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instant book
collana diretta da Simonetta Lux
coordinata da Domenico Scudero
Partiture
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Arte e formazione
Supplemento al periodico
l u x f l u x proto-type arte contemporanea
w w w. l u x f l u x . n e t
Simonetta Lux
direttore
[email protected]
Pietro Barcellona
direttore responsabile
Domenico Scudero
Coordinamento
editoriale
Patrizia Mania
Caporedattore
Lucrezia Cippitelli Elisabetta Cristallini Fabrizio Lemme
Augusto Pieroni Domenico Scudero
redazione
[email protected]
MLAC
www.mlac.it
supervisione del progetto
Ines Paolucci Daniele Statera
[email protected]
progetto grafico
malc
www.malc.it
impaginazione
ARACNE EDITRICE S.R.L.
editore
Via R. Garofalo, 133 a-b
00173 Roma
www.aracneeditrice.it
per conto di
L.H.O.O.K Via Reggio Emilia, 52
00198 Roma - Tel. 0649910365
Registrazione presso il Tribunale di Roma
n. 632 del 21/11/02
Supplemento al n. 16-17-18
isbn 88-548-0875-X
I edizione: novembre 2006
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Daniela Tortora
Mauro Bortolotti
la creazione musicale
nei territori di confine fra le arti
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Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Università di Roma “La Sapienza”
Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Università di Roma “La Sapienza”
Archivio storico della musica contemporanea/MLAC
Corso di laurea in Scienze storico-artistiche della Facoltà di Scienze Umanistiche,
Università di Roma “La Sapienza”
Associazione per la musica contemporanea “Nuova Consonanza”
Assessorato alla Cultura del Comune di Narni
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Indice
- Luca Bortolotti,
Ispirazione e traspirazione
- Daniela Tortora,
Laudatio (“O poeta è um fingidor”)
5
9
Parte Prima - Saggi
- Paolo Emilio Carapezza,
I bei colloqui
18
- Daniela Tortora,
Poesia e musica nell’opera di Mauro Bortolotti
21
- Paolo Rotili,
Gesto e narrazione nella musica per archi
58
- Francesco Rimoli,
46
Suoni nelle parole, parole nei suoni. Mauro Bortolotti e il testo in musica
- Alessandro Mastropietro,
E tu?: un (non-)teatro musicale ‘novissimo’
nel contesto romano degli anni Sessanta
- Daniela Tortora,
Intorno a John Berryman: LetturAzione
80
96
- Salvatore Enrico Failla,
113
Esoterismo di timpani e fiati per Giordano Bruno da Mauro Bortolotti
Parte Seconda - Testimonianze
- Guido Baggiani,
Mauro Bortolotti fra i margini indefiniti dei due secoli
- Mario Bertoncini,
A Mauro
- Bruno Cagli,
Per troppo amore terreno: Tornando a casa ubriaco,
Nei boulevards dove il poeta porta
126
134
135
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- Antonio Capaccio
In ascolto
136
- Patrizia Cerroni,
Bortolotti/Cerroni, due amici onesti e coraggiosi
151
- Simonetta Lux,
C'est ici que l'on prend le bateau (o: la dis-cronica)
153
- Cristina Cimagalli,
Mauro Bortolotti maestro e allievo, un’intervista
155
- Aldo Clementi
162
- Massimo Coen,
a Mauro Bortolotti
163
- Alfredo Giuliani,
Caro Mauro
167
- Daniele Lombardi,
Caro Mauro
170
- Luca Lombardi,
W i poeti! Per Mauro Bortolotti
173
- Ennio Morricone
176
- Piero Mottola,
Per Mauro Bortolotti: memoria ed esperienza
di un’opera a quattro mani incompiuta
177
- Maria Chiara Pavone,
Non solo musica: un incontro speciale
185
- Elio Pecora,
A Mauro nel suo ottantesimo anno
190
- Achille Perilli,
Ricordi lontani di un’amicizia
191
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Pagina 7
- Attilio Pierelli,
Caro amico, maestro Mauro Bortolotti
193
- Giovanni Pizzo,
195
L’amico del suono. Rappresentazione scenico-musicale
in un’ouverture, tre movimenti e un’intervista in quattro domande
- Boris Porena,
Un augurio coetaneo (quasi) a Mauro Bortolotti
204
Parte Terza - Scritti di Mauro Bortolotti (1981-2003)
Testo cantato/ Testo parlato
208
Brevi note intorno alla salute dei teatri
210
Sulla scuola sperimentale di composizione e… d’altro
214
Paesaggi intravisti
218
A proposito di ‘modernità’ non sovvenzionata…
222
Musica e poesia
224
Tributo per il maestro
228
Parte Quarta - Archivio fotografico
232
Parte Quinta - Apparati
Biografia
248
Catalogo delle opere (1953-2006)
Indice cronologico delle opere
Indice alfabetico delle opere
253
271
274
Bibliografia
Discografia
Indice dei nomi
277
281
284
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Al caro Mauro
buonissimo lettore
di poesie e altro
(per non parlare della musica)
Alfredo Giuliani, 2003
Non cambia vita la poesia
Forma di bugia che include il vero
Arte del dire sghembo innominando
Ritmo del premonire
Alfredo Giuliani, 2004
Il sacrificio della patria nostra è consumato
Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, 1798
In peggio precipitano i tempi
Giacomo Leopardi, VI Canto, Bruto minore, 1821
L’arte vera è messa in concorrenza con i sottoprodotti culturali […]
la confusione è arrivata al colmo
Roberto Rossellini a Palmiro Togliatti, 1.III.1961
L’indagine sulla evitabilità ha carattere meramente eventuale, ponendosi solo se è accertata la
prevedibilità; per escludere l’evitabilità, si richiede che l’evento risulti inevitabile in ogni momento
a partire dal momento in cui lo si può considerare prevedibile. Il rimprovero consiste, appunto,
nel non aver evitato un evento prevedibile; per cui, se l’evento prevedibile non è mai stato
evitabile, l’evento non può essere addebitato all’agente.
Estratto dalla sentenza sul disastro del Vajont del 17.XII.1969, depositata al Tribunale
dell’Aquila il 20.IV.1970
a Simonetta B., in memoriam
Roma, 29.X.2006
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Ispirazione e traspirazione
Luca Bortolotti
Romantico per indole e per predilezioni artistiche, papà, non senza una
punta di civetteria, si compiaceva spesso di citare la famosa frase attribuita
(fra gli altri) a Hindemith, vigorosamente anti-romantica, secondo la quale
il “genio” sarebbe assai più frutto di (metaforica) traspirazione che di ispirazione. In questa citazione era da cogliere da parte sua una sorta di
intenzione programmatica, un progetto poietico e didattico imperniato
sulla fede nell’applicazione metodica e nel setaccio evolutivo che ne deriva, nonché nei sicuri benefici del magistero tecnico sulla qualità artistica.
Ma nella predilezione che papà aveva per quel dictum icastico era racchiusa, assieme a un’espressione di insofferenza ai luoghi comuni, anche un
bisogno di controllo e perfino di ribellione rispetto a certi “pericolosi”
dettami della propria natura.
In effetti, la sua attività creativa (ma direi più in generale la sua personalità,
assai meno trasparente di quel che potesse apparire) è stata sempre
attraversata da una sotterranea e nutriente conflittualità tra gli atteggiamenti di fondo e le concrete prassi operative, che corrispondeva, volendo
schematizzare in una formula, a una faticosa concordanza tra l’approccio
all’arte e quello alla vita, traducendosi in una costante controversia tra
rigore e approssimazione, tra severità e disincanto, tra profondità e leggerezza, tra ordine e caos.
L’immagine più pubblica di papà insisteva, così, su una certa ostentazione di
basso profilo genuinamente auto-ironico e garbatamente smagato, come
pure su un’attitudine alla sdrammatizzazione costantemente sorretta dal
suo caratteristico sense of humor. “Non mi piace la musica mia, figuriamoci
quella degli altri”, rispose una volta, senza nessuna supponenza e sin quasi
con candore, a un collega che gli chiedeva un giudizio dopo un concerto in
cui erano state eseguite molte opere nuove. Ma al lato opposto, e più privato, di tanta rilassatezza demitizzante si situavano il rovello incessante e la
lenta macerazione, l’ardua responsabilità e persino la sofferenza della creazione, la gioia silenziosa della soluzione giusta lungamente inseguita e faticosamente raggiunta, che accompagnavano ogni nuovo cimento, dilatandone i
tempi (soprattutto nella fase progettuale e del primo sviluppo), alimentan-
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LUCA BORTOLOTTI
do l’ansia della pagina bianca e, pressoché dopo ogni prima esecuzione,
innescando un processo sovente interminabile di revisione e riscrittura.
In questa dinamica tormentata, penso che papà recasse i segni incancellabili della sua formazione di giovane provinciale che da Narni aveva deciso
di fare il musicista, proveniente da una famiglia modesta che non aveva
alcun legame con l’arte. Fu così che egli s’iscrisse nell’immediato dopoguerra al conservatorio di Santa Cecilia, forte di un bagaglio psicologico in
cui coesistevano contraddittoriamente ma propulsivamente certezze e
insicurezze, e nella convinzione di avere intrapreso un cammino che vantava i crismi della scelta moralmente giusta.
Il sentimento dell’indispensabile emancipazione dalla “provincia”, in quanto
categoria culturale che implicava a ogni livello arretratezza, sordità nei
confronti del nuovo, immutabilità degli ordini costituiti, condusse mio
padre, come tanti altri musicisti e artisti della sua generazione, a percepire
l’opzione in favore dell’avanguardia, prima ancora che come un’opportunità estetica, poetica o politica, come un imperativo etico. Egli intese e
visse l’anelito alla ricerca dell’inesplorato, la curiosità e la fiducia nei confronti del nuovo, la fede nella naturalità dei processi di cambiamento e
progresso, in quanto valori assoluti, collocati nell’ordine del trascendentale:
una sorta di aspetto distintivo del genere umano al suo grado più nobile,
oltreché qualificativo della fisiologia e del senso ultimo dell’attività artistica
nel novero dell’agire umano. Di qui - da questo sentimento di dovere
categorico, che implica una discriminante ardua, liberamente intrapresa,
solitaria e non revocabile - discendeva tutto il resto, seppure in via necessariamente subordinata.
Che ciò, secondo il punto di vista che io posso esprimere oggi, implicasse
una larga sopravvalutazione dei compiti dell’arte e delle responsabilità dell’artista e dell’intellettuale, lungo una linea di pensiero che procedeva da
La missione del dotto di Fichte alle Lettere sull’educazione estetica di Schiller
sino al modello gramsciano e all’estetica di Adorno, risulta in questa sede
di ben poco interesse. Non starò dunque a insistere su quanto vi fosse di
mitografia storicistica, in chiave sia ideologica sia filosofica, in quest’atteggiamento, che presupponeva, va da sé, una determinata visione del mondo,
dell’uomo, della storia e dell’arte. Conseguentemente, eviterò anche di
diffondermi nell’analisi del totem del progresso e della sua funzione catartica, e su come esso si sia irraggiato nella società occidentale tra il XIX e il
XX secolo, orientandone in termini decisivi gli sviluppi nella politica e nella
cultura in tutti i suoi aspetti.
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ISPIRAZIONE
E TRASPIRAZIONE
Voglio ancora esimermi qui dal delicato esercizio del giudizio intorno alle
concretizzazioni di tale impostazione generale, ossia intorno alle opere in
cui essa si è effettivamente tradotta nel corso del Novecento, per quanto
mi sembri necessario dal punto di vista critico chiedersi in modo non partigiano se e in che misura musicisti del talento di Domenico Guaccero,
Franco Evangelisti, Aldo Clementi, Egisto Macchi, Fausto Razzi, Francesco
Pennisi, Guido Baggiani, oltreché Mauro Bortolotti, per limitarsi a pochi
esempi in area romana, abbiano eventualmente sacrificato parte delle loro
potenzialità creative sull’altare dell’avanguardia. Si tratta di un discorso
complicato, che intreccia in più punti e in più modi la storia del secolo
scorso, e che di sicuro non può essere affrontato armati di pregiudizi
manichei: lo spirito dell’avanguardia ha molto dato e molto tolto, imprimendo comunque il suo sigillo inconfondibile sull’opera di autori che proprio grazie ad esso hanno saputo trovare la propria strada, nella vita non
meno che nell’arte.
Quel che è certo è che per papà, che aveva forgiato i suoi arnesi del
mestiere alla dura officina petrassiana, l’incontro con la dodecafonia e
soprattutto con Schoenberg, nell’Italia appena uscita dalle chiusure del
fascismo e dai disastri della guerra, abbia rappresentato lo scatto evolutivo
cardinale, in grado di delineare la propria traiettoria di cammino individuale. Com’è ben noto, l’altro scatto decisivo, ma essendosi già compiuta la
scelta di campo essenziale e dunque già percorsa la parte più dura del
cammino, si sarebbe verificato negli anni Sessanta nella cittadina tedesca di
Darmstadt, a contatto con coetanei di altri paesi europei che sembravano
essere più avanti di tutti e avere le idee molto più chiare sulla musica del
futuro (sebbene molti di loro non avessero mai sentito parlare di
Malipiero, Dallapiccola e Petrassi).
Sta di fatto che, metabolizzato ogni shock, al marchio di garanzia dell’avanguardia (etico, politico e da ultimo artistico) Mauro non ha mai pensato di
dovere, o potere, sottrarre la propria fiducia, soprattutto sotto il profilo
teorico, e magari - in particolare nel periodo estremo della sua parabola
creativa, la quale non ha mai conosciuto stasi né fasi di pura inerzia - razzolando un po’ diversamente da come predicava. La più parte della musica
scritta da papà negli ultimi dieci-quindici anni, in effetti, testimonia un
nuovo, e credo molto felice, interrogarsi sul rapporto con la tradizione, sui
fondamenti tecnici del comporre, sulla necessità di ritrovare la logica connessione tra le ragioni della poetica e quelle dell’espressione, di pensare lo
stile in quanto veicolo di una ricerca idiomatica e pur tuttavia accessibile
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LUCA BORTOLOTTI
intersoggettivamente. Questioni che peraltro, a ripensarci ora, mi sembra
che abbiano positivamente innervato i suoi brani migliori anche nei
momenti di maggiore sperimentalismo e adesione alle scelte estetiche
delle avanguardie post-dodecafoniche, donando loro il bene di un energia
creativa in costante movimento, di una ricerca interiore che quasi mai s’è
inchinata ai dogmi effimeri delle voghe artistiche, di quel soffio vitale che il
seme del dubbio e l’ansia della decisione sono in grado di donare alle
opere d’arte.
Ho amato molte composizioni di papà, anche di quelle più sperimentali, e
mi è sempre piaciuto vederlo chino, sino agli ultimi giorni, sui suoi mucchi
disordinati di carta da musica, a scrivere note sul pentagramma, schizzare
appunti semi-indecifrabili, congegnare soluzioni grafiche fuori dall’ordinario.
Ma nel mio sentimento privato la prima immagine di lui resterà sempre
quella in cui suona e canta al pianoforte - libero, felice, commosso l’Improvviso in La bemolle dell’op. 90 di Schubert, l’ultimo movimento della
Fantasia di Schumann, la Mazurka in do diesis minore op. 33 di Chopin e ancora la sera prima che un’emorragia cerebrale lo sottraesse alla vita l’Andante della sonata Pastorale di Ludwig van Beethoven.
Roma, 18.X.2008
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Laudatio (“O poeta è um fingidor”)
Daniela Tortora
Le suggestioni della parola hanno attraversato tutte le stagioni della vita di
Mauro Bortolotti. Parole come cristalli trasparenti che il tempo non è
riuscito a opacizzare e che intatte affiorano oggi, come ieri e l’altro ieri e
l’altro ieri ancora, grazie a una memoria prodigiosa (brutale, la definisce il
legittimo detentore). Chiunque abbia avuto occasione di intrecciare
qualche discorso con il maestro Mauro non potrà non serbarne un
ricordo particolare: le conversazioni, anche le più amene e disimpegnate,
hanno sempre incontrato le loro stazioni fatte di parole, sciorinature di
citazioni provenienti dai libri (tutti i libri dell’interminabile “biblioteca di
Babele”, direbbe Borges), dalle innumerevoli poesie, dagli infiniti versi, dalle
lettere, dai libretti per musica, finanche dalle riviste e dai quotidiani…
Parole pronunciate con attenzione, con devozione, non di rado con fare
incerto o interrogativo, quasi a scavare tra i sedimenti del tempo e forse
un tantino anche per mettere alla prova le conoscenze dell’interlocutore
di turno, e le sue biasimevoli lacune.
Era dunque un destino che ci trovassimo in questa circostanza a
intrecciare nuove collane di parole, a tentare con la parola detta (e con le
certamente innumerevoli ‘non dette’) di accostarci, sia pure con
disordinato candore fanciullesco, alle tante belle cose che il maestro
Mauro ha fatto, ha amato, ha vissuto nei suoi ottant’anni di musica. Ché
non ci si fraintenda: Bortolotti non è stato un maestro di parole
(malgrado il suo eloquio amabile rimanga tuttora estremamente
attraente), ma un maestro di musica, nel senso più autentico del termine.
Che vuol dire maestro di musica? Con fare eccessivamente disinvolto si dà
del maestro a tutti coloro che hanno conquistato diplomi e attestati nelle
nostre scuole di musica… e certamente Bortolotti i cosiddetti titoli li
possiede tutti (la sua formazione accademica, ineccepibile, rimane una
garanzia ‘petrassiana’ di antidilettantismo), tant’è che gli viene riconosciuta
una posizione di tutto rispetto negli annali della scuola di composizione
italiana (si pensi ai tanti, musicisti compositori direttori e, perché no,
musicologi, che si sono formati ai suoi insegnamenti e ne hanno tratto
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DANIELA TORTORA
uno sprone imperituro all’esercizio del proprio mestiere).1
Ci troviamo stavolta a parlare di una cosa non facile (e il rischio di
pronunciare delle ovvietà – ahimè, è sempre in agguato), che ha a che fare
con l’identità stessa del maestro Bortolotti e con il legame con l’arte che
la sua persona esibisce. L’impressione che con gli anni si è via via
tramutata in convincimento è che il maestro sia ‘fatto’ di musica, che la sua
sostanza riesca in qualche modo ad assomigliare, proprio nella sua volatile
impronunciabilità, ai numeri ai suoni agli astri che abitano la sua esperienza
quotidiana. Non è una semplice conoscenza delle cose musicali, quella cui
s’intende alludere, ma piuttosto un ‘fare’ musicale della propria esistenza; è
quel bisogno costante di richiamarsi ad altro da sé (e alla musica, nella
fattispecie) per spiegare il proprio mondo, le proprie idiosincrasie, le
proprie scelte. Non ha mai molto senso chiedere agli artisti di spiegare le
proprie opere (è esperienza comune, tra quanti si occupano di musica del
nostro tempo, che se ne cavi in genere assai poco); quel che è certo, è
che Bortolotti per dirti di sé ti dice (ti legge, ti suona e ascolta con te) i
Lieder di Schubert e di Schumann, i madrigali di Gesualdo, di Monteverdi,
la musica da camera di Mozart, Beethoven, Brahms, i preludi di Franck e le
sonate per organo di Hindemith, i concerti di Petrassi e, tra tutti, l’ottavo,
“il meraviglioso”…
Per un attento cultore della parola (quale il maestro ci appare da sempre)
non era facile trovare le parole giuste, le locuzioni azzeccate, le frasi
semplici vere non banali. Abbiamo cercato a lungo un titolo per questo
libro che potesse suggerire una qualche verità e contribuire ad accrescere
la vitalità [e la curiosità] del lettore (e qui ci soccorre il Leopardi citato
dall’amico fraterno di Mauro, Alfredo Giuliani):2 non c’è stato verso di
sottrarre i pensieri dall’insistente accostamento del musicista a
un’immagine di leggerezza, di levità, a qualcosa di aereo, di sfuggente, di
inafferrabile (I pesci di vento s’intitola, per l’appunto, una piccola
composizione degli anni Novanta nata su un verso estemporaneissimo,
1
2
Ci fa piacere ricordare i nomi di alcuni allievi di Mauro Bortolotti nei Conservatori di Frosinone (19781981) e di Roma (1981-1993): Antonio, Cristiano ed Eugenio Becherucci, Massimo Bianchini, Stefano
Bracci, Stefano Castelvecchi, Cristina Cimagalli, Enrico Cocco, Fabrizio De Rossi Re, Carlo Donadio, Patrizio
Esposito, Leonardo Gensini, Lucio Gregoretti, Alessandro Molinari, Federico Landini, Eduardo Natoli, Paolo
Pachini, Rossella Paolantoni, Franco Piperno, Giorgio Proietti, Marcello Puxeddu, Francesco Rimoli, Milica
Rogulja, Lucia Ronchetti, Paolo Rotili, Fausto Sebastiani, Alfredo Santoloci, Daniela Tortora, Andrea Totò,
Alessandro Triantafillou, Andrea Verrengia, Edoardo Volpi Kellermann, Giacomo Zumpano.
Cfr. ALFREDO GIULIANI in I novissimi. Poesie per gli anni ’60 […], Milano, Rusconi, 1961, p. XIII.
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LAUDATIO
(“O
POETA È UM FINGIDOR”)
dettato al telefono dall’amico Alfredo). Le riflessioni vagabonde di questi
mesi hanno ripercorso quasi inevitabilmente il Kundera dell’Insostenibile
leggerezza dell’essere, il romanzo di culto che negli anni Ottanta compariva
per la prima volta in traduzione italiana e conquistava così intere
generazioni di lettori, insegnando a noi tutti l’indicibile “pesantezza del
vivere”3 dell’anacronistica Tereza, di Tomás e del cane-figlio Karenin (La
leggerezza e la pesantezza è proprio il titolo del capitolo introduttivo, il
capitolo più concettuale di tutto il romanzo, con le tante citazioni da
Nietzsche, Parmenide, Gesù Cristo e perfino dal Beethoven dell’ultimo
movimento dell’ultimo quartetto, con i due motivi concepiti sulla
locuzione “Es muss sein”).Tuttavia ci ha soccorso maggiormente la
rilettura della prima delle postume Lezioni americane di Italo Calvino, la più
sorprendente e mirabile di tutte, la prima appunto, ove sono riposte cose
davvero simili all’opera del maestro: la lightness di Ovidio e di Lucrezio, ma
anche di Guido Cavalcanti, di Boccaccio e di Dante (con il felice sonetto
dedicato all’amico-maestro, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”), della
Emily Dickinson dell’”Ed io sono una rosa!”, di Shakespeare e della
polverina magica per gli amanti notturni del Sogno, di Cyrano de Bergerac,
di Kafka e dell’amatissimo Leopardi, “perché il [suo] miracolo […] è stato
di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce
lunare”.4 Ma per Calvino la leggerezza va a braccetto “con la precisione e
la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”5 e questo
invita a riflettere: la leggerezza che qui vogliamo raccontare assomiglia
veramente a quella cantata da Calvino? Al di là degli incantamenti, dei
ripensamenti, al di là delle esasperazioni del non-finito (o dell’in-definito),
dell’eterno andirivieni del tutto, si situa, crediamo, un sistema
imprescindibile nella poetica di Bortolotti, quell’esigenza precisa e
determinata proprio alla maniera di Calvino, che si traduce in una presa
diretta e costante sul reale, uno ‘stare in ascolto’ senza sosta al fine di
registrare con attenzione tutti i passi del nostro tempo e il divenire degli
abiti sociali e culturali del mondo a tutti noi circostante: grazie a questo
sofisticato apparecchio sismografico il comporre musica si fa volontà
(politica) di esserci ed esercizio costante di libertà.
La locuzione compare in ITALO CALVINO , Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano,
Garzanti, 1988, p. 9.
4
Ivi, p. 26.
5
Ivi, p. 17.
3
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DANIELA TORTORA
Alla fin fine nulla ci è parso più convincente e fascinoso per allacciare
discorsi memorie e affetti del verso “O poeta è um fingidor” di Fernando
Pessoa, che, tra l’altro, incornicia una rara composizione strumentale del
maestro rimasta sino ad oggi poco o nient’affatto eseguita: chi è “o poeta”
e se la finzione sopravanzi o meno il vero poco conta, se non nella misura
in cui con saggezza e con ironia il maestro continua a ricordarci insieme al
Falstaff verdiano che
A quali musiche e a quali musicisti viene spontaneo di accostare l’opera di
Mauro Bortolotti? Quali i suoi beniamini, i suoi idoli, le sue inclinazioni e le
sue trasgressioni musicali? Quali le impudicizie, armoniche e non, amate e
ricercate finanche nel grembo della letteratura più antica, quella
sorprendente dei primi secoli cristiani e del Rinascimento più luminoso?
Nonostante le ammirate arditezze armoniche di Schumann e di Franck, la
concettosità sensuale del contrappunto ha conquistato sin dagli anni
giovanili una posizione di assoluto privilegio nella fucina compositiva di
Bortolotti e consegnato così suggestioni antiche a tutte le sue musiche.
Libri e partiture si aprono e si leggono continuamente a casa Bortolotti; di
musiche accarezzate al pianoforte ve n’è dunque un’infinità… a noi torna
in mente Du bist die Ruh, il piccolo Lied di Schubert sospeso e assorto
nella sua semplicità senza peso, quasi fosse una lettera proveniente dagli
dei lontani e sconosciuti
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LAUDATIO
(“O
POETA È UM FINGIDOR”)
Alcuni anni or sono avevamo intrapreso il lavoro di ricostruzione della
vicenda musicale e artistica di Mauro Bortolotti, convinti come siamo della
ricchezza della sua esperienza, situata non di rado al centro degli
accadimenti della musica del nostro tempo. Le conversazioni col maestro,
dipanatesi lungo l’intero arco del 2006, hanno giovato alla ricostruzione di
un tracciato almeno in parte noto a tutti gli affezionati frequentatori del
circolo bortolottiano, e confermato il convincimento che questo artista
non abbia mancato gli appuntamenti cruciali con la storia della musica
d’avanguardia italiana del secondo Novecento (gli studi musicali
accademici e il diploma di composizione con Petrassi; i corsi estivi a
Darmstadt; l’’iniziazione’ elettronica prima a Milano, presso il Centro di
fonologia della RAI, e poi con Pietro Grossi a Firenze e a Pisa; la
fondazione di “Nuova Consonanza” con Evangelisti e gli altri musicisti del
gruppo romano e la partecipazione alle iniziative musicali nel centro Sud
dell’Italia; le riviste e l’impegno nel Sindacato Musicisti Italiani, prima e
durante gli anni del decentramento culturale e musicale; l’insegnamento
nei corsi di Nuova didattica della composizione, oggi Composizione
sperimentale, etc.). Pur sentendoci in obbligo di enumerare ancora una
volta tutte le imprese del Nostro (cfr. la sezione Apparati in calce al
volume), non possiamo fare a meno di raccontare il senso di
inadeguatezza che la nostra disciplina e i suoi strumenti di ricerca standard
hanno rivelato in questa circostanza, insinuando dubbi legittimi nei
confronti di un regime di fissazione delle cose incapace (forse) di cogliere
l’altrove ove l’anima dell’artista (e il suo segreto) abitano davvero.
La grossa mole delle opere prodotte, come scrive l’amico Salvatore Enrico
Failla, “la sua produzione è qualitativamente lodevole e quantitativamente
notevole”, attendeva da tempo un’attenta disamina. La raccolta dei
manoscritti (e delle più rare stampe), la sistemazione delle carte e degli
abbozzi relativi a ciascuna opera, la collazione di tutti i testi definitivi
(incluse le innumerevoli copie anastatiche), l’individuazione dei testi poetici
e delle rispettive fonti edite e non, la redazione dell’incerta bibliografia e
dell’inesistente a tutt’oggi discografia, ivi incluso l’elenco di tutte le
registrazioni sopravvissute: il compimento di buona parte di queste
operazioni che il libro documenta è uno dei risultati importanti che sentiamo
di aver raggiunto. La redazione, pur perfettibile, del catalogo delle opere del
maestro (1953-2006) costituisce certamente il vanto maggiore di questa
iniziativa: scorrerne le decine di titoli, sia pure velocemente, aiuta a riflettere
sulle tappe salienti nella produzione di questo artista, sul suo amore per la
voce, sempre, per la parola (si badi alla ricercata eleganza delle intitolazioni),
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DANIELA TORTORA
per gli strumenti (e per lo strumento singolo, tanti i soli di questo catalogo),
sui rimandi a distanza tra opere ed epoche differenti, sui cicli compositivi
allacciati alla lirica ora dell’uno ora dell’altro poeta, sui disegni sui circoli e sulle
ellissi che la natura ritornante, non-finita-una-volta-per-sempre, di molte
composizioni (della stragrande maggioranza delle composizioni) è in grado
di generare e continuerà a generare, sulla fatale attrazione nei confronti
dell’azione e della scena che, insinuatasi già agli inizi degli anni Settanta, finisce
col diventare soverchiante in tempi recenti (e lo confermano i progetti in fieri
sui testi degli amici Bruno Cagli ed Elio Pecora), ove albergano quelle che
altrove chiamavamo Ultime possibilità per un teatro musicale e d’arte:
…Questa umidità, l’acqua calcarea e Variazioni sul grido s’inseriscono a pieno
titolo nell’ambito dei recenti sodalizi artistici di Mauro Bortolotti – nati, come
sono, dall’interazione tra la ricerca musicale del maestro e gli esiti attuali della
pittura di Antonio Capaccio, l’uno, e gli esperimenti visuo-emozionali di Piero
Mottola, l’altro – e disegnano entrambi, sebbene con prospettive differenti, le
estreme propaggini di una ricercata utopica possibilità di relazione fra le arti.
Musica e pittura si avviano così sulla base di congegni emozionali profondi, di un
sentire complice e affine, di un vissuto artistico incerto e inquieto, a sfidare
insieme la precarietà dell’esistere all’interno dei margini della modernità e a
scandire i tempi della lettura del mondo negli spazi interstiziali di giunzione tra
le arti.
Al sistema delle relazioni emozione/colore, variamente distribuito nei circoli
disegnati da Mottola, si aggiungeva già in Astratto 2 (2002), dello stesso autore,
un analogo congegno di articolazione dei suoni-rumori divenuto poi “il
percorso emozionale di partenza” per Variazioni sul grido di Bortolotti, un
insieme già plasmato di suono-colore per un’operazione di combinazione
intertestuale tra la matrice visuo-sonora di Mottola e alcuni materiali
confezionati in precedenza dal compositore (i nastri realizzati nel corso degli
incontri-lezione con Pietro Grossi a Firenze nel ‘70, Ein feste Burg per organo
del 2002).
L’amore condiviso per la scrittura di Thomas Bernhard di Bortolotti e Capaccio
genera quel progetto di azione teatrale che ha già alle spalle un paio d’anni di
vita e cui va riferito il frammento in sé compiuto di …questa umidità, l’acqua
calcarea. Il nucleo generatore del progetto risiede in un collage di frammenti
tratti da alcune opere di Bernhard (in particolare Il loden, Ave Virgilio, L’imitatore
di voci, Ungenach), tutti legati senza alcun vincolo di necessità a quel senso/nonsenso del vivere, a quella disperata sfiducia nelle sorti di un’umanità senza
speranza che costituisce la parte più significativa e feroce della poetica del
letterato austriaco.6
6
DANIELA TORTORA Ultime possibilità per un teatro musicale e d’arte , in SIMONETTA LUX
,
DOMENICO SCUDERO Incantesimi. Scene di arte e poesia a Bomarzo. IV Edizione Castello Palazzo
Bosco. Azioni dell’Arte, in preparazione.
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LAUDATIO
(“O
POETA È UM FINGIDOR”)
Questo libro, concepito agli inizi dell’anno, vede finalmente la luce nei
dintorni del 26 novembre 2006, giorno dell’ottantesimo genetliaco di
Mauro Bortolotti. Dobbiamo un ringraziamento speciale agli amici studiosi
ai quali è stata affidata la cura della parte saggistica del volume (Paolo
Emilio Carapezza, Cristina Cimagalli, Salvatore Enrico Failla, Alessandro
Mastropietro, Francesco Rimoli e Paolo Rotili); agli artisti, poeti musicisti
pittori, che hanno accompagnato da vicino le tante imprese musicali e non
di Bortolotti e che qui hanno voluto, in molti casi d’intesa col maestro,
darne testimonianza con progetti già realizzati o in fieri (Guido Baggiani,
Mario Bertoncini, Bruno Cagli, Antonio Capaccio, Patrizia Cerroni, Aldo
Clementi, Massimo Coen, Alfredo Giuliani, Daniele Lombardi, Luca
Lombardi, Ennio Morricone, Piero Mottola, Maria Chiara Pavone, Elio
Pecora, Achille Perilli, Attilio Pierelli, Giovanni Pizzo, Boris Porena); alla
insostituibile Francesca Romana Bongarzoni, giovane laureanda
affezionatasi in questi mesi alle cose del maestro e curatrice, almeno in
parte, del riordino del suo archivio privato; a Massimiliano Acerra e
Lorena Canulli, curatori del progetto grafico del volume; a tutto lo staff
del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea (la direttrice Simonetta
Lux, il curatore Domenico Scudero, le studentesse che hanno svolto il
loro tirocinio presso l’Archivio storico della musica contemporanea), ove il
progetto di ricerca ha preso forma, incontrando favore e sostegno lungo
l’intero periodo di lavorazione. Questo libro, che nasce in forma di musica
reservata per Mauro Bortolotti, è dedicato anche a tutti coloro che sanno
e che gli sono stati vicini.
26.VIII.2006
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PARTE PRIMA
Saggi
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I bei colloqui
Paolo Emilio Carapezza
Un saggio ampio e illuminante di Daniela Tortora su Mauro Bortolotti ha
per epigrafe poche righe di Paul Éluard, poeta da lui prediletto, che si
concludono con queste parole: “la poesia è il linguaggio che canta”.1
Non c’è miglior definizione della musica di Bortolotti. Logica è infatti
la sua costituzione: discorsiva, linguistica; note e accordi invece che fonemi
(o assieme ad essi), ma sempre linguistica la loro concatenazione, la
grammatica e la sintassi: dai suoi esordi, più di cinquant’anni fa, fino ad oggi.
E se minor successo sin’oggi ha avuto, rispetto ai compositori romani suoi
contemporanei, non è certo per minor valore, ma proprio per questa
costituzione logica, netta, profonda e costante, della sua musica.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, negli anni ruggenti della neoavanguardia,
la costituzione logica della musica era infatti tabù: si stravedeva per
Webern, perché lo si straudiva, riducendolo a mera costruzione,
scambiando il mezzo per il fine, e dimenticando di cogliere “un romanzo in
un sospiro”; non ci si accorgeva che per lui “la costruzione nello spazio
sonoro, così rigorosa e perfetta, non è che il mezzo per la sublimazione del
logos, verbo e parola musicale”.2 Quella dei compositori trentenni era allora
a Roma una costellazione di fulgide stelle: ma Evangelisti e Clementi, che
tendevano alla costruzione weberniana ed alla spazialità materica varesiana,
hanno sempre privilegiato il rapporto della musica con la pittura; Guàccero,
mercuriale argento vivo, sfuggiva ad ogni schema; Macchi cercava la
teatralità immediata. La musica di Pennisi è sempre stata anfibia tra poesia e
pittura. Solo Bortolotti ha sempre privilegiato nella sua musica il rapporto
con la poesia: aperto alla sperimentazione, tendeva tuttavia sin da allora alla
pura vocalità, naturalis (della voce umana) e artificiata (delle voci
strumentali), ma senza mai eccessi di gestualità corporea, come invece in
Bussotti. Per questo io stesso ho trascurato Bortolotti, come – fino agli anni
Settanta – fraintendevo Webern. Ma oggi ne faccio ammenda.
Cfr. DANIELA TORTORA, Poesia e musica nell’opera di Mauro Bortolotti,“Avanguardia”,VII, 2002, n. 19, pp. 5174, qui trascritto alle pp. 21-45.
2
PAOLO EMILIO C ARAPEZZA, Macrocosmo – Micrologo, in Comporre arcano: Webern e Varèse poli della musica moderna, a cura di Antonino Fiorenza, Palermo, Sellerio, 1985, pp. 20-33: 26.
1
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I BEI COLLOQUI
Coerente con la costituzione della sua musica, predilige quindi la voce
umana: e nessuno meglio di lui ha fatto tesoro di quella, meravigliosa e
versatile, di Michiko Hirayama (a parte Scelsi, ma per differenti ragioni). E
tra gli strumenti, d’altro canto, predilige quelli ad arco, quasi parlanti, i più
simili alle voci umane; viceversa Evangelisti e Clementi, come Varèse, per le
loro costruzioni o ‘corporificazioni’ sonore preferiscono fiati e percussioni.
Se in Contre 2 (1965) i cinque strumenti (clarinetto, trombone, pianoforte,
violino e violbasso) cercano, come sempre in Bortolotti, di parlare, la voce
di Michiko gioca e s’adegua ad essi con vocalizzi: trascende così il
vocabolario, per ridursi alla sua essenza vocale e logica, ma non rinuncia
del tutto a rare determinazioni di parole, che ravvivano scintillanti il gioco
e riattizzano sempre più l’interesse di chi ascolta. In Transparencias (1968)
gli archi parlanti traspaiono attraverso il clavicembalo dalle ali di farfalla. Il
melos, contrappuntistico ma più spesso monodico, è il parametro sonoro
privilegiato, più ancora che il timbro, in Bortolotti, che concilia gran forza
espressiva con la massima delicatezza.
Nella sua musica il moto ritmico non è mai fine, ma sempre tende, come
a suoi scopi, all’espressione ed alla rappresentazione. Se dapprima i tabù
della neoavanguardia darmstadtiana inibivano il pieno dispiegamento delle
sue facoltà musicali discorsive, quando quelli cadono sempre meglio la sua
musica tende poi a parlare, a cantare: si veda come ormai nel Recitativo
obbligato (1986) il clarinetto conversi dialogante con i cinque archi,
gridando, piangendo, litigando, ridendo con loro, e correndo talvolta a
nascondersi quasi per meditare. Ma apodittica di questa liberazione è la
tensione stilistica musicale interna al ciclo delle 4 poesie di Paul Éluard, per
soprano e sei strumenti [ma due nella versione originaria]; le prime due
(Sur les pentes inferieures e il frammento da Nous sommes) furono
intonate da Bortolotti nell’aprile del 1959, la terza (il frammento da
Egolios) nel 1970 e la quarta (En Chili) nel 1978: da un lato il timido
puntillismo dodecafonico sulla prima coppia, dall’altro il disinvolto ricamo
del trasognato aggirarsi della voce d’usignuolo, mentre “gli strumenti […]
aspirano a farsi parola”, sui versi d’Egolios, e “la scrittura, e vocale e
strumentale, […] ormai disinibita e disinvoltamente accidentata ed
omogenea”, con “grande libertà e varietà di movenze” su En Chili.3
Nel “Cher nocturne” degli Appunti per un trio (1972) sull’alternanza, ora di
gelidi cristalli ora di morbidi velluti, del pianoforte, fluiscono le voci di
3
TORTORA, Poesia e musica nell’opera di Mauro Bortolotti cit., pp. 62-63.
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PAOLO EMILIO CARAPEZZA
clarinetto e violoncello, dapprima lunghe e calde, poi tremolanti e fievoli e
flebili e sospiranti, infine di nuovo lunghe e cantanti. Quanto mai delicata e
suggestiva è la descrizione delle Foglie (1980) d’un meraviglioso albero
sonoro: tra i rami frondosi della chitarra, del pianoforte e delle
percussioni, il flauto rende accenti umani. Nella Fanfara–Scherzo e Ricercare
(1989) il dialogo tra violoncello e pianoforte è ora serrato e appassionato,
ora languido e malinconico, ora deciso e ben articolato, ora carezzevole e
danzante; poi cessa e timido riprende, ma subito acquista coraggio e
concitate s’alzano le voci; infine domande e risposte, e delizioso
corteggiarsi.
Ma vorrei infine aggirarmi tra i cinguettíi di flauto, clarinetto, pianoforte,
violino e violoncello e per sempre rimanere Ai margini frastagliati (1993)
del giardino delle delizie di Mauro Bortolotti.
Palermo, 8 Settembre 2006
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Poesia e musica nell’opera di Mauro Bortolotti*
Daniela Tortora
Se richiedessi a dieci persone prese a caso per la via chi sia
un poeta, esse risponderebbero: “È un tale che fa dei versi”.
Non ne ho fatta l’esperienza, ma ne sono certo. Mentre in
Grecia, per esempio, sono stato presentato come poeta a
dei contadini analfabeti e costoro rispondevano: “Ah, sì, un
cantore!” Perché, fin dai tempi più remoti, la poesia è il
linguaggio che canta...
Paul Éluard
Mi è parso utile in questa circostanza partire da una prima (sia pure
parziale, provvisoria) sistemazione del catalogo delle composizioni del
musicista,1 allo scopo di avviare una riflessione non effimera sulle scelte e
sugli indirizzi perseguiti nel corso degli oltre cinquant’anni di attività dal
compositore umbro (Mauro Bortolotti è nato a Narni nel 1926, ma vive e
lavora a Roma sin dagli anni Cinquanta). Nel convincimento ultimo che, a
dispetto delle innumerevoli occasioni concertistiche e delle non poche
(ma spesso tardive) edizioni a stampa e discografiche delle sue musiche,
sfugga ai più la vastità della sua produzione e stenti ancora oggi ad
ottenere il doveroso riconoscimento storico ed artistico la stragrande
maggioranza delle sue opere.
La successione dei lavori (oltre un centinaio di titoli) segue una cadenza
regolare, si dipana nel tempo senza soste o lunghi intervalli, dando vita
così ad un continuum di esperienze non di rado ripercorse a distanza di
alcuni anni, segnato da periodici ritorni, da richiami al passato, al già fatto
* Questo scritto nasce alcuni anni or sono in forma di omaggio per Mauro Bortolotti, mio maestro di
composizione presso il Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, ed è dedicato ai suoi settant’ anni
festeggiati nel novembre del ‘96. Molte cose sono accadute nel frattempo, in primis la nascita dei miei
ultimi figli Stella Ivos e Maria, tant’è che con mio grande rammarico ho dovuto rinviare la stesura
definitiva del saggio a suo tempo annunciato. L’omaggio e l’affetto sono quelli di allora. E l’attesa prolungata spero proprio che abbia giovato alla elaborazione delle idee, più di quanto non abbia tolto in
freschezza e in sorpresa alla messa a punto dei contenuti. Lo scritto compare in “Avanguardia”,VII,
2002, n. 19, pp. 51-74.
1
Cfr. il catalogo delle opere del compositore - con l’indicazione dei titoli, degli organici, dei dedicatari,
delle case editrici (per i lavori pubblicati), dei luoghi, delle date e degli interpreti delle prime esecuzioni – nella sezione Apparati, alle pp. 253-270.
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DANIELA TORTORA
(un dato ricorrente nella produzione del musicista è la ripresa in vesti
nuove di composizioni precedenti, in genere per circostanze o
commissioni particolari, ma sempre - io credo - per ragioni legate alla
natura dei brani stessi quali veri e propri oggetti di affezione).2 Vanno
segnalate senz’altro la varietà e la ricchezza degli organici di volta in volta
impiegati dal musicista: alla pervadente dimensione cameristica
corrisponde una singolare mutevolezza delle soluzioni timbriche
sperimentate, sia strumentali sia vocali, con i diletti archi non di rado
sostenuti dal pianoforte e dai fiati (il flauto, i clarinetti, gli ottoni, il sax); più
rare appaiono le composizioni per strumento solo (ancora il pianoforte, il
flauto, l’oboe, la chitarra, le percussioni); raccolte infine ai margini del
catalogo le composizioni per grande orchestra (si vedano le opere degli
anni 1955-1961 e le più recenti Sinfonia “Est animum” della metà degli
anni Ottanta e, del decennio successivo, Grandes misterios habitam (1992)
e la revisione del Contre 2 (Contre encore...,1994) degli anni Sessanta).
Si intravedono in tal modo i sentieri lungo i quali si è snodata l’esperienza
compositiva del maestro e, poco più in là, alcune costanti all’interno di un
percorso di ricerca delineatosi in sintonia con la sua formazione musicale,
consolidatasi nel corso del lungo apprendistato presso il Conservatorio di
Santa Cecilia,3 e con la sua visione impegnata del vivere, della cultura e
dell’arte quale risultante di un’educazione al sociale cresciuta in famiglia e
nutritasi poi alla ‘scuola’ del “Politecnico” di Elio Vittorini.Vale la pena di
insistere sui tratti, per cosi dire, genetici della produzione di Bortolotti, per
quanto noti, arcinoti essi siano nella cerchia degli amici e degli estimatori
della sua musica, perché ad essi ed alla loro particolare combinazione va
riferita una certa anomalia o alterità di fisionomia del compositore nel
paesaggio circostante, ove l’attaccamento alla storia, il culto delle proprie
radici musicali e culturali si coniugano non di rado con un gesto di
Nel corso di alcune conversazioni col maestro ci siamo intrattenuti sul significato di queste rielaborazioni per cercare di coglierne il senso e insieme per fissarne una qualche possibile classificazione terminologica (trascrizioni, nuove versioni, revisioni). In un buon numero di casi si tratta di passaggi
importanti, legami tessuti sul filo della memoria ed elaborati mediante processi compositivi di tipo
espansivo (molto spesso gli organici si ampliano, le durate si dilatano), punti di richiamo all’interno di
un percorso segnato dall’ “insopprimibile ricerca di una verità interiore” e in ultima analisi da quella
“precipua concezione ‘affettiva’ del senso musicale” che cosi bene ha descritto Paolo Rotili nelle sue
note al concerto monografico barese dedicato alla musica di Bortolotti nel ‘96 (PAOLO ROTILI, s. t., in
programma di sala del concerto dell’ associazione musicale “Il Coretto”, Bari, Aula Magna dell’ Ateneo,
15 aprile 1996).
3
Cfr. la Biografia, pp. 248-252.
2
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POESIA E MUSICA NELL’OPERA DI MAURO BORTOLOTTI
graffiante provocazione e di eversivo stravolgimento del reale. L’accumulo
di esperienze formative ed informative negli anni dell’immediato
dopoguerra sino alla fine degli anni Sessanta, e ancora oltre, è stato cosi
commentato dal musicista:
Nella mia musica sono presenti, con ugual forza, due componenti non sempre
separate e separabili: l’una di ricerca, che nasce dall’esigenza di essere
pienamente nell’ oggi, nei problemi del nostro tempo; l’altra di impegno sociale
e politico, che è totale, ma rifiuta di essere didascalica e ‘a programma’ (e questa
scelta sento di doverla, in parte, al peso che ebbe su di me Elio Vittorini ed “il
Politecnico” negli anni della mia formazione culturale). Per quel che riguarda il
momento della ricerca all’interno del linguaggio musicale, ci fu la scelta, in
conservatorio, di seguire il corso di composizione di Goffredo Petrassi. Una
scelta che, in quegli anni di lenta ripresa della vita culturale (si era nel lontano
1954), dopo il vuoto della guerra, fu decisiva e volle significare necessità di
informazione, bisogno di confronto con quanto era accaduto ed andava
rapidamente accadendo in Europa. Da questo avvio ed, in particolare, dalla
conoscenza della Dodecafonia, dei capolavori della scuola viennese, e delle
ragioni storiche che ne avevano determinato la nascita, presero l’avvio le mie
prime esperienze di compositore. Sarà poi importante l’esperienza di rottura
dei Ferienkurse di Darmstadt per un più radicale e cosciente processo di
rinnovamento: che allora cominciò a significare anche superamento della
dodecafonia e una nuova sperimentazione sul suono, il cui fatto più evidente
(anche se non il più importante), dopo il grafismo, la gestualità, l’alea, ecc., fu
l’avvicinamento all’elettronica e, più tardi, alla computer music. Posso dire che
tutte queste esperienze furono da me assorbite e vissute in modo autonomo e
dialettico; se vogliamo come ulteriore e necessario ampliamento di un
vocabolario da usare laddove se ne intravedesse il bisogno, senza considerarle
acquisizioni rassicuranti e defInitive. Ciò perché in me era ed è presente se non
una carica di sospetto (sfiducia), certo una sorta di distacco verso tutto ciò che
tende ad imporsi (ad essere imposto?) come più valido ed attuale di..., come
moda, o che tenda ad ideologizzarsi. Attrazione e rifiuto, entusiasmo e dubbio,
timore per la (facile) soluzione, innovativa o passatista, che non venga da un
maturato convincimento.4
Tra le relazioni elettive che il catalogo esibisce in ogni sua parte - forse la
relazione elettiva - si situa quella tra poesia e musica, tra testo verbale,
letterario, poetico [e non] e la ricerca/invenzione musicale. È un dato
segnalato più volte dall’autore ed affiorante già ad un semplice riscontro
quantitativo: oltre un terzo della musica di Bortolotti è musica vocale,
4
MAURO BORTOLOTTI, in programma di sala della Stagione di “Nuova Consonanza”, Roma-Viterbo
1981.
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musica pensata per la voce, con la voce e nella stragrande maggioranza
dei casi concepita su testo poetico (ma va detto che la parola poetica,
nelle sue molteplici suggestioni, informa di sé anche molte partiture
strumentali del musicista). Un’affezione lontana lega nel corso del tempo
Bortolotti alla poesia e lo spinge a nutrirsi con accanimento dei tanti
nomi della cultura letteraria internazionale, recuperati già in età giovanile
mediante l’acquisto sistematico di riviste, libri e libriccini, alle volte pregiate
e ormai introvabili edizioni, altre volte traduzioni più o meno affidabili,
sprovviste delle cure filologiche prestate dai moderni traduttori. Ma
nutrimento comunque, scuola di vita e di espressione e alla fin fine
costante, ancestrale, mai smarrito punto di riferimento. Bortolotti ha
scritto poche cose su di sé, sul senso del suo mestiere e sulle sue
composizioni, ma su questo aspetto della sua produzione si è intrattenuto
più volte, donandoci così una bellissima testimonianza e insieme una
preziosa chiave interpretativa della sua opera vocale:
Sin dagli anni del Conservatorio, ma anche molto prima (brevi ma dimenticate
liriche di Wright, Sinisgalli o Whitman), la scelta del testo da musicare minuziosa, rileggendo decine di poesie, felice di approfondire contatti con poeti
che già in partenza mi interessavano - costituiva motivo di scavo
puntiglioso...dovevo assolutamente capire lo spirito del testo, penetrare
all’interno del clima espressivo che la poesia riusciva a creare per poi partire
verso soluzioni che nel corso degli anni sono state le più varie [...].5
E ancora, solo un paio d’anni più tardi:
[...] Che cosa è infatti il mio attaccamento di sempre alla poesia (per es. Eliot,
Scotellaro, Éluard, Cummings e, successivamente, Giuliani, Marziale, Berryman,
Sanguineti...), se non un modo di superare processi linguistici altrimenti
congelati? Il contatto con un testo mi libera invitandomi a cercare, a centrare il
nucleo espressivo, il punto di massima tensione della poesia o di un verso, o di
un frammento... e in questo rapporto si realizza la ‘distrazione’ e il distacco da
vincoli, da pre-condizionamenti sia di mestiere sia interni alla cultura musicale
(che si va ‘ritrovando’ e ‘riassumendo’ nell’esercizio di questo ‘sistema di
libertà’).6
MAURO BORTOLOTTI, Testo cantato/Testo parlato..., in Poesia in pubblico/ Parole per musica. Atti degli
Incontri Internazionali di Poesia 1979-1980, a cura di Massimo Bacigalupo e Carola De Mari, Genova,
Liguria Libri, 1981, pp. 162- 163:162, qui trascritto alle pp. 208-209.
6
ID., in programma di sala della stagione di “Nuova Consonanza” cit.
5
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POESIA E MUSICA NELL’OPERA DI MAURO BORTOLOTTI
È dunque la poesia l’elemento cardine dell’agire compositivo, l’elemento
altro in grado di dare un fondamento di autenticità al proprio mestiere, al
proprio linguaggio ben codificato, affrancandolo dai vincoli e dalla sclerosi
della costruzione musicale; è dunque la poesia espressione di una tensione
tutta interiore e al tempo stesso veicolo di comunicazione col reale: se è
vero che “il mondo scappa da tutte le parti e volerlo fissare in una qualche
forma dà perlopiù risultati meschini”, la poesia, essa sola, riesce alle volte a
partecipare quel “disagio” e quella “confusione che si sono insinuati fra i
criteri di lettura del mondo”7 e così a sottrarre certezze, a mettere in crisi i
linguaggi, in ultima analisi a ridare senso ai singoli tentativi di scrittura
musicale. La misura di questo esercizio, il significato di questa liberazione
variano da esperienza a esperienza e riguardano in maniera altrettanto
consistente i lavori di taglio squisitamente teatrale o allusivamente teatrale
(ma non esiste forse una dimensione/suggestione teatrale in ogni gesto
poetico-musicale, laddove voce e parola s’identificano con un soggetto, sia
pure fittizio, che parla, che declama, che canta?).
