Il gusto del nuovo BRUNO CARTOSIO IL GUSTO DEL NUOVO: LA “NEW NEW YORK” DEL PRIMO NOVECENTO All’inizio del Novecento, Parigi e le sue scuole d’arte sono una meta irrinunciabile per gli artisti statunitensi. Non tutti riescono a rompere il guscio dell’insegnamento accademico, ma alcuni di loro vengono toccati dalla rottura rivoluzionaria dei fauves e del cubismo. Spesso con l’intermediazione di Gertrude Stein, la quale, a Parigi dal 1904, è diventata la sacerdotessa dell’avanguardia, entrano negli ateliers e conoscono di persona gli innovatori. Il reticolo dei rapporti personali che caratterizza la loro esperienza transatlantica sarà decisivo per i protagonisti del rinnovamento artistico newyorkese. Di fatto, tutti i protagonisti della scena artistica statunitense del primo anteguerra, con le sole eccezioni di John Sloan e Stuart Davis, sono di formazione europea e prevalentemente francese. Questo fa sì che, se si escludono i soggetti delle rappresentazioni, molto spesso derivati dall’esperienza o dalla realtà americana, nessuna delle tendenze pittoriche presenti sulla scena newyorkese sia propriamente autoctona: né il tradizionalismo dei membri o aspiranti membri della National Academy of Design, che fa dell’accademismo francese il suo modello, né il “realismo urbano” degli antiaccademici, derivante dal neoimpressionismo, né lo sperimentalismo di chi cerca di metabolizzare la rivoluzione post-impressionista francese. L’inizio delle ostilità in Europa, nell’agosto 1914, interrompe l’andirivieni dagli Stati Uniti alla Francia, da New York a Parigi. Quelle frequentazioni hanno però creato le condizioni per il trapianto del modernismo in America. La New York dell’arte diventa quasi periferia di Parigi. Inoltre, negli anni della guerra, per la prima volta nella storia, grazie ai rapporti personali maturati, alla neutralità statunitense che dura per quasi tre anni e alla nuova immagine di New York, che diventa l’archetipo stesso della città moderna, saranno gli artisti europei a trasferirsi in America. Non saranno molti, ma la loro presenza 53 BRUNO CARTOSIO sarà decisiva nell’accelerare la rincorsa di New York: grazie a Duchamp, Picabia e a pochi altri americani, il dadaismo newyorkese sarà contemporaneo con quello europeo. New York prima della guerra Anche dopo lo scoppio della guerra in Europa – quando, come scrive Gertrude Stein, “la vecchia vita ebbe fine”1 – New York mantiene il proprio fermento evolutivo. All’inizio l’angoscia per una guerra che agli americani sembrava impossibile domina le sensibilità e le coscienze. “Ero depresso…”, scrive Man Ray. “Deve esserci un modo, pensavo, per evitare le calamità che gli esseri umani si tirano addosso”. “Era orribile; […] non riusciva a entrarti nella mente”, scriverà il poeta e scrittore Floyd Dell, uno dei redattori del settimanale socialista The Masses, che è contro la guerra. “Nessuno sapeva cosa pensare, che cosa sperare, o che cosa temere. Le menti, sforzandosi di pensare, si stordivano”.2 Ma le persone si adatteranno presto, aggiunge Dell, sia alla realtà del “massacro allo stato puro”, sia “all’intreccio di quel dramma orribile”, e la dialettica politico-culturale continuerà, più convulsa e contrastata, forse, ma ancora eccezionalmente vivace. In particolare nel mondo dell’arte continuano a farsi sentire i sussulti, le ferite, gli entusiasmi prodotti dall’Esposizione internazionale di arte moderna del 1913, il cosiddetto “Armory Show”, dal luogo in cui si svolse. E soprattutto: gli artisti che erano andati in massa in Europa negli anni precedenti tornano a casa, portando con sé le nuove acquisizioni. I quasi tre anni che precedono l’entrata in guerra degli Stati Uniti saranno un “un periodo sempre più incalzante di sperimentazione creativa”3, in cui l’arte contemporanea si conquista uno spazio inedito nella cultura e nel costume – nella coscienza – dell’intelligentsija newyorkese. New York diventa uno straordinario polo d’attrazione per i giovani artisti, scrittori, innovatori di tutto il paese. E in essa, nel piccolo quartiere nella parte bassa di Manhattan abitato dalle comunità italiana e irlandese e dai lavoratori del porto, si formano le fluide aggregazioni di questi esuberanti ribelli, spesso sradicati e spiantati: “Gli affitti erano bassi al Greenwich Village, perciò gli artisti e gli scrittori ci vivevano”, scriverà anni dopo Floyd Dell, uno dei protagonisti della breve, irripetibile stagione felice del Village.4 Dopo il successo dell’Armory Show, cresce il numero dei collezionisti della 54 Il gusto del nuovo ‘nuova’ arte e dei galleristi disposti a esporla. Grazie all’eliminazione della tassa sull’importazione delle opere d’arte contemporanea nell’ottobre del 1913, il mercato si apre e i mercanti e galleristi parigini, che avevano prestato volentieri le opere per l’Esposizione sperando in tale esito, diventano interlocutori estremamente ben disposti. Inoltre, New York sostituisce ormai Parigi, che ha la guerra alle porte, come destinazione degli aspiranti artisti americani: “Nel 1914, operavano in città più di due dozzine di scuole d’arte riconosciute, con un numero di iscritti complessivo intorno a venticinquemila”.5 È in questa “New New York” che gli artisti europei contribuiscono a movimentare la scena, portando di persona negli Stati Uniti i modi e i contenuti delle avanguardie. Insieme con la moglie Gabrielle Buffet, torna Francis Picabia, che si era già trattenuto a New York per pochi mesi nel 1913, in occasione dell’Armory Show, e vi rimane dal 1915 al ’17. Nell’estate dello stesso 1915 arriva il riformato Marcel Duchamp, che resterà fino al ’18, seguito poco dopo dal compositore Edgar Varèse e dall’altro pittore cubista Albert Gleizes, reduce dal fronte, il quale rimarrà anch’egli fino al 1918. Arrivano anche lo scrittore Henri-Pierre Roché, il pittore svizzero Jean Crotti, che sposerà la sorella di Duchamp, e il pugile-artista Arthur Cravan, che nel 1918 lascerà New York per il Messico con la poetessa inglese Mina Loy.6 A poco a poco, però, l’atmosfera cambia anche a New York, anche se non tutti vivono il cambiamento allo stesso modo. Già nell’estate del 1915, scrive Hutchins Hapgood, con lo stesso senso di angoscia espresso da Floyd Dell un anno prima, “i dolci impulsi creativi della pace non c’erano più. Gli individui avevano fermato la loro esistenza spirituale. Tutti aspettavano. Le vite erano vacue”.7 A partire dal 1916 cresceranno in modo deciso anche le tensioni sociali: prima l’acceso dibattito intorno alla possibilità dell’entrata in guerra, poi l’ondata di scioperi senza precedenti che attraverserà il mondo industriale statunitense nel 1916-17 e infine, dopo l’intervento, l’inizio di un quinquennio di violenta repressione di ogni forma di dissenso sociale e politico, cui si somma nel 1920 il Proibizionismo. Il pittore italiano Joseph Stella, negli Stati Uniti dal 1896, scriverà che “durante il periodo iniziale della grande guerra, nel 1916, l’Arte arrivò a un punto morto: quasi nessuna mostra e quasi nessuna vendita. Io ero disperato [...] e con l’urgenza assoluta di trovare qualcosa da fare per guadagnarmi da vivere”. Come tanti altri artisti anche Stella, che dovrà andare a insegnare l’italiano, non riuscirà a vivere del suo lavoro. Ma anche un pittore affermato come Robert Henri scriverà al fratello, nel 1918, che “in pratica, nell’ultimo anno, non si sono più venduti quadri”.8 55 BRUNO CARTOSIO A sua volta, il poeta William Carlos Williams, nella sua autobiografia, dice di quegli anni e del suo Kora in Hell, scritto in gran parte nel 1917: “Il mio terzo libro fu Kora all’inferno. Maledizione: la freschezza, la novità di una primavera che avevo sentito con gli altri, un risveglio delle lettere, tutto quel piacere che voleva dire il creare un mondo in grado di opporsi alle vecchie supremazie veniva cancellato dalla guerra. La stupidità, la calcolata malignità di una società grufolante dietro ai soldi come quella che conoscevo e contro cui scrivevo con violenza; tutto quello che desideravo veder vivere e crescere veniva deliberatamente assassinato in nome della chiesa e dello stato. Era Persefone discesa nell’Ade, all’inferno. Kora era la primavera dell’anno; il mio anno, io stesso venivamo macellati”.9 È di questa morte della straordinaria primavera artistica, culturale e politica degli anni precedenti, che scriverà anche Randolph Bourne, in uno degli ultimi numeri di Seven Arts prima della chiusura, avvenuta nell’ottobre 1917 e dovuta alla sua opposizione alla guerra. Bourne si riferirà proprio alla cappa tetra del crescente clima di intolleranza con cui la destra aveva accompagnato il paese verso l’intervento, montando “una costruzione psicologica fatta di panico, odio, rabbia, arroganza di classe e aggressività patriottica”.10 Agli occhi dei sostenitori dell’intervento e delle autorità politiche locali e nazionali, anarchici, socialisti, sindacalisti rivoluzionari, immigrati formavano “una ripugnante massa pacifista”. Contro di loro montò una diffusa violenza repressiva, che compenetrò di sé tutta la società. “Molti furono picchiati, torturati, minacciati di morte e sparati da altri cittadini, dalla polizia, dai soldati […] Seguì una terrificante sospensione dei diritti civili, finalizzata a sopprimere il dissenso e la combattività operaia e, allo stesso tempo, fermare la violenza incontrollata. La legge federale sullo Spionaggio, promulgata nel 1917, poco dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, e la sua compagna dell’anno seguente, la legge sulla Sedizione, assegnavano lunghi anni di prigione a chiunque fosse giudicato responsabile di ostacolare lo sforzo bellico, anche esprimendo opinioni contro la guerra”.11 Le sedi delle organizzazioni giudicate sovversive o pacifiste furono perquisite, saccheggiate e distrutte dalla polizia; migliaia di militanti furono arrestati e messi in prigione e, se immigrati, deportati al paese d’origine. Giornali e riviste radical, che sostenevano opinioni contrarie all’intervento o che erano in vario modo espressione di un’intellettualità non conformista furono perseguitati e soppressi o costretti a chiudere”. L’impatto di un quinquennio di repressione senza precedenti fu devastante: quale che fosse la loro linea politica, scrive Malcolm Cowley, quasi tutti i radicali del 1917 furono costretti al silenzio e nel Village “i discorsi 56 Il gusto del nuovo sulla rivoluzione lasciarono il posto a quelli sulla psicoanalisi”, gli unici tollerati.12 Per questo lo storico Robert Crunden chiude l’introduzione al suo American Salons scrivendo: “La storia si ferma al 1917 per una ragione ovvia: la vita creativa cessò quasi del tutto negli anni della guerra”, come era già successo a Londra e Parigi, a Monaco e Berlino e nel resto d’Europa.13 Da una parte e dall’altra dell’Atlantico, chi non va a combattere – quale che ne sia la ragione – cerca di conservare una qualche normalità nel proprio quotidiano alterato dalla guerra e dalle sue conseguenze. Il degrado delle condizioni materiali dell’esistenza è infinitamente maggiore a Parigi che a New York. In entrambi i luoghi, tuttavia, ci si trova a lavorare in condizioni di accentuata marginalità sociale, in contesti comunque caratterizzati dal crollo del mercato dell’arte e della letteratura, dalle censure e dalla repressione politica, dallo sciovinismo, dall’imbarbarimento culturale. In questo contesto una sola svolta nel mondo dell’arte, al di là di quelle personali, sarà destinata ad avere portata internazionale. Nell’autunno del 1916, viene messo al mondo in Svizzera l’unico movimento ‘artistico’ nuovo di quegli anni, Dada. Nasce in territorio neutrale, avendo però interiorizzati la distruttività, il nichilismo della guerra e un inedito senso di inutilità dell’arte. Forse non è un caso che, con una nascita quasi parallela, Dada trovi una culla nella New York degli anni della più dura repressione di ogni discorso culturalepolitico dissenziente. La sua autoironia e la sua stessa autoreferenzialità – pochissimi artisti e ancora meno cultori, come Walter e Louise Arensberg o Katherine Dreier, circoscritti alle classi agiate – salvarono Dada in America. Oppure, da un altro punto di vista, lo portarono al suo esaurimento, mentre in Europa la sua evoluzione l’avrebbe portato invece verso gli sbocchi surrealisti. Ma questo sarebbe un altro discorso.14 Realisti e modernismo prima dell’Armory Show L’Esposizione internazionale di arte moderna è il momento culminante, di svolta nel decennio prebellico. Si aprì a New York nel febbraio 1913, un anno e mezzo prima che cominciasse in Europa la devastazione materiale e morale della guerra. A New York vennero esposte quasi 1500 opere divise in due sezioni, statunitense ed europea (mentre a Chicago e Boston vennero presentate ‘versioni’ ridotte).15 Nonostante che gli artisti americani fossero largamente più numerosi, fu la presenza degli europei a destare l’interesse maggiore e a 57 BRUNO CARTOSIO suscitare reazioni estreme, tanto tra il pubblico quanto tra i critici. In particolare il Nudo che scende le scale di Duchamp fu vilipeso, deriso, attaccato per la sua bruttezza, incomprensibilità e immoralità. Il quadro era già stato presentato l’anno prima a Parigi: al Salon des Indépendents, nel febbraio 1912, aveva ricevuto critiche preliminari tali che Duchamp lo aveva ritirato prima dell’apertura della mostra, per esporlo invece qualche mese più tardi e senza problemi al Salon de la Section d’Or. Le differenze tra New York e Parigi sono significative. A Parigi la discussione, e il rifiuto o l’esaltazione di un quadro, un autore o una corrente, avvenivano all’interno di una società in cui lo spazio reciproco e in buona parte sovrapposto di artisti e critici era ampiamente riconosciuto: “Veramente quello che fanno è che rispettano le arti e le lettere”, scrisse Gertrude Stein in Paris France.16 La pratica dell’arte e della critica e il mercato delle opere contemporanee erano consolidati. Le stroncature o gli entusiasmi dei critici, le discussioni, le contrapposizioni e persino gli odi tra gruppi e conventicole o ‘partiti’ potevano essere violentissimi, ma avvenivano nella continuità di spazi la cui legittimità era consolidata da decenni.17 Inoltre, una parte non trascurabile di Parigi viveva della propria tradizione artistica e del richiamo da essa esercitato sui collezionisti