unità 2 L’autunno del Medioevo Riferimenti storiografici 1 Nel riquadro miniatura del XV secolo che raffigura la battaglia di Crécy, combattura tra francesi e inglesi nell’ambito della guerra dei cent’anni. Sommario 1 2 3 4 5 6 7 Filippo il Bello e Bonifacio VIII Il tumulto dei ciompi La danza macabra I nemici della cristianità: usurai, streghe ed ebrei La nuova guerra nell’Italia del Trecento e del Quattrocento Profetesse e visionarie nel Tardo Medioevo Le origini asiatiche della peste F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 8 9 10 11 12 La peste: una malattia socialmente ingiusta L’appropriazione del tempo da parte dei mercanti L’industria tessile nel Tardo Medioevo La centralità della morte nella religiosità tardo medievale Urbanistica e potere nell’Italia del Quattrocento 1 Filippo il Bello e Bonifacio VIII UNITÀ 2 Bonifacio VIII aveva due grandi nemici: la famiglia Colonna, nobili romani ostili alla casata dei Caetani, da cui proveniva il papa, e il Consiglio di Francia, un gruppo di giuristi che svolgevano il ruolo di ministri e consiglieri di Filippo il Bello. Alla tradizionale dottrina papale delle due spade, i giuristi francesi opponevano la concezione della monarchia sacra, secondo cui il re di Francia aveva ricevuto il potere direttamente da Dio. I Colonna, invece, sostenevano che l’elezione di Benedetto Caetani (Bonifacio VIII) al pontificato era illegittima, in quanto l’episodio delle dimissioni di Celestino V non aveva alcun precedente nella storia della Chiesa. L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 2 Nel 1294 il re di Francia Filippo IV il Bello attaccava il feudo della Guascogna, nel settore sudoccidentale della regione francese, con lo scopo di aggregarlo di fatto e non solo di diritto al suo regno; così facendo, apriva un contenzioso con il re d’Inghilterra, titolare di quel feudo, che nell’immediato scatenava un duro conflitto e nel lungo termine avrebbe gettato la Francia nella tragedia della Guerra dei Cent’anni. […] Dopo poco tempo dall’inizio del conflitto la costosissima guerra aveva messo in crisi il sistema finanziario dei due paesi contendenti e tanto Filippo quanto il sovrano inglese si videro costretti a prendere una decisione d’emergenza, cioè tassare il clero del proprio regno nonostante fosse esente in virtù di privilegi antichissimi sempre rispettati; le vive proteste del clero si fecero sentire presso papa Bonifacio VIII, il quale immediatamente tuonò ai due sovrani che i beni della Chiesa non potevano servire per soddisfare gli interessi del potere laico e li minacciò di scomunica. La parte francese accolse malissimo la reazione pontificia avvertendola come l’ostacolo a una manovra lecita e necessaria nell’interesse del regno; in breve si scatenò un’acerrima disputa sui diritti della corona e del papato che trascendeva la semplice questione fiscale. Se Bonifacio VIII ribadiva la tradizionale concezione di matrice teocratica che assegnava al papa, in quanto Vicario di Cristo in terra, il diritto e il dovere di correggere i sovrani dei loro eccessi, Filippo il Bello rispondeva avanzando un nuovo orientamento ideologico che faceva del principe un sovrano nel suo regno, vale a dire un’autorità perfettamente svincolata e indipendente da qualunque altro potere: superiorem non reconoscens [che non riconosce nessuno superiore a sé, n.d.r.]. […] Bonifacio VIII era un papa scomodissimo per due motivi. In primo luogo aveva innegabilmente alcuni difetti umani che, specie dopo l’esperienza del papa angelico incarnato da Celestino V, apparivano ancor più stridenti rispetto alla dignità assunta: ambizione, gusto del potere e del fasto, una visione grandiosa del ruolo di capo della Chiesa che l’induceva a privilegiare certi aspetti anche teatrali, come la stupefacente rivoluzione del triregno, la tiara indossata dal papa quale simbolo del suo primato che da copricapo prezioso ma semplice Bonifacio trasformò in un vero e proprio tesoro di oreficeria, pesantissimo, ornato da un rubino di grandezza e valore impressionanti. Ma non erano certo i lussi del papa e neppure le sue debolezze umane a turbare il Consiglio di Francia: il secondo motivo, quello vero, era ben più grave. Tanto la Francia quanto i Colonna avevano capito che su certe questioni il papa era irremovibile, dunque per ottenere quanto desideravano sarebbe stato necessario toglierlo di mezzo: e quell’elezione avvenuta in seguito al gran rifiuto, quindi in circostanze del tutto straordinarie nella storia della Chiesa, dava lo spunto per argomentare che non si trattasse di un pontificato legittimo. Il cuore del problema era che Bonifacio VIII, nella logica di una ferrea teocrazia, aveva una concezione altissima della Chiesa di Roma, istituzione dominante nello spirituale e nel temporale, e ne difendeva strenuamente le prerogative di sovranità; il Consiglio di Francia stava elaborando una sua visione politica agli antipodi, che metteva il paese al centro e mirava a conferirgli la leadership in seno alla società cristiana. Il monarca francese discendeva dalla dinastia benedetta di Clodoveo, il quale secondo la tradizione era stato consacrato con un crisma miracoloso che lo stesso Spirito Santo avrebbe portato dal cielo nelle sembianze di una colomba. Dunque i re di Francia derivavano la loro sovranità direttamente dalla volontà di Dio e la loro dignità era spiritualmente superiore a quella di tutti gli altri regnanti: perciò, secondo gli ideologi di Filippo il Bello era giusto che il sovrano raggiungesse il primato anche politico sulla cristianità, poiché egli, il re cristianissimo, avrebbe potuto guidarla in salvo guarendola dai suoi mali. Papa Caetani osteggiava la costruzione politica che gli avvocati francesi puntavano a far prevalere, inoltre aveva due acerrimi nemici i quali sostenevano che s’era impadronito del soglio apostolico con l’inganno e la sua elezione non era dunque valida: a un certo punto, insomma, la tesi Colonna divenne utilissima per il Consiglio di Francia che riuscì a portare dalla sua parte il clero del paese e indisse un concilio per deporre Bonifacio VIII ed eleggere un altro papa più condiscendente. Da questo singolare incrocio di idee politiche antichissime, sincere convinzioni religiose e interessi politico-finanziari, i giuristi di Filippo il Bello derivarono una teoria che faceva del sovrano il salvatore della società cristiana, un pastore del gregge di Cristo in concorrenza con l’usurpatore del trono di Pietro. B. FRALE, I Templari, il Mulino, Bologna 2007, pp. 110-114 Quale diritto/dovere avevano i papi, secondo Bonifacio VIII, nei confronti dei sovrani temporali? Filippo il Bello sosteneva che il re di Francia era pienamente sovrano, cioè non riconosceva sopra di sé alcun superiore. Contro quali autorità era rivolta questa affermazione? Può essere definita laica la posizione dei giuristi francesi che sostengono il re di Francia e si oppongono al papa? Spiega perché. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Il principale nemico dei ciompi fiorentini – i salariati più poveri, che lavoravano nell’industria tessile di Firenze – era l’Arte della lana, cioè l’associazione che rappresentava i grandi mercanti. Questi importavano la materia prima e vendevano il prodotto finito sui mercati d’Europa o del Vicino Oriente. L’obiettivo dei ciompi era di togliere a questo gruppo potentissimo il controllo della città. Il tumulto dei ciompi fu un duro scontro sociale: stranamente, per l’epoca, non fu accompagnato da fermenti ereticali e motivazioni religiose. Sebbene qualche studioso abbia cercato di rintracciare una connessione tra queste agitazioni e la predicazione ereticale, soprattutto dei fraticelli [i francescani più estremisti, decisi avversari del papato, dopo che questi aveva negato che il testamento di san Francesco fosse vincolante per l’ordine, sul tema della povertà assoluta, n.d.r.] non vediamo nei moti fiorentini, perugini o senesi caratterizzazioni religiose evidenti, e comunque il dispiegarsi di passioni e sentimenti analogo a quello dei lollardi inglesi [i predicatori popolari che sostennero la rivolta contadina del 1381, n.d.r.] e dei beghini fiamminghi, e nemmeno un preannunzio di quella che sarà alla fine del Quattrocento l’atmosfera della Firenze savonaroliana. A ragione è stato osservato che le notizie di repressioni antiereticali sono tutte successive alla disfatta dei Ciompi e che «sino agli anni ottanta del XIV secolo la predicazione della povertà non si accordava alle parole d’ordine con le quali si sollevavano gli operai salariati di Siena, Firenze ed altre città, reclamando l’uguaglianza con i maestri, l’aumento del salario ecc.» (V. Rutenberg). Si può forse notare che proprio questa maturità sociale del movimento popolare e operaio – che per giustificare la propria agitazione non fa ricorso a ragioni religiose – può essere in qualche modo d’intralcio al suo stesso sviluppo, nella misura in cui non consente il coagularsi di forze più larghe e la formazione di un blocco capace di contrapporsi ai gruppi dominanti […]. È difficile fondare su questa assenza di motivazioni religiose un’ipotesi storiografica: tuttavia è una situazione che porta a riflettere sulle capacità di ripresa mostrate nel secolo precedente dalla Chiesa nella sua lotta – insieme di repressione e di propaganda – contro le eresie pauperistiche, ma anche sull’analogo distacco che le masse popolari italiane mostreranno in generale, poco più di un