A-A- CHILDREN’S CHARITY
dossier
NUOVA COOPERAZIONE
Cinque piste per ripartire
Questo è il primo capitolo di un dibattito, che si spera profondo, sulla cooperazione
con il sud del mondo. Attività che, assieme alle risorse, sembra aver perduto
anche l’interesse dell’opinione pubblica. Ha ancora senso lavorare in questo campo?
C’è chi dice sì. Ma con quali mezzi e con quali obiettivi? Questo dossier prova a indicarli.
Andrea Camperio Ciani
dossier
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Nuova cooperazione
Sono tempi duri
per la cooperazione
internazionale decentrata
italiana. Duri e bui.
Manca la progettazione.
Fa difetto la ricerca.
Gli schemi e i paradigmi
applicati sono vecchi
di decenni: alcuni
non funzionano,
ma continuano a ripetersi.
In un’epoca di continue
crisi economiche
e finanziarie, l’aiuto al sud
del mondo e al suo
sviluppo è lasciato
nelle mani di volontari
mal sostenuti e mal
pagati. Ma da questo
vicolo cieco si può uscire.
Ricominciamo c
Q
L’autore, con la sua ultima
figlia, in Marocco.
GEA / E. PELLIZZARI
Andrea Camperio Ciani*
ueste pagine si concentrano sulla
cooperazione internazionale decentrata, cioè quella fatta in collaborazione con le piccole organizzazioni
non governative (ong). Non sulla grande
cooperazione internazionale fra paesi, regolata dal Fondo monetario internazionale e da accordi commerciali. Nigrizia
ha più volte trattato questa seconda cooperazione, mostrando come essa strangoli e impoverisca i paesi più deboli.
È emblematico che una delle regioni
più ricche e potenti d’Italia, il Veneto,
destini solo 800mila euro l’anno a progetti di associazioni e ong di cooperazione, mentre la sola provincia autonoma di
Trento ne destini ben 5 milioni. Perché?
Semplicemente perché la provincia di
Trento è a statuto speciale? Oppure perché vede un po’ più lontano del Veneto?
La cooperazione internazionale non
è ancora una scienza, purtroppo. Ma lo
deve diventare, se vogliamo aumentarne
l’efficacia, ridurne gli sprechi, incrementare la partecipazione, il contributo e
l’appoggio della società civile, oggi molto scettica al riguardo.
La cooperazione del Veneto, con i
suoi 800mila euro, co-finanzia circa 20
progetti al 50%, con un processo abbastanza trasparente, basato su un sistema
a punti. Lo stesso tipo di progetti (per
dimensioni, obiettivi e numero di beneficiari) che la regione finanzia è anche
* Presidente e coordinatore scientifico dell’Aps Gea Onlus, Associazione
internazionale per lo studio e la conservazione degli ecosistemi.
Professore associato di etologia e psicologia evoluzionistica presso
la Facoltà di psicologia di Padova, con 13 anni di esperienza d’insegnamento
universitario e 25 di esperienza sul campo in progetti ambientali e di ricerca.
Oggi dirige e conduce progetti di monitoraggio ambientale e di cooperazione
allo sviluppo prevalentemente fra i nomadi del Nord Africa e tra le comunità
emarginate del sud-est asiatico.
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Ko Lipeh (Thailandia).
Si analizza l’acqua
inquinata dei pozzi.
volte superiori. Difficile non sospettare
che, se la regione Veneto dà il 50 % di
poco, forse il ministero, con le sue ong
accreditate, spreca il 100% di qualcosa.
I finanziamenti del Mae sono accessibili
alle sole ong accreditate presso di esso.
Ottenere l’accreditamento non è una
procedura facile. Qualità e dimensioni
non c’entrano: ong piccolissime e sconosciute sono accreditate; altre, ben più
operose, no. Solo nel nostro paese si ha
la seguente contraddizione: per essere
finanziati come associazione “non governativa” si deve essere accreditati da
un ministero governativo.
BANDI PERVERSI
Sprechi e cattive abitudini non si registrano solo in termini di denaro. Spesso c’è anche sciupio di energie e risorse
umane.
Stanchi di presentare agli enti regionali miseri progetti per la cooperazione
Microcredito e cooperazione
o così
SOWESTIMEAST.FILES.WORDPRESS.COM
finanziato dalla divisione cooperazione
internazionale del ministero degli affari
esteri (Mae). Ma c’è una differenza: quest’ultimo, in media, destina cifre 15-20
GEA / A. CAMPERIO CIANI
S
ono passati quasi due decenni dalla
Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente (1992), dove si coniò e promosse
l’espressione sviluppo sostenibile. Da
allora, l’espressione è stata usata e abusata: tutti dicono di sapere cos’è, ma
nessuno sa come si realizza. Forse, sviluppo sostenibile è un concetto impossibile
ma bello. Quindi, può essere un buon
programma di ricerca.
La ricerca nel mondo della cooperazione
ha prodotto un Nobel: quello dato nel
2006 al bengalese Muhammad Yunus,
“il banchiere dei poveri”, per lo sviluppo
della sua Grameen Bank e la formalizzazione del concetto di microcredito.
Sufia Khatuman prendeva in prestito soldi per costruire sgabelli di bambù, che poi
Microcredito in Bangladesh.
vendeva. L’esorbitante tasso d’interesse
che le veniva richiesto e l’essere costretta
a vendere il prodotto alla stessa persona
che le prestava il denaro (e al prezzo da
questa stabilito) riducevano il guadagno
a 2 cent di dollaro per sgabello. Commenta Yunus: «Non potevo accettare
che una qualunque persona potesse
ricavare tanto poco da un’attività così
faticosa e creativa».
Tutto ciò di cui Sufia aveva bisogno per
uscire dalla sua povertà era il denaro per
comperare il bambù: 20 centesimi di
dollaro. Yunus scoprì che vi erano altre 42
persone nelle stesse condizioni e decise di
prestare quei pochi dollari di tasca sua. Gli
studenti che lo assistevano nella ricerca
spiegarono a Sufia e alle altre donne che
ciò che stavano ricevendo era un credito,
e quindi doveva essere restituito. Potevano, però, vendere i loro manufatti a
prezzo libero. Nacque così il microcredito,
come strumento di sviluppo economico
che permette alle persone in condizioni
di povertà ed emarginazione di avere
accesso ai servizi finanziari.
L’idea ha rivoluzionato il mondo di un’infinità di individui e di comunità povere,
sia rurali che urbane. Il microcredito è
stato il frutto di una lunga ricerca, di serie
sperimentazioni, di profonde verifiche
dei risultati e di schiette valutazione dei
suoi limiti.
Ma quando il microcredito è stato applicato dalla cooperazione internazionale
su larga scala, i limiti e i prerequisiti,
fortemente sottolineati dal banchiere
bengalese, sono stati rapidamente dimenticati. E così, il microcredito, pur
avendo avuto successi incontestabili, ha
fallito in importanti contesti.
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Nuova cooperazione
decentrata e impossibilitati a sottoporne
al Mae, ci siamo rivolti al prestigioso
Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp). Ci eravamo imbattuti
in un bando che sembrava fatto apposta
per noi: Migration4Development (“migrazione in cambio di sviluppo”). Met-
teva a disposizione 1 milione di euro per
«progetti innovativi, mirati ai migranti,
intesi come risorsa e come prospettiva di
sviluppo sia per i paesi di origine che per
quelli di destinazione». Peccato che la
burocrazia del progetto richiedesse un
“consorzio” di almeno tre enti del paese
GEA / V. PASQUALETTI
Volontari presso
il gruppo nomade sakai,
in Malaysia.
europeo e altrettanti del paese di origine
dei migranti.
