Consumo meno
Noi siamo qui • Destre e scuola • Ridare
senso alla scuola • Quando piovevano bombe
• L’italiano per i nuovi italiani • È ancora
tempo di eroi? • Alberi e libri • Proposta
indecente • Da Berlinguer a Gelmini (e
Aprea) • Appuntamenti • Non sono stato
io • Bambini nell’inferno del Kurdistan
iracheno • Il titolo di studio? Non vale •
Leopardi e la scienza • Ancora secondo sesso
• Letteratura sovversiva • Un assaggio di
saggio • Ragazzi virtuali • Un vocabolario
tutto per noi • TEXT La centralità del
“quotidiano” nell’educazione
SETTEMBRE 2008
TEMA
NUOVA SERIE NUMERO 70 - SETTEMBRE 2008 (4. 2008) • Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, DCB (Como) • 5 EURO
idee per l’educazione
costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze
NUMERO 70 SETTEMBRE 2008
DVD
A
questo numero di école è
allegato il dvd tematico “Storie
di censura” che contiene Il
mostro della lacuna. Audiovisivi
e censura, a cura di Enrico Bisi
e Gabriele Barrera, e un estratto
dal documentario Jean Paul di
Francesco Uboldi, presentato
dall’autore e da Gabriele Barrera.
Redazione
via Magenta 13,
22100 Como
tel. 031.4491529
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www.ecolenet.it
Direttrice responsabile
Celeste Grossi
Vicedirettore
Andrea Bagni
Redattori
Bianca Dacomo
Annoni, Francesca
Capelli, Paolo Chiappe,
Maurizio Disoteo,
Marisa Notarnicola,
Cesare Pianciola, Andrea
Rosso, Gianpaolo Rosso,
Giovanni Spena, Filippo
Trasatti, Stefano Vitale
Collaboratori
Giovanna Alborghetti,
Monica Andreucci, Guido
Armellini, Antonella
Baldi, Marta Baiardi,
Antonia Barone, Gabriele
Barrera, Annita Benassi,
Giorgio Bini, William
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16
EDIT
Noi siamo qui • CELESTE GROSSI
PRE
Destre e scuola. Più continuità che rottura • PAOLO CHIAPPE
TEMA
CONSUMO MENO a cura di CELESTE GROSSI
Il dolce stil nuovo • CELESTE GROSSI
La semplicità volontaria • NANNI SALIO
La decrescita felice • MAURIZIO PALLANTE
Mercati sregolati e speculazioni energetiche • ANDREA DI STEFANO
Due terzi • PAOLO RIZZI
Zero waste • MARINELLA CORREGGIA
Una mappa bibliografica per il bradipo felice • A cura di FILIPPO TRASATTI
Alcuni libri per iniziare
IDEE PER L’EDUCAZIONE
17
19
20
22
23
24
24
25
26
Ridare senso alla scuola • DOMENICO CHIESA
Quando piovevano bombe • MICHELE DONEGANA
L’italiano per i nuovi italiani • PAOLO NITTI
ESTPERIENZE NARRATE È ancora tempo di eroi? • ANTONIETTA DI PAOLA
Alberi e libri • MONICA ANDREUCCI
FACCIAMO PACE Proposta indecente • CELESTE GROSSI
LE LEGGI Da Berlinguer a Gelmini (e Aprea) • CORRADO MAUCERI
Appuntamenti • LIDIA GARGIULO
NOTE IN CONDOTTA Non sono stato io • ANDREA BAGNI
28
30
Bambini nell’inferno del Kurdistan iracheno • MAURIZIO GIANNANGELI
L’ERBA DEL VICINO Il titolo di studio? Non vale • PINO PATRONCINI
32
MAPPAMONDO
DE RERUM NATURA
Leopardi e la scienza • GASPARE POLIZZI
MODI E MEDIA
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36
37
37
38
39
39
40
40
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Ancora secondo sesso • MARIA LETIZIA GROSSI
Letteratura sovversiva • FRANCESCA CAPELLI
SCRIPT Un assaggio di saggio • MARIA LETIZIA GROSSI
NAVIGO ERGO SUM Ragazzi virtuali • EDOARDO CHIANURA
Un vocabolario tutto per noi • MONICA LANFRANCO
CINEMA La zona criminale • CESARE PIANCIOLA
CINEMA Corazones de mujer • STEFANO VITALE
LIBRI Futuro incerto e “nemici appropriati” • ELISABETTA FORNI
LIBRI Il mondo è attorno a noi • GIORGIO LUZZI
HUMUS
42
48
TEXT La centralità del “quotidiano” nell’educazione • ROSALBA CONSERVA
TREND • LORENZO SANCHEZ
TEXT
Bonapace, Franco
Calvetti, Andrea Canevaro,
Minny Cavallone, Edoardo
Chianura, Angelo
Chiattella, Rosalba
Conserva, Vita Cosentino,
Marina Di Bartolomeo,
Lella Di Marco, Mauro
Doglio, Lidia Gargiulo,
Maria Letizia Grossi,
Toni Gullusci, Monica
Lanfranco, Mariateresa
Lietti, Marco Lorenzini,
Franco Lorenzoni,
Francesca Manna,
Raffaele Mantegazza,
Corrado Mauceri, Cristina
Meirelles, Alberto Melis,
Luciana Mella, Bruno
Moretto, Giorgio Nebbia,
Filippo Nibbi, Enrico
Norelli, Laura Operti,
Carlo Ottino, Giuseppe
Panella, Pino Patroncini,
Vito Pileggi, Nevia
Plavsic, Rinaldo Rizzi,
Marcello Sala, Nanni
Salio, Antonia Sani,
Cosimo Scarinzi, Maria
Antonietta Selvaggio,
Angelo Semeraro,
Scipione Semeraro, Rezio
Sisini, Monica Specchia,
Marcello Vigli
Grafica e impaginazione
Natura e comunicazione
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(Andrea Rosso con Marco
Bracchi)
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Bianca Dacomo Annoni
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Rosso, Filippo Trasatti
(presidente), Stefano
Vitale
costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze
edit
Noi siamo qui
CELESTE GROSSI
I
l connubio pericoloso di autoritarismo e liberismo del governo Berlusconi
contrasta con la nostra idea di conoscenza come bene comune.
Altro che sapere libero e gratuito! Altro che scuola spazio pubblico dove la
società educa se stessa!
I dati già allarmanti per la scolarizzazione in Italia (numero di diplomati 69 per cento contro il 73 per cento della Germania, il 77 per cento della Gran Bretagna, l’80 per cento della Francia, l’81 per cento del Belgio e
della Grecia, l’84 per cento dell’Irlanda, l’86 per cento della Finlandia) non
potranno che peggiorare in una scuola che si fa ancora più povera per i
suoi cittadini e le sue cittadine più deboli (gli immigrati e le immigrate,
ma non solo).
Intanto impazza la campagna di denigrazione dei lavoratori e delle lavoratrici del pubblico impiego, docenti di scuola e università compresi.
Care e cari “fannulloni” ora noi siamo qui.
Ordine e disciplina.
Militari per le strade.
Divise anche a scuola.
Voto di condotta che pesa per la promozione.
Numeri al posto dei giudizi di valutazione.
Consigli d’istituto trasformati in tribunali con il compito di accertare comportamenti penalmente rilevanti degli studenti.
Assunzione diretta del personale da parte dei dirigenti scolastici.
Incentivazione per gli insegnanti che “giurano” fedeltà alla scuola.
Scuole e università trasformate in fondazioni private.
Concorrenza tra scuole e concorrenza tra atenei.
Ripristino del doppio canale (istruzione/ avviamento al lavoro) e della scelta precoce.
Espletamento dell’obbligo d’istruzione anche nei corsi di formazione professionale.
Scuola al servizio della competizione economica (secondo le direttive del Trattato di Lisbona,
voluto dall’Ert, la tavola rotonda degli industriali europei, e approvato dal Parlamento durante l’estate).
Precarizzazione della ricerca e delle vite dentro scuole e atenei.
Professori più anziani del resto degli occupati italiani.
Malattie brevi sanzionate economicamente.
Malati agli arresti domiciliari.
Insegnanti malpagati.
Tagli di posti (nei prossimi tre anni 100.000 insegnanti e 43.000 Ata in meno ha deciso
Tremonti con l’articolo 70 della Finanziaria) e di soldi.
Meno insegnanti per più alunni.
Soppressioni di classi.
Classi sempre più numerose.
Aule sovraffollate e pericolose.
Mezzo miliardo di euro in meno per il fondo di finanziamento ordinario delle università.
Limitazione al 20 per cento del turn-over per gli anni 2009-2011 dei docenti universitari.
Centinaia di milioni di euro alle scuole private.
Scomparsa del tempo pieno.
Diminuzione dei docenti di sostegno per alunni e alunne disabili.
Alienazione dei beni immobili pubblici a favore di enti privati.
Saperi frammentati in atomi di conoscenza.
Corsi di laurea a numero chiuso.
Autogoverno delle scuole inteso come disciplinamento per legge.
Più potere ai dirigenti scolastici.
Proposta di riforma ultrafederalista da parte di Ugo Bossi.
Realizzazione della schedatura dei bambini e delle bambine rom da parte di Roberto Maroni.
pre
Non esiste un programma compatto delle destre sulla
scuola, come esisteva nel 1923 (espellere la piccola
borghesia dagli indirizzi per la classe dirigente). C’è una
costellazione quasi postmoderna di tendenze e perfino di
umori che si riassumono in alcuni filoni contraddittori
Destre e scuola,
più continuità che rottura
PAOLO CHIAPPE
I
l primo è quello del liberismo familista e
quindi del buono scuola, che intende l’educazione come investimento privato delle famiglie considerate come utenti-clienti omogenei al loro interno. In linea di principio
affida al mercato la selezione delle scuole e
non ha pregiudizi di contenuti e metodi, anzi
ammette una polifonia di orientamenti (anche se il mercato alla lunga in realtà è una
grande forza omologatrice e standardizzante). Questo liberismo scolastico che andava
forte qualche anno fa ora è un po’ in declino
anche tra le destre per la crisi morale ed economica delle famiglie della classe media in
tutto l’occidente.
L’altro filone è quello fortemente governativo della scuola disciplinante e dei sani valori
dio-famiglia-patria (Italia come perno e perla dello sciovinismo panoccidentale) quindi ovviamente concordatario. È quello che
esprime nel modo più diretto la tradizionale diffidenza di destra verso il ragionamento complesso e verso il principio di libertà
nell’educazione e fa a pugni con la democrazia ma anche con la concezione liberista dell’utente-cliente.
Il terzo filone è quello federalista, un enigma o meglio un grande vuoto da riempire
per quanto riguarda i contenuti, anche perché non esiste abbastanza un qualcosa che
si possa definire come mercati del lavoro regionali, anche se l’idea federalista è chiara
école numero 70 pagina
4
come progetto di moltiplicazione dei posti di
comando e dei centri di spesa.
Nella pratica le varie tendenze delle destre
trovano una convergenza grazie ad alcuni
elementi di senso comune a loro tutte.
Il primo è il principio gerarchico nelle sue
varie sfaccettature ma principalmente quella
della sottomissione degli insegnanti ai dirigenti, con smantellamento dei residui di garanzie legali della autonomia professionale
dei primi.
Il secondo è l’idea antiutopica e tranquillizzante nella sua ovvietà di un sistema il più
possibile a canne d’organo, con indirizzi di
serie A, B, C e differenziazione precoce dei
percorsi.
Il terzo è quello dei tagli alla spesa per la
scuola che però credo sia più una condizione
necessaria per attuare una politica fiscale generale che un obiettivo in sé per le destre.
Il quarto è la riaffermazione dell’autonomia
degli istituti vista come strumento ideale per
spostare verso il basso il livello delle decisioni impopolari e scomode conseguenti ai tagli, da un lato, e dall’altro e soprattutto per
creare una linea diretta di comando ministrodirigenti d’istituto-insegnanti.
A parte le evidenti differenze di stile e di
linguaggio mi pare che per ora prevalgano
gli elementi di continuità e sviluppo rispetto alla fase di centro sinistra di creazione
di questa scuola dell’autonomia, che la de-
stra si è per così dire ritrovata su un piatto
d’argento.
È possibile naturalmente che nella scuola
come in tutto il resto della società il berlusconismo risulti alla fine essere stato nient’altro che la fase di passaggio a un ben più
definito regime politico autoritario, del quale però non è possibile prevedere le caratteristiche.
Per ora un grande elemento comune a questa scuola delle destre e a quella precedente del periodo bassaniniano-berlinguerianofioroniano è anche il ragionare sempre sulla
forma del contenitore e l’assenza o la superficialità del discorso culturale e politico sui
contenuti.
Forse allora il terreno per una rinascita delle
forze democratiche è l’elaborazione dal basso
e dall’altro di una visione formativa soprattutto per la difficile età 11-16 che esca dalle secche dell’enciclopedismo e della subalternità
ai modelli accademici ridotti in pillole e crei
però un rapporto tra sperimentazione educativa e ricerca scientifica. La capacità di mettere
insieme il tema della serietà dello studio della democrazia e dell’innovazione. La questione
della serietà dello studio è infatti ben reale e
se il contesto politico non va in una direzione
catastrofica prima o poi dovrebbe cominciare
ad essere evidente che a tale questione la destra, le destre non sono in grado di offrire che
risposte parodistiche o burocratiche.
TEMA
CONSUMO MENO
A CURA DI CELESTE GROSSI
Il dolce stil nuovo
«La nostra civiltà ha bisogno di “disarmare” e di “digiunare” altrimenti rompe ogni
equilibrio ed impedisce ogni possibile giustizia e sviluppo durevole. Il pretenzioso
motto del “citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte) che contiene la
quintessenza della nostra cultura della competizione, dovrà urgentemente convertirsi in
un più modesto, ma più vitale, “lentius, suavius, profundis” (più lento, più dolce, più in
profondità)».
[Alexander Langer]
L’
aumento dell’inquinamento e dei rifiuti mette in discussione i cicli naturali. Ma
sembra che tutte e tutti, e soprattutto la maggior parte degli economisti e dei politici,
fatichiamo ad accettare l’idea che la materia e l’energia in natura si trasformino e che
“nulla si crea e nulla si distrugge”. Questa scoperta antica non riesce ancora a penetrare nelle menti dei potenti del mondo che continuano a prospettare un modello di crescita infinita, l’uso degli inceneritori per eliminare i rifiuti, l’uso di energie non rinnovabili.
Anzi si torna prepotentemente a propagandare l’utilizzo dell’energia nucleare come soluzione dei problemi energetici, dimenticando che il nucleare, nato militare, mai sarà pienamente civile.
Il biologo ambientalista Gianni Tamino che da anni interviene per criticare, da scienziato,
il paradigma riduzionista della scienza, afferma che ancora oggi nella nostra cultura «c’è
l’idea che i processi siano deterministici e determinabili, ma non è vero. Allora che cosa
dobbiamo rovesciare? Se vogliamo agire in una società complicata, che opera in un mondo biologico complesso, dobbiamo privilegiare le relazioni, la conoscenza della complessità e cercare di rispettarla. Tutti danno per scontato che dobbiamo produrre sempre di
più, crescere sempre di più, senza mai domandarsi se questa produzione sia compatibile
con le relazioni naturali del nostro pianeta. Non è così, in natura la produzione naturale,
l’insieme di tutti gli organismi viventi e di tutte le molecole di cui sono fatti è enormemente maggiore e più complessa di tutta la produzione che, a livello industriale, fa la società umana. Ma qual è la logica della produzione naturale? La produzione naturale si basa
sull’utilizzo di energia solare, sul riciclo, mediante le relazioni degli organismi viventi. Se
la materia non venisse continuamente riciclata si accumulerebbero rifiuti e inquinamento,
e non ci sarebbe più vita». E Maurizio Pallante nel suo Discorso sulla decrescita. Manifesto
per una felice sobrietà (Luca Sossella Editore, 2007), si pone e ci pone domande di apparente semplicità: «Vive felicemente chi vive in una società che si propone di produrre
sempre maggiori quantità di merci, anche se non sono beni, e sacrifica a questo obiettivo
la qualità dell’aria, delle acque e dei suoli? Non vive più felicemente chi vive in una società che antepone il bene della qualità ambientale alla crescita della produzione di merci
che non sono beni? L’annullamento della distinzione tra il concetto di bene e il concetto
di merce è il fondamento su cui si basa il paradigma culturale della crescita. Se i beni si
identificano con le merci, la crescita della produzione di merci comporta per definizione
un aumento della disponibilità di beni e, quindi, un aumento del benessere. Il passaggio
preliminare da compiere per costruire il paradigma culturale della decrescita è ripristinare
questa distinzione. Altrimenti la decrescita si identifica con la rinuncia, con una riduzione
del benessere, con un ritorno al passato».
Tolstoj nel 1904, sei anni prima di morire, scrisse alcuni racconti, uno di questi si intitola
Ha bisogno di molta terra l’uomo? La risposta dell’autore sta nella narrazione della storia
di un uomo che pattuì l’acquisto per un certo prezzo di tutta la terra che fosse riuscito a
percorrere in un giorno di cammino. Comincia a camminare, corre, perché più ne percorre più sa che ne potrà avere, arriva il crepuscolo, la notte, cammina ancora, arriva a un
bosco, lo supera, ma, per la fatica fisica, a un certo punto, muore. La felicità non è certo
morire per ingordigia.
Da allora sono passati cent’anni e il messaggio di Tolstoj è più attuale che mai.
Cosa possiamo fare? Educarci ed educare a cambiare stile di vita. Ed essere felici.
école numero 70 pagina
5
La semplicità volontaria Il mondo che si prospetta nei
prossimi decenni sarà molto diverso da quello che conosciamo.
Potrebbe essere peggiore,
ma potrebbe anche essere
migliore, dipende da noi,
dalle scelte che faremo. Il
tema ambientale oggi si
coniuga strettamente con
la questione della pace su
larga scala. È urgente, ma
possibile, cercare alternative
concrete all’attuale stile di
vita occidentale per non
cadere nelle dinamiche della
violenza distruttiva
NANNI SALIO *
N
ell’estate 2007 sono stato in Ladackh,
che qualcuno chiama il Little Tibet (Tibet
esterno). È possibile aggiungere questa regione percorrendo a scelta due strade oppure in aereo direttamente dalla capitale Leh.
Il Ladakh è noto storicamente, o lo era fino
a qualche tempo fa, come modello di società
nonviolenta, un modello di economia frugale.
L’altezza minima delle valli è di 3.500 metri:
a quella quota l’inverno è lungo e le temperature raggiungono i 30 gradi sotto zero, è
possibile coltivare solo durante i mesi estivi.
Oggi anche il Ladakh è investito dai cambiamenti prodotti dalla globalizzazione, ma nei
villaggi più remoti si continua a condurre una
vita frugale e felice. È paradossale: noi abbiamo moltissimi beni a disposizione e non siamo sufficientemente felici, le popolazioni del
Ladakh sono estremamente povere, al limite
della miseria, ma hanno costantemente il sorriso sulle labbra. Evidentemente lì il sistema
di relazioni interpersonali è molto più armonioso del nostro.
A proposito del nesso tra pace economia e
ambiente, consiglio di vedere il film di Al Gore
(An Inconvenient Truth, Davis Guggenheim,
2006) e di commentarlo criticamente. Al Gore
è stato insignito del Premio Nobel per la pace
proprio perché il tema ambientale oggi si coniuga strettamente con la questione della
pace su larga scala.
école numero 70 pagina
6
Spesso ci sfugge la faccia nascosta dell’economia. Molti per esempio non sanno che l’accordo che la Fiat ha stipulato con una grande
multinazionale indiana, la Tata, ha portato a
conseguenze disastrose nel Bengala, con situazioni di repressione e violenza enormi. La
vicenda, non sufficientemente nota, che si è
svolta e continua a svolgersi nell’India del
Nord, nel Bengala Occidentale, ci interroga o
per lo meno dovrebbe interrogarci. In India
non si parla di guerra vera e propria, anche
se in realtà si verificano episodi paragonabili ad un conflitto contro le popolazioni più
povere.
E si potrebbe continuare a parlare degli
aspetti negativi, che sono tantissimi: violenze, guerre indotte, create dal sistema di relazioni economiche in cui siamo inseriti e di cui
spesso non ci rendiamo conto, né noi adulti,
né tanto meno i nostri giovani studenti.
Per inquadrare il problema vi propongo uno
schema molto generale, che risale agli inizi
degli anni Settanta e che ci aiuta a capire
qual è l’impatto del nostro stile di vita e del
nostro sistema economico sull’intero pianeta,
un’influenza enorme cresciuta in maniera
esponenziale nel corso dell’ultimo mezzo secolo.
I=PxAxT. Queste tre variabili sono fondamentali per cercare d’inquadrare il problema dell’impatto (I).
P è la popolazione, se crescono gli abitanti aumentano complessivamente i bisogni da
soddisfare di tutti i tipi: istruzione, lavoro,
consumi (vale anche per popolazioni molto
povere). La popolazione è cresciuta esponenzialmente: un paese come l’India all’inizio del
secolo scorso aveva un terzo della popolazione
attuale, significa 300-400 milioni di persone
contro un miliardo e cento milioni all’incirca
odierni, con tutti i problemi che questo comporta. È importante iniziare da qui. L’India è il
paese emergente per eccellenza, insieme alla
Cina, noi stiamo esportando in questi paesi,
anzi lo abbiamo già esportato, il nostro modello economico, il nostro stile di vita e ne
siamo responsabili. Il secondo fattore A, sta
per affluence, possiamo tradurre liberamente, non solo come affluenza, nel senso di benessere, di quantità di beni, ma come stile di
vita, quantità di beni e servizi pro capite, che
sono cresciuti enormemente. Se si chiede agli
anziani qual era lo stile di vita nei nostri paesi alcuni decenni fa ci si rende conto che era
molto diverso da quello odierno.
Il terzo fattore T è il fattore tecnologico. Per
produrre beni, servizi o tutto ciò di cui abbiamo bisogno occorre energia. Occorrono delle tecnologie. La tecnologia è il motore dominante di tutta l’attività economica odierna
individuale e collettiva. In soli due decenni è
esplosa la produzione dei cellulari e dei com-
se disponibili. Come è possibile? Il terreno
è disponibile in una quantità definita, come
possiamo usarne di più? È come se impiegassimo un terzo di pianeta in più, se andiamo
avanti in questo modo nei prossimi decenni
avremo bisogno di 2-3 pianeti. Com’è possibile? Stiamo depauperando il capitale naturale,
stiamo distruggendo in maniera crescente le
foreste e tutte le risorse non rinnovabili.
puter portatili, che oggi molti considerano indispensabili, ma che fino a vent’anni fa non
esistevano. La crescita dei consumi energetici, necessari al fattore tecnologico provoca
un impatto ambientale tale che il fattore I,
l’impatto appunto, è cresciuto enormemente
e oggi siamo in una condizione di non sostenibilità.
L’impronta ecologica
Vediamo allora qualche altro dato per cercare di capire in che cosa consiste questo impatto.
Un primo indicatore è l’impronta ecologica.
Introdotta nel 1996 da Mathis Wackernagel e
William Rees, è stata negli ultimi tempi riproposta con alcuni aggiornamenti. L’impronta
ecologica indica la quantità di terra, in senso
lato, sia la terra emersa sia le acque, che ciascuno di noi utilizza per produrre i beni che
consuma e per assorbire i rifiuti corrispondenti, dovuti principalmente alla tecnologia.
Sono delle stime in ettari pro capite, che danno l’idea della diversità enorme tra paesi più
ricchi e paesi che consideriamo poveri o, con
una parola non del tutto appropriata, in via di
sviluppo. Gli Stati Uniti sono in testa, come
sempre nei consumi, il modello dello stile di
vita statunitense è per eccellenza il più negativo, 10 ettari pro capite, l’Italia viene al
terzo posto, dopo la Germania. A distanza si
collocano la Cina e l’India le loro impronte
sono molto al di sotto della nostra.
Il Mondo nel suo complesso consuma all’incirca il 2,2 per cento delle risorse disponibili, mentre sarebbe disponibile solo l’1,8 per
cento. Abbiamo superato la quantità di risor-
L’allarme ambientale
Questo modo di comportarci porta ad un’altra
conseguenza negativa, i cambiamenti climatici dovuti all’aumento della concentrazione
nell’aria di gas climalteranti. Queste emissioni sono costituite da numerosi gas, chiamati
gas serra. Possiamo prendere l’anidride carbonica come indicatore per eccellenza. Ancora
una volta sono da notare le disparità tra il
modello economico e il comportamento individuale negli Stati Uniti, in Italia, in Cina, in
India e nel Mondo. Per portare le emissioni ad
un valore sostenibile la popolazione dell’intero pianeta dovrebbe scendere ad una tonnellata di gas serra prodotti pro capite, siamo
molto al di sotto dei dati attuali. Gli allarmi sono moltissimi. Al momento la resistenza
maggiore alla riduzione delle emissioni proviene dal mondo economico, per diverse ragioni, non sufficientemente motivate. La motivazione principale è che la trasformazione
da questo modello ad un altro più sostenibile
intacca i privilegi delle grandi multinazionali
energetiche, che utilizzano da tempo combustibili fossili, in primis il petrolio, poi il gas
e infine il carbone. Proprio in questi giorni
abbiamo raggiunto il picco di produzione del
petrolio. Il mondo che si prospetta, in particolare ai giovani, per il futuro nei prossimi
decenni sarà molto diverso da quello che conosciamo. Potrebbe essere peggiore, ma potrebbe anche essere migliore, dipende da noi,
dalle scelte che faremo. Stiamo cercando di
esplorare le strade migliori, non quelle peggiori. Il petrolio è una risorsa che la natura,
in senso lato, ci ha messo a disposizione e ha
una versatilità, dal punto di vista delle applicazioni energetiche, che non ha pari quasi
con altre fonti. Siamo in una sorta di impasse, di imbuto energetico dal quale fatichiamo enormemente ad uscire. Immaginatevi un
mondo in cui i trasporti non funzionino più a
petrolio, né altri derivati simili, perché il petrolio non è facilmente sostituibile, non dobbiamo illuderci che i biocombustibili possano
svolgere questa funzione.
La ricchezza a forma d’imbuto
La distribuzione della ricchezza nel mondo
può essere visualizzata come una specie di
imbuto. Noi apparteniamo alla fascia più ricca, quella che contiene la maggior parte delle ricchezze, intorno all’80-85 per cento, poi
c’è una fascia intermedia che ha a disposizione una ricchezza variabile e infine una fascia
molto povera. Bisogna distinguere tra povertà e miseria. La povertà, anche se il termine viene usato con altri significati, fa paura
a molti, ma in realtà può rappresentare una
scelta personale dignitosa, si può vivere con
molto poco in maniera decorosa e felice. La
miseria è un’altra cosa. È sofferenza, sofferenza estrema, difficile da capire. Noi viviamo in una condizione di agiatezza, tutto ciò
di cui abbiamo bisogno è grossomodo disponibile. Esistono molte disparità anche all’interno dei nostri paesi, ma non esistono la
povertà e la miseria estreme, come nel caso
dei paesi dove la diseguaglianza è eclatante.
Dehli, in India, per esempio, è una grande
città, è stata da poco costruita una incredibile metropolitana ma migliaia, decine di migliaia di persone, donne, bambini vivono per
strada senza avere letteralmente nulla.
Il Pil ci rende infelici
Provo a indicare una traccia possibile di messaggio positivo. Un altro schema di riflessione è stato elaborato anni fa da alcuni studiosi, provenienti dal Sud-est asiatico. La
quantità di beni che abbiamo a disposizione
viene collocata sull’asse delle ascisse e corrisponde con l’uso di risorse rinnovabili, cioè
con il livello di consumo sostanziale, in ordine crescente. Sull’asse delle ordinate viene inserito il grado di benessere o di soddisfacimento derivante dall’uso di determinati
beni, se volessimo usare una parola impegnativa potremmo dire il livello di felicità.
L’unico dato che viene normalmente preso in
considerazione nei nostri modelli economici è
il Pil, prodotto interno lordo. Secondo il modello dominante questo dato, che comprende
tutti i beni e i servizi prodotti in un paese,
deve costantemente crescere e se non aumenta almeno del 3 per cento siamo in una fase
di stagnazione o addirittura di regressione.
Ma non c’è più corrispondenza tra la crescita
del Pil e il grado di felicità. Oltre una certa
soglia i beni che noi utilizziamo non creano
più benessere, soddisfazione, felicità, ma determinano una forma di malessere.
La scelta che si presenta di fronte a noi, quindi, non è di rinuncia, ma è fondamentale per
stare meglio, per fare in modo che le nostre
relazioni umane siano migliori. Il modello
economico dominante attuale non garantisce
più un miglioramento delle relazioni umane,
anzi porta al disagio di vivere, presente anche e soprattutto nelle fasce giovanili, che
percepiscono spesso l’assurdità, l’inutilità, il
vuoto insito in un certo modo di vivere, ma
non sono in grado di dare una vera e propria risposta. In Tempi moderni Chaplin sottolineava l’esistenza di un meccanismo che ci
tritura, ci distrugge, ci rende individualisti,
ci fa perdere la capacità di essere solidali, di
creare empatia tra di noi, di vivere una vita
con un significato profondo. Il messaggio di
Chaplin è estremamente attuale, per questo
è necessario fare una scelta di semplicità volontaria, che ci aiuti a vivere meglio e invertire una tendenza autodistruttiva.
* Facoltà di Fisica dell’Università di Torino, segretario dell’Ipri (Italian peace research institute),
fondatore e presidente del Centro studi “Domenico
Sereno Regis”, Torino.
école numero 70 pagina
7
La decrescita felice Quando si parla
di decrescita vengono evocati criteri di
carattere morale o moralistico: rinuncia,
austerità, conservatorismo. La decrescita è
vista come un modo per cambiare il “segno
più” davanti al prodotto interno lordo e
farlo diventare un “meno”. Invece essa
implica una svolta culturale: innovazione
tecnologica, sobrietà e autoproduzione
come stile di vita, politiche incentivanti
dei comportamenti virtuosi
MAURIZIO PALLANTE*
F
ino a poco tempo fa la parola “decrescita” non era presente nei vocabolari, sui giornali era sostituita con la locuzione “crescita
negativa”. Un’espressione che era una contraddizione in termini, come se dicessimo ad
un vecchietto di novant’anni che ha una “gioventù negativa”. Ora la parola decrescita è accettata, e si è cominciato a riflettere.
Ci sono modi diversi di intendere la decrescita
e questo aspetto di “biodiversità culturale” è
sicuramente un elemento di ricchezza.
mano più di sette litri al metro quadrato l’anno. Questo significa che tredici litri di gasolio
al metro quadrato l’anno vengono sprecati, si
disperdono, a causa della cattiva coibentazione degli edifici e degli infissi. Una casa che
consuma venti litri fa crescere il prodotto interno lordo più di una casa che ne consuma
sette, i tredici litri in più sono sicuramente
una merce ma non sono un bene, anzi sono
uno spreco, le case migliori arrivano a consumare un litro e mezzo.
Beni o merci?
La prima fondamentale riflessione sulla decrescita è la distinzione tra beni e merci, due
concetti su cui si fa confusione regolarmente.
Si dice che il Pil misura la quantità dei beni
che vengono prodotti, ma il Pil non misura
i beni, misura le merci. Le merci sono degli
oggetti o dei servizi che vengono scambiati
per denaro. La seconda confusione che viene
fatta è l’identificazione del concetto di bene
col concetto di merce quando invece sono due
concetti non soltanto diversi, spesso anche
conflittuali. Esistono delle merci che non sono
beni e dei beni che non sono merci.
La decrescita è la diminuzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni.
Se smettiamo di consumare delle cose che non
sono un bene, non rinunciamo a nulla, quindi
il concetto di rinuncia non c’entra.
Per chiarire la differenza tra bene e merce farò
un esempio specifico: l’energia. Mediamente
in Italia per riscaldare gli edifici si consumano ogni anno venti litri di gasolio o venti metri cubi di metano al metro quadrato. Alcuni
comuni italiani in Alto Adige (e in Germania)
non consentono di costruire edifici che consu-
Vivere meglio, consumando meno
Voglio quindi mettere accanto al termine “decrescita” l’aggettivo “felice”. Spesso si usano altri aggettivi per definire la decrescita,
si parla di decrescita sostenibile, conviviale,
pacifica, ma a me sembra che l’aggettivo felice indichi una connotazione intrinseca della decrescita.
Perché dico questo? Perché la fisiologia umana è fatta in maniera tale che noi scambiamo
il 70 per cento dell’energia termica, che produciamo col metabolismo, per irraggiamento
con le pareti e il 30 per cento con l’aria nella
stanza. Per cui se si sta in una stanza con le
pareti calde, anche se la temperatura dell’aria
è più fredda si sta meglio che in una stanza in
cui la temperatura è più alta e le pareti sono
fredde. Una casa che consuma sette litri, e a
maggior ragione una casa che ne consuma uno
e mezzo, ha le pareti calde perché non c’è dispersione nei confronti dell’esterno. Una casa
che ne consuma venti, anche se ha una temperatura interna più alta, ha le pareti fredde
perché c’è dispersione nei confronti dell’esterno. Quindi la decrescita come diminuzione di
produzione e consumo di gasolio o di gas per
école numero 70 pagina
8
il riscaldamento è intrinsecamente felice perché le case in cui si consuma di meno sono le
case in cui si vive meglio. Il benessere che se
ne ricava, questa maggiore felicità, non è soltanto un fatto soggettivo, ma è anche un fatto oggettivo. Se, infatti, le case consumano
sette litri anziché venti, o ne consumano uno
e mezzo sono case che immettono meno anidride carbonica nell’atmosfera e quindi sono
meno “climalteranti” e meno impattanti sull’effetto serra.
La colpa è nostra, abbiamo fatto la passata
Come ci sono delle merci che non sono beni,
e quindi la loro diminuzione comporta un aumento di felicità e di benessere, ci sono beni
che non sono merci. Sono tutti gli oggetti, i
beni, i servizi che non vengono scambiati per
denaro, ma che vengono prodotti per se stessi
o vengono scambiati per amore.
Chi ha un orto familiare produce della frutta e
della verdura, se la produce non la va a comprare, se non la compra fa diminuire la domanda di frutta e verdura, quindi ogni orto
familiare implica una diminuzione del Pil, una
decrescita. Qualche settimana fa mi ha telefonato un caro amico dalla Puglia, un ingegnere
che si occupa di energie alternative e mi ha
detto: Maurizio se domani leggi sul giornale che è diminuito il Pil, sappi che la colpa è
nostra, abbiamo fatto la passata di pomodoro. Nessuno può pensare che un bene autoprodotto o un servizio scambiato per amore
siano peggiori del bene equivalente comprato
o del servizio acquistato o fornito dallo stato.
Chi ha un orto familiare fa decrescere il Pil,
ma mangia delle cose più sane, aumentando
il suo benessere. Anche questo è un elemento
di felicità e, come nel caso precedente, non
si tratta soltanto di una felicità individuale,
ma anche di una felicità collettiva, perché chi
produce le cose per se stesso non usa concimi
chimici velenosi e quindi riduce l’impatto sul
suolo dell’agricoltura e contribuisce al benessere collettivo.
Il tempo è merce
Lo stesso discorso a maggior ragione vale per
i servizi. Tutti i servizi alla persona che venivano forniti per amore all’interno della famiglia, soprattutto nelle fasi della vita in cui gli
individui sono più fragili e deboli, i bambini
dai tre mesi in su e gli anziani, vengono ora
acquistati e tutto questo fa crescere il Pil, ma
certamente non la felicità né dei bambini né
degli anziani, né dei loro familiari.
Oggi non si fa più nulla di tutto ciò per amore,
perché non si ha tempo di farlo. Perché non
si ha tempo? Perché si va a lavorare. Perché
si va a lavorare? Per aver i soldi per comprare i servizi che non si ha più tempo di fare
per amore.
La comprensione e la critica di questo meccanismo costruisce un paradigma culturale nuovo rispetto a quello che ha governato il mondo occidentale da due secoli e mezzo a questa
parte. Un’operazione difficile, che molti fanno
fatica a capire. Però se si parte da questa idea,
tanti concetti che ci sembrano ovvi si smon-
tano, per esempio il concetto di ricchezza e
povertà, che si misura col denaro in un’economia che mercifica tutto e che sostituisce i
beni con le merci.
