10 — focus on
Al via
«Il Corpo del Suono»
Luca Francesconi
delinea il progetto
del suo secondo Festival
I
l Corpo del Suono» è un titolo forte ed evocativo, che chiama
in causa un’articolata serie di problematiche e induce un’altrettanto articolata serie di riflessioni. Al direttore artistico del Settore Musica della Biennale, Luca Francesconi, chiediamo di spiegare le
motivazioni di questa scelta tematica, cui si richiamano poi anche le linee-guida del festival.
focus on / il corpo del suono
«
Luca Francesconi (foto di Mauro Fermariello)
Ci sono delle questioni fondamentali che riguardano la crisi della cultura occidentale basata sul testo. L’illusione e la
speranza di una sopravvivenza attraverso il testo è la base di
qualsiasi cultura escatologica, ed è implicita nelle civiltà giudaico-cristiane, o più estesamente in quelle monoteistiche.
Ciò implica la presunzione, anche in senso buono, che si possa appunto non morire interamente ma lasciare invece delle
cose che permangono al di là di noi: è quella che io definisco
una liturgia della permanenza. Il testo come monolite che
si consegna alla storia e va oltre l’individuo è certamente un
elemento tra i più importanti della cultura occidentale, come del resto la tecnologia, la medicina e così via. Però è anche
vero che la pretesa illuministica di esaurire qui tutte le esperienze ha spesso creato dei problemi. Nel Novecento, grazie
all’accelerazione generalizzata e dovuta in gran parte alle rapidissime scoperte tecnologiche, quest’idea centrale è in un
certo senso stata messa in crisi. Nel secolo passato è venuta
meno la speranza che tutto si potesse risolvere in questa su-
il corpo del suono
blimazione teorica, anche perché la cultura unica si è frammentata e spezzettata in mille rivoli. E conseguentemente
anche l’idea dell’Opera con la o maiuscola si è andata sfaldando. La reintroduzione della variabile fisica dell’individuo
ha fatto prepotentemente la sua rientrata in scena. Il suono
anodino dell’Ottocento scompare: arriva Varèse, la musica
elettronica e quella concreta. Di conseguenza tutta la musica – innanzi a tutto quella che ha avuto dei connotati politici,
vale a dire di scontro fra culture, come il blues – ha rimesso
al centro l’idea del corpo in quanto eccezione, «diversione»
dalla regola e individualità irripetibile. Parallelamente questo stesso corpo viene alienato da forme tecnologiche sempre più invasive. In altre parole si assiste a una situazione in
cui da una parte la cultura ottocentesca va irreversibilmente
in crisi e dall’altra c’è una dicotomia enorme tra singolo corpo che soffre e una riattualizzazione dell’esperienza che tende proprio a eliminare quel corpo. Questa è la grande contraddizione che noi tutti viviamo e che è al centro di questa
Biennale. I futuristi, con il loro entusiasmo un po’ «caciarone», avevano avuto quest’intuizione, mettendo, come si dice,
il dito nella piaga: da un lato stava la riaffermazione dell’individuo e dall’altro una spersonalizzazione dell’esperienza dovuta alla tecnologia. Questa dicotomia è ancora più forte oggi, e allora le radici (il tema dominante della passata edizione,
ndr) tornano a essere fondamentali: l’aspirazione dell’uomo
a uscire dal proprio corpo, a trascendere le proprie membra,
il desiderio di essere altro da sé, di volare, di mettersi la maschera, ebbene tutto questo è un sogno contro cui cozza come un peso la nostra esistenza peritura. La gente ha sempre
avuto un’enorme paura della propria finitezza, e per vincere questa paura sono nati i rituali che a loro volta provenivano da miti inventati apposta per spiegare come stavano le cose. La forza di questi miti, e dei rituali a loro connessi, è venuta completamente a mancare, e per fronteggiare il
vuoto causato dalla
sua scomparsa si è
cercato di sostituirla con
una forma
di evasione di massa, una diversione, un diverticolare, un divertimento nel
senso etimologico del termine, cioè
«andare da
u n’a lt ra
parte»:
Frank Zappa di cu viene eseguito The Perfect Stranger
dall’Orchestra di Padova e del Veneto
il 30 settembre alle 21 al Teatro alle Tese
«distrarre» è diventato l’unico sistema applicato per riempire
questi buchi esistenziali. Da qui, ovviamente, deriva la manipolazione dei media, della televisione, del mondo virtuale
che sta spossessando sempre di più le persone del tempo per
fare i conti con se stesse.
Vorrei aggiungere una considerazione: sono convinto che
nella musica ci sia un potere sconvolgente – direi «fisico» –
che permette a stomaco e cervello di andare insieme. E questo potere si ritrova in forme ed epoche diversissime, in continenti e in culture distantissime, e soprattutto si ritrova andando al di là delle etichette. Non c’è nessuna garanzia di
qualità che venga da un timbro «di classe». Esistono soltanto
alcune opere – e sono poche, lo sanno tutti – che arrivano allo stomaco e ti sconvolgono, e non importa in che lingua sono scritte. Nel costruire questo festival la mia ricerca si è rivolta a questo magico equilibrio di elementi diversi, un po’
fisiologici, un po’ culturali, un po’ emozionali e un po’ anche
mentali, perché la musica è uno specchio della natura umana, e dunque ha strettamente a che fare con il cervello. Cercare, toccare questo punto misterioso che non si sa dov’è, ma
c’è, e quando c’è lo si riconosce immediatamente. O meglio:
si nota forse prima ancora quando quest’intersezione di elementi manca, anche se ci si trova in presenza di una musica
ben composta e ben prodotta. Mentre la stessa intersezione
si può individuare con facilità in qualcosa di rozzo, brutale,
scritto in una lingua sconosciuta.
Come ha costruito concretamente il programma?
Rispetto all’anno scorso ho voluto riempirlo sempre più
di giovani e sempre meno di etichette... Mi piacerebbe poter fare più produzione e ricerca sul campo. In questo senso
do molta importanza ai Campus, ai laboratori, a Exit, che ritorna per il secondo anno. Per me la Biennale dovrebbe essere una istituzione che crea, che inventa
cose nuove. La vetrina e il museo delle
cere, giovani o vecchie che siano, mi
interessa assai poco. Bisognerebbe
forse scegliere un pezzo storico, di
quelli che hanno sconvolto e modificato la storia della musica, e
costruire tutto il festival intorno a quello. Si potrebbe optare per la Sagra della Primavera,
o il secondo atto del Parsifal,
ed erigervi tutta la Biennale
intorno. È una cosa che spero di poter realizzare l’anno
prossimo.
focus on — 11
Si nota il coinvolgimento dell’Orchestra della Fenice, impegnata in due
serate, una anche ospitata in Teatro.
Mi piacerebbe tornare ai fasti degli anni passati, quando
La Fenice era un coproduttore del festival, però navighiamo
tutti in acque molto difficili. Grazie agli ottimi rapporti che
ho sono riuscito a mantenere questo legame, sperando che la
collaborazione si vada sempre più amplificando.
Con la sezione dedicata al «Paese senza memoria» la Biennale affronta importanti questioni legate all’antropologia.
Certo! È una delle cose che mi interessa maggiormente di
tutto il festival. Io infatti continuo a ribadire il concetto che
la musica contemporanea non è un genere ma un apparato
di strumenti, di utensili analitico-sintetici per capire la realtà che ci circonda, esattamente come l’antropologia e la filosofia. Non siamo dei pazzi che fanno dei suoni brutti, siamo persone che si interrogano sul presente e cercano di tro-
Carmen Linares,
la cantaora di flamenco,
in scena al Teatro alle Tese
il 2 ottobre alle 20
vare delle ipotesi. Non mi interessa per nulla stilare una lista
di concertini con pezzi più o meno belli di cosiddetta musica
contemporanea, che – lo ripeto ancora – per me non esiste (o
per lo meno non esiste quello che la gente identifica con
queste due parole, riferendosi a un periodo che è durato dal 1948 al 1957...). Invece dietro si annida
un pensiero molto profondo che va conservato. In questo senso l’antropologia è fondamentale. Noi italiani siamo dei disgraziati: Ernesto
De Martino è uno dei più grandi
geni che abbiamo avuto nel Novecento, ed è completamente dimenticato. Se fossimo in Francia gli
intitolerebbero i boulevard e le statue
Cristina Zavalloni, interprete di Racconto dall’Inferno
equestri in mezzo alle piazze, in Itadi Louis Andriessen, programmato con l’Orchestra Sinfonica del Teatro La Fenice
lia nessuno sa neanche chi è. (l.m.) ◼
il 29 settembre alle 20 al Teatro alle Tese (foto Maki Galimberti)
focus on / il corpo del suono
il corpo del suono
12 — focus on
il corpo del suono
I giochi, i segni
e i messaggi
di György Kurtág
focus on / il corpo del suono
I
di Gian Paolo Minardi
l Leone d’oro che la Biennale Musica ha assegnato a
György Kurtág aggiunge una nuova evidenza al ruolo occupato nella variegata scena della contemporaneità dal grande musicista ungherese, il più poeticamente originale nell’unicità del suo profilo, oggi senza dubbio uno
dei massimi compositori viventi. Era stato Luigi Nono a
richiamare l’attenzione su di lui, quando in Italia era pressoché sconosciuto. «Una grandissima personalità musicale» disse Nono, giudizio che anche da noi non tarderà ad
essere subito condiviso da chi verrà affascinato dalla sua
musica, dai caratteri assolutamente inconfondibili pur dietro un’apparenza composita: molte infatti sono le tracce
che si possono scorgere nella musica di Kurtág, in una sequenza che ripercorre anche la formazione del compositore, avvenuta in Ungheria, quindi rafforzata dalle successive aperture europee, dal contatto con l’avanguardia viennese in particolare. Un rapporto forte quello tra Kurtág e
Nono, suggellato da una reciprocità di «Omaggi» musicali
che sottendono intese e corrispondenze più segrete di cui
in un suo imprescindibile saggio Giovanni Morelli ha sottolineato la peculiarità: «In più di un ordine linguistico fra
i due artisti avvengono degli scambi dialogici di suggestioni e influenze sulla cui evidenza non si danno opportunità di discussione – si pensi a quanto Fragmente Stille intensifichi e moltiplichi quei tratti di gestualità che diviene
lingua nei primi esperimenti kurtághiani di Jelek, oppure
si pensi, immediatamente, a come Kurtág raccolga sempre
più di frequente il senso ansiosamente tematizzato della dispersione spaziale delle formanti del testo…».