e sugli aspiranti artisti di tutto il resto d’Europa. Oltre all’École des Beaux-Arts, le tante accademie e scuole di pittura, l’esistenza di un mercato in cui operavano i numerosi galleristi, mercanti e collezionisti e, infine, la presenza degli studi di pittori che per ragioni diverse si erano conquistati vari gradi di notorietà negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento attiravano decine di migliaia di studenti che contribuivano a tenere in piedi i settori dei materiali, degli affitti, delle esposizioni. Anche l’immagine romantica della vita di bohème li attirava a Parigi dal resto del mondo.18 Nonostante la zona franca del Greenwich Village prebellico, a New York non era mai esistito nulla di paragonabile. La città non aveva un pubblico, una tradizione per l’arte. La stessa trasformazione estetica del suo aspetto esteriore, con l’adozione del modello architettonico-urbanistico della “city beautiful”, era cosa degli ultimi decenni e rimaneva comunque episodica, legata com’era a edifici o interventi significativi ma isolati. All’inizio del Novecento le gallerie erano poche. I mercanti, oltre a essere pochi, erano al servizio del gusto ‘europeo’ dei loro clienti, affascinati dagli ‘antichi maestri’ oppure dagli accademici francesi o al massimo dagli impressionisti; in ogni caso largamente indifferenti verso la produzione americana che non fosse rispettosa delle prescrizioni tradi zionaliste della National Academy of Design. I musei ignoravano l’arte 58 Il gusto del nuovo contemporanea. I grandi ricchi, che comperavano quadri e sculture per le loro residenze grandiose, usavano l’arte come simbolo ed equivalente della loro condizione sociale. E i critici che fornivano legittimazione al gusto dominante delle élites facevano una critica moralistica, tradizio nalista, arroccata nella difesa del classicismo della produzione accade mica.19 Gli ‘scandali’ nei Salons parigini erano frangenti nel mare perennemente agitato della pratica artistica; quello dell’Armory Show fu un’improvvisa onda di piena che si rovesciò con gran fragore, sconvolgendolo, nello stagno tranquillo del gusto perbenista dominante negli Stati Uniti. La mostra fu dovunque un grande successo di pubblico. Ma con poche eccezioni la discussione critica fu segnata dal provincialismo. A New York, la mostra scatenò le reazioni di rigetto dei critici più importanti e i loro attacchi, portati in nome della tradizione, furono mitigati solo in parte dalle parole di un piccolo nucleo di critici aperti al nuovo. Nell’ancor più periferica Chicago, il modernismo provocò indignazione morale, denunce alla magistratura, minacce di violenza e manifestazioni di protesta da parte di docenti e studenti dell’Art Institute, che bruciarono l’effigie di Matisse e di Walter Pach, uno degli organizzatori. Infine, nella sussiegosa Boston, l’esposizione fu discreta mente circondata da una cortina di silenzio imbarazzato. L’Armory Show fu visto come una provocazione intentata contro l’ordine morale della nazione. Per molti, scrive Milton Brown, il post-impressionismo, i fauves, i cubisti erano “espressioni non solo della decadenza, ma della degenerazione intellettuale, morale e politica della cultura europea e quindi pericolose per la virile integrità della nostra”.20 Lo spettro del socialismo e soprattutto dell’anarchia fu agitato dai critici conservatori, le cui vedute dominavano sulla stampa. E.C. Maxwell scrisse su International Studio che l’arte moderna era antidemocratica e socialista e avvertiva che il frutto dei suoi semi sarebbe stata la rivoluzione. Frank Jewett Mather scrisse sull’Independent che il post-impressionismo “è semplicemente l’araldo dell’anarchia universale” e il pittore e critico Kenyon Cox ribadì su Scribner’s Magazine: “C’è una sola parola per questa negazione di ogni legge, per questa insurrezione contro ogni costume e tradizione, per questa asserzione di licenza individuale senza disciplina e senza ritegno, e quella parola è ‘anarchia’”. Anche l’altra autorità Royal Cortissoz espresse sulla rivista Century la sua convinzione che i modernisti fossero pericolosi: “Postimpressionisti, cubisti, o futuristi, li si chiami come si vuole, il loro obiettivo è di rovesciare il mondo a gambe all’aria”. E il New York Times, in un editoriale pubblicato il giorno dopo la chiusura della mostra, riprendeva i temi esposti da questa parte della critica: “Ci si ricordi bene che questo 59 BRUNO CARTOSIO movimento è parte del generale movimento, riscontrabile in tutto il mondo, teso a disgregare e corrompere, se non a distruggere, non solo l’arte, ma la letteratura e anche la società. Bisogna dire che è presente in esso una specie di follia che ha le sue origini lontane nei passi iniziali dello spirito democratico. Tuttavia, la sua parentela con la vera democrazia e la vera libertà di pensiero, azione ed espressione è lontana e indefinita; mentre i cubisti e i futuristi sono cugini stretti dei politici anarchici, dei poeti che sfidano la sintassi e la decenza e di tutti i distruttori che, mentre dicono di voler rigenerare il mondo, in realtà bloccano ovunque le ruote del progresso”.21 La nuova aristocrazia del denaro e i suoi ideologi, tra cui i critici che dettavano le leggi del gusto, guardavano alla presenza di immigrati, di socialisti e anarchici come a un pericolo per la nazione. E i quadri che ‘praticavano’ la rottura dell’ordine accademico tradizionale – sia perché rappresentavano soggetti volgari, sia perché negavano le forme belle dei Maestri – venivano associati ai rivoluzionari in quanto minacce per l’ordine politico e la gerarchia sociale. In tale visione l’ordine estetico, morale e politico del mondo era una cosa sola, ed era da difendere dagli assalti di immoralisti e rivoluzionari. Inoltre, come le idee di rivoluzione e i lavoratori immigrati che le abbracciavano, anche le nuove tendenze artistiche provenivano dall’estero, e quindi le accuse di corruzione della moralità e di minaccia per la nazione erano rafforzate dallo sciovinismo.22 Inutile dire che l’idea che il paese fosse sull’orlo della rivoluzione sociale, o che il Greenwich Village fosse il focolaio della rivolta, era frutto insieme di sopravvalutazioni paranoiche della minaccia e del calcolo politico funzionale a giustificare la repressione. Tuttavia, al di là delle distorsioni prodotte dal moralismo bigotto, dal darwinismo sociale e dallo sciovinismo, dall’ottusa reazionarietà politica, la percezione dei benpensanti che i sentieri della protesta politica, della rottura dei codici della morale sessuale e dell’innovazione letteraria e artistica si intrecciassero non era sbagliata. Lo storico Martin Green focalizza l’attenzione del suo New York 1913 sui due grandi eventi politico-culturali di quell’anno: l’Armory Show e il “Paterson Strike Pageant”. Quest’ultimo fu il grande spettacolo con cui i setaioli in sciopero della vicina Paterson misero in scena al Madison Square Garden di New York episodi e ragioni della loro lotta. Gli ambienti culturali da cui provenivano i promotori, gli organizzatori e i sostenitori dei due avvenimenti erano in parte gli stessi e in misura rilevante si sovrapponevano le aree di opinione che producevano la legittimazione per l’uno e per l’altro avvenimento, i veicoli pubblicistici attraverso cui l’uno e l’altro trovavano casse di risonanza.23 Sull’importanza epocale dell’Armory Show sono sempre stati concordi, al 60 Il gusto del nuovo di là delle sfumature, tutti quanti hanno scritto in proposito, fossero gli organizzatori, gli storici, oppure gli artisti ‘toccati’ dalle scoperte che vi fecero. Per il suo storico maggiore, Milton Brown, esso “fu il risultato di anni di esperimenti, esperienze e sviluppo degli artisti americani e servì da stimolo per una nuova sequenza di eventi. E proprio perché sta in rapporto così diretto e strutturale con il passato e il presente esso è giustamente diventato un momento simbolico nella nostra vita artistica”. Il diciannovenne Stuart Davis decise che sarebbe diventato “un artista ‘moderno’” di fronte a Gauguin, Van Gogh e Matisse. Del Nudo che scende le scale di Duchamp, il poeta William Carlos Williams scrisse nella sua autobiografia: “mi ricordo che mi misi a ridere forte, quando lo vidi per la prima volta, di contentezza, con sollievo”.24 Non il riso derisorio di Alfred Stieglitz davanti a Cézanne nel 1907, di cui diremo, o quello con cui quel quadro era stato allora accolto da una parte del pubblico e dei critici, ma il riso liberatorio di chi aveva di fronte a sé la prova che l’impensabile diventava possibile: se si potevano rompere così le convenzioni figurative, sarebbe stato possibile fare lo stesso con quelle narrative e poetiche. Basti soltanto sottolineare, ancora una volta, l’eccezionalità dell’avvenimento: tanto traumatico perché grande, inatteso e provocatorio nei confronti del gusto dominante. Era la prima volta che veniva presentata negli Stati Uniti una rassegna così ampia dello sperimentalismo artistico europeo; New York era in ritardo anche rispetto a Londra.25 Nel 1886, aveva suscitato scalpore anche la prima mostra degli impressionisti, organizzata a New York dal gallerista parigino Paul Durand-Ruel, ma le varianti impressioniste del paesaggismo tanto francese che americano erano state rapidamente assorbite. Ora le rotture di Gauguin, Cézanne, Matisse e Duchamp lo sarebbero state molto meno. Un’altra diversità profonda rispetto a trent’anni prima: all’Armory Show si mostravano tutti insieme non solo gli esiti rivoluzionari contemporanei, ma anche alcuni dei filoni che da Ingres e Delacroix, nonostante l’accademismo imperante, avevano portato alla rivoluzione. Ed era evidente che l’America era rimasta impermeabile ad entrambi, anche se i suoi artisti avevano frequentato Parigi. Per la gran parte di costoro, fino al primo decennio del Novecento, la norma cui dovevano sottostare nelle scuole e accademie parigine aveva continuato a fare aggio sulla sperimentazione. Ad anni di distanza, Robert Henri rimpianse di essersi trovato nella stessa locanda con Gauguin, in Bretagna, e non essere stato in grado di capire l’importanza di quello che egli stava facendo, aggiungendo poi che nelle scuole d’arte parigine del tempo “non abbiamo mai avuto la possibilità di sentire il nome di gente come Cézanne o Gauguin”.26 61 BRUNO CARTOSIO La doppia costrizione della norma accademica e della ricerca della reputazione internazionale, cui si legava la speranza del successo economico, li rendeva conformisti. “Il loro desiderio di piacere ai critici e ai collezionisti li spingeva a reprimere le loro tendenze naturali e ad adottare i metodi (l’esecuzione minuziosa) e i soggetti accademici (religione, storia, mitologia e nudo)”, scrive Diane Fischer. Tanto i critici francesi conservatori, la cui reputazione era altissima, quanto quelli statunitensi erano estimatori della tecnica accademica e gli artisti americani si fecero a lungo scrupolo di soddisfare il loro gusto.27 Anche i ‘rivoluzionari’ francesi avevano avuto una formazione accademica, da cui si erano però distaccati prima e con maggiore decisione. Invece, tra gli americani a Parigi – spesso limitati nella loro socialità dalle difficoltà linguistiche – quelli che infine rifiutavano Bouguereau, l’École des BeauxArts o l’Academie Julian, raramente riuscivano a entrare in quegli interstizi in cui si incubavano le rivolte. Più spesso trovavano nei musei gli stimoli per muovere in direzioni meno convenzionali, guardando a Velázquez o a Manet, oppure al paesaggismo fiammingo o a quello francese, da Barbizon a Monet. Quasi sempre l’occhio era rivolto al passato, più o meno lontano. Era naturale, quindi, per chi era rimasto estraneo alla sperimentazione, che le esposizioni pubbliche avessero a volte il valore di rivelazione. Questo fu l’Armory Show. Non sempre, però, fu la stessa cosa a Parigi: Gauguin, cui Vollard dedicò la prima mostra a cinque mesi dalla morte, nel 1903, e che ebbe una grande retrospettiva nel 1906, non lasciò negli americani tracce profonde (che lasciò invece sia su Picasso, sia su Matisse); lo stesso vale per le retrospettive di Van Gogh e di Seurat al Salon d’automne del 1905. Anche l’importanza di Cézanne, che aveva esposto al Salon del 1904 e che ebbe due retrospettive nel 1907, dopo la morte, fu compresa in ritardo. Nonostante il Salon d’automne del 1905, in cui i fauves ricevettero il loro battesimo nel clamore della critica, Derain e Matisse rimasero sconosciuti ai più; allo stesso modo che la riservatezza di Picasso e Braque, mai presenti ai Salon (con l’eccezione di due quadri di Braque a quello degli Indipendenti del 1909), rese il loro cubismo una cosa di cui molti parlavano e che pochi conoscevano davvero. Fino all’Armory Show, dunque, solo una piccola minoranza di persone aveva avuto rapporti reali con i protagonisti e le opere del rinnovamento artistico europeo. Il contatto diretto era stato di chi a Parigi aveva frequentato il salotto di Gertrude Stein e, quasi sempre per il tramite suo e dei fratelli Leo e Michael, aveva conosciuto di persona Matisse, Picasso e gli altri cubisti; dei pochissimi che avevano colto la modernità del ‘doganiere’ Rousseau o che erano andati a scuola da Matisse 28 , oppure ancora di quelli che avevano conosciuto i movimenti 62 Il gusto del nuovo d’avanguardia tedeschi e italiani, come vedremo. In patria, a partire dal 1908, solo i frequentatori della galleria “Photo-Secession” di Alfred Stieglitz – ribattezzata familiarmente “291” perché situata al n. 291 della Quinta Avenue – e pochi critici e appassionati erano in qualche misura aggiornati. Alfred Stieglitz Sulla figura istrionica e il ruolo di organizzatore e intermediario culturale di Alfred Stieglitz sono state scritte molte pagine. Del grande fotografo, uno dei maggiori del suo tempo, e del suo ruolo nella storia della fotografia non ci occuperemo. A noi interessa sottolineare il suo ruolo di gallerista, e quindi di intermediario culturale nei rapporti con la Francia, mettendo però in luce anche le modalità del suo avvicinamento all’arte di avanguardia. Ancora nel 1907, Stieglitz, che nella sua galleria e sulla sua rivista Camera Work aveva difeso la fotografia estetizzante del “pittorialismo”, era chiaramente ancorato a una concezione dell’arte senza rapporti con il modernismo. Nel gennaio del 1907, in quella