Anche le persone di buona volontà dicono che
la povertà di un popolo è presente quando si
ha un reddito monetario inferiore ai due dollari al giorno, cioè utilizzano un criterio monetario che è quello della mercificazione. Perché
i soldi sono la misura di ricchezza soltanto se
tutto si deve comprare, quando le cose si autoproducono non sono più questi alla base del
concetto di ricchezza.
Decrescita e conservatori
Occorre smontare il concetto di valore dell’innovazione. Tutti pensiamo che una cosa innovativa sia migliore, invece questo è un concetto che rientra nella logica della crescita.
L’innovazione è un valore soltanto se l’economia deve crescere, soltanto se il Pil deve
crescere, perché se io ho questo orologio e
ne esce uno più nuovo, innovativo e migliore,
cosa faccio, io butto quello vecchio e compro
quello innovativo.
C’è tutta un’operazione che è stata fatta dall’arte contemporanea, dalla pubblicità, dai
giornali per pubblicizzare il concetto di innovazione. I più grandi sostenitori dell’innovazione sono gli industriali. Accettare il concetto di innovazione come miglioramento
significa agire come cavallo di Troia di interessi di altri. Tutto il movimento operaio ha
agito come cavallo di Troia per l’innovazione
e per il progresso. Chi parla di decrescita è un
conservatore. Se non si ha la capacità di dire
che sono migliori le cose vecchie ci si consegna “mani e piedi” alla logica della crescita.
Per i sostenitori della decrescita le cose vanno
valutate in base alla loro capacità di “futuro”,
non in base al loro essere più o meno innovative. La cascina nel Monferrato in cui vivo
non ha bisogno di riscaldamento anche con
venti gradi sotto zero. Non è innovativa, è
solo costruita in modo tradizionale. Tutta l’architettura del Novecento, in nome della modernità, dell’innovazione e del progresso ha
distrutto quel metodo. Le case si riscaldano
e si raffreddano con delle protesi energetiche
e sono diventate uno degli elementi più gravi di impatto ambientale. Le case vecchie, costruite prima degli anni Cinquanta, sono case
che hanno capacità di futuro molto superiori
alle case nuove.
Le tre zampe
In che maniera si deve agire? Alle persone
che parlano di decrescita senza praticarla nella propria vita non si può credere, perché se
porti un’idea di questa portata esistenziale e
non fai niente in quella direzione vuol dire
che non ci credi neanche tu.
La decrescita è come uno sgabello con tre
zampe, se manca una di queste zampe il discorso non sta in piedi. Una zampa è la tecnologia, quelli che parlano di decrescita vengono
tacciati di essere persone anti-tecnologiche,
ma non è vero. Le innovazioni tecnologiche
della crescita sono finalizzate ad aumentare
la produttività, aumentando la produttività si
provoca un aumento progressivo di risorse, un
uso di tecnologie che hanno un forte impatto ambientale e la crescita della quantità di
rifiuti. L’innovazione tecnologica della decrescita invece, per ogni unità di prodotto che
viene fatto, per ogni servizio fornito, è finalizzata alla diminuzione di energia per produrli, di materie prime necessarie per produrli, di
quantità di rifiuti nel momento della produzione e nel momento in cui gli oggetti vengono dismessi. Quindi, una casa che consuma
sette litri contiene più tecnologie di una casa
che ne consuma venti.
Il secondo punto sono gli stili di vita: è qui
che bisogna fare scelte che favoriscano una
maggiore felicità.
Se si bussa al finestrino delle persone che
stanno in macchina lungo la tangenziale la
mattina alle 7.30 e si chiede «ma tu che fai?»,
risponderanno «vado a lavorare». Vanno a lavorare per avere i soldi con cui comprare la
macchina, è un meccanismo assurdo. Allora
cominciamo a fare delle scelte che riguardino la nostra felicità e queste scelte si basano
su tre elementi: la sobrietà, intesa come uso
responsabile delle risorse e riduzione dell’impronta ecologica, la maggiore autoproduzione
di beni e servizi possibile, la riscoperta di forme di scambio non mediate dal denaro, basate
sul dono e sul controdono.
Terza zampa dello sgabello è la politica, perché non si possono ottenere dei risultati significativi se non si interviene anche a livello
politico. Se c’è una famiglia che, come scelta
di vita, vuole vivere in una casa che consuma poco e ci sono delle aziende che hanno
delle tecnologie per costruire o ristrutturare
le case in maniera che consumino poco è necessario che ci siano degli incentivi da parte
degli enti pubblici, per esempio dei comuni.
Servirebbero regolamenti edilizi che impedissero la costruzione di case che consumano più
di sette litri per metro quadrato all’anno. Ci
sono scelte collettive che devono andare nella
direzione della decrescita. Sono le uniche che
poi consentono di fare in modo che il meccanismo della domanda e dell’offerta di chi si
vuole comportare bene e di chi ha le tecnologie non sia affidato al caso ma trovi dei canali
che favoriscono questo tipo di scambio.
Autoconsumo energetico
La politica italiana è fallita sulle questioni
energetiche, perché ha posto l’accento sullo sviluppo delle fonti rinnovabili e non sulla
riduzione dei consumi. Parlare dello sviluppo
delle fonti rinnovabili significa fare il discorso dello sviluppo sostenibile. Non si mette in
discussione il fatto che la domanda cresca e
si cerca di sostituire delle tecnologie più impattanti con delle tecnologie meno impattanti. Ridurre i consumi significa porsi nell’ottica
della decrescita. Una piccola cosa che sta andando avanti è una richiesta di una ristrutturazione energetica dei paesi della Val di Susa,
in risposta al progetto della Tav, conseguenza della globalizzazione, cioè dell’allontanamento tra luoghi di produzione e luoghi di
MOVIMENTO PER
LA DECRESCITA
FELICE
«Chi crede che sia possibile una crescita
infinita in un mondo finito è un pazzo
o un economista.» [Kennet Boulding,
economista pentito].
Associazione movimento per
la decrescita felice. Segreteria
organizzativa: Carlo Franceschelli,
via Fantinoli 50, 00047 Marino (Rm),
tel. 06.93896741, fax 04220247164,
cellulare 340.8325385,
[email protected],
www.decrescitafelice.it
consumo, l’alternativa è lo sviluppo di economie autocentrante e la valorizzazione delle risorse locali. Il progetto prevede tre momenti. Il primo è la diagnosi energetica degli
edifici dei comuni della valle finalizzata a una
ristrutturazione che preveda un riduzione dei
consumi e una riduzione degli sprechi. Il secondo è l’elaborazione di allegati energetici ai
regolamenti edilizi comunali in cui la licenza
di costruire nuovi edifici o di ristrutturarli sia
vincolata al rispetto di parametri di consumo,
i sette litri come massimo, incentivi per performances migliori. Il terzo elemento è quello di introdurre negli edifici ristrutturati energeticamente fonti rinnovabili su piccola scala
per autoconsumo e non grandi impianti. Oltre
ad avere un impatto ambientale molto forte,
i grandi impianti, sia eolici che fotovoltaici,
lasciano il pallino in mano ai grandi padroni dell’energia che tendono sempre a stimolare la crescita dei consumi, mentre un piccolo impianto per autoconsumo messo in un
edificio è un sistema che non soltanto toglie
dalle mani delle multinazionali fette del mercato energetico, ma abitua le persone a rendersi conto che l’energia non è soltanto quella che spunta dai due buchi dell’interruttore e
sviluppa la consapevolezza della necessità di
utilizzarla in maniera razionale.
(De)crescita dell’occupazione
Se il meccanismo della crescita ha come obiettivo delle innovazione tecnologiche finalizzate
ad aumentare la produttività, cioè macchinari sempre più perfezionati, che consentono di
produrre sempre di più, con un numero sempre minore di persone e in tempi sempre più
brevi, perché se aumenta la produttività alla
fine dell’anno aumenta la produzione di merci e quindi si ha una crescita. La crescita della produttività non ha mai creato occupazione. Innanzitutto va fatta una distinzione, noi
identifichiamo tout court il lavoro con l’occupazione, invece l’occupazione è quella parte
del lavoro che viene svolta in cambio di denaro, cioè quel lavoro che viene svolto nell’ottica della mercificazione, della produzione di
merci; ci sono lavori che non producono merci
ma beni, che l’Istat non considera lavoro.
Il lavoro svolto dalle donne in casa non è considerato tale. Invece consideriamo lavoro la
produzione di quei pupazzi di babbo natale
école numero 70 pagina
9
Mercati sregolati e speculazioni energetiche
che si mettono fuori dai balconi per un mese
all’anno, dei quali è ignota l’utilità reale.
Fatta la distinzione doverosa tra lavoro e occupazione, per la parte limitata del lavoro che è
l’occupazione, quella svolta in cambio di denaro, la crescita non ha mai creato occupazione.
Nel 1960 in Italia il Pil aveva un certo valore e
la popolazione era di 47 milioni di abitanti, le
persone che hanno lavorato per produrre quel
Pil sono state 20 milioni e 200 mila. Nel 1999
il Pil era aumentato del 360 per cento a valori
costanti, cioè depurato dall’inflazione, la popolazione italiana era passata da 47 a 58 milioni
di abitanti, gli occupati sono stati 20 milioni
e 400 mila, non sono praticamente aumentati dal punto di vista numerico, sono diminuiti
in proporzione alla popolazione. Il fatto è che
le innovazioni tecnologiche della crescita sono
finalizzate a ridurre l’occupazione, mentre aumentano i profitti. Perché la critica non è al
capitalismo, è al sistema di produzione industriale, che ha avuto due varianti: la variante
capitalista, che era quella più intelligente che
ha vinto e la variante socialista, che era quella più stupida che ha perso. Entrambe avevano
alla base il modello di produzione industriale.
Se la crescita non ha mai creato occupazione, l’unica maniera di creare occupazione è la
decrescita, purché facciamo la distinzione che
decrescita non è “più” in assoluto, decrescita è
più beni. Producendo più beni si ha una decrescita dal punto di vista economico perché il Pil
misura le merci. Immaginiamo che un governo
illuminato, che è un ossimoro dello sviluppo
sostenibile, decida di porre al centro della sua
politica economica e industriale, non energetica e ambientale, la ristrutturazione energetica
dei nostri edifici in Italia, affinché consumino
come i peggiori edifici dell’Alto Adige e della
Germania, da 20 a 7 litri. Noi avremmo una riduzione delle importazioni di petrolio dei due
terzi, quindi avremmo una forte decrescita del
consumo di merci, ma quanta occupazione si
creerebbe per mettere a posto i nostri edifici affinché consumino meno? Un’occupazione
diffusa sul territorio, non concentrata in un
punto, tipo il ponte di Messina.
Un’occupazione che riguarda varie fasce professionali, dai vetrai agli ingegneri agli architetti ai falegnami ai muratori. E un’occupazione utile, perché riduce le emissioni di anidride
carbonica in atmosfera a parità di servizi. Se
si ragiona in termini di decrescita, distinguendo beni da merci, si mette in moto un circolo virtuoso dell’economia per cui i soldi che si
risparmiano perché non si comprano più due
terzi del petrolio dall’estero vanno a pagare i
salari e gli stipendi delle persone che lavorano nei settori che ci consentono di diminuire i
nostri consumi. Nei paesi industriali avanzati
non c’è nessun’altra maniera di creare occupazione se non questa, di sostituire questi consumi di materie prime, di energia e di rifiuti
con l’intelligenza e il lavoro umano finalizzati
a produrre delle cose utili.
lavoratori hanno sempre pensato che l’obiettivo delle organizzazioni sindacali
fosse quello di spuntare maggior salario. Parlare quindi di economia che non cresce diventa un problema, le facce dei sindacalisti assumono espressioni di scoramento.
Le logiche con le quali l’industria finanziaria lavora, non sono le logiche dell’industria capitalista della produzione di merci e servizi, non sono nemmeno le logiche
del profitto attraverso la vendita di beni e servizi, sono logiche di natura speculativa. È giusto partire da noi stessi, ma poi è necessaria un’azione politica per ottenere una regolamentazione dei mercati finanziari molto più stringente
* Maurizio Pallante, autore di molti libri sulla decrescita, è presidente dell’Associazione Movimento per
la decrescita felice.
* Andrea Di Stefano è direttore della rivista Valori. Il pezzo che pubblichiamo è uno stralcio
del suo intervento al convegno Il dolce stil nuovo. Decrescita e politiche di pace organizzato
dal Coordinamento comasco per la Pace nell’ottobre 2007.
école numero 70 pagina
10
Le logiche della decrescita devono essere inserite in un quadro legislativo
di regolamentazione più stringente dei mercati finanziari. Altrimenti
des e gas rimarranno ottimi esperimenti impotenti di fronte alle logiche
della grande distribuzione. Se continuiamo a parlare di mercato non
usciamo dalla dinamica. Non dobbiamo costruire nuovi mercati, dobbiamo
costruire regole diverse per l’economia. Altrimenti non si riesce a uscire
dall’ideologismo per cui l’unico elemento determinante nella scelta del
consumatore è il prezzo, che ci viene propugnato dalla pubblicità delle
grandi catene di distribuzione. E poi la grande distribuzione non sta per
niente in salute. Carrefour ha chiuso 11 ipermercati e 17 cash and carry
in Italia, con la perdita di circa 500 posti di lavoro. Quel modello non
funziona. Il modello che spreme i lavoratori e i cittadini non funziona. E
quindi può e deve essere ripensato, per uscire dalla logica dell’equilibrio
tra la domanda e l’offerta e passare da un’economia dissipativa a
un’economia conservativa. Un caso esemplare: il mercato energetico
ANDREA DI STEFANO*
I
La liberalizzazione del mercato dell’energia, non ha prodotto un abbassamento delle tariffe, che anzi sono aumentate e c’è un elemento di ulteriore preoccupazione:
con l’avvio della liberalizzazione del mercato dell’energia anche in Italia inizia il
trading finanziario, ossia è possibile commerciare dal punto di vista speculativo sul
mercato dell’energia con i derivati. L’autorità per l’energia dice di volerci metter
voce, ma ancora non si sa se potrà averla per controllare questo mercato. Quello
che è successo è che negli Stati Uniti un solo fondo, in un solo mese, riusciva a
commerciare prodotti finanziari che valevano il 23 per cento di tutto il gas consumato in un anno dalle famiglie. Il fondo si chiamava Amarant, è fallito ed è stato
messo sotto inchiesta dal Senato che è arrivato alla conclusione che quel fondo
aveva manipolato i prezzi del gas. Ora questa dinamica può cadere anche sulle nostre teste, con delle conseguenze molto pesanti. Possiamo anche fare un’operazione per risparmiare, per tagliare i consumi, possiamo invertire i nostri modelli, ma
rischiamo di pagare per logiche che non sono neanche quelle di aumentare la produzione di energia e gli utili dell’Enel, ma piuttosto quelle di far guadagnare gli
speculatori sul mercato dell’energia, attraverso la manipolazione del prezzo con cui
l’energia viene comprata e venduta sul mercato.
Il tema della finanza è drammaticamente attuale, ma se ne parla pochissimo, perché non c’è competenza, ovvero i nostri legislatori non ci capiscono un’acca.
Ci vuole lo stato, la pubblica amministrazione che interviene, ma ci vogliono anche delle risorse e vanno indirizzate in modo diverso, per favorire una conversione
dell’economia da dissipativa a conservativa, in cui non si fa crescere il Pil, ma si
fanno crescere i risparmi dei cittadini attraverso, ad esempio, l’utilizzo di tecnologie che permettano di ridurre i consumi e quindi inevitabilmente determinino una
riduzione, da quel punto di vista, del Pil. Ma l’Enel, come qualunque altro operatore
del mercato energetico si oppone alla riduzione dei consumi, perché abbassare il
fatturato significa diminuire l’utile. E l’amministratore delegato dell’Enel, che prende un sacco di soldi con le stock option guadagna di meno.
Due terzi Non possiamo decrescere nel
nostro essere fatti d’acqua. Siamo fatti per
due terzi d’acqua e questo è un apporto
che dobbiamo continuare a dare al nostro
corpo, alimentandolo. Se riusciamo a
parlare è perché abbiamo la saliva, con la
bocca asciutta non potremmo comunicare.
Tutte le funzioni del corpo sono legate
all’acqua. Ma l’acqua non è una risorsa
infinita
PAOLO RIZZI*
H
ybris e nemesis
Il concetto di decrescita, il concetto di limite, apparteneva alla nostra cultura, quella
pre-tecnologica, alla cultura greca nella quale l’arroganza di sfidare gli dei era un delitto. Uomini e dei erano insieme e il concetto
di limite, la nemesis, dava la misura del bene
e del male.
Il concetto di nemesis è cambiato. Nella lingua anglosassone diventa enemy, nemico, e
noi siamo nemici dell’armonia: la tecnologia
ci ha reso nemici di una nostra posizione solistica del mondo. L’impronta ecologica non
sono i due metri per essere seppelliti, ma gli
1,8 ettari di terra disponibile per ciascuno di
noi (la superficie della terra diviso i sei miliardi e seicento milioni di abitanti attuali). Ma
qualcuno ne ha tre, cinque (dieci un abitante degli Stati Uniti). Quindi consumiamo più
territorio di quello che c’è. Allora noi che viviamo in Occidente dobbiamo essere più “leggeri”, e limitare i nostri consumi, per dire al
resto della popolazione mondiale di camminare con passi più leggeri sul mondo.
Rubinetti, gabinetti e prospettive
Ma veniamo all’acqua che non è infinita. È
sempre la stessa da quando il mondo c’è, ma
continua ad aumentare la popolazione e l’impatto della popolazione sul pianeta.
L’acqua disponibile sul pianeta è lo 0,8 per
cento del totale. È quella che riusciamo a portare nei nostri rubinetti, tutto il resto è acqua salata o si trova nelle falde profonde o nei
ghiacciai. Quindi è finita ed è poca.
Quanto tempo occorre per fare un piatto di
pasta in Africa? Due ore e mezza: due ore per
andare a prendere l’acqua e mezz’ora per cucinare la pasta perché il diritto per l’accesso all’acqua è negato e l’acqua è lontanissima.
Nel mondo è negato l’accesso all’acqua ad un
miliardo e quattrocento milioni di persone che
non hanno il rubinetto e due miliardi e mezzo
non hanno i servizi igienico-sanitari, per vivere in salute. Sono i poveri e gli estremamente
poveri, chi vive in condizioni di miseria come
si dice in italiano.
Nel 2050 la popolazione della terra raggiungerà gli undici miliardi, quasi il doppio di oggi,
e le risorse saranno le stesse. Dove andranno ad allocarsi i nuovi venuti? Tre o quattro
miliardi di persone andranno nelle grandi città. Le zone rurali non saranno i luoghi dove
i nuovi nati vorranno vivere, perché non potranno viverci.
I novecentomila abitanti invisibili di Kibera,
una baraccopoli di Nairobi, non censiti, vivono senza un piano regolatore, senza servizi
igienici, senza reti idriche, eppure vivono. Noi
ovviamente nel nostro agio non vogliamo decrescere, anzi vogliamo che loro abbiano capacità di vita al di sopra della soglia di pura
sopravvivenza. A Kibera le malattie come colera, schistosomiasi, hiv… diventano spesso
mortali per le condizioni igieniche disastrose. Non hanno i gabinetti, hanno le flying toilets (la fanno in un sacchetto di plastica e la
buttano in collina, poi quando piove questa
pioggia invece di essere benedetta, porta tutta quella cacca in giro per la baraccopoli, amplificando le condizioni di cattiva igiene).
Negli ultimi cent’anni, da Tolstoj ad oggi, la
quantità d’acqua disponibile sta avendo un
crollo, perché aumenta la popolazione e aumentano i consumi. Dal dopo guerra ad oggi,
col benessere, i consumi per uso agricolo, civile e industriale sono aumentati e continuano ad aumentare. Abbiamo la comodità del
rubinetto in casa e India, Brasile, e altri paesi emergenti si stanno aggiungendo a noi in
questa corsa a consumare sempre di più. Nel
2020, India e Cina, con tre miliardi e mezzo
di abitanti, saranno in crisi idrica, cioè non
avranno abbastanza acqua per le loro necessità, nel 2020 saranno già importatori di acqua.
Inoltre c’è la decrescita dei ghiacciai: erano
belli lunghi, come i mutandoni che si usavano
nell’Ottocento, oggi sono come un tanga, una
riserva d’acqua che ha subito una decrescita
tutt’altro che felice e tutt’altro che positiva.
E oltre ad avere perso parte dei ghiacciai, anche la siccità e la desertificazione aumentano. Non sono soltanto i deserti che avanzano, ma sono le terre che diventano sterili per
l’eccessivo sfruttamento, o perché cambia la
loro destinazione d’uso da agricole ad urbane, con autostrade, grandi infrastrutture per
la mobilità, o perché vengono incendiate (in
Italia cinquantamila ettari di bosco all’anno,
nell’estate 2007 ottantamila, vengono incendiati con conseguente perdita di terreni, di
fertilità).
Ateismo e consumismo
Di decrescita ha cominciato a parlare
Latouche. Da lui abbiamo imparato e dovremmo continuare ad imparare. Ma spesso ci si arrocca nel già visto senza cercare altre strade,
per esempio la decrescita sociale fa paura ai
sindacati che si chiedono: «se decresciamo,
dove li mandiamo i lavoratori, se non cresce il
pil come facciamo?».
Cominciamo ad elaborare una narrazione diversa: diminuiamo i consumi individuali e aumentiamo i consumi collettivi di beni e servizi: scuola, trasporti, sanità ci servono di più
dei consumi materiali e forse ci fanno più felici. Ecco la “decrescita felice”. Ultimamente
Latouche, per riuscire a convincerci che la diminuzione dei consumi non è un dramma e che
bisogna fare qualcosa, l’ha denominata “acrescita”. La parola deriva da “atei”, perché ora
abbiamo la teologia di consumatori e invece
dobbiamo diventare atei del consumismo.
La nuova fede è il consumismo e le nuove cattedrali sono i centri commerciali, dobbiamo
imparare a frequentarli il meno possibile.
Nel medioevo in Cambogia, la più grande città
del mondo è scomparsa per eccesso di crescita: alla fine quel territorio era così sfruttato
che hanno dovuto abbandonarlo. Insomma il
problema non è di oggi e esperienze passate
ci dicono che bisogna stare attenti ai giusti
rapporti, ai giusti equilibri.
Votiamo per gli svizzeri
Cosa facciamo dell’acqua? La usiamo nelle nostre case, è la prima motivazione d’uso.
Acquedotto, fognatura, depurazione, servizio
idrico integrato, ovvero tre servizi-paghi uno,
tariffa unica, meno di un euro per mille litri,
una cifra accettabile. Che uso ne facciamo?
Gli svizzeri dicono di consumarne 162 litri al
giorno per gabinetto, bagno, lavatrice, alimenti e bevande. Per il gabinetto, 10 litri ogni
volta che andiamo a premere il pulsante dello
sciacquone, almeno cinque volte: 50 litri.
Noi italiani ne consumiamo in media 213 litri
(280 al Nord un po’ meno al Sud).
Gli svizzeri sono più sporchi di noi? Più poécole numero 70 pagina
11
veri di noi? È per questo che ne consumano
162 litri e noi che siamo un po’ più evoluti
arriviamo a 213?
Quanti ne servirebbero per vivere secondo l’Organizzazione mondiale della sanità? 40 litri.
Un modo per visualizzare le dispartità è quello di realizzare quattro strisce di carta, la prima di 5 metri, 100 litri al metro, rappresenta
500 litri, il consumo medio di uno statunitense per cucinare, lavare se stesso e i propri
abiti, fare la doccia, andare al gabinetto, la
seconda striscia, di poco più di 2 metri rappresenta il consumo medio di un italiano per
fare le stesse cose (213 litri), la terza di poco
più di 1,5 metri rappresenta il consumo medio di uno svizzero che corrisponde al consumo medio di un cittadino europeo (162 litri)
la quarte è una striscia piccolina: venti centimetri in tutto (20 litri di consumo medio di
un cittadino africano. Quale modello vogliamo
scegliere? Imitare gli Stati Uniti o imitare gli
svizzeri? In questo caso votiamo per gli svizzeri, impariamo a consumare un po’ meno.
La tecnologia, che di solito ci aiuta a consumare di più, può aiutarci anche a risparmiare:
mettiamo dei piccoli riduttori di flusso nei nostri rubinetti, senza accorgercene, siccome si
aggiunge aria e si miscela con l’acqua, risparmiamo il 30-40 per cento di acqua; mettiamo
in bagno sciacquoni con due pulsanti (spero che anche nelle scuole li cambino prima o
poi), useremo molti milioni in meno di ettolitri d’acqua perché quando facciamo la pipì ci
bastano tre litri invece di dieci.
Servirebbero otto miliardi di euro per dare l’acqua a tutti gli abitanti del pianeta, quanto noi
occidentali spendiamo in gelati, in cosmetici,
in crociere. Se guardiamo i bilanci del consumismo, soltanto questi beni risolverebbero
il problema di dare l’acqua a quel miliardo e
mezzo che non ne ha accesso nel mondo.
Il Pil, l’indicatore che viene assunto come indice di benessere e di crescita, che sappiamo
non rappresentare la qualità della vita, è distribuito in questo modo: 33 per cento negli
Stati Uniti, 25 per cento in Europa, 15 per
cento in Giappone, 8 per cento in America del
Sud, 20 per cento in tutta l’Asia, 2 per cento
l’Africa. Nessuno è interessato se l’Africa ha
delle politiche economiche, industriali, commerciali, quello che si fa in Africa non interessa, non pesa, non cambia, non muta, infatti è
una zona che continuiamo a sfruttare, senza
fare altro per gli africani.
Rispetto al Pil quanto diamo in cooperazione? Noi siamo i penultimi, insieme agli Stati
Uniti. Patrizia Sentinelli, durante la sua esperienza come vice-ministra degli esteri nel governo Prodi, dichiarò che non sarebbe andata
più a congressi internazionali perché si vergognava di non essere riuscita a destinare neppure lo 0,3 per cento della nostra ricchezza
alla cooperazione.
Una pastasciutta, 130 litri
Dall’impronta ecologica siamo passati all’impronta dell’acqua, perché come sono stati misurati l’ettaro e ottanta che abbiamo a disposizione come terra, così si può misurare
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quanta acqua abbiamo a disposizione a testa
e quanta ne prendiamo dagli altri attraverso
le merci.
Per acqua virtuale si intende la quantità d’acqua che c’è in un prodotto, è virtuale perché
non la si vede più, ma è stata necessaria acqua reale per ottenerlo. In Italia siamo al 60
per cento di importazione d’acqua, 980 metri
cubi pro capite. I più alti consumi in Europa,
assai superiori allo standard.
I flussi di merci, soprattutto alimenti, ma anche tutto il resto, carta, computer, acciaio
(in tutto c’è acqua, non si potrebbe produrre
niente senza acqua) determinano una importazione reale di acqua.
Se in Turchia fanno le dighe e tolgono l’acqua
alla Siria, all’Iraq, alla Giordania, questi paesi dipenderanno per la loro agricoltura dalla
Turchia che dovrebbe risarcirli dando un’indennità. Ma questo vuol dire che diventeranno dipendenti per la sicurezza alimentare da
altri paesi. Sono molti i paesi che hanno bisogno di importare acqua, dicevamo già che
la Cina e l’India, nel 2020, dovranno importarla a causa della loro crescita demografica e
della crescita del loro stile di vita e dei consumi. L’Africa può nutrire l’Africa solo se invece di produrre prodotti per l’esportazione,
produrrà prodotti per il consumo interno. Al
primo posto ci dovrebbe essere la sovranità
alimentare: produrre per far vivere le popolazioni residenti, non soltanto per produrre
valore aggiunto, che poi finisce in mano alle
multinazionali.
L’acqua e il cibo sono legati, il 60 per cento
dell’acqua va in agricoltura, nei paesi poveri addirittura l’80 per cento, le terre agricole
devono essere irrigate, perché producono il
40 per cento del cibo, ma nel 2007 ne avrebbero dovuto produrre molto di più perché ci
sono ancora 852 milioni di malnutriti, più del
2006 quando erano 840 milioni (nonostante
uno degli obiettivi del millennio sia di dimezzare i morti di fame). Mentre ci domandiamo
come fare produrre di più le terre, ci vengono
imposti gli ogm, che hanno due problemi: la
sicurezza alimentare, cioè nessuno ci garantisce che non avremo delle controindicazioni,
e i brevetti, perché questi semi appartengono
alle multinazionali, e quindi bisogna pagare
per poterli impiantare.
Insomma i problemi connessi all’acqua sono
problemi geo-politici molto difficili.
Ma vediamo quanta acqua occorre per consumare un pranzo tipico, primo, secondo e caffé. Per fare il grano occorrono più di mille litri d’acqua. Per un etto di pastasciutta non ci
vuole l’acqua soltanto per farlo bollire, ce ne
vogliono 130 litri solo per essere prodotto,
perché il grano sta a dimora e ha bisogno di
essere innaffiato per arrivare a maturazione e
darci il suo frutto. Per un secondo a base di
carne, 15 mila e passa litri per un chilogrammo: il vitello e il manzo nei tre anni che stanno in una stalla mangiano pastoni di cereali e
granoturco e bevono. Quando li macelliamo,
ogni chilogrammo è frutto di 15 mila litri,
una fettina di un etto sono 1.500 litri, molto
di più dei 213 litri che usiamo al giorno per
i nostri usi civili, quindi per l’uso alimentare,
in una dieta carnivora utilizziamo 5.600 litri
al giorno. Un panino con hamburger richiede
3.500 litri d’acqua, tra il pane, la fetta di formaggio, la fettina di carne, l’insalata, il confezionamento. Per fortuna un chilo di maiale
necessita solo di 4.600 litri e le galline appena di 4.000. Insomma un po’ di carne bianca
possiamo anche mangiarla, però se diventassimo un po’ più onnivori e non mangiassimo carne una volta al giorno, da 5.600 litri
passeremmo a 4.000 litri e se fossimo vegetariani 2.600 litri. E da dove viene quest’acqua che serve per produrre i nostri alimenti?
Viene da tutto il mondo perché la globalizzazione delle merci è questo.
Il caffé, da dove viene? Dal Kenya, dall’America latina. Una tazza di caffé sono 1.500 tazze
d’acqua, 21 mila litri al chilogrammo, quell’acqua noi la prendiamo dai paesi produttori,
ma non gliela paghiamo secondo il giusto valore, perché il prezzo del mercato del caffé lo
facciamo noi. È ancora sfruttamento, prima li
abbiamo sfruttati con petrolio, oro e diamanti e adesso li sfruttiamo non pagandoli secondo una giusta remunerazione.
Le botteghe del commercio equo cercano di
far vivere i contadini del loro lavoro, ma tutto
il resto del mercato no. Si chiama exploitation:
portiamo via attraverso i prodotti la loro acqua, non riconoscendogli il vero valore.
Per sopravvivere occorrono, solo a livello alimentare, 1.000 litri al giorno di acqua, e se un
paese non ha mille litri d’acqua per ciascuno
non può garantire cibo per la sopravvivenza
dei suoi abitanti.
Agricoltura ed ecofrottole
Nel mondo, ma soprattutto nei paesi del terzo
mondo, l’agricoltura per l’irrigazione usa dal
60 al 90 per cento dell’acqua. Quindi è qui il
vero problema. Ricordiamoci di risparmiarla,
attraverso uno stile di vita sobrio perché sappiamo quanto impatto ciascuno di noi ha sull’acqua del mondo.
L’etanolo, l’eco-benzina, non è una soluzione.
Di quanta acqua ha bisogno quel granoturco
o quello zucchero per essere trasformato in
agrocombustibile? Il processo non è sostenibile, e poi, i Sem Terra brasiliani che nel 2006
avevano avuto finalmente un po’ di terre con
la riforma agraria, da quando Lula si è messo
in mente di fare il biodiesel ricevono pressioni
dai grandi coltivatori, che la terra non la vogliono cedere e vogliono realizzare le estese
coltivazioni di canna da zucchero. Saltano anche cambiamenti sociali importanti in nome di
un miraggio, è una “eco-frottola”. Aumentano
i prezzi: il costo del pane e del grano duro è
aumentato anche in Italia, dove servirebbe il
10 per cento di superficie del paese coltivata a granoturco per far circolare 28 milioni di
automobili. È impensabile, non troveremo mai
l’autosufficienza con il biodiesel. È una nuova
campagna di mercato che ci allontana da impegni più seri e più concreti.
Anche l’acciaio, la carta, il vetro hanno bisogno di acqua. Il prosciugamento del lago
d’Aral non è un disastro naturale, le sue di-
Bottiglie speculative
Le acque minerali, “liscia, gassata, privatizzata” sono la prima forma di privatizzazione
dell’acqua, la più lampante, che oggi sta arrivando anche agli acquedotti, perché li vogliono far gestire da privati. Noi diventiamo
da cittadini, che hanno dei diritti, a clienti,
che hanno un peso proporzionato alla grandezza del loro portafoglio e a quanto sono capaci di comprare, non solo l’acqua come bene,
ma anche le azioni dell’acqua. Chi ha le azioni dell’acqua vuole che il prezzo di questa aumenti, chi non le ha vuole che il prezzo resti
basso, quindi diventiamo nemici, entriamo in
conflitto, cittadini contro azionisti. Vogliono
fare di noi tutti degli azionisti in lotta l’uno
con l’altro, i conflitti fanno bene ma questi
sono pilotati per l’interesse di qualcun altro.
Siamo campioni del mondo, primi consumatori al mondo di acqua in bottiglia, 203 litri
dice la Nestlè sul suo sito. Dicono che siamo
a 187 litri adesso, ma continuiamo ad aumentare i consumi. Ci sono zone, come quella di
Alessandria, in cui si ha un’acqua buonissima
nelle case, senza cattivi odori né sapori, in
cui comunque l’87 per cento della popolazione beve acqua in bottiglia. Ci hanno convitoi con la pubblicità. Mille litri comprati sono
circa 330 euro, contro un euro se li comprassimo all’acquedotto. In più dobbiamo smaltire tutti questi rifiuti, che hanno già viaggiato, che hanno prodotto inquinamento per
essere fatti in pet. Infine ne recuperiamo il
20-30 per cento. Sei miliardi di queste bottiglie vanno in discarica, sui dodici miliardi imbottigliate in Italia. La pagano poco, chi la
produce, quell’acqua, quasi nulla, solo in cinque o sei regioni pagano una vecchia lira al
litro, 0,5 centesimi, altrimenti pagano la superficie del territorio dove sorge la fabbrica,
possono emungere quanto vogliono e infatti
hanno prosciugato le falde, a Gualdo Tadino,
dove c’è la Rocchetta, hanno scollegato il
paese dalla loro fonte per raddoppiare i volumi estratti e lo hanno collegato ad un altro
acquedotto più lontano e di inferiore qualità.
Non accadono solo in India queste cose, accadono anche in Italia, a San Benedetto.
E di chi sono tutte queste marche di acqua
in bottiglia? Sono delle multinazionali, non
sono italiane, sono svizzere, i nostri vicini di
casa, consumano solo 162 litri al giorno per
i loro usi civili, ma usano l’acqua italiana per
fare 860 milioni di euro di fatturato. Siamo
colonizzati dagli svizzeri.
Nella pubblicità le banche utilizzano il prodotto bottiglia per veicolare altri contenuti,
per esempio una campagna pubblicitaria della
Banca nazionale del lavoro. Ormai la bottiglia
è diventata per noi uno status symbol tanto
che possono venderci anche i conti bancari
attraverso questa immagine.