Certamente basilare è il retroterra personale legato alla
musica del suo paese, a Bartok in particolare – «la mia lingua materna è Bartok – dirà – e la lingua materna di Bartok è Beethoven» – cui si sovrappone, non meno incidente,
la suggestione weberniana, e questi due termini sembrano appunto indicare le nervature sottese a una musica che risulta tuttavia
di assoluta originalità: da un lato il valore del suono, inteso come materia
primaria, decanta-
Györg y Kurtág (foto Andrea Felvégi)
ta da retaggi indotti, dall’altro la costruzione di uno spazio, attonito e stupefatto, il tutto sempre in proporzioni
assai raccolte, dove il discorso sembra sedimentarsi in una
sua essenziale necessità.
Esemplari di questa poetica sono i brevi pezzi della collana pianistica Jatekok (giochi) che il compositore continua
ad arricchire, come sempre avvincente «work in progress»:
«Suonare è giocare. Richiede all’esecutore molta libertà e
iniziativa» dice Kurtág, come mostra lui stesso quando,
insieme alla moglie Marta, propone in concerto alcune di
queste pagine, tra cui anche le geniali trascrizioni bachiane
o di Machault, in una ricreazione di rara originalità.
Come originale, nel tramato percorso kurtághiano, appare il senso di ritualità racchiuso nel ricordo di amici
scomparsi, intimissimi tombeaux, come l’Officium breve in
memoriam Andreae Szervanszky, quindici frammenti, alcuni
semplici tracce aforistiche, che propongono via via fugaci sfaccettature emozionali, ora svelate dal puro cesello sonoro ma pure da una più introversa riflessione strutturale, come nei tre precisi richiami a composizioni di Webern
incastonati nel magico anello con l’ineffabile naturalezza
che consente a Kurtág di far convivere la serialità con affioramenti tonali, fino alla toccante chiusa, quell’«Arioso
interrotto» in cui affiora la citazione di un affettuoso motivo dell’amico scomparso. O ancora quel raccolto capolavoro che è Grabstein für Stephan per chitarra ed ensemble strumentale, prolungamento di un colloquio segreto,
com’è questo con Stephan, un rivivere di ricordi che la diafana visionarietà del suono rende oltremodo drammatici.
Accanto a «Giochi» altre due parole, «Segni» e «Messaggi», possono riassumere l’universo di György Kurtág, un
senso che affiora in tutta la sua più segreta motivazione
soprattutto dalle composizioni create nell’ultimo decennio. Potrebbe apparire improprio parlare di «tardo stile»
nell’accezione convenzionale, per un artista come Kurtág,
oggi superata felicemente la soglia degli ottant’anni, che
della concentrazione ha fatto una ragione intrinseca del
proprio stile, attraverso una scrittura essenziale, fatta di
«segni», appunto, di «giochi», di «messaggi», ma a suggerire una riflessione più scavata sono le scelte poetiche cui
sono legate queste ultime composizioni, Hölderlin e Beckett, autori la cui distanza Kurtág sembra annullare nella
ricerca di più intime corrispondenze, in quella desolazione racchiusa nei versi estremi del poeta di Tubinga, palpitanti quanto enigmatici, e come pietrificata nelle parole beckettiane. Condizione che il musicista sembra far propria
attraverso la traduzione in gesti musicali, ma non nel senso di liberare dalla parola la sua naturale inclinazione sonora, bensì scavando oltre la sua superficie a estrarne movenze sotterranee che ne svelino la profonda tragicità. È la
traccia erosa delle cinque poesie di Hölderlin, significativamente suggellata da quella di Celan, che la voce del baritono ricarica attraverso l’infinitesimale trascolorare della grafia melodica, sorretta solo in Gestalt und Geist dal tono incupito del trombone e della tuba; ed
è lo stranito, laconico poetare di Beckett, schegge minimali – pubblicate nel 1978 con il titolo di
Mirlitonnades come pure alcune massime di Chamfort tradotte dallo stesso Beckett – che provocano
il compositore inducendolo a sostare riflessivamente in quella zona misteriosa in cui la parola, come il suono, sembrano sfumare nel silenzio, proprio come l’acuminata penna di Klee
si spinge talora ad esplorare la pagina bianca:
senza dubbio un ascendente imprescindibile.◼
focus on — 13
L’eclettico
sperimentalismo
di Suguru Goto
Alla Biennale Musica
l’artista della Robotic Music
N
di Guido Michelone
ell’ambito del LIII Festival Internazionale di Mu-
mu Yamash’ta, Yasunao Tone, Cornelius, Yoshinori Sunahara,
Pizzicato Five, Cicala Myta, The 5.6.7.8’s – o per altri versi il miglior portavoce delle ultime generazioni di autori nipponici legati allo sperimentalismo in campo estetico e all’estensione del
potenziale espressivo nella dialettica uomo-macchina, corposuono, linguaggi-automi. Da circa un decennio Goto inventa
i cosiddetti Virtual Musical Instruments, che interfacciano diverse tipologie comunicative: gesto e digitalità, persona e computer, ascolto e visione, perché note e immagini (soprattutto video) vengono controllate appunto dalla strumentazione musicale virtuale, mediante pc azionati in tempo reale.
In un’intervista a Elena Varani, Suguru Goto, spiega in tal
senso la filosofia dei Virtual Musical Instruments, in grado di
far interagire corpo, uomo e computer nella visione utopica,
quasi neofuturista, del superamento delle abilità e delle competenze del musicista: «I limiti fisici umani possono essere facilmente sorpassati dalla capacità dei robot che sono più veloci,
più resistenti, più accurati. Tuttavia non si parla solo di capacità, nella musica c’è molto di più. Se io mi occupassi solo di questo, non vedrei altri aspetti della musica: però è vero che i robot
possono portare altri contributi, cose mai sperimentate prima.
sica Contemporanea della Biennale di Venezia spicca
il nome del giapponese Suguru Goto, fra i settantatré
compositori invitati da tutto il mondo, perché risulta tra gli artisti che meglio interpretano il tema di quest’anno – il «Corpo
del suono» – voluto dal direttore Luca Francesconi a ribadire
che «il presente ascolta il passato e guarda il futuro». E con Suguru Goto il corpo torna infatti al centro della scena nell’intrinseco rapporto uomo-macchina già individuato nel Novecento, attorno agli anni trenta, dal compositore americano Edgar Varèse (il primo a ritenere il suono come materia viva da esplorare, abbracciando persino
i rumori) o prima ancora,
quasi un secolo fa, dal movimento futurista, che tenta una relazione privilegiata tra le nuove arti e le allora tecnologie nascenti, prefigurando, con musicisti/
teorici quali Balilla Pratella e soprattutto Luigi Russolo i risultati delle musiche
postweberniane (concreta, elettronica, oggettiva,
tra gli anni quaranta e settanta) come pure gli utilizzi techno più avveniristici
in ambito pop, rock, dance.
Quindi i concerti del FeSuguru Goto, Robotic Music
stival iniziano proprio con
Suguru Goto negli spazi
del Teatro alle Tese, quaIl principale vantaggio della Robotic Music è quello di suonasi un happening da avanguardie storiche rivisitate con il gusto
re interattivamente uno strumento acustico con l’ausilio di un
del XXI secolo: nel foyer del Teatro la performance darà quincomputer. Non c’è nessuna difficoltà a eseguire ritmi complessi
di corpo all’idea, accarezzata fin dai tempi di Russolo e Varècon risultati facilmente superiori all’esecuzione umana e questo
se, di un ensemble automatizzato: sono musicisti robot a suoapre nuove possibilità all’interno della composizione per strunare batterie e percussioni, venendo governati da una strategia
menti acustici».
computazionale; più veloci, resistenti e precisi di mani e braccia
Ma a questo punto, il passo verso una riflessione sul senumane, i robot musicisti simbolicamente rappresentano il suso della vita è breve: «Il discorso reale/virtuale meriterebbe
peramento del limite dell’essere, fino ad azzerare il concetto di
una discussione molto approfondita. Si può comunque conesecutore/interprete in carne e ossa.
siderare il fatto che la nostra stessa identità non è solo limitaNon a caso Suguru Goto, quarantatré anni, giapponese ma
ta al fatto di possedere un corpo (…) come nel dualismo “readi stanza a Parigi, dove lavora al prestigioso Ircam (di fatto unile/virtuale” nell’arte, ci si potrebbe forse chiedere se un’idenca seria istituzione mondiale per la musica contemporanea) è
tità esiste o no, fino a dove è possibile
qualcosa di più di un musicista, riunendo
estenderne i confini. Parimenti una dein sé le doti del compositore, dell’invento– Foyer del Teatro alle Tese
finizione di musica è senza limiti e forse
re, del tecnico, del performer e dell’artista Venezia
dal 25 settembre al 3 ottobre
la coesistenza con questo “Corpo estemultimediale; forse oggi è addirittura da
Suguru Goto, Robotic Music
so” aiuterà lo sviluppo di nuove possiritenersi l’ultimo anello di una lunga cateper cinque percussionisti robot
bilità nel modo di comporre musica». ◼
na nel Sol Levante – eterogeneamente Stoin collaborazione con Ircam – Parigi
focus on / il corpo del suono
il corpo del suono
14 — focus on
Le astratte verità
del blues
di Honeyboy Edwards
un festival che, intitolandosi «Il corpo del suono», avrebbe forse potuto dedicare più spazio ai linguaggi di tradizione afroamericana, per i quali il rapporto con la fisicità
ha un ruolo centrale.