che fu la prima mostra non fotografica nella sua galleria (aperta due anni prima), Stieglitz aveva esposto i disegni di Pamela Colman Smith, un’americana residente in Inghilterra, che rimaneva nel solco figurativo e romantico di Walter Crane e Aubrey Beardsley e dei Pre-raffaelliti.29 A giugno era partito per l’Europa e a Parigi, raccontò in seguito lo stesso Stieglitz, l’amico Edward Steichen lo aveva voluto portare “in un posto chiamato Bernheim Jeune et Fils”, in realtà una delle gallerie di spicco della città, a vedere i quadri di “uno nuovo, morto l’anno prima, che – diceva Steichen – i mercanti francesi stavano cercando di lanciare sul mercato”. Si trattava della prima mostra dedicata a Paul Cézanne dopo la sua morte, avvenuta nell’ottobre 1906, a cui sarebbe seguita prima della fine dell’anno la retrospettiva al Salon d’automne. “Io non avevo mai udito prima quel nome, né visto alcuno dei suoi dipinti”, continuò Stiegliz in tutta sincerità, aggiungendo poi di essere rimasto esterrefatto davanti a quei quadri in cui non c’era “altro che carta vuota con qualche macchia di colore qua e là” e di averli derisi insieme con Steichen.30 Il fatto è che, in quella loro estate europea, Stieglitz e lo stesso Steichen (insieme con i loro collaboratori di Camera Work Adolf de Meyer, Alfred Langdon Coburn e Frank Eugene) furono presi, più che dalle vicende della scena pittorica parigina, dalle dimostrazioni di fotografie a colori da parte dei fratelli Lumière. A luglio e agosto, Stieglitz passò quasi tutto il suo tempo in Germania per preparare quattro riproduzioni di foto a colori fatte da Steichen, tre delle quali 63 BRUNO CARTOSIO sarebbero poi apparse su Camera Work nell’aprile 1908, e per sperimentare di persona il nuovo procedimento. Il suo ritorno negli Stati Uniti avvenne a settembre.31 Anche per questo, dunque, Stieglitz continuò a ignorare quanto stava succedendo a Parigi. Non solo non conosceva Cézanne, ma non aveva idea neppure di chi fosse Matisse, quando Steichen gli scrisse di lui nel febbraio 1908, dicendogli che era “il più moderno dei moderni”. Ancora Stieglitz: “Non molto tempo dopo averne scritto da Parigi, Steichen arrivò a New York con uno splendido pacco di disegni di Rodin e una serie di disegni e acquerelli di uno di cui non avevo mai sentito il nome: Matisse. Mi disse che Matisse era in ascesa a Parigi, che glielo avevano detto alcuni che ‘se ne intendevano’”.32 Il 2 gennaio 1908, Stieglitz espose 58 disegni di Rodin, che Steichen aveva scelto insieme allo scultore e inviato da Parigi, dando inizio a quello che sarebbe stato il suo ruolo storico di organizzatore e propagandista della rottura modernista negli Stati Uniti, destinato a durare fino al 1917, quando la guerra lo portò a chiudere la 291. Ad aprile, espose per la prima volta negli Stati Uniti dei disegni di Matisse.33 Milton Brown, riprendendo un’ammissione dello stesso Stieglitz e un’affermazione di Weber (“Stieglitz non sapeva nulla dell’arte moderna. Quello che sapeva lo aveva appreso da me”) afferma che la conversione di Stieglitz al modernismo avvenne solo più tardi, dopo l’incontro con Max Weber.34 Se si guarda alle scelte personali e alle attività della galleria, il ‘contagio’ sembrerebbe piuttosto essergli stato trasmesso a distanza dal suo mentore ‘parigino’ Edward Steichen, convertitosi all’avanguardia proprio dopo l’estate 1907, cioè dopo aver conosciuto gli Stein ed essere entrato in contatto con la pittura ‘postcézanniana’. D’altro canto, nella repentina conversione di entrambi permasero numerose ambiguità: Stieglitz risponde alle sollecitazioni, ma non possiede gli elementi di conoscenza storica necessari per costruirsi un proprio quadro complessivo, un proprio gusto coerente. Steichen, pur avvantaggiato e stimolato dal contatto diretto con la scena artistica parigina (oltre che dal desiderio di essere à la page in quell’ambiente), evolverà il suo gusto critico, senza però alterare in modo significativo la propria pratica pittorica, che rimane ancorata al simbolismo e all’Art Nouveau. Dopo Steichen, e più o meno contemporaneamente a Max Weber, anche un altro neofita, il caricaturista e critico Marius de Zayas eserciterà un influsso su Stieglitz, che lo ha conosciuto nel 1909. A Parigi dall’autunno 1910, de Zayas scriverà al gallerista, informandolo sulle proprie scoperte. Una delle sue prime lettere rivela il livello di conoscenza dell’’oggetto’ condiviso dal mittente e dal destinatario. De Zayas scrive di aver visto un quadro di Metzinger, intitolato 64 Il gusto del nuovo Nu: “La teoria di questo signore è che lui vede tutto geometricamente e, a dire il vero, egli è del tutto coerente con la sua teoria. Per lui la testa rappresenta un certa figura geometrica, il torace un’altra e così via. La quarta dimensione non gli bastava e così applica tutta la geometria. In seguito mi dissero che questo individuo è un imitatore e che l’originale è uno spagnolo, il cui nome non ricordo; ma Paul Haviland lo conosce, perché è amico di suo fratello Frank”.35 A differenza di questi apprendisti, il pittore Max Weber, dopo aver soggiornato a Parigi dal 1905 al 1908, aveva riportato in patria tutto il peso e la coerenza interna della propria esperienza formativa. A Parigi aveva scoperto per conto suo Cézanne ed era diventato amico devoto del “doganiere” Rousseau, che alla fine del 1908 aveva presentato a Picasso (da lui conosciuto presso gli Stein); aveva studiato alle accademie Julian, Colarossi e La Grande Chaumière e soprattutto con Matisse, e si era infine avvicinato al cubismo di Braque e Picasso.36 Mentre sta studiando con Matisse, Weber, insieme con Edward Steichen e Alfred Maurer, uno degli amici più fedeli di Gertrude Stein e tra i più assidui frequentatori del suo salotto, fonda la New Society of American Artists in Paris, cui aderiscono subito anche John Marin e Arthur Dove, che in quello stesso anno esporranno i loro quadri allo stesso Salon d’automne in cui Matisse presenta un’ampia selezione di quadri, sculture e disegni. Saranno questi gli americani, cui vanno aggiunti Hartley, Demuth, Sheeler, O’Keeffe e pochissimi altri, che esporranno prima della guerra nella galleria di Stieglitz, costituendo il gruppo di punta del modernismo newyorkese. Tornato a New York, Weber aveva esposto nella primavera del 1909 alcune sue opere alla piccola “Haas gallery” ed era stato ignorato da critica e pubblico. Tuttavia, Arthur B. Davies, che praticava una pittura del tutto diversa e conosceva poco la scena modernista francese ma era curioso della sperimentazione altrui, non solo vide le sue opere, ma ne comperò due. Stieglitz non vide la mostra, né incontrò Weber nel corso del 1909. Lo incontrò certamente, invece, nei primi mesi del 1910, quando il pittore partecipò a una collettiva nella galleria dello stesso Stieglitz insieme con gli altri modernisti Maurer, Dove, Marin, Carles e Hartley. L’amicizia tra Weber e Stieglitz risale a quel tempo. Si sarebbe interrotta presto, ma Stieglitz riconobbe sempre a Weber il merito di avergli fatto capire veramente l’arte moderna. Prima della fine di quell’anno, il pittore gli avrebbe prestato i quadri e disegni di Henri Rousseau portati con sé al ritorno da Parigi per una mostra sul “Doganiere”. Tra l’altro, la personale di Rousseau alla 291 fu la prima dopo la sua morte, avvenuta nel settembre 1910, e quelle sue opere furono le prime mai esposte negli Stati Uniti. Nel 1911, poi, lo stesso Weber tenne una sua personale alla 291. 65 BRUNO CARTOSIO È significativo che né Stieglitz, né i pittori e critici che avevano preso a muoversi nella sua ristretta cerchia siano direttamente legati alla realizzazione dell’Armory Show. I suoi principali ideatori e organizzatori furono i pittori Arthur B. Davies, Walter Kuhn e Walter Pach, per conto dell’appena nata Association of American Painters and Sculptors, con la consulenza legale dell’avvocato e collezionista John Quinn e il sostegno economico di molti altri. I tre provenivano dal ‘campo’ dell’antiaccade mismo facente capo al realista Robert Henri: Davies era stato uno degli “Otto” che esposero insieme alla Galleria Macbeth nel 1908, pur essendo stilisticamente il più lontano da Henri; Kuhn era stato amico di Henri e aveva collaborato con lui (e Davies) alla realizzazione della Mostra degli artisti indipendenti dell’aprile 1910, distaccandosene in seguito; Pach aveva studiato con Henri, ma si era avvicinato al modernismo durante il suo lungo soggiorno parigino, iniziato nel 1907. Milton Brown dà lo spaccato delle forze che produssero la mostra. L’iniziativa ebbe una doppia radice, scrive: “Il movimento degli Indipendenti capeggiato da Henri e dai realisti, e il movimento modernista promosso da Stieglitz alla ‘291’; due movimenti che erano antagonisti tra loro e però temporaneamente riconciliabili. Erano uniti, anche se con finalità e in misure diverse, nell’attacco contro lo status quo dell’arte statunitense, delle sue istituzioni, norme e restrizioni. Fu questa comunanza di interessi a rendere possibile il formarsi degli ‘Otto’, la realizzazione della mostra degli Indipendenti del 1910, la formazione dell’Associazione dei pittori e scultori americani e la realizzazione dell’Armory Show”. Ma fu dallo schieramento dei realisti, scrive ancora Brown, che si distaccò il gruppo costituito da pittori come Davies, Prendergast, Glackens, Lawson e Kuhn, “più radicale” rispetto a Henri e alla sua cerchia più ristretta (Sloan, Luks, Bellows, Myers), cui si dovette materialmente l’iniziativa della mostra. Questo gruppo, a sua volta, non si identificava neppure con i modernisti facenti ormai capo a Stieglitz e alla 291: Weber, Marin, Maurer, Hartley e Walkowitz. In un certo senso, conclude, solo chi stava “in mezzo” tra i due schieramenti potè raccogliere tutto l’impulso positivo della rivolta antiaccademica dei realisti e proiettarlo nella direzione del modernismo e dell’avanguardia: l’Armory Show fu, in sostanza, “l’atto stesso della transizione”.37 È universalmente noto che gli anni prebellici della galleria di Stieglitz, dal 1908 al 1917, si sovrappongono e in gran parte si identificano con la storia del modernismo e dell’avanguardia negli Stati Uniti. Tuttavia, puntualizza Robert Crunden, quando si realizzò l’Armory Show, “Alfred Stieglitz perdette la leadership dell’avanguardia in America”. La necessità di ricontestualizzare il 66 Il gusto del nuovo ruolo storico di Stieglitz non deve, però, portare a sottovalutare che fino a quel momento egli fu pressoché solo a “credere” nelle nuove tendenze e che, per un quinquennio, egli fu così importante proprio perché solo.38 Soltanto dopo l’Armory Show nuovi collezionisti e nuovi galleristi si affiancarono a Stieglitz sulla scena newyorkese. Tra questi ultimi: Charles Daniel, che sotto la guida di Alanson Hartpence apre la Daniel’s Gallery prima della fine del 1913; poi Stephane Bourgeois (Bourgeois Gallery, 1914), Robert J. Coady (Washington Square Gallery, 1914), Marius de Zayas (Modern Gallery, 1915). Nel 1914, la Montross Gallery riorienta le proprie attività e Harriet C. Bryant, con l’appoggio di John Quinn, allora il maggiore collezionista di arte contemporanea e uno dei fautori dell’Armory Show, fece delle Carroll Galleries uno dei principali centri d’importazione, esportazione e vendita dell’arte europea e statunitense del momento. Ebbero un ruolo decisivo anche Gertrude Vanderbilt Whitney, che aveva aperto la Whitney Studio Gallery nel 1908, e Katherine Dreier e Walter e Louise Arensberg, collezionisti e mecenati del modernismo estremo di Duchamp e dei dadaisti.39 D’altro canto, se rimane vero che non si potrebbe neppure immaginare l’evoluzione dell’arte negli Stati Uniti del primo anteguerra senza i realisti che per primi lanciarono la sfida antiaccademica, senza Stieglitz e senza i fautori dell’Armory Show, è anche vero che non ci sono stati a New York gli Ambroise Vollard che difendevano Cézanne, né i Bernheim-Jeune, le Berthe Weill, i Kahnweiler, Rosenberg, Zborowsky che promuovevano la rivoluzione nell’arte contendendosi le opere dei rivoluzionari. Prima dell’entrata in guerra, i modernisti beneficiarono solo marginalmente dell’ascesa di New York in quanto mercato internazionale dell’arte, scrivono Scott e Rutkoff: nonostante le nuove gallerie, quasi tutte quelle preesistenti, situate lontano dal Village, erano specializzate negli antichi maestri europei, o negli impressionisti francesi, o nel commercio di manufatti archeologici.40 Tuttavia, in una prospettiva storica più ampia, la storia del modernismo a New York sarebbe difficilmente immaginabile senza i realisti urbani, che smossero il terreno, e senza il ruolo didattico straordinario e l’energia propositiva di Robert Henri. Robert Henri e gli “Otto” Le traiettorie dei due movimenti “antagonisti ma riconciliabili” facenti capo a Henri e a Stieglitz, di cui scrive Milton Brown, si incrociarono ripetutamente tra l’inizio del 1908 e l’entrata in guerra. Combatterono ognuno la sua battaglia, 67 BRUNO CARTOSIO ma “mentre il gruppo di Henri portava il suo attacco frontale contro il trincerato potere dell’accademismo e contro i criteri dominanti dell’arte accademica, Alfred Stieglitz minava alla base quegli stessi criteri e potere in un altro modo, presentando in America gli esempi più estremi dell’arte europea e statunitense”.41 Nel 1908, Stieglitz espone Rodin a gennaio e Matisse ad aprile. A febbraio, Robert Henri e altri sette pittori in polemica con la National Academy tengono una mostra collettiva alle Macbeth Galleries, ottenendo un notevole successo di pubblico e riuscendo a mobilitare la critica a proprio favore. Da quel momento, nonostante la loro eterogeneità, diventeranno il gruppo degli “Otto”. Saranno loro, più che l’avanguardia, a catalizzare l’attenzione di pubblico e critica per alcuni anni, grazie proprio alla maggior visibilità della polemica nei confronti dell’Accademia, a iniziative come la formazione della Society of Independent Artists (cui si dovrà la mostra del 1910) e alla popolarità dello stesso Henri, pittore affermato e insegnante alla New York School of Art, alla Ferrer School e all’Art Students League, oltre che alla propria Henri School of Art.42 I pittori che hanno esposto alle Macbeth Galleries sono notevolmente diversi tra loro dal punto di vista stilistico. Gli Otto – Henri, Sloan, Prendergast, Lawson, Luks, Shinn, Glackens e A.B. Davies – si trovano però accomunati da una serie di vicende in parte contingenti, derivanti da vecchie amicizie giovanili a Filadelfia (Henri, Glackens, Sloan, Shinn e Luks), dalla denuncia del tradizionalismo accademico e dalla difficoltà a essere ammessi alle esposizioni annuali della National Academy e infine dalla necessità di cercarsi un mercato per le proprie opere presso i pochi galleristi disposti a non sottostare al gusto dominante.43 Henri, Sloan, Luks, Glackens e Shinn sono “realisti urbani”: cercano di affermare sia il diritto ad essere rappresentati dei nuovi soggetti e ambienti sociali popolari metropolitani, sia un nuovo modo di dipingere basato sull’assenza di disegno preliminare, sulla pennellata rapida e spessa, su tavolozze dai colori intensi e attutiti. Si rendono osservatori-partecipanti della vita che ritraggono. Raffigurano la città dei quartieri poveri, del lavoro, della vita quotidiana. Sono dei perturbatori delle coscienze, che rifiutano le convenzioni più o meno ipocrite dell’’arte bella’. Nei termini metaforici in cui li ricorda Guy Pène du Bois: “Un gruppo di persone che dicevano ‘sudore’ quando volevano dire sudore, in ogni occasione, anche nei salotti della gente perbene che negava l’esistenza della traspirazione”.44 Per il momento, li tiene insieme la figura carismatica di Robert Henri. 