Anno 1 Numero 44 - 22.12.2008
Professione d’agnosticismo
Editoriale
di Gian Maria Tosatti
«Felice quella terra che non ha bisogno di eroi»
Bertolt Brecht
La letteratura e i fumetti ne sono pieni. E
ultimamente sono finiti anche sui grandi schermi
del cinema americano. Eroi ovunque e supereroi
in ogni dove. Non è una novità. D’altra parte ogni
forma di racconto nella storia, dall’epica antica a
quella medievale, si è fondato sulla figura
dell’eroe come simbolo di una forza archetipa o
del destino. Ed è così per tutte quelle figure che
tale ruolo hanno assunto nella sfera della realtà,
prodotti e incarnazioni anch’essi di un sentimento
popolare.
La differenza essenziale, tuttavia, fra gli eroi
della fiction e quelli che come tali sono stati
percepiti nella Storia sta nel fatto che i primi
sembrano avere una vocazione conservatrice,
legata alla protezione ed al mantenimento dello
status quo, mentre i secondi, di contro, si
presentano come rivoluzionari.
Effettivamente i supereroi della storia sono
sempre collegabili ad un concetto di
cambiamento o addirittura ad una vera e propria
rivoluzione. Quella francese partorì la figura di
Napoleone, quella fascista partorì la sagoma del
faccione di Mussolini, quella bolscevica dipinse
l’icona staliniana. E la stessa figura di Adolf Hitler
nella sua ascesa fu incarnazione di una delle più
grosse rivoluzioni della storia tedesca moderna. A
completare il quadro del nostro pantheon
contemporaneo possiamo metterci anche Ernesto
Che Guevara, la cui faccia su sfondo rosso è
diventata bandiera del concetto stesso di
Rivoluzione anche al di là dei confini
latinoamericani.
In un’ipotetico scontro fra titani nell’altra metà
campo finirebbero i supereroi di carta, l’Uomo
Ragno, Batman, Iron Man, James Bond, The Spirit,
per citare solo gli ultimi che hanno attraversato la
striscia immobile della carta per finire su quella
movimentata della pellicola. Non sono tutti santi,
ognuno di loro ha avuto almeno una crisi
d’identità, dall’Uomo Ragno (nel suo dualismo
con Venom) a Batman e 007 le cui contraddizioni
sono state approfondite proprio negli ultimi
episodi cinematografici delle rispettive saghe.
Eppure tutti loro esprimono con estrema
chiarezza un’ideale conservatore, di difesa e
protezione dell’esistente, a partire dal loro
storico allenatore (è questa la figura che ricopre
spesso nell’universo Marvel) Capitan America il
cui stesso granitico patriottismo non è stato
immune a qualche ripensamento (ne nacque il più
grosso scontro di supereroi mai disegnato). E al
conservatorismo tendono anche quegli eroi della
Storia che oltrepassano la cortina della fiction,
uno su tutti (sempre per stare nell’attualità) è il
Leonida re di Sparta protagonista della graphic
novel 300 (ossia la battaglia delle Termopili
secondo Frank Miller).
Ma in tutto ciò quel che più appare interessante è
che tale distinzione è frutto della percezione che
gli uomini hanno della figura eroica.
Essenzialmente, osservando tale quadro, si
capisce facilmente come la società nella sua
produzione di forme comunicative tenga
ipoteticamente alla conservazione, alla
protezione del proprio equilibrio da attacchi
esterni o interni. Tuttavia, nell’intimo spirito
della realtà quotidiana, le molteplici
contraddizioni del potere e la certa distanza da
una società ideale portano alla ricerca
spasmodica di una figura forte, di un leader
capace di cambiare le cose. D’altra parte è su
questa consapevolezza che s’è edificato (e direi
anche inceppato) il bipolarismo all’italiana.
Ovviamente, infatti, di veri eroi non ce ne sono
poi tanti e quando nascono, spesso, non è il
momento giusto per loro. Così la voglia di
costruire un idolo, realizza spesso aberrazioni,
come fu il vitello d’oro degli ebrei o come lo sono
state più tardi le molte figure reali che sopra
abbiamo elencato.