Honeyboy Edwards si esibirà, chitarra alla mano e voce,
accompagnato dall’armonica di Michael Frank e da Les
Copeland, anch’egli chitarra e voce: presentato come un
«pezzo di storia del blues più autentico», Edwards è certamente un artista che ha vissuto in prima persona alcudi Enrico Bettinello
ne importanti vicende del blues del Delta del Mississippi
(regione nella quale è nato) e che ha mantenuto mediatiarafrasando il titolo di un celebre disco del sascamente un ruolo un po’ defilato rispetto a altri compagni
sofonista e arrangiatore Oliver Nelson, il blues pordi avventura, pur continuando a suonare con assiduità fita con sé una verità piuttosto «astratta», dal momenno al giorno d’oggi.
to che a verifiche più concrete vacilla pericolosamente
Una parquello steste consistenso concetto
te dei suoi ridi autenticicordi è stata
tà, a più riaffidata, coprese sbanme è costudierato come, a un’aume «boll itobiograno di qualifia, intitolatà» di questa
ta The World
musica – e di
Don’t Owe
molte altre.
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Uno degli
e uscita neultimi «tegli anni nostimoni acvanta, nella
creditati» di
quale il bluequesta (ma
sman ricorsarebbe forda l’incontro
se meglio dicon nom i
re di queste)
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verità, si poquali queltrà ascoltali di Tomre nella semy Johnson,
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dei due «diodella Bienscu r i » del
nale Musica
Delta Rodi quest’anbert Johnno, che proson e Charpone nuovalie Patton,
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con Big Joe
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lungo proche lo prese
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sotto la sua
grado di acala protetcost a re –
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lità di fruiHopkins o
zione – muMuddy Wasiche e pubter s , solo
blici di proper citarne
venienza
alcuni.
diversa.
Honeyboy Edwards (foto di Gene Tomko)
Come per
Il suo nomolt i altri
me è David
artisti blues,
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un punto di
Edwards,
svolta nella carriera di Edwards è stato l’inbluesman che alla veneranda età di novantaquattro anni si ritroverà accanto alla Robotic- Venezia – Teatro alle Tese contro con Alan Lomax, il controverso ricercatore statunitense che insieme al padre John
Music di Suguru Goto e a Ionisation di Edgar
Exit_02
setacciò il Sud degli States tra gli anni trenta e
Varèse, unico a difendere la musica nera in
3 ottobre, ore 18.00
P
focus on / il corpo del suono
il corpo del suono
i primi quaranta andando a scovare (o a «inventare» direbbero i maligni) molti bluesmen e musicisti folk, registrandoli sul campo per poi raccoglierli nell’Archive of American Folk Song della Biblioteca del Congresso.
La sua discografia vede poi alcune tracce registrate nei
primi anni cinquanta – periodo nel quale il musicista si
trasferì in un’altra «patria» del blues come Chicago, per poi
trovare una definitiva stabilità e fioritura negli anni settanta, grazie alla figura di Micheal Frank, che lo affiancherà
nella Honeyboy Edwards Blues Band e che lo farà incidere per la sua etichetta, la Earwig, per giungere ai più recenti riconoscimenti, culminati con il Grammy nel 1997 come «miglior album di blues tradizionale» per un live a Dallas in compagnia di Robert Lockwood Jr., Pinetop Perkins
e Henry Townsend.
Tra le tante rivelazioni dell’autobiografia, la più citata rimane certamente quella in cui Edwards dichiara di essere l’autore di uno dei brani più celebri del repertorio blues,
quella «Sweet Home Chicago» che si vuole essere frutto
dell’estro creativo di Robert Johnson, che per primo la
incise.
La «prosaica» questione dei diritti e dei relativi denari è
stata risolta da tale Stephen LaVere, che nel 1973 ha avuto l’astuzia di persuadere la sorellastra di Robert Johnson
a cedergli la metà dei diritti delle canzoni del bluesman (e
qui ci pare che fare patti col diavolo sia un difetto di famiglia), una cosetta che sistema per la vita se si pensa che –
solamente parlando di «Sweet Home Chicago» – la canzone è uno dei pezzi forti della colonna sonora del celebre
film The Blues Brothers e viene eseguita in decine di club della città ogni giorno.
focus on — 15
Per quanto attiene invece alla «paternità» artistica, nel
blues è davvero difficile risalire a un creatore univoco,
trattandosi di materiali che per definizione sono stati tramandati e trasformati incessantemente. E l’attribuzione di
paternità da parte di Edwards non fa che aggiungersi alle controversie già lungamente dibattute: ben precedente
all’entrata di Johnson in studio è ad esempio quella «Kokomo Blues» che fu resa popolare da Scrapper Blackwell e da
James «Kokomo» Arnold, brano che fornì a Johnson ben
più di una traccia, ma anche nella storia successiva dell’interpretazione del pezzo le strofe e le versioni sono soggette a cambiamenti.
A chi volesse conoscere sguardi più disincantati e interessanti sul concetto stesso di «autenticità» nella popular
music dell’ultimo secolo – non solo blues quindi, ma anche nel rock’n’roll, nel cosiddetto folk revival, fino a giungere al punk e al giorno d’oggi – consigliamo caldamente
uno splendido libro scritto a quattro mani da Hugh Barker
e Yuval Taylor e intitolato nella traduzione italiana curata dall’editore ISBN, Musica di plastica.
Nelle pagine dedicate proprio al blues – specialmente alle figure di Leadbelly e di Mississippi John Hurt – i due autori spiegano con efficace semplicità quante «immagini» considerate autentiche
siano in realtà delle finzioni romantiche e commerciali, quando non sottilmente razziste. Quella del pacioso bluesman in veranda con la chitarra
e la sedia a dondolo, così come quella del fuorilegge selvaggio e incontaminato sono tra queste.
Permane quindi, specialmente negli
Stati Uniti, quella separazione tra
musica bianca e musica nera che
per noi è ormai consolidata, ma
che non faceva parte delle origini della popular music americana, che era invece alimentata felicemente dall’incrocio fra elementi di diversissima provenienza (il jazz
ne è un esempio piuttosto
lampante).
La patente di
«autent icità »,
affibbiata a più riprese e con intenzioni molto differenti (alle logiche
razziste si sono
spesso affiancate
quelle di tipo benefico, tipiche degli «scopritori di bluesmen dimenticati»), ha
progressivamente isolato certe espressione musicali, mettendo lo spettatore – qui Barker e Taylor sono molto efficaci nell’analisi – in una posizione quasi «turistica», di osservatore di qualcosa di esotico e incontaminato che in realtà non è così se non per convenzione.
La capacità di interagire, mescolare, sintetizzare, aprire i
confini, è questa invece la straordinaria risorsa delle musiche di tradizione afroamericana ed è anche uno stimolo in
più per leggere in modo inconsueto e originale questo accostamento che vedrà Honeyboy Edwards nella stessa serata di un’altra «chitarrista» come Elena Casoli o della Sequenza per trombone di Berio. Alla faccia dell’autenticità! ◼
focus on / il corpo del suono
il corpo del suono
16 — focus on
il corpo del suono
Una sezione
etnomusicologica
per la Biennale
Maurizio Agamennone
traccia le linee del progetto
«Il Paese senza memoria»
C
onservare e alimentare la memoria» è il presupposto iniziale sul quale si basa il segmento «Il Paese senza memoria»
della Biennale Musica, ideato da Luca Francesconi insieme a
Maurizio Agamennone, titolare della cattedra di Etnomusicologia all’Università di Firenze e docente in molti istituti italiani, tra cui la Fondazione Cini. A lui chiediamo da quali motivazioni e con quali finalità è nata questa
collaborazione.
L’idea originaria è del maestro Francesconi, attento conoscitore di culture musicali tradizionali e autore di un grande lavoro
sinfonico-corale (Terre del rimorso, per soli, coro e orchestra, 2001)
dedicato alla memoria di Ernesto de Martino: il segmento definito «Il paese senza memoria»
è parte integrante del Festival
internazionale di musica contemporanea della Biennale di
Venezia.
Sul piano antropologico e
storico-culturale la memoria
è una costruzione delle culture ed è affidata alle capacità
psicofisiche delle donne e degli uomini. Da una parte si tende a conservare e tramandare
esperienze, saperi, sensi e sentimenti: in questo processo, si
realizza una operazione di filtro, nella quale si seleziona ciò
che risulta più confacente, attraente, soddisfacente, utile e
Bruno Maderna
necessario; conseguentemente, molto si perde, soprattutto
ciò che è percepito come esperienza sconveniente, ciò che non è piacevole o dignitoso: la
mente, e le culture, «resettano», ricompongono continuamente gli inventari memoriali.
Questo spiega anche la necessità di alimentare segmenti e contenuti di
memoria che possono disperdersi, con
il passare del tempo
focus on / il corpo del suono
«
Claude Levi-Strauss
e con la scomparsa dei testimoni: si va dalla memoria della shoah ad altre esperienze storiche. E quindi si spiega anche come sia
necessario «armonizzare» le storie (i fatti, come appaiono documentati nelle fonti più numerose e diverse) con le memorie (ciò
che di quegli stessi fatti si ricorda o, al contrario, si tende a dimenticare): ciò vale soprattutto quando prevalgano prospettive memoriali di tipo «essenzialista», fondamentalista o integralista, o
allorché si perseguano politiche identitarie rigide ed esclusive.
