Il gusto del nuovo
BRUNO CARTOSIO
IL GUSTO DEL NUOVO:
LA “NEW NEW YORK” DEL PRIMO NOVECENTO
All’inizio del Novecento, Parigi e le sue scuole d’arte sono una meta
irrinunciabile per gli artisti statunitensi. Non tutti riescono a rompere il guscio
dell’insegnamento accademico, ma alcuni di loro vengono toccati dalla rottura
rivoluzionaria dei fauves e del cubismo. Spesso con l’intermediazione di Gertrude
Stein, la quale, a Parigi dal 1904, è diventata la sacerdotessa dell’avanguardia,
entrano negli ateliers e conoscono di persona gli innovatori. Il reticolo dei
rapporti personali che caratterizza la loro esperienza transatlantica sarà decisivo
per i protagonisti del rinnovamento artistico newyorkese. Di fatto, tutti i
protagonisti della scena artistica statunitense del primo anteguerra, con le sole
eccezioni di John Sloan e Stuart Davis, sono di formazione europea e
prevalentemente francese.
Questo fa sì che, se si escludono i soggetti delle rappresentazioni, molto
spesso derivati dall’esperienza o dalla realtà americana, nessuna delle tendenze
pittoriche presenti sulla scena newyorkese sia propriamente autoctona: né il
tradizionalismo dei membri o aspiranti membri della National Academy of
Design, che fa dell’accademismo francese il suo modello, né il “realismo urbano”
degli antiaccademici, derivante dal neoimpressionismo, né lo sperimentalismo
di chi cerca di metabolizzare la rivoluzione post-impressionista francese.
L’inizio delle ostilità in Europa, nell’agosto 1914, interrompe l’andirivieni
dagli Stati Uniti alla Francia, da New York a Parigi. Quelle frequentazioni
hanno però creato le condizioni per il trapianto del modernismo in America.
La New York dell’arte diventa quasi periferia di Parigi. Inoltre, negli anni
della guerra, per la prima volta nella storia, grazie ai rapporti personali maturati,
alla neutralità statunitense che dura per quasi tre anni e alla nuova immagine
di New York, che diventa l’archetipo stesso della città moderna, saranno gli
artisti europei a trasferirsi in America. Non saranno molti, ma la loro presenza
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BRUNO CARTOSIO
sarà decisiva nell’accelerare la rincorsa di New York: grazie a Duchamp, Picabia
e a pochi altri americani, il dadaismo newyorkese sarà contemporaneo con
quello europeo.
New York prima della guerra
Anche dopo lo scoppio della guerra in Europa – quando, come scrive
Gertrude Stein, “la vecchia vita ebbe fine”1 – New York mantiene il proprio
fermento evolutivo. All’inizio l’angoscia per una guerra che agli americani
sembrava impossibile domina le sensibilità e le coscienze. “Ero depresso…”,
scrive Man Ray. “Deve esserci un modo, pensavo, per evitare le calamità che
gli esseri umani si tirano addosso”. “Era orribile; […] non riusciva a entrarti
nella mente”, scriverà il poeta e scrittore Floyd Dell, uno dei redattori del
settimanale socialista The Masses, che è contro la guerra. “Nessuno sapeva cosa
pensare, che cosa sperare, o che cosa temere. Le menti, sforzandosi di pensare,
si stordivano”.2
Ma le persone si adatteranno presto, aggiunge Dell, sia alla realtà del
“massacro allo stato puro”, sia “all’intreccio di quel dramma orribile”, e la
dialettica politico-culturale continuerà, più convulsa e contrastata, forse, ma
ancora eccezionalmente vivace. In particolare nel mondo dell’arte continuano
a farsi sentire i sussulti, le ferite, gli entusiasmi prodotti dall’Esposizione
internazionale di arte moderna del 1913, il cosiddetto “Armory Show”, dal
luogo in cui si svolse. E soprattutto: gli artisti che erano andati in massa in
Europa negli anni precedenti tornano a casa, portando con sé le nuove
acquisizioni.
I quasi tre anni che precedono l’entrata in guerra degli Stati Uniti saranno
un “un periodo sempre più incalzante di sperimentazione creativa”3, in cui
l’arte contemporanea si conquista uno spazio inedito nella cultura e nel costume
– nella coscienza – dell’intelligentsija newyorkese. New York diventa uno
straordinario polo d’attrazione per i giovani artisti, scrittori, innovatori di
tutto il paese. E in essa, nel piccolo quartiere nella parte bassa di Manhattan
abitato dalle comunità italiana e irlandese e dai lavoratori del porto, si formano
le fluide aggregazioni di questi esuberanti ribelli, spesso sradicati e spiantati:
“Gli affitti erano bassi al Greenwich Village, perciò gli artisti e gli scrittori ci
vivevano”, scriverà anni dopo Floyd Dell, uno dei protagonisti della breve,
irripetibile stagione felice del Village.4
Dopo il successo dell’Armory Show, cresce il numero dei collezionisti della
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Il gusto del nuovo
‘nuova’ arte e dei galleristi disposti a esporla. Grazie all’eliminazione della
tassa sull’importazione delle opere d’arte contemporanea nell’ottobre del 1913,
il mercato si apre e i mercanti e galleristi parigini, che avevano prestato volentieri
le opere per l’Esposizione sperando in tale esito, diventano interlocutori
estremamente ben disposti. Inoltre, New York sostituisce ormai Parigi, che ha
la guerra alle porte, come destinazione degli aspiranti artisti americani: “Nel
1914, operavano in città più di due dozzine di scuole d’arte riconosciute, con
un numero di iscritti complessivo intorno a venticinquemila”.5
È in questa “New New York” che gli artisti europei contribuiscono a
movimentare la scena, portando di persona negli Stati Uniti i modi e i contenuti
delle avanguardie. Insieme con la moglie Gabrielle Buffet, torna Francis Picabia,
che si era già trattenuto a New York per pochi mesi nel 1913, in occasione
dell’Armory Show, e vi rimane dal 1915 al ’17. Nell’estate dello stesso 1915
arriva il riformato Marcel Duchamp, che resterà fino al ’18, seguito poco dopo
dal compositore Edgar Varèse e dall’altro pittore cubista Albert Gleizes, reduce
dal fronte, il quale rimarrà anch’egli fino al 1918. Arrivano anche lo scrittore
Henri-Pierre Roché, il pittore svizzero Jean Crotti, che sposerà la sorella di
Duchamp, e il pugile-artista Arthur Cravan, che nel 1918 lascerà New York
per il Messico con la poetessa inglese Mina Loy.6
A poco a poco, però, l’atmosfera cambia anche a New York, anche se non
tutti vivono il cambiamento allo stesso modo. Già nell’estate del 1915, scrive
Hutchins Hapgood, con lo stesso senso di angoscia espresso da Floyd Dell un
anno prima, “i dolci impulsi creativi della pace non c’erano più. Gli individui
avevano fermato la loro esistenza spirituale. Tutti aspettavano. Le vite erano
vacue”.7 A partire dal 1916 cresceranno in modo deciso anche le tensioni sociali:
prima l’acceso dibattito intorno alla possibilità dell’entrata in guerra, poi
l’ondata di scioperi senza precedenti che attraverserà il mondo industriale
statunitense nel 1916-17 e infine, dopo l’intervento, l’inizio di un quinquennio
di violenta repressione di ogni forma di dissenso sociale e politico, cui si somma
nel 1920 il Proibizionismo.
Il pittore italiano Joseph Stella, negli Stati Uniti dal 1896, scriverà che
“durante il periodo iniziale della grande guerra, nel 1916, l’Arte arrivò a un
punto morto: quasi nessuna mostra e quasi nessuna vendita. Io ero disperato
[...] e con l’urgenza assoluta di trovare qualcosa da fare per guadagnarmi da
vivere”. Come tanti altri artisti anche Stella, che dovrà andare a insegnare
l’italiano, non riuscirà a vivere del suo lavoro. Ma anche un pittore affermato
come Robert Henri scriverà al fratello, nel 1918, che “in pratica, nell’ultimo
anno, non si sono più venduti quadri”.8
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BRUNO CARTOSIO
A sua volta, il poeta William Carlos Williams, nella sua autobiografia, dice
di quegli anni e del suo Kora in Hell, scritto in gran parte nel 1917: “Il mio
terzo libro fu Kora all’inferno. Maledizione: la freschezza, la novità di una
primavera che avevo sentito con gli altri, un risveglio delle lettere, tutto quel
piacere che voleva dire il creare un mondo in grado di opporsi alle vecchie
supremazie veniva cancellato dalla guerra. La stupidità, la calcolata malignità
di una società grufolante dietro ai soldi come quella che conoscevo e contro cui
scrivevo con violenza; tutto quello che desideravo veder vivere e crescere veniva
deliberatamente assassinato in nome della chiesa e dello stato. Era Persefone
discesa nell’Ade, all’inferno. Kora era la primavera dell’anno; il mio anno, io
stesso venivamo macellati”.9 È di questa morte della straordinaria primavera
artistica, culturale e politica degli anni precedenti, che scriverà anche Randolph
Bourne, in uno degli ultimi numeri di Seven Arts prima della chiusura, avvenuta
nell’ottobre 1917 e dovuta alla sua opposizione alla guerra. Bourne si riferirà
proprio alla cappa tetra del crescente clima di intolleranza con cui la destra
aveva accompagnato il paese verso l’intervento, montando “una costruzione
psicologica fatta di panico, odio, rabbia, arroganza di classe e aggressività
patriottica”.10
Agli occhi dei sostenitori dell’intervento e delle autorità politiche locali e
nazionali, anarchici, socialisti, sindacalisti rivoluzionari, immigrati formavano
“una ripugnante massa pacifista”. Contro di loro montò una diffusa violenza
repressiva, che compenetrò di sé tutta la società. “Molti furono picchiati,
torturati, minacciati di morte e sparati da altri cittadini, dalla polizia, dai
soldati […] Seguì una terrificante sospensione dei diritti civili, finalizzata a
sopprimere il dissenso e la combattività operaia e, allo stesso tempo, fermare la
violenza incontrollata. La legge federale sullo Spionaggio, promulgata nel 1917,
poco dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, e la sua compagna dell’anno
seguente, la legge sulla Sedizione, assegnavano lunghi anni di prigione a
chiunque fosse giudicato responsabile di ostacolare lo sforzo bellico, anche
esprimendo opinioni contro la guerra”.11 Le sedi delle organizzazioni giudicate
sovversive o pacifiste furono perquisite, saccheggiate e distrutte dalla polizia;
migliaia di militanti furono arrestati e messi in prigione e, se immigrati,
deportati al paese d’origine. Giornali e riviste radical, che sostenevano opinioni
contrarie all’intervento o che erano in vario modo espressione di
un’intellettualità non conformista furono perseguitati e soppressi o costretti a
chiudere”. L’impatto di un quinquennio di repressione senza precedenti fu
devastante: quale che fosse la loro linea politica, scrive Malcolm Cowley, quasi
tutti i radicali del 1917 furono costretti al silenzio e nel Village “i discorsi
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Il gusto del nuovo
sulla rivoluzione lasciarono il posto a quelli sulla psicoanalisi”, gli unici
tollerati.12
Per questo lo storico Robert Crunden chiude l’introduzione al suo American
Salons scrivendo: “La storia si ferma al 1917 per una ragione ovvia: la vita
creativa cessò quasi del tutto negli anni della guerra”, come era già successo a
Londra e Parigi, a Monaco e Berlino e nel resto d’Europa.13 Da una parte e
dall’altra dell’Atlantico, chi non va a combattere – quale che ne sia la ragione –
cerca di conservare una qualche normalità nel proprio quotidiano alterato dalla
guerra e dalle sue conseguenze. Il degrado delle condizioni materiali
dell’esistenza è infinitamente maggiore a Parigi che a New York. In entrambi
i luoghi, tuttavia, ci si trova a lavorare in condizioni di accentuata marginalità
sociale, in contesti comunque caratterizzati dal crollo del mercato dell’arte e
della letteratura, dalle censure e dalla repressione politica, dallo sciovinismo,
dall’imbarbarimento culturale.
In questo contesto una sola svolta nel mondo dell’arte, al di là di quelle
personali, sarà destinata ad avere portata internazionale. Nell’autunno del 1916,
viene messo al mondo in Svizzera l’unico movimento ‘artistico’ nuovo di quegli
anni, Dada. Nasce in territorio neutrale, avendo però interiorizzati la
distruttività, il nichilismo della guerra e un inedito senso di inutilità dell’arte.
Forse non è un caso che, con una nascita quasi parallela, Dada trovi una culla
nella New York degli anni della più dura repressione di ogni discorso culturalepolitico dissenziente. La sua autoironia e la sua stessa autoreferenzialità –
pochissimi artisti e ancora meno cultori, come Walter e Louise Arensberg o
Katherine Dreier, circoscritti alle classi agiate – salvarono Dada in America.
Oppure, da un altro punto di vista, lo portarono al suo esaurimento, mentre in
Europa la sua evoluzione l’avrebbe portato invece verso gli sbocchi surrealisti.
Ma questo sarebbe un altro discorso.14
Realisti e modernismo prima dell’Armory Show
L’Esposizione internazionale di arte moderna è il momento culminante, di
svolta nel decennio prebellico. Si aprì a New York nel febbraio 1913, un anno
e mezzo prima che cominciasse in Europa la devastazione materiale e morale
della guerra. A New York vennero esposte quasi 1500 opere divise in due
sezioni, statunitense ed europea (mentre a Chicago e Boston vennero presentate
‘versioni’ ridotte).15 Nonostante che gli artisti americani fossero largamente
più numerosi, fu la presenza degli europei a destare l’interesse maggiore e a
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suscitare reazioni estreme, tanto tra il pubblico quanto tra i critici. In particolare
il Nudo che scende le scale di Duchamp fu vilipeso, deriso, attaccato per la sua
bruttezza, incomprensibilità e immoralità. Il quadro era già stato presentato
l’anno prima a Parigi: al Salon des Indépendents, nel febbraio 1912, aveva
ricevuto critiche preliminari tali che Duchamp lo aveva ritirato prima
dell’apertura della mostra, per esporlo invece qualche mese più tardi e senza
problemi al Salon de la Section d’Or. Le differenze tra New York e Parigi sono
significative.