Abbiamo associato la nostra piccola
ong, Associazione internazionale per lo
studio e la conservazione degli ecosistemi (Aps Gea onlus), con il comune di
Padova e con un’associazione marocchina che opera nel nostro territorio; in
Marocco, abbiamo mobilitato un dipartimento universitario, una grande ong
locale e un’associazione di insegnanti.
Preciso l’obiettivo: “riciclare” i migranti di ritorno in Marocco, prima con un
periodo di formazione a Padova, poi attraverso la loro partecipazione a progetti
sociali e di sviluppo, in vista di una loro
riqualificazione come “mediatori culturali” e/o “operatori sociali” in patria. Per
pianificare ogni cosa, impiegammo tre
mesi, con corsi di formazione e incontri
di coordinamento fra paese di origine
e di destinazione. In Italia spendemmo
3.000 euro; altrettanto spesero (in valuta locale) i nostri partner marocchini.
In totale: circa 6.000 euro e sei “mesi
uomo” di lavoro, solo per presentare la
proposta all’Undp.
Dopo molti mesi, la risposta definitiva: «Non avete “meritato” il finanziamento, ma siamo molto fieri della vasta
partecipazione al bando». Scoprimmo
I rischi del volontario
I
n una recente ricerca, condotta da un mio laureato, Mattia Garau,
si rileva che nei pochi corsi di master e specializzazione in cooperazione internazionale, le materie psicologiche sono solo l’1 o il 2%
di quelle trattate. Mentre la psicologia ignora la cooperazione allo
sviluppo, le ong che se ne occupano non conoscono le potenzialità
e l’utilità dell’approccio psicologico, sia per la riuscita dei progetti
sia per i bisogni dei volontari, spesso smarriti.
I volontari vanno formati e addestrati a rispondere ai problemi che
incontreranno sul campo. Necessitano di stage formativi prima di
partire. Durante l’attuazione del progetto, vanno assistiti da persone
di esperienza. Concluso il progetto, è bene aiutarli a reinserirsi nella
quotidianità della vita in patria.
In tutto questo, la psicologia è fondamentale. Molti operatori umanitari, soprattutto se volontari e impiegati in situazioni drammatiche,
anche se per breve tempo, possono riportare shock di vario genere.
Non è sempre facile cooperare a un progetto di emergenza in situazioni di guerra, fame, carestia o disastro naturale. Noti sono gli
esiti patologici di processi stressogeni che colpiscono le persone che
esercitano professioni di aiuto, quando non rispondono in maniera
adeguata ai carichi eccessivi di stress che il lavoro le porta ad assume-
re. Oggi, tra i volontari di ritorno, si registrano sindromi da burn out
(“bruciarsi”) o da stress post-traumatico o acuto, con conseguenti
cadute nell’alcolismo e nella tossicodipendenza. Eppure, molte ong
sembrano ignorare tutto questo e continuano a comportarsi come
se i volontari da esse impiegati fossero individui invincibili.
Delle 32 ong accredidate presso il Mae, 30 hanno risposto al questionario inviato da Garau, ma solo 2 hanno riconosciuto la presenza
di problemi psicologici tra i loro volontari e hanno ammesso di averli
dovuti assistere a livello psicologico. Queste 30 associazioni, dalla
loro fondazione ad oggi, hanno inviato oltre 28.000 operatori a
lavorare nei progetti più diversi e rischiosi. Delle due, una: o hanno
davvero avuto volontari di ferro, o non si preoccupano di questi
problemi riscontrati nei loro volontari.
Il volontario è disponibile e generoso, ma va aiutato e inquadrato.
Il suo lavoro è fondamentale, utile ed economico, ma dev’essere
sostenuto. Questo lavoro di sostegno può essere svolto da un
volontario più esperto; più sovente, è necessario un professionista,
cioè qualcuno che ha sviluppato competenze specifiche per assistere, inquadrare e sostenere il volontario prima, durante e dopo la
realizzazione del progetto.
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GEA/ M. DELL’AMICO
GEA/ M. DELL’AMICO
Volontari conducono
autorità marocchine a
visitare i pozzi abusivi.
Volontari intervistano
una famiglia berbera.
che oltre 500 “consorzi” avevano presentato progetti, di cui solo 10 erano
stati giudicati degni di finanziamento:
100.000 euro ciascuno.
Facciamo un po’ di conti. Se tutti i
500 consorzi avevano speso, in media,
il tempo e il denaro che avevamo speso
noi, il totale delle energie e delle finanze
usate dalle ong (europee e del sud del
mondo) ammontava a 3 milioni di euro
e a 3.000 “mesi uomo”. Il sistema di fare
spendere 3 milioni di euro per ottenerne
1 – suddiviso tra dieci fortunati – è più
perverso di una lotteria. Questa, almeno, serve a finanziare lo stato. Quello
spreco, invece, non finanziò nulla: servì
solo a impoverire e deludere deboli e
fragili ong impegnate nel settore della
cooperazione internazionale.
Il mio collega Loris Patentini critica
questi bandi demenziali, perché incoraggiano la pessima abitudine di alcune
ong di farsi improntare, a basso costo, i
progetti da “professionisti”, i quali scriBamako (Mali).
Ciò che rimane
della cooperazione
italiana.
vono bene ma non conoscono nulla di
concreto. Guai, poi, se questi progetti
ottengono il finanziamento solo perché
ben confezionati e “logici”, ma proposti
a totale insaputa dei beneficiari. L’insuccesso è garantito.
RICERCA? ASSENTE!
Va ribadita la necessità della ricerca
nella cooperazione. Non c’è ancora un
solo ente finanziatore pronto a sostenere
tale ricerca. Invece è necessario confrontare scientificamente i metodi impiegati,
valutarne l’efficacia relativa e identificare le cause del fallimento o successo
di un progetto. Ad esempio, ci sembra
fondamentale sapere quando è opportuno utilizzare una procedura come il microcredito e quando, invece, è più utile
usare tecniche di microimpresa.
I progetti di ricerca devono essere
condotti “sul campo”, per capire cosa
davvero funziona, in quali contesti e con
quali dinamiche, e soprattutto
che risultati possiamo aspettarci. Queste indagini sono la base
necessaria per lo sviluppo successivo di progetti su larga scala. Eppure, le università se ne
occupano poco. Serve un training professionale degli operatori umanitari (aid workers).
Troppo spesso questi sono
gettati allo sbaraglio in contesti
imprevedibili e altamente delicati, con il rischio che danneggino il tessuto sociale, invece di
produrre gli auspicati benefici.
Se ci fosse chiesto in quale ambito
la ricerca sulla cooperazione dovrebbe
essere sviluppata, la nostra risposta è
precisa: nella psicologia. La cooperazione è una materia interdisciplinare in cui
confluiscono economia, agraria, ingegneria, scienze politiche e sociali (e altre
ancora), ma ha come oggetto le persone:
il loro modo di pensare, i loro valori, le
loro credenze, i loro pregiudizi, le loro
illusioni cognitive, le loro dinamiche
all’interno della comunità, il loro più o
meno forte senso di appartenenza a un
gruppo. Questo dovrebbe essere il pane
quotidiano della psicologia di comunità,
della psicologia sociale e della psicologia
evoluzionistica. L’oggetto della cooperazione deve essere approfondito da chi
si occupa di persone, di comunità e di
processi mentali.
Perché i progetti di cooperazione abbiano successo e possano almeno avvicinarsi allo “sviluppo sostenibile”, la nostra
esperienza sul campo ci propone una “ricetta”, che si coniuga in cinque concetti:
• partecipazione della comunità alla
costruzione del progetto;
• condivisione della comunità locale
con gli obiettivi del progetto;
• formazione permanente di chi partecipa al progetto;
• basso costo del progetto e volontariato animato da efficaci figure professionali;
• auto-implementazione, ovvero il
progetto deve mirare ad automantenersi
nel tempo.
Sono i titoli dei capitoli di questo
dossier.