Etnomusicologia e antropologia apparentemente sembrano avere scarsi
rapporti con la cosiddetta musica contemporanea colta, quanto meno nelle sue
manifestazioni istituzionali come la Biennale. Come si collega lo studio scientifico del passato comune e collettivo con le nuove forme di espressione musicale?
Non mi pare che sia proprio così. Etnomusicologia e antropologia, per quanto risulta a me, sono state abbastanza vicine alle
espressioni musicali contemporanee di matrice colta. Degli interessi etnomusicali di Luca Francesconi s’è detto. Basta ricordare ancora il profondo interesse di Claude Levi-Strauss per la
musica (Jean Jacques Nattiez ha appena pubblicato un libro su
Levi-Strauss musicien) e, soprattutto, la sensibilità di André Schaeffner – etnomusicologo e organologo francese, fondatore del
Museo degli strumenti musicali presso il Musée de l’homme –
che è stato molto vicino a Pierre Boulez, nei suoi primi passi di
compositore. Ricordo pure la fraterna amicizia tra Luciano Berio e Simha Arom, massimo
musicologo africanista, ospite
della Biennale di quest’anno,
e la profonda influenza dello
strutturalismo, anche di matrice antropologica, sull’avanguardia musicale. In Italia,
poi, sia Diego Carpitella che
Roberto Leydi sono stati molto solidali – veri «compagni
di strada» – con i compositori
d’avanguardia: il primo ha osservato e recensito molte prime esecuzioni e ha poi avviato
la riflessione sul «Mito del primitivo nella musica contemporanea», ancora pienamente
convincente; il secondo è stato tra i primi frequentatori dello Studio di fonologia della Rai
di Milano, con Luciano Berio,
Henri Pousseur e Bruno Maderna. Anche nella stessa
«Biennale Musica» si può cogliere qualche traccia di un
interesse per le musiche extraeuropee, almeno in una
prospettiva «orientalista»: cito l’edizione del Festival internazionale di musica contemporanea del 1964, che
si chiuse con un
programma «di
Ernesto de Martino
Luciano Berio
musiche tradizionali e popolari indiane», affidato ai fratelli Dagar – divenuti successivamente vere «icone» della world music –
impegnati in un concerto di canto Dhrupad, repertorio di corte molto sofisticato. Lo studio delle pratiche musicali del passato e delle consuetudini vive costituisce un fondamento della nostra cultura di uomini e musicisti consapevoli, curiosi, irrequieti, e può fornire altresì impulsi potenti per la creatività musicale,
oggi: forse non è nemmeno necessario ricordare, per questo, Ligeti, Berio, Steve Reich e tanti altri.
Il ricordo di Ernesto De Martino, nell’indifferenza generale, è una
splendida iniziativa, soprattutto
perché inserita in un Festival Internazionale di Musica contemporanea. Quali sono, secondo lei, i principali meriti di questo intellettuale, anche al di là della celebre indagine sul
tarantismo del 1959?
Guardare a Ernesto de Martino ha appunto a che fare
con la storia e con la memoria: la sua ricerca – complessa e condotta su temi assai diversi – mostra come la conoscenza del passato possa essere uno strumento efficace per
Alan Lomax e Diego Carpitella
l’azione politica, sociale e culturale nel presente, per essere
costruttori di storia, nella nostra esperienza di vita. Ancora,
la sua riflessione è pienamente attuale per la comprensione
delle relazioni incrociate all’interno delle società complesse e
stratificate, per l’analisi delle
espressioni culturali prodotte
nei modi, luoghi e tempi propri delle culture e dei ceti sociali osservati. Ed è anche assai
importante per la comprensione della potenza esplicata dai tratti simbolici presenti
nelle culture, capaci di plasmaPierre Boulez
re profondamente e orientare
comportamenti individuali e
di gruppo.
Un punto che mi sembra molto interessante è quello che riguarda i migranti italiani e la loro vicinanza al jazz
delle origini. Ci può anticipare qualche considerazione su questo tema?
Ancora una volta, si tratta di armonizzare le «storie» con le
«memorie»: delle «nostre» migrazioni recenti (dal tardo Ottocento al secondo dopoguerra) ci piace ricordare soprattutto alcuni aspetti,
ma tendiamo a dimenticare, o non
conosciamo affatto, altre esperienze. Per quanto concerne
le pratiche musicali, nel jazz
delle origini c’è una grande
quantità di musicisti italiani,
insediatisi negli stessi quartieri in cui vivevano i musicisti
creoli: con questi condividevano gli spazi abitativi e numerose pratiche quotidiane e
cerimoniali, in un rapSimha Arom
porto di stretta contiguità-continuità; ciò vale anche per il jazz e
le prime testimonianze discografiche disponibili che documentano l’azione precoce di band costituite da europei «migranti»
in America: band di italiani (soprattutto meridionali, dal Molise alla Sicilia), band di italiani ed ebrei, di italiani e creoli; i musicisti migranti europei, i musicisti creoli e i musicisti afro-americani si ascoltavano reciprocamente e ne nascevano frequenti ibridazioni, alcune effimere, altre ben più stabili.
La conservazione della memoria passa certamente attraverso la documentazione. Quali sono gli strumenti
più efficaci in mano all’antropologia
attuale?
La questione è molto complessa, ed è difficile parlarne
in poche parole. Per quanto
concerne le pratiche musicali, spesso sono gli stessi etnomusicologi, sul terreno, a produrre i loro propri documenti. Su queste esperienze e, più
in generale, sulla documentazione sonora, proprio all’inizio di luglio, presso la Fondazione Giorgio Cini, abbiamo
tenuto un convegno internazionale dedicato agli archivi
sonori, con alcuni tra i migliori
«archivisti» e specialisti europei, da Roma, Venezia, Vienna, Berlino, Varsavia, Stoccolma. Le prospettive sono piuttosto fluide: alcuni tendono a
mettere in atto politiche di «archivio attivo», sostengono ricerche e alimentano una multiforme divulgazione; altri, invece, sentono con più forza il
«peso» dei servizi di impianto
(acquisizione, conservazione,
catalogazione, restauro, manutenzione, esposizione in sede, ecc.). Comunque, sono necessarie risorse, tempestività
e prudenza nell’attivazione e
conduzione dei processi tecnico-amministrativi, e si richiedono anche doti di grande fantasia e intelligenza da parte dei curatori e degli archivisti.
Dall’epica balcanica alle sonorità africane, tutti i momenti di studio sono
seguiti da veri e propri concerti. Quali sono i criteri di selezione di questi ospiti internazionali?
Il tema comune è la memoria, come regolatore dell’agire musicale, nelle cosiddette culture tradizionali: così è per i musicisti africani che si affiancheranno a Simha Arom, i quali agiscono elaborando e variando incessantemente modelli di azione
performativa incorporati (tradotti in memorie del corpo), e per
i cantori della polifonia çam albanese; altrettanto si può dire per
il lahutar Janus Delaj, testimone di una pratica di canto epico in
cui ogni interprete «ricorda», richiama e rievoca migliaia di versi, come un vero «Omero» vivente. Oltre a questo, ci saranno altri concerti e numerose occasioni di riflessione analitica (antropologica, musicologica e storico-culturale), in cui alcuni specialisti prestigiosi cercheranno di «sincronizzare» le memorie e le
pratiche attive dei musicisti con le fonti, le narrazioni, i testi e
le informazioni che consentono di «costruire» le storie. (l.m.) ◼
focus on / il corpo del suono
focus on — 17
il corpo del suono
18 — focus on
«Una musica al di là
delle etichette»
Giò Alajmo commenta
laBiennale 2009
C
e
l’impostazione di quest’edizione della Biennale, Luca Francesconi apre al blues e a diverse altre espressioni della musica e della cultura popolare. Chiediamo a Giò Alajmo, da molti anni critico del «Gazzettino», alcune considerazioni su questi intrecci.
focus on / il corpo del suono
oerentemente con le linee progr ammatiche
Philip Glass
In realtà non è corretto dire che questa è una novità. Sono cose che in passato sono sempre state fatte, magari mascherate sotto altre forme, per cui sono apparse un po’ meno evidenti. L’incrocio tra musica contemporanea popolare e colta è molto più frequente di quanto non si pensi,
anche perché spesso i linguaggi e la tecnologia sono molto affini. Per cui c’è un interscambio che dura da un sacco
di tempo. Mi ricordo quando – mi pare fosse il ’76 – sono
arrivati esponenti dell’avanguardia americana come Philip Glass o Steve Reich: quegli stessi compositori hanno
influenzato tante altre situazioni musicali, per esempio in
ambito rock. In quest’edizione della Biennale c’è comunque una forte ricerca del popolare avanzato. Il fatto stesso di aver invitato una leggenda del blues come il novantatreenne David Honeyboy Edwards è certamente il sintomo di un’apertura senza paraocchi a quelle che sono state
le diverse musiche del secolo passato.
Ma, andando per semplificazioni, quali sono secondo lei gli steccati
che dividono la musica contemporanea colta e il pop?