A Parigi la discussione, e il rifiuto o l’esaltazione di un quadro, un autore o
una corrente, avvenivano all’interno di una società in cui lo spazio reciproco e
in buona parte sovrapposto di artisti e critici era ampiamente riconosciuto:
“Veramente quello che fanno è che rispettano le arti e le lettere”, scrisse Gertrude
Stein in Paris France.16 La pratica dell’arte e della critica e il mercato delle
opere contemporanee erano consolidati. Le stroncature o gli entusiasmi dei
critici, le discussioni, le contrapposizioni e persino gli odi tra gruppi e
conventicole o ‘partiti’ potevano essere violentissimi, ma avvenivano nella
continuità di spazi la cui legittimità era consolidata da decenni.17 Inoltre, una
parte non trascurabile di Parigi viveva della propria tradizione artistica e del
richiamo da essa esercitato sui collezionisti e sugli aspiranti artisti di tutto il
resto d’Europa. Oltre all’École des Beaux-Arts, le tante accademie e scuole di
pittura, l’esistenza di un mercato in cui operavano i numerosi galleristi, mercanti
e collezionisti e, infine, la presenza degli studi di pittori che per ragioni diverse
si erano conquistati vari gradi di notorietà negli ultimi decenni dell’Ottocento
e nei primi del Novecento attiravano decine di migliaia di studenti che
contribuivano a tenere in piedi i settori dei materiali, degli affitti, delle
esposizioni. Anche l’immagine romantica della vita di bohème li attirava a
Parigi dal resto del mondo.18
Nonostante la zona franca del Greenwich Village prebellico, a New York
non era mai esistito nulla di paragonabile. La città non aveva un pubblico, una
tradizione per l’arte. La stessa trasformazione estetica del suo aspetto esteriore,
con l’adozione del modello architettonico-urbanistico della “city beautiful”,
era cosa degli ultimi decenni e rimaneva comunque episodica, legata com’era a
edifici o interventi significativi ma isolati. All’inizio del Novecento le gallerie
erano poche. I mercanti, oltre a essere pochi, erano al servizio del gusto ‘europeo’
dei loro clienti, affascinati dagli ‘antichi maestri’ oppure dagli accademici
francesi o al massimo dagli impressionisti; in ogni caso largamente indifferenti
verso la produzione americana che non fosse rispettosa delle prescrizioni tradi
zionaliste della National Academy of Design. I musei ignoravano l’arte
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Il gusto del nuovo
contemporanea. I grandi ricchi, che comperavano quadri e sculture per le loro
residenze grandiose, usavano l’arte come simbolo ed equivalente della loro
condizione sociale. E i critici che fornivano legittimazione al gusto dominante
delle élites facevano una critica moralistica, tradizio nalista, arroccata nella
difesa del classicismo della produzione accade mica.19
Gli ‘scandali’ nei Salons parigini erano frangenti nel mare perennemente
agitato della pratica artistica; quello dell’Armory Show fu un’improvvisa onda
di piena che si rovesciò con gran fragore, sconvolgendolo, nello stagno tranquillo
del gusto perbenista dominante negli Stati Uniti. La mostra fu dovunque un
grande successo di pubblico. Ma con poche eccezioni la discussione critica fu
segnata dal provincialismo. A New York, la mostra scatenò le reazioni di rigetto
dei critici più importanti e i loro attacchi, portati in nome della tradizione,
furono mitigati solo in parte dalle parole di un piccolo nucleo di critici aperti
al nuovo. Nell’ancor più periferica Chicago, il modernismo provocò indignazione
morale, denunce alla magistratura, minacce di violenza e manifestazioni di
protesta da parte di docenti e studenti dell’Art Institute, che bruciarono l’effigie
di Matisse e di Walter Pach, uno degli organizzatori. Infine, nella sussiegosa
Boston, l’esposizione fu discreta mente circondata da una cortina di silenzio
imbarazzato.
L’Armory Show fu visto come una provocazione intentata contro l’ordine
morale della nazione. Per molti, scrive Milton Brown, il post-impressionismo,
i fauves, i cubisti erano “espressioni non solo della decadenza, ma della
degenerazione intellettuale, morale e politica della cultura europea e quindi
pericolose per la virile integrità della nostra”.20 Lo spettro del socialismo e
soprattutto dell’anarchia fu agitato dai critici conservatori, le cui vedute
dominavano sulla stampa. E.C. Maxwell scrisse su International Studio che l’arte
moderna era antidemocratica e socialista e avvertiva che il frutto dei suoi semi
sarebbe stata la rivoluzione. Frank Jewett Mather scrisse sull’Independent che il
post-impressionismo “è semplicemente l’araldo dell’anarchia universale” e il
pittore e critico Kenyon Cox ribadì su Scribner’s Magazine: “C’è una sola parola
per questa negazione di ogni legge, per questa insurrezione contro ogni costume
e tradizione, per questa asserzione di licenza individuale senza disciplina e senza
ritegno, e quella parola è ‘anarchia’”. Anche l’altra autorità Royal Cortissoz
espresse sulla rivista Century la sua convinzione che i modernisti fossero
pericolosi: “Postimpressionisti, cubisti, o futuristi, li si chiami come si vuole,
il loro obiettivo è di rovesciare il mondo a gambe all’aria”. E il New York Times,
in un editoriale pubblicato il giorno dopo la chiusura della mostra, riprendeva
i temi esposti da questa parte della critica: “Ci si ricordi bene che questo
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movimento è parte del generale movimento, riscontrabile in tutto il mondo,
teso a disgregare e corrompere, se non a distruggere, non solo l’arte, ma la
letteratura e anche la società. Bisogna dire che è presente in esso una specie di
follia che ha le sue origini lontane nei passi iniziali dello spirito democratico.
Tuttavia, la sua parentela con la vera democrazia e la vera libertà di pensiero,
azione ed espressione è lontana e indefinita; mentre i cubisti e i futuristi sono
cugini stretti dei politici anarchici, dei poeti che sfidano la sintassi e la decenza
e di tutti i distruttori che, mentre dicono di voler rigenerare il mondo, in
realtà bloccano ovunque le ruote del progresso”.21
La nuova aristocrazia del denaro e i suoi ideologi, tra cui i critici che dettavano
le leggi del gusto, guardavano alla presenza di immigrati, di socialisti e anarchici
come a un pericolo per la nazione. E i quadri che ‘praticavano’ la rottura
dell’ordine accademico tradizionale – sia perché rappresentavano soggetti
volgari, sia perché negavano le forme belle dei Maestri – venivano associati ai
rivoluzionari in quanto minacce per l’ordine politico e la gerarchia sociale. In
tale visione l’ordine estetico, morale e politico del mondo era una cosa sola, ed
era da difendere dagli assalti di immoralisti e rivoluzionari. Inoltre, come le
idee di rivoluzione e i lavoratori immigrati che le abbracciavano, anche le nuove
tendenze artistiche provenivano dall’estero, e quindi le accuse di corruzione
della moralità e di minaccia per la nazione erano rafforzate dallo sciovinismo.22
Inutile dire che l’idea che il paese fosse sull’orlo della rivoluzione sociale, o
che il Greenwich Village fosse il focolaio della rivolta, era frutto insieme di
sopravvalutazioni paranoiche della minaccia e del calcolo politico funzionale a
giustificare la repressione. Tuttavia, al di là delle distorsioni prodotte dal
moralismo bigotto, dal darwinismo sociale e dallo sciovinismo, dall’ottusa
reazionarietà politica, la percezione dei benpensanti che i sentieri della protesta
politica, della rottura dei codici della morale sessuale e dell’innovazione letteraria
e artistica si intrecciassero non era sbagliata. Lo storico Martin Green focalizza
l’attenzione del suo New York 1913 sui due grandi eventi politico-culturali di
quell’anno: l’Armory Show e il “Paterson Strike Pageant”. Quest’ultimo fu il
grande spettacolo con cui i setaioli in sciopero della vicina Paterson misero in
scena al Madison Square Garden di New York episodi e ragioni della loro
lotta. Gli ambienti culturali da cui provenivano i promotori, gli organizzatori
e i sostenitori dei due avvenimenti erano in parte gli stessi e in misura rilevante
si sovrapponevano le aree di opinione che producevano la legittimazione per
l’uno e per l’altro avvenimento, i veicoli pubblicistici attraverso cui l’uno e
l’altro trovavano casse di risonanza.23
Sull’importanza epocale dell’Armory Show sono sempre stati concordi, al
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Il gusto del nuovo
di là delle sfumature, tutti quanti hanno scritto in proposito, fossero gli
organizzatori, gli storici, oppure gli artisti ‘toccati’ dalle scoperte che vi fecero.
Per il suo storico maggiore, Milton Brown, esso “fu il risultato di anni di
esperimenti, esperienze e sviluppo degli artisti americani e servì da stimolo
per una nuova sequenza di eventi. E proprio perché sta in rapporto così diretto
e strutturale con il passato e il presente esso è giustamente diventato un
momento simbolico nella nostra vita artistica”. Il diciannovenne Stuart Davis
decise che sarebbe diventato “un artista ‘moderno’” di fronte a Gauguin, Van
Gogh e Matisse. Del Nudo che scende le scale di Duchamp, il poeta William
Carlos Williams scrisse nella sua autobiografia: “mi ricordo che mi misi a
ridere forte, quando lo vidi per la prima volta, di contentezza, con sollievo”.24
Non il riso derisorio di Alfred Stieglitz davanti a Cézanne nel 1907, di cui
diremo, o quello con cui quel quadro era stato allora accolto da una parte del
pubblico e dei critici, ma il riso liberatorio di chi aveva di fronte a sé la prova
che l’impensabile diventava possibile: se si potevano rompere così le convenzioni
figurative, sarebbe stato possibile fare lo stesso con quelle narrative e poetiche.
Basti soltanto sottolineare, ancora una volta, l’eccezionalità dell’avvenimento:
tanto traumatico perché grande, inatteso e provocatorio nei confronti del gusto
dominante. Era la prima volta che veniva presentata negli Stati Uniti una
rassegna così ampia dello sperimentalismo artistico europeo; New York era in
ritardo anche rispetto a Londra.25 Nel 1886, aveva suscitato scalpore anche la
prima mostra degli impressionisti, organizzata a New York dal gallerista
parigino Paul Durand-Ruel, ma le varianti impressioniste del paesaggismo
tanto francese che americano erano state rapidamente assorbite. Ora le rotture
di Gauguin, Cézanne, Matisse e Duchamp lo sarebbero state molto meno.
Un’altra diversità profonda rispetto a trent’anni prima: all’Armory Show si
mostravano tutti insieme non solo gli esiti rivoluzionari contemporanei, ma
anche alcuni dei filoni che da Ingres e Delacroix, nonostante l’accademismo
imperante, avevano portato alla rivoluzione. Ed era evidente che l’America era
rimasta impermeabile ad entrambi, anche se i suoi artisti avevano frequentato
Parigi.
Per la gran parte di costoro, fino al primo decennio del Novecento, la norma
cui dovevano sottostare nelle scuole e accademie parigine aveva continuato a
fare aggio sulla sperimentazione. Ad anni di distanza, Robert Henri rimpianse
di essersi trovato nella stessa locanda con Gauguin, in Bretagna, e non essere
stato in grado di capire l’importanza di quello che egli stava facendo,
aggiungendo poi che nelle scuole d’arte parigine del tempo “non abbiamo mai
avuto la possibilità di sentire il nome di gente come Cézanne o Gauguin”.26
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BRUNO CARTOSIO
La doppia costrizione della norma accademica e della ricerca della reputazione
internazionale, cui si legava la speranza del successo economico, li rendeva
conformisti. “Il loro desiderio di piacere ai critici e ai collezionisti li spingeva
a reprimere le loro tendenze naturali e ad adottare i metodi (l’esecuzione
minuziosa) e i soggetti accademici (religione, storia, mitologia e nudo)”, scrive
Diane Fischer. Tanto i critici francesi conservatori, la cui reputazione era
altissima, quanto quelli statunitensi erano estimatori della tecnica accademica
e gli artisti americani si fecero a lungo scrupolo di soddisfare il loro gusto.27
Anche i ‘rivoluzionari’ francesi avevano avuto una formazione accademica,
da cui si erano però distaccati prima e con maggiore decisione. Invece, tra gli
americani a Parigi – spesso limitati nella loro socialità dalle difficoltà
linguistiche – quelli che infine rifiutavano Bouguereau, l’École des BeauxArts o l’Academie Julian, raramente riuscivano a entrare in quegli interstizi in
cui si incubavano le rivolte. Più spesso trovavano nei musei gli stimoli per
muovere in direzioni meno convenzionali, guardando a Velázquez o a Manet,
oppure al paesaggismo fiammingo o a quello francese, da Barbizon a Monet.
Quasi sempre l’occhio era rivolto al passato, più o meno lontano. Era naturale,
quindi, per chi era rimasto estraneo alla sperimentazione, che le esposizioni
pubbliche avessero a volte il valore di rivelazione. Questo fu l’Armory Show.
Non sempre, però, fu la stessa cosa a Parigi: Gauguin, cui Vollard dedicò la
prima mostra a cinque mesi dalla morte, nel 1903, e che ebbe una grande
retrospettiva nel 1906, non lasciò negli americani tracce profonde (che lasciò
invece sia su Picasso, sia su Matisse); lo stesso vale per le retrospettive di Van
Gogh e di Seurat al Salon d’automne del 1905. Anche l’importanza di Cézanne,
che aveva esposto al Salon del 1904 e che ebbe due retrospettive nel 1907,
dopo la morte, fu compresa in ritardo. Nonostante il Salon d’automne del
1905, in cui i fauves ricevettero il loro battesimo nel clamore della critica,
Derain e Matisse rimasero sconosciuti ai più; allo stesso modo che la riservatezza
di Picasso e Braque, mai presenti ai Salon (con l’eccezione di due quadri di
Braque a quello degli Indipendenti del 1909), rese il loro cubismo una cosa di
cui molti parlavano e che pochi conoscevano davvero.
Fino all’Armory Show, dunque, solo una piccola minoranza di persone aveva
avuto rapporti reali con i protagonisti e le opere del rinnovamento artistico
europeo. Il contatto diretto era stato di chi a Parigi aveva frequentato il salotto
di Gertrude Stein e, quasi sempre per il tramite suo e dei fratelli Leo e Michael,
aveva conosciuto di persona Matisse, Picasso e gli altri cubisti; dei pochissimi
che avevano colto la modernità del ‘doganiere’ Rousseau o che erano andati a
scuola da Matisse 28 , oppure ancora di quelli che avevano conosciuto i movimenti
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Il gusto del nuovo
d’avanguardia tedeschi e italiani, come vedremo. In patria, a partire dal 1908,
solo i frequentatori della galleria “Photo-Secession” di Alfred Stieglitz –
ribattezzata familiarmente “291” perché situata al n. 291 della Quinta Avenue
– e pochi critici e appassionati erano in qualche misura aggiornati.
Alfred Stieglitz
Sulla figura istrionica e il ruolo di organizzatore e intermediario culturale
di Alfred Stieglitz sono state scritte molte pagine. Del grande fotografo, uno
dei maggiori del suo tempo, e del suo ruolo nella storia della fotografia non ci
occuperemo. A noi interessa sottolineare il suo ruolo di gallerista, e quindi di
intermediario culturale nei rapporti con la Francia, mettendo però in luce anche
le modalità del suo avvicinamento all’arte di avanguardia.
Ancora nel 1907, Stieglitz, che nella sua galleria e sulla sua rivista Camera
Work aveva difeso la fotografia estetizzante del “pittorialismo”, era chiaramente
ancorato a una concezione dell’arte senza rapporti con il modernismo. Nel
gennaio del 1907, in quella che fu la prima mostra non fotografica nella sua
galleria (aperta due anni prima), Stieglitz aveva esposto i disegni di Pamela
Colman Smith, un’americana residente in Inghilterra, che rimaneva nel solco
figurativo e romantico di Walter Crane e Aubrey Beardsley e dei Pre-raffaelliti.29
A giugno era partito per l’Europa e a Parigi, raccontò in seguito lo stesso
Stieglitz, l’amico Edward Steichen lo aveva voluto portare “in un posto chiamato
Bernheim Jeune et Fils”, in realtà una delle gallerie di spicco della città, a
vedere i quadri di “uno nuovo, morto l’anno prima, che – diceva Steichen – i
mercanti francesi stavano cercando di lanciare sul mercato”. Si trattava della
prima mostra dedicata a Paul Cézanne dopo la sua morte, avvenuta nell’ottobre
1906, a cui sarebbe seguita prima della fine dell’anno la retrospettiva al Salon
d’automne. “Io non avevo mai udito prima quel nome, né visto alcuno dei suoi
dipinti”, continuò Stiegliz in tutta sincerità, aggiungendo poi di essere rimasto
esterrefatto davanti a quei quadri in cui non c’era “altro che carta vuota con
qualche macchia di colore qua e là” e di averli derisi insieme con Steichen.30
Il fatto è che, in quella loro estate europea, Stieglitz e lo stesso Steichen
(insieme con i loro collaboratori di Camera Work Adolf de Meyer, Alfred Langdon
Coburn e Frank Eugene) furono presi, più che dalle vicende della scena pittorica
parigina, dalle dimostrazioni di fotografie a colori da parte dei fratelli Lumière.
