BIBLIOTECA AMBROSIANA Seconda "Lettura filosofica" di Umberto Bottazzini su passi da Problemi della scienza di Federigo Enriques. Venerdì 31 ottobre 2014 Trascrizione a cura della professoressa Flavia Molteni del Segretariato per le "Letture filosofiche in Ambroosiana" Monsignor Franco BUZZI Siamo al secondo incontro di questa serie che è dedicata quest’anno alla Filosofia del ’900 e in particolare alla questione del rapporto intercorrente fra sapere scientifico e riflessione filosofica, prendendo lo spunto dal problema posto da Husserl, e cioè se ci sia una crisi delle scienze europee che comporti anche una crisi del sapere metafisico e se questa crisi possa essere risolta e come. Sappiamo che il suo indirizzo ci porta sulla strada della fenomenologia trascendentale, alla ricerca dei fondamenti, alla ricerca dell’evidenza, al ritorno alle cose stesse. Ma nel percorso che va da Husserl alla fine del ’900 s’incontrano tanti autori, che con specifiche differenze affrontano la questione del rapporto tra scienza e filosofia. Una figura importante è stata quella di Federigo Enriques. Proprio nella prima pagina del sedicesimo di sala vedete una fotografia di Enriques giovane, e sotto, da sinistra a destra, un Enriques ormai maturo, e poi Oscar Chisini, allievo e collaboratore di Enriques e fondatore del Dipartimento di Matematica presso l’Università degli Studi di Milano, e Umberto Bottazzini, che questa sera c’introdurrà alla comprensione del pensiero di Enriques. Troverete nel sedicesimo di sala anche tutte le indicazioni biografiche. È superfluo soffermarsi sulla presentazione dei nostri ospiti, che sono illustri. Al tavolo dei relatori stanno anche Biagio Muscherà e Fabio Trazza, che ci aiutano nell’organizzare queste serate e nel tracciare il percorso dei nostri incontri. Noi chiediamo a Fabio di contestualizzare un po’ il problema di questa sera, prima di lasciare la parola al professor Bottazzini, e poi successivamente interverrà anche Biagio Muscherà, che è un esperto di filosofia dell’800, ma non solo, e di Rosmini, ma non solo, e che è un giovane promettente. Quindi Fabio ti cederei la parola. Prof. Fabio TRAZZA Ringraziamo il professor Bottazzini di essere venuto a parlarci di Enriques. Enriques è un personaggio che è fondamentale per la cultura italiana: il suo nome ha aleggiato fino agli anni ’50, senza che poi si capisse bene come agiva, era un po’ una figura da addetti ai lavori; invece con la presenza di Umberto Bottazzini penso che questa figura possa apparire a tutto tondo e farci ritornare al clima iniziale del ’900, nel quale è avvenuta una frattura piuttosto grave nella cultura italiana, perché, a parte le questioni politiche, c’è stata proprio una divisione netta tra coloro che provenivano dalla cultura positivista e la ventata idealista che li ha spazzati via come birilli. Poi magari su queste cose il professor Bottazzini entrerà nel merito e ce le chiarirà. Però Enriques è la testimonianza di colui che riesce a ritornare su questa divisione culturale che si determina in Italia senza la partigianeria di voler vedere nei razionalisti o negli empiristi i vincitori di una battaglia, ma tentando di scoprire una strada nuova, cioè quale dovesse essere il fondamento stesso della scienza e quali potessero essere gli elementi di crisi della scienza. Allora nell’ipotesi che noi abbiamo fatto inizialmente per la costruzione di questo percorso delle Letture Filosofiche, abbiamo tentato di capire se la crisi delle scienze sia misurabile in qualche modo partendo dall’esperienza che gli stessi filosofi del primo ’900 ci testimoniavano, ma che non appariva nelle sue evidenze. Oggi qualcuno, sentendo parlare di crisi della scienza, potrebbe anche ridere, perché la scienza appare come il sostrato di un benessere tecnologico che ci sovrasta e ci impedisce quasi di pensare, perché ci obbliga a rincorrere tutti gli strumenti, quindi diventa semplicemente assurdo immaginare di poter parlare di crisi. Però la possibilità che tu abbia uno strumento potentissimo, che tu lo sappia guidare, ma che tu non sappia dove ti porta, è di per sé un elemento di forte crisi per chi sta dentro questo strumento che appunto ti guida. Alla base di tutto nella scienza c’è la questione, molto complessa, della matematica, che prescinde da qualsiasi elemento cosiddetto accidentale e cerca di trovare l’essenza; però al fondo anche l’idea che dentro la costruzione di tutte le espressioni matematiche ci possa essere l’incapacità di ritornare all’origine che ha generato quei concetti e quella sequenza di concetti è già di per sé un elemento di crisi profonda. Contemporaneamente a questa apparenza o occultamento della crisi delle scienze è maturato anche, nel corso del ’900, un fenomeno che, se lo osserviamo in dettaglio, possiamo chiamare strano, ed è il fatto che, avendo il positivismo fatto in un certo senso piazza pulita di tutte le teorie metafisiche, il ’900 si è trovato poi dinanzi al riemergere, anche in filosofi che provenivano dal mondo della scienza, di costruzioni che erano dei veri e propri itinerari verso la riscoperta della metafisica: quasi proprio come su un piano inclinato nasce tanta speculazione, che però viene occultata oppure viene rimossa. Enriques è una figura a mio parere intermedia, nel senso che non appartiene a coloro che prendono la spada e fanno fuori gli avversari, ma vuole capire quali sono le ragioni della crisi e soprattutto quali sono i fondamenti della scienza. Ecco, in questa riscoperta Enriques può essere anche una figura da guardare in tutta la tragicità dell’esistenza, perché – mi farebbe piacere che lo raccontasse bene Bottazzini – coloro che ne rinnegarono o minimizzarono la portata concettuale e di valore furono proprio gli stessi suoi compagni di lavoro, i matematici, gli scienziati. Però Enriques è rimasto sempre una figura che ha dato il “la” a tutta una generazione, che è quella che veniva dal dopoguerra, di professori che si erano formati dentro la frattura del fascismo e dell’antifascismo e di studenti che entravano dentro le università e sentivano nei filosofi della scienza l’eco di questo mito di Enriques. Allora la conclusione di questa mia premessa è questa: l’Ambrosiana ha un forte interesse a capire che cosa avviene nella scienza, perché sulla scienza si addensano cose terribili e anche tragedie personali; basta pensare a Galileo – qui in Ambrosiana si conserva un carteggio tra Galileo e Borromeo; basterebbe questa annotazione per dire che è costitutivo all’Ambrosiana il fatto di considerare la storia degli scienziati: la prima copia del Saggiatore, con le annotazioni di Galileo accompagnate da un bigliettino, è qui in Ambrosiana –. E quindi voler riprendere un ragionamento che tende a chiarire quali sono le possibili connessioni tra tutto ciò che io posso sperimentare e tutto ciò che io posso immaginare, pensare, è una cerniera che non è ancora stata costruita, e senza questa cerniera il mondo rimane