonica per metterci in
contatto con l’agenzia che aveva messo l’annuncio sul giornale.
Dall’altro capo del telefono ci fu detto quale tram prendere, che in mezz’ora saremmo arrivati alla fiera e che, arrivati li, ci saremmo dovuti recare dove era appena terminata
l’esposizione di Messico ‘68 e chiedere di Nicola il capomastro. Questi ci avrebbe detto
cosa avremmo dovuto fare, quante ore lavorative, per quanto tempo, quando e dove andare
a riscuotere giornalmente la paga.
La giornata iniziava bene. Il sole si era alzato e noi ci avviavamo al lavoro.
Precisamente dopo mezz’ora il conducente ci avvisò che eravamo arrivati in fiera. Scesi
camminammo in direzione del grande cartello con su la scritta “Messico ‘68”.
Molti camion erano messi tutto attorno nel piazzale antistante il padiglione. Tanti uomini
caricavano su di essi ponteggi metallici, grandi laminati plastici e casse. Tutti erano indaffarati meno uno che impartiva ordini controllando il lavoro. Sicuramente era la persona a cui
avremmo dovuto chiedere.
«Il signor Nicola?» chiese Franco.
Questi si girò rispondendo «Sì! Che cosa volete?».
La sua faccia grassoccia e unta di sudore ci mandò una ventata puzzolente di tabacco.
151
«Siamo mandati dall’agenzia per lavorare. Ci hanno detto di rivolgerci a voi».
«Adesso è tardi, il lavoro è già iniziato. Tornate domani mattina alle sette».
«Ma noi non abbiamo una lira neanche per mangiare. Siamo arrivati ieri sera da Roma e
non sappiamo cosa fare!».
La sicurezza, ma anche la supplica, nelle parole di Franco fecero il miracolo.
Il capomastro, dopo averci dato un’occhiata di verifica, si accese una sigaretta.
«Vabbuono. Andate dentro, salite la scalinata e iniziate a smontare sia i ponteggi di metallo sia le costruzioni in legno. Poi mettete tutto bene ammucchiato nel corridoio e continuate con un altro stand. A mezzogiorno fate una pausa di mezz’ora per il pranzo dopodiché riprendete il lavoro fino alle sette».
Neanche avemmo il tempo di girarci che il capomastro ci bloccò: «Ma dove andate così di
corsa?! Ma che volete smontare i ponteggi a mani nude?».
Il suo sorriso non era cattivo.
«Aspettate qui» disse.
Tornò poco dopo con due fogli di carta e degli attrezzi.
«Ecco, questo è il contratto di lavoro. Lavorerete per una settimana a cinquecento lire a
persona al giorno dalle sette del mattino fino alle sette di sera. La paga la dovete andare a
prendere, presentando una copia del contratto che vi darò io, all’indirizzo in fondo alla
pagina e muniti di un documento di identità. Adesso datemi i documenti e firmate qui».
Anche se la paga non era granché, a noi per il momento andava bene.
Gli consegnammo le nostre carte d’identità, firmammo, poi, dandoci chiavi inglesi e martello-cavachiodi, disse che verso il pomeriggio sarebbe ritornato con le copie del contratto e
restituirci i nostri documenti.
Entrammo nel grande edificio. Iniziammo il lavoro di smontaggio nel primo padiglione
dove non si vedeva nessuno. Avevamo già smontato molte impalcature quando il suono di
una sirena ci avvisò dell’avvenuta ora del pranzo.
«Pranzoo! Pranzooooo!» Qualcuno strillava nei corridoi.
Ci guardammo sudati.
«Cosa mangiamo se non abbiamo nulla?» dissi rivolto a Franco.
«Beh! Mangeremo stasera. Adesso andiamoci a fare un giro e vedere cosa c’è qui dentro»
fece lui sconsolato.
Sui muri dei corridoi si potevano vedere manifesti folcloristici del Messico. Cartine geografiche del centro America. Appesi ai soffitti aerei di legno e ancora costruzioni azteche e
maya fatte di cartapesta e gesso, e poi tante altre cose, dipinte con sgargianti colori, un po’
dappertutto.
Molti operai mangiavano seduti sui gradini delle scale di marmo. Grandi pagnotte imbottite e fiaschi di vino accanto. Qualcuno fumava l’ultimo pezzetto di quella che qualche minuto prima doveva essere stata una sigaretta. I polpastrelli delle dita pollice e indice del
fumatore erano giallognole. La cicca, circa mezzo centimetro, era quasi allo stremo della sua
durata eppure quell’uomo non si scottava, continuava ad aspirare come avesse avuto tra le
mani uno Zeppelin cubano.
Il “reparto guastatori” era riunito seduto sui gradini. Mentre mangiava, beveva, fumava,
parlava di soldi, speranze di contratti prolungati, mogli e figli lasciati a Messina, Catania,
Palermo e delle “bottane” milanesi.
Passati in rassegna del battaglione, nel ritornare al nostro stand, ci fermammo un minutino ai bagni per riempirci lo stomaco con una bella bevuta d’acqua.
«Stasera ci rifacciamo del pranzo saltato, andiamo alla trattoria dell’amico di sciuri sciuri»
disse Franco con vigore.
«Sì! Stasera, ma io ho fame adesso!» rimandai sbuffando.
152
«Non pensare alla fame e andiamo a lavorare che il tempo passa in fretta».
«Vabbè!», feci mogio mogio.
E via con buona lena di nuovo al lavoro. Infatti il tempo passò in fretta.
Potevano essere le sei quando il capomastro fece capolino nel secondo padiglione.
Ci guardò con soddisfazione, quindi tirò fuori due fogli dalla tasca della giacca.
«Qui ci sono le copie dei contratti e questi sono i vostri documenti».
Poi si allontanò, ma prima di prendere velocità si girò e rivolgendosi a noi che ancora stavamo leggendo il contratto (comunque senza capirci nulla), ci indirizzò un: «Bravi!».
«Hai visto cosa vuol dire lavorare e non pensare a problemi che non c’entrano nulla col
lavoro?».
«Sì! Ma la fame è parte del lavoro oppure no? Viene prima o dopo il lavoro?» chiesi furbescamente.
«Senti, adesso non fare il filosofo, pensa soltanto che tra un’oretta abbiamo finito e andiamo a riscuotere».
«Occhei».
Le sette arrivarono dopo un paio di tavole schiodate e l’aver smontato qualche ponteggio.
Portammo il tutto dove erano le altre impalcature, mettemmo in ordine le attrezzature, ci
demmo una pulita nei bagni nei quali anche altri operai si stavano lavando e…
«Miiinchia! Chi mi ha rubato il rasoio?!».
L’urlo del siciliano fece tremare i vetri.
«Carmelo» fece un altro operaio, «.il tuo rasoio è qui. È da stamattina che è qui. Ce lo hai
lasciato tu».
“Minchia”, con una alzata di testa, si diresse in direzione dell’uomo che aveva trovato il
rasoio e glielo strappò dalle mani, poi, mettendosi al centro dei bagni e facendo roteare la
lama lucente, annunciò in siciliano: «Questa è la terza volta che mi fate scherzi di minchia.
La prossima volta qualcuno avrà a che fare con me! Fetusi!».
Fece ancora un giro su se stesso con la sua arma volteggiante in aria e si diresse di nuovo
verso il suo lavandino. La pernacchia non si fece attendere, rimbombando per tutta
l’esposizione.
«Miiinchia! Adesso anche le pernacchie fate. Miiinchia!».
Franco mi prese per un braccio tirandomi fuori da lì, mentre dentro si udivano rumori di
vetri rotti, risate, urla in siciliano, in napoletano e qualche pirla, che faceva meno terrone,
lanciato in aria.
Via Veniero, la strada dove era l’agenzia, la trovammo dopo un quarto d’ora di metro.
Una porta a vetro con su scritto “Carovana facchini e muratori Mirella” ci fece fermare.
Dentro una donna piena di trucco, labbra impiastricciate di rossetto, capelli lunghi, ricci
tinti biondi, che le coprivano un poco il grasso che le fuoriusciva dalla scollatura, seduta
dietro una macchina da scrivere, attorniata dal fumo della sua sigaretta, ci osservava sorridendo. Entrammo. Senza smettere di sorridere, né domandarci perché eravamo lí, la fatalona ci chiese il contratto e le carte d’identità.
«Bene, vedo che siete due di Nicola».
Aprì un cassetto e tirando fuori i soldi, dopo averli contati sotto la scrivania con fare sospetto, ce li diede assieme ai nostri documenti.
«Domani, belli, andate alla fiera alle sette meno un quarto presentandovi sempre da Nicola. Va beneee?!».
Ci ritrovammo fuori contenti di aver guadagnato qualche lira. Il sorriso ammiccante della
signora ci seguì fino alla stazione della metro.
Piazza Duomo era magnifica. Luci da tutte le parti. Insegne gigantesche illuminavano a
giorno la piazza e la grande chiesa. Gente che andava in mille direzioni. Il leone di marmo
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sopra l’uscita della metro, dava riposo a chi era seduto ai suoi piedi. Dovevamo cercare via
Torino e la trattoria a “prezzo fisso”.
«Ah! Via Torino» esclamò l’uomo barbuto vestito di nero seduto sotto il leone. «Andate
dritti in quella direzione e quando trovate i binari del tram, proseguite a sinistra. Quella è la
via che cercate».
L’uomo aveva un dolce sorriso stampato sulle labbra.
Non fu difficile trovare la nostra trattoria. Camminando per via Torino, era sulla destra, in
via San Maurilio. Fuori il cartello annunciava “Menù turistico: Primo, secondo, pane, più
mezzo litro di vino: PREZZO FISSO LIRE 500”.
Era invitante il menù, almeno per noi. Entrammo sedendoci a un tavolino con due coperti. Sembrava una trattoria romana, senza pretese ma familiare.
Il cameriere si avvicinò guardingo. Il suo occhio esperto aveva già capito con chi aveva a
che fare.
«Vi ha indirizzati qui Salvatore?».
Noi, meravigliati della sua acutezza, rispondemmo «Sì! Ci ha mandato il vostro compaesano».
«Bene, allora cambiate posto e andatevi a sedere lì in quell’angolo che adesso vi porto da
mangiare».
Ci guardammo in faccia stupiti. Non ci aveva nemmeno chiesto cosa volessimo mangiare,
comunque andammo nel tavolino all’angolo e aspettammo.
Nel giro di dieci minuti il cameriere ci mise sotto il naso due piatti di spaghetti fumanti.
La salsa doveva essere ragù bolognese messa a mo’ di cappello sopra degli spaghetti scotti e
una spruzzatina di scorza di parmigiano macinata. Il profumo, data la fame che reclamava
uno stomaco pieno, era invitante.
«Cosa bevete?» ci chiese.
«Due aranciate» disse Franco sicuro anche delle mie preferenze.
«Sentite ragazzi, non iniziate anche voi» fece annoiato il cameriere, «qui o si beve un bicchiere di vino rosso o uno di acqua».
Franco puntò gli occhi su di me, alzai le spalle e lui ordinò un bicchiere di vino e uno
d’acqua che consumammo a metà scambiandoceli.
Finiti gli spaghetti ci arrivò con la velocità della luce il secondo. Una milanese molto larga,
una fettina di limone e delle patate al forno per contorno. Mangiammo tutto senza tralasciare le due michette nel cestino del pane. Pagammo 500 lire a testa e uscimmo ringraziando.
Ritornando verso piazza Duomo, ci soffermammo davanti al cinema; le lettere cubitali del
cartellone titolavano: “Bonnie and Clyde una storia vera”.
L’ingresso del cinema era molto fastoso, almeno confrontandolo con i cinema romani di
mia conoscenza. Dentro si stava bene e tutto pareva di lusso. Ci sedemmo al centro per poi
cambiare subito dopo, perché una coppia davanti a noi fumava come una ciminiera.
Il film iniziò avvolgendoci tutto il tempo della sua durata. Alla fine uscimmo dirigendoci
verso il Duomo.
L’uomo che qualche ora prima ci aveva indicato via Torino, era ancora seduto sotto il
leone. Mentre il mio amico Franco osservava tutt’attorno la piazza, io mi limitai a scrutare
l’uomo in nero; aveva i capelli neri e un pochino ricci e la barba dello stesso colore. Vestiva
un cappotto, un pullover, pantaloni e scarpe dello stesso colore di barba e capelli e sulla
faccia aveva un sorriso quasi estasiato.
«Ciao, ti ricordi di me?» buttai lì tanto per attaccare bottone
Si girò senza smettere di sorridere.
«Ciao» disse rimanendo a fissarmi amichevolmente con i suoi occhi chiari.
«Come ti chiami?» domandai.
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«Giovanni. E tu?».
«Ernesto. E vengo da Roma.» Poi, dopo un paio di secondi, chiesi ancora «che lavoro
fai?».
«Sono sarto».
Quindi continuando a sorridere si alzò, mi diede un altro sguardo e si diresse verso i portici in direzione di un auto in sosta con le luci accese e una donna che lo chiamava per nome:
«Giovanni! Gianni! Gianni! Vieni che è ora di andare!».
«Vengo Donatella, vengo» rispondeva lui quasi sottovoce.
Scomparve dentro l’auto non prima di essersi girato e aver alzato timidamente il braccio
per salutarmi.
Franco stava chiacchierando con il suo vicino, un giovane abruzzese a Milano per seguire
un corso per parrucchieri. Quest’ultimo gli stava finendo di dare informazioni su dove trovare da dormire quella notte.
«...E poi c’è l’Albergo Popolare dove si pagano cinquecento lire a notte. Le camerette sono singole e lì ci vanno a dormire tutti i poveri della città. Per stanotte vi potete arrangiare
lì, poi domani cercherete qualche altro posto».
«Va bene. Ci accompagni?».
«Certo».
E c’incamminammo verso questo albergo popolare.
Il giornale che è nel gabinetto, dopo averlo letto, non usatelo tutto
Rifacemmo di nuovo via Torino per inoltrarci in Ripa di Porta Ticinese, poi Porta Genova e finalmente in un piazzale vedemmo l’Albergo Popolare.
Il grande ingresso era proprio come il suo nome: popolare. Unto, sporco e maleodorante.
La “cassa”, più miserevole di quella del circo Banana (il Circo Banana, circo di borgata
degli anni ’60, consisteva in quattro carretti e un elefante che per la sua magrezza sembrava
una giraffa. Poi un leone e una tigre altrettanto magri, quest’ultima senza una zampa.), dicevo, la cassa, nel grande atrio, era installata in un vecchio baracchino mezzo scassato e di
colore indefinibile. Sicuramente una volta era stato bianco, ma tutto invecchia. Dietro di
essa una faccia grassoccia con un litro di olio su capelli stirati all’indietro.
La “faccia oleosa”, senza alzare lo sguardo dalle parole crociate, domandò:
«Quanti?».
Rispondendo a quell’ammasso di ambra gialla, Franco fece:
«Due».
L’uomo strappò i biglietti: “validità per una nottata dalle 24 alle 7 del mattino”.
«Stanze numero 38 e 61. Primo e secondo piano, e…» mentre incassava mille lire continuò a parlare con il cruciverba, «….è vietato bere alcol, bestemmiare e tante altre cose con
non sto qui a elencarvi, ma che comunque potete leggere su quella colonna al centro della
sala. Buonanotte».
Girò pagina e si mise a pensare con la penna tra i denti.
La sala era completamente spoglia. Nessun tipo di mobilia contornava quei marmi sporchi in terra e alle pareti. Sulla colonna centrale vi era appeso, storto, un cartello su cui stavano scritti i dieci comandamenti:
1 È vietato bere alcol mentre siete ospiti di questo albergo.
2 È vietato bestemmiare.
3 Ai gabinetti ci si va uno alla volta e rispettate la fila.
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4 È vietato rubare le cose altrui.
5 Quando andate al gabinetto tirate lo scarico.
6 Il giornale che è nel gabinetto, dopo averlo letto, non usatelo tutto.
7 È vietato sputare in terra, sopra le porte e soffiarsi il naso sulle lenzuola.
8 Non disturbate gli altri. Qui si dorme.
9 Lasciate la camera come l’avete trovata.
10 È vietato portare donne anche se parenti.
Poi sotto a lettere ancora più grandi: “Non si accettano prenotazioni”.
La grande scalinata che portava ai piani ospitava sui gradini piccoli rigagnoli liquidi dalle
mille puzze e colori, chissà di quale provenienza, sicuramente non da profumerie.
Il primo piano ci si parò davanti come il corridoio di una prigione, con le porte delle camere da ambo i lati.
Le camere erano di un colore orribilmente grigio e le porte tali e quali a quelle delle toilette pubbliche, cioè con un’apertura all’altezza del pavimento di venti centimetri e una
molto più grande tra la stessa e il telaio.
La stanza la trovammo facilmente. A differenza delle altre che avevano il numero penzoloni, la 38 non lo aveva affatto e si trovava, tra la 37 e la 39, alla fine del corridoio. La porta
spalancata ci fece pentire di essere andati lì. Il letto di metallo era a tratti color marrone e a
tratti bianco e punzecchiato di ruggine. Le lenzuola, riordinate al meglio, sembravano di
color crema scuro, anche se in più angoli si vedeva benissimo che erano state bianche. La
coperta, con sopra la scritta Croce Rossa Italiana, era più corta di tutto l’insieme del letto e
molto scolorita nei punti dove il buco faceva intravedere il lenzuolo.
La finestrella, là sulla parete, mi ricordava le celle di Porta Portese. Un comodino di metallo scrostato e arrugginito completava l’arredamento. Avevo voglia di scappare via da lì.
«Peccato che ormai abbiamo pagato altrimenti era meglio dormire alla stazione» dissi.
«Evvabbè! Cosa ci vuoi fare. Si vede che dormiremo vestiti coprendoci soltanto con la
coperta» disse Franco alzando le spalle con sufficienza.
«Ma sì! Sarà per questa notte soltanto, domani vedremo» borbottai.
Salimmo alla ricerca della 61, mentre nei corridoi iniziavano vocii e rumori, sicuramente
altri “ospiti”.
Un barbone stava seduto sulle scale accostato alla ringhiera. Cantava sottovoce una canzoncina conosciuta, tenendo stretta in mano una bottiglia di vino quasi vuota.
Alzò lo sguardo verso di noi: «Andate affanculo sporchi comunisti».
Riabbassò la testa riprendendo a cantare “Faccetta neeraa .....dell’Abissiinaaaaa.....”.
La 61 non fu difficile trovarla perché era l’unica con la porta spalancata, il numero si poteva leggere benissimo anche a distanza. La camera era più o meno come la 38 ma con una
piccola e maleodorante differenza; dietro la porta stava un orinale colmo non soltanto di
pipi, ma con più altri “sostanziosi” bisogni.
Mi otturai il naso mentre Franco, dopo avermi rivolto uno sguardo come per dire
“pazienza”, allungando una mano prese l’orinale e tenendolo a debita, ma inutile, distanza
dal proprio naso, si diresse verso quelle che avrebbero dovuto essere le toilette.
Le trovammo subito perché una targa le indicava con la voce “CESSI”. Erano sporchi
come tutto l’hotel.
Le maioliche sui muri sicuramente avevano decenni di vita, pensai che non fossero mai
state veramente pulite. Un alone nero aleggiava tutt’attorno la stanza e negli angoli delle
pareti. Aprendo la porta di un bagno capimmo che quella sarebbe stata l’unica e l’ultima
sera che avremmo dormito all’hotel dei disperati. Sui muri vi si potevano leggere scritte e ingiurie di ogni sorta. La porta, nella parte interna, era tappezzata a colpi di matita, penna,
pennarello, con numeri telefonici e messaggi (in)equivoci. Le mura a fianco della tazza era156
no sporche di escrementi, tracce lasciate come firma personale fatta con i polpastrelli delle
dita. In poche parole il tutto era di uno schifo vomitevole.
Franco lasciò l’orinale in un angolino e uscendo ci dirigemmo ognuno verso la propria
camera.
«Mi raccomando.» disse rivolto a me, «chiuditi a chiave e dormi con un occhio solo. Domani mattina cerchiamo di svegliarci presto così avremo modo di andare a lavarci al diurno
di piazza Duomo».
«Occhei» risposi dirigendomi al piano inferiore.
Scendendo le scale non incontrai persone normali. Per i corridoi c’erano soltanto ubriachi
rumorosi, dei quali un paio stavano litigando per una donna (ma l’hotel non era vietato alle
donne?) anch’essa piena d’alcol, sfatta nel corpo e nell’anima, di età indecifrabile. Stava in
un angolo, seduta su una sedia di paglia, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, le mani sotto il
mento, faceva barcollare la testa come un pendolo, ripetendo sottovoce: «Chi vincerà mi
avrà per una notte intera. Chi vincerà mi avrà per una notte intera. Chi vincerà…».
Non era soltanto ubriaca e tanto meno sembrava felice, anzi credo che avesse passato
tutte le sofferenze dell’inferno. Mi ricordava la Signora Rosetta della Stazione Termini.
Entrai nella mia stanza, tolsi le lenzuola dal letto e vestito m’infilai sotto la coperta. I rumori si affievolirono lasciando posto alla stanchezza. Il russare di molti ospiti echeggiava
nell’aria come un’orchestra fatta soltanto di tamburi e nacchere napoletane, ma il mio sonno quella notte fu sordo.
Sentii una mano che mi scuoteva.
«Ernesto, svegliati. Sono le sei e mezzo. Svegliati se no facciamo tardi al lavoro».
Franco era lì con la sua testa su di me. Senza rispondere mi tolsi la coperta di dosso e fui
pronto.
Nell’albergo adesso c’era soltanto una terribile puzza nell’aria, mischiata ai rumori degli
scarichi che venivano dalla toilette.
In un batter d’occhio fummo al diurno di piazza Duomo.
La cassiera ci sorrise.
«Rasoio da barba più sapone, doccia, saponetta, asciugamano e pettine: lire 130. Si prega
restituire il tutto».
Prima che fossimo fuori, belli e puliti, la ragazza della cassa sorrise, maggiormente sorrise
al mio amico. Glielo feci notare e lui, un po’ arrossito, dandomi una spintarella amichevole
sbottò:
«Ma dai! Non hai visto come è carina!? Sicuramente avrà un fidanzato».
Ridendo lo prendevo in giro.
Un quarto d’ora dopo fummo pronti per andare alla Fiera. Arrivammo tardi, ma il nostro
“principale”, senza dar peso alla cosa, ci chiamò da lontano.
«Voi due che siete in ritardo, andate nello stand di ieri e tutto quello che avete smontato
caricatelo su quel furgoncino che sta là in fondo».
Con la mano indicava il mezzo scoperto nel piazzale.
«Il contratto ve lo darò stasera quando avrete finito perché adesso non ho tempo, capito?».
«Va bene» rispose Franco non potendo fare altro, altrimenti forse si sarebbe inimicato il
Signor Nicola.
La giornata passò tranquilla. Il mezzo che avevamo caricato era chiuso e pronto nel piazzale. Alle sette Nicola era da noi con il contratto.
«A domani» disse allontanandosi.
La signora dietro la scrivania ci accolse con il suo maliardo sorriso. Dopo averci pagato ci
disse arrivederci. Sorridendoci allargò la bocca da un orecchio all’altro.
Riprendemmo il tram che ci avrebbe portati in centro.
157
Dentino
Seduti sotto il leone, in attesa di andare a mangiare, guardavamo la gente andare su e giù,
sperando di vedere “Giovanni il sarto” il quale sicuramente ci avrebbe indicato una pensione in cui passare la notte.
C’era sempre gente seduta lì. Turisti stranieri e italiani che si gustavano la piazza e il traffico milanese. Noi sempre in cerca di qualcuno con cui far amicizia.
Un ragazzo molto elegante, poco distante da noi, attirò la nostra attenzione, non solo per
il suo abbigliamento moderno e nuovo, ma anche perché, oltre a leggere un giornale, al suo
polso si poteva vedere un orologio talmente luccicante che pareva d’oro.
Mi alzai, seguito dallo sguardo di Franco, andandomi a sedere vicino al ragazzo con
l’orologio.
«Ciao» dissi sorridendo e curioso.
«Ciao» rispose con un’aria leggermente sospetta, quindi tenendo sempre il giornale aperto,
aggiunse, «Cosa vuoi?».
«Niente. È solo che io e il mio amico che è seduto lì», lo indicai con la mano, «siamo nuovi di Milano e non conosciamo nessuno».
«E allora hai pensato che io sia una buona conoscenza».
La sua voce era calma ma, come posso dire, molto, molto furba, mentre i suoi occhi, penetranti e curiosi, scrutavano a 360 gradi la piazza, me e, a distanza, Franco.
«Cosa fate a Milano?» chiese dopo essersi assicurato che gli “andavamo bene”.
«Lavoriamo per la carovana Mirella. Stiamo facendo i facchini alla fiera del Messico. E
tu?».
«Niente».
«Niente?» chiesi meravigliato.
«Niente» confermò.
«Franco! Franco!» urlai.
Venendosi a sedere, Franco, mi riprese: «Ma che strilli? Non lo vedi che si sono girati tutti?».
«Ma io ti volevo presentare…».
«Ha ragione il tuo amico. Mai farsi riconoscere» disse l’altro.
Era a Milano da tre anni. Veniva da Catania. I primi tempi aveva lavorato anche lui per le
“carovane” poi, quando si era stufato di alzarsi presto, prendere ordini dai “capi”, lavorare
come una bestia e per pochi soldi, aveva deciso di “mettersi in proprio”.
«Che lavoro fai?» chiesi preso dalla mia innata curiosità.
Lui con voce grave e misteriosa ci invitò sotto i portici al Bar Motta per una bibita.
Parlammo della nostra venuta da Roma. Del lavoro nella carovana, del ristorante a prezzo
fisso e dell’albergo popolare.
Ci ascoltava attento, ma con un piccolo sorriso accentuato da commiserazione.
Si vedeva che ci stava studiando e si capiva anche che era un pochino titubante nel parlare
di sé. Comunque le acque si calmarono subito e si sciolse quel tantino che gli bastava per
vedere le nostre reazioni.
«Io invece per campare mi arrangio alla Rinascente e tante volte alla Standa di via Torino.
Poi, quando mi va male di giorno, la sera mi do da fare con le cabine telefoniche».
Noi due, incantati dal suo racconto misterioso, stavamo a bocca aperta. Spremendo le
meningi cercavamo di capire il significato del suo “lavoro”.
Dentino, cosi venne soprannominato da noi per via di quel suo incisivo rotto a metà, aveva capito che eravamo due ragazzi di strada come lui, quindi fece cenno di avvicinarci e,
quasi con un fil di voce per paura di essere sentito da altri, ci spiegò: «Il giorno vado alla
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Rinascente e borseggio la gente e la sera, se non ho trovato molti soldi nei portafogli, “mi
faccio” tre o quattro cabine telefoniche rivendendo i gettoni a metà prezzo a un mio amico
che ha una tabaccheria a Rho».
«Ma come fai?» esclamai, curioso al massimo per quelle cose nuove.
«Per rubare i portafogli l’ho imparato da un colombiano che adesso sta a S. Vittore, invece per aprire le cassette dei gettoni ho una chiavetta che mi ha fatto un conoscente di Catania».
Franco, dubbioso, si carezzava il mento.
«Allora non sapete dove andare a dormire eh!?» fece Dentino cambiando discorso.
«No. Perché, tu conosci un posto?» chiedemmo all’unisono.
I nostri occhi si illuminarono immaginando che una buona soluzione l’avremmo trovata
con quel furbone del nostro nuovo amico.
«C’è un mio parente che ha una camera disabitata dalle parti di Ripa Ticinese. Si trova su
un ballatoio al terzo piano e chiede diecimila lire al mese».
«Magari» fece Franco, «ma non credo che possiamo pagare diecimila lire tutte in una volta».
«Non vi preoccupate, ci penso io». Poi, alzandosi, disse ancora: «Aspettatemi qui che vado
a fare una telefonata».
Non passarono dieci minuti che lo vedemmo tornare con un’andatura veloce.
«Andiamo via di qui. Seguitemi» disse senza sedersi.
Una parte della sua giacca pendeva.
In silenzio, ma guardandoci come per dire “cosa è accaduto”, ci alzammo seguendolo.
Dopo aver attraversato tutta la galleria, ci trovammo in piazza della Scala. In un angolo
dell’entrata del teatro, seduti come molti altri ragazzi, Dentino iniziò, dopo averli tirati fuori
dalle tasche e averci fatto aprire le mani, a contare una montagna di gettoni telefonici.
«Duecentoventuno gettoni a cinquanta lire l’uno fa undicimilacinquanta, diviso tre fa circa
tremilaseicento lire a testa».
Noi due guardavamo meravigliati i gettoni tra le sue mani. Mentre ci osservava, l’uno poi
l’altro, ripose i gettoni nella tasca dicendoci di seguirlo.
Facemmo piazza della Scala, traversata del Duomo, tutta via Torino fino l’angolo di via
De Amicis. Lì Dentino si fermò e, allargando le braccia e impedendoci di proseguire,
esclamò: «Sapete? Io ho fame e voi?».
«Veramente abbiamo fame anche noi» risposi confidenzialmente e senza vergogna.
Proprio all’angolo sinistro delle due vie c’era una rosticceria dalla cui porta usciva un buon
odore di cose fritte. Fummo dentro in un attimo.
«Questa sera vi offrirò io la cena».
Scrutando dentro la vetrina dei cibi, con uno sguardo d’intesa verso me e Franco, facendo spaziare la mano verso il bancone delle prelibatezze, aggiunse: «Scegliete quello che più
vi piace».
Senza aspettare partimmo all’attacco. Comunque non andammo oltre il fattibile; io presi
una porzione di lasagna più una milanese, Franco tortellini al sugo e due grosse polpette,
Dentino anche lui una “milanese” con patatine fritte. Tutti con una aranciata frizzante
sotto il naso.
Che bontà. Altro che Trattoria a prezzo fisso.
Dentino, senza batter ciglio, pagò circa millecinquecento lire tirando fuori un grosso rotolo di banconote che teneva nella tasca dei pantaloni. Dando duemila lire alla ragazza dietro il bancone, disse: «Tieni anche il resto Lucia».
«Grazie Dentino. Ciao!».
«Ciao!».
159
Anche noi, per non essere da meno, dicemmo «Ciao».
Dentino, uscendo come fosse un piccolo “boss”, disse: «Ragazzi capiamoci bene, quella
ragazza è mia sorella… ci siamo capiti?!»
«Ah!? Sì!Sì» rispondemmo.
Aveva lasciato anche la mancia. Guardavo il nostro nuovo amico con occhi spalancati di
ammirazione.
Sempre stando in procinto di avviarci verso Porta Ticinese, ma ancora fermi sul marciapiede tra via de Amicis e via Torino, Dentino indicò, dall’altra parte della strada, un locale
molto illuminato.
«Vedete quel Bar là?».
Allungò la mano. «Quello è L’Etoile. Lì la sera ci vanno tutti i ricchioni milanesi e tanti
nuovi venuti dal Sud che non hanno una casa e così, venendo qui a Milano, al Bar dei ricchioni trovano da dormire. E voi ci siete mai andati?».
La domanda venne fatta a mo’ di Sherlock Holmes.
«Ma che sei matto? Non sapevamo neanche che esistesse!» rispose Franco quasi offeso.
«Va bene. Andiamo» fece Dentino avviandosi.
Passammo sotto Porta Ticinese, per poi girare a sinistra sul Naviglio.
Sotto una grande arcata ci stava aspettando il “suo parente”.
«Ciao Giovanni» fece Dentino allungando la mano.
«Ciao» rispose l’uomo.
«Questi sono quei due di cui ti ho detto per telefono».
«Buonasera». L’uomo ci strinse la mano. «Andiamo» disse facendoci strada.
Ci ritrovammo in un ampio cortile dove si potevano vedere parcheggiati motorini, qualche bicicletta e un paio di auto non proprio nuove. Al centro del cortile c’era un lampione
fioco retto da fili.
Sui ballatoi, vecchi e con ringhiere arrugginite, vi erano stesi, un po’ dappertutto, dei panni; mutande e mutandoni, pantaloni, magliette, reggiseni, scarpe da tennis, tute da lavoro e
altro. Alla fine di ogni ballatoio vi era una piccola costruzione che reputai fosse un ripostiglio. Saliti al terzo piano ci trovammo di fronte la porta del nostro “appartamento”. Giovanni tirò fuori dalla tasca una chiave grande come quella dei cancelli medioevali e, aprendo
la porta, ci invitò a entrare:
«Questa è la vostra camera».
Dopo aver dato un’occhiata tutt’attorno Franco esclamò «E per l’affitto!?».
«Ci ha già pensato lui» rispose l’uomo indicando Dentino.
Dentino per non far vedere il rossore che gli si era accumulato sulle guance, si girò verso
la finestra.
«Bene» disse l’uomo dopo averci dato la chiave. «Adesso che tutto è sistemato, me ne
posso andare». Salutò scomparendo tra il ballatoio e il grigiore delle scale che, con la scarsa
illuminazione, sembravano abitate da fantasmi.
Dentino senza soffermarsi a guardare la camera, che sicuramente conosceva bene, fece
cenno di andarsene anche lui.
«Allora domani mattina ci vediamo qui, poi insieme andremo a cambiare i gettoni e dividiamo. Ciao a domani». Si allontanò chiudendosi la porta alle spalle.
Da dietro la porta gli urlammo un forte grazie e un “a domani”.
Ritornammo a stare ancora a bocca aperta per ciò che ci era capitato. Troppo in fretta e
facilmente. Sembrava magico Dentino. Rispettato da tutti e pieno di soldi.
La stanza aveva due letti di metallo, coperte e lenzuola ripiegate su di essi, un vecchio armadio vicino al lavandino e accanto il cucinino a gas. Sopra la porta c’era un piccolo crocefisso coperto di ragnatele.
160
«Ma dove sta il gabinetto?» domandò Franco guardandosi intorno.
«Vuoi vedere che è quel ripostiglio all’angolo della ringhiera?» buttai giù.
«Andiamo a vedere».
Essì! La mia intuizione fu esatta. Quello era il gabinetto di tutto il piano. Aprii. Che schifo! Dentro regnava il nero quasi ovunque; pareti e pavimento, poi la tazza… meglio non
parlarne. Una piccolissima finestrella faceva entrare la debole luce della luna. Fogli di giornale al posto della carta igienica.
Non propriamente delusi, non ci aspettavamo il Grand Hotel, ritornammo sui nostri passi.
La finestra della camera dava nel cortile interno. Affacciandosi, mostrava quel senso di dignità povera e umile dei meridionali emigrati al Nord, a Milano.
Io presi il letto vicino la porta, mentre Franco si accomodò su quello vicino la finestra. Si
stava bene in quel letto. Prima di addormentarci ci proponemmo che il giorno dopo, appena finito di lavorare, con i soldi dei gettoni e quelli della paga, saremmo andati a comprarci
della biancheria alla Standa.
Buonanotte.
La pioggia scrosciava talmente forte sui vetri che mi svegliai con l’impulso di dover andare al bagno. Più addormentato che sveglio non accesi la luce per non svegliare Franco.
Aprii nel buio la porta dell’armadio e, “nel momento in cui l’acqua stava facendo straripare
il fiume”, mi resi conto che non si deve fare pipì nell’armadio, quindi lo richiusi e presi la
via della toilette sul ballatoio.
Camminai rasente il muro per non bagnarmi, quando aprii la porta l’urlo mi assalì;
«Ueh! Terun… Minchia!». Una specie di “scimmia” sedeva sulla tazza tenendo un giornale in mano sotto la candela accesa nell'incavo della finestrella.
«Non si bussa prima di entrare? Non hai visto la candela? Terun! Pirla d’un terun!».
«Mi scusi!» esclamai richiudendo in fretta.
Appoggiato al muro, con le mani tra le gambe perché non ce la facevo più, aspettai che la
“bestia” finisse.
Sentii dell’acqua scorrere, ma il rumore era differente da un normale scarico. La porta si
aprì e la “scimmia”, uscendo con un secchio vuoto e la candela nell’altra mano, mi disse:
«Lo sapevo che non ti sei portato l’acqua! Ma non lo sai che lo sciacquone è rotto da più di
un anno!? “Voi” terroni siete sempre gli stessi. Venite qui al nord e pensate di essere sempre in Sicilia. Terun de un terun! Pirla! Miiinchia!».
Con queste parole, oltre qualche altro mugugno, la “scimmia” scomparve. Feci i miei bisogni.
Ritornando in camera pensavo alla “scimmia” che mi aveva dato del “terrone” in lingua
milanese e accento siciliano.
Entrai cercando di fare rumore il meno possibile, mi avvicinai al mobiletto su cui era appoggiata la macchina del gas, presi una pentola, la più grande, aprii il rubinetto dell’acqua e,
quando fu piena, uscii di nuovo. La “toilette” adesso era pulita. Ritornando feci due starnuti. M’addormentai dopo averne fatti altri due.
Il bombardamento sulla porta era mischiato alla voce di Dentino.
«Aprite! Svegliatevi!».
Mi alzai rimbambito da quella sveglia improvvisa poi, nella foga di aprire la porta, inciampai nella gamba del letto rovinando a terra quindi, con un dolore terribile alla caviglia, cercai
di alzarmi con una gamba sola. Il fracasso e i miei lamenti fecero svegliare anche Franco.
«Cosa succede?» disse girando la testa in ogni direzione.
161
«Nulla, è che ho inciampato. Ahi che dolore!».
«Allora volete aprire si o no?!» La voce dietro la porta sembrava impaziente.
«Arrivo!» esclamò Franco.
Quando fu dentro ed ebbe ascoltato la mia disavventura notturna con la “scimmia”,
Dentino si mise a ridere di cuore.
«Ma chi Vincenzo? Ma quello è più terrone di tutti i terroni messi assieme. È a Milano da
vent’anni e ancora parla in dialetto, insiste anche a dire, dato che ha preso la residenza milanese, di non essere più siciliano. Non è cattivo, però è un minchione».
Poi fissandoci si sedette sul mio letto.
«Allora andate a lavorare?» chiese come se si aspettasse una risposta negativa.
«Certo che andiamo a lavorare! Come sarebbe a dire!?».
«Niente, pensavo che...». Lasciò la frase a mezz’aria.
«Ma come faccio a venire con un piede rotto?» dissi dolorante rivolto a Franco.
Il mio amico mi guardò pensieroso.
«Vai all’ospedale insieme a lui che non lavora» fece cenno con la testa in direzione
dell’altro, «e fatti visitare».
«Non ti preoccupare» disse Dentino poggiandomi una mano sulla spalla, «all’ospedale
meglio di no. Sicuramente hai preso una storta. Ti porterò da un medico che conosco e
vedrai che ti aggiusterà la caviglia».
«Ah! Va bene!» disse sollevato Franco.
«Benissimo» aggiunsi io.
«Occhei. Aspetterò che vi siete lavati poi andremo a fare colazione».
Lavaggio rapido. Sciacquatina al viso, dito bagnato a strofinare i denti e dopo una
mezz’ora eravamo nel Bar Motta sotto i portici. Cappuccino caldo e due cornetti offerti da
Dentino.
Franco andò al bagno.
«Io scappo se no perdo il tram» disse in fretta il mio amico appena ritornò dalla toilette.
Lo disse come se volesse sfuggirci e non sentire più i convincenti discorsi di Dentino.
«Aspetta, prima prendi la tua parte dei soldi».
Quindi Dentino tirò fuori di tasca tremilacinquecento lire mettendole nella tasca della
giacca di Franco, il quale in un batter d’occhio scomparve infilandosi al volo nella porta del
tram.
Da via Turati scendemmo alla Stazione Centrale e da lì il bus ci portò a Rho.
Nella tabaccheria c’era Giovanni, l’uomo che il giorno prima ci aveva dato le chiavi della
camera.
«Allora questi sono i soldi dei gettoni».
«Grazie Giova’» fece Dentino mettendosi in tasca le banconote.
Si sentì suonare il campanellino appeso alla porta d’ingresso.
«Vi lascio da soli, c'è un cliente» disse l’uomo entrando nel negozio vero e proprio.
Dentino mi fece sedere chiedendomi se la storta che avevo preso quella mattina mi facesse ancora male. Alla mia risposta negativa continuò «Senti, che intenzioni hai? Vuoi ancora
andare a lavorare per tremila lire a settimana, non assicurato e farti un mazzo così, oppure
stare con me e, senza il minimo sforzo, guadagnare di più?».
L’offerta era proprio allettante. Come avrei potuto rifiutare? Con lui tutto sembrava facile.
Aveva pagato la camera, offerto cena, colazione e una parte dei soldi dei gettoni. Era pulito
ed elegante. E aveva quell’orologio che sembrava d’oro… ma Franco?
«Allora?» La sua voce mi distolse dalla riflessione.
«Va bene, sto con te» dissi poco convinto, poi per crearmi una attenuante, continuai «però
io non ho mai rubato gettoni o portafogli».
162
«Non ti preoccupare. Tu devi fare solo da palo e da cavallo».
«Da cavallo?» chiesi non sapendo il significato di quella nuova parola.
«Adesso ti spiego tutto per bene. Alzati!».
Mi alzai incuriosito. Lui, stando ritto davanti a me, mi spiegò per benino, come fosse una
cosa semplicissima, quale era il mio compito. Dalla tenda che separava il magazzino potevo
vedere Giovanni che serviva clienti.
Saremmo dovuti entrare alla Rinascente di piazza Duomo in un momento di grande affluenza di pubblico. Si sa che la maggior parte dei clienti sono donne e che queste tengono
sempre la borsetta appesa al braccio. La cosa sarebbe andata così. Sulla scala mobile lui si
sarebbe incollato a una preda scelta bene nel mucchio, e io sarei dovuto stare tutto il tempo
appiccicato a lui avvisandolo con dei leggeri colpi ai fianchi, se qualcuno si fosse accorto
delle sue mosse. Poi quando avrebbe preso il portamonete me lo avrebbe accavallato - da cui
cavallo - e io avrei dovuto fare in modo di allontanarmi nella maniera più indifferente e
tranquilla possibile, uscire dal luogo dove avevamo “lavorato” per incontrarci nel posto
prestabilito, che comunque sarebbe stato sempre piazza Duomo, sotto il leone del primo
incontro.
A volte, disse, nei portamonete si poteva trovare, oltre ai soldi, anche qualcosa di valore;
una catenina, un orologino, un anellino, cose che avrebbe acquistato Giovanni. Documenti
e altro li avremmo messi nella buca delle lettere.
Se la vittima si fosse accorta dei movimenti strani del mio amico dopo che lui mi aveva
passato la “merce”, non avrebbero potuto fargli nulla, perché nulla gli avrebbero trovato
addosso. Se ancora non mi avesse passato la refurtiva, ma fosse stato scoperto, avrei dovuto far finta di cadere e sentirmi male, in modo di dargli, nella confusione che si sarebbe
venuta a creare, la possibilità di scappare. Comunque, disse, non era mai accaduto di essere
scoperto.
I posti migliori per “lavorare” erano sì la Rinascente, ma anche la metropolitana,
l’autobus, il tram, la Stazione Centrale, l’aeroporto. In primavera alla Fiera di Milano e in
altri periodi nei padiglioni di Messico ’68. A volte anche in banche e uffici postali.
Insomma tutti i luoghi erano buoni, l’importante e che ci fosse molta gente assembrata.
Il suo parente ritornò nel Magazzino.
«Noi andiamo via. Ciao Giova’» disse Dentino muovendosi.
«Buongiorno» feci io.
«Ciao e state attenti» disse Giovanni.
Uscimmo dalla tabaccheria facendo la strada all’inverso per ritrovarci dopo mezz’ora circa
in piazza Duomo.
«Oggi non si lavora, ma ti faccio vedere i posti dove andremo una volta a settimana e stai
tranquillo che un paio di portafogli al giorno si fanno facilmente» disse Dentino quasi mi
avesse letto nel pensiero. «Comunque dopo andremo in un posto dove potrai vestirti decentemente».
«Vabbè! Se lo dici tu!».
La Rinascente era piena di luci, vestiti e manichini. Il mio Cicerone me la fece fare tutta in
scala mobile. A ogni piano, con maestria, girava la testa indicandomi con il naso dove erano
i sorveglianti e chi fossero le commesse. Ma alla Rinascente, mi disse, non si dovevano rubare vestiti perché era il posto più ricco di portafogli.
Per il vestiario la Standa di via Torino andava benissimo. Da lì spesso lui poteva portar
fuori, con estrema facilità, pantaloni, maglioni, camicie, biancheria intima, svegliette, radioline e accessori da barba.
Là, alla Standa, non c’era sorveglianza. Là, alla Standa, molti “paesani” si vestivano e
sbarbavano gratuitamente. Usciti dalla Rinascente, la Standa era pronta a vestirmi.
163
Lezioni di furto
«Scegli quello che vuoi. Prendine due paia, ad esempio due pantaloni, vai nello spogliatoio, infilati i nuovi sotto i tuoi, abbottonati bene e riporta l’altro paio al suo posto. Per non
fatti prender d’occhio dalle commesse compra qualcosa che costi pochissimo come un paio
di calze, una matita, oppure una saponetta e vai tranquillamente alla cassa a pagare, vedrai
che sarai guardato come un cliente normale. Vieni ti faccio vedere».
Entrammo con calma. Nessuno badava a noi. Con sapienza il mio compagno scelse per
me un bel pullover blu, un pantalone di velluto dello stesso colore e due paia di calze bianche. Invitandomi a fare come mi aveva spiegato prima di entrare, cioè indossare la roba
nuova sotto i miei abiti.
Si allontanò dicendomi che mi avrebbe aspettato fuori, non prima di avermi raccomandato di acquistare una saponetta. Il gioco fu facilissimo.
Certo che se ci fosse stata una commessa con l’occhio esperto mi avrebbe subito individuato perché avrebbe notato che dall’entrata fino alla cassa ero “ingrassato” un po’. Comunque rimisi a posto un pantalone, un pullover e un paio di calze. Pagai la saponetta e il
sorriso della commessa, assieme allo scontrino, mi fecero imboccare l’uscita con tranquillità. Fuori mi aspettava il Mago. Indossava sopra la giacca un bel giubbotto di stoffa blu. Lo
aveva preso per me. Se l’era semplicemente messo sopra la giacca ed era uscito disinvolto.
Aveva ragione lui; per non dare mai nell’occhio bisogna essere sempre ben vestiti e puliti,
mai avere fretta e sorridere sempre, almeno durante il “lavoro”.
Andammo al diurno di piazza Duomo dove mi potei cambiare e gettare nel secchio
dell’immondizia i miei vecchi vestiti, poi di nuovo verso via Torino.
Dall’altra parte del marciapiede, di fronte alla Standa, il negozio di scarpe attirò la sua attenzione. Dentino scrutò la vetrina, poi diede un’occhiata alle mie scarpe, che non erano
proprio nuove ed eleganti.
«Penso che tu abbia bisogno anche di scarpe» disse mentre con lo sguardo scandagliava il
negozio.
«Beh! Non è che siano proprio nuove» accennai quasi con vergogna.
«Adesso entriamo qui e ti scegli un bel paio di scarpe costose. Quando la commessa si avvicinerà per servirci dobbiamo agire come fossimo fratelli. Devi far finta di essere malato e
non devi assolutamente parlare, devi sembrare muto e mugugnare soltanto quando ti si
rivolge la parola. Io faccio la parte del fratello più grande. Quando la commessa avrà inscatolato le scarpe andrò io a pagarle. Per il resto non ti preoccupare di nulla e stai sempre
calmo e zitto. Occhei?».
«Va benissimo» dissi, ed entrammo.
Dentino si avvicinò alla commessa bisbigliandole qualche parola nell’orecchio. Questa mi
guardò, mentre ero intento a osservare tra le decine di scarpe esposte sugli scaffali, si avvicinò e, con fare sapiente, mi scelse un paio di scarpe. Un bel paio di mocassini tipo “english
college” con le frangette sopra e di color nere. Bellissime.
La ragazza chiuse la scatola mettendola in una busta.
Da lontano osservavo il pagamento.
«Mi scusi sa, ma non ho il resto» fece la commessa tenendo la cassa aperta e con in mano
una banconota di grosso taglio datagli poco prima dal mio amico.
«Ma io ho visto che nella cassa ha abbastanza resto da darmi» fece lui allungando il collo.
«Guardi lei stesso» continuò la ragazza aprendo tutto il cassetto della cassa.
Sporgendo di più la testa verso il cassetto quasi spalancato, Dentino riprese i soldi che
aveva dato prima alla commessa poi, con un gesto studiato, sbatté il gomito contro la cassa
la quale rovesciò una manciata di spiccioli in terra, nel frattempo lasciò cadere la banconota
164
che teneva in mano nella parte interna del bancone, proprio sui piedi della ragazza la quale
si abbassò per raccattare tutto quel casino di monetine, nello stesso istante il mio amico
fece un movimento sveltissimo con le mani e…
«Ecco i suoi soldi» disse la ragazza porgendo a Dentino la grossa banconota.
«E questi sono i soldi delle scarpe» Il mago tirando fuori dalla tasca della giacca qualche
banconota da mille lire le porse alla ragazza.
La ragazza ringraziò, quindi, come quella della Standa, ci lasciò andare con un sorriso sulla
bocca e lo scontrino di avvenuto pagamento.
«Ma come hai fatto?!» chiesi sempre più meravigliato dalle sue “magie”. «Con quali soldi
hai pagato le scarpe?!».
«Le ho pagate con i soldi della cassa».
«Come “con i soldi della cassa”? E quale cassa?». La mia curiosità era alle stelle.
«Senti. Questo è un “trucco” che mi ha insegnato un mio amico zingaro e non è facile da
spiegare, anzi per impararlo bisognerebbe fare molta più pratica del borseggio, comunque
adesso non è il momento, ne riparliamo un’altra volta. Occhei?».
«Occhei».
Ci fermammo nei dintorni di piazza Cordusio, mi tolsi le vecchie scarpe e mi infilai le
nuove. Belle! Ero proprio un signorino. Elegante, con in tasca dei soldi mi sentivo veramente bene e contento.
«Tieni questi, sono avanzati dall’acquisto delle scarpe. Metà a te e metà a me».
Dentino mi porse qualche biglietto da mille, li presi, non feci altre domande e, dopo qualche decina di metri, ci infilammo in una rosticceria per il pranzo. Ognuno pagò di tasca
propria.
Passammo il pomeriggio a gironzolare attorno al Duomo. Dentino elogiava tutti i suoi
trucchi, dandomi dritte su come vivere senza lavorare e, cosa più importante, non farsi
prendere dalla polizia. Andammo al cinema a vedere il “Monaco” con Franco Nero e attorno le cinque ci dirigemmo verso piazza Diaz.
«Dentinooo!».
Si senti chiamare all’improvviso. La voce veniva dall’altra parte della piazza.
«Ciao Renato». Il “mago” sventolava il braccio in segno di saluto verso un ragazzo.
«Ciao Dentino, è un po’ di tempo che non vieni al club» disse questi quando si fu avvicinato.
Renato era un ragazzo di Roma da molti anni a Milano. Il giorno lavorava in proprio facendo delle riparazioni e verniciature nelle case e la sera arrotondava come barman al Roxi
di piazza Diaz. Abitava in via di Porta Romana in una stanza in affitto per 20.000 lire al
mese.
Passammo circa un’oretta al Roxi a parlare, anzi parlarono soltanto loro due. Ricordi di
cose fatte assieme e di ragazze portate a letto, il tutto con qualche risatina di contorno. La
bevuta fu offerta da Renato e... ciao alla prossima.
Franco, grillo parlante
Adesso era tempo di aspettare Franco a piazza Duomo. Avevo voglia di raccontargli le
nostre avventure. Delle magie di Dentino e tante altre cose.
La faccia rabbuiata di Franco, quando lo vedemmo camminare verso di noi, mi fece rimangiare i miei propositi.
«Bene, bene» iniziò quando fu davanti a me, «allora vedo che in una giornata ti sei cambiato non solo i vestiti, ma anche il cervello».
165
Tenevo la testa abbassata senza molta convinzione. Dentino osservava da un’altra parte.
«Ma che c’è di male?!» esclamai infastidito.
«Ah! Che c’è di male ad andare a rubare?! Mi dici che c’è di male?» Franco era furibondo.
«Anche tu hai preso i soldi dei gettoni» dissi come scusante.
Sentita questa frase Franco mise la mano in tasca e lanciò un piccolo involucro sulle gambe di Dentino.
«Ecco, questo è esattamente ciò che mi hai dato stamattina. Non mi serve».
Dentino, in silenzio, prese i soldi e alzandosi di scatto accennò ad allontanarsi.
«Io me ne vado!» disse, poi rivolto a me: «Vieni anche tu?».
Senza guardare in faccia il mio amico di sventura, lo seguii.
Sbirciando alle mie spalle potevo vedere la sagoma di Franco che si allontanava in direzione di via Torino.
Quella sera girammo per tutte le piazze attorno al Duomo. All’angolo di piazza San Babila
Dentino tirò fuori una sigaretta, l’accese, fece due boccate e me la passò. Dopo un paio di
tirate e sbuffamenti la buttai.
Ogni tanto ci fermavamo davanti ai negozi illuminati e lui, il “mago”, sbirciava dentro alla
ricerca di “spunti”, spiegandomi, nel frattempo, come e quando avremmo colpito.
Ormai si era fatto buio perciò prendemmo la strada che portava in direzione rosticceria.
La ragazza dietro il bancone, come al solito, ci salutò con entusiasmo.
«Ciao, cosa mangiate?» chiese sorridendo.
Lui prese mezza lasagna e due polpette, io un pochino di spezzatino con patate e mezza
lasagna. Pagammo sempre alla romana.
Fuori, tra una sbuffata di sigaretta e l’altra, facemmo per il giorno dopo programmi di
“lavoro” riguardo la Rinascente.
«Senti, si è fatto tardi, io vado a dormire, e tu cosa fai?».
«Anch’io vado a dormire».
«Bene, allora ci vediamo a piazza Duomo domani mattina attorno le undici».
«Occhei! A domani» risposi incamminandomi verso Porta Ticinese.
Io e Franco non avevamo fatto le doppie chiavi della camera, perché mai avevamo pensato di separarci, quindi quando mi accorsi di non possederne una mi assalirono i sensi di
colpa nei confronti del mio amico; come avrei potuto bussare senza guardarlo in faccia?