A ben vedere, dunque, l’eroe si dimostra una
sorta di astrazione. Per intenderlo si può
prendere a prestito Feuerbach dicendo che la
debolezza strutturale dell’uomo porta
quest’ultimo ad astrarre da sé un’idea di potenza
alla quale poi si sottopone quale schiavo. E’ quel
che il filosofo pensava di Dio, ma è pur vero che
dal mitologico Ercole al marveliano Thor gli eroi
sono sempre stati considerati semi-dei ed è ancor
più vero che chi assurge al potere gioca spesso a
fare l’onnipotente e la sua trama termina spesso
in una catarsi tragica.
SuperZombie
Esce il giorno di Natale “The Spirit”, paladino
senza platea
di Federico Pontiggia
Un ex poliziotto, Denny Colt (Gabriel Macht),
tornato dalla morte per combattere il crimine di
Central City. E’ lui The Spirit, “omaggio al noir
anni ‘40” tratto dal fumetto di Will Eisner, che
segna la prima regia in solitaria del fumettaro
Frank Miller, dopo quella a quattro mani con
Robert Rodriguez per Sin City (in carnet, anche il
soggetto di 300). Mostro sacro dei comics, dietro
la macchina da presa Miller non rinuncia
all’estetica da balloon, avvalendosi di un signor
cast: tra gli altri, Samuel L. Jackson, Eva Mendes
e Scarlett Johansson.
“Spirit è il tipico gentleman. Era innamorato di
una donna, Sand Saref (Eva Mendes), che è
diventata una formidabile ladra di gioielli. In lui –
dichiara Miller - convivono lo spirito del
poliziotto, che gli impone di arrestare Sand, e
quello dell'innamorato, che vorrebbe salvarla e
tenerla per sé”. Questo, eterno, conflitto tra il
dovere e il cuore caratterizzava anche il suo
Batman a fumetti (Il cavaliere oscuro): “E’ il
dilemma nascosto di ogni supereroe. Ma quello
che spinge Spirit più di ogni altra cosa è l'ansia di
sapere perché non è morto pur essendo morto”,
conferma Miller. Se a far il supereroe sono dunque
cuore, dovere e conoscenza, nulla è nuovo sul
fronte eroico, della serie “fatti non foste a viver
come bruti ma per seguir virtute e canoscenza…”.
Il problema è che la società è cambiata, e questi
(super)eroi non fanno più notizia, o almeno non
riescono più a mantenere le promesse e le
premesse: se per il semiologo Juri M. Lotman
l’eroe è il travalicatore di confini – uno per tutti,
Ulisse – ebbene sono in pochi oggi ad avere
capacità trasgressiva (transgredi, andare oltre)
rispetto alla norma. In primis, perché in un’epoca
in cui la - supposta - trasgressività edonistica è
pane quotidiano, all’eroe manca il gap fondativo,
il primo gradino distintivo.
Da qui, lo sfalsamento di piani ontologici cui
sempre più assistiamo in letteratura e sugli
schermi “supereroici”: che sono Hancock, il
supereroe alcolizzato di Will Smith, i celebri
Incredibili animati, il puzzolente Hellboy di
Guillermo Del Toro e molti altri se non supereroi
disfunzionali, forse addirittura disabili? Di fronte,
al superomismo estetizzante a uso e consumo
massmediatico – e massmediale – il supereroe è
costretto a mischiare le carte, fare di disabilità
virtù, ovvero aprirsi a una debolezza, un vulnus e
una colpa che sono espressione piena di una
paradossale antieroicità.
Il supereroe oggi, anche quello animato e/o
formato famiglia, è a due facce, come l’Harvey
Dent de Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan,
ovvero uno e bino, bello e scarificato, medio
sproporzionato tra l’eroe Batman e la nemesi
Joker, ovvero volto spaccato da un manicheismo
divenuto impossibile. Al di là degli innegabili
meriti di regia e interpretazioni, forse il vero
surplus de Il cavaliere oscuro è proprio questa
fedeltà etimologica nello stato dell’arte, con un
trio (Batman, Joker e Due Facce) demiurgico e
identitario: A (Batman), nonA (Joker) e diverso da
A (Due Facce).
Ed è in questa definizione per diversità che
affonda l’attuale, forse definitiva, crisi dell’eroe:
se The Spirit di Miller barcolla già nella mancanza
di coraggio eidetico, l’asetticità dell’omaggio al
noir anni ’40 e l’incapacità emozionale, il suo
vero fallimento sta nella riproposizione
stucchevole di un eroe che non ha più chi possa
ritenerlo tale, ovvero la società contemporanea.