secolo dopo, nei confronti della propaganda protestante. Per quel che riguarda le vicende fiorentine, il meccanismo del tumulto dei Ciompi è ben noto. […] Nella notte del 18 luglio i popolani di vari quartieri si riuniscono segretamente fuori la Porta di San Pietro a Gattonino ed elaborano un programma comune di rivendicazioni: innanzi tutto una serie di richieste nei confronti dell’Arte della Lana, […] poi l’allargamento dei collegi, per «avere parte nel reggimento della città». Quando il 20 luglio si sparge la notizia che tre capi dei Ciompi, in seguito a delazione, sono stati arrestati e sottoposti a tortura, il popolo minuto si leva in armi e accorre al palazzo della Signoria sotto i suoi gonfaloni (in testa quello dell’Angelo, che ai tempi del duca d’Atene [Gualtieri VI di Brienne, dispotico governatore di Firenze tra il 1342 e il 1343, n.d.r.] era stato riconosciuto come bandiera delle Arti minute istituite dal duca e sciolte dopo la sua cacciata). A gran voce viene imposta la liberazione dei tre prigionieri, poi i tumultuanti si impadroniscono del gonfalone della Giustizia, simbolo del Comune, e dànno fuoco alle case dei personaggi più detestati e al palazzo dell’Arte della Lana. […] Lo squittino, ossia la scelta di cittadini di pieno diritto che potevano essere eletti a cariche pubbliche, viene operato in un ambito che cresce improvvisamente da poco più di tremila a circa sedicimila persone: «O Idio, che gente fu quella che ebbe a rifare tanto nobile città e così nobile reggimento – commenta il nuovo squittino un popolano grasso, sdegnoso verso questi nuovi arrivati – …non altro che gente, erano tutti, veniticcia, che egli medesimi, domandandogli, non sapevano donde erano venuti, né di che paese… Non v’era niuno di famiglia, né niuno buono originale cittadino». Il superbo disprezzo per i nuovi inurbati corre come un leitmotiv [un tema ricorrente, come accade per alcune note, in una melodia musicale, n.d.r.] tipico della società comunale, soprattutto dopo le immigrazioni massicce seguite alla peste, nella polemica delle vecchie classi dirigenti […]. Le tappe della reazione sono assai rapide. I padroni delle manifatture dell’Arte della Lana rifiutano di riprendere l’attività e, nonostante le ripetute ingiunzioni del Comune, botteghe e fondaci restano chiusi. Risultato quasi altrettanto sterile hanno i decreti per l’approvvigionamento della città. In tal modo, gli sconfitti di luglio si prefiggono di gettare la città nel disordine […]. Fra sanguinosi scontri di piazza, in cui soprattutto l’Arte dei beccai si fa strumento di reazione, l’Arte dei Ciompi viene sciolta, i suoi capi imprigionati o massacrati o costretti a fuggire, mentre per vari mesi la reazione infuria spietata contro coloro che cercano in qualsiasi modo di risollevare l’insegna dell’Agnello. […] Così andava instaurandosi allora un regime destinato a ridursi in oligarchia sempre più ristretta e finalmente nella tirannide signorile: le stesse Arti minori di antica costituzione vedono ridotta a un terzo e successivamente a un quarto la loro rappresentanza negli uffici [le cariche pubbliche, n.d.r.], e sono escluse da quelle più importanti. Il governo del Comune venne di fatto in mano a Maso degli Albrizzi (1387-1417), poi di Rinaldo degli Albrizzi e di Niccolò da Uzzano (1417-1434). Quando Cosimo de’ Medici, nel 1434, s’impadronì del potere, «non parve strano allora quel modo di vivere introdotto da Cosimo, perché molti anni innanzi s’era retto la città in simile spezie di reggimento, […] tanto che la città era avvezza, anzi non conosceva quasi altre spezie di repubblica se non potenza di pochi». C. VIVANTI, La storia politica e sociale, in R. ROMANO, C. VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII. I. La società medievale e le corti del Rinascimento, Einaudi, Torino 1974, pp. 289-296 Chi sono «gli sconfitti di luglio»? Si può dire che siano i vincitori della partita, al termine del tumulto? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 2 Il tumulto dei ciompi 3 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 2 3 La danza macabra UNITÀ 2 L’esempio più famoso di danza macabra si trovava a Parigi, sui muri del cimitero degli Innocenti. Il tema della Morte che impone ai vivi di danzare al suo ritmo si diffuse soprattutto nell’Europa settentrionale. In Italia, ad esempio, i dipinti macabri di questo genere sono pochi, e tutti concentrati nelle regioni del Nord. L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 4 Anche se l’affresco dipinto nel 1424 sui muri del cimitero degli Innocenti ha rappresentato un prototipo iconografico, resta vero che il tema della danza macabra era già noto in precedenza. Un cronista francese, che scriveva nel 1421, così illustrava le sventure del suo tempo: «Sono quattordici o quindici anni che è iniziata questa danza di afflizione e la maggior parte dei signori è morta di spada o di veleno o di qualche mala morte contro natura». Dietro il dipinto del cimitero degli Innocenti bisogna sottintendere la presenza di testi e di raffigurazioni perdute. E questo rende plausibile la tesi di H. Rosenfeld, il quale fa risalire al 1350, situandola nel convento domenicano di Würzburg, la composizione della prima poesia che abbia per tema la danza macabra. Si tratta di una composizione formata da tanti monologhi in latino che, uno dopo l’altro, vengono pronunciati da personaggi (papa, imperatore, cardinale ecc.) costretti ad entrare nel girotondo funebre. Aggiungiamo che la poesia era accompagnata da illustrazioni. […] Allo stato attuale delle conoscenze, si sono recensite in Europa almeno 80 danze macabre dei secoli XV-XVI (intendiamo parlare sia di quelle ancora esistenti sia di quelle andate perdute, ma di cui si ha certa memoria), dipinte ad affresco o scolpite e talvolta anche ricamate su arazzi e piviali [paramenti liturgici, simili a mantelli, usati nei riti sacri, n.d.r.], oppure evocate nelle vetrate: sono 22 in Germania (aggiungendovi l’Alsazia, l’Austria, l’Estonia e l’Istria); 8 in Svizzera; 6 nei Paesi Bassi; 22 in Francia; 14 in Inghilterra; 8 nell’Italia settentrionale. Nessuna è anteriore all’anno 1400 e forse anche in questo caso il testo scritto ha preceduto le raffigurazioni. […] Sotto il profilo strutturale la danza macabra è una sorta di sfilata, di processione delle diverse condizioni umane in cammino verso la morte. All’interno della sfilata, ogni vivo è suo malgrado trascinato da una mummia animata che, spesso, accenna un passo di danza. Questo schema generale si arricchì ovviamente di varianti diverse a seconda del tempo, del luogo e anche dello spazio in cui collocare la danza. In linea generale il numero dei personaggi invitati a far parte della sinistra processione o da un morto o dalla stessa Morte si fa più folto man mano che cresce la diffusione e l’interesse per il tema. Così, a Ker-Maria i partecipanti alla danza sono solo 23 e il testo latino originario che ispirò la raffigurazione, e anche il testo in tedesco che ne era derivato, non adunavano a danzare che 24 personaggi, ed è questa la stessa cifra che ritroviamo a Lubecca e a La Chaise-Dieu. Invece a Berlino sono 28 e nel cimitero degli Innocenti, stando a quanto dice Guyot Marchant, 30. […] Il culmine dell’inflazione di personaggi si ha nella Dança de la muerte, pubblicata a Siviglia nel 1520 […] Infatti, ivi sono 58 i vivi che invano discutono con la Morte. Osservando un ordine gerarchico molto rigoroso, le danze macabre, che bisogna sempre leggere da sinistra a destra, di norma iniziano con la figura del papa e pongono al termine della processione danzata o, almeno, verso gli ultimi posti della fila, da una parte il contadino e dall’altra la madre e il fanciullo. Si tratta di una scala di valori che non concede nulla all’ambiguità. In generale, gli ecclesiastici precedono i laici sia nella ripartizione totale, sia quando si ha una distribuzione alternata dei ruoli. Il primo caso è esemplificato dalla Danza di Berlino […]: tutti gli ecclesiastici vi sono collocati prima dei rappresentanti della società laica. Il secondo caso è quello più frequente: un personaggio o dignitario ecclesiastico sta unito ad un cadavere con cui danza una specie di polacca e questa coppia precede quella formata da un laico e da una mummia o da uno scheletro animato; il papa precede l’imperatore, l’arcivescovo il cavaliere, il vescovo lo scudiero. […] Quando le raffigurazioni macabre, e soprattutto le danze macabre, mettono al cospetto della Morte dei ricchi, dei grandi, dei dignitari ecclesiastici e dei giovani, allora la Morte ha sempre un atteggiamento da sergente criminale (ufficiale della giustizia), che è esecutore di comandi divini. I poveri e gli sventurati interpretavano forse quelle raffigurazioni come una sorta di rivalsa futura? Vi scorgevano qualcos’altro che non fosse l’insegnamento costante del cristianesimo, che contrapponeva il trapasso tranquillo di Lazzaro a quello del ricco malvagio, così come ce li presenta a Strasburgo un quadro datato 1474? In questo quadro vediamo che il mendicante è accolto in paradiso, mentre chi teneva tavola imbandita, attorniato da donne e musicisti, è preda dei diavoli. […] Ecco un fatto che ci illumina retrospettivamente sul significato delle danze macabre. Infatti, esse promettevano o facevano balenare l’uguaglianza, ma solo dopo la morte; mentre per il presente lasciavano accuratamente intatte le gerarchie sociali vigenti, anzi, i personaggi erano disposti secondo il loro rango. Le raffigurazioni macabre di per sé non traspirano animosità verso le gerarchie sociali e non intendono stigmatizzarle (è Dio ad averle volute): esse vogliono invece sferzare le risibili illusioni alimentate nelle persone di rango dagli onori e dal denaro. J. DELUMEAU, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, il Mulino, Bologna 1987, pp. 129-135, 153-154, trad. it. N. GRÜBER Quali paesi hanno visto una maggiore fioritura del tema iconografico della danza macabra? Con quale figura iniziano le danze macabre? Per quale ragione? Si può affermare che le danze macabre criticassero le gerarchie sociali e spingessero a ribellarsi contro i potenti, minacciati dalla Morte? Motiva la tua risposta. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Unica minoranza religiosa presente all’interno dell’Europa cristiana, gli ebrei erano in capro espiatorio ideale. Alla marginalità e alla vulnerabilità si univa la credibilità: la tradizione, infatti, li presentò per secoli come i perfidi assassini di Cristo. La Christianitas [la società cristiana, n.d.r.], come ogni cristiano, come già l’autore dei salmi, era circondata da nemici. […] Questi erano, nei casi più vistosi, l’usuraio e la strega. «Non esigere nessun interesse dal tuo fratello», diceva il Deuteronomio: precetto che, al di là dell’importanza che poteva assumere per i commentatori scolastici, era al primo posto nei pensieri del cristiano medio, come dimostrano gli statuti di qualsiasi confraternita. Da sant’Ambrogio, nel secolo V, a san Bernardino da Siena, nel secolo XV, i predicatori ribadivano instancabilmente che la pretesa dell’usura, o profitto sull’uso di qualcosa dato in prestito, era un atto di inimicizia e un’offesa alla carità verso il prossimo. Di questo tema la serie di prediche quaresimali tenute a Siena nel 1425 da san Bernardino sembra essere un’esposizione assolutamente classica. In esso Bernardino faceva piazza pulita delle faticose argomentazioni escogitate dagli scolastici per razionalizzare il tabú a beneficio degli uomini d’affari, affermando l’ideale che i cristiani si prestassero il denaro l’un l’altro gratuitamente, senza aspettarsi alcunché in cambio, se non la disponibilità del prossimo a fare altrettanto quando ne avessero avuto bisogno. […] La tradizione, come mostra anche l’interpretazione datane da Shakespeare nel Mercante di Venezia, voleva che «chiedere qualcosa in più» in cambio di un prestito fosse una violazione delle leggi dell’amicizia, e che chi lo facesse pretendendosi amico del debitore ne era di fatto un nemico mortale, come è confermato nella trama shakespeariana. […] Shakespeare ci dà anche, in una sua tragedia, un ritratto delle streghe che, per quanto possa essere apprezzato dal gusto moderno, non manca di un solido nucleo tradizionale. A quest’epoca la strega aveva ormai sostituito l’usuraio come incarnazione della malignità, benché non sia facile stabilire se anche attorno al 1400 essa fosse già al centro di tanto interesse popolare. Le streghe, quando se ne fosse suscitata l’ira – e quando le loro tecniche risultavano efficaci – colpivano il corpo o i figli, uccidevano i maiali, diffondevano le epidemie tra le vacche e trasformavano il loro latte in sangue, provocavano l’impotenza e suscitavano tempeste per rovinare i raccolti. […] Non dobbiamo meravigliarci che, in un universo in cui il mondo fisico era soggetto alle influenze più varie – da quelle sociali, a quelle che emanavano dall’ira e dall’amore di Dio e dall’uomo, o da esseri intermedi come i santi e i demoni –, si potesse credere realmente all’esistenza di simili creature. […] È chiaro tuttavia che nei primi decenni del Quattrocento qualcosa di importante deve essere accaduto: cercare di scoprire esattamente che cosa può condurci a scoperte significative. Potremmo definire questo fenomeno come il formarsi dell’idea che le streghe non operassero singolarmente contro questo o quel cristiano, ma fossero invece tutte coinvolte in una congiura generale avente come scopo la distruzione della cristianità. Sarebbe un errore pensare che queste idee non avessero raF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 dici spontanee. Si poteva infatti ben immaginare che, nella loro opera di pura malignità, le streghe – come quelle di Macbeth – cercassero di fare il maggior danno possibile aiutandosi tra loro; ed era altrettanto facile credere che sotto ogni manifestazione del male si nascondesse lo zampino dell’universale nemico, il Diavolo. […] Tra tutti coloro che venivano relegati al ruolo di nemici del genere umano dai cristiani tradizionali, gli ebrei erano sicuramente i più indiscussi. La differenza di atteggiamento nei confronti dei musulmani e degli ebrei è lampante, e non può essere attribuita né alle capacità di rappresaglia dei primi, che invece mancava ai secondi, né al fatto che gli ebrei esercitassero una pressione finanziaria sulla popolazione cristiana, cosa che ha indotto certi storici alla tentazione di considerare questa ostilità come un episodio di lotta di classe. Gli ebrei non erano una classe, erano un popolo, e se spesso accadeva che nella società cristiana si occupassero di prestiti e di esazione delle imposte, questo si doveva agli effetti di un precedente antagonismo: un circolo vizioso, insomma. Il carattere particolarmente intenso di questa ostilità, diffusa tanto nella popolazione che tra gli eruditi, da Raimondo Lullo nel secolo XIII a Lutero nel XVI, non ha bisogno di spiegazioni molto sofisticate. Gli ebrei erano i nemici originari di Cristo, che ne avevano voluto la crocifissione e la morte: il suo sangue ricadeva sulle teste loro e dei loro figli. Il cristiano medio non faticava certo a capire che questo era un delitto che gridava vendetta: così, più spazio acquistavano, nell’immaginazione popolare, gli eventi della storia terrena di Cristo, in particolare l’Incarnazione e la Passione, più fosche diventavano le tinte con cui si dipingeva l’inesauribile malignità degli ebrei. Era ovvio, dato il carattere popolare della loro missione, che i frati si dedicassero a inculcare questo corollario della storia anselmiana [della concezione teologica classica, formulata nel 1094-1098 da sant’Anselmo da Aosta, n.d.r.] della Redenzione in un pubblico fin troppo disposto a recepirlo. Alla sua propagazione si dedicò il domenicano catalano Vicent Ferrer, morto nel 1419 e canonizzato nel 1455, seguito da una lunga schiera di discepoli, tra i quali Bernardino da Siena. Sarebbe sorprendente scoprire che essi non fossero coscienti che la campagna per la riconciliazione tra i cristiani sarebbe stata grandemente favorita dalla proposta di un nuovo legittimo bersaglio su cui sfogare l’odio popolare. I periodi di predicazione penitenziale costituivano, per le comunità ebraiche precariamente ammassate intorno alle sinagoghe, da Francoforte a Siviglia, un pericolo costante che le garanzie di benevolenza del re e delle autorità municipali non bastavano certo a evitare. A Roma, durante il carnevale, gli ebrei dovevano esporsi in pubblico, un po’ come gli altri strumenti del Diavolo, correndo a gara per le strade sotto una grandine di insulti, o frustate, o salendo sui palchi per subire il disprezzo e la derisione degli spettatori. E ancora queste pratiche ci appaiono relativamente bonarie a confronto con quanto avveniva nei regni spagnoli, dove le prediche e le rappresentazioni della passione nella Settimana santa culminavano abbastanza spesso con un tumulto contro il UNITÀ 2 I nemici della cristianità: usurai, streghe ed ebrei 5 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 4 quartiere ebraico, o nella migliore delle ipotesi con il rifiuto collettivo di vendere cibo agli ebrei, nella speranza di farli morire di fame. Il nesso tra le rappresentazioni della passione in Germania e l’antisemitismo è un tema ben noto, anche se non pare che il fenomeno precedesse la Riforma. Era convinzione diffusa che chiunque avesse rapporti con gli ebrei si esponesse alla stessa vendetta divina che essi si erano da se stessi attirati: di qui la diffusa dottrina secondo cui il contatto fisico con un ebreo era contaminante, e il conseguente tabù non solo contro i matrimoni misti, ma anche contro i generi alimentari o le altre merci toccate dagli ebrei al mercato. Poiché il tabù si estendeva anche alle prostitute (oltre che ai boia, spesso si riteneva conveniente – o spiritoso – collocare i bordelli, come a Francoforte, nella Judengasse [la via degli ebrei, n.d.r.]. Dato il clima emotivo generale, la reazione immediata a qualsiasi importante manifestazione dell’ira divina in una città che ospitasse degli ebrei consisteva nel purgarla dalla loro presenza con l’espulsione, l’incendio, il massacro. Il passaggio della Peste Nera lasciò uno strascico di comunità ebraiche disperse [obbligate con la forza ad abbandonare le città in cui risiedevano, n.d.r.] in tutta la Renania e la Germania meridionale; solo la migliore organizzazione delle loro difese protesse gli ebrei iberici dal disastro fino al 1391, ma proprio per questo, quando venne, esso fu tanto più completo. In questo caso la differenza consisteva nel fatto che i re si lasciarono convincere a mutare la volontà di sterminio in una politica di conversioni forzate, trasformando così (in apparenza) il problema degli ebrei in quel problema degli eretici che li avrebbe afflitti per più di un secolo a venire [dopo essere stati battezzati, formalmente gli ebrei erano cristiani; dunque, ogni deviazione dall’ortodossia – e, in particolare, ogni credenza, abitudine o usanza ebraica che fosse stata conservata – era passibile dell’accusa di eresia, n.d.r.]