Comunque coraggio!
Bussai piano, ma, come se Franco mi aspettasse, la porta si aprì e vidi nel buio la sua sagoma infilarsi di corsa nel letto. Mi spogliai senza fare il minimo rumore, infilandomi sotto
le coperte.
«Nicola mi ha chiesto di te alla Fiera» la sua voce era secca e fredda.
Rimasi in silenzio con gli occhi fissi al soffitto guardando le ombre create dalla luce che
proveniva dal ballatoio.
«Domani vieni a lavorare?».
Certamente il mio silenzio lo infastidiva.
«Che fai, adesso neanche rispondi?».
Ci fu un attimo di elettricità nell’aria, ma Franco non fece esplodere la bomba. Avevo
vergogna di rispondere. Sapevo che lui era dalla parte della ragione, che scuse potevo inventarmi?
«Beh! Allora buonanotte al secchio!».
Quelle furono le ultime parole che udii uscire dalla sua bocca.
Il mattino dopo, sul lavabo, trovai il doppione della chiave. Aveva pensato anche a questo
quel mio caro amico.
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La giornata era calda. Il traffico aumentava velocemente nei due sensi da e per via Torino
e piazza Duomo. Dentino aspettava seduto sotto il leone. Lo potevo vedere intento a leggere.
La colazione fu fatta come sempre al Bar Motta.
Già vi era molta folla nell’androne della Rinascente, erano quasi tutte donne. La scala mobile era superaffollata. Ci immergemmo nella massa. Eravamo coperti da tutti i lati da donne profumate. La scala saliva.
Le borsette delle donne ci sbattevano sul viso carezzandoci naso e guance, tentatrici come
le sirene di Ulisse. Dentino era avanti a me e io uno scalino sotto di lui. Una grassona mi
pressava tra il corrimano e il di dietro di un’altra cicciona. Il mio amico, senza che io potessi
minimamente scoprire qualche movimento differente o strano nella sua posizione di sardina in scatola, in un attimo mi passò due portafogli che subito misi in tasca del giubbotto.
Arrivati al piano prendemmo la scala di discesa e, con passo lento, ci ritrovammo sotto la
stazione metro.
I soldi vennero divisi vicino l’automatico dei panini che stava nella direzione piazza Cordusio. Poco più di ventimila lire a testa… e non erano ancora le tredici.
Andammo verso la toilette di piazza Duomo. Entrando, due signori, di cui uno seduto
dietro un tavolino dove era appoggiata una ciotola con delle monetine dentro, salutarono il
mio amico con confidenza. «Ciao Dentino» dissero in coro.
«Ciao Cesare. Ciao Emilio» rispose.
Entrai in una toilette e il mio amico rimase ad aspettare in compagnia dei due. Quando
ebbi finito, misi una moneta da cinquanta lire nella ciotola e mi affiancai al mio amico, il
quale nel frattempo stava barattando qualcosa con uno dei due signori.
«No, guarda che questo è un orologio di marca. Un Longines automatico, capisci?».
«Sì, vabbè Cesare, ma non è per me, è per il mio amico».
«Mi hai detto che lui è romano» chiese Cesare indicandomi con la testa.
«Sì, è tuo paesano e gli devi fare un buon prezzo».
«Meno di ottomila lire non lo posso vendere» Cesare mi squadrava in modo insistente.
«Allora?» fece Dentino rivolto a me. «Ti piace?».
«Certamente è bello e sembra d’oro. Lo prendo» Tirai fuori dalla tasca ottomila lire e le
porsi all’uomo. Lui, dandomi l’orologio, mi fece una radiografia totale. Questo Cesare aveva uno sguardo sospettoso e sospettabile. Il suo sorriso era falso. Ci girammo per uscire.
«Dentino, quando mi porti qualcosa di grosso?» gridò dietro le nostre spalle quel Cesare.
«Al più presto! Al più presto! Ciao Cesare».
«Ciao» rispose l’uomo con amichevole falsità.
Salendo le scale, guardandomi compiaciuto l’orologio al polso, chiesi al mio amico chi era
quel signore dell’orologio. Mi sentii rispondere che non era cosa per me, troppo pericoloso.
Comunque fece di tutto per non farmi ritornare su quell’argomento. Insistette tutto il pomeriggio nel descrivermi l’orologio o parlarmi di altre cose. L’unica nota positiva, me ne
accorsi troppo tardi qualche mese dopo, fu quando mi raccomandò di non andare assolutamente mai da solo nelle toilette dove si trovava il signor Cesare e che, se anche lo avessi
dovuto incontrare per strada, lo avrei dovuto evitare in tutti i modi.
Non capii, comunque non feci altre domande.
I giorni passavano tra un borseggio nei Supermercati e uno alla Stazione Centrale. Tra la
Metro sempre affollata e i tram “scatolame per il trasporto di prigionieri nei campi di lavoro”. Quando non andava bene, tra una “toccata, borsetta e fuga” alla Rinascente e gettoni
telefonici, riuscivamo a racimolare giornalmente sempre tra le quindici, ventimila lire a testa.
Vestiti nuovi alle varie Standa.
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Franco lo vedevo ormai soltanto la sera. Anzi non lo vedevo affatto, perché ogni qualvolta rientravo nella nostra stanza, non accendendo la luce, né fare rumore per non svegliarlo, lui era beato a dormire.
Arrivò la sera che non lo rividi più. Sul tavolino accanto al lavabo un foglietto con su
scritto: “Buona fortuna. Da oggi non vengo più a dormire qui. Comunque se smetti di seguire quel tuo amico puoi sempre ritornare a lavorare alla Fiera. Ciao. Franco”.
Vita milanese
Come fosse il circolo ritrovo di molti emigranti, il leone di piazza Duomo, la sera, faceva
da “salotto” a molti giovani, sfaccendati e non.
Black era alto, con lunghi capelli castani e chiari. Veniva da Roma anche lui, fumava sigarette fatte al momento con tabacco sfuso. La sua ragazza si chiamava Betty, attorno ai diciotto, biondina e snella, ed era milanese. Erano hippy e si prostituivano ambedue. Venivano caricati, a volte anche soltanto uno di loro, tutte le sere su un’auto, non sempre la stessa,
poi li rivedevamo in piazza il giorno successivo. Quando veniva caricata soltanto Betty,
Black se ne andava nel sottopassaggio a giocare nella sala dove già da qualche tempo era
stata installata una pista per automobiline elettriche. Se invece era Betty a rimanere senza
“lavoro”, la si poteva sentir dire, mentre si allontanava da noi, che andava dalla sua amica a
Monza.
Antonio, tondo, non molto alto e pochi capelli, era a Milano per seguire un corso per parrucchieri. Veniva da Avezzano e abitava in una pensioncina dietro Piazza della Scala.
Mauro, era un fighetto effeminato, romano anche lui. Era l’amico del direttore di un grande albergo, dove anche abitava. Aveva un’auto americana decappottabile e sempre soldi in
tasca. Simpatico e riccioluto, non amava Cesare dei gabinetti.
Liberato, basso, magro e lineamenti marcati, veniva da Napoli e non aveva ancora trovato
lavoro come cameriere. Abitava presso la sorella a Opera ed era sempre ben pulito e stirato.
Comunque era un bravo e onesto ragazzo, simpatico, con un portamento elegante e si
sforzava di parlare il meno possibile in dialetto. Ogni tanto riceveva soldi dalla famiglia,
proprio come Antonio l’abruzzese.
Elide, morettina e formosetta, e Ambra, dalle stesse fattezze di Elide, milanesi. Sedevano
spesso tra noi. Qualche volta, anche di giorno, le si potevano trovare sotto il leone.
Elide, cameriera in un ristorante, faceva l’amore, semplicemente senza pregiudizi o tabù,
un paio di volte la settimana con Dentino, il quale poi la divise con me; una volta io e l’altra
lui. Mentre Ambra, studentessa, veniva soltanto per stare in compagnia di ragazzi così, fuori dalla norma; pseudo idealisti, ma in effetti scansafatiche.
Gianni il “sarto”, in mezzo a quel modernariato di personaggi, era l’unica persona originale, che non dava adito a ciance. Il suo eterno sorriso tranquillizzava anche gli animi più
ribelli. Ma Dentino era quello che sapeva tutto di tutti e da tutti aveva un rispetto riverente.
Le nostre età variavano da un minimo di diciotto anni a un massimo di venticinque. Il più
vecchio, se così si può dire e così mi sembrava fosse, data la sua barba, era Gianni.
Quella sera stavamo tutti riuniti a chiacchierare. Le insegne gigantesche di fronte al Duomo illuminavano di mille colori la piazza. I tram facevano stridere le rotaie in terribili lamenti, confondendosi nel nostro chiacchierio e qualche risata. Il traffico andava sue giù tra
clacson e la sirena che cercava di salvare una vita provando a oltrepassare la barriera di auto.
All’improvviso, come fosse comparsa dal nulla, una macchina sportiva Alfa Romeo GT
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2000 si fermò accanto al marciapiede. Black girò lo sguardo in quella direzione, quindi,
come sapesse, si alzò dirigendosi verso il mezzo. Arrivato all’auto, nella quale era seduto un
uomo con sul naso un paio di occhiali scuri, dopo aver confabulato con questi volse uno
sguardo d’intesa verso la sua ragazza infilandosi nello sportello a fianco del guidatore. Una
sgasatina e scomparvero.
«Ma chi era quello in macchina? A me sembrava una faccia conosciuta?» chiesi rivolto a
Dentino.
Betty si alzò allontanandosi in fretta verso via Turati.
«Ma come, non l’hai riconosciuto?» fece il mio amico.
«No! Chi era?».
«Era quel cantante, quello famoso, Umberto Bindi».
«Ah. E che ci va a fare Black con lui?» chiesi ancora meravigliato e con ingenuità.
«Ma allora non lo sai?» rispose Dentino sorpreso dalla mia ignoranza.
«No, che dovrei sapere?».
«Che quel cantante è ricchione. E che nel suo ambiente lo chiamano la Binda e che spesso
viene qui e carica Black e se lo porta a casa».
«Ah! Ho capito. Però mica lo sapevo».
«E se lo porta a casa» continuò senza dar retta alle mie parole, «fanno la doccia insieme,
gli fa indossare un vestito elegante e poi vanno al Casinò di S. Vincent, giocano e mangiano, naturalmente paga tutto il cantante, e il giorno dopo troviamo il nostro Black profumato e sbarbato, con qualche diecimila lire in tasca».
Aveva la voce ironicamente sarcastica nel descrivere Black. Tra il gruppo non ero l’unico
ad essere rimasto sbalordito dalla cosa.
«Ma che anche Black è frocio?!» chiesi, perché mi sembrava quasi impossibile.
Dentino, scuotendo pazientemente la testa, rispose: «Beh! Se uno va con li ricchioni cosa
vuol dire?» attendeva la mia risposta sorridendo. «Eh? Non lo sai! Minchia! Vuol dire che fa
le marchette no? Quindi è pure lui ricchione».
Semplice e, nella sua logica, chiara ed esauriente risposta.
«Hai ragione» affermai un po’ deluso dalla sua risposta e da Black.
«Andiamo va, andiamoci a fare una passeggiata in galleria».
Dentino aveva voglia di camminare e io lo seguii. Salutammo sparendo sotto le luci del
colonnato.
Al Biffi un toast e cappuccino equivalevano al prezzo di una cena, ma ne valeva la pena.
I camerieri, con l’inchino, vassoi scintillanti e fiori attorno, ti davano importanza. E la
mancia lasciata (inizialmente ero titubante, ma una occhiata d’intesa del mio amico mi fece
capire tante cose dei camerieri).
«Così si fa con i lavoratori» fece Dentino guardando avanti in direzione di piazza della
Scala.
La statua di Verdi era coperta da persone urlanti. Una fila di poliziotti faceva da barriera a
donne e uomini imbrillantati e in nero che entravano a passo svelto nel teatro.
Autisti in livrea con ombrello aperto accoglievano auto tutte di colore scuro. Qualche uovo andava a spiaccicarsi direttamente sulle pellicce delle signore, che lanciavano gridolini di
disappunto verso i lanciatori di uova: “delinquenti/straccioni/mascalzoni andate a lavorare”.
Dei poliziotti si avvicinavano minacciosi verso i contestatori; una piccola guerra di piazza
stava per iniziare. Un ragazzo barbuto, appeso alla statua al centro della piazza, con un megafono inveiva contro le forze dell’ordine: «Siete padri di famiglia sfruttati per mille lire da
questi borghesi capitalisti!» E altre ramanzine.
La pesante nebbia adesso sembrava pioggerellina. Io e il mio amico girammo alla larga.
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I giorni passavano senza “incidenti di percorso”. Riuscivamo a rubare ovunque e di tutto.
Dentino sapeva anche aprire, con la stessa chiave con cui riusciva a rubare i gettoni telefonici, quasi tutti i tipi di auto. E nelle auto in sosta, sia fuori, parcheggiate in luoghi isolati,
che nei garage, vi si trovava di tutto. Borse con documenti, macchine fotografiche, vestiti
nuovi o appena ritirati dalla lavanderia e altra merce. Ma “lui” aveva anche una virtù, un po’
come quando io e mio fratello rubavamo i portafogli nei cantieri; i documenti trovati nei
portafogli (questo accadeva spesso) tolti i soldi, si imbucavano nelle buche delle lettere.
Diceva che almeno i derubati avrebbero ricevuto indietro ciò che per loro era importante e
per noi no, e poi perché buttarli?!
Che strano “pensare agli altri dopo averli fregati”.
La sera, quando i negozi erano chiusi e non ci andava di restare in piazza Duomo, giravamo nei dintorni alla ricerca di autoradio. Il mio amico era un mago a smontarle. Una
pinza era il suo unico arnese. Se ne rubavano tre, quattro a sera.
La mattina, il tutto ben chiuso in un borsone, veniva venduto al suo amico di Rho. Se non
avevamo voglia di camminare alla ricerca di cose da rubare, ci fermavamo al Roxi Bar dal
suo amico Renato. Una Cola, occhiate a destra e sinistra alle ragazze in sala, occhiolini, sorrisi di risposta, Qualche risata e poi a nanna.
Night club
Black, quella sera, era agghindato come un damerino. Sicuramente aspettava la Binda.
Betty, anche lei elegante, sembrava nervosa e contrariata da ciò che le stava dicendo il suo
uomo sottovoce. Faceva segno di no con la testa, mentre lui cercava di persuaderla. Dentino era momentaneamente sceso dal Sor Cesare, e io ascoltavo le gesta di Mauro che mi
parlava della sua auto e di quando anche lui, prima di Dentino, si faceva Elide.
L’auto rombante richiamò l’attenzione dei due hippy. Betty era veramente titubante nel
salire in auto, ma il suo amico, con un’ultima assertiva “carezza” sul braccio, la convinse.
La Binda lanciò uno sguardo verso noi, ammiccando un sorriso, fece un salutino con la
mano verso di me, scomparendo nel traffico. Dentino risalì.
Lo strombettare di un’auto ci fece voltare in direzione del marciapiede. Mauro, con quel
suo sorriso transessuale, era seduto al posto di guida della sua bellissima macchina, con a
fianco una bionda ancor più bella dell’auto.
«Ciao a tutti, stasera mi voglio svenare». La sua voce era allegra.
«Ciao Mauro» dissi ad alta voce.
«Ciao Ernè, ciao Dentino. Volete venire con me?».
«Dove?» chiese il mio amico.
«Andiamo in quel night club che sta in via Molino delle Armi e… pago tutto io!».
Tirò fuori dalla tasca, sventolandoli sotto il naso della ragazza, un mazzo di fogli da diecimila.
Durante il tragitto Mauro ci spiegò che la sua amica era olandese e si trovava da pochi
giorni a Milano per fare uno stage presso la Borletti. Alloggiava nel suo Hotel e, finché durava, sarebbe stata la sua ragazza.
Nel night la musica bloccava anche nostri respiri. La sala quasi al buio era complice di
ammiccamenti e strusci. Quasi tutti ballavano e chi non lo faceva stava seduto ai tavolini.
In un angolo del bar, Chico, il batterista degli Equipe 84, insieme a Vandelli, bevevano e
fumavano attorniati da ragazze che si sarebbero donate senza né “se” e né “ma”. Mauro,
170
con un’alzata di mano, lanciò il saluto ai due “famosi” i quali risposero alzando il bicchiere.
Le ragazze si ammutolirono giusto il tempo per rivolgerci un’occhiata analizzatrice, per poi
ritornare ai loro idoli.
Non avevo mai bevuto champagne, perciò, dopo un paio di coppette ero tutto elettrizzato, e mi venne voglia di andare in mezzo alla mischia. Dentino no! Lui non ballava, stava in
disparte. Lui era una “persona seria”.
Eravamo scatenati io, Mauro e l’olandesina. Lei era un pochino ubriaca. Si stringeva a me
fissandomi negli occhi e Mauro la stringeva di dietro, si stringeva a lui fissandolo negli occhi e io la stringevo di dietro. Dentino rideva, mentre con la mano mi faceva dei “segni
d’incitamento”.
Dopo un po’ Dentino si avvicinò a me sussurrandomi nell’orecchio che ci saremmo rivisti
il giorno dopo a piazza Duomo. Senza darmi il tempo di recepire bene il suo messaggio,
colpa della musica forte, si girò verso Mauro dicendo anche a lui qualcosa, Mauro assentì e
vidi sparire Dentino verso l’uscita. Quando chiesi a Mauro cosa volesse il mio amico, lui, in
silenzio, muovendo soltanto le labbra, mimò “Stasera ce la scopiamo insieme”. Ripresi a
ballare con più allegria.
La serata finì in bellezza; l’olandesina era completamente ubriaca, Mauro e io eravamo lì.
Saliti in auto ce ne andammo al Parco Lambro. La capotta della macchina, tra scricchiolii
metallici e titubanze rugginose, ci mise un bel po’ di tempo a chiudersi, poi accadde di tutto. Mauro rideva, mentre con la bottiglia di champagne innaffiava il viso della ragazza.
L’olandesina, tra un sorso e una lavata di capelli, si era spogliata completamente e rideva
anche lei. Tra una bevuta e una risata facevamo l’amore a turno.
Quando fui riportato a casa, lo stomaco iniziò a rumoreggiare come lo scarico di un lavandino quasi otturato. Di corsa salii le scale e fui subito nel bagno sul pianerottolo. Lo
champagne rivendicava la sua libertà e, vomitandolo tutto nel WC, mi sentii libero anch’io.
Documendi!
Il mattino dopo la sveglia suonò alle dieci, ebbi il tempo di lavarmi, presi due aspirine per
combattere il mal di testa e alle undici ero in piazza Duomo. Dentino doveva venire a momenti.
Stranamente non c’era ancora nessuno dei miei amici e Dentino ritardava a venire, lui che
era sempre in anticipo.
«Ciao».
La voce del signor Cesare mi prese alle spalle.
«Buongiorno» dissi.
«Ma lo sai cosa è accaduto ieri sera?». Le sue parole erano falsamente allarmati.
«No! Cosa è successo?».
«Come non lo sai!? Non sei andato anche tu con Black e la sua ragazza insieme alla Binda?».
«No! Io con quella gente non vado. Comunque ieri sera sono andato con Mauro e
un’amica a ballare. Ma cosa è successo?».
«Ieri sera quello che è andato con la Binda, non lo sai cosa ha combinato?!».
«Senta signor Cesare, a me non interessa nulla di tutto ciò, quindi mi lasci in pace».
«Ma non lo sai che una ventina di minuti fa si sono portati via anche il tuo amico Dentino?».
«Come sarebbe a dire? E chi lo ha portato via?».
«La polizia, perché Black prima è “stato” a casa della Binda e dopo aver fatto i propri co171
modi, ha preso quel poveretto, lo ha quasi picchiato a morte, lo ha legato e gli ha rubato
tutto ciò che aveva di valore in casa e la polizia, stamattina, cercava il tuo amico perché
Black ha detto che gli oggetti rubati in casa della Binda li ha venduti a Dentino».
«Porca miseria!» esclamai.
«E tu non sai niente?».
«Ho i testimoni che ieri sera ero andato al night con Mauro e una ragazza».
«Cerca di capire, a me non mi interessa nulla, ma devi stare attento che qui a Milano noi
del sud non siamo visti di buon occhio. Ciao».
Non so se quello era un avviso oppure una minaccia amichevolmente velata.
«Arrivederci».
Con Dentino in carcere cosa avrei potuto fare da solo? Certo avevo ancora qualche soldo,
ma sarebbero finiti molto presto. Restai a sedere, pensando al da farsi. Poi mi alzai facendo
un giro della piazza, quindi decisi di andare a Rho dal parente di Dentino per saperne di
più.
Sulla saracinesca abbassata della tabaccheria, su un cartello fissato con il nastro adesivo,
c’era scritto “Luogo posto sotto sequestro dall’autorità giudiziaria”.
Quindi avevano arrestato anche il parente di Dentino.
Girovagai attorno al Duomo finché non si fece pomeriggio. A chi potevo chiedere notizie
del mio amico? A chi?
La rosticceria! Sì! La ragazza dietro il bancone era sua sorella!
«Senti» disse la ragazza, «qui non ci devi più venire perché per colpa vostra hanno arrestato mio fratello. Voi siete tutti amici per interesse e lui è sempre stato troppo buono con
voi».
«Ma io...».
«Vattene prima che mi metta a urlare. Hai capito?».
Uscii con la coda tra le gambe dirigendomi verso il Duomo. Mi misi a sedere sotto il leone.
Guardavo la gente passare e aspettavo. Cosa aspettavo o chi, non lo so.
Il primo a venire fu il napoletano. Mi salutò e mi chiese del mio abbattimento.
«Non ho nulla, è che oggi è una giornata storta». Gli raccontai di Dentino.
«L’ho saputo da Cesare. Capita a tutti. Mica è sempre domenica».
«Già!» ammiccai.
Rimasi tutto il pomeriggio in piazza, in compagnia del napoletano.
Mentre la sera accorciava le distanze dalla città, l’abruzzese comparve all’improvviso come
un fantasma.
«Trasmettete un senso di allegria talmente forte che se un morto potesse resuscitare, vedendovi così, andrebbe in depressione con manie suicide» disse.
Per rompere quei momenti funebri, il napoletano ci invitò ad andare giù nella sala delle
macchinette.
Qualche cento lire, un paio di giri svogliati e smisi. Allora decidemmo di andare a mangiare un panino all’automatico. Ancora qualche cento lire, un panino con salame, Milano e di
nuovo a vagabondare nel sottopassaggio.
Eravamo raggruppati nel sottopassaggio, quando all’improvviso fummo circondati da un
nugolo di agenti sia in borghese che in divisa.
«Documendi» disse il poliziotto baffuto. Dato il suo accento, probabilmente era del sud.
Dopo aver mostrato le nostre carte di identità, il baffuto ci ordinò di seguirlo.
Arrivati sulla piazza, il resto dei poliziotti si mise in cerchio attorno a noi. A poca distanza,
un furgone della polizia attendeva.
172
«Salite senza fare storie» disse minaccioso il baffuto.
Al primo cenno di ribellione verbale, fummo spintonati, senza tante moine, dentro il
mezzo dai sette o otto poliziotti.
«Adesso andiamo in Questura e sentiremo che cazzo ci state a fare qui a Milano».
Sicuramente il baffuto era quello che comandava.
Il tragitto durò qualche decina di minuti. Ci fecero sedere in una stanza, per poi chiamarci
uno per volta in un’altra.
Dopo aver visto gli altri miei amici uscire senza rivolgermi alcuna parola, rimasi solo. Arrivato il mio turno, mi ritrovai in un ufficio identico a quello del maresciallo Spatafora di
Roma; un poliziotto dietro la macchina da scrivere, appeso al muro il ritratto del Presidente
della Repubblica, un paio di sedie, mobili freddi e brutti.
«Dove lavori?» fu la domanda del baffuto che si era spaparacchiato su una sedia.
«Per adesso non lavoro. Ho lavorato alla fiera del Messico e sto cercando un altro lavoro».
Sembrava non avesse sentito la mia risposta.
«Conosci un certo Marchese, detto anche Dentino?».
«No! E chi lo ha mai sentito nominare!».
«Eppure i tuoi amici mi hanno detto che voi due state sempre insieme e che insieme rubavate ovunque».
«Signor Maresciallo, io non so nulla e Dentino lo conoscevo come tutti gli altri perché
veniva spesso in piazza».
«Senti, romano del cazzo, io non ho prove contro di te perché quel tuo amico non parla
manco se lo castriamo, ma se minimamente vengo a sapere qualcosa, e prima o poi lo verrò
a sapere, ti farò passare tanti di quei guai che ti pentirai di essere venuto a rompere i coglioni a Milano».
Fece una pausa aspettando che il poliziotto dietro la macchina da scrivere avesse finito.
«Ecco maresciallo, questo è il verbale con il foglio di via».
Il maresciallo lo prese, ci mise un timbro sopra, poi mi fece firmare.
«Questo è un foglio di via obbligatorio per i non residenti, ti permetterà di prendere il treno gratis e ti vieta di ritornare a Milano per il resto della tua vita». Porgendomelo aggiunse
autoritario: «Domani mattina devi andare in tribunale davanti al Pretore, sul foglio c’è
scritto dove e quando. E adesso fuori dalle palle e non farti più trovare qui, sennò da San
Vittore non ti salva nessuno».
Mi diressi a piedi verso la Stazione Centrale.
Andare a Roma o restare? E se il Pretore mi avesse condannato? Ma sì, al Pretore avrei
detto che volevo rimanere a Milano per lavorare, avrebbe certamente capito.
A piazza Duomo non trovai nessuno. Sconsolato me ne andai a casa. Senza cenare, mi
misi sotto le coperte.
Il mattino dopo alle nove e trenta ero in tribunale e alle nove e quarantacinque già condannato a venti giorni di carcere con pena sospesa e l’obbligo di lasciare Milano in giornata.
Fui accompagnato alla stazione da due poliziotti i quali, dopo avermi messo sul treno per
Roma, scomparvero soltanto quando il treno iniziò a muoversi.
Nelle cabine di seconda classe c’era il tutto esaurito. Rimanevano soltanto posti in piedi
nel corridoio. Allora mi misi alla ricerca della prima classe. Nella prima cabina che trovai,
dopo averne sorpassate alcune occupate, vi era una signora e nessun altro. Gentilmente
chiesi se mi potevo sedere, a risposta affermativa mi accomodai di fronte a lei e, guardandola dalle caviglie in su, mi misi a pensare distrattamente ai fatti miei.
La signora era una bellissima donna sulla quarantina, aveva capelli biondi, tirati dietro a
mo’ di cipolla, sopra due occhi azzurri e luminosissimi sormontati da occhiali dorati. Le
labbra emanavano un leggero senso di femminilità.
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Leggeva un libro e la gonna le copriva a malapena le ginocchia, lasciando intravedere che
“sotto” portava bianche mutandine di pizzo.
Ai piedi scarpette di lacca rossa; sicuramente una signora chic e d’alto bordo.
Ogni tanto si distraeva dalla sua dalla lettura, guardava fuori, allargava le gambe, dandomi
una visuale a 360 gradi delle sue intimità non più nascoste, poi, guardandomi in modo impercettibilmente morboso, sorrideva leggermente. Dal canto mio facevo finta di non far
caso a lei, la scrutavo con falsa superficialità guardando fuori dal finestrino, ma i miei occhi
si intrufolavano prepotenti tra le sue gambe.
«Signora mi scusi, vado un momentino in bagno, mi terrebbe il posto?».
Avevo sete e necessità di fare un bisognino.
«Stai tranquillo, caro ragazzo, nessuno entrerà in questo compartimento».
Ma è mai possibile che tutti i bagni sui treni italiani siano una schifezza? Tracce di ogni
sporco ovunque e acqua a contagocce. Che schifo!
Il treno continuava la sua corsa. Rientrai nello scomparto. La signora in rosso mi studiava
sempre sorridendo.
«Biglietti!».
Il controllare, entrato all’improvviso, aspettava il mio scontrino, mentre la signora cercava
nella sua valigetta ventiquattrore. Le mie mani frugavano in tutte le tasche cercando una
bugia riguardo il foglio di via che mi aveva rilasciato la Questura.
Dopo aver vidimato il biglietto della signora, si rivolse a me.
«Allora, dov’è il suo biglietto?».
Lo tirai fuori dalla tasca porgendoglielo.
«Questo è il foglio che mi ha dato la polizia quando ho denunciato il furto del portafoglio» dissi cercando di essere il più veritiero possibile.
Il controllore guardò bene il foglio di carta, lo girò, lo rigirò e disse: «Lei qui non può stare. Questo è valido solo per la seconda classe, quindi si alzi e cambi vagone».
«Un momento!» fece la signora, la quale aveva seguito con interesse la faccenda: «Quanto
costa la differenza dalla seconda alla prima?».
L’uomo disse il costo e le signora, sempre sorridendo, tirò fuori della banconote dandole
all’uomo.
Questi presi i soldi e, dopo aver dato un biglietto alla donna, scomparve nel corridoio.
«Ce l’abbiamo fatta» disse parlando come fossimo stati in combutta.
«Grazie tante signora».
Adesso la donna, con un movimento delicato, accostò leggermente le tendine e iniziò a
slacciarsi un paio di bottoni della camicia, lasciando intravedere un petto formoso. Sempre
sorridendomi, con lo sguardo fisso nei miei occhi, allungò la mano carezzandomi il ginocchio sinistro, per poi farla salire fin sulla coscia.
Pareva avesse un ferro da stiro nella mano, talmente era calda. Vedendo la mia eccitazione
e la mia passiva resistenza, domandò: «Sei stato in prigione?».
«No! Soltanto non avevo lavoro e la polizia mi ha mandato via da Milano».
«Poverino» bisbigliò la signora.
Poi, senza altre parole, alzandosi delicatamente, si venne a sedere accanto a me. Prese la
sua giacchetta di lana, se le poggiò sulle gambe, mettendovi sopra la valigetta, la aprì tirando
fuori una rivista porno. Si mise a sfogliarla lentamente come darmi tempo di sbirciare con
comodo. Non potevo fare a meno di guardare.
Rosso in viso, guardavo di sbieco quelle immagini al confronto delle quali il Kamasutra
era un libretto per come coltivare i gerani. Naturalmente in quella situazione il “gonfiore”
nei miei pantaloni era evidentissimo e, anche volendolo nascondere con le mani, si sarebbe
visto ugualmente.
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Mentre girava e rigirava pagine con donne, uomini e sesso attorcigliato, la signora tolse la
giacchina che aveva poggiata sulle gambe mettendola sui miei pantaloni.
Adesso sfogliava le pagine con la mano destra, mentre la sua sinistra piano piano si intrufolava sotto la giacchetta cercando “ciò” che desiderava. Sentii che mi slacciava i pantaloni
e, delicatamente, iniziava a masturbarmi. Rimasi tutto il tempo ansimando, lo sguardo fisso,
immobile sulla parete di fronte. Quando ebbe finito, raccattò la giacchetta chiudendola
nella ventiquattrore e uscì dallo scomparto senza pronunciare parola alcuna.
Rimasi a pensare a quella donna, strano incontro per un’avventura superficiale: mi ha pagato il biglietto, mi ha masturbato ed è scomparsa in silenzio. Con il buio e con il dondolio
del treno, venne anche il sonno. Rimasi solo fino a Roma.
Mi svegliai dopo qualche ora. Un filo di luce entrava dalle tendine ancora chiuse, aprendole iniziavo a vedere le prime costruzioni delle borgate romane.
Ero finalmente nella mia città.
Cipolla
Sceso alla Stazione Termini mi misi a girare nei dintorni di piazza Cinquecento. Sembrava
che non fossi mancato da Roma neanche un’oretta. Il rumore dei bus attorno la stazione, il
fischiettare del vigile, i piccioni svolazzanti in piazza dei Cinquecento e quella caotica tranquillità, erano “cose mie”. Sotto i portici c’era qualche improvvisato venditore di accendini.
Stranieri zero, turisti a gruppetti. Gironzolavo, quando una voce familiare mi fece girare di
scatto.
«Aoh! A rubbagalline!».
Cipolla era lì in un angolo accanto a un banchetto che vendeva accendini.
«Ciao Cipo’» feci.
«Ciao» rispose.
«Che vendi l’accendini?».
«Essì! Ma nun se fa’ na lira».
«E Er poraccio? e Diavoletto?».
«Se li so’ bevuti un paio de mesi fa».
«Come bevuti?!».
«Bevuti! Ar Gabbio! Carcerati! Come te lo devo di’!? Stanno a Regina Coeli».
«Ah! Ho capito, in carcere. E tu ti sei messo in affari».
«Ma quale affari, non se fa’ ‘na lira co’ sti accendini!».
Dopo qualche secondo di silenzio domandò: «E te che fai?».
«Vengo da Milano, mi hanno dato la diffida perché non avevo lavoro».
«E come se sta a Milano?».
«Si sta bene e ci sono più soldi di qui, c’è anche lavoro, se uno vuole».
«Che ne dici se partimo tutti e due per Milano?».
La sua domanda mi lasciò per un attimo spiazzato.
«Si potrebbe fare, ma io ho la diffida e non abbastanza soldi per il viaggio».
«Ma che ce frega? Con me quando te pigliano! Dai che facciamo l’autostop! L’importante
è che rimediamo qualcosa per comprarci un panino durante il viaggio».
«Se è per questo, i soldi che ho bastano». Lo rassicurai.
«Sei una favola» ribatté entusiasta Cipolla. «Aspetta qui che vado a vendere a un amico la
mia roba, e poi partiamo».
Prese il banchetto così com’era, dirigendosi all’angolo opposto.
Tornò che aveva rimediato qualche mille lire e poco dopo l’autobus ci portò vicino lo
175
svincolo della via Aurelia.
Come bagaglio non avevamo altro che noi stessi e i vestiti che indossavamo.
Sogni nel cassetto: nessuno.
Noi con il pollice alzato, loro, gli automobilisti, col pedale gasato.
Finalmente un’auto si bloccò. Era un carabiniere che andava in quel di Firenze. Ci accolse
nella sua Seicento e, dopo qualche discreta e informale domanda a cui rispondemmo mentendo, il viaggio continuò in silenzio. Al primo autogrill ci fermammo. Meravigliati dal suo
“ragazzi la colazione ve la offro io”, ci buttammo quasi a capofitto sul vassoio dei panini.
«Grazie del passaggio e della colazione» dissi quando a Firenze fu ora di trasbordare
dall’utilitaria.
«Grazie dotto’» apostrofò Cipolla
«Di nulla ragazzi e buona fortuna».
Il carabiniere scomparendo ci salutò con la mano fuori dal finestrino.
Passammo due ore sulla piazzola d’emergenza a turno col pollice teso.
Il grande camion, diretto a Milano, ci accolse tra cassette di pomodori, cetrioli e altre verdure. Anche in quell’occasione ci riempimmo la pancia gratis. Cipolla ogni tanto gettava un
pomodoro verso le auto dell’altra corsia.
Il viaggio terminò a Opera. Da lì non fu difficile prendere il pullman per Milano Stazione
Centrale. Poi il tram ci portò a Ripa Ticinese.
Il mio compagno rimase meravigliato per la conoscenza che avevo di Milano e, ancor di
più, che avessi un posto in cui dormire.
Quando fummo nella mia stanza, con mia grande sorpresa Cipolla tirò dai suoi pantaloni
un portafoglio; era quello del carabiniere che, oltre al passaggio, ci aveva offerto anche la
colazione.
«Ma che sei matto?» sbottai impaurito dalla sua sfacciata ingratitudine. «Ma quello è di un
carabiniere! Lo sai che ci possono arrestare?» continuai.
«Ma che me frega a me! Dentro ce stanno venticinquemila lire e a noi servono».
«A te “te servono” e a me no, va bene? Io ho ancora i soldi miei. Anzi se sei furbo metti i
documenti nella casella della posta, almeno quelli li ritrova».
«Essì! Mo’ me metto pure a cercare una buca delle lettere. Aoh! Quello era un carabiniere
e a me la madama nun me piace».
«Ci ha portati a Firenze e ci ha pagato anche i panini. Vabbè! Dalli a me i documenti che
ci penso io a metterli nella buca delle lettere». Allungai la mano.
Cercavo in tutti i modi di non inimicarmi il Cipolla. Prima o poi lo avrei costretto ad andare per la sua strada. Iniziavo a capire di aver fatto una scemenza ad accodarmi a lui.
Il Cipolla non era tipo per me.
«Tiè! Eccote il portafoglio con i suoi documenti». Porgendomelo aggiunse ironico: «Oltre
a esse un rubbagalline stai a diventa’ anche un bon samaritano».
Per non accendere fuochi inutili, dopo esserci lavati lo invitai a fare un giro per Milano.
Facemmo un lungo giro fino piazza Fontana per poi ritornare al Duomo, mettendoci seduti sotto il leone. Stranamente non c’era nessuno dei miei amici.
Mentre il Cipolla fumava, io gli spiegavo cosa avevo fatto a Milano con Dentino, del suo
arresto, il perché della diffida, dove si poteva mangiare a “prezzo fisso” e altre cose. Gli
parlai anche del bar l’Etoile, quello dei travestiti, in via De Amicis.
Il Cipolla ascoltava interessato. Milano per lui era una città nuova e dove, diceva, avrebbe
“fatto soldi”.
Mentre gli elencavo pro e contro, lui guardava sbalordito le insegne che accendendosi illuminavano la piazza favorendo il buio in attesa dietro l’angolo.
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Cenammo al “prezzo fisso”. Il cameriere era nuovo e il mangiare lo stesso di qualche
tempo prima; non proprio fresco di mercato e la pasta scotta, comunque...
«Io vado a trovare i miei amici in piazza e tu cosa fai?» dissi rivolto al Cipolla, sperando
che andasse dalla parte opposta.
«Lo sai che faccio adesso?» ribatté.
«No! Che fai?».
«Vado a vede’ che razza di gente c'è al bar dei froci».
«All’Etoile vorrai dire».
«Sì, proprio là».
«Se va bene a te» risposi mezzo deluso dalla sua decisione. «Dopo le undici sto a casa,
quindi prima non mi trovi. E quando vieni non fare rumore sulle scale, capito?» aggiunsi.
«Vabbè!» disse girandosi lui.
Prese via Torino direzione via De Amicis. Rimasi seduto osservandolo mentre andava nel
“suo mondo”.
Chissà cosa era accaduto per non esserci nessuno in piazza. Si sarebbe rivisto ancora il
napoletano? E l’abruzzese? E Gianni il sarto? E tutti gli altri? L’unico che non desideravo
incontrare era il sor Cesare. Sì, la cosa era strana, perché normalmente qualche mio amico
c’era sempre lì. Invece non c’era nessuno. Un po’ più in là, una coppietta parlava d’amore.
Tornai nella mia camera addormentandomi col fumetto in mano nel momento in cui il
Sor Cesare prendeva le sembianze di Kriminal.
Era buio profondo quando sentii bussare alla porta. Assonnato andai ad aprire e il Cipolla, un pochino strano nel camminare, entrò buttandosi sul letto vuoto. Prima di cadere in
un sonno profondo, lo sentii esclamare: «So’ tutti froci e io so’ er mejo maschio e...».
Si era addormentato senza finire la frase, sicuramente era ubriaco.
Il mattino dopo mi svegliai verso le dieci e trenta. Dopo essermi lavato mi misi a fare il
caffè. Giacché non ho mai amato tipi come il mio ospite, per svegliarlo feci apposta un po’
di rumore con la moka e le tazze.
«Aoh! Che succede!? Ma che ora è?» chiese mentre con la coperta si copriva la testa.
«A Cipo’, è quasi mezzogiorno. Datti una mossa!».
«Quasi mezzogiorno?».
«Sì».
«Mamma mia com’è tardi, ci ho un appuntamento all’una in galleria con uno pieno de
sordi».
«E allora sbrigati sennò farai tardi».
In due minuti era pronto e, complimentandosi per la bontà del caffè ciofeca, “a Roma lo
fanno mejo”, uscì dicendo «se vedemo stasera. Ai milanesi i romani je piaciono una cifra!».
Fortunatamente per lui, la sera dopo le dieci mi poteva sempre trovare a casa.
Grazie al sor Cesare trovai lavoro.
Accadde un giorno mentre ero seduto sotto il leone. Venne a chiedermi se mi interessava
lavorare in una fabbrica di dischi, in cambio gli dovevo trovare qualcuno che avesse “cose
interessanti” da vendere, perché lui, diceva, era l’unico “compratore” della zona.
Accettai, dimenticando le avvertenze del mio amico Dentino.
Nella fabbrica si mettevano i dischi nelle copertine. Il lavoro era buono, non pesante e la
paga sufficiente. Naturalmente lavoro in nero.
Una sera come tante, dopo aver finito di lavorare, mi piazzai sotto il leone sempre con la
speranza di poter vedere uno dei vecchi amici.
Meraviglie delle meraviglie, in lontananza vidi una figura conosciuta; era Gianni il sarto.
«Ciao Gianni!» esclamai felice.
«Ciao romano de Roma!».
177
«Ma dove sono andati a finire tutti gli altri?» chiesi.
«Se li è portati via la polizia, uno per uno. Quasi tutte le sere fanno una retata per prendere quelli che non sono di Milano».
«E che viene anche stasera la polizia?». Ero allarmato.
«E chi lo sa? È meglio che ce ne andiamo da qui».
«Forse hai ragione».
Ci alzammo prendendo a passeggiare verso San Babila.
Gianni mi parlava della sua ricca famiglia, del fratello Santino, della sorella Donata, e della
sua passione di disegnare abiti. Era un ragazzo simpatico, con un sorriso disarmante.
Passavo i giorni da solo; lavoravo, ogni tanto lanciavo un’occhiata in piazza Duomo, facevo due chiacchiere con Gianni quando c’era, a volte incontravo il sor Cesare che insisteva
a domandarmi “roba” da vendere e io a promettergli tanta refurtiva per paura perdere il
lavoro. Cene sempre al “prezzo fisso”.
Il Cipolla ritornava sempre più tardi, spavaldo delle sue avventure. Quando la mia pazienza si esaurì gli diedi una copia della chiave di casa e una scadenza; se ne doveva andare via
entro una settimana. Così accadde e non lo rividi più.
Ancora giù e poi su
Era la fine del ‘68 quando, dopo aver cenato, mi diressi come al solito in piazza. Le auto
della polizia ne bloccavano l’accesso. Un nugolo di persone curiosava indicando proprio
l’uscita metro. All’improvviso vidi degli infermieri uscire dal sottopasso con una barella e
un uomo tutto ammaccato sopra e prendere di corsa la direzione dove era parcheggiata
l’ambulanza.
Vidi quell’uomo di sfuggita e... ma lo conoscevo! Era il sor Cesare, irriconoscibile. Aveva
la faccia piena di sangue, gli occhi pestati e una flebo nel braccio.
Non so perché, ma volli allontanarmi all’istante.
«Fermo tu!».
Sentendomi prendere per un braccio, mi bloccai girandomi automaticamente.
«Documendi».
In un lampo mi ritrovai in Questura.
«Lo sapevo che sei un delinquente» sbraitò il baffuto.
Mi diede la prima sberla all’improvviso, con forza e mi fece cadere con tutta la sedia.
«Adesso mi devi dire chi ha mezzo ammazzato di botte il signor Cesare?».
La sua voce era prepotente. A ogni mia risposta negativa, giù un’altra sberla, però, bontà
sua, mai sulla stessa guancia.
Mi ritrovai prima in Questura; foto segnaletiche, impronte digitali e altro, poi a San Vittore per diffida al foglio di via obbligatorio.
Le ferite sul labbro e l’occhio blu scomparvero dopo circa un paio di settimane.
Le celle del carcere erano vecchie, brutte, sporche, puzzolenti e buie. Il bugliolo, il secchio
dei bisogni dei detenuti nella cella, in un angolo emanava un odore acre di pipì, cacca, cloro, varechina e avanzi di cibo. La grandezza della cella doveva essere 4 x 3. I letti a castello
erano sei e tutti occupati. Non ci si poteva muovere e tanto meno avere una minima intimità quando i bisogni naturali si facevano sentire.
Il mangiare, portatoci dentro pentoloni da terzo mondo, era una schifezza indecifrabile.
Le lenzuola venivano cambiate ogni 15 giorni, mentre i materassi di crine, marrone, bianco, nero e altri colori indescrivibili, erano roba di alto antiquariato, rotti, deformati e puzzolenti per aver ospitato, cimici, migliaia di detenuti e il loro sperma.
178
I miei compagni di cella, quasi tutti italiani, erano “dentro” per piccoli e svariati reati, salvo lo “slavo”. Era stato arrestato solo perché era straniero, diceva lui, e condannato a sei
mesi.
Il chiasso terminava la sera tardi, per riprendere all’alba, nell’ora della “battuta delle sbarre”. Le piattole erano detenute nei detenuti, mentre la scabbia rincorreva la sua nuova preda: il sottoscritto pieno di prurito e bollicine dalla testa ai piedi.
Feci la vista medica. Mi diedero 15 giorni di isolamento. Dovetti spalmarmi, due volte al
giorn su tutto il corpo un olio nauseabondo. Nonostante continuassi a portare gli stessi
vestiti mai smessi, un giorno la scabbia rincorse un altro nuovo arrivato.
Poi la direzione del carcere mi diede dei vestiti usati e puliti e fui di nuovo libero, diffidato
ancora una volta dal tornare a Milano e accompagnato fino a Roma da due guardie.
Il viaggio fu in uno scomparto di seconda classe, assieme ad altri comuni viaggiatori. Io
sempre a testa bassa, i miei due angeli custodi impassibili. Un “panino pagato dal Governo”, così disse uno dei due quando venne l’ora di ingozzarsi.
«E il ragazzo?» chiese il venditore di panini sulla porta dello scomparto.
« Un panino anche a lui!» rispose uno dei due.
«Per noi anche due caffè» Ordinò il suo compagno.
«E il ragazzo?» ripeté a cantilena il paninaro.
«No, lui beve acqua» rispose il brigadiere.
Comunque mangiai sempre con gli occhi abbassati, ma gli altri viaggiatori non tendevano
ad abbassare i propri. “Chissà cosa ha combinato per essere scortato. Chissà che razza di
delinquente è”.
A Roma mi lasciarono alla Stazione Termini. Mi diedero un foglio riguardante il sottoscritto dicendomi che avrei dovuto portarlo alla Questura Centrale, io acconsentii e loro
soddisfatti scomparvero alla mia vista.
Un foglio da portare in Questura? Mica ero tanto scemo! Andai subito a vedere a che ora
c’era il primo treno in partenza per Milano.
Il treno per Milano-Chiasso era al binario 6, vi salii sedendomi in seconda classe. C’erano
tre persone in tutto. Di controllori neanche l’ombra fino a Firenze. Adesso il treno aveva
preso la dirittura d’arrivo per Milano.
«Biglietti!».
La parola stessa mi fece sobbalzare.
«Biglietti prego!».
«Non ce l’ho».
Multa, discesa e cambio a Bologna. Autostop fino a Milano.
Fortunatamente a casa mia tutto era rimasto come l’avevo lasciato. Soldi non ne avevo
tanti, soltanto qualche spicciolo, quindi presi dal cassetto l’orologio che avevo comprato
assieme al mio amico Dentino, per andarlo a vendere a Rho, da quel suo parente tabaccaio.
Mi cambiai, dopodiché uscii.
Viaggio e speranze inutili.
Nella tabaccheria vi erano altre persone e non sapevano dove fossero finiti i vecchi proprietari.
Cosa mi rimaneva da fare? Ah! Il sor Cesare! Lui comprava tutto e in fin dei conti mi aveva sempre chiesto delle cose da comprare, e poi mi aveva anche trovato lavoro.
«Beh, ti posso dare 2000 lire» disse dopo aver guardato e rigirato l’orologio.
«Come 2000 lire!? Ma io ve l’ho pagato otto!» esclamai sorpreso dall’offerta.
«Lo so, ma gli affari sono affari. Vabbè! 4000 lire e non se ne parla più».
«Va bene». Presi a malincuore i soldi.
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«Mi scusi Signor Cesare, ma che fine ha fatto Dentino?» chiesi.
«Non lo so, è tanto tempo che non lo vedo. Forse è ritornato al suo paese».
Come risposta era un tantino ambigua.
«Comunque se hai qualcosa da vendere puoi sempre venire da me».
«Va bene, signor Cesare».
Il pasto al “prezzo fisso” mi tranquillizzò lo stomaco.
Il Club
Nei giorni a seguire comprai il “Giorno”, il quotidiano milanese in cui si potevano trovare
offerte di lavoro.
Cercasi esperto diplomato in...
Cercasi esperto venditore munito di...
Cercasi esperto chef de rang...
Cercasi esperta baby sitter...
Cercasi esperti operai specializzati e...
Si cercavano soltanto persone esperte, di facchini nemmeno l’ombra. Quindi mi venne
l’idea di agire come avevo sempre fatto: andare personalmente a chiedere lavoro.
Al Roxi Bar di piazza Diaz, Renato mi rispose che gli dispiaceva tanto, ma non avevano
posti liberi. Però, guardandolo dritto negli occhi, si capiva benissimo che era una bugia.
A forza di chiedere qua e là sempre inutilmente, mi ritrovai nei paraggi di via Santa Tecla.
L’ingresso sembrava quello di un bar, ma non era un bar perché la porta, di legno castagno lucido, era semi aperta e non dava segni di luce in uscita. Una scritta in ottone diceva
“Club Privato”. Feci capolino e... le pareti erano ricoperte di raso e velluto rosso con accenni d’oro, qualche quadro di ragazzi nudi che con le mani a malapena si coprivano “lì”,
dove, al posto delle mani, avrebbe dovuto esserci la foglia di fico. Luci soffuse ovunque. Il
tutto dava la sensazione di trovarsi in un altro mondo, un mondo che non avevo mai visto.
Dissi che cercavo lavoro alla persona che mi si fece incontro, e quella senza domandarmi
cosa sapessi fare, con una voce squillante, armoniosa e languide occhiate, mi disse di passare la sera che avrei trovato il proprietario. Così feci.
Mi presentai pulito e stirato. La persona di qualche ora prima, tra mille contorcimenti e
moine varie, mi fece entrare dicendomi di chiedere al barman del signor Giulio.
Dopo meno di dieci minuti venne un signore verso di me.
«Ciao!» disse confidenzialmente l’uomo allungandomi la mano tipo baciamano, manco
fosse la Regina d’Inghilterra. Camicia di raso color oro, pantaloni a palazzo stretti al bacino,
un anello all’anulare sinistro, catene e catenine d’oro al collo e, sopra la camicia, capelli
biondi, pochi e cotonati. Si muoveva sculettando. Essì! Sicuramente era gay.
«Buonasera» risposi.
Offrendomi da bere, “Cosa ti posso offrire bellino?” (presi un’aranciata), si presentò come il proprietario del locale. Mi chiese l’età, da dove venissi, volle vedere la carta d’identità.
Quello era un club di persone particolari. Non tutti vi potevano entrare, soltanto i soci.
Vi venivano personaggi dello spettacolo, intellettuali e politici, gente riconoscibile pubblicamente, ma che non voleva esser “vista”, né disturbata.
Il mio posto di lavoro, dalle sette di sera alle tre di notte, sarebbe stato in cucina a lavare i
piatti e, se necessario, a servire da mangiare e bere ai clienti. La paga sarebbe stata settimanale (30.000 lire), le mance lasciate dai clienti, di cui il 20% sarebbe toccato a me, ci avrebbe
pensato a darmele il barman che avrei dovuto chiamare “Monica”.
La sala era un grande salotto formato da poltroncine, sempre in velluto rosso, e tavolini
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anch’essi di color scuro. Le luci, dopo le nove di sera, dovevano essere abbassate in modo
da creare un’intima atmosfera.
Bisognava mangiare alle sette, pulire la sala e il bar, mettere in ordine la cucina, preparare
tutto a puntino e stare in attesa dei clienti. In special modo, mi si raccomandò, la massima
discrezione e pulizia. Lunedì riposo.
Il tempo scorreva tranquillo e senza pecche. Dormivo fino alle due, le tre del pomeriggio,
tempo libero fino alle sette, poi al lavoro.
«Ciao romanino!».
«Ciao romanaccio bello!».
«Ciao bel ragazzo!».
«Ciao gioia!».
Nessuno al club mi dava fastidio, o perlomeno non ancora.
Dal canto mio cercavo di frenare la ripulsa e un corrosivo senso di fastidio che mi prendevano tutto il corpo quando dovevo avere degli incontri ravvicinati con i clienti. Se avessi
dato retta alle mie paure sarei stato licenziato su due piedi, quindi, facendo un’analisi molto
razionale della situazione, frenai i miei istinti di vendetta sopita, ma stuzzicata da una strana
voglia di mandare a quel paese tutti quei brutti “froci”. Mi ripromisi che, finché avrebbero
tenuto le mani a posto, mi sarei comportato con educazione e rispetto.
Seguivo le direttive di Pasquale il cuoco, che veniva da Messina e lavorava lì da dieci mesi.
Aveva moglie e due figli. Abitavano a Pero, un paesino nei dintorni di Milano. Pasquale mi
mise sull’avviso di non cedere mai alle lusinghe dei clienti, ma neanche ai miei istinti, perché così facendo avrei conservato il posto di lavoro. Dovevo fare come lui; “non vedere,
non sentire”. In cucina dovevamo parlare sottovoce.
Pasquale non mi fece mai troppe domande. Credo che la sua discrezione fosse dovuta al
fatto che “meno domande fai, meno sai ed è meglio è per tutti”, insomma poca confidenza.
Comunque fu una brava persona, mi insegnò molte cose con i suoi silenzi, gli ammiccamenti e i suoi sorrisi di combutta.
Le giornate lavorative, a dire il vero le notti, passavano col solito tran-tran; parole gentili
dai clienti, piatti portati con maestria, e marchettari perfettamente agghindati e profumati
seduti a bere in attesa del maggior offerente.
La Binda decantava i suoi “allori” a San Remo, le sue conquiste maschili in tutta Italia, il
disprezzo verso quei colleghi e altri personaggi della televisione che, diceva, lo boicottavano
perché invidiosi del suo successo e, maggiormente, per le sue tendenze gay. In special
modo odiava un giovane baffuto presentatore siciliano (poi divenuto famosissimo) che egli
definiva “la scimmia impersonificata umana, una scimmia con delle pretese che, per entrare
alla RAI, ne ha presi di dietro più di me”.