E il suo essere un morto non morto, undead, è
paradigmatico di ciò che oggi è diventato: uno
zombie.
Ma al di là dell’incipit e dell’ambientazione,
riveduta e corretta al gusto contemporaneo, poco
altro resta della struttura testuale di Weiss. La
scelta di Felici è di sottrazione, una riscrittura
tutta orientata a illuminare il personaggio di
Marat, l’eroe rivoluzionario, l’amico del popolo
(come veniva chiamato, dal nome del giornale che
fondò nel 1789, «L’Ami du peuple»). Scompare
invece la figura di De Sade, l’autore, che viene
solo evocato nei versi delle attrici (ma è il divin
marchese o lo stesso regista?). Scompare cioè
l’occhio che è esterno alla rappresentazione pur
essendo interno allo spettacolo, ovvero il
meccanismo di confronto e di moltiplicazione dei
piani di realtà ideato da Weiss nel suo Marat/Sade
– con questo binomio, dal film di Peter Brook in
poi, sarà chiamata per brevità l’opera del
drammaturgo tedesco.
Recitare la rivoluzione
Un po’ più e un po’ meno del “Marat/Sade” nella
versione per sole donne di Andrea Felici
di Graziano Graziani
Dal palco tre donne si rivolgono al pubblico
recitando in versi, avvertendolo dell’inizio della
rappresentazione e scusandosi anticipatamente se
le attrici scelte per i ruoli non sapranno tenere a
mente le battute: in fondo siamo in un
manicomio, e per quanto gli intelletti chiamati in
causa non manchino di ingegno, si tratta di poco
più che una rappresentazione amatoriale.
È questo l’inizio – letterale e rimato – del testo di
Peter Weiss La persecuzione e l’assassinio di JeanPaul Marat, rappresentati dai filodrammatici
dell’ospizio di Charenton, sotto la guida del
marchese De Sade. Ed è questo anche l’incipit
dello spettacolo diretto da Andrea Felici,
FurioMarat, che ha debuttato al teatro Furio
Camillo di Roma il 18 dicembre.
Se è vero che il panorama artistico romano è un
alveo della ricerca dove da tempo si sperimenta
una non-recitazione, che trova la sua incisività
espressiva nel suo volersi “sgonfia” e
antideclamatoria; allora la scelta di tre brave
attrici della scena capitolina (Fiora Blasi,
Giovanna Conforto e Simona Senzacqua) ben si
sposa con la temperatura voluta dallo stesso
Weiss, che definiva gli allestimenti teatrali del
marchese De Sade nel manicomio di Charenton –
istituto dove venivano confinati i soggetti
socialmente indesiderati, oltre che i malati di
mente veri e propri, in cui il divin marchese fu
internato dal 1801 fino alla sua morte – delle
rappresentazioni poco più che dilettantesche,
“esercizi declamatori nello stile dell’epoca”.
Tuttavia, se la rifrazione voluta da Weiss era
orientata a interrogare il pubblico – oltre che a
mettere a confronto il violento padre della patria
francese, il rivoluzionario precursore del
socialismo, con il libertino campione
dell’individualismo, accusatore della decadenza
dell’ancien régime che giunse a sostenere Marat,
è vero, ma restando istintivamente diffidente
verso ogni forma di totalitarismo – a questo
meccanismo, pur smontato, non si sottrae
FurioMarat. Se la figura di De Sade si dissolve,
allora i rantoli e le invettive del cadente
protagonista della rivoluzione, costretto a lunghi
bagni per alleviare la dermatosi di cui soffriva, è
proprio verso gli spettatori che si indirizzano,
pubblico due volte di un opera nell’opera,
rifrazione voyeuristica che è la cifra più profonda
della società odierna, che alle molteplici crisi che
la sovrastano risponde il più delle volte con
l’inazione, una società in cui l’individualismo
portato alle estreme conseguenze non è più
eccezione né provocazione, ma costume diffuso.