La frequentazione assidua di alcuni poeti rientra, per certi versi, nella
riflessione precedente sulle costanti e sui temi ritornanti nell’opera di
Bortolotti.Tra questi Paul Éluard occupa certamente un posto speciale, sia
perché più volte accostato (dal giovanile poemetto sui versi de La dernière
nuit ai due Lieder per coro misto e orchestra degli anni Sessanta),8 sia
perché - soprattutto perché - con le 4 Poesie di Paul Éluard, quattro liriche
per voce, clarinetto e violoncello, si assiste al trascorrere di alcune tappe
cruciali nell’itinerario artistico del musicista, distribuite peraltro in un arco
temporale assai vasto (1959-1978): dalla entusiastica adesione alla lezione
dodecafonica degli anni successivi al diploma in composizione, sino alle più
recenti sperimentazioni fonico-timbriche su voci e strumenti alla ricerca di
nuove intese e di nuovi equilibri.
L’incontro con Éluard è di natura essenzialmente politica e l’identificazione
avviene su un terreno elettivamente politico. A Éluard Bortolotti arriva per
via diretta (è del ‘58 l’acquisto datato di un importante volume antologico
curato da Franco Fortini con le liriche in lingua originale a fronte delle
traduzioni in italiano), ma anche attraverso la lettura sistematica dei
7
8
Alfredo Giuliani cit. in ID., Testo cantato/ Testo parlato... cit., p. 162.
Non è stato possibile rintracciare il manoscritto della Dernière nuit, lavoro concepito sui versi dell’omonimo poemetto eluardiano pubblicato in traduzione italiana, a suo tempo, sulle pagine
dell’”Avanti!”; i due Lieder, rispettivamente C’est l’arbre de la liberté (dedicato a Petrassi) e Toute sa vie
non sono mai stati eseguiti.
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fascicoli del “Politecnico”, ove poesia arte e cultura italiana e internazionale
circolano e si diffondono agganciate in maniera speciale alla discussione sui
temi del giorno inerenti al reale, al sociale. È infatti del ‘46 un’intervista a
Éluard, curata da Fortini, ove in successione serrata vengono enunciati i
fondamenti della sua visione poetica del mondo. L’esordio, tutt’altro che
cauto, è da subito centrato sulle possibili letture della sua poesia: tocca
così al poeta suggerire, sull’ onda di quanto alcuni critici hanno più volte
sostenuto, una relazione “immediata e diretta” con i suoi versi poiché “la
poesia non è sacra”. Seguono altre affermazioni, altrettanto categoriche e
tutte appartenenti ad una medesima costellazione concettuale, percorsa
quasi in forma di decalogo nel corso dell’intervista di Fortini: “la poesia
non è eterna”, dal momento che essa non avrà più ragione d’essere
quando “la capacità poetica di ogni uomo sarà liberata”; “ogni vera poesia
resiste all’indagine”, vale a dire che permane un fondo oscuro e
impenetrabile dei versi a dispetto della già citata immediatezza e di ogni
acribia filologica; se è vero che “è la sensibilità che forma il sentimento,
l’intelligenza e la ragione”, se è vero, come confessa Éluard, che “la poesia
è fatta con il [mio] sonno, con i [miei] risvegli, con la [mia] stanchezza [...]”,
si può intendere che “la scoperta continua della realtà è il compito
rivoluzionario della poesia”; “la poesia è azione” e questo potenziale
“valore rivoluzionario” sta tutto nella capacità del poeta di resistere alle
circostanze negative del vivere, di fare opposizione, di essere contro:
La poesia non è una specie di ritmo sacro; essa deve ad ogni costo diventare
comune, banale. Le più grandi meraviglie poetiche potrebbero entrare a far
parte del linguaggio comune, perché la trasformazione del mondo non può
venire che da uno sviluppo della immaginazione dei più. L’immaginazione
modifica il mondo. Ma lo sviluppo di quella è legato alla trasformazione sociale.9
Su questi concetti si fonda in maniera attenta e circostanziata l’indagine
attorno alla poesia di Éluard condotta da Fortini nell’introduzione al volume
di poesie pubblicato in Italia nel ‘55: Éluard - egli ribadisce - è il poeta della
resistenza, “esponente della poesia della pienezza vitale”, della poesia come
“strumento di conoscenza” e patrimonio comune a tutti gli uomini (“la
poesia è rivoluzionaria: la necessità storica e il meraviglioso della fantasia
sono per essa una sola e medesima cosa”).10 Pur seguendo un percorso
9
10
FRANCO FORTINI, Éluard - la poesia non è sacra, “Il Politecnico”, I, maggio 1946, n. 29, p. 38.
ID., Introduzione, in PAUL ÉLUARD, Poesie con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica,Torino, Einaudi, 1955,
pp.17-63:19 e passim.
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individuale fatto di personali inclinazioni ed autonome acquisizioni (con
Marcel Duchamp, “i movimenti iniziano con una formazione di gruppo e
finiscono con la disseminazione delle personalità”),11 l’esperienza poetica di
Éluard ha la sua matrice storica e concettuale nel surrealismo (quel “vero
realismo”, cui faceva riferimento il poeta stesso nell’intervista poc’anzi citata),
riconoscibile già sul finire degli anni Dieci del Novecento in “un vasto
repertorio di attività e di motivi […], punto d’arrivo d’una cultura
avanguardistica”, divenuta “una specie di tradizione antitradizionalista
attraverso una collettivizzazione delle idee”.12 Quello che mi preme
sottolineare in questa circostanza e che costituisce il nucleo solido, mai
negato, dell’adesione di Éluard al surrealismo, è il vincolo necessario l’auspicio indispensabile, aggiunge Ivos Margoni nella sua esegesi bretoniana che lega il pensiero surrealista alla rivoluzione sociale e culturale e che
dovrebbe mettere in guardia dall’allineare il surrealismo ai tanti movimenti
artistici del primo Novecento (con Maurice Blanchot, “il surrealismo non fu
né un sistema, né una scuola, né un movimento artistico e letterario, ma una
pura pratica d’esistenza, una pratica d’insieme che recava il suo proprio
sapere, [...] un sapere che era innanzitutto un contro-sapere, la negazione di
una cultura di classe, anche letteraria”).13
L’adesione al mondo lirico di Éluard, a quel suo ‘sentire politico’ che ha la
matrice nell’indissolubile legame esistente tra pensiero surrealista e
rivoluzione sociale, ha informato di sé l’intera poetica giovanile di
Bortolotti (ma la valenza di tale assunto è sicuramente di segno più vasto
ed appartiene più in generale a tutta la allora nascente - il riferimento è
agli anni Cinquanta - cultura [musicale] d’avanguardia in Italia).Tuttavia essa
non è solo un dato di superficie, un riconoscersi immediato e istintivo quasi il ritrovamento delle proprie vere radici culturali: il fondamento
utopico del surrealismo, largamente condiviso, risiede nel progetto che
affida all’arte il compito tutt’altro che lieve di farsi pensiero e, una volta
dismessi gli abiti formali giudicati permanenti, di offrire una visione del
mondo in grado di determinare una radicale trasformazione sociale e
culturale della realtà. Ma c’è dell’altro. Al di là della temperie
avanguardistica “i surrealisti hanno sperimentato con accanimento un
Cit. in IVOS MARGONI, Introduzione a un’ antologia delle Opere di André Breton, in André Breton e il surrealismo, a cura di Ivos Margoni, Milano, Mondadori, 1976, pp. 1-120: 4.
12
Ivi, pp. 3, 4.
13
MAURICE BLANCHOT, L’écriture automatique, l’ inspiration, “Nouvelle Revue française”, marzo 1953, cit. in
MARGONI, Introduzione cit., p.6.
11
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esercizio che non si astennero mai dal denominare ‘poetico’” mediante
un’operazione “di ripensamento dei caratteri e delle funzioni dell’estetica”
ed un profondo sconvolgimento semantico del termine stesso poesia;14 in
altre parole, non è possibile cogliere sino in fondo il senso della
rivoluzione surrealista senza riconoscere il legame che congiunge il
linguaggio poetico con la messa in discussione dell’operazione stessa della
lettura della poesia: dal momento che “non tende né alla forma né
all’opera ma a un ‘aldilà della letteratura e dell’arte’ e poiché la poesia è
definita come ‘una potenza emancipatrice e annunciatrice’”,15 un poema
surrealista non è poesia nel senso comune e condiviso del termine (come
afferma Julien Gracq, per i surrealisti “la poesia non è infatti creazione,
bensì disvelamento, rottura d’una crosta d’opacità”).16
Le questioni poste in discussione, rapprese attorno al nodo del
rinnovamento dell’esercizio poetico e filtrate attraverso la preziosa ‘scuola’
del “Politecnico”, furono determinanti nell’indirizzare Bortolotti verso le
poetiche surrealiste e, nella fattispecie, verso la poesia di Éluard. Innanzitutto
ai fini della definizione di quella identità dell’artista, e del mestiere del
musicista, cui Bortolotti ha da sempre allineato la propria condotta: intendo
dire che la posizione del maestro non mi è parsa mai rinunciataria - egli non
ha mai volutamente declinato le proprie responsabilità di compositore -;
ostinatamente si è riconosciuta e offerta come tale, ponendo di volta in
volta problemi di linguaggio e di scrittura in una forma interrogativa, certo,
disincantata, non di rado lacerata, ma mai negandosi la possibilità di esistere
e di sfiorare il senso ultimo delle cose. L’incontro con la poesia, la sistematica
ricerca di un contatto con il mondo extra-sonoro, con l’extra-musicale ha
finito per ancorare la musica di Bortolotti al reale; ha contribuito a caricarne
il profilo di quella particolare umanità del comporre cui forse la sola
sostanza musicale, così volatile e caduca, non le avrebbe concesso di
pervenire; infine, le ha dato il conforto di sentirsi parte di un progetto più
vasto ed ambizioso, risultante dalla sommatoria dei tanti, pure infinitesimi,
gesti dotati della medesima carica eversiva. La mia indagine sulle 4 Poesie di
Paul Éluard parte dunque da questo assunto, dalla tensione che
precocemente la produzione compositiva di Bortolotti esibisce verso l’altro
da sé, verso le suggestioni e le implicazioni molteplici della poesia surreaIista
14
15
16
Ivi, p. 6.
Ivi, pp. 6-7.
JULIEN GRACQ, André Breton, quelques aspects de l’écrivain, Paris, Corti, 1948, cit. in MARGONI,
Introduzione cit., p. 7.
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di Éluard, a sua volta altro da sé per scelta ideologica, cosicché da questa
equazione di ‘alterità’ (poesia e musica come disvelamento di un aldilà
rispetto alla letteratura e all’arte) nasce il senso di una lettura diversa, la
necessità di rivedere le modalità di accostamento e di fruizione della poesia
come gesto non convenzionale e rivoluzionario.
Una piccola riflessione merita innanzitutto l’intitolazione di queste quattro
liriche: la partitura a stampa recita 4 Poesie di Paul Éluard e afferma così
una relazione diretta e immediata, direi sostanziale, con la materia poetica
originaria al punto da catturare all’interno del titolo dell’opera non gli
incipit delle liriche scelte (questi compaiono, poco oltre, nella ripartizione
interna dei singoli brani, rispettivamente Sur les pentes inférieures, da “Nous
Sommes” (frammento), da “Egolios”(frammenti), En Chili), bensì il nome
stesso del poeta, pronunciando così senza alcuna reticenza una vera e
propria dichiarazione di appartenenza. Le prime due liriche sono
entrambe dell’aprile 1959 ed appaiono realmente gemelle o, per meglio
dire, complementari l’una dell’altra.17 Il carattere di effettiva omogeneità
stilistica risiede non soltanto nell’impianto cameristico (la voce
accompagnata dal clarinetto e dal cello) e nel codice seriale impiegato, ma
anche nell’estrema chiarezza e rarefazione del disegno complessivo (vi si
intravede ancora una tappa nel ricco capitolo della ricezione weberniana
nel secondo dopoguerra).18
Es. 1
17
Le due composizioni furono eseguite nel maggio del ‘59, presso l’American Academy of Rome, nel
corso di un concerto organizzato in collaborazione con la sezione italiana della SIMC (Società
Internazionale per la Musica Contemporanea).
18
Cfr. GIANMARIO BORIO, L’immagine “seriale” di Webern, in L’esperienza musicale. Teoria e storia della ricezione, a cura di Gianmario Borio e Michela Garda,Torino, EDT, 1989, pp.185-203.
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Mauro Bortolotti, Sur les pentes inférieures, p.1
C’è un’intenzione di tipo figurale nella disposizione dei segni, nella
distribuzione degli aggregati e nel dosaggio delle simmetrie, che tenta in
sostanza di dare trasparenza alla pagina scritta, di non soffocare le singole
frasi circolanti liberamente tra gli strumenti e la voce, di non ispessire il
tessuto sonoro della composizione quanto piuttosto di diradarlo per lasciarlo
risuonare e svanire congiuntamente all’analoga dissoluzione del suono, ora
nel disfacimento in pianissimo (con le tre ppp) dell’una, ora nel sostenuto
“crescendo molto” dell’altra. L’intenzione a me pare sostanzialmente la stessa:
una volta centrato il nucleo concettuale del poema, se ne affida l’intonazione
ad un andamento musicale essenziale e lineare, volutamente in disparte e
frammentario, sprovvisto di alcunché di tematico, salvo le ricorrenze della
serie ed una certa insistenza su talune soluzioni ritmiche (la figura puntata, i
gruppi irregolari di tre e cinque suoni, l’andamento in levare delle singole
frasi). La condotta contrappuntistica, la disposizione squisitamente orizzontale
delle parti allineano il trattamento degli strumenti alla scrittura vocale (non
v’è traccia di alcun modulo di accompagnamento, semmai talvolta si nota la
semplice punteggiatura della linea vocale); d’altro canto, il profilo della
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melodia - il riferimento è alla parte vocale - pare risuonare negli interventi
liminari degli strumenti, incontrarvi nient’altro che un luogo di risonanza, e
così eludere sistematicamente qualsiasi contrapposizione. Il trattamento
sillabico della voce è un altro elemento di continuità tra le due liriche: nel Sur
les pentes inférieures si assiste ad una caduta verso il basso (come
interpretare altrimenti il continuo scivolare dall’acuto al grave che accomuna
l’intervallistica adottata dalla voce a quella degli strumenti, mentre le rare
figure ascendenti appaiono come soluzioni un po’ di maniera destinate a dare
maggiore slancio alla caduta?), cosicché la tinta pervadente l’intera
composizione è scura e cupa, appena lacerata da qualche fugace bagliore
nella regione acuta; la solerte animazione che spicca nel frammento da “Nous
sommes” (si vedano l’indicazione agogica “Quasi vivo”, accompagnata da
quella metronomica della croma a 108, la distribuzione dei crescendo e
l’incedere frequente del “forte” e del “fortissimo”) si manifesta perlopiù
all’interno dell’ambito prescelto sin dall’inizio della composizione, senza scarti
particolari di registro. Insisto tuttavia nel dire che la disposizione del musicista
è la medesima e si riflette, tra l’altro, nel differente aggiustamento testuale
operato in questa circostanza. Il musicista legge le poesie con la sua musica
(quasi un dirle altrimenti): nell’un caso, opta per un’adozione integrale del
testo, dal momento che quel nucleo di opacità e di pesantezza terrestre è
diffuso ovunque nei versi della lirica originale e si precisa proprio mediante
l’aggiungersi insistito delle immagini;19 nell’altro, penetra nel cuore della poesia
e vi si identifica al punto da spingerlo ad un eloquio in prima persona (chi è il
poeta? e chi è il musico? l’intera pagina iniziale della composizione indugia a
lungo nella incerta pronuncia del “Je” sino al caricatissimo “crescendo assai”
conclusivo), sostituendo il “Je vois” al “Tu vois” di Éluard e intonando i pochi
versi che compendiano il clima ardente ed emozionato dell’intero poème:
Je vois des hommes vrais
Sensibles bons utiles
Rejeter un fardeau
Plus mince que la mort
Et dormir de joie
Au bruit du soleil.20
“Aussi bas que le silence/ D’un mort planté dans la terre/ Rien que ténèbres en tête// Aussi monotone et sourd/ Que l’automne dans la mare! Couverte de honte mate! Le poison veuf de sa fleur/ Et
de ses bêtes dorées/ Crache sa nuit sur les hommes.” (Sur les pentes inférieures da Poésie et verité
(1942), in ÉLUARD, Poesie cit., pp. 346-347).
20
Nous sommes da Chanson complète (1939), ivi, pp. 278-28l.
19
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Un intervallo di undici anni trascorre tra le due liriche citate e la terza, da
“Egolios” (frammenti), datata 1970 e dedicata “a Leda”, la moglie del
compositore. Un intervallo pieno di eventi e colmo di musica, anche
vocale - direi soprattutto vocale, dal momento che le composizioni per
voce [e strumenti] di Bortolotti costituiscono le tappe essenziali per
comprendere alcuni importanti mutamenti di indirizzo della sua musica.
Sono rispettivamente del 1963 e del 1964 i due Studi per E. E. Cummings
n. l e n. 2, nati in successione contigua dall’esaltante incontro con
Cummings e con il suo impiego spregiudicatamente ‘aperto’ della scrittura
poetica, anche negli aspetti puramente grafici di segno/figura (soltanto il
primo dei due Studi è per voce di soprano e cinque esecutori, mentre il
secondo è una composizione per undici strumenti), e del 1965 il Contre 2,
vocalizzo per soprano e cinque strumenti ove Bortolotti preferisce optare
per la parola [poetica] assente e declinare un vasto campionario di suoni
e fonemi (in un certo senso lo Studio n. l può essere considerato uno
stadio transitorio, un passaggio preparatorio verso il Contre), nato non
dalle suggetioni della parola poetica bensì dalla straordinaria versatilità
esecutiva dell’interprete, la cantante giapponese Michiko Hirayama, attorno
alla quale il brano prese forma.21 Circa una decina di anni più tardi, grosso
modo a metà strada tra la terza e la quarta lirica di Éluard, si situa Sine
nomine ove la voce femminile, corteggiata da flauto, trombone, violoncello
e alcune percussioni, diviene a sua volta percussione per farsi inghiottire (o
per inghiottire [?]) la restante compagine strumentale.
C’è un senso accorato del tempo in Egolios, del tempo come memoria e
del tempo come prefigurazione, come istante dell’oggi in continuo
divenire; c’è quel senso della pienezza vitale diffuso tra le cose, negli spazi
interni e a ridosso delle creature del mondo, così come nella mancanza che ne è il rovescio -, nell’ assenza di colori e di sentimenti (quel “point
insensible”, privato di qualsivoglia segreto, di cui ci dice Éluard). La folla dei
verbi coniugati al futuro (“tu dormiras”, “tu seras”, “tu prendras”), è
cadenzata dai periodici ritorni dell’incipit testuale della lirica, quel “entends
21
Bortolotti ricorda di aver chiesto sul finire degli anni Sessanta ad Alfredo Giuliani un aiuto per la revisione della parte testuale del Contre 2, revisione peraltro poi non realizzata (cfr. MAURO BORTOLOTTI,
Musica e poesia, in Chi l’avrebbe detto. Arte, poesia e letteratura per Alfredo Giuliani, a cura di Corrado
Bologna, Paola Montefoschi e Massimo Vetta, Milano, Feltrinelli, 1994, pp.57-60:58. Più di recente il
musicista ha ripercorso la genesi del Contre 2 nel corso di un incontro internazionale di studi sulla
vocalità, cfr. MAURO BORTOLOTTI, Correvano gli anni Cinquanta: le ricordanze, le collaborazioni, in Voce come
soffio, voce come gesto. Omaggio a Michiko Hirayama, a cura di Daniela Tortora, in corso di stampa.
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encore la voix”, cosi evocativo e solo nella distribuzione dei versi
(1//2//1//2 e cosi via), a sua volta interrotto dall’inserimento di profonde
cesure (gli asterischi che separano i tre blocchi successivi della lirica mi
appaiono come segni del trascorrere del tempo e rispondere al bisogno
di spaziare/allontanare, anche sulla pagina scritta, i pensieri e le immagini). Il
musicista aderisce alla sostanza poetica di Egolios; sovrappone alle tensioni
linguistiche e versificatorie del poème le proprie esigenze attuali e vi
ritaglia se stesso, il suo vissuto, la sua idea di una lettura/rilettura che dia
senso alla musica proprio attraverso un’operazione di lacerazione del
testo originario. Così il verso si spezza, la parola s’interrompe, il senso
comincia a girare a vuoto su se stesso negli spazi senza tempo della
pagina musicale: la poesia viene riscritta e assume una forma nuova, più
agile, ma soprattutto mirata alla contemplazione del tempo, un tempo
innamorato e perduto. Mi pare significativo porre a confronto le due
versioni del poème, quella originaria (ove sottolineo i frammenti
estrapolati) e quella ri-scritta da Bortolotti all’interno della sua lirica per
voce clarinetto e violoncello:
Éluard
Éluard-Bortolotti
J’entends encore la voix
J’entends encore la voix
C’est là que tu aimeras
Toujours toujours toujours
C’est là que tu aimeras
Toujours toujours toujours
Avoue tu n’ avrais pas prévu cette minute
Qui va t’ éterniser
Tu ne parviendras plus à t’échapper tu rêves
Pense donc si tu peux à un temps sans amour
Et la forêt sera ton ombre
J’entends encore [les étoiles]
Explique si tu peux pourquoi c’est ce visage
Et non un autre qui s’ arrête devant toi
sommeil
Jusqu’au point insensible
Tu ne dormiras plus qu’en un autre
les étoiles
***
J’entends encore la voix
Jusqu’à l’ absence sojuhaitée de
tout secret.
Tu seras comme un fou [...]
Comme un fossé dans le désert Aime aime
Et tu te sentiras devenir comme un chêne
J’entends encore la voix
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Et la forêt sera ton ombre
Les oiseaux les étoiles se poseront sur la tête
Tu ne dormiras plus qu’ en un autre sommeil
Et des yeux sans sommeil veilleront dans les ...
Tu seras comme un fou à l’ idée du bonheur
Tu prendras dans tes bras les branches du soleil
***
J’entends maintenant la voix
Tout ce qu’elle n’a par dit
Tout ce que je n’ai pu supposer soupçonner
J’ entends autour de mai la ronde du silence
Tu seras comme un fou à l’ idée du malheur
Comme un fossé dans le désert
Comme un malade abandonné
Parce qu’ il a trop espéré
Il t’arrivera peut-être d’ être comme un mort
Vivant tu connaîtras la digestion des vers
Jusqu’au point insensible
Jusqu’a absence souhaitée de tout secret.22
Una piccola legenda posta a piè di pagina segnala le novità della scrittura sia
per ciò che concerne la voce (in particolare, l’impiego del parlato e della
Sprechstimme), sia per quanto riguarda gli strumenti, ivi inclusa la voce
(l’impiego dei quarti di tono, dei suoni distorti, etc.). La scrittura musicale di
questo brano appartiene ad una stagione assai distante rispetto a quella dei
due precedenti: a partire dall’indicazione iniziale “Libero a piacere”, e abolite
definitivamente le barre di misura e qualsivoglia frazione in cima al rigo, i
grappoli di suoni e segni vari si dispongono sulla pagina avvinghiati alle parole
22
La parte conclusiva del poema è in prosa: “il avait jusque-là vécu sans méchanceté. Il devint méchant.
Quand il avait envie de pleurer, et il avait presque toujours envie de pleurer, il se sentait le premier
venu, ridicule et absurde, lui qui était le dernier venu au chagrin motivé. Alors, il accablait ceux qui l’aimaient de colères et de perfidies. Il ne voulait pas être le moins aimé. Les hautes allées verdoyantes,
ensoleillées, s’ étant à jamais évanouies, il lui fallut passer par des couloirs noirs et gluants.” (Égolios da
Poèmes politiques (1948), in ÉLUARD, Poesie cit., pp.452-457:454,456).
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in una maniera particolarissima e le parole non sono solo le indicazioni
consuete a ridosso delle parti strumentali (“arco”,“pizz.”,“oltre pont.”,
“(armonici) veloci e leggeri”,“soffia senza suono”), ma anche le tracce più o
meno riconoscibili della lirica di Éluard lungo il bordo inferiore della parte
vocale, all’interno del pentagramma riservato alla voce (sezionato in fonemi)
e ancora nei righi rispettivi del clarinetto e del violoncello (si veda la parola
“toujours” e l’intero verso “j’entends encore la voix”). Le parole diventano
poi esse sole i suoni che articolano la composizione in quegli spazi, inclusi tra
le barre tratteggiate sulla pagina scritta, ove si ha l’impressione di una voluta
sospensione della scansione temporale: non vi è più nulla che possa misurare
il tempo; il tempo si fa capace di girare su se stesso, di retrocedere con i
lemmi (finanche le sillabe) divenuti meri relitti contemplativi (es. 2). Più in
generale, l’impressione che si ricava da questa lirica così suggestiva è che gli
strumenti siano volutamente relegati in disparte: messi da parte gli abiti
tradizionali del mero sostegno/accompagnamento, e così pure quelli
dell’andamento dialogante, gli strumenti qui aspirano a farsi parola, a dire
parole o tracce di parole e a non disturbare il clima assorto dell’insieme,
suggerito essenzialmente dalla voce. Se si esclude il disegno iniziale (la figura
del clarinetto richiama alla mente le tante analoghe della lirica precedente),
cui rinvia il grumo armonico che inaugura la terza pagina, la scrittura
strumentale nella restante parte del brano risulta completamente
polverizzata, ridotta a pura larva di sé (qualche soffio senza suono, un suono
distorto, un accenno di tremolo, una sussurrata catena di armonici), con il
parziale/totale azzeramento dell’idioma strumentale in quelle isole di sole
parole che interrompono di tanto in tanto il flusso dell’ esercizio canoro sino
al raggiungimento della chiusa, annunciata sotto voce “a tre”, sulle parole ben
note dell’ incipit testuale.
Es. 2
Mauro Bortolotti, da “Egolios” (frammenti), p. 2
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Nel ‘78 i fatti del Cile, la morte di Allende e l’avvento della dittatura di
Pinochet si imprimono nel lavoro del musicista e determinano la genesi di
En Chili, la quarta e ultima delle liriche appartenenti al ciclo eluardiano. La
carica protestataria, l’intento civile, la volontà di schierarsi a fianco del
popolo cileno si traducono in un gesto energico e conclusivo: il ciclo delle
4 Poesie, rimasto aperto sino a quel momento, giunge così a compimento
con questa lirica intrisa di passione politica. E l’omaggio stavolta si fa
duplice, rivolto com’è alla vena più autentica della poesia eluardiana
(l’affermazione di una nuova estetica per una effettiva liberazione dei
popoli) e al Cile, sostituito alla Spagna del testo originario,23 cantata
anch’essa a suo tempo per l’insostenibile sopravvivenza del regime fascista
di Franco. Alla concetrazione e alla forza del testo poetico, qui utilizzato
nella sua interezza, corrisponde una scrittura, e vocale e strumentale,
reduce da tante esperienze e divenuta ormai disinibita e disinvoltamente
accidentata ed omogenea: voci e strumenti sono una cosa sola, un
cantare/suonare all’unisono che ben s’addice al rafforzamento dell’idea
rivoluzionaria che sta al centro di questa lirica (quel grido insanguinato alla
libertà che tingerà di purezza il vino dei popoli) e ne agita il groviglio
inestricabile di suoni e parole. C’è un po’ di tutto ciò che è trascorso nelle
liriche precedenti; c’è una grande libertà/varietà di movenze finalmente
restituita agli strumenti accanto alla voce (violoncello e clarinetto aprono
la composizione), c’è una particolare idea di forza, di lotta, di opposizione
che s’incarna in un elemento graficamente nuovo rispetto alle Poesie
precedenti: mi riferisco alle fasce nere orizzontali che alludono alla lunga
tenuta dei singoli suoni (talvolta dei tremoli) e si situano in ciascuno dei
tre pentagrammi ad indicare il tessuto compatto di cui è fatta questa
musica, le sue trame spesse resistenti tenaci nella sofferenza e nella lotta
per la libertà.
Nel 1994 Bortolotti partecipa con un suo breve testo, intitolato Musica e
poesia, ai festeggiamenti letterari organizzati per i sessant’anni di Alfredo
Giuliani: la pubblicazione di un volume antologico costituisce l’occasione
per il musicista di ripercorrere le tappe del proprio sodalizio artistico col
poeta, dagli albori di una conoscenza avviatasi a Roma alla metà degli anni
23
”S’il y a en Espagne un arbre teint de sang/ C’est l’ arbre de la liberté// S’il y a en Espagne une
bouche bavarde/ Elle parle de liberté!// S’il y a en Espagne un verre de vin pur/ C’est le peuple qui le
boira.” (En Espagne da Poèmes politiques, ivi, pp. 462-463).
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Cinquanta - grazie alla mediazione dell’amico comune Franco Evangelisti-,24
sino alla elaborazione delle più recenti opere nate dalle suggestioni della
sua scrittura poetica. Alle ragioni di un sentire comune, di una vicinanza
ideologica e culturale, va aggiunto il fascino intenso esercitato dai suoi
lavori e così commentato dal compositore:
Via via che approfondivo il contatto con la poesia di Giuliani cresceva
l’ammirazione per la lucida ironia con cui violentava la sintassi, e la sapienza con
cui superava passati movimenti neocrepuscolari senza nostalgie, anzi, con la
fredda determinazione e senza rinunciare al ritmo e alla musicalità del verso.25
Da questa annotazione si dipana la rassegna delle composizioni nate sui
testi del poeta romano: Resurrezione dopo la pioggia (1966), per voce di
tenore e pianoforte; “E tu?” nondramma in un atto e due intermezzi (anche
parlati) senza finale (1970), un breve lavoro teatrale costruito su di un
collage di testi vari di Giuliani (le brevi citazioni da Mallarmé e da Porta,
presenti nella versione originaria, sono state poi eliminate); L’attesa ... Il
professor PI (1980) per voce e nastro magnetico su frammenti tratti dal
Professor PI ossia il fenomeno non è un fatto; Arioso per la scena III (1984),
per basso e quartetto d’archi su Invetticoglia, “un testo difficilissimo per la
violenta operazione sulla parola”; infine I pesci di vento (1991), uno
“scherzo franco-ispano [...] di debussiana memoria” per voce femminile,
flauto e pianoforte.26
L’interesse nei confronti delle musiche su testi di Giuliani è nato in forma di
corollario attorno alle questioni emerse dalla lettura delle 4 Poesie di Paul
Éluard e si giustifica in questa circostanza per un doppio ordine di ragioni:
l’uno, eminentemente concettuale, sollecitato dalla chiusa stessa dello
scritto-omaggio a Giuliani e riguardante la pubblicazione de I novissimi a cura
del poeta, il testo-manifesto della nuova poesia italiana degli anni Sessanta,
così importante per tutte le arti d’avanguardia nel nostro paese; l’altro,
inerente alle prove citate e agli sviluppi circostanti della relazione poesia e
musica nell’opera di Bortolotti. L’ipotesi di lavoro, sulla quale io credo sarà
La relazione di amicizia e di arte tra Giuliani ed Evangelisti è stata felicemente ripercorsa dal poeta in
una sua memoria per Franco Nonnis, pittore e amico di entrambi e più in generale di tutta la comunità romana dei musicisti d’avanguardia (cfr. ALFREDO GIULIANI, Per l’amico Franco; che gli altri, ossia tutti
voi, lo scoprano, in Franco Nonnis pittore scenografo, a cura di Enrica Torelli Landini, Roma, Semar,
1991, pp. 7-8, anche in DANIELA TORTORA, Nuova Consonanza 1989-1994, Lucca, LIM, 1994, pp. 74-75).
25
BORTOLOTTI, Musica e poesia cit., pp. 57-58.
26
Ivi, p. 60.
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necessario interrogarsi ancora in futuro, risiede nel convincimento attuale
che l’incontro con la poesia di Giuliani abbia determinato, al termine di una
lunga gestazione adiacente alle Poesie di Éluard, un particolare affinamento
della sensibilità poetico-letteraria del musicista ed un graduale spostamento
della scrittura verso le regioni contigue del teatro - di un teatro appena
intravisto, appena immaginato, prefigurato -, dell’azione/personificazione della
voce alla ricerca di quell’“in più” [...] che è nella poesia e che solo la musica
e il canto sono in grado di far emergere”,27 stavolta attraverso un gesto di
tipo retorico oltre che musicale.
L’introduzione che Giuliani redige nel ‘61 per il volume antologico sui
“novissimi” (i testi e le dichiarazioni di poetica sono di Elio Pagliarani,
Antonio Porta, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, e Giuliani stesso)
s’inaugura con una citazione leopardiana e fa leva da subito su due concetti
essenziali, quello di verità e quello di contemporaneità della poesia:
Scopo della “vera contemporanea poesia”, annotò Leopardi nel 1829, è di
accrescere la vitalità; e, dopo questa osservazione disarmante, aggiungeva che a
quei tempi raramente la poesia era capace di tanto. Noi, che non siamo
classicisti e nemmeno crepuscolari, abbiamo della vitalità un concetto linguistico
che cercheremo di spiegare. Senza dubbio, in ogni epoca la poesia non può
essere “vera” se non è “contemporanea”; e se ci domandiamo: - a che cosa? - la
risposta è una sola: al nostro sentimento della realtà, ovvero alla lingua che la
realtà parla in noi con i suoi segni inconciliabili. Quell’accrescimento verrà da una
apertura, da uno choc, che ci metta a portata di mano un accadere in cui
possiamo ritrovarci.28
La necessità storica di un effettivo rinnovamento della poesia (al di là delle
tendenze meramente contenutistiche tanto diffuse nella tradizione
novecentesca italiana) si è coniugata con un insopprimibile desiderio di
conoscenza, di lettura delle cose e del mondo: “Suppongo sia chiara in noi
una vocazione a conoscere, leggibile in ciò che scriviamo e non presunta
in ciò che proclamiamo di voler scrivere. Pensiamo che parlando di noi o
d’ altro o di niente (de dreit nien), la poesia debba aprirci un varco: nel
rispecchiare la realtà rispondere al nostro bisogno di attraversare lo
specchio”.29 Il che equivale a tornare ad affermare i postulati di partenza,
definendo in maniera puntuale i compiti e i mezzi della poesia [moderna]:
Ibid.
ALFREDO GIULIANI, in I novissimi. Poesie per gli anni ‘60 […], a cura di Alfredo Giuliani, Milano, Rusconi,
1961 (Torino, Enaudi, 20033, pp. 15-32), pp. XIII-XXXII: XIII.
29
Ivi, p. XIV.
27
28
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[...] Ma la poesia esprime con tutta se stessa un modo di pensare e di sentire.
Perché ci siamo tanto preoccupati del lessico, della sintassi, del metro e via
dicendo? Perché se conveniamo che, in quanto “contemporanea”, la poesia
agisce direttamente sulla vitalità del lettore, allora ciò che conta in primo luogo
è la sua efficacia linguistica. Ciò che la poesia fa è precisamente il suo
“contenuto”: se, poniamo, fa sospirare o annoia, la sua verità è, definitivamente,
il sospiro o il tedio del lettore. E nei periodi di crisi il modo di fare coincide
quasi interamente col significato.30
La consapevolezza di un’antica vis mitologica della poesia si scontra con la
definitiva mercificazione della lingua nel mondo moderno e la messa a punto
delle tecniche della cultura di massa: dal momento che non pare più
proponibile né l’antico linguaggio contemplativo, né quello “argomentante”
proprio della lirica italiana dal Leopardi in poi, la poesia contemporanea
adotta “la discontinuità del processo immaginativo, l’asintattismo, la violenza
operata sui segni [...]”,31 in virtù di un gesto che non ha bisogno di dirsi
d’avanguardia, ma semplicemente si pone al centro di una precarietà più
generale dell’esistere (la citazione è stavolta da Sanguineti). Su due aspetti
della produzione dei “novissimi” si intrattiene ancora Giuliani e mi sembra qui
opportuno segnalarli per la ricaduta che hanno avuto sulle questioni di
ordine musicale:“una reale ‘riduzione dell’io’, quale produttore di significati, e
una corrispondente versificazione priva di edonismo, libera da quella
ambizione rituale che è propria della ormai degradata versificazione sillabica
e dei suoi moderni camuffamenti” (la relazione esistente tra contenuto
apparente e orientamento metrico abbracciato va al di là del dato scontato
di superficie, poiché “il tono non solo fa la musica del discorso, ma ne
determina l’operatività, il significato e così la riduzione dell’io dipende più dalla
fantasia linguistica che dalla scelta ideologica”).32 Il tutto nella convinzione che
l’effetto (lo scopo) della poesia - così si affermava in forma di memento nelle
note introduttive di questa prefazione con il richiamo alla efficace espressione
leopardiana - sia l’ accrescimento della vitalità nel lettore:
Una poesia è vitale quando ci spinge oltre i propri inevitabili limiti, quando cioè
le cose che hanno ispirato le sue parole ci inducono il senso di altre cose e di
altre parole, provocando il nostro intervento; si deve poter profittare di una
poesia come di un incontro un po’ fuori dell’ ordinario.33
30
31
32
33
Ivi, pp. XIV-XV.
Ivi, pp. XVII-XVIII.
Ivi, p. XIX
Ibid.
39
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Già sul finire degli anni Sessanta con “E tu?” nondramma in un atto e due
intermezzi [...] Bortolotti si accosta alle problematiche del teatro musicale
e lo fa a partire da testi vari di Giuliani (e altri autori); nel 1980, quasi
dieci anni dopo, con L’attesa... Il Professor PI manifesta ancora una vaga
inclinazione scenica, accanto a un pronunciato intento satirico - sono
affermazioni dell’autore -, nella ricercata contrapposizione tra due
differenti registri stilistici (la voce e il nastro magnetico) e nell’adozione,
per ciò che riguarda la parte vocale, di un collage di fossili operistici, ora
semplici parodie ora vere e proprie citazioni (dal recitativo settecentesco
all’accenno verdiano), il tutto a partire dalla esilarante saga del Professor Pl
ossia il fenomeno non è un fatto, una serie di cinque brevi testi del 1962.34
Con Invetticoglia del brevissimo ciclo Chi l’avrebbe detto (1964),
sopravvissuto nella memoria del musicista per quasi vent’anni, lo
spostamento verso una certa idea di teatro, almeno prefigurato, sembra
non conoscere più alcuna incertezza e così la musica divenire il solo
gesto capace di articolare, di districare la selva dell’improbabile
turpiloquio, parole inesistenti, sia pure assonanti ed allusive, l’artificio
necessario per accedere a quel mondo surreale (nel senso di iperreale, di
più reale del reale), così felicemente disegnato dalla lirica di Giuliani. Sino
al compimento di Arioso per la scena III:
Invetticoglia
sgrondone leucocitibondo, pellimbuto di farcime,
la tua ficalessa sbagioca e tricchigna tuttadelicatura
la minghiottona: ohi sottilezze cacumini torcilocchi
presticerebrazioni, che ti strangosci palpando mollicume,
arcipicchiando la voraciocca passitona, la tua dolcetta
che allucchera divanissimamente il pruggiculo;
cagoscia vizzosaggini il bàrlatro grattoso:
la tua merlosa irabondaggine e vita 35
La declamazione del testo è affidata stavolta ad una voce di basso; la
scrittura per voce e strumenti è tornata composta, ordinata in genere tra
le barre di misura, pur con frequenti cambi della frazione in cima al rigo,
oppure all’interno di più vaste campiture aperte
34
35
Cfr. ID., Povera Juliet e altre poesie, Milano, Feltrinelli, 1965, pp. 41-48.
Ivi, p. 93.
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Es. 3
Mauro Bortolotti, Arioso per la scena III, pp. 6-7
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È possibile effettuare una segmentazione (riscrittura) del testo sulla base
delle indicazioni agogiche e dei cambi di metro presenti nella partitura,
che danno luogo ad un’articolazione dell’ Arioso in episodi successivi,
allacciati da precisi vincoli di accento e di intonazione:
Violento (sgradevole. Ironico)
6/8
9/8 - 6/8
6/8
Lento
4/4
Poco mosso
sgrondone
leucoci (i)ti leucocitibondo
pellimbu (u) to
di farcime
la tua ua ficale s ssa calessa
Sbagio m sbagio gioca etricchi tricchigna tuttadelicatura
6/8
Mosso
3/4
(parlato)
Veloce
Lento
Mosso
4/4
Lento come barcarola
6/8
6/4
4/4
la minghiottona
ghiottona
ohi
ohi sottilezze lezze cacumini torcilocchi
presticerebrazioni [pre bra pre]
che ti strangosci ngosci osci osci palpando mollicume
mollicume
palpando mollicume
a
arcipicchia (a) ndo la voraciocca passitona
la tua dolcetta dolce (m) dolcetta
che allucche
allucchera divanissimamente divanissimamente
3/4
il pruggicu il pruggiculo cagoscia oscia vizzosaggini
cagoscia vizzosaggini
cagoscia il barlatro gr (r) grattoso la tua tua
merlosa merlo oss merlo sa
Deciso (in 2)
6/8
Calmo
irabonda irabo
(i )bonda irabonda aggg gi ira gini irabondaggini
e vita e vi (i) irabo e vita
I lemmi e i sintagmi (musicali) impiegati dalla voce e dagli archi appartengono
a un idioma riconoscibile e collaudato, non esente persino da alcune palesi
citazioni (valga per tutte l’accenno straussiano nel ritmo ternario di valzer a p.
29 della partitura a stampa).36 C’è un’intenzione scoperta di gioco e di
36
MAURO BORTOLOTTI, Arioso per la Scena III, per basso e quartetto d’archi, testo di Alfredo Giuliani,
Roma, Edipan, 1985, n. ed. EP 7241.
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finzione nella seriosità ricercata dello stile vocale, non di rado raccolto e
meditabondo, oppure concitato ed ansioso; analogamente la parte degli archi
è costruita attorno ad alcuni elementi ritornanti (i ruvidi accordi presi di tacco
dell’incipit bartokiano, un vasto campionario di suoni-rumore - suoni distorti
tremoli gettati glissati pizzicati -, l’esile melopea di terze (o seste) insistente ora
sulle quartine di semicrome ora sulle meno agili quartine di crome), che
conferiscono almeno a tratti un taglio tradizionale alla costruzione musicale,
fatta di riprese, cesure, giustapposizioni di elementi a carattere contrastante.
Per certi versi a me pare qui di assistere ad una inversione di ruoli tra la
musica e la poesia, ovvero ad una lettura bizzarra e provocatoria
operata/prefigurata in anticipo sui tempi di elaborazione, da parte del testo
poetico, della pagina musicale, ove la distribuzione dell’idioma prescelto si fa
esplosiva proprio a causa della sovraimpressione della lezione poetica. Nel
frontespizio della partitura a stampa si legge non a caso quanto segue:
il lavoro che per le difficoltà del testo particolarissimo nasce da una scommessa
fatta con me stesso, chiede agli esecutori, ed al cantante in primis, una
particolare attenzione al significato/suono della parola ed una notevole libertà
inventiva nella interpretazione del testo musicale, tutt’altro che definitivo! È
chiaro, perciò, che il parlato, i glissati, i tanti effetti di falsetto e umoristici vanno
ben oltre le tante - e tuttavia insufficienti - indicazioni agogiche.37
ed è questo un modo per sottolineare la necessità di un coinvolgimento
dell’interprete che dia alla partitura il senso di una cosa viva mediante
l’aggiustamento sistematico del margine di ‘non finitezza’ contemplato dal
compositore.
Alcuni anni prima Bortolotti e Giuliani avevano partecipato ad una
manifestazione promossa dal Comune di Genova e intitolata “Poesia in
pubblico/ parole per musica”, nel corso della quale ai due artisti era
toccato un esperimento di lettura /esecuzione estemporanea di propri
testi e di altro genere di invenzioni poetico/musicali, da combinarsi in
maniera perlopiù improvvisata. La riconquista di una dimensione orale, in
grado di vivificare pratiche e legami ormai logorati, costituiva forse il
passaggio obbligato per un sodalizio artistico così duraturo e multiforme: “è
a questo punto [...] che abbiamo pensato all’improvvisazione; che ci siamo
detti come la ricerca di possibili nuovi equilibri poteva passare per la fase
dell’incontro - anche casuale, non accademico, non congelato in notazioni
37
Ibid., cit. anche in BORTOLOTTI, Musica e poesia cit., p. 59.
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varie – tra il poeta che legge i propri versi ed il compositore che
improvvisa liberamente”.38 D’altro canto è bene ricordare che la relazione
con la parola poetica impregna di sé altre forme di espressione, tant’è che
sempre nel 1984, l’anno dell’Arioso, nasce Musica per una scena - ancora
una scena ed un teatro immaginario -, un trio per due violini e viola ove
nel groviglio delle parti strumentali si nasconde il ricordo di uno dei testi
più amati di Giuliani, Povera Juliet, tratto dalle Poesie di teatro del 1963:
Al di là dei testi da me musicati, la poesia di Giuliani (e più in generale del Gruppo
63), oltre a un’inevitabile influenza per così dire culturale nel senso più ampio del
termine - in quanto nata all’interno di ricerche analoghe a quelle compiute negli
stessi anni da noi musicisti - mi ha offerto spesso motivi di suggestione anche per
composizioni puramente strumentali, nelle quali risulta egualmente chiara l’allusione
ad atmosfere suggerite dalla sua opera: parlo, tra l’altro, della Musica per una scena
per trio d’archi, a lui dedicata, in cui come dicevo nelle poche righe di presentazione
scritte per la copertina del disco:“...è ancora adombrata la figura di Juliet”.39
La tacita assenza in superficie, la mancanza di una traccia scritta, il
raccogliersi della lezione poetica ai margini del ‘musicabile’, o comunque in
zone meno usuali della composizione su testo poetico, alla ricerca di un
contatto nuovo vivificato rigenerato, pare il tratto comune alle ultime
esperienze segnalate e, a mio giudizio, un elemento importante per la
comprensione dell’allargamento delle possibili evoluzioni cui è andata
soggetta la relazione poesia/musica nel corso dell’attività più recente del
compositore: le suggestioni offerte dalla multiforme poesia di Giuliani,
unitamente all’allentamento dei vincoli e dei veti dettati dall’appartenenza
ad una determinata scuola compositiva, hanno fatto sì che la dedizione
giovanile, nata sull’onda della mera fascinazione poetica, divenisse col
tempo un ambito consistente di ricerca linguistica e, unitamente, un luogo
di ritrovamento di sé, della propria individualità, nonché di incontro con
gli altri, poeti scrittori artisti ascoltatori accomunati, tutti, da una
38
39
ID., Testo cantato/Testo parlato cit., p. 162.
ID., Musica e poesia cit., p. 59. La presentazione di Musica per una scena, inclusa nelle note di copertina dell’incisione discografica con l’esecuzione a cura del Trio di Como, recita in realtà nella seguente
maniera interrogativa: “Il presente lavoro […], del 1984, nella sua varietà di atteggiamenti - cadenze,
recitativi, brevi momenti di canto accompagnati da ampi arpeggi, accordi isolati e momenti di violenza
sonora - oltre che come tentativo di dare vita e senso formale ad un materiale sonoro vario, potrebbe essere letto (da ciò il titolo!) come studio per una scena, come volontà di parafrasare una mutevole, seppure sintetica, situazione teatrale. Il finale “lento e sospiroso”, assai pausato - tra l’altro una
autocitazione da un suo precedente lavoro - potrebbe, forse, adombrare la ‘dolce Ofelia’ o la ‘povera
Juliet’?”. (ID., in note di copertina del disco PAN PRC S20-47 stereo, Edipan, 1987).
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medesima attrazione per la parola scritta, pensata o intonata.
Nel saggio di esordio del suo volume antologico dedicato alla relazione tra
poesia e musica Nino Pirrotta si soffermava sulla questione della musica al
tempo di Dante e sulle evidenze musicali che la produzione dantesca esibisce;
in particolare, nel riferirsi alla canzone dantesca e alla complessità concettuale
che le è propria, sosteneva autocitandosi che “la profondità e l’intensità di
pensieri e sentimenti affidati da Dante alla canzone, ancor prima che egli ne
teorizzasse nel Convivio i vari livelli di interpretazione, favoriscono come
alternativa all’esecuzione cantata non soltanto una recitazione parlata, ma il più
puro e più spirituale di tutti i suoni, quello di una recitazione mentale da parte
di un lettore ammirato e pensoso”.40 Mi piace allora constatare come in
un’epoca ove definitivamente consumata appare la mitica unità di verso
poetico e canto (mito e non finzione retorica, come suggerisce Pirrotta, nel
“riconoscervi il ricordo trasfigurato di avvenimenti remoti o l’esaltazione
fantasiosa di essenziali processi di natura”),41 dopo secoli di periodiche
conciliazioni e di sciagurate fratture, poesia e musica siano riuscite a ritrovare
un luogo d’incontro, divenendo l’una la possibile (forse l’unica) lettura dell’altra,
ed il musicista quel “lettore ammirato e pensoso” in grado di dare voce alla
propria “recitazione mentale”.42 È questo il senso che mi è parso di poter
attribuire innanzitutto alle liriche per Éluard di Mauro Bortolotti e così a
buona parte della sua produzione vocale: l’idea di comporre/ricomporre il
destino delle poesie, divenute poi frammenti, cercando negli spazi rimasti
nascosti, negli intervalli perduti, mediante la ricostruzione di alcuni minuti
passaggi, di alcune locuzioni, di alcune singole parole, la pulsazione vera
fondante del gesto poetico stesso. Questa musica per poesia che incontra le
ragioni della propria esistenza non all’interno di rigide metodiche compositive,
bensì nel farsi strumento di una possibile ricezione poetica alla ricerca del ‘non
dicibile’, delle regioni solo prefigurate dalla parola, assegna le 4 Poesie di Paul
Éluard e le più riuscite prove vocali del compositore ad una immaginaria ‘terza
pratica’,43 annunciata in più d’una composizione del dopoguerra e forse non
ancora del tutto estinta allo scadere del secondo millennio.
NINO PIRROTTA, Poesia e musica, in Poesia e musica e altri saggi, Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 1-11:
6-7 (il corsivo è mio).
Ivi, p. 2.
42
Ibid.
43
La locuzione, di monteverdiana memoria, è stata coniata da Giovanni Morelli in riferimento alla produzione di Luigi Nono e al suggestivo intersecarsi di parola e suono nella sua produzione degli anni
Ottanta (cfr. GIOVANNI MORELLI, Terza pratica: Nono e la relazione compositiva memoria/oblio, in Nono, a
cura di Enzo Restagno,Torino, EDT, 1987, pp. 227-235).
40
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Suoni nelle parole, parole nei suoni.
Mauro Bortolotti e il testo in musica
Francesco Rimoli
1. Una passione lontana
Fin dalla Cantata per tenore e orchestra del 1955, basata su un testo di T.
S. Eliot, Mauro Bortolotti ha scelto di fare del rapporto con la parola e
con il testo una delle sue cifre stilistiche peculiari, seguendo un percorso
che approda alle opere più recenti, da La vallée incommensurable per
soprano, clarinetto e viola, del 2004, a Ou le silence, per voce recitante e
orchestra, del 2006, passando per numerose altre opere, come le Quattro
poesie di Paul Éluard per voce e strumenti, composte tra il 1959 e il 1978,
i Cinque epigrammi di Marziale, per ottetto vocale, del 1979, e
Nell’impoetico mondo, per soprano e strumenti, su testi di Sanguineti,
scritto nel 1989.
Parola cantata o recitata, ma spezzata, vocalizzata, frantumata talvolta fino
all’irriconoscibilità, ovvero blandita, prolungata, vezzeggiata quasi dai suoni,
comunque esaltata nel suo senso linguistico e nella sua emotività
comunicativa. Ma, sempre, nella ricerca costante di una fusione fra le diverse
dimensioni dell’espressione verbale: quella più strettamente fonetica, che si
assimila più immediatamente all’esito musicale, in una possibile simbiosi con
le voci strumentali; e quella semantica, che evoca significati nascosti,
memorie di eventi, personali o collettivi, e, infine, di altre parole.