A luglio e agosto, Stieglitz passò quasi tutto il suo tempo in Germania per
preparare quattro riproduzioni di foto a colori fatte da Steichen, tre delle quali
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BRUNO CARTOSIO
sarebbero poi apparse su Camera Work nell’aprile 1908, e per sperimentare di
persona il nuovo procedimento. Il suo ritorno negli Stati Uniti avvenne a
settembre.31 Anche per questo, dunque, Stieglitz continuò a ignorare quanto
stava succedendo a Parigi. Non solo non conosceva Cézanne, ma non aveva idea
neppure di chi fosse Matisse, quando Steichen gli scrisse di lui nel febbraio
1908, dicendogli che era “il più moderno dei moderni”. Ancora Stieglitz: “Non
molto tempo dopo averne scritto da Parigi, Steichen arrivò a New York con
uno splendido pacco di disegni di Rodin e una serie di disegni e acquerelli di
uno di cui non avevo mai sentito il nome: Matisse. Mi disse che Matisse era in
ascesa a Parigi, che glielo avevano detto alcuni che ‘se ne intendevano’”.32 Il 2
gennaio 1908, Stieglitz espose 58 disegni di Rodin, che Steichen aveva scelto
insieme allo scultore e inviato da Parigi, dando inizio a quello che sarebbe stato
il suo ruolo storico di organizzatore e propagandista della rottura modernista
negli Stati Uniti, destinato a durare fino al 1917, quando la guerra lo portò a
chiudere la 291. Ad aprile, espose per la prima volta negli Stati Uniti dei
disegni di Matisse.33
Milton Brown, riprendendo un’ammissione dello stesso Stieglitz e
un’affermazione di Weber (“Stieglitz non sapeva nulla dell’arte moderna. Quello
che sapeva lo aveva appreso da me”) afferma che la conversione di Stieglitz al
modernismo avvenne solo più tardi, dopo l’incontro con Max Weber.34 Se si
guarda alle scelte personali e alle attività della galleria, il ‘contagio’ sembrerebbe
piuttosto essergli stato trasmesso a distanza dal suo mentore ‘parigino’ Edward
Steichen, convertitosi all’avanguardia proprio dopo l’estate 1907, cioè dopo
aver conosciuto gli Stein ed essere entrato in contatto con la pittura ‘postcézanniana’. D’altro canto, nella repentina conversione di entrambi permasero
numerose ambiguità: Stieglitz risponde alle sollecitazioni, ma non possiede gli
elementi di conoscenza storica necessari per costruirsi un proprio quadro
complessivo, un proprio gusto coerente. Steichen, pur avvantaggiato e stimolato
dal contatto diretto con la scena artistica parigina (oltre che dal desiderio di
essere à la page in quell’ambiente), evolverà il suo gusto critico, senza però
alterare in modo significativo la propria pratica pittorica, che rimane ancorata
al simbolismo e all’Art Nouveau.
Dopo Steichen, e più o meno contemporaneamente a Max Weber, anche un
altro neofita, il caricaturista e critico Marius de Zayas eserciterà un influsso su
Stieglitz, che lo ha conosciuto nel 1909. A Parigi dall’autunno 1910, de Zayas
scriverà al gallerista, informandolo sulle proprie scoperte. Una delle sue prime
lettere rivela il livello di conoscenza dell’’oggetto’ condiviso dal mittente e dal
destinatario. De Zayas scrive di aver visto un quadro di Metzinger, intitolato
64
Il gusto del nuovo
Nu: “La teoria di questo signore è che lui vede tutto geometricamente e, a dire
il vero, egli è del tutto coerente con la sua teoria. Per lui la testa rappresenta un
certa figura geometrica, il torace un’altra e così via. La quarta dimensione non
gli bastava e così applica tutta la geometria. In seguito mi dissero che questo
individuo è un imitatore e che l’originale è uno spagnolo, il cui nome non
ricordo; ma Paul Haviland lo conosce, perché è amico di suo fratello Frank”.35
A differenza di questi apprendisti, il pittore Max Weber, dopo aver
soggiornato a Parigi dal 1905 al 1908, aveva riportato in patria tutto il peso e
la coerenza interna della propria esperienza formativa. A Parigi aveva scoperto
per conto suo Cézanne ed era diventato amico devoto del “doganiere” Rousseau,
che alla fine del 1908 aveva presentato a Picasso (da lui conosciuto presso gli
Stein); aveva studiato alle accademie Julian, Colarossi e La Grande Chaumière
e soprattutto con Matisse, e si era infine avvicinato al cubismo di Braque e
Picasso.36 Mentre sta studiando con Matisse, Weber, insieme con Edward
Steichen e Alfred Maurer, uno degli amici più fedeli di Gertrude Stein e tra i
più assidui frequentatori del suo salotto, fonda la New Society of American
Artists in Paris, cui aderiscono subito anche John Marin e Arthur Dove, che in
quello stesso anno esporranno i loro quadri allo stesso Salon d’automne in cui
Matisse presenta un’ampia selezione di quadri, sculture e disegni. Saranno questi
gli americani, cui vanno aggiunti Hartley, Demuth, Sheeler, O’Keeffe e
pochissimi altri, che esporranno prima della guerra nella galleria di Stieglitz,
costituendo il gruppo di punta del modernismo newyorkese.
Tornato a New York, Weber aveva esposto nella primavera del 1909 alcune
sue opere alla piccola “Haas gallery” ed era stato ignorato da critica e pubblico.
Tuttavia, Arthur B. Davies, che praticava una pittura del tutto diversa e
conosceva poco la scena modernista francese ma era curioso della sperimentazione
altrui, non solo vide le sue opere, ma ne comperò due. Stieglitz non vide la
mostra, né incontrò Weber nel corso del 1909. Lo incontrò certamente, invece,
nei primi mesi del 1910, quando il pittore partecipò a una collettiva nella
galleria dello stesso Stieglitz insieme con gli altri modernisti Maurer, Dove,
Marin, Carles e Hartley. L’amicizia tra Weber e Stieglitz risale a quel tempo. Si
sarebbe interrotta presto, ma Stieglitz riconobbe sempre a Weber il merito di
avergli fatto capire veramente l’arte moderna. Prima della fine di quell’anno, il
pittore gli avrebbe prestato i quadri e disegni di Henri Rousseau portati con sé
al ritorno da Parigi per una mostra sul “Doganiere”. Tra l’altro, la personale di
Rousseau alla 291 fu la prima dopo la sua morte, avvenuta nel settembre 1910,
e quelle sue opere furono le prime mai esposte negli Stati Uniti. Nel 1911,
poi, lo stesso Weber tenne una sua personale alla 291.
65
BRUNO CARTOSIO
È significativo che né Stieglitz, né i pittori e critici che avevano preso a
muoversi nella sua ristretta cerchia siano direttamente legati alla realizzazione
dell’Armory Show. I suoi principali ideatori e organizzatori furono i pittori
Arthur B. Davies, Walter Kuhn e Walter Pach, per conto dell’appena nata
Association of American Painters and Sculptors, con la consulenza legale
dell’avvocato e collezionista John Quinn e il sostegno economico di molti
altri. I tre provenivano dal ‘campo’ dell’antiaccade mismo facente capo al realista
Robert Henri: Davies era stato uno degli “Otto” che esposero insieme alla
Galleria Macbeth nel 1908, pur essendo stilisticamente il più lontano da Henri;
Kuhn era stato amico di Henri e aveva collaborato con lui (e Davies) alla
realizzazione della Mostra degli artisti indipendenti dell’aprile 1910,
distaccandosene in seguito; Pach aveva studiato con Henri, ma si era avvicinato
al modernismo durante il suo lungo soggiorno parigino, iniziato nel 1907.
Milton Brown dà lo spaccato delle forze che produssero la mostra. L’iniziativa
ebbe una doppia radice, scrive: “Il movimento degli Indipendenti capeggiato
da Henri e dai realisti, e il movimento modernista promosso da Stieglitz alla
‘291’; due movimenti che erano antagonisti tra loro e però temporaneamente
riconciliabili. Erano uniti, anche se con finalità e in misure diverse, nell’attacco
contro lo status quo dell’arte statunitense, delle sue istituzioni, norme e
restrizioni. Fu questa comunanza di interessi a rendere possibile il formarsi
degli ‘Otto’, la realizzazione della mostra degli Indipendenti del 1910, la
formazione dell’Associazione dei pittori e scultori americani e la realizzazione
dell’Armory Show”. Ma fu dallo schieramento dei realisti, scrive ancora Brown,
che si distaccò il gruppo costituito da pittori come Davies, Prendergast,
Glackens, Lawson e Kuhn, “più radicale” rispetto a Henri e alla sua cerchia
più ristretta (Sloan, Luks, Bellows, Myers), cui si dovette materialmente
l’iniziativa della mostra. Questo gruppo, a sua volta, non si identificava neppure
con i modernisti facenti ormai capo a Stieglitz e alla 291: Weber, Marin, Maurer,
Hartley e Walkowitz. In un certo senso, conclude, solo chi stava “in mezzo”
tra i due schieramenti potè raccogliere tutto l’impulso positivo della rivolta
antiaccademica dei realisti e proiettarlo nella direzione del modernismo e
dell’avanguardia: l’Armory Show fu, in sostanza, “l’atto stesso della
transizione”.37
È universalmente noto che gli anni prebellici della galleria di Stieglitz, dal
1908 al 1917, si sovrappongono e in gran parte si identificano con la storia del
modernismo e dell’avanguardia negli Stati Uniti. Tuttavia, puntualizza Robert
Crunden, quando si realizzò l’Armory Show, “Alfred Stieglitz perdette la
leadership dell’avanguardia in America”. La necessità di ricontestualizzare il
66
Il gusto del nuovo
ruolo storico di Stieglitz non deve, però, portare a sottovalutare che fino a quel
momento egli fu pressoché solo a “credere” nelle nuove tendenze e che, per un
quinquennio, egli fu così importante proprio perché solo.38 Soltanto dopo
l’Armory Show nuovi collezionisti e nuovi galleristi si affiancarono a Stieglitz
sulla scena newyorkese. Tra questi ultimi: Charles Daniel, che sotto la guida di
Alanson Hartpence apre la Daniel’s Gallery prima della fine del 1913; poi
Stephane Bourgeois (Bourgeois Gallery, 1914), Robert J. Coady (Washington
Square Gallery, 1914), Marius de Zayas (Modern Gallery, 1915). Nel 1914, la
Montross Gallery riorienta le proprie attività e Harriet C. Bryant, con l’appoggio
di John Quinn, allora il maggiore collezionista di arte contemporanea e uno
dei fautori dell’Armory Show, fece delle Carroll Galleries uno dei principali
centri d’importazione, esportazione e vendita dell’arte europea e statunitense
del momento. Ebbero un ruolo decisivo anche Gertrude Vanderbilt Whitney,
che aveva aperto la Whitney Studio Gallery nel 1908, e Katherine Dreier e
Walter e Louise Arensberg, collezionisti e mecenati del modernismo estremo
di Duchamp e dei dadaisti.39
D’altro canto, se rimane vero che non si potrebbe neppure immaginare
l’evoluzione dell’arte negli Stati Uniti del primo anteguerra senza i realisti che
per primi lanciarono la sfida antiaccademica, senza Stieglitz e senza i fautori
dell’Armory Show, è anche vero che non ci sono stati a New York gli Ambroise
Vollard che difendevano Cézanne, né i Bernheim-Jeune, le Berthe Weill, i
Kahnweiler, Rosenberg, Zborowsky che promuovevano la rivoluzione nell’arte
contendendosi le opere dei rivoluzionari. Prima dell’entrata in guerra, i
modernisti beneficiarono solo marginalmente dell’ascesa di New York in quanto
mercato internazionale dell’arte, scrivono Scott e Rutkoff: nonostante le nuove
gallerie, quasi tutte quelle preesistenti, situate lontano dal Village, erano
specializzate negli antichi maestri europei, o negli impressionisti francesi, o
nel commercio di manufatti archeologici.40 Tuttavia, in una prospettiva storica
più ampia, la storia del modernismo a New York sarebbe difficilmente
immaginabile senza i realisti urbani, che smossero il terreno, e senza il ruolo
didattico straordinario e l’energia propositiva di Robert Henri.
Robert Henri e gli “Otto”
Le traiettorie dei due movimenti “antagonisti ma riconciliabili” facenti capo
a Henri e a Stieglitz, di cui scrive Milton Brown, si incrociarono ripetutamente
tra l’inizio del 1908 e l’entrata in guerra. Combatterono ognuno la sua battaglia,
67
BRUNO CARTOSIO
ma “mentre il gruppo di Henri portava il suo attacco frontale contro il trincerato
potere dell’accademismo e contro i criteri dominanti dell’arte accademica, Alfred
Stieglitz minava alla base quegli stessi criteri e potere in un altro modo,
presentando in America gli esempi più estremi dell’arte europea e statunitense”.41
Nel 1908, Stieglitz espone Rodin a gennaio e Matisse ad aprile. A febbraio,
Robert Henri e altri sette pittori in polemica con la National Academy tengono
una mostra collettiva alle Macbeth Galleries, ottenendo un notevole successo
di pubblico e riuscendo a mobilitare la critica a proprio favore. Da quel
momento, nonostante la loro eterogeneità, diventeranno il gruppo degli “Otto”.
Saranno loro, più che l’avanguardia, a catalizzare l’attenzione di pubblico e
critica per alcuni anni, grazie proprio alla maggior visibilità della polemica nei
confronti dell’Accademia, a iniziative come la formazione della Society of
Independent Artists (cui si dovrà la mostra del 1910) e alla popolarità dello
stesso Henri, pittore affermato e insegnante alla New York School of Art, alla
Ferrer School e all’Art Students League, oltre che alla propria Henri School of
Art.42
I pittori che hanno esposto alle Macbeth Galleries sono notevolmente diversi
tra loro dal punto di vista stilistico. Gli Otto – Henri, Sloan, Prendergast,
Lawson, Luks, Shinn, Glackens e A.B. Davies – si trovano però accomunati da
una serie di vicende in parte contingenti, derivanti da vecchie amicizie giovanili
a Filadelfia (Henri, Glackens, Sloan, Shinn e Luks), dalla denuncia del
tradizionalismo accademico e dalla difficoltà a essere ammessi alle esposizioni
annuali della National Academy e infine dalla necessità di cercarsi un mercato
per le proprie opere presso i pochi galleristi disposti a non sottostare al gusto
dominante.43
Henri, Sloan, Luks, Glackens e Shinn sono “realisti urbani”: cercano di
affermare sia il diritto ad essere rappresentati dei nuovi soggetti e ambienti
sociali popolari metropolitani, sia un nuovo modo di dipingere basato
sull’assenza di disegno preliminare, sulla pennellata rapida e spessa, su tavolozze
dai colori intensi e attutiti. Si rendono osservatori-partecipanti della vita che
ritraggono. Raffigurano la città dei quartieri poveri, del lavoro, della vita
quotidiana. Sono dei perturbatori delle coscienze, che rifiutano le convenzioni
più o meno ipocrite dell’’arte bella’. Nei termini metaforici in cui li ricorda
Guy Pène du Bois: “Un gruppo di persone che dicevano ‘sudore’ quando volevano
dire sudore, in ogni occasione, anche nei salotti della gente perbene che negava
l’esistenza della traspirazione”.44 Per il momento, li tiene insieme la figura
carismatica di Robert Henri.