L’interrogativo che lo spettacolo produce, allora,
scaturisce direttamente dal gesto di portare a
teatro proprio oggi la figura di Marat e un testo di
oltre quarant’anni fa. Un interrogativo che si
sofferma sulle macerie della politica cavalcando
le parole dell’eroe di una rivoluzione che ha
divorato i suoi stessi figli («Abbiamo inventato la
rivoluzione, ma non sappiamo ancora come
governarla…»), sola figura in grado, pur nel
declino fisico e spirituale, di strapparci al torpore
dei “ma anche” e di ricordarci che i rischi delle
tensioni sociali non si dissolvono nella
normalizzazione del dibattito pubblico. «Credete
che i ricchi daranno spontaneamente la propria
ricchezza agli altri? Non se ne può uscire senza la
violenza», urla Marat tra gli spasmi delle
convulsioni; ma lo spettro che agita di fronte al
suo auditorio non è quello della degenerazione
della protesta, quanto della violenza delle
pressioni che il dissenso può subire prima che
cambi la sua forma.
forse ad interrogare una gestione del potere
tradizionalmente maschile.
Il registro quasi comico, quando non grottesco, del
manicomio inscenato dalle tre attrici, che si
avvalgono di pochi oggetti continuamente
ridefiniti, un appendiabiti e una poltrona pensile,
convive con l’universo perturbante che scaturisce
dalla danza. Due mondi, due manicomi, divisi da
un corridoio di vetro che taglia la scena in
diagonale, all’interno del quale si muovono i corpi
agonizzanti delle tre internate-danzatrici, che
battono ossessivamente il piede, si contorcono su
se stesse, o semplicemente si aggirano dietro i
riflessi del vetro, dando alla propria presenza una
consistenza ectoplasmatica. Due universi che
viaggiano su registri quasi opposti, che sembrano
procedere su binari paralleli e solo alla fine
trasgrediscono le geometrie che li separano. E se
questo accostamento di registri, a volte stridente,
che non si scioglie in un segno estetico unitario, è
forse il nodo meno risolto dello spettacolo, è però
in certi momenti anche il suo punto di forza, in
grado di far collassare vicendevolmente la
tragedia nella farsa, dando vita a un ulteriore
rifrazione/confronto che stavolta chiama in causa
i termini di una celebre considerazione di Karl
Marx sui corsi e ricorsi della storia.
Certo non si tratta di una scelta casuale, ma anzi
di un interrogativo che è stato alla base del lavoro
di ricerca intrapreso lungo le tante bisettrici che
attraversano questo testo. Si legge, infatti, nelle
note di regia: «La purezza essenziale della danza
butoh agisce e reagisce con la teatralità ibrida e
stratificata nel tempo e nei generi del bagaglio
dell’attore. Possono mondi apparentemente
opposti, come l’essenza e la storia, il corpo e la
parola, la profondità e la banalità, la sanità e la
follia, trovare luoghi di confine dove guardarsi in
faccia e magari sovrapporsi? Forse sì, forse no…».
La seconda repubblica di Filippo II
Estremamente attuale il “Don Carlo” che ha
aperto la stagione della Scala
di Gian Maria Tosatti
FurioMarat è il risultato di un percorso di ricerca
intrapreso al Furio Camillo nel 2007, e non a caso
di questo luogo non neutro di produzione porta nel
titolo il marchio di fabbrica. Un’operazione che
sceglie di interrogare il testo (e il suo
meccanismo) interrogando anzitutto se stessa:
così, accanto alla presenza delle attrici, troviamo
l’accostamento di alcuni degli artisti che hanno
animato storicamente questo luminoso epicentro
della ricerca romana: dal regista Felici, che ne è
condirettore artistico, alla formazione Adama, che
raccoglie le danzatrici butoh Alessandra Cristiani,
Maddalena Gana e Samantha Marenzi. Le figure in
scena, tutte femminili, si moltiplicano, andando
La Scala non avrebbe potuto aprire con opera più
appropriata in questo 2008. Le trame di un intero
anno, fino a quelle degli ultimissimi giorni,
sembrano intrecciarsi alla vicenda di Don Carlo e
della Spagna controriformista.