Perché l’uso di un testo, in apparenza comodo ausilio per il compositore,
costituisce invece una sfida in più: ché la parola detta tende assai
facilmente a imporsi sulla musica, a ridurla a semplice sfondo, o,
all’opposto, a nascondersi tra i suoni, a esserne emarginata, a perdere
identità. E il compito dell’autore si fa dunque più arduo, nel perseguire un
più incerto equilibrio, in un’alchimia delicata di pesi, rinvii, richiami,
suggestioni, di suono e di senso: giacché la parola in musica, secondo una
tradizione che affonda le sue radici in Palestrina e Monteverdi, o nei
madrigalismi di Gesualdo, non può essere soltanto suono o soltanto logos,
ma deve trovare una sintesi tra le due dimensioni, deve riuscire a essere
qualcosa di più e, forse, di diverso. Qui sta l’abilità del compositore,
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SUONI NELLE PAROLE, PAROLE NEI SUONI. MAURO BORTOLOTTI E IL TESTO IN MUSICA
nell’estrarre dalla fusione di testo e musica non una mera sovrapposizione,
una facile addizione di fattori semantici, ma una dimensione ‘altra’, in uno
svelamento di ulteriori e celati esiti espressivi. E proprio sotto questo
aspetto, Bortolotti ha saputo cogliere mirabilmente la necessità di questo
provare, di un’inesausta e appassionata ricerca del senso profondo di un
legame tra parola e suono, degli intimi riflessi che reciprocamente
avvolgono l’espressione musicale e quella verbale, in ogni sua forma.
Perché, in oltre cinquant’anni di attività, Bortolotti ha usato della parola in
ogni sua forma: dalla poesia (di Alfredo Giuliani, cui il compositore è legato
da una lunga amicizia, ma anche di Éluard, Scotellaro, Berryman,
Cummings, Mallarmé, Sanguineti, Pecora, Rilke, Maraini, Penna, solo per
dirne alcuni), al testo di prosa (di Leopardi, Mann, Moles), fino a estratti di
decisioni giudiziarie (un estratto dalla sentenza sul disastro del Vajont in
Grazie per essere venuti! Carnaval per trio e lettore, del 1970). E, come
apparirà meglio oltre, ciò sembra rispondere a un’esigenza radicata e
costante dell’autore, che trova nel confronto con il testo, di qualunque
genere, un momento di fertile suggestione, un impulso a rinnovare, ogni
volta, quell’esperienza creativa di simbiosi tra parola e suono che può
rappresentare uno degli esiti più ambiti per chi scrive musica. E il rapporto
con il testo non avrebbe potuto essere occasionale: pur avendo un ricco
catalogo di composizioni esclusivamente strumentali, scritte per gli organici
più disparati, dal piccolo ensemble da camera alla grande orchestra,
Bortolotti pare trovare nel procedere semantico di un testo verbale una
congenialità profonda al proprio comporre: un’affinità discorsiva, anzitutto,
liberamente espressiva e felicemente immune da quegli ingabbiamenti
strutturalistici che hanno caratterizzato tanta musica del secondo
Novecento, fatta dell’inflessibile ma grigia coerenza di meccanismi
inesorabili. Non è infatti un caso che, anche nella scelta dei testi, emerga
una concezione del rapporto tra parola e musica che avvicina, proprio
secondo la lezione di Abraham Moles puntualmente ripresa e inserita
nell’opera musicale, le due forme espressive nel medium della poesia: “in
effetti, la poesia è ai confini tra la parola e il canto, e il suo campo d’azione
viene definito da una dialettica d’opposizione tra forma e significato” (in
Grazie per essere venuti!, 1970). Ma la parola, che è testo nella sua valenza
anzitutto semantica, si innerva nel contesto della composizione talora in
forma dialettica, separandosi dal profilo musicale, e ad esso
contrapponendosi come percorso di lettura/ recitazione (è il caso del
lavoro appena citato, o di altri più recenti, come Ou le silence, del 2004),
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FRANCESCO RIMOLI
ovvero fondendosi in una percezione sinestetica di più stretta impronta
lirico-espressiva (come, tra molti, in Grandes misterios habitam, per soprano
e orchestra, del 1992, o nel più intimista La vallée incommensurable, del
2004), e assume così la sua dimensione più concretamente e
compiutamente pragmatica, non celata, ma evidenziata dal tessuto
musicale in cui si discioglie.Talvolta, Bortolotti ricorre ad ambedue le
forme nel medesimo contesto, alternando passi recitati ad altri cantati (è il
caso del Monologo di Goethe, per soprano, voce recitante e dieci strumenti,
del 1994, o della Nuvola in calzoni, per voce recitante, soprano e sette
strumenti, episodio da Io, Majakovskij, melologo scritto da più autori, dello
stesso anno): tanta affezione per l’uso della parola svela dunque qualcosa
in più dell’autore, e merita un più attento esame.
2. Uno strumento, tanti strumenti
Perché un testo fatto di parole consente, certo, di disporre di
un’ulteriore, complessa gamma di sfumature espressive, ma impone anche
di affrontare la sfida di cui si è detto: se si tratta di poesia o di prosa, c’è
anzitutto la scelta dell’autore, con cui il musicista instaura un rapporto
estremamente sottile, un dialogo profondo, fatto di affinità e di attrazione,
ma anche, talora, di qualche timore reverenziale. Quando poi il testo non
è di origine letteraria, la scommessa è ancora maggiore: la provocazione
dell’estraniazione, infatti, non regge, se il compositore non riesce a dare
un senso complessivo all’opera, ossia se ciò che è diverso resta tale. Ma
nel procedere di Bortolotti un tale pericolo è sempre scongiurato, alla
luce di un innato senso della misura, dell’equilibrio complessivo della
composizione: così, in Grazie per essere venuti!, anche negli accostamenti
più coraggiosi (l’estratto dalla sentenza sul disastro del Vajont), il gioco del
recitato (o meglio, in questo caso, del letto, “molto freddamente” secondo
la didascalia) evita ogni ingenuità, ogni pesantezza, e il trascolorare del
testo da una prosa romantica (le due lettere di Leopardi), al passo di un
semiologo da leggere con tono “scientifico” (la già citata pagina dell’Analisi
delle strutture del messaggio poetico di Moles),1 al conclusivo inserimento
dell’algido linguaggio giudiziario, crea un progressivo senso di alienazione,
1
Cfr. ABRAHAM MOLES, Analisi delle strutture del messaggio poetico ai differenti livelli di sensibilità. L’aspetto
informazionale dei problemi di una poetica, “Il Verri”, aprile 1964, n. 14, pp. 3-21.
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SUONI NELLE PAROLE, PAROLE NEI SUONI. MAURO BORTOLOTTI E IL TESTO IN MUSICA
dal Sé e dalla dimensione poetica dell’esistenza, che costruisce un
percorso coerente, in cui lo stesso inserto ‘estraneo’ del passo della
sentenza, preparando l’amaro sberleffo che conclude e dà titolo all’opera,
detto “vivacemente” dal lettore, dà infine la misura di un’altra delle
dimensioni care a Bortolotti e al suo stile espressivo, quella dell’ironia. E
qui un’altra considerazione si lega a quelle che precedono: ancora una
volta, l’uso di un testo ben scelto permette, spesso, di chiarire contenuti
che sono già presenti, ma in forma più velata, nelle intenzioni e, a volte,
nello stesso tessuto musicale del compositore. L’ironia, nel suo senso più
alto, è infatti spesso presente nelle composizioni strumentali di Bortolotti:
un esempio per tutti nel piccolo ma prezioso Ragtime, scritto in diverse
versioni tra il 1984 e il 1985. Ma, ancora una volta, l’uso del testo
consente all’autore di esprimere tale dimensione con maggior profondità,
sfruttando i molti piani semantici del riferimento letterario, del potenziale
evocativo di sonorità raffinate, strumentali o anche soltanto vocali: così i
già citati Cinque epigrammi di Marziale, per ottetto vocale, denotano un
sentire ironico inteso come una personale Entzauberung, come un
‘disincanto’ della realtà, che tuttavia non scivola mai nel cinismo,
rimanendo piuttosto alle soglie della razionalità, dell’intelletto, senza
negare una profonda passione (e com-passione, in senso etimologico)
verso il destino dell’esistenza umana. E all’ironia si aggiunge, talvolta, la
dissacrante e provocatoria funzione dello scurrile, del richiamo a un
erotismo sfacciato, quasi goliardico: così un mordace e impudico testo di
Alfredo Giuliani anima l’Arioso per la scena III, per basso e quartetto
d’archi, scritto nel 1984, con espliciti riferimenti a una sessualità istintiva e
vorace, e con un gioco continuo di raffinate elaborazioni verbali su parole
normalmente ritenute triviali, che ben riesce a fondere i livelli del colto e
del volgare, in maniera sperimentale ma assai concreta. Operazione
poetica riuscita, che Bortolotti abilmente utilizza per un pezzo “violento
(sgradevole, ironico)” (secondo la didascalia iniziale), tutto svolto sulla
falsariga di un’aggressività autoironica, a tratti caricaturale, ma
perfettamente amalgamata con lo spirito sottile del testo, e con l’eco non
sopita di uno sperimentalismo già consapevolmente lontano, ma mai
abbandonato nel suo senso più profondo, nella sua ansia di ricerca.
Ansia che resta comunque alla base del comporre dell’autore: l’esperienza
dell’avanguardia, dal periodo di Darmstadt alle innovazioni degli anni
Sessanta, dalle collaborazioni con il CNUCE di Pisa alla fondazione di
“Nuova Consonanza”, costituisce la cifra essenziale di un procedere
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compositivo che, pur alieno dagli eccessi matematizzanti di un rigido
strutturalismo, persegue sempre una via di ricerca nell’impiego del
materiale sonoro, nell’esplorazione delle possibilità anche estreme del
potenziale strumentale e vocale, talvolta nell’esasperazione (anche grafica)
del segno espressivo. L’impronta di quella fase, di un periodo tanto ricco di
suggestioni e stimoli, quanto destinato a rappresentare un momento di
esaltante benché obsolescente eccessività sia nella storia personale
dell’autore sia in quella dell’avanguardia italiana, resta però, nella
produzione successiva di Bortolotti, e ancora nei suoi lavori più recenti,
come qualcosa in più di una memoria; piuttosto, ne segna l’intima natura,
ne anima tuttora il sentire e lo stile. Accantonata cioè la sperimentazione
che si fa sperimentalismo, il compositore recupera un più lirico inclinarsi
alla meditazione, con una libertà linguistica che fa tesoro di quelle
esperienze di ricerca, ma rammemora anche la profonda conoscenza del
repertorio classico, e, per quanto riguarda la vocalità, della lezione del
melodramma, del Lied romantico e, talvolta, addirittura del contrappunto
rinascimentale.Tale ampiezza di mezzi serve dunque a tessere trame
sonore che non sono mai fondate su una sola dimensione strutturale:
l’alternarsi di una vocalità varia, dal canto, basato su cellule ritmicomelodiche che rinviano ad altre cellule armoniche nel tessuto strumentale,
al parlato, allo Sprechgesang, all’agìto gestuale (che introduce anche,
auspicando la massima complicità dell’esecutore, un minimo di coreografia
nell’esecuzione), il ventaglio espressivo risulta estremamente vario. Ciò
consente a Bortolotti, limitandoci alle composizioni su testo, un’aderenza
estrema non tanto (non solo) alle intenzioni proprie dell’autore del testo
– ché non è soltanto questa la volontà del compositore – ma a quel
punto di incontro, a quell’idem sentire che il compositore sa di aver
raggiunto, dopo lungo cercare, con quel testo e quell’autore.
Non è casuale, ovviamente, che proprio certi testi siano stati scelti, che
proprio certi versi aprano la composizione: così, Nell’impoetico mondo,
scritto nel 1989, per soprano e strumenti, usa parole di Edoardo
Sanguineti che diventano anche di Mauro Bortolotti (“Sono con te, poeta/
Nell’impoetico mondo/ muore, poeta assassinato, muore la nostra
preistoria”, e, più avanti, “sono con te, nel cuore e nelle viscere, che mi
ritorni come fratello infelice”), il quale le riveste di suoni che ne
accompagnano egregiamente la trattenuta e dolorosa apparizione (un
trombone con sordina, in ppp, che disegna un lentissimo cromatismo
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SUONI NELLE PAROLE, PAROLE NEI SUONI. MAURO BORTOLOTTI E IL TESTO IN MUSICA
discendente, specularmente inverso al movimento, ugualmente lento e
cromatico ascendente, affidato alla voce del soprano):
Es. 1
Mauro Bortolotti, Nell’impoetico mondo, pp. 1-2
è ancora la ricerca di una piena fusione, musicale e spirituale, con il poeta,
tramite un testo fatto di parole, un logos comune che ne media l’unione.
3. Da molte lingue, in un solo linguaggio
E dunque, un altro profilo da considerare è l’impiego di un linguaggio fatto
anzitutto di musica, ma anche di numerosi idiomi: dal latino dei Cinque
epigrammi, al francese di Éluard, al portoghese di Pessoa (Grandes misterios
habitam, del 1992, per soprano e orchestra), all’inglese di Berryman (Room
231: Something Black, per soprano e quartetto d’archi, del 1980), fino,
ovviamente, all’italiano dei poeti già menzionati, e addirittura al vernacolo
ternano (Trittico, su testi di Giuseppe Manini, per baritono e quattro
strumenti, scritto nel 2005), con una scelta che è omaggio alle proprie
radici, ma anche ulteriore dimostrazione della versatilità di un autore che
ha sempre operato senza pregiudizi, e nel superamento di ogni
convenzionalismo.
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Ciò che piuttosto sembra interessare a Bortolotti è, oltre al significato
semantico del testo, l’esplorazione della ricchezza fonetica delle diverse
lingue, cui la tessitura musicale aderisce in modo attento, cercando sempre
di evidenziare, quasi ricordando la saussuriana distinzione tra parole e
langue, l’intima valenza evocativa del primo termine, di ciascuna parola
pensata, detta, cantata, recitata, o semplicemente ricordata, accanto al più
ampio e razionale fluire del discorso, della sintassi verbale e musicale. E qui,
ancora, l’esperienza dell’avanguardia storica ha lasciato in eredità al
compositore umbro una padronanza di stilemi espressivi assolutamente
consistente e preziosa, che gli consente di cogliere ambedue le dimensioni,
parola e discorso, tramite un tessuto sonoro in cui il vocabolo verbale e
quello strumentale si embricano reciprocamente, ciascuno svelando
dell’altro implicazioni e potenzialità che, altrimenti, sarebbero rimaste
celate; non mera somma di segni, dunque, ma qualcosa di nuovo, che si
genera dalla fusione delle due dimensioni espressive, sia in senso
sincronico (il singolo evento sonoro, la nota, il fonema, l’accordo, talora il
rumore o il gesto espressivo), sia diacronico (il discorso, musicale e
poetico). E proprio per quest’ultima dimensione, quella discorsiva, si rivela
appieno l’intima coerenza dello stile complessivo di Bortolotti, rispetto alla
sua sensibilità e alle sue intenzioni: svincolato, come detto, dalle costrittive
gabbie di troppo angusti strutturalismi, l’autore può modulare l’intero suo
procedere secondo un piano duttile, sempre cangiante, in un caleidoscopio
di suggestioni, ispirato, nell’ambito della produzione che qui ci interessa, dal
rapporto costante con il testo, come da una propria, interiore costruzione
di senso, e con una coerenza garantita, sul piano musicale, dall’impiego di
cellule armoniche omogenee e strutturanti, nuclei accordali portanti che,
comunque, rendono la composizione solida e coesa.
A tale versatilità concorre anche la varietà degli organici strumentali
utilizzati: dallo strumento solo, in funzione di interlocutore (L’alba
scivolando, per baritono e pianoforte, su testi di N. Cossu, del 1972; I
carry, per voce e chitarra, su testi di E. E. Cummings, del 1977; le Due
poesie di Pasolini, del 1981, ancora per baritono e pianoforte, solo per
citare alcuni esempi), al piccolo ensemble cameristico (i già citati Room
231: Something black, e Arioso per la scena III, o Da Carlotta a Weimar:
monologo di Goethe, per voce recitante, soprano e dieci strumenti, su testi
di Th. Mann, scritto nel 1995), all’orchestra, come nel recente Ou le
silence, su testi di Rilke, scritto nel 2006 (di cui si dirà oltre), senza
escludere il possibile intervento di un nastro magnetico con suoni
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sintetizzati (L’attesa…Il professor PI, su testi di Alfredo Giuliani, del 1980)
o di un computer (Mottetto, del 1971, frutto della collaborazione con il
CNUCE di Pisa).Tanta ricchezza di scelte rende ragione di uno spirito di
ricerca inesausto, di una reale capacità di rimettere in continua
discussione il proprio stile, di una maestria ‘artigianale’ tutt’altro che
comune: in un contesto nel quale, per consapevole (e realistica) scelta,
non ci sono punti di riferimento obbligati, né tanto meno esclusivi. La
lezione originaria di Petrassi, certo, ispira le prime composizioni;
l’esperienza di Darmstadt, o della prima fase di “Nuova Consonanza”,
vissuta con preziosi compagni di avventura ormai scomparsi, come
Franco Evangelisti o Domenico Guaccero, altrettanto, anima la spinta alla
sperimentazione, il coraggio di giocare con gli strumenti, con le voci, e
anche con i testi, esplorandone (e talora esasperandone) le possibilità;
ma l’equilibrio della maturità è raggiunto mediante una complessa
alchimia di fattori espressivi e di stile, che si sostanzia, oltre che nell’uso
dei mezzi citati, anche in un lirismo profondo, ancora una volta del tutto
alieno dalle involuzioni semplicistiche di un neoromanticismo à la page, e
piuttosto praticato nel suo significato più intimo, in una Stimmung che
recupera il senso esistenziale di una temperie e di una sensibilità
romantiche, che mai scadono in facili imitazioni formali, né tanto meno in
ammiccanti e tranquillizzanti ricette new age, totalmente estranee alla
formazione e alla cultura di Bortolotti, orientato piuttosto verso esiti
postespressionisti.
Il che non significa però una forma di snobismo: in realtà, il complesso stile
del compositore umbro tende piuttosto a fondere, sia nella scelta del
linguaggio musicale, sia in quella dei testi, dimensioni apparentemente
diverse, non disdegnando affatto di impiegare, accanto ai modi della
cultura ‘alta’, anche elementi di un sentire più ‘popolare’, pensati come
aspetto del vivere concreto, quotidiano, e della pragmaticità (talora della
prosaicità) dell’esistenza. Così, il latino non è quello aulico, ma quello di
Marziale, degli epigrammi, graffiante e concreto, ancorato all’immediatezza
dei rapporti umani (“Mentitur qui te vitiosum, Zoile, dicit: non vitiosus
homo es, Zoile, sed vitium”:2 episodio particolarmente felice sul piano
musicale, giocato su un vocalizzo continuo e rapido, ancora una volta “con
ironia”, e con sottili sfumature di intonazione per quarti di tono, lasciate
alla scelta degli esecutori);
2
MARCO VALERIO MARZIALE, Epigrammaton libri, lib.XI, Ep.XCII (Epigrammi, a cura di G. Norcio,Torino,
UTET, 1991, p. 732).
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Es. 2
Mauro Bortolotti, 5 Epigrammi di Marziale, p. 9
così, ancora, all’intenso lirismo e all’impegno civile dei testi di Sanguineti
(“Questa tua vecchia Italia è una tetra rovina/ se è ignara già del suo
passato”),3 si affianca la scelta della poesia vernacolare, misurata anch’essa
su contenuti di impegno civile, ma altresì di schietta quotidianità, o infine la
3
EDOARDO SANGUINETI, Le ceneri di Pasolini (1979), in ID., Stracciafoglio. Poesie 1977-79, Milano, Feltrinelli,
1980, pp. 117-120.
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SUONI NELLE PAROLE, PAROLE NEI SUONI. MAURO BORTOLOTTI E IL TESTO IN MUSICA
già citata, sublime oscenità del testo di Giuliani, in un continuum linguistico
che consente di percorrere le più diverse sfumature della comunicazione.
4. Ora, da allora
E l’urgenza di comunicare, di esprimere contenuti determina, talvolta,
anche la scelta della lingua: così, nel già citato Ou le silence, studio per le
Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, scritto nel 2004 per voce e quattro
strumenti, e rielaborato nel 2006 in una versione orchestrale, Bortolotti
opta per un testo recitato (sebbene sia in corso di elaborazione una
versione con una parte affidata al soprano) e per una traduzione italiana
del medesimo (quella, egregia, di Franco Rella), quasi a voler rendere con
la massima immediatezza l’intensa, struggente e talora lacerante pienezza
espressiva della poesia di Rilke, che fa dell’enigmatico splendore degli
angeli una metafora del mistero tremendo della morte (“Se pur gridassi,
chi m’udrebbe dalle gerarchie degli angeli?/ E se uno mi stringesse
d’improvviso al cuore, soccomberei per la sua troppo forte presenza./
Perché nulla è il bello, se non l’emergenza del tremendo/ Ognuno degli
angeli è tremendo”).4 E la densità del testo si fa densità del suono, in una
tessitura che, nella versione orchestrale, costruisce pagine di profonda
inquietudine, di notevole complessità cromatica, e di estrema flessibilità
strutturale. E quest’opera, che ben esprime il grado di raffinatezza della più
recente produzione dell’autore, evidenzia ancora una volta l’intimo legame
che si costruisce, nello stile di Bortolotti, tra testo verbale e contesto
musicale. Le Elegie del poeta praghese sono infatti l’occasione per una
commossa e attonita meditazione sulla morte, sul senso dell’esistenza, del
Dasein, di un ‘esser-ci’ che, anticipando l’accezione heideggeriana, è un
esser-gettati nel mondo (“Sì, le primavere ebbero bisogno di te/ Di te
cercava qualche stella, ché tu ti mettessi sulle sue tracce.Tutto questo era
un compito. Ma tu, tu lo potesti reggere?”),5 al mondo concreto aperti, ma
in un anelito profondo verso una dimensione di trascendenza che, pure,
non rinneghi un sentimento di ineffabile nostalgia per la natura terrena del
vivere dinanzi all’invocazione dell’Angelo che al vivere sottrae (“Oh, anche
la primavera capirebbe – lì non c’è luogo che non abbia il tono
RAINER M. RILKE, Duineser Elegien (1912-1922), trad. it. Elegie duinesi, a cura di Franco Rella, Milano,
Rizzoli, 2004 (il passo cit. proviene dalla Elegia I, vv. 1ss., p. 43).
5
Ivi, vv. 26ss., p. 45.
4
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dell’annunciazione. Non solo i mattini d’estate, non solo dopo il tardo
temporale il respiro della trasparenza, non solo l’approssimarsi del sonno
e d’un presentimento, la sera… ma le notti! Ma le alte notti d’estate, le
notti, e le stelle, le stelle che curan la terra. Oh, essere morti una volta, e
saperle interminate tutte le stelle: allora come, come dimenticarle!”).6
Dunque, un desiderare l’indesiderabile, e insieme uno sciogliersi dal
desiderio stesso, un temere il volo terribile dell’angelo e pure invocarlo
(“Ogni angelo è tremendo. E tuttavia, ahimè, v’invoco uccelli quasi mortali
dell’anima, sapendo di voi”):7 Bortolotti sa afferrare il senso di angoscia
che promana dal testo, immedesimandovi la propria voce in una continua
trascolorazione di timbri, in un’ansia ritmica che muta di misura quasi a
ogni battuta, che trova un breve momento di distensione (non di stasi)
solo per accogliere una mesta coscienza di sé (“Gli angeli no, gli uomini
no, e i sagaci/ animali lo notano già quanto noi inadeguati/ siam qui di casa
nel mondo già interpretato”):8 ma gran parte del brano si svolge in un
clima di incontenibile tensione, perfettamente accordata col testo, nel
contrasto tra una figurazione ritmico-melodica di estrema mobilità e una
dinamica sovente compressa, trattenuta in una gamma dal p al ppp, che
ancora una volta muove dal suggerimento del poeta, puntualmente
recepito (“E mi trattengo così, e inghiotto l’appello di oscuri singulti”)9 e
tradotto in qualcosa di altro, di ulteriore, dal contesto sonoro (es. 3).
È questo un esempio significativo dello stile attuale del compositore, il
punto (provvisorio) d’approdo di una scrittura che si è andata sempre più
raffinando nel corso di questi decenni: il legame con il testo e con il suo
autore, la ricerca di una sintonia con il medesimo che mai si riduce a una
pedissequa lettura dei contenuti verbali, di una dimensione semantica che
produce, nella sintesi dei linguaggi, un frutto nuovo e diverso, che dà senso
all’intero agire creativo. Il tutto in un confronto e un amalgama di
sensibilità sempre sostenuti da una perizia musicale che opera secondo
stilemi in fondo legati, ma nel senso più alto, alla temperie romantica, alla
volontà di seguire le mutevoli forme di quella Stimmung che è in continuo
divenire, con un’estrema libertà di opzioni, e senza alcun vincolo che non
sia quello di una pur rigorosa coerenza interna, rinvenuta in una
6
7
8
9
Ivi, Elegia VII, vv. 10 ss., p. 79.
Ivi, Elegia II, vv. 1 ss., p. 49.
Ivi, Elegia I, vv. 10 ss., p. 43.
Ibidem, vv. 8-9.
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SUONI NELLE PAROLE, PAROLE NEI SUONI. MAURO BORTOLOTTI E IL TESTO IN MUSICA
complessa logica discorsiva, in una narrazione continua che accomuna il
linguaggio musicale a quello verbale, nella costante e proficua ricerca di un
difficile equilibrio, di una soluzione delle lacerazioni interiori dell’esistere, e
che trova, nell’intenso legame che unisce la parola dell’uomo al suono
della natura, la vibrazione più profonda dell’essere, e del fare, di un artista.
Es. 3
Mauro Bortolotti, Ou le silence, ms., p. 4
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Gesto e narrazione nella musica per archi
Paolo Rotili
0. Alcune questioni di metodo
Per orientarsi nel variegato panorama della musica strumentale del
secondo Novecento, una vera e propria ‘esplosione’ di tendenze, idealità,
ricerche e tecniche compositive, lo studioso di analisi musicale ha spesso
assunto la prospettiva della mera descrizione della tecnica compositiva
impiegata nel testo scritto. Anche oggi nell’analisi troviamo spesso una
sorta di accantonamento della reale semiosi musicale del brano a favore
di un’indagine che ricostruisca le procedure di scrittura, i dati più
facilmente individuabili, per poi risalire alle motivazioni poetiche
dell’autore, al suo orizzonte culturale.
Il senso musicale delle composizioni, il valore estetico, è spesso cercato
nella effettiva coerenza interna al testo, nel rapporto tra progetto e
realizzazione, nella fiducia che il testo non ‘parli’ che del testo stesso,
veicolo delle sue implicazioni poetiche generali, e che non sia quasi
pertinente esplicitarne le valenze espressive. Il come-è-fatto o anche il
come-è-pensato spesso è considerato sinonimo del cosa-significa. E il benfatto giustifica il valore dell’opera. Una sorta di oggettivismo descrittivo,
quasi il salvifico ancoraggio in un panorama estremamente variegato e il
pendant teorico di una certa indifferenza rispetto agli esiti percettivi
dell’opera da parte degli stessi compositori. Negli anni del dopoguerra, ma
anche oggi di fronte alla produzione di molti autori, nell’analisi sembra(va)
più importante individuare la tecnica, che rimanda al contesto culturale e
poetico, che non il singolo risultato estetico. Lasciato sullo sfondo, dato
per scontato.
Di qui un certo imbarazzo nell’analizzare le opere di Mauro Bortolotti:
tutto questo in lui non è centrale. La sua scrittura sfugge ad esplicitazioni
meccaniche, alla regolarità delle procedure, all’omogeneità degli elementi.
Non si può ridurre a tavole di campi armonici prestabiliti o di sequenze
ritmiche, tradurre in vettori formali funzionali alla costruzione della macroforma.Vi troviamo più una coerenza generale, statistica, ma localmente la
sua musica sfugge a tentativi di riduzione ad unum. È un modo di scrivere
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GESTO E NARRAZIONE NELLA MUSICA PER ARCHI
affine alle metodiche del periodo atonale della Scuola di Vienna o al
Petrassi maturo, non a caso suo maestro (pensiamo a composizioni come
Estri), non tanto per gli esiti espressivi, quanto per il voluto grado di
imponderatezza del comporre, quasi di segreto legame tra scrittura mezzi e materiali usati - ed esiti espressivi.
Ciò che accade nelle sue composizioni va dunque descritto, portato ad
evidenza, facendo del tradizionale bagaglio analitico tardo-novecentesco
solo uno dei possibili strumenti conoscitivi, e non senza il rischio di indebite
letture. Dalle composizioni dei tardi anni Cinquanta in poi, infatti, in lui
ritroviamo dell’avanguardia più i materiali sonori che le procedure, più
l’ambito espressivo che il pensiero musicale; più che il preteso oggettivismo
del comporre chiuso in un orizzonte di coerenza scritturale, nelle
composizioni di Bortolotti troviamo l’altro cui la scrittura si relaziona.
Per prima cosa troviamo il suono. Non il suono inudito/inaudito, ma il
suono secondo le sue capacità evocative, semanticamente espressive. Un
aspetto importante nel suo pensiero musicale è, infatti, una costante
attenzione al dato percettivo in quanto portatore di contenuti espressivi.
Non un improbabile vocabolario musicale, quanto la consapevolezza, direi
antica, che un ritmo, un intervallo, un registro non sono meri dati tecnici,
ma, grazie alla loro natura acustica, ai riflessi psicoacustici in noi e al senso
che hanno acquisito nel tempo, sono entità capaci di sostanziare lo stesso
contenuto espressivo del brano. In questo senso la sua musica è
raramente sperimentale, di ricerca del suono per il suono, quanto
piuttosto ‘accoglie’, filtra e seleziona in se ciò che la ricerca è andata via via
sperimentando. E questo suono spazia dal rumore alla nota intonata, in
texture complesse o in linee definite. Un cluster nel registro grave è
dunque semanticamente opposto a esili melodie di armonici nei sovracuti;
diventa significativo il contenuto più o meno inarmonico di un accordo, il
bruitismo strumentale opposto alle frequenze determinate, l’estrema
variabilità di timbro che si può produrre con l’archetto e la tastiera di un
violino - suoni aspri o dolcissimi, vitrei o soffocati.
Allora il suono in lui non è mai suono, ma sempre gesto. Il suono che il
tempo articola in gesto.Tempo dilatato all’estremo o rappreso in concitati
momenti, un tempo rigido nell’articolazione o “quasi improvvisando”, dal
metro definito o scandito in secondi, spaziale: un tempo fortemente
interiore, capace nella sua estrema elasticità di governare il flusso della
coscienza. Perché di questo si tratta: il brano per Bortolotti si compone
seguendo un indefinito processo interiore che si concretizza, di volta in
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PAOLO ROTILI
volta, in un dover essere nell’atto stesso del comporre. Quasi una
improvvisazione che si attualizza in veste stabile nel testo. La sua è,
dunque, una sostanza interamente narrativa del comporre, pendant di una
sostanza temporale del percepire. Un mettere in discussione ogni volta il
proprio io alla ricerca di un senso possibile, di una magia irripetibile.
La scrittura dei suoi pezzi testimonia dunque maggiormente questo
anelito che non se stessa. Pochi elementi stabili (soprattutto prevalenti
scelte armoniche e gesti minuti), dai quali partire per variarli o negarli,
sfuggendo alla retorica della scrittura, alle procedure meccaniche, ma
inventando localmente, quasi sempre ‘da sinistra a destra’, valutando e
soppesando il singolo particolare nell’economia del discorso che si va
costruendo. Di qui un forte senso tematico nelle sue composizioni e una
visione della forma come possibile concrezione di una ‘avventura’
espressiva. Una forma dei brani sempre diversa, ogni volta da individuare,
ma che rifugge la grande dimensione, la vettorialità delle trasformazioni
tematiche, mentre privilegia l’andamento episodico, il contrasto, il reticolo
dei ritorni e dei rimandi, in un sorvegliato, interiore, ‘pudore’ antiretorico.
Valutando a posteriori il percorso di Mauro Bortolotti possiamo anche
individuare una sorta di suo personale ‘vocabolario’ di gesti prediletti:
immobili campiture spesso agli estremi dei registri (ho sempre avuto la
sensazione di una metafora corporeo/spirituale – le viscere e le stelle nell’uso del contrasto estremamente grave/sovracuto); piccoli gesti, quasi
cellule, nelle quali l’insistenza su poche note sembra la metafora di un
lirico parlato interiorizzato; ostinati di ribattuti irregolari, come accenno di
un incerto incedere, di una attesa sempre posticipata; frammenti di poche
note nei registri acuti, come ultimo, nostalgico retaggio di canto.
Un modo rischioso e faticoso di comporre, rifiutando la tendenza
all’artigianato di mestiere e che nella sua produzione ha comportato il
ricorso molto spesso a testi letterari o a suggestioni altre che la musica.
Se, infatti, nelle composizioni di Bortolotti la scrittura ci parla del suono,
della sua sostanza espressiva, il suono ci parla di altro da sé. In questo
senso la musica di Mauro Bortolotti, senza ‘suonare il piffero della
rivoluzione’, è una musica di impegno. Le sue opere più ‘politiche’ (Contre
2 o Studio dal vero [...] sulla strage di Brescia), la sua costante e raffinata
frequentazione dei testi poetici (da Rilke a Éluard, da Giuliani a Sanguineti
a Cummings e Berryman, da Michelangelo a Pessoa, solo per citarne
alcuni), dei quali privilegia le metafore della condizione umana (dalle
tragedie esistenziali alle speranze metafisiche, anche con episodiche
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GESTO E NARRAZIONE NELLA MUSICA PER ARCHI
scorribande di divertita ironia per il lazzo erotico), il costante riferimento a
suggestioni extramusicali anche nella musica strumentale, testimoniano il
rifiuto di qualsiasi dimensione estetizzante del fare musica, ma piuttosto la
personale visione di curiosità e partecipazione dell’artista all’avventura
umana. Il suo impegno esistenziale di testimonianza.
1. Le composizioni per orchestra d’archi
Allora è evidente che l’aver delimitato questo scritto alle composizioni per
archi è utile solo a una mera divisione del lavoro: in se stesso l’uso o meno
di un organico – di una timbrica - non costituisce la sostanza del pensiero
musicale di Bortolotti. Ma se è vero che ogni pezzo risponde ad esigenze
compositive diverse, ha esiti espressivi irripetibili, è anche vero che in lui il
mezzo, con la sua tavolozza o le sue proprietà articolatorie, permette di
comporre specifiche texture, mondi espressivi altrimenti indicibili.
Mauro Bortolotti ha scritto i suoi tre lavori per orchestra d’archi in un
tempo relativamente breve (dal ‘68 al ‘72), grazie al rapporto con i Solisti
Veneti di Claudio Scimone, allora molto attivi nella musica
contemporanea, e con i Solisti Aquilani di Vittorio Antonellini. Anni nei
quali è abbondantemente conclusa l’esperienza del rigore strutturale e in
parte anche quella aleatoria e si sperimenta anche in Italia nel campo
elettroacustico (ricordo qui l’esperienza fatta da Bortolotti con Pietro
Grossi). Sono anni di riconsiderazione e di selezione, in cui le varie istanze
- coerenza, improvvisazione, polilinguismo, ricerca timbrica - trovano una
sintesi nella scrittura (pensiamo alla fondamentale e bellissima Sinfonia di
Luciano Berio o alla dialettica scrittura/ work in progress nelle opere
dell’ultimo Maderna). Una fase di delimitazione dell’esperienza aleatoria
senza perderne la dimensione poliedrica, espressivamente e stilisticamente
poliforme. E Transparencias per clavicembalo e archi (1968), Links per
violino, contrabbasso e archi (1969) ed E tuttavia… concatenazioni per
archi (1972), costituiscono un corpus di opere inserito perfettamente in
quella temperie artistica e culturale.
La dialettica scritto/improvvisato tipica dell’opera aperta vi è presente in
vari aspetti: nella cadenza per clavicembalo di Transparencias per moduli
combinabili, nei grafismi conclusivi di Links, nel ‘grumo’ violento della pagina
ultima di E tuttavia. Ma è soprattutto nell’articolazione temporale, sia
locale, nei singoli gesti, sia generale, con la presenza o meno della griglia
metrica, alternata a una scrittura in secondi, che si evidenzia e si sostanzia
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un pensiero che fa della dialettica definito/indeterminato il centro della
concezione formale.
Oltre alla dimensione temporale, anche i materiali sonori rimandano alla
varietà tipica di quegli anni: bruitismo (colpi dell’archetto e delle mani su
vari punti di risonanza degli strumenti), estrema variabilità della timbrica, –
molteplici modi d’attacco e della produzione del suono, totale cromatico,
ricchezza quartitonale. Ma tutta questa ampia tavolozza e questa apertura
articolatoria si sostanziano poi in piccoli gesti ritmici, cellule melodiche, in
un tematismo, cioè, che ridotto agli estremi, individua situazioni espressive
differenti, talvolta in rapporto oppositivo. E in questo scrivere per gesti
minuti, assemblati spesso in texture complesse, si pone il problema di
come il tematismo in lui si relazioni alla forma. Abbiamo accennato per
Bortolotti a una dimensione per episodi della forma, alla mancanza di
vettori macro-formali dominati da calcoli processuali. E se vengono a
mancare procedure esplicite di individuazione e sviluppo degli elementi
micro-formali, allora il rovello compositivo è in realtà risolto ogni volta in
modo diverso, ponendosi di volta in volta il problema di come collegare
episodi differenti. La dimensione della macro-forma diviene così uno dei
luoghi di maggiore interesse per l’indagine analitica, dal momento che in
essa si invera il pensiero musicale di Bortolotti.
2. Transparencias, per clavicembalo e archi (1968)
Il brano è stato dedicato ai Solisti Veneti che lo hanno eseguito per la
prima volta nel ‘68 al teatro Eliseo di Roma con Mariolina De Robertis al
clavicembalo. È una composizione per solista ed ensemble, ove il ruolo
concertante del clavicembalo è pensato in modo assolutamente anomalo.
A questo strumento, infatti, è dedicata un’ampia cadenza che interviene al
termine del brano e che può essere eseguita anche da sola, in assenza
degli archi; per il resto il clavicembalo tace o s’inserisce nei vari episodi
con pochissimi gesti, soprattutto percussivi, per modificare timbricamente
gli attacchi degli archi.
Perché questa scelta? Se guardiamo l’intero brano ci accorgiamo che è
costruito per episodi connotati da gesti ben definiti, assegnati rigidamente
a precise sezioni strumentali. L’ensemble d’archi è pensato, infatti, non
tanto come una compagine compatta, ma piuttosto come un insieme
suddiviso in gruppi timbricamente omogenei (tre gruppi: i 6 violini, le 2
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viole, i 2 violoncelli con il contrabbasso), che articolano un discorso
complessivamente concertante (In questo contesto il clavicembalo non
rappresenta che una di queste situazioni concertanti).
Significativo è il fatto che i gruppi siano omogenei e individuino sempre un
preciso registro. Questo definisce una gradazione coloristica all’interno
dell’ensemble stesso, una densità differente - dal molto scuro degli archi
gravi al vitreo perlaceo degli armonici dei violini -, che è funzionale al
gioco compositivo evocato dal titolo del brano. Bortolotti crea, cioè,
differenti texture timbriche, delle filigrane o molto opache o del tutto
trasparenti, che oppone o sovrappone in differenti modi. Suoni complessi
a registri differenziati. È un gioco essenzialmente timbrico, che ricorda la
scrittura tipica dei gruppi e quella per fasce di memoria elettronica. Ma la
natura di queste ‘fasce’ è fortemente connotata gestualmente. Il timbro è
imbricato con differenti articolazioni ritmiche che contribuiscono a dare a
queste texture un differente grado di maggiore o minore individuazione
gestuale. Il grave opaco è sempre abbinato al suono lento e continuo; gli
armonici dei violini a una concitata e irregolare disposizione. Nel registro
centrale troviamo l’articolazione ritmica definita in ritmi ripetuti, affidata
alle viole. Queste diverse campiture realizzano dunque una diversa
gradazione del gesto musicale, dallo sfondo alla figura, quest’ultima intesa il
più delle volte come passo solistico di bravura. E se gli archi gravi sono i
più opachi, per il loro registro e la quasi assente articolazione - i violini ne
sono l’etereo pendant acuto e le viole il momento di maggiore
concitazione gestuale -, il clavicembalo è il più ‘trasparente’ per l’estrema
variabilità figurale della sua cadenza e per il suo esile timbro. Di qui,
crediamo, il suo vero senso di strumento solistico: non tanto una
preminenza dovuta alla costante e dominante presenza durante tutto il
brano, quanto piuttosto il ‘luogo’, tra i vari luoghi nei quali si articola il
discorso, nel quale è maggiore l’individuazione e la variabilità gestuale.
La composizione è un percorso di vari episodi, piuttosto scolpiti nei loro
tratti, giustapposti tendenzialmente in modo parattattico, nel quale gli
ambiti di registro e l’articolazione ritmica giocano il ruolo fondamentale di
differenziazione delle texture.Vi possiamo individuare sette episodi, che
sono del resto segnalati dai cambi dinamici, collegati da più o meno brevi
situazioni di passaggio.
Il primo, “Lento (libero)”, è tutto giocato su una fascia molto grave
(violoncelli e contrabbasso), dal suono corposo, viscerale, ‘solcato’ da
quattro violente e secche strappate di tutti gli altri strumenti, eseguite nel
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registro medio-acuto. Un’opposizione violenta tra suono tenuto e suono
secco, tra continuità discorsiva e ‘disturbo’ divergente. Estremi gestuali che,
presentati all’inizio, assumono la funzione di paradigma tematico di tutta la
composizione:
Es. 1
Mauro Bortolotti, Transparencias, p. 1
un episodio di sostanziale immobilità vivificato da piccole oscillazioni o da
movimenti melodici di seconda (maggiore e minore), di terza minore e di
tritono, intorno ad alcune altezze, spesso raggiunte attraverso lenti
portamenti; un libero contrappunto (anche armonicamente abbiamo una
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dominanza degli stessi intervalli), realizzato dai tre archi gravi, con una
scrittura proporzionale, capace di fissare un suono globale fermo, ma
continuamente mobile al suo interno, dalla forte connotazione corporea,
grasso, ricco di battimenti.
In questa prima parte è l’intensità che svolge un ruolo processuale: se le
strappate dal ff iniziale decrescono al mp, la fascia grave dal mp iniziale
procede verso il piano possibile e, tra la terza e la quarta strappata, ricresce
sino al forte, per arrivare al ff con il quale bruscamente si interrompe
l’episodio. Questo contribuisce a sottolineare la natura ‘viscerale’ dell’episodio.
A p. 4 della partitura abbiamo la prima transizione da un episodio all’altro: sul
repentino scomparire dei gravi, come d’incanto si palesano gli armonici
tremolanti alla punta dei violini, immobili, con una lunga corona. È anche
questo un effetto di forte contrasto, cifra di tutta la composizione (es. 2).
Dall’immobilità dei violini parte il secondo episodio (“Più mosso”),
caratterizzato all’inizio da una estrema variabilità di articolazione dinamica,
dosata tra il pp e il mp. Gruppetti in velocità, pizzicati, piccoli interventi
percussivi, note tenute, il tutto scritto per il gruppo dei sei violini in modo
fitto e regolato all’inizio da un metro in ottavi. Il carattere globale è quasi di
compatto florilegio, di brulicante ed eterogenea ornamentazione. L’elemento
di ‘disturbo’ è qui rappresentato dalle due viole, che realizzano ampi glissandi
da eseguirsi liberamente. L’episodio si sviluppa diminuendo la variabilità
gestuale a favore dei veloci gruppetti in un metro a campo aperto.
Progressivamente, ma rapidamente, voce per voce e senza sincronia, il gesto
rapido si raggela in immobili note acute. La variabilità della texture si riduce a
favore, di nuovo, dell’immobilità della fascia di suoni tenuti, ma questa volta
progressivamente procedendo dal registro acuto a quello grave. Da notare
che il profilo melodico e la natura intervallare dei gruppetti in velocità,
sempre più accelerati, ricalca quello degli archi gravi del primo episodio:
cambiamenti continui di direzione, costituiti da intervalli piccoli che
progressivamente si ampliano, in una libera imitazione. Una sorta di tecnica
della diminuzione, gestita in modo assolutamente non meccanico. Anche i
colpi percussivi, sparsi nel tessuto melodico, sembrano essere una riduzione
delle strappate iniziali. È come se ci fosse una contrazione temporale dei
gesti del primo episodio che cambia profondamente la loro natura.
Il terzo episodio (“Meno”), di sole sette battute, rende trasparenti i gesti sin
qui enunciati, li isola in un gioco di brevi giustapposizioni tra gruppi
timbricamente omogenei. Questo apre senza soluzione di continuità al
quarto momento (“Libero, con violenza”), quello centrale di tutto il pezzo,
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con la preminenza delle due viole che articolano, spesso per bicordi di
settima ribattuti, il totale cromatico su tre ottave, praticamente polarizzato. La
fascia si tramuta dunque in duetto virtuosistico, nel quale le viole si alternano
con gruppetti irregolari di semicrome e biscrome o con strettissimi trilli in
crescendo. E gli interventi secchi,‘disturbanti’ e percussivi, sono affidati ai
violini, mentre il clavicembalo orna il frenetico incedere delle viole.
Il vettore formale di questo episodio è dato dalla riduzione progressiva delle
note intonate (del campo armonico polarizzato) dalle viole, sino ad arrivare
al semplice gesto del ribattuto.
Nella quinta parte appare in tutta la sua evidenza il gioco di sovrapposizioni
per gruppi strumentali di gesti ben individuati. È un momento emblematico
della scrittura per gruppi e di ricapitolazione delle figure più caratteristiche
sinora ascoltate e che prelude alla cadenza del clavicembalo.
Es. 2
Mauro Bortolotti, Transparencias, p. 4
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La sesta sezione (es. 3) è data per l’appunto dalla cadenza per
clavicembalo solo, scritta in modo tipico per l’epoca, vale a dire suddivisa
in segmenti da montare liberamente.1 È il luogo di maggiore eterogeneità
gestuale: vi ritroviamo momenti del già udito, ma anche frammenti
liberamente improvvisati o, al limite, citazioni. Al termine della cadenza
Transparencias si conclude con una chiara coda, liquidazione degli elementi
già uditi, nella quale per l’ultima volta riappare la fascia ai tre archi gravi, cui
vengono sovrapposti gli eterei armonici dei violini e i rapidi glissandi delle viole.
Es. 3
Mauro Bortolotti, Transparencias: Cadenza per il clavicembalo
Dall’analisi descrittiva del percorso compositivo di Transparencias emerge
che i due elementi tematici iniziali, il suono continuo e il suono
puntiforme, attraverso variazioni della velocità dell’articolazione e del
registro, assumono differenti connotazioni espressive nel corso dell’opera.
1
“Il montaggio dei singoli momenti è libero; eventuali possibili ripetizioni dovranno variare registrazione,
velocità e insomma, modificare i modi di lettura. La registrazione indicativa: l’esecutore è libero di modificarla a piacere. Tra i vari “momenti” la pausa (salvo le corone) deve essere brevissima. La cadenza, se
inserita in Transparencias dovrà essere ‘montata’ in modo da non superare i 90”” (MAURO BORTOLOTTI,
Transparencias, Milano, Suvini Zerboni, 1968, n. ed. S. 6900 Z.).
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Dall’etereo al viscerale, dall’esibita irruenza all’immobile contemplazione:
siamo nel solco della variazione in sviluppo tipica della linea che collega
Beethoven a Schönberg (gli autori della tradizione più amati da
Bortolotti). In Transparencias i processi della variazione tematica assumono
valore di opposizione, di radicalizzazione verso gli estremi, nascondendo
all’interno del brano i processi stessi di derivazione. La variazione in
Transparencias non è, infatti, il mezzo che regola il senso narrativo del
brano, non gestisce la temporalità della composizione, realizzata qui al
contrario mediante opposizioni di ‘pannelli’ gestuali. Piuttosto interviene
come procedimento di selezione e individuazione dei successivi gesti, di
volta in volta da ‘ricomporre’ in modo, appunto, parattattico. I gesti
tematici, cioè, una volta espressi vengono ridotti a materiale su cui
operare ulteriori trasformazioni e i cui legami con la matrice gestuale
possono essere i più disparati.
3. Links, divertimento per violino, contrabbasso e archi (1969)
Scritto l’anno dopo, sempre per i Solisti Veneti che lo eseguirono per la
prima volta nel corso del XXXII festival della Biennale di Venezia, anche
Links è un lavoro concertante. Ma il rapporto tra i due solisti e l’ensemble
è qui risolto in modo assai diverso.
Nella auto-presentazione della composizione Bortolotti scrive: “[…] vuole
essere un tentativo di verificare le possibilità auto-organizzative di un
materiale consegnato pressoché per intero al solo I violino ed al
contrabbasso. Gli altri esecutori interverranno in taluni punti più o meno
prestabiliti o – se riterranno di doverlo fare e se il direttore lo crederà
opportuno – potranno tentare di ‘collegarsi’, di entrare in gioco, di
divenirne elemento costruttivo (o negativo), in qualsiasi momento con
qualsiasi fatto sonoro o ritmico”.
In realtà i materiali sonori e ritmici sono indicati in modo preciso
attraverso tutta una serie di simboli grafici e la libertà temporale degli
interventi è guidata in modo abbastanza puntuale all’interno di campi più
o meno ampi di scelta. Rimane tuttavia il dato della sostanziale diversità
tra la scrittura per i solisti – tradizionale, puntuale in tutte le sue
dimensioni, di grande virtuosismo e forza sonora – e quella per l’ensemble
– aperta, grafica, di amplificazione o contrasto dei gesti solistici. Siamo
dunque all’interno della dialettica determinato/indeterminato, che in
questo caso viene coniugata con il rapporto concertante solo/tutti. È
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un’impostazione più radicale rispetto a quella del brano precedente, che
anche qui individua un modo originale di concepire il rapporto con i due
soli: due importanti linee cui si collega (Links, appunto), in relazione
metaforicamente possibile o meno, il resto dell’ensemble.
Proseguendo nella sua presentazione Bortolotti ci dice qualcosa di
importante anche sulla sua concezione musicale: “Il lavoro quindi – che
rifiuta un materiale o, meglio, un tipo di elaborazione certo logorata, se
non fossilizzata, di esso – tenta un’operazione che potremmo definire di
‘autogestione’, in cui gli esecutori diventano elemento determinante ai fini
di una non eliminabile – anche se oggi non più ben chiara – resa finale”.
Pur nella momentanea sfiducia – o come intellettuale controprova di
rottura - verso una scelta compositiva soggettiva (sappiamo che Bortolotti
non rinuncerà più a fissare per iscritto, a scegliere, fatto che fa di Links
un’esperienza-limite nella sua produzione), ciò che viene evidenziato in
questo passo è che, comunque, tramite le scelte del compositore o
dell’esecutore, anche in un orizzonte di momentanea confusione o
sospensione di tale volontà soggettiva, vada sempre ricercata una non
eliminabile “resa finale”. Il risultato percettivo, al di là dei mezzi per
raggiungerlo, deve essere l’obiettivo finale del fare musica. Anche nel suo
pezzo più radicale Bortolotti non abbandona il desiderio di offrire
un’opera che colga la possibilità di senso all’ascolto, la possibilità di
sfondare il misterioso limite tra ciò che è riuscito (significativo) e ciò che
non riesce ad esserlo, al di là della tecnica compositiva con cui è stato
elaborato. Questo è uno dei nodi della poetica di Bortolotti: la sfiducia
che l’adozione di una tecnica, di un orizzonte ideologico della scrittura,
possa garantire di per sé la bontà del risultato artistico. Per lui è la ricerca
espressiva il motore delle scelte artistiche. La tecnica, piuttosto, è il
risultato che noi rintracciamo a posteriori di questa ricerca (perdendone di
vista forse, nell’esplicitarla, il senso profondo).Vi è dunque una
imponderatezza, un piano del ‘non detto’ o un ‘dire’ attraverso la musica,
incommensurabile al linguaggio verbale. In fondo è una posizione
idealistica, che lo ha reso sostanzialmente estraneo al dibattito più acceso
della neoavanguardia del dopoguerra, ma che gli ha permesso di trovarsi
naturalmente a proprio agio nella produzione musicale degli anni Ottanta.
Links comporta una successione di 20 numeri, ma la sua articolazione
formale risponde sostanzialmente al gioco di relazioni tra i soli e il tutti,
così che i venti numeri possono essere raggruppati in sezioni più ampie.