lacerato, gli scienziati rimangono nel rischio dell’isolamento e i filosofi nel rischio della derisione, come se parlassero di cose ormai stantie oppure inutili per lo sviluppo. Ecco, io invece penso che la riscoperta di una figura come Enriques ci faccia ritornare coi piedi per terra e ci faccia fare i conti non con la matematica ma con la vita. E Umberto Bottazzini è un testimone di questa esperienza, di questo percorso, perché, come ricordava il Prefetto Monsignor Buzzi, appartiene proprio generazionalmente alla discendenza di Enriques, e inoltre ha aperto nel Dipartimento di Matematica l’esperienza bellissima e innovativa delle Lezioni Enriques. La parola a Umberto Bottazzini. Prof. Umberto BOTTAZZINI Grazie per le parole della presentazione, e grazie a monsignor Buzzi e al Comitato Direttivo che mi hanno invitato a fare questa chiacchierata su Enriques. Mi fa molto piacere, anche perché Enriques in qualche modo è una figura emblematica di un certo periodo, ed è anche vero che ha gettato una serie di semi che poi hanno dato frutti, anche parecchi anni dopo la sua morte. Non parlerò di matematica ma dirò soltanto che Enriques quando si affaccia sul terreno della filosofia è un matematico riconosciuto sulla scena internazionale, ha ottenuto risultati fondamentali ed è uno dei grandi geometri del periodo, che interagisce con Poincaré, con Picard, con i tedeschi etc; quindi è una figura di primissimo piano che a un certo punto decide di avventurarsi sul terreno della filosofia. È interessante e secondo me in qualche modo premonitore di quella che sarà poi la sua vicenda personale come comunica la cosa al cognato Castelnuovo (Castelnuovo aveva sposato una sorella di Enriques ed erano in stretta collaborazione scientifica, molti dei risultati sono firmati a quattro mani); in una lettera del ’96 – se non ricordo male – gli dice: “Carissimo Guido, ti dirò una cosa che ti lascerà sorpreso: ho cominciato a occuparmi, horribile dictu, di filosofia”; e aggiunge: “Non ti stupire, perché questo germe mi aveva già infettato quand’ero all’Università”. Perché dico che questo in qualche modo è emblematico? Perché Enriques nel suo percorso teorico finirà per trovarsi isolato sia all’interno della comunità matematica (che appunto – horribile dictu! – non vuole filosofi tra i piedi) sia nel mondo della filosofia. E questa è la fine della storia. Ma per vedere come va a finire la storia cominciamo un po’ dall’inizio. I primi passi sono all’inizio del secolo, quando esce Problemi della scienza, da cui sono stati tratti alcuni di questi paragrafi che avete tra le mani. Enriques ha incominciato a riflettere sui problemi della scienza da pochi anni. L’epoca è particolarmente significativa, perché da un lato si cominciano ad avvertire i primi segni della crisi delle scienze – crisi del meccanicismo in fisica, crisi dei fondamenti della matematica – e dall’altro lato c’è ancora una grande fiducia nelle – come avrebbe detto Leopardi – “magnifiche sorti e progressive” della scienza; quindi c’è una specie di oscillazione tra, da un lato, la certezza che la scienza è la chiave per lo sviluppo della società e non solo, e dall’altro lato l’idea che i fondamenti della scienza sono in qualche modo messi in discussione. Quando esce Problemi della scienza, nel 1906, Enriques – ed è significativo anche questo – organizza a Milano un congresso di filosofi, e viene eletto poi Presidente della Società Filosofica Italiana. E la settimana dopo Volterra, che è un grande matematico italiano del periodo, intervenendo a un congresso della Società dei Naturalisti, annuncia il progetto di creare una associazione, che sarà poi la Società Italiana per il Progresso delle Scienze, con lo scopo di diffondere l’idea e il sapere scientifico negli strati più ampi della popolazione. E quando la Società viene fondata, esattamente un anno dopo, Volterra, nel suo discorso inaugurale, parla dello spettacolo delle fabbriche e fa un paragone fra le ciminiere delle fabbriche e le guglie delle chiese, dice che si provano le stesse emozioni davanti alle une e alle altre; ma dall’altro lato dice anche che sono entrati in crisi i presupposti su cui è fondata la nostra scienza. Ecco, questo tipo di atteggiamento richiede in Enriques una riflessione profonda sulla natura della conoscenza scientifica, del sapere scientifico, ed è questa la motivazione di fondo di Problemi della scienza. Una delle idee che si trovano espresse in questo libro e che compaiono anche nelle pagine qui riportate è il problema di sapere come le nostre strutture del pensiero riflettono la realtà, cioè come avviene la conoscenza. Vi cito un brevissimo passo di una lettera che Enriques scrive a Vailati. Vailati era anche lui un filosofo e matematico del periodo, ma era su posizioni diverse rispetto a quelle di Enriques, si era formato a Torino nella scuola di Peano, che era una scuola di logici. Ed Enriques gli scrive: “La logica soggettiva, cioè lo studio di certe operazioni del pensiero, fu sperimentalmente acquisita, come insieme di dati, o è da considerare come riflesso della struttura del pensiero? Io sono per la seconda ipotesi. Ma come spiegare dunque la rispondenza delle leggi logiche in una realtà esteriore?” Ed è interessante, perché Enriques va avanti dicendo: “Qui la ricerca si volge alla fisiologia e domanda un’ipotesi sul funzionamento del cervello, che soddisfi alla spiegazione richiesta. Ella non immaginerà certo che io sia così ardito da domandare quali siano le condizioni fisiologiche o l’aspetto fisiologico del pensiero. Ma si può ammettere che il fenomeno del pensiero risponda a un fenomeno fisiologico localizzato in un certo gruppo di cellule, di fibre nervose, d’associazione, e quindi che l’associazione psicologica o logica risponda a una composizione di fenomeni nervosi somiglianti. Dal che si desume che l’operazione debba essere retta dalle leggi del mettere insieme un sostrato reale di assiomi di tipo logico”. Come vedete il commento di Vailati a Peano dice: “Mi sembra che Enriques si stia incominciando a occupare di logica, certo non di logica matematica”. E infatti non è di questo che parla Enriques, ma Enriques parla di come avviene il ragionamento logico e di come questo si rapporta alla realtà. Ecco, questo è uno dei temi che figurano ripetutamente non solo nei Problemi della scienza, ma anche più avanti nella produzione di Enriques, che nel 1922 per l’appunto pubblica un volume Per la storia della logica, in cui ripercorre, esemplifica ed esplica questo tipo di concezione della logica, lontano dalla logica formale del tempo e dagli sviluppi che aveva avuto per esempio in Germania e che avrà in Germania e in Austria, ma coerente con la sua concezione del ruolo della logica e delle leggi del pensiero rispetto alla realtà esterna. Ecco, questo volume, che segna in qualche modo l’ingresso di Enriques nel mondo della filosofia, viene accolto variamente. Infatti, come diceva prima Trazza, i