. J. BOSSY, L’Occidente cristiano 1400-1700, Einaudi, Torino 1990, pp. 90-101, trad. it. E. BASAGLIA UNITÀ 2 Secondo Bossy, nell’ostilità antiebraica tardomedievale, hanno giocato il ruolo maggiore i fattori religiosi o quelli economici? Quali comportamenti assumeva la gente comune nei confronti degli ebrei? Quali relazioni esistevano tra ebrei e cristiani? L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 6 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 I secoli XIV e XV videro un importante cambiamento politico e militare nell’Italia comunale. Gli Stati italiani, infatti, erano quasi sempre in conflitto con i propri vicini, per sottometterli o difendersi dall’espansionismo e dall’aggressività delle città confinanti. La guerra divenne un’attività costante, che assorbiva completamente gli individui: divenne, insomma, una faccenda per professionisti. Di qui la nascita delle compagnie di mercenari. Dopo il 1250, l’interesse degli imperatori tedeschi per le cose italiane non fece che scemare e così i comuni dell’Italia settentrionale e centrale si trovarono liberi dalle minacce che potevano recare loro i grossi eserciti imperiali e pontifici. Prima la Lega Lombarda e poi la Lega Toscana conobbero un graduale smembramento e in primo piano comparvero le rivalità tra le città che avevano costituito l’una e l’altra. Era così cominciato quel processo che ridusse le centinaia (e non si tratta di una cifra retorica) di piccole entità signorili e di comuni indipendenti ad un ristretto manipolo di stati: quel processo si era concretato nell’espansione di un comune ai danni di un altro e addirittura nell’assorbimento di altri ad opera di uno più forte. Stando così le cose la guerra era da considerare un’evenienza continuamente ricorrente. Non si trattava più del breve passaggio di un esercito imperiale contro il quale bisognava adottare opportuni ripari, ma si doveva far fronte all’ostilità permanente delle città vicine. La guerra non consisteva più nella difesa delle mura cittadine occasionalmente minacciate, ma in prolungate campagne di aggressione contro i vicini. L’allargamento dell’autorità degli stati cittadini sulle campagne circostanti ebbe come conseguenza che non erano più tanto le mura, bensì le frontiere di un territorio a dovere essere difese. Configurandosi così la situazione politica, le truppe comunali chiamate in tutta fretta alle armi non costituivano più uno strumento militare efficiente. Occorreva disporre di una fanteria specializzata per presidiare i confini e per condurre operazioni d’assedio efficaci e soprattutto c’era bisogno di una cavalleria di mestiere per le campagne militari estive e per quegli attacchi devastatori con cui si poteva mettere a terra l’economia della città rivale. Altro effetto della diminuita incidenza delle tensioni internazionali sulla scena italiana fu che assunse proporzioni sempre più gravi la lotta interna delle fazioni. Le città italiane erano un terreno quanto mai favorevole alla crescita di fazioni, soprattutto man mano che il potere delle autorità comunali venne ad abbracciare una più larga sfera di competenze e il bisogno dell’unità interna si fece meno sentito. Profonde fratture create dallo spirito di fazione in seno alla classe politica di un comune resero arduo alle autorità cittadine l’allestimento di un’efficiente milizia comunale e questo in particolare quando gli obiettivi di guerra non furono più meramente difensivi. Nel contempo tali fratture fecero sì che si attribuisse un potere maggiore a quel personale forestiero a cui tutti i comuni italiani affidavano l’amministrazione della giustizia e il mantenimento dell’ordine interno. In tali circostanze quel personale – e in particolare i podestà, a cui era data responsabilità di far osservare la legge e di mantenere l’ordine pubblico – arrivò a concentrare in sé un’autorità suprema e a farsi signore della città. Capitava anche che queste autorità forestiere aumentassero la forza della compagnia di mercenari che dovevano mantenere come forza di polizia; alcune delle più antiche compagnie di mercenari nacquero come formazioni di guardie del corpo di autorità cittadine. […] Da ultimo dobbiamo chiederci che incidenza ebbero i fattori prettamente militari. A questo proposito è necessario dare un breve sguardo agli sviluppi che l’arte della guerra ebbe nel secolo decimoterzo [XIII, n.d.r.] sì da capire per quale ragione i mercenari e i soldati di mestiere diventassero parte integrante di tutti gli eserciti europei. Una delle novità di maggiore effetto fu allora l’introduzione su larga scala della balestra (e nell’Europa transalpina dell’arco lungo). […] Inizialmente il papa pose al bando il ricorso alla balestra nella guerra tra cristiani e l’arma non venne fabbricata su larga scala in Europa fin al secolo decimoterzo inoltrato. Tuttavia, a metà di quel secolo sia la balestra sia l’arco lungo erano ormai diventate armi consuete della fanteria e così il loro uso creò problemi nuovi e nuove abilità. Infatti queste armi non solo richiedevano un lungo esercizio per essere usate con frutto (e quindi contribuirono alla formazione di specialisti e di professionisti nel loro uso), ma ebbero un’incidenza considerevole anche sulle tecniche militari di coloro che da tali armi dovevano difendersi. […] La nuova minaccia costituita dai dardi scagliati dalle balestre portò gradualmente, presso i cavalieri, a sostituire l’armatura di cuoio e maglia di ferro con un’armatura a piastre e a cercare una qualche forma di protezione dei cavalli e, quindi, all’adozione di armature che coprissero anche il cavallo. Infine, per effetto di tutte queste innovazioni, il cavaliere si vide necessitato sempre più ad avere durante il combattimento dei cavalli di riserva che potessero sostituire quelli eventualmente ammazzati o sfiniti dal peso della nuova armatura; e, dunque, ebbe bisogno di una piccola schiera di paggi e di arcieri che gli recassero i cavalli freschi e lo proteggessero dai colpi nemici. Proprio da queste esigenze nacque la cosiddetta lancia e cioè quella piccola formazione al servizio del combattente catafratto [corazzato, n.d.r.] che sarebbe diventata l’unità caratteristica della cavalleria sul finire del Medioevo. M. MALLETT, Signori e mercenari. La guerra nell’Italia del Rinascimento, il Mulino, Bologna 1983, pp. 25-29, trad. it. P. ALGHISI Perché balestra e arco lungo diedero vita a figure specializzate? Che cosa è la lancia? Quali novità nella tecnica militare hanno portato alla sua nascita? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 2 La nuova guerra nell’Italia del Trecento e del Quattrocento 7 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 5 6 Profetesse e visionarie nel Tardo Medioevo UNITÀ 2 La figura di Giovanna d’Arco si inserisce in un più vasto fenomeno, che caratterizzò soprattutto gli anni 1378-1430. In questa fase storica, istituzioni prestigiose e riconosciute come il papato (a causa del Grande scisma) e la monarchia francese (a seguito della guerra dei Cent’anni) attraversarono una crisi profonda. In loro soccorso, si alzò la voce di numerose figure, soprattutto femminili, che si presentarono come portatrici di un messaggio divino, per la rinascita della cristianità. L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 8 La crisi delle istituzioni e il turbamento degli animi creano, fra il 1378 e il 1430, un clima favorevole a una presa di parola generalizzata da parte delle donne, generalmente semplici laiche, che si sentivano profondamente toccate dalle sventure del loro tempo e non esitavano a dichiarare l’origine divina delle rivelazioni di cui erano latrici [portatrici, n.d.r.]. Il caso più noto e più significativo, ovviamente, è quello di Giovanna d’Arco. Primo e più determinante connotato comune a questi personaggi è la consapevolezza di essere degli eletti. Dio li ha scelti per una missione particolare, malgrado la loro indegnità personale, o forse piuttosto in ragione di essa. «Io sono il tuo Dio che vuole parlare con te; io non parlo solo per te ma per la salvezza degli altri. Tu sarai il mio tramite…». Ma questa vocazione, al tempo stesso umile e grandiosa, che destina la veggente a fungere da intermediario dell’Altissimo fra gli uomini è accettata solo quando le donne abbiano ricevuto garanzie e precisazioni sulla propria sorte. La voce che aveva parlato a Costanza di Rabastens nel 1384 le ripete: «Non temere niente e non domandare consiglio né cercare conforto da parte degli uomini, perché non ne riceverai; ma il soccorso divino non ti abbandonerà mai». Ella riprende fiato e dice: «Signore, come ciò può accadere, dal momento che io sono una peccatrice?». La voce le risponde: «Non dubitare, perché io ti ripeto che già il tempo è venuto che il Figlio dell’uomo [Cristo, n.d.r.] mostri il proprio potere, e sarà mostrato su di te, perché tu sei donna e attraverso la donna fu preservata la fede e attraverso la donna essa sarà risollevata, e questa donna sei tu». Tramite la rivelazione o la visione si opera dunque un trasferimento di potere dal Cristo alla donna, elevata repentinamente al rango di araldo e di portavoce di Dio. Nel tentativo di sfuggire al proprio destino, quante si vedono affidare questa missione dichiarano la propria ignoranza della dottrina, con il rischio di errore che essa implica. Ma il divino interlocutore le rassicura promettendo loro la vera saggezza, che si colloca ben al di là di tutto il sapere dei teologi e dei dottori; il riferimento al tema biblico o evangelico secondo cui Dio ha rivelato preferibilmente il proprio messaggio agli umili e ai bambini generalmente basta ad aver ragione di ogni esitazione. Il loro temperamento e la loro sensibilità possono essere molto diversi, ma le veggenti del tempo, una volta persuase dell’importanza del compito di cui sono investite e dell’autenticità della loro elezione, adottano tutte la medesima procedura. Non tentano di rivolgersi al F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 popolo, ma mirano a promuovere una riforma della Chiesa dall’alto, come se ai loro occhi la reformatio in capite [riforma al vertice, n.d.r.] comportasse la reformatio in membris [riforma delle membra, cioè della Chiesa in tutte le sue componenti, laici compresi, n.d.r.]