68
Il gusto del nuovo
Nato nel 1865, Henri era il più anziano del gruppo. Era stato la prima volta
a Parigi dal 1888 al 1891 e aveva studiato all’Académie Julian, con Bouguereau
e Tony Robert-Fleury, e all’École des Beaux-Arts. Aveva esposto nei Salon e nel
1899, in uno dei successivi soggiorni francesi, aveva dipinto un quadro (La
neige) che era stato acquistato dal Musée du Luxembourg. Quel riconoscimento
gli aveva conquistato un posto di rispetto in patria e qualche anno dopo,
nonostante le divergenze che la sua pittura evidenziava, l’ammissione a far
parte della National Academy of Design. Henri fu sempre un appassionato
didatta. Non era l’ideologo dottrinario che modella i discepoli attorno a sé: il
suo “anarchismo filosofico”, dichiarato e praticato, lo portava semmai ad avere
idee sull’arte, sull’artista e sui rapporti tra arte e società che esponeva con forza
ed entusiasmo, nel contesto di un insegnamento del tutto antidottrinario. In
nome dello stesso senso fortissimo dell’individualità che lo animava, i suoi
allievi furono sempre incoraggiati a perseguire il proprio sviluppo stilistico
autonomo. La sua ecumenicità, che praticava nell’insegnamento sotto forma di
sollecitazioni a cercare strade nuove e a studiare modelli appartenenti alla sfera
post-impressionista (che, da Cézanne in poi, erano troppo avanzati per lui),
aveva le sue radici ideologiche negli ideali di liberazione proposti
dall’anarchismo e nell’inclusività democratica espressa dalla poesia whitmaniana.
Per Henri, scrive l’ex discepolo Stuart Davis, diventato uno dei massimi
esponenti dell’arte astratta negli Stati Uniti, l’arte era “l’espressione di idee ed
emozioni riguardanti la vita del momento”; e aggiunge: “Venivamo incoraggiati
a fare schizzi della vita quotidiana nelle strade, a teatro, al ristorante e in ogni
altro luogo. Questi erano poi trasformati in dipinti negli studi della scuola. Al
sabato mattina venivano appesi al muro nell’aula di composizione. Henri li
commentava e parlava di musica e letteratura e della vita in generale in un
modo molto stimolante, e le sue lezioni erano educazione alla libertà”. E l’altro
discepolo Walter Pach, in un ritratto insieme affettuoso, riconoscente e critico,
lo ricorda come un ‘profeta’ per i tanti giovani sensibili alla “temperie
progressista” di quegli anni.45
Durante le sue lezioni, Henri parlava di Velázquez e Frans Hals, di Goya e
Manet; leggeva Emerson, Jean-Jacques Rousseau e soprattutto Whitman. Nel
poeta vedeva incarnato il suo modello di artista: “Walt Whitman era quello
che io proponevo dovesse essere il vero studente d’arte. La sua opera è
un’autobiografia, non nel senso dei fatti e misfatti, ma del pensiero più profondo,
della vita stessa”. Nel 1909, in un articolo per The Craftsman intitolato
“Individualità e libertà nell’arte”, scriveva: “Credo che prima che un uomo
cerchi di esprimere qualcosa di fronte al mondo egli debba riconoscersi come
69
BRUNO CARTOSIO
individuo, come nuovo e distinto dagli altri. Questo fece Walt Whitman e
questa, credo, è la ragione per cui il suo nome mi viene tanto spesso alla mente.
Il solo, grande grido di Whitman era che l’uomo trovi se stesso, che capisca
che cosa bella egli è una volta liberato”.46 Questa liberazione dell’individuo,
insofferente a vincoli nazionali, economici e sociali, fu una delle regole cui si
attenne sempre sul piano personale e nell’insegnamento.
In un altro dei passi raccolti in The Art Spirit, ancora attraverso Whitman,
Henri sintetizza invece in un enunciato molto semplice una delle verità più
pregnanti sia della propria poetica, sia della poetica condivisa dai suoi compagni
realisti: “Walt Whitman sembra aver trovato grandi cose nelle cose più piccole
della vita. Vale più di tutto ciò che la ricchezza può dare, e di ogni altra cosa al
mondo, dire quello in cui si crede, dargli forma, passarlo a chiunque possa
essere interessato a racco glierlo”. Sono le verità stesse, ‘brucianti’, enunciate
da Whitman, che ‘distruggono’ le forme rigide tanto del sonetto quanto
dell’epica.47 Sono proprio quelle cose piccole, gli innumerevoli frammenti di
vita del mondo popolare metropolitano che per lui e i suoi diventeranno le
‘cose grandi’ della New York degli immigrati e dei casermoni popolari, dei
quartieri ‘etnici’ e dei marciapiedi affollati, delle vetrine e del mondo del lavoro,
dei bar, dei giochi e degli svaghi di bambini e adulti.
Nonostante il suo fervore e ottimismo whitmaniani e la self-reliance
emersoniana, quando gli si presentò la sfida dell’avanguardia, l’inclusività non
gli fu sufficiente per farla propria. Nel 1912, in visita al Salon d’automne
insieme con Walter Pach, rimase in dubbioso silenzio davanti alle espressioni
più spinte della nuova pittura; solo quando si trovò di fronte a un quadro
“tradizionale (e debole)”, riporta Pach, sbottò: “Naturalmente, se questa è
l’alternativa, allora io sono per i nuovi”.48 Quando infine Henri cominciò a
rinunciare a ritrarre la città – quando cominciò ad avvertire che i “non-realisti”
come Stella, Marin, Walkowitz o anche Gleizes lo stavano facendo con forza
maggiore e con una strumentazione nuova – gli “orizzonti democratici”
whitmaniani presero le fisionomie di innumerevoli bambini bianchi e neri e
indiani, di gitani in Spagna, di messicani e indiani nel Sudovest, di ricchi e
poveri a New York, in Olanda, in Spagna e in Irlanda: le centinaia di persone
che ritrasse in altrettanti quadri e che definì my people nel suo scritto in assoluto
più coerentemente whitmaniano, pubblicato su The Craftsman nel 1915.49
Ritraendosi progressivamente prima dall’interpretazione della metropoli, poi
dalla riflessione su di sé, sulla propria poetica e sulla propria tecnica, Henri si
ripiegò su se stesso, accomodandosi nella propria maniera. Si comportò proprio
come, secondo William Carlos Williams, si era comportato Whitman.
70
Il gusto del nuovo
Nella sua ricerca poetica, anche Williams aveva guardato a Whitman, come
tutti quelli che in quegli anni avevano cercato intorno a sé modelli poetici che
offrissero nel verso insieme la libertà della voce, la vastità dello sguardo e la
moltitudine dei soggetti. In una pagina di grande acume, alla fine di un saggio
su García Lorca, il poeta faceva i conti con il suo grande precursore. Nel presente
contesto, è come se avesse scritto di Henri. Williams riconosceva a Whitman
di essere stato la punta più alta del suo tempo, ma “il suo tempo è passato e noi
siamo andati oltre”. E poi: “Egli compose ‘liberamente’, seguì la sua non costretta
necessità. Quello che non fece fu studiare quello che aveva fatto, tornarci sopra,
scegliere e rigettare, che è quel che fa l’artista […]. Componeva magnificamente, ma rivedeva – o mancava di rivedere – come un politico, non come un
artista. Faceva quello che poteva, probabilmente. Ma noi dobbiamo fare meglio,
dobbiamo guardare, scoprire particolari e affinare [... ]. Si tratta non di imporre
le strutture, le forme del passato, che in quanto tali parlano contro di noi, ma
di scoprire, primo, magari buttandoci nella composizione (by headlong
composition), che cosa sappiamo fare. Quindi, studiare quello che abbiamo messo
giù, e tirarne fuori quello che è utile e rigettarne quello che porta fuori strada.
È struttura quello che dobbiamo inventare, usando ogni frammento di lucidità
mentale, coraggio e percezione che abbiamo. Quando troviamo quello, il resto
conta poco”.50
Poesia e pittura: Williams, Hartley, Stella
Nel 1917, Williams, che alla mostra degli artisti Indipendenti, in aprile,
ha letto la sua poesia futurista “Ouverture to a Dance of Locomotives”, mette
mano a Kora in Hell: Improvisations, che sarà pubblicato soltanto nel 1920.51 È
dunque la discesa di Proserpina nell’Ade: l’entrata nel mondo oscuro della
guerra come interruzione della fertilità. Si tratta di un piccolo libro in prosa,
suddiviso in capitoletti e ciascuno di questi a sua volta frammentato in schegge
di esperienze, spezzoni di discorsi e narrazioni, impressioni. È un libro
innovativo, nella sua forma frammentaria e nel suo ermetismo. Sono questi i
tratti dominanti di quell’“opacità”, così poco americana, che l’amico Ezra Pound
gli raccomanda di non eliminare dalla sua scrittura.52 A quel tempo, racconta
il poeta, “decisi che avrei scritto qualcosa ogni giorno, senza saltarne uno, per
un anno. Non avrei scritto nulla di pianificato, ma avrei preso la matita, messo
la carta davanti a me e scritto qualsiasi cosa mi venisse alla mente. Che fossero
le nove di sera o le tre di mattina […] l’avrei scritto”. Così fece. Quindi, scrive
71
BRUNO CARTOSIO
ancora, “leggevo il frammento improvvisato e, senza pensarci, o senza pensarci
troppo, interpretavo quello che stava sopra in quello che aggiungevo sotto”,
scrivendo quelli che lui stesso definisce una serie di più o meno “brevi notazioni
moralistiche a spiegazione del testo”.53 Infine, ultima aggiunta, il prologo, in
cui introduce il lettore alle proprie motivazioni e al proprio contesto poetico.
Come in un quadro, l’improvvisazione progressivamente viene organizzata,
strutturata in un disegno complessivo.
Kora in Hell fu infine pubblicato a sue spese nel 1920, abbellito da due
disegni di Stuart Davis. Nella copertina un ovulo femminile circondato da
spermatozoi bianchi e neri e nel frontespizio un disegno a piena pagina in cui
frammenti di realtà urbana e suburbana si affollano, in una visione simultanea
e appiattita, intorno a due figure centrali vestite di nero. Si tratta di Gloucester
Terraces, uno dei disegni che Davis aveva fatto nel 1916 nella cittadina sulla
costa, a nord di Boston, dove aveva preso a trascorrere i periodi estivi, spesso
insieme con l’amico John Sloan e altri artisti. Williams scrisse di aver visto il
disegno di Davis, che non conosceva personalmente, e di averlo voluto utilizzare
“perché era quanto di più vicino ci fosse alla mia idea di Improvvisazione. Era,
dal punto di vista grafico, esattamente quello che cercavo di fare con le parole:
mettere giù le Improvvisazioni come un’unità sulla pagina […] una visione
impressionistica del simultaneo”.54
Williams andò a Gloucester, per chiedere a Davis il permesso di utilizzare il
suo disegno. L’incontro tra i due è significativo: senza saperlo, il poeta e il
pittore hanno in comune interessi e propensioni, si stanno ponendo nello stesso
momento domande che travalicano i confini del loro terreno espressivo d’elezione.
Davis, che coltiva una passione per la musica jazz destinata ad avere anch’essa
grande peso nella sua poetica, è attento ai modi di usare le parole dei modernisti
europei: “Così come la poesia di Apollinaire occupa il terreno della pittura,
lasciamo che questa invada quello della poesia”. A sua volta, riparlando a distanza
di quarant’anni del periodo in cui si dedicava proprio alla scrittura di Kora in
Hell, Williams affermava: “Ho sempre avuto una forte propensione a fare il
pittore. In circostanze diverse avrei preferito essere un pittore, invece di tribolare
con queste maledette parole”.55
Davis e Williams non sono casi isolati. L’intero ambiente artistico e
intellettuale newyorkese, in cui soprattutto Williams (di undici anni più vecchio
di Davis) si muove, è sensibile alle sollecitazioni provenienti alle arti figurative
dalla poesia e viceversa. Sul tronco di Whitman si innestano altri poeti. Man
Ray parla della sua scoperta dei poeti francesi, da Mallarmé a Lautremont, da
Rimbaud ad Apollinaire, che la moglie gli legge e traduce. Per converso,
72
Il gusto del nuovo
Williams scrive nella sua autobiografia che “c’era allora, prima della prima
guerra mondiale, una grande crescita di interesse per le arti in generale. New
York ne ribolliva. La pittura era al comando. Il culmine per noi fu il famoso
‘Armory Show’ del 1913”.56
Qualche pagina dopo, Williams scrive della comunità degli intellettuali
ribelli di Grantwood, nel New Jersey, che lui, medico praticante, poteva
frequentare solo la domenica, della rivista “Others” e dei parties nello studio di
Walter Arensberg, nell’Upper West Side di Manhattan. A Grantwood – o
piuttosto Ridgefield, come scrivono Man Ray, che vi abita, e tutti gli altri
protagonisti – con Alfred e Gertrude Kreymborg, Mina Loy, Malcolm Cowley,
Peggy Johns, Helen Hoyt e altri, “Facevamo discussioni sul cubismo che
duravano un pomeriggio intero”, 57 cercando di trasferire la logica della
composizione pittorica nella struttura della poesia. Dagli Arensberg, Williams
incontrava in parte le stesse persone e Marcel Duchamp, Man Ray e Joseph
Stella, e vedeva alle pareti i quadri di Cézanne, di Gleizes, dello stesso Duchamp
e di altri pittori dell’avanguardia.
Tanto i poeti quanto i pittori erano consapevoli delle limitazioni intrinseche
all’uno e all’altro mezzo espressivo, dell’insormontabile differenza tra la resa
della simultaneità in pittura e in letteratura. In Francia, Apollinaire – poète
fondé en peinture quant’altri mai — cercava risposte prima nel “montaggio
cubista”, poi nei “calligrammi”.58 Anche i futuristi e i dadaisti si confrontarono
negli stessi anni con i problemi posti sia dalle parole, sia dalle immagini. Nel
caso di Williams, l’assemblaggio delle sue ‘improvvisazioni’ in Kora, grazie
all’effetto non-comunicativo, ermetico, tanto delle parti quanto dell’insieme,
ottiene un effetto di astrazione e frammentarietà che, nel caso specifico, non
aveva il disegno di Stuart Davis da lui utilizzato. In effetti, al di là della
percezione personale di Williams, tra i pittori newyorkesi che egli conosce e
frequenta, Joseph Stella – come vedremo – sembra avvicinarsi più di Davis ai
risultati di Kora.
Un altro pittore, Wassily Kandinsky, sarà tra i riferimenti ideologici di
Williams. Nel “Prologo” a Kora, dopo aver introdotto un paio di riferimenti
impliciti al suo libro, Lo spirituale nell’arte, Williams lo cita infine esplicitamente
quando parafrasa gli “assiomi per gli artisti” formulati dal pittore russo: “Ogni
artista deve esprimere se stesso / Ogni artista deve esprimere la sua epoca /
Ogni artista deve esprimere le qualità eterne e pure dell’arte di tutti gli
uomini”.59 Anche il sottotitolo di Kora, “Improvvisazioni” (che Williams scrive
con la maiuscola, come nei titoli dei quadri di Kandinsky di quegli anni), è un
imprestito diretto dal pittore russo, il quale, nella pagina conclusiva del suo
73
BRUNO CARTOSIO
trattatello, distingue le proprie “improvvisazioni” dalle “impressioni” e dalle
“composizioni”, definendo le prime: “Espressioni, soprattutto inconsapevoli,
per lo più improvvise di eventi mentali, e quindi impressioni della ‘natura
interiore’”.60 Non c’è dubbio che il Williams di Kora, delle impressioni
giornaliere buttate giù sulla pagina ogni notte, di getto, si riconoscesse nella
definizione di Kandinsky. Non era il solo.