filosofi idealisti del tempo, Croce e Gentile, sono in completo disaccordo. Gentile in una lettera a Croce parla di “vagheggiamenti di una filosofia scientifica”, e quando Enriques fonda con altri Scientia, come strumento per intervenire nel dibattito filosofico, Gentile dice: “Be’ insomma, questa rivista è destinata ad alimentare il dilettantismo filosofico e scientifico”, cioè non c’è confronto. Ma in realtà all’estero questo volume ha un grande successo, viene tradotto in francese, in tedesco, in inglese, e all’estero Enriques trova interlocutori con cui mettersi in relazione, in particolare i francesi della Revue de métaphysique et de morale – un gruppo massone, dice Croce, da cui quindi stare alla larga –, ed è con loro che Enriques fa i conti. D’altra parte in Francia solo quattro anni prima, nel 1902, era stato pubblicato un testo che qui nei passi che vi ho scelto non viene citato esplicitamente, ma che sta come termine di paragone, che è La scienza e l’ipotesi di Poincarè, e con Poincarè in qualche modo Enriques fa continuamente i conti, anche perché Poincarè aveva delle posizioni non troppo lontane dalle sue. In questo opuscolo potete trovare un esplicito riferimento a pag.5, dove Enriques si sforza di definire che cos’è il reale e dice che è «un invariante della corrispondenza fra volizioni e sensazioni». E la parola «invariante» è una parola chiave in questa concezione, perché fa appello a qualcosa che all’epoca è solo agli inizi, ma poi avrà grande sviluppo in seguito, sarà una delle idee chiave in geometria, e cioè il fatto che la geometria è sostanzialmente lo studio delle proprietà delle figure – diciamo così, in generale – che restano invarianti per gruppi di trasformazione. E quando Enriques cita Klein, Lie e Poincarè, è perché sono proprio loro che sottolineano l’importanza di questo nuovo modo di concepire la geometria. E del resto lo stesso Enriques aveva scritto proprio nelle primissime righe dei Problemi della scienza che il progresso della geometria in questo secolo è venuto ad agire diretta- mente sopra lo sviluppo del razionalismo, e addirittura alla geometria sembra doversi concedere un posto d’onore nel campo degli studi filosofici. Non solo perché la sua esperienza di matematico era quella di un geometra, ma perché effettivamente la geometria aveva posto una serie di problemi seri, per esempio sulla natura dello spazio. A proposito di invarianti e di gruppi di trasformazione, era diventato chiaro ormai che non c’erano più soltanto le geometrie degli antichi, la geometria di Euclide e così via, la geometria proiettiva, ma c’erano delle nuove geometrie non euclidee che avevano uno statuto coerente tanto quanto la geometria classica; e l’invenzione di queste geometrie aveva posto il problema di sapere qual era la geometria dello spazio che ci circonda. E questo è un problema che si annuncia alla fine dell’800, ma che poi ritorna di grande attualità giusto in questi anni, perché nel 1905, giusto un anno prima dei Problemi della scienza, Einstein pubblica quattro memorie che cambiano la faccia della fisica, e una di queste è appunto quella sulla relatività ristretta, dove viene introdotto lo spazio-tempo, e Minkowski nel 1907, due anni dopo i Problemi della scienza, teorizza gli aspetti anche concettuali che stanno dietro alla teoria di Einstein. Qual è quindi la natura dello spazio? Questa è la prima questione che Enriques si pone quando incomincia a occuparsi di filosofia e incomincia a porsi il problema della natura della scienza rispetto alla realtà esterna. L’idea che ci sia una corrispondenza naturale è ormai passata e quindi c’è un problema vero, che è da un lato quello di sapere che cos’è la realtà – e abbiamo visto che lui fa un tentativo in questo senso – e dall’altro quello di definire quali sono i concetti che determinano la conoscenza – Enriques parla di una «conoscenza per concetti». Anche riguardo a questo, nelle pagine che vi ho proposto, ci sono una serie di considerazioni emblematiche di come avviene la conoscenza. Enriques dice: “La conoscenza scientifica tende ad effettuarsi per mezzo di concetti”. E prosegue: “Rappresentare i fatti per mezzo di concetti significa … associare ed astrarre, quindi riunire i dati bruti, poi separarli, scegliendo ciò che diverrà elemento essenziale costitutivo del concetto, lasciando da parte gli elementi accidentali”, e questo è quello che si fa continuamente nella ricerca scientifica. E poi naturalmente gioca il ruolo fondamentale dell’ipotesi, ed Enriques lo spiega: “L’esame critico della conoscenza che, incominciando dal dubbio, giunge ad una fede sempre più sicura e soddisfacente, ci conduce a parlare dei mezzi dell’investigazione scientifica. Sono l’osservazione, l’esperienza e il ragionamento”. E in queste pagine potete trovare due esempi che in un certo senso sono paradigmatici. Uno è quello di Torricelli, di come Torricelli arriva alla esperienza del barometro. L’altro è quello di Galileo. Mi limito a questo secondo esempio, anche per questioni di tempo. Credo lo sappiate tutti: Galileo non è che va in cima alla Torre di Pisa e butta giù qualcosa per vedere che cosa succede, ma fa un esperimento mentale, che trovate descritto a pag.12, fa un ragionamento che gli permette di “antivedere il risultato sperimentale”. Qual è il risultato sperimentale? È che “i gravi cadono al suolo con uguale velocità”. Galileo “immagina due masse simili, cadenti l’una accanto all’altra: esse acquisteranno velocità uguali”. Ma dice: “Uniamo le due masse; l’una non potrà accrescere la velocità dell’altra, sicché la massa unica, somma delle due, si muoverà ancora colla velocità medesima”. Galileo non fa l’esperimento concreto, ma lo immagina, perché ha già un’ipotesi in testa e col ragionamento cerca di verificare o falsificare l’ipotesi che ha in mente, e poi fa l’esperienza per trovare la conferma: “L’esperienza che verificò codesto risultato fu agli occhi di Galileo una semplice conferma, della quale forse per suo conto non credeva avere bisogno, poiché il semplice ragionamento gliene dava la certezza a priori”. Ecco, questo è il ruolo dell’ipotesi, è il ruolo degli esperimenti mentali e così via. Non insisto troppo su questi aspetti, perché mi è stato chiesto anche di dare un po’ un profilo di Enriques. Bene, i Problemi della scienza sono – dicevo – il primo passo significativo: da qui in poi Enriques investe sempre di più nella ricerca di tipo filosofico. Non solo perché è il presidente della Società Filosofica Italiana, ma anche perché in Scientia interviene continuamente su questioni di natura filosofica. E soprattutto fa i conti con le tesi di Croce. C’è un articolo famoso che s’intitola Esiste un sistema filosofico di Benedetto Croce? Potete immaginare la risposta di Enriques. Comunque la cosa sorprendente, se la vediamo con i nostri occhi, è che nel 1908, quando si tiene il III Congresso di Filosofia a Heidelberg, viene proposta come sede del successivo