DGIANNI.BLOGSPOT.COM
dossier
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Nuova cooperazione
PARTECIPAZIONE
Berberi apicoltori
Marocco. Pastore berbero.
Come arginare un problema di desertificazione sui monti
dell’Atlante (Marocco), dialogando con i pastori nomadi
e “rottamando” l’allevamento delle capre.
GEA/ M. DELL’AMICO
I
l concetto di partecipazione può sembrare banale. È chiaro, infatti, che la
partecipazione alle azioni di un progetto è importante per tutti. Nelle nostre
ricerche, però, abbiamo visto che la questione è molto più complessa.
Allo stato attuale, ai progetti che vengono finanziati è richiesta la swot analysis [analisi che evidenzia i punti di forza
(strengths) e di debolezza (weaknesses),
al fine di fare emergere le opportunità
(opportunities) e le minacce (threats) che
Marocco. Le capre sono
tra le prime cause
della desertificazione.
Medio Atlante (Marocco).
Le scimmie diminuiscono,
mentre le capre e i montoni
aumentano.
GEA / E. FERROELLI
derivano dal contesto esterno in cui sono
esposte le specifiche realtà settoriali] e il
logical framework (inquadramento logico del flusso dei vari passi che il progetto
percorre). Le due tecniche sono sofisticate e ben sviluppate e tutte le ong ne
GEA / R. SCHEMBRI
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Marocco. Pastori berberi,
di notte, imparano a gestire le api.
che vivono sui monti dell’Atlante in Marocco. In entrambi i casi la popolazione
ci ha dato informazioni imprevedibili ma
essenziali per la riuscita del nostro progetto che né la swot analysis né il logical
framework avrebbero mai individuato.
ARNIE TRANSUMANTI
Il caso dei nomadi berberi è significativo. Dai nostri studi di monitoraggio sulla regione è emerso subito che la
causa principale della desertificazione
dell’area – un tempo coperta da una
ricchissima foresta temperata – era la
crescita sconsiderata del pascolo misto,
fatto di montoni (90%), pascolati per
conto terzi, e di capre (10%), allevate
per il proprio sostentamento. I montoni
mangiano erba. Le capre, invece, lasciate senza foraggio dai montoni, divorano
arbusti, radici ed essenze legnose, al
punto da impedire la rigenerazione vegetale. Negli ultimi 30 anni, la foresta s’è
ridotta di oltre il 40% e la produttività
dei pascoli di oltre l’80%.
Il nostro progetto – suggerito da uno
studente, Luca Peri – verteva sulla progressiva “rottamazione” delle capre, in
cambio di un’attività altrettanto remunerativa. Attraverso una serie di interviste,
è emerso che i pastori erano coscienti
della progressiva desertificazione, ma,
come il resto della popolazione, ne ritenevano responsabili le scimmie, che
mangiavano le cortecce degli alberi. Facile da intuire da dove avessero acquisito
quest’idea: incolpare le scimmie faceva
comodo ai responsabili forestali, che potevano continuare impunemente a concedere permessi di pascolo ai proprietari
dei montoni, in cambio di bustarelle.
Varie le soluzioni da noi ipotizzate: allevamento di tacchini, produzione di formaggio, mantenimento delle capre nelle
stalle, fabbricazione di tappeti… Tutte,
però, si scontravano con l’attività quotidiana del pastore, che lo portava lontano
dal focolare e gli impediva di occuparsi di
qualsiasi nuova attività. Ciò che appariva
logico per noi non lo era per loro.
Alla fine, grazie soprattutto all’apporto delle famiglie interessate, si è
optato per l’apicoltura. Questa attività
GEA / F. CORNA
fanno uso, perché sono estremamente
efficaci a mettere in luce possibili falle
logiche in un progetto e permettono ai finanziatori di valutarne l’efficacia logica.
La cosa sorprendente è che, benché si
tratti di cooperazione (“azione compiuta
insieme”), non è previsto alcun aspetto
riguardante i beneficiari, la comunità di
destinazione del progetto, la loro logica,
i loro valori e le loro idee. Quasi che non
si debbano attendere contributi “logici”
da comunità di analfabeti o primitive.
Il fatto è che i progetti sono fatti per
loro, devono rimanere a loro, essere nutriti e coltivati da loro, non da noi e dai
nostri quadri logici. Comparando sei
progetti mirati al miglioramento sanitario in Nigeria, il ricercatore nigeriano
Adebiyi Edun ha commentato: «Non basta sostenere il perseguimento del coinvolgimento comunitario, se non si sono
adeguatamente presi in considerazione i
bisogni della comunità, i suoi punti di
forza e le condizioni che permettano a
priori di implementare il progetto».
Allora, ben venga il logical framework
come strumento di miglioramento continuo di un progetto. Ma questo dev’essere assolutamente affiancato da un’azione
d’indagine, attraverso interviste preliminari per acquisire informazioni fondamentali su come i membri di una comunità percepiscono il fenomeno che li affligge. Quali ritengono essere le vere cause
del fenomeno? Considerano il fenomeno
reversibile o irreversibile? Sono pronti a
cambiare radicalmente, o s’aspettano soluzioni a breve termine, per poi tornare a
una tranquilla quotidianità? Non sempre
le soluzioni che noi vorremmo proporre
sono compatibili con la loro visione del
mondo. Forse questo tipo di analisi non
offrirà aspetti logici o razionali. Di certo,
però, ci dirà molto su ciò che la comunità
crede, su cosa è disposta a fare e su quanto è pronta a proseguire il progetto, una
volta avviato.
Con una mia allieva di dottorato in
scienze sociali presso l’Università Descartes di Parigi, ho sviluppato un “quadro partecipativo” d’indagine sui beneficiari, che poi abbiamo applicato sia in
Italia, nel Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, sia presso i nomadi berberi
GEA / F. CORNA
avrebbe potuto essere svolta dalle donne, che non sarebbero più state costrette
a seguire le capre, ma avrebbero potuto
rimanere presso la tenda e accudire ai
figli. Si trattava solo di studiare il modo di risolvere il problema del trasporto
delle arnie durante la transumanza. Un
tecnico locale mostrò a noi e a loro come fare. E il progetto partì con 6 beneficiari, 12 arnie (finanziate) e 1 tecnico
(sponsorizzato). Oggi, senza successivi
finanziamenti, le arnie sono oltre 250 e i
beneficiari 30. Quindi, 24 famiglie hanno optato di “rottamare” le capre e dedicarsi all’apicoltura spontaneamente. Il
tecnico è ancora chiamato regolarmente
per risolvere questo o quel problema,
ma oggi è pagato dalle famiglie stesse.
I guadagni ottenuti con la vendita del
miele superano di gran lunga quelli avuti con l’allevamento delle capre.
L’apicoltura non era sembrata del
tutto “logica” a noi occidentali; solo una
diretta partecipazione delle persone interessate ci ha consentito di attuare un
progetto che funziona, perché è piaciuto
a loro e ha raggiunto l’obiettivo che ci
eravamo prefisso.
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Nuova cooperazione
CONDIVISIONE
Logico ma inattuabile
Spesso i beneficiari di un progetto hanno sistemi culturali e valori di riferimento
diversi da quelli dei cooperanti. Ad esempio, sul concetto di prestito.
Bisogna tenerne conto e, prima di agire, scambiarsi informazioni.
Q
uando lo studio minuzioso attuato nel contesto di un “quadro
partecipativo” di analisi mette
in luce che i beneficiari di un progetto
non sono consapevoli delle cause del
problema che li affligge, o, pur essendolo, ne attribuiscono le cause al destino
inevitabile o al volere di altre entità, la
condivisione degli obiettivi viene meno
e si crea un distacco – totale o parziale
– dal progetto stesso.