Il libro del pittore russo ebbe una considerevole circolazione negli ambienti
delle avanguardie europee e statunitensi. Tuttavia, l’unico dei modernisti
newyorkesi che avesse allora una conoscenza personale del pittore russo, della
sua opera e dell’ambiente del “Blaue Reiter”, cui Kandinsky aveva dato vita in
Germania, era Marsden Hartley, di cui Williams era amico. Era stato proprio
Hartley a comperare a Parigi, nella bottega del mercante Clovis Sagot, due
copie de Lo spirituale nell’arte, uscito in Germania alla fine del 1911, e a spedirne
una a Stieglitz, che ne pubblicò delle parti nel numero del luglio 1912 di
Camera Work. Williams conosceva la rivista e Stieglitz e frequentava la sua
galleria. Inoltre, potrebbe aver letto altre citazioni e riferimenti al libro di
Kandinsky nel numero datato 20 giugno 1914 di Blast, che l’amico Pound
aveva iniziato a pubblicare con Wyndham Lewis, oppure ancora nel saggio
“Vorticism”, che lo stesso Pound pubblicò il 1° settembre 1914 sulla Fortnightly
Review. È dunque più che probabile che Williams, amico e corrispondente
abituale di Pound, frequentatore di Stieglitz e in rapporti di amicizia con
Hartley, tornato dalla Germania nel 1915, avesse avuto notizia e poi letto il
libretto di Kandinsky, nel frattempo tradotto in inglese nel 1914, prima della
composizione di Kora.61
I modernisti newyorkesi – anche quelli che, come Williams, non erano
attratti dal suo misticismo – furono sensibili alle tesi di Kandinsky a favore
dell’arte astratta, e l’indicazione anche sommaria di come esse circolarono in
quel breve torno di tempo può contribuire a dare l’idea del modo in cui il
modernismo statunitense cercava di aggiornarsi, del tempo intercorrente tra la
produzione dell’avanguardia in Europa e la sua diffusione in America, e infine
dei canali fisici, personali e pubblicistici, attraverso cui avveniva la
comunicazione.
Williams, Davis, Arensberg, Hartley, Stieglitz, dunque, e gli scrittori e
artisti di Ridgefield e sullo sfondo Pound, in particolare proprio per Williams,
che lo conosce bene e ha rapporti epistolari frequenti con lui e lo vede ogni
volta che torna negli Stati Uniti. Ma anche Gertrude Stein, che dopo aver
ricevuto la visita di tutti gli americani passati per Parigi fin allora, ‘lega’ con
Stieglitz, pubblicando i word portraits di Picasso e Matisse su Camera Work
74
Il gusto del nuovo
nell’agosto 1912. Stein accoglie per la prima volta Hartley nella primavera di
quell’anno, quando il pittore va in Rue de Fleurus per studiare i Cézanne e i
Picasso che Gertrude e Leo hanno collezionato ed espongono generosamente
nel loro appartamento, aperto a tutti ogni sabato sera. Non importa che i due
fratelli si siano divisi – Leo si è trasferito a Firenze e Alice Toklas ha preso il suo
posto accanto a Gertrude – e che entrambi abbiano smesso di comprare sia
Picasso, sia Matisse. Incontrare Gertrude Stein continua a essere il primo passo
che fanno tutti gli artisti statunitensi a Parigi, per arrivare poi, tramite lei, allo
studio dell’uno e dell’altro, ai depositi dei galleristi. Nell’Autobiografia di Alice
B. Toklas Gertrude Stein racconta solo una parte degli incontri che i pittori e
scrittori statunitensi hanno avuto con lei negli anni dell’anteguerra. E
dell’incontro con lei, peraltro non sempre felice, a loro volta parlano tutti loro.
Con Gertrude lo scontroso Hartley istituirà un rapporto duraturo e affettuoso.
A lei e a Stieglitz scriverà lunghe lettere durante il doppio soggiorno tedesco
(1912-13 e 1914-15). E a sua volta Stein ricambierà, scrivendo inoltre a Mabel
Dodge e allo stesso Stieglitz lettere in cui esprimerà giudizi lusinghieri sul
pittore. In particolare, in una lettera del 1913 a Stieglitz, affermerà che Hartley,
nei suoi quadri, “ha realizzato quello che in Kandinsky è solo un’indicazione”.
Hartley “tratta il colore”, scriverà ancora, “con la stessa concretezza con cui
Picasso tratta le sue forme. In questo senso, lavora in modo molto diverso dai
neo-impressionisti Delaunay ecc., che sulle orme di Van Gogh e Matisse,
producono in realtà un realismo mascherato ma povero […]. Hartley non ha
fatto questo, tratta il colore come come veicolo per la creazione e lo fa sul
serio”.62
In Germania, oltre a entrare in contatto con i pittori del Blaue Reiter, con i
quali addirittura esporrà nel Salone d’autunno del 1913 a Berlino, Hartley
cercherà anche di dare corpo a modo suo a quel rapporto con il ‘primitivo’ di
cui ha trovato i segni nei quadri di Picasso e Matisse visti a Parigi, cui avevano
già alluso il suo mentore Stieglitz e altri su Camera Work e che avrebbe portato
alla mostra di “Arte negra” alla 291 nel novembre 1914.63 Ma Hartley non
seguirà Matisse e Picasso sulla strada ‘africana’, come invece ha fatto Max Weber
qualche anno prima di lui. Tornato in Germania nel 1914, Hartley non vedrà la
mostra newyorkese, organizzata per Stieglitz da Marius de Zayas con le sculture
africane prestategli dal mercante parigino Paul Guillaume (da lui conosciuto
tramite Apollinaire). Si indirizzerà piuttosto verso il “primitivo” autoctono
americano, forse memore di manufatti indiani, di immagini dell’ovest e di quadri
visti a New York, e accogliendo le sollecitazioni provenienti dal contatto con
August Macke, anch’egli del Blaue Reiter, che da qualche anno introduce
75
BRUNO CARTOSIO
elementi indiano-americani nelle sue opere. A Berlino, dove è tornato nonostante
la guerra, Hartley si darà dunque all’esplorazione del Museum für Völkerkunde,
che espone migliaia di manufatti delle culture dei nativi nordamericani. Da
quella frequentazione deriveranno le tele del ciclo intitolato “Amerika”, in cui
confluiscono elementi e simboli delle culture indiane del nordamerica. Ma il
contatto con i soli manufatti lo accontenterà solo per il momento. Dopo il
ritorno negli Stati Uniti e dopo la fine della guerra, quell’interesse spingerà
Hartley a un lungo soggiorno in New Mexico, dove non solo dipingerà quadri
significativi, ma anche scriverà pagine di grande rispetto per le culture native
locali e per la figura dell’indiano in quanto tale.64
Mentre Williams prepara la pubblicazione di Kora in Hell, e Marsden Hartley
si spinge verso Taos e Santa Fe, il comune amico Joseph Stella, anche lui
frequentatore dei circoli dell’avanguardia intorno agli Arensberg, lavora a una
delle sue tele più famose, il primo Brooklyn Bridge, probabilmente completato
nel 1919.65 Anche Stella ha studiato brevemente con Robert Henri, come Stuart
Davis, Andrew Dasburg e Man Ray (e naturalmente altri che non ripudiano il
realismo del maestro, come George Bellows, Rockwell Kent o Edward Hopper).
Pur allontanandosene relativamente presto nelle tele, Stella ha mantenuto a
lungo un rapporto con la figurazione nei suoi lavori di illustratore per riviste e
nei ritratti a matita di lavoratori, immigrati, popolani e di alcuni compagni di
avventura intellettuale e artistica come Edgar Varèse, Louis Eilshemius e Marcel
Duchamp. E anche nella sua opera più innovativa e futurista – dalla Coney
Island del 1913 al ponte di Brooklyn, appunto – in cui le immagini sono
ridotte ai loro frantumi, mantiene vivo il rapporto con i ‘soggetti’ popolari
della città.
Tornato in Italia nel 1909, Stella risponderà positivamente a una lettera da
Parigi di Walter Pach in cui l’amico lo invita a recarsi nella capitale francese
“per rinnovarsi”. A Parigi, dunque, nel 1911, egli renderà l’obbligatorio
omaggio a Gertrude Stein (che paragonerà a “una pitonessa, o una sibilla”), ma
soprattutto cercherà il contatto con l’avanguardia artistica. L’esperienza parigina
sarà per molti versi dirompente. Nel febbraio 1912, Stella avrà la possibilità di
assistere alla prima mostra dei futuristi alla galleria Bernheim-Jeune e di
incontrare Boccioni, Carrà e Severini, anche se l’unico con cui probabilmente
ebbe rapporti di qualche intensità fu Modigliani, che allora aveva lo studio
vicino al suo alla Cité Falguière, a Montparnasse. Di quei giorni Stella scriverà:
“Cominciai a lavorare con vera frenesia. Quello che più di tutto mi eccitava era
vedere davanti a me un nuovo panorama fatto della più iperbolica ricchezza
cromatica”.66
76
Il gusto del nuovo
Nel giugno 1913, a poco più di sei mesi dal suo ritorno a New York e poco
più di due dall’Armory Show, in un articolo per The Trend, Stella parlerà del
suo rapporto con la “nuova arte” con una certa dose di umiltà: “Anche se non
riuscii a percepire di colpo la grandezza di Cézanne, capii che cosa c’era di falso
nella mia produzione… Passai al post-impressionismo, non per moda, ma sotto
l’urgenza del momento… Il colore di Matisse mi ossessionò per mesi: riuscivo
a sentirvi una grande forza e vitalità mai neppure sognata…Il cubismo e il
futurismo mi interessano enormemente. Sebbene esteriormente si assomiglino
in molte cose e alcuni dei loro obiettivi siano simili, essi sono diversi sotto
molti aspetti”. E ancora, con notevole senso della realtà ed entusiasmo per le
possibilità dischiuse all’arte “americana”: “I futuristi e i cubisti cercano di trovare
un nuovo tipo di linguaggio ed è logico che all’inizio questo linguaggio sia
caotico. La nostra è un’epoca di transizione, ma forse è particolarmente vitale e
importante perché vengono ora messi al suolo tutti i semi di un gigantesco
raccolto futurista. La Francia lo ha capito e quindi è passata trionfalmente a
condurre. Credo che l’America debba seguirne l’esempio glorioso, l’America
che è così giovane ed energica e possiede la grande opera futurista già realizzata
da Walt Whitman”.67 Il richiamo a Whitman – che non è trasformato in un
futurista ante litteram, come potrebbe sembrare – è paradigmatico: non c’è quasi
scrittore o pittore che non veda in lui l’immediato progenitore di tutto ciò che
di nuovo e proiettato nel futuro la cultura statunitense sarà in grado di esprimere,
traendo linfa vitale dalla democrazia, dal patrimonio di culture di cui gli
immigrati sono depositari, dalla rottura dell’isolazionismo culturale e dal ripudio
del nazionalismo.
Subito dopo la chiusura dell’Armory show (dove ha esposto due quadri),
Stella ha iniziato a dipingere quello che definisce “il mio primo soggetto davvero
americano: Battle of Lights, Mardi Gras, Coney Island”.68 Il rinnovamento dei
soggetti, e l’introduzione di un soggetto ‘basso’ quanto può esserlo il parco di
divertimenti più grande e popolare d’America, si accompagna al massimo di
innovazione: la tecnica, il colore, il movimento sono quelli del futurismo italiano.
Esposta per la prima volta nel febbraio dell’anno successivo alla Montross Gallery
di New York, la grande tela fece sensazione. Ancora una volta i detrattori
dell’avanguardia e dell’astrattismo si sbizzarrirono, ma i simpatizzanti della
nuova arte riconobbero al quadro un valore quasi di manifesto. Nel suo numero
dell’aprile 1914, la rivista The Century dedicò un’intera sezione a quella che
definì “This Transitional Age in Art”, con articoli di John W. Alexander, Edwin
Blashfield, Ernest Blumenschein, Jay e Gove Hambidge e Walter Pach e con
riproduzioni in bianco e nero di opere di Cézanne, Duchamp, Matisse, Picasso,
77
BRUNO CARTOSIO
Redon e degli statunitensi Henri, Prendergast, Luks e Arthur B. Davies. L’unica
riproduzione a colori fu riservata alla Battle of Lights di Stella, accompagnata
da un’ampia didascalia in cui veniva sottolineato il tentativo, riuscito, del
pittore di cogliere e interpretare “le luci abbacinanti, il rumore, la confusione
e il movimento incessante” di Coney Island.69
Di colpo, il trentasettenne Stella veniva catapultato sul proscenio
dell’innovazione pittorica negli Stati Uniti. In uno dei pochi dipinti americani
dichiaratamente futuristi, in cui Stella probabilmente risentiva dell’influsso
di Severini, visto a Parigi, il carnevale a Coney Island veniva ridotto ai suoi
frammenti costitutivi e fatto vorticare sulla tela. Nel quadro non c’era nessun
tentativo di dare una rappresentazione naturalistica della realtà. I frammenti
figurativi rintracciabili nel movimento caleidoscopico del quadro dovevano
fornire invece l’equivalente emotivo dell’esperienza della calca, della luce, del
movimento.70
Qualche anno dopo, nel prologo a Kora in Hell, William Carlos Williams
scriverà parole che potrebbero essere usate per parlare della Battle of Lights di
Stella: “Grazie al carattere frammentario del suo componimento il poeta
s’impadronisce di un’arma che non potrebbe possedere in nessun altro modo.
Le emozioni si accavallano a volte con tale rapidità che agitandosi in virtù di una
tenue esaltazione molte cose si riesce soltanto a toccarle di sfuggita, mai a
trattenerle; e capita inoltre molto spesso che appena toccate si rompano”. Nel
paragrafo successivo, quasi mettendo insieme Kandinsky e Stella, Williams
scrive ancora: “Queste improvvisazioni hanno un aspetto così instabile che
parrebbero dover crollare senza rimedio al primo esame, e diventare particelle
di un vento che vacilla”.71 Frammenti, emozioni che si accavallano rapide e si
agitano, le cose che si toccano di sfuggita; l’instabilità delle improvvisazioni
che diventano particelle del vento…
Williams riconobbe nella simultaneità figurativa del disegno di Stuart Davis
l’equivalente del suo fare poetico, ma se si guarda a Kora, sembrano piuttosto
essere i frammenti instabili e vorticosi della Coney Island di Stella a costituire
l’analogo più prossimo. L’opacità della prosa poetica di Williams è l’equivalente
della irriconoscibilità del reale di Coney Island nel quadro di Stella. Due soli
esempi: “È l’acqua che beviamo. Gorgoglia sotto ciascuna di queste colline.