La Binda aveva anche paura di quasi tutti i politici, che chiamava democattocomunisti
ipocriti, però di questi, tra pochissimi, ne stimava uno; un onorevole che nel fine settimana
da Roma veniva a Milano e di sera lo si poteva vedere al Club. Spesso se uscivano insieme
dal locale con un paio di ragazzi che erano lì a loro disposizione, al seguito.
Molte feste si organizzavano al club e il travestimento era all’ordine della notte.
Trucchi esagerati e sbavati, parrucche incredibili, vestiti assurdamente indossati, esibizioni
canterine... da sganasciarsi dal ridere.
A volte la Binda, mettendosi al piano, cantava e dopo l’applauso offriva da bere a tutti;
champagne a gogò.
Ogni tanto l’Onorevole e il marchettaro di turno, andavano nell’ufficio del signor Giulio da
cui, dopo una decina di minuti, rientravano in sala stando abbracciati, amoreggiando allegramente. Mettendosi di nuovo a sedere tiravano su di naso come se, in quell’ufficio, avessero preso il raffreddore.
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C’era tanta allegria e una forte dissacrazione delle serie identità.
In estate mancava soltanto qualche cliente ma, nonostante ciò, coi pochi clienti c’era
sempre da fare.
La “Bambola” di Patty Pravo si lamentava, mentre Fausto Leali chiedeva a chi potesse
parlare.
Un giorno il signor Giulio mi disse di andare nella copisteria vicino la stazione in cui avrei
dovuto fare un centinaio di copie di un invito per la festa che si sarebbe data una settimana
dopo; sul coloratissimo bigliettino il titolo diceva “ADDIO ESTATE”. Festa annuale in
costume e maschera. Ospiti “I Legnanesi ”.
Portai personalmente, casa per casa in giro per Milano, una settantina d’inviti, qualcuno
lasciato nelle mani del portiere, altri nella buca della posta. La settimana passò veloce.
Quella sera il Club si riempì in modo incredibile. Clienti che avevo quasi sempre visto con
abiti “normali”, adesso erano mascherati tipo Carnevale Rio de Janeiro; tacchi a spillo e
vestiti lunghi alla caviglia, oppure minigonne mozzafiato con veduta di genitali maschili,
anche se strettamente nascosti in collant. Parrucconi alla Pompadour, ori e perle su tutto il
corpo, sorrisi e movimenti alla Wanda Osiris. Bacini e bacetti non mascheravano voci maschili falsate.
Anche quella sera Patty Pravo se la prese con chi non smetteva di farla girare, mentre
Fausto Leali cantava odi amorose di vento e profumi a Jasmine.
Molti clienti, anche se sotto altre camaleontiche sembianze, si potevano riconoscere benissimo; l’Onorevole, lasciati i suoi panni grigi e impeccabili nell’armadio dei seri e nobili
propositi, adesso indossava un paio di occhiali da star hollywoodiana, aveva la parrucca
bionda sopra un vestito da donna, bianco e lungo ai piedi.
La scollatura era ampia e dava a sembrare che si fosse stretto sotto il petto una tenaglia in
modo che si formassero delle tette. Ogni tanto si fermava da qualche sua collega e, dopo
aver ricevuto l’atteso complimento, si torceva come neanche avrebbe saputo fare Marylin
Monroe.
La Binda era elegante come sempre; indossava un completo scuro da uomo, camicia, cravatta, e aveva i capelli imbrillantati. Sorrisi a destra e a manca, comunque composto e un
pochino discreto in quella baldoria.
Tra risatine, champagne, spaghettini, caviale e salmone, “Ciao Susy”, “Ciao Claudia”,
“Ciao Emilia” (l’Onorevole), la serata si accorciava facendo in modo che l’atmosfera accelerasse la notte e alzasse la gradazione, non solo alcolica, dei festanti.
I Legnanesi, sul palchetto, fusi col pubblico cantavano in dialetto milanese.
Io e Pasquale spiavamo dalla fessura tra il telaio e la porta che dava in sala.
«Minchia! Romano, ma questi travestiti sembrano acchiù meglio delle femmine!».
Pasquale era più meravigliato di me nel vedere quella bolgia di uomini/donna. Lui non
aveva mai visto feste del genere, anche se sapeva chi era un travestito perché, diceva, ne
aveva visti tanti al club, ma mai così tanti come quella sera.
Altri spaghetti al caviale, sogliola Picasso flambé, due porzioni di torta Charlotte.
Ed ecco che all’improvviso cominciarono i miei guai.
Ora che anche il proprietario e il cameriere erano nella mischia, dovetti uscire io a portare
i piatti ai tavoli. Schiva di qua, schiva di là, facendo la gimcana tra i danzanti, riuscii a servire
tutti. Carico di piatti e posate, rimasi di stucco nel vedere una mia vecchia conoscenza che
si contorceva in una sfrenata danza. Rientrai di corsa in cucina mettendomi a spiare da dietro la porta. Dalle occhiate del mio amico, che curiose e insicure mi inseguivano, capii che
mi aveva visto.
Il Cipolla, indirizzando lo sguardo scrutatore verso la cucina per accertarsi della mia identità, continuava a danzare con l’Onorevole, attorno altri marchettari cercavano di attirare
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l’attenzione del politico.
Carezze lascive venivano scambiate sotto l’occhio vigile del proprietario travestito da
“Giulia”; lui in sala non tollerava “più di tanto”. Per fare il “più di tanto” c’era a disposizione, ma non di tutti, il suo ufficio.
Dopo un paio di balli lenti, stretti-stretti, il Cipolla e l’Onorevole si diressero nell’alcova
del club. Passò un’oretta e li vidi di nuovo in sala; Cipolla con gli occhi stralunati e lucidi,
mentre l’Onorevole cercava di soffiarsi il naso impiastricciando il fazzoletto di rossetto.
Un travestito si avvicinò a lui bisbigliandogli una parolina all’orecchio, ricevendo in cambio e in modo furtivo qualcosa nelle mani, il travestito diede un’occhiata da gatta in amore
a Giulio e questi, con un cenno della testa, gli diede via libera per il suo studio. La gatta in
amore ritornando con gli occhi spalancati, saltellava rinvigorita. Tacco a spillo rotto; “Oh!
Mio Dio! Pasqualeeeee!?”. Lancio di baci con svolazzamenti di foulard.
Pasquale cuoco/calzolaio.
«Grazie bel siciliano, smack!».
Sottovoce sentii Pasquale dire: «A ‘sta minchia!».
Il Cipolla se ne andò via con l’Onorevole, gli altri ragazzi si divisero i compratori di sesso
per poi scomparire tutti verso l’uscita.
La festa finì verso le quattro del mattino ma, anche se stanchi, le mance dateci da Monica
(il barman) ci fecero dimenticare la stanchezza. I “Minchia!” di Pasquale erano positivi.
Essì, perché le mance superavano la paga settimanale.
Le pulizie le potevo fare il giorno dopo, nel pomeriggio, l’importante era aver lavato e
asciugato piatti, bicchieri e posate.
Mi ritrovai a casa verso le sette del mattino. Dormita lunga e di nuovo al lavoro alle quattro del pomeriggio. Sala, bagni, cucina, secchi immondizia, toilette, sedie, tavolini, tutto fu
pronto alle sette. e io ero soddisfatto.
Per lungo tempo non vidi né il Cipolla, né L’Onorevole. E meno male! Perché il mio amico, con quella sua pazza testa, in qualche modo, anche involontariamente, sarebbe riuscito
a farmi licenziare. Ed ero anche contento di non vedere più il politico, perché non mi erano
mai piaciute le significative e porche occhiate che mi aveva lanciato sin dall’inizio.
Ogni tanto davo una sbirciatina a piazza Duomo, ma dei miei amici manco l’ombra.
Compravo, pagandoli, gli abiti alla Standa o alla Rinascente. L’affitto della casa non sapevo
a chi darlo e neanche mi scervellavo al riguardo, perché, in fondo, se avessi trovato una
camera in centro avrei traslocato dal ballatoio e dalla puzza del cesso in comune.
Rividi il Cipolla al club dopo tanto tempo.
Potevano essere le nove di sera quando il mio amico entrò mettendosi a sedere al tavolino
dell’Onorevole. Il locale era ancora vuoto. Vedendomi sulla porta della cucina mi salutò.
Risposi, quindi mi avvicinai. Sembrava contento e sorpreso nel vedermi. La sua presenza,
anche se pericolosa, non mi pesava molto.
Era stato a Roma con il suo amico politico, aveva abitato in un grande e ricco palazzone,
dove aveva avuto a disposizione un cameriere, macchina blu con autista e una casa da mille
e una notte.
Non gli mancavano le centomila lire in tasca. Indossava vestiti migliori di quelli che aveva
sempre avuto. Però la solita e strana “antica luce” faceva capolino dai suoi occhi furbi, occhi di chi è rimasto seduto, anzi inchiodato, sui gradini di piazza di Spagna.
Ritornai in cucina. Lavorando, senza dare molta importanza né a lui, né alla sala, il tempo
passò in fretta. Dalla fessura tra il telaio e la porta si poteva vedere benissimo la solita routine; il Cipolla indaffarato con l’Onorevole, i marchettari in attesa del cliente, i risolini e il
tintinnio dei bicchieri. Immancabili le “Visite” allo studio del Signor Giulio e puntualmente
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chi ne usciva aveva il solito “raffreddore” improvviso.
Mancava poco più di un mese alle feste. Quel giorno Pasquale mi parlò del menù natalizio
e di fine anno. Nei giorni delle festività la sala del Club si doveva ornare con palloncini,
stelle volanti, tovaglie ricamate, ricchi premi e cotillon.
I menù sarebbero dovuti essere tutti a base di pesce, spaghetti al salmone, aragosta in
umido flambé, scampi grigliati in salsa agrodolce, dentice al cartoccio, moscardini in umido
di arancia, insalata di gamberetti, etc. etc.
Dato che è stata sempre mia abitudine arrivare al lavoro qualche decina di minuti in anticipo, quel giorno ero già in cucina a mettere in ordine alle sette meno venti. Pasquale aveva
preparato un menù speciale il pomeriggio stesso. Mi diceva che il signor Giulio gli aveva
telefonato a casa pregandolo di fare la spesa perché “se per l’onorevole le cose a Roma
erano andate bene”, quella sera sarebbe stata una serata speciale e un colpo di fortuna sia
per lui che per il Club. Una serata da festeggiare.
La cosa che mi colpì maggiormente fu che tutti, quella sera, anche quelli che normalmente
venivano vestiti da donna, erano, per così dire, in abiti normali. Camicia e cravatta sotto
abiti seri. Poco rimmel agli occhi per accentuarne i contorni tipo Rodolfo Valentino, risolini
non più traboccanti da bocche indecenti, complimenti e gentilezze al politico.
Dal vociferare in sala capii che qualcosa di positivo era accaduta all’Onorevole.
Si presentò verso mezzanotte accompagnato dal Cipolla e da due tipi, sicuramente agenti
in borghese, i quali non seguirono il politico al tavolino, ma si limitarono a dare un’occhiata
ricognitiva in sala, quindi, dopo un gesto di assenso verso la persona che avevano scortato,
uscirono.
Dopo che l’Onorevole si fu accomodato col mio amico al suo tavolo, il proprietario gli si
fece incontro con una bottiglia di champagne.
«Auguri Onorevole per la sua nuova nomina».
«Grazie Giulio, è stata una grande sudata, ma ce l’ho fatta».
«Essì, l’ho vista in televisione quando prestava giuramento ed ero contento per Lei».
«Grazie di nuovo Giulio».
«Questa bottiglia di champagne, se permette, gliela offre la casa».
«Grazie tante Giulio, sei proprio un amore».
Lo champagne esplose e il tappo cadde dentro una fioriera vicino la toilette.
Dopo il primo bicchiere, “cincin-cincin, auguri Giulio”, l’Onorevole fu premuroso
nell’offrire da bere agli ospiti in quel momento in sala.
Servi, sparecchia, sparecchia, servi, Pasquale rimase meravigliato dalle decine di portate
che dovette preparare.
«Minchia, romano! Hai visto quanto mangiano? Sembrano l’affamati del Biafra. Miiinchia!
E poi questa festa sicuramente costerà qualche milione all’Onorevole».
«Qualche milione!?» feci meravigliato.
«Ma non lo sai quanto costa una bottiglia di champagne? E specialmente quello che stanno bevendo? Non lo sai?».
«No. Non lo so!».
«Una sola bottiglia costa a tavolino 16.000 lire, fatti il conto; adesso è l’una e mezza e già
sono partite sette bottiglie, le persone in sala sono circa ottanta, il menù è di quattro portate
e costa per persona 40.000 lire, qualcuno prende anche del vino costoso, sai quello che ti
ho fatto vedere giù in cantina e che ti ho detto che noi non possiamo bere, e poi durante la
cena e dopo continueranno a bere champagne. Quindi... ma non ti scervellare a fare conti
che non serve e non ci interessa, a noi serve la mancia finale».
«Hai ragione Pasqua’!».
La stanchezza iniziava a farsi sentire e vedevo anche Pasquale asciugarsi ogni tanto la
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fronte imperlata di sudore.
Mi armai di buona volontà e via allo sparecchio. Molti piatti ritornavano quasi intatti.
Quei gamberoni al cognac mi facevano l’occhiolino, il salmone voleva saltarmi in bocca, i
gamberetti rannicchiati su se stessi sembrava volessero abbracciarmi, e l’aragosta, a gambe
aperte, sicuramente voleva fare all’amore.
«Hei, romano, non ti dimenticare quello che ha detto il signor Giulio!».
La voce di Pasquale mi spostò dalla terra dei desideri al porto delle illusioni, dai cancelli
dei divieti alle regole della casa, insomma via tutto nel secchio dell’immondizia. Peccato!
«Ernesto, vai in sala che il tuo amico vuole offrirti da bere».
«Chi? Io?!».
«Sì proprio tu. Vai al tavolino del tuo amico».
«Ma qui c’è un sacco da fare signor Giulio!».
«Non ti preoccupare, fai come ti dico». La sua voce era suadente.
Guardai Pasquale, che mi ricambiò con un’occhiata dubbiosa e di disappunto. Mi tolsi il
grembiule e mi avviai.
«Siediti caro, siediti!».
L’Onorevole accomodò una poltroncina a fianco a sé e io, scostandola un pochino per
non sentirmi troppo avvinghiato a lui, mi ci sedetti.
«Ciao a rubagalline!» La voce impappinata del Cipolla cercava di essere allegra.
«Ciao» risposi freddo.
«Ho parlato all’Onorevole di te e di come siamo venuti a Milano e lui voleva conoscerti».
«Sì caro, il tuo amico mi ha detto delle vostre avventure e sarei curioso di conoscerti meglio».
La sua mano posata sulla mia gamba stava accendendo dentro di me, nel mio cervello,
qualcosa di molto lontano, pericoloso, infiammabile. Sentivo le sue dita strusciare voluttuosamente sui miei pantaloni. Il calore, a ogni risata del Cipolla, aumentava. Un turbinio iniziò
a prendermi la testa e il sudore, aumentando, si faceva sempre più freddo.
Il mio amico beveva e approcciava con l’occupante della poltroncina a fianco.
«Cos’hai? Non ti senti bene caro? Io non ti faccio nulla di male sai?».
Adesso la voce del politico sembrava rallentata, cupa, mischiata a un’altra voce in falsetto.
Sentivo il fiato aumentare velocemente e il cuore, per il troppo battere, mi stava uscendo
dal petto.
«Mi scusi Onorevole, vado a prendere un bicchiere d’acqua» dissi accennando ad alzarmi.
«Ma perché, non ti piace lo champagne?».
Ora mi tratteneva per un polso.
«No, Onorevole. Non mi piace lo champagne e non mi piace neanche lei e la prego mi
lasci andare».
La presa si allentò e nel momento in cui mi girai sentii la sua mano tastarmi con prepotenza il sedere. E qualcosa dentro di me si frantumò, mandando la mia ragione in tilt.
Presi la bottiglia semi vuota dello champagne e iniziai a sbatterla su tavolo con forza.
Tutto ciò che vi era posato sopra andò in frantumi e l’attacco di isterico panico avvolse la
sala.
Le mie continue grida erano strazianti e dolorose come se sentissi ancora il dolore immenso per colpa dei quei corpi che, tanti anni prima, mi aveva preso la gioventù lasciandomi un’eredità crudele sempre in attesa di annientarmi. Tutti nella sala si erano riuniti spaventati sul palco, mentre io continuavo a spaccare tavolini, specchi e timpani.
I due agenti, che qualche ora prima avevano scortato il politico, vennero chiamati dal signor Giulio.
Mi si avvicinarono con cautela e poi mi saltarono addosso con uno scatto felino.
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Ero immobilizzato in terra, in quella posizione lo sguardo di Giulio sembrava volesse trapassarmi il cuore come un pugnale.
Fui portato nel suo ufficio e fatto sdraiare sul grande divano.
I due agenti uscirono e rimasi solo con il proprietario e l’Onorevole.
«Ma cos’hai combinato?». La voce di Giulio era disperata. «Cos’hai combinato?
L’Onorevole non ti ha nemmeno toccato. Io ho visto tutto. Come hai potuto comportarti
così? Gli hai rotto anche gli occhiali all’Onorevole!».
«Lasci stare Giulio, certi ragazzi non sanno cosa vuol dire gentilezza e rispetto. Lasci stare
la prego, comunque lo scuso». L’Onorevole uscì.
Ricordo di aver avuto delle convulsioni nervose. “Monica” il barista venne con un bicchiere d’acqua e due aspirine. Poi, facendo uscire il proprietario, si sedette al mio fianco
carezzandomi la fronte e asciugandomi il sudore con il suo fazzoletto. L’affanno mi passò
dopo circa una ventina di minuti e il signor Giulio si ripresentò.
«Senti Ernesto, l’hai combinata proprio grossa. Tu non puoi minimamente immaginare
chi sia quel signore che tutti chiamano Onorevole».
Stavo seduto sul divano a testa bassa. Mentre Giulio parlava, i miei occhi fissavano le dita
delle mie mani che non riuscivano a trovare l’incrocio giusto tra loro.
«Mi ascolti? Non ti posso più tenere, hai sentito?».
Non potevo e non volevo sentirlo, avrei voluto soltanto andarmene a casa mia a dormire.
Mi sentii scrollare la spalla.
«Allora Ernesto, hai capito?!».
«Sì, sì» risposi senza aver capito nulla del suo discorso.
«Siamo d’accordo allora. Ti pagherò questa settimana più la prossima che verrà, ma da
adesso sei licenziato». Le mie dita continuavano a cercare la posizione giusta, mentre io
risposi:
«Sì, sì».
Si allontanò ritornando dopo circa un quarto d’ora.
«Questi sono i soldi, più questi di regalo da parte dell’Onorevole per scusarsi se ti ha
inavvertitamente toccato».
Mi porse in tutto 90.000 lire.
«Questo è il tuo giubbetto e Pasquale te lo saluto io».
«Sì, sì» rispondevo senza riuscire a dire altro.
«Adesso puoi andare, ma esci dalla porta di dietro, capito Ernesto?».
«Sì, sì».
Mi alzai avviandomi verso l’uscita della cucina. Mentre attraversavo il piccolo corridoio
che separava l’esterno dalla cucina sentii lo sguardo curioso e triste di Pasquale su di me.
«Ah! Ernesto, lo sai che ho saputo?».
Mi fermai, tremante e pauroso, senza girarmi. Avevo il presentimento che il signor Giulio
sapesse di me cose intime e personali, cose che mai nessuno avrebbe dovuto sapere.
«Ho saputo che sei stato condannato per diffida due volte, sai me lo hanno detto i due
“accompagnatori” dell’Onorevole, per questo ti prego di non parlare a nessuno di ciò che è
accaduto qui questa sera. Va bene, Ernesto?».
Il tono della sua voce era ambiguo, ricattatorio e intimidatorio.
«Sì, sì» risposi scomparendo nella via dove erano i bidoni dell’immondizia.
“Andate tutti a quel paese, voi e quel maledetto porco di Onorevole”.
Nella mia stanza mi addormentai con la radiolina accesa.
186
Il “Clan”
Nei giorni seguenti, scrollandomi la mente da ricordi di vecchi traumi, ma tenendo presente la minaccia del signor Giulio, gironzolai per Milano, tenendo d’occhio piazza Duomo.
Una sera ebbi la fortuna di incontrare il napoletano. Era solo e stava seduto sotto il leone.
«Ciao romano come stai?».
Il suo entusiasmo nel vedermi non era inferiore al mio.
Gli raccontai di San Vittore, di altre cose, ma non ciò che mi era successo al Club.
E lui mi raccontò le sue vicissitudini.
Era stato a Rimini e aveva lavorato come interprete per un albergo. Ogni estate andava in
riviera perché per una persona che parla e scrive bene l’inglese c’è sempre da lavorare.
Rimasi meravigliato nel sapere che sapeva lingue straniere, conosceva anche il francese.
Disse ancora che a Rimini e Riccione lui si “faceva” ogni estate una decina di straniere. Le
rimorchiava negli alberghi o in discoteca e ci rimaneva “fidanzato” al massimo due settimane.
Aveva conosciuto, in una rinomata discoteca riminese, anche un famoso cantante e collaboratore di Adriano Celentano: Pilade. Questo cantante abitava a Trieste, ma veniva spesso
a Milano (in estate si esibiva nei locali della riviera romagnola).
L’ultima volta che si erano visti fu quando dovette ritornare da Rimini a Milano. La sera
andò nella discoteca dove si esibiva per l’ultima volta Pilade e presero appuntamento per il
giorno dopo così avrebbero fatto il viaggio di ritorno assieme. Il cantante gli diede anche il
numero di telefono dicendo che se avesse avuto bisogno di lui, gli avrebbe potuto telefonare nella sede del Clan.
Incantato dalla sua storia, lo ascoltavo a bocca aperta. Cercando di essere amichevole, anche perché il napoletano era un simpatico ragazzo, gli offrii un’aranciata in Galleria.
Il mattino dopo ci vedemmo in piazza.
«Allora adesso dove lavori?».
La domanda del napoletano, buttata lì all’improvviso, mi fece quasi raccontare la storia
del licenziamento dal club, ma mi ripresi in area Cesarini.
«Sono andato via dal club perché non avevano più bisogno di personale».
«Quindi oggi non hai nulla da fare?».
«No».
«Senti, io ho un’idea. Perché non telefoniamo al mio amico Pilade? Così conosciamo pure
Celentano».
«Vabbè! Se non è un problema».
Attorno a mezzogiorno eravamo, se non ricordo male, in Corso Buenos Aires. Quasi di
fronte alla sede del Clan si trovava il bar Copacabana.
Fuori del bar, sul cofano di una Giulia Alfa Romeo di color grigio topo targata TS, stava
appoggiato un uomo.
«Lo vedi quel signore che sta a sedere su quella macchina?».
«Sì» risposi.
«Quello è Pilade, il famoso cantante di Celentano».
«Ah!», esclamai.
I saluti tra i due furono veramente gioiosi.
«Pilade, ti presento un mio amico di Roma».
«Ciao»fece questi allungandomi la mano.
«Piacere» risposi un pochino imbarazzato per quella importante presentazione.
«Adesso verrà il mio amico Adriano e vi presenterò a lui» disse Pilade.
Trascorremmo una decina di minuti a parlare di canzoni, appuntamenti a Rimini e la nuo187
va macchina che aveva intenzione di comperarsi. Ed ecco arrivare tutta la banda.
Celentano era circondato da un gruppo di suoi collaboratori (ricordo Gino Santercole,
Don Backi, e un altro signore piccolino).
Vennero nella nostra direzione e fummo presentati a tutti.
«Allora tu sei di Roma» chiese a me Celentano.
«Sì, sono di Roma».
«Allora parli il romano!» fece, mentre gli altri iniziavano ad assecondarlo nella risatina a
trentadue denti.
«Embè! Se sono nato a Roma...».
Qualcuno pagò le bevute fatte al bar.
Il Clan e il suo capo si sedettero in disparte e io andai al bagno. Quando ritornai, il napoletano, stando seduto a fianco del suo amico, sorrideva.
«Senti Ernesto, ho parlato con Pilade e forse ha dei lavoretti da farti fare “su” in sala».
«Come lavoretti “su” in sala?» chiesi sorpreso da quella inaspettata offerta.
Il cantante si girò verso di me: «Sì. Lui mi ha detto che sei senza lavoro e il “capo” ha bisogno di una persona che dia un’imbiancata “su” al Clan e faccia delle piccole riparazioni
elettriche. Te ne intendi di elettricità?».
«Certo che me ne intendo».
«E ti intendi anche di piccole riparazioni generali?».
«Certamente. So fare quasi tutto» dissi orgoglioso sia dell’offerta, sia del fatto che avrei
potuto lavorare per Celentano.
«Bene. Domani mattina fatti trovare qui verso le otto, ti aspetterà un signore con tutto il
materiale di cui hai bisogno che ti dirà cosa devi fare. Quando avrai finito ti pagherò».
«Va bene» risposi entusiasta.
«A proposito, vanno bene 2.000 lire al giorno?» chiese ancora.
«Benissimo!».
Il Clan si alzò e salutando prese la porta d’ingresso. Il napoletano rimase ancora qualche
minuto con il suo famoso amico, poi anche loro si salutarono e prima di uscire Pilade mi
lanciò un “ciao romanaccio” seguito da un occhiolino di incoraggiamento.
La giornata finì con l’andare al cinema assieme al napoletano. Ci dividemmo verso sera,
lui prese la direzione di casa sua e io quella del “prezzo fisso”.
L’indomani mattina ero davanti al Copacabana alle otto meno un quarto.
Un signorotto rotondetto e panciuto era in attesa fuori del bar. Nell’attimo in cui varcai
l’ingresso mi sentii chiamare: «Hei, sei tu il romano?».
«Sì, perché?».
«Perché sono io quello che ti deve fare vedere quali lavoretti devi fare su».
Dimenticai cappuccino e cornetto.
L’appartamento era abbastanza grande, mobili moderni e nuovi. Dischi incorniciati appesi
al muro, foto di “lui” con un gruppo di giovani ragazzi con in mano chitarre e altri strumenti musicali. Una foto con Milena Cantù “la ragazza del Clan” e “lui” nel mezzo.
Nell’altra parete sempre “lui” con la moglie Claudia Mori nel giorno del matrimonio.
Poi un ufficio vuoto, bagni e, in una grande stanza, biliardo e una palestra piena di tutti gli
attrezzi ginnici immaginabili.
L’uomo mi lasciò solo dopo avermi detto cosa avrei dovuto fare quel giorno. Prima di ripartire lo aiutai a scaricare vernici, tinture e arnesi da lavoro.
Quel giorno avrei dovuto togliere la carta da parati e coprire le prese sia elettriche che
quelle del telefono senza però staccarlo.
Con lena mi misi all’opera. Bagna, raschia, raschia, bagna, un paio di camere furono
pronte per essere verniciate di nuovo.
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Ogni mattino vedevo l’uomo al bar, pagava lui cornetto e cappuccino, mi apriva la porta
dell’appartamento, mi diceva cosa dovevo fare e scompariva.
Una nuova guarnizione al rubinetto gocciolante, la seconda mano di tintura alle camere,
telefoni da spostare, prese di corrente da prolungare e porte da lavare e ritoccare. La palestra la lasciai per ultima poiché era la più grande stanza di tutto l’appartamento. Tra prima e
seconda mano, la verniciai in sette giorni, compresa la domenica. Per precauzione coprii la
moquette, appunto per non sporcarla, questa aveva antiche macchie in varie parti che io
cercai di ripulire. Tutte le apparecchiature furono pulite e gli attrezzi attaccati al muro rimessi a nuovo con lacca di noce trasparente. I lavori durarono più o meno tre settimane.
Le pulizie finali mi impegnarono per qualche giorno ancora. La missione era perfettamente riuscita. Lasciai l’immondizia a fianco dei secchi e le bottiglie vuote del Copacabana,
nel retro del bar stesso.
Il signore rotondetto si congratulò con me per il lavoro fatto con scrupolo e precisione.
Mi disse che per la paga dovevo tornare dopo due settimane perché Celentano era in giro
per lavoro. Per me non vi era alcun problema ad aspettare.
Rivedendo il napoletano e raccontandogli che non mi avevano ancora pagato, mi rassicurò dicendo che dovevo avere pazienza, perché sicuramente quando il cantante fosse rientrato a Milano avrebbe saldato il conto.
Mi presentai ancora tre volte per reclamare i miei soldi alla sede del Clan, ma non c’era
mai nessuno, neanche al Copacabana sapevano qualcosa.
Il napoletano mi accompagnò un paio di volte, ma era sempre la solita cosa; non c’era
nessuno.
Al telefono Pilade rispondeva che stava incidendo per conto suo a Trieste ed era un mesetto che non vedeva il “capo”. Comunque non appena avesse avuto due notizie avrebbe
avvisato il napoletano e lui me. Non venni mai avvisato. Ma chi mi avrebbe dovuto pagare?
Anche se avevo ancora un po’ di soldi, non rimasi con le mani in mano. Dovevo cercare
lavoro, ma dove? Il “prezzo fisso”! Perché non ci avevo pensato prima?
Mi presero subito avendo decantato mie esperienze a Roma in famosi ristoranti.
Avrei lavorato come tuttofare, cioè facendo quello che avevo fatto anche al Club; lavare
pile di piatti e pulizie generiche. Orario dalle undici del mattino alle undici di sera. Paga
3.000 lire al giorno più pranzo, cena e mance.
Lì il cuoco era un signore di Monza. Era una persona senza tanta allegria, con pochi capelli, poche parole. Nei miei confronti era arrogante e diffidente. Anche se io non gli davo
alcun tipo di opportunità di riprendermi, perché lavoravo con attenzione e scrupolo.
A volte, per mio piacere personale e quando ne avevo tempo, facevo anche qualcosa extra
in cucina; lavare spesso i bidoni dell’immondizia invece di una volta a settimana, sgrassare
la grande cappa sopra i fornelli, pulire porte e macchinari, lavare specchi e vetri, insomma
pulivo di più quello che avrei dovuto pulire in modo superficiale. E l’acidità del cuoco iniziava a sciogliersi in sguardi meno ferrei.
Rocco, il cameriere, proveniva da Bitonto, era gay, sempre allegro, molto amichevole e rispettoso.
L’oro del Cipolla
Un giorno ebbi la fortuna di incontrare Renato.
Naturalmente non sapeva o non ne voleva sapere nulla di Dentino. Mi limitai a non fargli
mai più domande al riguardo. Tra un discorso e l’altro, un lavoro qui e uno là, la ringhiera
arrugginita e il cesso puzzolente, Renato mi disse che in via di Porta Romana, al pianerot189
tolo sotto il suo, affittavano una stanza più servizi per 15.000 lire al mese e se volevo avrei
potuto averla già dal giorno dopo. Così accadde.
Mi presi una giornata libera e con 2.000 lire pagate per il trasporto all’amico del cameriere,
andai ad abitare in centro.
Il posto era tranquillo, il bagno con doccia in casa, e c’erano grandi finestre che davano
sulla via. I mobili riciclati mi furono donati sia dall’uomo che mi aveva aiutato nel trasloco,
sia dal cameriere. Renato mi regalò un letto, un materasso e una lampada.
Adesso Renato non lo vedevo spesso in quanto lavorava fino a notte inoltrata, comunque
lui era un tipo che non allacciava amicizia facilmente. Era simpatico e gentile, ma sempre
sulle sue. Dal canto mio andava benissimo perché, in un certo senso, non mi è mai piaciuto
allargarmi socialmente più di tanto con chi si tiene sulle sue.
Ogni tanto una capatina al Duomo alla ricerca degli amici non dava risultati sperati.
Portarmi a casa fumetti di Diabolik, Kriminal, Urania, libri di fantascienza e non, erano le
cose che più di tutte mi premevano.
Mancava qualche giorno a Natale.
Un mattino presto il tambureggiare sulla porta della mia camera mi svegliò di soprassalto.
«Apri! Apri sono io!».
Alzandomi come lo zombie dell’avventura letta la sera prima, aprii la porta e il Cipolla
entrò di corsa nella mia stanza.
«Ciao, scusa se t’ho svegliato ma tu sei l’unico che conosco qui a Milano».
Si accomodò ai piedi del letto. Teneva in mano una busta di carta.
«Ciao» risposi strofinandomi gli occhi ancora mezzi chiusi.
Mi sedetti sulla sedia in attesa di capire cosa diavolo volesse.
«Siamo ricchi!» esplose Cipolla.
«Come ricchi? Cipò senti, fammi svegliare e poi mi dici cosa vuoi dire con “siamo ricchi”!».
Misi su la moka e, dopo cinque minuti, l’odore del caffè riempì la stanza.
«Cipò, prima di tutto mi devi dire chi ti ha detto che abito qui, secondo mi devi dire che
cosa vuoi da me».
Poi riflettendo un pochino aggiunsi: «È colpa tua se mi hanno licenziato dal Club, perché
se non facevi il cretino con quel tuo amico Onorevole a quest’ora starei ancora a lavorare
lì».
«Guarda che l’Onorevole era da tanto che ti teneva sott’occhio, io mi sono limitato a dirgli di come siamo venuti a Milano e mi sono offerto soltanto di farti venire al nostro tavolo.
Mica lo sapevo che soffri di epilessia».
Epilessia? Meno male che tutti avevano scambiato il mio “urlo di Munch” per un attacco
di epilessia.
Cercando di distogliere i miei pensieri che camminavano pesantemente su una cicatrice
che mai si sarebbe potuta chiudere, chiesi: «Cosa vuoi?».
Senza dire una parola, aprì la busta che fino a quel momento aveva tenuto stretta tra le
mani, poi con uno sguardo non di richiesta, ma di complicità, disse: «Siamo ricchi! Guarda
qua!».
Tirando fuori una statuetta color oro, gli si stampò sulla faccia un sorriso più largo di
quello di un cavallo.
«Questo è un Davide di Donatello e me l’ha regalato la Binda. M’ha detto che è d’oro».
Guardavo furtivo il “mio amico”. I suoi discorsi non mi erano mai piaciuti e tanto meno
mi piacevano adesso.
«E allora?» feci.
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«Come allora? La vendiamo e ci dividiamo i soldi, no?».
«Senti Cipò, tu mi mandi al manicomio con i tuoi modi di fare. Io non voglio avere nulla
da spartire né con te, né con la statuetta».
«Ma non ti devi preoccupare! La statuetta me l’ha veramente regalata la Binda, sono stato
a casa sua una settimana e ci siamo lasciati da buoni amici».
Il Cipolla cercava di parlare con convincimento.
«L’ho fatta valutare, mi danno 7 milioni puliti» disse.
«Sette milioni?». Esclamai sbalordito. «E allora perché non la vendi da te?» aggiunsi cercando di tirargli fuori la verità.
«Capisco che puoi pensare male, ma io non la posso vendere perché la Binda mi ha raccomandato di non dire a nessuno di questo regalo e io gliel’ho promesso, quindi non la
posso vendere in un negozio normale».
«E io cosa c’entro?» cercavo di capire i suoi giochi di parole.
«Se me la vendi tu ti darò la metà». Furono le sue convincenti parole.
Certo se avessi accettato la proposta del Cipolla, mi sarebbero venuti in tasca 3 milioni e
mezzo di lire senza fare nulla, comunque anche se mi fosse accaduto qualcosa di spiacevole
avrei potuto fare benissimo il nome del mio amico, dicendo che la statuetta me l’aveva data
lui, tanto mica l’aveva rubata.
«Allora?». La sua voce mi svegliò dalle mie riflessioni.
«Sì, va bene. Ma a chi la potrò vendere se non si può vendere in un negozio?».
«Già ci ho pensato. Io dal signor Cesare non ci posso andare perché gli devo dare dei soldi, quindi ci puoi andare tu».
«Dal signor Cesare?». Un campanello d’allarme si stava facendo sentire nella mia testa. La
voce di Dentino ritornò ad avvisarmi “attento al signor Cesare”.
«No, no! Dimenticatelo!» dissi facendo un cenno con la mano.
«Ma di cosa hai paura? Quello è l’unico a cui si può vendere, e poi compra tutto».
Certo che se avessi accettato magari avrei anche recuperato il mio orologio. E un fin dei
conti a cosa andavo incontro?
«Va bene» dissi convinto, mentre le sue parole prendevano il posto di quelle di Dentino.
«Ma tu vieni con me» aggiunsi.
«Occhei» fu la sua risposta.
C’incamminammo verso il Duomo. Arrivati giù nel metrò dissi al Cipolla di attendermi
vicino la sala delle automobiline finché non fossi ritornato con i soldi. Gli dissi anche che
quando avessi incassato avrei fatto un cenno con la mano in modo che lui capisse. Presi la
busta con il “tesoro” e mi avviai verso le toilette, sperando di non trovare il signor Cesare.
Era seduto di fronte all’addetto alle toilette.
«Buonasera, signor Cesare» dissi amichevolmente.
«Ciao» rispose.
«Le posso parlare un momentino in privato?».
Guardando la mano con cui reggevo l’involucro, i suoi occhi furono scossi da una luce
sinistra, che al momento non compresi bene.
L’uomo delle pulizie, seduto nell’altra sedia, faceva finta di leggere una rivista, ma percepii
che era molto attento a ciò che stavo dicendo al signor Cesare.
Senza chiedermi nulla né darmi una risposta, disse: «Vieni con me».
Lo seguii in un piccolo stanzino dove vi erano riposte scope, spazzoloni, stracci, detersivi,
carta igienica e altro.
«Ah! Questa sì che è roba forte. Bravo! Lo dicevo che sei un malandrino coi fiocchi».
Guardava la statuina con morbosità, girandola e rigirandola tra le sue mani.
Dissi che volevo 7 milioni.
191
La guardò meglio, mi guardò, si grattò il mento e disse: «D’accordo, 7 milioni».
Non mi chiese né dove l’avessi presa, se fosse rubata o di chi fosse.
«Va bene, però voglio anche il mio orologio indietro» feci la richiesta calcolando l’irrisorio
valore dell’orologio in confronto al grosso affare che stava per fare.
«D’accordo. Ti darò anche l’orologio. Adesso vado a prendere i soldi, però aspettami fuori, davanti al negozio dei regali perché Sandro (l’uomo delle pulizie) non vuole che si facciano affari qui dentro».
«Va bene».
Prima di allontanarsi, disse ancora: «Mettiti la statuetta sotto il giubbetto e appoggiati vicino la vetrina del negozio, così nessuno si insospettirà».
Reputai strano quando disse come mi dovevo mettere nell’attesa, ma questo piccolissimo
sospetto fu una velocissima meteora, un millesimo di secondo, nell’anticamera “allarme”
del mio cervello, comunque così feci.
Il Cipolla dal suo posto di osservazione mi lanciò un’occhiata attenta e interrogativa, in
risposta alzai la mano libera facendogli il segno dei soldi e di aspettare, poi gli feci capire
che la statuetta era ancora in mio possesso.
Erano trascorsi una ventina di minuti. Vedevo passare un sacco gente. Il signor Cesare
ancora non era in vista. Un uomo e una donna si fermarono a una decina di metri da me
rimanendo a guardare nella mia direzione; osservavano il sottoscritto oppure qualcun altro
dietro di me? Mi girai, ma non vidi nessuno. Girando lo sguardo verso i corridoi della metro, all’improvviso, senza avere il tempo di capire cosa fossero quelle “scosse” sotto le
ascelle, mi sentii letteralmente sollevare con forza. Due giganteschi poliziotti mi stavano
portando via, altri tre o quattro mi erano attorno. Due tenevano la pistola impugnata, abbassata verso il suolo, un altro mi perquisiva da capo a piedi. Trovandomi la statuina l’alzò
come fosse un trofeo esclamando: «È qui!».
Venni portato via di corsa.
«Polizia! Lasciate passare! Per favore lasciate passare! Polizia!».
La massa che saliva dalle scale mobili e quella che scendeva, adesso era immobile e stava a
fissare la scena dell’arresto di Al Capone.
In un baleno mi ritrovai in un’auto della polizia che, seguita da un’altra auto, a sirene spiegate e velocità incredibile, sgusciavano tra le vie di Milano. I due giganti erano ai miei lati e
io in mezzo a loro mi stavo riducendo in una piadina.
«Allora, romano del cazzo, chi sono i tuoi complici?».
La voce era del baffuto di tanto tempo prima.
«Lo sapevo che prima o poi ti avrei preso. Ti avevo avvertito di non tornare più a Milano,
romano del cazzo».
Il suo manrovescio non si fece attendere. Non so se sia stata più forte la sirena dell’auto o
i suoni scoppiati all’improvviso nella mia testa dopo la carezza del baffuto.
«E questo è soltanto l’anticipo. Mi devi dire chi sono i tuoi complici, quante rapine avete
fatto a Milano e dintorni, dove hai preso questa statuina e dove nascondete le armi. Pensaci
adesso perché quando saremo in Questura non ti darò nemmeno il tempo di fiatare, capito
romano del cazzo?».
Stavo zitto, non sapendo cosa avrei dovuto dire o confessare. So per natura che se una
cosa non la sai, oppure non l’hai fatta, nulla puoi dire e nulla confessare, a meno che...
«Marescià io non ho fatto proprio nulla e la statuina me l’ha data uno zingaro dicendo che
mi avrebbe regalato qualcosa se fossi riuscito a venderla».
E giù un’altra “pizza”.
«E chi è questo zingaro? Me lo vuoi dire, romano del cazzo?».
Ma ‘sto maresciallo ce l’aveva proprio con i romani?! E poi sempre “quella parola” in
bocca.
192
«Non lo so! L’ho conosciuto un paio d’ore fa giù al Duomo».
Una “pizza” stava andando a destinazione, quando fu fermata a mezz’aria dalla mano
dell’agente gigante a fianco a me.
«Marescià?!» esclamò allarmato l’agente.
Il maresciallo si liberò dalla presa, guardò fisso il gigante compassionevole, (ma non poteva avere compassione un paio di “pizze” prima?) e si rimise a guardare davanti.
In Questura già ero segnalato, quindi fu inutile riprendermi le impronte. Quindi dopo
avermi fatto pulire il viso mezzo gonfio e sporco di sangue, mi fecero due nuove foto. Fui
portato nella stanza in cui già ero stato quando mi presero la prima volta.
Mi lasciarono solo per qualche minuto. Seduto sulla sedia pensavo a cosa mi sarebbe accaduto.
Si aprì la porta e le teste di due persone mi scrutarono per qualche secondo. Li riconobbi;
erano l’uomo e la donna che prima del mio arresto stavano a fissarmi giù nel metro, sicuramente poliziotti in borghese.
Dopo qualche istante il baffuto entrò seguito dai due giganti che poco prima in auto mi
avevano ridotto a una frittella, senza dire nulla rimasero a osservarmi, quindi il maresciallo
aprì bocca: «Senti romano...».
Questa volta non usò la sua “abituale” parola.
«Non voglio incazzarmi, perciò se mi dici di chi è la statuina o dove l’avete rubata e chi
sono i tuoi complici, vedrai che non ti succederà niente, ma se fai il furbo è peggio per te.
Capito?».
«Sì» risposi.
«Allora parla!».
«Marescià come lo devo dire che non so nulla di nulla? Me l’ha data uno zingaro che non
conosco!».
Facevo anche finta di piangere.
«Brutto romano del cazzo. Adesso ci penso io a farti fare il furbo. La dovete smettere di
venire a Milano e fare rapine a destra e a sinistra».
E giù una pizzona che mi fece traballare con tutta la sedia. Credo che la parola cazzo facesse parte del suo DNA, così divertirsi a prendere a schiaffi la gente.
«Hai capito che con me non si scherza? Stronzo romano del cazzo?».
Nell’attimo del lancio della seconda “pizza”, quando questa era ancora a mezz’aria,
l’agente che gli aveva frenato la mano in auto gli si parò davanti a braccia conserte.
«Maresciallo? Adesso basta, ma non lo vede che è soltanto un ragazzo e per di più incensurato? Ma che lo vuole ammazzare? Non ha visto nel registro denunce che non c’è nulla
riguardo la statuina?».
Il baffuto sprigionava fuoco e fiamme da tutti i pori. Sicuramente doveva essere un uomo
con mille frustrazioni; forse non aveva fatto la carriera desiderata? Lo stipendio era poco?
Non poteva, se sposato, avere figli? Forse ne aveva troppi? Infedeltà della moglie? Magari
alla sua età non era ancora fidanzato… O forse aveva avuto a che fare, senza raggiungere i
suoi scopi, con la malavita romana? Oppure era soltanto di vecchio stampo, uno di quelli
che pensano che con una divisa ci si può arrogare qualsiasi diritto. O la sua grande frustrazione era quella di non aver potuto fare il ballerino alla Scala perché troppo rozzo, goffo,
panciuto, baffuto e stronzo?
«Portatelo a San Vittore con l’accusa di contravvenzione al foglio di via obbligatorio. Se
tra qualche giorno ci saranno denunce riguardo la falsa statuina, sapremo dov’è».
Falsa? La statuina era falsa? E allora perché tutto quel casino tra sirene, sgommate, schiaffi e ricerca di confessioni forzate?
Boh! Vacci a capire qualcosa.
193
San Vittore
Mi ritrovai al carcere in dieci minuti. Solita prassi in matricola. Centosessantamila lire
messe sul libretto. Cella, quattro passi per quattro, divisa con altri sette detenuti. Mi toccò il
posto a “pianoterra” del letto a castello.
La puzza del bugliolo inondava la stanza. Un detenuto stava in un angolo seduto sul secchio, faceva i bisogni fumando una sigaretta e leggendo la Gazzetta dello Sport.
Qualche misero tocco natalizio era stato dato tutt’attorno. Un poster di una soubrette
nelle vesti di Babbo Natale era appeso al muro, uno striminzito alberello fatto con cartone,
carta argentata e colla, stava sopra la finestrella tra mutande e calzini appena lavati.
I miei compagni di sventura, tutti giovani, erano poveri disgraziati come me; nulla di pericoloso.
Giovanni veniva da Potenza e l’avevano beccato mentre scassinava un’auto; attendeva di
essere interrogato dal giudice. Lui si dichiarava innocente, convinto che la macchina fosse
di un suo amico.
Salvatore era napoletano, beccato per un tentato scippo dopo un inseguimento con caduta dalla lambretta. Anche lui si dichiarava non colpevole perché, diceva, la donna che
aveva denunciato il tentato scippo doveva essere matta.
Angeluccio aveva lavorato in un bar di Brera ed era stato arrestato perché accusato di aver
aggredito, spaccandogli la testa con una legnata, il proprietario del bar, che invece di metterlo in regola, come promesso, lo aveva licenziato dopo il primo giorno di malattia. Lui, al
contrario degli altri, anche se non era contento di stare in carcere, ma chi lo è, si dichiarava
colpevolissimo con soddisfazione.
L’altro, Gennaro, anche lui di Napoli, aveva truffato il cameriere di un ristorante vendendogli una catenina falsa.
Costanzo era ferrarese. Fu arrestato perché aveva mandato a quel paese, con una spinta,
un vigile che lo aveva ripreso nel momento in cui buttava la cicca della sigaretta nel sottopassaggio della metro a Piazzale Loreto. Diceva che non si era accorto che era un vigile, ma
di aver reagito soltanto alla brutale presa che aveva sentito all’improvviso sul braccio.
Franco di Vigevano era stato colto in fragranza, totalmente ubriaco, mentre tentava di far
l’amore con una statua in non so quale parco.
Nicola, pugliese, non aveva genitori, non sapeva chi fossero. Era stato accusato dalla sorella, che lo ospitava, di aver rubato soldi in casa e altre cose di valore, quindi era incriminato di furto aggravato in appartamento. Era un tipo taciturno, chiuso, quasi sempre triste.
Chissà cosa nascondeva in fondo al cuore. Guardava spesso il cielo, fissandolo da dietro le
sbarre.
Il mangiare nelle carceri italiane è, come tutto il resto, qualcosa di schifoso e vomitevole.
L’ambiente è freddo, grigio, sporco e caotico tra urla, richiami e chiasso. Il personale non
ha nessuna attitudine a occuparsi delle esigenze dei carcerati e tanto meno delle loro sorti.
Tutto deve essere preso con comodità in quanto “il carcerato per sua natura è falso, tende a
recitare per andare in infermeria, è autolesionista e pericoloso”.
Quella prima giornata passò come passano le giornate nelle carceri; raccontandoci, sempre con contorni fantasiosi e immaginari, fatte e malefatte. Ognuno diceva la sua a modo
proprio per non essere da meno agli altri.
Io raccontai le cose come effettivamente erano andate.
«E la faccia gonfia? Ti hanno pestato al commissariato eh?».
Salvatore mi fissava mentre finivo il mio racconto.
«Ué Roma, ma che ti hanno arrestato perché volevi vendere una statua falsa come le catenine mie?».
194
La voce di Gennaro era allegramente sfottente e così le risate degli altri, ma Nicola no.
Lui non rideva, sembrava assente.
«Essì, mi hanno preso con una statuina falsa e mi accusano di non so cosa» risposi scrollando le spalle.
«Non ci pensare Roma, che tra un paio di giorni ti danno la libertà provvisoria» continuò
Gennaro.
«No, esco fra due mesi perché è la terza volta che mi danno la diffida».
«Che vuoi che siano due mesi, volano» disse con voce rassicurante Salvatore.
La serata finì con l’andare a letto quasi a stomaco vuoto, quasi, perché Gennaro distribuì
un paio di biscotti a testa e poi fece il caffè sul fornelletto a gas.
Se non hai famiglia, quindi non ricevendo pacchi da casa, ti devi mangiare quello che passa il convento e metterti a dieta senza volerlo.
A parte la spesa, il necessario giornaliero, che facevo con i miei soldi, la nostra cella era
“povera”. Chi riceveva visite settimanali era soltanto Gennaro, ma i pochi viveri che gli
portavano bastavano sì e no per un paio di giorni. Tutto veniva spartito in parti uguali.
I biscotti conservati in modo che ogni sera prima di andare a letto, tra una briscola e una
scopa, ci scappava un caffè con biscotto. Le sigarette, le schifose Alfa senza filtro, venivano
fumate una ogni tre persone, fortunatamente Nicola non fumava. Un pacchetto durava tre
giorni.
I nostri vicini di cella ci mandavano il quotidiano soltanto dopo che l’avevano letto tutti,
quindi il giorno dopo.
Ma stranamente una mattina qualcuno, nell’ombra, buttò al volo un giornale nella cella.
«Ueh! Roma, ma allora sei roba forte!».
Sentendomi scuotere il letto, mi tirai su con la testa mettendomi a sedere. Davanti a me
c’era Gennaro che mi sventolava sul muso il quotidiano “Il Giorno”.
«Hai voglia a dire di statuine false, Romá! Non fare il modesto».
Lui, sempre con quel giornale in mano, sembrava avesse scoperto qualcosa di importante.
«Ecco qua, tu sei più furbo di quello che vuoi far credere. Guarda, stai in prima pagina e a
fianco della tua foto ci sta il perché ti hanno carcerato, leggi tu stesso».
Sulla prima pagina de “Il Giorno” furoreggiava una mia foto con sotto nome e cognome
e a fianco grosse lettere titolavano “Romani in trasferta per le feste natalizie arrestati per
rapina”.
Frenai la meraviglia e dopo aver letto tutto il resoconto, anche nella pagina della cronaca
Milanese che annunciava altri imminenti arresti di miei presunti complici, gettai il giornale
sul letto poi, come per essere modesto, ma in modo veritiero, dissi: «Ma questi sono matti.
Ti prendono con i bruscolini e poi fanno scrivere che avevi diamanti».
«Romá, non ti preoccupare. Non c’è bisogno di difendersi, qui in questa cella non siamo
spie, ma se non ne vuoi parlare nessuno ti chiederà più nulla al riguardo e ti crediamo per
quello che ci hai raccontato. Va bene?».
«Vabbè Genná, io non ne voglio parlare perché mi sono stancato di negare» dissi così in
modo da lasciare nel dubbio i miei compagni di cella e anche per crearmi, “status galeotto”,
un alone di mistero, da duro che in certi luoghi, specialmente in carcere, non fa mai male e
serve da passepartout per non essere presi a schiaffi in faccia.
Dopo mia richiesta fui messo, all’unanimità, in “cucina”. Avrei cucinato, quando avremmo avuto la possibilità di “fare la spesa”, per tutta la cella usando il fornelletto da camping
lasciato tanto tempo prima da un altro detenuto uscito in libertà. Quello che non mancava
mai era il caffè e la bomboletta del gas. Mangiavamo il cibo dell’amministrazione perché
avevamo sacrificato la pasta per il caffè.
195
I due napoletani avevano fatto in modo che il resto dei compagni pulisse la cella, e Nicola,
il taciturno, il bugliolo.
Io avevo voglia di cucinare e poter mangiare assieme ai miei compagni un bel piatto di
spaghetti all’amatriciana, ma ancora non ne avevamo avuta la possibilità.
Durante l’ora d’aria, ogni volta che scendevo le scale, sempre con a fianco Gennaro e il
resto della cella al seguito, molti altri detenuti, per me persone sconosciute, incrociandomi
mi salutavano:
«Ciao Romano».
«Romano, fatti trasferire nella mia cella».
«Bel colpo Romá, peccato che ti abbiano preso».
I complimenti si sprecavano, mentre io mi comportavo da chi è assuefatto a certe situazioni; ricambiavo i saluti con noncuranza e un occhiolino superficiale di furbizia.
Una sera mi arrivarono un paio di pacchetti di sigarette e due riviste pornografiche, mittente “Tommaso della Comasina”, due piani sopra il mio.
Sicuramente era quello che qualche tempo prima mi aveva invitato in una cella migliore.
Questo Tommaso, capelli biondo scuro, occhi celesti e sorriso accattivante, era un vero
rapinatore e se la faceva alla Comasina. Quando lo vidi nell’ora d’aria lo ringraziai delle
sigarette e altro.
«Uéh! Non mi devi ringraziare, se non ci si aiuta tra noi, eh!».
«Comunque grazie lo stesso».