congresso Bologna, e come organizzatore del congresso viene proposto Enriques, cioè un matematico che deve organizzare un congresso di Filosofia, ed è questo lo scandalo denunciato appunto nelle lettere tra Croce e Gentile: “Com’è possibile che un matematico venga a rappresentare la filosofia italiana? Non se ne parla neanche, non ci voglio neanche andare!” (questa è la reazione di Gentile). E Croce poi andrà, ma con l’aria di quello che deve andarci ma insomma non gli interessa molto. Enriques invita al Congresso Poincarè (anche se poi non andrà), invita Boutroux, invita Duheme, cioè una serie di persone che sono a cavallo tra scienza e filosofia. E molti di voi sapranno che dopo quel Congresso ci fu una velenosa intervista di Croce rilasciata a Guido De Ruggiero, in cui Enriques veniva qualificato come “un professore di matematica che si diletta di filosofia” e che organizza congressi filosofici “la cui attività sarebbe altrettanto meritoria della mia se volessi organizzare dei congressi di matematici”. Ecco, questa è la reazione che incontra la proposta di Enriques. Siamo nel 1911. In quel periodo Enriques è isolato nella comunità dei matematici quando si occupa di filosofia ed è isolato dai filosofi perché dicono che è un dilettante, magari di genio, un “matematico che si diletta”. Anzi, nell’intervista di cui dicevo prima, quella con De Ruggiero, Croce dirà: “Era una polemichetta con un matematico che aveva delle idee stravaganti che crescono facilmente nella testa dei matematici, non era una cosa molto significativa”. Dicevo che Enriques è in qualche modo una figura isolata, lo è anche di fronte all’emergere nel campo specifico della matematica di un allievo che poi si rivela un grande rivale, che è Severi. Severi era stato allievo di Enriques, avevano lavorato insieme, ma era molto più giovane, quindi nell’immediato dopoguerra era nel pieno del vigore creativo, e prende non solo le distanze, ma si oppone apertamente a Enriques, anche se all’interno delle accademie le opposizioni sono mantenute sempre in termini un po’ ovattati, ma fino a un certo punto. La cosa interessante, facendo un passo un po’ lungo dal punto di vista temporale, è quello che succede nel 1925. Il 1°gennaio di quell’anno come sapete c’è il famoso discorso di Mussolini, e poi la pubblicazione da parte di Gentile del “Manifesto degli intellettuali fascisti”, a cui segue da parte di Croce la pubblicazione del “Contromanifesto”. Ebbene, significativamente Enriques non firma né l’uno né l’altro, perché la sua idea è che la scienza e la filosofia non si contaminano con le miserie della vita. Non solo, ma è anche convinto che la cultura abbia una funzione nazionale, e quindi quando Gentile, che dà vita all’Enciclopedia Treccani, lo chiama a collaborare, a dirigere la sezione matematica, Enriques, forse dimentico di quello che era successo una quindicina di anni prima, accetta di partecipare a questa impresa, e quindi non solo collabora con Gentile, ma ha un rapporto con Gentile che è molto diverso da quello di Croce. Tutto sommato Enriques si sente più vicino, se così si può dire, alle posizioni anche filosofiche di Gentile che a quelle di Croce. Se così si può dire, perché in realtà Enriques continua anche nella maturità, nel dopoguerra, a proseguire una propria linea di ricerca, che s’intravede già in queste pagine, e che poi prende compiutamente sviluppo negli anni a venire. Ed è l’idea che c’è un ruolo importante da attribuire alla storia, perché quello che ci rivela la storia è come la scienza sia stata in realtà nel corso del tempo un progressivo avvicinarsi alla verità. La scienza non enuncia delle verità stabilite per sempre. Enriques dirà, con una frase secondo me molto emblematica: “La ragione non esiste sub specie aeternitatis, ma è qualcosa che si sviluppa e si rivela attraverso l’evoluzione storica del pensiero”. Ecco, questa è un’idea chiave se si vuole comprendere qual è il pensiero di Enriques rispetto alla scienza. Un’idea chiave che si manifesta in moltissime circostanze ma in particolare in una, e cioè quando Enriques nel 1921 invita Einstein a Bologna a fare una serie di conferenze. Einstein ha appena ricevuto il premio Nobel, è una grande autorità in campo scientifico, la relatività è se così si può dire “di moda”, è una rivoluzione nella scienza, ci sono articoli di giornale sulla relatività e così via. Ecco, in questa circostanza Enriques presenta Einstein, e lasciatemi citare un paio di sue affermazioni, perché sono emblematiche. “La teoria della relatività ha porto una nuova occasione per gridare alla bancarotta della scienza”, perché (stiamo parlando della relatività generale) ha messo in luce i limiti della fisica newtoniana. “C’è chi si rallegra – dice Enriques – che perfino la verità più ferma che da due secoli abbiamo imparato a riverire come il trionfo della ragione [cioè la legge di Newton] debba ora riconoscersi non esatta, perché la ragione non può ammettere mezzo termine all’alternativa di vero o di falso. Ma non c’è niente di più lontano, non solo dal pensiero di Einstein – protesta Enriques – ma anche dal concetto storico della scienza, perché è oramai accettato dagli scienziati, e soprattutto dai pensatori matematici, che nessuna teoria pretende oggi a un’assoluta certezza, ma ciascuna si dà come un grado perfettibile della verità che si svolge e cresce con il progresso della ragione”. Cioè in altre parole la storia testimonia di questo successivo avvicinarsi alla verità, e quindi la teoria di Einstein non segna la morte della teoria di Newton, ma rappresenta la conquista di una verità più vera di fronte alla quale la precedente figurerà sempre come un grado di approssimazione. E questo è un primo punto, cioè il progresso della scienza è un progresso di successive approssimazioni, che si svolge nel tempo. L’altra idea è che c’è una specie di continuità del pensiero. Ed è ancora Enriques che sottolinea questo punto quando dice: “La rivoluzione filosofica [filosofica, attenzione!] che Einstein ha portato a compimento si dimostra come il risultato di un’evoluzione di pensiero più volte secolare, la quale s’inizia cinquecento anni innanzi dell’era volgare con Parmenide, primo assertore della relatività del movimento. E non si diminuisce Einstein dicendo che conchiude in una più larga sintesi cosmologica il lavoro di una serie di filosofi, di matematici e di fisici di cui ha raccolto disparati elementi per fonderli nella sua costruzione”. Cioè in altre parole non ci sono rivoluzioni nella scienza, ma c’è un continuo sviluppo, un progressivo avvicinarsi alla verità e all’acquisizione di sempre nuove verità, verità “più vere”, per usare la sua espressione. Ecco, questo è uno degli elementi portanti della concezione di Enriques, ripetuto continuamente in molti suoi testi. Un’altra volta dirà – siamo al Congresso Descartes a Parigi –: “È soprattutto nell’evoluzione del pensiero scientifico che bisogna cercare le leggi