Meditazioni filosofiche
SOCRATE: L’UMANITÀ COME PROFESSIONE
che vi dica la verità – la mia esperienza fu davvero questa: a me, che indagavo per il dio, coloro che godevano di una migliore reputazione
sembrarono quasi i più carenti, mentre quelli che passavano per inferiori
risultarono uomini più dotati di discernimento. Occorre, allora, che vi
esponga la mia peregrinazione, cioè la storia delle fatiche che ho affrontato per corroborare l’oracolo. Dopo essere stato dai politici, mi rivolsi
ai poeti, ai compositori di tragedie, [22b] di ditirambi e di altri generi,
per cogliermi sul fatto come più ignorante di loro. E prendendo in mano i lavori che mi sembravano meglio composti, andavo chiedendo ai
loro autori che cosa volessero dire, anche per imparare qualcosa. Cittadini, mi vergogno a dirvi la verità, ma lo si deve pur fare: sulle loro
composizioni quasi tutti i presenti ragionavano meglio di loro. Così, di
nuovo, mi resi subito conto che i poeti non fanno ciò che fanno per sapienza, [22c] ma per una qualche disposizione naturale (physei) e come
divinamente ispirati (enthousiazontes), alla maniera dei profeti e dei veggenti: anch’essi, infatti, dicono molte cose belle, ma non sanno nulla di
ciò che dicono. Anche i poeti – mi divenne chiaro – sono soggetti a una
esperienza simile; nello stesso tempo mi accorsi che essi pensavano, per
la loro poesia, di essere i più sapienti degli uomini anche sul resto, ove
non lo erano. Così me ne andai anche da là ritenendomi superiore a loro
proprio come lo ero nei confronti degli uomini politici.
VIII. Per finire, andai dagli artigiani (cheirotechnes): (19) [22d] io stesso,
infatti, ero consapevole di non sapere quasi nulla, ma avevo avuto modo
di apprendere che li avrei trovati esperti in molte cose belle. E in questo
non mi ero ingannato, perché essi sapevano cose che io non sapevo e
così erano più sapienti di me. Tuttavia, cittadini ateniesi, mi sembrò che
anche gli artigiani bravi incorressero nello stesso errore dei poeti: ciascuno di loro, dal momento che lavorava bene nell’ambito della sua arte
(téchne), si stimava molto esperto anche in altre importantissime questioni e questa stonatura (plemméleia) tendeva a nascondere la loro sapienza. [22e] Allora interrogai me stesso, per conto dell’oracolo, chie-
«VI [21b] […] Io infatti, udito il responso dell’oracolo, feci questa riflessione: “Che cosa vuol dire il dio? Che cosa nasconde il suo parlare
enigmatico? Sono consapevole di non essere affatto sapiente: che cosa
intende, allora, dichiarando che sono il più sapiente? Egli certo non
mente, perché non può.” Rimasi per molto tempo in dubbio su quanto
detto dal dio. Poi, con riluttanza, mi volsi a una ricerca di questo genere:
mi recai da qualcuno di quelli ritenuti sapienti, per [21c] confutare
l’oracolo e dimostrargli proprio lì “Questo è più sapiente di me, mentre
tu dicevi che il più sapiente ero io.” Esaminandolo con cura e discutendo con lui – non occorre far nomi, ma colui dal quale ebbi questa impressione, cittadini ateniesi, era un uomo politico – mi sembrò che
quest’uomo apparisse sapiente a molti altri e soprattutto a se stesso, ma
non lo fosse. Perciò cercai di dimostrargli che si riteneva sapiente, ma
non lo era. [21d] E così diventai odioso a lui e a molti dei presenti. Ma,
andandomene, pensai fra me e me: “Sono più sapiente di questa persona: forse nessuno dei due sa nulla di buono, ma lui pensa di sapere qualcosa senza sapere nulla, mentre io non credo di sapere anche se non so.
Almeno per questo piccolo particolare, comunque sia, sembro più sapiente di lui: non credo di sapere quello che non so.” Mi recai poi da un
altro di quelli che passavano per sapienti e [21e] ne ebbi la stessa impressione, e divenni odioso a lui e a molti altri.
VII. E continuai ad andare dall’uno all’altro: mi rendevo conto, con
amarezza e timore, di essere odioso, ma mi sembrava necessario trattare
ciò che concerne il dio come cosa della massima importanza. Per questo
era doveroso recarsi, per esaminare il senso dell’oracolo, proprio da tutti
[22a] quelli che sembravano sapienti. E per il cane, Ateniesi, – bisogna
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dendomi se preferissi essere come sono io, né sapiente alla loro maniera,
né ignorante al loro modo, oppure come sono loro. E risposi a me stesso e all’oracolo che mi andava bene essere come sono».
i veggenti e i profeti, strumenti, veicoli di una sapienza che a loro risulta
oscura più che agli altri; ma il guaio è che pensano, «per la loro poesia,
di essere i più sapienti degli uomini anche sul resto», mentre non lo
Platone, Apologia, traduzione di Maria Chiara Pievatoloi.