. Nella maggior parte dei casi la visionaria non mette in discussione le strutture gerarchiche della Chiesa, e anche quando critica l’inadeguatezza dei chierici si sforza di indurli a svolgere il proprio compito. […] Il trasferimento del soglio pontificio da Roma ad Avignone, il mancato ritorno di Urbano V, le tribolazioni del Grande Scisma dopo il 1378, e infine i conflitti che per diversi decenni videro i papi contrapposti ai grandi concili di Costanza e soprattutto di Basilea, tutto ciò contribuì a creare un clima di smarrimento e ben presto una crisi istituzionale che segnarono profondamente l’animo dei devoti. Si crearono così le condizioni favorevoli affinché prendessero la parola individui – quasi tutti donne – che fino a quel momento non avevano avuto né l’occasione né la possibilità di esprimersi in una Chiesa entro la quale il peso delle strutture clericali era divenuto schiacciante. Generalmente queste manifestazioni profetiche si lasciano ricondurre a uno schema stereotipato: una semplice fedele, generalmente assai pia, un bel giorno si sente chiamata da Dio al ministero della Parola ed è gratificata da visioni e da rivelazioni. Cerca quindi di comunicarle sotto forma di messaggi rivolti ai papi e ai sovrani, poiché hanno per oggetto il bene della Chiesa e la salvezza del popolo cristiano, del quale costoro sono responsabili in sommo grado. Non contenta di indirizzare loro lettere, la donna ispirata si sforza di incontrarli per persuaderli dell’autenticità della propria missione e per fornire loro segni indubitabili della propria elezione da parte di Dio. […] [Nella Francia degli anni 1380-1400, il più tipico modo di procedere del profetismo femminile] consiste essenzialmente nel recarsi presso il sovrano – «Andiamo dal re!» – per trasmettergli moniti e segni da parte di Dio. Ritroviamo in ciò un elemento centrale della vicenda di Giovanna d’Arco, ed è lecito pensare che la Pulzella sia stata ammessa, in definitiva piuttosto facilmente, alla presenza del «re di Bourges» proprio perché altre profetesse l’avevano preceduta sulle scale del palazzo, e ciò rendeva meno insolita la sua richiesta. A prima vista, peraltro, Giovanna d’Arco parrebbe molto diversa dalle donne che abbiamo appena ricordato, appartenenti a una generazione precedente. La Pulzella non ci ha lasciato, infatti, né profezie né rivelazioni e, se anche scrisse numerose lettere (agli inglesi, agli ussiti, ed altri ancora), certo non è passata alla storia per questo epistolario, bensì piuttosto per la sua avventura militare. Tuttavia la contrapposizione non va spinta troppo oltre; non dobbiamo dimenticare che, proprio come Costanza di Rabastens o come Maria Robine, Giovanna affermava di essere ispirata da voci – quelle di Santa Caterina, di Santa Margherita o di San Michele – che la incitavano a operare per la salvezza del regno. Questo fu, anzi, uno dei principali capi d’imputazione formulati contro la Pulzella dai giudici di Rouen. D’altronde, è assai importante sottolineare che, fin dal principio, i contemporanei considerarono Giovanna una profetessa. Valgano a provarlo le osservazioni formulate da un anonimo cronista, noto come il Borghese di Parigi, quando parla per la prima volta degli avvenimenti di Orléans nel 1429: «Item, a quel tempo viveva una Pulzella, come si diceva, sulle rive della Loira, che si dichiarava profeta e diceva: “Quella cosa avverrà per vero”. E si oppose al reggente di Francia e ai suoi uomini». Infatti, è opportuno situare l’azione militare di Giovanna entro il suo contesto non solo politico ma anche religioso. […] Viste in tale prospettiva, la condanna e l’esecuzione della buona Lorenese assumono un significato particolare, che una lettura del fenomeno Giovanna d’Arco orientata in senso troppo accentuatamente patriottico finora ha lasciato in ombra: la morte sul rogo non fu soltanto la conseguenza di un conflitto dinastico franco-inglese, né dello scontro politico fra armagnacchi e borgognoni. La sua morte illustra soprattutto l’esasperazione dei dottori universitari e degli alti prelati, signori della Chiesa in quegli anni – gli anni del concilio di Basilea –, dinanzi alla religione dei semplici e di fronte alle pretese di queste donne che rivendicavano il diritto di esprimersi liberamente nel nome dello Spirito Santo, ricevuto nella grazia del battesimo. A. VAUCHEZ, I laici nel Medioevo. Pratiche ed esperienze religiose, Il Saggiatore, Milano 1989, pp. 269-270, 309-317, trad. it. F. SIRCANA UNITÀ 2 Che cosa intende dire André Vauchez, quando usa l’espressione «al tempo stesso umile e grandiosa», per definire la vocazione delle profetesse tardo-medievali? Quale strategia adottarono, in genere, le visionarie? A chi, in primo luogo, comunicavano i loro messaggi e le rivelazioni che affermavano di aver ricevuto? Qual è la loro posizione nei confronti delle istituzioni politiche e religiose? RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 9 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 7 Le origini asiatiche della peste UNITÀ 2 Prima di colpire l’Europa, la peste dilagò in Cina. La sua diffusione verso Occidente venne facilitata dal fatto che le grandi pianure della Russia e dell’Asia centrale, appartenendo all’immenso Impero dei mongoli, potevano essere attraversate con relative regolarità e velocità dalle carovane dei mercanti. L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 10 Nel periodo del massimo potere (1279-1350) gli imperi mongoli comprendevano l’intera Cina e quasi tutta la Russia (solo la lontana Novgorod restava indipendente), nonché l’Asia centrale, l’Iran e l’Iraq. Una rete di comunicazioni costituita da messaggeri postali capaci di percorrere cento miglia al giorno per intere settimane di seguito, e carovane di mercanti ed eserciti, che procedevano più lentamente percorrendo avanti e indietro enormi distanze, tennero uniti questi imperi fino al sesto decennio del XIV secolo, quando la rivolta divampò in Cina determinando nel 1368 la completa espulsione dei Mongoli dalla loro più ricca conquista. [...] Le comunicazioni istituite dai Mongoli ebbero un’altra importante conseguenza. Numerose persone non solo viaggiarono per lunghissime distanze, attraversando frontiere culturali ed epidemiologiche, ma percorsero l’itinerario più settentrionale che fosse mai stato intensamente battuto. L’antica Via della seta fra la Cina e la Siria attraversava i deserti dell’Asia centrale, passando da un’oasi all’altra. Ora, oltre a questo vecchio itinerario, le carovane, i soldati e i corrieri postali percorrevano a cavallo l’aperta prateria. Essi crearono una rete umana che copriva un vasto territorio e che univa i quartieri generali mongoli di Karakorum con Kazan e Astrachan sul Volga, con Caffa in Crimea, con Kambaliq in Cina e con innumerevoli altri caravanserragli situati lungo il percorso. [...] Dai documenti cinesi non emerge nulla di inconsueto prima del 1331, quando un’epidemia scoppiata nella provincia di Hopei, secondo le fonti, uccise i nove decimi della popolazione. Analogamente, (negli anni 1353-54) l’epidemia infuriò in otto diverse e distanti zone della Cina, e i cronisti riferiscono che morirono fino a «due terzi della popolazione» [...] Dopo il 1331, e più particolarmente dopo il 1353, la Cina iniziò un periodo disastroso della propria storia. La peste coincise con la guerra civile nel periodo in cui iniziò a svilupparsi una reazione della popolazione cinese contro la dominazione mongola, che culminò col rovesciamento dei sovrani stranieri e con l’instaurazione di una nuova dinastia Ming nel 1368. La combinazione di guerra e pestilenza compì una devastazione tra la popolazione cinese. Secondo le valutazioni più attendibili vi fu una diminuzione di popolazione dai centoventitré milioni intorno al 1200 (prima che iniziassero le invasioni dei Mongoli) a soli sessantacinque milioni nel 1323, una generazione dopo l’estromissione definitiva dei Mongoli dalla Cina. Nemmeno alla ferocia dei Mongoli può attribuirsi una diminuzione così drastica. È certo che le malattie giocarono un ruolo rilevante nel dimezzare la popolazione cinese, e la peste bubbonica, che dopo le devastazioni apportate inizialmente si ripresentò a intervalli relativamente frequenti, proprio come avvenne in Europa, è con ogni probabilità la miglior candidata a tale ruolo. [...] Sembra quindi estremamente probabile che la Pasteurella pestis avesse invaso la Cina nel 1331 [...]