intime che rientrano nel campo della ragione”. E così via: “La continuità degli sforzi si rivela appunto nella scelta di ipotesi o convenzioni apparentemente arbitrarie e l’ordine delle conoscenze che ne risulta riesce a sottomettersi la realtà mediante previsioni sempre più precise ed estese”. E conclude ancora una volta: “Questi sono fatti in cui si vede l’opera della ragione dispiegarsi nella storia”. Cioè secondo Enriques la ragione si dispiega nella storia. E ancora nella sua critica a Kant: “La verità adorata dagli uomini non discende dal suo altare ma diventa termine ideale del progresso che la ragione umana non saprebbe raggiungere e che tende a realizzare mediante la costruzione storica di una scienza sempre più perfetta. Di conseguenza la nuova epistemologia troverà il suo fondamento e il proprio metodo nella critica storica dei concetti scientifici”. Come vedete è un tema ricorrente nell’opera di Enriques, che infatti, da un certo punto in poi, si dedicherà, anche con De Santillana, a scrivere testi sulla storia del pensiero scientifico, e così via. Ed è ancora L’importanza della storia del pensiero scientifico nella cultura nazionale che Enriques sceglie nel 1938 come argomento di una conferenza all’Accademia dei Lincei, in cui tra l’altro è presente Gentile; e in quella occasione sottolinea ancora una volta il ruolo “nazionale” – con un aggettivo carico di tutta l’ambiguità del periodo – che hanno la cultura e la scienza in Italia rispetto alle altre nazioni. In quella circostanza oltretutto Enriques dice: “Il nostro popolo che è frutto di una mescolanza di razze – romani, etruschi, arabi, normanni etc. – che ha arricchito il nostro sangue, per cui noi siamo un po’ il prodotto di questa mescolanza di culture e tradizioni”. L’ironia della storia – ahimè drammatica – è che quattro mesi dopo che Enriques ha pronunciato questo intervento, prima ancora che venga stampato, viene pubblicato il Manifesto della razza, e un paio di mesi più tardi tutti quelli che avevano il sangue “frutto di una mescolanza di razze”, e in particolare gli ebrei, vengono esclusi dalle università, dalle Accademie e così via. E Severi, che ormai emerge come figura leader fra i matematici, va ad occupare la cattedra che era stata di Enriques all’Università di Roma. La cosa ancora interessante, è che durante l’occupazione tedesca a Roma, Enriques, che essendo ebreo, come Castelnuovo, come altri, non era rimasto in città ma si era nascosto, viveva in clandestinità, sotto falso nome, un giorno va a bussare alla porta di un amico, Manlio Mazziotti, il quale ha una buona formazione classica, e gli propone di tradurre i testi di Democrito, per cui lui poi farà una prefazione e dei commenti. Ed è così che nell’inverno tra il ’43 e il ’44 nasce il libro Le dottrine di Democrito d’Abdera, che uscirà postumo nel 1948, un paio d’anni dopo la morte di Enriques. Perché ho citato questo episodio? Perché vi dà l’idea di come un intellettuale, un matematico, un filosofo, uno storico come Enriques vive una situazione così disperante, perché andare in giro per Roma occupata dai tedeschi essendo ebreo non era la cosa più salutare del mondo. Ed è lo stesso atteggiamento che avrà dopo, alla fine della guerra, quando si tratterà di fare i conti colo passato. Il suo è un atteggiamento estremamente aristocratico: la scienza, la matematica, la cultura non si sporcano le mani con queste cose, appartengono al genere umano nella migliore accezione del termine. E quindi Enriques non interviene nemmeno nella riorganizzazione dell’Accademia dei Lincei, dell’Università e così via. Ecco, questo è un po’ il personaggio di cui volevo tratteggiarvi qualche aspetto, e spero di non avervi annoiato. Grazie. Prof. Biagio MUSCHERÀ Questa relazione così interessante mi provoca a porre alcune questioni. Innanzitutto ripensavo al finale del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, quando Leopardi dice: “Forse s'avess'io l'ale / da volar su le nubi,/ e noverar le stelle ad una ad una,/ o come il tuono errar di giogo in giogo, / più felice sarei, dolce mia greggia, / più felice sarei, candida luna.”. Come a dire: forse il progresso potrebbe rendermi più felice. Ma forse non è così: “O forse erra dal vero, / mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: / forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale.” Perché, come direbbe Heidegger, siamo degli esseri destinati alla morte, l’uomo è un “essere-per-la-morte”. Le risposte della scienza e della tecnica sono utili in qualche modo, ma il bisogno dell’uomo è più profondo. Diceva Wittengstein: “È proprio dall’insufficienza della scienza, che non può rispondere a queste domande, che nasce l’impulso al mistico”. Seconda questione: che cosa ha offerto d’altra parte la scienza alla filosofia? Mi ha colpito molto il riferimento a Galileo, perché proprio con Galileo si è giocata una partita capitale: la demitizzazione del cielo, quindi di quella sorta di ideologia che vedeva nel cielo la perfezione e nella vita terrena, terrestre, qualcosa di imperfetto; l’eliminazione della differenza fra cielo e terra porta in qualche modo a un ripensamento della condizione umana. Ma la scienza, proseguendo nel suo cammino, ha come svelato, da una parte, che non può rispondere all’ansia metafisica dell’uomo, e dall’altra ha generato quella sorta di “choc epistemologico” – per usare un’espressione di Francesco Barone – che ha colpito soprattutto l’ambiente del Circolo di Vienna, dopo Einstein, dopo Heisenberg, dopo la sparizione dell’oggetto, che era il caposaldo del positivismo ottocentesco, perché nell’universo microscopico l’oggetto non l’abbiamo più a disposizione, possiamo solo quantizzare dove probabilmente si trova. Ecco, in questa crisi che ha vissuto in qualche modo la scienza forse sta anche la possibilità che a partire da questo riconoscimento si avvii una riconsiderazione della ragione, che non può essere soltanto una ragione scientifica, una ragione che misura, ma che deve essere in qualche modo una ragione più aperta. Terza questione: forse in questo accostamento che fa Enriques tra scienza e storia c’è il tentativo di ripensare la ragione in termini storici. In fondo la storia della scienza – dicevamo la volta scorsa con Costa – è un salire sulle spalle di giganti, e quindi in qualche modo un fidarsi di chi è venuto prima. Diceva Hamann che la fede, in questo senso, è un metodo di conoscenza. Forse in questo aggancio con la storia ci potrebbe essere una riconsiderazione di una ragione intesa in senso più ampio, non nei limiti del razionalismo. E infine: come mai questo incontro fra scienza e storia ha portato Enriques a un distacco dalla storia concreta, dagli avvenimenti, che sembravano quasi non essere determinanti, non intaccare la scienza, la filosofia? Quando in fondo la prima guerra mondiale è stata l’esperienza storica che in qualche modo ha messo in croce il positivismo… Prof. Umberto BOTTAZZINI Grazie di queste