La maggior parte dei progetti varati
dalle ong fallisce, perché i beneficiari non
ne condividono gli obiettivi e i prospettati risultati. Capita spesso che i beneficiari
partecipino ai progetti perché attratti da
temporanei benefici economici o di altro
genere, ma rimangono scettici sulla bontà
dello scopo prefisso, considerato astratto
o perfino puerile. Vengono in mente alcuni piani di assistenza alle ragazze madri
e ai loro bambini varati in Bolivia, allo
scopo di educare le donne alla fecondità
responsabile. Uno studio approfondito
fatto da Magela Lusik, una mia dottoranda internazionale, ha mostrato come le
beneficiarie di simili programmi sono più
che felici di ottenere l’alloggio temporaneo messo a loro disposizione, ma non
sono disposte a modificare minimamente
la loro condotta riproduttiva.
Va da sé che, prima di avviare un
progetto, è necessaria una seria opera
di sensibilizzazione e conscientizzazione sulle cause del problema. Varie le
tecniche usate, per lo più di natura psicologica. Tra di esse primeggiano i focus
group, incontri in cui i partecipanti, sotto la guida di un moderatore, ricercano
insieme le cause e prospettano soluzioni
al problema che li affligge. Ottime anche le interviste partecipative, durante
le quali preziose informazioni vengono
scambiate tra la comunità interessata e
coloro che propongono il progetto. Così
facendo, si filtra consapevolezza e si ottiene condivisione. Non si deve mai aver
fretta nella fase di sensibilizzazione: se
mancano consapevolezza e condivisione, non si deve procedere con il progetto, pena il suo più totale fallimento.
SCOGLIO MICROCREDITO
La nostra associazione conosce particolarmente bene il fallimento del microcredito sperimentato con i nomadi. Francesco Armellino ha condotto
un’analisi sistematica della distribuzione
dei successi e dei fallimenti del microcredito relativi a 92 progetti attuati presso
popolazioni nomadi e 100 presso grup-
pi agricoli. I risultati della ricerca sono
eclatanti: l’88% dei progetti di microcredito tentati con i nomadi fallisce; se
i beneficiari sono agricoltori, il fallimento è solo del 25%. Perché? I fallimenti
registrati con i nomadi non sembrano
dovuti all’incapacità delle ong (sono le
stesse che ottengono successi con gli
agricoltori). La causa va ricercata nella
diversità delle due socio-ecologie.
I vari aspetti del microcredito (anticipo, utilizzo del finanziamento, restituzione dilazionata, mantenimento dei margini per il reinvestimento…) sono presenti
nella socio-ecologia di un agricoltore.
Egli fa ciò naturalmente da millenni: la
logica creditizia (semina, investimento
nella cura delle piante, raccolto, restituzione dei semi, consumo domestico,
margine di profitto del raccolto…) gli è
familiare.
Il nomade, invece, ha valori diversi.
Un individuo è bravo se ha il coraggio
di spingersi verso nuovi territori e li sa
sfruttare al meglio, magari escogitando
nuove tecniche per estrarre più risorse
possibili. Le sue incredibili flessibilità e
capacità sono invidiabili, ma non sono
ciò che il microcredito esige.
Gli zingari, i pastori berberi o “i nomadi del mare” (come i chao lay della
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Ko Lipeh (Thailandia).
Bambini chao lay.
A destra: pescatore chao lay.
Ko Surin (Thailandia). Barche
dei “nomadi del mare”.
Thailandia meridionale, un gruppo
pescatore-nomade, immigrato nel Mar
delle Andamane circa 5.000 anni or sono, oggi ridotto a circa 1.500 individui
che vivono di pesce e molluschi) non
contemplano la restituzione, né condividono gli obiettivi di un progetto di
microcredito; caso mai lo sfruttano, per
poi sparire. La loro necessità di affinare
sempre nuove tecniche estrattive delle
risorse li rende, invece, soggetti ideali
per progetti di “microimpresa”.
LA LEZIONE DI SURAT
Dal 2005 l’Aps Gea onlus sta lavorando presso la comunità chao lay di Ko
Lipeh con un ampio progetto di cooperazione allo sviluppo. Si sono tentate anche iniziative di microcredito con questi
nomadi del mare che vivono e lavorano
su barche, senza però registrare successi. Abbiamo provato, ad esempio, a
comprare una barca da pesca e trasporto tradizionale e offrirla, con un piccolo
progetto di microcredito, a Surat, un individuo poverissimo, ma particolarmente sveglio e promettente.
Chiare le modalità di restituzione del
credito: ogni anno, per 6 anni, avrebbe
dovuto consegnarci il ricavato di 5 gior-
GEA / F. CORNA
nate di lavoro con i turisti. Abbiamo
pensato fosse un piano comodo e vantaggioso per lui: ogni anno, avrebbe avuto circa 90 giornate di lavoro con i turisti
e 90 di pesca. Ma non c’è stato niente
da fare: Surat non riusciva ad accettare
l’idea di restituzione. Insisteva: «Se siete
miei amici, regalatemi la barca e basta».
A nulla sono valse le nostre spiegazioni
“logiche” e “finanziarie”, e il progetto
non decollò.
Un anno dopo, abbiamo incontrato
Surat alla guida di una fiammante barca
gialla, con la scritta “Taxi 80”. Cos’era
successo? Partendo dall’idea che gli
avevamo suggerito (cioè di lavorare con
i numerosi turisti che visitano le piccole
isole, deserte e stupende, che si trovano
a sud di Ko Phuket), Surat aveva lavorato tutto l’inverno e si era costruito il
suo long tail (tipo di barca), facendosi
aiutare dall’intera famiglia. E ora, eccolo lì, con il suo “Taxi 80”, orgoglioso,
felice… e senza debiti. Ce l’aveva fatta,
senza il nostro microcredito. E ci aveva
dato una lezione.
L’esempio di Surat si è ripetuto con i
berberi e i beduini del deserto e con gli
zingari urbani in innumerevoli altri progetti varati in giro per il mondo. La domanda s’impone: perché tanti soldi ven-
GEA / A. CAMPERIO CIANI
gono tuttora sprecati in progetti di microcredito con beneficiari sbagliati?
Semplicemente perché il microcredito è
bello e “logico” per noi. L’“inquadramento logico” non fa una grinza e ci
pare talmente ovvio che ci sembra assurdo che un “bisognoso” non lo debba
accettare. E invece molti non l’accettano. E per una semplice ragione: non lo
condividono, punto e basta.
GEA/ M. DELL’AMICO
GEA / A. CAMPERIO CIANI
Ko Lipeh. Costruzione
di un long tail.
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Nuova cooperazione
FORMAZIONE
Sviluppo fa rima
con responsabilità
Due esempi – sulla fertilità delle donne filippine e algerine di città, di campagna ed emigrate,
e sulle condizioni igienico-sanitarie di una comunità thailandese – per comprendere quanto
una formazione adeguata e creativa agisca in profondità e trasformi le situazioni.
I
sta massima cinese rimane tutt’oggi un
aforisma semplice ed efficace anche per
spiegare l’importanza della formazione
nello sviluppo sostenibile.
Formazione non è sinonimo di istruzione: è qualche cosa di più fondamentale e necessario. Per istruzione s’intende quell’insieme di nozioni utili per fare
carriera, o anche solo per cavarsela nel
mondo odierno. La matematica, i calcoli, la geografia, l’economia, la storia…
sono, sì, elementi utilissimi per inserirsi
nella società, ma spesso non servono a
risolvere i problemi della sopravvivenza
e della riorganizzazione delle comunità
emarginate e povere del sud del mondo.