Il vetro non è la soluzione, a meno che non
sia locale, se io consumo acque in bottiglie
di vetro prodotte nella regione in cui vivo,
queste fanno pochi chilometri, il vetro pesa
molto di più della plastica quindi avrei bisogni di più tir. Quindi è una soluzione, per
chi proprio non può rinunciare, ma soltanto se compra l’acqua vicino a casa, non se
compra l’acqua che viene dalla Sicilia o dalla
Sardegna. Meglio il vetro della plastica a patto che leggiamo sull’etichetta la provenienza. I costi delle acque in rubinetto sono tanti, ma rispetto a quelli per le acque minerali
sono pochi. Ovviamente i benefici sono che
si fa meno fatica, che è sempre lì disponibile ed è controllatissima dalle Aziende sanitarie locali.
Industrie e riciclo
Quelli industriali sono gli altri grandi usi e
dobbiamo chiedere agli industriali di riciclare
il più possibile l’acqua ed inquinarla il meno
possibile, per poterla sfruttare al meglio.
Ogni foglio di carta, sono dieci litri d’acqua, i
processi industriali per la carta sono impressionanti. È per quello che la stiamo raccogliendo, riciclandola ci permette di non usare
300 litri per produrne un chilogrammo ma 40.
Queste sono delle buone pratiche, riciclare i
prodotti e non usare materie nuove.
I conflitti per l’acqua saranno e lo sono già i
conflitti del futuro, ma noi non vogliamo che
degenerino sempre più in guerre, quindi lanciamo questo allarme. Il prossimo Water world
council dopo essere stato all’Aja, a Marrakech,
a Kyoto e a Città del Messico, sarà in Turchia
nel 2009. Le soluzioni che i potenti del mondo propongono in questi forum sono la privatizzazione che non è una soluzione: chi non
ha i soldi per diventare cliente, non può diventare ostaggio delle multinazionali. L’acqua
è un bene comune e quindi deve essere pubblica. Contemporaneamente al forum ufficiale
del 2009 che consideriamo illegittimo, ne faremo un altro alternativo a distanza.
In questi ultimi tre anni due premi nobel
per la pace sono stati dati ad ambientalisti:
un’africana, il primo ministro per l’ambiente in Kenya, nel 2004, in piena guerra contro l’Iraq, un premio molto contestato, ma lei
dice «pace non è soltanto stare in mezzo ai
conflitti, ma è promuovere alternative». Lei
con la sua associazione, in trenta anni, ha
piantato trenta milioni di alberi, dando lavoro a molte donne e uomini, quindi producendo qualità dell’ambiente e benessere. Nel
2007 hanno dato il premio ad Al Gore e alla
Ipcc che fa monitoraggi sugli impatti che
cambiano il nostro clima, questo è un messaggio politico.
155 miliardi di m è la disponibilità
3
annua teorica d’acqua per usi civili e
produttivi •
2.700 m è la quota
3
teorica pro-capite per abitante • Il
97% dell’acqua dolce in Italia è nelle
falde acquifere • Irregolarità dei flussi e
inefficienze riducono questa disponibilità a
110 miliardi di m , pari a 2.000
3
m3 pro-capite • L’acqua effettivamente
ACQUA/ ITALIA/ NUMERI
mensioni sono passate in 30 anni da quelle di
un mare a quelle di uno stagno, perché l’uomo
ha coltivato più cotone (ci vogliono 20 mila
litri d’acqua per produrre un chilogrammo di
cotone) di quanto quell’acqua potesse alimentare, ha deviato gli affluenti, senza contare
l’enorme inquinamento perché per coltivare il
cotone si usano grandi quantità di pesticidi,
tra cui anche quelli proibiti. Il lago è diventato sterile, avvelenato, si è persa la possibilità
di pescare e un’economia che stava in piedi
e ora non si regge più. Questo è un disastro
umano, non è solo un disastro della natura.
utilizzabile per tutti gli usi scende a
42
764 m a persona
equivalenti a 764.000 litri a
persona l’anno, poco più di 2.000
litri a persona al giorno • Il 50%
miliardi di m ossia a
3
3
degli italiani beve solo acqua minerale,
perché non si fida dell’acqua del rubinetto.
l’Italia è prima in assoluto nel consumo procapite d’acqua minerale • La disponibilità
diminuisce ogni
anno, mentre aumenta il
d’acqua
numero delle località in emergenza idrica
Aumentano rapidamente i
costi ed i prezzi dell’acqua • Il 15%
della popolazione italiana, ossia circa 8
milioni di persone, per 4 mesi l’anno
•
(giugno- settembre) è sotto la soglia del
fabbisogno idrico minimo di
50 litri di
acqua al giorno a persona • L’acqua erogata
ogni anno in Italia, nel recente passato
7.000 enti e soggetti diversi,
attraverso 13.000 acquedotti,
è pari a 8 miliardi di m • 1/3
dell’acqua disponibile in Italia (2milioni
da
3
di m3) si disperde lungo le reti fatiscenti
e corrose degli acquedotti • Il
30%
dell’acqua che entra nelle condotte idriche
si perde per strada e non arriva nelle
40% dell’acqua per
irrigazione (pari al 70% medio dei
case • Anche il
consumi totali) si perde lungo le tubazioni
dalle sorgenti, dagli invasi alle prese e agli
idranti • L’Italia è il Paese che consuma
più acqua in Europa, il
3° al mondo
dopo Canada e Stati Uniti • Il riciclo e il
riutilizzo dell’acqua in Italia sono pari a
0.
* Contratto mondiale sull’acqua.
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13
Zero waste Decalogo per un obiettivo
rivoluzionario: riemergere dall’immondizia.
Si raggiunge riorganizzando l’intero
sistema di
produzione e
consumo. Una
vita senza scarti,
per andare
oltre la raccolta
differenziata e il
riciclaggio
MARINELLA CORREGGIA*
L
a rivoluzione a partire dai rifiuti solidi urbani? Si può (si potrebbe), a prenderli
come occasione per riorganizzare l’intero sistema di produzione e consumo. L’obiettivo
Zero waste («rifiuti zero»), proposto da una
rete internazionale coordinata dal docente di
chimica statunitense Peter Connet e alla quale aderiscono molte città del mondo, annulla
lo pseudodilemma “inceneritore o discarica”.
Non per nulla la declinazione italiana di Zero
waste, la Rete nazionale rifiuti zero, promuove
fra l’altro un digiuno a catena contro gli inceneritori al quale da molto tempo partecipano
attivisti di Trento e provincia, Roma e Lazio,
Genova e Forlì.
Zero waste va oltre perfino la pur indispensabile raccolta differenziata più riciclaggio. I
rifiuti, infatti, si annullano a monte, in un’interazione di ruoli e responsabilità fra i vari attori e livelli: legislatore nazionale, industria e
distribuzione, istituzioni locali (e ce ne sono
molte di virtuose), cittadini. Le pratiche delle
comunità, quali il riuso, la riparazione, il riciclaggio e il compostaggio vanno collegate
con le pratiche industriali, che le leggi devono incentivare ma anche rendere obbligatorie:
dall’eliminazione delle sostanze tossiche alla
riprogettazione degli imballaggi e dei prodotti. Delle merci va considerato l’intero ciclo di
vita, per cercare le inefficienze a ogni stadio.
Vivere senza scarti
Apposite leggi dovrebbero proibire o almeno disincentivare gli usa e getta (imballaggi sostituibili bottega/casa – si pensi agli
shopper, di qualunque materiale – od oggetti monouso). Proibire anche gli oggetti che
non si possono riciclare o riusare facilmente.
Rendere obbligatorio il riporto di imballaggi
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e prodotti alla fine della loro vita utile, con
obbligo del produttore di riprenderseli e gestirli (responsabilità industriale). «Se una comunità non può riutilizzare, riparare, riciclare
o compostare un dato oggetto o materiale,
allora le industrie non dovrebbero produrli», sostiene Zero Waste. Come scrive Giorgio
Nebbia, merceologo e ambientalista, «la salvezza può essere cercata soltanto nelle azioni della prima R (riduzione): sia diminuzione della massa dei rifiuti, sia progettazione
di merci con minori rifiuti nella produzione
e dopo l’uso». Almeno nei casi di emergenze
locali, perché non vietare il maggior numero
possibili di imballaggi?
Ci vorrebbe un premio non solo per i comuni
ricicloni, ma anche per quelli che riescono ad
abbattere a monte il rifiuto pro capite prodotto sul proprio territorio, non solo a raccoglierlo e riciclarlo meglio (ci sono sempre perdite di energia e materiali anche nel miglior
riciclaggio). E a quando la promozione di feste nazionali e locali senza alcun usa e getta,
nemmeno riciclabile?
Il rapporto diretto produttore-consumatore,
gli acquisti vicini e la riduzione dei passaggi
commerciali sono un modo per ridurre anche i
rifiuti da imballaggi e da contenitori. I gruppi
d’acquisto ne sono un buon esempio e alcuni
enti locali cominciano a favorirli.
Quanto ai cittadini, dovrebbero essere incentivati a ridurre a monte i materiali che escono da casa come scarto, e dunque quelli che
entrano. Cambiando le abitudini di acquisto.
Ecco alcuni esempi. Per i materiali organici,
in attesa del servizio comunale (da pretendere!), si può anche fare il compostaggio sul
balcone – almeno i più bravi – o nel giardino
condominiale con le compostiere; in alcuni
comuni per chi lo fa è prevista una riduzione
della tariffa. E si possono anche minimizzare gli scarti di cucina con gustosi inaspettati
risultati (usare le bucce se bio, non avanzare cibo ecc.). Per l’inorganico, evitare gli usa
e getta, non comprare cose di facile rottura, non seguire le mode, cambiare le abitudini di consumo: bere acqua del rubinetto, far
la spesa con le buste di tela, comprare materie prime anziché bottigliame lattiname scatolame (l’onnipresente passata di
pomodoro, è facilissimo e rapido farla in
casa riciclando le bottiglie di vetro anno
per anno!). Si può vivere senza pattumiera, insomma.
Uso e riuso, che cultura!
Scuole e istituzioni possono fare un’opera di educazione dei cittadini all’uso e al
riuso per uscire dalla inciviltà dell’usa
e getta, non solo degli oggetti e imballaggi monouso “per vocazione” ma
anche di quelli che, pur durevoli, sono
gettati via prematuramente anzi quasi subito. Occorrerebbero incentivi anche economici per allungare la vita agli
oggetti.
Molti posti di lavoro si possono promuovere senza usare altre materie prime, solo pescando nel giacimento del
già esistente, che può essere rivenduto, rigenerato, riadattato senza trasformazioni industriali tipo il riciclaggio (si pensi alle sartorie che confezionano o aggiustano abiti con
stoffe già esistenti).
Alcuni enti locali e associazioni o cooperative
intercettano gli oggetti prima del cassonetto
e ne permettono il prelievo da parte di chi ne
ha bisogno attraverso apposite isole ecologiche o riciclerie.
Differenziare per riciclare: insieme all’adozione dei sistemi di raccolta differenziata
più efficienti (in Italia, il porta a porta), il
passaggio alla tariffazione a peso e una considerazione separata dei rifiuti delle famiglie
rispetto a quelli degli esercizi commerciali responsabilizzano gli utenti.
Le vecchie discariche dovrebbero diventare
ecoparchi industriali per il recupero e riciclaggio (ovviamente la premessa è che funzioni il circuito raccolta differenziata/riciclaggio, che crea posti di lavoro). Gli oggetti
con materiali riciclati devono poi avere uno
sbocco di mercato. Un modo per favorirlo è
l’applicazione della normativa per gli acquisti
pubblici verdi (e riciclati), ancora disattesa
da molti enti pubblici.
Lo screening del residuo: dopo tutte le cautele, il residuo che rimane deve essere stabilizzato e smaltito in loco ma soprattutto
scrutinato attentamente: per eliminarlo in
quanto errore di progettazione, fabbricazione o consumo nel ciclo di vita del prodotto.
Zero Waste suggerisce inoltre alle comunità
che adottano la strategia Rifiuti zero di stabilire l’anno entro il quale non si dovranno
più inviare rifiuti alla discarica “transitoria”.
Così il cambiamento di mentalità ha tempo
di svilupparsi.
* Autrice di La rivoluzione dei dettagli. L’articolo è
apparso su il manifesto il 4 gennaio 2008.
UNA MAPPA BIBLIOGRAFICA PER IL BRADIPO FELICE
VIATICO
«Diciamo che il nostro è
l’unico modo di vita: ma ce
ne sono tanti altri! Tanti
quanti i raggi che in un cerchio possono essere tracciati
dal centro. Ogni mutamento
è un miracolo da contemplare: e un miracolo che si avvera a ogni istante». (Henry
Thoreau, Walden, ovvero la
vita nei boschi, Rizzoli, Milano 1988, p. 68).
«Nessuno può osservare la vita umana con
maggiore saggezza e imparzialità che da
quella posizione vantaggiosa offerta da quella che noi definiremmo scelta volontariamente» (Henry Thoreau, Walden, ovvero la vita nei
boschi, Rizzoli, Milano 1988, p. 72).
Il capo indigeno Tuiavii di Tiavea, al suo ritorno da un viaggio nel vecchio continente parla della mancanza di tempo Papalagi
(uomo bianco): «Ci sono Papalagi che affermano di non avere mai tempo. Corrono
intorno come dei disperati, come dei posseduti dal demonio e ovunque arrivino fanno del male e combinano guai e creano spavento perché hanno perduto il loro tempo.
Questa follia è uno stato terribile, una malattia che nessun uomo della medicina sa
guarire, che contagia molta gente e porta
alla rovina. Poiché ogni Papalagi è ossessionato dalla paura di perdere il suo tempo,
sa anche molto bene (e non solo lo sa ogni
uomo, ma anche ogni donna e ogni bambino piccolo) quanti soli e quante lune si sono
levate e sono tramontate dal momento in
cui egli ha visto la grande luce per la prima
volta. Sicuro, questa è una cosa importante e quindi allo scadere di determinati periodi di tempo, si fanno grandi sacrifici con
fiori e grandi banchetti. Quanto spesso mi
sono accorto che molti credevano di doversi
vergognare per me quando mi domandavano
quanti anni avevo e io ridevo e non sapevo
rispondere. «Ma devi pur sapere quanti anni
hai.» Io tacevo e pensavo «È molto meglio
che io non lo sappia».Che età si ha, quante lune si sono viste. Questi calcoli e queste
ricerche sono colme di pericolo, perché con
ciò si capisce quante lune dura la vita della
maggior parte degli uomini. E così ciascuno di loro sta attentissimo, e quando molte e molte lune sono trascorse, dice: «Dovrò
presto morire». Così non ha più gioia e finisce che muore davvero. Ci sono in Europa
soltanto poche persone che hanno veramente tempo. Forse nessuna. Per questo, quindi, la maggior parte di esse corrono per la
vita come una pietra che rotola. Tutti o quasi camminano tenendo gli occhi abbassati e
dondolando le braccia avanti e indietro per
andare più in fretta. Quando si vuole fermarli, gridano arrabbiati: «Perché mi disturbi?
Non ho tempo, vedi piuttosto di usare bene
il tuo». Fanno proprio come se un uomo che
cammina in fretta avesse più valore e fosse
più coraggioso di quello che cammina lentamente» (Tuiavii di Tiavea, Papalagi, Stampa
alternativa; http://www.freaknet.org/martin/libri/Papalagi/papalagi.html).
CRITICA DELLA RAGION
UTILITARIA
«L’utilitarismo non rappresenta un sistema
filosofico particolare o una componente tra
le altre dell’immaginario dominante nelle
società moderne. Piuttosto esso è diventato quello stesso immaginario, al punto che,
per i moderni, è in larga misura incomprensibile e inaccettabile ciò che non può essere
tradotto in termini di utilità e efficacia strumentale (…) Inizialmente razionale e democratico, l’utilitarismo degrada ormai la ragione in razionalismo, la scienza in scientismo
e la democrazia in tecnocraticismo. (…)
L’antiutilitarismo è vecchio quanto l’utilitarismo, cioè vecchio quanto le società umane. È intessuto nel complesso delle pratiche,
delle credenze e delle analisi che procedono
A CURA DI FILIPPO TRASATTI
dalla certezza, riflessiva e preriflessiva, consapevole o no, che
il solo modo di soddisfare i propri bisogni e i propri interessi
consiste nel non sacrificare la
vita per soddisfarli; dalla certezza che si può godere soltanto
di ciò che si è pronti a perdere
e, più in generale, che l’umanità diventa propriamente umana
soltanto al di là della strumentalità» (Alain Caillé, Critica della ragione
utilitaria, tr.it. Bollati Boringhieri, Torino
1991, pp. 4-7).
DESIDERIO E PROPRIETÀ
«Non si tratta di pensare una società che
abolisca la proprietà ma di creare nuove dimensioni di esistenza che non siano centrate su di lei, di riconquistare delle dimensioni di libertà e di emancipazione, dei desideri
che non siano tutti travolti dal monopolio economico. Posso volere un quadro indipendentemente dal suo prezzo, dedicarmi
a un’attività indipendentemente da quanto
guadagnerò. La nostra società senza indugio ha chiamato privazione un desiderio non
economico. Desiderare qualcosa di diverso dal denaro non ha niente a che fare con
l’ascesi, che Spinoza definisce giustamente
la peggiore delle passioni. Significa desiderare mille altre cose. Non si tratta di rinunciare al predominio dell’economia – bisogna
pur vivere – ma di localizzarlo. Le esperienze di creazione, amicizia, solidarietà portano una gioia qualitativamente differente da
quella del guadagno. La resistenza concreta sta in questo: spostare l’economia, non
farne più il centro delle nostre vite. Questa
è la condizione di ogni crescita alternativa» (Miguel Benasayag, Contro il niente. Abc
dell’impegno, traduzione italiana Feltrinelli,
Milano 2005, p. 141).
LA DECRESCITA
«La parola d’ordine della decrescita è quella di sottolineare con forza l’abbandono dell’obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui motore non è altro che
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UN’ALTRA ECONOMIA,
AL DI LÀ DEL
CAPITALISMO...
«L’auto-organizzazione, l’auto-coordinamento e il libero scambio sono oggi alla base
della produzione sociale; e sono realizzabili senza bisogno di una pianificazione centrale, né dell’intermediazione del mercato. I
produttori, collegati tra loro in rete, si accorderebbero preventivamente e in maniera
mirata per produrre a seconda dei bisogni,
e svolgerebbero la loro funzione produttiva come un complesso di “attività collettive a priori”, scambiando beni e servizi ai
quali non si sarebbe conferito previamente
il carattere di merci. Il denaro diventerebbe quindi superfluo, e al capitale verrebbe
sottratta la sua stessa base». [André Gorz,
nell’intervista “L’aritmetica del capitalismo cognitivo”, rilasciata a Thomas Shaffr
in occasione dell’uscita in Francia del suo
libro L’immatériel. Connaissance, valeur et
capital (éditions Galilée, Parigi, 2003 pubblicato nell’autunno successivo in Italia da
Bollati Boringhieri), uscita su il manifesto il
14 giugno 2003; ora disponibile in rete alla
pagina http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna//030614.htm].
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BIBLIOGRAFIA
ALCUNI LIBRI PER INIZIARE
CONSUMOMENO
la ricerca sfrenata del profitto da parte dei
detentori del capitale. Evidentemente, non
penso al rovesciamento caricaturale di questo concetto, che consisterebbe nel proporre
la decrescita per la decrescita. In particolare, la decrescita non è la crescita negativa. Sappiamo che il semplice rallentamento
della crescita fa precipitare le nostre società nella disperazione, a causa della disoccupazione o del taglio dei programmi sociali,
culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Possiamo immaginare quale catastrofe sarebbe un tasso di
crescita negativo! Così come non c’è niente
di peggio di una società fondata sul lavoro
che non abbia lavoro, non c’è niente di peggio di una società della crescita senza crescita. La decrescita, dunque, può solo immaginarsi in una “società della decrescita”. Ciò
presuppone che un’organizzazione completamente diversa in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove i legami
sociali sono più importanti della produzione
e del consumo di prodotti inutili, o nocivi
“usa e getta”. Condizione sine qua non è una
riduzione feroce del tempo di lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente. Traendo ispirazione dalla “Carta
dei consumatori e degli stili di vita” proposta al Forum degli organismi non governativi di Rio de Janeiro, tutto ciò può essere
sintetizzato nel programma delle “sei R”: rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre,
riutilizzare, riciclare. Questi sei obiettivi interdipendenti darebbero il via a un circolo
virtuoso di decrescita conviviale e sostenibile» (Serge Latouche in http://archivio.carta.
org/campagne/globalizzazione/decrescita/
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Karl Polany, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
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I LIBRI DI SERGE LATOUCHE
Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, 2008.
La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2007.
Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario
economico alla costruzione di una società alternativa, Bollati Boringhieri,
2005.
Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikomania vernacolare e società conviviale,
Rubettino, 2004.
Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia
dell’assurdo, EMI, 2004.
Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in un’economia globalizzata, Bollati
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Immaginare il nuovo. Mutamenti sociali, globalizzazione, interdipendenza
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La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del
progresso, Bollati Boringhieri, 1995.
Il Pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, 1993.
L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, 1992.
I LIBRI DI VANDANA SHIVA
Vacche sacre e mucche pazze. Il furto delle riserve alimentari globali,
DeriveApprodi, 2004.
La guerra dell’acqua, Feltrinelli, 2004.
AA.VV. La debolezza del più forte. Globalizzazione e diritti umani, Mondadori,
2004.
Terra madre. Sopravvivere allo sviluppo, UTET, 2002.
Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, 2002.
I LIBRI DI MAURIZIO PALLANTE
A cura di, Un Programma Politico per la Decrescita, Edizioni per la Descrescita
Felice, 2008.
Discorso sulla Decrescita. Manifesto per una felice sobrietà, libro + CD Audio,
Luca Sossella Editore, 2007.
Con Mario Palazzetti, L’uso Razionale dell’Energia. Teoria e pratica del
negawattor, Bollati Boringhieri, 2006.
La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal Pil, Editori Riuniti,
2005.
Un futuro senza luce? Come evitare i black out senza costruire nuove centrali,
Editori Riuniti, 2004.
Ricchezza ecologica, Manifestolibri, 2003.
Scienza e ambiente. Un dialogo, Bollati Boringhieri, 1996.
Tecnologie di armonia, Bollati Boringhieri, 1994.
Dal dominio all’armonia. Proposte per la riconversione ecologica dell’economia,
Scholé Futuro, 1990.
IDEE
per l’educazione
Il malessere che sta percorrendo la
scuola italiana non può essere interpretato esclusivamente
come il risultato delle scelte di politica scolastica degli
ultimi anni. Sarebbe un errore che renderebbe impossibile
mettere in atto risposte in grado di fronteggiarlo in modo
adeguato. È un fenomeno che coinvolge il rapporto scuolasocietà. E rappresenta la punta di un iceberg. La vera
entità del problema è sommersa e profonda
SCUOLA E SOCIETÀ
Ridare senso alla scuola
DOMENICO CHIESA*
L
e politiche governative lo hanno semmai
assecondato e aggravato. Il malessere ha radici a livello politico, sociale e culturale.
Penso che sia in atto una crisi della idea stessa di scuola in cui gli elementi di mancanza
di qualità, di inefficienza, di inadeguatezza
dei risultati siano contemporaneamente causa e conseguenza della sua crisi: la scuola è
in crisi perché non funziona, ma non funziona, almeno in parte, perché è in crisi.
Mi pare che da anni si stiano percorrendo piste marginali e sostanzialmente ininfluenti.
Grembiulini, accrescimento della disciplina
slegata dal processo educativo, ritorno alle
tabelline rappresentano improvvisazioni utili
come diversivo.
Anche le forme di opposizione alle politiche
scolastiche hanno agito in superficie nascondendo l’entità e la dimensione del problema.
Proviamo ad approfondire l’analisi, a riprendere sul serio a discutere, a riaprire con coraggio il ragionamento.
Intanto c’è una sostanziale differenza tra la
scuola dell’infanzia (3-11 anni) e la scuola
della preadolescenza/ prima adolescenza (1116): la scuola dell’infanzia dispone di una
teoria dell’istruzione costruita tra i secoli XIX
e XX con l’apporto di grandi intellettuali, con
l’appoggio convinto dei governi, dell’opinione pubblica che si è radicata nell’immaginario
collettivo dei ceti borghesi come di quelli popolari e soprattutto è diventata competenza
diffusa e profonda degli insegnanti che operano in questa fascia.
Il sapere adulto è oggetto di una mediazione
culturale che lo rende adeguato ai bisogni e
ai processi conoscitivi dei bambini permettendo sostanzialmente il superamento della
didattica come semplice facilitazione della
trasmissione del sapere adulto e rende possibile la dimensione laboratoriale.
Semmai sta emergendo la mancanza di manutenzione di tale teoria: i bambini che arrivano alla scuola hanno vissuto e vivono in
un ambiente educativo molto diverso rispetto
ad alcuni decenni fa. C’è qualcuno (che non
sia il costruttore di turno di tabelle per declinare e valutare, magari in modo “autentico”, competenze) che stia lavorando sul serio
al problema, prendendosi il tempo e i mezzi
necessari?
Non è così, purtroppo, per la successiva fascia di età: la scolarizzazione di massa si è limitata ad estendere a tutti la scuola pensata
per confermare/acquisire privilegi sociali. Da
questo partiva la scuola di Barbiana e prendevano spunto le sferzate di Pasolini contro
la scuola media.
Anche l’innalzamento dell’istruzione per i 1416 anni avviene in assenza di qualsiasi idea
su cosa significhi far stare a scuola tutti in
questo biennio.
Un fatto si chiarifica: l’unico livello di scuola che si è effettivamente consolidato come
“obbligo” è quello elementare.
I traguardi di competenza che un bambino di
6-10 anni è chiamato a raggiungere non sono
una opzionalità da dosare sulla base del mestiere che farà da grande. Il bambino lo sa; lo
sanno gli adulti e il maestro che non si sognerebbe mai di essere soddisfatto se anche
uno solo dei suoi allievi non avesse imparato
a leggere e scrivere.
Acquisire i codici linguistici, logico-mateécole numero 70 pagina
17
matici, le basi del ragionamento scientifico
e storico-sociale per cominciare ad usarli nel
rapportarsi con la realtà, sviluppare le capacità espressive sono per tutti e per ciascuno
e vanno raggiunti non a livello minimo, bensì a livello di padronanza: sono una ipoteca
per essere, non solo da grandi, cittadini.
L’obbligo
L’obbligo di istruzione per l’infanzia è diffusamente acquisito come elemento positivo: la
scuola è un tempo e un luogo insostituibile di
vita, accanto ad altre esperienze ugualmente
significative e insostituibili.
Purtroppo non è la stessa idea di obbligo che
si ha per la fascia della prima adolescenza.
Proprio per questa età la scuola sta subendo un processo di marginalizzazione su due
piani.
In primo luogo mi pare sia entrato in crisi
l’assunto per cui l’istruzione formale, come
patrimonio comune di cittadinanza, debba
inoltrarsi oltre la prima alfabetizzazione. Era
stata la sfida lanciata negli anni Sessanta e
perseguita nei due decenni successivi diventando norma nell’innalzamento dell’obbligo a
14 e poi a 16 anni e orientando la revisione
degli impianti curricolari. È quella sfida che
si sta esaurendo; garantiti i codici alfabetici
la formazione culturale va “dosata” in riferimento alle prospettive future di vita: quale
collocazione sociale, quale attività lavorativa. Si utilizzano come argomenti forti il diritto all’ignoranza e la personalizzazione che
rispetti le vocazioni.
In secondo luogo si è sviluppata la convinzione che la scuola non rappresenti più l’ambito
predominante dell’istruzione. Si dice: la scuola non riesce ad essere il luogo di formazione per tutti, anzi è dimostrabile che non può
proprio esserlo, anzi non è nemmeno giusto
cercare di fare sì che lo diventi. È la sequenza
classica della favola della volpe e l’uva: dalla
disillusione alla giustificazione.
Non è quindi il rilancio della provocazione
di Pasolini né della spinta verso una educazione libertaria, de-istituzionalizzata che accompagna e sollecita, da sempre, lo sviluppo dell’istruzione formale, bensì una forma
di strisciante perdita di senso, di continua
svalutazione, di lucido, ma non dichiarato (in
questo senso “perverso”) processo di marginalizzazione.
Le due scuole
Sta riemergendo la prospettiva delle due scuole: una scuola tradizionale per i dotati e meritevoli, votati a proseguire gli studi e un’articolazione di percorsi “personalizzati” per
rispettare le altre “vocazioni”, fino all’assunzione dell’attività lavorativa come alternativa
formativa già nella prima adolescenza.
Anche nella scuola media si sta insinuando
questo orientamento: molti ragazzi si sono
già persi, non riescono a rispettare i tempi,
non capiscono più a cosa serva lo studio, cominciano a pensare che la scuola non faccia
per loro e si comportano di conseguenza.
Molti adulti cominciano (ri-cominciano, conécole numero 70 pagina
18
tinuano) a pensare che forse dividere gli studenti tra coloro che continueranno nei licei e
coloro che continueranno nei corsi professionalizzanti sia una scelta di modernità.
Siamo arrivati al dunque. Era rimasto nascosto, occultato dall’ideologia per qualcuno e
per altri dal buonismo.
Sono riemersi e si stanno ri-contrapponendo i
due modi di pensare alla scuola che derivano
dal significato che si dà alla “differenza” (di
genere, sociale, culturale, religiosa, di “intelligenza”…).
Il primo sostiene che tenere insieme allievi
diversi risulti negativo per tutti e punta a dividerli il più presto possibile; il secondo, al
contrario, che sia positivo per tutti e che la
separazione debba essere il più possibile rimandata.
Ne derivano due tipi di scuola: una basata
sulla canalizzazione e sulla personalizzazione
del curricolo (appena è possibile e in tutte le
forme possibili) contrapposta ad un’altra costruita sulla unicità/unitarietà e sulla individualizzazione del curricolo con inizio della
personalizzazione solo all’inizio della scuola
secondaria superiore.
Continuare sulla seconda strada (fino a 14
anni la scuola unica/individualizzata e una
scuola unitaria/individualizzata/indirizzata
nei primi due anni della scuola secondaria superiore) è la difficile scommessa da rilanciare
e da non ridurre a slogan, ma è anche, paradossalmente, il modo più realista per affrontare la crisi della scuola perché comprende la
riconquista di un senso condiviso.
Quali i possibili terreni su cui chiamare la
scuola e l’università a lavorare e la politica e
la società civile a concorrere per quanto loro
compete?
Provo un accenno.
1. Ricerca attorno ad una teoria dell’istruzione per la fascia 11-16: cosa significa e perché
“sequestrare” tutti i ragazzi di questa fascia
di età in un percorso di istruzione? Forse ha
senso se corrisponde ai loro bisogni formativi
e non è solo motivato dai bisogni lavorativi
del futuro adulto. Non una ricerca accademica, ma il coniugare l’approfondimento teorico
con la ricerca-azione. I riferimenti devono comunque contenere l’intero percorso di istruzione dai 3 ai 19 anni.
2. Individuare alcune variabili correlate con il
miglioramento dell’apprendimento e concentrarsi su queste. Me ne vengono in mente tre:
la qualità culturale del curricolo, la qualità
delle relazioni umane, la qualità dell’ambiente/ contesto di apprendimento.
Proviamoci.
* Segreteria nazionale CIDI.
abb.
2008
La rivista trimestrale, la lettera telematica mensile,
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MOSTRE La guerra civile spagnola in una mostra
itinerante promossa dalla Ciutat del Coneixement
del Comune di Barcellona e dal Museu d’Història
de Catalunya che toccherà molte città italiane.
Quando
piovevano bombe
Quella guerra ci riguarda
MICHELE DONEGANA*
P
resentata la prima volta nel 2007, la
mostra Quando piovevano bombe. I bombardamenti e la città di Barcellona durante la guerra
civile¹ dall’inizio dell’anno sta toccando varie
città italiane (Roma, Genova, Trieste, Como,
Massa Carrara, Milano) e prevede di girare in
tutta la penisola con anche una puntata nella
Svizzera italiana. È il risultato della ricerca di
un gruppo di lavoro per i settanta anni dagli
attacchi aerei sulla capitale della Catalogna
a cura di Xavier Domènech Sampere e Laura
Zenobi.
Pannelli fotografici e video raccontano i bombardamenti di Barcellona – la prima grande
città europea ad essere bombardata con cadenza regolare in Europa – costruendo un itinerario di grande interesse documentario e
didattico: gli effetti sulla popolazione civile,
i tentativi delle istituzioni di dare risposte
e alleviare il dramma, lo sforzo spontaneo e
popolare di costruzione dei rifugi. Molto accurata è la riproduzione dell’ambiente di comunicazione dell’epoca: i manifesti con le
istruzioni da seguire in caso di bombardamento, quelli della propaganda, e soprattutto i disegni di bambini sull’esperienza della
guerra in cui si vedono chiaramente i bombardieri sganciare il loro carico sulle città e i
cittadini nascondersi nei rifugi.
L’intento didattico – spiega Jaume Sobrequés
i Callicó direttore del Museu d’Història de
Catalunya – è chiaro: «ripristinare la memoria dei fatti, contribuire alla loro conoscenza
facendo in modo che tale conoscenza giunga
tanto ai familiari delle vittime di quegli eventi come alle nuove generazioni di giovani delle nostre scuole ed università; e infine far sì
che questa rievocazione e conoscenza rappresentino una sorta di omaggio a persone, ed a
tutta una generazione, alle quali la destra di
sempre, alleata a dei militari retrogradi e con
l’appoggio delle grandi potenze nazifasciste,
impose una guerra che non volevano».
La mostra è accompagnata da due libri: il catalogo, con una breve introduzione storica, e
un volume che raccoglie poesie – per lo più
sconosciute e tutte inedite, in lingua originale con testo a fronte, scritte sia da poeti noti
(Pere Quart, Agustí Esclasans, J. M. Prous i
Vila, C. A. Jordana Josep Janés i Olivé), sia da
appartenenti ad una generazione più giovane (Gimeno-Navarro, Ramon Bech), sia da autori del tutto ignoti (Conrad Lladó, Ladislau
Martí) –, un racconto di Xavier Benguerel, due
testi della ampia produzione narrativa svolta
sui bombardamenti a Barcellona dalla Guerra
civile fino ad oggi, un frammento del romanzo La piazza del Diamante di Mercè Rodoreda
e un testo autobiografico di Joaquim Horta,
con il ricordo delle sue impressioni sul bombardamento del mese di marzo del 1938.
Responsabilità italiane
La mostra riguarda naturalmente anche l’Italia, dato il coinvolgimento fascista nella
Guerra civile spagnola e in particolare dell’aviazione italiana (l’“Aviazione legionaria”) nei bombardamenti sulle città della
Catalogna. Le responsabilità italiane sono testimoniate anche dai telegrammi che ordinavano l’inizio e la fine delle operazioni, come
quello che diede avvio alla pioggia di bombe sulla seconda città spagnola: «Per generale Velardi. Iniziare stanotte azione violenta
su Barcellona con martellamento diluito nel
tempo» (pubblicato sul sito www.barcelonabombardejada.cat/files/tele1.swf).
Il conflitto armato ha visto nella penisola
iberica scontrarsi per la prima volta i fascismi
spagnolo, italiano e tedesco e le forze democratiche e per quanto riguarda l’Italia gli antifascisti, accorsi nelle Brigate internazionali,
e il corpo di “volontari” mussoliniani. Come
si legge nel catalogo «Dal diario di Ciano si
evince che, dopo i bombardamenti del marzo del 1938, i più terribili subiti dalla città,
Mussolini era contentissimo che gli italiani
sgomentassero il mondo con la loro aggressività, per una volta, invece di deliziarlo con
le chitarre. A suo avviso, aumenterà il nostro
prestigio nei confronti dei tedeschi, che apprezzano la guerra totale, implacabile». «La
splendida vittoria di Barcellona è un altro
capitolo nella storia della nuova Europa che
stiamo creando – disse da Palazzo Venezia il
duce conquistata la città –. In questi istanti mordono la polvere numerosi nostri nemici. La parola d’ordine dei rossi era: “Non
passeranno!”. Siamo passati e vi garantisco
che passeremo!». Un prodromo della Seconda
guerra mondiale.
Una ferita aperta
La ferita è ancora aperta nella Spagna attuale.