Tutto il materiale tematico è presente nelle prime due battute (sorta di
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numero zero): suono breve, suono tenuto, suono intonato definito, suono
intonato a piacere, bicordi, armonici, pizzicati, suono
percussivo/rumoristico (le molteplici possibilità dell’archetto e delle mani
nei vari luoghi dello strumento), glissandi, scrittura metrica e in secondi. È un
inizio irruento del tutti, che gestualmente trasforma la dominanza ritmica in
suono tenuto. Dalla complessa texture iniziale, da quell’unico gesto,
discendono poi tutte le varie figure della composizione
Es. 4
Mauro Bortolotti, Links, p. 1
I numeri da 1 a 11 della partitura rappresentano la prima parte del pezzo.
Vi sono selettivamente individuati e sviluppati gli elementi gestuali desunti
dalla prima pagina. La scrittura procede secondo giochi di imitazione e/o
di contrasto tra i soli e il tutti. Ed è proprio rintracciando questa sorta di
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‘teatro’ concertante, che possiamo suddividerla in tre sezioni: dapprima è il
violino a innescare ‘reazioni’ nell’ensemble, poi il contrabbasso, infine i due
strumenti insieme.
Se guardiamo bene l’articolazione di queste tre sezioni, ci accorgiamo che
ciascuna è suddivisibile a sua volta in tre momenti, dalle differenti
vettorialità narrative: ad arco nella prima sezione, ad aprirsi nella seconda,
ad arco di nuovo nella terza. In un brano così ‘aperto’ sono dunque la
distribuzione strumentale e le dinamiche dei contrasti e delle similitudini a
gestire la forma in maniera ternaria.
Il numero 12 è la prima delle due “Ricerche”. Con questo termine
Bortolotti intitola le due improvvisazioni, punti di massima apertura del
brano, ove gli esecutori giocano un ruolo sostanziale, intervenendo al
termine di ciascuna delle due parti in cui si articola l’intero pezzo.
Il numero 14 della partitura, “Trio (calmo assai) languoroso”, è una sorta
di sorpresa formale, di angolo di deviazione dalla logica generale del
pezzo.Viene abbandonata, infatti, l’impostazione del materiale tematico
affidato ai due solisti, cui si contrappone quello aperto dato al tutti, per
creare una situazione nella quale i solisti dei gruppi intonano, solitari, una
pagina ove tutto è rallentato, i gesti sono dilatati nel “calmo assai”, dando
così all’episodio un forte carattere melodico e introspettivo.
Dal numero 14 al 17 assistiamo a una riproposizione della distribuzione
concertante dell’inizio, una sorta di ripresa del gioco dialogico con gli
stessi elementi gestuali variati, sebbene contratta nel tempo.
I numeri 18 e 19 costituiscono la seconda “Ricerca”. Se la prima era
gestita da piccoli eventi definiti nelle loro caratteristiche gestuali, ma in
campo temporale aperto (solo una durata generale per tutta la “Ricerca”),
qui assistiamo a una sorta di ribaltamento: i tempi della gestualità sono
precisamente definiti in secondi, ma i gesti sono da individuarsi secondo le
suggestioni pittografiche della pagina (es. 5). Sono le pagine più ‘aperte’
mai scritte da Bortolotti, ma che a ben guardare, in una interpretazione
vicina alla sua poetica, non sono che un modo meno definito di giocare
con il gesto, un’altra possibilità formale, forse la più radicale, eppure
perfettamente inserita negli equilibri tematico-narrativi della composizione.
Anche in Links, dunque, l’estrema varietà gestuale – dal rumore alla nota
intonata – è gestita sia con ritorni tematici, sia secondo un disegno
formale generale molto preciso che tende a saturare le possibili
combinatorie strumentali e di scrittura tra soli ed ensemble. Riassumendo:
tutti tematico, scritto (0); violino concertante-cadenza (1-5); contrabbasso
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concertante (6-8); violino e contrabbasso concertanti (9-11); “Ricerca 1”
tutti tematico, improvvisato, (12); collegamento (13); trio (14-15); violino
concertante (15); contrabbasso concertante-cadenza (16-17); “Ricerca 2”,
tutti, libero, improvvisato (18-19); tutti (coda), rumoristico, scritto (20).
Es. 5
Mauro Bortolotti, Links, p. 18
4. E tuttavia… concatenazioni per archi (1972)
La composizione rappresenta un momento centrale nella produzione di
Bortolotti. Insieme al coevo Cher nocturne, appunti per un trio, E tuttavia…
nasce con una forte motivazione interiore, pessimistica, di grande sfiducia,
in un periodo difficile della sua vita. Proprio grazie al desiderio di
oggettivazione artistica di questo stato d’animo, interiore e culturale,
risulta essere - forse allora all’insaputa del suo autore - la personale strada
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di semplificazione della scrittura, di allontanamento dalla temperie
ideologica della neoavanguardia degli anni precedenti a favore di una
maggiore autenticità del fare arte. L’approdo a una visione che
definiremmo neo-espressionista del comporre, nella quale il valore
artistico è cercato e misurato dall’autore nel grado di rispondenza tra
esigenze interiori ed esiti percettivi.2
In questo ricostruito rapporto di senso tra l’io e il suono, troviamo nella
scrittura di Bortolotti alcuni elementi che assumono un’importanza
fondamentale: il ruolo della ripetizione, per una esplicita visione tematica e
narrativa del comporre, e la funzione delle scelte intervallari regolative di
tutto l’impianto gestuale. Come vedremo, infatti, è la scelta di determinati
intervalli a regolare tutte le linee e le sovrapposizioni armoniche, dando
alla composizione un colore definito, una forte compattezza espressiva.
Presentato per la prima volta dai Solisti Aquilani all’Istituzione Universitaria
dei Concerti (IUC) di Roma, E tuttavia… è pensato come un tema con
variazioni (tante quante le lettere dell’alfabeto, dalla A alla Z). Uno schema
formale, però, molto generale e piuttosto esterno al percorso narrativo
del pezzo. Più che altro un ‘controllo’ compositivo che non una reale
articolazione in sezioni separate. Le variazioni, infatti, non contengono
elementi disgiuntivi e si collegano tra loro senza soluzione di continuità.
Piuttosto è privilegiato un procedere per progressive, lentissime
individuazioni gestuali non corrispondenti alle singole variazioni.Tutto ciò
porta a distruggere, nella percezione, il senso stesso del tradizionale
schema compositivo.
Sia il tema sia le variazioni sono scritti in modo proporzionale, in un
campo aperto corrispondente a una linea di fincatura della partitura della
durata di 30” circa. La semplificazione della scrittura si evidenzia sin dal
tema: una singola nota al terzo violino (Do5), tenuta a lungo. Ad articolarla
solo un arco di intensità e il passaggio dal suono immobile al tremolato e
all’oscillato. Un altro micro-elemento tematico è la sintesi timbrica tra il
2
“E tuttavia… è titolo aperto che vuole indicare – in un momento di riflessioni, forse non solo personali
– che il lavoro può (e può anche non) essere un compromesso, che porta avanti o indica un discorso
congelato, impossibile; e, da tutt’altra angolazione, che contiene informazioni fatiche per un tentativo di
contatto fra più interlocutori o che, per la sua ridondanza, con la sua insistenza, mette in crisi il sistema
di attese (‘a rose is a rose is a rose is a rose’) generando utili interrogativi; e, ancora, può indicare che è
finito e tuttavia inservibile perché, come osserva A. Moles a proposito della poesia,‘non può fare il lavoro di una scavatrice’, oppure che serve perché, come grida H. Michaux, si può costruire ‘una città con
degli stracci’” (MAURO BORTOLOTTI, programma di sala stagione “Nuova Consonanza”, Roma-Viterbo
1981).
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violino e l’armonico del violoncello. Dunque, eventi minuti: suono tenuto,
mutevolezza timbrica, suono oscillato
Es. 6
Mauro Bortolotti, E tuttavia..., p. 1
Rispetto alle composizioni che abbiamo già illustrato, si tratta di un altro
modo di concepire il tematismo. Se in Transparencias è ben scolpito e
articolato in blocchi e in Links è concepito come un gesto complesso su
cui operare selettivamente per progressiva enucleazione degli elementi
(un procedimento analogo a quello sottrattivo di Berio), in E tuttavia…
abbiamo una sorta di grado zero, di limite quasi afasico, dal quale
procedere per accumulo e differenziazione. E questo processo è tutto
giocato sull’imponderatezza del tempo. Una delle scommesse della
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composizione è infatti il sistema delle attese, confermate o negate, poste
al limite della soglia percettiva verso un evento e il suo seguito. È come se
Bortolotti ci volesse dire che siamo a un punto-limite della articolazione
discorsiva, dove il sistema della ripetizione e dell’attesa annulla quasi
qualsiasi temporalità, qualsiasi volontà espressiva, e tuttavia…Non è un
caso che il pezzo sia praticamente tutto scritto in campo aperto, quasi
senza alcuna articolazione metrica: sta al direttore ‘sentire’ il momento
giusto per il ‘giusto’ attacco; sta all’esecutore articolare in modo
espressivamente efficace il suo gesto sonoro. In questo ritroviamo il
residuo della dialettica tra scritto e aleatorio tipico delle composizioni
precedenti. Per il resto, essa è tutta puntualmente scritta.
Nel brano la gestualità è regolata da precise scelte intervallari (sia armoniche
sia melodiche), che tendono a saturare il totale cromatico. Questo ci pare
suddiviso in gruppi di note contigue (all’inizio Do, Do#, Re, Mi – Fa, Sol, Lab,
La, gruppi a specchio), da scegliersi liberamente secondo gli intervalli che
nascono dalle permutazioni delle stesse: le seconde maggiori e minori; le
terze maggiori e minori; la quarta (la distanza tra i due gruppi) e il suo
rivolto. Le sequenze di note non saturano sempre il totale cromatico e la
scelta delle stesse non segue un ordine preciso, ma sembra ‘spuntare’ quelle
già ascoltate. Abbiamo dunque una tecnica di moltiplicazione per campi di
altezze, organizzate secondo strutture intervallari ricorrenti, delle quali è
difficile, forse inutile, ricostruire il percorso. Inutile perché l’interesse di
Bortolotti non è tanto rivolto alla coerenza permutativa in sé, quanto alle
risultanze sonore che tali scelte comportano per i diversi gesti. Per la loro
valenza di maggiore o minore tensione armonica.
L’abbondante uso dei quarti di tono crediamo derivi più dal gioco tematico di
distorsione frequenziale della prima nota, che da giochi permutativi più
complessi: dato un insieme di note, spesso esse sono ‘distorte’ nella frequenza,
quasi fosse un’oscillazione all’interno del gruppo, sebbene poi, nel computo
generale delle note, esse ‘afferiscano’ concettualmente all’insieme temperato.
La presenza di un Mi calante, cioè, non deriva da insiemi specifici dominati dai
quarti di tono, quanto dal mutamento del grado di tensione di quel Mi
relativamente all’insieme delle note prescelte. In questo modo di gestire le
altezze - libertà locale delle permutazioni e libertà di distorsione della
frequenza - vediamo come la scrittura di Bortolotti risponda più a un metodo
operativo, di libere scelte locali finalizzate alla ricerca espressiva, che ad un
progetto complessivo precedentemente definito a cui attenersi. E questo
modo di lavorare mediante le possibilità di scelta all’interno di un campo
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armonico circoscritto, in ogni brano da re-inventare e che può dare esiti
espressivi diversissimi, ci dice tutta la sostanza narrativa del suo comporre.
E tuttavia… è dunque, per tutte queste riflessioni, un brano organicistico, nel
quale la semplicità iniziale è, come si direbbe in biologia, totipotente, capace di
differenziarsi in diverse strutture tramite processi di definizione e accumulo.
Nel tema tali processi sono subito visibili. Alla nota iniziale si
sovrappongono il cello e il secondo violino, trasformando il suono singolo
in fascia. ‘Rispondono’ il violino e la viola con identiche distribuzioni
intervallari: sembra quasi una imitazione alla quarta variata, mascherata
dall’assenza di gestualità.Tutta una serie di piccole variazioni trasforma i
minuti gesti iniziali. L’oscillato diventa portato o anche nota calante.
Nella prima variazione sarà il glissando di terze al secondo violino (in un
ambito di seconde), nella seconda il glissando di doppie seconde (in ambito di
terze), alle due viole. Più in là diventa il glissando di terze e quarte sempre alle
viole. L’elemento di contrasto, il pizzicato del contrabbasso, riappare nella terza
variazione ai violoncelli, e, sempre al contrabbasso, diventa una insistente
ripercussione (ma con il legno!) del Fa# grave. Nella variazione G, si
trasformerà nei colpi con l’arco sulla cassa e, in H, in ritmi di note ribattute,
questa volta coordinate metricamente. Sempre in H e al contrabbasso, ci pare
interessante come il Sib sia la nota di ritorno (appunto il ribattuto) di brevi
archi melodici, mutando la fissità della ripetizione in gestualità lirica.
Es. 7
Mauro Bortolotti, E tuttavia..., p. 5
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GESTO E NARRAZIONE NELLA MUSICA PER ARCHI
Il processo di differenziazione ha un suo primo punto di arrivo in I,
nell’individuazione della linea ascendente del quarto violino. Che questo
sia un punto di arrivo momentaneo ci sembra sottolineato, oltre che
dalla definizione della variabilità gestuale, anche dal processo di
progressiva ‘occupazione’ dei registri estremi: dal Fa iniziale i violini
procedono sino al Re# sovracuto, quasi come se le fasce armoniche in
questa prima parte realizzassero una sorta di scala ascendente spezzata.
Da qui in poi il tessuto connettivo del suono continuo si fa meno
invadente, viene interrotto o si tramuta in brevi gesti. Le figure che erano
state enunciate prendono corpo in un gioco di ritorni e contrasti.
La parte centrale del pezzo ci sembra incorniciata dalle variazioni L e P,
non a caso i due episodi dove viene meno il gioco del flusso
concatenante a favore di una scrittura a blocchi, di gesti omogenei
distribuiti a tutti gli strumenti: in L e M è il ribattuto trasformato in terzine,
come levare di una nota tenuta (uno stralunato valzer ?), a guidare il
discorso e in P ritroviamo il ribattuto stesso in suono percussivo
distribuito al tutti.
Dopo P, in assoluta continuità con il resto del brano, ancora fasce, piccole
melodie, note isolate o a coppie, accordi ribattuti, armonici sovracuti e
suoni oltre il ponticello. Pizzicando, tremolando, con il legno, con
sordina…una polifonia discreta di piani sonori che conducono il pezzo
sino al finale. Anche qui, in questo gioco piuttosto libero di concatenazioni,
ci sembra che sia ancora il registro ad assumere il ruolo di vettore
formale. Dopo l’acutissimo frammento melodico con gli armonici di Q,
sostenuto ancora dal brulichio dei colpi di P, è il contrabbasso che
stabilisce un percorso discendente per tutte le seguenti variazioni, dal Sol3
sino alla scordatura del Mi grave in W. Percorso simmetricamente opposto
a quello seguito dagli archi acuti nella prima parte.
W,Y e Z sono le variazioni finali nelle quali ‘esplodono’ le tensioni sinora
sedate, si fanno maggiori ed evidenti le situazioni di contrasto sino ad ora
evitate accuratamente. Non è una ricapitolazione, una coda, ma
l’estremizzazione del già udito, scritta per texture omogenee, complessive,
con gesti che coinvolgono l’intera compagine e che, messi a contatto
parattattico, ne esaltano le differenze. W e Y sono dominate dal timbro
degli armonici in pp. Dal tessuto vitreo emerge un frammento melodico
isocrono di sei note che poco a poco viene dato in imitazione, a varie
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PAOLO ROTILI
altezze, a tutti gli strumenti. Ogni strumento che si inserisce ripete la
melodia ad libitum, creando un tessuto di rituale immobilità. Da notare
che il frammento ‘completa’ l’incipit di Q del contrabbasso e si basa sul
gioco di terze minori e maggiori e di quinta, intervalli, come abbiamo
visto, regolativi di tutte le figure del pezzo. È quasi come se al termine del
brano si affermasse l’unico vero gesto melodico compiuto. Di per sé
semplice e ‘nudo’, quasi un arpeggio di una triade ambiguamente in bilico
tra l’identità maggiore e aumentata, ma reso complesso dalla
proliferazione in tutti gli strumenti. A questo immobile ed etereo sound si
contrappone Z, scritto in f, a grandi accordi, con una densità armonica a
22 parti reali nella totalità dei registri della compagine. Come fossero
delle fasce contratte e sature, gestualmente significative. Segue un
momento improvvisativo in fff, grumo violento, tutto nel tessuto centrale,
punto di maggiore fisicità del brano, quasi lo scaricarsi di una tensione. A
concludere, il rapido ritorno della melodia, nascosta nel tessuto
complessivo come prima, possibilmente ancora più acuta, a svanire: quasi
fosse l’immagine (sonora) di una nostalgia.
Es. 8
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GESTO E NARRAZIONE NELLA MUSICA PER ARCHI
Mauro Bortolotti, E tuttavia..., p. 12
E tuttavia… è dunque un pezzo in cui si fa esplicito e conseguente il
pensiero narrativo-tematico di Bortolotti a partire da nuclei armonici e
gestuali continuamente variati. Un pensiero e una modalità compositiva
che non l’abbandonerà più. Se qui è posto al limite delle possibilità
percettive, in un sistema di attese molto dilatate (potrebbe essere visto
come un grande “Adagio”, venato di pessimismo), nei lavori successivi
sarà comunque il metodo che lo guiderà ad esiti molto diversi,
recuperando la serenità e l’ironia.
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E tu?: un (non-)teatro musicale ‘novissimo’ nel contesto
romano degli anni Sessanta*
Alessandro Mastropietro
Nella formulazione – teorica e pratica – di un ‘nuovo teatro musicale’ che
non fosse epigonalmente operistico (ovvero, che non perpetuasse quelle
strutture di e quelle relazioni tra componenti drammaturgiche che si
avvertivano stanche ed esaurite della loro vitalità sociale e linguistica), gli
esponenti delle neo-avanguardie musicali attivi in area romana sono stati,
nel periodo di più intenso e dinamico cimento attorno al problema
(1961-1973),1 assai allergici a una risoluzione tradizionalmente ‘librettistica’
del binomio testo-musica. Di più: si sono rivelati, nella media, allergici ad un
testo tout-court, ovvero all’inclusione della componente testuale – e ancor
più della parola cantata – nei loro progetti, sfuggendo così alla radice
(nonostante la loro spiccata tendenza a un confronto e a un lavoro
‘intermediali’, fin dalla genesi dell’opera, con artisti di altre forme
d’espressione) il classico rapporto compositore-letterato finalizzato alla
stesura di un testo librettistico.
Porto alcuni esempi: Aldo Clementi concepisce Collage (1961),2 assieme al
pittore Achille Perilli, escludendovi ogni elemento umano – sulla scena a
muoversi sono luci, immagini, manichini o sculture semoventi – e
relegando la parola cantata a ruolo di papier-collée in un nastro magnetico;
stesso valore oggettuale, di componente de-umanizzata, ha la parola – su
nastro o dal vivo, mai cantata – in Die Schachtel (1962) di Franco
* Il presente saggio è una rielaborazione di ALESSANDRO MASTROPIETRO, Poesia – teatro musicale – elettronica: due apporti di area romana intorno al 1970, in Poetronics - al confine tra suono, parola, tecnologia,
a cura di Anna Maria Giancarli e Anna Di Vincenzo, L’Aquila, Itinerari Armonici, 2004, pp. 44-56, testo
a sua volta filiato dal capitolo 5.2, Due tangenze con la poesia ‘novissima’, in ID., Nuovo teatro musicale a
Roma e Palermo: 1961-1973, tesi di dottorato, Università “La Sapienza” di Roma / Università di
Palermo, a.a. 2003-2004, pp. 293-304. A questo lavoro nella sua interezza si rimanda idealmente per
uno studio del contesto romano, italiano e internazionale attorno al problema di un ‘nuovo teatro
musicale’, salvo i rinvii specifici che verranno di volta in volta segnalati.
1
Cfr. MASTROPIETRO, Nuovo teatro musicale a Roma e Palermo: 1961-1973 cit.
2
DANIELA TORTORA, “Collage” di Aldo Clementi e “L’esperienza moderna”, “Studi musicali”, XXXII, 2003, n. 1;
anche in SIMONETTA LUX – DANIELA TORTORA, Collage 1961. Un’azione dell’arte di Achille Perilli e Aldo
Clementi, Roma, Gangemi, 2005, ove compare un estratto della tesi cit. alla nota n. 1, ALESSANDRO
MASTROPIETRO, Drammaturgia – Testo – Intertesto: intorno a Collage di Aldo Clementi, pp. 218-235.
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E TU?: UN (NON-)TEATRO MUSICALE ‘NOVISSIMO’ NEL CONTESTO ROMANO DEGLI ANNI SESSANTA
Evangelisti,3 pensata e realizzata insieme a Franco Nonnis. Altri, pur non
rifiutando la presenza organica di un testo tra le componenti di rilievo
della drammaturgia, lo organizzano secondo procedimenti e forme nontradizionali: Domenico Guaccero, in Scene del potere (1964-68) come in
Rappresentazione et esercizio (1968) come in Novità assoluta (1972),4 si
costruisce in prima persona un testo di montaggio che, attraverso logiche
ora ‘documentarie’ ora ‘a tema’, problematizza la classica funzionalità –
discorsiva e narrativa – del libretto. Stesso atteggiamento nel Bussotti della
Passion selon Sade (1965, materiale fonetico proprio, un sonetto di Louise
Labé, e solo allusioni a Sade)5 o nel Macchi di A(lter)A(ction),6 la cui
selezione testuale – curata con Mario Diacono, Sergio Tau e Franco
Valobra – è centrata su Antonin Artaud.7 Un testo ‘cosificato’ è anche
quello – recitato – del conferenziere della Sylvia Simplex (1972) di
Francesco Pennisi: testo surrealmente ironico, destinato a scorrere in
parallelo alla musica senza implicare costitutivamente con essa alcun
legame forte di senso e organizzazione, tanto che la partitura può
includere due numeri cantati su tutt’altri testi – poetici, di Nemi
D’Agostino – dall’analoga tematica avifaunesca.
Sospettosi verso soluzioni drammaturgiche di stampo narrativo lineare
GIORDANO FERRARI, “Die Schachtel” di Franco Evangelisti: tra suono e immagine, un’avanguardia del teatro
musicale degli anni Sessanta, “Musica/Realtà”, XVII, marzo 1996, n. 49, pp. 72-86; GIORDANO FERRARI, Les
débuts du théâtre musical d’avant-garde en Italie: Franco Evangelisti: Die Schachtel, Paris, L’Harmattan,
2000, pp. 175-218.
4
ALESSANDRO MASTROPIETRO, L’interno/esterno della voce: su Scene del potere di Domenico Guaccero, in Voce
come soffio,Voce come gesto, Roma, Università “La Sapienza”, 9-10 giugno 2003, atti del convegno a cura
di Daniela Tortora, in preparazione; ID., Dagli Esercizi all’Esercizio: il teatro musicale di D. Guaccero tra gesto
e rito, relazione il sabato 18 ottobre 2003 presso il Conservatorio di Musica di S. Cecilia di Roma, nell’ambito del X Convegno Annuale della Società Italiana di Musicologia, ined.; ID., Ancora una “scena del
potere”: Novità assoluta (1972), Domenico Guaccero teoria e prassi dell’avanguardia, Roma, Università “La
Sapienza”, 3-4 dicembre 2004, atti del convegno a cura di Daniela Tortora, in preparazione.
5
MARIO BORTOLOTTO, Le cinque tentazioni di Bussotti, in Fase seconda,Torino, Einaudi, 1969, pp. 201-226;
GIUSEPPINA LA FACE, Teatro, eros e segno nell’opera di Sylvano Bussotti, “Rivista Italiana di Musicologia”, IX,
1974, pp. 250-268.
6
DANIELA TORTORA, A(lter) A(ction): un tentativo di teatro musicale d’avanguardia, “Il Saggiatore Musicale”,
II, 1998, pp. 327-344; Egisto Macchi, a cura di Daniela Tortora, “Archivio Musiche del XX secolo”,
Palermo, CIMS – Nuova Consonanza, 1996 (in particolare DANIELA TORTORA, Saggio critico: Le idee di
teatro e l’esperienza drammatica, pp. 40-54).
7
Il rapporto tra Macchi e Antonino Titone per la composizione di Anno Domini (1962) è solo apparentemente analogo a quello tra musicista e librettista: anche qui, e ancor più nel progetto interrotto per
Parabola, il montaggio del testo porta a una generale delinearizzazione dei rapporti, e ad un’integrazione
endemica di parola e suono. Cfr. Egisto Macchi cit., pp. 40-47 e ALESSANDRO MASTROPIETRO, Anno Domini
di Egisto Macchi e Antonino Titone: un teatro integrale, “Drammaturgia musicale”, in corso di pubblicazione.
3
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ALESSANDRO MASTROPIETRO
(considerate contrassegni della ‘vecchia’ opera lirica) e, di qui, verso
qualsiasi implicazione con la sfera del letterario, questi compositori sono
invece assai pronti all’utilizzo delle tecnologie elettroacustiche nei loro
lavori di teatro musicale. Il mezzo elettronico, con le sue possibilità –
legate a quel momento tecnologico e linguistico – di trasformazione del
suono, segmentazione/ricomposizione su nastro, distribuzione nello spazio,
è senz’altro un elemento importante per ‘complessificare’ la struttura
drammaturgico-sonora di una pièce, e per sperimentare nuove soluzioni
compositive entro il teatro musicale; ma è anche un prezioso alleato nel
trattamento sperimentale della voce e della parola, e perciò nella
rigenerazione non-lineare dei nessi testuali. Clementi, Evangelisti, Guaccero,
Macchi, utilizzano tutti – nei lavori citati – il mezzo elettronico, con una
rilevanza e un peso ragguardevoli nell’economia dei mezzi sonori previsti;
l’assenza dell’elettronica in Bussotti è invece conseguente alla centralità
della presenza corporea – anche quella della voce – nel suo teatro e nella
sua musica tutta.
Nel panorama tratteggiato, sembra dunque non aver posto una
collaborazione tra la composita (ma ambientalmente solidale) neoavanguardia musicale di area romana, e la tendenza poetico-letteraria che,
negli anni del suo sorgere, ha rivestito un analogo ruolo di
sperimentazione linguistica: il gruppo dei ‘Novissimi’, e poi il Gruppo ‘63.
Eppure, alle due realtà non erano mancate occasioni e spazi di contatto: il
Gruppo ‘63 si costituì come tale entro le “Settimane Internazionali Nuova
Musica” di Palermo,8 ovvero l’importantissimo festival di musica
contemporanea che vedeva in prima fila – organizzatori e/o autori – i
musicisti menzionati;9 gli scrittori erano inoltre editi perlopiù da Feltrinelli,
Per la precisione, il Gruppo ‘63 si diede questo nome nell’ambito della IV Settimana (appunto 1963), nel
corso di un incontro organizzato da Feltrinelli su indicazione di Francesco Agnello, una delle menti organizzative del festival; la serata del 3 ottobre ‘63 fu, in particolare, dedicata a lavori di teatro di esponenti
del gruppo (fra gli altri: Giorgio Manganelli, Iperipotesi; Elio Pagliarani, Lezione di fisica; Alfredo Giuliani,
Povera Juliet; Nanni Balestrini, Imitazione; Edoardo Sanguineti, K), con la regia di Luigi Gozzi per il Centro
Teatrale di Bologna e di Ken Dewey per l’ACT (ovvero ACtionTheatre) di Roma; Giuliani ricorda –
anche se non è segnalata nel programma di sala – la partecipazione di Frederic Rzewski alle performance messe in scena da Dewey. Il Gruppo ‘63 si ritrovò a Palermo anche in occasione della successiva
Settimana (la V, 1965), offrendo letture di poesia, un incontro sul romanzo sperimentale e una serata di
rappresentazioni di teatro di prosa (autori: Germano Lombardi, Enrico Filippini, Gaetano Testa) con la
regia di Carlo Quartucci, le musiche di scena di Vittorio Gelmetti e la presenza di attori allora emergenti
nel contesto romano: Cosimo Cinieri, Leo De Berardinis, Claudio Remondi.
9
Sulle “Settimane” di Palermo e altro, il testo documentario di riferimento è ora Visione che si ebbe nel
cielo di Palermo. Le Settimane Internazionali Nuova Musica 1960-1968, a cura di Floriana Tessitore,
Roma, Cidim-Amic / Nuova Eri, 2003.
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la cui libreria in via del Babuino a Roma rappresentava un punto di ritrovo
e, spesso, di esecuzione musicale per gli stessi compositori o di azioni
meno codificabili di performance-happening.10 Ma proprio la cornice
dell’happening, in cui la coincidenza di valore estetico dell’atto e flagranza
del fatto rende il rapporto tra le componenti espressive meno
impegnativo, unita alla vocazione anti-librettistica e intermediale del ‘nuovo
teatro musicale’, ha inibito in quegli anni lo sviluppo di regolari
collaborazioni – e soprattutto di un progetto forte e duplicemente
intenzionato di ‘teatro musicale’ – tra i fronti letterario e musicale della
neo-avanguardia di area romana.
La presenza di due lavori di teatro musicale, nati in quell’ambiente romano
(-palermitano) attorno al 1970, e sostanziati prevalentemente dai testi
poetici di due esponenti del Gruppo ‘63 (Edoardo Sanguineti e Alfredo
Giuliani), corregge tale panorama in maniera significativa, ma anche
prevedibile, e non solo per le contiguità storiche segnalate: la struttura di un
testo poetico è, per vocazione, sferica, multidimensionale, plurilineare,
reticolare; incline alle relazioni paradigmatiche piuttosto che sintagmatiche,
essa realizza in sé quella natura complessa, non unilineare, che le neoavanguardie non intendevano riconoscere nella struttura narrativa e nella
monofocalità spaziale dell’opera lirica. La rappresentazione complessa del
reale, messa in atto dalla sperimentazione linguistico-poetica dei ‘Novissimi’ e
da Sanguineti in particolare con una chiarezza di forme crescente nel
tempo, ha intrigato – accanto a Berio, Luca Lombardi, Razzi e moltissimi altri
– anche Vittorio Gelmetti e Mauro Bortolotti, senza che questi rinunciassero
alla chance del montaggio testuale (plurivoco o no, dettato da circostanze o
scientemente perseguito).
Il montaggio, per Vittorio Gelmetti (Milano, 1926 – Firenze, 1992), più che
una chance è un vero e proprio principio compositivo totalizzante in La
descrittione del gran paese:11 pioniere della ricerca musicale elettronica,
Cfr. ALESSANDRO MASTROPIETRO, La nuova musica a Roma 1950-1975, “Sonus. Materiali per la musica
moderna e comtemporanea”, in preparazione; il capitolo 2, Interdisciplinarietà delle neo-avanguardie
negli anni Sessanta: ‘oltre’ gli statuti tradizionali delle arti, in MASTROPIETRO, Nuovo teatro musicale a Roma
e Palermo: 1961-1973 cit.
11
Su Gelmetti, e in particolare sul lavoro qui trattato, cfr. ibidem; inoltre [Intervista sul teatro musicale
con] Vittorio Gelmetti, in PAOLA MAURIZI, Quattordici interviste sul “nuovo teatro musicale” in Italia, Perugia,
Morlacchi, 2004, pp. 49-55; VITTORIO GELMETTI, Nostalgia d’Europa, a cura di Francesco Moscardelli,
Udine, Le parole gelate, 1984. Per la ricezione critica di La descrittione del gran paese, si può leggere
GIOACCHINO LANZA TOMASI, La Sesta Settimana di Palermo. Il teatro musicale, “Lo Spettatore Musicale”,
gennaio 1969, pp. 8-9.
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iniziata intorno al 1960 sotto il segno di un costruttivismo e di una predeterminazione integrali, Gelmetti si orienta – all’altezza della metà del
decennio – verso soluzioni metalinguistiche, che prevedono il riuso di
materiali musicali già confezionati, e riconoscibili in quanto tali. Musica al
quadrato, dunque, o meglio - secondo una definizione di Gelmetti – ‘musica
di musica’, che mette a frutto la capacità di semanticità riflessa (propria e
relazionale) di quei materiali, oggettualizzati e virgolettati, quand’anche
appartengano all’arsenale di sonorità della Neue Musik. La prassi si avvicina
perciò a quella del montaggio-missaggio dei materiali concreti sul supporto
del nastro magnetico; il fine è invece quello di “evidenziare in maniera
lampante le potenzialità espressive” e insieme la “banalità” di quei materiali, e
di proporre così una versione della cageana fine dell’opera d’arte in quanto
sistema strutturato e intenzionato di segni, i cui corto-circuiti in Gelmetti
generano senso solo nel fruitore e fuori dal controllo compositivo. La
descrittione del gran paese segue l’impianto drammaturgico collagistico sin
dalla sua presentazione come progetto, su un numero del 1967 della rivista
interdisciplinare “Marcatré”:12 gli strati di materiali previsti – e disposti sulle
pagine della rivista in sovrapposizione verticale, sono quattro, due testuali,
uno musicale (con materiali dal vivo o su nastro) e uno visivo, consistente in
cartelloni-pop preparati da Baruchello e proiettabili sul fondo della scena. Gli
strati testuali sono a loro volta frutto di montaggi da testi di Sanguineti, in
particolare da Tramdeutung (che Gelmetti avrebbe poi realizzato in forma
teatral-musicale nel 1967), una pièce in cui quattro attori recitano i testi
disposti sui leggii come fossero componenti di un quartetto d’archi. Il
confondersi delle fonti che riguardano poi le realizzazioni di La descrittione
del gran paese (Palermo 1968,VI Settimana Internazionale Nuova Musica,
con una regia minimale – auspicata dallo stesso Gelmetti – di Carlo
Quartucci; Oslo e Città del Messico, ambedue negli anni Ottanta) non
cambia, anzi corrobora, la natura di ‘collage di collage’ della pièce: i
cambiamenti dei montaggi testuali pubblicati nel libretto – riportato sul n. 8
di “Collage”13 – dell’esecuzione palermitana, l’indeterminazione delle parti
“Marcatre”, luglio 1967, nn. 30-33, pp. 36-41. Di rilievo, in quel numero quadruplo, la pubblicazione di
materiali per ben sei progetti di teatro musicale, tra i quali Scene del potere di Guaccero – anch’esso
di là da essere messo in scena integralmente – e A(lter) A(ction) di Macchi.
13
“Collage”, n. 8, dicembre 1968, comprende alle pp. 89-122 una sezione, curata da Gioacchino Lanza
Tomasi, che funge da presentazione della VI Settimana Internazionale Nuova Musica. In essa trovano
posto una presentazione autografa di Gelmetti a La descrittione del gran paese (pp. 107-108), e una
riproduzione parziale – e male incolonnata – del libretto-copione (pp. 110-111) già pubblicato in
“Marcatré”.
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staccate per gli strumenti sopravvissute (ogni strumento ha caselle – vuote
o determinate – di materiali da eseguire), la non-congruità della
registrazione dell’esecuzione di Oslo con le fonti visionate, l’aggiunta
documentata per l’esecuzione di Palermo di un film di montaggio realizzato
da Magdalo Mussio, confermano – al di là di qualsiasi indifferenza dell’autore
a una trasmissione codificata del testo – la componibilità sempre nuova
della pièce a partire dai suoi elementi stratigrafici. Il montaggio è perciò in
Gelmetti tanto un principio generalizzato, e fatto agire in una prospettiva
essenzialmente de-costruttiva (piuttosto che costruttiva e proliferativa, come
in Collage di Clementi-Perilli), quanto – nello specifico della relazione tra
componenti testuale e musicale – una soluzione rivelatrice di una
persistente esigenza di fuga dal libretto-come-sistema-chiuso: i testi
sanguinetiani non vengono, in La descrittione del gran paese, neanche intonati,
ma scomposti-ricomposti su nastro e dal vivo da recitanti, sfuggendo perciò
a una sintesi con il canto che garantisce la permanente apertura delle
combinazioni realizzative.
Se il saccheggio collagistico dei testi aveva, in Gelmetti, una necessità decostruttiva e una sponda strutturale nel montaggio del nastro magnetico, la
multi-testualità che Mauro Bortolotti tesse in E tu? muove da territori più
‘privati’, ma per questo anche più motivati e radicati in una drammaturgia
personale. Che è, allo stato, anche virtuale, dato che – pur datando il
progetto 1970-71 – nessuna delle versioni abbozzate, e in due casi
terminate (almeno nella forma dell’abbozzo continuativo), ha trovato la
strada delle scene. Ad emergerne, finora, solo un Estratto: piuttosto che una
sezione del lavoro complessivo (come ingannevolmente consiglia il titolo),14
esso ne è invece un compendio,15 una sintesi risolta nell’organico della sola
voce più un set di percussioni assortito in pelli (bongos, tumbas, 3 toms),
metalli (3 piatti sospesi, 5 campanacci, 5 campane tubolari intonate tra il
Sib2 e il Mib3), tamburello basco, woob-blocks e glass-chimes.
Ad libitum, in una delle fonti musicali, è indicata la presenza di un nastro
magnetico, il cui materiale fonico e poetico deve consistere nella
“scena per soprano e percuss[ioni]”, intestazione delle fonti A e B. Il brano è stato eseguito dai solisti
di “Nuove Forme Sonore” nel 1971: Michiko Hirayama (voce) e Michele Jannaccone (percussioni).
15
La selezione e l’ordine dei testi musicati nelle fonti più complete (nell’elenco che segue, le fonti C, E
e G) vengono nell’Estratto riformulati in modo più o meno consistente, ri-creando una sequenza a
partire da una rete (un asse paradigmatico) di testi poetici: sembra proiettarsi su questa rete il vero
sistema di senso dei testi, legati tra loro da relazioni forti (cfr. oltre, le opposizioni psicologiche tra i
testi di Giuliani e Mallarmé) che possono assumere diversificate forme sintagmatiche-sequenziali.
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ALESSANDRO MASTROPIETRO
recitazione di una poesia giapponese, da scegliersi liberamente: è un
omaggio alla straordinaria vocalist per la quale Bortolotti ha concepito il
lavoro (Michiko Hirayama), ma anche un’estensione della costellazione di
riferimenti poetici che imbastisce la drammaturgia dell’intero lavoro.
Qui, come altrove in Bortolotti, la lettura, l’eco interiore e il gesto potenziale
di alcuni testi poetici fungono da catalizzatori del pensiero sonoro, per
[…] superare processi linguistici altrimenti congelati […] Il contatto con un
testo mi libera invitandomi a cercare, a centrare il nucleo espressivo, il punto di
massima tensione della poesia o di un verso, o di un frammento… e in questo
rapporto si realizza la “distrazione” e il distacco da vincoli, da precondizionamenti sia di mestiere sia interni alla cultura musicale […].16
La parola poetica, la maglia acustica del suo dirsi, è così un filtro per
scardinare e fluidificare ogni rigidità nelle strutture pre-compositive, per
animarle con gli scarti e le turbolenze della materia sonora: la lettura,
l’affiorare delle trame ritmico-fonetiche della forma poetica, è un punto di
partenza immancabile nella genesi dei numerosi lavori vocali di
Bortolotti,17 non per ‘sancire’ e ‘chiudere’ quella forma, ma per consentirne
un’epifania e permetterle di reagire con la forma pre-compositiva del
materiale. Dalla lettura alla “LetturAzione”18 (ovvero alla scaturigine di un
nucleo attorno al quale un teatro del dire la parola poetica può prendere
a coagularsi), il passo può essere breve, e può dipendere da un quid in più
di gestualità che la parola racchiuda.
Tra i molti corpus poetici che Bortolotti, sin dai suoi studi con Petrassi, ha
percorso compositivamente, quello di Alfredo Giuliani lo ha interessato a
partire dagli anni Sessanta (Resurrezione dopo la pioggia, per tenore e
pianoforte) fino ad anni recenti:19
MAURO BORTOLOTTI, s.t., in programma di sala della stagione pubblica di Nuova Consonanza 1981,
concerto monografico a lui dedicato 26.X.1981, Roma, Auditorium della RAI del Foro Italico.
Cfr. il Catalogo delle opere (1953-2006), pp. 253-270.
18
È un conio di Bortolotti, apparso nel titolo di Berryman: LetturAzione del 1981.
19
La conoscenza tra Giuliani e Bortolotti risale ad anni ancor precedenti, grazie al tramite di Franco
Evangelisti. Sulla presenza dei testi di Giuliani nelle opere del compositore, cfr. MAURO BORTOLOTTI,
Musica e poesia, in Chi l’avrebbe detto. Arte, poesia e letteratura per Alfredo Giuliani, a cura di C.
Bologna, P. Montefoschi e M.Vetta, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 57-60, qui trascritto alle pp. 224-227.
Dal catalogo delle opere del maestro emerge un totale di quattro ricorrenze di testi di Giuliani da
parte di Bortolotti, accanto a E tu?: Resurrezione dopo la pioggia, per tenore e pianoforte, 1966;
L’attesa… Il professor PI, per voce e nastro magnetico, 1980; Arioso per la Scena III, per basso e quartetto d’archi, 1984; I pesci di vento, per soprano, flauto e pianoforte,1991.
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Nelle mie poesie […] il disordine della vita, né scansato né posto fra parentesi,
anzi presupposto di ogni discorso, non è assunto quale indice di un
atteggiamento semantico, non è preso esistenzialmente for granted. Lo
schizomorfismo diventa una logica del pensare corretto, poiché le cose
importano meno della coscienza che le forma penetrandone la struttura […]
Perciò il discorso tende a manifestarsi in forma di pensieri non concettuali, ma
“gestuali” […].20
È questa gestualità, disegnata in un moto dapprima dialogico, poi
nuovamente intro-verso, che Bortolotti deve aver colto in un verso di
Prosa, in Povera Juliet e altre poesie: “E tu? Me lo ripeto sempre”. Da qui,
molteplici testi poetici han preso ad aggregarsi in un progetto di teatro
musicale che ha conservato, nelle tante versioni abbozzate e mai del tutto
rifinite – eccetto il citato Estratto –, lo pseudo-disordine logico del
modello. Intorno al nucleo di Giuliani, si sono disposti mobilmente testi di
Mallarmé, Porta, Sanguineti:21 una costellazione disegnata non solo su
criteri di contrasto (formale: prosa vs. verso; psicologico: il profilo della
“povera Juliet”22 contro l’amore immaginato, eppure luminoso, di
Mallarmé) ma, in fondo, di tratteggio di un’ideale – parziale – personale –
parnaso, nel quale a dialogare, teatralmente, siano parole musico-poetiche
in reciproca complessa relazione.23
L’affollarsi intricato delle fonti, nell’unica cartellina che le conserva (assieme
ad altri progetti per altre LetturAzioni, una delle quali su Pasolini), presso
l’archivio privato dell’autore, impone un loro inventario:
Fonti testuali:
1) 2 fogli dattiloscritti (con aggiunte a penna rossa), solo il primo dei quali
riguarda il testo di E tu? (il resto riguardando il brano L’attesa per voce e
nastro, ancora da Giuliani). La selezione testuale, corrispondente – se si
ALFREDO GIULIANI, Introduzione (1961), in I Novissimi. Poesie per gli anni ‘60, a cura di Alfredo Giuliani,
Torino, Einaudi, 19722, pp. 15-32: 24.
21
La versione ultima della composizione impiega i soli testi di Giuliani.
22
Ricordo che Povera Juliet, lavoro di teatro-poesia, fu rappresentato nel corso della IV Settimana di
Nuova Musica di Palermo (1963), appuntamento abituale per la neo-avanguardia musicale romana,
con la regia di Ken Dewey per l’ACT di Roma. La realizzazione, alla quale Bortolotti tuttavia non
ebbe occasione di assistere, è ricordata dall’autore come innovativa – nella sua povertà – sotto l’aspetto della messa in scena.
23
La costellazione poetica ordita da Bortolotti riconosce la similare posizione culturale dei ‘Novissimi’
(comprendendovi Nanni Balestrini, dedicatario di Prosa) rispetto a quella delle neo-avangardie ‘nuovoconsonanti’, e di stimolo di quella poesia persino per l’invenzione strumentale. Cfr. BORTOLOTTI,
Musica e poesia cit., ove il compositore cita la sua Musica per una scena per trio d’archi (dedicata
proprio a Giuliani), nella quale “è ancora adombrata la figura della povera Juliet”.
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prescinde dall’assenza, qui, dei frammenti da Mallarmé – all’ordine esatto
alla fonte musicale B, è compiuta entro testi pubblicati da Giuliani in La
povera Juliet e altre poesie: Prosa e Il professor Pi esperisce la logica
metasessuale.
2) 3 fogli (il terzo tagliato, il secondo barrato e riscritto sul verso, con
prosecuzione sul terzo) di montaggio testuale, disposto su tre colonne
corrispondenti ai testi intonati da soprano, tenore e lettore. In testa, è
indicata – ma non riportata – la presenza di un “testo di Mallarmé (tenore)
e poi di Porta (coro e parlato)”. Ciò che segue, riflette l’organizzazione in
“un atto e due Intermezzi” cui allude Bortolotti stesso, laddove il main text
è ancora montato dalle citate poesie di Giuliani (ma con linee versuali non
presenti o cambiate di posto nella fonte 1), mentre gli Intermezzi –
pertinenza esclusiva del lettore – attingono a Protocolli di Sanguineti.
Fonti musicali:
A) Lucido dell’Estratto per voce e percussione, 5 fogli. L’intestazione è sulla
seconda pagina (numerata 1), essendo stata aggiunta – in un secondo
tempo – una Introduzione su una pagina non numerata. I testi sono quelli
della fonte 1, ma il lungo passo da recitare (ff. 3-4) non è quello di Giuliani
da Il professor Pi, bensì è tratto da Lirica di Porta, pubblicata in Cara. Poesie
1965-1968, Milano, Feltrinelli, 1969.
B) Cianografia del precedente, con la sostituzione del testo di Porta con
quello di Giuliani mediante due strisce dattiloscritte incollate.
C) Fascicolo di 6 bifoli, con 23 pagine scritte a matita (21 di partitura
numerate). Il frontespizio recita E tu? nondramma in grigio; seguono alcuni
appunti, anche sugli eventi scenici (agiscono all’inizio dei mimi), quindi la
partitura (nella forma della partitura-scheletro sintetica), per S.,T., lettore,
cl., vl., mand., cr., vc. (o cb.) e perc. La materia testuale è assai simile alla
fonte 2, ma con rilevanti spostamenti d’ordine.
D) Abbozzo parziale (terna di bifoli), espanso nelle forme e nei tempi rispetto
a C, soprattutto mediante l’aggiunta di una sezione iniziale a 2 voci (che
passerà poi in A ad una sola voce) e l’espansione dell’organico a 3 voci (2
soprani e tenore), fl., cl., cr., 2 vl., vla, vc. e perc. La veste è ancora quella
della partitura-scheletro, con le parti vocali scritte per esteso e quelle
strumentali ora complete ora abbozzate, ma fornite di interventi più
sostanziosi rispetto a C (nell’Introduzione, dapprima figure rapide e
sfuggenti; poi una marcetta trasfigurata all’acuto, su poche altezze; infine un
Corale). Negli schizzi, sempre più sommari e infine interrotti appena dopo
l’inizio vero e proprio sul triplo Sol acuto del soprano, s’infila l’indicazione
per una “Danza di mesta felicità” (ancora un riferimento alla “povera
Juliet”?).
E) Abbozzo completo (4 bifoli più foglio aggiunto, coincidente con la p. 1
sostitutiva di quella originaria barrata, 15 pp. numerate), riscrittura e
precisazione della fonte D, con alcune variazioni d’organico strumentale e
di scelte compositive. Ciò che qui si precisa, è senz’altro il profilo delle linee
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vocali, che rimarrà sostanzialmente invariato in F e nell’Estratto (fonti A e
B). L’Introduzione di D è cambiata di posto (spostata in avanti), sono
aggiunte altre linee di testo assenti in D (appunti marginali indicano i nomi
del poeta John Berryman, di Kant, di Pasolini) ed è già compiuta la scelta di
Giuliani al posto di Porta (vedi fonti 1/2 e A/B). Pochissime, ed assai
semplici, le indicazioni di movimento sulla scena.
F) Due bifoli, a parte (numerazione alfabetica) contenenti due stesure del
rondel Si tu veux di Mallarmé. In ambedue, ad esser notato per esteso è il
melos del tenore (nel primo bifolio, in due versioni, la seconda delle quali
passata nel bifolio successivo e laddove – nelle altre fonti, anche al soprano
– vengono citati frammenti di Mallarmé), con accenni-appunti per
strumenti e coro.
G) Abbozzo-partitura completo, 51 pp., organico di 6 vl., 2 vle, 2 vc., cb., fl., cl.,
cr., tr., trb., clav. e perc., più i solisti vocali e i mimi-danzatori. Si tratta della
fonte più corposa, nella quale inserti rilevanti sono assegnati allo
strumentale: figure, apparse accennate in altre fonti (lame accordali;
frammenti omoritmici su intervalli di 2a; esplosione furiosa verso la
conclusione), vengono qui sviluppate in veri pannelli, non limitati alla sola
fase introduttiva, come in D. Le parti vocali seguono quelle delle altre fonti
e la materia testuale della fonte 2, comprendendovi pure la “poesia
giapponese” su nastro e uno spazio grafico romboidale, nel quale le voci
pescano fonemi e parole su cui improvvisare in ‘parlato’. Specifico anche il
dettaglio nei movimenti scenici: un ‘rito d’ingresso’, e la sua ambientazione
scenica, è descritto nei minimi particolari.24 Non del tutto chiaro è se si
tratti di una partitura definita in ogni sua parte, o ancora una partiturascheletro più avanzata nella definizione dello strumentale: l’autore, che
prevedeva interventi comunque discontinui degli strumenti sulle voci, non
ha sciolto il dubbio, pur propendendo per la sostanziale completezza della
partitura.
24
Sul frontespizio: “2 poltrone di legno eleganti / 1 tavolo piccolissimo (con tazzine?) / 3 cappelli neri
(grande tesa) da uomo / una persona fa monotonamente la stessa cosa”. Pagina successiva: “CoroSolisti e Mimi-Danzatori – Scena | immobili – con spostamenti a 4 a 4 o di gruppo a 3 a 3 / Con
maschere da agitare e capovolgere (di figure o no?) / così da mutare espressione continuamente (Poi
maschere moderne, fredde, assenti) / Poco a poco i danzatori cominciano a vibrare impercettibilmente / ma con continuità, seguono i coristi che dondolano e cominciano / a declamare versi / opp.
inizia il solista (Mallarmé) lento, poi movimento c.s. durante canto solistico / Finiti canto e declamato
(con solo corno o trombone o violoncello) attacca il trio d’archi / mentre i danzatori-mimi passeggiano disinvolti”. Quest’ultima fase corrisponde all’avvio della partitura G, che principia proprio con
un trio d’archi; le precedenti presenze musicali sono invece quelle indicate nella fonte testuale 2
(coro, tenore solista sul testo di Mallarmé), le cui corrispondenti fonti musicali sono – se presenti –
riportate separatamente (vedi fonte F). Il seguito di questa partitura non riporta indicazioni sceniche
significative come quella d’apertura, se non istruzioni per movimento e stilizzate danze dei mimi, in
corrispondenza degli “Intermezzi”: dunque, il canto tende a inibire quelle componenti visive, che invece si riattivano quando la parola viene recitata.
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Necessaria, questa notizia filologica può divenire inutile se volta solo ad
una stemmatica (molto ardua, peraltro) delle fonti.25 Meglio trarne altre
conclusioni:
- anzitutto, la centralità in E tu? dell’intonazione vocale, del trasmutarsi della
parola poetica in parola intonata (canto o parlato che sia, con i gradi
intermedi). La veste di tutte le fonti, assai simile a quella di una partiturascheletro, denota infatti la genesi primaria, inventiva più che cronologica,
delle linee vocali.26 È rivelatore il fatto che, quand’anche mutino le altezze o
le distribuzioni delle linee tra le voci (l’Estratto condensa, in uno, tre
percorsi vocali, tendenti però più ad avvicendarsi in dissolvenza incrociata,
che a sovrapporsi), i profili restano pressoché immutati, e possono
precisarsi prima degli elementi strumentali, ricombinabili o liofilizzabili
(nell’Estratto) nel set delle percussioni. Al cospetto delle voci, gli interventi
strumentali si dispongono a corteggio, a complemento, a riverberazione
capricciosa e inquieta: insomma, essi hanno un ruolo preciso – ma
imprescindibile da quelle – di libera dinamizzazione contrappuntistica degli
eventi, da concretizzare interpretando sul momento gli spazi di libertà
lasciati da una grafia stenografica.