Innanzi a tutto il termine pop ha un’accezione tutta particolare. Anche nella musica pop esistono vari linguaggi e
varie forme. Si ritrova un pop che si avvicina all’arte e un
altro che è esclusivamente commerciale. Ma questo acca-
il corpo del suono
de spesso anche nella cosiddetta musica colta. L’osservazione da cui parte Luca Francesconi è semplice e allo stesso tempo innegabile: la buona musica è comunque trasversale, dunque attraversa tutti i generi e bisogna andarla a
cercare. Non è certamente data dalle etichette ma soltanto
dalla qualità della proposta. Facendo appunto delle semplificazioni un po’ azzardate, si può forse dire che la musica che proviene dal Conservatorio dà per scontato che
la tecnica sia patrimonio di tutti quelli che hanno studiato, e riserva grande attenzione al compositore. Mentre invece la musica popolare guarda molto di più all’interprete. È lui che fa propria la musica, la ricrea, la porta fino al
pubblico e fa da tramite, utilizzandola quasi come veicolo più che come qualche cosa da eseguire e da difendere
nella sua costruzione.
La reinterpretazione
è la base di quasi tutta
la musica rock. Il blues
consiste nel mettere a
disposizione dell’interprete una struttura-base su cui può improvvisare qualunque cosa e che consente oltretutto a qualsiasi musicista di inserirsi in quel
discorso, senza necessariamente sapere in
partenza quello che si
sta facendo: rientrando nello schema egli riesce comunque a dialogare con gli altri musicisti e a creare un linguaggio improvvisato che arriva al pubblico. Questa è la caratteristica peculiare del
rock, del blues e di tutte le forme che hanno
una struttura semplice
e un’ampia base d’improvvisazione. Poi certo nella musica rock possiamo scoprire una complessità compositiva straordinaria: se ascoltiamo Frank Zappa, i Genesis, gli Yes e anche tanta produzione attuale le difficoltà esecutive sono spesso notevoli, alla pari di quelle che ritroviamo in un certo tipo di musica colta o d’arte.
Luca Francesconi afferma che la musica contemporanea, come genere, non esiste. Condivide?
Sì, credo che se noi ci liberassimo dall’idea dei generi
saremmo molto più musicali, riusciremmo a guardare la
musica senza i paraocchi che sono stati creati negli anni.
Poco tempo fa ho letto una frase di Proust di cui non ricordo le parole esatte, ma il senso complessivo era questo: per vedere nuovi paesaggi non serve andare in nuovi posti, bastano nuovi occhi. Bisogna imparare a guardare con occhi diversi tutto quello che ci sta attorno. E
questo soprattutto nella musica, che ha creato una serie
di sovrastrutture dove spesso addirittura non conta più
la qualità di ciò che si ascolta ma solo il fatto di ascoltare quel particolare genere, che poi di fatto diventa rumore. Io sono convinto che esistano degli amatori del rumore delle orchestre sinfoniche e degli amatori del rumore
delle chitarre elettriche. La musica è un’altra cosa. (l.m.)◼
Gli italiani
dellaliiiBiennaleMusica
C
a cura di Leonardo Mello e Ilaria Pellanda
ome già in altre edizioni, abbiamo interpellato direttamen-
te i compositori italiani invitati dal Festival chiedendo a ciascuno
di loro di illustrare genesi e struttura del proprio brano in programma (alcuni dei quali sono prime esecuzioni assolute). L’ordine degli interventi segue il percorso cronologico della rassegna.
⚫ Mario Garuti
Cielo perso / Anima tersa, per quartetto d’archi (2009) – 10’
prima esecuzione assoluta
Quartetto Arditti
Teatro Piccolo Arsenale
26 settembre, ore 18.00
«Si tratta di una composizione ispirata al sonetto n. 19 di Shakespeare, Devouring Time, Blunt the Lion’s Paw. Parafrasando il commento di
Alessandro Serpieri a questo sonetto è evidente lo scontro tra il Tempo, con i suoi tratti distintivi della violenza e della fuggevolezza, e l’archetipo (pattern) della giovinezza, della bellezza, dell’amore. Il Tempo ha le ali e il suo aspetto più violento è proprio la sua fuggevolezza (fleet’st… carve… hours). Questo quartetto è una consequentia atletica
di pattern di forte impatto, ma
cangianti. Modelli che tendono a i mporsi all’inevitabile flusso metamorfico del Tempo,
ma inevitabilmente fuggevoli. Scrittura
atletica. Agone tra due scrittori: il Tempo
e il Compositore. Il primo
scrive dell’ineOslo Sinfonietta
luttabile decadenza e morte,
l’altro cerca di
sottrarre al flusso temporale la sua poesia, la sua ispirazione. Un escamotage per circuire il Tempo. Una irresistibile illusione. L’insopportabile ispirazione… un pendolo… un’oscillazione continua tra euforia e malinconia. Quando scrivo non penso alla Fine.»
⚫ Adriano Guarnieri
Lo spirito del vento, per ensemble di 11
esecutori (2009) – 13’
prima esecuzione assoluta
Commissione della Biennale di
Venezia
Oslo Sinfonietta
direttore Christian Eggen
Teatro alle Tese
26 settembre, ore 20.00
«Il tema è quello tragico degli emigranti, che viene richiamato dal
sottotitolo che ho scelto per questa
Quartetto Arditti
composizione: si tratta infatti di un Blues in memoria – Milano 2008, che
ricorda il drammatico episodio di quel ventenne che per una manciata
di biscotti venne massacrato a bastonate davanti alla stazione. Simbolicamente è uno dei tratti più degradanti della nostra vita e della disgregazione di una nazione. Sono andato alla ricerca di una poesia africana anonima che s’intitola Lo spirito del vento, dalla quale nasce un brano
dove, dopo una cadenza iniziale in cui c’è una sorta di piccolo, lontano
ricordo dei ritmi africani, a poco a poco ci s’inerpica verso una sorta di
lacerante aulodia per oboe. Non ci sono contaminazioni, non si tratta di un pezzo che fa allusioni ad altri linguaggi, e siamo invece sempre nel solco della mia poetica precedente. Si tratta di un brano esteso e lacerante, con melodie molto tese, soprattutto affidate all’oboe,
al violoncello, a strumenti che hanno una propria tensione interna di
timbro che ha una sua profonda dolenza. Alla fine della composizione c’è un rimando al blues, che simbolicamente rappresenta l’addio a
quest’anima africana che noi abbiamo massacrato per nemmeno un
piatto di lenticchie: per un biscotto. Dico “noi” perché è un caso che
fa veramente pensare in maniera tragica alla nostra cultura, che probabilmente ci siamo illusi si fosse diramata anche verso strati profondi e bassi della società, e invece questo non è ancora successo. Com’è
possibile arrivare a un tale cannibalismo? Lo spirito del vento è un lavoro
che ho scritto per la Oslo Sinfonietta, un brano tutt’altro che innocuo
nel presentare questa problematica interna. E lo fa senza l’ausilio di un
testo, basandosi invece unicamente sul suono: è lui a parlare in questo
caso. La costruzione del brano è per episodi che fanno rimando anche
a un passato che non è solo il nostro, e lo fanno con un linguaggio molto più terso rispetto a quella che era l’avanguardia di una volta, spigolosa e anche molto d’élite. Si tratta di un’autocritica necessaria, che dobbiamo fare non solo noi musicisti, ma anche i letterati, i filosofi, i nostri
poeti, pittori, scultori, la nostra scuola: ci eravamo illusi di aver costruito una potenza e invece accade che poi si possa scannare un ragazzo di
vent’anni. C’è
un capovolgimento di valori che bisogna
davvero effettuare. Si tratta di una nuova idea d’impegno per i nostri
giorni, perché
secondo me
l’impegno non
f inisce mai.
Dal canto suo,
il suono ha anche un rimando non tanto
a quella tematica specifica,
ma a nostalgie
passate e future: come lavorare in futuro per non sbagliare come s’è fatto in passato?
Questa è la sintesi del brano.»
⚫ Aldo Clementi
Concertino, per flauto, clarinetto, pianoforte, due violini, viola e violoncello (1999) – 10’
Sinopoli Chamber Orchestra di
Taormina Arte
direttore Pietro Mianiti
Teatro La Fenice – Sale
Apollinee
27 settembre, ore 17.00
«Si tratta di una composizione che scrissi nel ’99 e che venne eseguita in prima assoluta nello stesso anno al Festival di Asiago. La partitura è rimasta invariata nel corso del tempo. Concertino è,
focus on / il corpo del suono
focus on — 19
il corpo del suono
20 — focus on
come il titolo stesso suggerisce, un piccolo concerto, dove
tutti gli strumenti – i fiati, gli archi e così anche il pianoforte – hanno la medesima funzione: un canonico a
otto voci su un tema diatonico proprio.»
⚫ Giovanni Mancuso
focus on / il corpo del suono
July 19th or How to Establish a Second Republic Founded on the Blood of a State Massacre, per voce solista, sax concertante,
pianoforte, minimoog, electronium
e ensemble (2009)
25’, prima esecuzione assoluta
Commissione della Biennale di Venezia
testo di Salvatore Borsellino
il corpo del suono
⚫ Paolo Furlani
Suite da concerto da “Singin’ in the Brain”
(2000, ver. 2009) – 10’
prima esecuzione assoluta
Spectra Ensemble
direttore Filip Rathé
Teatro Piccolo Arsenale
28 settembre, ore 18.00
«L’occasione produttiva dell’opera Singin’ in the Brain mi venne offerta da
Salvatore Sciarrino (cui la partitura è dedicata), in occasione dell’allestimento nel
2000 all’Europa Festival di Ferentino
Sinopoli Chamber Orchestra di Taormi(Fr). Il progetto teatrale nato in collabona Arte
razione con Elena Barbalich (che ha cudirettore Pietro Mianiti
rato il libretto e la regia) è un libero adattamento da Reminiscenza di Oliver Sacks, un
reale caso clinico di epilessia musicale. Nel
Teatro Piccolo Arsenale
2005 al progetto originale si è aggiunto un
27 settembre, ore 17.00
altro libretto (Otono Shirabe tratto da Musica di
Yukio Mishima) che scandaglia in modo quaLa commissione della Biennale nasce un po’ di mesi
si opposto il rapporto tra musica e malattia. Il lifa, ma all’inizio Luca Francesconi aveva intenzione di ribretto attende di essere musicato, non appena si preprendere l’idea di Obra maestra (cfr. VmeD n. 19, p. 34). Poi però sono
senterà una possibilità di produzione.
sorti alcuni problemi di organico e allora ci siamo orientati in altre diLa Suite da concerto da “Singin’ in the Brain”, creata su invito di Luca Franrezioni. Da un po’ di tempo mi capita di interessarmi,
cesconi, ripercorre in quattro momenti musicali la vicenda
anche in ambito musicale, ai rapporti tra madell’opera:
fia e politica: ho scritto per esempio un
1) Nise O’Brian, irlandese di 57 anni, di notpezzo su Nicola Mancino e su quelte improvvisamente sente una canzone (la
la sua famosa dimenticanza
voce di Nise è ridisegnata nella parte di
dell’incontro con Paolo BorTromba);
sellino del 1 luglio 1992.