Nel 1997 il presidente della Repubblica federale tedesca per il sessantesimo del bombardamento di Guernica ha presentato pubblicamente una lettera in cui riconosceva le
colpe tedesche e chiedeva una riconciliazione. L’anno successivo il Parlamento autonomo catalano rivolse una richiesta di scuse al
Parlamento italiano per i bombardamenti perpetrati dall’aviazione fascista e non ha mai
avuto una risposta. Una vicenda che affonda
le proprie radici nel mito degli “italiani brava gente“ e del “bravo soldato italiano” che
non hanno ancora permesso di demistificare
tante delle meno fulgide esperienze italiane
dalle guerre coloniali ad appunto quella di
Spagna. «Ogni memoria suppone una gerarchia nelle qualificazioni dei valori rispetto al
passato – spiegano nell’epilogo i curatori della mostra – ma la sua forza sta nell’integrare
tutti gli aspetti storici significativi e non solo
quelli che rinforzano i propri miti. In questo
contesto la relazione che stabilì fra italiani e
spagnoli durante la Guerra civile diventò con
gli anni una memoria frammentata. Il capitolo dei bombardamenti sulla Catalogna in particolar modo rappresenta un episodio della
storia comune dei due Paesi che illumina in
modo differente molti di quei miti e può essere uno dei possibili punti di partenza per la
ricostruzione di quella memoria».
Per maggiori informazioni, contatti e per richiedere la mostra: http://www.barcelonabombardejada.
cat/, [email protected].
* Istituto di Storia contemporanea “Pier Amato
Beretta”, Como.
NOTE
1. Quando piovevano bombe non è solo un puro riferimento temporale e storico ma anche una citazione letteraria da una lettera della scrittrice antifascista catalana Mercè Rodoreda. La mostra è stata
tradotta in italiano grazie alla Direcció General de la
Memòria Democràtica del Departement de Relations
Institutcinals i Partecipació de la Generalitat de
Catalunya.
école numero 70 pagina
19
MIGRANTI In Italia si insegna italiano per stranieri
principalmente a quattro categorie di studenti: i lavoratori
adulti, i bambini, gli studenti delle scuole medie inferiori
e superiori e gli universitari. Analizziamo modi e luoghi
di un nodo educativo poco conosciuto, ma socialmente e
L’italiano per i
nuovi italiani
culturalmente cruciale
PAOLO NITTI*
L’
utenza si rivolge a diverse istituzioni
per motivi legati prevalentemente all’estrazione sociale (in particolare alla disponibilità
economica), a vincoli scolastici (scambi universitari, progetti Erasmus, ecc.) e all’età.
In media, il livello dei corsi arriva al B2
del Common European Framework1 (Quadro
Comune Europeo) e solo in rare occasioni si
svolgono corsi di livello C1 o C2 (per lo più
nelle università o nelle scuole private).
Nelle scuole statali
Le scuole statali hanno visto l’incremento
esponenziale della presenza degli stranieri
nelle classi.
Solitamente i corsi di italiano L2 sono sovvenzionati dallo Stato o dalla Regione e le scuole reclutano il personale interno, utilizzando
le proprie aule e selezionando il materiale dai
corpora dei libri di testo a disposizione.
A partire dagli anni Novanta, in un modo o
nell’altro, quasi tutte le scuole torinesi si sono
attrezzate per far fronte all’esigenza comune
di integrare gli alunni immigrati nelle classi.
In Italia, uno dei fattori di inserimento e di
suddivisione nelle classi scolastiche è la scolarizzazione, ma il sistema italiano, che prevede anche l’obbligo di istruzione fino ai sedici anni, non corrisponde necessariamente a
quello degli altri Paesi. Conseguentemente,
può succedere che alcune scuole elementari
inseriscano bambini di otto o dieci anni nelle prime classi, contribuendo a formare delle
classi disomogenee e fortemente fratturate.
L’età è uno degli aspetti fondamentali per
l’inserimento nei corsi e per la suddivisione
in livelli ma le scuole obiettano che mancano gli spazi, le strutture e il personale per far
fronte ad un problema così vasto e quindi la
soluzione migliore consiste in un “arrangiamento”. Questo “arrangiamento”, in alcune
scuole, arriva addirittura a separare, durante le ore di italiano, gli studenti stranieri da
quelli italiani, generando una mancata integrazione e la probabile nascita di un senso di
disagio che il bambino più grande prova nel
confrontarsi solamente con i bambini più piccoli e non con i suoi pari.
école numero 70 pagina
20
Le istituzioni, non potendo fare affidamento su una normativa statale che regoli queste situazioni e dovendo garantire il diritto
allo studio ai residenti in Italia, compiono disperate acrobazie cercando di minimizzare le
perdite. Si assiste anche ad un atteggiamento xenofobo o semplicemente protettivo da
parte dei genitori italiani, i quali iscrivono
i bambini nelle scuole private o nelle scuole dove la presenza degli immigrati è minore,
perché, a loro avviso, questa presenza rallenta e ostacola l’apprendimento dei loro figli.
Lingua seconda
I corsi di italiano come lingua seconda possono essere estensivi o intensivi. I corsi intensivi hanno durata breve, ma un carico temporale non indifferente mentre i corsi estensivi
possono vantare un carico orario disteso per
molto tempo; spesso i corsi sono di natura
ibrida come accade nel caso degli insegnamenti delle scuole statali che presentano un
carico orario dalle quattro alle dieci ore al
giorno per diverse materie. Le scuole statali
sono da considerare come eccezione rispetto
all’andamento dei corsi di lingua seconda che
sono per lo più intensivi (la durata è bimestrale e il carico orario settimanale è di circa sei ore).
Nei corsi estensivi solitamente gli studenti adottano un libro (corredato da un eserciziario) che rappresenta il punto di contatto
con l’insegnante e la materia di insegnamento, ma può anche influire negativamente sul
dinamismo e sulla vivacità della lezione e destabilizzare la motivazione.
A causa delle tempistiche ristrette, il materiale hand-out sembra invece essere preferito nei corsi intensivi: non si riesce a seguire
esaustivamente il libro e si cerca di mediare
tra più fonti, creando un nuovo sillabo. Gli
studenti hanno a disposizione molte fotocopie e il programma avrà maggiore possibilità
di essere mirato e studiato ad hoc per i corsisti, ma il materiale potrebbe costituire una
fonte di impaccio nel caso in cui il metodo
di lavoro (o l’obbiettiva possibilità di lavoro)
dei discenti sia dispersivo: le fotocopie sono
facili da perdere, da rovinare o da dimenticare a casa.
I docenti di lingua seconda possono fare affidamento su due strategie metodologiche da
adottare nei corsi: la lezione di lingua può
essere intesa come visita guidata (percorso
strutturato, offerto progressivamente ai corsisti) o come itinerario esplorativo (si promuove l’interlocutore motivandolo e sviluppando abilità critiche e creative).
Nei corsi estensivi organizzati dalle scuole
statali o private-convenzionate, solitamente
gli insegnanti fanno parte del corpo docente dell’istituto; il personale possiede quindi
una laurea in lettere e filosofia o in lingue ma
in genere non c’è specializzazione in italiano
come lingua seconda: molti professori di italiano sostengono che non vi siano differenze
sostanziali tra l’insegnamento dell’italiano L1
o L2 e molti insegnanti di lingua straniera affermano che insegnare italiano agli stranieri equivale ad insegnare una lingua straniera
agli italiani.
In entrambi i casi è possibile obiettare che lo
straniero non è italiano e i processi di acquisizione e cognitivi, coinvolti nell’apprendimento della lingua, possono essere differenti;
inoltre un corso di lingua straniera in Italia
è diverso da un corso di italiano per stranieri
proprio perché diverse sono le motivazioni e i
bisogni. Oltre ai corsi di italiano per stranieri
“interni” e grazie all’autonomia didattica, le
scuole possono organizzare dei corsi di italiano per gli immigrati, al di fuori delle lezioni
ordinarie. Anche all’interno di questi corsi gli
insegnanti sono i professori di lingue straniere o di materie letterarie della scuola.
Gli insegnanti
Gli insegnanti della scuola statale che si adoperano nei corsi di italiano L2 in genere organizzano minuziosamente i loro sillabi, facendo riferimento ai programmi ministeriali
ai quali già aderiscono nel loro lavoro ordinario. Il corso per gli stranieri viene così a
rappresentare una possibilità di sperimentarsi
in una nuova dimensione, di permettere alla
propria professionalità di avanzare, di arrotondare lo stipendio o di rientrare nel monteore della scuola stessa.
Diversi dai precedenti sono gli insegnanti dei
corsi per i ragazzi stranieri già inseriti nella
scuola: in questo caso il corso sembra essere
spesso riconducibile a un normalissimo corso di recupero: i ragazzi rimangono a scuola
dopo le lezioni curricolari e imparano l’italiano con il loro professore o con un insegnante
che la scuola designa a tale compito.
Nelle università private o nei corsi privati
parauniversitari, molti docenti sono tirocinanti, altri neolaureati e laureati in lettere e
lingue con specializzazione in didattica dell’italiano come lingua seconda, il personale
quindi risulta più competente per il lavoro;
l’utenza è composta da discenti comunitari o
extracomunitari diplomati o laureati, per lo
più con un’età fra i 18 e i 35 anni. Le scuole private convenzionate della città di Torino
organizzano corsi di italiano per stranieri reclutando il personale interno e l’offerta formativa è simile a quella che le scuole statali
propongono nei corsi per studenti esterni.
Nelle scuole private
Altri corsi di italiano L2 sono organizzati
dalle scuole private di lingue straniere; mediamente l’iscrizione ha un costo che va dai
quattrocento agli ottocento euro. L’utenza
di questi corsi è di livello alto (per disponibilità economica e scolarità), il personale
docente è laureato e specializzato nell’insegnamento dell’italiano L2. I sillabi, preparati
dai referenti didattici, spesso subiscono variazioni, a seconda delle esigenze dell’utenza
(per esempio attestati o necessità linguistico-lavorative).
Le aziende si rivolgono ai corsi di italiano
per stranieri per un fine lavorativo o promotore di scambi e il personale docente è reclutato, in genere, in base alle competenze
professionali dei discenti: insegnano italiano
alcuni insegnanti laureati in legge, economia
o ingegneria; poche sono le aziende che si
affidano alle università per il reclutamento.
Le associazioni non governative, i privati e
la Chiesa spesso stanziano fondi per l’inserimento dei corsi di italiano all’interno delle
parrocchie o di altre istituzioni deputate a
questa funzione (ad esempio Caritas, Sermig
e Gruppo Abele).
I docenti sono volontari selezionati in base al
rapporto domanda/offerta, inseriti senza obblighi contrattuali, a volte con pratica di in-
segnamento ma non specifico per la lingua
seconda. Di solito condividono la classe con
altri insegnanti e spesso rinunciano a metà
del corso.
In genere, questi corsi sono gratuiti e l’utenza è di livello basso o medio-basso (sia dal
punto di vista della scolarità che della disponibilità economica).
I sillabi sono generalmente preconfezionati e fanno riferimento a un libro di testo o
alle decisioni di un referente didattico, che
talvolta colleziona pareri e consigli del corpo docente.
L’insegnamento dell’italiano è impostato secondo una prospettiva pedagogica al cui interno la lingua svolge un ruolo strumentale ai
fini dell’integrazione in Italia.
I corsi seguono un andamento intensivo o
ibrido, durano non più di due mesi ma sono
suddivisi in livelli tali per cui, calcolando il
passaggio dal livello più basso a quello più
alto (alfabetizzazione - livello B1), la durata complessiva raggiunge l’intero anno scolastico. Bisogna però prendere in considerazione il fatto che gli stranieri non partono tutti
dalle medesime condizioni: una buona parte
degli immigrati è alfabetizzata e scolarizzata,
inoltre, per motivi legati alla condizione lavorativa e alla motivazione, il numero di coloro che abbandonano, prima della fine di un
modulo, è molto alto.
L’obiettivo principale di questi corsi, più che
linguistico, sembra legato all’accoglienza degli immigrati: si evidenziano in modo particolare il calore e l’informalità del personale e
della struttura.
Si lavora più sul clima di classe che sulla lingua, sebbene durante la fase conclusiva dei
corsi, le associazioni rilascino degli attestati di frequenza; su questi attestati è riportata una valutazione (spesso dipendente dalla soggettività di coloro che verificano): si
sceglie di valutare in base ai risultati di una
o più prove finali, o, semplicemente in base
alla percentuale di lezioni frequentate e alla
partecipazione dei corsisti in classe.
I corsi per gli immigrati minorenni, invece,
si riallacciano alle lacune rilevate dalla scuola statale e i sillabi sono progettati per risolvere i problemi scolastici; non si tratta solamente di insegnamento della L2 ma anche di
altre materie scolastiche, a seconda dei bisogni degli utenti.
Si ha spesso l’impressione che il volontario
che insegna italiano agli stranieri non abbia
bisogno di una particolare preparazione per la
sua attività e spesso la selezione del personale, nel quadro di emergenza attuale, sembra
allentare la presa su alcuni standard valutativi: l’altruismo e la voglia di fare dovrebbero
coincidere con un servizio d’eccellenza e non
risolversi in prestazioni d’opera disorganizzate e frettolose.
Italiano per adulti
L’affluenza ai corsi di lingua seconda per
adulti si spiega se si prende in considerazione
la motivazione integrativo-strumentale degli
immigrati: la lingua italiana è utilizzata per
comunicare nei luoghi di lavoro, sia per cercare un impiego sia durante lo svolgimento
delle mansioni.
Diverso dal caso degli adulti è quello dei bambini e degli adolescenti, in quanto l’affluenza ai corsi di lingua seconda si spiega se si
prende in considerazione l’obbligo di età scolare fino ai sedici anni; le motivazioni sono
differenti, almeno in parte, rispetto a quelle
degli adulti, la lingua impiegata per lavorare
si trasforma in lingua utilizzata per studiare
e apprendere, assumendo una funzione veicolare vincolante.
Un errore che commettono alcuni docenti di
lingua seconda non specialisti, nei corsi organizzati dalle biblioteche civiche, dalle scuole
statali e dalle associazioni di volontariato è
l’aspirazione a un’impossibile esaustività, ovvero a voler dire tutto ciò che riguarda un
aspetto della L2, sovraccaricando i corsisti di
informazioni non assimilabili.
Gli insegnanti specializzati in didattica dell’italiano come lingua seconda insegnano prevalentemente nei corsi universitari, nei corsi
tenuti dalle scuole private e nei corsi promossi dai progetti. Mancano, in genere, figure
professionali specializzate nei corsi organizzati dalle biblioteche civiche e dalla Regione,
anche se chi insegna, a volte, ha una lunga
esperienza professionale.
L’opinione comune non considera il ruolo di
insegnante di lingua seconda alla stessa stregua di uno di L1, perché secondo la percezione diffusa è necessario essere madrelingua e
il resto viene da sé, senza bisogno di una specifica preparazione.
Si ha anche l’impressione che manchino fondi e strutture perché lo Stato possa prendersi degnamente cura degli immigrati; le scuole
statali, invece, si ritrovano in una situazione
complessa perché lo Stato non assicura gli
specialisti ma il flusso di stranieri è consistente e allora, grazie all’autonomia didattica, si affidano i corsi e gli utenti ai costosi
progetti esterni.
I progetti e le associazioni di volontariato sono i principali erogatori di un servizio
del quale dovrebbe occuparsi lo Stato in prima battuta. Si ha l’impressione che la gratuità o il costo dei corsi di italiano L2 siano
proporzionali ai tipi di servizi offerti: i corsi
organizzati da alcune imprese, dalle università e dalle scuole private vantano strutture
d’eccellenza, insegnanti specialisti e un’utenza che, in linea di massima, è scolarizzata e
certamente non è disagiata dal punto di vista economico; i corsi organizzati dalle associazioni di volontariato e dalle scuole statali
dipendono dalle scelte dei singoli referenti e
docenti e di solito non possono vantare strutture e aule alla pari di quelle dei privati.
* Paolo Nitti si è laureato in Linguistica italiana all’Università di Torino con una tesi sull’insegnamento dell’italiano per stranieri.
NOTA
1 I livelli linguistici indicati dal Common European
Framework sono elementari A1 e A2, intermedi B1e
B2, avanzati C1 e C2.
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esperienze narrate
È ANCORA TEMPO DI EROI?
In una società come la nostra in cui l’apparire
è più importante dell’essere, e in cui non
esistono certezze, né “paletti” oltre cui non si
può e non si deve andare, sopravvivono gli eroi
nell’immaginario collettivo? E in particolare,
nella scuola, ha ancora un senso parlare di eroi
ai nostri allievi? Quale contributo offre in questa
direzione l’odierna letteratura per ragazzi? E
quale ricaduta educativa può avere ancora oggi
l’insegnamento della storia?
ANTONIETTA DI PAOLA*
D
ell’eroe non si apprezzano solo le doti fisiche (la
bellezza e la forza, la capacità di battersi) ma anche tutti
quei valori che fanno di una
comunità una società civile, e
per i quali vale la pena lottare e sacrificarsi: il senso di
responsabilità, l’onestà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, il bene collettivo
al di sopra di quello personale, la nobiltà d’animo, l’amicizia vera, l’ospitalità per lo straniero,
la devozione familiare, la pietas per gli anziani
genitori, la fedeltà coniugale, il senso dell’appartenenza, il rispetto per l’altro, il timore riverenziale per il sacro...
Sono ancora questi i fondamenti della nostra società? Ascoltate un telegiornale o sfogliate un
qualunque quotidiano, e rispondete.
Mino Milani, ripercorrendo l’evoluzione nel tempo del concetto di eroe, sostiene che il termine “eroe” risulta oggi un po’ inflazionato. Parla
proprio di banalizzazione dell’eroe: in una società come la nostra in cui, ad esempio, “il senso
del dovere è venuto meno, chi compie il proprio
dovere, con la serietà che esso comporta, risulta
strano, quasi ascrivibile a una categoria straordinaria, quale, appunto, quella dell’eroe”.
E questa è la situazione migliore, perché ancor
peggio è sentire parlare di eroi quando ci si riferisce, ad esempio, a quel giocatore che ha segnato il goal decisivo per una importante partita, o
a chi vince quei reality-show così diseducativi
della nostra dilagante televisione spazzatura. In
questo caso non si parla più di “banalizzazione”
dell’eroe, ma di svuotamento del significato più
profondo e più autentico del termine “eroe”. E
ciò che la Tv attuale fabbrica sono pseudo-eroi:
non più eterni, hanno tutti un ciclo di vita piuttosto breve, e sono spesso “miti usa e getta”.
Se è vero che oggi fatichiamo a trovare degli
eroi, abbiamo invece “miti collettivi”: così nell’immaginario dei ragazzi se l’eroe singolo non
esiste, esiste invece l’eroe come categoria. In
una indagine conoscitiva condotta presso i miei
allievi, alla domanda: “Esistono oggi gli eroi?”
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essi hanno risposto: “Eroi sono i vigili del fuoco, eroi sono i medici, sono i volontari in missione di pace, le forze dell’ordine, gli scienziati
che studiano per la ricerca, i donatori di organi. Eroi tutti della collettività che operano per
il bene comune”.
Nelle antiche storie e leggende di eroi, all’eroe si
contrapponeva sempre un antagonista: esso è la
proiezione delle paure che gli eroi devono superare. L’antagonista non è mai un debole, anzi è
forte quanto l’eroe, è lo specchio dell’eroe: grazie a lui l’eroe esiste. L’eroe ha paura, piange, conosce la sofferenza, e sa che potrebbe morire per
il suo ideale, per il compimento della sua missione: l’eroe accetta la morte, ma non la cerca.
Oggi se all’eroe singolo si sostituisce una categoria, così all’antagonista singolo si sostituisce
una categoria di nemici. E quali sono oggi i nemici contro cui si muove l’eroe? Sono le malattie, il dolore, la povertà, la fame, il terrorismo,
l’insicurezza, gli squilibri e le ingiustizie sociali.
L’eroe di oggi è l’eroe del bene comune e della
collettività.
Il Novecento ha decretato la morte dell’eroe. Ma
lasciare gli adolescenti senza eroi significa privarli di modelli da seguire nei momenti più difficili del loro processo di formazione e maturazione.
Diventa fondamentale l’intervento della scuola, e
quanto mai delicato il ruolo degli insegnanti.
È fuori discussione il ruolo che la famiglia dovrebbe avere in questo importante compito educativo, ma la mia lunga esperienza di insegnante
mi ha portato a scontrarmi con una realtà in cui
in cui la famiglia non è più «una roccia su cui costruire le solide fondamenta» per la personalità
in divenire dei nostri ragazzi. È fragile e spesso
contraddittoria al suo interno, il più delle volte
incapace di essere esempio autorevole e modello
positivo di vita.
È in questa prospettiva che l’insegnamento della
storia assume una valenza educativa indiscutibile e irrinunciabile.
I miei ragazzi hanno scritto: «Eroi della storia sono i martiri, i patrioti, i partigiani, caduti combattendo per un ideale: se siamo oggi
uomini liberi è per merito loro. Eroe è anche
chi sa trasmettere con l’esempio un grande insegnamento di vita, come Anna Frank e Zlata
Filipovic, che hanno vissuto e descritto la tragica esperienza della guerra, conservando però
intatte la fiducia nella vita e la speranza in un
mondo migliore. Grandi eroi del passato sono
Garibaldi che completò l’unificazione d’Italia e Pietro Micca che, sacrificando la propria
vita, impedì ai Francesi l’assedio di Torino. Nel
Medioevo sono eroi i cavalieri, esempio di lealtà, forza d’animo, coraggio, misura, generosità,
cortesia, prodigalità e fedeltà. E Madre Teresa
di Calcutta, matita nelle mani di Dio, pronta ad
alleviare le sofferenze dei più deboli? E i magistrati Falcone e Borsellino che hanno sacrificato
la propria vita per la Giustizia contro la mafia?
E quei semplici cittadini che con coraggio denunciano soprusi e violenze? E gli amici, quelli
veri, che ci aiutano e ci sostengono nei momenti difficili della nostra vita? Piccoli grandi eroi di
ogni giorno…». Alcuni ragazzi hanno anche ricordato Gino Strada e Papa Giovanni Paolo II.
Come la storia, anche la letteratura per ragazzi
è un mondo ricco di eroi. Le belle storie sono un
elemento fondamentale nell’educazione, poiché
in esse troviamo la proiezione dei nostri sogni e
dei nostri desideri, ritroviamo modelli che vorremmo incontrare ed emulare.
L’uomo che piantava gli alberi, Storia di Iqbal,
Sotto il burqa, Stargirl 1 sono i testi che ho scelto di proporre in una mia classe seconda, valorizzando l’eroicità dei protagonisti.
Il primo è la storia di un pastore solitario e
tranquillo che compie gratuitamente e generosamente una grande azione, quella di piantare
alberi, un’impresa che cambierà la faccia della
sua terra e la vita alle generazioni future.
Questa storia insegna ai ragazzi il valore della pazienza, il gusto dell’attesa, il premio della
perseveranza ottenuto nel silenzio, a dispetto
di una società come quella in cui viviamo in cui
tutti urlano, in cui tutti freneticamente corrono,
in cui non c’è mai tempo, in cui è indispensabile ottenere risultati immediati. Quanti dei nostri
ragazzi sono pazienti e perseveranti? Quanti dei
nostri ragazzi sanno parlare anziché urlare?
Il secondo testo ci conduce in Pakistan. E l’eroicità del personaggio che incontriamo sta nell’incarnare la lotta coraggiosa per la conquista di
un diritto violato, il diritto di ogni essere umano alla libertà, diritto che va maggiormente tutelato e difeso quando ad essere coinvolti sono i
bambini. Ci riferiamo alla storia vera di Iqbal.
L’autore, Francesco D’Amato, così presenta il suo
libro: «La storia di Iqbal non è una storia triste;
è la storia di come si può conquistare la libertà.
Ed è una storia che continua e va avanti, tutti i
giorni. Anche mentre voi leggete queste righe».
È indubbiamente un testo che coinvolge moltissimo i ragazzi, proprio perché è un romanzo di
denuncia sul valore della libertà: Iqbal, venduto dalla sua famiglia caduta in miseria, sarà costretto a lavorare come schiavo in una tessitura
di tappeti, dall’alba alla sera, incatenato al suo
telaio, insieme a tanti altri bambini. Troverà la
forza di ribellarsi, di far arrestare il suo padrone, contribuendo alla liberazione di centinaia di
bambini ridotti in schiavitù: «Questo è stato per
me Iqbal: la mia libertà. L’unica libertà, forse,
della mia vita. Per lui io non ero invisibile. Io
esistevo».
Quanti dei nostri ragazzi sanno lottare, conoscono il valore del sacrificio, anche per la conquista
di piccole cose della loro vita quotidiana? Troppo
spesso tutto viene loro dato, semplicemente regalato; così essi non conoscono né la fatica della conquista, né assaporano il gusto della vittoria duramente perseguita. Incapaci di affrontare
le difficoltà, demordono al primo ostacolo, e insopportabile diviene la delusione per un fallimento; quanti giovani si abbandonano ad atti
estremi e irreparabili perché il loro obiettivo
non è facilmente e immediatamente raggiunto?
A Iqbal si può affiancare una eroina che ha riscontrato successo tra le mie allieve: Parvana,
protagonista del testo Sotto il burqa.
Lei è una ragazzina che vive a Kabul. Donne e
ragazze non possono uscire di casa senza essere scortate da un uomo; sono costrette a dover indossare abiti che coprono interamente il
proprio corpo, viso compreso: in queste poche
righe si può riassumere la vita delle donne in
Afghanistan. È proprio a questa vita che si oppone la protagonista del libro, Parvana, appunto, che a undici anni porta il chador, ma che
presto dovrà portare il burqa come sua mamma
e sua sorella. Ma Parvana è forte, si ribella, lotta
per sé e per la sua famiglia. Si taglia i capelli, si
traveste da ragazzo e lavora, non solo per i suoi
familiari ma anche per se stessa e per cambiare
le cose nel suo paese.
Un’altra interessante eroina è Stargirl, una ragazza che ha deciso di andare controcorrente. È
questa la sua eroicità. In una scuola di provincia in cui tutti i ragazzi si vestono nello stesso
modo e fanno le stesse cose, appare Stargirl che,
invece, si veste in un modo stravagante, che va
in giro con un topo in tasca e un ukulele a tracolla, che è ancora capace di dare importanza
ai piccoli gesti: lei piange ai funerali degli sconosciuti e sa a memoria i compleanni dell’intera cittadinanza. Ma Stargirl non è una svitata, o
un’esibizionista, è semplicemente colei che coraggiosamente si è riappropriata di se stessa,
senza omologarsi, né “adeguarsi” e che resta,
proprio per questo, a volte, sola (la solitudine,
ricordiamo, è una delle caratteristiche dell’eroe
della letteratura classica).
Grande lezione di vita dunque: evviva l’individualismo, abbasso l’omologazione! Quanti dei
nostri ragazzi riescono ad affermare la propria
personalità, avendo il coraggio di andare, anche
se soli, a Nord, mentre il branco va a Sud?
Dalla lettura dei testi di narrativa sopra menzionati, è poi iniziato un percorso di scrittura
creativa in cui i ragazzi sono stati invitati a presentare la carta di identità di un eroe da loro
inventato, e in seguito a progettare e scrivere
una storia di eroi. Molte ragazze hanno inserito
come protagonista una eroina.
Ciascun testo è stato ulteriormente rielaborato,
e riscritto in poesia o filastrocca, o in testo teatrale, attraverso cui presentare ai compagni il
nucleo della storia inventata.
Questo lungo percorso di lavoro si è poi concluso con una “fase umoristica”, dal titolo “Eroina
o eroe disoccupati cercasi o offresi”. Questa
l’indicazione di lavoro proposta ai miei allievi:
l’eroe non esiste più; nessuno più lo vuole nelle
proprie storie. E così, senza lavoro, ormai disoccupato, parte con la sua valigia alla ricerca di
una nuova occupazione. Si rivolge allora a una
agenzia pubblicitaria che crea degli spot attraverso cui viene promossa la sua figura e valorizzate le sue qualità.
Questi alcuni tra gli annunci più divertenti scritti dai ragazzi:
«Offresi eroe forte e muscoloso per traslochi».
«Un gruppo di giovani ragazze cerca eroina cicerone per giro turistico notturno per le vie della città».
«Bello e giovane eroe offresi come modello per
sfilata di moda».
Dalle numerose discussioni, dalle riflessioni
emerse, e dalle storie inventate dai miei ragazzi, ho potuto constatare, con sollievo, che no-
nostante le piaghe e le incertezze della nostra
società attuale, nonostante le paure e i rischi
che ogni giorno i nostri giovani corrono, nel
prorompente flusso di disvalori che inesorabile corre e si insinua tra di loro, l’eroe dei ragazzi d’oggi è ancora sempre il buono, il generoso, l’altruista, mentre il bullo, il prevaricatore,
l’arrogante, quando ci sono, rimangono gli antieroi.
Questo è sicuramente motivo di conforto: qualche seme germoglia e dà buoni frutti, nonostante la gramigna cresca rigogliosa intorno a noi...
* Scuola Media Statale “Via Santhià”, Torino.
NOTA
Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, Salani
Editore.
Francesco D’Adamo, Storia di Iqbal, Edizioni EL.
Deborah Ellis, Sotto il burqa, Fabbri.
Jerry Spinelli, Stargirl, Oscar Mondadori.
ALBERI E LIBRI
A
l mattino, più che il risveglio da viaggio d’istruzione, sembra un lazzaretto: chi
zoppica, chi si misura la febbre, chi stringe i denti per non farsi vedere sofferente…
però ogni volta i miei alunni hanno stampata in faccia un’espressione distesa e finalmente, bianchi e rossi, con un colorito “umano”. Da diversi anni la Media di San Mauro
Pascoli propone ai primini tutti – se mi sentono chiamarli così si offendono, ma tant’è
– una gita scolastica che invece della solita visita annoiata a (quel che viene percepito solitamente come) vecchie robe in ambienti troppo diversi dal consueto. Essere
preadolescenti è estremamente faticoso e straniante: c’è bisogno di certezze, di riferimenti precisi, modelli in cui riconoscersi. Ecco perché, cercando il “branco” se non
c’è altro, i nostri figlioli sono conformisti così rigorosi, spesso perfetti integralisti. Il
consumismo lo sa talmente bene che… avvia gli alunni ad una esplorazione dentro di
sé. Per carità, niente di ascetico: il fine ognuno lo raggiungerà – “se” magari accadesse – da adulto e forse mai se ne renderà conto perché educare è azione silente, lentissima e faticosa se vuol essere solidamente positiva. Niente – purtroppo – che possa
entrare nelle statistiche o pesare sulla produttività del corpo docente.
In sostanza, si tratta di tre giorni scarsi in cui le classi vanno “in trasferta” alloggiando presso una casa scout a pochissimi chilometri dalla loro residenza, portandosi dietro comunque la loro attività didattica. Oltre alle canoniche escursioni e visite
ai monumenti nei dintorni, infatti, si fa lezione normalmente in quanto i prof vanno
lì e dispensano sapere all’aperto, magari in tuta e scarpette da tennis. Sarà lo stato
pietoso dell’edilizia scolastica, sarà l’aria da briglia sul collo, sarà il contatto con la
natura che rilassa eppure un esercizio di grammatica, l’algebra ecc. sono più fruttuosi
all’ombra d’un albero o stesi sul prato.
Quel che pare funzionare, nell’esperienza, oltre al fatto che finalmente non si è sulla strada – quindi annullata la tensione da auto e moto pirata – e che gli spazi per
giocare sono sicuri e vicini (tra un’attività e l’altra, al suono della campanella si può
correre un po’ dietro al pallone o penzolare da un ramo!) è la forte responsabilizzazione di ognuno: divisi in squadre, tutti hanno un compito da svolgere nelle faccende
domestiche, ed alla fine si è provato cosa significa “saper badare a sé stessi”. Tutte le
sere, durante lo spettacolo che sostituisce la Tv – di cui si occupano ancora gli stessi
alunni – i docenti comunicano i punteggi assegnati nella corvée quotidiana, commentati con grande attenzione ed oggetto di sana competizione.
I genitori sono invitati a dare una mano, stando però in disparte dai pargoli che naturalmente non li vogliono tra i piedi. È inebriante infatti cominciare finalmente a
sentire l’odore dell’autonomia personale e farlo tutti insieme comprendendo, con la
percezione netta della propria “animalità umana”, l’importanza di regole precise, anche rigide, ma democratiche, della civile convivenza. Perché ognuno abbia la sua opportunità, secondo capacità e volontà, bisogna stare di più all’aria aperta, abbandonando (ogni tanto almeno) questo stile di vita-di-plastica che fa crescere inetti nel
corpo ed ottusi nella mente.
MONICA ANDREUCCI
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CELESTE GROSSI
N
ella scorsa primavera un pogrom ha incendiato l’Italia e insieme alle baracche dei rom ha bruciato e corroso la
coscienza civile di tante e tanti tra noi. Pochi hanno agito,
molti hanno applaudito silenti e rancorosi, convinti che sarebbero stati più sicuri. E intanto gli uomini e le donne rom, che conservano nella memoria lo sterminio nazista del loro popolo e che, in molti casi, hanno subito
le recenti espulsioni a causa delle guerre balcaniche, sono diventati bersaglio di
violenze su base etnica esercitate in nome del nostro bisogno di sicurezza.
«L’indecente proposta razzista di prendere le impronte digitali ai bambini rom»,
come l’ha definita Famiglia Cristiana, presentata dal ministro dell’Interno,
Roberto Maroni è stata contestata anche dal Commissario europeo alla sicurezza Jacques Barrot che ha affermato: «non ci possono essere discriminazioni nei
confronti dei rom». Maroni ha dovuto convocare una riunione per convincere il
prefetto Mosca, uno dei tre commissari ai rom da lui stesso nominati, ad adeguarsi alle sue direttive, ma la raccolta delle impronte è andata avanti.
Contro le modalità con cui è stato attuato il “censimento” nei campi nomadi
c’è stata un’indignazione diffusa, espressa da associazioni, cattoliche e laiche,
italiane e internazionali, da donne e uomini – intellettuali, giornalisti, politici
– cittadine e cittadini che hanno organizzano nelle proprie città azioni di protesta.
La “schedatura” voluta dal governo ha evocato nelle cittadine e nei cittadini democratici ricordi di un passato che speravamo sepolto per sempre.
Le motivazioni accampate dal governo secondo cui “il censimento” dei rom, molti dei quali italiani da generazioni, viene fatto per fornire loro documenti di riconoscimento e per tutelare i bambini e le bambine degli adulti del loro stesso
popolo non reggono. Se è necessario che i rom e le rom abbiano dei documenti è ancora più necessario e drammaticamente urgente affermare il diritto delle bambine, dei bambini di crescere accanto alle loro madri naturali e di essere
“realmente” inseriti nelle scuole italiane e il diritto delle loro madri a un riconoscimento economico del lavoro di cura per i figli e le figlie, alla casa, all’integrazione “reale” nella società italiana ed europea.
“Sicurezza” è diventata la parola magica che domina sulle pagine dei quotidiani, nelle cronache dei telegiornali, nei discorsi dei politici e degli amministratori. E a “sicurezza” spesso si associano parole come paura, rancore, odio per chi
è diverso da noi.
Vogliamo chiuderci dentro le nostre case, sussultare ogni volta che suona un
campanello, ogni volta che uno sconosciuto ci chiede qualcosa? Chi ci difenderà dalla violenza dei nostri “cari” che scoppia proprio nell’intimità, nel silenzio,
nell’indifferenza dei vicini? Quante armi dovremo comprare per sentirci finalmente sicuri? Quante telecamere si dovranno installare, quante guardie armate,
quante ronde, quanti soldati dovranno girare per le nostre città?
Perché incontrare un estraneo, uno sconosciuto, un diverso da noi, deve subito
allarmarci, farci temere, impaurire?
Ad avere paura non siamo solo noi. Chi si trova qui, tra estranei che non capiscono e disprezzano la sua cultura, che non gli affittano una casa, che non lo assumono in regola, che non vogliono i suoi figli e le sue figlie nelle stesse scuole
dei propri bambini e delle proprie bambine, ha paura.