Parlammo un pochino di noi, lui anche di rapine, soldi, auto e donne che lo aspettavano
al bar della Comasina. (Tommaso, anche se in maniera più seria e risate meno chiassose, mi
ricordava Ettore, l’amico sbruffone di mio fratello, e Er poraccio il mio compagno di
sventura). Io da parte mia gli raccontai delle mie avventure: l’inseguimento con la polizia
dopo aver rapinato un camion pieno di elettrodomestici a Roma (il furto con mio fratello
del triciclo del ferrivecchi) e il mio arresto dopo che una Pantera mi aveva speronato. Gli
dissi della mia donna che mi aspettava nel mio appartamento al centro di Roma, della mia
macchina nuova e dei tanti amici che avevo. Gli dissi anche che, se lui avesse voluto, sarebbe potuto venire a trovarmi e magari avremmo potuto fare qualche “lavoretto” assieme.
Nel raccontare ciò, facendoli di mia proprietà, mi aiutarono i ricordi del tempo che avevo
passato a Roma e tante bugie.
Andavamo su e giù nel cortile. I miei amici di cella erano seduti in terra e mi seguivano
sempre con uno sguardo di ammirazione vedendomi passeggiare in compagnia con un
“pezzo grosso”. Mai e poi mai avrei potuto deludere chi mi credeva ciò che in effetti non
ero, e non potevo fare altrimenti essendo ormai troppo tardi per dire “Scusate c’è uno sbaglio. Ho scherzato. Non sono quello che credete”.
Mentre per finta facevo il “rapinatore incallito” con un vero bandito, ogni tanto le guardie
sulle torrette mi lanciavano sguardi, sicuramente, così credevo, per studiare la malavita romana.
Altri detenuti invece, dopo avermi visto sul giornale, mi riservavano occhiate di curiosità.
Venivo trattato come un “pezzo da novanta” uno di quelli che sicuramente fanno rapine
per professione e sanno giocare con le armi; io che non avevo mai avuto a che fare neanche
con un coltellino e le uniche mie ruberie erano state i punti Cirio a “capoccione”, i ferrivecchi dello straccivendolo, le bisacce dei muratori e un pantalone alla Standa.
Comunque mi tenni la nomea per tutti i due mesi che rimasi a San Vittore.
Ben presto arrivarono le feste natalizie.
Al piano terra già si poteva vedere qualche detenuto aiutare il parroco del carcere a fare
l’albero di Natale. Altri detenuti pulivano a lucido corridoi e ballatoi in attesa della visita di
qualche prelato o politico.
196
Noi dovevamo fare le pulizie a fondo, le celle non dovevano puzzare, almeno durante la
visita delle persone importanti.
Ci vennero date scope, stracci e disinfettanti.
Il nostro “gabinetto” dovette essere letteralmente raschiato con le mani, altrimenti le croste, antichi ricordi detenuti anche loro, non sarebbero scomparse. Il lavoro di raschiatura fu
affidato, da Gennaro, al compagno di cella addetto al lavaggio dei piatti: Nicola.
Mentre gli altri si davano da fare tra pavimenti e pareti, nelle quali c’erano da staccare manifesti di donnine nude a portaoggetti fatti con cartone e colla bianca, a me non venne
chiesto di fare nulla.
Come un tacito accordo tra lui e gli altri, Gennaro aveva fatto in modo che il “Romano”,
essendo un “omme ‘e panza”, non dovesse abbassarsi di fronte ad altri detenuti non del
suo calibro.
«Ué! Roma, statte tranquillo seduto, leggiti i giornalini, che alle pulizie ci pensiamo noi».
Queste erano le parole che ripeteva ogni volta che accennavo a dare un aiuto, e io lasciavo
fare.
Gennaro ricevette la visita dei familiari e un grosso pacco. Dentro vi era di tutto; salame,
mozzarella, panettone e altri dolci. Gli vennero anche accreditai dei soldi sul “libretto”.
Naturalmente, giacché mancavano un paio di giorni alle feste, comprammo spaghetti,
guanciale, peperoncino, cipolle. Pelati e vino non si potevano comprare.
«Genna’, ma io per fare l’amatriciana ho anche bisogno di due scatole di pelati e un pochino di vino bianco». Lui mi guardò come quando si scopre qualcosa di nuovo.
«Come, anche il vino bianco ci va sulla amatriciana!?».
«Essì, a Roma nell’amatriciana, mentre il guanciale soffrigge con la cipolla, ci va mezzo
bicchiere di vino bianco da far evaporare».
«Romá, i pomodori forse li posso trovare, ma il vino è un po’ difficile».
«Guarda che puoi fare, che ti faccio due spaghetti al bacio».
Avrei voluto cucinare un’amatriciana come Dio comanda.
Il giorno dopo, nell’ora d’aria, vidi Gennaro che, staccandosi dal nostro gruppo, andò a
confabulare con un vecchio detenuto, un uomo dai capelli grigi, una barba anch’essa grigia,
il quale in un cantuccio stava fumando una sigaretta. I cenni del loro capo stavano a indicare la mia direzione. Guardavo incuriosito il mio amico di cella.
«Ué Romá, domani mattina ci arrivano i pelati e ‘na tazzulilla di vino bianco».
«Come hai fatto? Chi è quello?». Indicai l’uomo con la barba grigia.
«Quello è lo “spesino” (addetto alla spesa per i detenuti). È una brava persona. Non ti
preoccupare».
«Ma cosa gli hai detto?» chiesi curioso.
«Non ti preoccupare Romá, a parte che gli ho detto che tu sei quello del giornale, gli ho
anche promesso che quando ci daranno il “pacco del Papa” noi gli daremmo il contenuto
di tre pacchi, ma non le sigarette, e lui ci procurerà vino e pelati».
Ancora con la storia del mostro in prima pagina? Comunque se lì dentro portava acqua al
mio mulino...
Poi domandai: «Perché, adesso ci danno anche un pacco? E cosa c’è dentro?».
«Ué Roma, ma che non lo sai che a Natale il Papa manda un pacco per ogni detenuto in
tutte le carceri italiane?».
«E no che non lo so, è il primo Natale che passo in carcere».
«Domani i pacchi li passerà lo spesino così aggiusteremo tutto. Va bene Romá!».
«Sei una favola Genna’!» esclamai.
«Tu si ‘na favola, Romá».
197
Simpatici i napoletani.
La sera stessa una mano, sicuramente quella dello spesino, s’intrufolò nello spioncino facendo ondeggiare una busta di carta bianca. Gennaro di scatto saltò giù dal letto e, senza
dire una parola, la prese e l’aprì; dentro vi erano una decina di pomodori San Marzano belli
maturi e una specie di termos di plastica con del vino bianco dentro e, meraviglia, un chilo
di bucatini Barilla.
Quella sera a cena ricevetti i migliori complimenti della mia vita.
«Ué Romà, questi bucatini sono proprio una meraviglia» dissero in coro i miei compagni
di cella.
«Non ho mai mangiato una matriciana così buona. Manco mia madre la sa fare così!» aggiunse Salvatore.
«Salvato’, si dice amatriciana con la a e non matriciana».
«Come sarebbe a dire?».
Ora tutti avevano smesso di mangiare. I loro occhi mi puntavano in attesa della “lezione”
sul come si dovesse chiamare quella salsa.
Salvatore rimase con la forchetta piena di bucatini a mezz’aria. E spiegai l’origine della
amatriciana.
«Ma che c’importa come si chiama. L’importante è che sia buona» disse, poi si infilò la
forchetta in bocca succhiando i bucatini come fosse il miglior aspirapolvere del mondo.
Anche Nicola mangiava, ma in silenzio, con il viso sempre rivolto al piatto. Nonostante la
sua tristezza, il carattere chiuso e la sua disponibilità, nessuno lo prese mai in giro, comunque subito dopo aver mangiato lavò i piatti, poi si rannicchiò a mo’ di feto sulla branda, con
la testa rivolta alla parete dove era appesa la modella vestita da Babbo Natale.
I pacchi vennero distribuiti in pompa magna la vigilia di Natale.
Aprendoli trovammo: un panettone, dolci vari, qualche alimento di vario tipo e delle sigarette lunghissime con su stampato per lungo “Sullana”.
Mettemmo da parte il contenuto dei cinque pacchi, escluse le sigarette.
Il pomeriggio venne lo spesino per raccogliere quanto promesso. Gennaro, mentre la
guardia teneva la porta della cella aperta, consegnò tutto all’uomo e in cambio ricevette un
altro termos pieno di vino bianco.
Per cena i miei amici vollero ancora l’amatriciana, che mandammo giù assieme al vino.
Quattro su sette non bevevano e il vino fu finito da Franco e dai due napoletani. La serata
passò raccontandoci barzellette.
«Romà! Romà! Svegliati!» Le urla di Gennaro mi colpirono come colpi di cannone.
«Romà! Romà! Nicola si è impiccatooooo. Aiutatemi a tirarlo giù! Guardiaaaaaaa!».
Scesi dal letto mezzo rimbambito dirigendomi verso la finestrella che dava sul cortile interno.
Gli altri compagni di cella si erano radunati verso lo spioncino e strillavano cercando di
attirare l’attenzione delle guardie.
Nicola era appeso per il collo a una striscia di stoffa strappata dai suoi pantaloni e attaccata alle sbarre della finestra. Si era impiccato salendo sul bugliolo e negli ultimi momenti,
forse per istinto di sopravvivenza, aveva rovesciato a calci la nostra toilette che aveva sparso
tutto il sudiciume in cella.
Io e Salvatore prendemmo le gambe del povero Nicola cercando di sollevarlo in modo
che lo stretto cappio al collo si allentasse, mentre Gennaro sollevò il secchio cercando, con
le mani impiastricciate di cacca e pipì, di sciogliere il nodo attorno la gola dell’infelice compagno di cella. Con le mani così sporche e viscide l’operazione era difficile; non si poteva
perdere tempo. Due guardie arrivarono dopo una decina di minuti.
198
«Appuntato Lopresti mi dia il coltello, svelto che questo ragazzo sta morendo!».
«Quale coltello? Ma non ce l’ha lei?».
«No che non ce l’ho io. Presto lo vada a prendere nell’armadietto dentro la guardiola.
Faccia presto!».
L’agente uscì di corsa.
Gennaro continuava a cercare di sciogliere quel maledetto nodo che stava portando
all’altro mondo il nostro amico. Il tempo stringeva.
L’agente mise l’orecchio sul petto di Nicola,
«Sì, respira ancora, lentamente, ma respira ancora. Ma quanto ci mette quello a prendere il
coltello?!».
Senza fiatare Salvatore si avviò verso la sua branda, alzò il materasso tirando fuori da un
piccolo strappo un cucchiaio.
«Superiore, il manico di questo cucchiaio è più tagliente di un rasoio».
L’agente guardò il nostro amico in modo strano, poi allungò la mano e in silenzio prese il
“taglierino”. In un attimo Nicola fu sul pavimento.
«Sedetevi sulle vostre brande e non vi muovete!». Fu l’ordine perentorio rivolto a noi
dall’agente.
Finalmente arrivò l’altro agente con il coltello tra le mani, seguito da altri due con una barella.
Nicola fu portato via ancora vivo e non ne sentimmo più parlare.
Salvatore fu denunciato per il possesso del cucchiaio e portato all’isolamento.
Il giorno dopo ci fecero la “perquisizione” (mettere sottosopra senza alcun riguardo le
celle dei detenuti), ma non venne travato nulla di proibito. Venimmo portati nelle celle di
punizione, dove passammo le feste natalizie, poi di nuovo al braccio.
Io, chissà perché, venni assegnato in un altro braccio, in un’altra cella, assieme a cinque
detenuti “politici”. Gente che parlava di dimostrazioni, molotov, assemblee, “compagni” e
di piazza della Scala, dove qualche mese prima i “compagni” avevano fatto un casino con
lancio di uova. Con loro legai bene perché, dopo aver letto le mie “credenziali” sui giornali,
dicevano che nonostante non fossi un “prigioniero politico”, mi dovevo considerare tale,
perché per lo Stato Italiano chi non si attiene alle leggi è comunque un anarchico che sta
solo bene in carcere, quindi io ero come loro; “un combattente contro l’arrogante potere
dello stato”.
Meno male che nei miei confronti la pensassero così e non che fossi un infiltrato.
Un giorno durante la passeggiata mi sentii chiamare:
«A rubbagalline!».
Mi bloccai sentendo che la voce era conosciuta. Proveniva da una delle celle del reparto
detenuti comuni che era di fronte a quello dei “politici”.
Cercando con lo sguardo tra decine e decine di sbarre alle finestre, riuscii a intravedere
una mia vecchia e dolorosa conoscenza; il Cipolla era affacciato tra l’inferriata e sventolava
una mano nella mia direzione.
«A rubbagalline sto qui, che non mi vedi?».
Adesso lo vedevo benissimo. Rimasi a guardarlo senza aprire bocca, mentre lui continuava.
«Ho letto i giornali e adesso capisco che quel Sor Cesare era una spia della polizia».
Rimanevo a fissarlo.
«Però me dispiace che per colpa mia abbiano carcerato anche te».
Stavo sempre in silenzio.
«Lo so che t’ho detto una bugia riguardo la statuina. Sì, vabbè, l’ho rubata a quel frocio,
ma però ero convinto che fosse veramente d’oro e se fosse stata veramente d’oro, avrem199
mo ricavato un sacco de soldi, o no?».
Cercava, con le sue parole, di scusarsi e allo stesso tempo di farmi aprire bocca per ricevere un po’ di conforto, ma io insistevo nel tacere. Non mi interessava né rispondere, né rivolgergli la parola.
Girai la testa e ripresi a camminare sue giù.
So che lui rimase a guardarmi per tutto il tempo dell’aria, lo vedevo con la punta degli occhi.
Quando fu l’ora di rientrare, quindi subito dopo che la guardia diede l’ordine, il Cipolla mi
indirizzò ancora: «A rubbagalline, se vedemo a Roma!».
Non lo rividi più.
In compagnia dei “politici” rimasi fin dopo la metà di febbraio ‘69. Allo scadere di due
mesi, pena che avevo avuto come condanna, venni prelevato dal carcere, portato alla Questura, dove ricevetti una nuova diffida e poi via con il treno, a Roma.
Non ritornai mai più a Milano.
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PARTE QUARTA
Roma
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Piazza dei Mirti
Era tardo pomeriggio quando mi ritrovai fuori dalla Questura Centrale.
Non è che mi sentissi spaesato, ma ritrovarmi a Roma dopo tanto tempo, in una serata
fredda ma asciutta, con ancora qualche soldo in tasca e le idee confuse per quel repentino
cambiamento, da Milano a San Vittore, e poi a Roma finalmente libero… tutto mi faceva
sentire stranamente contento, anche se non avevo amici e non sapevo dove fossero i miei
fratelli.
Chi della mia famiglia poteva stare ancora a Roma? E poi, a chi avrei chiesto ospitalità?
I soldi che avevo in tasca mi avrebbero permesso di dormire per un paio di notti in qualche pensione a buon prezzo dalle parti della Stazione Termini, ma dopo?
Mi stavo scervellando su dove dormire, dove mangiare, dove cercare un lavoro, quando
mi balenò in testa “piazza dei Mirti”.
Sì, certo! Sarei andato lì e sicuramente qualcuno mi avrebbe riconosciuto.
Il tram 12 mi portò in un baleno dalla stazione a piazza dei Gerani. Sceso mi incamminai
verso il “parcheggio” di Gregorio & Fiorucci, alla ricerca di vecchie conoscenze. Magari
avrei trovato mio fratello assieme a Occhialino.
Molti ragazzi stavano “parcheggiati” sul marciapiede del supermercato.
Alberto, lo Scarparo, quello con la spider e soldi.
Er Cabballero (il pappone) con la folta e lunga chioma seduto nella sua Alfa Romeo 1750.
Er Capello (sfaccendato, pelato, a tempo perso imbianchino), “quelli di destra andate tutti
a sinistra per coprire il centro tabula rasa”, fumava e sorrideva a tutti.
Angelino, (studente, lavoratore, sassofonista contralto) quella sera aveva lasciato lo strumento a casa.
Er Faciolo (imbianchino, elettricista, eterno disoccupato) sembrava una mummia, immobile, con le braccia calate lungo i fianchi, in una mano Marlboro e Minerva, stava sempre
sull’attenti come fosse un corazziere, ma spostava gli occhi al passaggio di ogni ragazza.
Augustarello (ex universitario, ladruncolo), figlio di famiglia benestante, non aveva mai
una lira, si guadagnava da vivere rubando autoradio, ruote di scorta, benzina e altro dalle
macchine. Lui abitava da Occhialino.
Poi c’erano un paio di nuovi venuti che tentavano di approcciare, ma la diffidenza iniziale
dei “vecchi” non tendeva ad allontanarsi.
Stavo parlando con Augustarello quando, in lontananza, vidi arrivare Occhialino.
Era sorpreso di vedermi, ma non seppe rispondere alle mie domande, mi disse soltanto
che mio fratello “camminava” con uno che non veniva in piazza e che abitava a Tor de’
Schiavi. Comunque ogni tanto veniva a trovarlo ed era sempre pieno di soldi. Quindi, se
avessi continuato a “farmela” lì, prima o poi lo avrei incontrato.
Passai la serata cercando di integrarmi nel gruppo che ascoltava, attento, “le mie storie
milanesi”.
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«Aoh! se vuoi stasera puoi dormire da me». L’offerta di Augustarello che mi aveva preso
in simpatia era allettante, almeno per il momento. Occhialino fece un’alzata di spalle come
per dire “se sta bene a voi...”.
Mi andava bene così, ma la mia vera intenzione era però quella di “sfondare” a piazza dei
Mirti.
La serata finì con un caffè, qualche risata e un salto alla sala biliardi di fronte a Gregorio
& Fiorucci, dove il Cabballero si destreggiava con la stecca e carambola.
Dormii in terra su un materasso.
Passai un po’ di giorni sul marciapiede davanti Gregorio & Fiorucci.
Il tram 12 faceva capolinea scaricando e caricando gente, e io avevo imparato a memoria
gli orari di partenza, mentre per quelli d’arrivo era un’impresa impossibile.
Ogni tanto pagavo un caffè ad Augustarello e altre volte la cena giù nel self service.
Lui si era accodato al sottoscritto in quanto aveva scoperto che avevo ancora qualche decina di migliaia di lire, quindi la sera non andava per autoradio, ma divideva i “miei” soldi
con lui.
Si autocompensava per l’ospitalità che mi dava.
Le giornate passarono sempre più noiose; intorno a me c’erano sempre le solite facce
senza allegria. Sentivo sempre le stesse battute e pagavo caffè. Giornalmente contavo i soldi
che mi sparivano dalle tasche. Non mi piaceva lì.
Quei ragazzi sembravano morti, senza spirito, senza iniziativa, senza speranze. Lì non
c’era assolutamente energia o ribellione. Noi “posteggianti” sembravamo più mummie che
altro; grigi e squattrinati. Senza idee né slanci d’avventura. No! Quel posto non faceva per
me.
Un mattino Augustarello disse che doveva andare a casa dalla madre per vedere se rimediava qualcosa, se volevo potevo aspettarlo da Fiorucci, perché se la mamma gli avesse dato
dei soldi, quella sera mi avrebbe pagato lui una cena. Bontà sua.
Erano i primi di marzo e le giornate, oltre a migliorare, si stavano allungando. Anche
quella mattina c’era bel tempo e non faceva freddo.
Dalla casa di Occhialino, passando con noncuranza davanti a Fiorucci, presi via dei Castani e, in un batter d’occhio, mi ritrovai a piazza dei Mirti.
Qualche ragazzo era posteggiato già lì. La macchina parcheggiata tra il muretto e il bar
non impediva al trenino di passare.
Ora dovevo fare in modo di mostrare che anche io ero “di mondo”.
«Ciao» dissi quando fui vicino al proprietario dell’auto che, seduto sulla balaustra di ferro
fissata al muretto, mi osservava curioso.
«Ciao» rispose.
Per far vedere che non ero un estraneo continuai: «Che per caso hai visto Claudio er
Monchetto?».
«Boh! Ancora non si vede» rispose meno diffidente di poco prima.
«Mannaggia ho un appuntamento con Ettore, Ricotta, e er Monchetto mi ci deve accompagnare».
«A momenti sarà qui» disse.
Avrei preferito non dire “Monchetto”, perché come parola era troppo umiliante, ma si sa,
nelle borgate il soprannome viene prima del nome vero, quindi...
«Che prendi qualcosa?» feci in modo da rompere definitivamente gli ultimi ghiacciati indugi.
Senza fiatare entrò nel bar prima di me.
«Due cappuccini e due cornetti». Ordinai.
Lui si chiamava Massimo, per tutti Massimino. Aveva 18 anni, capelli biondicci, lisci e
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lunghi, occhi azzurri, un poco introverso.
Un paio di quelli che stavano fuori, dato che parlavo con “uno di loro”, mi guardavano
con curiosità.
Chiacchierammo un poco e dopo il cappuccino tornammo di nuovo sul bordo degli scalini del bar, osservando la piazza già in pieno movimento e in attesa di altri ragazzi.
Da via dei Glicini spuntò la 500 di Claudio. Io, per non dare tempo a nessuno di aprire
bocca, saltai giù dal muretto e mi avvicinai all’auto.
«Ciao, ti ricordi di me?».
Quello, guardandomi dal finestrino, disse: «Tu sei il fratello di Gianni, è vero?».
«Sì. Ci siamo conosciuti tanto tempo fa» risposi.
Poi mi chiese: «Vuoi fare un giro? Dài, sali!».
Senza parlare salii sull’auto e lui, prima di fare una piccola sgommata (solo in seguito capii
come fece non avendo ambedue le gambe), si rivolse a Massimino.
«Ciao Massimi’, se vedemo dopo».
«Ciao Cla’».
Il giro per Centocelle durò un paio di ore. Mi chiese cosa facessi, dove dormissi, se avessi
mai rubato autoradio, con chi “camminassi”, e così via.
Lui era invalido, sposato con un’insegnante e aveva un figlio. Si arrangiava a rubare nelle
macchine.
Quando fummo ritornati, quindi verso l’una di pomeriggio, la piazza era piena ed era tale
e quale come l’avevo vista qualche anno prima, quando di notte avevo sbirciato dal buco
del telone del camion dei trasporti Rossi & figli.
Una quindicina di ragazzi stavano tra il muretto, la tintoria, il bar e i binari del trenino. Le
auto parcheggiate qua e là. Tutti erano indistintamente vestiti alla moda e freschi di barbiere.
Claudio mi lasciò vicino al gruppo e ripartì salutato di tutti. Claudio era rispettato al massimo.
Fu un pochino difficile prendere subito confidenza. Qualcuno mi conosceva, mi avevano
visto con Ettore e adesso con Claudio, però la confidenza è lenta a venire, specialmente in
quell’ambiente.
Massimino era ancora lì da solo e osservava la piazza. Mi avvicinai. Lui non disse nulla e
io rimasi al suo fianco sperando di rimanere impresso nella mente di coloro che riempivano
lo spiazzo fuori del bar.
Il Barone, il più gagliardo del gruppo, quando entrò nel bar mi diede un’occhiata di sfuggita e io lo salutai, lui rispose.
Qualcuno si era messo a giocare a garaghé a un metro dai binari del tram.
«Dai, andiamo a vedere» disse Massimino.
Lo seguii.
Una decina di ragazzi tenevano fogli da diecimila lire tra le mani, ogni tanto qualcuno vinceva e un altro bestemmiava.
Il Barone, breve passato nella palestra pugilistica della borgata, faceva della piazza un posto pieno di vita per “ragazzi di vita”.
Lui, proprietario di un Porsche 911 di color celestino, aveva pochi capelli. Portava al collo
un grande catenone d’oro, un orologio fighetto al polso, mocassini alla moda, camicia e
pantaloni superstirati, denti non proprio in ordine, era grassottello ma con tanta voglia di
ballare. Quando arrivava lui in piazza era come se la notte si illuminasse di milioni di lampioni e il giorno splendesse con due soli.
Lui portava allegria. Senza il Barone non ci sarebbe stata piazza dei Mirti.
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Il pomeriggio passò così; a farmi conoscere, salutare qui e là e parlare con Claudio.
Sul tardi mi diressi verso Gregorio & Fiorucci.
Anche lì ragazzi di vita, però questi erano spenti, tra loro non c’era allegria, non c’erano
autoradio a tutto volume. Nessuno creava l’atmosfera giusta, anche se a volte Augustarello
ce la metteva tutta. Era come se da Gregorio & Fiorucci ci fosse sempre bassa pressione, e
certo, mancava il Barone di piazza dei Mirti.
Un panino con Augustarello al self-service, due chiacchiere tra film, auto e sport, qualche
battuta cretina sul culo delle donne di passaggio, l’invito di Augustarello a rubare una macchina e “andare per sterei”, il rifiuto da parte mia, e poi a dormire.
Augustarello rimase giù.
Il mattino dopo mi ritrovai piazza dei Mirti, sperando, quel giorno, di poter risolvere
qualcosa; non so cosa, ma volevo che nella mia vita qualcosa cambiasse.
Il primo a essere là, sempre sul muretto, era Massimino.
Dopo cappuccino e cornetto gli domandai se sapeva chi mi potesse affittare una camera.
«No, non lo so, però puoi chiedere a Francesco, quello con la Vespa».
«E chi è Francesco?» chiesi curioso.
«Quando viene in piazza te lo presento, lui fa un po’ di tutto, e fa anche il sensale».
Poco dopo li conobbi tutti;
Caciotta, pappone, era alto, magro, ex fabbro nella bottega del padre, capelli castano chiari e lunghi, sempre in completo chiaro molto attillato, il “suo” barbiere era Mario (tocco di
moda senza pretese) in via dei Platani. Era proprietario di una Alfa 1750 beige. Come tutti
della piazza non disdegnava, oltre la sua “fonte di guadagno”, bidoni e furti.
Er Piccolo, calabrese, sveglio, non molto alto di statura, folto di capelli dello stesso color
nero degli occhi, era in attesa di una “professione”, quindi si limitava a stare sulle spalle dei
genitori e se capitava si intrufolava in un bidone. Il suo barbiere era Antonio di via dei
Frassini. Aveva una Jaguar 3.200 XL. Benzina 500 lire per volta. Spesso colletta e via in
centro.
Formaggino, fratello di Massimino, era basso, tarchiato e non proprio simpatico. Anche
lui incerto su quale “professione” intraprendere, tentava di fare il pappone. Fiat 500.
Scorpione, romano, alto, capelli neri, anche lui elegante, simpatico, era in cerca di una
meta più redditizia del solito bidone. Guardaspalle di Tiberio.
Tiberio, biondo, occhi azzurri, nato romano da genitori del nord era prepotente (non con
noi però), cercava sempre il colpo grosso. Era spesso in piazza, ma si autoescludeva dal
gruppo. Prima ebbe una Fiat 500, poi una FIAT 2300, gli spararono la prima volta e finì su
una carrozzina, gli spararono una seconda volta e morì.
Er Pantera bruttino, fossato sotto il mento e pappone. Fiat 500.
Peticello, faccia butterata, anche lui pappone e simpatico. La sua amica era detta “Anna ’a
secca” (vedi donna a forma di giraffa o viceversa), oppure “Anna dalla a tajo” (le prostitute
che “la davano” a tempo).
Venticinque, alto, castano scuro, viso allegro, atletico, bei vestiti, amichevole. Fiat 500.
Capoccione, elemosinante/sfruttatore del gruppo. Non rubava, non faceva bidoni (a meno che non lo si forzava col ricatto di “a capocciò’, se non voi partecipa’ guarda che poi
nun te pago manco ‘na cena”). Non aveva mai lavorato. Sfaccendato con l’intenzione di
mandare la propria moglie sul marciapiede. Somigliava, per via degli occhiali da vista, ad
Albano. Ogni tanto accennava “Nel sole”. Nessuno lo ascoltava.
Er Pancho, datore di cibo per Capoccione, simpatico, pochi capelli lunghi, non alto, conosciuto in tutta Roma come il più grande bidonista della capitale. Raramente in piazza.
Alfa Romeo Zagato.
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Chinotto, indecifrabile. Alto, magro, viso comico tra Alvaro Vitali e Carlo delle Piane,
elegante, sempre in disparte. Fulvietta HF.
Rib(b)ot, con tutti i cavalli di Capannelle e Tor di Valle aveva costruito il suo Harem. Parcheggiava il Maserati, due chiacchiere attorniato da noi, giornale Il Cavallo comprato al
chiosco di Mario e via, altre puntate, altre perdite.
Janout, tunisino trapiantato a Roma. Mai saputo la professione. Elegante e sportivo. Capelli castano scuri, bassino e sorriso a trentadue denti. Grossa moto Kawasaki.
Billo, basso, capelli al vento, neri e lunghi. Simpatico e pappone, bidonista e rapinatore.
Grande moto Yamaha.
Fefetto, idem Billo e Janout, bidoni, figura malandrina. Mini Morris. Morto tuffandosi dal
Pontile a Ostia.
“Andrea”, tunisino. sesso-maniaco. Sempre strane medicine in mano e riviste porno in tasca. Trasandato, ma allegro.
“Ciafrino”, proprietario di “Lottomatica paesana”. Si guadagnava da vivere girando nei
paesini attorno a Roma tra mercatini e piccole fiere e buttando su una coperta distesa
sull’asfalto regali (svegliette, pupazzetti e altre cianfrusaglie) imbrogliava la gente proponendo, dopo pagamento di mille lire mille, improbabili tombolate. Spesso noi della piazza
gli facevamo da compari. Simpaticissimo. Alfa Romeo Duetto spider.
Giovanni, che veniva raramente in piazza, era l’unico incensurato e l’unico a cui ruberie,
bidoni e lotterie non interessavano affatto. Alto, capelli radi e lunghi, sorriso aperto. Spesso
lo si vedeva con indosso una tutta da ginnastica. Quando compariva si abbassavano i toni
delle autoradio, le risate si facevano più sobrie, e tutti attorno a offrirgli da bere. Poi capii;
morì di cancro a ventiquattro anni.
Sergetto, anche lui di scuola pugilistica borgatara. Furti e altro. Alfa GT2000.
Cesarino, figlio di famiglia perbene. Padre militare in pensione. Imbrogli non appena entrata in vigore l’obbligatorietà assicurativa.
Cannone, magro, alto, lineamenti marcati, naso grosso a patata. Sempre in cerca di furti.
Vestiti alla buona.
Pappagone, idem Cannone, soltanto un pochino più basso e più simpatico.
Er Pera, veniva e andava, lo si vedeva soltanto in lontananza quando passava con la macchina, ma non si fermava mai in piazza. Ricettatore.
Er Patataro, fratello del Pachiderma, ladro, pappone e sòla. Fiat 600.
Er Pachiderma, idem a suo fratello, ma non era di piazza. Giulia Alfa Romeo.
Ragno, magro, folti capelli corvini, provava a essere alla moda, ma aveva sempre vestiti
unti. Furti e bidoni. Alfa 1750.
Er Roscio, fratello(?) di Ragno, rosso di capelli, più basso e più sporco del fratello. Bidonaro.
Er Formica, biondo, quasi albina pelata in dirittura d’arrivo come er Barone e er Capello.
Assegni a vuoto e spesso in cerca di lavoro a Cinecittà come comparsa in film di guerra.
Spesso faceva la parte del tedesco. Simpatico, allegro e sempre senza una lira. Sposato con
un’agenda che teneva stretta sotto il braccio. Fulvietta HF.
Er Negretto, più esile di un ramo di vimini, chissà se mangiava tutti i giorni. Capelli lunghi
e neri. Senza indirizzi di sopravvivenza, se si esclude qualche piccola entrata in un bidone.
Basette, idem er negretto, soltanto molto più alto. “Esclusivamente bidoni perché non si
va in carcere e ho moglie e figli”. Mini Morris.
Er Pecora detto anche er Mistico, predicatore e fervido difensore di Gesù. Strano tipo,
salutato e finita lì.
Er Celentano, somiglianza vaga con il famoso cantante. Sempre stessi vestiti indossati
giorni e giorni di seguito, spesso in cravatta. Super unto. Tirchio in modo assurdo. Bidoni.
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Giulia Alfa Romeo.
Pasquetta, romano de Roma, biondo, sempre sorridente, amichevole. Elegante sportivo.
Bidoni. Rapine. Dino Ferrari rosso.
Pierino er napoletano, non proprio basso, ma tarchiato, capelli e occhi nerissimi. Bidoni,
ma quando non si “mangiava” con le sòle, si armava di un tre ruote Piaggio e via per le
borgate a vendere aglio. Auto Fiat 1300 decappottata perfettamente in “self service”.
Er Palletta, biondino, capelli delicati, rotondo, bidoni e furti. Amichevole.
Claudio non era di Centocelle, ma veniva ogni tanto in piazza e tutti ad ammirare il suo
Lamborghini Miura.
Er Vichingo, non so da quale borgata venisse, ma quando lo si vedeva girare attorno con
la sua Opel 1900, si faceva finta di non vederlo. Capelli lunghi, biondi e antipatico
Tommaso er Barese, biondino, riccio, alla ricerca della tardona con i soldi. Sempre elegante e profumato. Comunque momentaneamente pappone di Barbarella. Renault Gordini.
Zircone, alto come un lampione, occhiali spessi e viso da intellettuale. Faceva bidoni e
pretendeva che noi credessimo che lui vendeva brillanti veri. Non era veramente di piazza.
Alfa Zagato.
Er Ciccione”, l’unico soprannome obbligatorio e “tradizionale”, da noi non c’era. A piazza dei Mirti non avevamo un “er ciccione”. Non è che fosse una grande frustrazione, o che
tutti noi fossimo degli atletici figurini, ma però in tutte le tipiche figure borgatare ce n'è
sempre stato uno, comunque...
La “Regina”, pederasta di tarda età, aveva un negozio di elettrodomestici dietro la piazza,
dalle parti del Cinema California. Ogni tanto veniva, parcheggiava la sua Mercedes tra le
altre auto e, rimanendo seduto al posto di guida, ci osservava appoggiato con le braccia
sullo sportello della macchina. Chissà che sogni pornografici.
Paoletto, idem Billo, Janout e Fefetto, veniva tutti i pomeriggi in piazza. Era impiegato in
qualche ministero e anche lui non disdegnava i bidoni. Fiat 500 L.
Nicola er Barese aveva il Mercedes Pagoda. Parcheggiava distante dalle altre auto e
s’intratteneva a chiacchierare con noi. Mai ho saputo cosa facesse, anche se era impossibile
fosse un chierichetto. Questo “barese” era alto e panciuto. Anche lui tabula rasa. Camminava come se tra le gambe avesse quattro palle o le emorroidi.
Er Califfo o Macist, bel ragazzo con un po’ di palestra sul corpo. Sempre elegante e con
foulard al collo. Anche lui era uno sfaccendato come noi, ma quando andava in centro il
più delle volte rimorchiava una straniera, veniva a piazza dei Mirti, faceva due giri della
rotonda a tutta velocità, facendo stridere le gomme, strombazzava e, senza fermarsi, come
era venuto se ne andava. Fiat 124 spider.
Infine c’era Settemmezzo, un nuovo arrivato. Si era intrufolato nella compagnia con la
scusa di essere il fratello di un altro “piazzarolo”, il quale adesso si trovava in carcere in
Germania. Settemmezzo era un ragazzo calmo e tranquillo, seguiva tutto ciò che accadeva
in piazza e si era accodato a me, Caciotta e er Piccolo. L’unica cosa che lo differenziava da
tutti gli altri è che questo ragazzo aveva l’occhio destro cieco (aveva avuto un incidente da
bambino ed era rimasto segnato per sempre), non aveva pupilla, ma soltanto il globo oculare bianco, comunque per camuffare questa sua grave diversità, usava sempre occhiali da
sole e in questo modo non si notava nulla, anzi era bello. Per chi non sapeva del suo difetto
fisico, lui appariva come l’unico particolare ragazzo di piazza. Gli altri ragazzi lo facevano
sentire come uno di loro, non facendo mai battute allusive alla sua menomazione. Spesso lo
facevano entrare nei bidoni, altre volte lo portavano in “batteria” (due o più persone della
stessa banda) a rubare negli appartamenti. Caciotta, nei primi tempi della venuta di Settemmezzo, gli regalò vestiti, camicie e scarpe.
208
Rita
«Ah! Ecco sta arrivando Francesco».
La voce di Massimino mi fece smettere di giocare al flipper del bar.
Un uomo con la Vespa si era fermato vicino al chiosco giornali.
«Senti, già gli ho detto che stai cercando una camera in affitto, ma prima lui ti vuole vedere».
«Come “prima mi vuole vedere”?».
«Così mi ha chiesto».
«Vabbè!» dissi avvicinandomi all’uomo che a distanza di trenta, quaranta metri mi stava
facendo i raggi x.
«Buon giorno» dissi.
«Ma io a te ti conosco!» esclamò manco avesse visto la Madonna.
Feci una smorfia con la bocca.
«Sì, ti conosco!» ripeté.
«Tu sei il figlio del “commendatore”!».
«Sì» risposi sapendo che mio padre era conosciuto con quel nome.
«Che peccato che adesso abiti a Ostia» aggiunse.
«Come abita a Ostia, non sta più a piazza delle Iris?».
«Ma che non sai dove abita tutto padre?». Francesco si meravigliò delle mie domande.
«No! Non lo so perché è tanto tempo che abito da solo» dissi per chiudere la discussione.
«Allora è tutto facile. Ho una bella stanza per te proprio qui sulla piazza».
«Ah sì?» feci meravigliato.
«Sì sì. Vieni che ti ci porto».
C’incamminammo verso quella che avrebbe dovuto divenire la mia abitazione.
«Ma dimmi, tuo padre come sta? Cosa fa adesso?».
Preso alla sprovvista risposi: «Che ne so?!».
«Lo sai che l’ho visto in televisione assieme al Sindaco?».
«Ah! è stato pure in televisione?».
«Eh sì, tuo padre è una persona importante».
«Se lo dice lei» dissi.
«Mi ricordo quando andai a trovarlo alla Borgata André, tu stavi facendo le tracce nel muro e la casa era quasi finita. Tuo padre mi ha sempre detto che faceva tutto per i figli. Brava
persona tuo padre».
Brava persona mio padre?
Questo Francesco conosceva, in “modo politico”, mio padre.
Arrivammo. Salimmo le scale e Francesco suonò un campanello all’ultimo piano.
«Prego entrate» disse gentilmente una donna.
«Signora Rita, questo ragazzo è figlio di una persona importante, quindi può stare tranquilla».
Francesco mi mise una mano sulla spalla come se mi conoscesse da bambino.
Lasciandomi solo con la donna sparì tra le scale.
Lei era alta, mora come lo può essere una tipica donna sarda, sui 35, sensualmente formosa, petto prepotente, denti bianchissimi e capelli lunghi sulle spalle; veramente una bella
donna.
La stanza, 4 x 5, dava effettivamente su piazza dei Mirti. Il panorama era bellissimo in
quanto l’appartamento si trovava all’ultimo piano. Costava 15.000 lire al mese e mi disse
“quando faccio la lavatrice posso anche lavare la tua biancheria”. Nella stanza a fianco la
mia alloggiava un signore sulla cinquantina, guardia notturna, quindi dormiva di giorno.
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Lo incontravo raramente quando lui andava al lavoro e io avevo finito il mio, attorno a
mezzanotte.
Lei, Rita, abitava nella stanza che dava sul terrazzo e da questo si poteva vedere, perché
spaziava a 360 gradi, oltre la piazza anche la chiesa di San Felice.
Dopo aver preso i miei dati su un foglio di carta, disse: «Allora siamo d’accordo, quindici
mila al mese più un mese di deposito».
«Va bene» risposi tirando fuori i soldi dalla tasca.
Mi diede le chiavi del portone e di casa, prese una giacchetta dall’attaccapanni e aprì la
porta d’ingresso dicendomi: «Scusa, ma devo andare. Sarò di ritorno più tardi. Dai
un’occhiata in giro, ma non fare rumore perché lui dorme». Con un dito sulle labbra mi
indicò la camera dell’altro ospite. Poi chiuse la porta e scomparve. e io non feci rumore.
Il bagno era pulito, la cucina in ordine. La credenza con qualche chilo di pasta, dei pelati e
dell’olio. Nel frigo c’era una pentola con coperchio, poi acqua minerale e un po’ di frutta e
verdura.
Entrai nella mia stanza. Un grande armadio prendeva quasi mezza parete, c’era un letto
d’angolo, un comò, una sedia ai piedi del letto e un comodino con una lampada sopra. Sì, la
stanza era decente e andava bene.
Scesi contento di abitare lì.
La giornata era soleggiata e io mi sentivo bene.
Di soldi non ne avevo più tanti, comunque l’importante era aver pagato l’affitto.
Il gruppo, come al solito, era lì e, come al solito, il giorno passò in fretta, tra scorrazzate
con le auto, una lasagna nella rosticceria in cui anni prima avevo rubato un pollo, piccoli
movimenti di danza attorno al “Barone” e chiacchiere di fronte al bar.
Poi la sera andammo di corsa al Bar di Fernando in via dei Platani, perché aveva i tavolini
fuori.
Fernando ci sopportava a sufficienza, comunque noi non facevamo troppo chiasso.
Io ero affiatato con Caciotta e Piccolo.
In quel lasso di tempo imparai di nuovo a esprimermi obbligatoriamente in dialetto romano.
Una di quelle mattine mi svegliai come sempre verso le undici.
Rita, quando mi vide uscire dalla mia camera, mi chiese: «Ernesto lo vuoi un pochino di
caffè?».
«Sì aspetta che mi lavo i denti e vengo».
Prendemmo il caffè in terrazza. Il sole era caldo. Dopo aver parlato un po’ del più e del
meno e, senza che facesse la domanda che non avrei voluto sentire, cioè “che lavoro fai?”,
mi raccontò di lei.
Era fidanzata con il proprietario di un bar situato a piazzale Alessandrino, aveva una sorella e lavorava spesso a Cinecittà. Diceva anche che era una delle attrici preferite di Fellini
e con lui aveva fatto dei film. Naturalmente a me quelle cose interessavano relativamente,
ma la ascoltavo volentieri. In un momento di pausa chiesi: «Senti Rita, conosci qualche
sarta che aggiusta le camicie?».
«Certo. Sicuramente. Conosco una ragazza che abita qui vicino che è bravissima. Oggi
pomeriggio gli telefono e prendo un appuntamento».
«Perfetto e grazie del caffè» dissi alzandomi.
«Di nulla, ci vediamo stasera».
Mi lavai e giù di corsa in piazza. Stavo prendendo il cappuccino che un allarme mi fece
svegliare dal torpore di quella vita; contando i soldi mi accorsi che avevo ancora una ventina di migliaia di lire.
210
Il bidone
Massimino negava qualcosa al Barone.
«No, A baro’, se vuoi che vengo voglio la “stecca” come tutti». (la “stecca” è la parte di un
totale diviso equamente con il gruppo).
«Essì a Massimi’, mo te do la stecca pe’ ‘na portonata».
«Allora trovatene un altro» fu la secca risposta di Massimino.
Vidi il Barone che si guardava intorno alla ricerca di chi potesse fare la “portonata”.
La sua simpatica faccia mi aveva preso di mira.
«Ciao» disse quando fu vicino a me.
«Ciao Baro’» risposi.
«Che prendi ‘na cosetta?». Il suo invito al bar era amichevole.
«Una spremuta di pompelmo per me e per lui...» si fermò un momento per chiedermi cosa bevessi. Presi un analcolico.
«...e per lui un Crodino».
La sua domanda non si lasciò aspettare.
«Senti, sai fa’ er “portone”?».
Fare il portone significa stare in attesa all’uscita di qualche palazzo o garage e quando arriva il complice con il “gaggio” cioè la vittima, dire che tutto va bene, che stanno caricando la
merce. Naturalmente nei bidoni non esiste nessuna merce. È tutto un gioco di passaggi tra
palazzi, parole, scatoloni riempiti con mattoni e “attento la polizia, i pacchi li controlli dopo
ma damme subito li sordi e scappa che ce penso io a tirarmi dietro dietro i poliziotti” e altre
cose di “scuola napoletana”.
«No, non l’ho mai fatto» dissi.
«Mica è difficile. Andiamo da ‘na parte e rimani lì. Quando arrivo io cor “gaggio” e te
chiedo se l’amico suo è soddisfatto della roba, te dici che è andato tutto bene e che stanno a
fini’ de carica’, quando ce vedi allontana’ alzi i tacchi e poi se vedemo in piazza».
«Se è così facile nun ce stanno problemi» risposi.
«Te do ‘na piotta e mezza. Vabbé?».
Andava benissimo, una piotta e mezza equivaleva a 150.000 lire.
Il pomeriggio accadde tutto come mi aveva spiegato qualche ora prima. La scena si svolse
all’Acqua Bullicante. Tutto filò liscio. Dopo il mio “la roba gli è piaciuta, stanno caricando”,
il Barone e il “gaggio” scomparvero dietro l’angolo. Dopo un quarto d’ora di tram ero in
piazza. Il Barone arrivò un’oretta più tardi. Mi chiamò e mi diede la mia parte. Eravamo
tutti contenti e iniziarono le danze.
Così feci il mio primo bidone. Cosa facile, senza rischi e in pochissimo tempo. Non mi
interessava sapere di quanto era stato il bidone, perché quello che avevo guadagnato senza
far niente mi andava bene.
Angela
Tutti vestivano nuovi e all’ultima moda, quindi adesso era venuto anche il mio turno.
«I pantaloni me li fa il sarto che sta a via dei Platani. Se servimo un po’ tutti da lui, vieni
che ti ci accompagno».
Caciotta per un completo in quella sartoria pagava 30.000 lire, ma se doveva farsi fare
soltanto un pantalone, allora il costo era di 8.000 lire. E quel giorno me ne feci fare tre.
Essere giovani è fantastico, tutto ti sorride, credi di avere il mondo tra le mani e nulla ti fa
paura.
211
Le camicie le compravo al mercato e spesso nei negozi, non le facevo fare perché quando,
tramite Rita, conobbi Angela lasciai il lavoro di aggiustamento a lei. E conobbi Angela un
pomeriggio.
Rita fissò l’appuntamento.
«Ti posso fare mille lire a camicia». Si sentiva dall’accento che era pugliese.
L’offerta di Angela era buona. Prese le misure di tre o quattro camicie e con un sorriso e
un “ciao a domani”, andò via.
«Lo sai che quando gli ho detto di te, lei mi ha chiesto di conoscerti?». La voce di Rita era
molto ruffiana, ma non mi dispiaceva, anche perché non avevo una ragazza.
L’indomani, dopo che ebbi ricevuto le camicie da Angela, fissai un appuntamento per una
pizza con lei.
Naturalmente andammo alla Trattoria di Guido in modo che tutti nella piazza potessero
vedermi, spiandomi da dietro le vetrate mentre io ero al tavolo a pavoneggiarmi.
Lei veniva da Putignano in provincia di Bari. Aveva 6 anni più di me, quindi 27, era castana chiaro di capelli, aveva gli occhi verdi, il naso leggermente aquilino tipo Sofia Loren e un
corpo snello, non era molto alta. Per vivere faceva la sarta e la commessa. Mezza giornata
alla Standa di piazza dei Mirti e il resto del giorno accomodava abiti a clienti nella zona.
Si era lasciata con il suo fidanzato militare di stanza a Pordenone.
«Ho ancora qualche camicia da farmi restringere» dissi aspettando un invito per quella
notte.
«Certo, me le puoi portare dopo, però, dato che è tardi, quando vieni a casa mia devi passare da dietro, perché non voglio che mio zio che abita a fianco veda che faccio entrare
gente in casa e di sera».
«Occhei» risposi, immaginando come sarebbe andata a finire la serata.
Mi spiegò dove si trovava la casa e quale era il “dietro” in cui dovevo fare il passo
dell’indiano.
La sua casa si trovava in via delle Tuberose, dietro la chiesa di San Felice. Facilissimo.
La persiana era accostata e dopo il mio secondo toc, si spalancò silenziosamente e mi ci
infilai dentro. Angela mise le camicie sul mucchio a fianco della macchina da cucire e mi
chiese:
«Vuoi un caffè o un bicchiere di vino?».
«Un caffè, grazie» risposi stando seduto su una poltroncina.
Andò in cucina e io iniziai a osservare la casa; decente come quella di Rita, ma molto piccola. La porta della camera da letto era accostata e potei vedere il letto matrimoniale. Girai
lo sguardo verso la cucina e... la vidi di spalle, indaffarata con la Moka; i capelli raggruppati
a coda di cavallo, la vita stretta, il “di dietro” bello e tondo, sotto un vestitino leggero e
semitrasparente che lasciava intravedere nudità velate.
Ormai preso da quella visuale, mi alzai, andai in cucina e le cinsi la vita, iniziando a baciarla sul collo. Lei sapeva che sarebbe andata così, perché era rimasta espressamente troppo tempo a preparare il caffè.
Lasciò la macchinetta accanto al fornello spento e tra abbracci e baci silenziosi ci ritrovammo avvinghiati sul quel grande letto.
Il caffè lo bevvi dopo un paio di ore.
Le sarebbe piaciuto se fossi rimasto a dormire lì e magari se in futuro mi fossi stancato di
abitare da Rita sarebbe stata contenta se fossi andato a vivere con lei.
Rimasi a dormire e per il resto se ne sarebbe parlato a tempo debito.
Anche così i giorni passavano meno noiosi. Spesso andavo a mangiare da Angela e spesso
passavo con lei la notte.
212
Siete tutti degli stronzi voi uomini
Ultimamente vedevo in Rita uno strano modo di comportarsi nei miei confronti.
La biancheria me la faceva trovare lavata, stirata e ora anche profumata. Voleva sempre
più spesso che rimanessi a mangiare da lei, e anche i suoi discorsi erano per me strani.
Anche quel mattino prima di scendere in piazza, mi si fece avanti.
«Senti Ernesto, perché oggi pomeriggio dopo aver mangiato non giochiamo a carte sul
terrazzo?».
«Giocare a carte?».
«Sì, e vorrei anche parlarti».
«Va bene Rita. Dopo telefono ad Angela che oggi pomeriggio ho da fare».
«Grazie Ernesto, a dopo».
Rita era contenta, ma la stranezza del suo comportamento mi rimase impressa per tutta la
mattinata.
Avevo sempre pagato puntualmente l’affitto, non facevo rumore quando rientravo. Che
volesse dirmi di trovarmi un’altra stanza? Ma no, il suono della sua voce era musicale, accomodante.
Verso l’una andai a casa. Rita era coperta da un lungo camicione azzurro che lasciava intravedere i suoi grandi seni senza reggipetto. Le porte delle camere erano spalancate, il che
stava a significare che il metronotte non era in casa.
«Ho fatto le lasagne, perché so che ti piacciono» disse, poi dandomi un bacio sulla guancia, mi cinse un braccio attorno le spalle. Rimasi meravigliato da quella effusione.
«Hmm, buone!», esclamai.
«Accomodati in terrazza che arrivo subito» disse volteggiando nell’aria.
La tavola era apparecchiata per due, con al centro una bottiglia di vino bianco.
«Proprio buone queste lasagne» dissi dopo il primo boccone e la prima scottata di lingua.
«Buone, eh?!» aggiunse Rita sorridendo per la mia smorfia, e via giù un altro bicchiere di
vino.
«Ma tu non bevi?» chiese vedendo ancora il mio bicchiere mezzo vuoto.
«Non è che il vino mi piaccia tanto» risposi.
«Ma dai, bevi un po’ che ti fa bene Ernesto» sembrava supplicasse.
Sorseggiai, mentre lei buttava giù un altro bicchiere.
Rideva di gusto quando storcevo la bocca dopo una sorsata di vino. Al contrario di me
che mangiavo, lei beveva allegramente, lasciando intravedere dalla sua vestaglia finissima
due tette toste e tonde, anche se io, con i miei vent’anni, la consideravo vecchia.
Avevo appena iniziato la seconda porzione di lasagna che lei si alzò e barcollando si venne e sedere vicino a me; era completamente ubriaca.
«Lo sai Ernesto che mi sei piaciuto sin dal primo momento che ti ho visto?».
La sua voce impastata viaggiava su un tappeto di vino bianco.
«E poi, da quando ti sei messo con quella puttanella di Angela a volte ti odio, ma oggi
no…».
La guardavo senza saper cosa dire. Il suo corpo ormai appiccicato al mio e il suo alito che
sapeva di vino, mi fecero smettere di mangiare.
«Angela non è una puttanella» dissi a difesa della mia ragazza.
Ma lei, invece di aprire bocca, mi mise una mano dentro la camicia facendomi saltare un
bottone.
Le donne ubriache non mi sono mai piaciute, ma dentro di me anche qualcos’altro mi fece reagire in modo brusco alle sue insistenze.
Cercai di scostarla con forza.
213
«Perché mi respingi Ernesto?». Talmente era ubriaca che la sua testa, dopo che l’ebbi
spinta sulla sua sedia, andava avanti e indietro.
Io rimanevo in silenzio a osservarla.
«Perché non mi vuoi?».
Non sapevo cosa fare o dire.
«Io lo so» fece con un rantolo nella voce. «Tutti voi uomini siete dei porci maiali. Quel
cornuto sta sempre al suo bar e quando viene si fa la sua sveltina e riscappa perché dice che
deve lavorare. A Cinecittà è la stessa cosa, quell’altro cornuto di regista ti fa spogliare, ti
disegna, ti fa far l’amore con tre o quattro uomini, ti riempie di perversità, ti promette una
grande carriera e poi ti fa fare soltanto delle comparsate. Siete tutti degli stronzi voi uomini.
Anche tu sei uno stronzo, mangi a sbafo e non capisci niente di donne. Sei uno stronzo.
Siete tutti stronzi voi uomini».
I suoi movimenti incontrollati fecero cadere due bicchieri. Un pezzo di vetro le si conficcò sotto un piede, ma lei non fece un lamento. Si afflosciò sulla sedia.
La sdraiai in terra, quindi, dopo aver preso garza e iodio dal bagno, le fasciai il piede.
Siccome non riuscivo a sollevarla, la trascinai in camera da letto sopra una coperta.
Ora stava sul letto. Avevo accostato la porta finestra e messo la stanza in penombra.