Come? Ah, ti fermi prima di arrivare alla radice. Ma se l’afferri la città
impazzisce. L’allampanato marito in calzamaglia fa piroette. La moglie, più
scarna di una lupa arricciola il burro; è un orologio che batte le ore. Eheh, a
Bangkok sono più bravi in tutto, – anche qui, se la gente si dà una mano. Dai
saltale alla gola! La colpa è del letto!” Oppure: “Svegliati presto alla bianca
78
Il gusto del nuovo
luce del sole che inonda la stanza. Spogliati e bagnatici dentro. Aha, ma un
dolore ti serra la gola – e la pellicola evanescente che mostra una sua luna nera,
cancella tutto quanto. Oggigiorno non si può camminare a piedi nudi sulle
foglie croccanti. Né si può ballare, se non nel buio del cervello. Va in giro
vestito di fuliggine; cerca aiuto nella medicina moderna: il carbonaio soffia la
sua polvere sottile in tutti gli angoli della casa! E allora, e allora un nuovo
passo, signora! C’incontriamo a – sai dove intendo – dalla parte dov’è buio. Ma
lascia pure che la ruota giri”.72
Il 1917
Nella storia dell’affacciarsi di New York sulla scena mondiale dell’arte, nel
primo anteguerra, scrive Abraham Davidson, “l’Armory Show, la Forum
Exhibition of Modern American Painters del 1916 e la mostra della Society of
Independent Artists del 1917 furono i momenti cruciali nell’esposizione al
pubblico della pittura del primo modernismo americano”.73 Attorno a queste
stanno l’iniziativa dei realisti urbani e l’opera di galleristi come Stieglitz, come
s’è visto. Spesso, soprattutto nel secondo decennio del Novecento, le adesioni
dei singoli artisti a una cerchia o all’altra non erano rigide e le ‘appartenenze’
multiple e gli spostamenti dall’una all’altra erano più facili di quanto le
successive schematizzazioni critiche e storiografiche inducano a credere.
Nonostante che non mancassero le tensioni e i personalismi, le gelosie, le ripicche
e le drastiche rotture personali – tra Henri e Arthur B. Davies o Walt Kuhn,
ad esempio, oppure tra Stieglitz e Weber o addirittura Steichen – le interazioni
erano frequenti, sostenute dalla vicinanza del sentire politico, dalla comune
condizione di insegnanti in una o l’altra delle scuole d’arte, dalla frequentazione
degli stessi locali e degli stessi ambienti sociali e, a volte, perfino dalla
condivisione degli ateliers.
All’inizio del 1910 i percorsi ‘di scuola’ sono distinti. La mostra degli artisti
indipendenti, organizzata da John Sloan, Walt Kuhn, George Bellows, William
Glackens, Arthur B. Davies e altri, tutti appartenenti alla cerchia di Henri (o
suoi studenti), aprì i battenti nel mese di aprile, provocatoriamente
sovrapponendo le sue date con quelle dell’esposizione annuale della National
Academy of Design. La mostra fu un successo di pubblico e di critica, mentre
i locali dell’Accademia rimanevano deserti. Ma altrettanto provocatoriamente,
nello stesso momento, nella galleria di Stieglitz esponevano nove giovani
modernisti, tra cui Marsden Hartley, Arthur B. Carles, Arthur Dove, John
79
BRUNO CARTOSIO
Marin e Max Weber. Il critico James Huneker, definendoli “spiriti minori del
movimento di Matisse”, sottolineò che rappresentavano il nuovo, che non erano
“meri rampolli degli ormai moribondi impressionisti, come la maggioranza
degli Indipendenti”.74
Invece un anno dopo, nell’aprile 1911, le due componenti principali del
rinnovamento antiaccademico e modernista si trovarono parzialmente
‘riconciliati’ nella mostra organizzata da Rockwell Kent – studente di Henri –
nei locali dell’associazione degli architetti, la Beaux-Arts Society. Il giovane e
irruento Kent richiese che chi esponeva con gli indipendenti non esponesse
con la National Academy. Pur essendo i portabandiera dell’antiaccademismo,
Henri e Sloan rifiutarono l’aut-aut e non parteciparono, ma non ostacolarono la
partecipazione degli altri del gruppo (e anzi, in una mostra più piccola che
Henri organizzò allo Union League Club subito dopo, invitò tutti quanti, inclusi
il cubista Max Weber e lo stesso Kent). Esposero quindi Kent, Maurice
Prendergast, George Luks, Homer Boss, Glenn Coleman, A.B. Davies e Guy
Pène du Bois, della cerchia di Henri, e John Marin, Marsden Hartley, Alfred
Maurer di quella di Stieglitz.75
Ancora più inclusiva, naturalmente, fu la sezione statunitense dell’Armory
Show, in cui furono ecumenicamente rappresentate tutte le tendenze
progressiste. Ma nel frattempo, nel dicembre del 1911, Kuhn, Davies e Pach –
gli organizzatori – si erano allontanati da Henri e avevano formato la Association
of American Painters and Sculptors. Dopo l’Armory Show le posizioni personali,
le diversità di concezione si radicalizzarono e mentre Henri cominciava a defilarsi
da una scena su cui avvertiva di non essere più l’attore principale, altri
protagonisti si facevano avanti. Nel marzo 1916, il critico Willard Huntington
Wright, fratello del “sincromista” Stanton MacDonald-Wright, aveva convinto
Henri a partecipare all’organizzazione della Forum Exhibition of Modern
American Art insieme con Stieglitz. Henri aveva formalmente accettato, ma
aveva poi preferito rimanere ai margini e lasciare campo libero allo stesso Stieglitz
e agli ‘ultramoderni’. Tra i diciassette pittori rappresentati, oltre ai sincromisti,
erano presenti sia ex studenti di Henri che avevano spinto la loro ricerca in
direzione diverse da quelle del maestro, come Man Ray, Andrew Dasburg,
Morgan Russell e Ben Benn, sia alcuni tra i più rappresentativi modernisti di
Stieglitz: Hartley, Marin, Dove, Walkowitz. In quello stesso anno,
significativamente, Henri avrebbe accettato l’invito di Edgar L. Hewett,
direttore del Museum of New Mexico di Santa Fe, di andare a trascorrere l’estate
a Santa Fe. La scelta nuovomessicana, che si ripetè nel 1917, e quelle irlandesi
degli anni successivi testimoniano l’allontanamento di Henri dalle ‘battaglie’
80
Il gusto del nuovo
combattute sulla scena artistica newyorkese.76
Ma proprio il 1917 sarebbe stato l’anno cruciale, in cui i fili della socialità
e della produzione artistica sarebbero stati ripetutamente intrecciati e divisi,
per ragioni sia intrinseche, sia estrinseche al mondo dell’arte, fino alla crisi.
Tre momenti, diversi tra loro, sono diversamente rivelatori.
All’inizio dell’anno, la sera del 23 gennaio, due donne e quattro uomini, tra
cui John Sloan e Marcel Duchamp, penetrano nell’arco di Washington square,
salgono sulla terrazza in cima e proclamano la secessione del Greenwich Village
dagli Stati Uniti, contestualmente invocando la protezione del presidente degli
Stati Uniti Wilson in quanto “una delle piccole nazioni della terra”. I sei
trascorrono la fredda notte invernale sull’arco, mangiando panini, bevendo tè e
caffè dai thermos e sedendo su bottiglie di acqua calda. Se ne andranno all’alba,
portando con sé una dichiarazione d’indipendenza di cui, naturalmente, il
mondo non avrebbe mai avuto notizia. John Sloan ha lasciato un’incisione in
cui sono raffigurati gli indipendentisti durante il bivacco notturno.77
Un aspetto interessante del fatto è che lo stesso Sloan partecipò all’impresa
insieme con Duchamp. I due appartenevano a ‘campi’ artistici contrapposti:
Sloan era un realista urbano, che rifiutava l’avanguardia, mentre Duchamp, da
quando era arrivato a New York, si era collocato all’estremo opposto, nella
piccola cerchia di ‘ultramodernisti’ che si raccoglieva attorno a Walter
Arensberg. Anzi, Duchamp incarnava l’avanguardia più radicale, che rifiutava
non solo la rappresentazione figurativa della realtà ma, a partire proprio dal
soggiorno newyorkese, il concetto stesso di arte. La prodezza degli “arch
conspirators” appare quindi come un’istantanea in cui è fissato un momento
della socialità di cui la pratica artistica era parte, in cui le interazioni tra le
persone avvenivano su piani diversi – inclusi il gioco, la burla, il ballo
mascherato, la vacanza in comune, la collaborazione editoriale, la visita di
cortesia ecc. – ed erano più frequenti e amichevoli di quanto l’aver puntato per
decenni l’attenzione sulle rivalità tra i capiscuola e le diversità d’intenti artistici
e di ‘dottrina’ possano oggi far supporre. La ricchezza degli anni prebellici
diventa incomprensibile se si lascia cadere dal quadro il tessuto dei rapporti
interpersonali.
A suo modo, inoltre, il gesto dei sei simbolizza anche la separatezza che gli
artisti e scrittori del Greenwich Village sentivano rispetto al resto della città.
Nel giro di pochi anni il Village era diventato il luogo privilegiato della socialità
artistica e della creatività e sperimentazione politico-culturale. Prima
dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, scrive Malcolm Cowley, nel Village
erano presenti e si fondevano i due diversi “tipi di rivolta, individuale e sociale,
81
BRUNO CARTOSIO
o estetica e politica, o la rivolta contro il puritanesimo e la rivolta contro il
capitalismo; in breve potremmo definirle bohemianismo e radicalismo. In quei
giorni dell’anteguerra le due correnti erano difficilmente distinguibili. I
bohèmien leggevano Marx e tutti i radicali avevano un tocco del bohèmien:
entrambi sembravano combattere per la stessa causa. Socialismo, amore libero,
anarchia, socialismo rivoluzionario, verso sciolto: tutti questi credi apparivano
confusi tra loro agli occhi del pubblico ed erano tutti pericolosi per chi li
praticava”. Dopo l’intervento degli Stati Uniti nella guerra, il Village diventerà
la cittadella in cui bohème e dissidenza politica cercheranno di difendersi dagli
attacchi di censori, moralisti, repressori. La repressione dei radicali sarà
durissima, pochi resisteranno. “Nel 1919”, scrive ancora Cowley, “il Village
era come un paese sconfitto”.78
A meno di tre mesi dalla bravata di Sloan e Duchamp, le traiettorie dei
realisti e dei modernisti e dell’”ultra-avanguardia” o Dada, si incrociarono per
l’ultima volta. Le sollecitazioni a riportare in vita una società di artisti
indipendenti, che organizzasse annualmente un’esposizione aperta a tutti
secondo il modello parigino erano venute dagli espatriati Gleizes e Duchamp.
I loro amici statunitensi le avevano raccolte con spirito abbastanza unitario:
presidente, vicepresidente, tesoriere e segretario dell’Associazione degli
indipendenti furono eletti William Glackens, Charles Prendergast, Walter
Pach e John Covert; mentre la direzione esecutiva fu affidata a Walter
Arensberg.79 Dopo un’incubazione di quasi un anno, la grande mostra degli
Indipendenti aprì i battenti nell’aprile del 1917, accogliendo più di
milleduecento opere. Fu l’ultimo luogo e momento di temporanea conciliazione
di tutte le forze ‘progressiste’, prima del giro di vite del tempo di guerra e del
dopoguerra.
Il 10 aprile 1917, dunque, la mostra apre i battenti al Grand Central Palace,
sulla 46ma Strada. L’avvenimento, che vuole essere l’aggiornamento sullo stato
dell’arte e insieme la valorizzazione dei pittori americani in termini di mercato,
è atteso. Ma il 2 aprile il presidente Wilson ha chiesto al Congresso
l’autorizzazione a dichiarare guerra alla Germania, ricevendola quattro giorni
più tardi. La mostra si apre dunque proprio mentre il paese entra in una guerra
della cui terribilità si è già avuto ampiamente notizia. Appena un anno prima,
Woodrow Wilson era stato rieletto alla presidenza sulla promessa di tenere gli
Stati Uniti fuori dal conflitto. La situazione non è favorevole, ma la mostra
sarà lo stesso importante, e non solo in quanto canto del cigno di una stagione
straordinaria.
Robert Henri rimase un’altra volta in disparte. Concordava con i principi
82
Il gusto del nuovo
‘ideologici’ fondamentali della mostra, racchiusi nella formula “Niente giuria,
niente premi”, da lui stesso sostenuti contro le prassi élitarie dell’Accademia;
ma dissentiva ora dalla decisione, suggerita da Duchamp, di appendere i quadri
in base all’ordine alfabetico (con sorteggio della prima lettera, che nel caso
specifico fu la “R”): “Se ci opponiamo alla imposizione di una giuria, perché
non dovremmo opporci alla imposizione dell’alfabeto?”80
Nella mostra risultò evidente la lontananza tra i tentativi di modernizzazione
moderata dei realisti e la produzione di quanti cercavano di metabolizzare
tanto il fauvismo e il cubismo, quanto il futurismo e il dadaismo. Ma nonostante
la sua importanza come vetrina, è un’altra la ragione che la colloca negli annali
dell’arte statunitense. Duchamp, d’accordo con Arensberg e Joseph Stella
(materialmente responsabili dell’acquisto), presentò un orinatoio da muro di
ceramica, di produzione industriale, apponendovi il titolo di “Fontana” e
firmandolo con lo pseudonimo “R. Mutt”. L’opera dello sconosciuto Mutt fu
calorosamente discussa – Arensberg e Bellows quasi vennero alle mani – e
infine respinta come provocatoria dal comitato esecutivo della mostra,
nonostante che per statuto qualsiasi artista fosse intitolato a presentare due
opere a sua scelta, dietro pagamento di una piccola tassa d’ammissione.
Duchamp, che faceva parte del comitato organizzatore, si ritirò dalla mostra,
senza rivelare chi era “R. Mutt”.81
Dell’’opera’ non rimane traccia, se non nella fotografia che Stieglitz fece in
tempo a scattare, collocandola su uno sgabello davanti a un dipinto di Marsden
Hartley. Sulla sua fine esiste però un racconto, sorpren dentemente ignorato da
storici e critici. Il figlio di William Glackens racconta sia in che modo suo
padre, presidente della mostra, risolvette lo spinoso dilemma riguardante la
“Fontana”, sia la ragione per cui di quell’oggetto non sia rimasto altro che la
foto: “Il comitato esecutivo era raccolto a discutere lo spinoso problema […].
Nessuno si accorse che William Glackens si staccava dal gruppo e senza rumore
si dirigeva all’angolo dove il discusso objet d’art riposava, sul pavimento dietro
un paravento. Lo alzò al di sopra del paravento e lo lasciò cadere. Ci fu uno
schianto. Tutti si voltarono sorpresi. ‘S’è rotto!’, disse lui”.82
Dopo la mostra, la difficoltà a esporre e a vendere, di cui s’è detto, si
approfondì ancora. La repressione politica e il soffocamento culturale imposto
dal conformismo e dallo sciovinismo fecero entrare l’intera vita artistica e
intellettuale in uno stato di vita sospesa. La progressiva socializzazione del
‘moderno’ fu interrotta. Con il 1917 la stagione della nascita di New York a
metropoli e centro artistico-culturale mondiale finì.
Un avvenimento simbolizza questa fine. A dicembre, Mabel Dodge lascia
83
BRUNO CARTOSIO
New York per andare a Taos, nel New Mexico. “Andai pensando di tornare”,
scrisse nella sua autobiografia; invece vi si stabilì e rimase praticamente per
tutto il resto della sua vita. Mabel Dodge, l’ereditiera curiosa e giramondo, che
era stata una delle forze attive nell’organizzazione dell’Armory Show e del
Paterson Pageant del 1913, abbandona la metropoli cosmopolita, in cui ha
tenuto per alcuni anni un salotto aperto agli innovatori della politica e della
cultura, per un paesino povero, sperduto tra le propaggini meridionali delle
Montagne Rocciose e il deserto. A Taos la maggioranza della popolazione è
costituita di messicani e indiani pueblo. Della piccola minoranza di anglofoni
fa parte un gruppo di pittori provenienti dalla costa orientale, che hanno dato
vita a una “colonia artistica”. Non rinunciando al proprio ruolo di ‘impresario’
culturale, negli anni e decenni successivi, Mabel Dodge attrarrà a Taos e a
Santa Fe scrittori, artisti, musicisti, intellettuali. Alcuni di loro vi si stabiliranno,
altri vi risiederanno per periodi più o meno lunghi oppure a intervalli, alternando
le visite e il lavoro estivo con il ritorno invernale nelle metropoli.