R
sono affatto. Quanto ai tecnici, competenti in particolari settori (fra essi
vanno annoverati anche gli scienziati: la téchne è la capacità, manuale o
acconta Platone che Socrate, dall’oracolo indicato come il più
intellettuale, di operare secondo regole, e l’epistéme ne è un componente
sapiente fra gli uomini, conscio della propria ignoranza e
teorico), Socrate riconosce che posseggono un effettivo sapere, ma fa
fedele alla sua abitudine di non prendere per buona nessuna ‘verità’ di
rilevare che questo possesso li porta non di rado a credere di essere
cui non fosse convinto, volle di-mostrare che l’oracolo si sbagliava (o,
competenti in tutto e a parlare con presunzione anche di ciò che non
meglio, volle capire che cosa propriamente significasse-ro le parole della
sanno. Questa plemméleia (questa stonatura, questo debordare) finisce
Pitia). Decise dunque di recarsi «da qualcuno di quelli ritenuti sapienti,
così con l’oscurare anche la loro sapienza, che di fatto è relativa,
per con-futare l’oracolo e dimo-strargli proprio lì ‘Questo è più sapiente
limitata, e viene presa invece per assoluta.
di me, mentre tu dicevi che il più sapiente ero io’» (Apologia, 21c–d); o,
Trascurando la funzione specifica che è loro assegnata nell’Apologia,
altrimenti, per capire che cosa volesse dire la Pitia affermando che
queste considerazioni sono un richiamo alla consapevolezza dei limiti
nessuno era più sapiente di lui.
del sapere umano in genere e del proprio in particolare. In ogni campo e
In Atene passavano per sapienti anzitutto i politici, ma anche i poeti
per più versi le conoscenze dell’uomo sono limitate, e quanto minore è
e i tecnici, e Socrate li interpella in successione. Come va a finire è cosa
la consapevolezza di ciò tanto più gravi sono gli errori in cui si può
nota. Liquida seccamente i primi: credono e fanno credere di sapere ma
incorrere e più pesanti le conseguenze: la presunzione è il primo
non sanno; in realtà hanno meno discernimento dell’uomo comune. Dei
pericolo dal quale ci si deve guardare. Le considerazioni socratiche
secondi riconosce che «dicono molte cose belle» ma senza averne
sono, dunque, un colpo d’occhio rapido e penetrante su alcune forme
effettiva consapevolezza: in sostanza sono degli ‹‹entusiasti››, sono, come
tipiche, fra le più comuni e pericolose, di tale presunzione: quella del
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politico, quella del poeta e quella del tecnico/scienziato.
L’esito ultimo è la chiarificazione del significato della formula
socratica ‹‹sapere di non sapere››, che non sta certamente a indicare la
consapevolezza autocontraddittoria di una totale ignoranza ma il dovere
di non superare i limiti di ‘competenza’. In particolare, potremmo dire
oggi, sta a indicare il dovere dei ‹‹tecnici›› di non trarre conclusioni
avventate dalle loro conoscenze, in quanto tali affatto rispettabili,
ricordando che l’autorevolezza dell’uomo di scienza può conferire un
alone di verità anche a opinabili tesi di natura extrascientifica. E poi il
dovere del poeta, e dell’artista in genere, di non incorrere in un analogo
falso, riverberando la ‘luce’ dell’arte su considerazioni attinenti ad ambiti
affatto diversi. E, infine, il dovere del politico di non risolversi
nell’ideologo arruffapopoli, troppo sicuro di tutto, e di cercare invece di
valorizzare il comune patrimonio umano della capacità discriminante e
del senso della giustizia, che è probabilmente, per Socrate e per Platone,
il punto archimedico su cui dovrebbe poggiare l’esistenza.
Come nella ‘classe’ dei tecnici sono inclusi gli scienziati, così, va
precisato, in quella di poeti rientrano gli spiriti religiosi (nell’Apologia i
poeti sono espressamente avvicinati ai veggenti e ai profeti), e in quella
dei politici gli etici: a differenza del demagogo, che è un cattivo politico,
il buon politico è animato da fondamentali istanze etiche. Nel Gorgia
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(504 ss.) Socrate, l’etico per eccellenza, sostiene che fare buona politica
l’imbonimento ma attraverso il ben fondato argomentare dialogico, è la
significa rendere migliori gli uomini, e che per renderli migliori bisogna
‘professione’ specifica dell’uomo. Ad essa Socrate si è dedicato con lucida
prendersi cura delle loro anime; sempre nel Gorgia (521d) Platone gli fa
passione e, senza farsi intimidire dalle conseguenze che questa ‘arrogante’
dire: «Credo di essere uno dei pochi ateniesi, per non dire l’unico, che
verità gli avrebbe procurato, davanti ai suoi giudici si è detto convinto di
pone mano alla vera arte politica, e l’unico fra i contemporanei che la
meritare, per il suo impegno, di essere mantenuto a vita nel Pritaneo a
esercita››.
spese dello stato (Apologia, 36c–37a).
È infatti a questo livello etico-politico che si situa la proposta socratica.
ALBERTO SICLARI
La ragione umana, come risulta anche dal procedimento seguito
nell’Apologia, è una ragione dialogica assieme demistificante e costruttiva. La
critica della presunzione, nelle sue varie forme, è per altro verso un
riconoscimento dei valori specifici, se correttamente intesi, dei diversi
ambiti, ed è quindi anche effettivo impegno per edificare assieme una polis
ben ordinata (fortunatamente l’uomo comune, come si dice nell’Apologia,
22a, spesso dimostra di aver più discernimento di chi va per la maggiore).
Lo smascheramento dell’ignoranza arrogante dei cattivi politici non
significa il rifiuto della politica ma, al contrario, il riconoscimento che essa è
il livello più comprensivo e delicato dell’esistenza umana, dove devono farsi
valere, al di là delle competenze professionali (‹‹tecniche››) e delle doti
‹‹poetiche››, che non sono affatto negate ma soltanto restituite e ‘ristrette’ ai
OPERA RIPRODOTTA DI MASSIMO VIOLI
loro ambiti specifici, le ‘competenze’ dell’uomo in quanto tale. L’esercizio
della «vera arte politica», che ha carattere etico e si sviluppa non attraverso
i
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www.swif.uniba.it/lei/personali/pievatolo/platone/apologia1.htm
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