La guardai ancora una volta, dormiva con gli occhi impiastricciati di rimmel e una smorfia
di tristezza sul viso.
Feci la valigia e in un quarto d’ora fui a casa di Angela. Non le spiegai cosa era accaduto,
le dissi soltanto che non avevo più soldi per pagare l’affitto, e che da quel giorno, se lei
avesse voluto, sarei rimasto a vivere con lei.
«Certamente puoi stare con me e per i soldi non ti devi preoccupare perché ho abbastanza
lavoro, e poi troverai un lavoro anche tu».
La vita andava avanti così
«Aoh! Oggi c’è lo sbarco sulla Luna!». La voce di Caciotta si infiltrò nel gruppo.
Molti “a Ricotti’, ma che ce frega a noi delli marziani!”, mentre altri, me compreso, gli si
accodarono.
Il piccolo bar situato nell’ingresso del Cinema Broadway si riempì in un batter d’occhi. La
piccola tv portatile, messo in bella vista dal proprietario, riportava immagini della navetta
spaziale che iniziava la discesa sulla Luna. La voce euforica e concitata dello speaker teneva
i nostri occhi incatenati al tubo catodico, momentaneamente sulla luna. Non volava una
mosca e anche i rumori stradali si erano affievoliti.
«Un cappuccino per favore».
«Signo’ per il cappuccino può aspetta’ dieci minuti?».
«Ma inizia il film!».
«Allora se lo prende dopo er cappuccino».
«Come sarebbe a dire?».
«A signo’, per favore sto a guarda’ lo sbarco sulla Luna!».
«Ma va a morì ammazzato te, er cappuccino e la Luna!».
Quel giorno avevamo visto in diretta qualcosa di inimmaginabile, qualcosa che faceva
dell’emozione “dal vivo” l’incomparabile tra tutte le emozioni immaginabili messe assieme,
forse soltanto l’apparizione di Dio sul mondo sarebbe stata più forte e indescrivibile.
Caciotta era colui che metteva a disposizione casa sua per incontri di calcio, di boxe, e di
carte durante le feste natalizie. Come me, anche lui, era un ragazzo molto curioso e come
me, e tanti altri, faceva quel che faceva perché non è mai stato educato all’onestà o allo
214
studio, ma ha soltanto avuto una famiglia con madre e padre padroni. Nella sua casa ho
passato tante belle serate, ho visto tutti gli incontri di Clay, della Nazionale Italiana di calcio
e ho mangiato le pietanze che faceva la sua “mekka” (dicasi anche prostituta), che comunque era una simpatica ragazza napoletana.
In piazza ancora nessuno mi aveva chiesto di andare a rubare. Sicuramente in quel periodo andavano molto i bidoni. Se qualcuno me lo avesse chiesto non mi sarei tirato indietro.
Non volevo perdere la faccia ed essere “scartato” dal gruppo.
Così venne il giorno che divenni un “coatto” (coatto nelle borgate, in special modo nel
mondo della malavita, vuol dire “vero malandrino”).
Scureggione in piazza veniva raramente, ma io lo conoscevo perché era del Quarticciolo.
Quel giorno si presentò con Stefanello e er Mosca, due ragazzi di viale della Primavera.
Scureggione teneva infilati nei pantaloni gli “spezzi” (due grossi cacciaviti che avrebbero
sventrato anche una porta corazzata).
Tra una chiacchiera e l’altra decidemmo di andare, così “tanto per conoscerci”, per
“bella”. “Andare per bella” significava vagare senza nessun indirizzo preciso a rubare negli
appartamenti del centro o delle zone ricche. Si suonavano i campanelli e lì dove non rispondeva nessuno era possibile tentare il furto. Spesso si telefonava a caso prendendo un
numero sull’elenco telefonico, se dall’altro capo del filo nessuno rispondeva, allora era fatta.
A Roma i furti sono stati commessi ovunque. Da Monte Sacro ai Parioli, da Vigna Clara
all’EUR, dal Villaggio Azzurro a Casal Palocco, da Piazza Bologna a Trastevere a Ponte
Milvio.
Tutti i rioni bene di Roma hanno ricevuto nostre visite indesiderate.
Tanti “lavori” si svolgevano di giorno, attorno alle dieci di mattino, perché era il miglior
momento per entrare in azione, in quanto tra le nove e le undici, le massaie sono spesso al
mercato.
Quando scendeva il buio dopo le dieci, si andava per “scavalchi”, cioè si entrava di sera in
appartamenti sia a piano terra che ai primi piani e, sapendo che i proprietari erano assenti,
si forzavano le tapparelle e le inferriate, per portarsi via tutto il possibile.
La serata era adatta in quanto buia e leggermente piovosa. Parcheggiata l’auto del Piccolo
in viale Europa, c’incamminammo alla ricerca di “lavoro”.
All’Eur entrammo in un balconcino, che era all’altezza di due metri, con la portafinestra
aperta e le luci spente. La portineria, dietro il portone chiuso, era accesa e si intravedeva,
oltre i vetri, la testa di un uomo che guardava nella parte opposta e che quindi non ci poteva vedere. Un salto e in un attimo fummo dentro. Arraffammo ogni cosa di valore; pellicce,
gioielli e contante.
Un macellaio di Tor Sapienza comprò tutta la refurtiva dandoci 10 milioni in contanti.
Si divise in parti uguali, 2 milioni e mezzo a testa.
Il mio primo grande acquisto fu una 500 Fiat di seconda mano (comperata da “Cesarino”
quello delle truffe con le assicurazioni), sei camicie e tre paia di scarpe. Un orologio a Angela, uno a me assieme a una grossa e pesante catena d’oro (in piazza era d’obbligo), e un
nuovo tavolo da cucina.
Ho rubato in molti appartamenti, portando via denaro, gioielli e ricordi di famiglia. Ho
messo sottosopra camere da letto e intimità private. Ho fatto agli altri quello che mai vorrei
accadesse a me. Ho guardato, preso in mano e poi gettato alla rinfusa le cose personali riposte in bell’ordine negli armadi e nei cassetti. Ho violato vizi intimi, mangiato dal frigo
altrui, e portato via camicie e pantaloni non miei.
Ho violentato porte massicce e portoncini, tapparelle e inferiate. Ho rubato nelle camere
dei bambini e dei loro genitori, usato le loro toilette.
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La vita andava avanti così, seguendo la solita routine borgatara; casa, piazza, scorrazzate di
qua e di là, furti e bidoni. Per riempire le serate si decideva anche di andare tutti a vedere il
film o l’avvenimento sportivo più reclamizzato. In quel periodo andava molto forte il film
“Love story”, e tutta la banda andava al cinema in centro. Non c’erano bei film in circolazione?
Allora si poteva passare il pomeriggio a Vallelunga, oppure se il circuito era chiuso, andavamo fuori Roma e in un maneggio prendevamo in affitto il cavallo, poi andavamo al trotto
per la campagna; il Settimo Cavalleria contro la noia.
Bruno Arcari una sera si ruppe le sopracciglia contro un cazzottone dell’avversario, lì al
Palazzetto dello Sport.
Altre volte facevamo delle capatine nelle bische sparse nelle borgate, ma a me queste sale
da gioco non piacevano, c’era troppo fumo, troppa gente, e giocare non è stata mai una mia
passione. Quindi spesso rimanevo assieme ad altri tre o quattro ragazzi a oziare da Fernando.
Ogni tanto er Califfo veniva in piazza con una turista rimorchiata in centro. Una delle
tante turiste che venivano a Roma per “fare il cinema”. Una sera toccò a una bionda da
schianto.
Verso le undici, noi come al solito stavamo fuori al bar ad annoiarci nel trovare una cosa
divertente da fare, venne er Califfo dicendo che aveva una svedese tra le mani. Lui se l’era
già “fatta” e ci disse che se volevamo potevamo portarla a casa di Caciotta e lì “passarcela”.
Caciotta non aveva problemi, stando la sua “mekka” al “lavoro”.
Comperammo, facendo democraticamente la colletta, una bottiglia di Martini da Fernando e via, tutti a seguire la macchina del Califfo. Eravamo una quindicina.
La svedese, ubriaca fradicia, insisteva “io volere fare cinema”, e noi a turno “sì, sì, adesso
tu fare questo, dopo Cinecittà, cinema”. Dopo un paio d’ore, ancora più ubriaca di come
era venuta, ancora più “usata” di una puttana, fu riaccompagnata da me e er “Piccolo” nel
suo albergo di via Nazionale.
Il portiere non si meravigliò affatto nel vedere lo stato in cui era, dicendo che, in una settimana che era alloggiata in quell’hotel, “tutte le sere” era stata “la stessa storia”.
Quando la noia delle corse giù allo “stradone” (via Palmiro Togliatti) ci prendeva il gozzo,
si decideva di andare a Ostia facendo a gara con le auto sulla Cristoforo Colombo, l’ultimo
arrivato da Sisto avrebbe pagato il gelato a tutti.
L’iniziativa era sempre del Barone. Era a lui che gli si chiedeva se era meglio andare a
Ostia, ma se non aveva voglia, oppure aveva idee migliori, noi lo seguivamo.
Giù allo “stradone” le corse erano settimanali; Pasquetta con il suo Ferrari, il Barone con
il suo Porsche, il Piccolo con il Jaguar, altri con le Alfa. Noi con auto piccole facevamo da
spettatori, mentre quando si andava a Ostia facevamo da “coda della cometa” alle macchine
veloci.
Il Barone vinceva sempre. Andava in visibilio quando gli si facevano complimenti per la
sua bravura nel guidare, per la sua eleganza nel vestire, o per le sue danze.
Quando le corse ci annoiavano, trovavamo sempre un’idea per passare la serata.
Si andava al Ponte di Ferro dietro la ferrovia di viale Trastevere, parcheggiavamo le auto,
ci mettevamo in fila vicino al ponte e poi, uno per uno, mille lire, mille, giù nella piccola
scarpata a farci fare nella baracca di Dentona un “rapporto orale”, dopodiché in una via del
centro a bere un frullato in un rinomato bar.
La vita in piazza era bellissima. Avevamo sempre soldi in tasca. Il sole era caldo. Facevamo spaghettate sotto il pergolato da Guido e non c’era nessun problema. Nessuno beveva
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alcolici e l’unico che usava droga, Metedrina, era Andrea il tunisino.
La polizia era letteralmente assente dalla piazza. A volte compariva un’auto in lontananza,
ma dopo dieci minuti tornavamo a goderci il fare nulla.
Nei circa tre anni che ho passato in piazza, soltanto una volta, era un mattino, ho visto un
vigile che coraggioso e solo si avvicinava minaccioso con intenzioni di repulisti. Quando
era a distanza tutti mettemmo in moto le nostre auto scomparendo in pochi secondi nelle
vie adiacenti. Io parcheggiai la mia 500 dietro il cinema Broadway e risalii la via a piedi.
Caciotta arrivò proprio in quel momento, senza avvedersi del vigile, parcheggiò e... fu colto
all’improvviso alle spalle. Dalla porta del bar vedevo l’agitazione tra i due. Nel momento in
cui il tutore dell’ordine volle sequestrare la patente al mio amico, questi fece uno scatto
fulmineo strappando la patente dalle mani del vigile e si mise a correre nella mia direzione.
«Erne’, queste so le chiavi, porta via la mia macchina».
Mi ritrovai le chiavi in mano senza quasi accorgermene. Il vigile iniziò l’inseguimento, ma
perse le tracce del mio amico. Salii in auto e portai la macchina a casa sua.
Il vigile rimase solo, sconsolato, triste e, credo, pure incazzato. Comunque non si vide più,
tanto meno si videro altre forze dell’ordine.
Sterei
Anche per me venne il tempo delle vacche magre. Di bidoni adesso se ne parlava raramente e, quando all’orizzonte se ne prospettava uno, il lavoro veniva fatto da chi in tempi
migliori avrebbe rifiutato di fare il “portone”.
Claudio, er Monchetto, non faceva bidoni, (come avrebbe potuto essendo senza gambe
dall’altezza delle cosce?).
Una sera, parcheggiando la sua auto dall’altra parte della piazza, iniziò a suonare il clacson.
Molti si voltarono, ma la sua chiamata e il gesto della mano erano indirizzati a me.
Mi avvicinai.
«Ciao Erne’».
«Ciao Claudio, che voi?».
«Senti perché non ci andiamo a fare qualche stereo?».
Accettai primo perché avremmo fatto un giro per Roma, il che mi affascinava, e secondo
perché “andare per sterei” con lui non era affatto pericoloso. Sapevo che se dopo i furti ci
avesse fermato la polizia, vedendolo così mutilato, dopo un paio di tristi parole, ce la saremmo cavata senza essere perquisiti nell’auto.
La sua cinquecento è passata in tutte le strade e per tutti i vicoli della città. Abbiamo rubato (ho rubato perché lui faceva da palo, non potendo fare altro) radio di tutti i tipi nelle
auto e, come a Milano con Dentino, asportato ogni tipo di oggetto.
Ogni sera, due o tre a settimana, andavamo per radio. Rubavamo quattro o cinque pezzi
per volta e facevamo cinquanta o sessantamila lire da dividere in due, inclusa la benzina
della sua auto. Abbiamo lasciato il segno in tutta Roma e a volte in provincia.
Per togliere le autoradio, se era possibile si smontavano le mascherine di protezione con
una pinza, se non lo era, allora si faceva il “lifting” a tutto il cruscotto con cacciavite e tenaglie, si rompeva di qua e di là, lasciando uno sfacelo e danni molto superiori al costo
dell’autoradio stessa.
Per aprire le auto, se non funzionava lo “spadino”, che era una specie di passepartout, una
chiave limata eliminando la dentatura, si apriva il deflettore esterno e se questo era tosto,
allora, con un colpo di punta di diamante per trapano, si rompeva il vetro dello sportello.
La polizia ci ha fermati molte volte di notte, ma come ho detto poco sopra, siamo sempre
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ritornati a casa sani, salvi e pieni di Voxson, Autovox, Philips e altri oggetti.
Claudio mi lasciava davanti la mia abitazione e mi dava appuntamento al giorno dopo
quando, in piazza, mi avrebbe portato la mia parte.
Chissà a chi vendeva la refurtiva e chissà a chi ha donato l’anima prima di morire di cancro.
Una sera, con Claudio, andammo dalle parti di Campo di Fiori. Aveva bisogno di soldi
per far fare la Prima Comunione a suo figlio. A suo dire sarebbe stato bello se avessimo
rimediato qualche “pezzo” di valore, così avrebbe potuto fare proprio una bella festa.
Lui, come sempre, dopo aver adocchiato un’auto nuova con una bella antenna in vista si
accostava con la sua auto e sollevandosi, facendo forza con le braccia sul volante, sbirciava
dentro l’auto in sosta per vedere se c’era la radio o altro da portar via.
Sul lato destro della strada un Maggiolone decappottabile nuovo nuovo, attirò la nostra
attenzione.
«Erne’, ci ha una radio ultimo modello e un giradischi, sicuramente ci frutteranno 15.000
lire».
«Vabbè, dammi la punta di diamante»
Lui si mise a guardare nel portaoggetti.
«Ah! Mannaggia, la punta l’ho lasciata a casa».
«E adesso come facciamo?» chiesi deluso.
«Andiamo a cercare un’altra macchina» disse.
«Aspetta, posso rompere la cappottina, tanto la strada e buia e non c’è nessuno». Azzardai.
«E se ti vedono?».
«E chi mi vede, e poi io corro più veloce del vento».
«Vabbè, questa è la lametta. Io mi metto laggiù e ti suono se arriva qualcuno. Prima di tagliare la capotta smuovi la macchina per vedere se c’è l’allarme, occhei?».
«Occhei!» feci scendendo.
La Volkswagen era veramente nuova di fabbrica, di un bel colore bordò. Dispiaceva
aprirla in quel modo, ma tant’è… Lo “spadino” con le macchine tedesche non ha mai funzionato.
Effettivamente non passava anima viva e la via era quasi al buio.
Mi guardai un po’ intorno, su e giù, intorno era tutto deserto.
Smossi la macchina e... silenzio assoluto.
La lametta, come una tavola che scivola sull’acqua, aprì uno squarcio di cinquanta centimetri, mi ci infilai dentro e con la pinza svitai la prima rondellina avvitata al pulsante
dell’accensione. Ormai la radio era finalmente smontata, ma nel momento che la tirai fuori
dalla guida, un allarme a trombetta iniziò ad avvisare i proprietari che un estraneo era dentro la macchina e, se fossero arrivati presto, avrebbe anche intonato il “Silenzio”.
Quella strombettata a pieno volume non voleva smetterla di fare tutto quel casino.
Preso alla sprovvista lasciai andare radio e ferri del mestiere, contemporaneamente cercai
la via di fuga dalla cappottina. Appena messa la testa fuori, un pugno mi smosse la testa
come le campane di San Pietro la domenica mattina. Il labbro mi iniziò a sanguinare.
Le strilla di minaccia di morte e altro, inveite dall’uomo, giravano nella mia testa, che un
attimo prima aveva avuto un incidente frontale con un trattore. Riuscii a uscire nel momento che il mio aggressore si volse disturbato e sorpreso dalla inaspettata venuta di Claudio, il quale dalla sua macchina mi strillava di saltare. Il salto fu alla Tarzan e mi ritrovai a
rotolare sulla parte dura del tettuccio della 500, riuscendo a entrare dalla portiera. Nel fuggire vedemmo due o tre uomini che, in mezzo la strada minacciosi, avevano tra le mani cric e
bastoni.
Claudio accelerò puntando minaccioso nella loro direzione fingendo d'investirli, ma
quando fu arrivato a non più di un metro dal gruppo, vedendo che i forsennati rimanevano
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al loro posto, frenò sterzando e iniziò una terribile e disperata marcia indietro. Nel momento in cui era quasi riuscito a girare l’auto, una cascata di bastonate e colpi di crick si
abbatterono su di noi. Un crick, dopo aver mandato in frantumi il vetro dalla sua parte, lo
colpì tra la guancia sinistra e la fronte. Il sangue schizzò anche sugli abiti del difensore della
proprietà privata.
Claudio, mezzo intontito dalla botta, stava con la testa poggiata sul volante mentre
tutt’attorno i difensori del Maggiolino stavano demolendo la nostra macchina.
«Claudio! Claudiooo! Svegliati che qui ci ammazzanoooo! Claudiooo!» gridavo sperando
che non fosse già morto.
Il mio amico, ancora mezzo stordito, ritornò al presente, mi guardò, mise la prima e con
un piccolo stridio di ruote, partì a tutta velocità. Si fermò soltanto quando capì che eravamo fuori pericolo. Grondava sangue.
Eravamo a Tor di Nona. Qualche puttana ci osservava da lontano e io andai a prendere
un po’ d’acqua con la tanica che usavamo per rubare la benzina dalle auto. Rimanemmo lì
un paio d’ore. La ferita sulla fronte non era grave, ma sanguinava ancora. Una pulitina delicata del sangue e una sigaretta fumata in silenzio.
Mi disse di non parlarne con nessuno in piazza, che a inventare qualcosa del perché la
macchina fosse ridotta così, ci avrebbe pensato lui.
Per un po’ di tempo non lo rividi e non andai mai più per “sterei”.
Dopo la sparatoria, la quale accadde perché un truffato era riuscito a sapere dove se la faceva “Ragno” e “er Barone”, e che si svolse verso le undici di mattina quando un’auto con
due individui si fermò in mezzo alla piazza e scendendo, mentre brandivano due pistole, si
diressero verso i miei due amici chiedendo ad alta voce i soldi indietro perché il giorno
prima erano stati bidonati, e miei due amici promisero, dopo essersi salvati dai colpi perché
rifugiatisi nel bar, che al più presto li avrebbero fatti rientrare, dicevo, dopo questo incidente, ci fu un periodo di incerta calma.
Certo che le radio si potevano sempre andare a rubare, ma non sempre Claudio era disponibile, anzi adesso veniva raramente in piazza.
So che aveva un figlio, che lui confidenzialmente con me chiamava “er roscio”, e una
moglie maestra elementare. Ricordo che quando capitava una autoradio rotta, magari per la
mia fretta di smontarla, lui in un paio d’ore la riparava, avendo a casa tutti gli arnesi adatti.
Questa sua capacità era dovuta al corso di radio riparatore che aveva seguito per corrispondenza in una scuola di Torino, “Scuola Radio Elettra”.
Si diceva in giro che, prima che la malattia lo prendesse alle gambe, quindi quando era ancora in salute e giovane, fosse stato il miglior ballerino di Centocelle e dintorni. Nelle discoteche della zona, quando lui entrava in pista, gli altri ragazzi rimanevano incantati a
guardare le sue giravolte, ma so, come purtroppo sapeva anche lui, che il cancro non guarda in faccia a nessuno, non perdona.
Una mattina rividi in piazza er Mosca e Scureggione.
«Che dici Erne’, annamo pe’ “bella”?».
Le parole del Mosca mi parvero un invito di importanza, non avendo chiesto a nessun altro prima di me.
«Vabbè ma dove andiamo?» chiesi.
«Dalle parti dei Parioli, lì ci sono un sacco di soldi» rispose Scureggione.
E così fu.
Piazza Euclide. Un palazzo signorile, molti fiori sui balconi, giardini in ordine, tapparelle
chiuse all’ultimo piano; l’attico.
«Ho suonato, all’ultimo piano non c’è nessuno» er Mosca era in eccitazione, come me. Il
219
cuore mi batteva forte. L’ascensore fu veloce.
La porta dell’appartamento era massiccia e a doppia anta. Er Mosca si mise di guardia
sulle scale, mentre io aiutavo il mio complice a infilare il cacciavite tra le due ante. Forza di
qua, forza di là. Scricchiolii di qua e di là, con un tonfo terribile si aprì la camera del tesoro.
Mettemmo l’appartamento a ferro e fuoco. In una fodera per cuscino furono messe cose
di valore, in un sacco di plastica vestiti costosi. Il bottino fu buono e anche era buono il
mezzo pollo arrosto trovato in frigo.
Scendemmo le scale di corsa e, appena fuori il portone, proprio quando cominciammo a
correre in direzione della 500 del Mosca venimmo bloccati.
«Fermi! Non vi muovete! Polizia!».
Due auto della polizia e otto agenti erano in nostra attesa. Sicuramente qualche inquilino
aveva dato l’allarme.
In un batter d’occhi fummo in commissariato.
Foto e impronte, prima dell’interrogatorio... naturalmente.
Anche qui, come a Milano, il primo schiaffone mi fece cadere dalla sedia. Un’altra sberla
se la prese Scureggione, mentre Mosca era riuscito a fuggire, fortuna questa che generalmente hanno i “pali”.
In poche parole e molte sberle ci ritrovammo in carcere senza aver fatto il nome del nostro complice.
Regina Coeli
Salimmo i “tre scalini” e ci trovammo subito in matricola. Anche lì ci presero le impronte
digitali, ci svuotarono le tasche dalle cose personali, ci tolsero lacci, cinture e chiavi di casa.
«Avete droghe? Spogliatevi che vediamo».
Ci infilarono un dito nel culo, e io dovetti fare uno sforzo sovrumano per non far esplodere vecchi traumi, poi fummo portati al “braccio”, dove venimmo separati, uno di qua,
l’altro di là.
Rumori di chiavi, nomi urlati.
«A Tartarù me mandi due cartine pe’ farme ‘na sigaretta che le mie l’ho finite? A Tartarugaaa ma quando cresci!».
«A infame! Domani all’aria te lo faccio vede’ io chi è più alto tra me e te. A infamone!».
«A Tartarù, stavo a scherza’. Mandame due cartine!».
Mi diedero le solite cose prese dal magazzino, lenzuola, scodelle e foglietti di carta ruvidissima al posto della carta igienica.
Mi assegnarono una cella, non mi ricordo il numero, all’ultimo piano. Scrostata e brutta
come tutte le celle.
«Buongiorno a tutti» dissi un po’ spavaldo, cercando di far vedere la mia abitudine alle
patrie galere.
«Ciao» disse il Mostro. Furto in appartamento.
«Ciao» disse Mario il tedesco. Possesso di droga.
«Ciao» disse anche Rocchetto dell’Alberone. Furto in appartamento.
«Ciao» disse Agatino figlio di paparino. Non seppi mai la sua colpa.
«Ciao» disse Sansonetto. Furto in appartamento.
Nella cella eravamo in sei e non c’erano letti a castello. In uno stanzino a parte, 1 x 2 metri quadrati, c’era era un piccolissimo tavolo di legno con una sedia soltanto e dietro di esso
la toilette, cioè il bugliolo che, come al solito, mandava un fetore assurdo. Il bugliolo si
vuotava due volte al giorno. Le lenzuola venivano cambiate una volta ogni due settimane.
220
Le scodelle di alluminio venivano lavate una volta al giorno, quindi dopo pranzi indecifrabili fatti di “una portata una” e del pane. La portata unica consisteva in un mestolo di
brodaglia in cui veniva poggiato un pezzo di qualcosa che avrebbe dovuto essere carne, ma
generalmente era nervo e grasso. Una volta a settimana veniva servito pesce; un’altra cosa
schifosissima e dall’odore nauseabondo di baccalà in putrefazione tra due patate lesse e
mezze sbucciate. La pasta asciutta, letteralmente “maccheroni schiacciati, incollati, colorati
di rosso e pronti per il bugliolo”.
Quando si decideva di mangiare, (il più delle volte non mangiavamo il “pranzo” del carcere, dando addosso alle riserve nella dispensa familiare), dovevamo farlo con il cucchiaio in
quanto l’amministrazione non aveva nel servizio posate né coltello, né forchetta.
La colazione era come il pranzo, caffè d’orzo trasparente. Latte identico a quello di Porta
Portese e di altre antiche memorie, quindi annacquato, ma insaporito con “bromuro” per
tenere calmi bollenti spiriti e le voglie sessuali dei detenuti.
Il barbiere era un carcerato che svolgeva la sua mansione in un’altra cella. Se volevi che ti
tagliasse i capelli un pochino a modo dovevi pagarlo con qualche sigaretta, altrimenti ti
ritrovavi la testa piena di graffiti. La barba la faceva per prima a detenuti che “contavano” e
poi, se aveva tempo, la faceva anche a te.
La spesa si faceva a turno, perché quasi tutti, escludendo Mario il tedesco, ricevevamo la
visita settimanale.
Lo spesino, il più delle volte, era Pietro Valpreda, il presunto assassino che, si diceva, depositò la bomba nella Banca di Piazza Fontana a Milano nel 1969.
Valpreda, quando si affacciava allo spioncino non sorrideva mai, sembrava sempre sofferente e malato. Oltre a essere addetto alla spesa era anche “scrivano”, ossia il detenuto addetto a consigliare, trascrivere e correggere le domande varie indirizzate al Ministero di
Grazia e Giustizia da parte di detenuti. Lo rividi l’anno dopo nell’infermeria di Regina Coeli.
Mario il tedesco, che era veramente tedesco di nascita, dopo il suo arresto, riuscì a far entrare, chissà come, un bel pezzo di hascisc. Lui una volta al giorno si faceva uno spinello e
provava sempre a passarcelo, ma noi ragazzi puri di borgata, rifiutavamo; “fumare” non ci
interessava. Mario sapeva fare anche i tatuaggi. Cosicché tutti nella cella ce ne facemmo
uno.
Per fare il colore nero da lavorare con gli aghi, si bruciava la gomma delle scarpe, e, quando era secca, si riduceva in polvere mischiandola con olio da cucina, poi, intingendo gli aghi
tenuti assieme da filo di cotone in quel miscuglio, batteva sulle braccia ciò che pensavamo
ci fosse caro o andasse di moda. Io ho ancora tatuato sulla spalla destra un disegno che
Mario diceva essere dei “figli dei fiori”. Che scemenza i tatuaggi.
La vita nel carcere continuava noiosa e vuota. Ce ne stavamo in cella per lo più sdraiati sul
letto, aspettavamo l’ora d’aria, e il resto era fatto di giornalini porno.
Un giorno nell’ora d’aria mi sentii chiamare: «Ernesto! Ernesto!».
Con lo sguardo passai in rassegna tutte le inferriate, finalmente vidi una persona che credevo aver dimenticato; Riccardo er Negretto stava affacciato dietro le sbarre con le sue
scure braccia fuori a penzoloni.
«Ricca’! Ciao Ricca’!» urlai forte.
«Ciao Erne’, com’è che stai dentro?».
Gli dissi il perché.
«E tu?!» chiesi.
«Mi hanno preso mentre svaligiavo un magazzino di prosciutti».
Rimanemmo a guardarci per circa un quarto d’ora senza pronunciare parola. Rivedevo,
221
come tanti anni passati, il suo sorriso e i suoi occhi nerissimi. Sentivo Riccardo come parte
della mia vita, mi stava dentro il cuore, perché avevo diviso con lui quella felice miseria che
scompare nel crescere. Mai sarei riuscito, e questo vale anche adesso che sto scrivendo,
dicevo che mai sarei riuscito a scacciare dai miei ricordi quel mio vecchio caro amico
d’infanzia.
«L’aria e finitaaa! L’aria è finitaaa!».
Dovevamo rientrare.
«Ciao Erné».
«Ciao Riccà».
Rimasi a guardarlo ancora per pochi secondi. Lui ricambiava sorridendo.
Il suo sguardo mi seguì fino al portoncino. Mi fermai, mi girai e vidi nei suoi occhi
un’espressione di solitudine, disperata, smarrita, da cane bastonato. Dopo qualche anno
seppi che una notte Riccardo venne ucciso dalla polizia mentre si ribellava all’arresto dopo
aver provato a rubare non ricordo più dove.
Inizialmente Angela veniva a trovarmi regolarmente, poi, nel tempo di un anno, le visite si
diradarono.
Un paio di giorni prima di essere libero ricevetti un vaglia postale di 200.000 lire da parte
sua, mi scriveva che la casa era stata affittata ad altre persone e che lei era tornata al paese.
Arrivò il giorno tanto atteso, precisamente dopo un anno. Uscii per “scadenza dei termini
di carcerazione preventiva”, non so cosa volessero dire tutte quelle parole, ma ero finalmente libero.
Si dice sempre che la legge non ammette ignoranza.
Ma come si fa a “non ammettere ignoranza” quando una persona non conosce le leggi
perché mai nessuno gliele ha insegnate? E quando qualcun altro, in questo caso l’avvocato
d’ufficio, ti dice soltanto che “sei libero, penso a tutto io, stai tranquillo che ci sarà
un’amnistia”, mentre aspetta una parcella in nero?
La legge non ammette ignoranza?! Non c’è cosa più pretenziosa e pretestuosa di queste
parole.
Sono convinto e credo che se i codici penali e civili fossero obbligatori nelle scuole come
la geografia o l’aritmetica o addirittura le tabelline, quindi si insegnasse già dalle elementari
il buon vivere sociale senza giri di parole, con più chiarezza sui pro della legalità e i contro
dell’illegalità, allora, in questo caso, crescendo si diverrebbe molto più responsabili e rispettosi delle leggi e conseguentemente del prossimo. Non è possibile lasciare il compito di
educare all’onestà soltanto alla famiglia (se ce l’hai) oppure al parroco, oppure al “sentito
dire”. Non è possibile che la “giustizia” lanci proclami come ventate di vento e poi queste
si perdano chissà dove. La “giustizia” si deve far conoscere per essere riconosciuta, non
deve portare veli sul capo, non deve nascondere la verità, non deve essere ambigua.
Comunque ero libero.
Dopo un’oretta ero a piazza dei Mirti. Tutti mi salutarono con allegria e sorpresa, ma
l’entusiasmo finì dopo qualche istante, e tutto tornò presto alla normalità che avevo lasciato;
musica ad alto volume, “garaghé” e balli improvvisati dal Barone.
Una scappata a “casa mia” disilluse la speranza di trovare Angela; ora lì vi abitava un’altra
coppia.
Dove sarei andato a dormire per un paio di sere in attesa che Francesco il “sensale” mi
trovasse una stanza? Naturalmente da Caciotta!
E così fu.
222
Rosa
Ogni volta che Manuela, la parrucchiera che faceva i capelli alla moglie del proprietario
del bar di piazza, veniva a prendersi il cappuccino era accompagnata da una bella ragazza
dai capelli lunghi e biondi che poi scoprii essere sua sorella. Sapevo che l’andava a trovare
al negozio un paio di volte a settimana, quindi, giacché mi piaceva, decisi di farle la corte.
Mi mettevo sul lato opposto della strada aspettando di vederla. Certo, molti della piazza
mi prendevano in giro “ma che stai a fa’ lì imbalsamato, ma che sei un totem?”. “Ma non
vedi che non te se fila manco pe’ gniente?” e via di queste battute e qualche risata.
Venne il giorno che invece di prendere la strada che l’avrebbe portata a casa sua, Rosa
s’incamminò in direzione della piazza. Mi staccai dal gruppo e l’affiancai.
«Ciao Rosa, ti posso accompagnare?».
«Guarda che vado in chiesa». Fu la sua risposta.
«Come vai in chiesa?» chiesi sbalordito.
«Sì vado in chiesa e se mi vuoi accompagnare non ti dico di no».
La passeggiata si rivelò proficua e interessante.
Lei non aveva mai avuto un fidanzato perché la mamma le aveva sempre detto di stare
all’erta con gli uomini, che sono soltanto dei maiali e egoisti.
(Adesso credo di capire perché la mamma le parlasse così, Rosa non conosceva il papà,
che aveva abbandonato la moglie e due bambine in tenera età).
La chiesa di San Felice da Cantalice l’avevo vista sempre solo dall’esterno, vederla da
dentro mi lasciò con il fiato sospeso; era bellissima, imponente e mistica, e c’era un silenzio
che, in tanti anni della mia vita, avevo sempre desiderato.
Nacque tra me e Rosa un sentimento giovane, spontaneo. Le mie bugie, le dicevo che lavoravo da mio padre in un autosalone fuori Roma e che quando ero libero venivo in piazza
dai miei vecchi amici, l’avevano conquistata. Le sembravo un bravo ragazzo, o almeno credeva. Naturalmente gli appuntamenti li fissavo davanti al cinema California, lontano dalla
piazza, in modo da non confonderle le idee. Il nostro rapporto si limitava a passeggiate per
la borgata, un film, due supplì, un bacino innocente, poi lei a casa, io in piazza.
Con il passare del tempo la storia, per me si fece noiosa, se quelli della piazza avessero saputo che con la mia ragazza non ci “facevo niente” se non darle innocenti bacini, anzi se
avessero saputo addirittura che ci andavo in chiesa, se avessero scoperto veramente la mia
personalità, allora per me sarebbe stata la fine, sarei stato “scartato” da tutti, ritrovandomi
solo senza quel supporto che in una borgata ti fa sentire vivo. Francesco mi aveva trovato
una casetta ammobiliata all’Alessandrino e in quella casetta finì la mia storia con Rosa.
Una domenica mattina Rosa si presentò con un fiore, un giglio, in mano. Diceva che nella
parrocchia facevano una festa per i disabili e che lei sarebbe stata felice della mia presenza.
«Ma non lo vedi che sto ancora in mutande?».
«Sì che lo vedo, ma io voglio che vieni anche tu» disse sorridendo.
«Senti Rose’, ma che te frega della chiesa? Dai vieni a letto vicino a me». La presi dolcemente per un braccio facendo la mossa di entrare in camera da letto.
La sua gentile resistenza mi fece titubare. La guardai, lei mi fissava non arrabbiata, ma con
una piccola smorfia di delusione. Lasciai la presa, lei girò le spalle e, senza una parola,
scomparve da dove era venuta. Mi rimisi a letto. All’improvviso, dopo un paio di minuti
che mi ero rimesso a leggere Tex, sentii sbattere la porta d’ingresso e me la ritrovai davanti
agli occhi.
«Perché sei ritornata?» chiesi sedendomi sul letto.
«Perché vuoi fare l’amore con me, o sbaglio?» rispose senza distogliere il suo fermo e arrabbiato sguardo su di me.
223
Non sapevo cosa dire o fare, rimanendo a guardarla a bocca aperta.
«Tu sei come tutti gli altri. Fate finta di essere innamorati e poi volete subito “quello”. Io
certe cose non le ho mai fatte con nessuno e credevo che tu fossi diverso. Comunque eccomi qui, se mi vuoi prendimi».
Iniziò a spogliarsi. Riprendendomi dalla meraviglia della sua offerta, non le diedi il tempo
di levarsi la camicetta, mi alzai, mi arrotolai un lenzuolo in vita e l’aiutai a rivestirsi. Le sue
lacrime scendevano silenziose rigandole quelle bellissime guance delicate come il suo nome.
«Rose’, io non sono fatto per te, ti ho detto un sacco di bugie» dissi sincero.
«Lo so». Singhiozzava.
Arrossii nel sentire quelle parole. Sentii vergogna nel sapere che non aveva mai creduto
alle mie verità, sentii vergogna nell’aver provato a portarla a letto, senza considerare la sua
serietà.
Adesso stavamo uno di fronte all’altra, in silenzio. Lei mi fissava con gli occhi lucidi. Aveva tutto bello Rosa; gli occhi, le labbra, i capelli, la pelle, i denti, il sorriso vivo, maggiormente aveva il cuore e le idee belle. Io no.
Cercò di capire i miei pensieri penetrandomi gli occhi e, dopo aver scrutato il mio viso e
le mie espressioni, posò la chiave d’ingresso sul comodino, si girò e sparì.
Io non feci nulla per fermarla.
La bisca elegante
La vita andava avanti nella norma, tra furti, bidoni, corse sullo “Stradone”, bische e
“Dentona del Ponte di Ferro”.
A proposito di bische, quando qualcuno decideva di andarsi a fare una puntata a
“Zecchinetta” o poker, in molti ci accodavamo. Una delle tante bische si trovava a Torpignattara. Lì, quando di soldi in tasca ce n’erano pochi, se la facevano un po’ tutti i
malavitosi delle borgate attorno a Centocelle. In questa bisca, ma anche in quella alla Marranella o alla Magliana o a Monteverde, vi si poteva incontrare ogni sorta di personaggi.
Insieme ai miei amici ne ho frequentate molte.
Ci si andava più che altro per noia e anche perché era facile incontrare ex compagni di
galera. Quando ciò accadeva, subito c’erano saluti e bevute al bar.
Il Barone quella sera ebbe l’idea di andare in una bisca figa che si trovava, credo, ai Parioli.
Dovevamo essere eleganti, ben sbarbati e non fare caciara, altrimenti la Contessa ci avrebbe
fatto uscire immediatamente.
In quella bisca i clienti, anche gente d’alto bordo, avevano le tasche piene di soldi.
La palazzina era molto chic e ricca, marmi di qua e di là. La porta, di legno buono, con lo
spioncino. Da dietro di esso un occhio scrutava, dall’alto in basso, chi aveva appena scampanellato.
«So’ er Barone. Apri, a Masciare’!».
Fummo fatti entrare. Nel corridoio un certo er Puggile, dopo averci fatto i raggi x, ci fece
attendere mentre andava a chiamare la Contessa.
Venne una donna vestita in pompa magna, nella mano destra aveva una sigaretta con il
filtro impiastricciato di rossetto.
«Ciao Baro’» disse rivolta al nostro capobanda.
«Buonasera contessa, possiamo entra’? Questi so’ amici mia». Il Barone sollevò una mano
per indicarci, poi prese la sua e gliela baciò.
La signora ingioiellata ci fece la stessa analisi che pochi minuti prima ci aveva fatto
l’usciere, e ci indicò la via. Passando per il corridoio ci ritrovammo in una stanza dove
224
molte persone stavano ai tavoli facendo puntate.
«Ehi, Barone che ci fai qui?».
Una voce arrogante ci fece girare di scatto.
«Bona sera Commissa’» disse il Barone in direzione di un uomo in cravatta affiancato da
altri due vestiti eleganti.
«So’ venuto coi miei amici a fa’ una puntatina».
L’uomo incravattato fece un cenno ai due che stavamo vicini a lui.
Questi si avvicinarono al nostro gruppo.
«Alzate le braccia e allargate le gambe».
Rimanemmo interdetti, ma la voce del Barone ci tranquillizzò.
«Rega’, fatevi perquisi’. È la regola, tanto non trovano niente».
Fummo perquisiti uno per uno e naturalmente non trovarono nulla di ciò che cercavano.
«Commissario Scire’, tutto a posto. Sono in ordine».
«Baro’, fatte una puntata e non accada come l’ultima volta, eh?».
«Vabbè Commissa’».
La Contessa con un risolino invitante, prese sottobraccio il “Commissario”.
«Commissario venga con me. Andiamoci a prendere qualcosa contro il raffreddore».
I due sparirono dietro una porta, mentre quelli che ci avevano perquisito non distoglievano i loro occhi puntati nella sala.
Il Barone si piazzò dietro un tavolino di Blackjack, mentre noi che non giocavamo ci sedemmo su delle poltrone di velluto rosso bordò. Bibite e tartine di salmone gratis.
Passarono una decina di minuti e il “Commissario” uscì sempre accompagnato dalla padrona di casa, erano eccitati e ridevano a crepapelle. All’uomo pareva che il raffreddore più
che passato, fosse aumentato perché tirava su con il naso a ripetizione a aveva gli occhi
lucidi.
La serata la passai stando seduto a osservare le persone che entravano o uscivano. La musica era bassa e tranquilla, il buffet molto fornito. Ora che si era fatto tardi si vedeva entrare
gente che con il mondo della malavita non aveva nulla a che fare.
Il commissario salutava tutti.
«Buona sera avvocato».
«Buona sera collega».
«Signor Giudice...».
Anche questi avvocati e colleghi, presi sottobraccio dalla “Contessa”, a turno andavano a
prendersi il raffreddore nella sala dell’euforia.
La bisca mi ricordava molto il club di Milano dove avevo lavorato, l’unica differenza era
che qui la gente era meno sboccata e varia.
Di nuovo dentro
Si stava bene in piazza. Dalla porta del bar potevi guardare tutto l’andirivieni delle auto e
della gente. Il sole manteneva calda l’adrenalina della gioventù. Avevamo voglia di vivere in
fretta, il trenino invece non aveva fretta, perché ce ne accorgevamo dal suo lento stridore
sui binari quando iniziava ad abbracciare la piazza.
Pietro di San Basilio venne accompagnato da suo cognato. Avevano avuto una “dritta” da
un loro amico; quella sera alla stazione di Civitavecchia ci sarebbe stato un vagone dei Monopoli di Stato pieno di sigarette.
Secondo loro il furto sarebbe stato facile e già avevano contattato chi avrebbe acquistato
la merce. L’unica piccola difficoltà sarebbe stata quella di dover rubare un furgone a Civita225
vecchia perché a Roma sarebbe stato troppo rischioso.
A me la proposta andava bene perché avrei dovuto fare il palo.
La sera ci vedemmo di nuovo e partimmo in direzione del malloppo.
L’auto si fermò in un luogo vicino la stazione ferroviaria.
«Erne’, te rimani qui che io e lui andiamo a rimedia’ un furgone».
Pietro era sicuro di quello che diceva.
Scomparve insieme al cognato, mentre io rimasi in auto a fumare.
Un’oretta dopo sentii il rumore di un motore e vidi un furgoncino arrestarsi vicino
all’auto.
«Ecco» disse Pietro, «questo fa al caso nostro. Lo lasciamo qui e quando sarà un pochino
più buio lo accostiamo al vagone e carichiamo. Adesso spostiamoci co’ la macchina perché
non dobbiamo da’ nell’occhio».
Nell’attimo in cui stavamo accennando a risalire nell’auto, dal buio sbucarono tre auto
della polizia con tanto di sirene e lampeggiatori. In un quarto d’ora eravamo al commissariato accusati di furto aggravato. Delle persone avevano testimoniato di aver visto chiaramente Pietro che andava via con il cognato e che poi tornava con il furgone.
È inutile descrivere il carcere di Civitavecchia che era come tutte le carceri d’Italia; una
vecchia fortezza ammuffita nel centro città. La cella, in cui stavo da solo, si trovava a fianco
di quella di Cioffi, er Scimmietta e un certo Benitone, il più vecchio.
Anche lì mi comportai da uomo vissuto, entrando in simbiosi con l’ambiente e
l’atmosfera, ma non riuscivo a legare con i miei vicini di cella, non stavo bene con loro.
Il mattino erano assonnati e lenti nei movimenti, e il pomeriggio eccitati come avessero la
pressione a 1000. Certo ci passavo la giornata, ma qualcosa mi diceva che dovevo cambiare
cella e piano finché ero in tempo.
Accadde il 31 dicembre 1971. Er Scimmietta mi disse che sarebbe arrivata una torta da
fuori e io avrei dovuto andare a prenderla giù in matricola. Non chiesi il perché.
Quando ritornai con la torta er Scimmietta mise una mano dentro il dolce tirando fuori
una bustina di plastica con della pasticche dentro.
«Queste le tieni tu e nun te fa’ scopri’ dalla guardia» disse come fosse un ordine.
«Cosa sono?» chiesi.
« È metedrina» rispose secco Benitone.
«E perché le devo tenere io?». Ero infastidito da quei toni prepotenti.
«Aoh! Mettetele sotto er cuscino e nun rompe li cojoni».
La voce minacciosa di Benitone e la presenza degli altri due, uccisero un mio piccolo lampo di coraggio. Arrivò l’ora d’aria. Appena aperta la porta della cella, mi diressi verso la
guardia del piano chiedendogli se era possibile spostarmi da lì. Non c’erano problemi mi
disse, ma dovevo aspettare l’indomani. Pazienza avrei aspettato.
In lontananza Scimmietta e Cioffi confabulando, mi osservavano.
L’ora d’aria finì e rientrammo nei nostri appartamenti.
Stavo rinchiuso nella mia cella. Steso sul letto leggevo un giornalino, quando sentii le
mandate nella porta e questa aprirsi lentamente.
Davanti a me comparvero all’improvviso i due scalzacani di Benitone.
«Che gli hai detto alla guardia?». Chiese minaccioso Cioffi.
«Cosa dovevo dirgli? Che voglio cambiare piano» dissi mettendomi a sedere sul bordo del
letto.
«E delle pasticche? Eh? Delle pasticche!?». La sua voce era battagliera.
«Delle pasticche non gli ho detto niente e neanche me ne frega niente» risposi sicuro,
mentre dal cuscino tiravo fuori quelle maledette pasticche.
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Ma si sa che quando una persona cerca la lite, quando una persona, specialmente in
quell’ambiente, si vuole sgranchire le mani contro di te e si sente spalleggiato, non ci sono
verità o eroismi che tengano.
Mi sentii all’improvviso una scarica di pugni da tutte le parti. Quattro mani menavano
all’impazzata. Mi tenevo la faccia nascosta con le braccia, ma questo non evitò il dramma;
sentii all’improvviso un calore forte all’occhio destro e del liquido caldo colarmi sulle mani.
«Se parli t’ammazziamo» disse una voce, sicuramente era quella di Cioffi.
Udii di nuovo la serratura della porta richiudersi e mi ritrovai solo.
Molto sangue mi usciva dall’occhio, mi aggrappai allo spioncino e chiamai la guardia ed
essa mi portò in portineria.
Ma chi aprì e poi chiuse la porta della cella? Misteri penitenziari.
Il direttore mi chiese cosa era successo, risposi che ero caduto sbattendo la testa sul bordo
del letto. Naturalmente se avessero guardato nella mia cella avrebbero capito che non potevo essermi potuto fare una ferita così grave cadendo, perché la branda aveva angoli rotondi, e anche avessi voluto lesionarmi, non avrei potuto non essendoci oggetti o altre cose
spigolose che potessero procurare una ferita, profonda 6 cm, internamente all’occhio.
L’ambulanza arrivò in un batter d’occhio, venni fatto sdraiare sulla barella, mi bendarono
l’occhio che non voleva smettere di sanguinare e in un paio di ore ero al San Camillo di
Roma. Proprio un bel capodanno!
Abbi fiducia nel Signore
Mi svegliai nel buio più completo. Con la mano mi toccai la fronte accorgendomi che
avevo ambedue gli occhi bendati.
«Stai calmo, l’emorragia è terminata» disse una voce di uomo, mentre qualcosa di umido
mi veniva passato sulle labbra.
«Dove mi trovo? Cosa è successo?».
«Sei stato portato qui al San Camillo ieri sera tardi perché nell’incidente che hai avuto dove stavi ti è scoppiato il bulbo oculare».
Rimasi in silenzio.
L’uomo continuò: «Io mi chiamo Antonio e sono l’infermiere del reparto, la guardie che ti
sorvegliano mi hanno detto che se vuoi avvisare qualcuno che sei qui posso telefonare io al
posto tuo».
«No, non so a chi».
«Va bene adesso riposati. Più tardi, quando passeranno le vivande, ti verrò a imboccare.
Adesso prendi queste medicine».
Alzando la testa, con un sorso di acqua mandai giù delle pillole.
Rimasi bendato una decina di giorni. Nel frattempo feci conoscenza con la caporeparto
Suor Maria Scolastica e con un’altra suora, Suor Bernardina.
Suor Scolastica veniva spesso e sempre agli stessi orari per domandarmi come stavo, se
volevo confessarmi o ascoltare la messa.
Suor Bernardina mi visitava in orari impensabili; il mattino un saluto e un sorriso dati in
fretta con la promessa di una migliore visita il pomeriggio o la sera.
Quando la suora giovane veniva a trovarmi si sedeva accanto a me, chiedendomi che le
raccontassi nei minimi particolari il come e perché della mia vita sbandata. Sembrava attratta morbosamente dal mondo delle borgate. Ascoltava attenta mentre le sue mani prendevano le mie e, appoggiandole sul suo grembo, le carezzava dolcemente come volesse
227
massaggiarle per renderle ancora più calde di quel che erano.
Quella mattina i professori erano scortati da una schiera di altri dottori e infermieri, al seguito vi erano anche le due suore. Venni sbendato e finalmente potei vedere in faccia chi si
era curato di me sin dal primo giorno.
Antonio l’infermiere era di statura normale, occhiali spessi, capelli neri brizzolati, sorridente e curioso nei miei riguardi.
Dante era il più giovane degli infermieri. Simpatico, sorridente, con l’hobby della fotografia.
Paolo il più basso, il più vecchio, mi ricordava il direttore del Lambruschini di Parma,
quindi rotondetto. A Paolo puzzava in modo terribile e perennemente il fiato.
Suor Scolastica era sulla sessantina, piccolina, con gli occhiali da vista e sempre sorridente.
Suor Bernardina, attorno ai venticinque era alta, giovane, una faccia bellina sotto il velo.
Il Dottor Mastropietro, non era alto, aveva i capelli brizzolati con accenni di sorrisi.
Il Professor Quattrocchi era il primario. Il resto non ricordo.
«Non c’è nulla da fare, ha perso definitivamente l’occhio destro» disse il Professore.
«Infermiere, continui con il Pensulvit» aggiunse il Dottor Mastropietro.
Dopo una rapida visita con una piccola lampadina all’occhio sinistro, la troupe scomparve
nel padiglione tra gli altri pazienti.
Il mio letto si trovava alla fine del corridoio, vicino all’infermeria. Mi dividevano dagli
sguardi indiscreti degli altri malati e dalla curiosità dei visitatori tre separé bianchi. Le due
guardie che mi sorvegliavano adesso non venivano più in divisa, ma in abiti civili.
A febbraio venni dichiarato guarito, e potei ritornare in carcere.
Quella mattina Antonio mi disse che il Ministero aveva richiesto al Primario del reparto
un certificato di guarigione nei miei confronti, quindi quando ciò fosse avvenuto avrei dovuto lasciare l’ospedale.
«Antonio posso parlare con suor Maria Scolastica?».
«E perché? È importante?».
«Sì».
La suora venne al mio capezzale la sera stessa. Le parlai di Padre Agostino e le chiesi se
poteva fare qualcosa per farlo venire lì, da me.
«Ma come Padre Agostino? Ma lo sai chi è?».
«Sì Suor Scolastica, so chi è, lo conosco».
«Sicuro?».
«Certo sorella, basta che gli dica Ernestino di Porta Portese».
«Va bene, ci provo, ma non ti assicuro nulla, e poi quello chissà quante cose ha da fare in
Vaticano. Comunque ci proverò».
Ero seduto sul letto a leggere una rivista quando mi accorsi della parata ai piedi del letto;
Padre Agostino era lì davanti a me e sotto quel cappello nero sorrideva, sorrideva come
quel qualcosa in cui credi e speri, ma che tutti ti dicono che non esiste. Dietro di lui, oltre ai
dottori, vi erano un paio di sacerdoti, le suore e tanti infermieri.
Si sedette sul bordo del letto, mi carezzò gentilmente la fasciatura sull’occhio ferito, tirò
fuori dalla tasca un pacchetto di Marlboro poggiandolo sul comodino, poi volle sapere come effettivamente mi era accaduto l’incidente.
Dissi poche parole all’orecchio di Suor Scolastica, e questa ne disse altre a tutti quelli che
mi erano attorno, così Padre Agostino venne lasciato solo con me.
Gli raccontai effettivamente come si erano svolti i fatti. Lui sorrideva sempre.
Gli dissi della richiesta fatta dal Ministero di Grazia e Giustizia nei miei confronti. Lui accennava con il capo.
Quando, dopo un’ora, il colloquio fu terminato, il gruppo allontanatosi qualche istante
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prima, si ricompose accanto al mio letto.
Prima di scomparire tra inchini e riverenze del personale, il Cardinale si girò e mi disse:
«Non ti preoccupare, abbi fiducia nel Signore».
Distribuendo benedizioni attorno a sé e nel padiglione degli altri pazienti, Padre Agostino
scomparve come era venuto; nel suo umile e abituale silenzio.
Il resto della giornata lo passai con Antonio tra chiacchiere e complimenti per la mia “alta
conoscenza”.
Antonio mi raccontò un pochino della sua vita privata.
Era un ex prete sposato con una ex suora, aveva due figli, un maschio e una femmina, ed
era bisessuale. Passava molto tempo in ospedale perché lì, diceva, ci sono le vere persone
che soffrono.
Mi accorsi sin dal giorno dopo della forte influenza e importanza del Cardinal Agostino
Casaroli.
Antonio, come al solito, il mattino dopo si sedette sul mio letto con le medicine che dovevo prendere. Mi scrutava in modo curioso. Tirò fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di Marlboro e porgendomelo, disse:
«Queste sono per te, ma non chiedermi chi te le manda».