2) Nise si fa visitare dal dottor SaUn altro su Dell’Utri,
muel Riven, neurologo (la cui voce è
un altro ancora su Cufridisegnata dal Fagotto). In un’aria
faro: sono personaggrottesca il medico le diagnostica
gi molto «densi» che
un’epilessia musicale, prescrivenportano con sé molte
dole alcune medicine che la libeidee prolifiche per un
reranno dal suono ossessivo dellavoro di tipo comla canzone;
positivo. Rappresen3) sola nella sua stanza Nitano per me un filone
se
prende le medicine prescritte.
tragico molto fertile da
All’assunzione dei primi due medicui posso trarre numecinali, la canzone subisce delle deforrosi elementi interessanti.
mazioni, ma dopo il terzo farmaco, poIn questo contesto, frequenco a poco il canto da lontano si chiarisce,
Sino
r te
tando il sito di Salvatore BorselaA
poli C
per poi sparire per sempre, lasciando affiorare
hamber Orchestra di Taormin
lino, il fratello dei giudice ucciso, mi
– come in una dissolvenza incrociata – l’immagine
sono messo in contatto con lui, e ci siadi un ricordo lontano;
mo conosciuti, prima via e-mail poi di perso4) dopo un’ennesima visita dal medico (tagliata in questa Suina. Ecco dunque che mi è venuto in mente di scrivere un
te) Nise torna nella sua stanzetta dove si accinge a dormire. Tristissibrano su un suo testo preesistente, Lampi nel buio: Borsellino gira da
ma, rimpiange le scomparse sensazioni che la canzone le risvegliava: il
anni l’Italia come una trottola per parlare dei misteri che circondano
ricordo ritrovato, riemerso nitidamente, ora risulta muto, lontano, cola strage di via d’Amelio. Lo scritto è molto lungo, e ripercorre la strame un “freddo calco”.
ge fornendo appunto una sorta di lampi che squarciano il buio calato
La musica di tutta l’opera è costruita quasi come… una sonata bisu quei fatti. Questi lampi ti permettono di intravedere, attraverso dei
tematica:
da una parte la canzone irlandese “Plúirín na mBan Donn
brevi flash, qualche barlume di verità. Dato che il testo è un fiume in
Óg”, cantata in lingua gaelica, che ossessivamente perseguita la protapiena, più di quattro pagine fitte, ho pensato a una vocalità non lirica,
gonista. Dall’altra il neurologo, caratterizzato musicalmente dall’uso
qualcosa che fosse a metà tra un narratore e una cantilena, che stesse
grottesco, un po’ sadico, del Clarinetto piccolo. La sua musica è “spetin una zona media tra cantato e parlato. Qualcosa insomma che fosse
trale”, basata sugli armonici naturali del suono Do# (un omaggio a
semplice all’ascolto, ma che in realtà presumesse una complessissima
Gérard Grisey, la cui prematura scomparsa mi colpì fortemente,
struttura ritmica della voce, perché di fatto è un finto naturalismo voall’epoca della composizione dell’opera). La canzone irlandese parcale. L’interprete, il bravo cantante olandese Romain Bischoff, parte
la di un sogno d’amore, e forse per questo è stata rimossa dalla protacon poche note e durante questo racconto continuo raggiunge tutta la
gonista. Nella Suite da concerto il riaffiorare della canzone originale nelsua estensione. L’ensemble è composto da undici strumentisti, tra cui
la purezza del ricordo è affidato ad uno strumento “da lontano”, ma le
io stesso, e poi c’è Pietro Tonolo, un sassofonista solista di grande innote della sua melodia – con la presenza forte del tritono Mi Sib – satensità che svolge un ruolo di alter ego della voce. La lingua prescelta è
ranno sempre presenti, essendo state ripetutamente moltiplicate ed
l’inglese, perché desideravo utopicamente che questo componimenesplose all’interno della partitura, creando quindi un percorso inverto e la vicenda che tratta varcasse i confini italiani, perdipiù in una corso, dalle Variazioni al Tema. Nella scena finale il Tema, assente, sarà
nice internazionale come la Biennale: per questo ho affidato la tradusolo evocato, in negativo: il sordo calco vagheggiato da Nise.»
zione a Christina Pacella, che ha fatto un egregio lavoro.
focus on — 21
il corpo del suono
Gramigna, per cimbalom ed ensemble (2009)
Prima esecuzione assoluta
Spectra Ensemble
direttore Filip Rathé
Teatro Piccolo Arsenale
28 settembre, ore 18.00
«Il pezzo, per cimbalom ed ensemble, nasce soprattutto per ragioni d’amicizia con quello che è il solista di questa composizione, Luigi
Gaggero, un virtuoso del cimbalom, con il quale ho già lavorato in almeno tre occasioni. In questo lavoro Gaggero ricopre dunque il ruolo del protagonista. Il cimbalom per me è stata una scoperta fondamentale: si tratta di uno strumento un po’ desueto, collocato ai margini dell’Europa che, forse per il suo aspetto folcloristico, è considerato in genere meno nobile rispetto ad altri strumenti. Ma lavorando insieme a Gaggero ho potuto realizzare la possibilità di utilizzarlo in un
modo molto più esteso, rinnovando completamente le modalità tecniche ed espressive. Viene usato infatti in vari modi, non solo con le
sue tipiche bacchette, ma anche con quelle di altri strumenti a percussione, o pizzicandolo con le dita; gli armonici sono molto belli e inoltre per via dei ponticelli mobili e dei due che sono ai lati dello strumento, quasi una serie di mini cimbalom, c’è la possibilità di raggiungere
estensioni molto particolari e una tavolozza molto ampia di colori. Il
cimbalom in questo lavoro è dunque solista, ma non in senso classico:
non c’è infatti, ad esempio, una frase proposta dal cimbalom che
venga poi replicata dall’orchestra in un rapporto dialettico, ma si tratta piuttosto di un paesaggio sonoro nel
quale il protagonista si trova a viaggiare. Molto
spesso gli strumenti dell’ensemble si uniscono a colorare le sonorità del cimbalom, ma
lo strumento rimane una sorta di vagabondo che si trova nel paesaggio creato dalle sonorità dell’ensemble. La
forma è un po’ rapsodica e ha a che
fare proprio con il tema del viaggio:
dei frammenti che saranno presentati o come pezzo unico o come delle miniature.»
⚫ Giovanni Verrando
Sottile, versione per orchestra da
camera ed elettronica (1996-97, rev.
2009) – 12’
prima esecuzione assoluta
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
direttore Zoltán Peskó
Teatro alle Tese – Arsenale
28 settembre ore 20.00
«Ho scritto Sottile nel 1996-1997, su commissione dell’Ircam di
Parigi.
Sottile, per orchestra da camera ed elettronica, è rappresentativo della mia prima fase compositiva, nella quale ho sviluppato le forme come una successione di campi armonici.
Fino al 2006 ho infatti scritto brani che si fondavano su successioni di accordi; era una grammatica che mi consentiva di costruire dei
punti d’appoggio, per le scelte strutturali e per l’ascolto. Con la selezione delle note degli accordi, individuavo ad esempio delle altezze “vere” (quelle all’interno dell’accordo) e “false” (tutte quelle estranee), diverse per ogni sezione. E la stessa selezione mi permetteva di focalizzare le sezioni del brano, sfruttando a volte la diversa complessità degli
accordi e il numero di altezze presenti.
Da qualche anno invece scrivo più direttamente nello spettro, equiparando suono e rumore, armonico e inarmonico, ordine e disordine. Ma questa è un’altra storia.
I suoni elettronici in Sottile sono un’elaborazione degli stessi campi
armonici prodotti dall’orchestra, e si mescolano a essa nel modo più
discreto possibile, sottolineandone il lato spettrale inarmonico.
Poiché nella mente ho spesso immagini diverse che coniugano una
stessa idea musicale, mi capita di dividere i brani in movimenti. Così è Sottile, distinto in tre parti. L’ultima di queste è un omaggio a Joseph Brodskij, e il sottotitolo, “Quasi un’elegia”, è estratto da uno dei
suoi poemi.
Delle due versioni di Sottile (per ensemble o per orchestra da camera)
a Venezia è presentata la seconda, già registrata su cd nel 2007 dall’Orchestra Rai, e alla Biennale in prima esecuzione assoluta dal vivo.»