L’istruzione impartita nelle scuole non
sempre insegna come riconoscere un’infezione da stafilococco, come proteggersi dalla malaria (malattia che uccide
più di tutte le altre), come migliorare le
tecniche d’irrigazione, o come ridurre
GEA / E. PELLIZZARI
l proverbio cinese: “Se uno ti chiede
un pesce, insegnagli a pescare”, viene usato per descrivere due opposte
concezioni di aiuto: “dare il pesce” allude a un atteggiamento assistenziale nei
riguardi di un bisognoso considerato
incapace di soddisfazione; “insegnare
a pescare” indica una forma di aiuto
che considera l’altro un proprio simile
in termini di capacità e responsabilità e
opera perché queste si sviluppino. Que-
Ko Lipeh (Thailandia).
Monitoraggio sull’igiene
nelle famiglie chao lay.
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ANASANTOSWRITES.COM
Filippine. Libera distribuzione
di contraccettivi.
Ko Lipeh (Thailandia).
Scarse condizioni igieniche.
In basso: volontari con una
famiglia chao lay.
GEA / N. SERENA
DONNE, POTERE, FERTILITÀ
Nei diversi contesti culturali da noi
presi in esame, abbiamo notato che la
fecondità troppo elevata è un problema
ormai improrogabile per lo sviluppo
sostenibile. Le donne, rispondendo alle
nostre interviste, dichiarano unanimemente che desidererebbero aver avuto
GEA / N. SERENA
un tasso di fecondità che provoca la sovrappopolazione.
Spesso si sente dire che l’istruzione
è il miglior mezzo per il controllo delle
nascite. La nostra esperienza ci dice che
non è propriamente così. È dalla fine
degli anni ’80 che, assieme a un team di
ricercatori, stiamo studiando la fecondità
delle donne filippine immigrate in Italia,
comparandola con quella delle loro sorelle restate in patria, con pari istruzione,
classe sociale, relazione nuziale, ecc. Abbiamo replicato gli studi con le donne algerine di città e di campagna, e anche con
le donne marocchine del Medio Atlante
e quelle immigrate in Italia. E abbiamo
scoperto che la variabile più importante
per ridurre la fecondità è quella che gli
inglesi chiamano empowerment, cioè
“conferire potere”, “mettere in grado
di”, nel senso di favorire l’accrescimento
spirituale, politico, sociale ed economico
di un individuo o di una comunità, cosi
che, sviluppando la fiducia nelle proprie
capacità, arrivino a “sentire di avere potere” o “sentire di essere in grado di fare”.
Questo comporta l’accesso a risorse e la
possibilità di gestirle.
meno figli di quanti ne hanno. Per loro,
la famiglia ideale è certamente meno numerosa della loro. Cosa più che ovvia,
visto che sono loro le prime a pagare i
costi di una famiglia “oltre misura”.
Molte società in cui operano i volontari sono caratterizzate da “sistemi di
genere” patriarcali, che concedono alle
donne scarsa voce in capitolo su questioni quali quella del numero dei figli. È
l’uomo a decidere. E poco importa che
la moglie svolga lavori più pesanti e determinanti il tenore di vita della famiglia,
specie in comunità agricole. Si parla di
lavoro fisico, non di gestione dei soldi.
Questa spetta, di regola, al maschio. Se
vuoi intervistare maschi adulti, non devi
che recarti al bar o al luogo di ritrovo
del villaggio. Molto più difficile è trovare una donna che abbia un momento
libero per parlare con te: è sempre impegnata con qualche incombenza.
Le nostre analisi ci hanno mostrato
che il livello d’istruzione non gioca un
ruolo determinante nella fertilità di una
donna. Nelle comunità filippine, marocchine e algerine da noi esaminate, abbiamo riscontrato che le donne che, di fatto,
riducono il numero dei figli sono quelle
che hanno un lavoro fuori della famiglia
e percepiscono uno stipendio. Una volta
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diventate padrone della loro economia, la
loro fecondità scende rapidamente verso
i livelli desiderati. Neppure la migrazione
verso la città o un altro paese incide sul
numero dei figli quanto il fatto di avere
un lavoro e un peso nella famiglia in termini economici.
In tutto il mondo, le donne sono le più
consapevoli dei pericoli di un’eccessiva
crescita demografica. Ma un povero sarà
sempre tentato d’investire quantitativamente nei figli, soprattutto là dove il tasso
di mortalità infantile è elevato: continuerà a fare figli nella speranza che almeno
qualcuno sopravviva e provveda anche ai
genitori vecchi. Ma se dai potere alle donne, se concedi loro un ruolo più importante nelle decisioni familiari e le metti in
grado di assicurare una sopravvivenza alla prole, automaticamente cominceranno
a investire qualitativamente nei figli. In
altre parole, se si agevola l’empowerment
femminile, si disinnesca la bomba demografica. E senza imposizioni, né campagne odiose di sterilizzazione assistita.
Questa verità dovrebbe portare a modificare le politiche internazionali di aiuto alle popolazioni in difficoltà. Quando
scoppia un’emergenza alimentare (potremmo pensare alla “Missione Arcobaleno” del 1999 in Albania o ai più recenti
interventi umanitari in Somalia, prostrata
dalla guerra civile), si commette sempre
lo stesso errore: s’inviano gli aiuti, e questi vengono scaricati presso gli aeroporti o i porti, dove costituiscono immensi
giacimenti di ricchezza per gli uomini più
aggressivi delle fazioni armate e determinati a impossessarsene, per poi venderle,
magari in cambio di nuove armi, aumentando così il loro potere. Potere che va a
confermare il sistema di genere patriarcale del controllo delle risorse.
La cooperazione internazionale, specie quando si esprime nell’invio di aiuti
alimentari, dovrebbe seguire strade “altre”: quelle che fanno arrivare gli aiuti alle
donne. Non siamo i soli a sostenere questo. Le ricercatrici Francesca Zamperetti
e Giovanna Dalla Costa hanno affermato
la stessa cosa nel loro studio Microcredito
donne e sviluppo. Il caso dell’Eritrea, in
cui affrontano le tematiche della microfinanza e la questione di genere, nel tenta-
GEA / M. DELL’AMICO
Nuova cooperazione
Ko Lipeh (Thailandia).
Attività formativa
di igiene e prevenzione.
tivo di gettare luce sul complesso legame
che intercorre tra condizioni di vita della
donna e nuove modalità di sviluppo.
Le risorse che arrivano alle donne, e
sono da esse gestite, aiutano le famiglie,
aumentano il potere delle donne nel
sistema di genere e producono effetti
benefici a lungo temine. A questo riguardo, la dice lunga il fatto che i primi
progetti di microcredito sostenuti dalla
Grameen Bank di Yunus fossero destinati alle donne.
CAPIRE E RISOLVERE
Cosa c’entra la formazione in tutto
questo? Le piccole ong non possono partecipare alla distribuzione degli aiuti su
larga scala. L’utilità della loro azione sta
nell’aiutare i beneficiari a utilizzare nuove
tecniche e nuovi strumenti che consentano di migliorare la loro vita e quella delle
loro comunità. Il loro ruolo non deve essere misurato in beni distribuiti, ospedali
costruiti, farmaci consegnati e pozzi scavati (come vorrebbero i finanziatori), ma
in termini di capacity building, ovvero nel
trasferimento di capacità e di tecniche,
nel riconoscimento dei sintomi, nell’abilità di prevenzione e nell’identificazione
dei rischi. Le persone che versano in situazioni di povertà vanno messe in condizione di identificare i propri problemi
e avere gli strumenti per risolverli. Ecco
spiegato il ruolo della formazione nella
cooperazione internazionale.