68 Il gusto del nuovo Nato nel 1865, Henri era il più anziano del gruppo. Era stato la prima volta a Parigi dal 1888 al 1891 e aveva studiato all’Académie Julian, con Bouguereau e Tony Robert-Fleury, e all’École des Beaux-Arts. Aveva esposto nei Salon e nel 1899, in uno dei successivi soggiorni francesi, aveva dipinto un quadro (La neige) che era stato acquistato dal Musée du Luxembourg. Quel riconoscimento gli aveva conquistato un posto di rispetto in patria e qualche anno dopo, nonostante le divergenze che la sua pittura evidenziava, l’ammissione a far parte della National Academy of Design. Henri fu sempre un appassionato didatta. Non era l’ideologo dottrinario che modella i discepoli attorno a sé: il suo “anarchismo filosofico”, dichiarato e praticato, lo portava semmai ad avere idee sull’arte, sull’artista e sui rapporti tra arte e società che esponeva con forza ed entusiasmo, nel contesto di un insegnamento del tutto antidottrinario. In nome dello stesso senso fortissimo dell’individualità che lo animava, i suoi allievi furono sempre incoraggiati a perseguire il proprio sviluppo stilistico autonomo. La sua ecumenicità, che praticava nell’insegnamento sotto forma di sollecitazioni a cercare strade nuove e a studiare modelli appartenenti alla sfera post-impressionista (che, da Cézanne in poi, erano troppo avanzati per lui), aveva le sue radici ideologiche negli ideali di liberazione proposti dall’anarchismo e nell’inclusività democratica espressa dalla poesia whitmaniana. Per Henri, scrive l’ex discepolo Stuart Davis, diventato uno dei massimi esponenti dell’arte astratta negli Stati Uniti, l’arte era “l’espressione di idee ed emozioni riguardanti la vita del momento”; e aggiunge: “Venivamo incoraggiati a fare schizzi della vita quotidiana nelle strade, a teatro, al ristorante e in ogni altro luogo. Questi erano poi trasformati in dipinti negli studi della scuola. Al sabato mattina venivano appesi al muro nell’aula di composizione. Henri li commentava e parlava di musica e letteratura e della vita in generale in un modo molto stimolante, e le sue lezioni erano educazione alla libertà”. E l’altro discepolo Walter Pach, in un ritratto insieme affettuoso, riconoscente e critico, lo ricorda come un ‘profeta’ per i tanti giovani sensibili alla “temperie progressista” di quegli anni.45 Durante le sue lezioni, Henri parlava di Velázquez e Frans Hals, di Goya e Manet; leggeva Emerson, Jean-Jacques Rousseau e soprattutto Whitman. Nel poeta vedeva incarnato il suo modello di artista: “Walt Whitman era quello che io proponevo dovesse essere il vero studente d’arte. La sua opera è un’autobiografia, non nel senso dei fatti e misfatti, ma del pensiero più profondo, della vita stessa”. Nel 1909, in un articolo per The Craftsman intitolato “Individualità e libertà nell’arte”, scriveva: “Credo che prima che un uomo cerchi di esprimere qualcosa di fronte al mondo egli debba riconoscersi come 69 BRUNO CARTOSIO individuo, come nuovo e distinto dagli altri. Questo fece Walt Whitman e questa, credo, è la ragione per cui il suo nome mi viene tanto spesso alla mente. Il solo, grande grido di Whitman era che l’uomo trovi se stesso, che capisca che cosa bella egli è una volta liberato”.46 Questa liberazione dell’individuo, insofferente a vincoli nazionali, economici e sociali, fu una delle regole cui si attenne sempre sul piano personale e nell’insegnamento. In un altro dei passi raccolti in The Art Spirit, ancora attraverso Whitman, Henri sintetizza invece in un enunciato molto semplice una delle verità più pregnanti sia della propria poetica, sia della poetica condivisa dai suoi compagni realisti: “Walt Whitman sembra aver trovato grandi cose nelle cose più piccole della vita. Vale più di tutto ciò che la ricchezza può dare, e di ogni altra cosa al mondo, dire quello in cui si crede, dargli forma, passarlo a chiunque possa essere interessato a racco glierlo”. Sono le verità stesse, ‘brucianti’, enunciate da Whitman, che ‘distruggono’ le forme rigide tanto del sonetto quanto dell’epica.47 Sono proprio quelle cose piccole, gli innumerevoli frammenti di vita del mondo popolare metropolitano che per lui e i suoi diventeranno le ‘cose grandi’ della New York degli immigrati e dei casermoni popolari, dei quartieri ‘etnici’ e dei marciapiedi affollati, delle vetrine e del mondo del lavoro, dei bar, dei giochi e degli svaghi di bambini e adulti. Nonostante il suo fervore e ottimismo whitmaniani e la self-reliance emersoniana, quando gli si presentò la sfida dell’avanguardia, l’inclusività non gli fu sufficiente per farla propria. Nel 1912, in visita al Salon d’automne insieme con Walter Pach, rimase in dubbioso silenzio davanti alle espressioni più spinte della nuova pittura; solo quando si trovò di fronte a un quadro “tradizionale (e debole)”, riporta Pach, sbottò: “Naturalmente, se questa è l’alternativa, allora io sono per i nuovi”.48 Quando infine Henri cominciò a rinunciare a ritrarre la città – quando cominciò ad avvertire che i “non-realisti” come Stella, Marin, Walkowitz o anche Gleizes lo stavano facendo con forza maggiore e con una strumentazione nuova – gli “orizzonti democratici” whitmaniani presero le fisionomie di innumerevoli bambini bianchi e neri e indiani, di gitani in Spagna, di messicani e indiani nel Sudovest, di ricchi e poveri a New York, in Olanda, in Spagna e in Irlanda: le centinaia di persone che ritrasse in altrettanti quadri e che definì my people nel suo scritto in assoluto più coerentemente whitmaniano, pubblicato su The Craftsman nel 1915.49 Ritraendosi progressivamente prima dall’interpretazione della metropoli, poi dalla riflessione su di sé, sulla propria poetica e sulla propria tecnica, Henri si ripiegò su se stesso, accomodandosi nella propria maniera. Si comportò proprio come, secondo William Carlos Williams, si era comportato Whitman. 70 Il gusto del nuovo Nella sua ricerca poetica, anche Williams aveva guardato a Whitman, come tutti quelli che in quegli anni avevano cercato intorno a sé modelli poetici che offrissero nel verso insieme la libertà della voce, la vastità dello sguardo e la moltitudine dei soggetti. In una pagina di grande acume, alla fine di un saggio su García Lorca, il poeta faceva i conti con il suo grande precursore. Nel presente contesto, è come se avesse scritto di Henri. Williams riconosceva a Whitman di essere stato la punta più alta del suo tempo, ma “il suo tempo è passato e noi siamo andati oltre”. E poi: “Egli compose ‘liberamente’, seguì la sua non costretta necessità. Quello che non fece fu studiare quello che aveva fatto, tornarci sopra, scegliere e rigettare, che è quel che fa l’artista […]. Componeva magnificamente, ma rivedeva – o mancava di rivedere – come un politico, non come un artista. Faceva quello che poteva, probabilmente. Ma noi dobbiamo fare meglio, dobbiamo guardare, scoprire particolari e affinare [... ]. Si tratta non di imporre le strutture, le forme del passato, che in quanto tali parlano contro di noi, ma di scoprire, primo, magari buttandoci nella composizione (by headlong composition), che cosa sappiamo fare. Quindi, studiare quello che abbiamo messo giù, e tirarne fuori quello che è utile e rigettarne quello che porta fuori strada. È struttura quello che dobbiamo inventare, usando ogni frammento di lucidità mentale, coraggio e percezione che abbiamo. Quando troviamo quello, il resto conta poco”.50 Poesia e pittura: Williams, Hartley, Stella Nel 1917, Williams, che alla mostra degli artisti Indipendenti, in aprile, ha letto la sua poesia futurista “Ouverture to a Dance of Locomotives”, mette mano a Kora in Hell: Improvisations, che sarà pubblicato soltanto nel 1920.51 È dunque la discesa di Proserpina nell’Ade: l’entrata nel mondo oscuro della guerra come interruzione della fertilità. Si tratta di un piccolo libro in prosa, suddiviso in capitoletti e ciascuno di questi a sua volta frammentato in schegge di esperienze, spezzoni di discorsi e narrazioni, impressioni. È un libro innovativo, nella sua forma frammentaria e nel suo ermetismo. Sono questi i tratti dominanti di quell’“opacità”, così poco americana, che l’amico Ezra Pound gli raccomanda di non eliminare dalla sua scrittura.52 A quel tempo, racconta il poeta, “decisi che avrei scritto qualcosa ogni giorno, senza saltarne uno, per un anno. Non avrei scritto nulla di pianificato, ma avrei preso la matita, messo la carta davanti a me e scritto qualsiasi cosa mi venisse alla mente. Che fossero le nove di sera o le tre di mattina […] l’avrei scritto”. Così fece. Quindi, scrive 71 BRUNO CARTOSIO ancora, “leggevo il frammento improvvisato e, senza pensarci, o senza pensarci troppo, interpretavo quello che stava sopra in quello che aggiungevo sotto”, scrivendo quelli che lui stesso definisce una serie di più o meno “brevi notazioni moralistiche a spiegazione del testo”.53 Infine, ultima aggiunta, il prologo, in cui introduce il lettore alle proprie motivazioni e al proprio contesto poetico. Come in un quadro, l’improvvisazione progressivamente viene organizzata, strutturata in un disegno complessivo. Kora in Hell fu infine pubblicato a sue spese nel 1920, abbellito da due disegni di Stuart Davis. Nella copertina un ovulo femminile circondato da spermatozoi bianchi e neri e nel frontespizio un disegno a piena pagina in cui frammenti di realtà urbana e suburbana si affollano, in una visione simultanea e appiattita, intorno a due figure centrali vestite di nero. Si tratta di Gloucester Terraces, uno dei disegni che Davis aveva fatto nel 1916 nella cittadina sulla costa, a nord di Boston, dove aveva preso a trascorrere i periodi estivi, spesso insieme con l’amico John Sloan e altri artisti. Williams scrisse di aver visto il disegno di Davis, che non conosceva personalmente, e di averlo voluto utilizzare “perché era quanto di più vicino ci fosse alla mia idea di Improvvisazione. Era, dal punto di vista grafico, esattamente quello che cercavo di fare con le parole: mettere giù le Improvvisazioni come un’unità sulla pagina […] una visione impressionistica del simultaneo”.54 Williams andò a Gloucester, per chiedere a Davis il permesso di utilizzare il suo disegno. L’incontro tra i due è significativo: senza saperlo, il poeta e il pittore hanno in comune interessi e propensioni, si stanno ponendo nello stesso momento domande che travalicano i confini del loro terreno espressivo d’elezione. Davis, che coltiva una passione per la musica jazz destinata ad avere anch’essa grande peso nella sua poetica, è attento ai modi di usare le parole dei modernisti europei: “Così come la poesia di Apollinaire occupa il terreno della pittura, lasciamo che questa invada quello della poesia”. A sua volta, riparlando a distanza di quarant’anni del periodo in cui si dedicava proprio alla scrittura di Kora in Hell, Williams affermava: “Ho sempre avuto una forte propensione a fare il pittore. In circostanze diverse avrei preferito essere un pittore, invece di tribolare con queste maledette parole”.55 Davis e Williams non sono casi isolati. L’intero ambiente artistico e intellettuale newyorkese, in cui soprattutto Williams (di undici anni più vecchio di Davis) si muove, è sensibile alle sollecitazioni provenienti alle arti figurative dalla poesia e viceversa. Sul tronco di Whitman si innestano altri poeti. Man Ray parla della sua scoperta dei poeti francesi, da Mallarmé a Lautremont, da Rimbaud ad Apollinaire, che la moglie gli legge e traduce. Per converso, 72 Il gusto del nuovo Williams scrive nella sua autobiografia che “c’era allora, prima della prima guerra mondiale, una grande crescita di interesse per le arti in generale. New York ne ribolliva. La pittura era al comando. Il culmine per noi fu il famoso ‘Armory Show’ del 1913”.56 Qualche pagina dopo, Williams scrive della comunità degli intellettuali ribelli di Grantwood, nel New Jersey, che lui, medico praticante, poteva frequentare solo la domenica, della rivista “Others” e dei parties nello studio di Walter Arensberg, nell’Upper West Side di Manhattan. A Grantwood – o piuttosto Ridgefield, come scrivono Man Ray, che vi abita, e tutti gli altri protagonisti – con Alfred e Gertrude Kreymborg, Mina Loy, Malcolm Cowley, Peggy Johns, Helen Hoyt e altri, “Facevamo discussioni sul cubismo che duravano un pomeriggio intero”, 57 cercando di trasferire la logica della composizione pittorica nella struttura della poesia. Dagli Arensberg, Williams incontrava in parte le stesse persone e Marcel Duchamp, Man Ray e Joseph Stella, e vedeva alle pareti i quadri di Cézanne, di Gleizes, dello stesso Duchamp e di altri pittori dell’avanguardia. Tanto i poeti quanto i pittori erano consapevoli delle limitazioni intrinseche all’uno e all’altro mezzo espressivo, dell’insormontabile differenza tra la resa della simultaneità in pittura e in letteratura. In Francia, Apollinaire – poète fondé en peinture quant’altri mai — cercava risposte prima nel “montaggio cubista”, poi nei “calligrammi”.58 Anche i