⚫ Fabio Nieder
Lieder von der Liebe zur Erde, per soprano e due orchestre (19962006, rev. 2009) – 10’
prima esecuzione assoluta
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
direttore Zoltán Peskó
Teatro alle Tese – Arsenale
28 settembre ore 20.00
«Si tratta di due Lieder ai quali va ad aggiungersene un terzo: una
composizione nella quale il primo Lied torna indietro nel tempo e
proprio per questo, in realtà, i Lieder sono due. Il primo s’intitola O
Erd, su testo di Hölderlin, e l’ho scritto
nel ’95, quindi sono passati ben
quattordici anni dalla sua
composizione; qualche anno fa, poi,
ho scritto il
secondo
Lied, una
composizione
per voce sola per
Barbara
Hannigan. O
Erd è stato
cantato dalla Hannigan in
una versione per voSpectra Ensemble
ce e pianoforte. Ho quindi pensato di scriverne una
sorta di continuazione ed è così nato un
Lied su testo di Rilke che ho intitolato Verwandlungslied, che significa
“Canto della trasformazione” e che è collegato al primo. A questa seconda fase ne è seguita una terza: Barbara e io abbiamo realizzato, per
puro caso proprio a Venezia, un concerto con Lieder di Schumann,
Hugo Wolf, ecc. e in questa occasione ho composto una parte di pianoforte al secondo Lied che avevo scritto per voce sola per Barbara. E
poi ho concluso il tutto. Tre anni fa, quando abitavo ad Amsterdam,
ho realizzato una nuova versione, nella quale ogni Lied viene compreso nella sonorità di un’orchestra pensata come grande contenitore sonoro. Ho così deciso di utilizzare due orchestre, una acuta e una bassa
– infatti questi due Lieder sono il primo acuto e il secondo basso, profondo – e scrivere per questi due organici in modo che ogni orchestra
fosse il contenitore della forma liederistica. Ho aperto anche il secondo Lied, che rispetto alla versione per voce e pianoforte è quindi più
lungo: è tratto, come dicevo poc’anzi, dalla Nona Elegia di Rilke, rielaborata da me in maniera un po’ libera, e la domanda è quella della trasformazione della terra che rinasce in noi invisibile. Alla fine c’è una
interrogazione sull’esistenza, sull’essere, e nel terzo Lied, che ho intitolato semplicemente Was?, cioè “Che cosa?”, la voce solamente domanda, mentre l’orchestra ritorna indietro al primo Lied. Alla fine rimane unicamemente la voce, come abbandonata, e il pezzo si conclude in una sorta di risonanza lontana e invisibile creata da tre violini.»
focus on / il corpo del suono
⚫ Stefano Gervasoni
22 — focus on
il corpo del suono
⚫ Giorgio Magnanensi
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.
…per essere fresco, per violino e pianoforte preparato (2004) – 8’
violino Silvia Mandolini
pianoforte Brigitte Poulin
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ‘l pozzo e ‘l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
focus on / il corpo del suono
Teatro Piccolo Arsenale
29 settembre, ore 18.00
Quale, dove per guardia delle mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
«Si tratta di una composizione dedicata a Silvia Mandolini e Brigitte Poulin ed è stata scritta
con il supporto del Canada Council for the Arts.
tale imagine quivi facean quelli,
Br igitte Poulin
Il mio lavoro aspira a una sorta di “ineloquenza”
e
come
a tai fortezze da’ lor sogli
priva di qualsiasi urgenza di comunicare alcunché. Se
a la ripa di fuor son ponticelli,
qualcosa si esprime è carattere-essenza più che intenzionalità, energia più che attività.
…per essere fresco è stato scritto pensando alle qualità musicali di Silvia
così da imo de la roccia scogli
e Brigitte e al loro virtuosismo. Un virtuosismo di collaborazione, in
movìen che ricidìen li argini e’ fossi
cui la scrittura si appaga delle possibilità di esistere nelle mani di artisti
infino al pozzo che i tronca e racco’gli.»
(loro sì) veramente eloquenti.
È un capriccio, un flusso di trame variegate in cui l’ornamento
(Dante Alighieri, Inferno, Canto XVIII, vv. 1-18)
esalta continuamente le sue proprietà nascoste e ricorsive.
L’ornamento – come attributo della creatività – prolifera e si manifesta come molteplicità, differenza, di⚫ Franco Venturini
ventando infinitamente relativo in una gesticolazione in cui suoni e figure rivelano il processo seErodìa, per due viole ed elettronica
quenziale della loro creazione come pura cro(2009) – 9’
nologia dell’invenzione.
La comunicazione musicale esiste a un liFontanaMIXensemble
vello puramente emozionale, l’emozionalità
direttore Francesco La Licata
è immanente, l’espressione è definitivamente legata all’istante, l’istante è imprescindibilTeatro alle Tese
mente trascendente.»
⚫ Marino Baratello
Divina Commedia – VIII Cerchio: Malebolge, per
pianoforte (2004-2007) – 42’, prima esecuzione assoluta
violino Silvia Mandolini
pianoforte Brigitte Poulin
Teatro Piccolo Arsenale
29 settembre ore 22.00
«Divina Commedia – VIII Cerchio: Malebolge è un ciclo pianistico – che viene eseguito per la prima volta a Venezia nella sua interezza – ispirato alle dieci Malebolge dantesche. È suddiviso in nove
pezzi, ognuno dedicato a una bolgia, considerando che il primo
ne descrive due, e basato su un
sostanziale polistilismo. La
scrittura, brillante, virtuosistica, è improntata a un uso decisamente ritmico-percussivo
del pianoforte, lontano quindi dalla tradizione romantica che
ne costituisce il carattere più tipico. Il clima
generale è tendente al
tragicomico e implicitamente drammaturgico».
«Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
30 settembre, ore 18.00
«Questa composizione ha avuto una genesi abbastanza lunga: la prima idea prese forma
nel 2005, quando cominciai a pensare alla realizzazione di un brano per strumento solo. In particolare in quel periodo avevo una speciale propensione per
gli archi. La prima stesura nacque infatti per violino. Il passaggio
alla viola è avvenuto in seguito, dettato dal fatto che la mia ricerca si
basa, in generale, a partire dallo strumento: le idee musicali, in questo caso specifico, mi sono venute proprio dallo strumento, dalle sue
qualità fonico-tecniche, dalle possibilità articolative e soprattutto di
trasformazione timbrica del materiale sonoro attraverso le tecniche
strumentali. Il colore della viola mi ha attirato di più rispetto a quello del violino:
si è trattato infatti della ricerca di un diverso timbro,
di un suono differente. Nel 2007
stesi dunque
una nuova
versione
del pezzo per
viola.
In seguito ho
sentito
la necessità di ingrandire le qualità timbriche e
i gesti strumentali
che avevo utilizzato a
livello percettivo, psicoloai
Orchestr
a Sinfonica Nazionale della R
Silvia Mandolini
gico. Ho lavorato con gli strumentisti per riuscire ad avere una panosima del contrabbassista. D’altro canto esiste anche l’opposto: un ricoramica delle possibilità dello strumento, anche in relazione alle evochet (vale a dire un passaggio rapido e ripetuto dell’arco su tre corde - I
luzioni delle tecniche contemporanee. Ho così potuto operare delle
- II - III - II - I -... e così via) produce un pattern sonoro che, se protratto
scelte specifiche in relazione a quella che era la mia idea,
nel tempo, diventa un oggetto immobile, che non subialla quale s’è aggiunta la necessità di dare una
sce nessuna evoluzione.
forza maggiore a livello acustico-percetLa sfida era di passare dal primo tipo di
tivo a questi gesti strumentali: ci soimmobilità al secondo tipo, e il risulno gesti che si trasformano a litato è stata la composizione di
vello microscopico, dall’inTau.
terno, cambiano delle quaInoltre ho cercato di intelità più intrinseche. Ho
grare nel concetto di imdeciso di aggiungere
mobilità anche gli altri
il secondo strumenparametri della comto, non inteso però
posizione, come ad
come un altro struesempio le altezmento. La seconda
ze impiegate – che
viola, infatti, non
sono esattamencrea con la prima
te il bicordo di arun rapporto dialomonici la-si. Quegico come lo si può
sto bicordo è tecniintendere nel duo in
camente ottenibisenso classico, dole sia diteggiando tave gli strumenti venli note vicino al manigono utilizzati in moco del contrabbasso, sia
do dialettico e cercano
diteggiandole verso la fiun rapporto che possa prene dello stesso (proprio nei
vedere la gerarchia dell’uno o
pressi del ponticello). Ciò mi
dell’altro e poi la loro unione. La
ha suggerito anche un percorso
mia idea nasce infatti per strumento
preciso della mano del contrabbassolo, e le due viole vanno comunque intesista
sul manico, che dall’alto scende proFontanaMI Xensemble
se come corpo unico, un’unica entità all’intergressivamente verso il basso, ottenendo in pratino della quale le mutazioni intrinseche possono essere
ca gli stessi identici suoni.
portate a livello esterno in maniera più evidente: ho cercato di portaIn fin dei conti la forma del pezzo è quella di un tracciato, una linea
re a livello macroscopico quello che inizialmente avevo realizzato per
chiara che conduce da un luogo di azione strumentale a un altro, ma
uno strumento. Anche l’ulteriore uso dell’elettronica è stato pensato
che mantiene un’unità di fondo per tutta la durata del tragitto.
in questo senso: non si tratta di un valore aggiunto o di un’altra dimenLe percussioni (un vibrafono e due piatti suonati con gli archetti –
sione, non è qualcosa che va a concorrere a creare una dialettica fra due
come una mimesi del gesto contrabbassistico) invece hanno la funziopiani differenti, bensì aiuta a portare a livello esterno gli elementi inne di amplificare i suoni del contrabbasso, evidenziandone o distorterni. L’elettronica aiuta lo strumento – le due viole – a portare in evicendone alcune componenti (come il fruscio dei crini sulle corde e le
denza le sue qualità intrinseche.
risonanze della cassa armonica).»