Le presi rispondendo: «Non te lo chiedo».
Immaginavo chi potesse essere il benefattore.
«Abbiamo avuto l’ordine di metterti in una cameretta da solo, così non dovrai stare più in
mezzo al corridoio sotto gli occhi di chiunque».
«Fantastico!» esclamai.
«Suor Scolastica sta cercando di fare in modo che le parole di Padre Agostino vengano
ascoltate dal Ministero, quindi oggi il Professor Quattrocchi spedirà un certificato dove
dichiara che per complicazioni avvenute, tu non puoi essere trasferito in carcere, ma devi
rimanere sotto controllo qui in ospedale fin quando sarà necessario».
«Benissimo!» esclamai di nuovo.
Il cambio della cameretta fu veloce. Ero solo ed era fatto anche in modo che avessi, oltre
a Famiglia Cristiana, una radio sul comodino.
Nel cassetto vi erano stati riposti spazzolino da denti, dentifricio e saponetta.
Sul tardi vennero le due suore a farmi visita, erano contente per il cambiamento della situazione e felici che io non fossi così come la gente pensava.
I due agenti che giornalmente mi piantonavano sparirono precisamente una settimana
dopo la visita del Cardinale. Potevo andare, nei limiti dell’area ospedaliera, dove volevo,
girare nei vari padiglioni e fare passeggiate nei viali.
Ormai tutti avevano un occhio di riguardo nei miei confronti, comunque non approfittavo della situazione, mi comportavo normalmente.
Don Ciccio Coppola
Nel giugno dello stesso anno, quindi sei mesi dopo il ricovero, venni accompagnato, non
ricordo bene se da Antonio o da Dante, dalle parti di viale Regina Margherita in un laboratorio dove si facevano protesi oculari a chi aveva perso l’estetica del viso.
Mi vennero prese misure e colori e, dopo una settimana potei finalmente guardarmi allo
specchio senza paure, né complessi; l’occhio malato non si distingueva dall’occhio buono.
La protesi venne pagata dalla colletta fatta tra il personale dell’Oculistica.
Rimasi ricoverato fino ai primi di settembre del ’72, quando era scaduto il tempo massimo
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di ricovero, anche perché non potevano più esserci bugie che obbligassero la mia permanenza lì.
Una mattina si presentarono due agenti in borghese e dopo una mezz’ora mi ritrovai a
Regina Coeli. Venni messo in infermeria nella cella d’attesa.
L’unica medicina che mi veniva somministrata, e della quale avevo bisogno, era la pomata
Pensulvit dentro l’occhio.
Le celle dell’infermeria non si differenziavano molto dalle altre se non nei bagni; lì il bugliolo non esisteva, ma c’erano dei gabinetti fuori dalle celle che servivano alla bisogna dei
detenuti malati.
Un pomeriggio venne la guardia a dirmi che avrei dovuto cambiare cella. Feci la mia roba
e mi ritrovai in quella in cui era rinchiuso, oltre altri tre detenuti, Don Ciccio Coppola detto
“Frank tre dita”.
Don Ciccio era un vecchietto tranquillo. Rimaneva pomeriggi interi seduto e pensieroso a
fumare il suo grande sigaro. Mangiava poco, comunque assieme a noi. Un nostro compagno di cella, addetto alla cucina, farneticava amicizie ingrate verso la famiglia Jovinelli.
Ogni giorno la stessa storia. “Se non fosse stato per me adesso il teatro sarebbe di altre
persone. Io ho fatto tutto dietro loro suggerimento e questo è il ringraziamento?!”. “Anche
la signorina che prima mi si arruffianava, adesso dice soltanto che ero l’uomo delle pulizie.
Maledetti che sono... non mi hanno mandato manco mille lire... eh sì, lo so perché, hanno
paura di avere contatti con me, io so’ stato soltanto una testa di legno, anzi de cazzo, ma
quando esco...”.
Don Ciccio aveva regolarmente visite e, anche se i familiari non potevano far entrare alcolici, spesso tirava fuori dal suo armadietto una bottiglia di Champagne che veniva bevuta
assieme a un piatto di pasta che per l’occasione cucinavo io.
Gli mancavano tre dita da una mano, ma riusciva ad attorcigliare in modo perfetto gli
spaghetti.
L’altro detenuto era un uomo di Trastevere arrestato per truffa e oltraggio, nonostante
avesse una gamba ingessata, era addetto alle pulizie a lavare i piatti. Queste funzioni le aveva stabilite Don Ciccio in quanto diceva che “chi fa il suo compito senza chiedere il perché,
campa cent’anni”.
Don Ciccio mi aveva preso in simpatia. Mi chiese perché ero lì e io, per darmi importanza, nella mia risposta ci intrufolai anche le altolocate amicizie. Meravigliato dalle mie parole
mi disse che avrebbe apprezzato molto una buona parola nei suoi confronti in Vaticano.
Lui era un buon uomo che era stato fregato dalla FBI americana, perché, diceva, lì in America una persona povera e onesta che diventa ricca, in special modo se è un italiano, viene
sempre additata come mafioso. Lui in America aveva soltanto lavorato onestamente, pagato le tasse e fatto del bene di qua e di là e quando non poté più “aiutare” economicamente le forze dell’ordine venne incastrato.
Comunque il tempo, oltre ad accompagnarlo nella passeggiata giornaliera, lo passavo ad
ascoltare le sue avventure americane.
Disse anche che nel tempo di tre, quattro anni, l’Italia sarebbe cambiata per colpa di una
“polverina bianca” che avrebbe invaso tutto il mercato europeo. Molte persone sarebbero
diventate ricchissime e tante altre si sarebbero fatte fregare dalla “polverina” stessa, come
esempio mi indicò Walter Chiari. Diceva, era una “polverina” chiamata cocaina che i ricchi,
in America, usavano già da molto tempo per “tirarsi su” e che guariva molte malattie perché era un estratto vegetale. Lui sapeva dove si produceva e come qualche suo amico la
portava in Italia con tranquillità, perché negli aeroporti americani non facevano tanti controlli e, se li facevano, bastava qualche centinaio di dollari e via, “tutto OK”.
Mi disse anche che, quando fossi uscito, se avessi avuto bisogno di “qualunque cosa”, mi
sarei dovuto rivolgere alle sue conoscenze di Pomezia.
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Persone importanti
Francis Turatello passeggiava sempre solitario nel corridoio. Aveva la faccia da bambino e
portava un paio di occhiali da vista che lo rendevano più studente che criminale. Chiesi a
Don Ciccio se quello fosse il famoso bandito milanese e mi rispose sì, che era proprio lui.
Quel pomeriggio volle presentarmelo. Quindi nel momento in cui le celle furono aperte
per la passeggiata interna, ci mettemmo sotto il televisore in attesa di vedere il grande bandito. La sua figura già si intravedeva in fondo al corridoio. Aveva un completo scuro e
camminava lentamente nella nostra direzione. Con riverenza Turatello diede la mano a
Don Ciccio.
La presentazione fu semplice, ma non importante per me, non mi interessava affatto conoscere quell’uomo, ma per curiosità e per non contrariare Don Ciccio, che rispettavo, gli
strinsi la mano e tutto finì lì.
Quando ci incontravamo all’aria o altrove, ci scambiavamo un “ciao” e poche parole.
Walter Chiari alloggiava in fondo al corridoio. Non prendeva mai l’aria con noi e tanto
meno usciva quando la sua cella veniva aperta.
Però, nel momento della visita del dottore, oppure quando andava al colloquio con i suoi
parenti, lo si poteva vedere camminare a testa bassa, come un povero cane bastonato con la
coda tra le gambe.
Dall’ultima volta che lo vidi in televisione aveva fatto un cambiamento terribile. Sembrava
uno zombi. La testa sempre china, bianchissimo in volto, un sorriso forzato al momento, e
poi paura e disperazione terribili nei suoi occhi. Credo che, oltre ad avere paura dei detenuti, e ciò è normale per persone del suo ambiente, avesse anche paura dell’aria, o paura di
non sentire mai un salvatore in fondo al corridoio dirgli “Walter svegliati, questo è un sogno. Andiamo via”.
Spesso di notte, prima dalla parte interna, cioè dal corridoio, poi subito dalla parte esterna,
cioè dal cortile, sentivamo urlare “Leliooo dove sei!?” “Leliooo dove sei!? Perché noi sì e gli
altri no?”.
Walter Chiari era il detenuto più disperato dell’infermeria.
Pietro Valpreda lo rividi un pomeriggio nell’ora d’aria. Era seduto in un angolo con le
braccia poggiate sulle ginocchia. Non lo riconobbi subito, ma soltanto dopo un’occhiata
più diretta. Mi avvicinai salutandolo.
«Ciao spesino».
«Ciao» rispose alzando la testa.
«Com’è che stai in infermeria? Non ti ci ho mai visto?» chiesi.
«È che non scendo mai all’aria, e poi sto in una cella lontana dalle vostre».
Mi sedetti accanto a lui e mi accesi una sigaretta.
«Romano, me la dai una sigaretta?» chiese gentilmente.
Gli diedi la sigaretta. Dopo averla accesa, iniziò a parlare senza che io gli avessi chiesto alcunché. Forse aveva bisogno di farsi sentire da qualcuno.
«Ma lo sai di cosa mi incolpano? Eh! lo sai?».
Non dissi nulla, continuavo a osservare le sue espressioni.
Con le mani tra i capelli, riprese: «Mi incolpano di aver messo una bomba a Milano in una
banca, ma io non ne so assolutamente nulla. Ce l’hanno con me perché non sanno che pesci pigliare, e poi hanno anche ammazzato quel povero Pinelli. Sì! Sono stati i poliziotti a
farlo volare dalla finestra della Questura. Assassini! Mi hanno riempito di botte per fammi
confessare la bomba. Mi hanno riempito di botte dicendomi che era meglio che mi auto
accusassi o che accusassi qualcun altro. Vogliono che io confermi che quel maledetto gior231
no dell’esplosione ho preso un taxi, ma che cazzo vogliono da me! Un taxi?! Ma se io stavo
al circolo! Tutti possono testimoniare! Maledetti magistrati, maledetti tutti».
Fece l’ultima tirata alla sigaretta gettando la cicca in mezzo al cortile, e continuò:
«Lo vedi questo dente rotto?» chiese mettendosi un dito sulle labbra. «Questo me l’hanno
fatto ingoiare a Milano con un pugno. Ho preso più botte io che un pugilatore in tutta la
sua carriera». Si fermò in un attimo pensieroso, poi riprese:
«Ma che cazzo vogliono da me?! Mi hanno dato dell’assassino, del frocio, del ballerino
fallito, dell’anarchico di merda, del figlio di puttana e adesso mi vogliono far prendere anche l’ergastolo. Ma non gli è bastato gettare quel povero Pinelli dalla finestra?».
Strofinandosi le mani sul viso si interruppe, poi aggiunse: «Quel commissario la pagherà
cara, perché è lui che l’ha fatto suicidare».
Lo guardavo con curiosità cercando di capire i suoi discorsi.
«Ma questi sono completamente pazzi e faranno impazzire pure a me!».
Nelle sue parole c’era comunque una calma irreale.
L’ora d’aria era finita e dovemmo rientrare.
«Ciao Valpreda e buona fortuna».
«Ciao romano, grazie della sigaretta».
«Ciao» dissi ancora prima di vederlo scomparire.
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Parte quinta
Ostia
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A Ostia non conoscevo nessuno
Uscii in libertà verso la fine di settembre del 1972.
L’autobus mi portò alla borgata Alessandrina. Non avevo molte speranze di trovare la casa vuota e in effetti così fu; anche questa volta la mia casa era occupata da nuovi affittuari.
Chiesi se sapessero qualcosa della mia 500, e l’uomo, un panzuto con la voce roca, le mani
appoggiate sui fianchi, mi rispose che se non me ne andavo alla svelta “me l’avrebbe data
lui la 500”.
Ora mi trovavo quasi senza soldi, anche se avevo sempre la catena d’oro e l’orologio da
vendere in caso di necessità, e con lo stesso problema di ogni volta in cui ero stato messo
in libertà; dove andare a dormire?
La gambe presero la via di piazza dei Mirti. I pensieri andarono a Caciotta.
Certamente mi avrebbe ospitato, non c’erano problemi. La sua donna non avrebbe detto
di no.
Scendendo da San Felice vedevo già in piazza le auto sparpagliate e qualche figura nei
dintorni. I miei amici erano lì.
Ricevetti i soliti saluti di libertà e niente più, anzi potevo sentire da parte loro una certa
alterigia venutasi ad accumulare in un anno di assenza.
Comunque...
Caciotta non era presente. L’avevano arrestato per sfruttamento alla prostituzione sette
mesi prima.
Er Piccolo era anche lui dentro per furto. Cercando di capire un pochino la situazione, feci qualche domanda nei paraggi, ma non venni a capo di nulla, il modo di vivere sembrava
cambiato. Mi dava l’impressione che girassero più soldi del solito e i loro atteggiamenti
erano più spavaldi.
Rimanendo ancora tra il gruppo, scoprii che le parole di Don Ciccio corrispondevano a
verità; a turno i ragazzi prendevano qualcosa dal “Tunisino” per poi sparire nella toilette del
bar, oppure chiudersi in auto, accostare il naso in una banconota arrotolata e, da un piccolo
involucro di plastica, inalare una polverina bianca. Il tutto durava un minuto circa e quando
me li ritrovavo davanti sembravano raffreddati. Collegai questi sniffamenti a quello che
succedeva nel “Club” di Milano dove avevo lavorato qualche anno prima, e nella bisca della
Contessa. La “cocaina” era la nuova droga che avrebbe rimpiazzato le anfetamine.
Formica con una frenata ululante, inchiodò la sua auto sull’asfalto. Scese venendomi incontro.
«Ciao Erne’, sei uscito finalmente!».
«Ciao Formi’».
Era contento di vedermi. Mi offrì il caffè al bar.
Ci mettemmo a parlare arrivando al punto cardinale, cioè che non sapevo dove andare a
dormire.
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«Senti, io adesso sto a Ostia, con mia moglie abbiamo occupato un garage a Piazza Gasparri, chissà se prima o poi ci daranno casa, comunque se vuoi adattarti per qualche giorno
da noi, possiamo mettere un materasso in cucina».
Prendendomi sottobraccio, guardingo verso il gruppo, ci allontanammo. Si accese una sigaretta e aggiunse: «E poi lo sai che adesso “si fanno” tutti?! So’ tutti drogati!».
«Si fanno? Tutti drogati?! E di che si fanno?!».
«Erné... Cocaina, eroina, e a me non mi piace la droga».
Non sapevo precisamente cosa volesse dire, ma in tutti i modi neanche a me andava di
stare in mezzo ai “drogati”. A malincuore mi sarei staccato dalla piazza per andare in un
altro posto, ma quelle parole e l’offerta di ospitalità mi convinsero.
Guardavo con una strana malinconia i camion dei trasporti di Rossi & figli parcheggiati in
cerchio di fronte la Standa, la trattoria, il bar di Carletto e tutto il resto.
Insomma guardavo a malincuore tutta la piazza.
Il dilemma fu leggero e la soluzione drastica, ma facile.
Ostia?!
Così lontano?! Mi sembrava un cambiamento troppo radicale. Ero sempre vissuto tra
Quarticciolo e Centocelle, i miei amici erano qui, a piazza dei Mirti.
A Ostia non conoscevo nessuno. Però, se avessi accettato, il giorno saremmo potuti venire in piazza e la sera avremmo fatto ritorno a “casa” sua.
«Va bene Formi’» dissi.
«Occhei, sali che andiamo a “casa mia”» fece lui.
Attraversando Roma, poi la Colombo, in un’oretta fummo a Ostia. Poi a piazza Gasparri
e a via Storelli. In una traversa, tra molte serrande semi abbassate Er Formica fermò l’auto.
«Pieraa! Pieraaa!! So’ io!» urlò il mio amico facendo capolino sotto una serranda.
«Sto qui in cucina!» rispose una voce femminile.
Entrammo in quella che era “casa sua”.
Uno stanzone enorme con mobilia da tutte le parti. La “camera da letto” era separata dal
“salotto” da un grosso armadio. La “cucina” all’americana, quindi a vista. L’unica cosa
normale lì dentro era un piccolo bagno. I cavi della corrente che entravano da una piccola
finestrella del bagno, avvolgevano tutta la “casa” portando luce affievolita in ogni angolo. Il
salotto era in un angolo e la televisione trasmetteva canzoni.
Nel complesso, sì, c’era molto disordine, ma era tutto lindo e pulito.
Dalla cucina si diffondeva nell’aria un buon odore di soffritto e pomodoro.
Mi presentai alla donna. Lei non era la moglie del mio amico, ma bensì la sua compagna.
Non alta, moretta, sfatta nel viso sorridente ma giovanile. Era infermiera in un ospedale
romano e sostentatrice della famiglia. Piera era una tipica donna italiana; umile, buona di
carattere e in cucina e, come tutte le donne, un po’ troppo indulgente e remissiva. Non è
che il mio amico fosse un cattivo ma, come molti uomini di borgata, non aveva studi, né un
lavoro né fantasia di cercarlo, insomma era uno sbandato come il sottoscritto, sempre alla
ricerca di qualcosa per sbarcare il lunario. Si portava appresso, come un qualcosa di prezioso, segreto e importantissimo, una agenda con su scritti nomi e indirizzi di attori, registi,
produttori e stabilimenti cinematografici. Diceva che prima o poi avrebbe sfondato nello
spettacolo.
«A tavola!».
La voce della donna era invitante.
Gli spaghetti al pomodoro furono squisiti, la moka ci fece gustare una sigaretta, poi io e il
mio amico, mentre Piera a lavava i piatti, facemmo una passeggiata nei dintorni.
All’entrata di Ostia le luci della città illuminavano strade e viali e la gente passeggiava in
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massa tra auto e semafori, invece lì attorno a casa del mio amico, era tutto l’inverso; le strade erano semibuie, deserte, sterrate e fangose. Pochissime auto. Dall’inizio del Lungomare
fino Piazza Gasparri l’illuminazione era pressoché normale, ma appena fatto un passo nella
piazza si poteva constatare la celere ritirata delle istituzioni. Viali, piazza e Lungomare Duca
degli Abruzzi deserti, immondizia e tanta solitudine.
La piazza stessa era uno sterrato di tre, quattromila metri quadrati. Cunette di terra di là,
pozzanghere enormi di qua, così erano anche le vie adiacenti. C’era un solo bar-tabacchi
all’angolo con via Storelli. Qualche ragazzo sostava sui gradini del bar, un paio fumavano in
una cinquecento. Poi c’era una sfilza di negozi quasi tutti occupati abusivamente o usati
come abitazioni provvisorie in attesa che il comune facesse il proprio dovere.
I palazzoni che incorniciavano tutto sembravano blocchi di cemento con mille occhi pieni
di speranze e (bi)sogni. Palazzoni nuovi e già corrosi dalla salsedine e dalla resa di chi vi
abitava.
I garage occupati abusivamente facevano uscire dalle rampe d’ingresso fioche luci di una
sicurezza promiscua. Molte persone se ne erano appropriate monopolizzando e gestendo i
posti macchina. Oltre alla guardia degli autoveicoli, questi garagisti offrivano servizi vari, da
loro potevi trovare il meccanico, il carrozziere, il gommista, Marlboro di contrabbando, la
prostituta, il ricettatore e cassette musicali contraffatte.
La passeggiata finì al bar con un liquorino. Poi il materasso messo in un angolo nella cucina del mio amico mi avvolse nell’odore di fritto e il sonno arrivò subito.
Il mattino dopo ritornammo a piazza dei Mirti. Se fino a qualche tempo prima avevo considerato la piazza come punto d’incontro, adesso sentivo che un binario parallelo e più ricco si era affiancato a quello usuale dei bidoni e dei furti.
Molti dei miei amici erano cambiati, altri non venivano più. Quelli rimasti avevano più
possibilità di un anno prima; auto più grandi e soldi in quantità maggiori. Parlando con
Massimino venni a sapere che adesso il “mercato” era cambiato; non più bidoni e furti,
bensì cocaina e eroina. Queste “polveri” avevano letteralmente arricchito più di un ragazzo
in piazza. Chi girava una volta in 500, ora aveva una Mercedes, chi aveva sempre avuto
suola e tacchi, ora ascoltava musica nel suo Maserati. Chi si era acquistato la Rolls Royce
rinnegando l’Alfa, chi sfoggiava il Rolex al posto dell’Orient. Molti vecchi bidonisti e ladri
adesso parlavano, non di refurtiva o prosciutti, ma di chili di “robba” e decine di milioni di
lire.
Vecchi ammiccamenti di solidale amicizia vennero sostituiti da atteggiamenti leggermente
arroganti e superficiali.
Capii che quel mio mondo stava subendo una trasformazione radicale non adatta al sottoscritto.
Andai nell’oreficeria dove qualche anno prima mi ero comperato la catena d’oro, e là vendetti “la cosa” che mi aveva legato a piazza dei Mirti e alla sua cultura. Ebbi dal negoziante
due terzi del valore effettivo della catena.
Passai un paio di giorni ancora in piazza tra fredde confidenze e distanze non più amichevoli. Mi sentivo messo in disparte da chi, fino a un anno prima, mi aveva considerato un
amico. Venni messo in disparte perché non volevo far parte di quei tre, quattro addetti alla
consegna di “pacchetti” e riscossioni.
Un mattino dissi al mio amico Formica che sarei rimasto a Ostia.
Così accadde.
«Sì, però la sera vieni a mangiare da noi. Puoi anche dormire se vuoi».
Fantastico er Formica, non mi aveva sbattuta la porta... ops, la serranda in faccia.
Spesso portavo a casa del mio amico, oltre un profumo economico a Piera, anche della
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carne o del vino, così, tanto per ricambiare l’ospitalità.
I soldi non sarebbero durati in eterno, quindi mi dovevo trovare un lavoro; ma dove?
In inverno Ostia è quasi deserta. Viali desolati come il lungomare e umide sferzate di
vento.
Quasi tutti i ristoranti erano chiusi, rimanevano l’Hotel Satellite e l’Enalc Hotel.
Al primo erano al completo e al secondo pure. Mi ritrovai, dopo una lunga camminata,
dalle parti del Bar Sisto. Anche lì non avevano bisogno di personale.
«Anche tu stai cercando lavoro?»
La voce improvvisa mi fece girare.
«Sì. Perché?» chiesi al ragazzo davanti a me.
«Anch’io sono senza lavoro e anche a me hanno risposto picche. È normale... è inverno».
Il nuovo amico si chiamava Fabio e abitava a Ostia. Era sposato da poco, proveniva da
Terni e aveva una bambina.
«Non sono ancora riuscito a trovare un mio paesano che si è trasferito qui da qualche anno. Se lo trovo lui ci darà lavoro a tutti e due» disse per non lasciarsi sfuggire l’occasione di
un nuovo amico.
«E chi è questo tuo paesano?».
«Si chiama Ferro e ha un magazzino all’ingrosso di forniture per ristoranti».
«Allora lo possiamo cercare al comune?» dissi logico.
«Mica ci avevo pensato, che scemo!» Fabio si diede una manata in fronte.
Trovammo il suo paesano.
Ferro, questo era il suo nome, aveva un magazzino di forniture all’ingrosso di prodotti per
ristoranti e alberghi, dalle parti di via delle Baleniere. Cercava dei rappresentanti. Ci disse
che l’inverno sarebbe stato duro e che aveva in tutto soltanto una trentina di clienti tra
Ostia, Fiumicino e Torvajanica e se non avevamo obiezioni avremmo potuto dividerci quel
poco di lavoro in attesa dell’estate.
La fortuna fu che i clienti erano sempre gli stessi, quindi non avremmo faticato molto per
vendere i nostri prodotti, ogni settimana avevamo sempre gli stessi ordini, ogni mese sempre le stesse percentuali.
Il proprietario della trattoria Stella Polare, dove andavo tutti giorni, era un mio cliente. Per
mangiare mi faceva un prezzo forfettario che avrei pagato ogni fine mese e mi aiutò anche
a trovare un piccolo appartamentino nei dintorni. Ingresso/salotto/cucina, doccia/toilette,
camera da letto, il tutto ammobiliato: lire 20.000 al mese. La proprietaria, brava persona, mi
disse che potevo starci anche in estate, perché si era stufata di affittare ai villeggianti incivili.
Il Formica e la sua compagna furono contenti per me, anch’io lo fui perché non avrei più
dato fastidio. Comunque mi ripromisi di andarli a trovare spesso. Fabio invece abitava in
un grosso palazzone a ridosso della pineta.
Ciao Ernesto, buon Natale
Natale era alle porte e Fabio volle invitarmi a passare le feste con loro. Naturalmente accettai, perché sennò dove andavo? E poi anche loro erano soli.
Lucia, questo era il nome della moglie, mi strinse la mano con calore. Era una giovane e
bella ragazza dai capelli biondi ossigenati, al quinto mese di attesa del secondo figlio.
La cena di Natale era in tavola, quando mi accorsi che il mio amico, ancor prima di mangiare, mentre sua moglie era in cucina, si era già bevuto un paio di bicchieri di vino bianco.
Adesso sembrava allegro, mi guardava facendomi un strano occhiolino di complicità.
Durante il pasto Lucia parlava della sua terra, dei suoi familiari, delle speranze che suo
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marito trovasse un posto fisso a Roma, magari come vigile. Lei parlava, io l’ascoltavo e sua
marito beveva.
«Lucia, vado a guardare la bambina se dorme» disse Fabio sparendo nel corridoio.
«Ti è piaciuto il pesce?» chiese lei rivolta a me.
«Buonissimo Lucia. Veramente buono!» esclamai. Poi aggiunsi: «Però quando abbiamo
finito ti aiuto a lavare i piatti».
«Se vuoi...» disse lei con un filo di voce.
Mi accesi una sigaretta. Fabio ancora non si vedeva.
«Ma dov’è tuo marito?» chiesi.
«Non ti preoccupare. Aspetta che vado a vedere».
Ritornò dopo qualche secondo.
«Dorme come al solito accanto a sua figlia. Ogni volta che beve crolla come un ghiro»
disse con un’alzata di spalle, come fosse abituata a quella situazione.
Sparecchiammo la tavola e ci ritrovammo in cucina; lei insaponava e io sciacquavo.
Sarà stato il mangiare, il vino, oppure i termosifoni accesi, ma lì dentro faceva molto caldo.
«Ernesto, togliti la cravatta dai! Lo so che fa caldo, anzi adesso mi tolgo anch’io il golfino».
Anche lei aveva caldo.
Mi tolsi la cravatta aprendomi due, tre bottoni della camicia.
«Ah! Adesso si ragiona finalmente» sbuffai.
Lei stava curva sul lavabo e la camicetta sbottonata lasciava intravedere un petto gonfio e
sodo. Ogni volta che mi passava un piatto da sciacquare la tentazione si faceva sentire. Non
potevo fare a meno di non guardare quella scollatura giovane ed espressamente messa in
vista.
Accadde quando mi passò l’ultimo piatto; si girò verso di me con tutto il corpo, mi fissò
negli occhi (i suoi erano lucidissimi) posò il piatto nell’acqua pulita e mise una mano insaponata dentro la mia camicia e l’altra sul mio sesso. Mi tirò giù la chiusura lampo e abbassandosi iniziò un rapporto orale. Non rimasi veramente sorpreso dal suo modo di fare,
anche perché c’era già nell’aria, sin dalla mia venuta, troppa confidenziale ospitalità.
Lasciavo fare. Dopo che ebbi soddisfazione, lei non si ritirò e quando raggiunsi di nuovo
l’erezione si alzò dicendomi che la dovevo prendere di dietro.
«Ma non è pericoloso per il bambino?» chiesi un pochino allarmato per un rapporto che ai
miei occhi e per la mia ignoranza, pareva pericoloso.
«No, fai svelto. Non ti preoccupare» Lucia ansimava di voglia sessuale.
Si poggiò con le mani sul lavandino, divaricò le gambe, si tirò su la gonna, e io iniziai ad
amarla. Quando avemmo finito rientrammo in sala da pranzo. Dopo un paio di minuti entrò lui.
«Scusate, mi sono addormentato» disse. «Ma che siete stati tutto il tempo ad aspettare
me?» aggiunse.
«Eh sì, ma abbiamo lavato anche i piatti» rispose Lucia.
«Mannaggia, mannaggia. Scusa Ernesto» disse Fabio.
«Non fa niente» risposi tanto per dire.
Naturalmente mi sentivo un po’ a disagio per ciò che era accaduto, ma qualcosa nella
mente mi sussurrava di non farmene una colpa. Non riuscivo a percepire cosa, ma il tutto
non quadrava.
La serata passò in un batter d’occhi, tra i loro atteggiamenti amorosi, un bicchiere di vino
e il mio imbarazzo. Verso mezzanotte salutai avviandomi in direzione di casa mia.
Il giorno dopo Fabio non parlò affatto della sera precedente, ma mi invitò per il Capo239
danno. Lui fece il giro dei clienti e io rimasi in sede sbrigando qualche ordine nell’ufficio di
Ferro. Lo squillo del telefono mi colse mentre facevo un conto e il risultato andò a rotoli,
così che dopo la telefonata avrei dovuto rifarlo.
«Ciao Ernesto, sono Lucia, mio marito ti ha detto per Capodanno?».
«Sì, gli ho risposto che verrò».
«Bene, sono contenta. Ciao ci vediamo il trentuno allora».
«Va bene. Ciao».
La sera, dopo aver smesso di lavorare, mi avviai a “casa” del mio amico Formica.
«C’è nessuno?» dissi abbassando la testa sotto la serranda.
«Sì, chi è? Avanti!».
Entrai. Piera, facendo uscire la testa da dietro un armadio, disse contenta di vedermi:
«Ciao Erne’, come stai?».
«Bene e voi?».
«Noi stiamo bene, ma mio “marito” non è ancora ritornato».
«Non fa niente Piera, questo è per voi». Allungando le mani le donai il “pacco natalizio”
che avevo ricevuto dal Ferro.
«No Erne’, questo è tuo, non lo puoi dare a noi» disse Piera facendo un piccolo gesto di
orgoglioso rifiuto.
«Guarda che il mio principale me ne ha dati due, uno l’ho portato a casa mia e uno l’ho
conservato per voi» insistetti anche se era una bugia.
«Sicuro? Guarda che se vengo a sape’ che non è vero mi arrabbio veramente!».
«No, non ti preoccupare. Anzi quando viene Formica salutalo e dagli gli auguri da parte
mia, anche a te Piera, auguri e Buon Natale».
Lei appoggiò il pacco sul divano, mi fece una carezza e mi diede un bacio sulla guancia.
«Ciao Ernesto, Buon Natale».
«Ciao Piera, ci vediamo. Buon Natale».
Passai gli ultimi giorni dell’anno a gironzolare per Ostia. Nelle vie c’era molta tranquillità e
un’aria festiva. Molte vetrine erano illuminate e, nonostante mille luci appese qua e là, la
calma regnava sovrana. Il traffico ordinato e silenzioso non dava spazio a suonate di clacson. Mi ritrovai alla stazione. Bella e ampia, sembrava una cartolina degli anni trenta; il
giardino al centro ordinato e pulito. I negozi sotto i portici sfoggiavano luci di tutte le forme e colori. Le auto erano parcheggiate in fila ordinata e i bus erano in attesa di utenti. Davanti alla Standa all’angolo c’era un via vai rallentato, la gente si attardava davanti le vetrine
e il venditore di cassette musicali abusive, piazzato lì di fronte, mi trovò, tra le centinaia che
aveva negli scatoloni, ciò che cercavo; Claudio Baglioni e la sua “maglietta fina”.
Non c’era confusione a Ostia.
Accadde di nuovo il 31 dicembre. Precisamente come qualche giorno prima mi ritrovai a
casa di Fabio. Quella sera Lucia sembrava volesse mostrare ancor di più la sua grossa pancia, perché indossava un lungo vestito bianco, stretto e semitrasparente, da cui si poteva
vedere chiaramente la forma dell’ombelico e quella del suo corpo. Non indossava indumenti intimi.
Il suo volto era leggermente truccato. Dopo avermi dato un bacio sulla guancia, mi fece
entrare.
«Fabio c’è Ernesto, lo porto a far vedere la bambina».
«Va bene, ma non svegliatela».
«Vieni che te la faccio vedere» disse prendendomi la mano e tirandomi un pochino.
Mi portò nella stanza dove la piccola dormiva e... la bambina era di colore. Nera.
Ma come, Lucia era bionda con gli occhi chiari, suo marito aveva pochi lisci capelli, occhi
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azzurri ed era bianchissimo di carnagione come la moglie, mentre la bambina...
Frenai la mia prima reazione e spontanea domanda. Non chiesi nulla anche perché già mi
ero risposto da solo. Tirai in fretta conclusioni logiche e le misi da parte per l’indomani.
«Bella!» dissi.
Sì, la bambina dormiva come un angioletto ed era molto bella con quel visino tondo.
Lucia mi guardò con quei suoi occhi ammaliatrici e rientrammo in camera da pranzo dove
suo marito, seduto, stava ascoltando la radio.
«Dai Lucia vai in cucina che io e Ernesto abbiamo fame».
«Va bene» disse la moglie, poi aggiunse: «Vi farò una bella cena».
Lui era tifoso della Ternana, mentre a me di calcio non è mai interessato assolutamente
nulla. Cercavo di assecondarlo nelle sue dissertazioni calcistiche, in qualche modo ci riuscivo.
Cenammo in allegria e si ripeté la storia di Natale.
Quando anche l’ultimo sorso di vino fu finito, Fabio volle andare a vedere se la figlia
dormiva, mentre io e Lucia ci dirigemmo in cucina. Ma non lavammo i piatti. Lei andò delicatamente al sodo, poi, come la prima volta, volle esser presa di dietro, quindi si appoggiò
al tavolo di cucina in modo che io non potessi vedere l’entrata, si girò donandomi la schiena. e io la presi con tutta la libidine che la situazione creava.
Finito ciò, e dopo esserci ricomposti, iniziammo a lavare i piatti. Fatto questo ritornammo
in camera da pranzo.
Lui era lì seduto che fumava.
«A mezzanotte andiamo a vedere i fuochi artificiali» disse.
«Dove?» chiesi.
«No, dicevo che li possiamo vedere dal balcone» precisò.
Passammo un’oretta a parlare del più e del meno, quando si sentirono i primi botti.
«Vieni Ernesto. Dai andiamo» fece Lucia prendendomi la mano.
Mi girai verso il mio amico sperando che non vedesse i modi troppo confidenziali con cui
agiva sua moglie. Ma lui era girato e non “poteva” vedere.
Dal balcone si vedeva un raggio di cielo molto ampio, illuminato da tante luci e piroette
tra lampi e fumo.
Fabio me lo ritrovai all’improvviso dietro con una bottiglia di spumante.
«Prendete i bicchieri che mancano dieci secondi a mezzanotte». Urlò nel mio orecchio destro.
«Meno cinque, quattro, tre, due uno, Augurii!». Tutti e tre urlavamo all’unisono.
Dopo un bicchiere Fabio disse: «Con tutto questo rumore vuoi vedere che si sveglia la
bambina?». E scomparve nella casa.
Non feci in tempo ad alzare lo sguardo in cielo per vedere la scarica di fuoco appena lanciata, che mi ritrovai il sesso stretto dalle mani di Lucia.
«Sssstttt!» fece lei mettendomi un dito sulle labbra.
Si inginocchiò, alzando il suo sguardo verso di me, intinse il mio sesso nel bicchiere di
spumante e iniziò il solito rapporto orale. Dopo un paio di secondi volle essere presa come
la prima volta. Le vedevo il viso, le labbra rosse lucide di fuoco, erano una sferzata sessuale
alle mie reni.
Le sollevai la lunga veste bianca, poi le presi il seno tra le mani. Mentre ero lì ad amarla,
mi supplicava, quasi piangendo, ma non proprio a bassa voce, di stringerle forte il petto.
Istintivamente sentivo la presenza di suo marito nelle vicinanze, anche se in quella posizione soltanto lei riusciva a guardare nella casa. Sicuramente erano d’accordo in questi
“giochi amorosi con l’ospite”. Sicuramente lui spiava. Sicuramente non era la prima volta.
Così finì la serata. Scesi in strada e sotto gli ultimi fuochi d’artificio m’incamminai verso
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via della Stella Polare, a casa mia.
Feci una lunghissima camminata. Erano passate le tre quando andai a letto.
Il due gennaio, per non incontrare Fabio, mi presentai prestissimo da Ferro dicendogli
che non potevo più lavorare per lui. Rifiutai anche le sue insistenti offerte di una maggiore
percentuale sul venduto. Il senso di amicizia verso Fabio si era allontanato dal mio cuore,
come io volevo allontanarmi da lui. Era strano, ma mi sentivo deluso dal modo in cui gestivano la loro famiglia e il loro rapporti intimi.
Dovevo cercare un altro lavoro, ma cosa e dove?
Tre cassette quattromila lire
Io sono stato abituato sin da piccolo a camminare molto e se si è abituati a camminare,
Ostia, per me, non offre grandi distanze.
In lontananza, di là dal Lungomare, si poteva vedere qualche palazzo in costruzione. Non
fu difficile trovare lavoro. Non sapevo fare nulla, ma avevo le spalle e la volontà molto
forti, quindi venni assunto come manovale. Naturalmente in nero e sottopagato. Sacchi di
cemento da 50 chili da trascinare dal pianoterra al settimo piano. L’ascensore non era ancora installato e le mie spalle, anche se doloranti, si irrobustirono.
Andai avanti così fino alla primavera. Fin quando Ostia iniziò a popolarsi e il mare sembrò rabbonirsi.
Fortunatamente il sabato si lavorava fino a mezzogiorno.
Andai a casa, feci una doccia, indossai una camicia, un pantalone leggero e via in giro per
il centro.
Camminare sotto il sole caldo e nella tranquillità di Ostia era una cosa assurdamente fantastica.
Mi ritrovai vicino la Standa della Stazione.
«Che per caso hai Claudio Villa?».
«Ciao» disse il venditore di cassette con amicizia, «certo che ce l’ho!».
«Quanto me la metti?» chiesi sperando in uno sconto “tra coetanei”.
«Beh, a te che hai anche comprato Baglioni qualche mese fa, ti faccio tre cassette mille
lire. Vabbè?».
«Ma ancora ti ricordi di me?». Ero meravigliato che mi avesse riconosciuto.
«Certo che mi ricordo di te, perché sei l’unico che in inverno porta gli occhiali da sole».
«Ah...già». Mormorai. Poi aggiunsi: «Ma io voglio solo una cassetta».
Lui mi guardò e, sempre sorridendo, ne prese una.
«Tieni, te la regalo».
Lucio era un ragazzo splendido. Da tanti anni vendeva cassette e altro sotto i portici. Era
sposato e viveva a Testaccio. Veniva tutti i giorni, con la sua NSU Prinz carica di merce, da
Roma a Ostia, e la sera, alla chiusura dei negozi, sbaraccava per tornarsene a casa.
Facemmo amicizia e dopo un periodo di tempo passato insieme tra una pizzeria e un cinema, tra sfoghi familiari da parte sua e ricerche di lavoro da parte mia, mi prese come uomo di fiducia lasciandomi spesso solo al banco di Ostia.
Passavamo il tempo a vendere cassette e orologi. Una volta a settimana andavamo a caricare dalle parti di piazza Vittorio, da un certo “Felice il napoletano”.
Gli orologi Cartier falsi e altri giapponesi, da Barbarossa, sempre attorno la piazza.
Il napoletano, in una stanza del suo appartamento, aveva una ventina di piastre di registrazione e poteva farti avere le ultime novità in campo musicale. Una cassetta costava 350
lire a noi che rivendevamo a 1.500 lire, di queste a me spettavano 500 lire.
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Su orologi, radioline e altro, giacché i prezzi di acquisto e vendita erano differenti, Lucio
mi dava una percentuale. Gli orologi Cartier falsi e altri giapponesi li prendevamo da Barbarossa, sempre attorno a Piazza Vittorio e lì si poteva anche avere credito. Il mio amico mi
disse che ogni qualvolta Barbarossa “si sentiva bene” azzerava ogni debito. Quindi
“imparammo” a comperare senza pagare, o al massimo dando un anticipo, per cui ogni
due, tre mesi il debito veniva estinto automaticamente. Il “ragioniere”, che poi altro non era
che l’uomo di fiducia del negozio di questo benefattore, da dietro il banco vendita sorrideva
sempre quando ci diceva che il suo principale aveva dato “l’amnistia” ai clienti.
Strano e incomprensibile modo di gestire i propri affari.
L’estate era alle porte e io avevo voglia di mettermi in proprio e comperarmi un’auto.
Ne parlai con Lucio e lui, candidamente, mi aiutò portandomi prima da Felice e poi dal
“ragioniere” garantendo per me negli acquisti. Così ebbi anch’io il mio banco di nastri e di
conseguenza un bel guadagno. L’unica condizione posta dal mio amico era che non dovevo
mettermi sotto i portici nel suo lato, ma bensì dall’altra parte della piazza, quindi con le
spalle all’entrata della stazione, sotto i portici sulla destra. Trovai il posto più camminato e
luminoso; davanti alle “Calzature Santarelli”. Gli affari andavano bene e verso il mese di
giugno mi comperai una macchina sportiva americana, una Ford Capri 1700 GT. Mi sentivo il re di Ostia. Non rubavo, non mi spaccavo la schiena facendo il manovale e, molto più
importante, non davo fastidio a nessuno.
Col ricavato della vendita dei nastri potevo vivere benissimo. Incassavo mediamente circa
dalle trenta alle cinquanta mila lire al giorno. Quindi mi potevo permettere di andare a
mangiare alla mia solita trattoria “Stella Polare” e scegliere ciò che più mi piaceva, senza
aspettare che mi si portasse quello che il “convento” passava giornalmente. La mia soddisfazione, la mia chicca, era che finalmente potevo pagare in contanti, alla minuta.
Da molto tempo ormai andavo in trattoria verso le nove di sera, quindi quasi sempre allo
stesso orario. Una sera mi accorsi che anche quel signore dal portamento intellettuale che si
appartava sempre a un tavolino isolato cenava alla mia stessa ora. Scoprii anche che
quest’uomo usava ancora il metodo forfettario. Feci la sua conoscenza salutandolo e offrendogli una bevuta.
Si chiamava Franco ed era stato un famoso pittore di cavalli e proprietario, nei tempi
buoni, di un grande attico nel centro di Roma.
Abitava in una grande villa all’Infernetto. Aveva rapporti con gente altolocata a Roma.
Parlammo di noi facendo così amicizia.
Iniziò a presentarsi davanti al mio banco sempre con nuove ragazze; a volte straniere, altre volte italiane, belle e giovani, affascinate dalle chiacchiere e dal suo portamento hollywoodiano. Non era raro che a offrire la cena fossi io, poi, sempre dopo l’ultimo amaro, ci
ritrovavamo nella sua villa a far l’amore con le ragazze di turno. Molte sere sul tardi si andava a Capocotta a fare il bagno nudi, per poi finire in una ammucchiata sulla spiaggia tra
una bottiglia di vino e foto “artistiche” scattate alle “novelle attrici”.
Accadde anche che una sera, nella sua villa, dopo cena e con le ragazze mezze sbronze,
squillò il telefono; era un suo amico, un famoso uomo di cinema. Disse che nella sua casa
di Torvajanica aveva un paio di donne e che se lui voleva andare, sarebbe stato contento,
disse che si sarebbero divertiti, e che avrebbe anche gradito che portasse con sé qualche
altra ragazza.
Cosicché quella sera mi ritrovai nella villa di questo “famoso attore”. Eravamo quattro
uomini e cinque donne.
La donna e i due uomini che si trovavano già nella casa erano anche loro famosi personaggi del cinema, li riconobbi subito meravigliandomi della loro presenza, comunque mi
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adattai subito alla situazione non facendo pesare la cosa. Non ci fu cena, anche se il padrone di casa amava decantare il suoi fornelli, ma qualche bottiglia di vino fu svuotata e molti
amplessi si consumarono tra camera da letto, cucina, salotto e un piccolo campo da tennis,
dietro lo sguardo morboso e curioso del padrone di casa e della sua amica che, con le mani
appoggiate sulla schiena di lui, veniva amata dall’altro personaggio famoso.
Per qualche tempo non rividi più Franco, ma non diedi tanta importanza alla cosa, perché
era sua abitudine sparire per qualche settimana senza avvisare.
Molly
L’estate era a pieno regime e Ostia colma di turisti, di cui molti americani.
Avevo allungato il mio banco di vendita in modo da contenere, oltre le cassette musicali,
molti più articoli. Adesso vendevo anche portafogli, autoradio, orologi e collanine.
«Quanto costare questa orologio?».
La voce un pochino esotica della straniera mi fece voltare il capo di scatto. Una donna
con a fianco una bellissima ragazza chiedeva il prezzo tenendo tra le mani un orologio.
Colpito dalla bellezza della ragazza, non risposi. Il suo sorriso spontaneo e luminoso mi
aveva fulminato.
«Tu dire quanto costare, please?».
Spostai i miei occhi sulla donna.
«Seimila lire» dissi facendo segno con ambedue le mani.
«Io compra se tu dai a quattromila». Fu la sua l’offerta.
«Va bene» dissi volgendo di nuovo lo sguardo alla ragazza.
La donna, parlando in inglese alla giovane, le mise l’orologio al polso, prese furtivamente i
soldi dal portamonete e pagò.
Il sorriso della ragazza, i suoi occhi azzurri, il biondo dei capelli e l’altezza mi stregarono.
Le seguii con lo sguardo mentre attraversava le strisce pedonali.
Il portamento della ragazza era da gazzella, le gambe lunghe e affusolate sotto pantaloni
canarini, la vita stretta e le spalle perfette, da nuotatrice.
Dall’altro lato della strada la ragazza si fermò, girandosi mi sorrise e con la mano mi salutò. Quella bellezza, felice come un raggio di sole improvviso e caldo in pieno inverno, mi
aveva cotto il cuore.
«Ciao!».
«Ciao!». Esclamai tirando fuori il mio migliore sorriso.
Il giorno dopo tornò. La ragazza che mi aveva fulminato il giorno prima, era lì davanti a
me, sorridente.
«Ciao!» ripetei come un babbeo.
«Ciao!» disse ancora lei.
I saluti finirono e il silenzio si fece strada tra noi due. Continuavo a guardarla ricevendo in
cambio colpi al cuore dal suo sorridente volto aperto a tutte le ipotesi di amicizia.
«Scusi quanto costa ‘na cassetta?».
La portavo per mano, i piedi scalzi sulla sabbia bruciavano e per rinfrescarci saltellavamo
sull’onda complice di un amore in partenza. Il sole da lassù faceva un discreto capolino
dietro la nube. Ero felice e saltellante come una gentil farfalletta, mentre dalle mie labbra
stava uscendo il mio primo ti am....
«Senta, scusi, quanto costa ‘na cassetta?».
Che bella che era. Che bello amare. Ti rincoglionisci e ne sei contento. Non è che sia facile avere un colpo di fulmine, è molto più facile avere un colpo di sole o una mattonata in
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testa. Ma l’amore è...
«Aoh! Ma che stai a dormì?! Ma le voi venne ‘ste cassette o no?! Me dici quanto costa
una?».
Le sue mani mi carezzavano delicatamente i capelli e il mandolino spargeva note d’estasi
sull’onda, mentre le sue labbra rosa si avvicinavano sempre più alle mie. Ecco ora mi bacia... Cuore non farti sentire, calmati, non fare il cretino.
La voce e il gesticolare di una mano davanti ai miei occhi mi strapparono dai mari di Venere riportandomi sulla terra brulicante di fastidiosi animali.
«Allora, me lo voi di’ quanto costa ‘na benedetta cassetta?».
«Mi scusi signo’, ma non ce l’ho».
«Ma che è che non c’ha?!».
«Non ho il cantante che mi ha chiesto».
La ragazza continuava a sorridere divertita dalla situazione che si era venuta a creare.
«Ma guardi che io jo chiesto solo er prezzo de ‘na cassetta».
«Embè, non ce l’ho!» dissi stizzito, continuando a fissare quel “raggio di sole”.
La donna mi guardò come se avesse visto un marziano.
«Ma come, c’ha er banco pieno e dice che non ce l’ha?».
«Signo’, per favore oggi ho lavorato tanto e sono stanco, il banco chiude e venga un altro
giorno. Arrivederci».
La donna, girandosi attorno come per trovare supporto, apostrofò: «Aoh, ma questo è
proprio matto, vende le cassette ma nun ce l’ha. Dice che ha lavorato tutto er giorno, ma
so’ solo le undici de mattina. Ma questo è da ricovera’!».
La ragazza adesso invece di sorridere, rideva di cuore.
La signora, tirandosi dietro il carrello della spesa, si allontanò brontolando.
«Parli italiano?» chiesi a quella visione d’altri mondi.
«No. Io parla solo piccola parola italiano» rispose facendo la misura con il pollice e
l’indice.
Non conoscevo l’inglese, anche se una frase la sapevo, frase che sanno tutti gli italiani e
che abbiamo imparato al cinema, cioè ailloviù.
Quindi per rompere il ghiaccio dell’incomprensione, allungai la mano presentandomi.
Lei si chiamava Molly. A gesti la invitai al bar per un cappuccino. E a gesti le feci capire
che non avevo la ragazza e abitavo da solo. Anche lei gesticolando un pochino mi disse che
era americana, aveva 22 anni, alloggiava a Roma in via Veneto, nell’ambasciata del suo paese, e aveva un ragazzo in America.
Quel giorno era venuta a Ostia senza che la mamma lo sapesse. Amava molto l’Italia, gli
italiani e la pizza. Diceva che gli italiani sono il popolo più vero e allegro del mondo. Che se
anche non ci fossero le antichità, l’Italia sarebbe sempre stata la più bella nazione del mondo.
Incantato, l’ascoltavo tra due tre parole d’italiano e molte d’inglese. Anche se non avevo
mai avuto a che fare con lingue straniere, a parte quel poco di francese imparato a Parma,
quindi non capendo un’acca, qualcosa riuscii ad afferrare; era infelice della sua vita negli
States. Aveva un ragazzo un po’ sciapo, noioso e non tanto amato, e una famiglia ferrea in
quel contesto tradizionale e morale americano. Avrebbe voluto studiare e vivere in Italia.
Il secondo cappuccino si raffreddò e lei lo bevve quasi in un unico sorso.
«Io andare, essere tardi. Mami pensa me».
Il suo malandato italiano era bellissimo. Se dalle sue labbra fossero usciti più vocaboli sarebbe stata una delusione.
Sempre gesticolando le chiesi dove doveva andare e se la potevo accompagnare. Lei tirò
fuori dalla tasca dei pantaloni il biglietto del trenino per San Paolo/Piramide, da lì mi fece
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capire che avrebbe preso il bus per la Stazione Termini e poi si sarebbe fatta una passeggiata fino all’ambasciata Americana. Mi chiese se avessi il telefono e quando dissi di no
volle che le scrivessi su un fogliettino il mio indirizzo di casa, cosa che feci senza problemi.
Le dissi anche che se qualche volta avesse avuto piacere di andare a mangiare una pizza
insieme sarei stato contento.
Il bacio sulla guancia si raffreddò man mano che il treno la portava via, lontana dal mio
sguardo, ma non dai miei pensieri.
Si presentò un mattino prestissimo. Erano circa le sette quando sentii bussare alla porta.
Non mi accorsi subito che quella figura con la testa un pochino abbassata davanti ai miei
occhi assonnati, fosse il sogno dei miei sogni.
Molly era lì, composta, mani lungo i fianchi.
«Ciao» disse senza alzare la testa.
«Ciao» risposi mettendomi le mani davanti nonostante avessi gli slip.
Mi diedi una scossa e la invitai a entrare.
«Siediti e dimmi come mai sei qui... anzi aspetta... vuoi un caffè?» domandai, mentre facendo l’equilibrista mi infilavo i pantaloni.
«No cafè. Tu ha té?».
«Tè?! No, non ce l’ho, però ho la camomilla!».
«Camamilla?!». Mi guardò interrogativa.
Andai in cucina a prendere il sacchettino e gli spiegai in grosso modo cos’era la camomilla. Lei con un’alzata di spalle disse:
«Okay».
Le porsi la tazzina fumante, la sorseggiò, prese la fettina di limone e se la schiacciò tra i
denti, fece una smorfia con occhi, bocca e naso, un altro sorsetto, e disse: «Good Camamilla, very good!».
«Camomilla» dissi.
Poi, come il tipico italiano che sillabando un nome ad alta voce crede che il nostro interlocutore straniero capisca meglio, mimai con le mani e con tono “logico”: «CA-MO-MILLA».
La sua risata uccise tutte le mie intenzioni d’insegnamento.
La lasciai seduta sul divano, mi lavai alla meglio e in un quarto d’ora eravamo al Bar del
Kursaal.
Seduti in terrazza con il cappuccino e cornetto, parlavamo con calma in modo di comprenderci il più possibile. Dal grande trampolino qualche rubacuori di stagione si metteva
in mostra, ma lei, Molly, non sembrava interessata a nessun altro che a me.
Baglioni rimpiangeva il suo piccolo grande amore.
Anche quel giorno si era allontanata da casa. Non voleva più ritornare in America. Con la
famiglia, grosso modo, stava bene, però trovava noiosa la sua vita lì.
Guardava il cielo, il mare, a volte fissava la spiaggia e sorrideva. Sembrava felice.
All’improvviso se ne uscì con la frase che mi avrebbe arrecato botte e danni.
«Tu volere me ospitare?».
«Che?» chiesi sorpreso.
«Yes, tu volere me ospitare?» ripeté.
«Come “me ospitare”? Ma che sei matta?». Capì la mia reazione italiana dall’espressione
con cui la dissi.
«Please!».
Mi pregava come pensavo accadesse soltanto sui film americani.
«Please…». Adesso la sua voce era sommessa.
Chiesi gesticolando il perché.
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Disse semplicemente che voleva rimanere con me. Aveva abbastanza soldi e non mi dovevo preoccupare della mamma, in quanto non sapeva che lei era venuta a Ostia. E poi,
ripeteva, lei era adulta.
L’avrei ospitata se mi avesse assicurato che non mi avrebbe creato problemi con i suoi
genitori.