osservazioni, che mi danno l’occasione di tornare su un punto che avrei voluto toccare. Parto dall’ultima questione: la storia delle idee e il ruolo di cesura che ha avuto la prima guerra mondiale. Sì, in effetti si dice una cosa ovvia quando si dice che la prima guerra mondiale ha segnato una cesura tra il prima e il dopo. Ma vorrei aggiungere che la cesura c’è stata anche per esempio nella vicenda di Scientia: infatti Enriques e il gruppo degli altri fondatori della rivista, tranne Rignano, ne abbandonano la direzione nel 1915, proprio perché Rignano, che era un ingegnere, matematico di formazione e interessato alla filosofia, aveva proposto un’inchiesta sulle ragioni della guerra e aveva invitato una serie di pensatori, scienziati, filosofi, tedeschi, francesi, inglesi etc. a presentare il loro punto di vista su Scientia; e quell’inchiesta aveva poi preso una piega che Enriques non condivideva. Nel frattempo l’Italia è entrata in guerra, ed Enriques dice: “La nostra rivista dev’essere rivista di idee e non di schieramenti”, e per questo se ne va. Questo è già emblematico del suo rapporto con la storia: di fronte alla guerra – che non è la storia, è l’attualità – Enriques pensa che le battaglie ideali non siano lo specchio delle battaglie che avvengono sulle trincee del Carso o a Verdun. Questo vi dà l’idea di come Enriques considerava il suo rapporto non tanto con la storia civile, politica, ma anche con l’attualità del suo tempo. E quindi la storia che cos’è? È una storia delle idee, del pensiero, è con quella che si fanno i conti, è con quella che si misura la ragione. ma la ragione scientifica non è – Enriques non lo accetterebbe mai, e devo dire io nemmeno – una ragione che misura; il pensiero scientifico non può essere ridotto in questi termini. Tant’è vero che Enriques, per esempio, pur non essendo un fisico, è estremamente attento a quello che succede nella fisica, e nel 1929, due o tre anni dopo la pubblicazione degli articoli di Heisenberg, organizza a Roma – ormai insegna a Roma, non più a Bologna – una due giorni di discussioni, a cui partecipano Persico, Fermi, Castelnuovo, Volterra, Corbino, insomma i grandi matematici e fisici del tempo, sul tema “causalità e determinismo”, cioè su che cosa ha messo in discussione la nuova meccanica di Heisenberg, quali sono i concetti importanti che vengono all’ordine del giorno, che cosa occorre ridefinire, ripensare. Quindi Enriques è un pensatore estremamente attento anche alle nuove questioni che vengono poste dal mondo della scienza. Lui non è un biologo, non è un chimico, ma naturalmente, essendo un matematico, è più vicino ai fisici, e comunque la scienza che sta veramente cambiando la faccia del mondo all’epoca è la fisica, con la relatività, di cui parlavo prima, e con la meccanica quantistica. Ed Enriques si confronta con queste nuove realtà. Questo mi dà l’occasione anche di tornare su un aspetto che io prima non ho toccato ma che val la pena di sottolineare. Quando Enriques interviene al Congresso Descartes – e vi ho citato in precedenza qualche passo di questo intervento – viene salutato dai neopositivisti logici, da Neurath, da Carnap etc., come un precursore, come uno di quelli che hanno aperto la strada alle idee che vengono maturando negli eredi del Circolo di Vienna. E infatti Enriques viene invitato a scrivere un saggio introduttivo alla nuova Enciclopedia delle Scienze che i neopositivisti stanno preparando. Ma Enriques rifiuta di scrivere quel saggio, perché non si riconosce nelle posizioni del neopositivismo logico, perché pensa che la logica, la conoscenza, non possa essere ridotta a tautologie; e quindi non dico che rifiuta il ruolo di precursore che gli viene attribuito, ma non condivide le posizioni che sono venute maturando a partire dal Circolo di Vienna, per quanto riguarda non soltanto la logica, ma anche in ultima istanza le modalità della conoscenza. E quindi secondo me non si può pensare di ricondurre Enriques su questo tipo di posizioni, che poi hanno avuto un ruolo importante nella sto- ria della filosofia occidentale. Enriques è un critico di quelle posizioni, è un critico del neopositivismo, e invece sostiene delle posizioni che qualcuno ha chiamato di “storicismo scientifico”: questa è una definizione che assomiglia già un po’ di più alle idee che lui ha sul ruolo della storia nella conoscenza scientifica e sul ruolo della ragione. Perché Enriques va ad occuparsi di Democrito? Perché in un certo senso è un contemporaneo, perché possiamo andare a ripescare oggi le sue idee. C’è una continuità della ragione scientifica: questo è per Enriques la storia, non tanto le vicende della vita civile e politica. Non so se ho risposto … Monsignor Franco BUZZI Lei è stato chiarissimo, professore. Tanto che io cercherei, se lei mi consente, di raggruppare in due-tre proposizioni quello che ho potuto capire dalla sua relazione. 1) Enriques non è uno scientista. 2) La scienza per lui non è lo specchio della realtà, non c’è una corrispondenza tra la teoria scientifica e la realtà. 3) Ogni teoria è un’ipotesi perfettibile e approssimativa alla realtà, con un valore previsionale. Ecco, quest’ultima tesi come si compara e che differenze presenta rispetto per esempio al risultato del Circolo di Vienna, del neopositivismo logico? Che rapporto esiste tra la posizione di Enriques e la tesi della falsificabilità? Oppure che vicinanza c’è tra questa posizione filosofica di Enriques e quella di Feyerabend e Lakatos che esalta l’ipotesi? Insomma, come si colloca Enriques rispetto a tutto questo? Perché è interessantissimo, è singolare. Prof. Umberto BOTTAZZINI Be’, per parlare di Feyerabend ci vorrebbe l’amico Giulio Giorello … Colpa sua che non è venuto, certo … Potrebbe parlarne molto meglio di me. Ma, direi che Enriques – per come l’ho letto io – concepisce la scienza come una successione di passi: ci sono delle osservazioni, si fanno delle ipotesi, si fanno delle elaborazioni teoriche, poi si va a verificare; se la verifica corrobora le ipotesi iniziali bene, se no vuol dire che quelle ipotesi non avevano corrispondenza con la realtà. Quello che si ottiene non è una rappresentazione della realtà come data una volta per tutte, ma è per così dire una rappresentazione provvisoria, se possiamo usare questo termine, e cioè oggi la realtà riusciamo a descriverla in questi termini, ma questo non vuol dire che cogliamo tutti gli elementi della realtà. La storia ci insegna che procediamo per approssimazioni successive. Quindi non è che Einstein falsifichi Newton, ma è semplicemente che quella di Newton era una prima approssimazione, che tra l’altro, detto incidentalmente, funziona molto bene, perché, per tornare alle osservazioni di Muscherà, non è soltanto il mondo sublunare, ma è anche quello superlunare che viene descritto bene dalla fisica di Galileo e di Newton. Certo, gli strumenti messi a punto da Einstein e altri sono molto più raffinati. Tra l’altro – e