Il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, sul palco
del più prestigioso teatro del mondo inizia una
rappresentazione cui effettivamente pochi hanno
prestato attenzione. Si è molto parlato dei vari
accidenti occorsi prima dell’alzata di sipario e
sono stati ripresi (quando non direttamente fatti)
sui giornali i commenti più imbecilli, cui ha
risposto la dignità di Daniele Gatti e degli artisti
che sul palcoscenico sono stati sommersi da fischi
che avevano la stessa tonalità del grande rumore
di fondo che in Italia si produce in ogni piazza
mediatica per opera di politicanti urlatori e dame
da salotto sdrucito (tale è quella contessa che ha
avuto il gusto di dichiararsi “infastidita” dalla
stazza del tenore Stuart Neill affermando che a
terra «sembrava una balena arenata»). Eppure
proprio la figura di Neill è la prima chiave
sensibile di un’edizione estremamente efficace di
quest’opera che in fondo parla della difficoltà di
rispondere alla chiamata eroica. Conoscendo,
infatti, la storia spagnola e poi il libretto, vien da
dire che non è il tenore ad essere fuori misura,
quanto appunto Don Carlo, un ragazzo ventenne
cui è chiesto un coraggio che neppure suo padre,
l’uomo forse più potente della terra, possiede –
quello di difendere il primato imperiale di fronte a
quello ecclesiastico facendo cessare le
persecuzioni e l’autodafé del popolo fiammingo di
confessione calvinista.
Eccolo Carlo entrare in scena e poi il suo amico
d’infanzia Rodrigo, vero eroe della vicenda.
Quest’ultimo elegge l’Infante salvatore degli
oppressi dall’Inquisizione. Un auspicio che mostra
tutti i suoi limiti già nel primo dialogo fra i due, in
cui la mente di Carlo sembra già stremata dal
peso delle sue umane passioni. Ancora una volta
nel bellissimo duetto “Dio che nell’alma
infondere”, giureranno fedeltà alla loro amicizia e
alla causa della libertà. E in questa scena è già
tutto chiaro quel che in quest’allestimento
diventa addirittura cristallino, complice la
sensibilità di Neill, capace di rendere con l’ottima
voce e la recitazione estremamente credibile la
figura di un Carlo perennemente vacillante,
perennemente in disequilibrio, un Carlo appunto
imprigionato in una figura troppo grande e
ingombrante. Lui e Rodrigo (un ottimo Dalibor
Jenis) si stringono e sullo sfondo si ripete come in
un flashback dell’infanzia quella stessa ritualità di
gesti che i due da bambini avevano già fissato
preparandosi ad entrare nei rispettivi ruoli di eroi
eletti dalla Storia. Basterebbe questa scena, la
migliore mai riuscita nella rassegna degli
allestimenti di quest’opera, per giudicare la regia
di Stéphane Braunschweig come uno strumento
affilato tanto da entrare fino in fondo nei risvolti
dell’opera. Ed è appunto in questo paragone, fra i
due bambini che giurano con sicurezza incrociando
le spade di legno e i due adulti in cui l’abbraccio
di Rodrigo sembra lasciare senza forze Carlo, che
si consuma già l’intera tensione dell’opera
verdiana. Davanti a Carlo, si apre la prospettiva
della Storia e lui l’osserva quasi impietrito,
sentendosi troppo debole e forse troppo distratto
per affrontarla.
Opposte vacillante volontà dell’Infante, che viene
subito disarmata dalla sua stessa isteria per mano
dell’amico Rodrigo, le figure del re (un Ferruccio
Furlanetto che domina le proprie sfumature
meglio di quando esordì nel ruolo con Karajan
nell’’86) e del Grande inquisitore, uno di fronte
all’altro nel celebre duetto di bassi del terzo atto,
sembrano due titani troppo forti perché si possa
anche solo respirare sotto il peso della loro
ombra. E proprio in questo dialogo tesissimo,
diretto e chiaro come una odierna intercettazione
telefonica, in cui il testo e la musica danno il
meglio di sé, i due rappresentanti del potere
decidono (in uno scambio di favori) la castrazione
(attraverso la morte di Carlo e Rodrigo) delle
nuove generazioni e del “pensiero novator”.
L’epilogo è scontato, l’uccisione di Rodrigo che
vede ancora una volta Carlo perdere la lucidità e
infine la morte dell’Infante, salvato dalle grinfie
del padre dalla visione di Carlo V che esce dalla
sua tomba per strappare il nipote alla
scelleratezza degli uomini, ci porta al lamento ed
al silenzio in cui da anni si spengono gli aneliti
delle nostre generazioni, schiacciate da un’Italia
cupa, in cui le foto dei grandi vecchi sui giornali
non differiscono troppo dalla rassegna di
opprimenti teste coronate che all’epoca dei fatti
si affacciavano dai ritratti sfondo nero.