. Poi l’infezione deve aver percorso le vie carovaniere dell’Asia nel corso dei successivi quindici anni raggiungendo la Crimea nel 1346, dopo di che il bacillo salì a bordo e procedette alla penetrazione di quasi tutta l’Europa e del Vicino Oriente lungo le vie che dai porti si irradiano nell’entroterra. W. McNEILL, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, trad. di L. COMOGLIO, Einaudi, Torino 1981, pp. 137-138, 147-149 Quale ruolo ebbe l’esistenza dell’Impero mongolo nella diffusione della peste verso Occidente? Che effetti provocò la peste, all’interno della Cina? Quale fattore di tipo politico si aggiunse alla peste e contribuì alla drastica diminuzione della popolazione cinese nel Trecento? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 A causa delle pessime condizioni igieniche e della cronica sottoalimentazione, i poveri erano colpiti dalla peste in modo molto più micidiale dei borghesi o dei nobili. Pur non risparmiando nessuno, la peste trovò nei poveri un magnifico terreno per attecchire, predisposto da una prolungata sequenza di carestie: «Dopo la fame domina la peste» ripete un detto popolare. L’insistenza dei cronisti nel mostrare, come gli artisti delle danze macabre, un’eguale vulnerabilità del ricco e del povero, è corretta dalle testimonianze del triste primato della povertà. La malattia colpì dapprima i quartieri poveri, per esempio a Rimini, a Orvieto – dove i ricchi beneficiarono di una tregua di tre mesi –, a Narbonne, tra i tintori delle rive dell’Aude. Altrove la peste accentuava i suoi danni fra i poveri: a Lincoln i notabili furono praticamente risparmiati, a Lubecca la media della mortalità fra i possidenti (25%) è inferiore del 50% alla media generale (50%) nelle città tedesche. Sembra che nella Francia del Nord siano morti, nel 1348-49, due poveri per ogni ricco: si può parlare così di «epidemia proletaria». Alcuni contemporanei constatarono il carattere selettivo di quelle mortalità. Guido di Chauliac, il più celebre medico di quel tempo, fu testimone della Peste Nera e del suo ritorno nel 1361 e annotò questa differenza fra le due epidemie: «Nella prima morirono più popolani, nella seconda più ricchi e nobili». Il suo collega, Simon de Couvin, che partecipò alle consultazioni della Facoltà di Medicina di Parigi in occasione della peste, mostrò una perspicacia molto rara, con una punta di psicologia sociale: «Colui – scrisse – che era nutrito di alimenti poco sostanziosi cadde colpito al più piccolo soffio della malattia. L’uomo del volgo molto povero (pauperrima turba) accetta volentieri la morte, perché per lui vivere è morire. Ma la Parca [dea pagana della morte, n.d.r.] crudele risparmiò i principi, i cavalieri e i giudici: pochi fra loro morirono, perché era stata data loro una vita dolce in questo mondo». […] Simon de Couvin aveva ragione quando poneva sotto accusa soprattutto la malnutrizione. Il regime alimentare dei poveri, a Firenze, per esempio, mostra gravi carenze energetiche e vitaminiche: carenze di pro- teine e di lipidi, di calcio e di vitamine antiscorbuto (A, C) e antirachitiche (D). Un artigiano negli anni 1340-1347 a malapena poteva aggiungere al pan bigio, fatto essenzialmente di orzo e spelta, un quantitativo sufficiente di carne, formaggio, latte e legumi. Un’intera popolazione urbana affrontò la peste in uno stato di grave deperimento. Il caso di Firenze non è isolato e sembra condiviso dalla vicina Orvieto; gli indizi raccolti in altre città dell’Occidente non smentiscono questi dati. Nella campagna la malnutrizione superava la sottoalimentazione, grazie a cereali poveri, a una proporzione eccessiva di salumi rispetto alla carne fresca, di legumi ricchi di fecola (piselli, fave, farinate), di vino acetato e di acqua malsana. Dovunque si era lontani, soprattutto fra i poveri, dal regime sofisticato prescritto dalla Facoltà (di Medicina di Parigi) per sfuggire alla peste: pane di buon frumento, carni bianche, agnelli d’un anno, pochi legumi, evitando porri, cipolle e rape, «che provocano gran ventosità», in breve alimenti «fini e leggeri». […] Sarebbe servita una certa igiene dei vestiti e della pelle per tener lontana la pulce, autentico vettore della peste, data la sua stretta simbiosi col ratto. Solamente i ricchi potevano permettersi le novità della moda verso il 1310. Quanti contadini e salariati di città portavano una camicia di tela – e soprattutto la cambiavano – sotto i panni di grossa lana, spesso comprati da un rigattiere, o sotto le pellicce comuni (coniglio, gatto, volpe o montone) sempre più diffuse nel XIV secolo? L’uso di indossare le pelli con il pelo all’esterno non era sufficiente per eliminarne i parassiti. Inoltre non ci si lavava e i consigli medici di non bagnarsi erano per molti superflui; tutt’al più, sconsigliando la frequentazione dei bagni pubblici, si poteva evitare occasioni di contagio; ma i contadini non vi andavano mai. Delle altre indicazioni della Facoltà i poveri non sapevano che farsene: lavorare meno, accontentarsi di sforzi moderati, dormire con la testa sollevata da drappi «buoni e ben odorosi», usare disinfettanti aromatici costosi, incenso, mirra, aloé di Socotra, irrorare la propria camera d’acqua di rose. M. MOLLAT, I poveri nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 221-224, trad. it. M. C. DE MATTEIS, M. SANFILIPPO Che cosa intende sottolineare Michel Mollat, nel momento in cui definisce la peste una «epidemia proletaria»? Quali comportamenti e quali fattori avrebbero potuto attenuare la violenza dell’epidemia? Perché i consigli dei medici appaiono del tutto privi di senso, per la maggior parte della popolazione? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 2 La peste: una malattia socialmente ingiusta 11 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 8 9 L’appropriazione del tempo da parte dei mercanti UNITÀ 2 A fianco del tempo della Chiesa, alla fine del Duecento fece la sua comparsa il tempo del mercante, finalizzato a rendere più rigido l’orario di lavoro degli operai dell’industria tessile. Scandito, in una prima fase, da un’apposita campana, il tempo del mercante trovò infine il proprio simbolo nell’orologio meccanico. L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 12 L’unità del tempo di lavoro nell’Occidente medievale è la giornata: agli inizi, giornata del lavoro rurale [...] e, a sua immagine, giornata del lavoro urbano, definita mediante il riferimento mutevole al tempo naturale, dal sorgere al tramonto del sole, e sottolineata approssimativamente dal tempo religioso, quello delle horae canonicae [= i momenti di preghiera dei monaci – n.d.r.], derivato dall’antichità romana. [...] All’ingrosso il tempo del lavoro è quello di un’economia ancora dominata dai ritmi agrari, esenti dalla fretta, senza scrupolo di esattezza, senza preoccupazioni di produttività e di una società a sua immagine, «sobria e pudica», senza grandi appetiti, poco esigente, poco capace di sforzi quantitativi. [...] Ora, a partire dalla fine del secolo XIII, questo tempo del lavoro è messo in discussione, entra in crisi. Offensiva del lavoro notturno, asprezza soprattutto nella definizione, nella misura, nella pratica della giornata di lavoro, conflitti sociali, infine, intorno alla durata del lavoro: così si manifesta in questo campo la crisi generale del XIV secolo, un progresso d’insieme attraverso gravi difficoltà di adattamento. [...] I padroni infatti, di fronte alla crisi, cercano dal canto loro di regolamentare quanto meglio possono la giornata di lavoro, lottando contro gli imbrogli degli operai in questo campo. Allora si moltiplicano le campane di lavoro (Werkglocken), di cui ricordiamo alcuni esempi. [...] A Amiens, il 24 aprile 1335, Filippo VI accoglie favorevolmente la richiesta del sindaco e degli scabini (= funzionari del governo cittadino, preposti alla giustizia – n.d.r.), che gli hanno chiesto «che essi possano fare un’ordinanza su quando gli operai nella detta città e suo distretto (banlieue) andranno ogni giorno di lavoro alla loro opera il mattino, su quando dovranno andare a mangiare e su quando dovranno tornare all’opera dopo mangiato; come pure la sera, su quando dovranno lasciare l’opera per la giornata; e che per la detta ordinanza che faranno, possano suonare una campana, che hanno fatto appendere alla torre della detta città, che è differente dalle altre campane». [...] A Aire-sur-la-Lys, il 15 agosto 1355, Giovanni di Picquigny, governatore della contea di Artois, accorda [...] di costruire una torre campanaria con una campana speciale a causa «del mestiere di drapperia e altri mestieri dove convengono parecchi operai a giornata, che vanno e vengono all’opera in certe ore». La nostra ricerca non è certo esauriente, ma essa è sufficiente a indicare che il problema della durata della giornata di lavoro è soprattutto acuto nel settore tessile, dove la crisi è più sensibile e dove la parte dei salari nel prezzo di costo e nei guadagni dei padroni è considerevole. Così la vulnerabilità alla crisi in questo settore di punta nell’economia medievale ne fa il campo di elezione di un progresso nell’organizzazione del lavoro. Lo dice bene il testo concernente Aire, che spiega la necessità della nuova campana «perché la detta città è governata dal mestiere di drapperia». Conferma a contrario: dove la drapperia non ha una posizione dominante, non si vedono apparire Werkglocken. Fagniez l’aveva giustamente notato già per Parigi. Così, almeno nelle città