futuristi e i dadaisti si confrontarono negli stessi anni con i problemi posti sia dalle parole, sia dalle immagini. Nel caso di Williams, l’assemblaggio delle sue ‘improvvisazioni’ in Kora, grazie all’effetto non-comunicativo, ermetico, tanto delle parti quanto dell’insieme, ottiene un effetto di astrazione e frammentarietà che, nel caso specifico, non aveva il disegno di Stuart Davis da lui utilizzato. In effetti, al di là della percezione personale di Williams, tra i pittori newyorkesi che egli conosce e frequenta, Joseph Stella – come vedremo – sembra avvicinarsi più di Davis ai risultati di Kora. Un altro pittore, Wassily Kandinsky, sarà tra i riferimenti ideologici di Williams. Nel “Prologo” a Kora, dopo aver introdotto un paio di riferimenti impliciti al suo libro, Lo spirituale nell’arte, Williams lo cita infine esplicitamente quando parafrasa gli “assiomi per gli artisti” formulati dal pittore russo: “Ogni artista deve esprimere se stesso / Ogni artista deve esprimere la sua epoca / Ogni artista deve esprimere le qualità eterne e pure dell’arte di tutti gli uomini”.59 Anche il sottotitolo di Kora, “Improvvisazioni” (che Williams scrive con la maiuscola, come nei titoli dei quadri di Kandinsky di quegli anni), è un imprestito diretto dal pittore russo, il quale, nella pagina conclusiva del suo 73 BRUNO CARTOSIO trattatello, distingue le proprie “improvvisazioni” dalle “impressioni” e dalle “composizioni”, definendo le prime: “Espressioni, soprattutto inconsapevoli, per lo più improvvise di eventi mentali, e quindi impressioni della ‘natura interiore’”.60 Non c’è dubbio che il Williams di Kora, delle impressioni giornaliere buttate giù sulla pagina ogni notte, di getto, si riconoscesse nella definizione di Kandinsky. Non era il solo. Il libro del pittore russo ebbe una considerevole circolazione negli ambienti delle avanguardie europee e statunitensi. Tuttavia, l’unico dei modernisti newyorkesi che avesse allora una conoscenza personale del pittore russo, della sua opera e dell’ambiente del “Blaue Reiter”, cui Kandinsky aveva dato vita in Germania, era Marsden Hartley, di cui Williams era amico. Era stato proprio Hartley a comperare a Parigi, nella bottega del mercante Clovis Sagot, due copie de Lo spirituale nell’arte, uscito in Germania alla fine del 1911, e a spedirne una a Stieglitz, che ne pubblicò delle parti nel numero del luglio 1912 di Camera Work. Williams conosceva la rivista e Stieglitz e frequentava la sua galleria. Inoltre, potrebbe aver letto altre citazioni e riferimenti al libro di Kandinsky nel numero datato 20 giugno 1914 di Blast, che l’amico Pound aveva iniziato a pubblicare con Wyndham Lewis, oppure ancora nel saggio “Vorticism”, che lo stesso Pound pubblicò il 1° settembre 1914 sulla Fortnightly Review. È dunque più che probabile che Williams, amico e corrispondente abituale di Pound, frequentatore di Stieglitz e in rapporti di amicizia con Hartley, tornato dalla Germania nel 1915, avesse avuto notizia e poi letto il libretto di Kandinsky, nel frattempo tradotto in inglese nel 1914, prima della composizione di Kora.61 I modernisti newyorkesi – anche quelli che, come Williams, non erano attratti dal suo misticismo – furono sensibili alle tesi di Kandinsky a favore dell’arte astratta, e l’indicazione anche sommaria di come esse circolarono in quel breve torno di tempo può contribuire a dare l’idea del modo in cui il modernismo statunitense cercava di aggiornarsi, del tempo intercorrente tra la produzione dell’avanguardia in Europa e la sua diffusione in America, e infine dei canali fisici, personali e pubblicistici, attraverso cui avveniva la comunicazione. Williams, Davis, Arensberg, Hartley, Stieglitz, dunque, e gli scrittori e artisti di Ridgefield e sullo sfondo Pound, in particolare proprio per Williams, che lo conosce bene e ha rapporti epistolari frequenti con lui e lo vede ogni volta che torna negli Stati Uniti. Ma anche Gertrude Stein, che dopo aver ricevuto la visita di tutti gli americani passati per Parigi fin allora, ‘lega’ con Stieglitz, pubblicando i word portraits di Picasso e Matisse su Camera Work 74 Il gusto del nuovo nell’agosto 1912. Stein accoglie per la prima volta Hartley nella primavera di quell’anno, quando il pittore va in Rue de Fleurus per studiare i Cézanne e i Picasso che Gertrude e Leo hanno collezionato ed espongono generosamente nel loro appartamento, aperto a tutti ogni sabato sera. Non importa che i due fratelli si siano divisi – Leo si è trasferito a Firenze e Alice Toklas ha preso il suo posto accanto a Gertrude – e che entrambi abbiano smesso di comprare sia Picasso, sia Matisse. Incontrare Gertrude Stein continua a essere il primo passo che fanno tutti gli artisti statunitensi a Parigi, per arrivare poi, tramite lei, allo studio dell’uno e dell’altro, ai depositi dei galleristi. Nell’Autobiografia di Alice B. Toklas Gertrude Stein racconta solo una parte degli incontri che i pittori e scrittori statunitensi hanno avuto con lei negli anni dell’anteguerra. E dell’incontro con lei, peraltro non sempre felice, a loro volta parlano tutti loro. Con Gertrude lo scontroso Hartley istituirà un rapporto duraturo e affettuoso. A lei e a Stieglitz scriverà lunghe lettere durante il doppio soggiorno tedesco (1912-13 e 1914-15). E a sua volta Stein ricambierà, scrivendo inoltre a Mabel Dodge e allo stesso Stieglitz lettere in cui esprimerà giudizi lusinghieri sul pittore. In particolare, in una lettera del 1913 a Stieglitz, affermerà che Hartley, nei suoi quadri, “ha realizzato quello che in Kandinsky è solo un’indicazione”. Hartley “tratta il colore”, scriverà ancora, “con la stessa concretezza con cui Picasso tratta le sue forme. In questo senso, lavora in modo molto diverso dai neo-impressionisti Delaunay ecc., che sulle orme di Van Gogh e Matisse, producono in realtà un realismo mascherato ma povero […]. Hartley non ha fatto questo, tratta il colore come come veicolo per la creazione e lo fa sul serio”.62 In Germania, oltre a entrare in contatto con i pittori del Blaue Reiter, con i quali addirittura esporrà nel Salone d’autunno del 1913 a Berlino, Hartley cercherà anche di dare corpo a modo suo a quel rapporto con il ‘primitivo’ di cui ha trovato i segni nei quadri di Picasso e Matisse visti a Parigi, cui avevano già alluso il suo mentore Stieglitz e altri su Camera Work e che avrebbe portato alla mostra di “Arte negra” alla 291 nel novembre 1914.63 Ma Hartley non seguirà Matisse e Picasso sulla strada ‘africana’, come invece ha fatto Max Weber qualche anno prima di lui. Tornato in Germania nel 1914, Hartley non vedrà la mostra newyorkese, organizzata per Stieglitz da Marius de Zayas con le sculture africane prestategli dal mercante parigino Paul Guillaume (da lui conosciuto tramite Apollinaire). Si indirizzerà piuttosto verso il “primitivo” autoctono americano, forse memore di manufatti indiani, di immagini dell’ovest e di quadri visti a New York, e accogliendo le sollecitazioni provenienti dal contatto con August Macke, anch’egli del Blaue Reiter, che da qualche anno introduce 75 BRUNO CARTOSIO elementi indiano-americani nelle sue opere. A Berlino, dove è tornato nonostante la guerra, Hartley si darà dunque all’esplorazione del Museum für Völkerkunde, che espone migliaia di manufatti delle culture dei nativi nordamericani. Da quella frequentazione deriveranno le tele del ciclo intitolato “Amerika”, in cui confluiscono elementi e simboli delle culture indiane del nordamerica. Ma il contatto con i soli manufatti lo accontenterà solo per il momento. Dopo il ritorno negli Stati Uniti e dopo la fine della guerra, quell’interesse spingerà Hartley a un lungo soggiorno in New Mexico, dove non solo dipingerà quadri significativi, ma anche scriverà pagine di grande rispetto per le culture native locali e per la figura dell’indiano in quanto tale.64 Mentre Williams prepara la pubblicazione di Kora in Hell, e Marsden Hartley si spinge verso Taos e Santa Fe, il comune amico Joseph Stella, anche lui frequentatore dei circoli dell’avanguardia intorno agli Arensberg, lavora a una delle sue tele più famose, il primo Brooklyn Bridge, probabilmente completato nel 1919.65 Anche Stella ha studiato brevemente con Robert Henri, come Stuart Davis, Andrew Dasburg e Man Ray (e naturalmente altri che non ripudiano il realismo del maestro, come George Bellows, Rockwell Kent o Edward Hopper). Pur allontanandosene relativamente presto nelle tele, Stella ha mantenuto a lungo un rapporto con la figurazione nei suoi lavori di illustratore per riviste e nei ritratti a matita di lavoratori, immigrati, popolani e di alcuni compagni di avventura intellettuale e artistica come Edgar Varèse, Louis Eilshemius e Marcel Duchamp. E anche nella sua opera più innovativa e futurista – dalla Coney Island del 1913 al ponte di Brooklyn, appunto – in cui le immagini sono ridotte ai loro frantumi, mantiene vivo il rapporto con i ‘soggetti’ popolari della città. Tornato in Italia nel 1909, Stella risponderà positivamente a una lettera da Parigi di Walter Pach in cui l’amico lo invita a recarsi nella capitale francese “per rinnovarsi”. A Parigi, dunque, nel 1911, egli renderà l’obbligatorio omaggio a Gertrude Stein (che paragonerà a “una pitonessa, o una sibilla”), ma soprattutto cercherà il contatto con l’avanguardia artistica. L’esperienza parigina sarà per molti versi dirompente. Nel febbraio 1912, Stella avrà la possibilità di assistere alla prima mostra dei futuristi alla galleria Bernheim-Jeune e di incontrare Boccioni, Carrà e Severini, anche se l’unico con cui probabilmente ebbe rapporti di qualche intensità fu Modigliani, che allora aveva lo studio vicino al suo alla Cité Falguière, a Montparnasse. Di quei giorni Stella scriverà: “Cominciai a lavorare con vera frenesia. Quello che più di tutto mi eccitava era vedere davanti a me un nuovo panorama fatto della più iperbolica ricchezza cromatica”.66 76 Il gusto del nuovo Nel giugno 1913, a poco più di sei mesi dal suo ritorno a New York e poco più di due dall’Armory Show, in un articolo per The Trend, Stella parlerà del suo rapporto con la “nuova arte” con una certa dose di umiltà: “Anche se non riuscii a percepire di colpo la grandezza di Cézanne, capii che cosa c’era di falso nella mia produzione… Passai al post-impressionismo, non per moda, ma sotto l’urgenza del momento… Il colore di Matisse mi ossessionò per mesi: riuscivo a sentirvi una grande forza e vitalità mai neppure sognata…Il cubismo e il futurismo mi interessano enormemente. Sebbene esteriormente si assomiglino in molte cose e alcuni dei loro obiettivi siano simili, essi sono diversi sotto molti aspetti”. E ancora, con notevole senso della realtà ed entusiasmo per le possibilità dischiuse all’arte “americana”: “I futuristi e i cubisti cercano di trovare un nuovo tipo di linguaggio ed è logico che all’inizio questo linguaggio sia caotico. La nostra è un’epoca di transizione, ma forse è particolarmente vitale e importante perché vengono ora messi al suolo tutti i semi di un gigantesco raccolto futurista. La Francia lo ha capito e quindi è passata trionfalmente a condurre. Credo che l’America debba seguirne l’esempio glorioso, l’America che è così giovane ed energica e possiede la grande opera futurista già realizzata da Walt Whitman”.67 Il richiamo a Whitman – che non è trasformato in un futurista ante litteram, come potrebbe sembrare – è paradigmatico: non c’è quasi scrittore o pittore che non veda in lui l’immediato progenitore di tutto ciò che di nuovo e proiettato nel futuro la cultura statunitense sarà in grado di esprimere, traendo linfa vitale dalla democrazia, dal patrimonio di culture di cui gli immigrati sono depositari, dalla rottura dell’isolazionismo culturale e dal ripudio del nazionalismo. Subito dopo la chiusura dell’Armory show (dove ha esposto due quadri), Stella ha iniziato a dipingere quello che definisce “il mio primo soggetto davvero americano: Battle of Lights, Mardi Gras, Coney Island”.68 Il rinnovamento dei soggetti, e l’introduzione di un soggetto ‘basso’ quanto può esserlo il parco di divertimenti più grande e popolare d’America, si accompagna al massimo di innovazione: la tecnica, il colore, il movimento sono quelli del futurismo italiano. Esposta per la prima volta nel febbraio dell’anno successivo alla Montross Gallery di New York, la grande tela fece sensazione. Ancora una volta i detrattori dell’avanguardia e dell’astrattismo si sbizzarrirono, ma i simpatizzanti della nuova arte riconobbero al quadro un valore quasi di manifesto. Nel suo numero dell’aprile 1914, la rivista The Century dedicò un’intera sezione a quella che definì “This Transitional Age in Art”, con articoli di John W. Alexander, Edwin Blashfield, Ernest Blumenschein, Jay e Gove Hambidge e Walter Pach e con riproduzioni in bianco e nero di opere di Cézanne, Duchamp, Matisse, Picasso, 77 BRUNO CARTOSIO Redon e degli statunitensi Henri, Prendergast, Luks e Arthur B. Davies. L’unica riproduzione a colori fu riservata alla Battle of Lights di Stella, accompagnata da un’ampia didascalia in cui veniva sottolineato il tentativo, riuscito, del pittore di cogliere e interpretare “le luci abbacinanti, il rumore, la confusione e il movimento incessante” di Coney Island.69 Di colpo, il trentasettenne Stella veniva catapultato sul proscenio dell’innovazione pittorica negli Stati Uniti. In uno dei pochi dipinti americani dichiaratamente futuristi, in cui Stella probabilmente risentiva dell’influsso di Severini, visto a Parigi, il carnevale a Coney Island veniva ridotto ai suoi frammenti costitutivi e fatto vorticare sulla tela. Nel quadro non c’era nessun tentativo di dare una rappresentazione naturalistica della realtà. I frammenti figurativi rintracciabili nel movimento caleidoscopico del quadro dovevano fornire invece l’equivalente emotivo dell’esperienza della calca, della luce, del movimento.70 Qualche anno dopo, nel prologo a Kora in Hell, William Carlos Williams scriverà parole che potrebbero essere usate per parlare della Battle of Lights di Stella: “Grazie al carattere frammentario del suo componimento il poeta s’impadronisce di un’arma che non potrebbe possedere in nessun altro modo. Le emozioni si accavallano a volte con tale rapidità che agitandosi in virtù di una tenue esaltazione molte cose si riesce soltanto a toccarle di sfuggita, mai a trattenerle; e