Eh già, dunque, l’epoca dei fatti. Siamo negli anni
in cui Dostoevskij scrive la sua versione del
Grande Inquisitore, ossia in quel particolare
momento della storia in cui per chiunque, per
Gesù Cristo stesso, risorto nel racconto russo,
trovare un posto nella storia sembra impossibile. E
non è per la violenza repressiva dei roghi, quanto
appunto per la cappa oscura di superstizione e
timore che ha coperto l’occidente per oltre un
secolo fino a sembrare un muro di gomma contro
cui s’annulla ogni speranza di cambiamento. Visto
in questa prospettiva Carlo dunque non può
sembrare un egoista quanto un uomo mutilato
nell’anima dal proprio tempo, a cui non è rimasto
che il cuore e il suo dolore primordiale, l’unico
che sia ancora in grado di sentire. Soccomberà
allora per l’impossibilità di farsi trovare eroe di
fronte alla Storia e soccomberà anche Rodrigo,
mente miracolosa, illuminata in un tempo buio,
che fino all’ultimo darà la vita nella speranza che
l’amico possa spogliare l’autorità che opprime il
proprio popolo e dare una nuova speranza a
spagnoli e fiamminghi.
Così si chiude una delle opere più scure e amare
del repertorio verdiano e non solo. In sala i
giornalisti raccolgono i commenti del parterre de
rois della prima. Molti, fra i più politici, accusano
l’allestimento di eccessiva cupezza, dichiarando
che in questo momento di crisi ci sarebbe voluto
maggiore ottimismo. I giornalisti non si fanno
scrupolo di riportarlo nei loro articoli, quasi fosse
un’osservazione sensata. E in effetti, la regia di
Braunschweig un peccato lo commette.
Ambientando l’opera nel suo giusto tempo
dimostra di aver confidato nel fatto che il
pubblico avesse quel minimo di acume che accecò
d’ira e di rimorso re Claudio di fronte al teatro dei
comici istruiti da Amleto. Ma è un peccato
veniale, perché tale è stato solo il giorno della
prima. All’anteprima con gli studenti non è stato
lo stesso e neppure gli altri giorni.
muro di Berlino e ha infine faticosamente
introiettato la nuova dottrina riformista. In un
continuo ed esilarante dialogo telefonico con
Veltroni, che lo chiama per farsi consigliare sulle
strategie comunicative, Zoro fa emergere con
folgorante ironia il grande rimpianto della sinistra
italiana: l’assenza di un leader.
A partire dalla concezione leninista del partito e
della sua funzione di avanguardia, il tarlo del
militante comunista è sempre stata la linea da
seguire, dettata da un capo carismatico, colui che
avrebbe guidato le masse rivoluzionarie fino alla
terra promessa del socialismo realizzato. Una
delle satire più divertenti di questa fede quasi
messianica la fa Roberto Benigni in uno dei suoi
primi film, Berlinguer ti voglio bene, del 1977,
dove l’ossessione di Cioni Mario arriva a fargli
attaccare la foto di Enrico Berlinguer, allora
segretario del Pci, sulla testa di uno
spaventapasseri, per poterci parlare liberamente
nei suoi soliloqui in mezzo alla campagna. In una
delle scene più divertenti del film Mario, in
cantiere coi colleghi, si dice convinto che prima o
poi il grande capo darà “il segnale”: andrà in
televisione, col suo fare deferente, e poi di colpo
dirà “Via!” e sarà finalmente l’inizio della
agognata rivoluzione.
Cercasi leader disperatamente
Dal blog al programma della Dandini l’iperbole
veltroniana raccontata da Zoro
di Graziano Graziani
Barba di qualche giorno, capelli a zero e
l’espressione a cavallo tra lo scoramento di chi
naviga a vista nella politica di oggi e il sarcasmo
un po’ sbruffone e molto romanesco, Zoro si
affaccia dal web con le sue disavventure in pillole
di un militante del PD, che faticosamente segue le
evoluzioni funamboliche ed elettoralmente
disastrose del – malgrado tutto – “suo” partito.