Questo tipo di formazione non si basa sull’istruzione formale. Spesso ricorre
a vie non canoniche, che però risultano
essere le migliori – se non le uniche – per
dare una risposta alle effettive esigenze
della comunità beneficiaria. A volte,
l’istruzione formale porta a un impoverimento dei paesi beneficiari. Potrà
sembrare sgradevole quanto stiamo per
dire, ma lo vogliamo dire. Troppi studenti africani, al costo di enormi sacrifici
delle famiglie, raggiungono buoni livelli
d’istruzione nel loro paese e poi vengono a completare gli studi nelle nostre
università e nelle nostre scuole di dottorato e infine decidono di rimanere per
sempre in Occidente, contribuendo così
alla fuga dei cervelli migliori dalle loro
nazioni. La formazione che i volontari
devono proporre non deve condurre a
questo esodo di intelligenze, ma a trasferire capacità e tecniche utili alla cultura
o al paese che s’intende aiutare.
UNA BELLA RECITA
Un esempio di formazione informale è quello che abbiamo svolto nella
piccola comunità chao lay di Ko Lipeh
attraverso il teatro. Da un monitoraggio,
condotto dal laureando Nicolò Serena,
GEA / M. DELL’AMICO
Ko Lipeh. Il teatro formativo
entusiasma tutto il villaggio.
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GEA / E. PELLIZZARI
Ko Lipeh. Contenitore
d’acqua protetto
da zanzariera.
Ko Lipeh. Nasce
la discarica
al centro dell’isola.
GEA / N. SERENA
GEA / F. CORNA
Ko Lipeh. Un bagnetto
in acqua pulita.
era emerso che uno dei problemi sanitari più rilevanti erano le punture di
insetti ai bambini, che causavano infezioni secondarie gravi, soprattutto alle
gambe, con invasioni di stafilococchi e
conseguenti suppurazioni tanto acute da
condizionare la vita del colpito. Le cause
apparvero subito evidenti: misere condizioni igienico-sanitarie, mancata protezione dell’acqua dolce nelle cisterne da
invasioni di parassiti, assenza di un vero
e proprio dispensario. Insomma: spazzatura e acqua infetta dovunque.
La soluzione suggerita da Giorgio
Festimanni, primario radiologo, 83
anni, oggi medico volontario “senza
frontiere”, con una lunga esperienza in
Brasile, Rd Congo, Tanzania e Burundi,
responsabile del monitoraggio epidemiologico a Ko Lipeh, fu semplice e fattibile: proteggere con economiche zanzariere le cisterne e i contenitori d’acqua
e allontanare la spazzatura, creando una
piccola discarica al centro dell’isola.
Tornati in Italia, stampammo una
brochure, alcuni volantini e un libretto
per bambini sui problemi dell’igiene e
dell’acqua. Dopo un anno di campagna,
però, costatammo che, mentre i bambini e i loro maestri avevano apprezzato il
nostro lavoro, poco o nulla era arrivato
ai genitori in termini di migliore gestione
della spazzatura e condizioni igieniche
dell’acqua. Il progetto stava fallendo.
Prolungate inchieste tramite questionari indirizzati alle donne ci consentirono di raccogliere un ampio spettro di se-
GEA / A. CAMPERIO CIANI
Ko Lipeh. I pescatori sono disponibili
solo di notte per le attività
di prevenzione dell’embolia.
gnalazioni e di opinioni sulle tecniche da
esse usate per mantenere l’igiene e gestire i rifiuti. Le molte risposte raccolte ci
diedero la misura del nostro insuccesso:
i testi da noi preparati non avevano raggiunto lo scopo.
Elena Pellizzari e Niccolò Serena ebbero l’idea di preparare una recita interpretata dai bambini. Era una novità assoluta sull’isola. La rappresentazione mette
in scena un bambino sporco e in fin di
vita a causa di un’infezione. Ma ecco arrivare altri bambini vestiti da infermieri: lo
aiutano, lo puliscono, lo curano, lo rimettono in piedi e gli dicono come fare per
non ammalarsi di nuovo: «Le immondizie non vanno tenute sulla barca o presso la casa, ma portate alla discarica. La
cisterna dell’acqua potabile va protetta
con una zanzariera. E la devi controllare
spesso, per vedere che non sia rotta».
Tutte le madri e molti padri, rinunciando a una giornata di pesca, parteciparono a quell’evento, allestito sotto una
grande tenda sulla spiaggia. Tutti si sentirono coinvolti e partecipi in una storia
che non avevano mai ascoltato, raccontata loro con costumi e con scenografie
povere, ma teatralmente ingegnose.
Dopo alcuni mesi, ripetemmo l’inchiesta tra le mamme. Le informazioni
ottenute furono di tutt’altro genere: il
messaggio era passato. Oggi, a distanza
di 5 anni da quell’iniziativa di informazione informale, se andate a Ko Lipeh
troverete che le zanzariere sono ben
stese sui contenitori dell’acqua e potrete visitare anche la piccola discarica nel
centro dell’isola. Il teatro è arrivato dove
libri e volantini avevano fallito.
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Nuova cooperazione
BASSO COSTO
Basta nababbi
della povertà
getti. Nell’Aps Gea onlus, per il 75%
dei progetti le spese sono interamente
coperte dai volontari.
Energie, buona volontà, potenzialità
e grandi numeri sono evidenti qualità
del volontariato per la cooperazione
internazionale. L’onestà è un’altra sua
grande dote. I progetti che utilizzano
volontari sono i meglio attrezzati a condurre operazioni finanziarie trasparenti:
l’ultima cosa che un volontario desidera è svolgere un’attività poco chiara dal
punto di vista finanziario nei confronti
dei beneficiari.
VOLONTARI NEL MEDIO ATLANTE
Il progetto che l’Aps Gea onlus sta
portando avanti da più tempo è il monitoraggio e la difesa dell’ultima grande
foresta a nord del Sahara, precisamente
nella regione del Medio Atlante in Marocco. Vi siamo impegnati, quasi ininterrottamente, dal 1983, esaminando, anno
dopo anno, il processo di desertificazione e le sue cause (sia umane che naturali)
e proponendo progetti di mitigazione e
salvaguardia dell’ambiente e delle popolazioni nomadi berbere.
GEA / M. DELL’AMICO
U
no studio di Francesca Donato su
75 progetti italiani ha dimostrato
che non esiste alcuna correlazione tra il successo e il costo di un progetto, comunque si vogliano calcolare i due
fattori. Se per realizzare un progetto in
un paese del sud del mondo è necessario
aprire sul posto una sede con tanto di
ufficio e inviare professionisti per la gestione tecnica ed economica dell’iniziativa, è ovvio che i fondi crescano e che
non tutti arrivino a destinazione, cioè
ai beneficiari. E che dire della ong che
occupa la sede dell’ex ambasciata scandinava a Roma? Nessuna meraviglia,
quindi, se la società civile arriva a dire
che si fanno ottimi affari con i poveri e
che i fondi per la cooperazione servono
prevalentemente ad alimentare le nostre
aziende e ong.
Il volontariato è una risorsa complessa e articolata. C’è un’infinità di organizzazioni di volontariato composte da
ingegneri, geologi, formatori, psicologi,
architetti, ecc., tutti prevalentemente
giovani (tra i 25 e i 36 anni), qualificati e
desiderosi di mettersi a disposizione per
esperienze più o meno lunghe. È vero
che fra i volontari non tutti sono animati
dai migliori sentimenti: c’è chi cerca il
brivido e chi parte per spirito di avventura. Ma basterebbe una seria azione di
filtro per eliminarli.
Spesso i volontari sono una risorsa
anche finanziaria: se opportunamente
motivati, sono disposti a partecipare
economicamente alle spese vive dei pro-
GEA / M. DELL’AMICO
Il mondo della cooperazione
decentrata deve far leva
prevalentemente su
volontari motivati e onesti.
I progetti ne traggono
giovamento anche sul
piano finanziario. Il che non
significa rinunciare a figure
professionali adeguatamente
stipendiate.
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In senso orario: Marocco. Tenda berbera.
Ko Tarutao (Thailandia). Volontari in transect di monitoraggio nella jungla.
Marocco. Volontari osservano un’area di foresta devastata dai pastori.