capita inoltre molto spesso che appena toccate si rompano”. Nel paragrafo successivo, quasi mettendo insieme Kandinsky e Stella, Williams scrive ancora: “Queste improvvisazioni hanno un aspetto così instabile che parrebbero dover crollare senza rimedio al primo esame, e diventare particelle di un vento che vacilla”.71 Frammenti, emozioni che si accavallano rapide e si agitano, le cose che si toccano di sfuggita; l’instabilità delle improvvisazioni che diventano particelle del vento… Williams riconobbe nella simultaneità figurativa del disegno di Stuart Davis l’equivalente del suo fare poetico, ma se si guarda a Kora, sembrano piuttosto essere i frammenti instabili e vorticosi della Coney Island di Stella a costituire l’analogo più prossimo. L’opacità della prosa poetica di Williams è l’equivalente della irriconoscibilità del reale di Coney Island nel quadro di Stella. Due soli esempi: “È l’acqua che beviamo. Gorgoglia sotto ciascuna di queste colline. Come? Ah, ti fermi prima di arrivare alla radice. Ma se l’afferri la città impazzisce. L’allampanato marito in calzamaglia fa piroette. La moglie, più scarna di una lupa arricciola il burro; è un orologio che batte le ore. Eheh, a Bangkok sono più bravi in tutto, – anche qui, se la gente si dà una mano. Dai saltale alla gola! La colpa è del letto!” Oppure: “Svegliati presto alla bianca 78 Il gusto del nuovo luce del sole che inonda la stanza. Spogliati e bagnatici dentro. Aha, ma un dolore ti serra la gola – e la pellicola evanescente che mostra una sua luna nera, cancella tutto quanto. Oggigiorno non si può camminare a piedi nudi sulle foglie croccanti. Né si può ballare, se non nel buio del cervello. Va in giro vestito di fuliggine; cerca aiuto nella medicina moderna: il carbonaio soffia la sua polvere sottile in tutti gli angoli della casa! E allora, e allora un nuovo passo, signora! C’incontriamo a – sai dove intendo – dalla parte dov’è buio. Ma lascia pure che la ruota giri”.72 Il 1917 Nella storia dell’affacciarsi di New York sulla scena mondiale dell’arte, nel primo anteguerra, scrive Abraham Davidson, “l’Armory Show, la Forum Exhibition of Modern American Painters del 1916 e la mostra della Society of Independent Artists del 1917 furono i momenti cruciali nell’esposizione al pubblico della pittura del primo modernismo americano”.73 Attorno a queste stanno l’iniziativa dei realisti urbani e l’opera di galleristi come Stieglitz, come s’è visto. Spesso, soprattutto nel secondo decennio del Novecento, le adesioni dei singoli artisti a una cerchia o all’altra non erano rigide e le ‘appartenenze’ multiple e gli spostamenti dall’una all’altra erano più facili di quanto le successive schematizzazioni critiche e storiografiche inducano a credere. Nonostante che non mancassero le tensioni e i personalismi, le gelosie, le ripicche e le drastiche rotture personali – tra Henri e Arthur B. Davies o Walt Kuhn, ad esempio, oppure tra Stieglitz e Weber o addirittura Steichen – le interazioni erano frequenti, sostenute dalla vicinanza del sentire politico, dalla comune condizione di insegnanti in una o l’altra delle scuole d’arte, dalla frequentazione degli stessi locali e degli stessi ambienti sociali e, a volte, perfino dalla condivisione degli ateliers. All’inizio del 1910 i percorsi ‘di scuola’ sono distinti. La mostra degli artisti indipendenti, organizzata da John Sloan, Walt Kuhn, George Bellows, William Glackens, Arthur B. Davies e altri, tutti appartenenti alla cerchia di Henri (o suoi studenti), aprì i battenti nel mese di aprile, provocatoriamente sovrapponendo le sue date con quelle dell’esposizione annuale della National Academy of Design. La mostra fu un successo di pubblico e di critica, mentre i locali dell’Accademia rimanevano deserti. Ma altrettanto provocatoriamente, nello stesso momento, nella galleria di Stieglitz esponevano nove giovani modernisti, tra cui Marsden Hartley, Arthur B. Carles, Arthur Dove, John 79 BRUNO CARTOSIO Marin e Max Weber. Il critico James Huneker, definendoli “spiriti minori del movimento di Matisse”, sottolineò che rappresentavano il nuovo, che non erano “meri rampolli degli ormai moribondi impressionisti, come la maggioranza degli Indipendenti”.74 Invece un anno dopo, nell’aprile 1911, le due componenti principali del rinnovamento antiaccademico e modernista si trovarono parzialmente ‘riconciliati’ nella mostra organizzata da Rockwell Kent – studente di Henri – nei locali dell’associazione degli architetti, la Beaux-Arts Society. Il giovane e irruento Kent richiese che chi esponeva con gli indipendenti non esponesse con la National Academy. Pur essendo i portabandiera dell’antiaccademismo, Henri e Sloan rifiutarono l’aut-aut e non parteciparono, ma non ostacolarono la partecipazione degli altri del gruppo (e anzi, in una mostra più piccola che Henri organizzò allo Union League Club subito dopo, invitò tutti quanti, inclusi il cubista Max Weber e lo stesso Kent). Esposero quindi Kent, Maurice Prendergast, George Luks, Homer Boss, Glenn Coleman, A.B. Davies e Guy Pène du Bois, della cerchia di Henri, e John Marin, Marsden Hartley, Alfred Maurer di quella di Stieglitz.75 Ancora più inclusiva, naturalmente, fu la sezione statunitense dell’Armory Show, in cui furono ecumenicamente rappresentate tutte le tendenze progressiste. Ma nel frattempo, nel dicembre del 1911, Kuhn, Davies e Pach – gli organizzatori – si erano allontanati da Henri e avevano formato la Association of American Painters and Sculptors. Dopo l’Armory Show le posizioni personali, le diversità di concezione si radicalizzarono e mentre Henri cominciava a defilarsi da una scena su cui avvertiva di non essere più l’attore principale, altri protagonisti si facevano avanti. Nel marzo 1916, il critico Willard Huntington Wright, fratello del “sincromista” Stanton MacDonald-Wright, aveva convinto Henri a partecipare all’organizzazione della Forum Exhibition of Modern American Art insieme con Stieglitz. Henri aveva formalmente accettato, ma aveva poi preferito rimanere ai margini e lasciare campo libero allo stesso Stieglitz e agli ‘ultramoderni’. Tra i diciassette pittori rappresentati, oltre ai sincromisti, erano presenti sia ex studenti di Henri che avevano spinto la loro ricerca in direzione diverse da quelle del maestro, come Man Ray, Andrew Dasburg, Morgan Russell e Ben Benn, sia alcuni tra i più rappresentativi modernisti di Stieglitz: Hartley, Marin, Dove, Walkowitz. In quello stesso anno, significativamente, Henri avrebbe accettato l’invito di Edgar L. Hewett, direttore del Museum of New Mexico di Santa Fe, di andare a trascorrere l’estate a Santa Fe. La scelta nuovomessicana, che si ripetè nel 1917, e quelle irlandesi degli anni successivi testimoniano l’allontanamento di Henri dalle ‘battaglie’ 80 Il gusto del nuovo combattute sulla scena artistica newyorkese.76 Ma proprio il 1917 sarebbe stato l’anno cruciale, in cui i fili della socialità e della produzione artistica sarebbero stati ripetutamente intrecciati e divisi, per ragioni sia intrinseche, sia estrinseche al mondo dell’arte, fino alla crisi. Tre momenti, diversi tra loro, sono diversamente rivelatori. All’inizio dell’anno, la sera del 23 gennaio, due donne e quattro uomini, tra cui John Sloan e Marcel Duchamp, penetrano nell’arco di Washington square, salgono sulla terrazza in cima e proclamano la secessione del Greenwich Village dagli Stati Uniti, contestualmente invocando la protezione del presidente degli Stati Uniti Wilson in quanto “una delle piccole nazioni della terra”. I sei trascorrono la fredda notte invernale sull’arco, mangiando panini, bevendo tè e caffè dai thermos e sedendo su bottiglie di acqua calda. Se ne andranno all’alba, portando con sé una dichiarazione d’indipendenza di cui, naturalmente, il mondo non avrebbe mai avuto notizia. John Sloan ha lasciato un’incisione in cui sono raffigurati gli indipendentisti durante il bivacco notturno.77 Un aspetto interessante del fatto è che lo stesso Sloan partecipò all’impresa insieme con Duchamp. I due appartenevano a ‘campi’ artistici contrapposti: Sloan era un realista urbano, che rifiutava l’avanguardia, mentre Duchamp, da quando era arrivato a New York, si era collocato all’estremo opposto, nella piccola cerchia di ‘ultramodernisti’ che si raccoglieva attorno a Walter Arensberg. Anzi, Duchamp incarnava l’avanguardia più radicale, che rifiutava non solo la rappresentazione figurativa della realtà ma, a partire proprio dal soggiorno newyorkese, il concetto stesso di arte. La prodezza degli “arch conspirators” appare quindi come un’istantanea in cui è fissato un momento della socialità di cui la pratica artistica era parte, in cui le interazioni tra le persone avvenivano su piani diversi – inclusi il gioco, la burla, il ballo mascherato, la vacanza in comune, la collaborazione editoriale, la visita di cortesia ecc. – ed erano più frequenti e amichevoli di quanto l’aver puntato per decenni l’attenzione sulle rivalità tra i capiscuola e le diversità d’intenti artistici e di ‘dottrina’ possano oggi far supporre. La ricchezza degli anni prebellici diventa incomprensibile se si lascia cadere dal quadro il tessuto dei rapporti interpersonali. A suo modo, inoltre, il gesto dei sei simbolizza anche la separatezza che gli artisti e scrittori del Greenwich Village sentivano rispetto al resto della città. Nel giro di pochi anni il Village era diventato il luogo privilegiato della socialità artistica e della creatività e sperimentazione politico-culturale. Prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, scrive Malcolm Cowley, nel Village erano presenti e si fondevano i due diversi “tipi di rivolta, individuale e sociale, 81 BRUNO CARTOSIO o estetica e politica, o la rivolta contro il puritanesimo e la rivolta contro il capitalismo; in breve potremmo definirle bohemianismo e radicalismo. In quei giorni dell’anteguerra le due correnti erano difficilmente distinguibili. I bohèmien leggevano Marx e tutti i radicali avevano un tocco del bohèmien: entrambi sembravano combattere per la stessa causa. Socialismo, amore libero, anarchia, socialismo rivoluzionario, verso sciolto: tutti questi credi apparivano confusi tra loro agli occhi del pubblico ed erano tutti pericolosi per chi li praticava”. Dopo l’intervento degli Stati Uniti nella guerra, il Village diventerà la cittadella in cui bohème e dissidenza politica cercheranno di difendersi dagli attacchi di censori, moralisti, repressori. La repressione dei radicali sarà durissima, pochi resisteranno. “Nel 1919”, scrive ancora Cowley, “il Village era come un paese sconfitto”.78 A meno di tre mesi dalla bravata di Sloan e Duchamp, le traiettorie dei realisti e dei modernisti e dell’”ultra-avanguardia” o Dada, si incrociarono per l’ultima volta. Le sollecitazioni a riportare in vita una società di artisti indipendenti, che organizzasse annualmente un’esposizione aperta a tutti secondo il modello parigino erano venute dagli espatriati Gleizes e Duchamp. I loro amici statunitensi le avevano raccolte con spirito abbastanza unitario: presidente, vicepresidente, tesoriere e segretario dell’Associazione degli indipendenti furono eletti William Glackens, Charles Prendergast, Walter Pach e John Covert; mentre la direzione esecutiva fu affidata a Walter Arensberg.79 Dopo un’incubazione di quasi un anno, la grande mostra degli Indipendenti aprì i battenti nell’aprile del 1917, accogliendo più di milleduecento opere. Fu l’ultimo luogo e momento di temporanea conciliazione di tutte le forze ‘progressiste’, prima del giro di vite del tempo di guerra e del dopoguerra. Il 10 aprile 1917, dunque, la mostra apre i battenti al Grand Central Palace, sulla 46ma Strada. L’avvenimento, che vuole essere l’aggiornamento sullo stato dell’arte e insieme la valorizzazione dei pittori americani in termini di mercato, è atteso. Ma il 2 aprile il presidente Wilson ha chiesto al Congresso l’autorizzazione a dichiarare guerra alla Germania, ricevendola quattro giorni più tardi. La mostra si apre dunque proprio mentre il paese entra in una guerra della cui terribilità si è già avuto ampiamente notizia. Appena un anno prima, Woodrow Wilson era stato rieletto alla presidenza sulla promessa di tenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto. La situazione non è favorevole, ma la mostra sarà lo stesso importante, e non solo in quanto canto del cigno di una stagione straordinaria. Robert Henri rimase un’altra volta in disparte. Concordava con i principi 82 Il gusto del nuovo ‘ideologici’ fondamentali della mostra, racchiusi nella formula “Niente giuria, niente premi”, da lui stesso sostenuti contro le prassi élitarie dell’Accademia; ma dissentiva ora dalla decisione, suggerita da Duchamp, di appendere i quadri in base all’ordine alfabetico (con sorteggio della prima lettera, che nel caso specifico fu la “R”): “Se ci opponiamo alla imposizione di una giuria, perché non dovremmo opporci alla imposizione dell’alfabeto?”80 Nella mostra risultò evidente la lontananza tra i tentativi di modernizzazione moderata dei realisti e la produzione di quanti cercavano di metabolizzare tanto il fauvismo e il cubismo, quanto il futurismo e il dadaismo. Ma nonostante la sua importanza come vetrina, è un’altra la ragione che la colloca negli annali dell’arte statunitense. Duchamp, d’accordo con Arensberg e Joseph Stella (materialmente responsabili dell’acquisto), presentò un orinatoio da muro di ceramica, di produzione industriale, apponendovi il titolo di “Fontana” e firmandolo con lo pseudonimo “R. Mutt”. L’opera dello sconosciuto Mutt fu calorosamente discussa – Arensberg e Bellows quasi vennero alle mani – e infine respinta come provocatoria dal comitato esecutivo della mostra, nonostante che per statuto qualsiasi artista fosse intitolato a presentare due opere a sua scelta, dietro pagamento di una piccola tassa d’ammissione. Duchamp, che faceva parte del comitato organizzatore, si ritirò dalla mostra, senza rivelare chi era “R. Mutt”.81 Dell’’opera’ non rimane traccia, se non nella fotografia che Stieglitz fece in tempo a scattare, collocandola su uno sgabello davanti a un dipinto di Marsden Hartley. Sulla sua fine esiste però un racconto, sorpren dentemente ignorato da storici e critici. Il figlio di William Glackens racconta sia in che modo suo padre, presidente della mostra, risolvette lo spinoso