mi fa particolarmente piacere sottolinearlo – in questo nuovo tipo di approccio alla realtà, la matematica gioca un ruolo straordinario: non sarebbe immaginabile la relatività generale senza lo sviluppo precedente della matematica, del calcolo sensoriale e così via. E quindi la conoscenza del mondo esterno si accompagna e si intreccia anche con lo sviluppo di una conoscenza astratta come quella offerta dalla matematica, dalla geometria – non solo quella di Euclide, ma anche la geometria degli spazi riemanniani, la geometria nel senso più moderno del termine: in fondo oggi la geometria è ancora uno degli elementi portanti delle teorie fisiche più avanzate. Prof. Alessandro GHISALBERTI Grazie, professore, perché davvero la sua esposizione è stata godibile. Mi sembra che si potrebbe fare anche un’equiparazione storica tra la figura di Enriques e un’altra figura che ha avuto un percorso cronologicamente parallelo, quella di padre Agostino Gemelli. Gemelli viene dal positivismo, poi ha una conversione religiosa, fonda la Rivista di Filosofia Neoscolastica, fonda l’Università Cattolica; si scontra prima col positivismo, poi con l’idealismo di Croce e Gentile. Restano però tra queste due figure due divergenze fondamentali: le accenno solamente, per non rubare tempo. La prima è che mentre Enriques mi sembra sia contro l’interventismo, padre Gemelli – ahimè – è un interventista, per giunta contro il parere del Papa regnante. La seconda differenza è che padre Gemelli si occupa di psicologia scientifica, ma tuttavia difende la metafisica; ritiene cioè che il pensiero di Gentile sia inadeguato per una comprensione complessiva della realtà. Detto questo, vorrei fare una domanda: quale atteggiamento ha Enriques nei confronti della metafisica, o, come diciamo oggi, di un “pensiero forte”? Prof. Umberto BOTTAZZINI Comincio dalle prime osservazioni, con cui sono più a mio agio. Volevo aggiungere una cosa che non ho detto prima, perché era un po’ a margine del discorso: una delle grandi battaglie – persa anche questa – in cui si impegna Enriques, sia come Presidente della Società Filosofica sia anche come rappresentante di un modo di concepire il ruolo della matematica, è quella della creazione di una Facoltà filosofica, che lui immagina sul modello delle facoltà tedesche, dove gli studenti studiano gli aspetti teorici delle varie discipline, quindi per esempio gli aspetti concettuali della matematica, della fisica, della chimica e così via, i problemi che pongono… L’idea cioè è quella di una specie di formazione culturale comune ai futuri uomini di scienza, e un’altra comune invece ai futuri giuristi, filosofi, letterati e così via. Naturalmente questa idea di Enriques non viene accolta dai matematici, che non vedono perché mai bisognerebbe mandare gli studenti di matematica a fare queste cose, e non viene accolta dai filosofi, perché se la filosofia che bisogna insegnare è quella che ha in mente Enriques, certamente Croce, Gentile e tutti gli altri non sono affatto d’accordo. Premesso tutto ciò, Enriques è lontano dalla metafisica e lontano dalle posizioni di padre Gemelli. Come potete leggere nell’ultima pagina del libretto, dove è riportato un suo intervento del 1935: “Io appartengo alla generazione di coloro che, educati nell’ambiente della filosofia positivista, hanno visto, nella loro giovinezza, risollevarsi lo stendardo dell’idealismo metafisico e ingaggiare una lotta violenta contro lo spirito positivo […] Dopo trent’anni dominati da queste correnti di pensiero, assisto oggi al ritorno della filosofia scientifica”. Che Enriques saluta con favore. S’illudeva, ma questo è un altro discorso. Questa frase secondo me risponde abbastanza bene a quello che mi chiedeva circa il suo rapporto con la metafisica. Prof. Fabio TRAZZA Se nessun altro del pubblico vuole intervenire, intervengo io. A me di Enriques da studente incuriosivano i racconti che ne facevano i docenti, soprattutto Geymonat, e anche Paci; poi c’era questo associarlo, non so come, a Martinetti. Però dopo invece, arrivando a questioni che non appartengono più all’emotività, alla suggestione, e hanno a che fare invece con il calcolo – perché anche se uno non è matematico calcola, uno calcola per esempio quando deve saltare, fa dei calcoli complicatissimi senza bisogno di avere nessuna laurea in matematica –, la cosa che mi stupiva era il fatto che lui, da grande matematico, diceva che si poteva fare a meno di tantissimi calcoli, di tantissime esperienze; era sufficiente avere proprio quasi una specie di incontro con la realtà e riuscire a capire che le cose hanno una ferrea logica, che poi bisogna cercare di catturare e di trascrivere; ma la legge quasi la puoi incontrare. Questa era una cosa che mi affascinava, ed era una cosa che avevo scoperto anche per altre strade, per esperienza diretta: nella costruzione delle figure geometriche, si prendono dei poveri ragazzi già nelle scuole elementari e li si fa soffrire, quando invece la costruzione per esempio di un esagono è la cosa più semplice di questo mondo, perché è sufficiente avere un cerchio tra le mani e farlo ruotare attorno alla circonferenza per sei volte, e i punti d’incontro sono esattamente l’esagono. Per cui io non ho bisogno del geometra, ho bisogno semplicemente dell’osservatore. Allora questa predisposizione quasi a essere capaci di scoprire l’invariante fa sì che si possa parlare di esperimento mentale, cioè io posso prescindere dall’esperienza, costruendo un itinerario che mi porta e mi fa ricadere verso dovrei dire l’ignoto, perché una legge, finché non la si è scoperta, è un ignoto. E qui affiora l’altro elemento su cui mi piacerebbe che si forzasse quasi Enriques, cioè che si avesse il coraggio da parte degli addetti ai lavori di non fermarsi soltanto alla storia, a quello che lui ha detto, perché Enriques ha un significato anche indipendentemente da quello che ha detto, cioè c’è una forza che si diffonde nella cultura, ed è questo elemento della previsione che avviene da parte della ragione, l’idea che la ragione si dispiega attraverso la previsione. E qui vorrei raccontare un elemento che non si trova in nessun manuale, ma che si raccoglie dall’esperienza. Nel 1970 all’Università di Milano, nella facoltà di Fisica, fu istituita una cattedra “dei fasci”: l’obiettivo era cercare di capire come si poteva bombardare attraverso delle particelle una zona ammalata del corpo umano. Poi naturalmente qualcuno dotato di un po’ d’immaginazione potrebbe magari spostarsi dal microcosmo di un organismo al macrocosmo dell’umanità e ipotizzare bombardamenti nelle zone che si ritengono malate. Allora io, ascoltando un grandissimo professore che parlava di queste cose, mi sono ricordato che tutta questa teoria e tutto questo dispendio di energie non è nient’altro che la previsione che aveva fatto Lucrezio: Lucrezio infatti aveva immaginato, sulla base dell’idea che tutto è materia, tutto è pulviscolo, tutto cade per linee