GEA / M. DELL’AMICO
L’intero progetto è, da sempre e quasi
interamente, sostenuto dall’attività e dal
finanziamento dei volontari stessi. Reclutati nelle università, questi volontari
conducono estenuanti attraversamenti
di foreste, per oltre 4.000 km lineari di
transect. Un transect è un percorso lungo
cui uno registra e conta i casi del fenomeno dello studio; nel nostro caso, rilevando le condizioni della vegetazione e
del suolo, la presenza-assenza di pastori
e di greggi nelle foreste e la composizio-
ne delle greggi stesse. Il monitoraggio è
fatto secondo i parametri di un modello d’indicatore biologico basato sulla
demografia delle scimmie bertucce in
antagonismo alimentare con le greggi.
Grande attenzione viene data alle popolazioni. Infinite sono le interviste fatte
a nomadi e agricoltori, al fine di rilevare modificazioni nei sistemi di genere,
nelle abitudini nuziali, nelle relazioni
economiche fra proprietari e pastori
(salariati), nei rapporti fra gruppi etnici
(arabi e berberi vivono da sempre in velato conflitto). Si misura anche l’impatto
che l’islam ha sulle norme e le leggi che
regolano gli usi civici dei pascoli e delle
terre comuni. Tutti questi dati rilevati
sono variabili importanti per misurare il
processo di desertificazione.
Il progetto ha raggiunto, nel tempo,
una tale complessità che è stato necessario frazionarlo, scomporlo e semplificarlo, per consentire ai
volontari di portarlo avanti. Sono state
sviluppate procedure standard e modalità d’intervento
che i volontari da
soli non avrebbero
mai saputo elaborare: dietro tutto
ciò ci sono anni di
ricerche, di pubblicazioni scientifiche
e progetti pilota
riusciti e falliti. Nel
tempo, c’è stata una
meticolosa attività
di collaborazione
fra ricercatori marocchini ed europei, assieme all’indispensabile opera dei
mediatori culturali, che s’interfacciano
negli incontri fra i volontari, che non
parlano una parola di berbero, e i pastori, che offrono loro pane caldo e tè di
maggiorana in segno di ospitalità.
Questi volontari, uomini e donne,
non sono partecipanti passivi: elaborano
i dati, contribuiscono idee negli incontri
di gruppo e nei brain storming quotidiani, suggeriscono e testano soluzioni
sempre nuove, fanno rilevamenti diffi-
cilissimi sul campo, servendosi di una
bussola e una cartina… Si tratta di un
lavoro colossale, citato anche nella pagina della scienza del New York Times
e menzionato dalla prestigiosa rivista
Smithsonian. Si sono raccolte migliaia di
dati, che hanno arricchito la ricerca nella lotta alla desertificazione e oggi stanno alla base di molti progetti ideati per
mitigarla e anticiparla, alcuni dei quali
stanno registrando lo sperato successo.
TRASPARENZA
La cooperazione decentrata, quindi,
pur appoggiandosi sempre di più sul
volontariato, deve tuttavia essere in grado di sviluppare figure altamente professionali. Ed è giusto che queste siano
pagate, come sono pagati altri operatori
sociali (medici, psicologi, assistenti sociali). Conducono una vita piena di rischi e difficoltà, il più delle volte lontano
da casa. Le ong non devono vergognarsi
di pagare bene i propri professionisti,
se effettivamente sono esperti e utili al
progetto. Devono solo spiegare e giustificare ogni cosa dettagliatamente.
Pagare bene, però, non significa creare “nababbi della povertà”. Difficile,
per esempio, giustificare l’operato di
quelle ong che hanno realizzato un sito
Internet sulla condizione della donna
berbera, spendendo 1 milione di euro,
per una popolazione prevalentemente
analfabeta. In Italia, un volontario abile
e onesto l’avrebbe fatto per un millesimo del costo!
Il tema del basso costo, quindi, deve
far parte della discussione che precede
la presentazione di un progetto ai finanziatori. In ogni proposta deve apparire
chiara la volontà di contenere i costi, di
minimizzarli, e di utilizzare l’impiego di
risorse professionali solo se veramente necessarie. In un mondo di risorse
limitate, ogni risparmio fatto per un
progetto va a vantaggio di altri progetti.
La cooperazione internazionale non decollerà mai a livello planetario, se non se
ne riducono i costi, eliminando gli sprechi e mostrando che ogni euro speso si
traduce in benefici per le persone e le
comunità aiutate.
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Nuova cooperazione
AUTO-IMPLEMENTAZIONE
Con le proprie gambe
Ogni progetto di cooperazione deve trovare l’adesione della comunità beneficiaria.
Che ne valuta i vantaggi, lo fa proprio e lo porta avanti.
Ko Lipeh (Thailandia). All’alba si parte per la pesca.
GEA / A. CAMPERIO CIANI
I
l termine auto-implementazione può
sembrare troppo tecnico, ma è la migliore semplificazione operativa del
concetto di “sviluppo sostenibile”. La
sostenibilità rimane un buon concetto.
Applicato a un progetto di sviluppo, sta
a indicare che il miglioramento apportato è duraturo e produce ulteriori perfezionamenti all’interno di una comunità.
La letteratura sull’argomento è immensa. Le visioni e le posizioni sono le
più disparate. Qualcuno ritiene che, a
livello globale, lo sviluppo sostenibile
non sarà mai raggiunto, fino a quando
non sarà disinnescata la “bomba demografica”, in quanto ogni soluzione sostenibile oggi diventerà inevitabilmente insostenibile domani, quando la popolazione sarà maggiore.
Ovvio che una piccola ong non può
occuparsi di questi immani problemi dai
difficili risvolti scientifici, etici e religiosi. Deve, però, in ogni caso, cercare di
applicare il concetto di sviluppo sostenibile a ogni suo progetto. E per noi, ogni
progetto di questo tipo deve essere “auto-implementante”: il suo scopo, cioè, è
quello di avviare una comunità, offrendole strumenti formativi adeguati, verso
la costruzione autonoma di azioni atte a
raggiungere i risultati e a mantenerli duraturi nel tempo.
L’auto-implementazione deve essere
un modo di pensare la cooperazione
stessa. Per fare questo, è necessario
identificare i processi psicologici e sociali che aiutino la comunità assistita a
vedere la bontà del progetto, ad aderirvi
e a proseguirlo.
Realizzare un progetto auto-implementante non è cosa facile. Gli esempi
di riuscita sono rarissimi. Alnoor Ebrahim, ricercatore presso la Harvard University’s Hauser Center for Nonprofit
Organizations, ne spiega le ragioni: «La
valutazione degli aspetti a lungo termine
di un progetto viene spesso tralasciata
per l’esigenza che i finanziatori hanno di
vedere risultati concreti e misurabili in
tempi brevi».
VEDI ALLA VOCE MICROCREDITO
La fretta di vedere risultati è cattiva
consigliera. È necessario, invece, avere
un’approfondita conoscenza del problema che si vuole affrontare, e questa si
ottiene solo con un adeguato monitoraggio o una precisa valutazione degli aspetti che ostacolano lo sviluppo nella comunità (attraverso il quadro partecipativo
e la sensibilizzazione-condivisione).
L’appoggio entusiastico che una comunità dà al progetto proposto dall’ong
e da tutti assunto è fondamentale, ma
non basta. Occorre che i beneficiari sappiano usare correttamente gli eventuali
sviluppi o apparati tecnici suggeriti, ripararli e anche modificarli, adattandoli a
nuove necessità.
Un modello auto-implementante deve essere anche appetibile: i beneficiari
chiedono di toccare con mano i vantaggi (e non solo economici) che ne derivano. Non costa nulla a loro condividere
il “sogno occidentale” di una ong europea o nord-americana; probabilmente
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lo elogiano e ne auspicano la messa in
atto. Ma poi, quando tornano a casa,
trovano famiglie affamate e figli da allevare. Se non riscontrano immediati
vantaggi economici, sarà difficile averli
direttamente e permanentemente coinvolti nel progetto.