Mabel Dodge aveva mandato in avanscoperta il marito Maurice Sterne, il
pittore e scultore che a Parigi aveva frequentato Gertrude Stein e quindi Matisse
e Picasso, e lui le aveva scritto: “Cara ragazza, vuoi un obiettivo nella vita?
Salva gli indiani, la loro arte-cultura: rendila nota al mondo! …Quello che…altri
stanno facendo per i negri tu puoi, se volessi, farlo per gli indiani”.83 Mabel
Dodge partì, abbandonando il radicalismo politico-culturale metropolitano e
la bohème del Greenwich Village. La sua aspirazione era divisa, per metà intesa
a un temporaneo distacco dall’atmosfera di New York, che l’entrata in guerra
rendeva pesante, (“Beh, voglio una vacanza”) e per l’altra metà proiettata verso
un cambiamento profondo (“Mi piacerebbe un Cambiamento”). Quello che
ebbe fu il Cambiamento: “Lo ebbi. La mia vita si spezzò in due in quel momento
ed entrai nella seconda metà, un mondo nuovo che rimpiazzò tutto ciò che
avevo conosciuto insieme con altri, più strano e terribile e dolce di quanto
avessi mai potuto immaginare”.84
“Quasi nessuno aveva mai sentito nominare Santa Fe”, scriverà Mabel Dodge.
Quasi nessuno: in realtà, ad esempio, Robert Henri vi ha passato le estati del
1916 e di quello stesso 1917, invitato dal direttore del Museo del New Mexico,
attorno a cui si sta formando una vera e propria comunità artistica e intellettuale.
Dopo il trasferimento di Mabel, in parte grazie a lei, Taos e Santa Fe diventeranno
quasi un’appendice della comunità artistica newyorkese e il selvaggio New
Mexico si configurerà come il rovescio, periferico e ‘primitivo’, della modernità
metropolitana. Vi andranno tanto i pittori del realismo urbano, quanto quelli
del modernismo.
84
Il gusto del nuovo
I realisti, spinti dalla stessa ricerca di “nuovi soggetti” che gli aveva fatto
aprire gli occhi sulla realtà popolare metropolitana, vi troveranno nuove ragioni
per non abbandonare la figurazione, cercando però di inglobare in essa almeno
la lezione di Cézanne e, in parte, dei Fauves.85 I modernisti, invece, toccati dal
“primitivismo” alla maniera europea, in cui non sono i soggetti ma i loro
manufatti a diventare ‘chiavi’ per ridefinire la pratica artistica, andranno a
cercare in New Mexico le risposte ai loro nuovi problemi tecnico-stilistici ed
espressivi. Alcuni le troveranno, tanto nei manufatti quanto nell’ambiente fisico,
come Andrew Dasburg o John Marin o Georgia O’Keeffe, altri no. Per Marsden
Hartley, che soggiornò per un anno e mezzo a Taos e Santa Fe nel 1918-19,
l’esperienza della forma, del colore e della luce del New Mexico fu cruciale. Ma
Hartley, come Mabel Dodge e Robert Henri (anche se con implicazioni personali
diverse da entrambi), era pronto per il ripudio della città. Invece Stuart Davis,
il discepolo di Henri che sarebbe diventato uno degli astrattisti più originali e
rappresentativi, vi si sentì privato del senso della ricerca e della scoperta: “Il
posto in sé era così interessante. Ma non credo che si potesse fare molto lavoro,
se non in modo letterale. Perché il posto è sempre lì ed è così dominante. Non
puoi non guardarlo […]. Forme bell’e pronte, da imitare. Colori. Però io non
ci sono più tornato”.86 L’esoticità del luogo era attraente, ma per uno come lui,
che a differenza di Henri o Sloan non avrebbe mai smesso di dedicare la sua
vita artistica a interpretare la metropoli moderna, il New Mexico appariva
come una rinuncia a tutto quello che, culturalmente e politicamente, in tutta
la sua contraddittorietà, la grande città rappresentava.
NOTE
1
Gertrude Stein, The Autobiography of Alice B. Toklas, 1933 (trad. it., L’autobiografia di
Alice B. Toklas, Torino: Einaudi, 1978, p. 169.
2
Man Ray, Self-Portrait, Boston: Little, Brown & Co., 1998 (1963), p. 49; Floyd Dell,
Homecoming, Farrar & Rhinehart, New York, 1933.
3
Robert M. Crunden, American Salons: Encounters with European Modernism, 1885-1917,
New York: Oxford University Press, 1993, p. 373.
4
Floyd Dell, “Rents Were Low in Greenwich Village”, The American Mercury, 65:288,
December 1947, p. 662 e Id., Homecoming, cit., p. 249.
85
BRUNO CARTOSIO
5
William B. Scott and Peter M. Rutkoff, New York Modern: The Arts and the City, Baltimore:
Johns Hopkins University Press, 1999, p. 76; anche Steven Watson, Strange Bedfellows: The
First American Avant-Garde, New York: Abbeville Press, 1991.
6
William B. Scott and Peter M. Rutkoff, op.cit., pp. 63-68.
7
Hutchins Hapgood, A Victorian in the Modern World, 1939, cit. in Adele Heller and Lois
Rudnick, 1915: The Cultural Moment, New Brunswick: Rutgers University Press,1991, p.1.
8
Joseph Stella, “My Sermon about Christ”, s. d., riportato in Irma B. Jaffe, Joseph Stella,
Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1970, p. 49; Robert Henri a Frank Southrn,
cit. in Bennard B. Perlman, Robert Henri: His Life and Art, New York: Dover, 1991, p. 127.
9
William Carlos Williams, The Autobiography, New York: Random House, 1953, p. 158.
L’invettiva è anche in Man Ray. Nel 1914, allo scoppio della guerra in Europa, Ray lavora
nella parte bassa di Manhattan: “Wall Street era in crescita; gli speculatori facevano fortune
in un giorno. Nell’ora del pranzo, quando ero in città, camminavo nelle strade intorno alla
Borsa, piene di impiegati gesticolanti che gridavano rivolti a uomini affacciati alle finestre
aperte degli uffici, comunicando ordini di comprare e vendere. Era come una grande festa:
tutti i profitti della guerra e nessuna delle sue miserie”; Self Portrait, cit., p. 49.
10
Randolph Bourne, “Below the Battle”, Seven Arts, July 1917, cit. in Christine Stansell,
American Moderns: Bohemian New York and the Creation of a New Century, New York: Henry
Holt, 2000, p. 313.
11
Ivi, p. 314.
12
Leslie Fishbein, Rebels in Bohemia: The Radicals of The Masses, 1911-1917, Chapel Hill:
University of North Carolina Press, 1982, pp. 59-66; Malcolm Cowley, Exile’s Return: A
Literary Odyssey of the 1920’s, New York: Viking Press, 1951, p. 67 (trad. it., Il ritorno degli
esuli, Milano: Rizzoli, 1963). Anche: Julian F. Jaffe, Crusade Against Radicalism: New York
during the Red Scare, 1914-24, Port Washington, N.Y.: Kennikat Press, 1972; William Preston,
Jr., Aliens and Dissenters, New York: Harper & Row, 1966; Robert K. Murray, Red Scare: A
Study in National Hysteria, 1919-1920, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1955.
13
Robert M. Crunden, op. cit., p. 15.
14
La letteratura sul movimento Dada e sui suoi autori è sterminata. Per quanto riguarda
New York, oltre agli studi sugli autori (in particolare Man Ray, Picabia e Duchamp) si vedano
almeno le puntualizzazioni offerte in Dickran Tashjian, Skyscraper Primitives: Dada and the
American Avant-Garde, 1910-1925, Middletown, Conn.: Wesleyan University Press, 1975;
Francis Naumann, New York Dada, 1915-1923, New York: Harry N. Abrams, 1994; Francis
Naumann, with Beth Venn, eds., Making Mischief: Dada Invades New York, New York: Whitney
Museum of American Art, 1996.
15
Vicenda organizzativa, testimonianze e storia critica della mostra in: Walt Kuhn, The
Story of the Armory Show, New York: Walt Kuhn, 1938; Walter Pach, Queer Thing, Painting:
Twenty Years in the World of Art, New York: Harper, 1938; 1913 Armory Show 50th Anniversary
Exhibition 1963, Utica-New York: Henry Street Settlement/Munson-William-Proctor
Institute, 1963; Milton W. Brown, The Story of the Armory Show, New York: Abbeville Press,
1988; Id., American Painting from the Armory Show to the Depression, Princeton: Princeton
University Press, 1955; Meyer Schapiro, “The Introduction of Modern Art in America: The
Armory Show” (1952), in Id., Modern Art: 19th & 20th Centuries, New York: George Braziller,
1978, pp. 135-78; Andrew Martinez, “A Mixed Reception for Modernism: The 1913 Armory
Show at the Art Institute of Chicago”, The Art Institute of Chicago Museum Studies, 19: 1,
86
Il gusto del nuovo
1993, pp. 30-57; Garnett McCoy, “The Post Impressionist Bomb”, Archives of American Art
Journal, 20:1, 1980, pp. 13-17.
16
Gertrude Stein, Paris France, 1940, cit. in George Wickes, Americans in Paris, Garden
City, N.Y.: Doubleday & Co., p. 2.
17
Annualmente a Parigi si tenevano quattro Salons principali: il più antico e conservatore
era il più che secolare Salon des Artistes Français, affiancato nel 1890 dal più liberale Salon de
la Nationale des Beaux-Arts (o Salon des Champs de Mars, che non assegnava premi); nel
1884 aveva preso vita l’anticonformista Salon des Indépendants, realizzato per iniziativa di
Signac (in cui si erano eliminati giuria e premi), e, nel 1903, il Salon d’automne. Si vedano:
Cynthia White and Harrison White, “Institutional Change in the French Painting World, in
Robert N. Wilson, ed., The Arts in Society, New York: ARNO Press, 1979, pp. 255-70; John
Milner, The Studios of Paris: The Capital of Art in the Late Nineteenth Century, New Haven: Yale
University Press, 1988; Sandra E. Leonard, Henri Rousseau and Max Weber, New York: Richard
L. Feigen, 1970, p. 14.
18
John Milner, op. cit.; Dan Franck, Bohèmes, Paris: Calman-Lévy, 1998 (trad. it., Montmartre
& Montparnasse, Milano: Garzanti 2000).
19
Russell Lynes, The Tastemakers, New York: Harper & Bros., 1955; Aline B. Saarinen,
The Proud Possessors, New York: Random House, 1958 (trad. it., I grandi collezionisti americani.
Dagli inizi a Peggy Guggenheim, Torino: Einaudi, 1977); Calvin Tomkins, Merchants and
Masterpieces: The Story of the Metropolitan Museum of Art, 2nd ed., New York: Henry Holt, 1989;
Sarah Burns, Inventing the Modern Artist: Art and Culture in Gilded Age America, New Haven:
Yale University Press, 1996.
20
Milton W. Brown, Story of the Armory Show, cit., p. 164.
21
Ivi, pp. 166-67; Id., American Painting from the Armory Show to the Depression, cit., pp.
52-58.
22
Dan Franck, in Montmartre e Montparnasse, cit. (pp. 195 e passim), ricorda che le reazioni
sciovinistiche nei confronti della rottura cubista furono presenti anche in Francia, contro
l’‘italiano’ Apollinaire, lo ‘spagnolo’ Picasso, contro gli influssi boche, cioè tedeschi, e così via.
23
Martin Green, The Armory Show and the Paterson Strike Pageant, New York: Macmillan,
1988. Per quanto riguarda i rapporti dei modernisti con anarchismo e socialismo, sia negli
Stati Uniti, sia in Francia si vedano, oltre alle monografie su singoli artisti (come Henri,
Sloan, Davis, Duchamp, Man Ray ecc.) e agli studi sul Greenwich Village: Allan Antliff,
Anarchist Modernism: Art, Politics, and the First American Avant-Garde, Chicago: University of
Chicago Press, Chicago, 2001; Paul Avrich, The Modern School Movement, Princeton: Princeton
University Press, 1980; Dore Ashton, The New York School: A Cultural Reckoning, New York:
Penguin, 1979; John Elderfield, The “Wild Beasts”: Fauvism and Its Affinities, New York:
Museum of Modern Art, 1976.
24
Milton W. Brown, The Story of the Armory Show, cit., p. 234; Stuart Davis, Autobiography,
New York: American Artists’ Group, 1945, reprinted in Diane Kelder, ed., Stuart Davis,
New York: Praeger, 1971, p. 24; William Carlos Williams, Autobiography, New York: Random
House, 1951, p. 134.
25
Sulla prima mostra londinese organizzata da Roger Fry alle Grafton Galleries, “Manet
and the Post-Impressionists” (8 novembre 1910-15 gennaio 1911) – cui seguì una seconda,
tra l’ottobre e il dicembre 1912, vista dagli organizzatori dell’Armory Show – si vedano:
Peter Stansky, On or About December 1910, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1996;
87
BRUNO CARTOSIO
Carol A. Nathanson, “The American Reaction to London’s First Grafton Show”, Archives of
American Art Journal, 25:3, 1985, pp. 3-10.
26
Robert Henri cit. in Walter Pach, op.cit., p. 47.
27
Diane P. Fischer, “L’invention de l’’École américaine’ en 1900”, in Paris 1900. Les
artistes américains à l’Exposition universelle, Paris: Paris Musées, 2001, p. 21. Nell’Esposizione
del 1900, come in quella del 1889, gli artisti statunitensi furono secondi solo ai francesi per
numero di medaglie ricevute. I giurati, sottolinea Fischer, “furono attenti a sostenere i loro
antichi allievi americani”; infatti, “quasi tutti i premiati […] avevano avuto la loro formazione
negli ateliers parigini” (p. 82).
28
Oltre alla moglie di Michael Stein, Sarah, frequentarono l’Académie Matisse tra l’inizio
del 1908 e il 1911, Patrick Henry Bruce, Max Weber, Maurice Sterne e Walter Pach; si
vedano: Alfred H. Barr, Jr., Matisse: His Art and Public, New York: Museum of Modern Art,
1966 (1951), pp. 116-18; James R. Mellow, Charmed Circle: Gertrude Stein & Company, New
York: Avon, 1974, pp. 192 sgg.
29
Sue Davidson Lowe, Stieglitz: A Memoir/Biography, New York: Farrar, Straus and Giroux,
1983, pp. 133-34; William Innes Homer, “Stieglitz and 291”, Art in America, July-August
1973, p. 53.
30
Dorothy Norman, “From the Writings and Conversations of Alfred Stieglitz: From
Notes made by Stieglitz, 1938”, Twice a Year, 1:1, Fall-Winter 1938, pp. 80-81.
31
Richard Whelan, Alfred Stieglitz: A Biography, Boston: Little, Brown & Co., 1995, pp.
226-27.
32
Edward Steichen a Alfred Stieglitz, febbraio 1908, in Henri Matisse 1904-1917, Paris:
Éditions du Centre Pompidou, 1993, pp. 82-83. Il ricordo di Stieglitz è impreciso, ma la
cronologia dei movimenti di Steichen tra l’autunno e l’inverno 1907-8 non è qui importante;
si vedano: Richard Whelan, Alfred Stieglitz: A Biography cit., pp. 238-39; Alfred H. Barr,
Matisse: His Art and Public, cit., p.113.