«No! No problems!» fu la sua promessa.
In un paio di settimane Molly si era adattata alla mia vita, e io alla sua. Qualche volta veniva con me a comperare nastri e altre cose, altre volte rimaneva a dormire fino a mezzogiorno. Lei amava il jazz e i Beatles, io le feci conoscere Baglioni e piazza Vittorio.
Imparò, in quel lasso di tempo, molte parole d’italiano. Non mi chiese mai perché portavo occhiali con le lenti scure.
Sicuramente la sua discrezione era segno di intelligenza.
Da piccola donna rimetteva a posto casa, puliva superficialmente, lavava i piatti e li asciugava senza sciacquarli, quindi gli dovetti dire che in Italia pentole, piatti, posate e bicchieri,
si sciacquano dopo averli insaponati.
Sul tardo pomeriggio veniva al banco e aspettava l’ora di chiusura. Mi aiutava a caricare
l’auto e via di corsa a casa. Piccola rinfrescata, camicia pulita e passeggiate infinite sul lungomare. Un gelato, una pizza, due supplì, tanta spensieratezza. Tanti momenti d’amore e
altrettante promesse. Quando non uscivamo rimanevamo a casa ad ascoltare le cassette che
le piacevano e che io le procuravo. Due spaghetti e un bicchiere di vino completavano la
serata. Molly mi aveva preso il cuore.
Un giorno, potevano essere le tre del pomeriggio, Molly era seduta dietro il banco, mentre
io cercavo di infinocchiare turisti.
La voce esotica, adesso autoritaria, sentita settimane prima, fulminò la mia mano sul percorso verso le banconote di un acquirente.
Era la mamma di Molly, apparsa all’improvviso. Se ne stava lì inveendo, in inglese, verso
la figlia. Non avevo bisogno di traduttore, perché si capiva benissimo che la stava rimproverando per la sua fuga. Molti clienti si allontanarono.
Molly, dopo aver guardato la mamma con supplichevole intensità, senza dire una parola si
diresse verso un’auto parcheggiata in doppia fila con delle persone dentro.
«Tu essere bandito, tu non cercare mai più mia bambina. Capito?!».
Con il suo indice puntato nella mia direzione, la signora sbraitava contro di me.
«Se tu cercare ancora mia bambina, tu avere big problems».
Non capivo a cosa si riferisse o cosa minacciasse. Non sapevo neanche che reazione dovessi avere. E poi che avevo fatto di male per aver “big problems”?
«Prossima volta tu dire a mia bambina che tu non vuoi lei e io dimentica te».
Mi guardavo intorno con la speranza di capire e di vedere Molly. Dal finestrino dell’auto il
suo visino chiedeva silenziosi aiuti lasciando uscire lacrime d’amore.
Dopo aver detto ciò, la signora si girò salendo sulla grossa auto con targa CD, partendo a
tutta velocità in direzione della via del Mare.
Per due giorni dormii malissimo. Molly mi mancava molto. Mi mancavano la sua gioia e il
suo sorriso, l’allegria dei suoi occhi e le strampalate parole d’italiano. Mi mancava quella
ragazza americana che era riuscita ad aprire il mio cuore.
Ed ecco, un pomeriggio soleggiato, che mi apparve la visione perduta.
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Quanto costare cassetta?
«Quanto costare cassetta?».
«Milleccin...».
Non finii il prezzo che rimasi a boccheggiare senza aria.
Lei, Molly, era lì, dolcemente sorridente.
«Perché te non chiude banco e fai passeggiata con me?».
Sentivo il mio cuore forzare la cassa toracica. Sentivo il mio cuore galoppare per abbattere
le mura di Forte Malinconia. Sentivo il mio cuore vittorioso nella battaglia di Forte Alamo.
Mi avvicinai a lei, le poggiai delicatamente una mano sulla guancia rimanendo a fissarla.
Dicendo “ciao” mi diede un bacino sul naso.
In un minuto sbancai la merce e andammo di corsa a casa. Molly si sedette sul divano.
Ora piangeva tenendosi la faccia coperta dalle mani.
«Io ti combinare grande caos, big problems. Tu non mandare via me, please?». Pregandomi mi guardava diritta negli occhi.
Mi avvicinai e mi misi a sedere accanto a lei. Le avvolsi le spalle e la strinsi promettendole
che mai nessuno l’avrebbe portata via da me.
Sembrava veramente preoccupata.
«Te attento, uomini di mio padre pericolosi» disse.
Le assicurai di non preoccuparsi che a Ostia non eravamo in America. Le asciugai le lacrime, e lei iniziò a raccontare.
Venni a sapere che il papà era un alto funzionario americano e, per regole interne
dell’ambasciata dove lavorava, nessun dipendente o familiare di dipendenti poteva avere
rapporti affettivi e di affari con gente non conosciuta, non identificata o autorizzata dal
governo americano.
Molly mi svelò queste regole segrete a conoscenza soltanto degli americani, ma non di altri impiegati. Disse anche che a corto termine, due o tre mesi, la sua famiglia sarebbe ritornata definitivamente in America, ma lei voleva rimanere in Italia. A Ostia con me.
«Ma come faccio? Tua madre sa dove ho il banco!». La mia era pura preoccupazione per
lei. «Me lo dici come faccio?» dissi tra me e lei, anche sperando in una sua idea.
Lei a testa bassa e in silenzio teneva le mani strette tra le ginocchia.
Io stavo pensando a una soluzione. Dovevo trovare una via d’uscita per non lasciarla partire. So per natura che per ogni problema esiste sempre una soluzione.
«Senti» iniziai. «Adesso ce ne andiamo al Kursaal, ci mangiamo un panino e vediamo cosa
si può fare. Ok?».
«Sì. Te furbo. Io sapere te trovare solution». Alzandosi mi abbracciò. «Thank you, Ernesto. Thank you!». Il suo innocente entusiasmo era disarmante.
Certo che quella ragazza mi aveva imprigionato tutti i sensi.
Dalla veranda del bar del Kursaal si poteva vedere il mare affollato.
«Ciao Ernesto, buongiorno miss Molly, cosa prendete?». Gianni, il cameriere che mi aveva
consolato negli ultimi giorni, adesso era sorridente e allegro.
Lui aveva conosciuto anche grandi attori americani che si erano fermati al Kursaal.
Era contento di rivederci insieme. Con la sua allegria ci rimise un pochino sui binari della
tranquillità. Molly ascoltava, rideva. Era rilassata.
Mangiammo e le spiegai il mio piano.
Mi sarei spostato con il banco all’altra Standa di Ostia. Certo avrei fatto meno affari, avrei
guadagnato di meno, forse nel nuovo posto i vigili mi avrebbero rotto le scatole, ma tant’è.
E poi la domenica sarei andato a Porta Portese, anche se lì due nastri si vendevano a millecinquecento lire, prendi due e paghi uno. Sarebbe stato un cambiamento radicale alle mie
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abitudini, ma per lei avrei fatto questo e altro.
Era contenta e di nuovo quei suoi baci sulle mie guance mi fecero arrossire davanti ai sorrisi di Gianni.
Quel giorno al cinema vicino la stazione davano “Yuppidù”.
Anche se non ci aveva capito nulla per via della lingua, Molly mi disse che il film era stato
strano ma interessante, le musiche bellissime e ancor più bella era Venezia.
Il giorno dopo ero sul “nuovo posto” di lavoro.
L’altra Standa però era isolata. Non si trovava in una via di passaggio. Capii che non era il
posto adatto per fare affari.
Gli incassi non superavano le spese. Anche Molly comprese la cosa. Dopo una settimana
di perdite non andai più là.
«Tu non fare business... essere colpa mia. Io pagare te» diceva sfiduciata e con un pizzico
di orgoglio.
Sapevo che si sentiva in colpa, certo neanche io ero felice, ma sicuramente non avrei accettato manco una lira da lei. E poi non dovevo abbattermi. Quindi decisi la mia strategia.
Avrei aperto al mio vecchio posto, lei sarebbe rimasta a casa, oppure poteva farsi delle
passeggiate, comunque al banco non doveva venire. Invece di chiudere alle sei avrei anticipato verso le tre, le quattro, dopodiché avremmo anche avuto più tempo per noi due.
Molly era d’accordo.
I primi due, tre giorni, nel mio “vecchio posto di lavoro”, andò tutto bene; Molly mi
aspettava di ritorno nel tardo pomeriggio. Gli incassi erano tornati nella normalità e ci rifacemmo della settimana andata male. Tutto era tornato come prima. Quel “Piccolo grande
amore” di Baglioni mi faceva vendere molto bene.
Mentre stavo dando il resto a un cliente, una voce in perfetto italiano ma con accento
straniero, mi chiese:
«Buongiorno, ha per caso Chet Baker?».
Una biondona con un ragazzo mi stavano davanti sorridendomi.
«Chi!?».
«Chet Baker, che non lo conosce?».
«Sì,sì! Che vuole che non lo conosca?!». Effettivamente non avevo mai sentito quel nome,
non sapendo neanche a quale genere musicale appartenesse, ma non potevo fare la figura
dell’ignorante, quindi mi feci coraggio sfacciato e aggiunsi: «Però l’ho finito, ma ho in cambio Frank Sinatra».
Aspettavo un “yes”, ma i due si guardarono, fecero un sorrisino di biasimo e scelsero un
nastro di Armstrong.
«Sai dirci dove possiamo trovare Molly?» chiese la ragazza dopo avermi pagato.
La domanda mi fece fare un sussulto al cuore.
«Non ti spaventare, la mamma ci ha detto tutto di te e di lei. Io sono la sua migliore amica
e prima di ritornare in America volevo salutarla, naturalmente non dirò dove si trova a sua
madre». Sembrava sincera.
«Ma è tanto che non la vedo» dissi per prendere tempo.
Dopo aver scrutato i due, il mio istinto mi disse di usare prudenza, quindi continuai per
non farmi fare più domande: «No, ve l’ho detto, è qualche settimana che non la vedo. Penso che sia ritornata in America».
«Occhei. Non sai niente, ma se la dovessi sentire digli che l’ha cercata Linda e di telefonarmi, occhei?».
«Certo. Naturalmente. Non vi preoccupate».
Scomparvero tra la folla.
Dimenticai l’accaduto, per cui l’ora di sbancare venne subito. Per precauzione, avendo il
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presentimento che qualcuno mi seguisse, invece di andare direttamente nella direzione giusta, guidai l’auto su tutto il lungomare, fino alla fine del Lungomare Duca degli Abruzzi,
girai una ventina di volte nelle vie adiacenti piazza Gasparri, scesi nei garage risalendo dalla
parte opposta e, quando fui sicuro che nessuna auto mi seguiva, andai a casa.
Arrivato dissi a Molly della sua amica e dell’uomo. Volle che li descrivessi.
«No! Quela non essere mia amica. Queli essere di polizia di Ambasciata. Bravo che te non
dici di me. Che te non fatto prendere. Tank you Ernesto!». Solito bacino sulle labbra, e
continuò: «Se scoprire tua casa loro vengono e portami via».
Nella sua voce c’era adesso un pochino di preoccupazione.
«E io non volere tornare in America. Io grande, non più bambina». Era anche arrabbiata,
credo con sua madre.
Le dissi che finché non sapevano il mio indirizzo, nessuno l’avrebbe cercata. E poi non
volevo perderla. Avrei fatto di tutto purché rimanesse con me. Le dissi anche che nessuno
la poteva costringere a fare quello che lei non voleva fare, essendo appunto maggiorenne.
Si tranquillizzò.
Come spesso accadeva, prima di aprire il banco, l’accompagnai al Kursaal con la promessa
di rivederci la sera a casa.
Sul tardo pomeriggio, mentre rimettevo a posto i nastri, mi sentii chiedere licenza e documenti. Due vigili erano di fronte a me.
«La licenza non ce l’ho» dissi dando la mia carta d’identità a uno, mentre l’altro curiosava
tra le cose sul banco.
«Collega, queste sono tutte cassette contraffatte. Le dobbiamo sequestrare».
Sentendo quelle parole, il cuore aumentò di molto i battiti.
«Come “dovete sequestrare”?!». Implorai allarmato e supplichevole. «Così mi rovinate!».
I tutori dell’ordine si guardarono, poi quello che sembrava di più alta gerarchia si rivolse a
me con fare conciliatorio: «Senti» disse con un accenno di segretezza «Se vuoi che non ti
succeda nulla e che non ti sequestriamo la merce, un modo ci sarebbe e sarebbe il meno
doloroso per te».
«Mi dica marescia’!». Esclamai disponibile.
«Mi devi dire dove si trova quella ragazza americana».
Adesso il cuore era impazzito. Mi pulsava dappertutto. Sentivo che stavo entrando in un
circolo pericoloso e senza pietà.
«Ragazza americana?!» Sbottai cadendo dalle nuvole.
«Non fare il furbo perché sappiamo tutto di te e di Molly».
A sentire quel nome partii subito in difesa. Il cervello iniziò a girare alla velocità della luce.
Si stava mettendo male per me, e in special modo per Molly.
«Molly?! A marescia’ ma che ne so io de ‘sta Molly. Ma chi è?! Ma chi la conosce?!».
Il “gerarca” sfogliò la carta d’identità, mi guardò fisso, poi volle sapere quale era la mia
auto. Gli indicai il furgoncino bianco del venditore di biancheria parcheggiato poco distante.
«Ecco adesso sappiamo la targa del tuo furgone e così sapremo anche dove abiti qui a
Ostia, perché sulla carta d’identità c’è soltanto l’indirizzo di Centocelle».
Dandomi il documento, il “gerarca” mi si avvicinò sussurrando misterioso:
«Ascoltami bene tu, sappiamo che quella americana sta con te già da molto tempo, la
mamma ci ha confermato che vive con te. Qualche settimana fa è venuta qui e se l’è portata
via, ma lei e scappata di nuovo. Sappiamo tutto. Ti lascio una notte per pensarci e se domani non ce la fai trovare vengo con il nostro camion di servizio, ti sequestro tutto, ti denuncio per resistenza a Pubblico Ufficiale, così vai pure in galera perché sappiamo che sei
anche pregiudicato, e qui sotto i portici non ci metterai mai più piede. Ti mandiamo per
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stracci. Capito?!».
Il “gerarca” era anche arrogante.
«Sì marescià» dissi pensieroso.
In lontananza due uomini nella stessa macchinona con cui era stata portata via la prima
volta Molly, mi osservavano.
La cosa si metteva male. Sbancai e ritornai di corsa a casa.
Molly, seduta su divano, mi guardava a testa bassa.
«Io te detto che te dare big problems».
«No! No, aspetta che una soluzione ci deve essere» dissi, ma poi chiesi: «come fai a sapere
che c’è stato un problema?».
Mi disse che quando l’avevo lasciata quella mattina al Kursaal, Gianni le si era avvicinato
dicendole che la sera prima un uomo e una donna, spacciandosi per suoi amici, la cercavano. Gli avevano anche mostrato una foto di lei. Naturalmente lui aveva risposto di non
conoscerla, che non l’aveva mai vista. Dopodiché era ritornata a casa ed era rimasta chiusa
tutto il giorno aspettando me, non aprendo neanche al portiere quando questi suonò per
portare la posta.
Mi accovacciai davanti le sue gambe, le presi le mani tra le mie dicendole:
«Senti amore, sai cosa facciamo da domani?».
Lei ora mi guardava curiosa e sempre preoccupata.
«Da domani mattina invece di andare col banco alla stazione ce ne andremo in giro per i
paesini attorno a Roma dove ci sono fiere e feste paesane, così nessuno ci cercherà, si guadagna bene lo stesso. Se qualche volta tu non vuoi venire perché preferisci il mare, ti accompagnerò alla spiaggia libera di Torvajanica e sicuramente lì non ti cercherà nessuno.
Che ne dici amore?». Senza aspettare la sua risposta, aggiunsi: «Anzi domani niente lavoro,
verrò in spiaggia con te».
«Tank you Ernesto, tu bello. Io ti amare». Il suo slancio mi fece perdere l’equilibrio, rotolando assieme a lei sul tappeto. Molly aveva una dolcezza e una voglia di vivere straordinarie.
Mentre Mina diceva che l’importante era finirla, noi iniziammo a fare l’amore. Poi sul
letto il sonno ci prese e il mattino arrivò subito. Era ora di andare al mare.
I “cancelli” della spiaggia libera erano spalancati e io m’intrufolai dentro con la macchina.
Avevamo portato soltanto una bottiglia d’acqua, sempre fiducioso di trovare al chiosco dei
panini qualcosa di buono per il pranzo.
La spiaggia era affollata, ma lo spazio tra una famiglia e l’altra era sufficiente per avere un
poco di “privato”.
Ci spogliammo mettendoci stesi sugli asciugamani. La giornata bellissima toglieva tutte le
voglie di avventure tra le onde; almeno a me.
«Tu venire a mare?» fece Molly alzandosi di scatto.
«No Molly, non mi va di fare il bagno. Rimango a prendere il sole. Vai tu».
Senza farselo ripetere mi disse un “See you later” e iniziò una felice corsa verso le onde.
Dopo qualche bracciata già era a una cinquantina di metri dalla riva. Sapeva nuotare benissimo.
Mi ero appena girato che una pioggia fredda mi colse all’improvviso. Molly era in piedi,
statuaria davanti a me e, scrollando la sua testa, faceva cadere sul mio corpo tutta l’acqua
del mare. Le sue risa fecero scomparire un invisibile disappunto appena accennato.
Ora la sua pelle lucente stesa al mio fianco splendeva e rifletteva i raggi del sole. I suoi capelli biondi, aperti sull’asciugamano come fossero la coda di un pavone, la rendevano ancora più principessa.
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Stavo osservando il viso di Molly quando sentii una pallonata improvvisa sulla testa che
mi fece insabbiare la faccia.
«Me scusi, nun l’ho fatto apposta» disse il bambino riprendendosi la sua arma e correndo
in ritirata verso una piccola tendopoli.
Non mi usciva sangue, ma però il naso mi era diventato rosso come il pomodoro che stava tagliando la signora verso cui si era diretto il bambino.
Questa, alzando gli occhi da sotto un improbabile occhiale da sole, si scusò:
«Lo scusi sa, è soltanto un bambino. A volte non riesco a tenerlo a bada. Mi scusi tanto».
Poi rivolta al figlio che continuava a tirare calci al pallone e alla sabbia, mentre in una mano teneva uno sfilatino che avrebbe sfamato come minimo due militari, disse: «A Nino, te
l’ho detto che devi gioca’ qui vicino alla tenda e nun da’ fastidio alle persone, e nun core
tanto co’ quello sfilatino in mano che te poi strozzà».
La voce della signora, anche se in dialetto tipico romano, era gentile.
«Fa niente signò». Le risposi mettendomi una mano sul naso.
Soltanto un bambino? Ma se era grosso come una mongolfiera? Certo che tutta la famiglia
era fatta di mongolfiere; il bambino-palla, la mamma matrona e il papà ricoperto di sabbia
fino alla gola. Appunto si notava che stando “sotto coperta” anche il padre aveva la
“prominenza” ben visibile per via della collina creata dalla sabbia che lo imprigionava.
Verso l’una andai al chioschetto per comperare due panini e un paio di cola.
Molly voleva formaggio e io salame.
«Ma qui stare solo odore di formage» disse Molly quando aprì il panino che le avevo dato.
Effettivamente c’era una sottilissima fettina di formaggio insapore che rendeva il panino
povero e non gustoso. Anche nel mio era la stessa cosa; una fettina di salame tagliato a
ostia di chiesa.
Presi i due panini e ritornai al chiosco.
«Aoh! Li potevi controlla’ prima, quando te l’ho dati. Mica poi reclama’ quando sei arrivato a casa».
Guardai fisso e arrabbiato l’oste, quindi, sapendo che sarebbero state inutili e non adatte
alla situazione perché non volevo rovinare la giornata a Molly, non feci discussioni.
Chiesi se poteva mettere ancora una fetta di formaggio e una di salame nei panini, cosa
che fece. Pagai la differenza e mi allontanai.
«Ma che così giovani ve magnate solo un panino pe’ pranzo?».
La matrona ci guardava, mentre su un tavolino da campeggio stava dividendo della pasta
al forno. Ne potevo sentire il profumo.
«Essì, signò, quello vende i panini senza companatico».
Ed ecco che ci ritrovammo in mezzo a quella famiglia della Garbatella. Pasta al forno,
impanate di vitello, vino bianco, il tutto portato da casa. Poi grosse fette di cocomero offerteci quasi per forza dalla “mongolfiera” resuscitata dalle sabbie mobili non appena sentita la parola magica “a tavola! Mariooo a tavola!”.
Molly era contenta di poter parlare il “suo” italiano con quella gente. Era piena di allegria
Molly. A ogni forchettata e sorso di vino diceva “good”, “buono”, “thank you”. Loro, i
fagottari, nonostante non capissero nulla, ridevano e si sentivano “importanti” nell’avere a
tavola un’americana.
Il pomeriggio passò tra una partita di pallone con “piccola mongolfiera” (il bambino), le
acrobazie di Molly sulla sabbia come fosse una trapezista da circo, balli fatti sempre con
“piccola mongolfiera” e applausi della gente e dei genitori del “piccolo mostro”.
Il tramonto arrivò subito. La spiaggia si spopolò e rimanemmo quasi soli.
Qualche coppia in lontananza si scambiava baci e sicure promesse d’amore.
Eravamo in silenzio, le cingevo le spalle, recependo benissimo, nei sospiri di Molly, la vo252
glia di non dover mai più andare via. La potevo leggere nei suoi occhi, sentirla dai suoi baci,
provarla dai suoi abbracci, udirla dai battiti del suo cuore.
Dopo essere ritornati a casa e aver fatto la doccia, per cenare andammo a piedi fino da
“Peppino a Mare”. Poi, dopo circa un’oretta di passeggiata, ci trovammo in centro a prendere un gelato da Sisto.
A Molly piaceva camminare. Le piaceva Ostia, l’ospitalità degli italiani. Le piacevano le case del Lungomare, la tranquillità della gente e del traffico. In America, diceva, c’era troppo
rumore, troppe luci, troppa gente, troppe auto. Tutto era troppo lì. Diceva che quei grattacieli, così alti, così lunghi fino le nuvole, non le piacevano perché coprivano le stelle, mentre qui si poteva osservare tutto il cielo, anche stando seduti in una terrazza a gustarsi un
gelato. Si stava bene anche se dentro di me sapevo che sarei dovuto tornare a lavoro il più
presto.
Su un quotidiano vi trovai elencati i paesi dove per tutta l’estate ci sarebbero state feste
patronali. Così iniziò il nostro girovagare per il Lazio.
Complice la semplicità della gente di paese, la sera il guadagno era maggiore di quello che
potevo fare al mio solito posto.
Molly era entusiasta dei nostri movimenti. Ogni volta cambiavamo luogo, si armava di curiosità facendo il giro del paese e fotografando ogni cosa. Quando andavamo lontano o
avevamo l’occasione di capitare in un posto dove le feste si prolungavano per più di una
giornata, vedendo l’inutilità di far ritorno a casa, cercavamo una pensione in cui alloggiare.
Vivemmo sballottati da un paese all’altro, per tutta l’estate, cioè fino alla fine di ottobre.
Dopodiché avrei dovuto riprendere il mio posto a Ostia e sarei stato costretto a lasciare
Molly sola a casa.
Lei non se la prendeva tanto, anzi diceva che per passare il tempo avrebbe fatto un corso
di italiano così sarebbe stata padrona della lingua. E poi a casa c’era anche da fare. A me
andava benissimo, l’importante era che non si forzasse a fare, soltanto per mio piacere,
quello che non voleva.
Quella fu l’ultima festa paesana nel nostro calendario, quindi avremmo dovuto far ritorno
a Ostia. Sbancammo che erano le undici di sera. La festa nella piazza andò avanti fino a
mezzanotte, quando furono fatti i fuochi artificiali.
Molly, incantata dall’atmosfera paesana, fotografava tutto e tutti. Poi verso l’una (quiete
dopo la tempesta) presi la strada di casa.
Arrivammo verso le quattro del mattino. Le luci della Colombo ci davano il benvenuto.
Finalmente eravamo a Ostia.
La fine del sogno
Accostai sul ciglio della strada per parcheggiare. Feci appena in tempo a spegnere il motore, che due macchine sbucate dal buio all’improvviso si affiancarono alla mia imprigionandomi tra la strada e il marciapiedi, bloccandomi lo sportello. Non ci rendemmo conto di
cosa stava accadendo. Cercavamo di mettere a fuoco la scena. Molly sgranava gli occhi come volesse focalizzare una immagine comprensibile ma ancora non chiara. Delle ombre
erano attorno a noi; erano tre uomini grandi come case. Nel semibuio si diressero svelti
verso la sua parte, aprirono lo sportello tirandola fuori in malo modo. Lei iniziò a urlare e
fare resistenza. Un po’ d’inglese si perse nell’aria. Dopo qualche tira e piglia, i “giganti”
sollevarono Molly di peso e scomparvero in una delle due auto, che, seguita a tutta velocità
dall’altra, si perse nel buio della notte. Il tutto durò la frazione di un secondo, proprio come
253
era iniziato; alla velocità della luce.
Cercai di inseguire i fuggitivi, ma appena fatto due, trecento metri venni superato e stretto
da una macchina della polizia.
Meno male, la polizia!
Spiegai cos’era successo, che tre uomini sconosciuti avevano rapito la mia ragazza. Che
dovevano correre altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere a Molly.
«Senti» disse calmissimo un poliziotto in borghese, «noi siamo in giro da queste parte già
da mezzanotte e non abbiamo veduto o sentito nulla. Non so cosa diavolo stai dicendo,
forse cerchi di nascondere qualcosa nella tua auto?».
Non riuscivo a comprendere ciò che stava dicendomi il poliziotto.
«Ma marescia’, hanno rapito la mia ragazza!».
«Stai calmo, anzi scendi e dammi i documenti» disse con noncuranza.
«Ma come i documenti?!». Ero sorpreso dalla sua richiesta.
«I documenti ti ho detto e non fare il furbo». Ora m’illuminava il viso con la torcia.
Qualcosa di enigmatico, strano e dubbioso stava facendosi strada nella mia mente.
Dopo avergli dato la carta d’identità mi appoggiai alla macchina cercando di rimettere ordine ai miei pensieri.
«Apri il cofano» mi ingiunse sempre quello in borghese.
Cosa che feci. Lui con una lampada tascabile ispezionò i bagagliaio e i sedili di dietro.
«Guarda, guarda. Dove hai rubato tutta questa roba?» fece indicando la mia mercanzia.
«Marescià, questa è roba mia. Io vendo i nastri sotto i portici alla stazione» dissi perché
così era.
L’agente fece due passi verso la macchina, confabulò con un suo collega e ritornò da me.
«Ti lascio andare, ma prima devo controllare la tua macchina».
«Faccia pure marescia’» Mi spostai lasciandogli campo libero.
«Questa la prendo io». Nelle sue mani teneva la macchina fotografica di Molly.
Capii che tutto l’accaduto, il rapimento di Molly e lo stop da parte della polizia, non era
altro che un programma studiato in anticipo da qualcuno che voleva portare via da me a
dall’Italia la ragazza. Qui sicuramente c’era lo zampino della mamma di lei e dell’ambasciata
Americana.
Rimasi a guardare il poliziotto mentre risaliva nella sua auto.
«Senti. Avvicinati» mi disse dopo aver abbassato il vetro. «Se non vuoi avere guai seri non
pensare più all’americana, lasciala stare. Ma che ti frega! Sei giovane e di belle ragazze ce ne
sono a centinaia. Spero che mi hai capito».
L’auto scomparendo si lasciò dietro tante silenziose minacce.
Aveva ragione Molly quando mi disse che il personale americano avrebbe fatto di tutto
per riportarla a casa. Che in un certo modo gli americani spadroneggiavano in lungo e largo
all’insaputa del governo italiano, che se dovevano portare via una qualsiasi persona, qualunque essa fosse, non avrebbero avuto nessuna sorta di problemi in quanto qualche grosso
politico italiano tacitamente era d’accordo. Chi mai per strada avrebbe fermato un automezzo con la targa CD dell’ambasciata americana? Essì, Molly aveva ragione.
Il resto della notte lo passai sul divano a scartabellare nelle sue cose. Bevvi due moka.
Molti pensieri mi assillavano; dov’era lei? era già ripartita o si trovava ancora a Roma? e io
cosa potevo fare? Mi venne in mente di fare una denuncia per il rapimento. Sì! Sarei andato
dai carabinieri appena fatto giorno e avrei chiesto di quel maresciallo che veniva spesso a
fare la spesa quando lavoravo da Ferro.
«Buongiorno».
«Buongiorno» rispose il piantone.
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«Senta vorrei fare una denuncia per rapimento».
«Vada nella stanza là in fondo» fece il piantone.
«Ma io vorrei parlare con il maresciallo Frangipane. Lui mi conosce. Gli dica che c’è Ernesto, quello che lavorava da Ferro».
Dopo uno sguardo un pochino sull’attenti, mi disse: «Attenda».
Prese il telefono, formò un numero dicendo che c’era una persona di Ferro che voleva
parlare con il Maresciallo.
In un attimo fui nella sua stanza e, dopo avergli spiegato nei minimi particolari il fatto, il
Maresciallo uscì per ritornare dopo un quarto d’ora con un foglio in mano.
«Mi hai detto che oltre agli sconosciuti che hanno rapito la tua ragazza c’era anche una
macchina della polizia e che questi ti hanno anche fermato. Esatto?».
«Sì marescia’».
«Ho telefonato alla polizia qui a fianco e mi hanno risposto che nessuna delle loro vetture
era in servizio dalle tue parti la notte passata, e...».
«Ma come marescia’, c’era uno con...». Non mi fece finire la frase.
«Aspetta. Ho anche telefonato a Fiumicino e anche da lì mi hanno risposto picche».
Il Maresciallo mi guardava in modo enigmatico. Non era uno sguardo che si rivolge a
qualcuno in cui non si crede o che dica bugie, e neanche uno sguardo investigativo, ma
bensì i suoi occhi, e questo lo capivo benissimo, mi scrutavano. Stava cercando le parole
giuste per farmi capire quello che non avrei dovuto sapere.
«Ernesto, sentimi bene» iniziò. «Credo a ciò che mi hai detto. Mi ricordo della tua ragazza
americana, quella che stava spesso con te al banco. Me la ricordo benissimo perché ogni
volta che vi vedevo lei sorrideva sempre, quindi non credo che sia andata via di sua volontà, ma senza prove non puoi dimostrare nulla. Tu dici che è stata rapita da uomini che parlavano in inglese. Dici anche che c’era una macchina della polizia che ti ha fermato».
Stavo seduto in attesa di sentire qualcosa a mio favore. Il maresciallo mi guardava grattandosi il mento.
«E poi ho fatto anche un fonogramma all’ambasciata Americana a Roma e questa è la risposta».
Mi lesse ciò che stava scritto sul foglio, cioè che la signorina Molly J. Ross era appena ripartita per l’America con la propria famiglia dopo aver trascorso nella nostra bella Italia tre
anni indimenticabili.
«Allora, vuoi ancora fare la denuncia?».
Il maresciallo sapeva che dicevo la verità, l’aveva scritto negli occhi e nell’espressione del
viso.
«No marescià. Ma lei può fare qualcosa?» chiesi con disappunto.
«Ufficialmente credo che sia difficile, ma personalmente chiederò in giro, poi ti farò sapere».
«Grazie marescià, lei è una brava persona. Grazie e arrivederci». Mi alzai avviandomi verso l’uscita.
Frustrato al massimo, ma speranzoso, mi diressi verso casa.
Certo non avevo la minima voglia di andare a comperare la merce e poi aprire il banco.
Ma sì, era meglio ritornare a casa e vedere il da farsi.
Passando davanti la guardiola vidi che era vuota. Non è che reputai strana la cosa, ma
normalmente a quell’ora il portiere era sempre sorridente al suo posto.
Arrivato davanti la porta, un senso di allarme istintivo mi fece stare all’erta. Nel momento
di infilare la chiave nella toppa, e dopo una mia piccola pressione, questa si aprì lentamente
nonostante non avessi girato le mandate. Eppure non vi erano segni di scasso.
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Dentro era tutto a soqquadro. Cassetti aperti, libri ovunque. Cuscini del divano sul pavimento. Anche in cucina era un casino. Nella camera da letto regnava il finimondo; tutto
sottosopra. Allora c’erano stati i ladri? Ma che avevano rubato?
Una piccola ricognizione mi fece aprire gli occhi, quello che mancava erano soltanto le
cose di Molly; rullini fotografici, due libri, un’agendina, e poi tutti i suoi abiti e indumenti
intimi. Nella doccia mancava perfino il suo shampoo, il suo bagnoschiuma, il dentifricio, lo
spazzolino, l’accappatoio che si era comperata ad Ariccia, la spazzola per capelli e tutto ciò
che una donna usa nella sua toilette.
In quel disordine nessuno avrebbe potuto capire che nella mia casa ci aveva vissuto per
circa sei mesi una donna e per di più straniera.
Chi aveva combinato ciò sicuramente non era un ladro, ma della gente che aveva voluto
far scomparire tracce evidenti della presenza di Molly.
Invece di andare dai Carabinieri a sporgere denuncia per furto mi recai dalla Polizia. Ma lì,
senza prove di scasso, senza prove che avrebbero dimostrato che mancavano gli effetti
personali di Molly, senza testimoni, dovetti fare una denuncia contro ignoti, quindi nulla di
fatto. Anzi l’agente che scrisse la denuncia mi disse che se avesse scoperto che quello che
avevo raccontato non era vero, sarei stato denunciato io stesso per falso e simulazione di
reato. Assurdo quando dici la verità ma non puoi dimostrarla.
Ritornato a casa diedi una sistemata alla meglio e me ne andai al Kursaal.
Gianni capì subito il perché lo salutai così basso di tono.
«È partita vero?». Mi chiese sicuro mentre posava il cappuccino sul tavolo. Poi poggiandomi una mano sulla spalla disse ancora: «Mi dispiace Ernesto».
Gli raccontai tutto. Lui rimase meravigliato a metà, come se la storia appena sentita non
fosse nuova per lui.
«In generale nessuno lo sa, nessuno se ne accorge, ma, come il rapimento di Molly, ne sono accaduti altri».
E mi raccontò di qualche anno prima, quando un attore, un eroe di film americani di cow
boy, venne prelevato a forza sul bordo della piscina, non solo perché era completamente
ubriaco, ma anche perché sbraitava in inglese di FBI e di soldi presi in sua presenza a Hollywood, e di attricette “consigliate” di andare a letto con il Presidente degli Stati Uniti.
Gianni mi raccontava queste storie e io le vedevo come immagini di film, ma, tornando
indietro con la mente, ripensando alle parole di Molly, sapevo che ciò che diceva era tutto
vero. E Gianni non era tipo che prendesse per i fondelli la gente.
Mi raccontò anche che quando i Carabinieri lo interrogarono assieme ad altre due persone, nessuno poté fare denuncia perché quel certo attore non risultava tra gli ospiti dello
stabilimento balneare. Chi diceva di aver visto portare via a braccia un uomo veniva contraddetto dalla direzione del Kursaal, appunto come detto sopra. E Gianni ebbe una settimana di “malattia”, e dovette dichiarare ai Carabinieri che forse quello che aveva visto era
soltanto stata un’allucinazione, conseguenza di un colpo di sole.
Per un paio di giorni andai a Roma piazzandomi di fronte l’ambasciata Americana. Rimanevo a fissare le tende di quelli che reputavo essere gli appartamenti del personale. Speravo
di vedere il viso di Molly. In effetti ogni tanto una tendina si scostava e una faccia nella
penombra rimaneva a osservarmi per qualche secondo, per poi scomparire di nuovo.
Il secondo giorno, nel pomeriggio, vidi una donna uscire dai cancelli dell’ambasciata e dirigersi verso di me, con meraviglia mi accorsi essere era la donna che mesi prima si era presentata al banco spacciandosi per amica di Molly.
«Molly non c'è più. È partita per l’America. In Italia non tornerà mai più, quindi è inutile
che te ne stai qui sperando di vederla. Mi dispiace, perché sappiamo che con lei sei stato
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leale e gentile, ma ormai tutto è finito. Domani lei ti avrà dimenticato». Quell’ultima frase
“lei domani ti avrà dimenticato” detta così, piena di convincimento, mi fece aumentare la
nostalgia che avevo in corpo.
La donna scomparve dietro i cancelli. Diedi ancora una occhiata sulle finestre, ma vedendo che le tende ora erano chiuse e immobili, decisi alla fine di andarmene.
Passai una terribile settimana.
Tutti i giorni al mare a sperperare quei pochi soldi che mi erano rimasti. Non è che piangessi, ma dentro urlavo la mia rabbia per quella solitudine e la grande frustrazione che mi
aveva procurato il non essere creduto, anzi esser stato preso per matto. E “lei” non c’era
più.
Gianni mi fu di molto aiuto. Sembrava uno psicologo, mi diceva che dovevo smetterla di
pensare a Molly. Dovevo cercare di reagire, di tirarmi su. Di essere realistico e razionale. Lo
sapeva che non era facile, ma ce la dovevo fare, altrimenti sarei andato in depressione.
Il lavoro mi avrebbe aiutato.
Andai a caricare i nastri, poi da Barbarossa orologi e cianfrusaglie varie.
Il banco era super assortito e gli incassi erano buoni.
Dopo qualche tempo facendo visita alla Stazione dei carabinieri venni a sapere che il maresciallo Frangipane era stato trasferito in un’altra città.
Ma perché ce l’hai con me?, chiese Pasolini
«Ciao, allora tu sei “rubbagalline”!».
Quel nome e quel tono di voce, tranquillo e amichevole, mi fecero alzare la testa di scatto.
Pier Paolo Pasolini era lì che sorridendo mi guardava.
Rimasi spiazzato circa un minuto, poi, dandogli del tu, chiesi: «Cosa vuoi?».
«Hai per caso Lando Fiorini o Gabriella Ferri?».
«Per te non ho niente e se non te ne vai chiamo i vigili».
Adesso il suo viso era serio. Mi fissò come fa uno scanner con una foto e disse: «Perché
ce l’hai con me? Perché devi chiamare i vigili? Non ti sto mica facendo qualcosa di male?».
«Ho detto che non ti vendo nulla. Va bene?!» dissi quasi strillando.
Alzando la testa fece un cenno verso la sua Alfa GT, e dopo tre secondi mi ritrovai a faccia a faccia con la mia vecchia tortura, “er Cipolla”.
«Ciao Cipo’» feci con poco entusiasmo.
«Ciao, ma allora sei te quello dove compra i nastri mi sorella» rispose.
«Può darsi, ma anche dall’altra parte, di fronte la Standa, ce n’è un altro».
Mentre stavo accendendomi una sigaretta vidi Pasolini tirare fuori il portafogli dei soldi,
darglieli e sussurrare qualcosa nell’orecchio del “mio amico”, dopodiché si allontanò verso
l’auto.
«Perché quando chiudi nun vieni con noi?».
L’invito del “Cipolla” mi diede lo stimolo nel dire tutte quelle cose che avevo sullo stomaco da tanti anni.
«Senti Cipo’, è una vita che ci conosciamo e non ti ho mai visto dire o fare qualcosa di serio. Tu e Er poraccio mi chiamate Rubbagalline, ma fino a prova contraria non sono io
quello che ha il vizio di rubare o di andare per froci, ma tu. Ovunque vai cerchi sempre
soldi facili e questo non ti costa nulla, basta che cali i pantaloni d’avanti o di dietro tanto,
come mi hai detto una volta, non è che “dopo” si vede».
Le mie parole lo avevano ammutolito. Ora il mio coraggio era più forte perché sapevo di
“giocare in casa”. Poi aggiunsi: «Questi sono i nastri».
257
In silenzio li prese quasi strappandoli dalle mie mani, mi pagò gettando i soldi sul banco,
rimase un minuto a guardarmi, poi s’intrufolò nell’auto di Pasolini. Questi mettendo in
moto, partì velocemente.
L’Estate stava finendo, lo capivo dal diradarsi del via vai nel piazzale della stazione.
Gli affari erano calati, quindi mi dovevo trovare un nuovo lavoro per svernare.
Certo potevo rimanere a vendere nastri anche in inverno, ma la concorrenza tra me e Lucio, che vendeva sotto la Standa, sarebbe stata all’ultimo “nastro”, quindi decisi di chiudere.
Andai da lui e gli vendetti, al prezzo di costo, tutta la mia mercanzia. Rimanemmo buoni
amici.
Gianni del Kursaal si ripromise di farmi assumere come barman da un suo conoscente
che aveva il Cral all’interno del Ministero delle Belle Arti a piazza del Popolo. Però dovevo
aspettare il mese di dicembre quando l’altro barista fosse andato via.
Trovai temporaneamente lavoro come manovale in un cantiere dalle parti di via delle Baleniere.
Già come avevo fatto tanto tempo prima, sempre in nero e giacché gli ascensori non erano ancora installati e non esistevano montacarichi, portavo in spalla sacche di calce o cemento del peso di cinquanta chili l’una, dal pianoterra della costruzione fin sopra il settimo
piano. Questo dalla mattina al tardo pomeriggio. Cinquemila lire al giorno. La sera, sempre
con le ossa rotte, tornavo a casa per addormentarmi davanti alla televisione.
I giorni festivi passeggiavo per Ostia e sul lungomare, facendo visite a Gianni del Kursaal.
Il mio amico Formica aveva “venduto” il suo garage-casa a una famiglia di zingari, quindi
credevo di non avere più nulla che mi legasse a Ostia.
Venni assunto dall’amico di Gianni. Era bello andare a lavorare a Roma in auto. Il lavoro,
molto più leggero del manovale, era semplice e facile; fare caffè e cappuccini, toast e tramezzini. Portare un caffè in quell’ufficio e un cornetto in quell’altro. Mance miserevoli e
paga idem. Comunque...
Una domenica, come tutte le altre, andai a Porta Portese. Mi feci tutto il mercato a piedi
fermandomi anche davanti al grande portone del Carcere Minorile. Qualche antico pensiero
fece capolino. Dietro le sbarre sulle finestre, dei visi lontani avvolti nella nebbia scrutavano
il cielo; Er poraccio, Cipolla, er Voto, er Puggile, la guardia “manicure”, il signor Bellotti,
Massimina, Debora, Cassandra, mio fratello e tanti altri visi stavano con le dita attorcigliate
attorno le sbarre.
«Aoh! Ma li voi ‘sti jeans?».
Il venditore tendeva un sacchettino di plastica con dentro i pantaloni. Lo presi e pagai.
Il semaforo alla Piramide segnava rosso, quindi dovetti fermarmi.
«Erne’, ciao. Che fai?».
Mi girai di scatto e, alla mia sinistra, vidi mio padre. Stava dentro una Fiat 128. Fumava
una sigaretta. Il suo sguardo era semi indifferente. Un sorriso da ebete.
Rimasi lì per lì più sconcertato che sorpreso da quella improvvisa apparizione, poi dopo
un paio di secondi mi ripresi.
«Ciao papà» risposi, mentre il cuore mi era salito in gola per l’emozione.
Lui, sempre con quel suono senza entusiasmo nella sua voce, come quando si parla a un
conoscente di poca importanza, chiese ancora: «Che fai?».
«Niente. Vado a casa».
Il mio cuore stava scoppiando in attesa di sentire un invito da parte sua.
«E dove abiti?».
«A Ostia».
258
Rimase un momentino pensieroso, poi, quando il clacson della vettura di dietro si fece
sentire, disse svelto: «Anche noi abitiamo a Ostia. Seguimi».
“Abitavano anche loro a Ostia?”.
Mi accodai e in una mezz’ora eravamo in via Ingrao, una strada che sfociava a piazza Gasparri.
Non ero più molto emozionato, vecchi traumi mi svegliarono da un sogno speranzoso.
Molti pensieri si accavallavano nella mia testa.
Naturalmente anche lui, come tutti gli inquilini del fabbricato, si era fatto il suo “garage
personale”. Tavole inchiodate alla meglio e pezzi di ricambio per auto. Salimmo le scale.
Abitava all’ultimo piano di un palazzo che sicuramente anni prima doveva essere stato bellissimo, ma che adesso era una bolgia di scritte sui muri e dentro l’ascensore rotto. I gradini
delle scale di marmo erano rotti e i muri scrostati in modo assurdo. Inveiva in tutte le lingue contro il comune che non veniva mai a riparare l’ascensore.
Quando aprì la porta di casa, disse:
«Carme’, abbiamo un ospite».
«Chi è, l’Avvocato Di Pietro?». Sentii chiedere.
«No, Carme’».
Entrando nella casa vidi la testa di mia matrigna sbucare dalla cucina. Dopo avermi guardato un attimino cercò di conquistarmi, dicendo a trentadue denti:
«Ernesto! Da quanto tempo!».
Conoscendola bene, sapevo che il suo entusiasmo era più falso delle cassette che avevo
venduto alla stazione. Comunque mi adattai salutandola con un sorrisino.
Avevano voluto che rimanessi a mangiare, iniziarono a farmi quelle domande che, secondo loro, avrebbero dovuto farmi mettere da parte i vecchi ricordi.
Certo adesso ero grande. Non ero più un bambino malleabile e corruttibile. Adesso dovevano usare la loro furbizia per non farmi sentire messo d’angolo. Non potevano trattare un
“uomo” alla stregua di un ragazzino. Ora non più.
«Mi hai detto che abiti a Ostia, e dove? Io non ti ci ho mai visto!».
Mentre mangiava nel solito modo, cioè aspirando la grande forchettata di spaghetti, mio
padre attendeva una risposta.
Raccontai dove vivevo, della mia storia con Molly e del banco di nastri. Erano curiosi
mentre parlavo. Possibile che in tutto quel tempo non ci eravamo mai incontrati? Eppure
Ostia non è che sia veramente grande.
Si sentì aprire la porta ed entrò il figlio. Salutò con noncuranza, poi si sedette e iniziò anche lui la spaghettata.
Finita la pasta, Carmela andò in cucina per comparire subito con tre begli involtini di carne al sugo.
Il mio piatto rimase vuoto; lei non aveva perso il vizio. Era come se tra me e loro ci fosse
sempre stato un tacito accordo, “noi mangiamo, tu fai finta di non vedere, non ci chiedi
nulla e noi ti sopportiamo”.
Dopo il primo boccone, dato quasi contemporaneamente dai tre, Corrado si fermò, mi
diede un’occhiata e chiese se volevo averne un pezzo. Risposi di no, che gli spaghetti erano
stati sufficienti. I volti di mio padre e quello di sua moglie si rilassarono come se fossero
stati per qualche secondo sotto pressione.
Non avevo bisogno di mangiare, questo me lo ero sempre guadagnato da solo. Avevo
soltanto bisogno di compagnia familiare. Avrei voluto sentire un poco di calore familiare.
Avrei voluto che lui, mio padre, mi parlasse di sbagli e di riparazioni, di tempi e situazioni.
Avrei voluto sentirlo parlare in questo modo per dimenticare tutto, insomma, avrei voluto
che in un modo o nell’altro mi chiedesse scusa, ma non accadde, lui era rimasto quello di
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sempre; una persona che vive, ma non sa perché.
Se Carmela mi avesse chiesto di lavare i piatti, non so se lo avrei fatto o “cosa avrei fatto”.
Furbizia sua, e fortuna mia, non me lo chiese.
«Sì, lavoro in un bar a Roma».
Fu la mia risposta a mio padre mentre in terrazza stavamo fumando.
Sapevo che lui mi aveva adocchiato soltanto per ricavarne un guadagno. Non riuscivo ad
andarmene, nonostante lo potessi fare liberamente. Era come quando ci si sente traditi dalla
propria terra eppure ne sentiamo sempre nostalgia. Rimaniamo sempre prigionieri dei nostri carcerieri.
«L’avvocato Di Pietro mi ha lasciato libero un suo appartamento in via Turati e io ci ho
fatto l’ufficio della mia associazione, l’ACAFIS».
Gli chiesi cosa volesse dire quella sigla.
Rispose che stava per Associazione Cristiana Assistenza Famiglie Italiane del Sud.
Mentre parlava assumeva smorfie da politico, come dire “adesso sono qualcuno”.
«Ma lo sai chi è il nostro Presidente Onorario? Ma lo sai che quando alzo il telefono e, per
esempio, chiamo la RAI o il Sindaco, tutti si mettono sull’attenti? Ma lo sai che sono stato il
primo ad avere questa casa del comune più la mansarda? E questo soltanto con una telefonata dell’Onorevole Il Sindaco. Ma lo sai che adesso faccio tornare da Como tuo fratello
Tonino e lo faccio entrare nei Vigili Urbani?!».
Avrei voluto sentire altri discorsi, comunque rimanevo ad ascoltarlo.
«Il nostro Presidente è L’Onorevole Aldo Moro». Disse pomposamente. Poi continuò:
«E se tu vorrai ci possiamo mettere insieme e facciamo soldi».
«E come?!» chiesi curioso.
«Vieni dentro» disse alzandosi.
Quando fummo nel salotto, chiamò sua moglie chiedendogli di portare dei biscotti e un
liquorino.
«Devi sapere che Aldo Moro è Presidente del Consiglio dei Ministri, cioè quello che comanda tutta l’Italia. Io sono stato invitato da lui un paio di volte a Palazzo Chigi e lì ho
conosciuto persone importantissime. Ho rivisto personaggi politici di quando avevo il partito, come il Sindaco Il Sindaco e l’Onorevole Sbardella. Moro mi ha sempre detto che se
avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa, bastava che facessi una telefonata. Quindi adesso ho
una buona idea».
Lo ascoltavo sempre con più interesse.
C’era qualcosa di attraente nell’attenzione che mi rivolgeva.
«Ma io lavoro!» esclamai.
«Ma che ci fai con quelle due lire che guadagni?! Se vieni con me ti faccio vedere i milioni»
disse strofinando il pollice e l’indice.
Non completamente convinto dalle sue parole, ma soltanto per il bisogno di non lasciarmi sfuggire l’occasione di “sentire” che a Ostia non ero solo, quindi per non perdere quel
“punto di riferimento” ritrovato, anche se non amato, acconsentii.
«Vabbè, finisco la settimana al bar e poi ci mettiamo insieme» dissi.
«Bravo a papà».
Il suo sguardo era il solito, indifferente, anche se camuffato dal suo solito sorriso bonariamente falso.
«Carme’, stasera Ernesto cena qui, fai la carne per tutti».
Le risposte alle mie domande dove si trovassero i miei fratelli e sorelle, erano evasive o
nulle.
Sua moglie, lo capivo dagli sguardi, non era d’accordo con lui per avermi fatto quella proposta.
260
La sera cenammo in silenzio. Ebbi insalata e un involtino, uno di quelli che loro avevano
mangiato a pranzo, presumibilmente lei ne aveva cucinati anche per la sera. Non diedi adito
a pensieri logici e razionali, con loro due nessuna logica era esatta, nessuna razionalità era
ragionevole. Mi ripromisi di andarli a trovare.
La settimana passò in un baleno. Un paio di volte andai a mangiare da loro.
Quella sera, dopo cena, la mia macchina non volle partire. Citofonai a mio padre, quindi,
dopo che ebbe dato un’occhiata nel motore, disse che era fuso essendo rimasto senza olio.
Effettivamente quando provai a farla partire di nuovo dal cofano uscì un rumore sordo.
Lasciai l’auto sotto la loro casa e mi avviai per il lungomare.
Seduto sul muretto all’angolo di piazza Gasparri, guardavo il mare. In lontananza qualche
lucina al largo lampeggiava intermittente. Chissà se erano navi, chissà dove andavano. Le
onde s’infrangevano sulla sabbia sotto il muretto, e qualche pensiero correva verso
l’orizzonte, verso l’America, verso Molly.
Non mi accorsi quando l’auto si fermò dietro me.
«Ciao».
La voce mi distolse dai pensieri facendomi girare.
Dopo aver messo a fuoco la vista, scoprii chi era l’uomo che mi aveva salutato; Pasolini e
un ragazzo stavano nella vettura.
Non risposi al saluto.
«Ma perché ce l’hai sempre con me?» chiese supplichevole il regista.
«No, sei tu che quando mi vedi ti fermi sempre, ma cosa vuoi?».
«Niente. Volevo soltanto invitarti a fare un giro con noi. Dai che andiamo in trattoria. Mica ti mangio». La sua insistenza e la sua “normalità” erano irritanti.
«Io non ho bisogno né di giri, né di mangiare, quindi vattene» dissi gettandogli la cicca
della sigaretta sul cofano della macchina.
«Ma che ti costa se...».
La sua voce fu spezzata dall’arrivo improvviso di un’auto che, dopo aver acceso gli abbaglianti in direzione della macchina di Pasolini, fece una frenata terribile iniziando una velocissima conversione a U, per poi pararsi col muso davanti alla sua auto. A questo punto il
regista, dopo una fulminea occhiata verso l’altra auto, mise subito in moto e, con una
sgommata, partì a razzo. L’auto che la inseguiva, credo fosse una 125 Fiat di color scuro,
mi passò davanti in un lampo, lasciando intravedere un uomo baffuto a fianco del guidatore e un altro dietro. A tutta velocità scomparve nella piazza dove si era infilata la macchina
di Pasolini. La scena mi colpì. Scesi di corsa dal muretto appena in tempo per vedere le
auto scomparire da via Storelli, e inoltrarsi in via Baffico. Qualche curioso si affacciò dal
bar.
Girai i tacchi incamminandomi verso casa mia.
Il giorno dopo lessi sul giornale che Pasolini era morto, ucciso all’Idroscalo. La notizia
non mi scosse più di tanto, anche se qualcosa non quadrava nei fatti descritti dai giornali.
Comunque dimenticai la cosa.
ACAFIS
Chiamai lo sfasciacarrozze che si trovava in via dell’Appagliatore per far caricare la mia
auto. Quando fui nella sua baracca vidi che in un angolo stava parcheggiato un Maggiolino
Volkswagen. Gli chiesi se voleva far a cambio con la mia auto. Lui vantava la robustezza
della macchina tedesca e, anche se avesse voluta darmela, un piccolo problema c’era; la
Volkswagen non aveva targhe. Gli dissi di non preoccuparsi, quindi dopo qualche minuto
261
di discussione su prezzi e targa, me la cavai pagando 50.000 lire di differenza. Ora guidavo
un Maggiolino con la targa di un Ford Capri.