- la costruzione, appunto, della linea vocale.Valgono tanto i profili, quanto
un attraversamento turbolento, irregolare, della materia sonora; quando
anche delle altezze, non considerati i glissati e i mutevoli modi/timbri
vocali (che sono però essenziali nella ‘presenza vocale’ per Bortolotti),
venissero finalmente calcolate le sole posizioni sui 12 gradi cromatici, si
scoprirebbe una tendenza – ma non una norma formalizzabile – prima
di tutto alla copertura dell’intero compasso registrico, poi all’appoggio su
alcuni segmenti/gradi nevralgici dell’estensione vocale, e solo in ultima
analisi (e previa apertura della finestra analitica fino all’estremo possibile
della frase musicale) del totale cromatico.
Porto quale campione analitico un ampio momento dall’Estratto (es. 1):
Arduo, anzi impossibile, è collocare la stesura dell’Estratto (e della fonte testuale 1, che vi si riferisce,
ma che potrebbe essere stata stilata molti anni più tardi ‘a consuntivo’, e non come preparazione) in
relazione alle versioni ‘ampie’ della partitura. Quanto a quest’ultime, si propende per l’ordine predisposto (C-G), con una relazione forte tra la fonte testuale 2 e quella musicale G.
26
La supremazia della linea vocale, e il suo risolversi in una sorta di ‘abbozzo continuativo’, non ha le
stesse finalità estetiche e costruttive rivestite nell’opera dell’Ottocento: per l’operista, l’esigenza era il
controllo dei tempi drammatici di una narrazione grosso modo teleologica, direzionata, in funzione
della quale stilava dapprima l’abbozzo continuativo delle parti vocali, e poi una partitura-scheletro
ove le parti erano riportate in vista dell’orchestrazione; in Bortolotti, invece, l’esigenza è quella di una
strutturazione lirica, e non narrativa.
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Es. 1
Mauro Bortolotti, Estratto da “E tu?”, ms.
esso coincide con una delle fasi più movimentate e de-costruttive del
brano, dove – dopo la sua zona iniziale – il già frastagliato melos viene
interrotto ad libitum da eruzioni di parlato/percussioni, quasi una gara
nervosa tra voce e strumentista, sull’espressione ‘di onde disritmiche’. Si
tratta di un sipario, e insieme di un contrappeso oppositivo, al disegno
lirico di “Cette rose…”, da Mallarmé, una frase (ultima parte del doppio
rigo più in alto, da leggersi un rigo per volta in successione, mentre la
percussione prosegue inerzialmente il treno d’impulsi in basso) quasi
interamente vocalizzata su altezze definite, con un minuscolo inserto di
Sprechgesang sulla parola “silence”, un solo glissando in chiusura e una sola
acciaccatura intermedia a scomporre l’assorto dispiegamento del melos.
L’ambito di questa frase (una nona, Fa3-Sol4) non è dei più divaricati, nella
media dei comportamenti del brano; ma il contenimento – relativo! –
dell’ambito è scelto per contrasto con il turbinare del parlato/percussioni,
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la cui parola infatti, ripresentandosi in forma vocalizzata a metà del terzo
sistema (indicazione agogica “Veloce”), stira capricciosamente il proprio
ambito dal Re3 ai Do5 e Re5 di metà del quarto sistema. La frase di “Cette
rose…” presenta degli appoggi evidenti sul Mib4 (significativamente
associata a sillabe con consonanti rotative: “ro[-se]”, “ver[-ser]”, “[pi-]re”;
sicché l’appoggio è anche timbrico-fonetico), e secondariamente sul Si3
(anche stavolta con appoggio fonetico, sulla sibilante dura: “Cet[-te]”, “[ver]ser”) e sul Fa3 (unica bilabiale esplosiva, “pi-[re]”). Il totale cromatico è
quasi interamente coperto, a partire da una stringa centrale tra il La3 e il
Mib4; alcune classi d’altezze suffissate in basso (Fa3), altre affissate in alto
(Fa#-Sol4), cosicché le uniche altezze escluse sono toccate nel corso della
frase successiva. Quest’ultima, più che appoggi, si organizza su dei formulari
evidenti (la discesa verso il Reb3, nel corso del terzo sistema, sulle sillabe in
“…sritmiche”; la sequenza discendente Sol4-Mi4-Fa#3, all’inizio del quarto
sistema), che vengono sublimati in microappoggi al ritorno dell’espressione
“Cette rose…”, fine quarto sistema.27
Invece che mezzo di controllo, l’informazione d’altezza è dunque, nella
voce, luogo di formazione del ‘gesto’ melodico-verbale. Ne deriva
l’indefinizione delle durate, dovendosi queste adattare in corpore vocis al
gesto vocale, mentre certa mensuralità più dettagliata si rintraccia nel
disegno degli arabeschi lirici che Bortolotti sviluppa da Dallapiccola (es. 2).28
- la struttura bi-valente, a raggiera e multilineare, dell’ordito testuale.Voglio
dire che il nucleo del montaggio rimane quell’E tu? che, in ogni versione,
balugina nelle voci dopo la metà del brano, e viene suggellato solo con
l’aggiunta finale di Me lo ripeto sempre. Rispetto al nucleo, la corolla degli
elementi testuali si dispone in relazioni di contiguità autoriale (le altre linee
da Prosa, in italiano o in francese, o da altri componimenti di Giuliani), o di
similarità/opposizione linguistica, tematica, stilistica (il francese del luminoso,
visionario rondel di Mallarmé; l’articolarsi, quasi in forma concertata con
voce solista, della “logica metasessuale” nel “professor PI”; la familiareonirica prosa di Sanguineti; l’anafora, da filastrocca, in Lirica di Porta).29 La
27
In tutto ciò, il ruolo della percussione tende a essere quello della rifrazione (o al più della accelerazione) dei gesti vocali, oppure della formazione di uno sfondo di treno d’impulsi, neutrale rispetto
all’arcuarsi della voce.
28
Tra questi, ve n’è uno (nell’Introduzione dell’Estratto) che si espande gradualmente a partire dalle
altezze La3-Do4-Do#4, fino al gesto che lo chiude; l’emergere di una scrittura lirica, contrastata da una
scrittura gestuale, è un’altra costante della condotta vocale.
29
“nell’incrociare le piume / nel partorire / nell’aprire il lontano / nel percepire le tre rive / nel parlare /
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Es. 2
Mauro Bortolotti, Estratto da “E tu?”, ms.
partitura tocca i piani orbitali concentrici occupati da ciascun testo, in
misura e ordine più o meno vincolante rispetto alla loro nuclearità: così,
nella raggiera dei testi, più stabile risulta il nucleo da Giuliani, verso il quale
non casualmente il discorso viene risucchiato alla fine; gli altri elementi
testuali, invece, appaiono, scompaiono, cambiano di posto, emergono a
brandelli.30 Non uni-lineare, la trama testuale è però orientata, dotata di
gravitazione; e difatti anche gli elementi scenici – nella versione G, il ‘rito
d’apertura’ e le poche indicazioni descritte alla nota n. 24 – si diradano
verso la fine, salvo il gesto obbligato dell’uscita della voce principale
“cantando in pppp”.
- conseguente, l’indicazione di nondramma [in grigio]. Scorre, sottotraccia,
un dramma allusivo, una complessa mappa di fatti/precetti situata in una
psiche da ricostruire per ipotetica induzione. Non emerge, però, questo
nell’accostare le tazze / nell’indicare i luoghi / nel chiedere castrami” etc. Il frammento di Porta, poi
sostituito da quello di Giuliani, nella sua conversione in ‘prosa’ (recitato, invece che cantato), continua
ad assolvere nell’Estratto quella che, nelle altre fonti, era la funzione di “intermezzo” (ugualmente
recitato, non cantato) dei passi da Sanguineti. Esso è inoltre interrotto dal canto di uno dei frammenti da Mallarmé.
30
Ad esempio: del rondel di Mallarmé, interamente intonato in F, appaiono poi nell’Estratto solo tre
frammenti: nell’ordine “Si tu veux nous nous aimerons /Avec tes lèvres sans le dire” (vv. 1-2, p. 0);
“Cette rose ne l’interromps/ Qu’à verser un silence pire” (vv. 3-4, p. 2); “Le scintillement du sourire”,
(v. 5, p. 3). I frammenti, come segnalato nella nota precedente, rompono la continuità degli altri frammenti testuali, spostando il discorso su un altro piano parallelo; in altre fonti, invece, sono posizionati
in un più ortodosso rispetto dell’avvicendamento dei piani.
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(non)dramma, da un’azione, semmai da una lettura(azione), che nelle
impennate, liriche o timbriche o gestuali, della voce trova l’unica chance
di articolare il metaforico ‘grigio’ – fatto d’assenza, freddezza, iteratività –
d’azione scenica che la avvolge.31 Gli elementi scenici che, nelle fonti,
sono chiamati in causa, non hanno perciò un peso multimediale di rilievo
strutturale come in La descrittione del gran paese: più che allusivi o
astratti, sono elementi neutri, esportati dalla medietà della resa teatrale
del quotidiano, un trovarobato realistico senza realismo; o sono pure
forme d’espressione, ma prive d’ogni vero contenuto rappresentativo. In
ambedue i casi, sono una figura dell’orbitare secondo libere traiettorie
attorno a un centro di gravitazione testuale-psicologica, momenti di un
percorso molteplice che si stacca da e torna a quel nucleo con un
andamento centripeto, laddove la multimedialità e la stratigrafia
collagistica di La descrittione del gran paese era figura – e metafora – di
un viaggio centrifugo entro un universo omogeneo e sferico quale
quello di Sanguineti.
Montaggio dei testi poetici, accenni di drammaturgia scenica, sono
insomma tutti proiezione di quel verso nucleare, di quel moto gestuale
che chiama in causa una presenza dialogica, ma la riperimetra subito nel
cono d’esperienza dell’io. La voce è ciò che disegna le nervature portanti
di questo non-dramma, lo strumentale – piuttosto che le scarne
indicazioni sceniche – il suo umbratile scenario.
31
Ho già notato, nella fonte G, l’inibizione delle già scarne azioni in scena (azioni ‘di grado zero’, come
l’oscillare, il camminare disinvoltamente…) quando, dopo il rito d’apertura, il canto si ispessisce.
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Intorno a John Berryman: LetturAzione*
Daniela Tortora
[…] all the black same I dance my blue head off!
John Berryman, King David Dances
Altrove ho già insistito sul senso speciale che la parola poetica (nelle sue
molteplici accezioni) ha giocato nell’itinerario artistico di Mauro Bortolotti.1
Una devozione antica e ininterrotta lega l’esercizio compositivo dell’artista
umbro alla poesia, ne sostanzia la copiosa produzione di opere (dagli anni
Cinquanta sino alle più recenti creazioni del nuovo millennio), anche di quelle
meno scopertamente assegnabili a questo sostanzioso versante del suo
lavoro, ne traduce in segni più o meno facilmente decifrabili un percorso
parallelo di letture, di incontri, di meditazioni, certamente più vasto e
centrifugo di quanto l’ordinato succedersi delle sue composizioni possa
lasciar intendere.
La parola poetica, o letteraria che dir si voglia, si fa compagna di un lungo
viaggio iniziato da subito negli anni giovanili, grazie alla precocissima
frequentazione dei grandi poeti americani,2 dei surrealisti francesi, dei
‘novissimi’ italiani, e trasformatosi poi in un inarrestabile vagare alla ricerca
delle regioni più oscure e inesplorate del reale e delle sue infinite
costellazioni dicibili. La parola poetica è vocazione/volontà di canto (con
Éluard,“[…] fin dai tempi più remoti, la poesia è il linguaggio che canta”) ed è
una parola che letta, riletta, ancora risuonante degli echi delle tante letture
sedimentatesi nella memoria, si lascia frantumare, scomporre, manipolare, riscrivere, sino a conquistare una novella epifania [sonora] grazie al gesto
rigenerante riservatole dalla musica.
D’altro canto, è la parola poetica a nutrire le fondamenta del pensiero musicale
* Una prima versione di questo testo è apparsa nelle note al programma di sala dello spettacolo nel
2003 (Goethe Institut-Rom, 15-16.XI.2003) e, successivamente, in “Luxflux proto-type arte contemporanea”, II, 2004, n. 4-5-6, pp. 161-167.
1
Cfr. DANIELA TORTORA, Poesia e musica nell’opera di Mauro Bortolotti,“Avanguardia”,VII, 2002, n. 19, pp. 5174, qui riprodotto alle pp. 21-45.
2
L’attenzione per la poesia americana è confermata nel dopoguerra dalle letture orientate dal
“Politecnico” di Vittorini, cfr., ad esempio, ELIO VITTORINI, Breve storia della letteratura americana, “Il
Politecnico”, I, maggio 1946, n. 29, pp. 5-9 (a seguire nei numeri successivi).
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INTORNO A JOHN BERRYMAN: LETTURAZIONE
di Bortolotti, ad accenderne i luoghi più infuocati, a illuminarne il senso ora di
gioco, ora di memoria, ora di distanza o di vuoto delle sue musiche, a divenire parafrasando Berryman - “il suo trastullo”, il suo “sogno”, la sua “quiete”; a
raccogliersi in superficie o a ritrarsi nelle profondità del tessuto musicale, più
che mai viva, sottratta com’è a esistenze e universi palpitanti e diversi. Non
posso fare a meno di citare ancora una volta le parole del compositore,
dettate poco più di vent’anni fa per le note del programma di sala di un
concerto monografico a lui dedicato da “Nuova Consonanza”:
Che cosa è infatti il mio attaccamento di sempre alla poesia (per es. Eliot,
Scotellaro, Éluard, Cummings e, successivamente, Giuliani, Marziale, Berryman,
Sanguineti …) se non un modo di superare processi linguistici altrimenti
congelati? Il contatto con un testo mi libera invitandomi a cercare, a centrare il
nucleo espressivo, il punto di massima tensione della poesia o di un verso, o di
un frammento… e in questo rapporto si realizza la “distrazione” e il distacco da
vincoli, da pre-condizionamenti sia di mestiere sia interni alla cultura musicale
che si va ‘ritrovando’ e ‘riassumendo’ nell’esercizio di questo ‘sistema di libertà’.3
Come nasce (da dove proviene) la vocazione teatrale di Mauro Bortolotti? È
un’inclinazione lieve, insinuatasi poco a poco nel suo lavoro, appena
pronunciata eppure già intravista tra le righe della sua produzione vocale
degli anni Sessanta-Settanta (penso, in particolar modo, alle opere nate sui
testi di Alfredo Giuliani, Povera Juliet e Il professor PI ossia il fenomeno non è un
fatto),4 ove nella dilettosa/concettosa prosa musicale si aprivano a sorpresa
squarci dotati di una speciale intenzione declamatoria e insieme gestuale. È la
parola poetica stessa a custodirne in fondo tutti i segreti e le ragioni - è nel
dire la parola che risulta possibile un fare la parola – ed è l’accostamento
cauto al teatro a divenire l’unica forma vera, possibile di apertura della
scrittura musicale che Bortolotti possa concedersi in questa fase della sua
esperienza musicale.
L’incontro con la poesia di John Berryman (1914-1971) è di quelli esaltanti,
rapinosi e non risolvibili nei termini dettati dai codici ormai un po’ infiacchiti
dell’avanguardia nei tardi anni Settanta: l’innamoramento è subitaneo, ma
MAURO BORTOLOTTI, programma di sala del concerto monografico, stagione di “Nuova Consonanza”,
Roma-Viterbo, 1981.
4
E tu? nondramma […] (1970) per soprano, tenore, mimo e orchestra da camera utilizza la “poesia di
teatro” Povera Juliet (1963); L’attesa… Il professor PI (1980), per voce e nastro magnetico, un frammento da Il professor PI ossia il fenomeno non è un fatto. Entrambi i testi sono contenuti in ALFREDO GIULIANI,
Povera Juliet e altre poesie, Milano, Feltrinelli, 1965, rispettivamente alle pp. 51-66 e 41-48.
3
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l’approccio graduale progressivo insistito. Qualcosa attrae fatalmente Bortolotti
nel vortice della poesia del non-facile artista americano: ora lo sguardo
allucinato che perfora la materia delle cose per metterne a nudo la sostanza;
ora il turbinio soverchiante del reale che finisce per colmare di sé una lirica
possente, sofferta, eticamente turbata, ma consapevole del proprio ruolo
ineludibile nel mondo contemporaneo (un anonimo recensore del “Times
Literary Supplement” scriveva come Berryman “sviluppi uno stile espressivo da
quella inarticolatezza che l’affascinava e che appartiene al nostro tempo” un’inarticolatezza che “parla per coloro che vedono i mostri [Guai ai gelidi
mostri, ammonirà Luigi Nono negli anni Ottanta] impadronirsi del mondo e
non hanno trovato un linguaggio coerente per esprimere il loro orrore”.5
Bortolotti prende nota con cura dei suggerimenti interpretativi
dell’americanista Sergio Perosa e li evidenzia dando l’opportunità al
musicologo di ricostruire, attraverso la parola dell’ermeneuta selezionata dal
musicista, una sorta di decalogo [personalizzato] di iniziazione ai Canti di
Berryman e alle sue importanti conquiste, così determinanti ai fini delle
successive imprese compositive del Nostro:
[…] egli [Berryman] definisce il sogno come “un panorama dell’intera vita
mentale”, scomponibile in molteplici (o addirittura infinite) strutture. […] Come
parlano il linguaggio del negro e del blues, così questi canti parlano il linguaggio
“altro” del sogno e dell’allucinazione, dell’inconscio e dell’io dislocato non solo
razzialmente, ma psicologicamente.
[…] il linguaggio è gravato di intenzioni parodistiche e umoristiche, predilige la
battuta di spirito o la boutade magari apparentemente incoerente
Dentro c’è perciò di tutto – dai tormenti individuali agli eventi più angosciosi
dell’epoca, dall’assassinio di J. F. Kennedy al Vietnam, dai processi in Russia alle
atomiche – ma rifranto, non organizzato, nella ripetizione seriale dei canti.
È dunque poesia dell’io che ingloba e rispecchia la vita del tempo e l’alienazione
della società, di cui quella dell’individuo è riflesso. In tal senso ci si discosta
violentemente (e comprensibilmente) dai due modelli iniziali di Wordsworth e
di Whitman, dalla loro poesia dell’io
[…] Berryman mostra costantemente, assieme ai risultati raggiunti, gli strumenti
usati, i mezzi di cui si serve.
Quella del Berryman maturo è una forma e un esempio di grande poesia
postmoderna […] e di un recupero alla poesia della pienezza emotiva e vitale dell’io.
5
La recensione è citata in SERGIO PEROSA, Itinerario della poesia di Berryman, in JOHN BERRYMAN, Canti onirici e altre poesie ,Torino, Einaudi, 1978, pp.V-XLIX: XXXIX.
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Al centro dell’ispirazione di Berryman sta forse il fascino di essere o diventare
poeta; e così al centro della sua poesia egli trova l’io. Ma questo io scopre e fa
muovere un mondo del contingente, di vita vissuta, qui, ora, nella sua confusione
e nella sua caducità, che affiora e ribolle […] Il poeta forse più libresco del
secondo Novecento si arrende alla vita, esalta il reale più caotico e tumultuoso6
Le travolgenti suggestioni oniriche (e musicali) – chissà, forse, musicali proprio
perché oniriche - attinte alla poesia di Berryman danno vita a una sorta di
ciclo compositivo avviatosi sul finire degli anni Settanta con il Quartetto per
archi (Preludio a Berryman) (1978, ma edito per i tipi della Edipan nel 1985) e
proseguito poi, a qualche anno di distanza, con Room 231: Something black
(1981- rev. 2003, anch’esso edito nella sua prima versione dalla Edipan) per
voce di soprano e quartetto d’archi e infine con l’inevitabile approdo scenico
del Berryman: LetturAzione (1981) per soprano, basso, attori, lettori,
danzatrice, gruppo strumentale, nastro magnetico. Il ciclo è in realtà un
percorso aperto, nient’affatto concluso, che consente l’espansione dei
materiali attinti all’infinito campionario di umanità di cui si forgia la poesia
berrymaniana: se la scrittura per archi, volutamente aperta nelle tante
agilissime figurazioni che ne increspano la pasta sonora complessiva, ben si
addice a rendere omaggio alla inconsistenza e alla pesantezza del vivere
celebrate dal poeta americano,
Es. 1
6
Ivi, pp. XXVII-XLVII; le sottolineature sono di Bortolotti.
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Mauro Bortolotti, Quartetto (Preludio a Berryman), p.1
la voce e il canto (il bisogno di/ la libertà di) irrompono accanto agli archi
(è ancora un quartetto l’altra voce cui è affidato il Berryman più oscuro)
nel lavoro successivo, Room 231 […], ora in maniera delicata e dolcissima
(“quasi parlato”, “morendo”, “solo fiato”), ora in modi orrorosi e
inquietanti proprio per l’intonazione perduta e per la vaghezza del parlato
(le parole si affollano sulle righe del pentagramma per trascolorare poi nei
suoni, anch’essi non di rado indefiniti, e viceversa)
Es. 2
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Mauro Bortolotti, Room 231: something black, ms., p. 2
Bortolotti elude nel ‘78 - l’anno del Preludio a Berryman - la scelta testuale,
non predilige alcun testo, bensì la parola assente semplicemente evocata
dal nome, non poco ingombrante per la verità, del poeta appena scoperto
e già inseguito; non può tuttavia fare a meno di aggiungere la sua
parola/voce a quella volutamente sottratta del poeta celebrato
nell’intitolazione del brano, per rivolgersi così ai suoi futuri interlocutori,
interpreti o ascoltatori che dir si voglia:
Il musicista sa che la sua arte vive di una doppia vita: l’una, segnata dallo
scandirsi di un tempo “oggettivo”, misurato dall’incorruttibile metronomo, deve,
però, coesistere con l’altra data dal fluire libero di un tempo “interiore”,
mutevole come lo stesso scorrere della vita, misterioso come ogni “doppio”,
inquietante come sa il filosofo ed ogni uomo cosciente di sé.
Per questo lavoro ho evitato – tranne che per brevi tratti – un tempo scandito
dalla battuta, preferendo una notazione propozionale, libera; ma dovrà essere
cura degli esecutori cercare e seguire il tempo di ognuno, e insieme di tutti,
ogni volta diverso, ogni volta il più vero.
Sento allora di dover dare un consiglio preciso per l’esecuzione: ciascuno dovrà
leggere in partitura per poter individuare, percepire le attese, le esitazioni
improvvise, le repentine tensioni, proprie ed altrui, così da realizzare infine,
senz’altro vincolo che quello reciproco, di un comune sentire, un procedere che
sia parte vera dell’uomo, sofferta e vibrante misura del suo istinto vitale.7
7
MAURO BORTOLOTTI, Quartetto (Preludio a Berryman), Roma, Edipan, 1985.
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Poco dopo, nel Tiuit (1979) per violoncello il compositore farà scivolare
parole e frasi sbocconcellate di E. E. Cummings tra le maglie allentatesi
delle strutture sonore affidate all’arco solo e alla sua misteriosa voce (e a
quella della sua interprete, tacitamente omaggiata/anagrammata
nell’intitolazione del pezzo, Francis Marie Uitti).8 Sarà poi nuovamente
l’abbraccio degli archi – forse di schönberghiana memoria (ricordo la
comparsa della voce negli ultimi due movimenti del Quartetto op. 10, con
l’intonazione delle due liriche di Stefan George - a serrarsi attorno alla
voce fattasi vera, persona viva in carne e ossa, nella desolata Room 231:
[the forth week] Something black, ancora da Berryman.
Banale sarebbe limitarsi alla constatazione della speciale musicalità del
verso berrymaniano, rimarcarne la natura tuttasonora di canto non di rado
in-traducibile che affonda le radici nel blues e nello slang neroamericano;
altrettanto vano segnalare l’indole dialogico-discorsiva di quel verso –
talking verse, si dirà - che lascia spazio all’eloquio del poeta e dei suoi
molteplici doppi; inutile, se si volesse scorgere in tutto ciò la ragione
essenziale dell’andare al di là del semplicemente poetabile e musicabile:
tutto questo potrà assumere un senso soltanto qualora si riuscisse ad
ascoltare le inaudite tensioni gestuali insite nella parola poetica di
Berryman, quello sconfinare verso il canto/gesto, il canto/danza della
parola stessa che le consentirà di sentirsi a suo agio all’interno di un
manufatto disomogeneo e composito quale quello realizzato da Bortolotti
con LetturAzione (“Abbiamo suonato per voi, e voi non avete danzato:
abbiamo pianto per voi, e non vi siete uniti al lamento. On parle toujours
de “l’art religieux”. L’art est religieux. […]”, dirà Berryman nell’epigrafe alle
Delusions, etc.,9 la raccolta cui appartiene il Beethoven Triumphant, vero e
proprio cuore pulsante dell’intero lavoro scenico del maestro umbro).
Al groviglio delle citazioni testuali, tratte perlopiù dai Dream Songs e dalle
Delusions (con innesti minimi da Mallarmé, Eliot, Robins Freeman),
Bortolotti intende dare una forma in qualche modo narrativa, vale a dire
Tra le carte del compositore si conserva copia di una lettera del 18.IV.2005 al M° Marco Lombardi,
alla quale è allegata la seguente breve nota sulla composizione Tiuit: “Il lavoro, per il tipo di scrittura
usato, può considerarsi come una complessa improvvisazione suonata, parlata (se l’esecutore è disponibile) e aperta all’inserimento di zone umoristiche – qui con l’impiego di un secondo arco, particolarmente allentato nei crini, affinché possa abbracciare tre corde per ottenere una ampia, indistinta,
fascia sonora. L’assenza, per la gran parte del lavoro, di battute e la possibilità di scelta del rigo e dell’iter da seguire, devono coinvolgere l’esecutore curioso nella ricerca della forma-durata globale della
composizione” (archivio privato Bortolotti, datt. inedito).
9
BERRYMAN, Canti onirici e altre poesie cit.
8
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trasformarle in un itinerario di lettura (musicale) sovrapposto agli originali
e aperto, sì, alle varie sollecitazioni delle infinite messinscena possibili, ma
dotato di senso proprio nella definizione delle sue interne stazioni, così
annunciate in un antico abbozzo del lavoro: 1) l’amore, la donna, la vita; 2)
Beethoven Triumphant; 3) il padre, la morte.
Vale la pena a questo punto di ricordare le parole dettate dal poeta per
introdurre a suo tempo il lettore americano alla prima edizione della
raccolta prediletta da Bortolotti:
Il poema […], qualunque sia la vasta gamma di personaggi, è essenzialmente su
di un personaggio immaginario (non il poeta, non io) chiamato Enrico, un
bianco americano sulla mezza età truccato talvolta da menestrello negro, che
ha subito una perdita irreversibile e parla di sé talvolta in prima persona,
talvolta in terza, talvolta perfino in seconda persona; ha un amico, mai nominato,
che gli si rivolge chimandolo Signor Ossa e varianti del nome.10
L’irruzione prepotente del reale (il “corpo della signora Broscia prima che
muoia alla lussuria”, il mondo pieno “di donne che s’abboffano”, le “cosce
musicali”, la vecchiaia risparmiata, “una pallottola sul portico di cemento”,
la “tomba di questo orribile banchiere che all’alba in Florida si fece saltare
le cervella”) crea un varco tra le trame artificiose del linguaggio poetico e
finisce per infrangerne i fondali di cartapesta e per mettere in scena l’io
individuale travolto dall’eccedente mostruosità dilagante nel mondo. E così
l’evento lontano e incomprensibile (il suicidio del padre), che aveva
segnato in nuce l’esistenza (e con essa il destino) del poeta morto
anch’esso suicida nel ‘71, diviene ad un tempo prefigurazione e attesa del
gesto (dell’unico gesto) risolutivo possibile.
Nel citato abbozzo le tre parti segnalate, dotate ciascuna di una precisa
indicazione di durata, vengono organizzate in unità discrete contrassegnate
ciascuna da una lettera differente e dal vario succedersi degli interventi
dei cantanti, dei lettori e della danzatrice:
I = 14’VIDEO
L’amore la Donna la vita
A)
B)
C)
10
Nastro
il Basso + piano e viol. […]
Lettore “Tu nella casa di pietra”
Ibidem.
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D)
E)
F)
G)
H)
Entra la Danzatrice
I)
L)
Video
M)
N)
O)
P)
Q)
Nastro
Lettore “Desiderai”
Soprano “…”
Lettori “Amarla non l’amo…”
il Basso “Concedimi tu insonne…/ … alla lussuria”
Lettore “Astronomie… il tuo coro” continua nastro
Lettore + violino 4’ “Sirena mallarmeiana”
Lettore “Rimpinzato” Frammenti 5 (4’)
Lettore “E si riapre/ che delira…” nel silenzio
Soprano Something con quartetto o con chitarra
Lettore “Cominciò col turbinio…” + video
“… all’una e trenta
(+ pianoforte)
… svanì”
Danza (+ pianoforte)
II [= 8’]
Beethoven Triumphant
+ nastri con citazioni beethoveniane
III = 14’
Il Padre – la Morte
A)
B)
C)
D)
E)
F)
G)
H)
I)
L)
M)
Accordo tenutissimo/ mus. in fff
Soprano… acuto
Lettore “Mia madre ha il tuo fucile”
Basso “Se tu vieux” Mallarmé
+ pianoforte
Lettore “Se la vita è un sandwich….” + lettrice
Lettori (duo) “Anche lo amo…”
+ video
Nastro + Lettore “La lapide è storta …”
Quartetto (Preludio a Berryman)
Lettore “La fortuna gli diede di conoscere…”
Soprano “Something black” + quartetto
Lettori “Il suo dono declinò…” + nastro in crescendo
(ironico)
Basso “Concedimi…” + danzatrice (come al 2)
Soprano “I carry” + Quartetto
Tra le carte che il compositore custodisce esistono almeno altre due
versioni del medesimo tracciato del lavoro: in entrambi i casi la soluzione
grafica adottata prevede sulla sinistra del foglio il succedersi dei riferimenti
testuali con accanto annotazioni inerenti alle luci, alla postura degli
interpreti, alle azioni, ivi inclusa la danza, e sulla destra, ben evidenziata, la
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parte musicale dello spettacolo (ovvero l’impiego delle voci, del canto, del
nastro, degli strumenti) con i frequenti autoimprestiti (I carry, Frammenti 5,
da Éluard, Mottetto, Quartetto [ma “Preludio a Berryman”], Stanza 231),
montati qui in relazione allo scorrere delle citazioni testuali pronunciate (o
intonate). Una di queste due stesure mi appare significativamente arretrata
rispetto all’altra (ed anche rispetto a quella trascritta poc’anzi) per
l’aggiunta di altri riferimenti testuali e poetici (“Mallarmé”, “Vietnam”) e
per la presenza di citazioni musicali da un brano per “viol.[ino] solo”, non
meglio identificato e dal “Contre 2” (fig. p. 112)
La versione più completa di questo copione prevede la trascrizione
integrale dei testi letti e intonati, così come sono stati prelevati dai Canti
originali e giustapposti dal compositore, con l’aggiunta delle didascalie
sceniche e, nel riquadro laterale, degli appunti perlopiù manoscritti (tutto il
resto è dattiloscritto), inerenti al piano sonoro-musicale, nonché scenicovisivo dello spettacolo (luci, danza, video, etc.):
➝
Voce Basso
sua luce [ms.]
Berryman: Letture
Parte NASTRO indi
Basso: Concedimi, o Tu insonne….. (passeggiando)
1/2 luce [ms.]
pag. 35.
Tu nella casa di pietra dove il sicomoro
Più di me ti vede, dove l’erba della fortuna
Più spesso ti allevia il piede nudo…
Proprio ora passi con soave moto… con qual
Dolce pensiero ohimè per me, sperduto e dolorante?
pag. 31.
DESIDERAI,TUTTI I MITI GIORNI di metà marzo
Quest’anno speciale, che il tuo biondo buonanimo
(Signora), ammettesse…
Me nella tua storia, a primavera.
Un osso sbiancato dal sole.
Viandanti rispettosi vi passano al largo, riarsi.
PAUSA
NASTRO TACE [ms.]
Sopr. inizia
“I carry” 3’/4’
luce sul soprano [ms.]
pag. 87. (Allegro)
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Amarla non l’ama ma il pensiero
che dedica a quella giovane
lancerebbe un prodotto nazionale, con tanto
di campagna alla TV e scritte in cielo,
punti di vendita a Bonn e Tokio, davvero
si sappia che nove parole non sono state scambiate
fra lei ed Enrico
Concedimi, o Tu Insonne,
un’esperienza personale del corpo
della signora Broscia
prima che muoia alla lussuria!
LUCE[ms.] AZIONE / TAVOLA!...
lunga pausa
pag. 41
Astronomie e gerghi per trovarti, cara,
Stella, soffio dell’arte, magistrato, coscienza!
…….
Un lampo di luce, un intuito: io sono il timoroso
Veicolo del tuo cadmio fulgore… Il tuo coro
NASTRO busto Beethoven ? luce su [ms.]
pag. 43.
Abbronzato da giovane; prese la tonsura;
su un verso
Lavorò per anni; e poi quell’amabile concubina
… C’era anche Laura e 317 sonetti…
1/2 luce attori [ms.]
(canta il Basso con ironia)
DANZA – inizia [...] al grave
[ms.]
PAUSA con musiche
beethoveniane per lettura
Beethoven Trionfante
VIA NASTRO [ms.]
INIZIA VIOLINO 6’
pag. 47.
poi la danza
Sirena mallarmeana capovolta – radicata!
Sfida l’alta forcella, i due bracci in cima s’impiumano
il violino [ms.]
Verso le nubi, appena sotto si rigonfia il tronco… Guardala
Ricca di foglie e rami!... verde-mondo… libera
D’esser lei: solida-sottile-grigio-scura scorza,
Una pelle sul suo più serio pensiero: vagare…
NASTRO – 30” [ms.]
pag. 63. All. [ms.]
Rimpinzato il corpo sodo e voluttuoso / di pollo alla paprika
Mi lancia due occhiate
Svenendo d’interesse, contraccambiai la brama
e solo la presenza del marito ed altri quattro mi tenne dal saltarle addosso
o prostrarmi ai suoi piedini ed esclamare
“Sei il più bel pezzo di fica dopo anni di notte su cui Enrico abbagliato,
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abbia posato gli occhi, splendore”
Signor Ossa: pieno è il mondo
di donne che s’abboffano.
Frammenti 5, archi
pag. 39/ n. 39 in SILENZIO [ms.]
LEGGE Dopo i Frammenti 5 [ms.]
E si riapre fremente la vecchia ferita? Dovrò
Ancora curare i miei giorni agli occhi d’una donna
Sentendo sfuggire la notte inquieta e bendata?
Torcermi in sciocca estasi? Ripetere saluti banali finché una
Lagna quotidiana fa squillare una promessa? Piegarmi a far l’accolito,
Che ero mio padrone? Deve scorrere splendente il mio sangue,
Puerile, con me gelato e ottenebrato? Allentarsi il polso?
Vedo che è così, deve, vedo tremante
Che la grazia del suo passo scattante via da me
Mi incatena dove ora mi fermo con sorriso di pena:
Ne più d’orgoglio mi vesto o della febbre mi spoglio,
Fino al furore quando a letto ci si infila,
Provando la calentura per il cervello che delira.
pag. 49.
Cominciò col turbinio, cieco, irrequieto oh, sempre –
La marea era entrata verso la porta occidentale
Ed io seguivo la marea… finché
Mi arrestò una voce – corpo e volontà
E paniere, capovolto e versato, si spezzò il nervo teso
E tutto il tempo non giunto s’oscurò…
Alle nove e trenta giovedì sera, nel 1940, febbraio…
Una ragazza enigmatica sorridente svanì.
Éluard: Sop. [ms.]
UGO (?) [ms.]
DANZA a lungo con pianof. e Azioni
pag. 189
Congelato in questo bar irlandese, auguro ai miei amori
ogni bene, idem agli estranei e a tutti i suoi amici,
sette o giù di lì/ perdono ai nemici, specie due,
gli si imballa il cuore, a tanta magnanimità, può essere che sia così?
RIPRENDE Frammenti 5 [ms.]
-Signor Ossa, ma è fuor di sé. Ha visto uno stregone?
Sembra in vena da testamento e ultime volontà.
Se ne va? (Esce – Azioni minime
Riprende Lettura Beethoven nastro [ms.]
III 14’ + video [ms.]
pag. 149.
Il tuo volto incombe dal tavolo. Suicidio.
La tua forza travolse come un torrente verso la fine
di angoscia e ira –
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Battezzata all’inizio Sylvia Plath
hai cambiato il nome… figliato…
oltrepassato…
Finché il forno ti parve il luogo adatto.
Accordo tenutiss.
la musica in FFF.
(p improvv… canto…)
pag. 75.
Mia madre ha il suo fucile. (fucile/fucile)
Sop. I Carry [ms.]
Un uomo solo, con la mente stravolta e artigli d’orso,
si squarciò al tocco del grilletto, caro mio.
Non doveva farlo, ma immagino, sorella,
che non si sentisse troppo bene – che si sentisse non proprio
se non peggio come noi…? Ora – dimmi, amor mio, se ti ricordi
la luce di colomba dopo l’alba sull’isola ed il resto – ecco la storia, Jack:
favellò per quarant’anni, a sufficienza, sparò e si piegò in due – e, bellezza,
di schisto [sic!] là ce n’era ben poco (un po’).
PAUSA – Suono –
pag. 145.
VIETNAM: Enrico rabbrividì: una guerra non guerra
il nemico non il nostro nemico
ma il loro chiunque siano…
all’oscuro/ ogni giorno (ripetere)
uccidevamo vietnamiti con cifre disgustose
sbandierate in prima pagina, che, amore guardo ad
occhi sbarrati………………..
Basso [...] [ms.]
pag. 91.
Se la vita è un sandwich di fazzoletti
in pudore di morte mi ricongiungo a mio padre
che tanto tempo fa osò (osò/osò, segue) lasciarmi.
Una pallottola sul portico di cemento…
Stramazzato su un’isola, accanto al mio ginocchio.
-Lei è uno strazio, signor Ossa,
eccole questo fazzoletto, ora metta il piede sinistro vicino al destro mio,
spalla a spalla… sotto braccio… canticchi un po’, signor Ossa.
Non vidi nessuno venire, e allora ci andai io.
Buio [ms.]
pag. 137.
Anche lo amo: a me non ha nuociuto/ Per aver continuato 40 anni,
ora tocco la sua disperazione, ma non nuotò al largo con me o mio fratello
come minacciava – possente nuotatore, di prendere con sé uno di noi
a fargli compagnia nella sconfitta sublime,
raggelando (raggelando etc.)
Non so decifrare la sua mente sconvolta, così forte
e distrutta. Ci ho sempre provato. Io… io cerco di perdonarlo:
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il cui frenetico passaggio, quando non ce la fece a vivere
un minuto di più, quel mattino d’estate
lasciò Enrico a continuare a vivere.
Qui DANZA MOTTETTO
pag. 203
La lapide è storta, senza fiori, all’imbrunire
con furore sto sulla tomba di mio padre/ spesso, spesso prima d’ora
in atroce pellegrinaggio son dovuto venire/ a uno che visitarmi non può,
che strappò la pagina: ci ritorno ancora,
e sputo sulla tomba di questo orribile banchiere
che all’alba in Florida si fece saltare le cervella
oh, quando, quando,
ahimè, verrà l’indifferenza, gemo e deliro,
vorrei grattare fino ad arrivare
sotto l’erba, alla cella
e con l’ascia spaccare la cassa, ah, per vedere
come se la passa, ottenuto lo scopo, il padre mio…… MUSICA Quartetto [ms.]
pag. 153.
La fortuna gli diede di conoscere i migliori,/
nel suo tempo i re dell’espressione, a voce e a mano –
l’irlandese,
il bardo condannato… Il sottile banchiere
e il pazzoide – e l’amico saggio…
Ma aggiungo il bostoniano
aspro, grandioso e addolorato.
Stanza 231: Sop. [ms.]
pag. 173 [...]
Il suo dono declinò. Non sapeva più scrivere.
Sta’ zitto allora, finché non riprende.
Abbiamo la sanzione di Goethe: oziare quando non si presenta nessun tema
O uno che non si possa degnamente trattare:
mi rifaccio alla sua alta parola.
Odio la sua razza, però tranne Hölderlin e Kleist,
entrambi stretti al petto d’Enrico:
un suicida e un pazzo……… Kafka vecchio amico.
NASTRO [...] [ms.]
Enrico, insetto mostruoso, si stese sulla macchina della colonia penale
Senza un rammarico.
Era tutto un rammarico, ingoiando il proprio stesso vomito
Deludendo la gente, piantando tutti in asso
Nelle foreste dell’animo.
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: Sei uno strazio signor Ossa.
Basso: Concedimi… il corpo della signora Broscia. (frammento)
Sopr. I carry (frammento)
Patrizia Cerroni si muove come al N.° 2.
Il quartetto “un balzato generale”
LUCI sempre più deboli
Attori rovesciano la tavola-musica sempre più ffff.11
È utile sottolineare che Bortolotti intitola questo abbozzo di sceneggiatura
Berryman: Letture, dando così rilievo (ma lo farà anche nell’intitolazione più
generale del lavoro) alla scelta dei testi e al relativo montaggio che ha
governato la messa a punto di questo progetto di teatro musicale: la
varietà e il disordine dei caratteri impiegati (i caratteri dattiloscritti, i tanti
segni manoscritti – penna, pennarello, matita – e di formato variabile, le
cancellature), lungi dal costituire un’attraente materia per raffinati (quanto
improbabili) esercizi filologici, aiutano a ricostruire la genesi del lavoro e a
decifrare le priorità segnalate poco sopra nel corso di questo scritto. I
pezzi già nati trovano così la loro naturale collocazione, pensati già in
origine quali oggetti da ricomporre all’interno di un più vasto mosaico (di
un long poem, alla maniera berrymaniana), parti di un tutto continuamente
in via di definizione (o di riscrittura, se si preferisce) e di fatto ineliminabili,
nati per esistere laddove sin dal principio erano stati dati – senza saperlo
– come possibili esistenti.
Lo spettacolo, pensato per due cantanti (un soprano, Joan Logue, e un
baritono, Ugo Proietti), attori, lettori, una danzatrice (la ‘danzatrice scalza’
Patrizia Cerroni), un gruppo strumentale (il Quartetto Nuova Musica) e
un nastro magnetico, è andato in scena per la prima volta al teatro
Spaziozero di Roma nell’aprile del 1981. Nel novembre 2003, per le cure
dell’associazione “MusicaExperimento” nell’ambito del “Progetto Musica” di
quell’anno, si è assistito presso l’Auditorium del Goethe Institut-Rom a una
nuova versione di Berryman: LetturAzione, una libera rivisitazione del
progetto originario affidata alle cure del regista Pablo Taddei in
collaborazione con l’autore.12
I fogli 1-4 (datt. e mmss.), qui trascritti, sono custoditi presso l’archivio privato del compositore.
Questo l’elenco degli interpreti della versione del 2003: Keiko Morikawa, soprano; Maurizio Leoni,
baritono; Anna Cianca, attrice; Michele Pisicchio, attore; Quartetto “Paul Klee”; Pablo Maximo Taddei,
regia (cfr. il programma di sala dello spettacolo cit., Roma, Auditorium del Goethe Institut-Rom, 1516.XI.2003).
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INTORNO A JOHN BERRYMAN: LETTURAZIONE
Gli interpreti prescelti (due attori, un soprano, un baritono, un quartetto
d’archi con pianoforte [ad libitum]) hanno consentito un’essenzializzazione
dell’evento teatrale, riconsegnato stavolta totalmente al gesto dell’attore e
al suono della voce/delle voci, degli archi, del pianoforte [io
narrante/Bortolotti], del nastro magnetico.
Alle ricercate oscurità del testo il regista ha tentato di far fronte mediante
una estroflessione dei motivi/cardine dello spettacolo e la ricostruzione sul
filo della memoria di determinati scenari esistenziali (il rapporto con la
donna-coscienza infelice del maschio e con il non-io, il rapporto edipico col
padre e l’elaborazione mancata della perdita, la morte del personaggio),
puntando sulla valorizzazione dell’anima del testo/scena, una storia/non
storia di impianto epico-narrativo più che drammatico. La dimensione
onirica fa del lavoro “la rappresentazione di un ‘depensamento’” – sono
parole del regista - e giustifica l’irruzione di immagini estreme, poiché il
sogno è estremo e tutto acquista, nel sogno, un’analoga intensa
significazione. I calcoli geometrici che hanno aiutato a suo tempo il
progetto a prendere forma (mi riferisco ai vari abbozzi redatti in vista della
realizzazione dello spettacolo commissionato nell’81) sono stati riassorbiti
all’interno di un continuum che ripropone le scelte testuali originarie, così
come il succedersi delle parti musicali perlopiù di antico conio: Concedimi, o
Tu Insonne (basso, violoncello); Tu nella casa di pietra (soprano, violino); La
Primavera fiorita nel cuore dell’Inverno [trascr. parziale dalla Cantata per voce
e orchestra su testo di Eliot]; Quartetto (Preludio a Berryman); Room 231:
Something black (soprano, quartetto d’archi).
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Mauro Bortolotti, Berryman: LetturAzione, bozza del progetto ms., p. 1
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Esoterismo di timpani e fiati per Giordano Bruno
da Mauro Bortolotti
Salvatore Enrico Failla
Ho conosciuto Mauro Bortolotti alcuni anni fa a Latina in occasione di un
concerto organizzato da Latina Musica Oggi. Bortolotti nel suo ruolo di
compositore, io in quello di musicologo (forse presentatore di una o di
alcune sue opere, non ricordo), scambiammo diverse, non troppe, parole,
presente Francesco Pennisi anch’egli invitato alla manifestazione.
Destarono in me profonda impressione la sua modestia, la inconsueta
cultura, l’amore sincero per la musica. E ancor di più la sua dedizione al
Novecento, all’Avanguardia, non solo perché avevamo in comune queste
utopie ma soprattutto perché ne discutemmo come se l’avessimo fatto
ogni giorno per anni e, invece, ci eravamo conosciuti da pochi minuti. Poi
si tacque. Io andai al centro della sala a parlare non so di cosa, non so di
che, quindi entrarono gli esecutori, si ascoltò la musica e quando tutto fu
compiuto mi guardai intorno e non vidi più il mio interlocutore dell’inizio.
Era andato via. Peccato. Mi sarei intrattenuto con lui ancora un poco alla
fine, forse per commentare o per scambiarci i numeri di telefono. Adesso
sono felice di ritornare a questo artista per parlare di un suo recente
componimento.
Le note da lui vergate, il tratto, il semplicismo eclettico, lo sconfinare a
caso ogni volta che gli va di scegliere uno dei tanti vicoli in cui si imbatte
mi riportano alla memoria almeno certi sensi delle sue parole e dei suoi
silenzi di Latina. La sua capacità di elaborare, di trasformare qualsiasi cosa
in musica da suonare o di cui parlare è ora nelle mie mani, è diventata
una partitura, un omaggio Dovuto a G. BRUNO Nolano. Devo confessare
che anch’io, come tutti, credo, al primo impatto, ho pensato alla presenza
di Bruno in un brano musicale, l’astratto per eccellenza, ad una sorta di
bizzarra licenza poetica dell’autore sostenuta da un esoterico disegno che
appare proprio all’inizio della seconda pagina della partitura fra le misure
sei e sette. Ma poi, ripassando nella mente i pochi ma non sbiaditi minuti
di conversazione a Latina col suffragio delle chiare e scandite note
manoscritte e per questo rivelatrici, senza svianti interventi informatici,
capisco che la ricorrenza quattro volte centenaria della morte sul rogo
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(16 febbraio 1600) nella romana piazza di Campo dei Fiori (Bortolotti ha
realizzato il pezzo fra il 1999 ed il 2000) sancita dal Tribunale del Santo
Uffizio per l’eretico Giordano Bruno può essere il movente vero o, forse,
il solo, meglio il più importante della stesura di questo pezzo. C’è,
anzitutto, la volontà di riscattare, di rivalutare, l’eresia bruniana, di renderla,
cioè, attuale ed apprezzabile e, in particolare, comparabile con l’ingiusta
condanna che gli sprovveduti detrattori delle nuove consonanze non più
dissonanze, al grido di “abbasso la musica degenerata”, avevano relegato
nelle zone inaccessibli all’apprezzamento culturale. Certo la lettura di Luigi
Firpo (Il processo di Giordano Bruno, 1949), il grande storico torinese nato
nel 1915, servita a Bortolotti per saziare la sua inestinguibile fame di
cultura, va considerata stimolo per la costruzione di questo brano, ma il
problema fondamentale rimane: l’idea del poema sinfonico, vecchio quanto
si vuole, grottesco e scontato fino all’inverosimile ma sempre in agguato
dietro le penne di tutti i compositori, si fa strada in questo Bortolotti
maturo, maestro di strumenti ma anche e soprattutto di voci. Qui niente
voci. Forse “in futuro, la presenza di un sensibile recitante”, sostiene
l’autore.1 Ma la dedica non riguarda solo Giordano Bruno, anche il
timpanista ed i fiatisti dell’Orchestra Regionale del Lazio. Certo aveva
bisogno di fidarsi di esecutori molto in gamba. Ma mi accorgo di celiare.
Ritorno nel seminato, Giordano Bruno è il protagonista, con le sue eresie,
le sue teorie, le sue coraggiose e aggressive rampogne, le sue liti con i
tribunali ecclesiastici, Giordano Bruno è il nuovo corso, è Nuova
Consonanza (della quale Bortolotti è stato cofondatore e presidente), è
1
“Il lavoro nasce, in una stesura minima, nel 1999 da esigenze sintetizzate in una doppia dedica: a
Giordano Bruno di cui allora si avvicinava il 400° anniversario della morte, e ai fiati e al timpanista di
quegli anni dell’Orchestra Regionale del Lazio. Ma la composizione, proprio per le due dediche, esigeva
una maggiore ampiezza e attenzione primaria, per così dire, al parametro timbrico (ma anche
contrappuntistico) permessi dal variegato ensemble. Così come, in specie dopo le ulteriori letture –
Firpo,Yates, Anna Foa – e approfondimenti vari su Giordano Bruno che ne mettevano in rilievo
l’ampiezza degli interessi, la lucidità e la modernità del pensiero, occorreva rivedere alcune soluzioni.
Come il rapporto musica/vissuto evitando descrittivismi ed esteriorità, per penetrare, per quanto
possibile, oltre il dramma con discrezione e distacco, privilegiando, quindi, le mezze tinte dei flauti e dei
legni, usando gli ottoni spesso con sordine varie, in contrasto con la prepotente presenza e personalità
del timpano solista. Il tutto giocato su una scelta di intervalli ricorrenti – sia orizzontali che verticali –
spesso al limite del totale cromatico. Il lavoro è però da considerare “in progress” e non si esclude, per il
futuro, la presenza di un sensibile recitante” (MAURO BORTOLOTTI cit. in LANDA KETOFF, s. t., in programma
di sala per la prima esecuzione assoluta di Composizione 2002 per dodici strumenti a fiato e timpani [ma
Dovuto a G. Bruno Nolano] di Mauro Bortolotti, Orchestra di Roma e del Lazio-Fondazione Ottavio Ziino,
Narni e Roma, 2002; cfr. inoltre ETTORE ZOCARO, s. t., in programma di sala per Composizione per 12
strumenti a fiato e timpani di Mauro Bortolotti, Fondazione Orchestra del Lazio, Narni, Latina, Roma, 2000).
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Avanguardia, alea, coraggio, rinnovamento, Giordano Bruno è la voce grave
dei timpani (il componimento è scritto per timpani e 12 fiati); e i fiati sono
il perbenismo, il tradizionalismo, l’accademismo, la stasi, la paura,
l’obbedienza riverente, il super-io, il morso e le briglie. Leggermente
clownesco questo ricorso a Sigmund Freud, questo chiamare in causa il
terzo incomodo della terna psicanalitica? Può darsi, ma solo perché
clownesco è l’atteggiamento dei detrattori della Nuova Musica. Una sorta
di contraltare di Don Pirlimplin di Maderna? No. Perché? Il flauto in
Maderna è protagonista in alto e i timpani per Bortolotti sono
protagonisti in basso. Ma è solo una questione di altezze. Maderna dà
sfogo alla sua inventiva affidando la parte di protagonista ad uno
strumento in un radiodramma ma la sua contestazione, presente tuttavia,
soccombe incapsulata nello spesso involucro della creatività. Qui c’è forse
di più. Bortolotti evidenzia la voce grave e non totalmente determinata
(pur nell’alveo del membrafonismo a suono determinato, quello tipico da
pelle, da membrana con armoniche disordinate, grottesche, circensi) di un
narratore, di un cronista (l’Oratorio in carne ed ossa non è qui chiamato
a fornire chiari riferimenti neoclassici?) e dunque si muove sicuro su un
percorso disprezzato, condannato ma ripesca, ritorna, ripercorre quanto si
vuol contrapporre e, in tal modo, la pagina macchiata di note di inchiostro
e non di toner del musicista di Narni si contrappone a sé stessa.