rette, che ci fossero degli atomi che potessero sfuggire a questa legge, ed è il clinamen. Andare alla ricerca di quale sia la forza intima che porta delle particelle poteva sembrare un’invenzione poetica della cultura latina che cercava di arricchire la sostanza greca, razionalissima. E invece no, c’è effettivamente una parte della materia che non si è capaci di dirigere. Che cos’è allora questa previsione della ragione, se non questo percorso da Lucrezio al riconoscimento che c’è la possibilità della previsione? Allora lo sforzo potrebbe essere fatto anche proprio sulla costante, sul fatto cioè che l’invariante appartiene a una sorta di intuizione, non alla Boutroux, ma a una sorta di svelamento, di spiegamento della realtà, che mi appare in forme che sono incapace di definire, però hanno una loro dimensione progettuale già adesso. Allora volevo chiedere: Enriques ci accontentiamo di tenerlo incasellato nella storia, come la persona equidistante tra le forze in campo, oppure si potrebbe fare uno sforzo per sottolineare la novità di alcuni elementi, in maniera tale che diventi propulsore di un – lui direbbe – “genio nazionale”? Ma effettivamente bisogna anche riuscire a riappropriarsi del fatto che esiste un percorso dai filosofi che sono nati ad Atene, sono cresciuti a Roma, sono passati per Napoli – perché non c’è solo Croce, c’è anche Vico –, e oggi, come c’è stato in passato il Rinascimento in filosofia, ci dovrebbe essere anche una sorta di battaglia da parte dei filosofi della scienza per recuperare l’antico termine filosofico dell’ episteme. Prof. Umberto BOTTAZZINI Io non sono un filosofo, quindi non so. Ma invece la tua osservazione mi ha suggerito un punto importante, che riguarda il ruolo dell’intuizione. Enriques teorizza – se si può usare questo termine – il ruolo dell’intuizione, e questo gli fu anche rimproverato. Enriques afferma che gli oggetti matematici si vedono in qualche modo, con gli occhi della mente, e quindi c’è un ruolo ineliminabile attribuito all’intuizione. L’intuizione è come la chiave per la scoperta; spesso porta fuori strada, però si può correggere, si può verificare, ma ha un ruolo assolutamente centrale. E infatti molte delle scoperte di Enriques in matematica sono innanzitutto intuizioni. Per esempio se si va a vedere tutto l’intenso carteggio che ha avuto con Castelnuovo – sono 700 lettere scambiate in meno di dieci anni – si trovano continuamente frasi del tipo “immaginiamo che le cose stiano così…”, “e se la superficie fosse così, cosa succederebbe?”; è un continuo fare congetture, cercare di intuire come potrebbero essere questi oggetti che si vogliono studiare, per poi andare a verificare con i conti come stanno le cose. Quindi per Enriques c’è un ruolo ineliminabile dell’intuizione, e questo, come dicevo prima, gli verrà rimproverato, perché una delle accuse che vennero fatte a questa scuola di cui Enriques e Castelnuovo sono un po’ i padri fondatori, la Scuola italiana di geometria algebrica, fu appunto che era fondata troppo sull’intuizione e poco sul rigore, poco sul formalismo, poco sull’algebra e così via. L’altro aspetto che mi hai fatto venire in mente è che in fondo quando Enriques va a studiare Democrito lo studia come fosse un contemporaneo, e non per caso le sue ultime fatiche sono dedicate proprio a Democrito. Questo per dire che in realtà questo ripescare le radici della cultura nazionale – come dice lui –, ma insomma della cultura occidentale, sicuramente appartiene a Enriques. Enriques è uno che in prima persona si è impegnato in questo senso: per esempio ha dato vita a una collana di classici, in cui ha curato un’edizione degli Elementi di Euclide, ha fatto curare da un suo allievo il Metodo Meccanico di Archimede, e così via, cioè è andato a ripescare e a riattualizzare quelli che erano per così dire dei “testi sacri” della matematica, che, come tutti i testi sacri, erano finiti in biblioteca e lasciati lì. Quindi c’è continuamente questa attenzione alle radici storiche del pensiero occidentale e certamente queste radici Enriques le trova nella cultura greca, e infatti è ad essa che si rivolge quando va a cercare la continuità che ci lega a quel passato. Monsignor Franco BUZZI Avete sollevato ancora questioni interessantissime, che forse ci permettono anche di guardare oltre. Previsione: vedere prima. Però noi sappiamo che c’è un uso prolettico della ragione, che vede prima, dice prima come andranno le cose. Poi l’intuizione: il termine intuizione ha una tradizione profondissima legata all’evidenza, la intellectual Anschauung dell’idealismo, da Fichte a Schelling, a Hegel è un Einsicht, un vedere dentro le cose: l’uomo nel suo far scienza sarebbe capace di un’intuizione dell’essenza dell’evidenza, e questo però ci porta oltre il discorso delle singole categorie, verso una forma dell’essere alla fine di cui si nutre l’intuizione della mente. Mi sembra che qui siano in gioco tante cose, non dette esplicitamente ma comunque contenute all’interno di un discorso che ha le sue fatiche ma è estremamente interessante e provocatorio. Prof. Umberto BOTTAZZINI Certo, ma infatti – mi scuso per i riferimenti un pochino tecnici – i grandi matematici tedeschi del periodo sono sostanzialmente due: Klein e Hilbert. Hilbert è un teorico del formalismo, delle cose astratte che rifuggono l’intuizione, Klein invece è il teorico dell’ Anschauung, dell’intuizione, e non c’è dubbio che Enriques è più vicino a Klein; il suo interlocutore, quando parla per esempio dei principi della matematica, dei principi della geometria, è Klein, e per lui le realtà date dall’intuizione sono evidenti, “come quel cane lì che attraversa la strada”, disse una volta. […] E infatti Klein teorizza che ci sono i rapporti metrici perché sono quelli che di- pendono dal tatto, i rapporti proiettivi che dipendono dalla visione, e quindi c’è questa base empirica dietro. E per Enriques è un pochino la stessa cosa. Infatti quando lui scrive un lungo saggio sui principi della geometria, ripresenta esattamente questo tipo di punto di vista. Mentre prende le distanze dal formalismo, perché secondo lui non coglie l’essenza vera della geometria, anche se lui non usa la parola “essenza”. Prof. Fabio TRAZZA Purtroppo dobbiamo terminare, ma avremo modo di riprendere questi temi, perché abbiamo ancora degli incontri sul filone italiano e milanese. Giorello poi è un testimone diretto di quella parte della filosofia della scienza che discende direttamente da tutti questi problemi e che ha innervato generazioni di persone, di cui poi non si riesce a percepire quali siano le connessioni con tutte le altre che riteniamo lontane o diverse, in un paese che soffre di muri artificiali, disposti a combattersi fino alla morte, in nome della razza, del cognome o dell’appartenenza o della sigla, mentre andando al fondo si possono scoprire tanti arricchimenti che da ognuno che sappia se non pensare intuire ci deriverebbero. Vi ringrazio.