Il giorno dopo al commissariato vicino Piazza Vittorio, feci la denuncia di smarrimento
del libretto di circolazione della Volkswagen, cosicché sul verbale della denuncia sarebbe
stata scritta la targa del Ford. Alla polizia o a chi altri mi avesse fermato, non sarebbe risultato nulla di strano perché, se avessero controllato, come sempre accade, soltanto la targa e
poi la copia della denuncia sarebbe stato tutto in regola.
L’ufficio di mio padre si trovava al primo piano di un edificio in via Turati.
All’intero c’era poca ma funzionale mobilia. Appesi ai muri, oltre al ritratto di Moro,
c’erano anche telegrammi e felicitazioni varie da parte del Presidente. Mio padre mi disse
che in nome di Moro potevo fare tutto ciò che avrei voluto in quanto nessuno ci avrebbe
dato fastidio.
La prima cosa da fare era chiedere un sussidio a Palazzo Chigi per la festa
dell’Associazione che si sarebbe dovuta svolgere a Natale. A questa festa ci dovevo pensare
io, avrei, cioè, dovuto trovare il modo di farla risultare vera e concreta. Personaggi importanti del mondo dello spettacolo li avrei potuti riciclare telefonando alla RAI, sempre a nome del Presidente. Nel frattempo, per rimediare un poco di soldi, avrei dovuto mettere
delle inserzioni sul Messaggero di Roma.
Dette inserzioni non erano altro che falsi annunci di lavoro. Si offrivano posti a tempo
indeterminato come vigilanti in uno qualsiasi dei ministeri, e si chiedeva, per iscriversi
all’offerta, un versamento di 8 mila lire per spese di amministrazione”
In un paio di mesi, noi dell’ACAFIS, con la buona parola del nostro Presidente, avremmo
sistemato tutti, a seconda dei desideri e delle necessità della persona.
Poi avrei dovuto anche fare in modo di trovare tutti gli indirizzi di famiglie nobili, quindi
inviare a queste una lettera in cui, sempre a nome dell’Associazione e con l’incisività del
nome del nostro Presidente, si richiedeva un obolo per le famiglie povere, in cambio di un
invito e un posto in prima fila nella festa che avrebbe dovuto svolgersi al Cinema Royal,
festa dove avrebbero presenziato alte personalità della chiesa, della politica e del mondo
dello spettacolo.
Dopo aver fatto programmi per incassare più soldi possibile, mio padre mi diede le chiavi
dell’ufficio, un taccuino dove vi era il numero della segreteria personale di Aldo Moro, il
numero del Sindaco e quello dell’Avvocato Di Pietro, colui che aveva stilato lo Statuto
dell’associazione e provveduto, dopo essere stato con mio padre a Palazzo Chigi, a far apporre sullo stesso la firma del Presidente del Consiglio.
Con una inserzione trovai una segretaria a diecimila lire al giorno. Nei giorni seguenti le
feci telefonare alla SIP per avere tutti gli indirizzi di principesse, principi e affini. Quando ci
pervenne l’elenco iniziò la spedizione delle lettere con la richiesta di denaro. Denaro che
arrivava giornalmente per raccomandata.
La segretaria si licenziò dopo due settimane perché trovava il lavoro troppo noioso, ma io
so che ciò accadde perché lei aveva capito che non si trattava di beneficenza.
Non mi restava che attaccarmi personalmente al telefono.
Alla RAI, nel sentire certo altisonante nome, le centraliniste si mettevano sull’attenti e il
pezzo grosso della Direzione, dall’altra parte del filo, faceva mille inchini e riverenze.
Riuscii ad avere in due giorni il numero di telefono di Lino Banfi, Nicola di Bari, Mino
Reitano, Claudio Villa, Peppino Gagliardi, Tony Astarita, Silvio Noto e altri famosi.
Lino Banfi si assicurò della serietà della manifestazione telefonando al suo amico Onorevole Rana, e ci disse che sarebbe venuto gratis.
Nicola di Bari ci fissò un appuntamento all’Hotel Leonardo da Vinci in via dei Gracchi,
anche lui avrebbe partecipato gratis a condizione; che l’impianto musicale fosse stato un
LEM.
Mino Reitano, il più entusiasta, non avrebbe avuto problemi nel partecipare gratuitamen262
te, ma anche lui aveva la sua preghiera; che il fratello Franco entrasse in RAI. Io gli promisi
che non c’era alcun problema, avrei telefonato al Presidente stesso e in poco tempo suo
fratello sarebbe stato assunto.
Claudio Villa, cuore d’oro, non batté ciglio, sarebbe venuto anche a piedi.
Peppino Gagliardi e Tony Astarita erano contenti sia di Nicola di Bari che dell’impianto
LEM.
Silvio Noto, nonostante nei mesi a venire avrebbe dovuto fare un viaggio in Olanda, si
dichiarò disponibile, a condizione di sapere in anticipo la data della manifestazione.
Comunque nessuno, della decina a cui telefonai, si rifiutò o chiese denaro. Gli affari andavano bene.
Bisognava battere il ferro finché era caldo, e così feci. Mi attaccai di nuovo al telefono iniziando il giro degli “sponsor”.
Molte fabbriche di generi alimentari incominciarono a mandare furgoni di pasta, ogni
sorta di formaggio, casse di pomodori pelati e altre confetture. E poi olio d’oliva, insaccati,
panettoni e torroni. caffè, zucchero e anche latte in polvere.
Le mie promesse ai benefattori che spedivano tutto quel ben di Dio, erano che avrei interceduto per loro, presso il Presidente, per interventi finanziari e altro.
Molte derrate alimentari furono portate a casa di mio padre (sua moglie adesso era contenta di me), il resto fu venduto in tutta Roma.
Quando la sera tornavo a Ostia, prima passavo da mio padre per dargli la sua parte
dell’incasso giornaliero (gli davo sempre qualche diecimila lire in più per comperami i suoi
sorrisi e il “bravo a papà”). Mangiavo qualche volta da loro e poi me ne ritornavo a casa.
Era arrivato il momento di rinviare la manifestazione. Telefonai a tutti inventando la scusa che Palazzo Chigi ci aveva consigliato di spostare l’evento a data da stabilirsi.
Conobbi Marta al Bar Tabacchi di piazza Gasparri, quando le raccolsi le sigarette che le
erano cadute. Marta aveva una coltre di capelli neri, occhi scuri e dolci. Non era molto alta.
Era sarda e abitava in via Storelli.
Lei, nonostante avesse trent’anni, già aveva tre figli da tre padri diversi. Non era mai stata
sposata. Questo non mi interessava perché lei era una ragazza dolce, non invadente. Non è
che non fosse gelosa o non soffrisse, ma quando un uomo se ne andava via per sempre lei
riusciva subito a darsi forza, facendo così in modo di non dover urlare tutta la sporcizia
degli uomini. Aveva un fantastico carattere ed era un’amorevole madre.
Quando era bel tempo andavamo a Bracciano dove lei aveva una casetta lasciatale da una
sua vecchia amica. Marta amava lo sci d’acqua e io godevo vederla scivolare sull’acqua del
lago. Stavo bene con lei.
La feci conoscere anche a mio padre e sua moglie. Nella loro falsità, l’accettarono. Naturalmente chissà cosa si dicevano nel privato riguardo una giovane donna con tre figli ma
senza marito.
Con lei rimasi circa un anno, lasciandola poi, da vigliacco, incinta.
Un giorno arrivò un assegno da Palazzo Chigi.
Era un contributo del Presidente del Consiglio per l’associazione.
Subito andai al Banco di Napoli vicino piazza Vittorio e incassai il contante.
La sera mio padre fu contento nel ricevere ancora denaro senza muovere un dito.
Ora venivo trattato con attenzione anche da sua moglie. Comunque sapevo che tutte le
loro moine le avevo letteralmente comperate ma, anche così stando le cose, mi andava bene. È la stessa cosa tra una prostituta e cliente; si compra un po’ di sesso, se dai la mancia
ricevi una carezza in più e magari, se in “quei momenti” ti trovi bene ci ritorni sapendo che
almeno tra le sue braccia riceverai un sorriso, senza doverti domandare se è sincero e nean263
che devi sforzarti a chiederti se ciò che fa lo pensa anche.
L’associazione continuava il suo lavoro come al solito; inserzioni di ricerca di personale vario, iscrizioni obbligatorie di chi cercava lavoro, telefonate di qua e di là.
I bar nei dintorni della via offrivano sempre qualcosa gratis, spesso pagavano i nostri
“favori” con contante. Le promesse erano sempre le stesse: intercedere sia alla Finanza, sia
al Comune e in ogni dove.
Potevamo anche assicurare gli automobilisti. La Transalpina ci inviava i moduli e
l’Associazione (io) stipulavo contratti assicurativi (40% in meno del costo delle altre società) con chiunque. Alla Società di Assicurazione, dalle parti di piazza Indipendenza, portavo
in contanti il 50% netto degli incassi e il restante 50% rimaneva a noi. Non so come funzionasse il gioco, né cosa sarebbe accaduto se un assicurato avesse avuto un incidente, fatto
sta che ero perennemente assicurato gratis e pieno di soldi.
Il lavoro di “conoscenza cliente” lo svolgevo nel migliore dei modi. Andavo nei vari negozi e, con la scusa di comperare qualcosa, cercando di portare il discorso su problemi di
gestione del locale, facevo iscrivere all’associazione il proprietario. Bastava versare 50.000
lire mensili e si sarebbero avute, oltre a una buona assicurazione, molte facilitazioni a tutti i
livelli. Essì, perché noi dell’ACAFIS avevamo “santi in paradiso”.
Nei riguardi di molti negozianti qualcosa abbiamo fatto; una multa salata al bar poteva essere cancellata con uno squillo di telefono, sempre con uno squillo di telefono una cartella
delle tasse da “sopra passava sotto”. Il permesso di ampliamento del locale da “sotto passava sopra” e veniva subito approvato. Tante multe di auto furono tolte e tante raccomandazioni fatte. Forse molti di questi clienti sono ancora stipendiati in Ministeri e istituzioni
varie, altri hanno avuto la patente di guida che mai avrebbero potuto avere. E altri ancora si
sono guadagnati la pensione di “Grande Invalido di Guerra” senza mai essere stati in guerra o essere sfiorati da un qualsivoglia oggetto che potesse procurare un pur minimo e invisibile graffietto.
Mio padre era contento di questo mio senso degli affari. Diceva che la scaltrezza assieme
alla furbizia, sono le sole cose che contano nella vita, quelle che ti fanno arrivare in qualsiasi
porto. Credo che a quei tempi fossi forzatamente d’accordo con lui.
L’estate era arrivata. Ora potevo lavorare di meno. Passavo cinque, sei ore in ufficio, e poi
andavo di corsa al Kursaal. Gianni era contento di vedermi su di umore. Ed era anche
contento quando mi presentavo davanti a lui con la nuova conquista estiva. Sapeva comunque che avevo sempre Molly nel cuore.
Ormai il limone era stato spremuto abbastanza, quindi decisi che era arrivato il momento
di chiudere l’associazione.
Era settembre del ’76.
Le visite a mio padre si assottigliavano. Rimanevo a girovagare per Ostia senza sapere cosa fare. Finché, durante una visita, venni a sapere che mio fratello da Como era stato fatto
venire a Roma. Gli chiesi dove abitasse e se veramente lo avesse fatto entrare nei vigili urbani. Rispose che abitava dai suoceri a Spinaceto e che, alla prima occasione di vedere il
Sindaco, lo avrebbe raccomandato.
Un mattino incontrai mio fratello. Eravamo contenti di vederci dopo tanti anni, ma
l’intimità che era stata tra noi tanto tempo fa, adesso si era alleggerita; non avevamo più
bisogno dell’uno o dell’altro. Lui si era sposato e cercava lavoro. Ora aveva una famiglia
sua.
Comunque mio fratello non fu mai sistemato. Trovò lavoro in una acciaieria di Pomezia.
Quelle di mio padre erano state le solite miserabili chiacchiere.
264
Marzo ’78
Una volta mio padre mi disse che avremmo potuto rimediare dei soldi anche senza
l’Associazione.
L’appuntamento con il Presidente Moro era stato fissato per un venerdì.
Ci mettemmo in pompa magna, ritrovandoci quel pomeriggio a Palazzo Chigi. Tra inchini
e “Buongiorno dottore”, fummo introdotti in un grande ufficio dove l’Onorevole stava
discutendo con un altro politico: Zaccagnini.
Moro venne verso di noi presentandoci all’altro, mio padre il “Commendatore” e io suo
figlio. Non ero mai stato a tu per tu con personaggi di quel livello, ma non mi sentivo imbarazzato. Tenevo a mente parole di mio padre “nessuno sta più in alto di te se non vuoi”.
Chissà dove aveva imparato quella frase.
Uscendo l’Onorevole Zaccagnini ripeté:
«Signor Presidente, allora siamo d’accordo, lunedì parlerò con Andreotti e gli altri colleghi
del gruppo e poi le farò sapere».
Ancora un buongiorno a tutti e scomparve dietro la porta scortato da una segretaria.
Mio padre iniziò con la solita cantilena, cioè che l’Associazione si trovava economicamente male, comunque molte famiglie italiane, nonostante non ci fosse stata la festa, avevano ricevuto pacchi e pacchetti, ma ora le casse erano vuote.
Il Presidente ci assicurò che avrebbe fatto di tutto per farci avere ancora dei soldi, prelevati questa volta dai fondi delle Lotterie.
Speravo che mio padre accennasse una raccomandazione per mio fratello, ma niente.
Dopo qualche chiacchiera (mio padre più che altro ascoltava dando sempre ragione a Moro) tra loro, riguardo il Partito Comunista, la DC, Socialisti e il MSI, partito che non voleva
assolutamente sentire di comunisti al Governo, altrimenti sarebbe “cascata la testa di qualcuno”, ci congedammo da quella grandissima persona.
Appena fuori mio padre mi disse che avrei dovuto chiamare il portiere di via Turati e dirgli che se fosse arrivato qualcosa per l’ACAFIS avrebbe dovuto subito avvisarci.
Così, dopo una settimana, ricevemmo ancora un assegno da parte del nostro Presidente.
Certo mi ritrovavo con qualche soldo in tasca, ma non riuscivo a stare senza far niente.
Venni a sapere da Gianni del Kursaal che Ferro, il mio ex principale, aveva aperto una discoteca vicino Ostia Antica.
Un appuntamento di venerdì sera ed eccomi a essere gestore del bar.
Lavoravo dalle dieci di sera alle quattro di mattina.
Ogni tanto facevo una visita a mio padre.
“Lui” non ci ha mai insegnato nulla e tanto meno spiegato qualcosa di onesto che potesse
tornarci utile nella vita. Soltanto una volta mi spiegò come era riuscito ad avere la pensione
di “Grande Invalido di Guerra”, lascio a voi capire come.
Visto da sconosciuti mio padre appariva un bell’uomo; alto, portamento signorile, begli
occhi verdi, viso tondo e naso greco, vestito sempre elegantemente. Vedendolo così dava
l’impressione che ciò che voleva sembrare, ciò che diceva, fosse tutto vero.
A suo dire aveva combattuto in Africa, ma quando gli si chiedeva dove precisamente, lui,
tergiversando, rispondeva che non poteva parlare perché aveva paura che i ricordi orrendi
lo riportassero a quei “terribili momenti di tante brutture anche se con molto valore italiano”. Quest’ultime parole le sapeva a memoria come io so “Cavallina Storna”.Tanto meno
sapeva dove si trovassero effettivamente Addis Abeba, Etiopia o Eritrea.
La discoteca chiuse con l’estate e dovetti cercare un altro lavoro.
Venni assunto come aiuto in cucina da un ristorante.
265
Nel tempo libero non mancava una visita a mio padre. Lui cercava sempre qualcosa da
fare (rimediare soldi facili) in nome dell’Associazione.
Passai il Natale lavorando. Solo un augurio di corsa da mio padre, che stava festeggiando
con la famiglia di lei, e poi, per non essere cacciato inventai una scusa e me ne andai.
Comprai qualcosa in rosticceria e passai la serata da solo a casa mia.
Il “Natale” di Baglioni mi portava con la testa a Molly.
Un giorno mio padre mi disse che era riuscito a fissare un appuntamento sempre con il
Presidente Moro. Il piano era di chiedere un sussidio per il suo progetto di aprire una casa
di riposo permanente per Invalidi di Guerra. Saremmo quindi dovuti andare dall’Avvocato
Di Pietro per far buttare giù sia uno statuto, sia un progetto di costruzione per la suddetta
casa.
Questo avvenne nel giro di qualche giorno.
Con le carte sottobraccio ci ritrovammo, come tanto tempo prima, a Palazzo Chigi.
Mentre noi entravamo, Andreotti usciva. Aprendo la porta lo sentimmo dire: «Senta Presidente, così non va assolutamente bene perché la nostra ala non lo permetterà». Poi si allontanò con passo svelto, una cartella sottobraccio, senza guardare in faccia nessuno.
«No, la prego, non è il momento» rispose Moro quando mio padre, senza quasi concedergli il tempo di sedersi, gli prospettò, mettendogli i fogli sotto il naso, la istituzione della
“Casa Riposo Grandi Invalidi di Guerra”. «Non è il momento giusto, ho cose molto più
importanti nella testa. La prego!».
«Capisco Onorevole, ma cos’è che non va?».
Il Presidente iniziò, come volesse sfogarsi, a parlare di scontri nel suo partito, di divergenze politiche e contrastanti. Ci disse che nel suo programma era appoggiato soltanto da Zaccagnini che però aveva le mani legate da Andreotti e dai suoi alleati. E poi parlò del Presidente della Repubblica che si era lavato le mani da certe situazioni politiche, e dei molti
appartenenti alla DC che fino a qualche giorno prima erano attorno a lui, e ora si erano dati
letteralmente alla latitanza.
«Sì, mi sento solo e molto preoccupato per la mia apertura a sinistra» disse Moro, «e poi ci
sono anche molte piccole cose che mi paiono strane, una di queste è che mi hanno dotato
di un’altra auto di servizio, nonostante quella che avevo prima era stata appena revisionata.
Non ne avevo bisogno, non capisco proprio».
Moro, con le braccia posate sulla scrivania, era preoccupato e pensieroso.
«Ma lo sa che senza interpellarmi mi hanno cambiato due fedeli guardie della scorta? Nessuno mi ha dato mai spiegazioni al riguardo».
Sì, l’Onorevole era preoccupato. Aveva sentore di un qualcosa d’indecifrabile, ma molto
tangibile.
«Ma forse la sua macchina era rotta, Onorevole. E forse le guardie sono malate».
Mio padre faceva il finto interessato scuotendo la testa, ripetendo spesso che “il nostro
partito ce la farà. Troppa acqua è passata sotto i ponti” (queste sono state le frasi che ha
sempre usato nei comizi fatti nelle borgate).
Lasciammo il Presidente con i suoi pensieri e con un “Auguri Presidente, a presto”.
Dopo qualche giorno l’Onorevole Moro venne rapito dalle Brigate Rosse.
Mio padre inchiodato dalla mattina alla sera davanti alla tv, seguiva con interesse la vicenda. Dopo circa due mesi Moro venne ucciso.
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L’amore e ancora il carcere
Mio padre volle andare al suo paese di origine. Lì abitavano tutti i nostri parenti.
Parenti che io non avevo mai conosciuto non essendo mai stato in Puglia.
Volli andarci anch’io, almeno per conoscere la mia “famiglia di campagna”.
Partimmo assieme a sua moglie. Il viaggio durò circa quattro ore.
A pianoterra la porta d’ingresso di zia Antonietta era aperta. Internamente vi si poteva
vedere una ragazza pulire il pavimento.
Da sopra il balconcino già i miei cugini salutavano con entusiasmo. Erano felici di rivedere gli zii di Roma e, allo stesso tempo, curiosi di conoscere il loro cugino.
Rimasi fulminato dalla bellezza degli occhi di chi avevo visto pulire il pavimento; era Giulia, mia cugina conosciuta soltanto per “sentito dire”.
Mentre scendevo dalla macchina la fissavo. Era bellissima con quello sguardo, e quei denti
bianchissimi. I suoi occhi sembravano aprirti le porte di un cielo senza nubi e soleggiato. I
suoi occhi sono sicuro rispecchiassero con la loro purezza anche l’innocenza dell’anima. Ma
a scatti parevano riempirsi di tutte le tristezze e dolori del mondo. Giulia era appena uscita
dal carcere.
Ci conoscemmo affiatandoci subito. Dopo due mesi eravamo marito e moglie.
Andammo ad Abitare a Ostia in un residence appena costruito in via delle Azzorre.
La paga nel ristorante dove lavoravo non era sufficiente per pagare anche l’affitto del Residence, quindi dopo sei mesi che abitavamo lì ci spostammo, dietro consiglio di un mio
fratello, tra Spinaceto e il Villaggio Azzurro dove, in un asilo comunale occupato abusivamente da altra gente, vi erano andati ad abitare, non avendo altre possibilità, anche due altri
miei fratelli e una mia sorella con le rispettive mogli e marito. Prima o poi il comune ci
avrebbe dato casa.
Il ristorante chiuse per cause familiari e mi ritrovai così senza lavoro.
Giacché non mi sono mai perso d’animo, strinsi i contatti con il mio “vicino di casa”, Sor
Nino.
Questi, un vecchietto basso e tarchiato ma simpatico, aveva un piccolo negozio di falegnameria in via Cavour. Gli promisi di pagare la metà delle spese e così mi lasciò adoperare
il negozio come ufficio di “Lavori di arredamento, ristrutturazione, verniciatura e falegnameria” per la casa.
Gli annunci furono messi sul Messaggero di Roma.
Il lavoro iniziò ad arrivare e, dopo un paio di settimane, dovetti assumere due operai.
Ditte grandi e piccole e privati iniziarono a telefonare anche da fuori città.
Avevo comperato un vecchio furgone Volkswagen e così potevo andare a prendere gli
operai e trasportare il materiale.
Mio cognato, che di mestiere faceva il muratore e lavorava saltuariamente venne in società
con me al 50%. Dopo ancora un paio di settimane, mio fratello lasciò le acciaierie di Pomezia e anche lui si ritrovò nella mia ditta. A malincuore dovetti licenziare i due operai e, con i
miei familiari, formammo una società. Spese e guadagni si dividevano in parti uguali.
Mi sentivo tranquillo. Il lavoro non mancava. La mia felicità salì poi al settimo cielo quando mia moglie mi disse di aspettare un bambino. Era un angelo mia moglie, sicuramente
sarebbe stato un angelo anche mio figlio. Quella sera le comperai dei cioccolatini.
Viaggiavo sempre con il mio Maggiolino, portandomi dietro la denuncia di smarrimento
del libretto di circolazione, così se mi avessero fermato avrei fatto i “pianti”.
Dopo una giornata di lavoro e ricevuto un bell’acconto sul preventivo, decisi di portare
Giulia a mangiare una pizza; lei andava pazza per la pizza.
Appena tornato a casa mi disse che era venuta la polizia a cercarmi. Gli avevano detto che
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non era un grande problema, solo questioni di macchine.
Naturalmente mi precipitai al commissariato Esposizione, pensando che sicuramente la
cosa riguardasse la mia auto, quindi non sarebbe stato nulla di grave.
«La dobbiamo arrestare» la voce del commissario mi gelò il cuore.
«Come mi dovete arrestare? E perché?». La disperazione si faceva largo in me.
«Abbiamo un mandato di carcerazione. Devi ancora scontare due anni a passa per un cumulo di pena». Adesso la sua voce era monotona, fredda come un fax.
«Ma io non ho fatto niente» esclamai ingenuo.
Alzando gli occhi su di me, il Commissario disse ancora: «Questi due anni e più son residui di pene che hai avuto circa cinque anni fa. Adesso le condanne sono divenute definitive
e la Procura ha fatto il cumulo, quindi ti dobbiamo portare a Rebibbia».
«Posso avvisare mia moglie che è incinta?» chiesi con voce tremolante.
«Ci pensiamo noi» rispose il commissario fax.
Era crollato il mio mondo; mia moglie in attesa, il lavoro, l’intenzione di chiedere la riabilitazione, il mio futuro. In un attimo avevo perso tutto. Sentivo il corpo tremarmi e uno
stato generale di confusione.
In mezz’ora mi ritrovai a Rebibbia.
Passando dalla Matricola e proseguendo l’andazzo di cui sapevo, avendo avuto precedenti
esperienze, venni chiuso in cella.
La solita e complice accoglienza da parte degli altri detenuti. Il letto d’angolo, le solite
vettovaglie d’alluminio e le stesse domande di sempre. Perché e per come ero “dentro”.
Il primo colloquio fu struggente per Giulia. I suoi occhi sempre allegri e che amavo tanto,
adesso erano lucenti di lacrime, tristi, ma forti. Mi chiedevano tante cose.
La lacrima furtiva (come quella della mia maestra di Gubbio), si lasciò andare per posarsi
sulla sua mano. Per i primi dieci minuti non parlammo, lasciandolo fare ai nostri sguardi.
Avevo paura di iniziare, ma mi feci forza e le spiegai il perché ero lì. Lei, con la sua forte
“esperienza” alle spalle, cercava di infondermi ottimismo. Diceva che mi avrebbe aspettato
anche se avessi dovuto scontare l’ergastolo. Diceva che soltanto io contavo per lei e che
non mi dovevo preoccupare perché sarebbe partita per il paese e, se nel frattempo non
fossi uscito, avrebbe partorito lì.
Le dissi di prendere tutti i soldi e di partire il giorno dopo. Lì avrebbe avuto molto sostegno dalla sua famiglia.
I miei parenti a Roma avrebbero guardato la nostra “casa”, e se il Comune si fosse fatto
sentire, loro la avrebbero avvisata.
Questo carcere romano era più moderno, ma nella sostanza uguale a quello milanese. A
Rebibbia nelle celle non c’era il bugliolo, ma un vero e proprio gabinetto, per il resto non
cambiava nulla; la stessa gente, gli stessi “superiori”, le stesse anguste stanze, lo stesso casino, gli stessi letti a castello e la stessa sala televisiva con la tv mezza rotta con filo di ferro
attaccato all’antenna nella speranza di poter prendere qualche altro canale. Generalmente
tutti cercavano un canale dove si potesse scorgere qualche coscia o petto di donna.
Non fu difficile adattarmi, ormai sapevo come ci si deve comportare in carcere.
Nella mia cella vi erano due ragazzi di Testaccio, uno della Garbatella, uno dell’Alberone,
uno del Tiburtino.
Come si usa in certi luoghi misi il mio “libretto” a disposizione della cella, così a turno
potevamo comperare il fabbisogno giornaliero.
I miei compagni erano più o meno ragazzi come me, chi fidanzato, chi sposato. Comunque, ai miei occhi, bravi ragazzi. Tra noi non ci furono mai litigi o invidie o prepotenze.
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Dopo un paio di settimane che ero là, ricevetti una lettera di mia moglie in cui diceva che
era stata dal dottore e tutto andava bene. Che con la mamma andava d’accordo e tutti, anche se la situazione era difficile, erano contenti che aspettasse un bambino. Non mi dovevo
preoccupare di niente.
Le giornate nelle carceri sono sempre state noiose. Fare nulla dalla mattina alla sera. Fumare. Aspettare la visita della famiglia e quella dell’avvocato. Giornalini porno e masturbazione nel silenzio della notte. Magari ci fosse stata un’amnistia.
Il cibo, come in tutte le carceri italiane, è una cosa schifosa e indecente.
La scabbia era di casa anche lì, non solo a Milano.
A Rebibbia si ritrovavano tutti i ragazzi che furono di Porta Portese e Regina Coeli; Flora,
Er poraccio, l’Operaietto, Er Pasolini, er Voto, Massimino della Magliana, Maggi er puggile,
Straccaletto, er Cacarella, Cesarino, er Negro e tanti altri.
Vidi Er poraccio che passeggiava nell’ora d’aria. Quando passò davanti a me che stavo
seduto in terra, mi diede uno sguardo veloce. Nell’attimo in cui incrociai i suoi occhi lo
salutai. Lui, come non volesse far capire che in passato aveva avuto a che fare con un rubagalline, disse soltanto: «Ciao» riprendendo a camminare con i suoi amici.
Anch’io risposi, ma con un ciao entusiasta che fu frenato dall’indifferenza del mio amico.
Adesso Er poraccio faceva parte della “Banda della Magliana”. Quando qualcuno chiamava il mio amico per soprannome, lui con ironia rispondeva “a Rokkefelle!’.
La loro cella si trovava al primo piano ed erano tutti assieme.
Non avendo più molti soldi sul libretto, e tanto meno non volendoli chiedere a mia moglie, decisi di fare la “domandina al Direttore”, dicendo che ero elettricista, nella speranza
che ci fosse stata una possibilità di un lavoro per me.
«La tua domandina è stata accettata, però solo per i cartellini».
La notizia datami dalla guardia mi fece già pensare a guadagni e risparmi da inviare a mia
moglie.
“Fare i cartellini” (quelle piccole cedole che gli uffici postali annodavano ai pacchi in transito) significava andare in una specie di tipografia e sotto l’occhio attento di un civile, mettere dello spago in cartoncini già stampati. Il guadagno era di due o tre lire a cartellino. Andando svelto ne riuscivo a fare tra i tre e i quattrocento al giorno, quindi non guadagnavo
neanche i soldi per le sigarette.
Andai avanti così per un periodo di tempo, fin quando non venni assunto come elettricista.
Mi venne data una cella soltanto per me e potevo stare “aperto” dalle nove di mattina fino le nove di sera.
Cambiavo una lampadina di là, e un filo elettrico rimesso a posto di qua.
L’astronomico guadagno per quel lavoro era di 60.000 lire al mese, di cui la metà veniva
puntualmente spedita a Cerignola.
«Devi cambiare una lampadina nella cella 43, e poi una presa a quella a fianco».
«Vabbè superio’, vado subito».
Come sempre cercavo di leggere i nomi sulla porta delle celle dove avrei dovuto lavorare.
Questo soltanto per pura curiosità, soltanto per vedere se le persone che erano state sui
giornali si trovassero lì.
Il calzolaio che il giorno prima, da come riportavano i giornali, aveva abusato di un bambino, venne messo nel braccio dove erano le celle dei “bravi ragazzi” della Banda della Magliana.
Quando “radio carcere” sparse la voce da cella a cella, da spioncino a spioncino, partirono
le minacce.
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Dato che il calzolaio aveva pregato la guardia di non aprirgli la cella nemmeno nell’ora
d’aria, gli altri detenuti, al momento di uscire, si fermavano in corridoio, poi, avvicinandosi
alla cella del supposto violentatore, dallo spioncino aperto lo minacciavano di morte, gettando allo stesso tempo nella cella bottiglie rotte, buste di plastica piene di urina e feci, oltre
a tutte le peggiori ingiurie.
Una mattina mentre ero intento a cambiare una lampadina nella rotonda, vidi un gruppo
di detenuti che, in un silenzio da azione veloce, si dirigevano verso la cella presa di mira.
Chissà perché questi si trovavano nel corridoio, nonostante non fosse ancora l’ora d’aria.
Curioso rimasi a guardare stando in equilibrio sulla scala. Nella sezione non riuscivo a vedere il superiore, il quale avrebbe obbligatoriamente dovuto essere lì di guardia.
Sicuramente anche la cella del malcapitato doveva essere aperta, in quanto vidi che il
gruppo formato dai 4 “bravi ragazzi” vi si intrufolò e in un attimo iniziarono rumori sordi,
poi le suppliche da parte di chi era stato condannato dal Tribunale Interno del Carcere. La
mattanza durò sicuramente più di cinque minuti d’orologio, dopodiché rividi il gruppo uscire e rientrare tranquillamente nella propria reggia.
Ora non si sentivano più richieste d’aiuto e neanche lamenti. La sezione era calata in un
silenzio surreale. Mentre scendevo, dopo aver finito il mio lavoro, diedi una occhiata alla
guardia che si trovava seduta vicino al cancello della rotonda. Questa non mi diede il tempo
di fare domande.
«Se hai finito ritorna giù» disse apatico.
Chiusi la scala dando un’ultima occhiata in direzione del luogo dove era accaduto qualcosa di strano. In fondo al corridoio si notava un corpo steso in terra. Qualche rigagnolo di
sangue impiastricciava il pavimento lucido. La flebile voce dell’uomo chiedeva aiuto.
La guardia di sezione uscì di corsa dal suo “nascondiglio” iniziando a urlare.
«Presto capoposto, un detenuto ha provato a uccidersi auto-mutilandosi con un cucchiaio
affilato e sbattendo la testa contro il muro!».
Certo che come diagnosi fatta in tre secondi da una guardia carceraria non era mica male!
“In carcere i detenuti tendono sempre a farsi del male da soli, pentiti delle malefatte che
hanno arrecato alla società onesta e lavoratrice, o per avere pietosa attenzione da parte delle
autorità giudiziarie”. Ecco le spiegazioni sempre funzionanti delle Direzioni Carcerarie.
L’uomo fu portato via.
Lo rividi dopo qualche giorno in infermeria, era fasciato come una mummia e ancora
ammaccato in viso. Dopo un paio di settimane fu spostato nella Sezione Sicurezza; in questa sezione potevano andare detenuti che non volevano vivere in compagnia di altri carcerati.
Le televisioni nelle sale di ricreazione del carcere erano sempre rotte, questo perché, come
detto poco avanti, i detenuti cercavano di infilare fili di rame nell’antenna sperando così di
sintonizzarsi su canali erotici.
Quindi dovetti andare al primo piano per vedere se potevo far qualcosa per la televisione
che non funzionava.
La sala era piena in quanto davano una partita di calcio. Il fumo delle sigarette, aleggiante
sotto il soffitto, dava l’impressione di stare in Val Padana una mattina d’inverno.
Salii sul tavolino dove era posato l’apparecchio e cercai di togliere quel groviglio di fili di
ferro che avevano sostituito l’antenna originale.
«Aoh, ma te voi sbriga’ co’ quella televisione der cazzo?!».
Mi girai per dare un’occhiata al bullo che aveva parlato.
La voce proveniva dal gruppetto seduto in un angolo. Tra loro anche il mio amico Er poraccio.
Cercai di rimettere in ordine l’antenna, ma quando tirai fuori l’ultimo pezzo di fil di ferro,
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lo schermo diede a vedere e sentire soltanto nebbia e brusio.
«Aoh! A testa de cazzo, ma la voi ripara’ ‘sta televisione?».
Nel risentire quella voce la sala ammutolii. Mentre armeggiavo sull’apparecchio sentivo la
tensione salire, c’era come l’attesa di un uragano annunciato.
«Aoh, ho detto a te!». Chi aveva parlato adesso mi stava cingendo la caviglia con una mano. Di scatto strattonai il piede liberandomi dalla presa.
«Aoh, mica sono un radiotecnico che posso ripara’ la televisione!».
La mia risposta prese di sorpresa il “coatto”.
«Scenni che adesso te lo do io er radiotecnico, a fio de ‘na mignotta».
Rimasi un momentino sbilanciato dalla sfida. Quel prepotente era l’Operaietto e attorno a
lui aveva altri suoi amici. Er poraccio invece era rimasto seduto sul pavimento nell’angolo
della sala. Mica potevo fare la figura del pauroso davanti a quella platea in attesa e silenziosa
di uno scontro all’ordine del giorno. E comunque mi sentivo anche un pochino forte dalla
presenza del mio amico Er poraccio.
Mi gettai a capo fitto sull’Operaietto. Nella foga del mio slancio, questi cadde all’indietro
sopra un altro carcerato e... una scarica di botte provenire da ogni parte si abbatté sopra di
me. Mi rannicchiai tenendo la testa tra le ginocchia e feci il pieno di calci e cazzotti.
La guardia, con “molta pazienza”, fece sbattere le chiavi sul cancelletto di ferro.
«Ora basta ragazzi, mica lo potete ammazzare!».
La frase era giusta, ma l’espressione poteva anche significare: «Ragazzi, finite di giocare
che è ora della merenda».
I “bravi ragazzi” si rimisero nel loro cantuccio, la guardia mi chiese se potevo alzarmi, cosa che feci. Er poraccio stava ancora seduto nel suo angolino e guardava dalla parte opposta, verso la finestrella sbarrata.
Appena usciti, la guardia richiuse il cancelletto.
«Se devi andare in infermeria per farti medicare, non dire che ti hanno menato sennò
avremmo tutti dei problemi, di’ che sei caduto. E poi, giacché è vietato fare a botte, perderesti anche il lavoro». Certo che aveva ragione.
Me ne ritornai nella mia cella. Steso sul letto, anche se tutto dolorante, riuscivo a pensare
a mia moglie, al bambino che avrebbe dovuto nascere, a un vero lavoro quando sarei tornato in libertà. Facevo programmi e neanche li consideravo campati in aria.
Il giorno dopo andai all’aria e mi misi a sedere sotto un muro.
I “bravi ragazzi” passeggiavano su e giù. L’Operaietto mi guardava storto. Con loro anche
Er poraccio, il quale, dopo un paio di passi, si staccò dal gruppo avvicinandosi a me.
«Aoh, a rubbagalli’, ieri nun potevo fa’ niente, me devi crede’» disse.
Risposi, chiamandolo per nome come avevo sempre fatto sin dall’inizio: «Anto’, non ti ho
chiesto nulla, però glielo potevi dire che ero un tuo amico».
«Ma che gli dovevo di’!? Ma come facevo a dirgli che sei ‘n amico mio?! Stai sempre
aperto, fai er lavorante e io so’ ‘n’amico tuo?! Ma lo sai che quelli nun li posseno vede’
quelli che fanno i lavoranti?».
Queste erano le sue logiche difese.
Lo fissai ancora un pochino, lui, senza farsi centrare gli occhi dai miei, e per togliere tempo a una discussione che sicuramente sentiva fastidiosa e inutile, disse: «Sì, te saluto a rubbagalli’. Se vedemo!».
Con un gesto della mano girò sui tacchi accodandosi di nuovo ai suoi amici.
Capitava ogni tanto, per me che ero lavorante, di assistere sempre più spesso alle prepotenze del gruppetto. Come quella volta che una giovane guardia riprese verbalmente uno di
loro.
Dopo essere stato accompagnato dall’infermeria al braccio, Massimino non dando retta
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alle parole della guardia che non voleva girasse a spiare nelle celle, si soffermò prepotentemente davanti una porta iniziando a parlare, come se niente fosse, con un detenuto. Agiva
come se l’agente di custodia non esistesse. La guardia si rivolse a lui dicendogli che avrebbe
fatto rapporto alla Direzione in quanto era vietato rimanere fuori dalla cella quando non era
tempo di aria. Doveva ritornare subito nella sua.
Mentre la guardia apriva la cella del nostro “bravo ragazzo”, questi smise di parlare e, dirigendosi furente verso la guarda, urlò: «Adesso te lo faccio io rapporto, ma un rapporto che
te ricorderai pe’ sempre. Pezzo de merda!».
La guardia, presa alla sprovvista, si prese due schiaffoni che lo fecero sbattere violentemente contro la porta.
Ripresosi più che altro dalla sorpresa, il povero agente di custodia chiamò a squarciagola:
«Capoposto! Capoposto!».
Una pernacchia generale, uscendo dalle celle, si levò nell’aria.
Poi, non vedendo arrivare nessuno, mentre un poco di sangue gli colava dal labbro, richiuse la cella dietro le spalle del detenuto e si avviò verso la rotonda.
Comunque al “bravo ragazzo” non accadde nulla perché il giorno dopo lo vidi in cortile
insieme ai suoi amici. La guardia non la rividi più.
Molte risse si sono svolte nell’ora d’aria e molti occhi “statali” si sono chiusi.
Gaetano era calabrese, proveniva da Cosenza e si trovava a Roma perché doveva fare un
processo.
Quel pomeriggio passeggiava con me raccontandomi i “fatti” suoi e dicendo che lui era
innocente, che non faceva parte di famiglie della ‘ndrangheta. Passeggiavamo.
I “bravi ragazzi” si erano impadroniti come sempre del pallone e occupavano tutto lo
spazio. Le loro pallonate, potevano capitare in faccia a chi era seduto, ma nessuno aveva il
coraggio di aprire bocca.
«Io vado a giocare a pallone» disse Gaetano.
«Ma dove vai! Ma non lo vedi chi sta giocando?».
Naturalmente lui non poteva sapere chi erano quelli che stavano facendo un casino terribile con il pallone.
«E chi sono? Mica è vietato giocare!».
«Gaeta’, non ci andare». Ma la mia frase finì nel nulla.
Già correva appresso il pallone. Togliendolo dai piedi dell’Operaietto, si diresse verso la
porta che stranamente adesso era vuota. Dov’era finito il portiere? Ma come, un attimo
prima era qui che si torceva e strillava come un indemoniato, e adesso è sparito?
Gaetano si guardava attorno spaesato. Si accorse della coltellata al fianco soltanto quando
fu circondato da tutti i “bravi ragazzi”.
Poi rimase solo vicino la porta. Appoggiato al palo si guardava la mano intrisa di sangue.
Quando lo vidi barcollare accennando ad avvicinarsi a me, gli andai incontro, lo sorressi
aiutandolo a rientrare nel raggio. Gli consigliai di non dire chi era stato, che non si era accorto di nulla fin quando non aveva visto il sangue.
Crollò nella rotonda e fu portato immediatamente in infermeria. Anche lui si fece mettere
nelle celle di sicurezza.
Sempre curiosando sulle porte delle celle, mi accorsi che anche molti miei amici di piazza
dei Mirti erano stati arrestati. Quando ebbi l’occasione di cambiare una lampadina, rividi er
Barone.
Stava infilato sotto le coperte. Mi sedetti sul suo letto e chiamandolo, lo scossi. Tra saluti
di gente di “piazza” venni a sapere che l’avevano arrestato “innocente” per averlo trovato
in possesso di droga non sua.
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Nella cella a fianco c’era Scorpione. Anche lui dentro per droga. Al piano di sopra Pasquetta, credo fosse dentro per rapina. Tiberio invece era stato arrestato per sfruttamento
alla prostituzione. Costui, qualche anno dopo, morì ucciso nel suo autosalone di Centocelle.
Sergetto in carcere anche lui per aver provato a sfruttare una donna.
Nell’ora d’aria li raggiungevo e camminavamo insieme.
Capii che qualcuno di loro usava droga. Come questa entrasse in carcere è facile immaginarlo; al colloquio veniva passata dai familiari, ma “non soltanto in questa maniera”.
Giornalmente dovevo portare una siringa e un piccolo involucro di carta argentata dalla
cella del Barone e quella di Scorpione o viceversa. Naturalmente non mi rifiutavo in quanto
per me erano sempre stati buoni amici.
Guancialotto un vecchio amico di Parma, si trovava al primo piano. Era rimasto tale e
quale come quando era al Lambruschini; rotondetto e tarchiato, anche se ora il suo viso
lasciava intravedere il “marchio” di chi vive in borgata e che sta sempre alla ricerca del colpo grosso.
Non so perché, ma Guancialotto e il mio amico Barone quando si incrociavano tra le
scale si guardavano in cagnesco, lanciandosi occhiate di sfide all’ultimo sangue.
E accadde nell’ora d’aria, nel momento in cui i detenuti fanno assembramento per rientrare in cella.
Vedevo un gruppetto che faceva circolo attorno a delle persone che se le stavano dando
di santa ragione. Erano Barone e Guancialotto che si stavano menando in modo tremendo.
Giacché tutti e due avevano alle spalle lezioni di pugilato prese nella palestra del proprio
quartiere, era quasi un piacere vedere i pugni dati professionalmente. Si riempirono talmente di botte che le guardie dovettero intervenire per forza, essendo passati molti minuti
dalla chiamata di rientro in cella. Si erano pestati a sangue, eppure se non fossero stati divisi
avrebbero continuato.
Er Barone fu mandato in un altro raggio. Quando fu libero iniziò la sua discesa verso gli
incubi dell’eroina. Col passare degli anni venne sempre più isolato dai suoi amici di piazza,
fino a essere costretto ad andare a vivere nell’associazione per i poveri alla Stazione Termini. Dopo poco tempo venne ucciso.
Durante la notte si sentivano spesso dei richiami che provenivano dalle celle di isolamento.
Urla, rivolte ad altri detenuti, che imploravano conforto. Urla che dicevano “non sono
stato io” e altre cose del genere. La voce, proveniente da un’altra cella, di rimando rispondeva “a infame!”.
Scoprii che questo ululante notturno era er Voto, colui che una quindicina di anni prima a
Porta Portese assieme al suo amico er Puggile, la sera, prima che entrassi nella mia cella, mi
dava la buonanotte con un paio di schiaffoni.
Una volta dovetti andare a cambiargli la lampadina sul soffitto.
Appena entrato lui fece finta di non riconoscermi, o non mi riconobbe, ma io lo rividi tale
e quale era “ai minorenni”, tondo, molliccio, ma non più con quella espressione spavalda di
un tempo. Adesso lo vedevo con l’espressione di chi è stato preso in castagna, come qualcuno che avesse fatto qualcosa di brutto lasciandosi incantare da promesse campate in aria.
Dopo un minuto che mi osservava, disse: «Ma te nun stavi a Porta Portese?».
«Sì, ci stavo» risposi senza curarlo, mentre qualcosa di acido e bollente si mescolava al
sangue del mio cervello.
Si girò andando a orinare nel bagno che era dietro un muretto nella cella.
Lo sgabello in cui ero salito per svitare la lampada rotta, era molto pesante. Avevo finito il
lavoro e rimettevo a posto la mia attrezzatura.
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Certo che per far valere le mie soppresse e traumatiche rivendicazioni, il cacciavite sarebbe stata l’arma più adatta, ma non era il caso.
Presi lo sgabello con due mani e mi avvicinai silenzioso dietro le spalle di quello che un
giorno mi faceva addormentare con le guance rosse, bollenti e doloranti.
La botta, data con tutta la rabbia e forza, lo colpì dietro la nuca facendogli sbattere la testa
contro il muro. Poi cadde a terra come un sacco di patate. Un pochino di sangue gli colava
dalla fronte.
Uscii dalla cella, dissi al superiore che avevo finito il lavoro e “mi pare che qualcuno si
senta male lì dentro”.
Fortunatamente non seppi mai nulla dell’incidente.
Anche er Voto fu ucciso dopo qualche mese di libertà.
A piano terra Marco stava sempre a letto. Tutti sapevamo che era malato, ma
l’Amministrazione non gli dava retta perché giudicavano Cavallo Pazzo, così era chiamato
Marco, un mistificatore e un crea casini.
Faceva parte del Partito Radicale ed era amico di Marco Pannella.
Cavallo Pazzo non usciva mai dalla cella perché era debole. Si sentiva sempre stanco e
deperiva giorno dopo giorno. Lui aveva spesso chiesto una visita specialistica, ma i dottori
del carcere avevano rifiutato ogni ricovero dato che non sapevano diagnosticare la sua sconosciuta malattia.
Cavallo Pazzo era un simpatico ragazzo gay. Nonostante fosse ridotto a un ossicino, per
via del mangiare schifoso e senza sostanza, per via della mancanza di medicine, per via della
sporcizia delle celle, per via della noncuranza di chi di dovere, lui sorrideva sempre. Spesso
raccontava le sue pazzie fatte in tutti i luoghi e contro chiunque. Era riuscito a prendere di
mira, facendo tiri mancini, sia politici che gente dello spettacolo. Una volta gli raccontai
cosa avevo visto qualche ora prima della morte di Pasolini, perché lui disse di conoscerlo
“molto bene”. Marco disse che immaginava che lo avrebbero ucciso se avesse fatto il film
sulla morte di Mattei. Perciò gli avevano rubato la sceneggiatura di “Petrolio”, completa
anche degli attori che avrebbero dovuto partecipare al film, mi disse che lo ricattavano anche, e per questo Pasolini pagava in silenzio. Mi disse che quando Pasolini si stancò di pagare e minacciò “i calabresi” che sarebbe andato alla polizia a denunciarli, si scavò la fossa
da solo. Marco disse anche che una sera d’estate in una casa di Fiumicino, lui presente, con
Moravia, la Morante e Pierpaolo (Pasolini), si parlò di questo fatto; Moravia ascoltava
preoccupato in silenzio, la Morante era interessata alla storia e al film in quanto vi avrebbe
preso parte insieme a lui, Marco. Moravia era contrario a dargli una mano con la sceneggiatura di Petrolio. Cercava di dissuaderlo. Diceva che andava contro troppi interessi di
Stato e di “alte” teste Dc e del Vaticano che non gliel’avrebbero perdonata se minimamente
fossero saltati fuori certi fatti e nomi sulla morte del “petroliere”. Marco disse anche che
nella sceneggiatura del film Pasolini aveva scritto la ragione per cui fu ucciso Mattei, i mandanti e gli assassini, e disse che se un giorno fosse accaduto qualcosa di grave a lui o alla sua
famiglia, la giustizia, che lo aveva sempre e tanto perseguitato, e che di certo avrebbe scartabellato tra i suoi scritti, avrebbe trovato di tutto e di più sulla morte di Mattei.
Marco disse anche che in Vaticano un alto prelato che segretamente simpatizzava per il
regista conservava l’originale sceneggiatura completa e senza tagli di Petrolio; roba scottante.
Cavallo Pazzo morì di AIDS.
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Libero, finalmente
Finalmente, dopo tanto tempo passato in carcere, grazie all’Avvocato Annaisa Garcea, riuscii ad avere la semilibertà. Libero il giorno di lavorare e di stare assieme a mia moglie e la
bambina che nel frattempo era nata. La sera rientro in carcere.
Ciò che mi premeva di più era il bisogno di mia moglie di avermi accanto. Giulia aveva
estremo bisogno di me. Doveva sentirsi amata e non usata. Doveva sentirsi protetta e non
additata. Doveva sentirsi viva e non morta. e io le donai tutto me stesso.
Parlammo spesso dei suoi anni passati in carcere, dei suoi amori, dei suoi dolori. Parlammo del nostro futuro e la speranza che finissero per sempre questi anni incatenati, questi
cuori incarcerati, questi cervelli martoriati. Questi anni tolti alla nostra giovinezza. Questi
tristi anni.
Quasi ci riuscimmo, finché... ma questa è un’altra storia.
Fine
(per adesso)
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Indice
Lettera della sorella, p. 7
Parte prima – Infanzia e prima giovinezza
Primi ricordi, p. 15
Come cani sciolti, p. 16
LA “nuova mamma”, p. 16
Tutti via, p. 17
Verso Gubbio, p. 19
A Gubbio, Istituto Santa Lucia, p. 20
Il primo Natale normale, p. 21
Ancora addio, p. 22
Rannicchiarsi in un angolo e non dare fastidio, p. 23
A papà, non so’ manco segnato, p. 26
In casa non mancava mai nulla, p. 27
Carme’, l'onorevole mi ha dato i soldi, p. 29
Uno da capo, uno da piedi, p. 32
Pane e legnate, p. 34
Vita randagia, p. 35
Capoccione, quello dei punti Cirio, p. 37
In mezzo ai mucchi della monnezza, p. 38
Ancora randagi, p. 40
Furti e pedate nel culo, p. 42
Er poraccio, ladro di prosciutti, p. 45
Ladri di polli, p. 46
Pier Paolo Pasolini, p. 47
Un anno a Maccarese, p. 49
Riciar Burto era imbriaco, p. 51
Film + Rivista + Soubrette: prezzo unico, p. 54
Il più bel posto del mondo, p. 56
Il pane quotidiano, p. 58
Un mondo fantastico, p. 58
Piaceri, p. 59
La carrozzeria del Commendatore, p. 61
A Villa Gordiani, p. 64
A Milano nel trentotto c’eri tu amore mio, p. 65
Accattoni e artisti, p. 66
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Il primo arresto, p. 68
Il triciclo, p. 70
Porta Portese, p. 72
Al campeggio, p. 77
Appendiciti all’uovo, p. 80
Yolanda, cara Yolanda, p. 81
Di nuovo a Porta Portese, p. 86
Fuori, p. 88
Addio Yolanda, p. 89
Attorno e sopra di me la pioggia, p. 91
Casal de’ Marmi, p. 98
Parte seconda – Via da Roma
Istituto Raffaele Lambruschini – Certosa. Parma, p. 107
Pino, er Killer, p. 110
Addio Pino “er Killer”, p. 113
Guarnera, giovane gay, p. 114
Visita inaspettata, p. 117
Estate, p. 118
La fuga, p. 119
Punizione, p. 125
Istitutori, p. 127
Il ritorno, p. 129
Como, p. 130
Maria del Borgo Vecchio, p. 132
Famiglia riunita, p. 133
Parte terza – Milano-Roma-Milano
Quanto sei bella Romaaaaaa, p. 139
Ettore, p. 144
Milano ’68, p. 147
Gli abitanti di Milano si chiamano Terroni, p. 150
Il giornale che è nel gabinetto, dopo averlo letto, non usatelo tutto, p. 155
Dentino, p. 158
Lezioni di furto, p. 164
Franco, grillo parlante, p. 165
Vita milanese, p. 168
Night club, p. 170
Documendi!, p. 171
Cipolla, p. 175
Ancora giù e poi su, p. 178
Il Club, p. 180
Il “Clan”, p. 187
L’oro del Cipolla, p. 189
San Vittore, p. 194
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Parte quarta – Roma
Piazza dei Mirti, p. 203
Rita, p. 209
Il bidone, p. 211
Angela, p. 211
Siete tutti degli stronzi voi uomini, p. 213
La vita andava avanti così, p. 214
Sterei, p. 217
Regina Coeli, p. 220
Rosa, p. 223
La bisca elegante, p. 224
Di nuovo dentro, p. 225
Abbi fiducia nel Signore, p. 227
Don Ciccio Coppola, p. 229
Persone importanti, p. 231
Parte quinta – Ostia
A Ostia non conoscevo nessuno, p. 235
Ciao Ernesto, buon Natale, p. 238
Tre cassette quattromila lire, p. 242
Molly, p. 244
Quanto costare cassetta?, p. 248
La fine del sogno, p. 253
Ma perché ce l’hai con me?, chiese Pasolini, p. 257
ACAFIS, p. 261
Marzo ’78, p. 265
L’amore e ancora il carcere, p. 267
Libero, finalmente, p. 275
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