Per convivere dobbiamo riconoscere che “noi” e “loro” abbiamo dei bisogni, delle paure, dei desideri, che solo imparando a conoscerci e a vivere insieme come
vicini e vicine di casa, di banco, di lavoro potremo tutte e tutti sentirci più sicuri.
Una sicurezza basata sul controllo e sulla militarizzazione delle nostre vite e delle nostre città non ci rassicura. Sicurezza è vivere in città e comunità accoglienti
perché fondate sul rispetto, l’ascolto e il riconoscimento reciproco.
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le leggi
facciamo pace
PROPOSTA INDECENTE
Il governo italiano diffonde
una cultura xenofoba e razzista,
dinamiche di esclusione dell’altro
e del diverso che portano alla
costruzione del nemico e pratica
politiche della paura, dell’apartheid
e della deportazione. L’imbroglio
securitario fa scempio della
democrazia, minaccia la nostra
libertà, le nostre vite e quelle dei
bambini e delle bambine. Il caso dei
rom
DA BERLINGUER
A GELMINI (E
APREA)
La progressiva
privatizzazione del
sistema scolastico. Il
Disegno di Legge Aprea
prevede sostanzialmente
la fine della scuola della
Costituzione
CORRADO MAUCERI
Q
uanto prima il Parlamento esaminerà le “Norme per
l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di
scelta educative delle famiglie nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”, il ddl n. 953 presentato da
Valentina Aprea (Pdl). Le norme rappresentano il punto di
arrivo di un progressivo processo di privatizzazione del sistema scolastico.
Il titolo già indica le tre direttrici del disegno di legge:
a) la definitiva destrutturazione del sistema scolastico statale e il consolidamento di un sistema di istituzioni scolastiche, preferibilmente trasformate in fondazioni, con una forte
caratterizzazione localista;
b) l’abolizione del primato della scuola statale e il diritto di
scelta da parte delle famiglie tra scuola pubblica (non più
statale) e scuole private e quindi parità piena tra scuole
pubbliche e scuole private;
c) l’aziendalizzazione delle scuole e superamento della unicità della funzione docente.
Il ddl Aprea porta a compimento il processo di un’autonomia
parcellizzata delle singole istituzioni scolastiche e si accentua il loro carattere aziendalistico; difatti si prevede la tipica organizzazione aziendale con i consigli di amministrazione nella forma della cogestione (rappresentata dai genitori,
degli insegnanti, degli studenti nelle scuole superiori, degli
Enti Locali ed esperti non meglio qualificati) e con un dirigente cui è attribuita la gestione unitaria dell’istituzione e
la piena responsabilità dei risultati.
Peraltro il ddl, eliminando ogni residua ambiguità, prevede
la trasformazione delle istituzioni scolastiche in fondazioni
«con la possibilità di avere partner che ne sostengano l’attività, che partecipino ai suoi organi di governo e che contribuiscano a raggiungere gli obiettivi strategici indicati nel
piano dell’offerta formativa».
Aprea realizza il disegno che avevano prefigurato alcuni autorevoli esponenti del centro-sinistra (oggi già tutti nel PD)
e cioè lo Stato deve dettare le norme generali e non occuparsi della gestione delle scuole che può essere quindi affidata
o a fondazioni o ad istituti religiosi.
Il secondo e logico passaggio è che in un sistema scolastico
pubblico e non più statale, formato da istituti statali, fondazioni e scuole private paritarie deve essere garantita alla famiglie il diritto di scelta tra le possibili offerte; ovviamente
è implicito che a questo punto il divieto costituzionale “senza oneri per lo Stato” non avrà più alcun senso.
L’aziendalizzazione del sistema scolastico comporta infine una più accentuata “privatizzazione” del personale della
scuola ed in particolare del personale docente che sarà assunto sulla base di concorsi indetti dalle singole istituzioni
in base alle specifiche esigenze, anche localiste e con una
parcellizzazione della stessa funzione docente; si prevedono
difatti tre diversi livelli – docente iniziale, docente ordinario
e docente esperto. Ovviamente ai diversi livelli di carriera
corrispondevano anche diversi livelli retributivi.
Le forze della sinistra, le organizzazioni sindacali e professionali riusciranno ad evitare tatticismi e difese di ufficio di
scelte sbagliate per mobilitare tutti per una scuola statale
laica e democratica. È necessario sperarlo.
A
A
lleggerita anche di quella cosa che menomale ieri è finita, liquidata.
Al terzo piano di quel palazzo al numero x il dottore esperto e l’infermiera
premurosa hanno fatto quel che dovevano fare, in una stradina senza lamlle cinque esatte sarà arrivata, fra
pioni lui l’aspettava alla svolta, un segnale di fari e la macchina scivola sidieci minuti e trecento metri schiaccerà il
lenziosa, lei ha infilato la porta già dischiusa e via, veloci. Finito. Non proprio, in verità, se dopo un sonno senza sogni stamattina la cosa era lì, come
pulsante bianco a destra, sentirà due note
se l’avesse aspettata per dirle che, seppure aperta e chiusa al buio in una
elettriche al di là della porta di noce e la targa
normale giornata, non è parentesi da nulla. Nel ventre un’eco di lacerazione,
nella testa visioni in controluce.
lucente: Dott. Ing. Questo è l’appuntamento più
«Gravidanza positiva»: la sentenza sul foglio spiegato e lei di pietra senimportante della vita, inizia un Lavoro vero
za pensieri senza emozioni. E l’ironia di quel “positiva”, la sorniona gravità
di quella “gravidanza” scritta e certa. Geometrie beffarde della vita: proprio
con contratto e stipendio. Già da bambina, se
quando sta per nascerle dentro una nuova libertà, nel suo corpo si installa
pensava Futuro, nel futuro vedeva in primo
qualcosa che la vuole occupare, dirottarla su un’altra vita, nella catena di
quei “sacrifici” che le madri rinfacciano ai figli, e i figli rispondono «nessuno
piano il lavoro e adesso il futuro è qui, lei è nel
te li ha chiesti», la solita storia delle generazioni. Ma lei ha detto No. No, è
futuro di quell’autonomia desiderata, preparata, troppo presto, adesso ci sono io.
Invece lui felice, veramente felice, aveva fantasticato il colore degli occhi,
meritata in anni di studio e formazione
e i capelli, e quale nome gli daremmo, e se fosse una femmina come te, ma
pure un maschietto somiglierebbe a te... Era questo il futuro, per lui, si eccitava, si commuoveva e rallegrava per una cosa che non c’era e lei, che c’era,
era già tramite, semplice porta di quel futuro. No, aveva detto, non voglio.
– Ti sei fatta più bella, davvero. È proprio vero che le donne sono fatte per
essere madri... perché non vuoi? Facciamolo nascere... io sono disposto a
fare quello che vuoi tu... potremmo andare in un posto tranquillo, ricominLIDIA GARGIULO
ceremmo daccapo…
La natura è ladra. Lo diceva lei ogni volta che prendevano precauzioni. La
natura è ladra, noi facciamo l’amore ma lavoriamo per lei, perché lei possa produrre altre vite. Ridevano insieme e intanto lei, la natura
ladra, era entrata per qualche segreta breccia e l’aveva intrappolata.
Ma lei non ha bisogno né di “andare altrove” né di “cominciare daccapo”, lei sta bene nella propria storia e non vuole che diventi un’altra storia. La propria storia lei la costruisce giorno per giorno, osserva i fatti mentre le accadono, li guarda depositarsi alle spalle e diventare ricordi: la sua vita sarà un libro da sfogliare e rileggere avanti e indietro a volontà.
Per questo dice «No. No. non voglio». E lui, che l’ama molto: «Perché non vuoi?…», «ma se proprio non vuoi, allora parliamo con qualcuno bravo... me ne occupo io». «Però sapessi quanto sei bella adesso, hai qualcosa di fatato». E l’abbraccia, la stringe: «Stenditi, stenditi... dài, stenditi, questo è il momento migliore, adesso non corriamo rischi, siamo al sicuro, quel che poteva succedere è già successo...».
E anche lui dentro di lei come la cosa che la sta invadendo, assorto e fremente di piacere, vibrante e sbuffante, innocente e indecente
mentre ronza parole sospirose su di lei invasa e sola, così sola e così piena. Non dimenticare questo momento, sta dicendo a se stessa,
ti servirà a lasciarlo quando vorrai lasciarlo. Adesso lei vorrebbe rimanere sola, fermarsi. Non per decidere, perché ha già deciso, ma per
dare tempo all’anima di entrare nelle cose, alle cose di farsi riconoscere. Ma lui le freme dentro, lui capace di passione e senso pratico,
fruga il corpo come volesse stanare l’anima, e l’anima spaventata si nasconde. Come se non ci fosse.
«Perché piangi? Perché piangi?». Il petto scosso dai singhiozzi lo respinge, respinge il senso pratico e la sua passione, i cavoli e le capre e i traghettatori bravi a salvare capre e cavoli; un po’ di quei singhiozzi li dedica a se stessa, al groppo di tedio e insofferenza e alla
dolcezza di piangere tra le braccia di qualcuno.
È così dolce la confusione, è riposante la debolezza in braccio a un amoroso adulto, se solo rinunciasse alla propria storia, a un lavoro
che l’appassiona, a uno spazio tutto suo… La confusione scompiglia i programmi ma affranca da responsabilità, ti ubriaca di pianto e
della debolezza puoi fare una bandiera. La dolce confusione indugia, si domanda: «Perché no? dov’è la gravità di “gravidanza” quando
per tante è gioia, orgoglio, se “gravidanza” vuol dire “mamma”, “figlio”…». La dolce confusione aiuterebbe, forse, a fare i conti con
una cosa che dovrebbe sentire ma non sente, strano. Lei non sente “rimorso” per la sua decisione, e tuttavia vorrebbe averne, forse “dovrebbe” averne. Ma ci vorrebbe il tempo, per sentire rimorso. E per capire se questa sua fermezza sia coraggio o un altro modo di privarsi, mutilarsi… Se fosse un’altra (ma vorrebbe, potrebbe?) lascerebbe i dubbi camminarle a fianco, ma c’è l’appuntamento, e questa
cosa non deve toccare la sua storia. Da bambina le piaceva camminare sull’orlo del marciapiede con un piede su e un piede giù; così sta
camminando adesso: un passo in alto preciso e rapido, in basso arranca.
«Se la sente di scendere da sola?». Le hanno chiesto ieri sera l’ostetrico e l’infermiera. Avrebbe preferito sedersi un po’ in un angolo, ma
loro non vedevano l’ora che se ne andasse, si capiva. Anche loro sono entrati, le hanno frugato dentro per scovare, cancellare la cosa,
l’hanno esplorata nel dentro più segreto e ribelle.
«Dottore sviene» – aveva detto a un certo punto l’infermiera in camice, allarmata, e lui: «Facciamo un’iniezione». E dopo l’iniezione
ancora a scavare cercare snidare. Congedandola le hanno fatto bere un cognac, lei è uscita, ha cominciato a scendere le scale e alle
spalle la porta si chiudeva piano. Scendeva ma il pensiero risaliva, rientrava ad ascoltare i propri rantoli sul lettino, emersi dalle caverne dove dormono le nostre voci più vere e più antiche. Che le sue viscere gemessero con tanta ferocia, che parlassero con quella forza
senza galateo, le dava una sensazione nuova di spavento e orgoglio, e lei scopriva in sé una creatura sconosciuta, la intravedeva come
un paesaggio reale attraverso lo squarcio di un quadro: ciò che nel dipinto è netto e leggibile, nel paesaggio reale si muove e si trasforma. E mentre l’una guarda l’altra, per un attimo le si riaffaccia una scena che già non saprebbe dire se vera o immaginata. Scendendo
– le diceva l’infermiera: – «butti questo in un cestino», e in mano aveva un batuffolo di ovatta, ma poi subito «No no, lasci stare, ci
pensiamo noi».
Ogni strada porta a un bivio, ad ogni bivio una scelta e una rinuncia. Per non rimpiangere ciò che non è stato, ci convinciamo che la
via che non abbiamo scelto non sia mai esistita; non supponiamo che ciò che non abbiamo scelto – che abbiamo scelto di non scegliere
– ci camminerà sempre a fianco, destino fantasma e parallelo.
In questo pomeriggio un futuro si sta facendo presente e un altro possibile futuro è stato messo da parte. Negli strati dell’anima che
precedono il pensiero e le parole, lei sa che la sua vita non potrà più sfogliarla come un libro, adesso che nella sua vita c’è qualcosa da
dimenticare, che non si farà dimenticare. Quel dolore del corpo e silenzio dell’anima rimarranno nella sua storia con l’ambigua faccia
delle Eumenidi, le dee del perdono; ma poiché noi uomini, meno misericordiosi degli dei, non dimentichiamo mai del tutto, le cose che
vorremmo dimenticare cerchiamo almeno di renderle invisibili chiudendole fra parentesi alte come muraglioni.
Tutto questo non le è chiaro, non le sarà chiaro nemmeno più tardi, eppure sa, fermamente e senza parole sa che questa cosa è successa per sempre, che adesso lei fa parte del mondo degli adulti, che hanno bisogno di soffitte e cantine per cose da cui non ci si separa ma che è meglio tenere in disparte. Ora comincio a somigliare ai grandi, pensa, comincio a somigliare a lui. Lo amerò di meno. O
forse di più.
Le cinque. Sul legno chiaro la targa di ottone: Dott. Ing. Dal pulsante partono due note elettriche.
Appuntamenti
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NON SONO
STATO IO
ANDREA BAGNI
note in condotta
P
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er la prima volta, quest’anno ho fatto gli esami da commissario esterno – e
da vero esaminatore di stato, perché ero
in una scuola privata. I 46 maschi, aspiranti tecnici informatici o elettronici, basta vederli scrivere, il primo giorno – chini
sul banco con tutti i muscoli tesi, la penna impugnata come fosse un mostro alieno – per capire che sarà dura. I testi alla
fine sembrano scritti in braille, scorrendo
le dita sui fogli posso sentire tutta la loro
fatica. Intanto le ragazze della mia quinta mi mandano e-mail sui titoli. Per quello
su sms, chat eccetera, la profe ha detto di
non fare riferimento all’esperienza personale; per quello sullo straniero di lasciar perdere immigrati o immigrazione. Io penso, porca miseria
ho consigliato stamani tutto il contrario: di evitare un discorsino finto sui nuovi linguaggi – com’erano belle e profonde le lettere di una volta, da pensare e poi attendere un sacco, com’era
buono il profumo di inchiostro; oggi invece noi giovani come siamo superficiali con i tvb, cmq,
xké etc. E lo straniero con il quale mettere alla prova il dovere dell’ospitalità chi dovrebbe essere
se non il migrante o il nomade? Il turista è a casa sua dappertutto, tutto è sua misura, protagonista assoluto della società standard di mercato.
Nella commissione mi avvertono che comunque noi dobbiamo stare in campana, nelle private gli
intrallazzi abbondano. Qui sospetto mi pare soprattutto il pregresso. Molti ragazzi hanno strane
geografie formative alle spalle. Varie bocciature nella scuola sul lago di lusso, poi maxirecupero
di anni in una cittadina del Lazio e infine idoneità alla quinta qui. La formazione acquistata con
le misteriose risorse del cepu. Poi però si scopre c’è anche chi ultraventenne lavora in un cementificio otto ore al giorno e vuole con il diploma levarsi dal reparto peggiore. E chi ha perso i contatti con gli altri dopo la morte della madre. Intanto le “tesine” sono un incredibile pastrocchio
di sottocultura maschile e sottocultura scolastica. Motori, calcio e Ferrari, sistemi elettronici di
parcheggio e sensori per evitare i goal fantasma. La cosa più incredibile sono i “collegamenti”.
Dall’informatica a Svevo perché il candidato ha scoperto che il suocero di Ettore Schmitz ha inventato per la sua fabbrica un codice di comunicazioni rapide; oppure da Pirandello a Hitler perché il primo aveva la moglie pazza e il secondo lo era direttamente. I miei colleghi fanno strage
serenamente con i filtri passa-alto o passa-basso e con gli integrali immediati che immediati non
si rivelano mai, io invece un po’ mi scoraggio perché mi pare che ci sia molta “scuola” in questo
disastro. Tutti raccontano nei dettagli eventi e date della vita degli autori. La biografia piace,
rassicura questa lineare dicibilità delle vite. Il sapere ben ordinato. Qualcosa accade prima (la
nascita, indiscutibile) qualcosa dopo e poi si muore. Guai se non gliela fai dire la data e il luogo della morte. Curiosità intellettuale zero. Uno porta Chaplin a proposito d’industrializzazione e
confessa tranquillamente di non avere visto Tempi moderni e nemmeno un altro film di Chaplin.
Nulla. Un altro parla di Oshima, decadentismo giapponese, ti aspetteresti una passione insolita,
ma dice che ha davvero intenzione di leggerlo, per ora però nemmeno una riga.
Il risultato è che alla fine mi fanno quasi pena questi privilegiati di buona famiglia. Così deprivati di senso, di sé. Uno mi spiega che l’ermetismo era basato sulla similitudine e la similitudine è nata durante la seconda guerra mondiale. Poi vede la perplessità, controlla la tesina e si
corregge: no! mi scusi, volevo dire la solitudine (e resta convinto che la solitudine sia sorta a
metà del Novecento, nessuno che si sia mai sentito solo prima). Nella stanza accanto alla nostra,
intanto, aspettano la mamma e la fidanzata. Lei in un angolo, il volto contro il muro, come se
pregasse. Le mie ragazze intanto mi scrivono che la prof di matematica presenterà una relazione
contro il mio collega che non le ha preparate a dovere. Nessuna avrà il bonus di cinque punti per
punizione. Magari ha anche ragione la commissaria, però come fanno tutti a essere sempre così
sicuri di tutto. E come mai giudicare appassiona così tanto. A me sembra sempre di non essere
all’altezza, di non avere informazioni sufficienti. Chi ci sarà nelle altre stanze mentre do i miei
numeri, che poi si sommano e decidono di un sacco di cose: ferite, ricordi che torneranno nelle
notti nere – come ancora capita a me ogni tanto.
Alla fine il presidente della commissione fotocopia per tutti, da bravo preside, una pagina scritta di suo pugno dove richiama le regole per chiudere le procedure, a cui attenersi scrupolosamente per non avere noie. Sul cartellone solo esito positivo o esito negativo, per la privacy. E
aggiunge che bisogna scrivere con la scrittura leggermente inclinata verso destra... Il dirigente
dell’istituto ci dice, i risultati li esponiamo lunedì, non sabato, se no nel fine-settimana ci distruggono la scuola.
Bella esperienza gli esami di stato. Viene da dire, come un tempo, non sono stato io.
INFO
Un libro per il carcere
Per combattere la discriminazione dei detenuti
stranieri Roberto Morgantini dell’ufficio stranieri
della Cigl, Mattia Fontanella del Comitato delle
Memorie di Bologna e l’ex detenutoSalvatore
Giampiccolo hanno dato vita alla campagna “Un
libro per il carcere” (http://italianoperstranieri.
splinder.com/). L’iniziativa nasce per rispondere
alle richieste degli stranieri della Casa
circondariale “Dozza” di Bologna, ma vuole
indicare una via da seguire in tutta Italia. Molti
detenuti sono vittime della legge Bossi-Fini
(clandestini colpevoli di piccoli reati); per loro
poter leggere un libro nella propria lingua sarebbe
un passo verso un’esistenza un po’ più civile. Chi
vuole rispondere all’appello, può far pervenire
i testi in qualsiasi lingua straniera al Centro
Lavoratori Stranieri – CGIL, via Marconi 69/d,
Bologna, tel. 051.6087190, cell 335.7456877.
Le ragazze del movimento
Women in the city, il magazine internazionale on
line (www.women.articolo21.com) ha realizzato il
dossier “Il ‘68. Immagini e documenti della prima
rivolta globale. Le ragazze del movimento” con il
racconto fotografico di Tano D’Amico, “Una storia
di donne. Il movimento femminile, dal’70 agli
anni no global”.
Women in the city, [email protected],
[email protected].
Prevenire l’Aids
Per il terzo anno consecutivo, Anlaids premia i
migliori progetti di prevenzione dell’infezione
da Hiv proposti dalle scuole medie inferiori e
superiori italiane. Il concorso “Progetto Scuola”
di Anlaids, che ha il Patrocinio del Ministero
della Pubblica Istruzione, può essere richiesto a
Health communication, via Vittore Carpaccio 18,
00147 Roma, tel. 06.59446241, fax 06.59446228,
[email protected].
Interviste
Nel sito di Una città, alla pagina www.unacitta.
it/intervaccess.asp, consultabile gratuitamente
è disponibile l’intero archivio di interviste del il
mensile giunto al numero 157.
Una città, www.unacitta.it, mailing@unacitta.
org.
La scuola “stanca”
L’insoddisfazione dei docenti provoca danni
agli studenti. È quanto emerge da una recente
indagine dei ricercatori di Bankitalia e del
Ministero dell’Istruzione che rileva come i troppi
spostamenti di insegnanti, anche di ruolo,
influiscano negativamente sulla didattica. I
professori risultano essere più anziani del resto
degli occupati italiani. La ricerca segnala inoltre
che «l’inizio della carriera è caratterizzato da
forte precarietà, con contratti a termine di durata
inferiore rispetto al resto dell’economia, una più
intensa ricerca di un altro lavoro e una più elevata
probabilità di svolgere un secondo lavoro».
Tutti i diritti umani per tutti
Il 26 luglio Genova ha ospitato una grande festa
per i diritti umani con un concerto di Manu Chao
e di numerosi altri artisti (www.youtube.com/
watch?v=fIFRKfdgyEc). Nell’occasione è stata
presentata la “bandiera dei diritti umani” ideata
dalla Tavola della pace con l’idea che venga
esposta alle finestre fino al 60° anniversario
della Dichiarazione Universale dei diritti umani,
come gesto di solidarietà con tutti i bambini e
le bambine, le donne, gli uomini e i popoli che
ancora oggi sono privati dei loro fondamentali
diritti.
Etica ed estetica
Sono disponibili al sito www.circolobateson.it i
materiali preparatori (“Etica ed estetica”, capitolo
tratto da Il senso e la narrazione di Giuseppe O.
Longo; François Cheng, Cinque meditazioni sulla
bellezza, Bollati Boringhieri; testi di Bateson) e
le comunicazioni di relatrici e relatori (Rosaria
Bortolone su “È possibile educare al bello?”;
Renata Puleo, Maria Grazia Ponzi, Giovanni
Madonna, Marco Bianciardi su “Etica ed estetica
della cura”;
Rosalba Conserva e Enzo Palmisciano su Bateson;
Maria Rocchi e Giuseppe Bagni su Giustizia e
bellezza di L. Zoja) della vacanza-studio del
Circolo Bateson (Vallombrosa, FI, 24-30 agosto
2008)
Circolo Bateson, Rosalba Conserva, tel.
06.5417436, 333.6472558, e-mail circolo.
[email protected], www.circolobateson.it.
In memoria di Angelo Frammartino
La Fondazione Angelo Frammartino onlus,
costituita per tenere viva la memoria del giovane
pacifista italiano ucciso a Gerusalemme, ha
indetto una selezione per l’assegnazione di 15
borse di studio finanziate dalla Provincia di
Roma, dalla Regione Lazio, dalla Provincia di
Milano, dalla CGIL. Il bando si può scaricare da
Internet (www.angeloframmartino.org/articolo.
asp?articolo=196).
Contro la pena di morte
«Si chiamava Maria Giovanna Cortesi. Era mia
madre. Nell’estate del ’44 aveva diciannove anni
e faceva la parrucchiera a Bassano del Grappa,
dove nonno Cino era nella contraerea. Un giorno
di settembre il nonno passò a prenderla prima del
solito e insieme corsero verso casa, ma non fecero
in tempo. Di fronte a casa stavano impiccando dei
ragazzi. Uno di questi, morendo, perse il controllo
degli sfinteri. Mia madre svenne. Un fascista la
fece rinvenire a suon di sberle. Probabilmente
sono stati i suoi racconti a farmi abolizionista».
Claudio Giusti
Il recupero possibile
Il modo di stare a scuola produce malessere a
causa della struttura dell’insegnamento a partire
dall’orario scolastico. Per questo nell’anno
scolastico 2007/2008, a Torino alcuni docenti
dell’istituto, constatato che anche dopo i corsi di
recupero il 54,64 per cento dei debiti non era stato
saldato hanno proposto una modifica strutturale
dell’orario: passare dalla scansione quadrimestrale
ad una bimestrale raddoppiando le ore settimanali
di ogni materia ma dimezzando il numero delle
materie. In questo modo l’orario settimanale delle
lezioni non sarebbe modificato, però il programma
di un quadrimestre si realizzerebbe in 2 mesi.
Nel secondo bimestre, si potrebbero organizzare
corsi di recupero pomeridiani, il peso di studio
diventerebbe sopportabile e la situazione che si
verrebbe a determinare a fine anno scolastico
dovrebbe risultare notevolmente alleggerita dal
fatto che il recupero si è attuato continuamente e
si è risolto per gradi.
APPELLO PER LO SCIOPERO DEL 17 OTTOBRE 2008
L’Assemblea nazionale del 17 maggio al Teatro
Smeraldo di Milano ha avviato una stagione di lotte e di mobilitazione a sostegno della piattaforma
unitaria del sindacalismo di base:
- forti aumenti generalizzati per salari e pensioni,
introduzione di un meccanismo automatico di adeguamento salariale legato agli aumenti dei prezzi e
difesa della pensione pubblica;
- rilancio del ruolo del contratto nazionale come
strumento di redistribuzione del reddito;
- difesa e potenziamento dei servizi pubblici, dei
beni comuni, del diritto a prestazioni sanitarie, del
diritto alla casa e all’istruzione;
- abolizione delle leggi Treu e 30;
- continuità del reddito e lotta alla precarietà lavorativa e sociale, con forme di reddito legate al
diritto alla casa, allo studio, alla formazione e alla
mobilità;
- sicurezza nei luoghi di lavoro e sanzioni penali per
chi provoca infortuni gravi o mortali;
- lotta al razzismo che, oltre a negare diritti uguali
e la dignità delle persone, scarica sui migranti la responsabilità dei principali problemi sociali;
- restituire ai lavoratori il diritto di decidere: no alla
pretesa padronale di scegliere le organizzazioni con
cui trattare; pari diritti per tutte le organizzazioni
dei lavoratori; difesa del diritto di sciopero.
Il 20 giugno nelle principali città italiane si sono
svolte le prime iniziative di mobilitazione a sostegno della piattaforma e per contrastare i progetti del
governo sul piano economico e sociale che hanno
visto una larga partecipazione unitaria.
La trattativa in corso tra Confindustria e sindacati
concertativi per eliminare di fatto il contratto collettivo nazionale di lavoro, l’affondo del governo
sulle privatizzazioni, la profonda crisi salariale che
vivono i lavoratori e le loro famiglie, il dilagare della precarietà, il tentativo di smantellare definitivamente la pubblica amministrazione anche attraverso
l’attacco ai lavoratori pubblici ed i tagli al personale della scuola e della sanità, il razzismo diffuso
a piene mani, i rinnovati venti di guerra ci fanno
prevedere un autunno in cui il confronto tra mondo
del lavoro, padronato e governo dovrà essere all’altezza della sfida mobilitando lavoratrici e lavoratori
per difendere quanto sin qui acquisito con le lotte
e per conquistare salario e nuovi diritti.
C’è bisogno di una forte mobilitazione capace di
rimettere al centro, attraverso il conflitto, gli interessi del mondo del lavoro, dei precari, degli immigrati; c’è bisogno di una forte partecipazione di
lavoratrici e lavoratori, di delegate e delegati, c’è
bisogno di rendere visibile la grande determinazione di tutti a sostegno della piattaforma, contro i
progetti del padronato e le scelte politiche e sociali del governo.
Per questo parteciperemo e sosterremo lo SCIOPERO
GENERALE NAZIONALE promosso dalla CUB, dalla
Confederazione COBAS, da SdL Intercategoriale per
il 17 ottobre e invitiamo alla più vasta adesione e
partecipazione.
Per adesioni: www.scioperogenerale2008.org/
appello/scrivi.php
Per maggiori informazioni: Sindacato dei
lavoratori, via Giovanni Cena 29, 00054 Fiumicino
Roma, tel. 06.6506958, fax 06.6505659,
[email protected], segreterianazionale@
sdlintercategoriale.it, www.sdlintercategoriale.it,
www.sult.it, www.sincobas.org.
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M
appamondo
Un’esperienza di training expert
a Duhok, Iraq, nell’autunno del 2007,
proprio nei giorni in cui i media occidentali
riportavano notizie di movimenti di truppe
militari lungo il confine turco-iracheno
FOTOGRAFIE DI CARLO FRANZINI
nell’area del Kurdistan. L’iniziativa nasce
nell’ambito del progetto Unicef “Capacity
Building Project for Social workers and
Teache rs offered to the employees of the
social welfare institutions of Iraqi MOLSA”
Bambini nell’inferno
del Kurdistan
iracheno
MAURIZIO GIANNANGELI
L’
obiettivo generale del progetto, sviluppato in accordo con il
Ministero del Lavoro e degli Affri Sociali e con il Ministero dell’Educazione iracheni, era quello di contribuire al generale incremento della
consapevolezza e della tutela dei diritti dei bambini in Iraq attraverso
lo sviluppo e l’acquisizione di capacità specifiche da parte del personale iracheno impiegato nei ministeri, nelle scuole e nelle strutture
di assistenza sociale.
Ho messo a disposizione di Intersos, l’organizzazione umanitaria che
ha garantito la realizzazione del progetto, la mia esperienza di insegnante che si occupa di comunicazione di utilità pubblica e sociale, e
insieme al fotografo Carlo Franzini, nell’autunno del 2007 mi sono recato a Duhok, senza rendermi conto bene di che cosa avrei incontrato
in una esperienza per me totalmente nuova.
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Il compito era di svolgere un corso (“Training IV about Possible
Campaigns for Children Rights”) per promuovere la tutela dei diritti
dei bambini in quelle regioni dell’Iraq, destinato ad adulti che assitono bambini nelle strutture scolastiche, nei riformatori, nei carceri
minorili e, più in generale, come assistenti sociali, nelle regioni kurde
di Duhok, Erbil e Sulemanya. I partecipanti erano in tutto 15, tra dipendenti del ministero, insegnanti e operatori sociali e tra di essi vi
era una sola donna. L’impiego di interpreti professionisti ha garantito
non solo la comunicazione tra noi e i corsisti, ma anche quella tra gli
stessi partecipanti al corso, vista la loro differente provenienza.
Insieme ai partecipanti ci siamo posti le classiche domande per definire il carattere e gli obiettivi della campagna di comunicazione a partire dai problemi e dai bisogni: perché occuparsi di diritti dei bambini
in Kurdistan? Quali le priorità, quali le emergenze? A chi si rivolge la
campagna? Vogliamo coinvolgere governo e amministrazioni locali?
Quali le risorse economiche per realizzarla? Quali le aspettative rispetto a possibili risultati prodotti dalla campagna? Quale l’idea di fondo
che vogliamo comunicare promuovendo azioni e pratiche positive?
L’attività è stata strutturata in momenti di discussione collettiva e lavori di gruppo.
I diritti dei bambini in Kurdistan
Abbiamo deciso di non trattare il tema in termini generici. Per rendere più efficace la comunicazione e per scegliere insieme quale fosse
il tema principale oggetto dell’intera campagna, abbiamo analizzato
insieme materiali e documenti e i corsisti hanno portato la loro personale esperienza.
Un tema emerso in modo ricorrente è stato quello della presenza dei
bambini nelle strade. Il loro numero è più che triplicato, crescendo,
dai 2.500 bambini censiti nel 1997, agli 8.000 registrati nell’agosto
2007. Nella sola Sulemanya i bambini censiti nelle strade sono circa
5.000 e anche ad Erbil, negli ultimi dieci anni, è stato registrato un
aumento consistente del fenomeno.
Molti bambini sono lavoratori. Un simile incremento di bambini lavoratori non sembrerebbe giustificato, visto che l’Iraq ha recepito uno
degli articoli della Convenzione dei diritti dei bambini e degli adolescenti che vieta il lavoro ai minori di 15 anni ed è previsto che i
I bambini lavoratori di
Duhok
Una ricerca sul problema del Children
Labour nei paesi che compongono
la Lega Araba, promossa e realizzata
dalle associazioni KSC (Kurdistan
Save the Children) e KCF (Kurdistan
Children Fund), con particolare
attenzione all’area del Kurdistan
iracheno, ha così fotografato la
situazione di Duhok: i bambini
lavoratori per la maggior parte
(67%) hanno un’età compresa tra
i 12 e i 14 anni; il 75% di loro
proviene da famiglie con 8-12
componenti; l’8,75% è senza padre;
il padre nell’80% dei casi ha un
reddito molto basso, l’11,25% è
addirittura senza lavoro, nel 47%
delle situazioni esaminate il padre
non sa né leggere né scrivere;
il 100% della madri è casalinga,
il 78,75% non sa né leggere né
scrivere. Il 6,25% dei bambini
lavoratori non è in grado di leggere
e scrivere (il 93% ha concluso il
ciclo di studi corrispondente all’età;
il 21% ha abbandonato il corso di
studi). Per l’86,25% la motivazione
del lavoro in strada è la povertà;
il 57% viene obbligato a lavorare.
I dati ci sembrano utili per capire
il problema, anche se bisogna
precisare che si sono resi disponibili
all’indagine solo 80 famiglie.
I manifesti
Dall’alto:
«Non è tempo di
rimuovere le tue
mani? Tuo figlio non
è da meno degli
altri».
«Le autorità non
devono acconsentire
che i nostri diritti
vengano violati!
Ascoltate i nostri
bisogni!».
«Il potere di un
paese risiede nella
forza della società.
Tuo figlio non è da
meno degli altri».
«Lasciamo che i
bambini possano
vivere felici».
trasgressori della norma tanto le famiglie
quanto i datori di lavoro siano perseguiti.
In realtà la polizia interviene spesso arrestando i ragazzi per strada, ma l’intervento di ordine pubblico finisce per punire le
vittime senza risolvere il problema.
Dalla discussione sono state evidenziate
le seguenti cause: l’abbandono, da parte del governo, di politiche economiche
e sociali di sostegno per le famiglie più
numerose e indigenti; l’assenza di politiche di pianificazione familiare che aiutino
a risolvere il problema del controllo delle nascite; la perdita di uno o di entrambi i genitori, spesso dovuta alla guerra in
atto; l’assenza di efficaci politiche che garantiscano l’attuazione della carta dei diritti dei bambini; la mancanza di controlli capillari che rendano effettivo l’obbligo d’istruzione; la
violenza e gli abusi sessuali sui minori entro le mura domestiche; il mancato potenziamento di servizi sociali locali.
Abbiamo deciso di realizzare la campagna attraverso l’affissione di manifesti. I gruppi di lavoro, dopo avere definito
l’idea di fondo che avevano intenzione di comunicare per promuovere azioni virtuose, hanno elaborato i testi (head line,
copy e pay-off) e realizzato i bozzetti. È seguita la fase di
confronto delle soluzione adottate e si è deciso di stampare
in forma di layout in scala tutte le proposte e di realizzare
nel formato 50 x 70 cm quella scelta per essere affissa per le
strade di Duhok e delle altre città della regione.
Il manifesto scelto è stato quello che meglio sintetizzava la
relazione tra il lavoro di strada e l’abbandono scolastico e
richiedeva un rinnovato intervento governativo a sostegno
delle famiglie più indigenti. Abbiamo realizzato tour in città
alla ricerca di “scatti fotografici” utili al nostro scopo (davvero interessante una visita ad una scuola elementare – uno dei
set prescelti – dove bambine e bambini estremamente gioiosi e curiosi si sono resi disponibili a ricostruire le situazioni
ipotizzate a tavolino); elaborato al computer quanto prodotto; assistito alla fase di stampa dei bozzetti e del manifesto
finale; e, infine, abbiamo girato in pulmino per le strade di
Duhok alla ricerca dei punti più idonei per una collettiva e libera azione di affissione pubblica.