Ma vorrei ritornare al disegno posto fra le misure sei e sette del quale
nessuno, compreso l’autore, che io sappia, ha mai parlato e che invece chi
scrive, presuntuosamente forse, vuole analizzare, solo per curiosità,
sperando che qualche idea, scrivendone, pensandone, possa balzargli alla
mente. Si tratta di una criptica circonferenza di ascendenza vagamente
massonica che lascia pensare alle fatiche filosofiche dei ricercatori della
pietra filosofale, della verità con la certezza di non trovarla mai. Forse una
sfida: l’arte che io Mauro Bortolotti perseguo può essere nota solo a me
e, se pur te la spiegassi, infinitamente gravoso sarebbe il tuo lavoro
psichico perché tu possa afferrarne non certo i significati (che non ci
sono) ma i nessi, le logiche, i gangli, le strutture. O il contrario: perché,
ascoltatore sprovveduto, ti ostini ad ignorarmi e a condannarmi al rogo
dell’incomprensibile quando un piccolo disegnino di pochi centimetri
sarebbe sufficiente a spiegarti quello che tu, nel migliore dei casi, credi sia
un arcano? Uno scasso (così lo definiscono i tipografi) rettangolare
svuotato dei pentagrammi ospita una circonferenza di circa settanta
millimetri di diametro nella quale sono inscritti due quadrati sfasati, in
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Mauro Bortolotti, Dovuto a G. Bruno Nolano, ms., p. 2
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modo che uno abbia i propri angoli a destra e a sinistra del cerchio
inscrivente e l’altro copra un immaginario schema di punti cardinali in
posizione romboidale.Tutto questo rende l’immagine ambigua: per un
verso statica e per un altro in movimento con un più che preciso ricorso
a siti tipicamente massonici, come [oriente, occidente, settentrione e
meridione] suffragati, tra l’altro, dai nomi dei quattro elementi
fondamentali del mondo, acqua, aria, terra, fuoco, nonché da termini
gergali in latino, Siccitas, Caliditas, Frigititas (che, suppongo, sia Frigiditas),
Humanitas, e ancora Summa remissa, Combinatio possibilis, Combinatio
impossibilis, Contraria poste su binari che collegano in diagonale i due
quadrati, sugli angoli o sul percorso della circonferenza. Indecifrabile
un’altra frase o un’altra parola che comincia con Simboli […]. Alcuni piccoli
e schematici schizzi accompagnano le parole dei quattro elementi della
natura. Il quattro domina incontrastato. Un beffardo ricorrere al jolly
ineliminabile della musica di consumo? La quadratura? Il Classicimo? La
beat generation? Baluardo invalicabile dei musicisti dilettanti o dei
professionisti del dogma romantico e conservatoriale, la quadratura è uno
dei metri di giudizio determinante per giudicare la predisposizione a
musicare di un marmocchio neofita come di un preparatissimo
partecipante ad un concorso internazionale di interpretazione. E
Bortolotti ne ha di esperienza in tutti i campi (studi di composizione con
Goffredo Petrassi, di pianoforte, di organo, Darmstadt, CNUCE con Pietro
Grossi, docenza a Santa Cecilia, direzione artistica dell’Orchestra Regionale
del Lazio, un ricco corpus di composizioni di tutti i generi) per affrontare
una polemica sotterranea ma certo molto più valida dello stucchevole
trombonismo delle grandi star che, mentre predicano un radicale
rinnovamento delle arti e della cultura, si fanno in cento perché tutto non
cambi mai. Ma ci sono artisti come Bortolotti che non hanno mai
abbandonato il credo avanguardistico, anche oggi quando sarebbe facile e
conveniente perseguire gli andazzi del più becero consumismo.
È nell’organico la stranezza, l’originalità di questo pezzo? Anche, ma fatte le
dovute considerazioni. La scrittura relativa alle caldaie adoperate si
distacca notevolmente dalla maniera di condurre i dodici aerofoni che
completano il costrutto. Si nota una precisa vocazione a dar vita ad una
doppia invenzione, di tipo barocco, però preoccupata di distanziare i due
ambiti strutturalmente e stilisticamente, certo facendo salvi l’unità formale
del componimento e la maniera di Bortolotti. La parte timpanistica
subisce un andamento di genere essenzialmente sincronico. Certo brevi
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passaggi bicordali, utilizzati a scopo timbrico ma non solo: ben si prestano
ad un gioco ritmico di natura cadenzale ma cadenzale in itinere, senza
velleità di conclusioni neanche di passaggio. Ma l’impressione
preponderante è quella della cantabilità. Una cantabilità decisamente
seriale con qualche licenza ed una serialità difficoltosa, irta, distribuita su
tutto il componimento. Ho contato, in tutto, ma non assumo
responsabilità su questo punto, ventuno suoni diversi nella parte dei
timpani che, superando la barriera antiseriale delle ripetizioni, vanno a
costituire un totale cromatico completo da re a do diesis, più otto suoni
in sequenza cromatica da re a la e poi un salto intervallare di seconda
maggiore sul si che però, considerando il glissando della misura
centocinquantaquattro, che tocca il si bemolle, potrebbe portare questa
seconda serie a nove suoni.
I fiati sono dodici, cioè il canonico quintetto (flauto, oboe, clarinetto,
fagotto e corno) raddoppiato più due tromboni. Clarinetti e corni sono
rispettivamente in si bemolle e in fa. Qui la serie passim è ancora
presente ma continuamente tormentata, interrotta, ripresa, arbitrariamente
modificata. Sembrerebbe prendere a modello, come dicevo,
l’invenzionismo bachiano ma frequentemente viene risucchiata in un
baratro di voluta ed intelligente banalità di tipo formale ma a volte a
carico dell’intensità, assottigliandosi e a tratti sparendo o lasciando a
rappresentarne le connotazioni pochi soffi, svuotate circostanze sonore,
perché i timpani possano filtrare tranquillamente evitando però, ed è
molto difficile farlo, la pomposità che spesso questi strumenti assumono
anche in presenza di ripieni sinfonici di ampio spessore. Si infrangono
dunque molti dei tipici rigori canonici di decenni di musica europea
sempre dignitosamente emersi dai pantani di un consumismo avvilente e
sempre altrettanto puniti dallo snervante immobilismo di un target ogni
giorno più largo, più ignorante, più schiavo dei mercanti di turno; ma si
infrangono a ragion veduta per la vocazione di Bortolotti a far musica
diversa, svincolata dal passato, liberata dal presente, volontariamente ignara
del futuro e tuttavia in atto capace di rendere giustizia al prima, all’ora e al
dopo su un piano di perfetta uguaglianza, formale dico, che fa tesoro del
più piccolo processo avvenuto, del minimo quasi impercettibile
suggerimento in un coacervo di bellezza grafica che fa del senso ottico il
vero mezzo di assimilazione del prodotto. È dunque musica che non si
suona? Tutt’altro si suona e si ascolta e non solo con l’organo uditivo ma
anche con gli occhi.
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Rarefazioni, corali scarnificati, i grandi jolly della musica occidentale del
Novecento, qui sono cunicoli, grotte, canali di collegamento, stalattiti,
stalagmiti, ragnatele complicate che invitano ad escursioni speleologiche
fortemente rischiose, che costringono a percorsi su orli di baratri, tuttavia
assicurati e sorretti da una razionalità fine e predisposta a dichiararsi collante
di un discorso omogeneo e temerariamente sicuro. Quasi tutti gli strumenti
vi si cimentano ma, soprattutto, i flauti sfarfalleggiano, affrontano figurazioni
intense che anneriscono di più il pentagramma e questa condensazione
pittorica rende tali suoni non solo vicinissimi ma conduttori di rapidità, di
energia, di flussi magnetici la cui velocità, probabilmente a bella posta, non è
precisata dall’autore. È da considerare imitazione, fugato, ripetitivismo,
Leitmotiv, il vezzo di periodizzare e di rendere circolante in dimensione
polifonica i disegni contratti o rarefatti che la mano di Bortolotti si porta
dietro quasi inconsapevolmente? È Bortolotti solo un tramite passivo fra la
musica vigente nel suo momento biografico ed il foglio sul quale scrive?
Questa considerazione sarebbe una deminutio? No di certo. Piuttosto
un’amplificatio. Cosa è apprezzabile in un artista più del suo annientarsi per
donarsi completamente alla causa di un’arte che, se adoperata, subirebbe,
comunque, alterazioni di incerta validità?
Altro elemento di sicura efficacia strutturale è costituito dalla fitta trama di
acciaccature, anche doppie e triple, nei timpani, nei fiati, che confezionano
un manufatto di temi-ombra che, più che dar forza e accenti ai suoni reali
cercano affannosamente il bandolo di una matassa sottintesa, compatta
virtualmente all’inizio del componimento e poi via via contrapponendosi
ad esso anche mutuandone certi connotati e incidendo invasivamente su
quello che convenzionalmente è definibile un guscio ritmico concluso
sebbene aperto ad innumerevoli considerazioni.
Il ritmo in questo componimento sembra essere imaginificamente assente.
In apparenza si propone sisificamente. Ma è mera e mirabile illusione. Si ha
paura, nel senso che il Maestro potrebbe temere quanto suppongo, che i
timpani, strumenti che hanno trovato nella dimesione ritmica la loro
ragion d’essere, possano essere, in qualche modo, violentati da un eccesso
di specificazione metrica imposto dagli altri strumenti. Le caldaie devono
restare libere di ‘cantare’, di ‘recitare’, di imporre i loro argomenti, che
sono soprattutto fatti di rapidità, di lentezze, di brevi e di lunghe. Così
come i flauti, già alla seconda misura, i compagni aerofoni fuggono al
rintronar leggiadro o punitivo delle pelli gravi e gravissime. Ma il ritmo non
potrebbe non esserci e anzi le lezioni di Stravinskij (assunta in negativo), di
Varèse, di Webern, di Petrassi (del quale Bortolotti, si diceva prima, è stato
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allievo di composizione) emergono dal lungo e proficuo tirocinio del
compositore di Narni. La presenza delle pulsioni si avverte di più proprio
quando queste ultime si spogliano delle loro più grossolane precisazioni e
lasciano all’arbitrio dell’esecutore, direi anche dell’ascoltatore, tutte quelle
microstrutture che le rendono impalpabili e, ad un tempo, irresistibili e
trascinanti. È l’improvvisazione, anzi è l’alea. Il Giordano Bruno di Mauro
Bortolotti è un componimento aleatorio, come d’altronde tutta la musica
del mondo anche se in maniere diverse, ma appare come se regolato da
norme invalicabili e non assoggettabili ad un trattamento aleatorio. In
realtà la vera e prevaricante libertà di questo brano risiede nel ritmo, in
quello affrontato e reso dai timpani, imitato dai fiati e, in particolare,
affidato, di nascosto, ad un apparato di appoggiature (anche questo già
chiamato in causa) geniale ed avvincente. Chi ascolta o legge questo
pezzo può rimanere deluso se non si accorge di questa libertà che
l’autore gli concede. Il contrario invece lo lascia attonito ed allibito.
I timpani di Bortolotti glissano continuamente. Il cromatismo a gradini non
soddisfa il Maestro ma soprattutto egli vuole che il portamento,
l’accompagnare un suono su un altro attraversando tutti quelli che vi
stanno in mezzo, il far cantare le pelli, il navigare su flutti continui, tutto
questo gli permetta di cantare, e ha dimostrato di saperlo fare molto
bene in molte sue opere, e di ambiguizzare, come si diceva, il ritmo. È un
suono particolare quello dei timpani, specie quello dei timpani che
glissano, cioè che attraversano una buona porzione della gamma a seguito
di un solo colpo di mazzuolo. L’operatore, cioè, il compositore è solo il
primo motore della vibrazione, poi quest’ultima procede autonomamente,
si fa strada da sola: fa come un neonato, un cucciolo che a poco a poco,
dopo aver abbandonato chi lo ha generato, si mette a deambulare, a
nuotare, a volare da solo, talvolta ritornando alle origini oppure avanzando
temerariamente spinto dalla curiosità di indagare, di scoprire, di alimentarsi
fino a coprire l’intero arco della sua vita che, se anche breve, come nel
caso del glissato del timpano, è pur sempre un’esperienza che arricchisce
chi la compie, chi la causa e chi la segue.
Ritornando a Giordano Bruno e compiendo un atto forse azzardato ma,
nei fatti, necessario di omaggio nei confronti di una tradizione
apparentemente sopita che si suole collocare nel postromanticismo, cioè
quella strana consuetudine di sottomettere l’astrattismo della musica al
concretismo della parola in assenza di questa, si è portati a riconoscere a
Bortolotti anche il merito di aver rispolverato e decongestionato il mai
defunto poema sinfonico, assunto nei suoi meriti più congeniali al mondo
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dei suoni, degli strumenti (meglio), imprigionandolo per mezzo della sua
formale purezza, cioè eliminandone il residuo contenutistico con la sua
stessa esaltazione. Se ne accennava prima ma… repetita iuvant.
Non è certo questo l’ultimo componimento firmato da Mauro Bortolotti. La
sua produzione è qualitativamente lodevole e quantitativamente notevole. A
contare le opere di un compositore si finisce sempre col fare brutta figura.
Posso, però, affermare con sicurezza che il catalogo in mio possesso, redatto
e gentilmente fornitomi da Daniela Tortora,2 che ha inizio da Preludio,
Ricercare e Finale del 1953 per flauto, clarinetto, tromba, corno e fagotto, è
molto nutrito e contiene numeri datati anche 2006 e con una costanza
cronologica invidiabile, senza flessioni e senza cadute. Una ragionata, sebbene
breve, lettura almeno di zone specifiche del corpus bortolottiano credo sarà
utile soprattutto a me per far sì che possa tirar fuori dalla mia mente qualche
altra delle mille cose che non sono riuscito a scrivere sulla figura di questo
compositore. Forse altre ripetizioni, forse la riproposta di argomenti già
trattati ma che possono essere stati affrontati con involontaria superficialità o
comunque che possono, al confronto con i loro prodromi, acquisire maggiori
chiarezze. In oltre cinquant’anni di composizioni si possono trarre
considerazioni e giudizi che permettono di far luce sulle predilezioni, le
urgenze, le preferenze del compositore, in ordine, soprattutto, alla scelta degli
organici ed alla conseguente maturità acquisita e manifestata palesemente o
repressa per motivi che, se assunti come inoppugnabili giustificazioni,
diverrebbero decisamente veri e propri processi alle intenzioni ma che, se
pensati come tirocini celati e dunque oggetti di processi evolutivi veri e
propri, sebbene non manifesti perché serbati per particolari occasioni,
assumono connotazioni apprezzabili sebbene opinabili ma non troppo. Citare
in questa sede i titoli degli innumerevoli manufatti musicali di Bortolotti
sarebbe certamente fatica improba e poco utile ai fini del mio discorso.
Preferisco adoperare considerazioni generali.
Strumenti a fiato in tutte le loro accezioni e voci umane, specie soprano,
tenore, baritono, anche se la generica indicazione voce in certe
composizioni potrebbe sottintendere altri registri, che comprende anche
la dimensione recitante e quella corale, sono il pane quotidiano della
musica bortolottiana. L’organo vocale, il canto attanaglia l’interesse creativo
di Bortolotti ed è secondo, nel suo corpus, soltanto a legni ed ottoni
manipolati nelle più svariate combinazioni. È il fiato, dunque, il respiro che
alita continuamente sul suo mondo di musicista ed è un soffiare, un atto
2
Cfr. il Catalogo delle opere (1953-2006), pp. 253-270.
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creativo di ascendenza soprannaturale che fa uso certamente di parole, di
lemmi, di concretismi linguistici ma in un modo particolare. Il melange che
scaturisce dalla commistione soffio-parola sembra vanificare quest’ultima o
di fatto, realmente, pone in atto un meccanismo di eliminazione, nel senso
che la forza dell’alitare sovrasta, come entità prevaricante ma non invasiva,
l’effimera leggerezza delle sillabe facendole franare sotto il peso di una
musica elegante, di una mise musicale capace di attirare completamente
l’attenzione dell’ascoltatore.
Non così si più dire per i timpani, quasi assenti fino a questo brano in tutto il
prodotto bortolottiano. Idiofoni, altri membranofoni a suono determinato e a
suono indeterminato circolano con più che sufficiente frequenza fra le opere
del musicista ma i timpani e i timpani come solisti… La fusione di fiati, al
termine di un percorso tirocinante molto lungo e costante, e di timpani,
espressione della verginità organologica, almeno pratica, di Bortolotti, qui si
incontrano per scontrarsi. Ritornano a questo punto tutti i fili di questo
discorso rimasti penzolanti dalle matasse della legittima curiosità del lettore e
mia. I timpani cantano e cantano le ragioni della nuova musica, i fiati
ostacolano, come possono, questo canto: il poema sinfonico riesplode nelle
mani di un musicista che pensa di non avere a che fare col suo recente
passato o forse desidera che questo avvenga ma che, egli volente o nolente,
si verifica con travolgente efficacia, evidente solo a chi è capace di rinvenirla.
Potrei concludere su questo punto il mio breve scritto: mi sembra questo un
bel finale ad effetto ma non resisto alla tentazione di affrontare un altro
piccolo argomento. Piccolo se si vuole, come io voglio, che tale sia ma
enorme se lo si vuol vedere con una buona lente di ingrandimento. Io, per
capirmi con me stesso, l’ho intitolato stratificazione e lo adopero spesso nei
miei scritti, nei miei interventi e durante le mie lezioni applicandolo agli
argomenti più disparati. Qui acquista un significato particolare. Attenzione!
Non va confuso con polifonia, armonia, poliritmia, anche se con questi
contesti ha molto a che vedere. Più che una teoria è un consiglio. Un
suggerimento che somministro a coloro che ritengo non ascoltino la musica,
qualsiasi musica, come dovrebbe essere ascoltata. Bisogna allenarsi a
stratificare bene. Anche una semplice canzonetta va ascoltata non come un
involucro informe che colpisce il nostro organo uditivo, in questo modo
nessuna distinzione è possibile fra una fuga di Johann Sebastian Bach, una
sinfonia di Mahler e un motivetto da balera. Anche una canzonetta, dicevo, è
costituita almeno da due elementi: il canto e l’accompagnamento. Bene.
Questi due elementi vanno distinti, stratificati, come vanno stratificate le voci
di una fuga e le sezioni che contribuiscono a formare un intero discorso
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ESOTERISMO DI TIMPANI E FIATI PER GIORDANO BRUNO DA MAURO BORTOLOTTI
sinfonico. Insomma il cervello deve continuamente disgiungere e congiungere
per poter veramente apprezzare quanto proviene dall’ascolto di un brano
musicale. In questo lavoro di Bortolotti dedicato a Giordano Bruno, almeno
leggendone la partitura o suonando la stessa con l’aiuto di un pianoforte,
disgiungere è molto più facile di congiungere. C’è come una incompatibilità
tra fiati e timpani che tradisce la concezione di fondo dell’autore. E qui mi
piacerebbe conoscere l’opinione di Mauro.
Mauro Bortolotti, Dovuto a G. Bruno Nolano, ms., p. 1
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PARTE SECONDA
Testimonianze
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Mauro Bortolotti fra i margini indefiniti dei due secoli
Guido Baggiani
Parlare dell’opera e del percorso creativo di Mauro Bortolotti significa
riferirsi a una stagione della musica contemporanea che ha avuto le sue
radici a Roma, pur estendendo la sua rete di connessioni, di contatti e di
significati ben al di là dei confini italiani.
Come è noto, Bortolotti è stato uno dei padri fondatori di “Nuova
Consonanza”, l’associazione romana per la musica contemporanea al cui
interno agirono le varie tendenze di un pensiero musicale polivalente, a
volte omologato alle linee-guida di una certa fase storico-musicale, a volte
divergente e indisciplinato. Ciò che resta costante in tutta l’opera di
Bortolotti è una sorta di sguardo sul mondo, sempre allusivo più che
affermativo, dove detto e non detto si accavallano senza cristallizzarsi nelle
maglie di una grammatica codificata in modo teorico-imperativo..
Troviamo già in una delle partiture di più antica datazione come Studio per
E. E. Cummings per 11 esecutori del 1964, quell’accostarsi al mondo
indefinito, e pur reale, che spesso caratterizza l’espressività del poeta
americano, ove le parole rinviano a se stesse ma anche ad altro da sé.
Saltando di citazione in citazione, menzionerei questo passaggio di Vladimir
Jankélévitch, “Solo il geometra, scriveva Alain, non dice che quello che
dice. Il poeta non–dice–quello–che-dice, dice-quello-che-non-dice, a volte
più, a volte meno”.1
È così che fin da un’opera giovanile come lo Studio per E. E. Cummings
vediamo apparire figure evanescenti che, pur nella loro secchezza,
diventano espressive nel gioco sottile dei rimandi dall’una all’altra affidato
agli undici strumenti dell’insieme, senza tuttavia configurarsi mai come una
Gestalt assoluta, affermativa e non sospesa.
Un’influenza della scuola di Vienna potremmo ritrovarla nel profilo delle
figure-non figure, sempre proposte nell’ambito di intervalli estesi al
massimo grado.Tecnica che appare connessa a un percorso darmstadtiano
che il compositore reiterò più volte nel corso della sua gioventù.
1
VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, Ironie, Saint-Amand-Montrond (Cher), Flammarion, 1982, p. 47.
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MAURO BORTOLOTTI FRA I MARGINI INDEFINITI DEI DUE SECOLI
Assolutamente significativa nella produzione di Mauro Bortolotti è la
dedizione nei confronti della musica da camera. Quella ‘camera’ che forse
oggi non esiste più, in un mondo dedito alla sacralizzazione dell’evento
come espressione prevalente del vivere su questa terra. Differentemente::
la musica da camera era, e forse ancora sarà, il luogo di un’espressione
esistenziale, a volte del singolo a volte del collettivo.
I due aspetti hanno un’affermazione ben precisa sul piano del linguaggio e
dei suoi strumenti tecnici: dalla codificazione di un fraseggio segmentato e
percepibile nei suoi tasselli melodici, alla definizione di un’onda complessa
e variabile nella sua densità e nella sua distribuzione.
Nell’ambito della produzione cameristica di Bortolotti troviamo tutti i
passaggi. A partire dalla fine degli anni Cinquanta le Poesie di Paul Éluard
per soprano, clarinetto e cello (poi trascritte per altri complessi
strumentali), sembrano mettere in evidenza il primo aspetto: quello
indirizzato verso un’espressione individuale sostenuta da un ampio
campo armonico, dove ogni linea scarna, vocale o strumentale, è
caratterizzata da una cellula di grande estensione intervallare secondo un
fraseggio che rimanda a influenze weberniane.
Troviamo un quadro diverso in altre partiture da camera, come ad
esempio il trio per clarinetto, fagotto e pianoforte, Parentesis (1968),
scritto negli stessi anni.Tutta la partitura sarà allora un’alternanza di moto
ondoso e di tempo lento, quasi mimando quella successione definita
Frizzu/Lassu nelle musiche dei Balcani. Parentesis rappresenta bene una
condizione della musica del secondo Novecento europeo, là dove la
predominanza gerarchica del giuoco delle altezze cede il passo a una
predominanza significativa del giuoco dei tempi. Non sarà la successione
melodica a prevalere, ma l’organizzazione di una massa sonora affidata
all’intera compagine strumentale attraverso permutazioni e sfasamenti
temporali che nel complesso costituiscono l’addensarsi o lo sciogliersi di
una nuvola sonora. Ancora una volta sarà l’organizzazione del parametro
delle durate a definire il senso e l’impatto degli avvenimenti sonori. Non
tutte le musiche di Bortolotti sembrano privilegiare una dialettica
esplicita, connotata da un iter consequenziale; in questo breve lavoro da
camera sarà proprio l’intenzionale dialettica degli opposti a definire un
tragitto segmentato e significativo. Lento, veloce, sincrono, asincrono: fasi
ricorsive, ognuna caratterizzata da una propria durata (es. 1).
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GUIDO BAGGIANI
Es. 1
Mauro Bortolotti, Parentesis, p. 1
Troviamo in una partitura del 1972, E tuttavia… per 11 archi solisti (il
sottotitolo è, per l’appunto, concatenazioni per archi), il consolidarsi di una
poetica bortolottiana che, già dal titolo, sembra mettere in evidenza un
codice di incertezze, di condizioni doppie non contrapposte, ma
conviventi in un unicum polivalente. Sarà il suono, nel suo intero, il
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protagonista assoluto: non espressione di margini individuali, non
espressione di gerarchie dialettiche, ma sottile elaborazione nel tempo di
spessori armonici, a volte lisci a volte pulsati (per adoperare un termine
bouleziano), ma sempre legati ad una omofonia polivalente di fasce
sottilmente sovrapposte. E in ciò troviamo una forte parentela, una forte
adesione all’esperienza creativa di un intero secolo e oltre (es. 2).
Come scrive Renzo Cresti nella sua introduzione all’Enciclopedia italiana
dei compositori contemporanei, “il mondo dei suoni è un ES, l’essere
nascosto dell’essere che appare, l’inconscio della ragione, l’utopia del reale.
Questa interpretazione è assai vicina alla psicologia […] che intende il
mondo naturale dei suoni come Esso, come una persona che vive una vita
diversa dalla nostra, come un pensiero in terza persona, quel che Rimbaud
definisce: Je est un autre”.2
Es. 2
2
RENZO CRESTI, Enciclopedia italiana dei compositori contemporanei, Introduzione, I, Napoli, Pagano, 1999,
p. XIII.
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Mauro Bortolotti, E tuttavia..., p. 9
La musica della seconda metà del secolo scorso appare segmentata in
un’infinità di stili, in un’infinità di connotazioni possibili differenti, spesso
sintetizzate in etichette ben precise: opera aperta, strutturalismo,
minimalismo, spettralismo e altro. Se pure il pensiero artistico, filosofico e
scientifico richiede la necessaria adesione ad un principio-guida, non
sempre la definizione ossessiva di questo percorso porta lontano. La
definizione del “penser la musique aujourd’hui”,3 quando diventa estrema,
può spostare l’attenzione dal significato al significante e questo percorso a
ritroso genera un vuoto. L’idolatria per lo strumento compositivo può
opacizzare quella voce della coscienza che, in termini hegeliani, pone
l’uomo a contatto con l’universale. La musica ha bisogno di una teoria, ma
anche del suo contrario.
Petrassi fu maestro di Bortolotti. E pur al di là delle naturali ovvie
differenze che come sempre intercorrono fra allievo e maestro, possiamo
segnalare alcune coincidenze.
Anche in Petrassi troviamo sempre appunto un’adesione piena al flusso
del pensiero dei propri tempi. Ma non troveremo mai, nell’arco
compositivo del grande compositore, un’adesione piena ad ogni eventuale
3
La citazione impiega la celebre intitolazione del testo di PIERRE BOULEZ, Penser la musique aujourd’hui,
Ginevra, Gonthier, 1971, trad. it.Torino, Einaudi, 1979.
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cristallizzazione teorica del modus operandi. Petrassi in ogni fase del suo
percorso esprime la sua ‘empiria illuminata’, quel suo mettere le mani in
pasta nel suo tempo, restando lontano da ogni rigida cristallizzazione
teorica: un cammino di esperienze, ma non di certezze.
Così anche Bortolotti mette le mani in pasta nel linguaggio del suo tempo:
non materia precostituita, ma linguaggio da elaborare, da ‘vivere’ al fine di far
emergere una condizione espressiva non definita, “e tuttavia…”
Nelle opere bortolottiane troviamo un fatto singolare: moltissime sono le
dediche ad altri compositori, compagni di viaggio o amici. Dediche che
testimoniano l’ampia rete di condivisioni di esperienze e di appartenenze
nell’ambito di una società, di una cultura di cui oggi si parla spesso
prendendone le distanze, ma che pure rappresenta ciò che è proprio nel
suo ineludibile valore metaforico del ‘suono’. Suono che nel suo iter non
propone un discorso, ma evoca il profilo di un mondo.
Nel catalogo delle opere di Mauro Bortolotti troviamo musiche dedicate
a Luigi Nono, Giacinto Scelsi, Ennio Morricone, Goffredo Petrassi.
Tra tutte, la dedica più significativa è quella della partitura “Est Animum”,
destinata a Domenico Guaccero nell’anno della sua scomparsa. (1984).
L’organico della composizione, in ossequio alla solennità del momento,
prevede la grande orchestra, con archi, fiati e percussioni a largo raggio. Il
concerto previsto comprendeva altri lavori dei più stretti amici di
Guaccero, tra gli altri anche Egisto Macchi che insieme a Bortolotti aveva
rappresentato uno dei pilastri della vita musicale romana legata a “Nuova
Consonanza”. Il concerto fu poi inaspettatamente cancellato per imprevisti
dell’ultimo momento e mai più riproposto.
Alla poetica del compositore rimane perlopiù estranea un’appariscente
connotazione della forma, sia sul piano della micro che della macrostruttura. In “Est animum” sentiamo però apparire sotto pelle
un’organizzazione strutturale che, se rimane velata, non esibita, è pur
sempre presente. Quando parliamo di forma, com’è ovvio, alludiamo a
criteri di ‘crescita’ o ‘decrescita’ di ogni fenomeno musicale, così come pure
al grado di ricorsività di ogni aspetto sonoro in una spirale asimmetrica.
Ripassando rapidamente la struttura generale troveremo all’inizio il
simbolico, denso impulso percussivo (di timpani ed altro), affiancato da
una fascia acuta di legni concentrata su intervalli minimi, quasi il richiamo
ad un’evocazione rituale. Una fascia diversa ma analoga sarà affidata agli
archi, che progressivamente si segmentano in un andamento sempre più
movimentato: dopo il culmine del movimento (batt. 55), di nuovo la stessa
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materia, una fascia sonora, occuperà il campo, questa volta in una
maggiore estensione intervallare, affidata di nuovo agli archi e poi
segmentata con altri timbri.. Qui, come nella fase precedente, le durate
lunghe sono affidate a valori metrici sempre diversi in nome di una nonomoritmia; ma anche questa regola verrà poi elusa, i valori metrici saranno
omologati col progressivo costituirsi di una trama pulsante fino al
raggiungimento di un acme di movimento che impegna tutti gli archi, i
legni e i timpani (batt. 95)
Mancano gli ottoni, ma non è un caso. Saranno loro a riprendere il
Es. 3
Mauro Bortolotti, Sinfonia “Est animum”, ms., p. 17
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discorso, contaminandosi progressivamente con gli altri strumenti in una
spirale continua di micro-differenze nei vari piani della composizione:: là
dove i vari frammenti si trasformano, crescono, poi scompaiono, poi
riappaiono… Anche nella poetica di Bortolotti dunque ritroviamo quella
definizione di ‘rizoma’ a suo tempo formulata da Gilles Deleuze: “Rizoma è
una radice che si espande non secondo un precostituito atteggiamento
formale […] Ma a seconda degli innumerevoli fattori che la
determinano”.4
L’oggi (la musica di Bortolotti, e non solo “Est animum”, è connessa
saldamente a questa controversa esperienza esistenziale, è legata a più fili
a “Ieri, Oggi e Domani”) non consente alla nostra musica la definizione di
un’organizzazione dai connotati prevedibili, quindi direzionali. Ciò non
significa che siamo vincolati a un cammino entropico, significa solo che la
nostra espressione dovrà sempre sfidare equamente ‘il caso e la necessità’,
sempre rivolgendosi al limite sottile fra l’uno e l’altra, “e tuttavia…”
4
GILLES DELEUZE, Rizoma, Parma-Lucca, Pratiche editrice, 1977, pp. 30sgg.
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A Mauro
Mario Bertoncini
Contali ‘st’anni! Fà cquesta fatica:
Quant’è cche cce ‘nvitavi pe’ ccreanza1
E nnoi a pparlà2 dd’una smaniaccia antica,
De ‘na vecchia e ‘na nova conzonanza?
Ce davi da maggnà – pprima la panza! –
Poi parlamio dell’Arte,3 d’un’amica, …
E ttutto in d’un ciafrujjo4 de speranza,
de tiggna5 e un affannasse da formica.6
Bè: dajje e ddajje,7 le parole ar vento
Cacciorno8 via er malocchio e ll’artri danni.
Ccusì cchi9 sta llassù, ner firmamento,
Te possi stroligà10 mmale e mmalanni;
Tanto che a ffuria de vive’ ccontento,
Stai ‘n pasce,11 scrivi e ccampi artri cent’anni!
4 ottobre 2006
ci invitavi per gentilezza
frequentativo: “mentre noi parlavamo”, ecc. Ambiguo ed ambivalente; l’allusione alla ben nota associazione romana di musica contemporanea è evidente, ma la “smaniaccia antica” si riferisce a ben altre
passioni; antiche, e pur sempre rinnovate …
3
altra espressione ambivalente: il Mestiere, la Professione (ma anche l’Arte, naturalmente)
4
ciafruglio, confusione
5
ostinazione
6
un affaccendarsi proprio delle formiche
7
dajje e ddajje: a forza di, ecc.
8
scacciarono
9
il Signore
10
allontanare (“affatturare”; la “stroliga” nel Lazio è la fattucchiera, la strega)
11
pace
1
2
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Per troppo amore terreno*
Bruno Cagli
* BRUNO C AGLI, Per troppo amore terreno, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1981, pp. 63, 65.
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In ascolto
Antonio Capaccio
come se non fosse mai cominciato, o non potendo ancora finire
Se facessi l’albergatore, solo camere sott’acqua vorrei; là dentro,
tutto uno sciaguattio, e iridati colpi di coda in mezzo alle alghe sognanti.1
, avendo tutto dimenticato, venendo ad un punto forse prima già
incontrato, ma che mostra l’apparenza di un nuovo inizio,
verso qualcosa di non conosciuto
Ci sono possibilità, per me, certamente, ma sotto quale pietra stanno?2
allora, attraverso un lungo dialogo, mai interrotto, ma spesso protetto,
celato, sotto un arco grande di vuoto, fossero settimane o mesi, come se
si potesse disporre di un tempo quasi infinito,
A star fermi, le cose arrivano3
, le stesse frasi, forse, la stessa situazione, lo stesso tempo immobile, forse
Esistono forme della conoscenza, della tecnica, che sono per il dominio.
Il pensiero, servo di un pauroso principio d’identità, cerca in ciò che è
già stato pensato ciò che ancora non lo è.
Il pensiero: guerra di conquista.
Le nuove strategie del dominio e del terrore non hanno soltanto
la faccia brutta della violenza o della distruzione, ma anche quella
più accattivante ed effervescente dello spettacolo tecnologico.
1
2
3
HENRI MICHAUX, Ecuador (1968), trad. it. a cura di Guido Neri, Roma,Theoria, 1987, p. 1.
FRANZ KAFKA, Diari, a cura di Ervino Pocar, Milano, Mondadori,1972, p. 424.
GOTTFRIED BENN, Pietra, verso, flauto (1979), a cura di Gilberto Forti, Milano, Adelphi, 1990, p. 89.
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IN ASCOLTO
I potenti mezzi della propaganda e della persuasione raccontano
di un mondo che accudisce, protegge e salva.
Siamo chiamati a partecipare, a condividere, e, in un attimo,
sembra che tutto ci sia dato e che tutto sia posseduto e messo
in memoria, per sempre.
Siamo così nell’implacabile situazione di ricevere, ricevere sempre, non
più da Dio o dalla natura, ma da un dispositivo tecnico di scambio
generalizzato, e di gratificazione generale. Tutto ci è virtualmente
donato, e noi abbiamo diritto a tutto, per amore o per forza. Siamo
nella situazione di schiavi cui sia stata lasciata la vita, legati da un
debito inestinguibile.4
È un abbraccio di morte, che quanto più appare generoso, tanto più
diviene strumento di coercizione delle coscienze.
: perdendo tempo - come gli spiccioli dalla saccoccia bucata - lentamente,
a volte dimenticando,
ogni volta, la volta successiva.
Essere contemporaneamente dappertutto.
- non avere più luogo, e non avere più tempo. Il demone della
sparizione viaggia sull’alta velocità -.
Come tanti piccoli insetti sopra un unico pasto.
Cibo moschicida.
Il pranzo dura un momento. La fine è istantanea.
Nella traiettoria di un attimo, si dissipa ogni storia, precipita e
scompare la lunga durata che forma e traghetta ogni esperienza.
Perso gli appunti, scordato i disegni, eccetera.
- per quale motivo aveva voluto incontrarmi, ora?
Il minimalismo delle coscienze si specchia già nel trucco
dell’avanguardia:
intento apodittico, assertività, riduzionismo.
A seguire, il gioco della trasgressione/provocazione che maschera il
reale asservimento dell’arte - cosiddetta - ai modelli più
conformistici di compatibilità dei linguaggi.
4
JEAN BAUDRILLARD, Power Inferno (2002), trad. it. a cura di Alessandro Serra, Milano, Cortina, 2003, p. 68.
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ANTONIO CAPACCIO
La cifra più vera e preziosa di un’arte – la maestria – diviene
improponibile per i tempi moderni della produzione e del consumo
, brilla e sparisce, come stella morente.
nella libreria, dove sono ammonticchiati moltissimi libri, cercando
Ma lascia invece che il resto accada
L’uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è
misterioso, che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano
inesplicabili, e non solo quelle che cadono nell’ambito di ciò che ci si
attende. L’inatteso e l’inaudito appartengono a questo mondo. Solo
allora la vita è completa.5
una forma non protettiva del linguaggio.
Non mira a costruire dominio sul mondo, sulla natura o sugli altri
uomini, ma invece ci muove verso l’accettazione della nostra più vera
incertezza, della nostra umana debolezza, diviene una condizione fertile
di apertura verso l’altro.
Misura che libera da certezza.
Libertà che accoglie.
Una sorta d’impregnazione.
Non esercita nessun potere.
- ad eccezione del diritto di mettere in questione se stessi
smantella, destituisce,
- come dire, ora, su ciò che sempre sfugge e che inseguo solo per
questo, perché fugge?
Ecco, solo la provvisoria certezza di avere ancora mancato la presa
ma c’è qualcosa che dura
, pensiero che fa spazio.
Il vento arriva a gran velocità sui miei capelli, li scompiglia, poi riparte
a gran velocità e mi lascia sul ponte. Di nuovo si avventa contro la
5
C ARL GUSTAV JUNG, Ricordi, sogni, riflessioni, Milano, Rizzoli, 1978, p. 416.
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IN ASCOLTO
mia testa, riparte di gran carriera, e lo sa Dio quando incontrerà
ancora una fronte e di chi potrebbe essere quella fronte e che cosa
verrebbe da dire allora paragonando le nostre due fronti.6
Accettazione del rischio e dell’errore.
- qualcosa che non può essere mostrato, che non riusciamo neanche a
pensare. Lingua che
non si parla. Luce che s’inabissa. Cielo senza nuvole né stelle.
Che non riusciamo a pensare.
Aprire all’altro.
, pensiero disarmato
in briciole, frantumi.
Piccole tracce.
Quello che resta del grande affresco.
L’oggetto principale del nostro interesse essendo qualcosa di cui
parlavamo lungamente.
- così avremmo dovuto incontrarci di nuovo.
Ancora, dopo tanto parlare, ancora, non avendo detto l’essenziale.
Ciascuno vuol vivere, nessuno essere morto, tutto il resto sono fandonie.7
Differire, rimandare, perdere tempo come potendo disporne a volontà.
Cedere alla distrazione
Imprevista, forse,
semplice cosa,
che non riusciamo a pensare, a definire, ma pure qualcosa che accade.
Tutto quello che esiste, tutto quello di cui mi ricordo, tutto quello che i
miei pensieri più confusi toccano, tutto mi sembra essere qualcosa.
Anche la mia propria gravezza, l’ottusità abituale del mio cervello mi
appare qualcosa; sento in me e intorno a me un gioco contrastante,
6
7
MICHAUX, Ecuador cit., p.11.
THOMAS BERNHARD, Cemento (1982), trad. it. a cura di Claudio Groff, Milano, SE, 1990, p. 82.
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ANTONIO CAPACCIO
affascinante e addirittura infinito, e non c’è alcuna tra le materie
contrapposte in cui io non mi possa trasfondere. Mi sembra allora che
il mio corpo consista di pure cifre che mi dischiudano ogni cosa. O che
noi potremmo entrare in una nuova, presaga relazione con tutta
l’esistenza se cominciassimo a pensare col cuore. Ma se questo
incantesimo singolare mi lascia, io non ne so dire niente; allora non
saprei descrivere con parole ragionevoli in che consistesse questa
armonia che pervadeva me e il mondo intero e come mi si sia fatta
palese più di quanto potrei precisare i moti interni dei miei visceri o
gli ingorghi del mio sangue.8
infinitamente semplice, ma di una semplicità che può essere colta solo
nella privazione.
La stella non rischiara, ma ad ogni occhio rivolto verso di essa, invia il
suo raggio.9
, per ogni volta che qualcosa si fa attendere, a ogni nuovo punto
interrogativo, ad ogni nuovo silenzio.
fa spazio.
E non si ha più nulla e nessuno, e si va per il mondo con una valigia e
una cassa di
libri, in fondo senza curiosità. Che vita è questa, in fondo, senza casa,
senza oggetti
ereditati, senza cani.10
dovendo testimoniare, in questo tempo,
Lascia che accada.
nel tutto precario, nel niente d’incorruttibile, nell’incertezza del proprio sé.
HUGO VON HOFMANNSTHAL, Una lettera (Una lettera di Lord Chandos) (1902), in L’ignoto che appare,
trad. it. a cura di Leone Traverso, Milano, Adelphi, 1991, pp. 143-144.
9
MICHAUX, Ecuador cit., p. 82.
10
RAINER MARIA RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, (1910) trad. it. a cura di Giorgio Zampa,
Milano, Adelphi, 1992, p. 19.
8
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IN ASCOLTO
che io sia qualcosa,…proprio di questo io dubito.: c’è soltanto
qualcosa che mi passa attraverso.11
Interroga il resto,
Quando mi sono innalzato anche di un piccolo gradino, quando mi
sento in una sia pure molto problematica sicurezza, mi distendo e
aspetto finché il negativo – non già mi segua salendo – ma mi tiri giù
dal piccolo gradino. ‘E quindi un istinto di difesa quello che non tollera
che si formi il più piccolo agio durevole e, per esempio, frantuma il
letto nuziale ancor prima che sia rizzato.12
per ogni domanda nessuna risposta.
Inquietudine
Mi metto la giacca, mi tolgo la giacca, mi metto i calzoni, mi metto la
giacca, mi tolgo i calzoni, mi metto i calzoni, mi metto il cappotto, mi
metto le scarpe, mi tolgo il cappotto, mi tolgo le scarpe, mi tolgo la
giacca, mi tolgo i calzoni ecc.13
niente: il niente ora
in attesa
Scaverò un grande cunicolo regolare in direzione del rumore14
protendersi,
Che cosa è, in fondo? Un leggero sibilo, udibile soltanto a lunghi
intervalli, un nulla al quale non dirò che ci si possa abituare, no, non ci
si potrebbe abituare, ma senza prendere per il momento alcuna
misura di difesa lo si potrebbe osservare per qualche tempo, stando
cioè in ascolto ogni due ore e registrando pazientemente il risultato
anziché, come faccio io, strisciare con l’orecchio lungo le pareti e
scavare la terra ogni qualvolta sento il rumore, non già per trovare
BENN, Pietra, verso, flauto cit., p.169.
KAFKA, Diari cit., p. 619.
13
THOMAS BERNHARD, Ungenach (1968), trad. it. a cura di Eugenio Bernardi,Torino,Einaudi, 1993, p. 62.
14
FRANZ KAFKA, La tana, trad. it. a cura di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 1970, p. 482.
11
12
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ANTONIO CAPACCIO
qualcosa, ma per fare qualcosa che corrisponde all’inquietudine
interna. 15
non altrove, non laggiù, né più presto, né troppo tardi, né in un altro
momento
, ora, non dover esibire certezze, non dover difendere
Talvolta mi pare che il rumore sia cessato, tanto è vero che fa lunge
pause, talvolta il sibilo mi sfugge perché troppo forte mi pulsa il
sangue nelle orecchie, e allora due pause si uniscono e per un poco
ho l’impressione che il sibilo sia cessato per sempre. Allora non
continuo ad ascoltare, balzo in piedi, tutta la vita subisce un
rivolgimento, è come si aprisse la fonte della quale sgorga il silenzio
nella tana. 16
rumori
Il rumore pare aumentato d’intensità, non di molto beninteso, si tratta
sempre di minime differenze, ma un poco più forte è, l’orecchio lo
nota chiaramente. E questo intensificarsi sembra un avvicinamento e,
ancor più chiaramente di quanto non si senta la maggior intensità,si
vede, per così dire, il passo col quale il rumore si avvicina. 17
In ascolto
Molto mi dà da pensare la qualità del rumore: sibilo o fischio?
A che punto eravamo dianzi? Il sibilo si era attenuato? No, era
aumentato.19
Pure, di ciò di cui parlavamo lungamente,
di cui, sembrava, non sapevamo quasi nulla. O forse nulla del tutto.
15
16
17
18
19
Ibid.
Ivi, p. 484.
Ibid.
Ivi, p. 487
Ibid.
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18
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IN ASCOLTO
Attraverso la camera infuriano scampanellando tram elettrici.
Automobili mi passano sopra. Una porta sbatte nel chiudersi. Da
qualche parte un vetro cade tintinnando, sento ridere i frammenti più
grandi, le schegge piccole ridacchiano. Poi, improvvisamente, un rumore
cupo, soffocato, dall’altra parte, nell’interno della casa. Qualcuno sale
le scale. Continua, continua senza fermarsi. ‘E là, a lungo là, passa
oltre. Una ragazza strilla: Ah, tais-toi, je ne veux plus. Il tram entra
eccitato, corre via, via sopra ogni cosa. Qualcuno chiama. Gente che
corre, ci sorpassa. Abbaia un cane. Che sollievo: un cane.20
musica
A un certo punto – si era in primavera, Pasqua era vicina – è salita
sul treno una processione di penitenti che avevano fatto un
pellegrinaggio in ginocchio. Erano tutti esaltati e cantavano con voci
bellissime, molto forti. Il treno vibrava di questi canti.21
Poco schiamazzano i cani, poco i bambini, pochi ridono.22
Un po’ di canto sotto di me, qualche porta sbattuta nel corridoio e
tutto è perduto.23
Ciascuno preso singolarmente è un virtuoso del proprio strumento,
tutti insieme un’insopportabile cacofonia.24
Ci ostiniamo a pensare.
Non mi è facile spiegarmi. Sebbene io parli spesso di sofferenza, ho
anche una quantità di piccoli godimenti.25
Discrezione, misura, i suoni delle macchine da via Gregorio VII, la luce del
tardo mattino, il suo disarmo, il mio
20
21
22
23
24
25
RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge cit., p.10.
SAUL STEINBERG (con ALDO BUZZI), Riflessi e ombre, Milano, Adelphi, 2000, p. 31.
MICHAUX, Ecuador cit., p. 25.
KAFKA, Diari cit., p. 624.
BERNHARD, Cemento cit., p. 84.
MICHAUX, Ecuador cit., p.119.
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Ciascuno per suo conto,
Spesso non ci accorgiamo che dobbiamo strapparci semplicemente,
con tutta la forza, da un momento all’altro, dal punto su cui siamo
tenacemente incollati, per poter continuare ad esistere.26
guardando all’altro.
Profitta solo ai pittori il primo contatto con l’estraneo.27
Che la vita è un orrore,
Lei ha ragione, il posto dell’uomo non è nel mucchio dei rifiuti, ma
farne addirittura la perla dl creato – nella classe delle orchidee,
mettersi in testa una cosa simile è stato forse troppo. Perciò: “ vivere
nel buio”, fare nel buio quello che possiamo. 28
una fortuna, immeritata e inattesa.
Ché il mio indefinibile sentimento di felicità eromperà in me piuttosto
da un lontano, solitario fuoco di pastori che alla vista del cielo stellato;
piuttosto allo stridere di un ultimo grillo, vicino alla morte, quando già
il vento d’autunno incalza nuvole invernali sui campi deserti, che al
maestoso rombo dell’organo. E io mi paragono talvolta nel pensiero a
quel Crasso, l’oratore, di cui si racconta che s’era tanto oltremisura
affezionato a una murena domestica, a un pesce della sua piscina,
ottuso, muto, dagli occhi rossi, da finire la favola della città; e quando
una volta in senato Domizio gli rinfacciava d’aver versato lacrime sulla
morte di questo pesce e però voleva spacciarlo per mezzo matto, gli
rispose Crasso : “ Allora per la morte del mio pesce io ho fatto quello
che tu non hai fatto né per la morte della tua prima moglie né per
quella della tua seconda moglie”.
In non so quante volte questo Crasso con la sua murena mi torna alla
memoria come un’immagine di me stesso, gettatami traverso l’abisso
dei secoli. Ma non per la risposta ch’egli diede a Domizio. Tale risposta
ritorse il riso sull’avversario, onde la cosa fu risolta in facezia. Ma a
26
27
28
BERNHARD, Cemento cit., p. 47.
MICHAUX, Ecuador cit., p. 22.
BENN, Pietra, verso, flauto cit., p. 194.
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me importa la cosa, la cosa che sarebbe rimasta la stessa anche se
Domizio avesse pianto per le sue mogli lacrime di sangue del dolore
più sincero. Ché gli sarebbe pur sempre di fronte Crasso, con le sue
lacrime per la sua murena. E di questa figura, il cui ridicolo, la cui
spregevolezza saltano tanto agli occhi nel mezzo di un senato
dominatore del mondo in consiglio sulle cose più alte, di questa figura
un qualcosa d’indicibile mi costringe a pensare in una guisa che mi
appare perfettamente folle nel momento ch’io tento d’esprimerla con
parole.
L’immagine di questo Crasso è talora a notte nel mio cervello, come
una scheggia, intorno a cui tutto suppura, pulsa e ribolle. ‘E allora
come s’io stesso prendessi a fermentare, buttassi bolle, ribollissi e
sfavillassi. E il tutto è una specie di pensare febbrile, ma pensare in
una materia più immediata, più fluida, più ardente delle parole. Sono
ugualmente vortici, ma tali che non sembrano condurre nel vuoto,
come i vortici del linguaggio, ma in qualche modo in me steso e nel
più profondo grembo della pace.29
Che nessuno si merita niente.
O forse, quando guarda dalla finestra di casa, Lei riesce a
immedesimarsi in un Dio
che ha creato cose soavi come le piante e gli alberi? Topi, peste, rumore,
disperazione – si, - ma i fiori?30
Abbiamo creduto di aver ereditato qualcosa, e pensato che qualcosa
avremmo dovuto restituire poi.
Abbiamo vissuto qualcosa di diverso da ciò che eravamo, scritto
qualcosa di diverso da ciò che pensavamo, pensato qualcosa di
diverso da ciò che ci aspettavamo, e ciò che rimane è qualcosa di
diverso da ciò che avevamo in mente.31
29
30
31
HOFMANNSTHAL, Una lettera (La lettera di Lord Chandos) cit., pp.145-146.
BENN, Pietra, verso, flauto cit., p.170.
Ivi, p. 91.
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L’intellettuale, il sorcio.
Il mimetismo mi è sempre sembrato una delle tante trappole per
dotti.32
Uno scrittore formidabile:
Vedendo l’angolo nel quale, quando eravamo bambini, avevamo tenuto
un cane, fui costretto a pensare che almeno avrei potuto tenermi un
cane. Ma da quando sono diventato adulto ho sempre odiato i cani. E
chi si sarebbe occupato dell’eventuale cane, che aspetto avrebbe
dovuto avere il cane, che razza di cane avrebbe dovuto essere?
Insomma avrei dovuto, proprio solo per via di questo eventuale cane,
prendermi in casa una persona che provvedesse al cane, e io non
sopporto alcuna persona, né un cane né una persona, sopporto. Avrei
già da tempo una persona in casa, se sopportassi un’eventuale
persona, ma non ne sopporto nessuna, e naturalmente non sopporto
neppure nessun cane. Non sono arrivato al cane, mi dicevo, e non
arriverò al cane, creperò, ma al cane non arriverò.33
radicalità e leggerezza.