33
In assoluto, i primi Matisse visti negli Stati Uniti furono quelli che Michael e Sarah
Stein portarono con sé e mostrarono agli amici dopo il loro ritorno a San Francisco, in seguito
al terremoto del 1906. Prima della guerra, Stieglitz avrebbe esposto ancora Matisse, e poi
Cézanne, Picasso, Braque, Brancusi e Picabia; si veda Marius de Zayas, How, When, and Why
Modern Art Came to New York, edited by Francis Naumann, MIT Press, Cambridge, MASS,
1996.
34
Max Weber citato in Sandra E. Leonard, Henri Rousseau and Max Weber, cit., p. 47;
Milton W. Brown, American Painting from the Armory Show to the Depression, cit., pp. 42-3.
35
Marius de Zayas a Alfred Stieglitz, cit. in Robert M. Crunden, American Salons, cit.,
pp. 354-55.
36
Sandra E. Leonard, Henri Rousseau and Max Weber, cit.; Percy North, Max Weber: The
Cubist Decade, 1910-1920, Atlanta, Ga.: High Museum of Art, 1991; Holger Cahill, Max
Weber, New York: Downtown Gallery, 1930, pp. 9-20; Lloyd Goodrich, Max Weber, New
York: Whitney Museum of American Art, 1949, pp. 7-19; Gail Levin, “American Art”, in
William Rubin, ed., “Primitivism” in 20th Century Art, New York: Museum of Modern Art,
1984, pp. 453-55.
37
Milton W. Brown, The Story of the Armory Show, cit., pp. 235-36.
38
Ivi, p. 238; Robert M. Crunden, American Salons, cit., p. 357; Walter Pach, op. cit., p.
201; Walt Kuhn, The Story of the Armory Show, cit., p. 24.
88
Il gusto del nuovo
39
Judith Zilczer, “The Noble Buyer”: John Quinn, Patron of the Avant-Garde, Washington,
D.C.: Smithsonian Institution Press, 1978, pp. 31-32; Id., “Robert J. Coady, Forgotten
Spokesman for Avant-Garde Culture in America”, American Art Review, 11:6, NovemberDecember 1975, pp. 77-89; Milton W. Brown, The Story of the Armory Show, cit., p. 238.
40
William B. Scott and Peter M. Rutkoff, op. cit., p. 119.
41
Milton W. Brown, American Painting from the Armory Show to the Depression, cit., p. 39.
42
William Innes Homer, Robert Henri and His Circle, Ithaca, N.Y.: Cornell University
Press, 1969; Bennard B. Perlman, Painters of the Ashcan School: The Immortal Eight, New York:
Dover, 1988; Id., Robert Henri: His Life and Art, New York: Dover, 1991.
43
Per quanto riguarda il mercato: i quadri della mostra newyorkese furono esposti per i
dodici mesi successivi in varie altre città, senza che una sola tela venisse venduta. Con le
eccezioni di Henri e di A.B. Davies, gli altri pittori del gruppo continueranno a lungo a non
riuscire a vendere i loro quadri. Si veda Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., pp. 91, 118.
44
Guy Pène du Bois, “For Life and Henri, 1940”, American Art Review, 11:3, May-June
1975, p. 89.
45
Stuart Davis, Autobiography, cit., pp. 20-1; Walter Pach, op. cit., p. 44.
46
Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., p. 119, la citazione a p. 60; Robert Henri, The
Art Spirit, Philadelphia/New York: J.B. Lippincott, 1960 1923, p. 135.
47
Robert Henri, op.cit., pp. 142, 147.
48
Walter Pach, op.cit., pp. 46-47.
49
Robert Henri, op. cit., pp. 143-52.
50
William Carlos Williams, Selected Essays, New York: Random House, 1954, p. 230.
51
Martin Green, op.cit., p. 245; William Carlos Williams, Kora in Hell: Improvisations,
Boston: Four Seas Co., 1920; Id., I Wanted to Write a Poem: The Autobiography of the Works of a
Poet, edited by Edith Heal, Boston: Beacon Press, 1958, pp. 26-31.
52
“La cosa che salva il tuo lavoro è l’opacità, non dimenticarlo. L’opacità NON è una
qualità americana. Frizzo, sibilo, bla-bla e logorrea: questi sono echt americanisch”; la lettera di
Ezra Pound è citata in William Carlos Williams, “Prologue to Kora in Hell”, in Id., Selected
Essays, cit., pp. 8-9.
53
William Carlos Williams, Autobiography, cit., p. 158.
54
A proposito delle proprie “visioni simultanee” o “multiple” degli anni 1916-18 Stuart
Davis disse di avere voluto “mettere insieme cose che normalmente tu non vedi nello stesso
momento”; cit. in Patricia Hills, Stuart Davis, New York: Harry N. Abrams, 1996, p. 46.
Anche Karen Wilkin and Lewis Kachur, The Drawings of Stuart Davis: The Amazing Continuity,
New York: The American Federation of the Arts with Harry N. Abrams, 1992. William
Carlos Williams, I Wanted to Write a Poem, cit., p. 29.
55
Stuart Davis citato in Philip Rylands, a cura di, Stuart Davis, Milano: Electa, 1997, p.
29; William Carlos Williams, I Wanted to Write a Poem, cit., p. 29. Sul percorso di Davis dal
realismo à la Henri al modernismo e all’astrazione, e sul suo engagement: John R. Lane, Stuart
Davis: Art and Art Theory, New York: The Brooklyn Museum, 1978; Lowery Stokes Sims,
ed., Stuart Davis: American Painter, New York: The Metropolitan Museum of Art, 1991.
56
Man Ray, Self Portrait, cit., p. 44 e Id. with Arturo Schwartz, “An Interview with Man
Ray: ‘This Is not for America’”, Arts Magazine, 51:9, May 1977, p. 117; William Carlos
Williams, Autobiography, cit., p. 134.
57
William Carlos Williams, Autobiography, cit., p. 136.
89
BRUNO CARTOSIO
58
Roger Shattuck, The Banquet Years: The Origins of the Avant Garde in France, 1885 to
World War I, revised edition, New York: Vintage, 1968, pp. 318-20.
59
William Carlos Williams, Selected Essays, cit., p. 23.
60
Wassily Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, 1912 (ma: dicembre 1911) (trad. it.,
Lo spirituale nell’arte, Milano: Bompiani, 1989, pp. 92-93).
61
Gail Levin, “Wassily Kandinsky and the American Literary Avant-garde”, Criticism. A
Quarterly for Literature and the Arts, 21: 4, Fall 1979, pp. 347-61. La ‘presenza’ di Kandinsky
non fu né momentanea, né circoscritta; ad esempio, influenzò anche Arthur Wesley Dow,
pittore che aveva conosciuto Gauguin a Pont-Aven e insegnante tra i più importanti sulla
scena newyorkese. Dow pronuncia nel 1916 un discorso sul modernismo (pubblicato come
“Modernism in Art”, American Magazine of Art, 8:3, January 1917, pp. 113-16), in cui riprende
Kandinsky. Dopo aver studiato con l’orientalista Ernest Fenollosa, Dow insegna al Pratt
Institute di Brooklyn, al Teachers College della Columbia University e all’Art Students’ League
di New York, e ha come studenti, tra gli altri, John Marin, Max Weber, Georgia O’Keeffe. Si
vedano: Abraham A. Davidson, Early American Modernist Painting, 1910-1935, New York:
Harper & Row, 1981, pp. 29, 62; Ruth E. Fine, John Marin, Washington, D.C.: National
Gallery of Art, 1990, p. 180.
62
Gertrude Stein a Alfred Stieglitz, autunno 1913, cit. in James R. Mellow, op.cit., p.
230. Anche l’autobiografia di Marsden Hartley, Somehow a Past, edited by Susan Elizabeth
Ryan, Cambridge, Mass.: MIT Press, 1997, pp. 75-85.
63
La questione è troppo ricca di implicazioni per essere trattata qui. Sui rapporti con il
‘primitivo’ degli statunitensi, in particolare Weber e Man Ray, oltre a Hartley, si vedano Gail
Levin, “American Art”, in William Rubin, ed., “Primitivism” in 20th Century Art, cit., Vol. 2,
pp. 453-73; Marius de Zayas, How, When, and Why Modern Art Came to New York, cit.; Judith
Zilczer, “Robert J. Coady, Forgotten Spokesman for Avant-Garde Culture in America”, cit.;
Daryl R. Rubenstein, Max Weber: A Catalogue Raisonné of His Graphic Work, Chicago: University
of Chicago Press, 1980, pp. 8 sgg.
64
Gail Levin, “Marsden Hartley, Kandinsky, and Der Blaue Reiter”, Arts Magazine, 52:3,
November 1977, pp. 156-60; Id, “Marsden Hartley and the European Avant-Garde”, Arts
Magazine, 54:1, September 1979, pp. 158-63; Roxana Barry, “The Age of Blood and Iron:
Marsden Hartley in Berlin”, Arts Magazine, 54:2, October 1979, pp. 166-71. Sul proprio
periodo berlinese Hartley, in Somehow a Past, è singolarmente reticente; si vedano le pp. 8692. Dei suoi scritti nuovomessicani, si vedano almeno “Aesthetic Sincerity”, El Palacio (Santa
Fe), 5: 20, December 9, 1918, pp. 332-33 e “Red Man Ceremonials: An American Plea for
American Esthetics”, Art and Archaeology, 9: 1, January 1920, pp. 7-14.
65
Joseph Stella, “The Brooklyn Bridge (A Page of My Life)”, pubblicato dall’autore nel
1928 e su Transition, 16-17, June 1929, pp. 86-88; ora in Barbara Haskell, Joseph Stella, New
York: Whitney Museum of American Art, 1994, pp. 206-7. Irma B. Jaffe, in Joseph Stella,
cit., p. 55, attribuisce gli studi preparatori e l’inizio del quadro al 1918 e il suo completamento
al 1919. La sua prima esposizione pubblica risale al 1920, col titolo The Bridge.
66
Joseph Stella, “Autobiographical Notes (1946)”, Art News, 59, November 1960, ora in
Barbara Haskell, op. cit., pp. 211-15; citaz a p. 212.
67
Joseph Stella, “The New Art”, The Trend, 5, June 1913, ora in Ivi, pp. 201-2.
68
Joseph Stella, “Autobiographical Notes (1946)”, ora in Ivi, p. 213.
69
Irma B. Jaffe, Joseph Stella, cit., pp. 47-48.
90
Il gusto del nuovo
70
John I. H. Baur, Joseph Stella, New York: Praeger, 1971, p. 19; Milton W. Brown,
American Painting from the Armory Show to the Depression, cit. p. 121.
71
I corsivi sono miei. William Carlos Williams, Selected Essays, cit., p. 14; Id., Kora in
Hell, cit. (trad. it. a cura di Luigi Ballerini, Kora all’inferno, Parma: Guanda, 1971, p. 123).
72
William Carlos Williams, Kora in Hell, cit., V, 2; XVIII, 3 (Kora all’inferno, cit., pp. 38,
88-89).
73
Abraham A. Davidson, op. cit., p. 164.
74
Cit. in Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., p. 95.
75
Ivi, pp. 98-9; Judith Zilczer, “The Noble Buyer”, cit., p. 22.
76
Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., pp. 121-22 sgg.
77
John Sloan, New York Etchings (1905-1949), edited by Helen Farr Sloan, New York:
Dover, 1978, p. 35.
78
Malcolm Cowley, Exile’s Return: A Literary Odyssey of the 1920’s, New York: Viking,
1951, pp. 66, 71 (trad. it., Il ritorno degli esuli, Milano: Rizzoli, 1963). Anche per Floyd Dell,
in “Rents Were Low in Greenwich Village”, cit., p. 665, il Village dell’anteguerra era “un
crogiolo in cui tutte le distinzioni di gruppo si dissolvevano. Artisti, scrittori, intellettuali,
liberali, radicali, socialisti rivoluzionari, bohémien, avventori benestanti, curiosi: tutti venivano
scaraventati in una socialità in cui serietà e frivolezza erano del tutto mescolati”. Nella sua
autobiografia, il marxista Max Eastman, che pubblica la rivista socialista The Masses (con
Dell, Sloan, Davis e altri), rivendica la “libertà dai dogmi che ci permetteva di partecipare
autonomamente alle lotte per l’uguaglianza razziale e per i diritti delle donne, per rapporti
intelligenti tra i sessi”; Enjoyment of Living, New York: Harper, 1948, p. 419.
79
Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., p. 125; Walter Pach, op. cit., p. 232;
80
Robert Henri cit. in Bennard B. Perlman, Robert Henri, cit., p.125; Walter Pach, op.
cit., p. 234.
81
La ricostruzione più esauriente della vicenda è in William A. Camfield, “Marcel
Duchamp’s Fountain: Its History and Aesthetics in the Context of 1917”, in Rudolf Kuenzli
and Francis M. Naumann, eds., Marcel Duchamp: Artist of the Century, Cambridge, Mass.: MIT
Press, 1990, pp. 64-94. L’articolo “The Richard Mutt Case”, apparso nello stesso 1917 su The
Blind Man, la rivista che Duchamp pubblicava con Henri-Pierre Roché e Beatrice Wood, in
difesa di “R. Mutt”, è stato a lungo attribuito a Duchamp stesso (si veda Barbara Rose, ed.,
Readings in American Art Since 1900, New York: Praeger, 1968, p. 55), ma Beatrice Wood lo
rivendica a sé: “Scrissi io l’editoriale sui ponti e le tubature che sono grandi contributi
dell’America al futuro”; “I Shock Myself: Excerpts from the Autobiography of Beatrice Wood”,
with introduction and notes of Francis Nauman, Arts Magazine, 51:9, May 1977, pp. 13439.
82
Ira Glackens, William Glackens and The Eight: The Artists Who Freed American Art, New
York: Horizon Press, 1983 (1957), p. 188.
83
Mabel Dodge Luhan, Movers and Shakers, Albuquerque, N.M.: University of New Mexico
Press, 1985 (1936), p. 535. Anche: Lois Palken Rudnick, Mabel Dodge Luhan: New Woman,
New Worlds, Albuquerque, N.M.: University of New Mexico Press, 1984.
84
Mabel Dodge Luhan, Edge of Taos Desert: An Escape to Reality, Albuquerque, N.M.:
University of New Mexico Press, 1987 (1937), p. 6.
85
Sugli artisti di Taos e Santa Fe e sui rapporti con la scena newyorkese, si vedano: Charles
C. Eldredge, Julie Schimmel and William H. Truettner, Art in New Mexico, 1900-1945:
91
BRUNO CARTOSIO
Paths to Taos and Santa Fe, Washington, D.C.: National Museum of American Art/Smithsonian
Institution, 1986; Sharyn Rohlfsen Udall, Modernist Painting in New Mexico, 1913-1935,
Albuquerque, N.M.:, University of New Mexico Press, 1984.
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Stuart Davis cit. in Sanford Schwartz, “When New York Went to New Mexico”, Art in
America, 64: 4, July-August 1976, pp. 95-96. Sulla vita intellettuale e politico-culturale,
non solo artistica, a Taos e Santa Fe negli anni della prima guerra mondiale, si vedano: Marta
Weigle and Kyle Fiore, Santa Fe and Taos: The Writer’s Era, 1916-1941, Santa Fe: Ancient
City Press, 1982; Beatrice Chauvenet, Hewett and Friends: A Biography of Santa Fe’s Vibrant
Era, Santa Fe: Museum of New Mexico Press, 1983; Bruno Cartosio, Da New York a Santa Fe:
terra, culture native, artisti e scrittori nel Sudovest (1846-1930), Firenze: Giunti, 1999.
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