Ciò che di quei giorni ricordo con maggior piacere è la semplicità dei rapporti, sia durante il corso che nella vita quotidiana, una sorta di condizione ideale per disporsi all’incontro tra i componenti del corso e noi, ma anche con i cittadini
del posto.
È stato assai facile entrare in contatto con persone – quasi sempre maschi – che manifestavano il forte desiderio di
scambiare qualche parola per dire di sé e sapere di me e di
Carlo: dai ragazzi che facevano il pane in forni aperti affacciati sulle strade, ai negozianti di generi alimentari immersi nei colori
delle loro mercanzie, dalle/dagli insegnanti della scuola visitata alle
bambine e ai bambini che la frequentavano, dal padrone della tipografia ai suoi dipendenti con la loro “Heidelberg” a cinque colori di
cui erano orgogliosissimi.
E più di tutti ricordo i ragazzi appena usciti da scuola, diventati presto adulti, con i libri sotto il braccio, che non riuscivano a trattenere
il bisogno di comunicare i propri progetti e il forte desiderio di ricostruire il paese, disposti al sacrificio di andare all’estero – un ragazzo
sognava di andare in Germania per studiare ingegneria – pur di raggiungere una preparazione adeguata al compito che li attende: contribuire alla ricostruzione dell’intero paese, a partire da Baghdad, e
sconfiggere la guerra e chi, nel paese e fuori, la sostiene.
Duhok è una città che ha solo cinquant’anni, proprio come me, ed è
stato straordinario percepire come la vita lì sembri più all’inizio che
alla fine. Lo studio e la scuola sono vissuti come un passaggio importante, obbligato e necessario per la crescita sociale e culturale del
paese.
Ho percepito tutta la concretezza di uno straordinario senso civico
che attraversava la collettività: dai dipendenti pubblici partecipanti al corso sino allo studente, dal cittadino al negoziante. Un senso
di appartenenza ad una collettività che tiene a costruire e preservare un bene comune del quale nelle nostre scuole, non credo, abbiamo
più coscienza.
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l’erba del vicino
IL TITOLO DI STUDIO?
NON VALE
PINO PATRONCINI
Più o meno negli stessi giorni
in cui Fillon, in Francia, provava
ad abolire il bac, in Italia
l’“internalizzazione” degli
esami di maturità, voluta per
ragioni di spesa dall’accoppiata
Tremonti-Moratti, destava non
poche polemiche, in ragione
di una perdita
del valore
scientifico delle
prove, ridotte ad
ennesima verifica
da farsi con gli
stessi docenti
di sempre, ma
anche in ragione
di una paventata
prossima perdita
del valore legale
del titolo di
studio. E così
anche nel nostro paese si
è avviata una campagna
per l’abolizione degli esami
di stato. Ma che ragione ha la destra
internazionale, che usa più o meno gli stessi
sotterfugi in tutto il mondo, di svalutare il
titolo di studio, se non quella di procedere
ad una progressiva descolarizzazione, che
coinvolge anche gli esami, per trovare altre
forme di selezione sia all’università sia nel
mercato del lavoro?
V
erso metà giugno sul sito della FLC Cgil è uscita una notizia che
parlava dell’ipotesi che in Francia si possa decidere di eliminare l’esame di maturità, il baccalaureat (in gergo bac), istituzione bisecolare
repubblicana (fu istituito nel 1808 sotto Napoleone) posta a guardia
della solennità degli studi secondari, per sostituirlo con quello che i
francesi chiamano control continu. D’altra parte una cosa simile era
già stata tentata alcuni anni fa quando era ministro dell’educazione nazionale l’attuale primo ministro Fillon, ma la reazione degli insegnanti ed anche degli studenti (che paradossalmente preferiscono
alla fine tentare la sorte piuttosto che affidarsi alla valutazione di un
curriculum di studi che in Francia dà luogo a verifiche molto rigorose
e severe) scesi in piazza in chiassose e massicce manifestazioni aveva
sconsigliato il governo dal proseguire oltre.
La salute degli esami
La stessa notizia è stata riportata pochi giorni dopo anche dalla rivista Tuttoscuola. Entrambe le testate traevano spunto da una serie di
articoli della rivista francese Le Monde de l’Education di giugno. Gli
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articoli erano ricchi di dati sul “bac” francese: 615 mila candidati (53
per cento generalisti, 27 per cento tecnologici, 20 per cento professionali), 4.366 licei impegnati, 4 milioni di elaborati da correggere,
127.000 esaminatori impegnati( più o meno tanto quanto gli italiani), 62,60 euro come costo medio per candidato e 1,67 euro medi
come indennità per ogni elaborato corretto.
I dati di riferimento erano gli stessi, ma il taglio che dava Tuttoscuola
alla notizia era un altro. Appuntava l’attenzione sui costi. In sostanza, diceva Tuttoscuola, l’esame di maturità francese costa molto meno
di quello italiano: 62,60 euro come costo medio per candidato contro
362 euro a candidato come costo medio italiano. Un motivo in più per
decretare un’altra volta la morte dell’esame di maturità, il quale di per
sé non gode di buona salute viste le disavventure di questa annata
fatta di tracce ambigue, sbagliate e ripetute.
È in corso nel nostro paese la ripresa di una campagna in tal senso. E come dare torto a questa campagna se in un paese
con i nostri problemi di spesa pubblica
si spende per l’esame di maturità quasi sei volte ciò che
spendono i nostri
vicini d’oltralpe?
Il
ragionamento
però potrebbe anche essere rovesciato: se da noi ci sarebbe una ragione
in più per abolire gli
esami di maturità,
visti gli alti costi,
che ragione ha la
Francia di disfarsi di
una così prestigiosa
istituzione che costa sei volte meno di quanto costi in Italia? Anzi
di più: che ragione ha la destra internazionale, che usa più o meno
gli stessi sotterfugi in tutto il mondo, di svalutare il titolo di studio,
se non quello di procedere ad una progressiva descolarizzazione, che
coinvolge anche gli esami, per trovare altre forme di selezione sia che
si tratti di università che di mercato del lavoro? Vuoi vedere che la ragione non è solo quella della spesa pubblica?
Le Monde de l’Education non si fa problemi nell’individuare le cause:
nel 1880 i “maturati” francesi erano l’1 per cento della relativa classe
di età, nel 1936 il 2,7 per cento, nel 1970 il 20 per cento, nel 1989
ancora il 36 per cento, ma dal 1995 la loro cifra oscilla tra il 62 e il
64 per cento. Non tanti per la verità se si pensa che in Finlandia sono
il 92 per cento, in Italia il 74 per cento, negli Stati Uniti il 73 per
cento. Eppure, si chiedono in Francia, vale la pena di spendere tanto
per promuovere “tutti” (sic!)? Vale la pena di spendere per un esame
che “ha perso peso”? Ma quale peso? Quello che interessa alla destra:
quello della differenza sociale.
In Europa
Comunque su questo tema dell’esame finale viene in aiuto alle tesi
della destra la situazione europea. In Europa infatti un esame terminale paragonabile alla nostra maturità o al bac francese non è un patrimonio comune: ci sono paesi che non lo hanno e che quindi si affidano sulla valutazione dell’alunno nel corso del percorso scolastico
secondario superiore, ce ne sono altri per i quali non è strettamente
necessario al termine del percorso secondario a meno che uno studente non decida di proseguire gli studi all’università o altrove..
Non hanno un esame terminale ad esempio il Belgio e la Spagna. In
Belgio non esiste un esame terminale, ma esistono veri e propri esami di verifica a dicembre e a giugno di ogni anno. È in corso tuttavia
un dibattito sull’argomento. In Spagna il Bachillerato viene consegnato alla fine del percorso secondario superiore senza prove di esame,
ma esistono poi gli esami per le ammissioni alle facoltà universitarie.
Nel programma di Zapatero c’era un punto, non ancora realizzato, che
prevedeva una prova nazionale che servisse sia come uscita dal percorso secondario superiore che come prova di ammissione all’università. Era uno dei punti di differenza fondamentali col programma delle
destre che invece propendono per lo sbarramento a livello di ammissione all’università.
In Finlandia l’esame ha un nome per noi impronunciabile:
Ylioppilastutkinto. È di fatto un esame di ammissione all’università.
Vi accedono solo coloro che vogliono proseguire sia che provengano
da studi generalisti sia da studi professionali. È composto da quattro
prove che si tengono in due sessioni e che riguardano l’ultimo anno,
ma nel certificato viene annotato il lavoro dell’alunno durante tutto il
ciclo scolastico. Anche nel Regno Unito un esame corrispondente alla
maturità esiste solo per coloro che vogliono proseguire nell’università e si chiama A-Level. Il titolo a cui tutti gli alunni inglesi devono
arrivare è invece il GCSE (General Certificate of Secondary Education)
che si consegue a 16 anni. Meno del 40 per cento di coloro che hanno
un GCSE continua verso l’A-Level. L’A-Level si consegue generalmente
a 18 anni attraverso due passaggi: un primo livello (GCE AS Level) si
ottiene il primo anno dopo il GCSE frequentando con profitto cinque
discipline, il secondo anno se ne studiano appena tre, ma a un livello superiore (A2).
In Irlanda gli studenti scelgono sei discipline (inglese e matematica
sono obbligatorie), ma anche il livello di difficoltà (foundation, ordinary e higher level). La valutazione avviene sul programma dei due
anni di corso e i voti nelle diverse discipline danno punti che permettono loro di accedere alle università o di continuare gli studi. Il titolo
si chiama Leaving Certificate.
Anche il Portogallo termina gli studi secondari a 17 anni con un esame che rilascia un Certificato di fine degli studi secondari. L’esame è
formato solo da prove scritte basate sul programma dell’ultimo anno.
Anche l’andamento dell’ultimo anno ha un suo riflesso sui risultati.
In Germania gli studenti tedeschi superano l’Abitur intorno ai 19 anni,
dopo 13 anni scolarità (ne sono esclusi i percorsi professionali che in
genere hanno 12 anni di scolarità). In alcuni lander dell’Est tuttavia
gli anni scolarità sono 12. L’esame è soprattutto basato sulla valutazione della cultura generale degli alunni, non è su base nazionale
ma di scuola. Ultimamente si sta sviluppando la tendenza a farlo su
base regionale. È composto da quattro prove (due o tre scritte e una o
due orali) a cui si aggiunge una memoria scritta o una tesina. Il programma è quello dell’ultimo anno e si tiene anche conto dei risultati che l’alunno ha avuto durante l’ultimo anno. Ma l’esame è proprio
solo conclusivo, perché per accedere all’università o ad altri percorsi
terziari, bisogna fare altri esami. Anche in Grecia l’esame è di competenza di ciascun liceo e tiene conto del programma e del lavoro svolto
dall’alunno nell’ultimo anno. Ma per continuare gli studi gli studenti
greci devono successivamente superare un esame nazionale nella disciplina prescelta e questo esame richiede almeno un altro anno di
studi e di lezioni preparatorie. Infatti la scuola greca anticipa ufficialmente la fine degli studi secondari rispetto al resto d’Europa. Gli studenti greci terminano infatti a 17 anni, ma poi devono andare a ripetizione dai loro stessi insegnanti per poter continuare gli studi.
Anche la Francia, pur avendo il già citato esame di Baccalaureat, composto da nove o dieci prove scritte e orali, più le opzioni facoltative
in cui lo studente porta il programma di tre anni di corso, prevede per
alcune filiere post-secondarie, come le prestigiose Grandes Ecoles, altre selezioni precedute da corsi preparatori.
Da queste considerazioni e da questa panoramica viene fuori quale è
dunque il vero nocciolo della questione: non solo la riduzione della
spesa pubblica ma anche il controllo sociale, anche se sembra paradossale che il controllo sociale si possa esercitare oggi di più senza
un controllo scolastico che con un controllo scolastico. Ma non è poi
tanto paradossale, se si pensa che la scuola è, nel bene e nel male, il
terreno ove ovunque il “pensiero unico” ha trovato più difficoltà ad
entrare. In altre parole quando uno strumento non è più utile alla selezione sociale, è meglio toglierlo per lasciare lo spazio ad altri strumenti: nuovi e successivi esami, test per il superamento dei numeri
chiusi, o addirittura le stesse leggi del mercato o l’arbitrio delle chiamate dirette dei datori di lavoro.
INFO
India
Un proverbio indiano recita: «Qualunque
cosa tu dica dell’India, è sempre vero anche
il suo contrario». Schiacciati da tanta
complessità, noi occidentali abbiamo spesso
scelto di racchiudere un oceano sconfinato
di differenze nelle piccole ampolle dei nostri
stereotipi. Indiana. Nel cuore della democrazia
più complicata del mondo il libro di Mariella
Gramaglia (Indiana, Donzelli editore, www.
donzelli.it, pp. VI- 218, fotografie di Laura
Salvinelli, euro 16) è utile per chiarirci un po’
le idee.
Acqua per la vita
Il Premio Alexander Langer per l’anno 2008 è andato
all’esperienza del villaggio somalo di Ayuub e alla
memoria di Mana, la donna somala che lo ha fondato,
riunendo orfani delle guerra civile a madri che avevano
perso marito e figli, con il sostegno della Ong “Acqua
per la vita”.
La situazione della Somalia resta tragica e chi volesse
avere più informazioni o dare il proprio sostegno a
questa straordinaria iniziativa può rivolgersi a Giuliano
Bortolotti ([email protected]).
I Nord e i Sud del mondo
Le proposte di Fratelli dell’Uomo per l’anno
scolastico 2008/09, per crescere cittadini del
mondo consapevoli e aperti al dialogo con le
culture sono disponibili sul sito www.fratellidelluomo.org.
Fratelli dell’Uomo - Educazione allo Sviluppo,
tel. 02.69660052, marilena.salvarezza@frate
llidelluomo.org.
Il serpente bianco
Il serpente bianco (a cura di Yang Xiaping,
illustrazioni di Chiara Donelli-Cornaro, Idest,
2008, pp. 96, euro 13) è il testo bilingue,
italiano e cinese, di una delle più note
fiabe cinesi. Una proposta per gli scaffali
multiculturali delle biblioteche per ragazzi e
scolastiche. Il libro può essere acquistato on
line (www.liberweb.it/cassattr/modutilities.
htm) o essere richiesto a Idest, via Ombrone
1, 50013 Campi Bisenzio, tel. 055 8966577,
fax 055.8953344, [email protected], www.
idest.net.
Immigrazione
Il Circolo Culturale Africa ha sede presso il Centro di
documentazione e ricerca per la cittadinanza attiva
di Ancona. Il circolo raccoglie libri, tesi di laurea e
ricerche sull’immigrazione, sull’economia politica e
fornisce informazioni e materiali sugli stessi temi.
Circolo Culturale Africa via San Spiridione 5/a, 60100
Ancona, tel. 071.2072585, segreteria@circoloafrica.
org, www.circoloafrica.eu, Radio Africa: www.
radioafrica.eu.
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de rerum
natura
DIDATTICA DELLA SCIENZA Il rapporto
di Leopardi con il pensiero scientifico è stato
a lungo misconosciuto. Soltanto negli ultimi
anni, a ridosso del secondo centenario della
nascita, si è fatta strada una nuova sensibilità
al tema e si inizia a percepire il valore che ebbe
per Leopardi la cultura scientifica. Alla luce
dei recenti studi, non sarebbe difficile tradurre
la nuova visione del pensiero leopardiano in
un’efficace proposta didattica. Da un lato Leopardi andrebbe inserito a pieno titolo
tra i grandi filosofi dell’Ottocento, dall’altro si potrebbe definire programmaticamente
una trattazione congiunta del suo pensiero a partire dalla letteratura italiana
e dalla filosofia, con il coinvolgimento dei docenti delle discipline scientifiche
Leopardi e la scienza
N
GASPARE POLIZZI*
el 1845 Pietro Giordani presentava la prima edizione postuma delle Opere di
Giacomo Leopardi definendolo «sommo filologo, sommo poeta, sommo filosofo». Ma per
acquisire in pieno la considerazione della sua
opera filosofica è stato necessario attendere il 1947, quando Cesare Luporini e Walter
Binni hanno posto le basi per una considerazione attenta del pensiero leopardiano. Si è
aggiunta in seguito una nutrita serie di analisi, tra le quali spicca l’opera di Sebastiano
Timpanaro. Negli ultimi anni, si inizia a percepire anche il valore che ebbe per Leopardi
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la cultura scientifica. È mancata finora una
chiara percezione del ruolo svolto dalla “filosofia naturale” nella formazione di Leopardi
e della «studiosa gioventù» tra ‘700 e ‘800:
il termine illuministico philosophe implicava
quello, già newtoniano, di “filosofo naturale” e non vi era formazione filosofica che non
includesse la philosophia naturalis, di tradizione soprattutto inglese e francese, in gran
parte sussunta nella fisica newtoniana, ma
già aperta alla nuova chimica di Lavoisier.
Leopardi non soltanto non era, secondo
un pregiudizio radicato, digiuno di cultura
scientifica, ma aveva una solida preparazione scientifica, a partire dalla quale delineò la
propria visione materialista del mondo.
Parlare della luna
Se ne era accorto per tempo Italo Calvino,
che nella prima delle Lezioni americane
(Leggerezza) ricordava che «quando parlava
della luna Leopardi sapeva esattamente di
cosa parlava».
Sono ora disponibili nuove ricerche che indagano sulla quantità e sulla qualità delle conoscenze scientifiche leopardiane, ricavabili
dagli scritti giovanili, in parte riconoscibili
come “scientifici”. Ma vengono delineate anche con più precisione le linee della concezione leopardiana della natura, da porsi in
relazione con la cultura scientifica e naturalistica di Leopardi, ripensata nello Zibaldone.
Astronomia, storia naturale, chimica, fisica,
medicina sono le scienze che lasciano una
traccia più consistente nell’opera di Leopardi,
e aspetti rilevanti della sua filosofia della natura, a partire dallo stesso “stratonismo”,
sono riconducibili ai rapporti con la cultura
scientifica del primo Ottocento.
Il recente volume di Andrea Campana su
Leopardi e le metafore scientifiche (Bonomia
University Press, Bologna 2008) offre l’occasione per indicare brevemente il rilievo del
rapporto di Leopardi con la cultura scientifica. Campana ha inteso dimostrare come
«molti dei principali concetti-chiave del suo
‘sistema’ sulla vita e sulla società» derivano
«in misura preponderante, dalla fisica e dal
pensiero medico fisiologico sei-settecentesco» (p. 9). A tal fine, viene vagliata, alla
luce di un vasto repertorio di riferimenti allo
Zibaldone, ma anche alle opere letterarie e
poetiche, la consistenza delle nozioni scientifiche e della frequentazione leopardiana con
le scienze sperimentali, la botanica, la storia
naturale, la medicina. Campana si sofferma
sulla dinamica e sulle teorie dell’elettricità,
con una Storia dei «globetti» leopardiani, segue le tracce del binomio Newton-Omero nell’intera opera leopardiana e nel pensiero del
Sette-Ottocento, affronta il tema del rapporto tra fisico e morale nell’uomo e della moral
attraction, centrali per una visione materialistica della natura umana e della comunità sociale e politica, in buona sostanza condivisa
da Leopardi, e passa in rassegna la diffusa
presenza di analogie fisico-morali e di altre
analogie socio-fisiche, quali quelle di azione e reazione, di stimolo e controstimolo, di
macchina, orologio e corpo, di caduta. Si può
dare atto all’autore di aver raggiunto in pieno il suo obiettivo, ovvero di aver dimostrato
«come molti concetti-chiave della morale e
della politica leopardiane siano derivati dalle
scienze fisiche e naturali» (p. 23).
ARO 08
Leopardi esplica, in una convergenza completa e consapevole tra le due culture, una concezione materialista e organicista della natura fisica, ma anche umana e sociale, che
non sarebbe possibile senza la sua cultura
scientifica e che costituisce un orizzonte di
riferimento per le sue note ricognizioni sulla condizione umana, sul rapporto tra natura
e ragione e tra natura e società, sul binomio
primitivo-civilizzato.
Le «ragioni della verità»
Mi pare che, anche alla luce della ricerca di
Campana, si possa convenire su tre principali asserzioni in merito al rapporto di Leopardi
con la scienza. Innanzitutto, e più banalmente, siamo ormai certi che Leopardi possedesse
una formazione e una cultura scientifica pienamente corrispondenti allo stato della scienza del suo tempo. Possiamo anche rintracciare con precisione il livello della sua cultura
scientifica, a partire dagli scritti giovanili,
che erroneamente vengono definiti eruditi:
ne sono esempi luminosi le Dissertazioni filosofiche del 1811, dieci delle quali sono fisiche (Sopra il moto, Sopra l’attrazione, Sopra
la gravità, Sopra l’urto dei corpi, Sopra l’estensione, Sopra l’idrodinamica, Sopra i fluidi
elettrici, Sopra la luce, Sopra l’astronomia,
Sopra l’elettricismo) e la Storia dell’astronomia (1813). Ma l’affermazione più rilevante sul piano della ricostruzione del pensiero
leopardiano consiste nel riconoscere come la
sua formazione scientifica sia stata centrale
per l’elaborazione del suo pensiero e della sua
poesia: dal materialismo “stratonico” alla visione cosmica, dalla concezione della natura
a quella del suo rapporto con gli uomini, all’analisi delle condizioni biologiche, fisiologiche e sociali degli uomini stessi.
Tale percorso conduce compiutamente da una
presunta “scienza negata” (e in parte celata dallo stesso autore) alla ricognizione delle «ragioni della verità», che richiedono in
Leopardi, per costume scientifico e filologico, un costante e ravvicinato confronto critico con la cultura filosofico-scientifica del
proprio tempo.
* Insegna all’Università di Firenze. È autore, tra
l’altro, di Leopardi e la filosofia (in collaborazione),
Firenze 2001; Leopardi e “le ragioni della verità”.
Scienze e filosofia della natura negli scritti leopardiani, Roma 2003; The Natural Sciences in Leopardi’s
Early Writings, in P. Antonello and S.A. Gilson, eds.,
Science and Literature in Italian Culture from Dante
to Calvino, Oxford 2004; Galileo in Leopardi, Firenze
2007; «…per le forze eterne della materia». Natura
e scienza in Giacomo Leopardi, Milano 2008.
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INFO
Nucleare/ Diamo i numeri
In 60 anni sono stati realizzati nel mondo 500
reattori civili e ben 130.000 bombe atomiche.
Il costo di costruzione è stimato oggi in 7.000
miliardi di euro per un
impianto da 1000 MW
e il costo previsto in
bolletta 0,30 dollari per
Kwh per i primi 13 anni
(fino ad ammortizzamento
costi di costruzione),
mentre il costo di un Kwh
prodotto con il solare o
l’eolico è di 0,14 dollari.
La durata di un impianto
nucleare varia tra i 100 e
i 150 anni. Un impianto
concepito nel 2008 entrerà
in esercizio non prima
del 2028, funzionerà per
una sessantina di anni
e per lo smantellamento
si prevedono almeno 20
anni. È evidente che i
programmi nucleari siano
irrazionali e antieconomici,
ma la privatizzazione del
mercato dell’energia rende
probabile la ripresa del nucleare sotto la spinta
politica di incentivi statali, che scaricheranno
sulla collettività i costi. Peter Bondilla, manager
della Banca Centrale Europea (BCE), non ha dubbi
su chi si dovrà accollare i costi del nucleare:
«non esistono alternative, sarà
comunque il contribuente a
pagare; i costi saranno scaricati
sulle famiglie». In Italia c’è un
ulteriore problema: uno degli
ultimi atti del governo Prodi è
stato il decreto con il quale si
impone che: «le località dove
insediare servitù energeticoinquinanti, diventano segreto di
stato».
abitano nei pressi delle basi che le ospitano.
La maggior parte dei siti di stoccaggio delle
armi atomiche che gli Stati Uniti detengono in
Europa non rispetta gli standard di sicurezza del
Dipartimento della Difesa. Varie ispezioni, svoltesi
tra il 2007 ed il 2008, lo hanno dimostrato.
Una delle basi “a rischio” è Ghedi-Torre ed è
per questo che le quaranta testate atomiche
dovrebbero essere spostate ad Aviano, giudicata
più sicura.
L’Italia è uno stato non nucleare aderente al
Trattato di non proliferazione. Gli Stati Uniti non
possono consegnare armi
atomiche all’esercito
italiano, né possono
depositarle nel
nostro territorio. Alla
Commissione Affari Esteri
della Camera dei Deputati
giace non calendarizzata
una proposta di legge
d’iniziativa popolare
per far dichiarare
l’Italia “Paese libero
da armi nucleari”. Le
firme di oltre 70.000
cittadine e cittadini,
che hanno aderito alla
Campagna “Un futuro
senza atomiche” (www.
unfuturosenzatomiche.
org), chiedono che le
bombe di Ghedi e quelle
di Aviano vengano
smantellate.
Comitato “Via le
Bombe”: Lisa Clark, 348.3323254; Michele Negro,
338.4475550; Giuseppe Rizzardo, 333.9027079.
Bambini e natura
Il libro di Raffaele Mantegazza,
Il colore del grano. I bambini e
la natura (pp. 72, Euro12,00,
edizioni la meridiana, tel.
080.3346971, info@lameridiana.
it, www.lameridiananovita.it)
che affronta il tema del rapporto
tra bambini e natura e tra
bambini e animali (in particolare
animali domestici) propone
materiali, suggerimenti, attività
tocco delicato e indiretto del
gioco e non a
quello rapace del
possesso e dello
sfruttamento.
Nucleare/ La memoria di
Hiroshima
La memoria delle atomiche
sganciate il 6 e 9 agosto del 1945 su Hiroshima
e Nagasaki (http://it.wikipedia.org/wiki/
Bombardamento_atomico_di_Hiroshima_e_
Nagasaki) ha lasciato una ferita che ancora non
è stata rimarginata. Il nucleare ha sempre pesato come un ricatto e un pericolo grande per tutta
l’umanità. L’attuale ritorno al nucleare è uno strumento per ridisegnare gli equilibri internazionali, togliere spazi ed energie alle democrazie, rendere sempre più difficile la possibilità di vita e di
convivenza planetaria. Per questo c’è un grande
sforzo a livello mondiale per opporsi al nuovo nucleare. Sono tante le organizzazioni che stanno
operando perché il pianeta intero venga liberato
non solo dal nucleare militare, ma anche da quello
civile, essendo ormai chiaro che le centrali nucleari non sono in grado di risolvere la crisi energetica, nonostante la forte lobby che le sponsorizza
ovunque, anche in Italia.
Nucleare/ Futuro senza atomiche
Le armi nucleari sono intrinsecamente pericolose
e costituiscono un rischio per le popolazioni che
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A Cenci
Due incontri ad Amelia, alla Casalaboratorio di Cenci:
19 - 21 settembre: “L’officina
matematica di Emma Castelnuovo”.
Il laboratorio operativo per la
costruzione di strumenti didattici
rivolto ad insegnanti di scuola
elementare e media è dedicato
quest’anno a matematica e
architettura.
20 - 23 novembre 2008: “Le
sorgenti del narrare” Laboratorio di narrazione
orale per imparare a raccontare e a raccontarsi.
Informazioni: Franco Lorenzoni, tel. 0744.980330,
cell. 339.5736449, [email protected].
Gioco e ambiente
Le proposte per l’anno scolastico 2008-2009 del
Centro Studi cultura-gioco-ambiente:
nel mese di ottobre 2008, in provincia di
Piacenza, “Favole in festa. C’era una volta, ora
non c’è, ma forse ci sarà”. Quattro giornate di
fantasia e realtà, avventura e concretezza tra
boschi, frutteti, fiumi, castelli, cascine, con
favole, fiabe, poesie, musiche, laboratori, luoghi
e racconti di lavoro e una fiera-mercato del
giocattolo e del libro per bambini e ragazzi.
L’iniziativa è riservata agli insegnanti che
volessero proporla tra marzo e maggio 2009 alle
proprie classi.
In ottobre e novembre e in aprile e maggio
“Sartirana Arte”, visite interattive alla sezione
didattica del museo della moda e dei gioielli
nel Castello di Sartirana (Pavia) che espone
le realizzazioni delle scuole. Le attività sono
indirizzate agli Istituti professionali della moda,
ai Licei artistici, alle classi terze delle Scuole
secondarie di primo grado.
L’iniziativa itinerante “Kids for kids Italia.
Mediadays. Alla ricerca dei talenti digitali”.
Laboratori su film realizzati da ragazzi europei e
americani a confronto per riflettere sui consumi
multimediali dei ragazzi.
“Giovannino P. nel paese dei mostri”, mostra
itinerante interattiva e i laboratori rodariani. Dai
dinosauri alle macchine inutili di Munari e agli
Ubu di Baj.
“Un altro sguardo, 100 immagini, 100 parole, 100
suoni”. I bambini e i ragazzi raccontano il mondo.
L’attività itinerante sui temi della costruzione
dell’identità, della capacità di relazionarsi con
altre culture, dei nuovi metodi educativi è
pensata per bambini e ragazzi dai 7 ai 16 anni..
Per scuole, biblioteche ludoteche.
Proseguono inoltre le collaborazioni con
BiMed - Biennale delle Arti e delle scienze del
Mediterraneo ([email protected] - www.exposcuola.
info) e con GioNa - Associazione nazionale delle
città del gioco (www.ludens.it).
Per informazioni: Amilcare Acerbi,
[email protected], www.acerbiemartein.it.
L’officina matematica
È uscito per le Edizioni la meridiana un libro di
testo assai innovativo di Emma Castelnuovo,
curato da Franco Lorenzoni, L’officina matematica.
Ragionare con i materiali (168 pp., 18 euro).
«Io non credo – dice Emma Castelnuovo – che
non si studi quasi più matematica all’Università
perché i futuri matematici non vogliono finire a
fare gli insegnanti, ma perché la matematica non
la si insegna quasi mai come una materia viva,
né all’Università né nella scuola
superiore. Viene trattata come
una disciplina da insegnarsi
in maniera “distaccata”.
Una matematica capace di
aprire la mente interessa
e appassiona i ragazzi, ma
spesso i professori sono i primi
ad avere i paraocchi, e non
viene certo voglia di andare a
studiare matematica in queste
condizioni».
Il libro è frutto dell’omonima
esperienza che da sei anni si
svolge alla Casa-laboratorio di
Cenci, in Umbria, tre giornate
dedicate a laboratori in cui
gli insegnanti sono invitati a
lavorare con le mani, a costruire
figure geometriche con spaghi ed elastici, a
piantare chiodi per intuire quali curve presiedano
alle leggi della probabilità e della frequenza, a
fare bolle di sapone per scoprire le proprietà del
cerchio e della sfera. Nella terza parte in una
lunga e appassionata intervista, l’ultranovantenne
Emma Castelnuovo racconta la nascita del suo
metodo e le ragioni che stanno a fondamento
della sua proposta didattica.
Edizioni la meridiana, tel 080.3971945;
335.255240, www.lameridiana.it.
modi
e media
RILETTURE Molto tempo e molte esperienze, tra cui
decenni di femminismo, sono intercorsi dalla comparsa
di Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. La società è
cambiata in maniera rapidissima e drastica. Eppure quel
libro ha ancora molto da dirci, molti stimoli da offrire alla
riflessione, perché questo nostro sesso è ancora, gravemente,
secondo. Così distaccato che non c’è bisogno di elencare
situazioni di discriminazione e di sopraffazioni sessiste, in
tutti i continenti, per tutte le classi sociali e le fasce d’età
secondo sesso
C
ento anni dal primo 8 marzo e cento anni dalla nascita di Simone
de Beauvoir, quasi sessanta dalla pubblicazione di Il secondo sesso1.
Nel 1949, due anni dopo il voto alle donne francesi, esplosero queste mille pagine che fecero scandalo. Per me che lo lessi quindicenne
fu, come per altre lettrici, il primo libro di una donna sulle donne e
mi cambiò non solo lo sguardo ma proprio gli occhi. La stessa autrice afferma nel testo autobiografico La forza delle cose, che, quando si
accinse a scrivere Il secondo Sesso, cominciò a guardare le donne con
un occhio nuovo e passava di sorpresa in sorpresa. Simone fin quasi
ai 40 anni – comincia a elaborare questo testo nel 1946 – non si era
mai sentita discriminata in quanto donna, né nella famiglia, colta e
aperta, né come intellettuale in un ambiente libero da pregiudizi. E
d’un tratto cominciò a rendersi conto che anche lei, pur essendo una
privilegiata, veniva considerata come una parzialità, in quanto donna, mentre gli uomini erano visti come rappresentanti dell’Universale.
Introducendo il concetto di parzialità, è tra le prime a smascherare un
maschile che pretende di parlare in nome di tutta l’umanità, pur essendo una parte e per di più, dice Simone, una parte in causa. Un maschile che vede la donna solo in quanto l’altro dell’Uomo che è misura
del mondo, altro in quanto pura natura, strumento, non l’Altra quale
soggetto con cui entrare in relazione dialettica.
Simone de Beauvoir si accinge a un lavoro enorme. Per mostrare la situazione subalterna della donna, mero oggetto che non può aspirare
a dare un senso alla propria esistenza raggiungendo la libertà e costi-
Ancora
MARIA LETIZIA GROSSI
tuendosi come soggetto, esamina l’essere donna attraverso lo sguardo
delle scienze, della storia, della filosofia, del mito, della letteratura.
L’evoluzione collettiva
È un’accurata opera di decostruzione. Ad esempio, mostra che nella storia la donna è presenza-assenza, presente nella concretezza dei
fatti e degli atti necessari alla sopravvivenza dell’intera umanità, assente nella storia ufficiale e nella storiografia, agite e scritte da uomini. Come sul piano politico e giuridico, malgrado il raggiungimento di
una parità formale e del diritto di voto, non è mutata l’impostazione
dei rapporti fra i generi e dunque la disparità sostanziale. Inoltre, a
differenza di altri gruppi oppressi, che spesso tentano di ribellarsi, le
donne sono invitate alla complicità mediante concessioni e compensazioni. La società patriarcale condiziona ragazze e donne ad accettare la condizione di altro-oggetto, incoraggiando la fuga dalla libertà e
con la promessa di protezione, bisogni inautentici ma presenti.
Simone, che all’inizio della scrittura avrebbe voluto parlare di sé, si
accorse che era urgente parlare della condizione di tutte le donne e
fece un’analisi vastissima e approfondita, partendo dal punto di vista
dell’esistenzialismo, che sottolinea l’esigenza di libertà e la responsabilità di esistere di ogni individuo. Tuttavia questo approccio non
ripercorre acriticamente la posizione di Sartre, più individualista. «Le
nostre libertà si sostengono l’un l’altra come le pietre di un arco»,
scrive Simone, che utilizza altresì l’ottica marxista per osservare la
école numero 70 pagina
35
reale condizione delle donne e sottolineare la necessità di una lotta
comune: «Bisogna che la donna si faccia una nuova pelle e si tagli da
sé i suoi vestiti. Non può arrivare a questo che attraverso un’evoluzione collettiva».
INTERVISTA
Storie singolari
Se la prima parte è corrosiva e sconvolgente, la seconda, forse per la
prima volta, utilizza un metodo narrativo per pensare. Pur occupandosi della condizione femminile nel suo insieme, de Beauvoir attinge
alle storie singolari delle donne soggetto per indicare i percorsi verso
la libertà femminile.
Libro monumento, non solo per la mole, su cui poggia molto del lavoro successivo della cultura di genere, un punto di partenza ineludibile, tanto che, a rileggerlo, troviamo che molte cose scritte e dette in
seguito erano già nelle sue pagine. Colpisce l’ampiezza culturale e la
capacità di muoversi fra campi diversi ed eclettici, il tenere insieme
la lucidità della filosofa e la veemenza della testimonianza della reale condizione delle donne, la critica al biologismo. Alcune parti sono
tuttora di dirompente attualità, come quelle sull’aborto, sulla maternità, di cui è decostruita la mistica che designa il corpo di donna
come un destino, sull’omosessualità femminile.