dilemma riguardante la “Fontana”, sia la ragione per cui di quell’oggetto non sia rimasto altro che la foto: “Il comitato esecutivo era raccolto a discutere lo spinoso problema […]. Nessuno si accorse che William Glackens si staccava dal gruppo e senza rumore si dirigeva all’angolo dove il discusso objet d’art riposava, sul pavimento dietro un paravento. Lo alzò al di sopra del paravento e lo lasciò cadere. Ci fu uno schianto. Tutti si voltarono sorpresi. ‘S’è rotto!’, disse lui”.82 Dopo la mostra, la difficoltà a esporre e a vendere, di cui s’è detto, si approfondì ancora. La repressione politica e il soffocamento culturale imposto dal conformismo e dallo sciovinismo fecero entrare l’intera vita artistica e intellettuale in uno stato di vita sospesa. La progressiva socializzazione del ‘moderno’ fu interrotta. Con il 1917 la stagione della nascita di New York a metropoli e centro artistico-culturale mondiale finì. Un avvenimento simbolizza questa fine. A dicembre, Mabel Dodge lascia 83 BRUNO CARTOSIO New York per andare a Taos, nel New Mexico. “Andai pensando di tornare”, scrisse nella sua autobiografia; invece vi si stabilì e rimase praticamente per tutto il resto della sua vita. Mabel Dodge, l’ereditiera curiosa e giramondo, che era stata una delle forze attive nell’organizzazione dell’Armory Show e del Paterson Pageant del 1913, abbandona la metropoli cosmopolita, in cui ha tenuto per alcuni anni un salotto aperto agli innovatori della politica e della cultura, per un paesino povero, sperduto tra le propaggini meridionali delle Montagne Rocciose e il deserto. A Taos la maggioranza della popolazione è costituita di messicani e indiani pueblo. Della piccola minoranza di anglofoni fa parte un gruppo di pittori provenienti dalla costa orientale, che hanno dato vita a una “colonia artistica”. Non rinunciando al proprio ruolo di ‘impresario’ culturale, negli anni e decenni successivi, Mabel Dodge attrarrà a Taos e a Santa Fe scrittori, artisti, musicisti, intellettuali. Alcuni di loro vi si stabiliranno, altri vi risiederanno per periodi più o meno lunghi oppure a intervalli, alternando le visite e il lavoro estivo con il ritorno invernale nelle metropoli. Mabel Dodge aveva mandato in avanscoperta il marito Maurice Sterne, il pittore e scultore che a Parigi aveva frequentato Gertrude Stein e quindi Matisse e Picasso, e lui le aveva scritto: “Cara ragazza, vuoi un obiettivo nella vita? Salva gli indiani, la loro arte-cultura: rendila nota al mondo! …Quello che…altri stanno facendo per i negri tu puoi, se volessi, farlo per gli indiani”.83 Mabel Dodge partì, abbandonando il radicalismo politico-culturale metropolitano e la bohème del Greenwich Village. La sua aspirazione era divisa, per metà intesa a un temporaneo distacco dall’atmosfera di New York, che l’entrata in guerra rendeva pesante, (“Beh, voglio una vacanza”) e per l’altra metà proiettata verso un cambiamento profondo (“Mi piacerebbe un Cambiamento”). Quello che ebbe fu il Cambiamento: “Lo ebbi. La mia vita si spezzò in due in quel momento ed entrai nella seconda metà, un mondo nuovo che rimpiazzò tutto ciò che avevo conosciuto insieme con altri, più strano e terribile e dolce di quanto avessi mai potuto immaginare”.84 “Quasi nessuno aveva mai sentito nominare Santa Fe”, scriverà Mabel Dodge. Quasi nessuno: in realtà, ad esempio, Robert Henri vi ha passato le estati del 1916 e di quello stesso 1917, invitato dal direttore del Museo del New Mexico, attorno a cui si sta formando una vera e propria comunità artistica e intellettuale. Dopo il trasferimento di Mabel, in parte grazie a lei, Taos e Santa Fe diventeranno quasi un’appendice della comunità artistica newyorkese e il selvaggio New Mexico si configurerà come il rovescio, periferico e ‘primitivo’, della modernità metropolitana. Vi andranno tanto i pittori del realismo urbano, quanto quelli del modernismo. 84 Il gusto del nuovo I realisti, spinti dalla stessa ricerca di “nuovi soggetti” che gli aveva fatto aprire gli occhi sulla realtà popolare metropolitana, vi troveranno nuove ragioni per non abbandonare la figurazione, cercando però di inglobare in essa almeno la lezione di Cézanne e, in parte, dei Fauves.85 I modernisti, invece, toccati dal “primitivismo” alla maniera europea, in cui non sono i soggetti ma i loro manufatti a diventare ‘chiavi’ per ridefinire la pratica artistica, andranno a cercare in New Mexico le risposte ai loro nuovi problemi tecnico-stilistici ed espressivi. Alcuni le troveranno, tanto nei manufatti quanto nell’ambiente fisico, come Andrew Dasburg o John Marin o Georgia O’Keeffe, altri no. Per Marsden Hartley, che soggiornò per un anno e mezzo a Taos e Santa Fe nel 1918-19, l’esperienza della forma, del colore e della luce del New Mexico fu cruciale. Ma Hartley, come Mabel Dodge e Robert Henri (anche se con implicazioni personali diverse da entrambi), era pronto per il ripudio della città. Invece Stuart Davis, il discepolo di Henri che sarebbe diventato uno degli astrattisti più originali e rappresentativi, vi si sentì privato del senso della ricerca e della scoperta: “Il posto in sé era così interessante. Ma non credo che si potesse fare molto lavoro, se non in modo letterale. Perché il posto è sempre lì ed è così dominante. Non puoi non guardarlo […]. Forme bell’e pronte, da imitare. Colori. Però io non ci sono più tornato”.86 L’esoticità del luogo era attraente, ma per uno come lui, che a differenza di Henri o Sloan non avrebbe mai smesso di dedicare la sua vita artistica a interpretare la metropoli moderna, il New Mexico appariva come una rinuncia a tutto quello che, culturalmente e politicamente, in tutta la sua contraddittorietà, la grande città rappresentava. NOTE 1 Gertrude Stein, The Autobiography of Alice B. Toklas, 1933 (trad. it., L’autobiografia di Alice B. Toklas, Torino: Einaudi, 1978, p. 169. 2 Man Ray, Self-Portrait, Boston: Little, Brown & Co., 1998 (1963), p. 49; Floyd Dell, Homecoming, Farrar & Rhinehart, New York, 1933. 3 Robert M. Crunden, American Salons: Encounters with European Modernism, 1885-1917, New York: Oxford University Press, 1993, p. 373. 4 Floyd Dell, “Rents Were Low in Greenwich Village”, The American Mercury, 65:288, December 1947, p. 662 e Id., Homecoming, cit., p. 249. 85 BRUNO CARTOSIO 5 William B. Scott and Peter M. Rutkoff, New York Modern: The Arts and the City, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1999, p. 76; anche Steven Watson, Strange Bedfellows: The First American Avant-Garde, New York: Abbeville Press, 1991. 6 William B. Scott and Peter M. Rutkoff, op.cit., pp. 63-68. 7 Hutchins Hapgood, A Victorian in the Modern World, 1939, cit. in Adele Heller and Lois Rudnick, 1915: The Cultural Moment, New Brunswick: Rutgers University Press,1991, p.1. 8 Joseph Stella, “My Sermon about Christ”, s. d., riportato in Irma B. Jaffe, Joseph Stella, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1970, p. 49; Robert Henri a Frank Southrn, cit. in Bennard B. Perlman, Robert Henri: His Life and Art, New York: Dover, 1991, p. 127. 9 William Carlos Williams, The Autobiography, New York: Random House, 1953, p. 158. L’invettiva è anche in Man Ray. Nel 1914, allo scoppio della guerra in Europa, Ray lavora nella parte bassa di Manhattan: “Wall Street era in crescita; gli speculatori facevano fortune in un giorno. Nell’ora del pranzo, quando ero in città, camminavo nelle strade intorno alla Borsa, piene di impiegati gesticolanti che gridavano rivolti a uomini affacciati alle finestre aperte degli uffici, comunicando ordini di comprare e vendere. Era come una grande festa: tutti i profitti della guerra e nessuna delle sue miserie”; Self Portrait, cit., p. 49. 10 Randolph Bourne, “Below the Battle”, Seven Arts, July 1917, cit. in Christine Stansell, American Moderns: Bohemian New York and the Creation of a New Century, New York: Henry Holt, 2000, p. 313. 11 Ivi, p. 314. 12 Leslie Fishbein, Rebels in Bohemia: The Radicals of The Masses, 1911-1917, Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1982, pp. 59-66; Malcolm Cowley, Exile’s Return: A Literary Odyssey of the 1920’s, New York: Viking Press, 1951, p. 67 (trad. it., Il ritorno degli esuli, Milano: Rizzoli, 1963). Anche: Julian F. Jaffe, Crusade Against Radicalism: New York during the Red Scare, 1914-24, Port Washington, N.Y.: Kennikat Press, 1972; William Preston, Jr., Aliens and Dissenters, New York: Harper & Row, 1966; Robert K. Murray, Red Scare: A Study in National Hysteria, 1919-1920, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1955. 13 Robert M. Crunden, op. cit., p. 15. 14 La letteratura sul movimento Dada e sui suoi autori è sterminata. Per quanto riguarda New York, oltre agli studi sugli autori (in particolare Man Ray, Picabia e Duchamp) si vedano almeno le puntualizzazioni offerte in Dickran Tashjian, Skyscraper Primitives: Dada and the American Avant-Garde, 1910-1925, Middletown, Conn.: Wesleyan University Press, 1975; Francis Naumann, New York Dada, 1915-1923, New York: Harry N. Abrams, 1994; Francis Naumann, with Beth Venn, eds., Making Mischief: Dada Invades New York, New York: Whitney Museum of American Art, 1996. 15 Vicenda organizzativa, testimonianze e storia critica della mostra in: Walt Kuhn, The Story of the Armory Show, New York: Walt Kuhn, 1938; Walter Pach, Queer Thing, Painting: Twenty Years in the World of Art, New York: Harper, 1938; 1913 Armory Show 50th Anniversary Exhibition 1963, Utica-New York: Henry Street Settlement/Munson-William-Proctor Institute, 1963; Milton W. Brown, The Story of the Armory Show, New York: Abbeville Press, 1988; Id., American Painting from the Armory Show to the Depression, Princeton: Princeton University Press, 1955; Meyer Schapiro, “The Introduction of Modern Art in America: The Armory Show” (1952), in Id., Modern Art: 19th & 20th Centuries, New York: George Braziller, 1978, pp. 135-78; Andrew Martinez, “A Mixed Reception for Modernism: The 1913 Armory Show at the Art Institute of Chicago”, The Art Institute of Chicago Museum Studies, 19: 1, 86 Il gusto del nuovo 1993, pp. 30-57; Garnett McCoy, “The Post Impressionist Bomb”, Archives of American Art Journal, 20:1, 1980, pp. 13-17. 16 Gertrude Stein, Paris France, 1940, cit. in George Wickes, Americans in Paris, Garden City, N.Y.: Doubleday & Co., p. 2. 17 Annualmente a Parigi si tenevano quattro Salons principali: il più antico e conservatore era il più che secolare Salon des Artistes Français, affiancato nel 1890 dal più liberale Salon de la Nationale des Beaux-Arts (o Salon des Champs de Mars, che non assegnava premi); nel 1884 aveva preso vita l’anticonformista Salon des Indépendants, realizzato per iniziativa di Signac (in cui si erano eliminati giuria e premi), e, nel 1903, il Salon d’automne. Si vedano: Cynthia White and Harrison White, “Institutional Change in the French Painting World, in Robert N. Wilson, ed., The Arts in Society, New York: ARNO Press, 1979, pp. 255-70; John Milner, The Studios of Paris: The Capital of Art in the Late Nineteenth Century, New Haven: Yale University Press, 1988; Sandra E. Leonard, Henri Rousseau and Max Weber, New York: Richard L. Feigen, 1970, p. 14. 18 John Milner, op. cit.; Dan Franck, Bohèmes, Paris: Calman-Lévy, 1998 (trad. it., Montmartre & Montparnasse, Milano: Garzanti 2000). 19 Russell Lynes, The Tastemakers, New York: Harper & Bros., 1955; Aline B. Saarinen, The Proud Possessors, New York: Random House, 1958 (trad. it., I grandi collezionisti americani. Dagli inizi a Peggy Guggenheim, Torino: Einaudi, 1977); Calvin Tomkins, Merchants and Masterpieces: The Story of the Metropolitan Museum of Art, 2nd ed., New York: Henry Holt, 1989; Sarah Burns, Inventing the Modern Artist: Art and Culture in Gilded Age America, New Haven: Yale University Press, 1996. 20 Milton W. Brown, Story of the Armory Show, cit., p. 164. 21 Ivi, pp. 166-67; Id., American Painting from the Armory Show to the Depression, cit., pp. 52-58. 22 Dan Franck, in Montmartre e Montparnasse, cit. (pp. 195 e passim), ricorda che le reazioni sciovinistiche nei confronti della rottura cubista furono presenti anche in Francia, contro l’‘italiano’ Apollinaire, lo ‘spagnolo’ Picasso, contro gli influssi boche, cioè tedeschi, e così via. 23 Martin Green, The Armory Show and the Paterson Strike Pageant, New York: Macmillan, 1988. Per quanto riguarda i rapporti dei modernisti con anarchismo e socialismo, sia negli Stati Uniti, sia in Francia si vedano, oltre alle monografie su singoli artisti (come Henri, Sloan, Davis, Duchamp, Man Ray ecc.) e agli studi sul Greenwich Village: Allan Antliff, Anarchist Modernism: Art, Politics, and the First American Avant-Garde, Chicago: University of Chicago Press, Chicago, 2001; Paul Avrich, The Modern School Movement, Princeton: Princeton University Press, 1980; Dore Ashton, The New York School: A Cultural Reckoning, New York: Penguin, 1979; John Elderfield, The “Wild Beasts”: Fauvism and Its Affinities, New York: Museum of Modern Art, 1976. 24 Milton W. Brown, The Story of the Armory Show, cit., p. 234; Stuart Davis, Autobiography, New York: American Artists’ Group, 1945, reprinted in Diane Kelder, ed., Stuart Davis, New York: Praeger, 1971, p. 24; William Carlos Williams, Autobiography, New York: Random House, 1951, p. 134. 25 Sulla prima mostra londinese organizzata da Roger Fry alle Grafton Galleries, “Manet and the Post-Impressionists” (8 novembre 1910-15 gennaio 1911) – cui seguì una seconda, tra l’ottobre e il dicembre 1912, vista dagli organizzatori dell’Armory Show – si vedano: Peter Stansky, On or About December 1910, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1996; 87 BRUNO CARTOSIO Carol A. Nathanson, “The American Reaction to London’s First Grafton Show”, Archives of American Art Journal, 25:3, 1985, pp. 3-10. 26 Robert Henri cit. in Walter Pach, op.cit., p. 47. 27 Diane P. Fischer, “L’invention de l’’École américaine’ en 1900”, in Paris 1900. Les artistes américains à l’Exposition universelle, Paris: Paris Musées, 2001, p. 21. Nell’Esposizione del 1900, come in quella del 1889, gli artisti statunitensi furono secondi solo ai francesi per numero di medaglie ricevute. I giurati, sottolinea Fischer, “furono attenti a sostenere i loro antichi allievi americani”; infatti, “quasi tutti i premiati […] avevano avuto la loro formazione negli ateliers parigini” (p. 82). 