Nel suo “saltuario di informazione e opinionistica
estremamente personale”, Diego Bianchi ha dato
vita a una web tv satirica imperniata sul
personaggio di Zoro, il suo alter ego mediatico che
decripta il linguaggio sempre più edulcorato di
politica e tv grazie a una buona dose di romanità e
sarcasmo. In Tolleranza Zoro, che ha debuttato su
un blog all’indomani della nascita del Partito
Democratico e che oggi è un diario settimanale al
programma Parla con me, Zoro segue con
crescente apprensione l’ennesima mutazione
genetica della sinistra, sempre più confusa anche
per chi come lui ha avuto un passato da militante
comunista, si è dovuto confrontare col crollo del
Con uno stile diverso, ma un registro ugualmente
iperbolico, Diego Bianchi alias Zoro ironizza sulla
fiducia verso il partito (non più comunista, ma
comunque “il partito”) e sul suo condottiero,
Walter l’americano, che guarda a Obama ma che a
differenza del presidente U.S.A. perde le elezioni.
E se al telefono con il grande capo e i suoi
“dirigenti delle risorse umane” Zoro sprizza
ottimismo riformista e moderno lessico da top
menager (in una puntata sogna persino di
arringare i militanti come Luca Luciani, il manager
telecom della gaffe sul “capolavoro di Napoleone
a Waterloo”), quando chiama gli amici svela tutti i
suoi dubbi sulla linea del segretario e su un partito
così edulcorato da non sembrare più così tanto di
sinistra… Nell’iperbole di Zoro, il “grande capo”
del “grande partito democratico” si rovescia in un
uomo ossessionato dall’immagine, ma che
nonostante le sue grandi manovre comunicative e
politiche alla fin fine non ne azzecca una. E se
pian piano si fa strada il sospetto che la strategia
politica non sia più tanto chiara, e si sia piuttosto
striminzita fino a diventare misera tattica di
sopravvivenza; allo stesso modo la figura del
grande leader rimpicciolisce, fino a trasformarsi in
quella di un capitano che naviga a vista, al quale
ci si riferisce con bonaria esasperazione, facendo
spallucce.
torna il lavoro e la salute per tutti, e trionfa la
giustizia (se non quella proletaria, almeno quella
ordinaria). Insomma, un finale da vissero tutti
felici e contenti. Finché si sta nel mondo delle
favole, ci si può pure credere.
The Amazing Mr. George Bush Super Shoe
Quando una scarpa serve per fare il primo passo in
una nuova direzione
di Emanuele Giordana
Sul suo blog, dedicato agli arabi invisibili Paola
Caridi ha scritto che «...tra gli arabi non si parla
d'altro. E non sorprende che in Iraq vi siano state
manifestazioni in cui si brandivano scarpe come si
sarebbero brandite spade. Muntazer al Zaidi, il
giornalista iracheno che ha tirato non una, bensì
due scarpe a Bush, in una situazione di assoluto
controllo da parte delle forze di sicurezza, è ora
l'eroe della strada. Di quella strada araba per la
quale - citazioni sentite con le mie orecchie ai
quattro angoli del mondo arabo negli scorsi sette
anni e mezzo - Bush è solo e unicamente un
criminale di guerra, nonché il sostenitore di regimi
(arabi) non democratici. Muntazer, insomma, ha
vendicato l'opinione pubblica araba,
contravvenendo - come scrive il libanese Daily
Star, al primo dovere di un arabo: l'ospitalità».
Per questo l’unico guizzo in grado di smarcarsi
dalla disillusione arriva quando D’Alema, ospite da
Crozza che gli chiede di commentare la frase di
Berlusconi che lo definisce “il più comunista” di
tutti, risponde che sì, probabilmente è vero.
Qualcosa scatta nella testa di Zoro, che esulta
come se avesse segnato la sua squadra del cuore.