Ma la mia rilettura non vuole celebrare il monumento. Il secondo sesso, proprio perché è nato in anni lontani, è ancora più notevole per
il coraggio nello sfidare le convenzioni e il disprezzo maschile. Ma è
anche un libro che risente del clima filosofico in cui è nato, l’esistenzialismo, e di una visione emancipazionistica. La stessa Simone d’altronde in interviste più tarde non esita a criticarne alcuni punti. A lei
premeva sostenere la sostanziale uguaglianza, in quanto esseri umani,
di uomini e donne, in tema di libertà, di diritti, di dignità, di responsabilità. Il tema della differenza era meno urgente in quella situazione socio-culturale, poteva addirittura essere manipolato in modo
fuorviante, come talvolta è successo, prima e dopo, per collaborare
nel rinchiudere le donne nel loro recinto. E tuttavia la scrittrice considera importante che le donne riescano a rendersi libere mantenendo
la loro singolarità senza omologarsi a modelli maschili. Chiedendosi
se questo sarà possibile, de Beauvoir premette che la situazione non è
favorevole, ci sarebbe bisogno di un riconoscimento reciproco, che al
momento non esiste, non per motivi naturali e immutabili, altrimenti
non avrebbe neanche senso affrontare il tema, ma per motivi storicosociali. «La disputa continuerà finché gli uomini e le donne non si riconosceranno come simili. […] È necessario che uomini e donne, al
di là delle differenze, affermino, senza possibilità di equivoco, la loro
fraternità». I due passi essenziali: riconoscerci come simili e fraterni
e degni degli stessi diritti in quanto esseri umani e costruire l’uguaglianza, senza annullare le differenze come individui e come genere.
FRANCESCA CAPELLI
Pietra miliare per le femministe
Immancabile riferimento per le femministe francesi, con cui Simone
collaborò attivamente dagli anni 70, lo fu anche per molte autrici di
altri paesi: Betty Friedan si avvicina a lei quando sostiene il bisogno
di esistenza simbolica per le donne, Judith Butler a proposito dell’identità sessuata. La stessa Luce Irigaray, apparentemente agli antipodi, quale autorevole rappresentante dell’ottica della differenza di
genere, prende molti spunti da Il secondo sesso, basta scorrere i titoli dei capitoli e dei paragrafi di Speculum2 per rendersene conto. Lei
stessa in Io, tu, noi. Per una cultura della differenza3 dedica l’intera
“Avvertenza” a Simone de Beauvoir: «Qual è la donna che non ha letto
Il secondo sesso? Che non ne è stata illuminata? Simone de Beauvoir è
stata tra le prime a incoraggiare ogni donna a sentirsi meno sola e più
decisa a non sottomettersi e a non lasciarsi turlupinare».
E ancora un aspetto rende questo libro e questa scrittrice vere pietre
miliari nel nostro ancor lungo percorso, l’incisività, l’ironia, la forza
tagliente con cui dice quello che vuole comunicare: «Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo;
è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna».
NOTE
1. Pubblicato da Gallimard nel 1949, tradotto in Italia nel 1961 da Il Saggiatore,
è stato riedito dalla stessa casa editrice nel 2008, con la prefazione di Julia
Kristeva e la postfazione di Liliana Rampello.
2. Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, 1975
3. Io, tu, noi, per una cultura della differenza, Feltrinelli, 1992.
école numero 70 pagina
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Letteratura sovversiva
C
onsiderarlo un autore “fantasy”, sebbene fuoriclasse, sarebbe un
errore. Semmai i libri di Philip Pullman (dalla trilogia Queste oscure
materie a Il ponte spezzato) si rifanno al fantastico – e comunque,
a fare da contrappeso, ci sono romanzi del tutto realistici, come la
splendida serie di Sally Lockhart, ambientata nella Londra vittoriana –,
o meglio, a una letteratura fantastica non legata agli stili e alle atmosfere medievali e “arturiane” del Signore degli Anelli o delle Cronache
di Narnia –.
Una letteratura sovversiva
PHILIP
che si pone domande. E sono
PULLMAN
spesso romanzi di formazione
al femminile: Lyra di Queste
Nato a Norwich del 1946, Philip
Pullman (sito ufficiale è www.philiposcure materie, dotata di popullman.com) ha studiato a Oxford,
teri magici, Ginny di Il pondove ha ambientato la trilogia Queste
te spezzato, alla ricerca della
oscure materie e dove ancora oggi vive.
propria storia, Sally Lockhart,
«È una città universitaria, ricca di
biblioteche, caffé, teatri e cinema ed
donna indipendente e antiè vicina a Londra, con i vantaggi delle
conformista nella puritana
piccole città», spiega.
società inglese. Ne abbiamo
Sono stati tradotti in italiano e
pubblicato sempre da Salani:
parlato con l’autore.
Serie “La banda di New Cut”: Il falsario
e il manichino di cera, Il fiammifero
Insomma, non si sente uno
svedese e il segreto dell’amore.
Serie di Sally Lockhart: Il rubino di
scrittore fantasy?
fumo, L’ombra del Nord, La tigre nel
Non lo sono. E anche i miei
pozzo, La principessa di latta.
romanzi apparentemente fanTrilogia “Queste oscure materie”:
La bussola d’oro, La lama sottile, Il
tastici, in realtà sono reacannocchiale d’ambra.
listici. Prendiamo Il ponte
Altri romanzi: Il ponte spezzato,
spezzato. È ambientato nel
Ero un topo, Lo spaventapasseri e il
suo servitore, Il conte Karlstein e la
Galles settentrionale, un luoleggenda del demone cacciatore.
go dove ho abitato e che ho
amato molto. La protagonista è il punto di incontro tra
due culture: quella druidica paterna e quella vudù materna. Anche il
contesto sociale è realistico: Ginny vive in una famiglia monoparentale, con il padre.
La serie di Sally Lockhart (come quella del banda di New Cut, ndr) è ambientata nella Londra vittoriana. Per scrivere libri realistici su questa
società, abbiamo a disposizione foto, documenti, sappiamo come si viveva all’epoca. Per le donne gli unici lavori di alto livello possibili erano quello di insegnante e infermiera, mentre la mia protagonista lavora
nell’alta finanza. È anche un’occasione per parlare dei problemi sociali
dell’epoca: quelli che per Sally sono affari di successo, si basano sullo
sfruttamento di altre persone. E la ragazza se ne renderà conto, grazie
a un uomo – un nuovo amore – che le apre gli occhi.
Che cosa hanno in comune questi personaggi?
Il tema principale dei miei romanzi è la natura umana e la relazione
degli individui con gli altri e con il mondo. Il fantasy non si cura di
tutto questo. E credo anche che il successo di Queste oscure materie,
a cominciare dalla Bussola d’oro, dipenda dal fatto che scrivo di cose
reali, vere. È un discorso controcorrente, in un momento in cui tutti
sembrano contagiati dal fantasy. Parto dal presupposto che io scrivo
cose che mi piace leggere. Pazienza se non è commerciale o di moda.
I suoi sono i classici romanzi per ragazzi che piacciono agli adulti…
Nessuno scrittore dovrebbe scrivere “per” qualcuno. Io parlo a chiunque voglia ascoltare, tutti sono i benvenuti. Il mio mestiere è raccontare una storia meglio che posso, perché tutti possano divertirsi
a leggerla. Il vantaggio di avere un pubblico misto è che non puoi
permetterti di impigrirti. Ai ragazzi interessa la storia, più che lo stile, vogliono sapere che cosa “succede dopo”. Gli adulti sono più critici, si suppone che abbiano letto di più e che siano attenti anche alla
scrittura.
MARIA LETIZIA GROSSI
S
RAGAZZI VIRTUALI
Si potrebbe leggere Pinocchio come
metafora straordinariamente centrata di
un sistema scolastico e sociale, in cui
«modo di apprendere, supporto tecnologico
e organizzazione strutturale della scuola
formavano un organismo fortemente
integrato e interdipendente»
EDOARDO CHIANURA
navigo ergo sum
script
UN ASSAGGIO
DI SAGGIO
Il saggio, anche sotto altro nome, è tra le
forme di scrittura più praticate a scuola:
tesine, relazioni, risposte a domande in
forma aperta. Essendo considerato un
testo distaccato, obiettivo, in cui è netta
la separazione fra soggetto scrivente e
oggetto della scrittura, a ragazzi e ragazze
in questo tipo di scritto è vietato esprimere
una passione e una partecipazione per
l’argomento trattato. Che invece è proprio
ciò che renderebbe lo studio e lo
scrivere affascinante, fruttuoso
per la crescita personale e di
sicuro meno pesante. Ma un
altro genere di saggio esiste
toricamente, come pratica e come teorizzazione, nasce con Virginia Woolf, in quanto autrice di
saggi del tutto nuovi e teorica del nuovo saggio.
Questo capovolgimento non parte con un atteggiamento polemico. Virginia si mette dalla parte del
lettore, proprio del lettore comune (The common
reader è il titolo dell’incipit della sua prima raccolta
saggistica)1, scrive per lui o per lei, in un modo che
parte dalla sua passione di lettrice e che perciò può suscitare passione in chi a sua volta leggerà. In questo tipo di scrittura il soggetto
scrivente entra in contatto emotivo col suo oggetto, se lo gusta, tra
le tante etimologie della parola, sceglie l’assaggio, mette in moto la
testa e il corpo, che, ricordiamolo, non sono staccati, c’è anche fisicamente un collo che li unisce. È una modalità che mette in relazione, si
rivolge a qualcuno, fa da tramite con l’oggetto di studio, instaura un
triangolo. E in questo triangolo amoroso non c’è tradimento, perché
l’argomento allo studio viene rispettato pienamente. È necessario liberarsi dall’assunto
che rigore scientifico significhi oggettività asettica e asserzioni perentorie.
È molto più vicino
al modo di procedere scientifico un
sentiero vagante,
che segue intuizioni, fa prove, torna
sui suoi passi, parte
dal dubbio per mettere in moto una ricerca e arrivare in
luoghi inesplorati.
Oltre Virginia la pioniera, molte signore hanno così assaggiato, ad esempio Marguerite Yourcenar, Marguerite Duras, Marìa
Zambrano, Cristina Campo, Anna Maria Ortese, Elsa Morante. Si può
cominciare da queste letture per insegnare ai nostri allievi un’altra
modalità di saggio.
NOTA
1. Di Virginia Woolf, a proposito del nuovo saggio, mi limito a citare Il saggio
moderno, Il lettore comune, Bennett e la signora Brown, tutti in Saggi, prose,
racconti, I Meridiani, Mondadori, 1998.
U
n’esigenza di proposta pedagogica nazionale e di trasmissione di valori unificanti, oltre che
di conoscenze, in cui il libro fungeva da supporto tecnologico unico e unificante e l’organizzazione strutturale era fondata sul ruolo trasmissivo del
maestro, unico depositario del sapere.
Bene o male in questo modo siamo arrivati fino ad
oggi, seppure, come dice Antinucci in un libro dal
titolo sintomatico, sempre più si percepisce che «La
scuola si è rotta», nel senso che l’organizzazione
strutturale della scuola come sistema complessivo
oltre che di azioni anche di valori è in profonda crisi. E soprattutto il libro di testo, come va predicendo Raffaele Simone da quasi un decennio nel suo
libro La terza fase: «sta ancora modificandosi velocemente, e sta tornando a essere a favore di un testo disarticolato. […] il testo non è più un’entità
chiusa e protetta, ma sta tornando a essere un oggetto aperto e penetrabile, liberamente copiabile e
interpolabile senza limiti».
Un analista americano, Jay Cross, a proposito di
quella che oggi definiamo formazione continua,
considera l’apprendimento informale «l’altro 80 per
cento» a significare che solo un quinto degli apprendimenti oggi avviene in maniera formalizzata.
Tradotto brutalmente in tempo-scuola, significa che
in aula un ragazzo impegna mediamente un terzo
della propria giornata (compiti esclusi) per un fare
un quinto delle proprie scoperte quotidiane.
Assistiamo quindi ad un
confronto – che talvolta è
più propriamente scontro
– tra il libro e la scuola, da
un lato, e il cosiddetto paese dei balocchi oramai tecnologizzato: internet, ipod,
sms, ecc..
È per questo che oggi diventa importante avere la
consapevolezza che l’attuale convergenza tecnologica, culturale e metodologica, che è già attiva negli
apprendimenti informali degli studenti e forse inconsapevolmente di tutti noi, può
e dovrebbe comprendere anche l’insegnamento.
Dario Zucchini a questo proposito introduce una considerazione sul
mondo della scuola in relazione all’utilizzo o meno delle “nuove tecnologie”: i saperi dell’umanità, in pochi anni, si sono decuplicati; non
esistono più esperti della scuola in grado di poter padroneggiare questi argomenti: informatica, scienza, biologia, grafica, mondi virtuali,
videogiochi, fisica, elettronica, telecomunicazioni, ecc. ecc. Ed allora:
come gestire argomenti e strumenti sconosciuti in una perenne riforma della scuola? Ignorare (a scuola non se ne parla ma i ragazzi già
école numero 70 pagina
37
usano)? Vietare (divieto assoluto o appello all’uso critico)? Sappiamo
bene che «quando la scuola ignora o rifiuta un processo di innovazione ne rimane sopraffatta» e che «rifiutare e vietare vuol dire non dare
agli studenti le linee guida per un corretto utilizzo dei nuovi strumenti». Inoltre «a scuola abbiamo fanciulli nati nel mondo digitale che
non trovano nessuno in grado di spiegargli come funziona e come si
usa questo fantastico mondo…». «Dunque stiamo assistendo ad un
cambio generazionale» distinto secondo Mark Prensky in digital natives, cioè i cosiddetti nativi come i nostri figli o i nostri studenti, che
sono nati e cresciuti con le tecnologie digitali (internet, videogiochi,
dvd, telefoni cellulari ecc) e in digital immigrants, gli adulti come noi
che, nati in un mondo analogico, cercano di impadronirsi della nuova lingua digitale, ma faticano a padroneggiarla perfettamente, come
gli immigrati in un paese straniero. E qui forse sta la chiave delle difficoltà che incontrano i sistemi formativi, cioè scuole e università,
quando, usando strategie e strumenti pensati per un mondo agricolo
e industriale, si trovano a gestire in maniera inadeguata le modalità
di apprendimento dei digital natives. Cioè di una pedagogia che deve
affrontare il fatto che gli “immigrati digitali” che fanno i genitori e
gli educatori stanno sforzandosi di istruire una popolazione che parla
un linguaggio completamente nuovo e diverso.
Un esempio e a voi il tempo di rifletterci! Wikipedia è un’enciclopedia on line, multilingue, a contenuto libero, redatta in modo collaborativo da volontari. Atteggiamenti possibili: immigrati digitali; vietato! «Internet attribuisce lo stesso valore ad ogni contenuto sia che
tratti di un autorevole trattato accademico o di un saggio semiserio»
(Tara Brabazon). Uso critico: «insegnare a saper discernere» (Umberto
Eco); nativi digitali; siamo noi gli autori! (su Wikipedia ci scriviamo
noi le voci che mancano, correggiamo le voci sbagliate e ci facciamo
correggere da altri).
Un vocabolario tutto per noi
Questa volta il vocabolario, che ci aiuta a ripercorrere (o
a farlo ex novo) la strada che nel secolo appena passato
hanno tracciato i femminismi, riguarda la lettera P
MONICA LANFRANCO*
PADRE
Ovvero questo (talvolta sconosciuto), desiderato, odiato uomo che
è parte della genesi di ogni persona, almeno fin quando si potranno avere i natali nel modo conosciuto, visto che la scienza sta provvedendo a sostituirsi alle divinità primigene eliminando l’intervento
umano per scatenare la scintilla dell’esistenza. Uteri artificiali e clonazione a parte, nel pensiero femminista si è discusso molto del padre, quello vero e quello simbolico, e dell’eredità negativa della quale
non il padre, ma il patriarcato ha gravato sulla cultura ad ogni livello
di latitudine e longitudine nel pianeta. A parte le sgradevoli ed affettate trovate giornalistiche circa la comparsa del nuovo soggetto moderno, il ‘mammo’, che pretenderebbe di essere la versione soft del
papà progressista dei giorni nostri è convinzione di molte che il nodo
da sciogliere, da parte degli uomini, sia proprio quello circa l’assunzione di responsabilità come padri: padri di figli di carne, ma anche
padri di figlie e figli simbolici, dei e delle quali dare conto al mondo,
senza più nascondersi dietro la ferrea e dispotica legge dei padri-padroni-padreterni.
Voglia di padre, Victoria Secunda, Frassinelli.
Al di là di Dio Padre: verso una filosofia della liberazione delle donne, Mary Daly, Editori Riuniti.
PSICOANALISI
«Freud è il padre della psicoanalisi: essa non ha madre» scrisse nella
sua consueta lapidarietà provocatoria Germaine Greer nel già citato
Eunuco femmina. Una cosa è certa: psicoanalisi e femminismi si sono
incontrati, scontrati e più volte intrecciati come raramente altre diadi di pensiero hanno mai fatto. Molte tra le donne che diedero vita ai
gruppi di autocoscienza, le culle primordiali di quella pratica politica
del “partire da sé” che ha fatto scuola, sono state protagoniste anche
di percorsi analitici personali. In grande maggioranza donne, fin qui,
a scegliere di dedicare energie, tempo e denaro al viaggio doloroso,
faticoso e straordinario allo stesso tempo dentro i propri fantasmi e le
proprie paure, da qualche anno anche alcuni uomini iniziano a servirsi
del lettino (ma non tutti i setting analitici lo impongono, solo le terapie freudiane sono rigide al riguardo). Servirà ad avvicinare i generi, a
decodificare meglio le ragioni e i desideri dell’una o dell’altro? Intanto
è un inizio, visto che, per dirla alla Helene Deutsch «l’adattamento
alla realtà è lo scopo principale d’ogni forma di educazione, compresa
la terapia psicoanalitica».
école numero 70 pagina
38
Identità femminile e psicoanalisi: da donna a donna, Caterina
Arcidiacono, Franco Angeli Editore.
Psicoanalisi e femminismo: Freud, Reich, Laing e altri punti di vista
sulla donna, Juliet Mitchell, Einaudi.
L’identità e la differenza: conversazioni a Radiotre su donne e psicoanalisi, Mariella Loriga, Bompiani.
PUTTANA
Ovvero il cliente, rovesciando i termini della questione: secondo una
ricerca recentissima compiuta dal sito www.benessere.com attraverso questionari la fascia di età dei clienti è molto ampia, tra i 16 e gli
80 anni; nella fascia di età tra 19 e 24 anni il 20 per cento ha avuto
rapporti con prostitute, il 43 per cento dei clienti richiede rapporti
non protetti; il 70% è di coniugati e, come ciliegina sentite questa: le
cause dichiarate che più frequentemente spingono verso una prostituta sono la solitudine e la difficoltà a instaurare relazioni significative
con le donne. Tra tutte le cifre quel 20 per cento, mi sembra, ci inchiodi a riflettere: se un ragazzo su cinque compra una donna, anche
solo una volta, non importa se per essere confortato o per esercitare
dominio, che tipo di futuro si sta costruendo per le prossime relazioni
con il genere femminile? Tutto o quasi sappiamo della prostituta, del
perché è sulla strada, se considera o meno la vendita di sé come una
legittima occupazione. Ma di lui, del cliente, che il magistrato Luciano
Violante accusò di «non essere differente da chi schiavizza le donne
immigrate», che si sa? Dei nostri amici, conoscenti, fratelli, amanti,
mariti, compagni attuali e futuri, si conoscono le inquietudini circa il
sesso a pagamento? Forse bisognerebbe riaffrontare il tema, sanguinoso, difficile, certo, ma centrale nelle relazioni tra i due generi.
Il cliente, Maria Rosa Cutrufelli, Editori Riuniti.
La prostituzione. Sesso, soldi e potere, O’Connell Davidson Julia,
Dedalo.
Lucciole in lotta. La prostituzione come lavoro, Sapere 2000,
Edizioni Multimediali.
Memoria. Vol. 17: “Prostituzione”, Rosenberg & Sellier.
Prostituzione, Judith Belladonna, Bompiani.
Prostituzione, Carla Corso, Rizzoli.
Veronique, M. G. Belmonti, Sperling & Kupfer
* Direttora di Marea, trimestrale dei saperi delle donne (www.monicalanfranco.
it, www.mareaonline.it).
Distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti,
in primavera è circolato nelle sale
cinematografiche La Zona, lungometraggio
del quarantenne regista messicano Rodrigo
Plà, premiato nel 2007 alla Mostra di
Venezia e al Festival di Toronto. Un film
forte, bello, che si raccomanda – appena sia
disponibile in versione DVD – per un uso
scolastico. In primo luogo perché elabora
in modi realistici una potente metafora
dell’esclusione e della paura del diverso che
si trasforma in furia omicida; in secondo
luogo perché il nodo drammatico
è il tragico incontro tra due
adolescenti di mondi opposti
Torino. Una giovane donna di origine araba
in procinto di sposarsi, è alle prese con i
preparativi per il matrimonio, ma un grande
problema la turba, Zina ha già perso la
verginità e nel mondo arabo questo non è
permesso. Shakira, il sarto travestito che le
deve fare l’abito, la informa dell’esistenza
di un chirurgo in Marocco capace di farle
“riacquistare la verginità” o come si dice
nel film, riportarla a “chilometrizero”!
Inizieranno così un viaggio verso l’Africa
che è anche un viaggio alla scoperta
di se stessi, delle proprie
contraddittorie radici
A
cinema
CORAZONES DE MUJER
cinema
LA ZONA CRIMINALE
I
lejandro vive nella Zona, un quartiere ricco
difeso da videocamere e vigilantes, alto muro, filo
spinato, giardini e prati all’inglese, benessere e cultura. Miguel vive in mezzo al degrado e all’estrema
miseria della periferia confinante con il muro della Zona, nella quale riesce ad entrare una notte
con due amici. Ma tutto
va storto per i ladruncoli: i due amici sono subito uccisi e Miguel trova
rifugio nella cantina della villa di Alejandro, mentre la maggioranza degli
abitanti della Zona inizia
una caccia spietata, coperta dall’omertà di poliziotti corrotti. Alejandro
trova Miguel nascosto e
terrorizzato e scattano in
lui sentimenti di solidarietà e di pietà che non
riusciranno però a salvarlo dal linciaggio di adulti
inferociti nella difesa dei
loro privilegi.
In un’intervista che si
può leggere in cinemasupereva.com/interviste/
artI4635.html, il regista, con esplicito riferimento alle grandi migrazioni in atto e alle paure che suscitano, ha detto: «Circondandosi di
alte mura i residenti della Zona impediscono agli altri di entrare, senza rendersi conto che quelle mura sono il simbolo della loro prigionia.
Con la scusa di proteggere loro stessi rinunciano al diritto essenziale
alla libertà, sacrificata in nome del circuito chiuso che li controlla tutti. Un prezzo da pagare troppo alto per una sicurezza che non può mai
essere assoluta. Per quanto grande sia la fortezza, per quanto alte le
mura, finché ci sarà una disuguaglianza fuori controllo, ci sarà sempre
qualcuno disposto a scalare quel muro».
Un film sui muri che difendono il benessere dei pochi dalla miseria
dei molti nel mondo globalizzato, un film sulla capacità dei ragazzi di
contrastare la ferocia della Legge dei Padri, da discutere in un piccolo
ciclo insieme al toccante La Promesse dei fratelli Dardenne (1997) e
alla magnifica metafora dell’autoesclusione dei privilegiati ne L’angelo
sterminatore (1962) del grande Buñuel.
l film di Davide Sordella e Pablo Benedetti,
Corazones de mujer (con Aziz Amehri, Ghizlane
Waldi, Mohammed Wajid, genere commedia, colore,
85 minuti, Italia 2007), realizzato on the road con
un budget di soli 50 mila euro, come racconta lo
stesso Sordella, nasce e si sviluppa mentre si svolge, in una dimensione
di cinema di ricerca attento alle sorprese del
viaggio stesso. Molte
delle scene, infatti,
sono il risultato del
caso e dell’occhio acuto
dei registi. I riferimenti cinematografici sono
“alti”: il primo Wenders
di Nel corso del tempo
e Pasolini per i ritmi, i
tempi ed alcune situazioni sceniche (memorabile il “coro” dei due
vecchi marocchini o gli
inserti con le interviste
a Skakira).
I due protagonisti sono
degli “irregolari”, dei
diversi, individui “a rischio di emarginazione” a causa della vita
stessa (è così strano
oggi perdere la verginità prima del matrimonio?), della propria storia (stiamo davvero tutti bene nella nostra identità di genere?). Zina
deve confrontarsi con le regole della famiglia che permette ai maschi
di fare quel che vogliono ed obbliga le donne alla castità; Skakira con
l’ipocrisia omofobica e comunque con l’intolleranza verso l’omosessualità. Entrambi sono invischiati nella stessa cultura da cui si devono
difendere: la donna appare emancipata, ma entra in crisi proprio sulla questione cruciale del matrimonio; l’uomo ha un figlio in Marocco
verso il quale nutre un autentico amore paterno. Entrambi cercano la
propria identità, personale e culturale, e lo fanno lanciando un universale messaggio laico di rispetto nonviolento (che si parli del Marocco
è chiaro, ma le questioni trattate vanno oltre e toccano tutte le culture). Il finale apre un improbabile, ma necessario spiraglio di speranza.
Un film assolutamente da vedere e da far vedere a scuola: apre dibattiti, fa pensare, emoziona e diverte. E non è poco.
CESARE PIANCIOLA
STEFANO VITALE
école numero 70 pagina
39
Beppe Rosso e Filippo Taricco, La città fragile, Postfazione di Marco Revelli, Bollati
Boringhieri, Torino 2008, pp. 92, euro 12
N
el leggere La città fragile, i cui interpreti rientrano tutti senza scampo nella categoria che i sociologi hanno denominato del
“nemico appropriato”, ho pensato a Georges
Pelecanos, il famoso giallista, che in una recente intervista ci ammoniva: «non guardare
mai dall’alto in basso un uomo, a meno che
tu non lo stia aiutando a rialzarsi».
Ed è esattamente questo che Beppe Rosso
e Filippo Taricco hanno fatto con le donne
e gli uomini, prostitute, zingari, senza fissa dimora di una città italiana come tante:
li hanno aiutati a rialzarsi per farceli incontrare, guardare negli occhi (magari anche in
quelli strappati dalle orbite e messi sott’alcool della prostituta albanese Munira), riconoscere come non-altri rispetto a noi, ossia
come persone. Sono loro i più appropriati ad
incarnare i nostri nemici perché sono ingiustificabili e indifendibili. Ingiustificabili in
quanto, si pensa, siano loro a rifiutare di integrarsi e di “rimboccarsi le maniche” in una
società come la nostra dove il mito dell’integerrimo self-made man continua ad avere
la sua presa e si alimenta delle ceneri del
welfare state. A poco servono i richiami dei
sociologi alla cosiddetta “carriera” della po-
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vertà o alla ben più dannosa (per la collettività) criminalità detta dei “colletti bianchi”
(vedi il caso Parmalat o le morti sul lavoro) o
ancora al rischio di strumentalizzazione politica di queste paure per mantenere o conquistare consensi elettorali facili. Inoltre,
queste persone sono indifendibili sia perché,
essendo posizionate ai livelli più bassi della
scala sociale, non hanno risorse né per pagarsi buoni avvocati difensori né per avere spazi di autodifesa attraverso i principali
media, sia per lo stigma che li addita come
principale minaccia ai nostri valori e alla nostra sicurezza quotidiana a causa dei loro
comportamenti immorali, devianti, predatori. Di fronte alla forza mediatica che lavora sull’emotività per occultare il vero disagio
generalizzato prodotto da un futuro economico, sociale e ambientale sempre più incerto, è difficile per noi addetti ai lavori far
arrivare all’opinione pubblica e perfino ai nostri studenti contro-argomenti convincenti e
razionali. Come spiegare che non si possono
dare risposte semplici a problemi complessi,
e che per contrastare la micro-criminalità e
l’emarginazione esistono misure più efficaci
della semplice militarizzazione del territorio
o della deportazione? Credo che per aprire la
strada ad un pensiero critico diffuso occorrano prima di tutto libri come questo, che ci
aiutano a portare alla nostra altezza visuale questi “rifiuti umani” e a riconoscerli comunque come persone.
Sia il primo racconto, dal tenore epico, sia i
due racconti successivi, fatti di micro-storie
narrate in prima persona dai protagonisti, ci
insegnano poi a leggere in modo originale la
mappa della città, immaginata con grande
efficacia narrativa come il palmo della mano
nel quale la cultura zingara sa decifrare il
futuro. Gli autori compaiono in scena solo
nell’ultimo capitolo e lo fanno per indicarci il metodo semplice e diretto che hanno
adottato per entrare in questo mondo altroda-noi che vive in quei vuoti urbani nei quali generalmente evitiamo di mettere piede,
nelle periferie la cui continua trasformazione
neppure vagamente cogliamo. Il loro viaggio
è avvenuto in tram, dall’atollo lucente del
centro urbano, gentrificato e videosorvegliato a capolinea persi nel nulla. Ma il capolinea di questo testo, scarno e denso insieme,
è tutt’altro che un punto di arrivo: si limita
ad aprire scenari e ci aiuta a sperimentare
uno sguardo diverso su un mondo che tanto
meno conosciamo direttamente tanto più ci
spaventa e inquieta. Un disagio acuito dalla
intuizione che in ognuno di noi, sottile e rapida da oltrepassare, stia quella “linea d’ombra” oltre la quale il nostro “esserci nel mondo” potrebbe subire la “crisi della presenza”
di cui parlava Ernesto De Martino, facendoci
uscire per sempre dalla scena. A ricordarcelo, nella sua forma estrema, è un homeless,
senza casa e anche senza nome, soprannominato Sandokan, che ci congeda dall’ultimo
racconto (non a caso intitolato “Senza”). Lo
hanno trovato morto assiderato su una panchina dove si era fermato una notte per riposarsi dicendo a sé stesso: «Due minuti, non
uno di più. Invece si assopì».
ELISABETTA FORNI
IL MONDO
È ATTORNO A NOI
La ricognizione delle
individualità puntigliose
e eterogenee dei piccoli
ospiti della storica romana
“Città dei Ragazzi” ha il
merito di restituire un nome
a chi ne era sprovvisto e
di assegnargli un futuro,
di rovesciare la logica del
numero e di ridare voce,
gesto, genealogia, lingua,
differenza, a un
popolo globale
di soggetti
discriminati che
si vorrebbero
centrifugare
entro l’anonimato
della macchina
sicuritaria;
per essere
controllati,
diffidati e
omologati
libri
libri
FUTURO INCERTO
E “NEMICI
APPROPRIATI”
Di fronte alla forza
mediatica che lavora
sull’emotività per occultare
il vero disagio generalizzato
prodotto da un futuro
economico, sociale e
ambientale sempre più
incerto, è difficile far
arrivare all’opinione
pubblica e perfino ai nostri
studenti controargomenti
convincenti e
razionali. Ci
hanno provato
Beppe Rosso
e Filippo
Taricco che
hanno aiutato
a rialzarsi per
farceli incontrare
le donne e gli
uomini, prostitute, zingari,
senza fissa dimora di una
città italiana come tante
Eraldo Affinati, La città dei ragazzi,
Mondadori 2008, pp. 210, euro 17
Q
uel grande patrimonio antropologico e etico che è nelle onde migratorie che
battono l’Ovest e il Nord del mondo dai tanti punti cardinali esprime sempre più uno
scenario generazionale al quale l’infanzia e
l’adolescenza si concedono con una larghezza pari al livello di eccezione e di scandalo che il fenomeno rappresenta. L’ipocrita tagliola messa in atto dal governo italiano nei
confronti dei piccoli rom, il marchio digitale
che li umilia nel presumere di volerli proteggere, rappresenta, oltre che un fenomeno di
regressione storica, una sorta di censimento
alla rovescia: piatto come tutti i censimenti,
devitalizzato e amorfo, ma allo stesso tempo mirato scientificamente alla segregazione;
impersonale, catastale, e perciò doppiamente disumano.
In questo senso la ricognizione che Eraldo
Affinati fa delle individualità puntigliose e
eterogenee dei piccoli ospiti della storica romana “Città dei Ragazzi” ha il merito di restituire un nome a chi ne era sprovvisto e di
assegnargli un futuro, di rovesciare la logica
del numero e di ridare voce, gesto, genealogia, lingua, differenza, a un popolo globale di soggetti discriminati che si vorrebbero
centrifugare entro l’anonimato della macchina sicuritaria; per essere controllati, diffidati
e omologati. Le regole secondo cui all’ospite viene chiesto di prendere in considerazio-
LIBRI SPECCHI
Alessandra Avanzino, L’educazione attraverso lo specchio, Franco Angeli, Milano
2008, pp. 142, euro 14,50.
L’opera di Carroll fa, fin dal titolo, da filo conduttore al percorso che è un percorso
nella conoscenza e nella relazione con l’altro e nell’altro mondo, attraverso quello che
l’autrice chiama dinamica della fuga e del ritorno: nel mondo alla rovescia si perdono
i riferimenti consueti, per poi ricostruirne di nuovi, divenendo perciò diversi da quel
che si era. In fondo è questa l’avventura della conoscenza che non lascia com’era né
il soggetto, né l’oggetto. La conoscenza non è rispecchiamento, ma un passare attraverso lo specchio che ci permette di vedere le cose e noi stessi in modo del tutto
nuovo.
FILIPPO TRASATTI
MUSICA ‘A67, SUBURB, POLOSUD,
2008
Gli ‘A67, giovane rockband di Scampia, prendono il nome dalla legge 167 per l’edilizia popolare (detta “a sissantasett”, appunto) che ha permesso l’edificazione dell’allucinante agglomerato noto quale supermercato della droga e teatro dell’accesa
faida fra bande camorriste.
Il loro primo album, A camorra song’io (Polosud, 2005), affrontava le tematiche legate al degrado della periferia urbana e alle influenze della criminalità organizzata
sulla vita quotidiana. «La nostra vuole essere una risposta ad un magma di pulsioni, eventi e disagi, un urlo lacerante contro il silenzio colpevole di chi crea l’emarginazione dell’individuo», dicono i cinque esponenti del gruppo. Da quel lavoro è
scaturito l’interessante progetto “Voglie parlà contro la camorra e tutte le mafie”,
portato nelle scuole campane nel 2007. L’iniziativa di educazione alla legalità,
realizzata con il patrocinio della Regione Campana, di Amnesty International e di
Libera, ha prodotto un interessante minicd contenente tre canzoni dell’album (A
camorra song’io, Voglie parlà e ‘A67), una rielaborazione di Don Raffaé di De André
e due videoclip, il tutto accompagnato da un libretto con gli interventi di alcuni
fra i partecipanti al progetto, fra cui anche Nando dalla Chiesa e Roberto Saviano.
Questo materiale è stato distribuito nelle scuole e, recentemente, diffuso in allegato alla rivista “Musica Domani” (numero 147, giugno 2008).
Sempre per l’etichetta Polosud è uscito a maggio un secondo album, Suburb, che,
dalla periferia urbana del Sud di provenienza del gruppo, si rivolge alle periferie
del mondo coinvolgendo nella registrazione artisti nazionali e internazionali. Musicisti
e giovani rockband uniti nella forza espressiva e nell’attenzione al sociale, ai temi dell’uguaglianza e della libertà. Troviamo quindi riuniti in un sound Mediterraneo, Napoli,
Marsiglia, Istanbul, India e Brasile: il dialetto e l’italiano, l’antica lingua indiana malayama e il rap delle favelas di San Paolo, la ghironda e il sitar elettrico, l’inno dei
muralisti di Felice Pignataro e brani di Gomorra di Roberto Saviano letti sopra le tammurriate di Marcello Colasurdo. Il tutto per ribadire «la forza e l’urgenza dell’incontro,
dalle periferie del mondo dritti al centro».
humus
libri
ne l’ethos proprio
degli spazi di ingresso cessano di
essere negoziate e
diventano coercitive, norma assoluta
e omologante.