La gente ama gli animali perché non è nemmeno capace di amare
se stessa. Quelli più profondamente meschini tengono i cani e si fanno
tiranneggiare da questi cani e infine rovinare. Pongono il cane al primo
e supremo posto della loro ipocrisia in fin dei conti pericolosissima.34
Preferirebbero salvare dalla ghigliottina il proprio cane, anziché Voltaire.35
, ridevamo.
La cosiddetta zoofilia ha già provocato molti guai, tali che, se ci
pensassimo davvero con la maggior intensità possibile, dovremmo
essere istantaneamente annientati dallo spavento. Non è così assurdo
32
33
34
35
MICHAUX, Ecuador cit., p. 21.
BERNHARD, Cemento cit., pp. 43, 44.
Ibid.
Ibid.
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come potrebbe sembrare a prima vista se dico che il mondo deve le
sue più terribili guerre alla cosiddetta zoofilia dei suoi reggitori. È un
fatto ben documentato e su cui bisognerebbe una volta tanto avere le
idee chiare. Questa gente, politici, dittatori, sono dominati da un cane
e per questo precipitano milioni di uomini nella sventura e nella
rovina, loro amano un cane e ordiscono una guerra mondiale in cui
milioni di persone vengono uccise a causa di quell’unico cane. Si pensi
solo per un momento a quale aspetto avrebbe il mondo se questa
cosiddetta zoofilia venisse ridotta almeno una volta di una qualche
ridicola percentuale a favore della filantropia, che naturalmente è
anch’essa una cosiddetta.36
ognuno deve incarnarsi.
Ciascuno di noi ha un giorno, più o meno triste, più o meno lontano, in
cui deve infine accettare di essere un uomo.37
niente da contare
, una solitudine essenziale.
Non è l’evidenza la cifra dell’artista.
: la custodia di un piccolo segreto
Anni,
La gente cerca gli irrequieti, chi rende nervoso, gli incostanti, quelli che
cambiano ad ogni momento e per lo più radicalmente ad ogni
momento.38
avendo di nuovo dimenticato l’essenziale,
36
37
38
Ibid.
JEAN ANOUILH, Antigone, trad. it. a cura di Andrea Rodighiero,Venezia, Marsilio, 2000.
BERNHARD, Cemento cit., p. 75.
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- volevo parlarti, ma ora mi accorgo che forse non ho più niente da dire
Spesso non ci accorgiamo che dobbiamo strapparci semplicemente,
con tutta la forza, da un momento all’altro, dal punto su cui siamo
tenacemente incollati, per poter continuare ad esistere.39
Da capo.
(agosto 2006)
: negli ultimi anni, con Mauro, abbiamo creato diverse opere di collaborazione,
diverse occasioni d’incontro e di lavoro.
Prima, per alcuni decenni, ci siamo osservati, studiati, dalla distanza, da più vicino.
Nel giugno/luglio del 2003 si è tenuta a Perugia - presso il CERP/Centro
Espositivo della Rocca Paolina - una mia mostra antologica, per la cura di Ettore
Sordini -.
L’esposizione era accompagnata da una installazione sonora di Mauro, sulle
musiche di Transparencias (1968).
Nei primi mesi dello stesso anno avevamo prodotto un primo video visuomusicale, con immagini, animazioni e musiche originali dal titolo …questa
umidità, l’acqua calcarea.
Il riferimento era ad una pagina di Thomas Bernhard – dal libro Ungenach - .
É stata la prima traccia di un più ampio lavoro che abbiamo pensato intorno
all’opera del grande scrittore austriaco.
Una traccia che tuttavia abbiamo considerato anche come opera del tutto
autonoma.
Per questo video Mauro ha realizzato musiche originali, elaborando registrazioni
prodotte negli anni Settanta presso il CNUCE di Pisa.
Avremmo dovuto presentare questo video in occasione del festival di Canale
Cardello, nel luglio del 2003, ma problemi tecnici ed organizzativi ne hanno
permesso una proiezione soltanto parziale.
Il video è stato riproposto invece nel marzo dell’anno successivo, a palazzo
Orsini di Bomarzo, - nell’ambito del festival “Incantesimi – azioni dell’arte” IV, a
cura di Simonetta Lux ed Elisabetta Cristallini - e poi nuovamente presso il
Liceo Tasso di Roma (aprile 2004) in occasione di un mio incontro con gli
studenti - per la cura di Fabrizio Fringuelli -.
Tra il 2005 e il 2006 abbiamo realizzato un secondo video con immagini e
animazioni originali, scegliendo, per musica, E tuttavia... (1972).
Anche questo secondo video deve essere considerato un’opera autonoma.
Esso è stato proiettato una prima volta, nell’aprile del 2006, nell’ambito di un
incontro di Mauro con gli studenti del Liceo Tasso di Roma - per la cura di
Fabrizio Fringuelli e mia - .
39
Ivi, p. 47.
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Entrambi questi due primi lavori sono andati a comporre, insieme a molto altro
materiale musicale e visivo, lo spettacolo …questa umidità, l’acqua calcarea che
abbiamo presentato in teatro a Torino, nel 2006.
Lo spettacolo - prodotto da BRECCE per l’arte contemporanea, con il
coordinamento di Claudia Rozio - si è tenuto presso il teatro della Cavallerizza
Reale – Manica Lunga -, le sere dei giorni 26 e 27 maggio.
Il testo era composto da frammenti di scrittura di Bernhard - tratti da
numerose opere, tra le quali Ave Virgilio, trad. it. a cura di Anna Maria Carpi,
Parma, Guanda, 1991, L’imitatore di voci, trad. it. a cura di Eugenio Bernardi,
Milano, Adelphi, 1987, Ungenach (1968), trad. it. a cura di Eugenio Bernardi,
Torino, Einaudi,1993, Conversazioni di Thomas Bernhard, trad. it. a cura di
Elisabetta Niccolini, Parma, Guanda, 1989, Il nipote di Wittgenstein, trad. it. a cura
di Renata Colorni, Milano, Adelphi, 1989, La partita a carte, trad. it. a cura di
Magda Olivetti,Torino, Einaudi, 1983, Il soccombente, trad. it. a cura di Renata
Colorni, Milano, Adelphi, 1985 - scelti e montati da Mauro e me.
Alla sequenza di musiche e immagini registrate - che seguiva tutto lo
spettacolo, della durata di circa un’ora e dieci - corrispondeva una parte dal
vivo, che ha avuto come interpreti, per le musiche di Mauro, il soprano Maria
Chiara Pavone e i percussionisti Antonio Caggiano e Gianluca Ruggeri, mentre i
testi di Bernhard erano affidati alla lettura dell’attore Antonio Locorriere.
Mie la scena, nera e nuda, e la regia.
Questo spettacolo può essere riproposto in una forma complessiva, ma da
esso possono anche essere estratti numerosi frammenti che possiedono
ciascuno una loro piena autonomia espressiva. Dunque essi possono essere
presentati singolarmente, o è anche possibile pensare a un diverso montaggio
di più elementi.
Questa potenzialità non è un riflesso d’incertezza, ma, al contrario, testimonia di
una salda chiarezza ideativa che Mauro ed io pensiamo di aver raggiunto
insieme.
Ci aiuta anche, in questo caso, l’aver agganciato il nostro fare ad un corpo
poetico e di pensiero talmente robusto e strutturato – come è la scrittura di
Bernhard - da permetterci sperimentazioni ed aperture nuove senza il timore
di veder disperso od offuscato il senso più vero che vogliamo comunicare.
L’orlo coesivo essenziale - fra Mauro e me - sta sicuramente in un comune
intento morale che vogliamo tentare di sostenere nel nostro lavoro.
La semplicità con cui ci troviamo intorno ad un comune sentire, ad uno
sguardo sulle cose del mondo, può rendere possibili molte imprese creative.
Mentre scrivo, posso dire abbiamo almeno altri due progetti che vogliamo
realizzare insieme.
Uno è un lavoro su testi di Noam Chomsky, l’altro è un’originale versione - alla
nostra maniera - dell’Antigone di Jean Anouilh.
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Antonio Capaccio, bozzetti per ...questa umidità, l’acqua calcarea, 2005-2006
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Bortolotti/Cerroni, due amici onesti e coraggiosi
Patrizia Cerroni
Ho incontrato Mauro negli anni Settanta, quando ricopriva il ruolo di
professore di Storia della musica presso l’ Accademia Nazionale di Danza di
Roma. Il mio corso era formato esclusivamente da me e quindi ricevevo
lezioni individuali dai professori delle varie materie: una condizione di
assoluto privilegio. L’ambiente dell’Accademia era allora terribile, massacrante
e ‘antiartistico’ (con la sola eccezione delle lezioni dei maestri ospiti, un nome
tra tutti quello di Jean Maurice Cebron, divenuto poi mio amico e amico di
Bortolotti); l’approccio del maestro all’insegnamento era invece di tutt’altra
natura: le sue lezioni erano assolutamente antiaccademiche e segnate da una
continua discussione sul senso e sul valore dell’arte.Tra Mauro e me nacque
subito una grande intesa umana e intellettuale, in un amichevole confronto
sui temi dell’arte e sui procedimenti creativi (già allora avevo chiara dentro di
me l’idea goethiana dell’arte, e dunque della danza, come scavo nel mistero
delle cose, della vita). Mi colpì subito il suo amore per il silenzio nella musica
e per l’immobilità nel movimento, elementi che divennero profondamente
miei e il cui grande valore continuo ancora oggi a scoprire e a meditare.
Pochi anni dopo, nel ‘74, quando fondai la mia compagnia “I Danzatori Scalzi”,
coreografai due brani già esistenti di Mauro: Mottetto del ‘71, una delle sue
prime esperienze elettroniche, realizzato nello studio fiorentino di Pietro
Grossi e interpretato, tra l’altro, dalla voce di Michiko Hirayama, sul quale
creai un mio assolo U.H.F! (Usque H… F…!), ove tirai fuori l’elemento più
ironico e dinamico della musica; ed E tuttavia...concatenazioni per archi, una
composizione per archi scritta per “I Solisti Veneti” nel ‘72, sulla quale creai un
brano di gruppo con 6 danzatrici fatto di movimenti astratti e lineari e
intense immobilità. La musica di Mauro è stata per me molto stimolante,
soprattutto sul piano intellettuale, nella ricerca verso un’essenzialità
minimalista.
Molto più creativo e monumentale fu il lavoro svolto insieme a lui per il mio
spettacolo C’est ici que l’on prend le bateau (su una poesia visiva di Ungaretti
del 1914), commissionatomi nel 1979 dal governo dell’India attraverso
l’I.C.C.R (Indian Council for Cultural Relations) per una splendida tournée che
toccò ben 14 città di quel paese. Lo spettacolo fu replicato poi in importanti
teatri in Italia, Germania e in Austria. In questo caso fu Mauro a comporre le
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PATRIZIA CERRONI
musiche sulle coreografie che creavo man mano all’interno di un unico
spettacolo unitario, che si è rivelato essere uno dei più imponenti, cosmici di
tutta la mia produzione, nato per vera ispirazione mistica durante un mio
lungo viaggio di sei mesi in India nel 1978, l’anno che precedette la
realizzazione del lavoro e il tour (uno spettacolo dedicato all’India e ai grandi
temi dello spiritualismo e del misticismo cosmico). Il sodalizio tra la danza e la
musica fu eccezionale, ricchissimo di soluzioni sorprendenti e potentemente
mistiche, grazie ad un lavoro quotidiano durato mesi e condotto insieme su
ogni singolo momento coreografico e musicale. Nella prima parte, su una
coreografia in cui i 9 danzatori sospesi nella loro totale indipendenza
spazio/temporale percorrevano traiettorie autonome come in un
movimento di astri, il supporto musicale era di sola musica elettronica (sul
nastro il maestro interveniva poi col sintetizzatore dal vivo, sperimentando
ogni sera nuove soluzioni timbriche). Nella seconda parte più gestuale e
calda la musica era fatta di improvvisazioni al pianoforte dal vivo, sempre
realizzate da Mauro. L’India ci onorò di un successo strepitoso. Ricordo un
articolo che sottolineava… l’armonia nella disarmonia.
C’è poi una lunga serie di mie coreografie sulle musiche di Cage, Berio,
Nehaus etc.Tutte le musiche contemporanee che ho utilizzato nella mia
trentennale attività di coreografa hanno contribuito all’approfondimento di
questa mia propensione verso l’essenzialità minimalista, meno hanno influito
sulla mia proiezione in una dimensione più spirituale del processo artistico.
Soltanto il rapporto con Giacinto Scelsi è stato provvidenziale per me in tal
senso: la danza è musica, mi diceva Giacinto, insegnandomi così, da
pensatore-artista qual era, a capire l’identità dell’artista creatore e a inseguire
l’autenticità trascendentale del messaggio divino di cui siamo portatori.
Dopo C’est ici, malgrado l’enorme successo, non ci sono state altre
collaborazioni altrettanto grandiose e significative con Mauro, salvo la mia
partecipazione ad alcune performance improvvisative collettive al Beat ‘72 e
allo spettacolo LetturAzione dedicato a John Berryman al teatro Spaziozero di
Testaccio nell’81.Va detto che con l’avvento degli anni Ottanta si assistette a
Roma, e più in generale in Italia, alla progressiva dispersione di quel clima
incandescente che aveva segnato i decenni precedenti e alla perdita di quello
spirito aggregante fra le arti che aveva costituito il motore di tante ricerche
intercodice svolte sino all’ultimo scorcio degli anni Settanta.
Credo comunque che nel nostro sodalizio di artisti Mauro mi abbia donato il
suo coraggio e la sua onestà intellettuale e che io abbia donato a lui la mia
vitale ed irrequieta carica creativa.
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C’est ici que l’on prend le bateau (o: la dis-cronica)*
Simonetta Lux
Questa coreografia nasce da una lettera d’amore: arriva a Patrizia in India
e tra altre immagini contiene come messaggio di ritorno la poesia visiva
circolare scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1914 a Parigi.
Il tema del viaggio e del ritorno, dopo un distacco di quasi un anno
dall’Occidente in crisi e da un rifiuto di creatività che aveva specchiato la
disgregazione del sempre cercato rapporto/identità tra arte e vita, ancora in India
prende la forma di un movimento (che poi troviamo all’inizio di questa danza): far
entrare energia dall’esterno, farla passare attraverso il corpo, inseguirla.
Il viaggio diventa racconto del viaggio attraverso la danza: e la danza è
attraversamento.
Imperativo è: al vuoto involucro – immaginato come mondo a sé – far
sentire le accadenti e precarie relazioni dell’anima con i mondi esterni;
attraverso l’involucro corporeo far passare – come energia – il sentito;
ricomporre la separazione nella forma del movimento.
La forma – come l’energia che la genera – è continuamente interrotta.
La ricomposizione nel moto - così come i passaggi del viaggio coreografico –
è reale e nello stesso tempo simbolica.
La ricomposizione dell’unità tra io e mondo, negli individui appare possibile
ma aleatoria; tra individui e individui appare sempre contraddetta, incerta,
frammentaria, avviene nella distrazione e per tangenze.
Non c’è storia ma trame: la non sincronicità, lo sfasamento, la non
permanenza le tessono.
La nascita e il tempo.
La danza non è: inizia nel tempo, può non essere, accompagnerebbe nella
vita. Un suono, all’inizio si offre, viene lentamente accolto nei corpi.
Gli individui si animano, si fanno attraversare dalle fasce sonore, mentre i
corpi si scindono, il tronco abbandona le gambe, il braccio si avvolge –
ruotando – a spirale staccandosi – portato fuori dall’energia dalla spalla, la
testa pesa sulla terra mentre il piede sale verso l’alto.
La caduta di energia: parti dell’involucro corporeo si afflosciano, tensione
al silenzio.
* In “Tendrils… e i miei sogni risuonano delle sue melodie…”/ i danzatori scalzi le nouveau ballet de cour/
“C’est ici que l’on prend le bateau”, programma di sala, Roma, teatro Eliseo, 10-16 ottobre 1980.
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SIMONETTA LUX
Coinvolgimento contemporaneo degli individui, attraversamento simultaneo
dei corpi, passano con slancio.
Lo spazio.
Escono.
Se il tempo è segnato dalle durate e dalle cadute di energia e dalle distratte
ricomposizioni di soggetto e soggetti, lo spazio è il vuoto (o un silenzio)
attraversato da uno slancio diagonale senza inizio e senza fine, penetrato da
un avvitamento a spirale, occupato da corpi a figura che rovesciano intorno il
suono energia che li ha attraversati.
Lo spazio è un frammento della danza.
La fluttuazione (caduta dell’involucro).
Il duo “rosso”, nella seconda parte, sul tema del rapporto (partendo da due
figure fisse e svuotate si risolve con la saldatura delle due unità nelle quali
circola uno stesso senso) introduce al tema della fluttuazione.
La ricerca reale e simbolica della ricomposizione delle seppur precarie
relazioni tra io e mondo, tra diversi individui, che della prima parte è
l’improbabile messaggio, si sospende ormai dall’avvenimento che porta fin
dove è possibile all’estremo il processo di scomposizione corporea e di
contraddizione del moto naturale e meccanico.
Le gambe si dimenticano, il tronco è sospeso, il movimento esce dalle
vibrazioni in alto tra le dita.
Dimenticare il corpo, sentire tutto e il viaggio inizia.
Conclude l’attesa che tutta l’opera trasmette: continuare.
Programma di sala dello spettacolo, Roma, 1980
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Mauro Bortolotti maestro e allievo, un’intervista
Cristina Cimagalli
La cupola di San Pietro biancheggia, imponente, sopra i tetti di via
Gregorio VII; ma il cielo su cui si staglia è ancora più bianco, quasi
calcinato, in questo affocato pomeriggio romano di luglio.
La casa di Mauro Bortolotti si difende contro la calura opponendole vetri
chiusi e tapparelle abbassate. Mentre mi inoltro nella penombra del
salone, il maestro si affaccenda ad alzare un poco gli avvolgibili e avviare il
ventilatore. Mi invita ad accomodarmi su una poltrona: “Quando è venuto
qui Petrassi per la prima volta, ha scelto questa poltrona e vi si è piazzato
subito”. “Quale onore!”, scherzo io, sedendomi. Mauro si sistema in una
poltrona gemella di fronte a me, ma non vi starà troppo a lungo durante
questa intervista. Ogni pretesto è buono per scattare in piedi con energia
da ventenne: ora va a controllare il caffè sul fuoco, ora si avvicina al
ventilatore per orientarlo meglio, ora – udito il lontano borbottio della
macchinetta – si slancia di nuovo verso la cucina per ritornare con le
tazzine fumanti su un vassoio, ora si dirige verso l’imponente libreria che
tappezza un’intera parete del salone per cercare qualcosa da mostrarmi.
“Sai qual è uno degli insegnamenti più preziosi che ho appreso dai miei
studi con te?” esordisco. “I continui stimoli culturali che ci proponevi. Non
sai quanti libri ho comprato su tuo suggerimento...”.
“Sì, l’ho sempre fatto. Chiedevo sempre agli allievi: che film hai visto? Che
libro hai letto? Talvolta ho quasi costretto qualcuno a leggere, perché sono
convinto che tutto può accrescere la sensibilità creativa dell’allievo: se vuoi
fare il compositore, devi voler conoscere il mondo in tutti i suoi aspetti,
perché ciò si riverserà nei tuoi lavori. Io continuo a leggere molto, anche
in questi anni. Ora sto leggendo Thomas Bernhard, scrittore e filosofo di
un pessimismo terribile,” e ridacchia con aria sorniona, “ma mi interesso
anche della poesia italiana moderna. Hai letto qualcosa della Rosselli?”.
“No” devo ammettere.
“Ha esordito con La libellula. È stata una strana poetessa dalla multiformazione, o multi-informazione”, da quando lo conosco questi giochi di
parole gli sono sempre stati cari, “con un italiano stranissimo,
francesizzante. Molto, molto brava. Ha fatto una fine davvero triste: si è
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CRISTINA CIMAGALLI
suicidata. Poi continuano ad attirarmi Caproni, Giuliani, Eliot...”.
Annuisco.
“E conosci Edoardo Cacciatore?”.
Di nuovo devo dire “No”, imbarazzata.
“È un poeta molto interessante, che cerca anche di recuperare la rima”.
“Lo vedi? Vengo qui e imparo ancora qualcosa di nuovo da te: sei sempre
il Maestro... E Petrassi, il tuo maestro, com’era da questo punto di vista?”.
“Anche Petrassi a volte usciva dal puro insegnamento musicale. Aveva
conosciuto la generazione dei Montale, Ungaretti, Sinisgalli, ma era anche
molto curioso del cinema: era l’epoca del neorealismo. Però non è
presunzione dire che io avevo già molti interessi culturali ancor prima di
studiare con lui. Già a Narni eravamo un gruppo di amici interessati a
tutte le forme del sapere. Certo, non eravamo i...” cerca la parola, con
quel suo solito modo di fare fintamente svagato “come si chiamano quelli
di Schumann?”.
“I Davidsbündler” suggerisco.
“Sì, ecco. Non eravamo i Davidsbündler, però ci interessavamo a tutto;
cosicché quando arrivai a Roma non ci furono fratture. Ero un
provinciale”, il suo tono autoironico si fa ancor più divertito, quasi
compiaciuto di ciò che sta per dire, “mi presero in Conservatorio nella
classe di pianoforte di Caporali perché c’era la guerra, e gli allievi erano
pochi...”. Improvvisamente la voce di Bortolotti diventa più seria, con un
suono quasi orgoglioso: “In quegli anni mi compravo tutta la produzione
dei poeti dello Specchio (dove trovassi i soldi non lo so...); quando venne
qui a casa Elio Pecora, guardando la mia libreria si meravigliò: ‘Ma tu hai
tutte le mie prime edizioni!’. Mi abbonai anche al Politecnico di Vittorini:
guarda”. Si alza di nuovo, va alla libreria e ne trae un volume in cui ha
rilegato la sua collezione completa della rivista. Il primo numero è datato
1945: tocco quelle pagine un po’ fragili e ingiallite come fossero una
reliquia. “Con Petrassi studiai molti anni dopo, dal ‘52-’53, dopo i diplomi di
pianoforte e di organo” riprende. “Quindi era un interesse mio, non
dettato da lui. Certo, con lui si parlava di pittura, di cultura in generale,
non solo di musica. Ma anche con Antonio Ferdinandi, con cui avevo
studiato Armonia e Contrappunto, alla fine delle lezioni, di pomeriggio, si
cominciava a girare per librerie, o tra le bancarelle di libri di Fontanella
Borghese...”. I suoi occhi sorridono nel ricordo.
L’argomento della poesia lo appassiona proprio: “Eliot mi è sempre
piaciuto. Presentai a Petrassi una mia cantata su testo di Eliot, in una bella
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traduzione italiana”. Ne canticchia l’incipit: “La primavera fiorita nel... nel...
dell’inverno”: non rammenta la parola. Si ferma, si alza in piedi, mani in
tasca, sguardo al soffitto come a cercare nel passato; poi riprende, saltando
la parola che seguita a sfuggirgli, e prosegue a cantare per parecchie
battute. Io rimango allibita dalla vivacità della sua memoria: mi domando
con sgomento se io potrei mai ricordare una mia composizione dopo
cinquant’anni... “Era un linguaggio musicale ‘dallapiccolino’” commenta con
tono scanzonato e sempre tanta autoironia: “amavo molto Dallapiccola”.
Intanto si accosta di nuovo alla libreria, e con sicurezza ne estrae un
fascicoletto. “Ecco, guarda”, e mi mostra un programma del saggio 1955
della classe di Petrassi, in cui l’allievo del IX anno Mauro Bortolotti dirigeva
una propria cantata per tenore e orchestra da camera. “Questa cantata
ebbe poi un’altra esecuzione a Napoli, diretta da Massimo Pradella”, butta
lì con un pizzico di civetteria.
“Però in quegli anni si era già avviata Darmstadt...” cerco di stimolarlo,
“Petrassi non vi guidò in quella direzione”.
Il volto di Mauro mostra con chiarezza che questo argomento lo mette
un poco a disagio: “Il problema non era del singolo insegnante, ma delle
istituzioni. La cultura era stata bloccata dal fascismo: non si parlava di ‘arte
degenerata’, come in Germania, ma comunque non arrivavano più libri,
certi compositori non esistevano proprio. Hindemith, Bartók, Schönberg
stavano in America, qui non se ne sapeva nulla; per gli insegnanti di
composizione dell’epoca di Petrassi era quasi impossibile essere
aggiornati”.
Non insisto e cambio argomento. “E dal punto di vista dei rapporti umani
tra maestro e allievi, com’era Petrassi?”.
“Sai, quelli erano anni diversi: non era la tua e nemmeno la mia
generazione. Con Petrassi c’era ancora molto il rigore della scuola: gli
allievi nutrivano per lui un grande rispetto, anche formale; e lui lo gradiva.
Questo non toglie che in qualche momento anche lui si lasciasse andare:
quando si parlava di qualcuno in modo critico la sua frase favorita era: ‘Un
po’ di sano pettegolezzo non guasta’. Uscivamo spesso insieme dal
Conservatorio lui, io e Domenico [Guaccero]: si andava insieme per un
buon tratto, chiacchierando, poi si tagliava per piazza Augusto
Imperatore...”. Di nuovo, a questi ricordi, il suo volto si increspa in un
sorriso.
“E tu com’eri, come sei come insegnante?”.
Ride: “Questo lo potete dire solo voi. Io mi sentivo responsabile per voi,
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ero convinto che fosse necessario condurvi a possedere il mestiere con
serietà, con rigore”.
“Beh, dalla tua scuola è uscito un bel plotoncino di compositori”.
“Sì, un bel numero. Ma anche di storici della musica...” prosegue,
ammiccando.
“Trovi caratteristiche in comune tra il tuo modo di insegnare e quello del
tuo maestro?”.
“Nella cura della forma, nella consequenzialità del pensiero musicale,
nell’attenzione alla sua crescita, al suo divenire un arco teso: in questo
sono stato davvero allievo di Petrassi. Però mi preoccupavo anche che il
linguaggio fosse aggiornato; a differenza di Petrassi, volevo che si tentasse
di utilizzare la totalità del cromatismo. Ma non imponevo. Non imponevo
un tipo di linguaggio, forse anche in reazione ai ‘donatonini’; anche se,
ovviamente, mi dava fastidio il linguaggio facile, melodizzante”.
“Il fil rouge che lega i tuoi allievi è proprio la libertà di usare linguaggi
diversi?”.
“Davvero molto diversi.Vedi: noi, per lunghi anni, non potevamo che fare
quello che ci veniva dalla scuola; voi del corso di Nuova Didattica della
Composizione, invece, fin dai primi anni di studio, accanto al corale
bachiano o alla piccola forma contrappuntistica, che era sempre un
piacere fare, siete stati subito indirizzati alla libera composizione. E così
avete beneficiato della libertà che viene dalla conoscenza, dalla cultura.Vi
siete impadroniti assai presto di tutto ciò che si era sviluppato dagli anni
‘60 in poi: la musica elettronica, l’improvvisazione, il polilinguismo fra
musica jazz, musica di consumo e musica colta... Ognuno dei miei allievi ha
preso la sua strada: siete tutti sfuggiti dalle mani del maestro... Per noi fu
più difficile. Solo dopo il diploma io, Clementi, Porena, Guaccero e altri ce
ne andammo a Darmstadt: inizialmente fu terrificante...”.
“Venivate dal mondo di Petrassi, che era radicalmente diverso”.
“Sì. Ma Petrassi stesso ci aiutò per poter andare allo Studio di Fonologia di
Milano, da Maderna e Berio. Io e Guaccero, sempre dopo il diploma, ci
andammo e potemmo prendere visione di queste nuove macchine per fare
musica, per fare suoni. Poi frequentai Grossi a Firenze e, quando questi passò
a Pisa e gli misero a disposizione un gigantesco computer, lo seguii anche a
Pisa. A mia volta ho sempre consigliato agli allievi di studiare anche musica
elettronica: li mandavo nella classe di Branchi, e poi in quella di Bianchini”.
Improvvisamente sentiamo un canto provenire da fuori della finestra.
Usciamo sul balcone: un gruppo di adolescenti, con vistosi fazzoletti gialli al
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collo, si allontana ordinatamente da piazza San Pietro intonando canti
religiosi. Un bel contrasto con ciò di cui stavamo parlando... “Siamo tornati
nel Medioevo: ecco le confraternite della tua Umbria”, lo provoco un po’.
“Eh già, in alcune cose non è cambiato niente”.
Aspettiamo che i ragazzi, sotto l’occhio vigile dei loro accompagnatori, si
allontanino lungo via Gregorio VII. Rientriamo.
“Siamo arrivati al cuore del discorso: il tuo metodo, le direttrici principali
della tua didattica”.
“Insegnare la composizione... Mica si può insegnare a comporre in senso
creativo: il maestro può solo offrire alcune regole, ma la creatività uno ce
la deve avere di suo. Innanzitutto la buona condotta degli strumenti:
conoscere la carica sonora di ogni strumento e valutare l’equilibrio
complessivo dell’ensemble. Sono cose elementari, che chi è nato per fare il
compositore deve sentire anche al di fuori dell’insegnamento del maestro;
però, vedi, non è facile sentire i rapporti. Il pittore lo vede, il rapporto tra i
colori: si rende subito conto se un verde è troppo tenero o troppo
intenso, e può cambiarlo. Noi no. Noi dobbiamo intuire, non abbiamo la
possibilità di constatarlo immediatamente, come il pittore. Poi vengono i
problemi formali. Anche la forma più classica non è una cosa prefissata:
con gli stessi temi di sonata o lo stesso soggetto di fuga ogni allievo tirerà
fuori risultati differenti. Lo sviluppo della forma-sonata, ad esempio, può
essere di mille tipi: Adorno diceva che è la rappresentazione
dell’antagonismo sociale tipico della società borghese, del mondo del
commercio...”.
“Quindi il tuo rapporto con la forma...”.
“Il mio rapporto con la forma è dubitativo. La forma è quanto mai
sfuggente: non sai se l’episodio che vuoi aggiungere, le battute che ti
sembrano mancare siano necessarie veramente o no, se con esse
raggiungi un equilibrio o diventi retorico. La forma è dentro di te: lì va
cercata”.
“E la forma nella libera composizione?”.
“C’è stato un periodo in cui Schönberg parlava di totale libertà, di una
variazione continua...”
“Variazione in sviluppo” mi inserisco.
“Variazione in sviluppo,” ripete “per cui magari alla fine resta ben poco del
punto di partenza”.
“E tu questo lo accettavi come insegnante?”.
“Sì, se la composizione procedeva con estrema naturalezza, se cresceva
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con le giuste proporzioni. Nel correggere i vostri lavori mi ricordo di aver
fatto tante volte osservazioni sulla necessità di sviluppare il discorso
musicale: mi ha sempre dato fastidio la composizioncella di tre o quattro
minuti, che se la cava con poco.Vi facevo sentire la necessità di mettere a
punto l’avvio della composizione e poi di ampliare gli elementi, in modo
che essa prendesse corpo con logica, come un organismo che cresce. Mi
divertiva molto”, e noto che Mauro si diverte tuttora nel raccontarlo,
“mettere a posto i vostri lavori, quando riuscivo a sentire che un
elemento era poco presente e aveva bisogno di essere sviluppato. ‘È
importante che questo inciso, questo intervallo tu lo faccia crescere’, vi
dicevo, ‘perché sarà lui a far crescere la forma’. A qualcuno ricordo di aver
letteralmente smontato il pezzo e averglielo rifatto: e a volte usciva fuori
qualcosa che andava al di là delle capacità di un allievo di terzo o quarto
anno... Ma questo non lo scrivere” soggiunge con un sorriso malizioso.
Riprende, continuando a ridacchiare: “Lavoravo così non solo per mio
piacere, ma per far capire all’allievo che bisogna badare ai minimi
particolari: lo sentivo come un’esigenza irrinunciabile. Insistevo anche sul
fatto che bisogna essere molto accurati nella scelta di un testo e delle voci
che lo devono eseguire: il testo deve sempre essere stimolante”.
“Mi ricordo che su questo ci davi davvero tanti suggerimenti: i miei scaffali
dei libri di poesia e di teatro si sono molto arricchiti in quegli anni. E
siamo ritornati così al discorso iniziale degli stimoli culturali. Ricordo anche
la tua attenzione sempre viva per la giusta sillabazione, nel mettere in
musica un testo”.
“Questa e tante altre sono cose che sembrano elementari, ma non lo
sono: non bisogna mai dimenticarle. Se l’allievo viene da strumenti come il
contrabbasso, o la chitarra, che non hanno la vastità di programma del
pianoforte, purtroppo si sente. Io dicevo che si capiva subito chi ha
suonato le Invenzioni a due voci, o anche le graziose Sonatine di Clementi,
e chi non ha avuto questa fortuna. Occorreva colmare questi vuoti.
Queste sono le preoccupazioni che l’insegnante deve avere, insistendo
anche sull’inciso, sul temino, sulla ricchezza del gioco armonico. Quando
poi si fanno composizioni dodecafoniche o, meglio, liberamente atonali, lì i
limiti sono altri; ma ci si deve sempre basare sulle scelte iniziali (gli
elementi musicali impiegati, il testo se c’è) per svilupparle con
consequenzialità, seguendo anche le esigenze personali, spirituali, legate
però sempre all’attualità storica e stilistica. Essere legati al momento
storico in cui vivi è importante”.
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“Ci sono altre priorità fondamentali nella tua opera di insegnante?”.
“L’ultima, ma non meno importante, è la ricerca espressiva. Questa
espressione che per lungo tempo abbiamo sfuggito, abbiamo pudicamente
messo da parte, ma che poi esiste, deve esistere e va recuperata. Ma
anch’essa va contemperata con l’equilibrio tra il linguaggio adottato e gli
strumenti che hai a disposizione. La ricerca espressiva è legata al materiale
che usi, sia materiale linguistico che strumentale: tutte queste cose devono
in qualche modo essere unite tra di loro”.
“Dunque, i capisaldi del tuo insegnamento sono la consapevolezza sonora
degli strumenti, il senso della forma e la ricerca espressiva?”.
“Sì, ma sono tutti collegati: la ricerca della forma è condizionata anche da
quella che è la prima fase del lavoro, cioè la scelta del linguaggio. Poi però
la costruzione della forma vive una sua vita autonoma, va per leggi sue
proprie che la scuola crede di insegnare ma non insegna del tutto: il
problema della forma è sostanzialmente un problema di equilibrio, di
rapporti. Gli elementi da cui si parte, dal canto loro, possono essere di
varia natura: un accordo, una serie di suoni, anche un tema, o le quintine
donatoniane. Ma è importante la figura, la riconoscibilità di qualcosa: nelle
mie composizioni la figura che circola continuamente è spesso un accordo
di cinque o sei suoni. Senti l’attacco di Rilke”.Va al pianoforte e, di nuovo
a memoria, mi fa sentire l’inizio del suo Ou le silence, su testo di Rainer
Maria Rilke, facendomi notare man mano la presenza di questo accordo
nelle sue trasformazioni. “Alla faccia dell’Ottocento, quando...”.
“Si sapeva già quello che si doveva fare” completo io.
“Si sapeva già quello che si doveva fare: ora ognuno deve cercarsi la sua
strada...”.
Stiamo entrambi in piedi, e notiamo che si è fatta ormai sera. Mi congedo,
sia pure con rammarico.
“Aspetta...” e Bortolotti, come folgorato da un’improvvisa ispirazione,
dall’ingresso torna rapidamente indietro nel salone, di nuovo verso la
libreria. “Eccolo!” e mi mostra il testo di Eliot che musicò per la sua
cantata e del quale prima non riusciva a ricordare tutte le parole. “La
primavera fiorita nel cuore dell’inverno / è la sola stagione che in questo posto
non muta...”. La sua voce, un po’ arrochita dal lungo parlare, declama con
convinzione tutta la splendida poesia e subito dopo ne accenna la sua
versione musicale.
Ci salutiamo con un abbraccio affettuoso.
Mentre scendo le scale la sua musica mi risuona ancora nelle orecchie.
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Aldo Clementi
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a Mauro Bortolotti
Massimo Coen
Quel suono là
sulla collina
mi parla del sorriso antico –
del sole sulle mani –
del canto del gallo
e della notte
di quella intelligenza così pura
di quel ridere sano
che s’impiglia nel pensiero.
Le parole cadono
sugli ulivi
e ritorna la farina nella madia
a cantare quei suoni
che piacciono ai colombi
mentre saltellano sul selciato antico
quel sorriso
che sa le lacrime
e la luce
mi saluta amico
col suono che va via piano
piano, piano.
Mirella Thau Coen, Come dire grazie per tante cose,
ottobre 1985
Conosco Mauro da cinquant’anni… cinquant’anni di amicizia e di musica!
C’è un pezzo giovanile di Mauro degli anni Sessanta, un pezzo pensato per
la voce della Michiko e intitolato Contre 2. Da lì, proprio da quel lavoro dal
titolo emblematico parte il discorso di Mauro, di Domenico [Guaccero] e
di tutti gli altri ‘romani’. L’avanguardia romana ha avuto una sua storia che
si può sintetizzare nel titolo Contre:1 una posizione nei confronti del
1
“Pur convinto dell’inutilità della protesta su carta, tela o pellicola, il lavoro vuol essere in questi anni
così assurdi ugualmente una estrema denuncia e, appunto, una protesta… Il testo è dato
dall’emergere di parole, o frammenti di esse, anche in varie lingue; guerre, mafia, diktaturen…
benedica, spring, noir, to-a-mic, u-en-wall (ciò che resta di Buckenwald) insieme a ricordi di poesie ecc.
Poi CONTRE, la protesta, il rifiuto.Gli strumenti vengono trattati come pura fonte sonora. La voce
sfrutta in modo totale la varia gamma delle possibilità di Michiko Hirayama” (MAURO BORTOLOTTI,
programma stagione “Nuova Consonanza”, Roma-Viterbo, 1981)
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mondo di contestazione totale, una concezione della vita e dell’arte come
protesta totale, sociale politica culturale. Per capire la musica dei ‘romani’
(e non solo), è necessario partire dal dato sociale e politico (dal solo
discorso culturale non ci si riesce ad arrivare…) Poi c’è stato il ‘68, il ‘77, le
stagioni varie della contestazione a Roma, il quartiere Appio-latino ove ci
si conosceva, ci si incontrava, si discuteva, si litigava… Io ero più giovane,
ma ero curioso, attento e più tardi, parecchio tempo dopo, ho cominciato
anch’io – nel ‘79 – a scrivere musica… Quando il linguaggio trasgressivo e
rivoluzionario degli anni Cinquanta-Sessanta è stato ripreso dai
compositori più giovani, dai musicisti delle generazioni successive a quella
di Franco [Evangelisti], di Domenico, di Mauro, si è infiacchito, si è fatto
assai più fragile proprio perché veniva a mancare quella carica di fondo,
quella spinta forte di ordine sociale e politico, ancor prima che culturale…
Mauro ha poi dalla sua una visione delle cose che viene da Narni, dal
paese natio. Il suo legame con Narni è qualcosa di poetico, di
meraviglioso… Mauro è un rivoluzionario buono, non un rivoluzionario
sanguinario, non il graffiante Domenico, né tanto meno l’imprevedibile,
polemico Franco, tant’è che i ‘romani’ non si amalgamavano affatto,
litigavano in continuazione e su tutto nel clima di contestazione capillare
che li circondava.
L’interesse di Mauro per l’elettronica costituiva poi una vicenda un po’ a sé
nel contesto romano di quegli anni (lui seguiva a Firenze Pietro Grossi),
tra l’altro un interesse autentico cresciuto in un’epoca non sospetta.
Il mio accostamento alla musica contemporanea è maturato gradualmente
e in tempi successivi agli anni di studio in Conservatorio, ove
l’apprendistato musicale risultava totalmente sganciato dalla
contemporaneità. Grazie alle avanguardie pittoriche ho avuto l’opportunità
di conoscere la ‘modernità’, anche in campo musicale e di farne una parte
essenziale del mio percorso di interprete e di musicista (la musica del
passato è dentro di noi e non è possibile non tenerne conto).
Ho avuto occasione di ‘suonare’ quadri, mostre, esposizioni, di leggere la
pittura attraverso la musica e gli occhi degli altri spettatori-ascoltatori; ho
sempre cercato di aderire al segno, di seguire con attenzione e con
scrupolo il decorso dei segni, senza improvvisare a caso. Con questo
spirito mi sono accostato a suo tempo ai Frammenti 5 per quartetto
d’archi di Mauro,2 composizione amata ed eseguita in contesti assai vari,
2
“Il lavoro è stato scritto per quattro archi – aventi ciascuno varie possibilità – ai quali potranno
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A MAURO BORTOLOTTI
Mauro Bortolotti, Frammenti 5, p. 4
aggiungersi da uno a quattro archi o fiati. L’inclusione di uno o più strumenti limiterà, ma solo
parzialmente, le possibilità dell’arco (o degli archi) a cui è accoppiato. Infatti anche l’esecuzione a otto
lascia ad ogni strumento una notevole libertà di scelta: del rigo, della frequenza (ove manchi la testa
della nota o dove essa si trovi tra parentesi), della intensità, della dinamica e del modo di produrre il
suono. Inoltre il lavoro, basato su cinque “frammenti” – A/ B/x/ C/ D – può, o meglio “deve” ripetersi,
evitando lo schema seguito nelle precedenti esecuzioni: ciò affinché tutti gli elementi concorrano al
continuo e totale rinnovarsi della forma” (ID., Frammenti 5, Milano, Ricordi, n. ed. 131425).
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tra l’altro nel corso della storica mostra “Suono e segno” tenutasi presso il
Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea dell’Università di Roma “La
Sapienza” : nella cadenza di p. 4 (qui riprodotta alla p. 165) il segno di
Mauro esplode (altrove la scrittura è più tradizionale, anche se la
molteplicità dei pentagrammi per ciascuno strumento genera una continua
metamorfosi esecutiva del pezzo), non conosce eguali, il segno è soltanto
suo: è senz’altro una delle pagine più suggestive di tutta l’opera del
musicista di Narni nella ricerca di una relazione profonda (e altra) tra la
musica e il tratto segnico, di provenienza pittorica.
Mi piace ricordare che nell’autunno del ‘92, con il mio gruppo “I Solisti di
Roma”, organizzavo a Roma presso il teatro Politecnico la “II Rassegna
interpreti compositori “. Le suggestive performance di Giancarlo Schiaffini,
Luigi Cinque, Daniele Lombardi, Massimo Coen e Antonello Neri
venivano introdotte nel programma di sala stampato per la circostanza
dalle seguenti note di Mauro e Luca Bortolotti:
… E questo mi pare sia anche un ritrovare antichi fili parzialmente recisi dalla
“Nuova Musica”, un modo per riallacciarsi ad una tradizione antica, che
sottilmente ricollega colui che fa musica, ad ogni livello, all’originale artigianale
concetto di “mestiere dei suoni”: quella dell’esecutore-improvvisatore-autore, in
cui confluisce un gusto sensibilizzato dalla molteplicità dei ruoli assunti, dalla
segmentazione del punto di vista, dalla capacità, sempre auspicabile, in
musica come dappertutto, di calarsi senza fratture, né sufficienza, né pudori
nei panni di tutti coloro che legittimano e donano importanza all’esistenza di
un’arte…3
3
MAURO e LUCA BORTOLOTTI, s. t., in I Solisti di Roma “II Rassegna Interpreti Compositori”, programma di
sala, Roma, teatro Politecnico, 2-9 novembre 1992, [p. 4].
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Caro Mauro
Alfredo Giuliani
Il più mite (ma non imbelle), il più discreto e riservato dei miei amici
musici. E tra costoro il più sottile e spregiudicato intenditore delle poesie
che venivo scrivendo dagli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, e
che continuo a scrivere quando posso. Ancora oggi mi stupisco della
libertà e coerenza con cui – dai tempi di Povera Juliet e Il tautofono – ti sei
fervidamente assuefatto agli scarrocciamenti, alle deviazioni e deformazioni
delle forme verbali sintattiche metriche dei miei versi, per far emergere
dalla musica delle parole altra musica, non estranea, di suoni e voci
drammatiche.
La prima delle mie poesie che attirò la tua voglia di immedesimarla in una
idea vocale e strumentale è Resurrezione dopo la pioggia del ‘52 o del ‘53.
La metrica di questo breve testo (otto versi) si muove con leggerezza e
intensità mettendo in atto l’antico principio costruttivo dei lirici greci,
l’equivalenza ritmica tra gruppi sintattici semplici, di ampiezza e numero di
accenti differenti all’interno di un verso. Il testo è il racconto di un’epifania:
un attimo che sparisce e ci lascia tutti attoniti. In quei pochi versi
echeggiano epoche, si affacciano simboli reali e fantasie. La cosa buffa è
che non ho avuto mai l’occasione di ascoltare la tua versione in musica:
ma stando a quanto ne dici nel bel saggio Musica e poesia – che mi
dedicasti nel 1994 – prendo per buonissima la dichiarazione di aver
musicato Resurrezione dopo la pioggia “dando alla voce del tenore un
andamento cantabile quasi recitativo, e al pianoforte scarne linee
contrappuntistiche sostenute da lievi accordi”. Dunque, grande delicatezza
di trattamento.
Ma tu già respiravi l’aria dello sperimentalismo che circolava (o turbinava)
da noi, e ovunque fossero movimenti creativi, in tutte le arti. Mi piaceva
pensare che una volta tanto eravamo noi scrittori ad aver dato una scossa
ai compositori. Naturalmente, il prototipo degli incontri riusciti tra una
poesia scritta per sé stessa e un musico che ne trascrive in suoni le
sensazioni ed emozioni provate nel leggerla, è il celebratissimo Prélude à
l’après-midi d’un faune di Debussy. Omaggio trasfigurante e inaudito al
Fauno di Mallarmé! Che sogna, pensa, ardentemente desidera, suona il
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ALFREDO GIULIANI
flauto (già, anche lui è musico), rapisce ed è rapito dalle ninfe, e poi chissà.
Il titolo di Mallarmé è L’après-midi d’un faune. Debussy vi aggiunge il
Preludio. L’anno della prima esecuzione: il 1894! Ma quella è l’avanguardia
dell’impressionismo musicale. Noi, negli anni Cinquanta-Sessanta del
Novecento, siamo stati la postavanguardia di tutte le mutazioni estetiche
consumate in più di mezzo secolo. Ciò vuol solo dire che così va la storia
e se ti trovi con tante straordinarie mutazioni alle spalle devi elaborarle
esteticamente e criticamente.
La tua scoperta del collage quale tecnica di composizione, intorno alla
metà del Sessanta, ti dette nuovi stimoli e convinzione. Ora gli stralci, i
frammenti strappati dalle poesie che ti colpivano li facevi tranquillamente
a pezzi, spesso in minuzzoli di vocalizzi, “glissati e sopracuti”; operazioni
audaci a cui contribuiva la bravissima e impavida Michiko Hirayama, dotata
di una vocalità impressionante; oppure potevi improvvisamente distenderli
con toni pacati in un campo sonoro quasi ammutolito, che poi riattizzato
di colpo si manifestava in una citazione esatta e spaesata. Insomma: il
canto drammatico e la recitazione.
È così che si presentano all’ascoltatore (eventualmente anche spettatore)
le due partiture miste (musica e poesia) a cui hai lavorato nel 1969-’70 e
poi nel 1980, usando a tuo piacimento brani delle mie poesie, che nel
tessuto linguistico-sonoro svolgevano la funzione (a me pare) di
‘apparizioni’ problematiche di un discorso frantumato. Le ho ascoltate e
riascoltate, una dopo l’altra, e m’ha sorpreso la continuità che le
accomuna, nonostante i dieci anni di distanza tra le composizioni. Quella
del ‘70 - “E tu?” nondranna in un atto e due intermezzi parlati – prende
spunto dalla poesia intitolata scherzosamente Prosa dedicata a Balestrini
perché costruita interamente col metodo del collage, montaggio di
constatazioni di fatti disparati, affermazioni personali; c’è perfino il sostegno
di un filosofo ( “di fatto le teorie deduttive sono sistemi ipotetici”), che hai
incluso nel parlato. Il titolo E tu? è preso dalla conclusione: “E tu? me lo
ripeto sempre”. Ci sono forse tracce di altre poesie; c’è una citazione da Il
tautofono, uscito in volume nel ‘69 (“la nostra piccola atmosfera soffre di
un accumulo di onde disritmiche e ci perturba/ più del barrito degli
elefanti”). E c’è soprattutto la comparsa di un personaggio che non viene
nominato, e tu esponi in alcuni passaggi sulla scena col suo linguaggio di
fenomenologo strettamente husserliano.
Chi è costui? È il protagonista del poemetto filosofico burlesco Il professor
PI ossia il fenomeno non è un fatto, scritto nel 1962 e incluso nella raccolta
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CARO MAURO
Povera Juliet (Feltrinelli 1965), che ho già ricordato più sopra come una
delle tue fonti. Per capire Il professor PI è necessario conoscere Husserl?
Aiuta, o dovrebbe aiutare il lettore-critico, ma non è affatto necessario.
La materia concettuale del poemetto è rigorosamente ricavata dal
capolavoro postumo di Husserl Esperienza e giudizio (la versione italiana è
del 1960). Ma vi sono alcuni sostrati (per esempio il classico della tradizione
cinese Libro dei Mutamenti), nutrimento di fantasie e ragionamenti del
professor PI quale comune essere umano. C’è nell’operetta una tramatura
narrativa. E ciò la rende comprensibile. Perfino le tue predilette distorsioni
sonore e gli spezzettamenti di parole si prendono qualche tregua. Insomma:
la coraggiosa inserzione di brani dell’innominato professore mette una certa
calma nella sofferenza della ‘voce’.
La grande sorpresa arriva con la partitura del 1980. L’attesa, per voce e
nastro elettronico (“che accompagna commenta sottolinea”), interamente
intessuta soltanto di brani del professor PI, il cui nome è annunciato subito
in apertura, quando squilla la voce di Michiko: IL PROFESSOR PI, come
una chiamata d’attenzione agli uditori. Ascoltando in successione le due
partiture si coglie il senso drammatico dell’insieme, si legge tra gli accorati
stridii del canto il tormento esplicativo husserliano del buffo professore.
Le sue parole, spaesate ma non disperse, vengono sospinte da ventate
sonore che vorrebbero lacerare il loro discorso logico-amoroso.
Ma eccolo lì, il povero PI sempre in attesa della “sconosciuta
conosciutezza” e beffato dalla “prensione anticipante”. Le due partiture
costituiscono un dittico e mi piacerebbe che tu le riprendessi in un cd,
allegandovi un fascicoletto con tutte le citazioni dei brani usati. La musica
fa sempre scena, la poesia è sempre musica di parole che raccontano.
Tanti e affettuosi auguri.
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Daniele Lombardi
Caro Mauro,
tutto è cominciato nel 1972, quando fui chiamato a fare il servizio militare.
Fui destinato a Cesano di Roma e questa fu per me l’occasione per
un’intensa frequentazione romana che mi permise di entrare in contatto
con te e con alcuni compositori che in quel momento m’interessavano
particolarmente. Ricordo le accese conversazioni con Franco Evangelisti,
che possedeva una bellissima collezione di vasi Gallet, con Paolo Renosto,
dall’acuta intelligenza di fiorentino trapiantato, e con Domenico Guaccero,
l’inconfondibile voce ‘radiofonica’, con il quale sentivo una particolare
affinità che ci portò a realizzare insieme vari concerti, ma anche con
Egisto Macchi, generoso, volitivo, positivo. Ebbi la fortuna di incontrare
Goffredo Petrassi e di conoscere la sua umanissima saggezza; frequentai
Giacinto Scelsi, il quale a volte mi telefonava a Firenze, invitandomi ad
andare a trovarlo nei giorni successivi e ciò accadeva sempre nel
pomeriggio dopo le 17. Francesco Pennisi, Marcello Panni, Aldo Clementi,
Fausto Razzi, il mio omonimo Luca Lombardi, Alessandro Sbordoni ed altri
sono state le persone a me più vicine negli anni successivi; infine Bruno
Nicolai, con il quale un’amicizia via via sempre più profonda ci portò a
oceaniche conversazioni che divennero progetti editoriali, fino alla sua
scomparsa, prematura come purtroppo quella di alcuni altri di questa lista.
Quando poco più che ventenne li frequentavo, sentivo che nel loro
percorso vi era qualche cosa di enormemente formativo, di più stimolante
rispetto a quanto vivevo a Firenze, mentre non avevo ancora rapporti
frequenti con i musicisti milanesi.