È il segnale. Se lo fa D’Alema, significa che si può
finalmente tornare a dirsi “comunisti”. Significa
che tutto è tornato chiaro, e ci si può finalmente
disfare dell’armamentario riformista che per tutti
questi anni è andato così stretto… Ma è
un’esuberanza che dura poco: squilla il telefono,
è Walter, e allora tocca dissimulare e dire che è
proprio una storiaccia quella di D’Alema che torna
a parlare di comunismo…
In fondo il vero militante è quello che è fedele
alla linea, anche quando non c’è (come cantavano
i CCCP). Così si torna a stringere i denti quando si
perde in Abruzzo, e ad avere i mal di pancia se
arrestano gli esponenti del PD per corruzione. La
questione morale sarà anche reale, ma quello che
più conta è che fa perdere le elezioni (“La
Jervolino non schioda, Bassolino non schioda,
Villani non schioda, Bettini non schioda. Più
radicati nel territorio di così…”).
E allora, visto che sono tempi duri ma che siamo
pur sempre sotto Natale, non resta che affidarsi
alle favole: quella del Principe Walter, che guida
le forze del bene contro il malvagio Cavaliere
Silvio. Quando il piccolo principe, sul suo bianco
cavallo riformista, sconfigge le forze del male,
Se esistono ancora gli eroi è una domanda
ricorrente. Muntazer al Zaidi lo è. Sarà ricordato
per le scarpe e non forse per i suoi articoli ma alla
fine è il coraggio, il coraggio di dirla tutta
rischiando, com'è successo, le botte e la galera,
che piace all'uomo della strada e non solo araba.
Gli eroi son quelli che noi non siamo. Sono il
nostro compagno delle elementari che ha difeso
quel tale davanti a uno delle medie; sono quella
ragazza che disse in faccia al preside che la scuola
è nostra; sono quel tipo che ha rinunciato alla
promozione perché la gente non si compra; sono
quella giovane collega che ha detto al capufficio
di tener giù le mani. Son quello, quella, quelli che
parlano quando stiamo zitti e dicono le cose al
nostro posto. Siamo loro grati, che tirino le scarpe
o anche solo una saracca che non abbiamo il
coraggio di pronunciare. L'eroe è sempre stato e
sempre sarà. Non è solo una necessità dei tempi
bui, è il toccasana che ci fa sorridere o piangere,
che muove i sentimenti e che, soprattutto, si è
esposto quando nessuno aveva il coraggio, la
voglia, l'energia per farlo.
Il bisogno di eroismo può essere una malattia
indotta dall'arma potente della propaganda che
innesta miti e valori studiati a tavolino. Ma gli eroi
sani son altra cosa. Vengon fuori così quando
meno te lo aspetti e forse neppure loro ci avevano
poi pensato su. Quel gesto della scarpa non ha
fatto solo il giro del mondo dalle nostre parti o
nell'area del Mediterraneo-Medio oriente. Se lo
sono goduto in mezzo mondo, ché oggi youtube lo
vedono anche nelle favelas. E non è morta li.
Il giorno dopo Bush era in Afghanistan e i
giornalisti afgani lo han preso in giro mostrandogli
le scarpe. Non le han tirate, ma quando alla
conferenza stampa il funzionario afgano ha detto
che al presidente bisognava rivolgersi col titolo di
“sua eccellenza”, i giornalisti gli hanno rivolto le
domande chiamandolo “Mister Bush”. Erano
altrettante scarpe e più difficili da evitare. E' che
il gesto dell'eroe, non solo è eroico in sé, nell'atto
di tirare la scarpa o, come Enrico Toti, in quello di
gettare la stampella contro il nemico (eroismo
subito diventato icona della propaganda militare).
E' che poi producono, gli eroi sani, un effetto a
catena. Smascherano il re e quando il re viene
sbeffeggiato allora tutta la corte, e il popolino,
finalmente possono farlo.
Grazie Muntazer al Zaidi. Più potente di Kruscev
alle Nazioni Unite, più esilarante di Wolfowitz che
si leva le scarpe alla moschea di Istanbul e rivela i
buchi nei calzini, più elegante di una decolleté di
Gucci, più magico della favola della scarpina di
Cenerentola. L'eroe è eroe quando ci libera
liberandosi. Facendoci sognare. E andare a letto
felici anche stasera di render liberi i piedi dalle
scarpe.
la differenza
settimanale di cultura
on-line su www.differenza.org
direttore responsabile
Gian Maria Tosatti
in redazione
Graziano Graziani, Attilio Scarpellini,
Mariateresa Surianello.
La rivista è finanziata nell'ambito del progetto
Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di
Roma in collaborazione con il Ministero per i
Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.
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Anno 1 Numero 44 - 22.12.2008