In una prosa fortemente lirica e polisemica, insolitamente ricca di una
“poeticità” concreta, non esornativa,
Affinati conferma e amplia le proprie qualità di autore di grande stile, di progetto e di
equilibri. Dentro lo stile, appunto, tendenzialmente nucleare e paratattico l’orizzonte del romanzo (tale è il
fuorviante sottotitolo di
questa prosa) tende a evaporare, a sfuggire positivamente alla propria destinazione al consumo, a
farsi nicchia fertile di una
densità di ritratti e di vicende; microritratti e microvicende (compresi lampi intermittenti di schegge
autobiografiche a ritroso),
come è proprio della disposizione lirico-espressionistica di questa lingua
dotata di confortante ricchezza e cultura, di sussulti emotivi che provengono
da una personalità educata, raffinata e letterariamente molto strutturata. Insisto su questo punto, e non per deviare sull’estetico il
risultato del libro, ma piuttosto per suggerire
una interpretazione non in chiave di epopea
quanto piuttosto in una direzione ritrattistica corale, in una galleria di fenomeni umani:
un romanzo, in qualche modo, pensato dopo
la crisi del romanzo.
Sotto i colpi di questa serie di flash intrecciati, posti in successione, revocati e rilanciati, viene accolta l’istanza di sfaldamento
del romanzo come forma retorica istituzionale; e questo processo risulta omologo alla sostanza umana del progetto. Semmai si tratta
di una trama a gradini: interrotta, intersecata, ripresa sotto le ondate affettive e esistenziali di un singolare educatore che è anche
eccellente indagatore e regista di caratteri,
dotato di forti risorse mimetiche, cultore responsabile delle risorse differenziali del linguaggio. Affinati sa che solo la grandezza di
una lingua, la sua tradizione, sono in grado di
fare uscire dall’anonimato questi volti, queste
vicende sgorgate dal potere ellittico del linguaggio. Qui davvero nominare, fare i nomi,
significa restituire esistenza, tenere in vita
un patrimonio di ricchezze umane altrimenti
destinate, al di fuori del processo di reintegrazione educativa, alle discariche della organizzazione globale dell’economia. La pluralità
delle culture sia dunque un indice puntato che non deflette dall’accusa oggettiva al
mondo. Monito a non dimenticare mai, a non
smettere di osservare, di giudicare: il mondo
è ora attorno a noi, non al di là del confine.
GIORGIO LUZZI
MARIATERESA LIETTI
MOSTRE PER IMPARARE A VEDERE
“Dialogo nel Buio” è una mostra-percorso, ideata da Andreas Heinecke, dove non si
vede nulla. È un’esperienza da vivere nell’oscurità, un’avventura per vedere e capire le cose con altri occhi. È l’incontro con un cieco che guida i nostri passi e risveglia il bisogno profondo di comunicare. All’uscita nulla sarà più come prima. Da anni
“Dialogo nel buio” sta girando il mondo. In Italia, in questo momento, si può visitare a Milano nella sede dell’Istituto dei ciechi (via Vivaio 7, Milano, tel. 02.76394478,
02.77226215, www.istciechimilano.it). Il buio è una metafora dell’emarginazione e
della discriminazione di cui i disabili sono tutt’oggi vittima. E tuttavia il buio può anche essere uno straordinario strumento per comunicare e incontrarsi. Basta spegnere
la luce e i ciechi non sono più ciechi, e noi vedenti diventiamo ciechi e indifesi.
FESTIVAL IL BIGLIETTINO
La XVIII edizione del Festival del cinema africano (l’unico in Italia interamente dedicato alla conoscenza della cinematografia, delle realtà e delle culture dei paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina), organizzata la scorsa primavera a Milano dal
Coe - Centro Orientamento Educativo, ha dedicato un ampio spazio a film sulla scuola.
Tra i tanti presentati ne vorrei segnalare uno in particolare Fooska (Il Bigliettino). Il
corto (una coproduzione di Tunisia e Marocco), realizzato nel 2007 dal giovane regista
Karim Ben Hammouda, dura 26 minuti. Il film ricostruisce in modo divertente e, contemporaneamente, inquietante una vicenda scolastica: il ritrovamento di un bigliettino
per terra durante un esame scritto di pensiero islamico. Le mura della scuola si trasformano in quelle di un carcere dove ragazzi e professori si alternano nei ruoli di vittime
e carnefici, traditi e traditori, colpevoli e innocenti, delatori e doppiogiochisti. Vederlo
in classe apre la possibilità di parlare di altre scuole (così lontane, così vicine) e apre
una finestra sul cinema del Sud del mondo. Il film si può richiedere al Coe, via Lazzaroni
8, Milano, tel. 02 6696258, [email protected].
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41
TEXT
La centralità del “quotidiano”
nell’educazione
Non sono gli apprendimenti occasionali, aleatori che realizzano il
cambiamento, ma quelli che si ripetono nel tempo e in un identico
contesto. Ne è una prova indiscutibile l’educazione che si riceve nella
prima infanzia in famiglia, dove si struttura, nel bene e nel male, il
“carattere” di un individuo, vale a dire la sua epistemologia. La scuola
dell’infanzia si pone sia in continuità con l’educazione familiare e
accogliendo il bambino nelle sue peculiari propensioni, sia in una
cauta discontinuità. La scuola che viene dopo dovrà via via forzare
la resistenza di certi ragazzi ad accettare la disciplina fisica e
mentale necessaria allo studio. Sarà quindi l’abitudine a studiare il
cambiamento che farà la differenza tra l’essere uno studente di scuola
e l’essere uno che semplicemente la mattina va a scuola
ROSALBA CONSERVA*
I
nizierò il mio ragionamento richiamando la teoria dei Tipi logici di Bateson (vedere “Le
categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione”, in Verso un’ecologia della mente) relativa ai livelli di apprendimento. In particolare, l’apprendimento per tentativi ed errori
(A1). e l’apprendere ad apprendere (A2). Riferendoci alla scuola, diremo che l’apprendimento
per tentativi ed errori riguarda occasionali contesti dove si imparano nozioni e procedure e che
l’apprendere ad apprendere è un apprendimento che cambia l’epistemologia, vale a dire il modo
di percepire, “punteggiare” gli eventi, di dare loro un senso e così via.
Nel corso degli anni di scuola, bambini e ragazzi apprendono nuove nozioni che essi richiameranno, all’occorrenza, alla memoria consapevole (A1). Accadrà anche (ma non sempre) che
il cambiamento riguardi l’intera persona – la sua epistemologia (A2). Per esempio, un ragazzo si esercita costantemente nello studio della matematica oppure della musica, e a un tratto
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– che ne sia consapevole o no – l’esercizio diventa un contesto di apprendimento d’ordine superiore: la mente di quel ragazzo si è strutturata in modo da farlo diventare uno che “pensa da matematico”, oppure
“da musicista”.
Disegnavo alla lavagna una pietra e una zolla di
terra. «Voi siete entrambe le cose – dicevo –, siete
una zolla che assorbe facilmente l’acqua piovana:
fuori di metafora, accogliete dentro di voi ciò che
stimola i vostri interessi più cari (la musica, lo sport,
ecc.), invece opponete resistenza alle sollecitazioni
che risultano estranee alle vostre vere passioni:
comprendere ciò che vi viene insegnato, ma subito lo
dimenticate: siete come una pietra impermeabile, su
cui l’acqua si poggia ma poi scivola via. Come fare per
farla penetrare? Scavando nella pietra dei piccoli fori.
Fuor di metafora, dovete studiare».
Nel saggio di Bradford P. Keeney L’estetica del cambiamento (Astrolabio,
Roma 1985), al capitolo “L’esercizio” (p. 207) l’autore osserva che «l’impegno nella disciplina prescritta da un contesto è la scelta che crea una
differenza». E sulla natura dell’esercizio cita il resoconto di un colloquio
avuto da Bateson: «Nel corso di un colloquio con una giovane giapponese sul rispetto nella famiglia nipponica, la ragazza mi stava descrivendo ciò che accade quando il padre torna a casa dal lavoro. Le rivolsi le mie domande, alle quali ella rispose nel modo più dettagliato ed
esauriente. Poi mi disse: “Ma in Giappone non rispettiamo il padre”. “Un
momento. Che cosa mi sta dicendo?”. “Ecco, vede, noi ci esercitiamo al
rispetto del padre”. “Perché lo fate?”. “Per il caso che ci occorra rispettare qualcuno”.
Commentando l’episodio qui riportato, così scrive Keneey: «Noi occidentali ci esercitiamo per acquisire una capacità che diventa uno strumento
– nella quale io, che resto immutato, posseggo un nuovo strumento, ed
è tutto. Secondo la concezione orientale, invece, ci esercitiamo per cambiare. Incorporiamo in noi la disciplina in cui ci esercitiamo e con l’esercizio diventiamo persone diverse».
La storia della ragazza giapponese ci fa riflettere quindi sul fatto che non sono gli apprendimenti occasionali, aleatori che realizzano il cambiamento, ma quelli che si ripetono nel tempo
e in un identico contesto. Ne è una prova indiscutibile l’educazione che si riceve nella prima
infanzia in famiglia, dove si struttura, nel bene e nel male, il “carattere” di un individuo, vale
a dire la sua epistemologia.
La scuola dell’infanzia si pone sia in continuità con l’educazione familiare e accogliendo il
bambino nelle sue peculiari propensioni, sia in una cauta discontinuità. La scuola che viene
dopo dovrà via via forzare la resistenza di certi ragazzi ad accettare la disciplina fisica e mentale necessaria allo studio. Sarà quindi l’abitudine a studiare il cambiamento che farà la differenza tra l’essere uno studente di scuola e l’essere uno che semplicemente la mattina va a
scuola.
E proprio perché il rito si celebra tutti i santi giorni, la scuola – analogamente alla famiglia
– è il luogo privilegiato dell’A2: degli apprendimenti profondi, quelli che, strutturando quasi
inconsapevolmente il processo mentale, creano (o rafforzano) abitudini di pensiero e di comportamento.
Considerando che l’acquisire abitudini di pensiero – di giudizio sul mondo, di modi d’agire nel
mondo – è un processo che accompagna l’apprendimento consapevole di nozioni e procedure,
dovremo sempre chiederci: “Quale altro apprendimento sto mettendo in atto mentre insegno
questa certa cosa?”.
Alludo alla cura dei particolari: la cura di come parliamo, di come descriviamo gli oggetti del
nostro studio, i messaggi espliciti e quelli che implicitamente riguardano la relazione e così
via.
Non soltanto quindi i “contenuti” ma anche (e soprattutto) i messaggi sottintesi (verbali e
non verbali) strutturano i rapporti di relazione, vale a dire il modo con cui insegniamo le discipline e predisponiamo gli strumenti del nostro e del loro lavoro: è qui che si genera il vero
cambiamento.
Essendo gli esseri umani sensibili al linguaggio metaforico, usavo spesso a scuola le metafore per i messaggi sul comportamento. Per fare un esempio, disegnavo alla lavagna una pietra
e una zolla di terra. «Voi siete entrambe le cose – dicevo –, siete una zolla che assorbe facilmente l’acqua piovana: fuori di metafora, accogliete dentro di voi ciò che stimola i vostri interessi più cari (la musica, lo sport, ecc.), invece opponete resistenza alle sollecitazioni che
risultano estranee alle vostre vere passioni: comprendere ciò che vi viene insegnato, ma subito lo dimenticate: siete come una pietra impermeabile, su cui l’acqua si poggia ma poi scivola via. Come fare per farla penetrare? Scavando nella pietra dei piccoli fori. Fuor di metafora,
dovete studiare».
Lo studio – come pratica collettiva e guidata e anche lo studio individuale – si avvale a scuola
di uno strumento privilegiato: il manuale. È bene pertanto che i ragazzi imparino come si usa
un manuale scolastico: che in loro si crei una salutare dipendenza dai manuali.
Modelli descrittivi
In un corso di grammatica a insegnanti del biennio di un Istituto tecnico ho notato che molti
non usano il libro di testo o gli danno una importanza marginale.
Qual è la premessa (teorica) non dichiarata che prelude a questa scelta?
1. che lo studio della grammatica può essere asistematico, o che la progressione degli argomenti non contempli dei vincoli, che non ci sia una logica nella successione;
2. che la grammatica è “nelle cose”, invece che essere una nostra “invenzione”, una nostra
modalità descrittiva.
La lingua – ogni lingua storico-naturale – è un organismo vivente: come un fiore, come un
qualsiasi organismo biologico sta lì, si “autodescrive” (una foresta di abeti la percepiamo nella
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Sono passati ben 40 anni dal ’68, e di quello
possiamo affermare senza dubbio che si trattò di
una “rivoluzione”: allora i docenti giovani, che erano
numerosi, ed erano quindi meno distanti dagli studenti,
avvertivano anch’essi l’obsolescenza della scuola e
lottavano per cambiarla. Anni fa, parlando di questo
con lo storico Giorgio Guadagni, egli disse: «La vera
rivoluzione del ’68 fu questa: i giovani annullarono di
colpo un rito familiare: presero a non tornare più a
casa all’ora di cena». La vita quotidiana di vecchi e
giovani ha subito trasformazioni e quanto ai nostri
giovani, si è abbassata l’età di quelli che a casa non
tornano per la cena: prendiamola come una metafora
non tanto dell’emancipazione dalla famiglia quanto
della libertà di cui gli adolescenti godono, dell’assenza
di quei vincoli che nel riproporre certi riti rendevano
percepibile l’ambito delle responsabilità personali.
sua configurazione, senza tanti discorsi). Siamo d’accordo, tuttavia noi
proiettiamo sul mondo vivente le nostre descrizioni.
E qual è la differenza tra autodescrizione e descrizione del moto degli
astri e autodescrizione e descrizione di un sistema vivente? – qui il discorso ci porterebbe lontano, perciò sorvolo.
Tornando alla grammatica, noi possiamo allora: a) assecondare le nostre
e le curiosità estemporanee dei ragazzi, le nostre e le loro occasionali esigenze cognitive; oppure, o anche b) affidarci a ricerche che hanno
reso sistematico lo studio, che hanno inventato e formalizzato modelli
di analisi logica.
Un percorso di studio non rituale, non programmato presuppone che
le materie scolastiche si prestino ad essere trattate appunto in questo
modo, che per loro natura abbiano uno statuto vago, che siano estremamente flessibili.
Per esemplificare la doppia struttura del processo mentale (vedere il capitolo “I grandi sistemi stocastici” in Mente e natura), Bateson ricorre
alla canna di bambù: essa è sì flessibile, ma è in virtù della sua complementare rigidità che non si spezza!
La flessibilità è una caratteristica del vivente, quindi di chi impara, di chi
insegna e anche degli oggetti del loro studio. Ma fino a un certo punto:
oltre una certa soglia un qualsiasi studio non può reggere né la vaghezza dell’approccio né un linguaggio descrittivo improvvisato. Ricordiamo
sempre che la nostra scienza non è stata scritta nella lingua materna.
Tutto quanto il nostro sapere è altamente formalizzato. Noi a scuola ci
adoperiamo a divulgarlo, a renderlo accessibile calibrandolo a seconda
dell’età dei ragazzi e delle loro conoscenze pregresse. L’abilità del maestro risiede nel suo essere allo stesso tempo ricercatore e pedagogo: ed
è giusto, è auspicabile che coltivi la conveniente presunzione di essere
entrambe le cose.
TEXT
Rassicurazione e responsabilità individuale
La varietà degli argomenti che a scuola si possono trattare e le mille sollecitazioni che vengono dall’esterno sono causa di ansia difficile da dominare. Per di più, i cambiamenti in atto
– sociali, culturali – sono troppo veloci a fronte della nostra capacità di adattamento.
Ho detto impropriamente “sono” troppo veloci: sarà preferibile dire (e pensare) che noi “percepiamo” una eccessiva velocità di cambiamento – nei costumi, negli stili di vita, nelle tecnologie ecc. –, nella mentalità dei giovani soprattutto, tale da rendere incomprensibile e inaccettabile, per noi, il loro comportamento.
E questa è pur sempre una “verità”, anzi è l’unica che ci è consentita – non potendo noi accedere alle “cose come sono”, e non potendo collocarci a una distanza temporale che ci permetta
una valutazione spassionata della storia che stiamo vivendo.
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Sono passati ben 40 anni dal ’68, e di quello possiamo affermare senza dubbio che si trattò di
una “rivoluzione”: allora i docenti giovani, che erano numerosi, ed erano quindi meno distanti
dagli studenti, avvertivano anch’essi l’obsolescenza della scuola e lottavano per cambiarla.
Anni fa, parlando di questo con lo storico Giorgio Guadagni, egli disse: «La vera rivoluzione
del ’68 fu questa: i giovani annullarono di colpo un rito familiare: presero a non tornare più a
casa all’ora di cena».
La vita quotidiana di vecchi e giovani ha subito trasformazioni (per cause che qui non sto a
elencare), e quanto ai nostri giovani, si è abbassata l’età di quelli che a casa non tornano per
la cena: prendiamola come una metafora non tanto dell’emancipazione dalla famiglia quanto
della libertà di cui gli adolescenti godono, dell’assenza di quei vincoli che nel riproporre certi
riti rendevano percepibile l’ambito delle responsabilità personali.
Apro una parentesi sulla rassicurazione, sull’atteggiamento rassicurante dei genitori verso i
piccoli. Vi racconto una storia. Mio nipote, di tre anni, non si allarma quando rovina un giocattolo, quando si bagna la maglietta alla fontana ecc.: «A tutto c’è rimedio», dice. E noi lo
assecondiamo. Avvertivo però qualcosa di sbagliato in questo modo di pensare nostro e suo, e
cercavo l’occasione per fargli capire che non a tutto c’è rimedio. Un bel giorno, nella fontana
della scuola trovammo che l’acqua durante la notte si era gelata e si erano formati i ghiaccioli.
Lui prese un bastone e cominciò a spezzarli. Arrivarono i bambini della elementare con la macchina fotografica e non trovando più i ghiaccioli lo rimproverarono. «Vedi – dissi –, a questo
non puoi più rimediare, i ghiaccioli si sono sciolti».
Insomma, è preferibile insegnare ai piccoli (e ai grandi) che non tutti i processi sono reversibili. L’abitudine di pensiero che “a tutto c’è rimedio”, oltre a produrre un ingiustificato senso di onnipotenza, è un assurdo epistemologico. Sarà meglio dire: «ad alcune cose, e in certe
condizioni, si può rimediare» (comunicare una ragionevole rassicurazione), e che la responsabilità individuale riguarda sia ciò che irrimediabilmente io ho “guastato”, sia ciò che richiede
un mio intervento riparatore.
I vantaggi della ritualità
Tornando agli anni ‘70, fu in quegli anni che si formò in me il senso politico del mio lavoro.
Mi capita di rimpiangere il clima di grande fermento di quel tempo. So bene però che invec-
Dei nostri ragazzi si dice che sono la “generazione del
telecomando”: si annoiano, non amano applicarsi a lungo
sulle stesse cose ecc. perché i modi della trasmissione
culturale sono vecchi, perché sono calibrati sulla civiltà
del libro, sulla spiegazione ripetuta, lineare, fatta di sole
parole e che rimanda a libri fatti di parole.
C’è molto di vero in queste affermazioni, che però non
tengono conto di quanto l’informatica ha cambiato la
didattica e di come sono diversi i manuali più recenti –
costruiti come un ipertesto. Resta tuttavia il fatto che tali
cambiamenti non hanno stravolto la storia e la natura
della nostra cultura.
Salire di livello
Dei nostri ragazzi si dice che sono la “generazione del telecomando”: si annoiano, non amano
applicarsi a lungo sulle stesse cose ecc. perché i modi della trasmissione culturale sono vecchi, perché sono calibrati sulla civiltà del libro, sulla spiegazione ripetuta, lineare, fatta di sole
parole e che rimanda a libri fatti di parole.
C’è molto di vero in queste affermazioni, che però non tengono conto di quanto l’informatica ha cambiato la didattica e di come sono diversi i manuali più recenti – costruiti come un
ipertesto. Resta tuttavia il fatto che tali cambiamenti non hanno stravolto la storia e la natura della nostra cultura.
E, più in generale, le nuove tecnologie hanno sì toccato aspetti rilevanti della nostra vita, ma
non sono in grado di cambiare le categorie fondamentali con cui un essere umano pensa.
Il bambino che nasce oggi ha la stessa struttura mentale del bambino di cento, mille anni fa:
la sua mente è “conservativa” e aperta al cambiamento, il suo pensiero è una combinazione
necessaria di rigore e immaginazione, di razionalità e creatività (ciò vale per ogni organismo
biologico – umani compresi, ovviamente).
Quanto all’apprendere attraverso la parola scritta – il fare resoconti: capire, memorizzare, riformulare e così via – è stata ed è esperienza “decisiva” e nuova per quei ragazzi che si affacciano agli studi dacché la legge ha reso obbligati gli studi superiori.
La scuola non è più privilegio di pochi. Occorre allora pensare all’istruzione scolastica in una
prospettiva più vasta: occorre salire di livello. Come accadde negli anni Sessanta, quando fu
istituita la media unica e furono abolite le classi differenziali. Allora dicevamo: se la scuola diventerà una buona scuola per questi allievi “diversi” sarà migliore per tutti. Così oggi: ragazzi
demotivati, privi di competenze di base, ecc.
Occorre salire di livello, porsi le domande in una gestalt più vasta, quelle domande che in altro
tempo e in altre situazioni sembravano non necessarie (la selezione, allora, era “a monte”, e i
ragazzi condividevano con gli insegnanti quanto meno le modalità di approccio allo studio).
Come apprende un essere umano?
TEXT
chiando, tutte le persone si inventano un passato felice. Forse perché
la memoria – che è selettiva – ci porta a valorizzare le sole cose che
– isolate dal resto – erano le migliori. Sarà così anche per i nostri figli,
quando diventeranno adulti. Questo selezionare i soli ricordi buoni rivela forse una qualche necessità: che una qualche storia – depurata
dei ricordi cattivi – ci sia maestra di vita. Allora, vera o non vera che
sia l’immagine del passato che proiettiamo nel presente, quello che è
indubbiamente vero è che noi cerchiamo dei correttivi alla luce della
storia che abbiamo vissuto, la quale è vera non in quanto è accaduta
proprio nei termini in cui la raccontiamo, ma è vera perché il presente
ci appare manchevole di un tratto necessario che prima invece c’era.
Un atteggiamento adeguato ai contesti, innanzitutto.
Andando con la memoria a un tempo più lontano, oggi direi che nella
scuola uno dei cambiamenti – e lo dico grossolanamente – consiste in
questo: prima un insegnante preparava la sua lezione, andava in classe e faceva lezione; oggi un insegnante prepara la lezione, entra in
classe e succede tutt’altro.
Oggi quindi occorre una professionalità diversa, occorre una flessibilità maggiore: che il bambù non si spezzi alla furia del vento. Intendo
dire che le scelte necessarie, irrinunciabili – di contenuto e di metodo – dovranno essere complementari a una costante attenzione alle
contingenze, all’imprevisto, il quale, pur non atteso né desiderato,
viene.
Voi mi direte che è stato sempre così. Comunque sia, l’arte dell’insegnare consisteva e consiste nel continuo “cambiare programma” senza cambiarlo del tutto.
Nella quotidianità, per l’appunto.
Dovremo allora ritenerci fortunati di stare in una “gabbia” protetta dal
rito, di poterne trarre vantaggio. Il quotidiano ci offre infatti l’opportunità di lavorare in contesti ripetuti (A2), di insegnare e far apprendere lo studio sistematico. (Ricordiamo che sono
le culture scritte quelle che studiano: le culture orali ignorano la pratica dello studiare.)
Dicevo prima della necessità di abituare i ragazzi a usare il manuale: questo genera (è probabile che generi) un A2 – un apprendimento che tenderà a formare abitudini di pensiero e modi
più generali – e adeguati – di affrontare lo studio scolastico.
Accade spesso che quando i bambini imparano le scienze dai libri di scuola si convincano che
la scienza è assolutamente certa. E invece una seria educazione scientifica dovrebbe migliorare
la nostra e la loro comprensione sull’inevitabile incertezza del sapere.
Noi trattiamo a scuola campi di studio sui quali la tradizione scientifica (in senso lato) produce via via nuove interpretazioni, nuove descrizioni. Ogni modello descrittivo, oltre che soggetto al cambiamento, è incompleto, è una approssimazione. Anche un ottimo modello di analisi
logica non darà mai conto di tutti i casi. Ciò non autorizza a farne a meno, anzi: quella non
esaustività è una occasione preziosa perché i ragazzi tocchino con mano che la mappa non è
il territorio, e che quindi apprezzino le mappe, le descrizioni come approssimazione, e il loro
evolversi nel tempo.
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Forse ogni società, affinché sia garantita la democrazia,
ha bisogno che un gruppo di “migliori” (la polis insegna)
si faccia testimone e portavoce delle tradizioni culturali
che la identificano. Del resto, non si può insegnare “a
chi non vuole imparare”. «Io posso portare il cavallo
all’abbeveratoio, bere è affar suo…», ci ricorda Bateson
citando il noto proverbio.
Questa della irriducibile differenza di responsabilità,
questa e altre questioni – la natura ardua
dell’apprendere i formalismi, la ricerca di senso, la
“demotivazione”, ecc. – possono apparire questioni
irrisolvibili sul piano dell’agire “concreto”: e qui ritorna
il dilemma: serve una meticolosa programmazione?,
oppure serve allentare il controllo, tanto, qualcosa pure
succede… Per coltivare un pensiero che non veda le due
cose in alternativa occorre abituarsi a stare nel “doppio
vincolo” e predisporre magari l’uscita creativa.
Qual è la specificità dell’apprendimento scolastico?
Qual è la ragione che rende l’istruzione obbligatoria?
Al crescere della partecipazione democratica, all’allargarsi degli spazi di
decisione, la risposta più facile è abbassare il livello, facilitare gli studi
semplificandoli: ma, lo ripeto, fino a che punto è possibile semplificare
le discipline senza snaturarle? Fino a che punto si può ignorare il linguaggio in cui una certa scienza è stata formalizzata?
TEXT
La corazza di Ettore
I nostri ragazzi sono ragazzi difficili, e sono difficili le cose che noi proponiamo loro.
A scuola, dicevo prima, non possiamo ignorare che la nostra è la civiltà della scrittura (la nostra non è una cultura orale). Per ripercorrere il
cammino della nostra cultura occorre impadronirsi di competenze alte di
lettura e scrittura.
Resta però da giustificare il perché chiediamo ai ragazzi un tale impegno. Di ciò che si fa a scuola la domanda “che senso ha” è quella che
inquieta di più noi e loro. E non è cosa da poco: la ricerca di “senso” è
infatti ineliminabile negli umani.
La risposta che trovo meno insensata è quella più ovvia: offrire ai ragazzi quanto di meglio è stato elaborato e formalizzato da uomini e donne
della nostra migliore tradizione culturale.
È qui che la scuola diventa un luogo diverso da altri luoghi di incontro.
(Forse sarebbe meglio ridurre gli anni di scuola obbligatoria ma che sia
una esperienza intensa e unica – nella sua specificità. Che gli allievi ne
percepiscano la differenza).
La scuola diventa per necessità selettiva?
Gli anni Settanta segnarono la presa di distanza da atteggiamenti autoritari, punitivi… e con questi il rifiuto di un sapere dogmatico, che ignori
l’apporto creativo dei ragazzi…
Io tendo a pensare che oggi, come allora, il lavoro di un insegnante è
politico: il suo ruolo è decisivo per la crescita della democrazia. Occorre
perciò una autorevolezza che legittimi scelte fatte d’autorità – quelle
che non si possono contrattare.
Dobbiamo indossare “la corazza di Ettore”: sulle mura di Troia, Ettore, nel congedarsi dal figlio Astianatte, nell’atto di abbracciarlo si toglie l’elmo ma non la corazza: prendiamola come
la metafora del rapporto (asimmetrico) adulto-giovane: una affettività che sia complementare alla distanza.
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I minuti particolari
In Somalia ho insegnato italiano a giovani somali di 20 anni: per cominciare, insegnavo loro
come si sfoglia un libro, che si scrive cambiando pagina e non tra le righe rimaste bianche ecc.
Lì ho capito veramente l’importanza dei minuti particolari.
Come si impagina un testo, la paragrafazione, l’uso delle maiuscole, delle virgolette ecc.
Piccole scelte formali cui corrisponde l’affezionarsi a un proprio stile, il fare esperienza dell’estetica della scrittura.
Avere cura del contesto e dei segna-contesto – il saluto all’entrata; la posizione dei banchi;
gli strumenti di lavoro messi in ordine sul banco; l’organizzare la scansione della lezione, le
pause; ecc. – proprio per accogliere l’imprevisto – non viceversa –, affinché l’imprevisto non
mandi tutto a gambe all’aria.
Noi insegnanti dobbiamo tenere in grande considerazione le tante variabili proprie di un luogo dove si incontrano persone con storie diverse, con diverse aspettative ecc. Guardare sia ai
massimi sistemi sia agli aspetti pratici.
E quanto alle assenze, tener conto, quando si relaziona sul proprio lavoro, anche delle assenze nostre: io mi sono assentata per una settimana, e cosa ho fatto dopo?, come ho cambiato
la programmazione?
Per ritualità o vincoli potremmo allora intendere l’ambito delle necessità: le condizioni materiali in cui lavoriamo (le risorse – quelle accertate); la natura della nostra cultura (il progetto
educativo deve assecondarla) e così via.
Quale cultura?
Noi tendiamo a descrivere la scuola limitandoci a parlare di come sono i nostri ragazzi. E noi?,
come siamo? Qual è stata la formazione di un insegnante?, qual è lo stile, quale lo stato d’animo con cui affronta il suo lavoro?, quali i suoi modelli di riferimento? qual è più in generale
la sua cultura?
In una recente intervista ad Arbasino, egli ha detto che la sua è l’ultima generazione di intellettuali che può dire: a 25 anni avevo letto tutto – tutti i cosiddetti “classici”.
E oggi? Oggi è impossibile e forse non è nemmeno necessario. Consideriamo il moltiplicarsi
delle pubblicazioni, la non univocità nel definire cosa è un “classico”, i nuovi media, ecc.
Eppure resta valido il principio che il gruppo degli intellettuali che formeranno le nuove generazioni deve avere riferimenti comuni.
Sapere che esistono e cercarli quando servono?, avere davvero letto e assimilato i fondamen-
La saggezza sistemica e la cura della relazione
Ivan Illich diceva ironicamente che il presupposto della scuola sta nella convinzione che uno
per capire qualcosa ha bisogno che gliela dica un altro.
La filosofia di Maria Montessori può essere riassunta nel motto: “ti auto a fare da te”. E quanta
ritualità, quanto rigore – quanto studio metodico! – c’è nel raggiungere questo obiettivo!
Conviene tener conto che le cose stanno sia alla Illich sia alla Montessori: la scuola è necessaria e non necessaria: stare nel paradosso, nel “doppio vincolo” – per dirla con Bateson.
La saggezza sistemica, la cautela, innanzitutto – come il giardiniere, che nel potare un albero
sa qual è il ramo che deve tagliare e quello che deve lasciare.
Ogni cosa in natura è definita da soglie: ogni “cosa buona” (il cibo, l’attività fisica, lo svago,
lo studio…) al di sotto e al di sopra di una certa soglia potrebbe risultare dannosa. Ed è così
per la cura dell’altro che ignori la virtù della esitazione.
A questo proposito, voglio citare un passaggio dal libro Fiori italiani di Luigi Meneghello che
lì racconta della sua vita di studente, e così dice di uno dei suoi maestri: «Il professor Fasolo
mostrava nei rapporti con S. [S. è il personaggio anonimo dietro cui si cela Meneghello] un
riconoscibile tocco di riserbo, certamente di carattere intellettuale. Era come se intravvedesse laddentro, ancora in pupa, un pericoloso adulto: a cui pareva disposto ad augurare buona fortuna, ma col quale non voleva avere niente a che fare. Mi accorgo scrivendo – continua
Meneghello – che altri insegnanti bravi non ingenui si comportarono poi in questo modo con S.
C’era in lui, come scolaro, qualcosa che la gente non si azzardava a toccare. Penso che in una
cultura seria la presenza di roba impupata nei ragazzi non dovrebbe apparire pericolosa. E che
questa cultura seria non esiste». (da i Meridiani Mondadori, Milano 2006, p. 820.).
Insomma, occorre che gli insegnanti siano attenti a riconoscere in ogni allievo anche ciò che
essi non saprebbero né dire né documentare. Come fa il maestro di Meneghello, che aveva intuito in lui un progetto di vita che andava tutelato e che non poteva essere valutato con giudizi usuali. L’interiorità di Meneghello, dirà qualcuno, andava davvero tutelata: egli non era
uno studente qualsiasi.
Forse ogni società, affinché sia garantita la democrazia, ha bisogno che un gruppo di “migliori” (la polis insegna) si faccia testimone e portavoce delle tradizioni culturali che la identificano.
Del resto, non si può insegnare “a chi non vuole imparare”. «Io posso portare il cavallo all’abbeveratoio, bere è affar suo…», ci ricorda Bateson citando il noto proverbio.
Questa della irriducibile differenza di responsabilità, questa e altre questioni – la natura ardua
dell’apprendere i formalismi, la ricerca di senso, la “demotivazione”, ecc. – possono apparire
questioni irrisolvibili sul piano dell’agire “concreto”: e qui ritorna il dilemma: serve una meticolosa programmazione?, oppure serve allentare il controllo, tanto, qualcosa pure succede…
Per coltivare un pensiero che non veda le due cose in alternativa occorre, lo ripeto, abituarsi
a stare nel “doppio vincolo” e predisporre magari l’uscita creativa.
E quanto alla relazione maestro-allievo, occorre anche tenere conto che le “verità” che emergono dalla relazione vengono prima delle “verità” che definiscono i soggetti in relazione.
E questa, la relazione, è bene che non divenga terreno (scivoloso) di commento, di discorso
– c’è il rischio di etichettare lo studente: “sei così e così, sei svogliato, ecc.”. Vanno privilegiati invece i messaggi relativi agli “oggetti” specifici propri della relazione educativa (“qui
dovevi chiudere le virgolette”, “questa definizione è ben scritta”, ecc.): è attraverso questi
“oggetti” (intendo le materie di studio) che il maestro manifesta la sua affettività. Infatti, sul
piano squisitamente affettivo, tra maestro e allievi c’è “la corazza di Ettore”, vale a dire una
“distanza” che li tiene uniti: essi studiano le stesse cose.
Ed è questa paradossale distanza affettiva il dominio privilegiato sul quale l’insegnante può
decidere e può agire la sua propensione alla cura dell’altro.
Nel proporsi faticosamente di farli diventare tutti dei “bravi scolaretti”, egli dovrà anche ricordare in ogni momento che la sua resa avrà sempre fondate giustificazioni, e che quindi la
tentazione di arrendersi è più forte della sua alternativa.
* Il saggio di Rosalba Conserva (Cidi, école, Roma) che qui proponiamo è il testo del suo contributo al convegno nazionale, “Tutti i santi giorni. La centralità del quotidiano nell’educazione”, organizzato dai CEMEA
del Piemonte (Torino, 14 e 15 marzo 2008). All’iniziativa hanno partecipato anche Andrea Bagni (vicedirettore di école, Firenze), Orazio Pirro (Npi Asl 1, Torino), Gianfranco Staccioli e Penny Ritscher (Cemea,
Firenze); Walter Fornasa (Università di Bergamo).
TEXT
ti della nostra cultura?, e quale cultura? Conoscere la propria cultura di appartenenza è molto probabilmente una scelta necessaria: ogni società trasmette ai giovani la propria cultura
– non un’altra.
(Questo porterebbe a un “decalogo”: la commissione dei Saggi istituita da Berlinguer non era
forse una cattiva idea.)
Da Bateson ho tratto due preziosi suggerimenti.
Uno di tipo culturale: Bateson suggerisce di inscrivere ogni disciplina di studio entro la storia naturale al fine di correggere la nostra “miopia sistemica”: «Io vado sempre cianciando di
quella che chiamo “storia naturale” e dico sempre che senza storia naturale ogni conoscenza è
morta, opaca o bigotta» (vedere: Una sacra unità, Adelphi, Milano 1998, p. 345).
Uno di metodo: il metodo della doppia domanda: «che cos’è un maestro che si prende cura di
un allievo?; e che cos’è un allievo di cui un maestro si prende cura?».
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trend
L A N U O V A T R A T T A D E G L I S C H I A V I
Dal 1988, nel solo
tratto di mare tra
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