Per quel che riguarda il titolo, Erodìa, lo si potrebbe tradurre con
“Canto d’amore”. Si tratta di un titolo inventato partendo da due paro⚫ Nicola Evangelisti
le greche che esprime un’idea legata a un vissuto personale e psicoloCroon II, per flauto e violoncello (2009) – 9’
gico. Il titolo in greco vuole alludere a una dimensione altra, non celeprima esecuzione assoluta
brativa di uno stato psicologico ed emotivo come può essere quello legato al sentimento amoroso.»
⚫ Andrea Sarto
FontanaMIXensemble
direttore Francesco La Licata
Tau, per contrabbasso e percussioni (2008) – 6’
prima esecuzione assoluta
Teatro alle Tese
30 settembre, ore 18.00
FontanaMIXensemble
direttore Francesco La Licata
«Il titolo Croon II presuppone ovviamente un altro Croon, un brano che ho scritto nel 1992. Si tratta anche in quel caso, come in questo, di un pezzo per flauto e violoncello e ho dunque riutilizzato il titolo per somiglianza timbrica. Ma c’è di più, perché questo titolo fa riferimento a una sorta di canto sommesso, di cantilena. Il croon era anche una tipica vocalità dei cantanti americani sentimentali che cantavano con un’inflessione della voce caratterizzata da piccoli glissati, da
piccoli portamenti espressivi, e il brano precedente prendeva le mosse ed era tutto incentrato appunto su questi piccoli glissati affidati in
particolare al flauto.
L’idea iniziale era quella di riprendere anche in Croon II questo tipo
di struttura, e quindi basarsi su un elemento melodico che è una sorta di piccola, lieve oscillazione microtonale o semitonale (e in seguito
anche più ampia) da cui tutto trae origine. Questa piccola oscillazione di una frequenza è l’elemento generatore e potrebbe indurre a pensare che Croon II sia un brano dal carattere dolce, melodico, con un ritmo piuttosto calmo: una sorta di canto sospeso che presenta un’idea
del tempo sospesa, dilatata.
In realtà poi, nella realizzazione compositiva, è prevalsa una scrittura molto intensa e vibrante: Il croon si trasforma rapidamente in strutture molto tese e plastiche che giungono progressivamente a un culmine molto forte. In questo percorso i due strumenti suonano sempre
Teatro alle Tese
30 settembre, ore 18.00
«Tau è originariamente un pezzo per contrabbasso solo in cui ho focalizzato l’attenzione sulla relazione che esiste fra il gesto strumentale
– vale a dire tutto il complesso di azioni fisiche che lo strumentista utilizza per suonare il proprio strumento – e l’oggetto musicale che viene prodotto da esso.
Infatti mi sto chiedendo, sia musicalmente che compositivamente,
che cosa sia un gesto musicale e per ora ho distinto due aspetti: la componente fisica-muscolare di chi suona e l’oggetto sonoro che viene
prodotto da tale azione. Il gesto musicale è scomponibile in parti solo per motivi di studio e di analisi, ma in realtà è un’unità di azione e di
suono indivisibile.
In Tau ho cercato di studiare l’immobilità di un oggetto sonoro, vale
a dire l’assenza di un suo cambiamento nel trascorrere del tempo. Così
ho associato all’immobilità del suono l’immobilità di un gesto: un suono lungo e costante di corda vuota viene prodotto da un’arcata lentis-
focus on / il corpo del suono
focus on — 23
il corpo del suono
24 — focus on
il corpo del suono
in maniera continua, senza una vera alternanza di momenti destinati
all’uno o all’altro: entrambi sono sempre concertanti. Tra i due c’è un
rapporto dialettico e dialogico molto stretto: il primo completa sempre il secondo e viceversa. Ci troviamo quindi di fronte a un brano che
tende ad avere una tensione forte e costante, fino al culmine centrale, oltre il quale si può recuperare la situazione iniziale: in questo modo il vero croon si manifesta soltanto al termine del brano: una sorta di
rivelazione finale.»
⚫ Francesco La Licata
Okeanos, per pianoforte e percussione (2009) – 7’
prima esecuzione assoluta
FontanaMIXensemble
direttore Francesco La Licata
focus on / il corpo del suono
Teatro alle Tese
30 settembre, ore 18.00
«Nella notte dei Titani, Okeanos è “il fiume da cui tutti discendono”, circonda il mondo e cinge l’universo in forma di serpente. Dunque l’Okeanos delle mitologie cosmologiche dell’antica Grecia è molto più di Oceano, è anima delle origini ma anche fluido confine che separa lo spazio dei vivi dal regno dei morti.
In fondo a queste immagini arcaiche in cui domina il Caos (nel senso antico del termine), nella forza circolare dell’onda infinita di Okeanos, a tratti anche nelle sue maestose caratteristiche di lontananza e
silenzio, nasce un’idea musicale profonda e fluente che si autogenera,
dando vita a diversi accadimenti sonori. Un universo sonoro dinamico in cui spazio e tempo, timbro e armonia, micro-fonico e macro-fonico sono integrati in un’unica entità multivalente.
Se la scrittura pianistica è il motore di questa circolarità del tempo
che fa fluire una serie di fenomeni acustici, le risonanze della percussione hanno il ruolo di amplificarli in una ciclicità dello spazio.»
⚫ Paolo Aralla
Analogie: secondo quaderno, per violino, clarinetto basso ed elettronica (2009) – 11’
prima esecuzione italiana
FontanaMIXensemble
direttore Francesco La Licata
Teatro alle Tese
30 settembre, ore 18.00
Pietro Tonolo
«L’interesse prevalente
nel mio fare compositivo
è quello che indaga il rapporto con l’aspetto più fisico del comporre: la scrittura è un annotare, un mettere su carta quelle che sono delle idee mentali quanto
si vuole, ma estremamente
concrete dal punto di vista
dell’aspetto materico, fonico del suono. C’è poi
un altro aspetto che
da un po’ di tempo a questa parte mi sta coinvolgendo: dal
2005 collaboro con un coreografo, Luca Veggetti, con
il quale abbiamo realizzato diversi progetti. Da questa esperienza scaturisce una buona
quantità di idee per quan-
to riguarda l’aspetto che riguarda il pensare il tempo musicale e poi il
metterlo su pagina. Veder lavorare i danzatori con il coreografo, che
di fatto non può notare la sua partitura ma la passa attraverso il fare in
un rapporto molto pratico con l’esecuzione, mi stimola molto a pensare all’aspetto della concretezza del suono, come se fosse quasi visibile oltre che udibile. Il pezzo che presento alla Biennale propone un
rapporto molto stretto fra i due strumenti dal punto di vista ritmico e
timbrico, un mescolarsi, un trovare un punto di fusione molto forte:
non sono due strumenti che fanno musica insieme, ma sono l’espressione di un unico corpo sonoro che si incarna in queste due entità acustiche in fortissima simbiosi. Altro aspetto importante è quello elettronico, che non fa altro che approfondire lo studio di quella che è la
portata sonoriale dell’evento acustico. L’utilizzo dell’elettronica non
è da intendersi come apporto esterno, ma come potenziamento delle
possibilità insite negli strumenti acustici. L’elettronica ha per me un fascino particolare, è una sorta di situazione ideale per ascoltare di più e
meglio quello che gli strumenti hanno come grande potenzialità, cercando quindi di essere il più possibile interna alla natura fonica degli
strumenti stessi.»
⚫ Filippo Perocco
Altri corti, per orchestra (2007) – 10’
prima esecuzione italiana
Mitteleuropa Orchestra
direttore Fabián Panisello
Teatro alle Tese
2 ottobre ore 18.00
«Il brano programmato in prima italiana dalla Biennale Musica
2009 è il quinto di sei lavori orchestrali composti dal 2000 ad oggi. Altri corti è stato scritto nel 2007 ed eseguito in prima esecuzione assoluta
a Metz (Francia) dove ho potuto lavorare per una settimana con l’Orchestre National de Lorraine, durante il festival Acanthes. Il lavoro è
stato scritto nella primavera/estate del 2007 mentre stavo componendo sottile e pallida ruggine, brano per ensemble commissionatomi dalla
Biennale 2007.
Da anni sono affascinato dal concetto di detrito e maceria (elementi
che al loro interno possiedono l’essenza e la complessità di qualcosa di
più grande che non si vede nella sua interezza) e dall’operazione di erosione (operazione che spesso applico sul mio materiale e sulle pagine
di altri autori durante la fase di ricerca e di studio). Seguendo la struttura di Corti e di varia ricreazione, un lavoro scritto nel 2005 per l’esordio
dell’ensemble L’arsenale (di cui torneremo a parlare nel prossimo numero di VmeD, ndr.), ho deciso di realizzare per il nuovo lavoro orchestrale cinque frammenti basati su semplici figure e gesti musicali. Una
serie di cinque miniature (corti) per orchestra dove lo stesso elemento viene manipolato come un unico oggetto-materiale visto da angolazioni diverse e presentato attraverso processi di erosione distinti.
Pochi intervalli, limitati range armonici, suoni e fade microtonali
prolungati.
Coesistono in sostanza due gesti musicali primitivi, la frenesia e la calma, il punto e la linea. Ogni miniatura può essere dunque considerata una sorta di maceria e rovina.
Ogni breve frammento non ha
titolo: primo, secondo, terzo-interludio, quarto, quinto possono
essere eseguiti seguendo l’ordine prestabilito dal direttore. Eccezion fatta per terzo che
deve fungere da interludio.» ◼
Romain Bischoff
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Focus on - Euterpe Venezia