28 Oltre alla moglie di Michael Stein, Sarah, frequentarono l’Académie Matisse tra l’inizio del 1908 e il 1911, Patrick Henry Bruce, Max Weber, Maurice Sterne e Walter Pach; si vedano: Alfred H. Barr, Jr., Matisse: His Art and Public, New York: Museum of Modern Art, 1966 (1951), pp. 116-18; James R. Mellow, Charmed Circle: Gertrude Stein & Company, New York: Avon, 1974, pp. 192 sgg. 29 Sue Davidson Lowe, Stieglitz: A Memoir/Biography, New York: Farrar, Straus and Giroux, 1983, pp. 133-34; William Innes Homer, “Stieglitz and 291”, Art in America, July-August 1973, p. 53. 30 Dorothy Norman, “From the Writings and Conversations of Alfred Stieglitz: From Notes made by Stieglitz, 1938”, Twice a Year, 1:1, Fall-Winter 1938, pp. 80-81. 31 Richard Whelan, Alfred Stieglitz: A Biography, Boston: Little, Brown & Co., 1995, pp. 226-27. 32 Edward Steichen a Alfred Stieglitz, febbraio 1908, in Henri Matisse 1904-1917, Paris: Éditions du Centre Pompidou, 1993, pp. 82-83. Il ricordo di Stieglitz è impreciso, ma la cronologia dei movimenti di Steichen tra l’autunno e l’inverno 1907-8 non è qui importante; si vedano: Richard Whelan, Alfred Stieglitz: A Biography cit., pp. 238-39; Alfred H. Barr, Matisse: His Art and Public, cit., p.113. 33 In assoluto, i primi Matisse visti negli Stati Uniti furono quelli che Michael e Sarah Stein portarono con sé e mostrarono agli amici dopo il loro ritorno a San Francisco, in seguito al terremoto del 1906. Prima della guerra, Stieglitz avrebbe esposto ancora Matisse, e poi Cézanne, Picasso, Braque, Brancusi e Picabia; si veda Marius de Zayas, How, When, and Why Modern Art Came to New York, edited by Francis Naumann, MIT Press, Cambridge, MASS, 1996. 34 Max Weber citato in Sandra E. Leonard, Henri Rousseau and Max Weber, cit., p. 47; Milton W. Brown, American Painting from the Armory Show to the Depression, cit., pp. 42-3. 35 Marius de Zayas a Alfred Stieglitz, cit. in Robert M. Crunden, American Salons, cit., pp. 354-55. 36 Sandra E. Leonard, Henri Rousseau and Max Weber, cit.; Percy North, Max Weber: The Cubist Decade, 1910-1920, Atlanta, Ga.: High Museum of Art, 1991; Holger Cahill, Max Weber, New York: Downtown Gallery, 1930, pp. 9-20; Lloyd Goodrich, Max Weber, New York: Whitney Museum of American Art, 1949, pp. 7-19; Gail Levin, “American Art”, in William Rubin, ed., “Primitivism” in 20th Century Art, New York: Museum of Modern Art, 1984, pp. 453-55. 37 Milton W. Brown, The Story of the Armory Show, cit., pp. 235-36. 38 Ivi, p. 238; Robert M. Crunden, American Salons, cit., p. 357; Walter Pach, op. cit., p. 201; Walt Kuhn, The Story of the Armory Show, cit., p. 24. 88 Il gusto del nuovo 39 Judith Zilczer, “The Noble Buyer”: John Quinn, Patron of the Avant-Garde, Washington, D.C.: Smithsonian Institution Press, 1978, pp. 31-32; Id., “Robert J. Coady, Forgotten Spokesman for Avant-Garde Culture in America”, American Art Review, 11:6, NovemberDecember 1975, pp. 77-89; Milton W. Brown, The Story of the Armory Show, cit., p. 238. 40 William B. Scott and Peter M. Rutkoff, op. cit., p. 119. 41 Milton W. Brown, American Painting from the Armory Show to the Depression, cit., p. 39. 42 William Innes Homer, Robert Henri and His Circle, Ithaca, N.Y.: Cornell University Press, 1969; Bennard B. Perlman, Painters of the Ashcan School: The Immortal Eight, New York: Dover, 1988; Id., Robert Henri: His Life and Art, New York: Dover, 1991. 43 Per quanto riguarda il mercato: i quadri della mostra newyorkese furono esposti per i dodici mesi successivi in varie altre città, senza che una sola tela venisse venduta. Con le eccezioni di Henri e di A.B. Davies, gli altri pittori del gruppo continueranno a lungo a non riuscire a vendere i loro quadri. Si veda Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., pp. 91, 118. 44 Guy Pène du Bois, “For Life and Henri, 1940”, American Art Review, 11:3, May-June 1975, p. 89. 45 Stuart Davis, Autobiography, cit., pp. 20-1; Walter Pach, op. cit., p. 44. 46 Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., p. 119, la citazione a p. 60; Robert Henri, The Art Spirit, Philadelphia/New York: J.B. Lippincott, 1960 1923, p. 135. 47 Robert Henri, op.cit., pp. 142, 147. 48 Walter Pach, op.cit., pp. 46-47. 49 Robert Henri, op. cit., pp. 143-52. 50 William Carlos Williams, Selected Essays, New York: Random House, 1954, p. 230. 51 Martin Green, op.cit., p. 245; William Carlos Williams, Kora in Hell: Improvisations, Boston: Four Seas Co., 1920; Id., I Wanted to Write a Poem: The Autobiography of the Works of a Poet, edited by Edith Heal, Boston: Beacon Press, 1958, pp. 26-31. 52 “La cosa che salva il tuo lavoro è l’opacità, non dimenticarlo. L’opacità NON è una qualità americana. Frizzo, sibilo, bla-bla e logorrea: questi sono echt americanisch”; la lettera di Ezra Pound è citata in William Carlos Williams, “Prologue to Kora in Hell”, in Id., Selected Essays, cit., pp. 8-9. 53 William Carlos Williams, Autobiography, cit., p. 158. 54 A proposito delle proprie “visioni simultanee” o “multiple” degli anni 1916-18 Stuart Davis disse di avere voluto “mettere insieme cose che normalmente tu non vedi nello stesso momento”; cit. in Patricia Hills, Stuart Davis, New York: Harry N. Abrams, 1996, p. 46. Anche Karen Wilkin and Lewis Kachur, The Drawings of Stuart Davis: The Amazing Continuity, New York: The American Federation of the Arts with Harry N. Abrams, 1992. William Carlos Williams, I Wanted to Write a Poem, cit., p. 29. 55 Stuart Davis citato in Philip Rylands, a cura di, Stuart Davis, Milano: Electa, 1997, p. 29; William Carlos Williams, I Wanted to Write a Poem, cit., p. 29. Sul percorso di Davis dal realismo à la Henri al modernismo e all’astrazione, e sul suo engagement: John R. Lane, Stuart Davis: Art and Art Theory, New York: The Brooklyn Museum, 1978; Lowery Stokes Sims, ed., Stuart Davis: American Painter, New York: The Metropolitan Museum of Art, 1991. 56 Man Ray, Self Portrait, cit., p. 44 e Id. with Arturo Schwartz, “An Interview with Man Ray: ‘This Is not for America’”, Arts Magazine, 51:9, May 1977, p. 117; William Carlos Williams, Autobiography, cit., p. 134. 57 William Carlos Williams, Autobiography, cit., p. 136. 89 BRUNO CARTOSIO 58 Roger Shattuck, The Banquet Years: The Origins of the Avant Garde in France, 1885 to World War I, revised edition, New York: Vintage, 1968, pp. 318-20. 59 William Carlos Williams, Selected Essays, cit., p. 23. 60 Wassily Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, 1912 (ma: dicembre 1911) (trad. it., Lo spirituale nell’arte, Milano: Bompiani, 1989, pp. 92-93). 61 Gail Levin, “Wassily Kandinsky and the American Literary Avant-garde”, Criticism. A Quarterly for Literature and the Arts, 21: 4, Fall 1979, pp. 347-61. La ‘presenza’ di Kandinsky non fu né momentanea, né circoscritta; ad esempio, influenzò anche Arthur Wesley Dow, pittore che aveva conosciuto Gauguin a Pont-Aven e insegnante tra i più importanti sulla scena newyorkese. Dow pronuncia nel 1916 un discorso sul modernismo (pubblicato come “Modernism in Art”, American Magazine of Art, 8:3, January 1917, pp. 113-16), in cui riprende Kandinsky. Dopo aver studiato con l’orientalista Ernest Fenollosa, Dow insegna al Pratt Institute di Brooklyn, al Teachers College della Columbia University e all’Art Students’ League di New York, e ha come studenti, tra gli altri, John Marin, Max Weber, Georgia O’Keeffe. Si vedano: Abraham A. Davidson, Early American Modernist Painting, 1910-1935, New York: Harper & Row, 1981, pp. 29, 62; Ruth E. Fine, John Marin, Washington, D.C.: National Gallery of Art, 1990, p. 180. 62 Gertrude Stein a Alfred Stieglitz, autunno 1913, cit. in James R. Mellow, op.cit., p. 230. Anche l’autobiografia di Marsden Hartley, Somehow a Past, edited by Susan Elizabeth Ryan, Cambridge, Mass.: MIT Press, 1997, pp. 75-85. 63 La questione è troppo ricca di implicazioni per essere trattata qui. Sui rapporti con il ‘primitivo’ degli statunitensi, in particolare Weber e Man Ray, oltre a Hartley, si vedano Gail Levin, “American Art”, in William Rubin, ed., “Primitivism” in 20th Century Art, cit., Vol. 2, pp. 453-73; Marius de Zayas, How, When, and Why Modern Art Came to New York, cit.; Judith Zilczer, “Robert J. Coady, Forgotten Spokesman for Avant-Garde Culture in America”, cit.; Daryl R. Rubenstein, Max Weber: A Catalogue Raisonné of His Graphic Work, Chicago: University of Chicago Press, 1980, pp. 8 sgg. 64 Gail Levin, “Marsden Hartley, Kandinsky, and Der Blaue Reiter”, Arts Magazine, 52:3, November 1977, pp. 156-60; Id, “Marsden Hartley and the European Avant-Garde”, Arts Magazine, 54:1, September 1979, pp. 158-63; Roxana Barry, “The Age of Blood and Iron: Marsden Hartley in Berlin”, Arts Magazine, 54:2, October 1979, pp. 166-71. Sul proprio periodo berlinese Hartley, in Somehow a Past, è singolarmente reticente; si vedano le pp. 8692. Dei suoi scritti nuovomessicani, si vedano almeno “Aesthetic Sincerity”, El Palacio (Santa Fe), 5: 20, December 9, 1918, pp. 332-33 e “Red Man Ceremonials: An American Plea for American Esthetics”, Art and Archaeology, 9: 1, January 1920, pp. 7-14. 65 Joseph Stella, “The Brooklyn Bridge (A Page of My Life)”, pubblicato dall’autore nel 1928 e su Transition, 16-17, June 1929, pp. 86-88; ora in Barbara Haskell, Joseph Stella, New York: Whitney Museum of American Art, 1994, pp. 206-7. Irma B. Jaffe, in Joseph Stella, cit., p. 55, attribuisce gli studi preparatori e l’inizio del quadro al 1918 e il suo completamento al 1919. La sua prima esposizione pubblica risale al 1920, col titolo The Bridge. 66 Joseph Stella, “Autobiographical Notes (1946)”, Art News, 59, November 1960, ora in Barbara Haskell, op. cit., pp. 211-15; citaz a p. 212. 67 Joseph Stella, “The New Art”, The Trend, 5, June 1913, ora in Ivi, pp. 201-2. 68 Joseph Stella, “Autobiographical Notes (1946)”, ora in Ivi, p. 213. 69 Irma B. Jaffe, Joseph Stella, cit., pp. 47-48. 90 Il gusto del nuovo 70 John I. H. Baur, Joseph Stella, New York: Praeger, 1971, p. 19; Milton W. Brown, American Painting from the Armory Show to the Depression, cit. p. 121. 71 I corsivi sono miei. William Carlos Williams, Selected Essays, cit., p. 14; Id., Kora in Hell, cit. (trad. it. a cura di Luigi Ballerini, Kora all’inferno, Parma: Guanda, 1971, p. 123). 72 William Carlos Williams, Kora in Hell, cit., V, 2; XVIII, 3 (Kora all’inferno, cit., pp. 38, 88-89). 73 Abraham A. Davidson, op. cit., p. 164. 74 Cit. in Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., p. 95. 75 Ivi, pp. 98-9; Judith Zilczer, “The Noble Buyer”, cit., p. 22. 76 Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., pp. 121-22 sgg. 77 John Sloan, New York Etchings (1905-1949), edited by Helen Farr Sloan, New York: Dover, 1978, p. 35. 78 Malcolm Cowley, Exile’s Return: A Literary Odyssey of the 1920’s, New York: Viking, 1951, pp. 66, 71 (trad. it., Il ritorno degli esuli, Milano: Rizzoli, 1963). Anche per Floyd Dell, in “Rents Were Low in Greenwich Village”, cit., p. 665, il Village dell’anteguerra era “un crogiolo in cui tutte le distinzioni di gruppo si dissolvevano. Artisti, scrittori, intellettuali, liberali, radicali, socialisti rivoluzionari, bohémien, avventori benestanti, curiosi: tutti venivano scaraventati in una socialità in cui serietà e frivolezza erano del tutto mescolati”. Nella sua autobiografia, il marxista Max Eastman, che pubblica la rivista socialista The Masses (con Dell, Sloan, Davis e altri), rivendica la “libertà dai dogmi che ci permetteva di partecipare autonomamente alle lotte per l’uguaglianza razziale e per i diritti delle donne, per rapporti intelligenti tra i sessi”; Enjoyment of Living, New York: Harper, 1948, p. 419. 79 Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., p. 125; Walter Pach, op. cit., p. 232; 80 Robert Henri cit. in Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., p.125; Walter Pach, op. cit., p. 234. 81 La ricostruzione più esauriente della vicenda è in William A. Camfield, “Marcel Duchamp’s Fountain: Its History and Aesthetics in the Context of 1917”, in Rudolf Kuenzli and Francis M. Naumann, eds., Marcel Duchamp: Artist of the Century, Cambridge, Mass.: MIT Press, 1990, pp. 64-94. L’articolo “The Richard Mutt Case”, apparso nello stesso 1917 su The Blind Man, la rivista che Duchamp pubblicava con Henri-Pierre Roché e Beatrice Wood, in difesa di “R. Mutt”, è stato a lungo attribuito a Duchamp stesso (si veda Barbara Rose, ed., Readings in American Art Since 1900, New York: Praeger, 1968, p. 55), ma Beatrice Wood lo rivendica a sé: “Scrissi io l’editoriale sui ponti e le tubature che sono grandi contributi dell’America al futuro”; “I Shock Myself: Excerpts from the Autobiography of Beatrice Wood”, with introduction and notes of Francis Nauman, Arts Magazine, 51:9, May 1977, pp. 13439. 82 Ira Glackens, William Glackens and The Eight: The Artists Who Freed American Art, New York: Horizon Press, 1983 (1957), p. 188. 83 Mabel Dodge Luhan, Movers and Shakers, Albuquerque, N.M.: University of New Mexico Press, 1985 (1936), p. 535. Anche: Lois Palken Rudnick, Mabel Dodge Luhan: New Woman, New Worlds, Albuquerque, N.M.: University of New Mexico Press, 1984. 84 Mabel Dodge Luhan, Edge of Taos Desert: An Escape to Reality, Albuquerque, N.M.: University of New Mexico Press, 1987 (1937), p. 6. 85 Sugli artisti di Taos e Santa Fe e sui rapporti con la scena newyorkese, si vedano: Charles C. Eldredge, Julie Schimmel and William H. Truettner, Art in New Mexico, 1900-1945: 91 BRUNO CARTOSIO Paths to Taos and Santa Fe, Washington, D.C.: National Museum of American Art/Smithsonian Institution, 1986; Sharyn Rohlfsen Udall, Modernist Painting in New Mexico, 1913-1935, Albuquerque, N.M.:, University of New Mexico Press, 1984. 86 Stuart Davis cit. in Sanford Schwartz, “When New York Went to New Mexico”, Art in America, 64: 4, July-August 1976, pp. 95-96. Sulla vita intellettuale e politico-culturale, non solo artistica, a Taos e Santa Fe negli anni della prima guerra mondiale, si vedano: Marta Weigle and Kyle Fiore, Santa Fe and Taos: The Writer’s Era, 1916-1941, Santa Fe: Ancient City Press, 1982; Beatrice Chauvenet, Hewett and Friends: A Biography of Santa Fe’s Vibrant Era, Santa Fe: Museum of New Mexico Press, 1983; Bruno Cartosio, Da New York a Santa Fe: terra, culture native, artisti e scrittori nel Sudovest (1846-1930), Firenze: Giunti, 1999. 92