Quindi, a differenza di un progetto
assistenziale in caso d’emergenza, quello auto-implementante non può esistere se non è partecipato e condiviso. Ma
non solo: non può esistere se prevede
una continua sovvenzione, altrimenti,
quando questa termina, anch’esso si
ferma.
Un progetto auto-implementante può
essere assistito solo come “progetto dimostrativo”, al fine di mostrare con i
fatti i possibili benefici. Poi, però, va lasciato alla libera scelta e iniziativa della
comunità.
Un tale progetto è quasi sempre a
basso costo. I suoi risultati, però, possono crescere a dismisura. Le banche di
credito e risparmio… Sono tutti progetti auto-implementanti, perché qualcuno ha giudicato buona l’idea e oggi le
iniziative continuano senza alcuna sovvenzione esterna.
Marshall Murphree, l’ideatore dell’approccio eco-stistemico “Campire”
(acronimo inglese per Communal Area
Management Programme for Indigenous Resources), applicato in Zimbabwe a un noto programma sulla valorizzazione delle risorse locali da parte dei
residenti, cita sempre l’esempio geniale
e auto-implementante dell’agriturismo
in Toscana. Negli anni Ottanta, la campagna toscana stava progressivamente
morendo a causa dei magri profitti dell’agricoltura collinare. Qualche genio –
a noi sconosciuto – pensò di sfruttare
gli alloggi spopolati delle bellissime case coloniche per ospitare un turismo
rurale, in cui i visitatori potessero condividere abitudini locali e acquistare
prodotti senza passare per la catena de-
Il contadino toscano – e il principe
decaduto veneto – non sono certo beneficiari del sud del mondo. Ma se l’autoimplementazione funziona in una comunità, perché non dovrebbe funzionare
anche in altre?
MIELE CONTRO IL DESERTO
GEA / M. DELL’AMICO
Marocco. Volontarie con bambine berbere.
microcredito sono tutte nate come progetti auto-implementanti. Hanno funzionato e oggi c’è un’infinità di piccoli
banchieri pronti a fare piccoli crediti.
Vari i modelli: banche di villaggio, fondi rotativi comunitari, associazioni di
gli intermediari. Sorsero progetti pilota
con contributi per ristrutturare gli alloggi, fu varata una legge sulla possibilità di affittare e offrire pranzi con propri prodotti locali… e tutto si è rapidamente auto-implementato.
Il nostro progetto di apicoltura presso i berberi del Marocco ha le stesse caratteristiche dell’agriturismo toscano e
veneto, anche se i beneficiari sono diversi. È stato il “quadro partecipativo” a
confermarci la possibilità di adottare
l’apicoltura per quei nomadi. Fu subito
chiaro che le donne sarebbero state disponibili.
Il nostro progetto si limitò a trovare il
modo di trasportare le arnie e insegnare
alcune tecniche ai locali. Tecniche che
non dovemmo importare dall’estero: un
qualunque falegname locale poteva costruire arnie; un pastore più intraprendente poteva ricorrere a un pick-up per
trasportarle. Il valore di mercato del
miele prodotto risultò subito un vantaggio economico riconosciuto dai beneficiari. I marocchini sono golosi di miele:
lo usano in tutti i loro dolci. La produzione di una singola arnia portava nelle
tasche dell’apicoltore più soldi di quanto non ne potesse avere con l’allevamento delle capre. E questo avveniva senza
incrementare la desertificazione.
I soldi messi da noi a disposizione per
il progetto dimostrativo finirono subito.
Ma in due anni, quel progetto si è autoimplementato, senza bisogno di nuovi finanziamenti esterni. La formazione da
noi avviata è continuata, perché i benefici
economici sono apparsi allettanti e nuovi
fruitori del progetto si sono mostrati disposti ad assumerlo a proprie spese.
Oggi, anche se la Regione Veneto ci ha
tagliato i fondi, quel progetto continua a
crescere sui monti dell’Atlante in Marocco. C’è da giurare che quei berberi si sono perfino dimenticati che l’abbiamo
iniziato noi. È la dura legge del contrappasso. Ma non c’è niente di più bello del
costatare che una bella idea che hai avuto, sta aiutando una popolazione a condurre una vita più dignitosa.
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Nuova cooperazione
CONCLUDENDO
Il bene va fatto bene
Tre criteri-cardine: smascherare gli abusi,
lavorare con i beneficiari, mettere in comune le esperienze.
Marocco. Membri
della ong Gea.
GEA / M. DELL’AMICO
M
olte parole, alcuni esempi e
qualche chiaro suggerimento.
Ma la convinzione è di aver
semplicemente scalfito il problema. Del
resto, il problema di come aiutare efficacemente una comunità del sud del mondo a uscire dalla povertà o a superare
un’emergenza rimane tuttora irrisolto. I
grandi Stati Uniti sono rimasti al palo
nella piccola Haiti colpita dal sisma!
Non c’è ancora sufficiente ricerca in
questo settore. Pochi gli studi scientifici
che comparano i risultati.
Sospettiamo una possibile critica:
perché abbiamo parlato prevalentemente delle nostre esperienze? La risposta è
semplice: le altre non si conoscono. I
progetti vengono ideati, presentati, finanziati e condotti, ma mai pubblicati.
Solo scarni rapporti di fine progetto,
riassunti quasi sempre autoreferenziali e
ipocritamente ottimisti. Pochissime le
riviste scientifiche in cui i ricercatori
possano pubblicare i propri progetti, illustrare le nuove tecniche, confrontare i
risultati. Non si fanno convegni per dibattere temi importanti come partecipazione, condivisione, basso costo e autoimplementazione di un progetto. E questo la dice lunga sulla (non) trasparenza
della cooperazione internazionale.
La cooperazione muove risorse immense e ha risvolti geopolitici e sociali
colossali. Eppure pochissimi ricercatori
se ne occupano. Anche le ong, responsabili dei propri fallimenti, non avvertono l’esigenza del confronto e della
trasparenza.
La psicologia – incluse le psicologia
sociale e la psicologia di comunità – dovrebbe essere la prima a occuparsi di
processi scientifici di cooperazione. Di
fatto, però, è l’ultima, se non completamente assente. Nelle stesso tempo, le
ong desiderano implementare progetti
efficaci, ma non fanno ricerca.
La chiave del successo del microcredito è semplice: è stato pensato, studiato
e sperimentato, poi è stato reso pubblico
con studi scientifici dai suoi ideatori; ci
sono stati confronti, critiche costruttive,
aggiustamenti, nuovi esperimenti…
Il guaio è che i finanziatori non vogliono sentire parlare di progetti dimostrativi, di progetti pilota o di studi sulla
cooperazione. Vogliono vedere ospedali, pozzi, dighe, cemento, mattoni... Ai
loro occhi, la formazione è teorica, impalpabile.
Serve tanta intelligenza per aiutare
chi è nel bisogno. Il bene va fatto bene.
Occorrono idee nuove: quelle vecchie,
se funzionano poco e male, vanno cambiate. Il mondo della cooperazione
aspetta ancora il suo Darwin o il suo Galileo, che riscriva la cooperazione e ci
spieghi come muoverci e dove andare. Si
può solo sperare che arrivi presto. Fino
ad allora, però, tre cose sono possibili e
doverose: smascherare gli abusi e gli sprechi, a tutti i livelli e in tutte le sedi; ascoltare di più i beneficiari, lavorare con loro,
non per loro; confrontare le rispettive
esperienze. Ne va del bene della cooperazione internazionale decentrata.
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Dossier cooperazione Nigrizia (12-2010)