produttrici di panni, un tempo nuovo incombe sulla città: il tempo dei drappieri (= i grandi mercanti-imprenditori, che forniscono la materia prima agli artigiani ed esportano il prodotto finito – n.d.r.); perché questo tempo è quello della dominazione di una categoria sociale. È il tempo dei nuovi padroni. [...] Alla fine del secolo [XIV – n.d.r.] e all’inizio del secolo successivo vediamo bene che la durata della giornata di lavoro – non il salario direttamente – è la posta delle lotte operaie. [...] Resta il fatto che la campana del lavoro, spinta certamente da corde, cioè a mano, non presenta alcuna innovazione tecnica. Ma il progresso decisivo verso le «ore certe» è evidentemente l’invenzione e la diffusione dell’orologio meccanico, del sistema a scappamento, che promuove infine l’ora in senso matematico, come la ventiquattresima parte della giornata. Senza dubbio, proprio il secolo XIV supera questa tappa essenziale. Il principio dell’invenzione è acquisito alla fine del secolo XIII, il secondo quarto del secolo successivo ne vede l’applicazione in quegli orologi urbani, la cui area geografica è appunto quella delle grandi zone urbane: Italia del Nord, Catalogna, Francia settentrionale, Inghilterra meridionale, Fiandre, Germania. Una ricerca più approfondita permetterebbe forse d’intravedere che, più o meno, le regioni dell’industria tessile in crisi ricoprono l’area di diffusione degli orologi meccanici. Dalla Normandia alla Lombardia s’installa l’ora di sessanta minuti che, all’alba dell’età preindustriale, sostituisce la giornata come unità del tempo di lavoro. J. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, trad. di M. ROMANO, Einaudi, Torino 1977, pp. 26-36 In quale settore produttivo, e per quali ragioni, il lavoro non è più scandito dal sorgere e dal tramontare del sole, bensì dal suono di una campana? Che cosa intende dire J. Le Goff mediante l’espressione «il tempo dei drappieri (...) è quello della dominazione di una categoria sociale. È il tempo dei nuovi padroni»? Quale innovazione tecnica renderà ancora più rigido e preciso il «tempo dei drappieri»? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Quella tessile fu l’unica vera attività che, nel Medioevo, assomigliasse alla moderna produzione industriale. La principale materia prima utilizzata era la lana, trasformata in pregiati tessuti che, insieme alle spezie, costituivano la voce più significativa del commercio di lusso su lunghe distanze. Non abbiamo cifre precise sul grado di occupazione, ma è probabile che più della metà dei cinquantamila abitanti che, secondo certe stime, formavano la popolazione di Gand e facevano di essa la più grande città dell’Europa nordoccidentale traessero il loro sostentamento, direttamente o indirettamente, dall’industria della lana. La percentuale era, forse, ancora più alta a Ypres, una città di dimensioni un po’ più ridotte che, nel 1313, esportava non meno di 40000 pezze di panno, secondo i calcoli più recenti. Lovanio e Malines ne producevano 25000 ciascuna. (Per fare un confronto, si può ricordare che Troyes, uno dei maggiori centri di produzione della Champagne, raggiunse appena – nello stesso periodo – le duemila pezze all’anno, mentre l’intera Inghilterra, che attraversava allora un periodo di depressione, esportò in dodici mesi, nel 1347-48, non più di 4422 pezze). Le proporzioni erano ancora largamente inferiori a quelle della rivoluzione industriale, ma avevano ormai superato in modo definitivo i limiti della tradizionale produzione di mestiere del Medioevo. [...] Anche il saggio [= tasso – n.d.r.] di meccanizzazione raggiunse un valore intermedio fra quello delle comuni imprese artigiane e quello del primo stadio della rivoluzione industriale. Nel secolo XII, come nel XVIII, la prima grossa trasformazione si ebbe nei processi di filatura e tessitura, così strettamente intrecciati fra loro che una qualsiasi accelerazione introdotta nell’uno esigeva un’eguale accelerazione nell’altro. Mentre nel corso della rivoluzione industriale furono introdotte, una dopo l’altra, tutta una serie di innovazioni meccaniche, nel corso de- gli anni della crescita preindustriale il progresso si limitò a due dispositivi semplici e poco costosi, che consentirono un notevole risparmio di lavoro: il telaio a pedale al posto del telaio a mano, la ruota a filare al posto della rocca e del fuso. Si sarebbe potuto facilmente fare un altro passo avanti impiegando il mulino ad acqua per azionare ruote a filare e telai a pedale; la forza motrice dell’acqua venne infatti impiegata a questo scopo agli inizi della rivoluzione industriale del Settecento. E già intorno alla metà del secolo XIII il principio del mulino ad acqua fu applicato in Italia al torcitoio che preparava il delicato filo destinato all’industria della seta. Non venne invece impiegato per il filo di lana – più rozzo e meno costoso – probabilmente perché non conveniva investire denaro in un dispositivo complicato quando si poteva far filare la lana a domicilio da filatrici miseramente pagate. [...] Nel Medioevo come nel Settecento (anche se in minor misura) alla meccanizzazione si accompagnò una crescente divisione del lavoro e l’integrazione industriale conferì una direzione unificata alle sparse operazioni della produzione artigiana. Non vi fu, tuttavia, alcuna fusione dei laboratori e delle botteghe artigiane in imprese industriali di grandi dimensioni, simili alla fabbrica moderna. Intorno alla metà del secolo XIII le fonti testimoniano l’esistenza di più di trenta fasi successive nella produzione dei tessuti e di quasi altrettante corporazioni o gruppi non organizzati di lavoratori ai quali era affidata la lavorazione di ciascuna fase. [...] Gli attrezzi, in genere, non erano così pesanti e i processi di lavorazione così interdipendenti da rendere necessaria la concentrazione di tutti i lavori sotto lo stesso tetto; l’imprenditore si limitava a fornire successivamente la materia prima a ciascuno degli artigiani a cui era affidata una determinata fase della lavorazione. R. S. LOPEZ, La rivoluzione commerciale del Medioevo, trad. di A. SERAFINI, Einaudi, Torino 1975, pp. 168-172 Quali dimensioni aveva l’industria tessile nell’Europa del tardo Medioevo? Com’era organizzata la divisione del lavoro? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 2 L’industria tessile nel Tardo Medioevo 13 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 10 11 La centralità della morte nella religiosità tardo medievale UNITÀ 2 La Morte occupa il centro dell’immaginario religioso dei secoli compresi fra la peste nera del 1347-1350 e la Riforma protestante. Ma pensare alla Morte significava soprattutto, per l’uomo del Quattrocento, riflettere sul giudizio che, dopo la fine della vita, ogni individuo avrebbe dovuto sostenere davanti a Dio. L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 14 Sembrava che la morte dominasse l’intera esistenza; essa era per gli uomini quasi come il pane quotidiano. Media vita in morte sumus: nella vita siamo circondati dalla morte. La morte era l’oggetto dell’esperienza umana del XV secolo. Ed è significativo che le prime volgarizzazioni tedesche di quell’antica antifona [= ritornello cantato durante una liturgia di preghiera monastica – n.d.r.] abbiano luogo proprio in questo periodo. Il tetro sentimento della morte intravista fa sì che il pensiero dell’uomo del tardo medioevo si volga incessantemente alla morte. A partire dal XIV secolo e sino alla Riforma, osserviamo un ampliarsi crescente delle espressioni e delle testimonianze intorno alla morte. In nessuna epoca come questa il pensiero di ciascuno fu incessantemente fisso sulla morte: memento mori, pensa che devi morire. Fra tutte le forme e figure intorno alle quali si volgono il pensiero e la devozione, la fiducia e l’angoscia, l’amore e il timore degli uomini, una è più vivida e rilevata, quella della morte, anzi, del «Sire Morte». Le «danze macabre» riproducono quello che l’esperienza dell’epoca ha connesso con la morte. Dappertutto, ben presto, si trova una copiosa [= abbondante – n.d.r.] diffusione della sua immagine, ora oggetto di rappresentazione drammatica, ora di pittura, ora di incisione su legno. Raffigurazioni delle danze macabre ricoprono le pareti delle cappelle cimiteriali, degli ossari, dei conventi, dei chiostri, e sembra quasi che da quei luoghi vogliano presentarsi come una predica rivolta a tutti; oppure sotto una forma di foglio miniato o di libretto popolare, pervengono sino al singolo individuo, raggiungendo il borghese nel suo salotto, come il monaco nella sua cella. Nata originariamente come una ridda [= ballo – n.d.r.] del morto col vivente, la danza macabra si trasforma in danza della morte con l’uomo, che essa sorprende da solo, in coppia o in folla. Artisti, piccoli e grandi, raffigurano, in variazioni sempre nuove, la predominante potenza della morte, la sua minacciosa vicinanza e la sua forza livellatrice. Ora la morte sta sui rami di un albero, sotto cui amoreggiano il garzone e la sguattera, ora afferra il con- tadino tra i buoi nell’atto di arare, ora abbraccia il corpo di una donna che si guarda allo specchio, ora si pone in agguato della coppia d’amanti che passeggiano spensierati, ora sbalza il cavaliere dalla sella, e non risparmia neppure il bambino. La morte prende tutto, davanti ad essa tutti gli uomini sono eguali, tutte le classi sociali vengono passate al suo vaglio: papa, imperatore, cavalieri, contadini, signori, servi, mendicanti, «tutto quello che è nato ha in sorte di dover soffrire l’amara morte». Così, alle danze macabre viene a collegarsi una tendenza democratica; esse finiscono, infatti, con il rivestire il carattere di una satira sociale, nel contesto dei fermenti e dei rivolgimenti del tempo. [...] La morte non viene avvertita (tanto – n.d.r.) come un predatore della vita, quanto piuttosto come un predatore della salute [= salvezza – n.d.r.] dell’anima. E perciò l’intensa esperienza della morte, sul finire del medioevo, non conduce ad un arricchimento e ad un approfondimento della vita, ma, al contrario, trascina i pensieri degli uomini proprio in direzione dell’aldilà e stimola in loro, ancora più profondamente, la preoccupazione della vita eterna. Un aspetto condiziona l’altro, ed è come un circolo vizioso: quanto più intensamente gli uomini temono la morte, tanto più appassionatamente, per ciò stesso, si preoccupano della salvezza della loro anima e, di converso, quanto più appassionatamente si preoccupano della salute della loro anima, tanto più temono la morte. Ne scaturisce l’espressione del giudizio così terribilmente paventoso [= spaventoso – n.d.r.] e della temuta penitenza, che risuona sino a noi attraverso le note del canto dei flagellanti: «Or sollevate le mani ché Dio conduce la grande morte. Or levate il braccio e che Dio abbia di noi pietà. Gesù con il tuo rosso sangue preservaci dalla nera morte». È questa l’impressione che l’esperienza vissuta e generalizzata della morte produce allora nella maggior parte degli uomini: il castigo di Dio incombe; il suo sdegno deve essere placato. H. ZAHRNT, Il tempo dell’attesa, trad. di F. VOLTAGGIO, Coines, Roma 1973, pp. 63-66 In che senso la «danza macabra» (che fu la rappresentazione più diffusa della potenza della morte sugli uomini) aveva una «tendenza democratica» e un significato di «satira sociale»? La «grande morte» del canto dei flagellanti si riferisce alla «peste nera»: come viene interpretata quest’ultima? Chi l’ha inviata contro gli uomini? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Nel corso del xv secolo, l’Italia centro-settentrionale assiste al fiorire dell’urbanistica, cioè della pianificazione dello spazio urbano. L’edificazione di palazzi, chiese e strade non è più lasciato al caso, ma rispetta le esigenze del signore, le necessità difensive e quelle abitative della corte. Gli edifici – la loro genesi, conformazione e sito – costituiscono uno dei più eloquenti documenti di una società ed una sua eccellente base di lettura e di interpretazione. Tra le varie forme di creazione artistica, quella architettonica è senz’altro – con quella teatrale – una di quelle dotate di più densi significati collettivi. Né sembra dubbio che la deliberata utilizzazione degli edifici a scopo di prestigio privato e pubblico abbia avuto nella Penisola un incremento rinnovato e molto rilevante nel corso del XV secolo. Non è questa la sede per valutare in modo adeguato se la gerarchia dei vari tipi di costruzione sia stata più accentuata nel periodo comunale o in quello dei principati. È certo comunque che nel Quattrocento essa è stata perseguita e realizzata in maniera manifesta ed intenzionale, al punto da potersi sostenere che essa abbia rappresentato uno dei modi di concretare un processo di aristocratizzazione in atto su vari altri piani [la struttura degli edifici e l’impianto urbanistico diventano lo specchio evidente del fatto che il potere non è più nelle mani del popolo, ma di un pugno di aristocratici: i signori e i principi, n.d.r.]. Se cioè il contesto costituito dalla comunità cittadina rimaneva lo sfondo di riferimento, su di esso si tendeva a far campeggiare sempre meglio e sempre di più la presenza di attori singoli. […] In altri termini il dominio politico si manifestò – certo in gradi diversi e nelle forme più svariate da una città all’altra – e si tradusse regolarmente ed in larga misura sul piano urbanistico ed architettonico. I centri che furono maggiormente investiti da tale fenomeno furono innanzitutto quelli ove risiedevano i signori e i principi, cioè in genere le capitali degli Stati, oltre a quelli ove il potere centrale intendeva proiettare l’immagine e segnare l’impronta della propria supremazia. A Milano ed in varie altre città lombarde i Visconti avevano impresso già nel secolo XIV le tracce visibili del loro dominio: basterebbe citare in merito il castello di Pavia. Alla morte dell’ultimo loro duca, Filippo Maria, i milanesi cercarono di realizzare il sogno di restaurare il precedente regime municipale. Molto breve fu nondimeno la stagione della loro Repubblica ambrosiana [di sant’Ambrogio, patrono di Milano, n.d.r.] (14471450), che dovettero capitolare di fronte alle milizie del condottiero Francesco Sforza. Quest’ultimo operò subito in modo da ridurre alla soggezione i suoi nuovi sudditi proprio intervenendo in modo decisivo sul tessuto urbano della metropoli milanese [Milano è chiamata metropoli in quanto (come Venezia e Napoli) aveva circa 200 000 abitanti, in un momento storico in cui Genova e Firenze ne avevano 60 000, Bologna e F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Palermo 55 000, Roma appena 25 000, n.d.r.]. Per fissarvi la propria residenza egli scelse – come già avevano fatto i Visconti – un sito al margine del centro abitato, alla cerniera fra la zona popolosa dell’agglomerato ed il suburbio circostante. Vari signori d’Italia e di altri paesi avevano già optato per una soluzione del genere ed a metà del Quattrocento, nel suo trattato De re aedificatoria [Sulle modalità del costruire, n.d.r.], Leon Battista Alberti consigliava al principe proprio questo tipo di residenza. Resta il fatto che la colossale mole del Castello sforzesco, innestata nella cerchia delle mura milanesi, corrispose pressoché perfettamente alle esigenze del nuovo duca e dei suoi successori. Con le sue possenti strutture e le sue vaste dimensioni si rivelò adatta a svolgere tanto la funzione di cittadella che quella di fastosa struttura. […] L’azione degli Estensi a Ferrara fu in certo modo più originale, per quanto anch’essi si fossero fatti costruire verso la fine del Trecento la propria sede in un castello che rimase al margine della città per quasi tutto il secolo XV. Nel 1492, nondimeno, il duca Ercole I diede inizio alla più grande operazione urbanistica cui si assistette nella Penisola a quell’epoca. Quel principe decise un ingrandimento tale della superficie di Ferrara che essa ne risultò quasi triplicata. Il suo castello si venne allora a trovare pressoché nella parte centrale dell’abitato, fra il nucleo medioevale ed il nuovo spazio creato dall’ampliata cerchia delle mura. Questo ampliamento prese il nome di Addizione erculea e risultò improntato a caratteristiche inabituali, rese possibili anche dalla pressoché completa libertà di cui godé Biagio Rossetti di tracciarvi arterie rettilinee e di ritmarlo con piazze adeguate. Il criterio al quale l’architetto s’ispirò fu di collegare la zona della residenza ducale ai nuovi quartieri a settentrione per mezzo di vie larghe e diritte, punteggiate da dimore dai vasti cortili interni. La più notevole toccò ad un membro della famiglia estense, Sigismondo, e fu detta Palazzo dei diamanti per il singolare rivestimento decorativo a cuspidi della facciata. […] Fra le nuove arterie, una delle più importanti fu proprio quella che collegava il giardino del castello ad una residenza esterna di sollazzo posta all’estremità dell’Addizione. Questo permetteva al duca di sfilare in mezzo ai propri sudditi ogniqualvolta intraprendeva quel percorso. Di non minore spicco fu l’intervento dei nuovi signori di Urbino, i Montefeltro, e particolarmente di Federico (morto nel 1484) che vi governò per circa un quarantennio. Condottiero come Francesco Sforza, egli era titolare di una signoria limitata in quanto il suo territorio era subordinato alla sovranità dello Stato pontificio. Il carattere singolare dell’iniziativa che egli prese verso la metà del Quattrocento consistette nella struttura del tutto diversa ch’egli volle dare alla sua residenza: non più un castello e tanto meno una cittadella (anche se vi erano annessi di possibile impiego militare) UNITÀ 2 Urbanistica e potere nell’Italia del Quattrocento 15 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 12 ma un palazzo. Le imponenti strutture di quest’ultimo sposarono in modo felice la conformazione topografica ed il sito seducente. Il palazzo costituì il centro di gravitazione di un vero e proprio quartiere che, oltre alla cattedrale, comprendeva delle scuderie modello, una piazza d’armi contigua e dei sotterranei abilmente si- stemati. Questo insieme urbanistico, completato da una vicina arteria fiancheggiata da dimore per funzionari e cortigiani, venne a costituire una delle realizzazioni più alte e riuscite del Quattrocento italiano. A. TENENTI, L’Italia del Quattrocento. Economia e società, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 8-11 UNITÀ 2 Quali scopi si proponevano di raggiungere i principi, promuovendo una vasta azione urbanistica, nelle loro capitali? Che cosa distingue la residenza di Francesco Sforza da quella dei duchi estensi? E che cosa, invece, distingue la residenza del duca di Urbino da quelle dei duchi di Milano e di Ferrara? L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 16 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012