Fin da quei tempi ho avuto il piacere di considerare te uno dei più cari
amici di questa cerchia, in parte inscrivibile nell’ambito di “Nuova
Consonanza”; un’amicizia che ho sempre sentito ricambiata da parte tua
con un calorosissimo affetto. Nell’ammirare il tuo lavoro mi ha sempre
molto colpito un aspetto caratteristico che riscontro in tante tue
composizioni: il modo di sintetizzare idee musicali con la sicurezza di un
gesto, quasi fosse stato già compiuto. Idee che possono essere ascoltate e
analizzate nella loro sintesi immediata, con una sensazione di freschezza e
di movimento tali che mi pare di poter ravvisare nella tua musica due
elementi essenziali: l’attenzione all’improvvisazione, come ricerca di nuovi
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CARO MAURO
suoni, ma anche come gesto risolutivo, estemporaneo, e il tuo amore per
la danza, che forse è la ragione del primo. Questo secondo elemento in
qualche modo mi ha sempre fatto pensare che tu avessi un interesse che
ti avvicinava a Domenico Guaccero.
Questa concezione musicale indica un comportamento nei confronti delle
scelte linguistiche che non si vincola a sistemi, a particolari diktat o
procedimenti avanguardistici, che in quegli anni erano ancora molto sentiti,
perché in fondo Darmstadt non era tanto lontana, e alcuni dei
compositori romani non si facevano spaventare da poche ore di treno.
Ho in mente un tuo articolo di quegli anni uscito su “Paese Sera”, dove ti
occupavi degli aspetti musicali del futurismo, prendendo in esame il
volume Arte dei Rumori di Russolo, quando ancora non era facile che un
compositore s’introducesse in quegli argomenti. Questo tuo interesse per
il futurismo e l’uso del rumore coincidevano con un momento nel quale
anch’io mi stavo occupando di indagare gli aspetti musicali di questa
avanguardia, e la cosa destò in me molta curiosità.
Venendo alla tua musica, nel brano pianistico Pour le Piano, trovai un
formidabile catalogo di situazioni pianistiche, testimonianza della tua
conoscenza profonda della tastiera; gli eventi sono posti come struttura
mobile, una sorta di labirinto di diversi percorsi. Negli anni Ottanta,
quando ti ho chiesto se potevi indicarmi un itinerario esecutivo sintetico
che ne facesse un brano breve, ma di grandi contrasti fonici, lo hai
puntualmente fatto subito, e spero prima o poi di poter eseguire questa
versione di Pour le Piano in concerto, e così pure il breve Carillon, perché
fino ad ora ho suonato soltanto nel 1982 il Gran Duo per pianoforte a
quattro mani, al Festival Pontino, nella Abbazia di Fossanova.
Quando alla fine degli anni Settanta mi accinsi a progettare To Gather
Together #10, a Collective piano composition, tra i 57 autori che mi
inviarono una composizione sei stato il ventunesimo, con Sulla scia
dell’ispirazione (1980), un brano che riportava questo titolo nascosto
dentro la notazione ideografica che avevo proposto nella lettera di invito.
To Gather Together #10 era una specie di composizione mail-art, alla quale
avevo invitato compositori, performer, poeti visivi sonori e verbali, artisti
visivi: uno spaccato della creatività in varie discipline che riportava tutti
al comune denominatore di scrivere un brano per pianoforte secondo
la notazione ideografica che avevo progettato per una interazione
tastiera-cordiera.
Il piccolo brano che mi scrivesti mette a fuoco molto bene la tua
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DANIELE LOMBARDI
intuizione fugace che si fa scrittura soltanto per fermare l’estemporaneità
della fisicità del suono, secondo un interesse verso l’energia creativa che
l’improvvisazione non consente di codificare se non nella memoria. Una
contrapposizione tra la staticità del segno nella sua visualità e lo svanire
del suono nel suo immediato apparire, un altro modo di vivere l’attimo
secondo quello che nel titolo è descritto come “scia dell’ispirazione”.
Affidando l’energia creativa a quest’automatismo la tua musica, anche in
questo piccolo frammento, vive di una sua freschezza e mostra una sicura
consapevolezza del gesto che si rivela cosi efficacemente sintesi poetica,
lungi da architettate costruzioni, confermando una fiducia assoluta nel
potere semantico della configurazione sonora.
Un affettuoso buon compleanno!
Firenze, settembre 2006
Mauro Bortolotti, Sulla scia dell’ispirazione, in To Gather Together, a cura di Daniele Lombardi,
Milano, Multhipla, 1982
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W i poeti!
per Mauro Bortolotti
Luca Lombardi
In fondo Mauro Bortolotti ha ‘solo’ vent’anni (circa) più di me, ma quando
mi affacciavo alla scena musicale romana (a metà degli anni Sessanta), era,
non dico un vecchio (non lo è ora, figurarsi allora), ma uno dei
compositori di riferimento, insieme, naturalmente a Evangelisti, Guaccero e
altri ‘nuovi consonanti’, con cui entrai in contatto in quegli anni. Con
Guaccero ebbi un sodalizio musicale, che portò alla – breve – esistenza di
un nostro gruppo di musica elettronica viva, l’ensemble “Musica ex
machina” (del quale faceva parte anche Alvin Curran). Di Evangelisti
ricordo alcuni incontri in cui si affrontavano questioni di estetica e poetica
musicale (mi è rimasta impressa, per esempio, una sua lunga e tortuosa
perorazione della ‘armosonìa’, che, confesso, ancora oggi non so che cosa
sia...). Con Mauro – se la memoria non mi inganna – non abbiamo mai
avuto vere discussioni di carattere musicale: siamo amici e basta. Non che
tra amici non si debba discutere, anzi, ma chissà, forse rimandiamo queste
discussioni ad altri tempi, magari a quando saremo vecchi. Adesso urgono
altre faccende, non parole, se possibile, ma fatti. E Mauro è uomo del fare,
che si tratti di comporre o di organizzare: è una persona sempre in
movimento. Se dicessi che è una persona ‘concreta’, nel senso di un
attivismo pragmatico, gli farei torto: Mauro è un poeta, e come potrebbe
un poeta essere ‘concreto’? Può essere concreto un animo gentile che
insegue i fantasmi e le nuvole? Naturalmente – e per fortuna – no. Ma
non tragga in inganno l’aggettivo gentile (che peraltro sicuramente si
attaglia a Mauro): un compositore (per non parlare di un organizzatore)
deve essere anche ostinato, caparbio, ‘incazzoso’, se mi è permesso questo
neo-volgarismo. E Mauro è anche questo. Inoltre, Mauro ha il senso della
misura, cosa che risulta chiara anche dall’esame del suo catalogo, in cui
predominano le composizioni per piccolo organico, composizioni
cesellate, eleganti e raffinate, piene di allusioni e di colti sottintesi. Non c’è
certo bisogno di scomodare Chopin, per sottolineare che limitarsi a pochi
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LUCA LOMBARDI
strumenti, o anche, come nel caso del grande polonese, al solo pianoforte,
non è un limite, anzi! Gran parte del valore di un compositore sta
sicuramente anche nell’individuare la sua più autentica dimensione, e un
pezzo riuscito per tre strumenti – come per fare un solissimo esempio tra
i tanti, i suoi Appunti per un Trio – pesa molto di più di una composizione
per soli, coro e grande orchestra che non abbia una reale ragione
d’essere. Ma non posso escludere che ci sia tutta una produzione
bortolottiana per grandi organici che io non conosco, e del resto quante
occasioni ci dà il nostro avaro mondo della musica contemporanea di
ascoltare la musica di Mauro, come quella di tanti altri di noi? Ma non
tocchiamo qui queste note dolenti, rimaniamo alle belle note di Mauro.
Mentre scrivo queste righe di saluto, omaggio e augurio a un caro collega,
ascolto e riascolto un cd, registrato una decina di anni fa dagli amici del
Logos Ensemble, che raccoglie musiche scritte in un lasso di tempo di più
di trent’anni (dagli anni Sessanta agli anni Novanta) e che mi sembra un
bello spaccato del paesaggio musicale di Mauro. Una composizione che
prediligo sono i già citati Appunti per un Trio (Cher nocturne), una
composizione del 1972 di una malinconica bellezza – una bellezza
discreta, decantata e distillata, sombre, notturna appunto.
Ma mi intriga anche Fanfara-Scherzo e Ricercare, nella cui prima parte (prima
del ricercare) emerge l’aspetto ironico di Mauro, contenuto forse già nella
scelta del titolo di sapore neoclassico (e in neoclassiche movenze, che Mauro
sembra citare con divertimento). Ma l’ultima parte è attraversata – ohibò –
da un vero e proprio ed espressivo ‘tema’ di cinque note (mi, fa, la bemolle,
fa, mi), quasi – nuovamente ohibò – sostakoviano, che conferma una vena
malinconica di Mauro, sorprendente solo per chi lo conosce superficialmente.
La nota introduttiva al cd su cui sono contenuti questi e altri bei pezzi di
Mauro, è di Erasmo Valente,1 un altro amico che dagli anni Sessanta (e in
realtà già da un paio di decenni prima) accompagna con attenzione e
1
“Est animum”: è il titolo di una felice composizione di Mauro Bortolotti. Ci torna alla mente in
occasione di questo cd contenente altre pagine del nostro compositore. Un titolo semplice, ma subito
ricco di sorprese, raffinato, prezioso, e un po’ misterioso. Occorre risalire non all’est di esse, ma alla
forma sincopata dell’est di edere: bruciare, consumare. Ed ecco che nelle due parole, apparentemente
semplici, si aprono problemi linguistici. C’è qualcosa che fa bruciare l’anima: l’amore, la vita, la musica. In
Bortolotti, tutto questo insieme (la vita, la musica, la dedizione, l’impegno) est animum. Diremmo che
nelle due parole (la composizione è dedicata alla memoria di Domenico Guaccero) ci sia una summa
della vicenda artistica di Bortolotti, della sua musica, ‘semplice’ all’apparenza, poi così
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W I POETI! PER MAURO BORTOLOTTI
inesausta passione le vicende della musica contemporanea e che continua
a essere un punto di riferimento per il lavoro di tutti noi. Mi piace
chiudere questo saluto al nostro valente Mauro, con un saluto altrettanto
affettuoso a questo nostro comune amico e sodale.
7.IX.2006
Programma di sala della II “Settimana Internazionale Nuova Musica” (Palermo, 1961)
sorprendentemente ricca di significati umani e poetici, legata all’esigenza di non scostarsi mai dalle
motivazioni profonde del suo essere musica del nostro tempo: scavata nell’anima, portata alla luce con
tutte le implicazioni e ‘complicazioni’ delle più nuove esperienze conquistate con la consapevolezza – e
fierezza – di una luminosa, feconda autonomia. La rigorosa ricerca di Mauro Bortolotti, del resto, ha
spesso, nelle indicazioni dinamiche della sua musica, il richiamo ad un ‘liberamente’ che non può non
coinvolgere anche noi, ‘liberi’ ascoltatori. Si senta nella Fanfara-scherzo e Ricercare o nei Tre movimenti
per flauto e pianoforte come il ‘divertimento’ sia poi ‘bruciato’ all’interno da un costante pathos che
intensamente avvolge l’ansia virtuosistica ad una urgenza espressiva: quasi il segno (e la partecipazione)
di un dramma vissuto in epoche remote o in tempi futuri. Del pari avvertiamo in Foglie, il battito di un
palpito vitale, pulsante al di là del velario di suoni, con una voglia di canto, nella quale ‘bruciano’ i suoni
più alti e quelli più fondi, che rapprendono in grumi accordali il dramma della nostra vita: un dramma
che culmina negli Appunti per un trio (Cher nocturne) e nelle Tre Poesie di Paul Éluard, in cui
l’estraniamento dell’uomo nel mondo di oggi trova nei suoni di Bortolotti il fiammeggiare anche di una
consolazione: la musica restituisce qualcosa che la vita aveva perduto; anche un sospiro palpitante nella
preziosa trama sonora, che consuma nei rimbalzi tra toni di trenodia e dionisiaci, protesi ad un quid
che muore e continuamente rinasce: la musica, che è tanto più nostra e nuova, oggi, quanto più –
come accade in Bortolotti – est animum” (ERASMO VALENTE, s. t., booklet del disco con musiche di
Mauro Bortolotti, Edipan, 1997, PAN CD 3061).
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Ennio Morricone
Conosco Mauro da più di cinquant’anni. Eravamo studenti di
Composizione nella classe di Goffredo Petrassi e frequentavamo
contemporaneamente alcune classi complementari. Ricordo che durante
le lezioni di Letteratura poetica e drammatica (prof.ssa Fasano), Mauro era
in continua polemica con l’insegnante. Mi è sempre rimasto in mente il
suo comportamento severo e rigoroso, con prese di posizione ‘forti’
contro alcune affermazioni della professoressa.
Nella classe di Petrassi non ci incontravamo mai. Penso che ormai da
diversi anni (tanti) è diventato un compositore, apprezzato da tutti, che ha
vissuto da protagonista l’avanguardia e i vari passaggi di ‘assestamento’ che
hanno fatto seguito a quel periodo, componendo opere che ho sempre
apprezzato per il loro equilibrio, il loro valore musicale e morale, le
invenzioni e le tecniche usate.
Oggi, ottantenne e quasi coetaneo, affiorano i ricordi che hanno radici
profonde nell’esperienza petrassiana e nei vari passaggi che a quella sono
succeduti, conducendo Mauro come compositore, studioso, docente di
Composizione, Presidente di “Nuova Consonanza” a livelli altissimi.
La sua attività di compositore e didatta è stata apprezzata da tutto il
mondo musicale contemporaneo e da chi l’ha conosciuto. Per quanto
riguarda me, pur non incontrandoci troppo spesso, ogni nostro ritrovarci è
sempre stato improntato a espressioni di stima e affetto sinceri.
Auguri, Mauro, e tanti anni ancora a vivere di Suoni!
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Per Mauro Bortolotti:
memoria ed esperienza di un'opera a quattro mani incompiuta
Piero Mottola
Il mio primo incontro con il compositore Mauro Bortolotti avvenne agli
inizi del 1995 presso il Centro Studi Jartrakor di Roma. In un pomeriggio
invernale, in compagnia di altri eventualisti (tra i quali Giovanni Di
Stefano)1, Sergio Lombardo, tra un caffè e l’altro e intense discussioni con
Bortolotti, fece ascoltare il mio primo stimolo acustico Paura > Gioia e
Gioia > Paura, che gli avevo portato come esempio di un possibile
risultato compositivo a partire da esperimenti su campioni di rumori e su
loro proprietà estetiche ed emotive. Lombardo, che precedentemente
aveva lanciato l’idea di visualizzare il contenuto sonoro pensando a
stimoli analoghi a quelli concepiti per lo specchio tachistoscopico, fece
partire il nastro della durata di tre minuti da un registratore posto nella
sua camera da letto.
Fu ascoltato con attenzione, e nella versione più ‘ambientale’ possibile data
la distanza della fonte sonora. In quel momento ci si aspettava da
Bortolotti (forse) un parere, un’indicazione, delle critiche nei miei riguardi.
Tuttavia la discussione, allora, proseguì su altri argomenti.
Dopo aver costruito il video-esperimento migliorare peggiorare, il mio
interesse si era orientato già agli inizi del 1994 verso l’elaborazione di uno
“stimolo acustico evocativo sperimentalmente costruito”:2 rumori figurativi
combinati secondo un percorso emozionale da una situazione fortemente
negativa ad una risoluzione di un conflitto, e viceversa. Su invito di
Simonetta Lux, all’interno del festival di arte e poesia “Incantesimi” a
Bomarzo, ambedue gli stimoli furono esposti e sottoposti a diversi passanti
all’interno di una stanza vuota a piazza Duomo n. 11. Ogni soggetto veniva
invitato a leggere attentamente la seguente istruzione: “ascolterai una
sequenza di stimoli sonori; il tuo compito alla fine sarà quello di descrivere
una storia che illustri dettagliatamente ciò che secondo te è accaduto”.
1
2
Tra il 1994 ed il 1996 fu per me molto importante la vicinanza teorica e metodologica di Giovanni di
Stefano, proprio per lo studio sulle possibilità di costruzione di uno stimolo acustico eventualista.
PIERO MOTTOLA, Uno stimolo acustico emotivamente evocativo costruito sperimentalmente, “Rivista di
Psicologia dell’Arte”, Roma, 1995.
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PIERO MOTTOLA
Il libro Storie è il risultato di trenta interpretazioni dello stimolo A9 Paura
> Gioia.3 Non ci fu Bortolotti ad ascoltare i miei brani acustici.Tuttavia
con lui ascoltai subito fuori la sala sperimentale, in silenzio, una serie di
poesie declamate da diversi poeti da un palchetto.
Qualche anno dopo decisi di invitare Mauro Bortolotti presso il mio studio
in via Filippo Turati per fargli ascoltare una nuova composizione, Articolazione
emozionale 1, e in particolar modo una ricerca allora appena avviata
sull’analisi degli spettri acustici e sui loro contenuti estetici, cromatici ed
emozionali. In quell’occasione Bortolotti mi parlò di Stravinskij, spiegandomi
che per lui la musica era un semplice montaggio di mattoni e che nel
comporre bisognava vietarsi di esprimere la propria interiorità. Poi continuò
citando più volte Goffredo Petrassi, il suo maestro, poi Schönberg e la
dodecafonia e il limite derivante dal costringere la musica in regole molto
restrittive. Quindi, pensando di nuovo a Petrassi, mi parlò di un qualcosa…
che doveva necessariamente intervenire per rilanciare, far rivivere le regole.
Tuttavia rimase incuriosito dai miei studi sugli spettri acustici e dalla
composizione Articolazione emozionale 1, che nasceva considerando i valori
di relazione della mia prima mappa (fig. 1) sulle Distanze emozionali.4
Continuò poi illustrandomi le sue esperienze degli anni ’70 con Pietro
Grossi presso l’Università di Pisa, del suo enorme computer e del tempo
necessario per la costruzione di suoni astratti, sintetici.
Nella mia presentazione-esecuzione di Articolazione emozionale 1 presso la
sala conferenze del MACRO nel 1999 Paola Ferraris fece un intervento
recitando un vecchio testo scritto su di me da Sergio Lombardo, Marta
Olivetti Belardinelli, parlando di un esperimento che andavo in quei giorni
illustrando a un suo studente laureando sulla saturazione dello stimolo
acustico nel tempo, e Mauro Bortolotti, riflettendo sulla opportunità (o
meno) di diplomare un nuovo compositore senza avergli mai spiegato per
anni i fondamenti della musica.
La mia memoria del primo incontro a Jartrakor mi portò successivamente a
chiedere a Sergio Lombardo e a Mauro Bortolotti di scrivere un testo
PIERO MOTTOLA, Storie - interpretazione di stimoli sonori, a cura del Museo Laboratorio delle Arti
Contemporanee dell’Università della Tuscia di Viterbo (edizione limitata),Viterbo, 1995-96. Cfr.
SIMONETTA LUX - MIRIAM MIROLLA, Incantesimi-scene d’arte e poesia a Bomarzo, a cura del Museo
Laboratorio delle Arti Contemporanee Università della Tuscia di Viterbo,Viterbo,1996; ENRICA TORELLI
LANDINI, in Incantesimi - scene d’arte e poesia a Bomarzo cit.
4
Cfr. PIERO MOTTOLA, Coinvolgimento emozionale nella percezione di stimoli acustici, Università di Roma
La Sapienza, Roma, edizioni Kappa, 1988.
3
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PER MAURO BORTOLOTTI: MEMORIA ED ESPERIENZA DI UN'OPERA A QUATTRO MANI INCOMPIUTA
fig.1 Piero Mottola, Distanze Emozionali, 1998
introduttivo per il mio primo disco, Percorsi emozionali 1995/2001.5
Lombardo scriveva: “[…] il rumore di una moto che corre seguito da un
rumore di un incidente stradale suggerirebbe a molti ascoltatori che la
moto si è schiantata contro un altro veicolo. Ma il rumore di una moto che
corre seguito dal ruggito di un leone potrebbe far pensare che il
motociclista fosse un cacciatore, oppure che un leone fuggito dallo zoo si
fosse presentato sull’autostrada di fronte al motociclista, oppure che il
motociclista fosse andato a vedere un documentario sui leoni, etc. Il
5
PIERO MOTTOLA, Percorsi emozionali 1995/2001, compact disc, edizione MUSPAC L’Aquila, SSSSHT!
Roma, 2002.
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PIERO MOTTOLA
secondo stimolo sarebbe allora più eventualista del primo, perché
scatenerebbe almeno tre diverse interpretazioni, mentre il primo ne
scatenerebbe solo una”. Bortolotti scriveva: “[…] Credo che confrontare la
varietà o la validità delle risposte di fronte al medesimo stimolo – pioggia,
frenata, bacio – possa essere di grande interesse per una psicologia
dell’ascolto e comportamentale. Certo ci si può chiedere quanto tali
risultati, oltre ciò che si è detto, si possano tradurre in termini (ammesso
che li si volesse) formali, estetici, specie mancando in alcuni casi una
preparazione specifica, musicale. Ma è evidente che qui altre sono le finalità;
è altrettanto evidente che, grazie all’esperienza personale di natura
essenzialmente artistica, Mottola non può non aspirare al raggiungimento di
risultati estetici, formali.Tra l’altro, essendomi io spesso incontrato con Piero
durante le sue esperienze, ho avuto l’occasione di apprezzare i risultati del
suo lavoro nella loro globalità fino ad augurarmi una futura collaborazione”.
Dopo la mia esecuzione di Astratto 2 (fig. 2) nell’ambito del “Progetto Musica
2002”, invitato dall’associazione “Musica Experimento” diretta dal compositore
fig. 2 Piero Mottola, Astratto 2, per rumori, sei diffusori, dieci emozioni, 2002
Enrico Cocco,6 inizia a partire dai primi mesi del 2003 l’assidua
frequentazione compositiva con Mauro Bortolotti presso il mio studio di
Piazza Camerino. Bortolotti ascolta con attenzione il risultato estetico di
Astratto 2 e il metodo costruttivo impiegato a partire dalla mappa a 10
emozioni. Dopo vari ascolti di un brano necessariamente astratto e privo di
riferimenti citazionisti, Mauro mi propone qualche variazione, al fine di esaltare
6
Musica e Arte: La Scrittura del Suono, Astratto 2, Azione sonora di Piero Mottola, Pietralata Centro
Urbano, a cura dell’associazione “Musica Experimento”, 22 novembre 2002.
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PER MAURO BORTOLOTTI: MEMORIA ED ESPERIENZA DI UN'OPERA A QUATTRO MANI INCOMPIUTA
e reiterare alcuni elementi altrimenti troppo isolati, il grido seppure astratto.
Poi, di rinforzare alcuni crescendo con il rombo di una moto. Registriamo
quello della moto del suo amico Biagio Minnucci ad Anguillara nel giardino
della casa di Simonetta Lux, una Moto Guzzi modello EW. Il rombo del
motore si fonde, si ripete, si esalta in varie e differenti combinazioni con il
grido. Da Astratto 2, composto da me in totale assenza di espressività, si arriva
a una composizione a carattere espressivo, drammatico, quasi di denuncia,
tanto che Mauro propone di dedicarla a uno dei troppi e sanguinosi massacri
del Medio Oriente. Si perde di vista il mio sistema compositivo, che
d’altronde non potrebbe che svilupparsi autonomamente secondo le sue
logiche interne elaborate nell’autocorrelatore a partire dal 1999.7
Nei successivi incontri Bortolotti porta con sé varie sue opere importanti:
in particolare, una straordinaria esecuzione di Simmetrie da parte del duo
Severino Gazzelloni / Bruno Canino alla Biennale di Venezia, credo nel
1965; brani di una composizione elettronica, realizzata con la
collaborazione di Pietro Grossi, Mottetto, e poi Ein feste Burg,
composizione per due organi eseguita nella Basilica di San Giovanni nel
2002. Si decide di inserire alcuni brani elettronici dal Mottetto e di
intensificare il dramma finale del grido, già miscelato con il rombo della
moto, incuneandovi alcuni inserti con forti attacchi degli organi. Lavoriamo
alla composizione per circa quattro mesi con momenti di forte e intenso
interesse. Depositiamo presso la Siae Variazioni sul grido versione A per
solo nastro (2003), autori Bortolotti e Mottola (fig. 3).
Successivamente Bortolotti decide di inserire anche alcuni strumenti. Il
fig. 3 Mauro Bortolotti, Piero Mottola, Variazioni sul grido A, nastro magnetico digitale, 2003
7
PATRIZIA FERRI, Il colore delle emozioni, “La Repubblica. Musica”, n. 325, Roma , 25 aprile 1999. Cfr. PIERO
MOTTOLA, Autocorrelatore 1.0 Generatore automatico di composizioni emozionali acustiche e cromatiche,
“Titolo”, Perugia, 2006.
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PIERO MOTTOLA
violoncellista Bernardino Penazzi si rifiuta di eseguire la parte, in quanto opera
già molto intensa e chiusa, insomma non bisognosa di un intervento
strumentale. È il gruppo “Aleanova”, diretto da Alessandro Sbordoni, a
improvvisare e interpretare la partitura scritta da Bortolotti per essere
combinata con il brano elettronico da noi precedentemente realizzato.
Tuttavia l’esecuzione nel corso della serata inaugurale del 40° festival di
“Nuova Consonanza” da parte dei componenti del gruppo “Aleanova” è tale,
nell’accentuare l’esuberanza strumentale del brano, da annientare totalmente
la presenza del nastro nel quale avevamo organizzato ed esaltato alcuni effetti
speciali.8 Alessandro Sbordoni, dopo una mirabile prova che vedeva lo
scrivente alla regia del suono per la parte elettronica, tra l’altro alla presenza di
Daniele Lombardi, Bernadino Penazzi ed Elio Martusciello, chiede di far gestire
il volume e l’equalizzazione del suono a Giovanni Guaccero, componente e
musicista elettronico del gruppo, pena il ritiro dell’opera. Raccogliamo notevoli
applausi nonostante il risultato pesantemente alterato. Si decide allora di farne
un disco, registrando l’esecuzione strumentale. Presso la sala di registrazione di
Igor Fiorini, componente di “Aleanova”, si ripete la stessa ‘battaglia’ tra
strumentisti e compositori, almeno per quanto mi riguarda, tanto da farmi
venire alla mente ciò che Edgar Varèse scriveva a proposito degli esecutori nel
manifesto della “Lega Internazionale dei Compositori”:
Il compositore è, tra i creatori contemporanei, il solo cui è negato un contatto
con il pubblico. Una volta che il suo lavoro è compiuto, egli viene messo da
parte e fa la sua comparsa l’interprete, non per cercare di capire la
composizione, ma per giudicarla con impertinenza. Se non vi trova traccia delle
convenzioni a cui è abituato, la esclude dal proprio repertorio denunciandola
come incoerente e incomprensibile.9
In occasione della mostra collettiva presso il Palazzo Orsini a Bomarzo nel
2004, curata da Simonetta Lux ed Elisabetta Cristallini, nella sezione
“Azioni sull’arte”, facciamo ascoltare la versione per solo nastro, Variazioni
sul grido versione A per 10 emozioni, rumori, moto Guzzi EW.10 Per il
comunicato stampa illustro le modalità di costruzione del lavoro sonoro,
MAURO BORTOLOTTI, PIERO MOTTOLA, Variazioni sul grido B, per dieci emozioni, rumori, motore di moto,
sintesi ed ensemble strumentale, Gruppo Aleanova, 40° Festival Nuova Consonanza, American
Academy, Roma, 2003.
9
EDGAR VARÈSE, Il suono organizzato, Milano, Edizioni Ricordi/Unicopli, 1985, p. 40.
10
Cfr. SIMONETTA LUX – DOMENICO SCUDERO, Incantesimi. Scene di arte e poesia a Bomarzo. IV Edizione
Castello Palazzo Bosco. Azioni dell’arte, in preparazione.
8
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PER MAURO BORTOLOTTI: MEMORIA ED ESPERIENZA DI UN'OPERA A QUATTRO MANI INCOMPIUTA
definendo e differenziando le competenze:
Il “Modello di relazione a dieci emozioni”, elaborato da Piero Mottola a partire dal
1997 è un sistema che permette di costruire un alto numero di articolazioni
emozionali a diversi livelli utilizzando rumori figurativi e astratti, colori, nonché di
costruire aggregazioni timbriche inusitate, enigmatiche e coinvolgenti. Astratto 2,
costruito nel 2002 da Piero Mottola, è stato organizzato secondo il seguente
percorso emozionale: sei emozioni negative identiche crescono nel tempo
aumentando progressivamente il valore di distanza. La prima delle sei emozioni che
raggiunge il massimo contrasto fa nascere una identica emozione. Nel momento in
cui tutte e sei le emozioni hanno prodotto dei rafforzamenti della loro identità, non
avendo più possibilità di moltiplicarsi iniziano una decrescita fino al minimo
contrasto emozionale, laddove inizia un nuovo rafforzamento dell’identità positiva,
progressiva e per tutte e sei le relazioni. La regola esaurisce autonomamente lo
sviluppo con un addensamento di stimoli emozionali indefiniti. L’articolazione
emozionale ha considerato i rumori emozionali meno riconoscibili del campionario,
modificati in ampiezza, sovrapposizioni, eseguiti al contrario, con riverberazioni, fino
al limite della riconoscibilità. Questo lavoro costituisce l’inizio di una ricerca
sperimentale per la costruzione di strutture acustiche evocative, non referenziali.
Per Variazioni sul grido A, Astratto 2 diventa il percorso emozionale di partenza. Le
logiche compositive di questo brano, non convenzionali dal punto di vista della
composizione musicale contemporanea e dell’approccio del musicista nel
comporre musica, hanno stimolato in Mauro Bortolotti l’interesse a modificarne il
risultato secondo metodi e impostazioni tipiche della ricerca musicale di
avanguardia. Il grido diventa il tema che, variato secondo schemi imprevedibili, si
sviluppa investendo tutta la composizione definendone la forma, il carattere,
seguendo ed integrandosi nei movimenti emozionali di Astratto 2. Mauro Bortolotti
ha pensato l’intervento strumentale, ha introdotto parti di sue opere storiche.
A un grido campionato, comune e anonimo, subentra su indicazione di Mauro
Bortolotti quello del soprano Keiko Morikawa. Registriamo presso il mio studio
di via Aleardo Aleardi diverse grida della cantante nell’estate del 2005. Di
nuovo la versione per solo nastro diventa il motivo dominante su cui la voce
del soprano e un clarinetto seguono a tratti improvvisando le indicazioni di una
nuova partitura per voce e strumento scritta da Mauro Bortolotti in occasione
della presentazione del lavoro al Goethe Institut di Roma, nell’ambito di
“Progetto Musica 2005”, a cura dell’associazione “Musica Verticale”.11
L’esecuzione alquanto estraniante del Goethe Institut apre la strada ad
11
Il filo conduttore del XXVII festival di “Musica Verticale” è stato il rapporto tra arti visive, danza,
poesia e musica. Il 15 dicembre 2004, alle ore 21.00, presso l’Auditorium del Goethe Institut-Rom
Mauro Bortolotti e Piero Mottola hanno presentato Variazioni sul grido, versione C per soprano,
sassofono e nastro magnetico.
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PIERO MOTTOLA
altri incontri di lavoro, nel corso dei quali Mauro Bortolotti pensa di
elaborare ulteriormente le urla della cantante, di trasformarne il timbro,
insomma di contenere l’improvvisazione casuale del grido.
Successivamente ritorna con una serie di oggetti strumentali, legni, sonagli,
etc. e addirittura un giorno con delle semplici matite rinforza il solido e già
denso nastro della prima versione elettronica con ritmi, introduzioni,
attacchi tendenzialmente improvvisati e nati dall’ascolto in tempo reale del
nastro. Intanto agli inizi del 2005 Simonetta Lux propone la pubblicazione
di un compact disc che documenti tutta la ricerca e i risultati acustici con
una edizione a cura del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della
“Sapienza”.
Mauro Bortolotti propone di incontrarci ancora per terminare il lavoro. Ci
vediamo, lo riascoltiamo e lo ritocchiamo per l’ennesima volta.Verso la
metà di agosto del 2006, in una simpatica e cordiale discussione telefonica,
il maestro lamenta la necessità (l’urgenza) di terminare il lavoro intrapreso.
Non sono sicuro che ci sarà una conclusione dell’opera iniziata alcuni anni
or sono.Tuttavia rimane in me l’emozione di un’esperienza conoscitiva e
formativa condotta insieme a Mauro Bortolotti, compositore
d’avanguardia estremo.
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Non solo musica: un incontro speciale
Maria Chiara Pavone
Quando al ritorno dalle vacanze l’amica Daniela Tortora mi ha chiamato,
chiedendomi una testimonianza scritta per Mauro, ho subito provato una
grande gioia: mi veniva offerta la possibilità di dare forma e voce alla storia
di un incontro, di un’ amicizia iniziata esattamente vent’anni or sono, e che
mi ha accompagnata quindi fin dagli esordi della mia vita romana. Amicizia
che si è via via modificata e arricchita in un intreccio sempre più stretto e
intimo tra collaborazione professionale e vicende personali, delle quali è
sempre stata testimone affettuosa. Mi è quindi pressoché impossibile
parlare di Mauro senza raccontarmi almeno un po’ e fare qualche
riferimento alla mia vita privata.
Ero da poco arrivata a Roma da Palermo, la mia città, dopo una non breve
permanenza in Germania, che aveva già svelato il taglio particolare dei miei
interessi musicali, non scontato per una giovane studentessa di canto italiana,
quando conobbi Luca, figlio di Mauro. Con lui avrei condiviso i successivi
dieci anni della mia vita in uno strettissimo rapporto che ha lasciato in me
un’impronta indelebile e profonda, grazie anche alla particolare atmosfera di
cultura vera e vissuta che si respirava a casa Bortolotti.
Per tradizione familiare ero stata abituata a considerare ‘cultura’ le
conoscenze scolastiche e obbligatorie derivanti dalla frequentazione del liceo
classico, la portata reale delle quali non ero stata allora in grado di
comprendere se non in minima parte. Il nozionismo e il gusto della citazione
fine a se stessa, riferiti peraltro a un mondo classico tanto ’imprescindibile’
per la nostra formazione, quanto aulico e distante, sembravano essere
intorno a me l’unico frutto rimasto di tali studi, non avendo tra l’altro mai
incontrato insegnanti particolarmente ispirati o illuminanti.
A casa Bortolotti l’amore per la cultura, che si manifestava sotto varie
forme, padre e figlio diversissimi tra loro, era comunque tangibile e
sicuramente autentico e lontano da qualsivoglia forma di mondanità o
interesse per ‘l’evento’ fine a se stesso. In Mauro traspariva quello stesso
giovanile entusiasmo per la scoperta del pensiero ‘alto’ che doveva averlo
spinto a coltivarsi e a lasciare la sua amata Narni, per diventare un
protagonista dell’avanguardia artistica romana a partire dagli anni ’60.
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MARIA CHIARA PAVONE
I suoi libri, presenti oltreché nelle numerose librerie su ogni superficie
libera dello studio-salotto (l’ordine non è il suo forte), mi sembravano
davvero essere - e rappresentano tutt’ oggi per Mauro - vivi interlocutori
e compagni di strada, continue fonti di ispirazione, come le partiture e i
quadri che in questi anni hanno via via affollato sempre più numerosi le
pareti dell’appartamento, ognuno con la sua storia frutto di incontri
particolari e personali. Erano parte integrante di questa atmosfera i suoi
contatti con gli amici poeti, nomi che spesso mi erano allora in buona
parte sconosciuti, e che pian piano, anche se solo attraverso le parole
scritte, ho anch’io imparato a conoscere. Le sue lezioni di composizione suoi allievi erano durante quegli anni la stessa Daniela Tortora, Lucio
Gregoretti, Lucia Ronchetti e Fabrizio De Rossi Re, Enrico Cocco e Paolo
Rotili, Fausto Sebastiani, Paolo Pachini, Francesco Rimoli e Cristina
Cimagalli - erano inviti continui a conoscere e penetrare il mondo
dell’arte nella sua totalità, dall’analisi delle musiche del presente o del
passato alla discussione sul film visto al cinema la sera precedente. Non
che io abbia mai integralmente assistito a tali lezioni, anche se incontravo
spesso i ragazzi a casa sua, dove naturalmente trascorrevo molto del mio
tempo.Tuttavia del suo impegno didattico, del suo rapporto con gli allievi
Mauro parlava sempre con l’entusiasmo che un vero maestro prova
quando ha occasione di comunicare le cose che ama, riscoprendole e
spesso rivisitandole. Molto amata doveva essere per esempio la scena
dell’arrivo della Messaggera, nell’ Orfeo di Monteverdi, di cui un pomeriggio
spiegò non so più a chi, suonandola al pianoforte e cantandola con la sua
voce un po’ roca, la grande modernità di linguaggio. Inizialmente io non
ero ancora diplomata, e approfittavo quindi di Mauro anche per farmi
accompagnare al pianoforte in quei brani che erano oggetto dei miei
studi, dal Panofka a Caro nome. Molti dei miei spartiti d’opera sono suoi
regali di quel periodo, come un volume di liriche di Tosti, che ci tenne a
farmi conoscere. In seguito, tante in vent’anni le occasioni per un presente,
ho ricevuto specialmente opere di poesia, cui mi sembra si sia accostato
sempre di più col passare del tempo. A questo proposito mi viene in
mente lo stupore, ammirato e insieme divertito, di una cara amica che mi
ha accompagnato da Mauro nel periodo in cui stava scrivendo, ancora
pochi mesi fa, un brano per voce recitante e orchestra, su testo di Rilke,
commissione dell’Orchestra Regionale del Lazio. Essendo in quel
momento del tutto concentrato sulla sua composizione, cominciò a
leggerci i versi cui si stava ispirando, interpretandoli con tale verità da
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NON SOLO MUSICA: UN INCONTRO SPECIALE
riuscire a farli apparire sotto una nuova luce anche a me che li avevo letti
da poco, come svelandomene il senso più profondo.
Ma vorrei tornare brevemente a quei primi anni della nostra amicizia per
ricordare ancora le frequenti letture degli amati Lieder all’insegna
innanzitutto del piacere di fare musica insieme, Hausmusik di solito a
nostro esclusivo uso e consumo, anche se Mauro ogni tanto mi chiedeva
di cantare quando aveva degli ospiti, e Luca e io eravamo in casa. Questo
mi appariva allora come un momento di condivisione più paritario, grazie
alla mia conoscenza del tedesco, agli studi approfonditi e recenti, e al mio
grande trasporto per questo genere musicale. Così una sera, con
divertimento ed emozione, ci buttammo nell’esecuzione di alcuni Lieder di
Schumann, ospite Paul Badura Skoda, nonostante la voce fredda e un
notevole senso di sazietà derivante dalla lauta cena preparata dalla zia
Paola, sapiente maestra di ‘manfrigoli’ e manicaretti narnesi, e da
Simonetta, celebre per il suo ciambellone. È in questa atmosfera che è
nata la nostra collaborazione professionale, ed è naturalmente merito e
’colpa’ di Mauro che io mi sia ritrovata a essere considerata una specialista
di musica contemporanea…
Non so più se il suo primo pezzo che ho studiato sia stato il Sine nomine,
eseguito alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel cui ideale scenario
ebbero luogo alcune stagioni di “Nuova Consonanza”, o le Poesie di
Éluard, destinate a diventare il mio cavallo di battaglia. So che ricordo con
estrema freschezza l’iniziale senso d’impotenza, per non dire di sgomento
provato quando, messa di fronte a quelle pagine piene di segni ‘altri’ e
sconosciuti, mi venne chiesto di riuscire a decifrarli e interpretarli davanti
al pubblico. Anche se sono davvero passati tanti anni, e un certo linguaggio
dovrebbe essere divenuto più consueto al nostro ascolto, riscontro lo
stesso tipo di risposta quando a mia volta provo a sottoporre partiture
contemporanee ai miei allievi del conservatorio. Ciò che rende
innanzitutto capaci di effettuare il ‘salto’ non è tanto il talento musicale,
certo poi indispensabile per affrontare lo studio di musiche così difficili,
quanto la curiosità, il desiderio di confrontarsi con altro, la capacità di
essere aperti e di non giudicare, e per me questo atteggiamento,
volendomi anche attribuire qualche merito, fu comunque naturalmente
facilitato dal fatto che a propormi tale impegno fosse proprio il
compositore, e Mauro in particolare. La qualità della mia formazione
culturale mi rendeva inizialmente difficile accettare a priori qualcosa che
fosse così al di fuori della tradizione; a un certo punto dovetti rendermi
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MARIA CHIARA PAVONE
conto del fatto che tra noi quello più giovane, aperto e libero fosse
proprio lui. Fu per me un momento importante. Penso che ancora oggi
quello che colpisce di più chi ha modo di incontrare Mauro per la prima
volta sia proprio questo suo animo naturalmente fanciullo e
anticonformista, col quale ho tuttora modo di confrontarmi spesso su un
terreno per me nuovo e assai più impervio di qualunque partitura: quello
dell’educazione di una bimbetta assai monella, a cui il destino ha tolto il
padre, ma ha regalato un ‘nonno’, il nonno Mauro per l’appunto,
che con immenso affetto e tenerezza ci è costantemente vicino in questa
nuova avventura… ma torniamo per adesso alla musica.
All’inizio il problema era il solfeggio… quando incontravo dei gruppi di nove
o undici note, magari a cavallo di battute diverse, pretendevo di suddividerli
esattamente, e che si combinassero poi alla perfezione con gli eventuali altri
gruppi irregolari scritti per i restanti strumenti. E che fosse il compositore
stesso a spiegarmi che il risultato di tale scrittura dovesse essere non un
mero quanto complicato calcolo matematico, ma un senso di mobilità, di
nervosa irrequietezza, di voluta irregolarità e insicurezza, non soddisfaceva la
mia ricerca di precisione. Continuavo allora a chiedegli: “Ho capito, ma mi fai
sentire comunque come solfeggi questo passaggio?”. E sotto sotto gliene
volevo quasi per aver scritto qualcosa che non fosse poi eseguibile alla
lettera… (succede comunque ogni tanto di arrabbiarsi con i compositori, e
a volte davvero a ragione!)
Quando oggi mi ritrovo fra le mani una (vecchia?) partitura di Mauro che
ancora non mi sia capitato di eseguire, come si è verificato con L’attesa e
con il Contre 2 per questa stagione 2006 di “Nuova Consonanza”, mi basta
ormai uno sguardo per capire quale sia il senso di quelle frasi spezzate, delle
volatine che si dissolvono in ghirigori ascendenti, della violenza sottesa
all’intersecarsi di segni neri e spessi, che negli anni si è comunque via via
addolcita, della nostalgia evocatrice di certe notine tra parentesi, buttate lì
come echi accidentali; ne leggo come fosse evidente il passaggio fluido e
continuo dall’ ironia alla poesia e viceversa. Questo è al tempo stesso il
frutto del mio percorso attraverso la sua musica, di quella ricerca di significati
non sempre immediati che mi ha obbligata a dare un senso, il ‘mio’ senso, ai
numerosi brani bortolottiani che ho avuto la ventura di eseguire in questi
anni. Certa ormai che la mia lettura risulti in ogni caso affine e aderente alla
poetica e allo spirito profondo di quelle pagine, siano quelle forti e
impegnate degli anni giovanili, o quelle più morbide e intime della maturità.
E questo è per me un grande risultato. In questi giorni sto studiando il
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NON SOLO MUSICA: UN INCONTRO SPECIALE
Contre 2. Stamattina, aprendone la partitura, ho scoperto due fogli
improvvisamente percorsi da arabeschi gialli, tracciati dalla piccola Marta in
un momento di mia fatale distrazione…Riguardandoli, mi sembra che si
integrino a meraviglia con i segni ondeggianti della partitura che ho sotto gli
occhi, richieste di colori e di emozioni. Credo proprio che a lui piaceranno.
Mauro Bortolotti, Contre 2, pp. 41-42.
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A Mauro nel suo ottantesimo anno
Elio Pecora
La voce del silenzio, il tramestio
delle foglie nell’ombra,
l’ansimo, il grido, il motivo accennato
dove il mondo si svela:
così l’antico sapiente
recando pesi udiva
parlare l’anima:
così prosegui nei giorni
cauto e arrischiato
- ragione estrema di un sogno.
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Ricordi lontani di un'amicizia
Achille Perilli
Negli anni passati, e il mio ricordo risale lontano, auspice Goffredo
Petrassi, mi ritrovai nella sua casa per incontrarmi con un gruppo di
giovani suoi allievi.Voleva il maestro che noi giovani, provenienti da arti
diverse, ci incontrassimo per scambiare esperienze e idee in quell’inizio
del nostro lavoro. In quegli anni, e parlo di una Roma vivace e curiosa,
ci scambiammo conoscenze e modi di lavorare, che nascevano da una
comune volontà di uscire da quel clima stantio e provinciale quale era stato
quello italiano sino ad allora, per immergerci nella nuova avanguardia che
stava nascendo in Europa, e in campo musicale e nelle arti figurative. Per me
il terreno di scambio diventò il gruppo di “Nuova Consonanza”, del quale
feci parte pur non essendo musicista, per volontà di Franco Evangelisti. Fui
immerso quindi in un mondo diverso, frequentando amicizie ed esperienze
di quell’insieme di musicisti che mi svelarono la conoscenza di quanto
avveniva nel mondo della musica. Il mio sapere, in questo campo, aveva
avuto un inizio con quello che avveniva nell’ambito del jazz, soprattutto con
la “New Orleans Jazz Band”, della quale ero divenuto allora amico,
collaborando persino con i miei compagni di pittura al loro primo concerto
a Roma. Da allora, ogni giovedì ed ogni sabato, mi vedevano scatenato nella
danza al suono della band, nel locale dove suonavano.
Ricordo un uomo che in quegli anni fece da tramite, con le sue
conoscenze, tra quella musica e l’avanguardia musicale. Era Mario Olivieri,
proprietario di una collezione di dischi, sicuramente la più straordinaria a
Roma in questi due campi. Debbo confessare che il passaggio dall’uno
all’altro mondo mi fu perfettamente congeniale, e mi introdussi con agilità
in quella avanguardia che da Darmstadt si divulgava in tutta Europa, dalla
Germania di Stockhausen alla Francia di Boulez, per arrivare in Italia,
a quel gruppo animato da Franco Evangelisti, che con il nome di “Nuova
Consonanza” diffuse in quegli anni difficili la musica d’avanguardia in Italia.
Furono anni felici di scambi tra le arti, di concerti, di dibattiti, di litigi, e
soprattutto di amicizia tra quanti allora facevamo parte del gruppo.
Con molti di loro ebbi occasione di lavorare anche alle mie esperienze
teatrali, soprattutto quando costituimmo il gruppo ALTRO.
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ACHILLE PERILLI
Debbo riconoscere, con rammarico, di non aver fatto mai, in quegli anni,
un lavoro in collaborazione con Mauro Bortolotti, allora attivo come me
nel campo delle esperienze teatrali. Questa non fu una mia scelta, che al
contrario amavo molto le composizioni di Mauro e che seguivo nei suoi
svolgimenti creativi, ritrovandomi spesso in quel clima che avevamo
contribuito a costruire in partenza. Oggi, sulla soglia degli ottant’anni, mi
piace ricordare il lungo sodalizio che ho avuto con lui, la duratura
comprensione della sua musica e la lunga frequentazione con il suo lavoro
di sperimentatore, non solo in campo musicale, ma anche e soprattutto
con la sua passione per la danza sperimentale. Sono sicuro che la sua
curiosità nel campo creativo musicale è rimasta intatta, vivace e
soprattutto poetica, quale mi si rivelò nei nostri felici anni della gioventù:
vivacità poetica e creatività nel mio lavoro quanto nel suo.
Orvieto, 18 agosto 2006
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Attilio Pierelli
Caro amico, Maestro Mauro Bortolotti,
Come promesso dopo l’esecuzione del tuo pezzo all’incontro
“Incantesimi” [Bomarzo, 2004], eccomi diligente a mantenere l’impegno di
scriverti due righe sul mio rapporto con la musica.
Debbo confessare che la mia cultura musicale è modestissima, si limita
all’apprendimento del solfeggio imparato e dimenticato all’epoca dei miei
anni verdi. Posso però dire di amare la musica, ma in modo istintivo,
secondo le emozioni che ne ricevo scelgo gli autori.Tutto qui.
Senonché mi è capitato, non so come sia avvenuto, di fare lo scultore e
questo vizio ancor non m’abbandona. Quando avevo lo studio sotto la
casa di via Revere, nel locale vi erano un certo numero di opere in acciaio
inox speculare. Quando avevo tempo per andare a lavorare in quel locale
avevo come adesso l’abitudine di cantare, canticchiare e fare anche
qualche acuto: per fortuna non ne è rimasta traccia. Però mi ricordo che
le superfici delle lastre entravano in vibrazione, mi rispondevano.
Una volta provai ad appoggiare un vibratore per massaggi muscolari sopra
una grande superficie: il risultato mi colpì piacevolmente. Conoscevo Vito
Annicchiarico, tecnico del suono, e gli proposi di realizzare una
attrezzatura per ottenere dei suoni dalle sculture. Nacque così la prima
Sonarinox.
Negli anni ’60 vi erano alcuni artisti che realizzavano oggetti sonori, ora
non ricordo molti nomi, ma a Parigi vi era Nicola Schöffer che produceva
opere di questo tipo. A Roma vi fu una mostra alla galleria dell’Obelisco,
alla quale anch’io esposi una o due opere sonore.Tu conosci meglio di me
la situazione musicale di quegli anni e conosci anche Michiko Hirayama,
che al tempo incontravo spesso e che debbo ringraziare per avermi fatto
conoscere tutti, dico tutti i musicisti contemporanei che vivevano o
passavano a Roma.
Sempre nel mio studio di via Revere venne eseguito il primo concerto di
scultura con appunto Michiko, [Sylvano] Bussotti e Vittorio Gelmetti. Il
secondo concerto per sculture venne poi eseguito in via Lucrezio Caro, o
via Belsiana (?), in uno scantinato adibito a manifestazioni d’arte, con gli
stessi esecutori. Nel 1966 venni invitato a Spoleto durante il Festival, dal
maestro Giancarlo Menotti: il concerto venne eseguito verso
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ATTILIO PIERELLI
mezzogiorno al teatro Caio Melisso, e ripetuto in piazza la sera stessa.
Nel 1967, se non sbaglio, ci conoscemmo in occasione dell’annuale
incontro di “Nuova Consonanza”. La direttrice della Galleria Nazionale
d’Arte Moderna mi chiese di portare la Sonarinox che venne posta
all’ingresso della Galleria stessa quale tratto d’unione fra la musica e la
scultura. Poi la Bucarelli volle acquistare l’opera che rimase lì esposta
per dodici anni.
Lungo lo scorrere del tempo l’idea di assistere alla evoluzione delle
premesse di quegli anni non mi ha mai abbandonato. Nella mia
immaginazione c’è sempre presente il desiderio che la musica classica
divenga musica moderna, ma per fare questo è necessario costruire nuovi
strumenti, apparecchi sempre più sofisticati.
È una meta che si potrà raggiungere, credo, come dimostra l’esempio del
risultato ottenuto con la mia scultura, attraverso la quale sono entrato nel
mondo delle quattro dimensioni: così come era avvenuto nel ‘400 ad
opera di artisti i quali, con una superficie bidimensionale, operarono il
miracolo di esplorare quella terza dimensione sulla quale molti artisti oggi
operano. A me importa che la musica contemporanea riesca a far sì che
un concerto sia adatto a modificarsi a seconda dell’ambiente in cui è
eseguito, così da assumerne le più segrete espressioni estetiche.
Come ti sarai reso conto quando ci siamo salutati a Bomarzo, ero molto
eccitato perché la tua musica ha risposto a quanto ho appena scritto,
tramite l’apocalittica grandiosa forza che hai impresso alla tua opera: così
come la scultura diventa luogo, il luogo scultura, il luogo diventò musica e
la musica luogo.
Profondamente grato di queste emozioni spero di rivederti presto.
Con affetto
Roma, 18.IV.2004
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L'amico del suono.
Rappresentazione scenico-musicale in un'ouverture, tre movimenti
e un'intervista in quattro domande
Attore principale: Mauro Bortolotti, compositore
Comprimario: Giovanni Pizzo, pittore geometrico-operazionale
Giovanni Pizzo
Ouverture
Mauro per me non è uno sconosciuto, l’ho visto spesso nei luoghi
deputati della musica, so che è uno dei fondatori di “Nuova Consonanza”
e che ha insegnato nei Conservatori di Frosinone e di Santa Cecilia.
Si è sempre interessato alla pittura, frequentando le gallerie d’arte di via
del Babuino, di via Margutta, di via Vittoria e della Salita di via San
Sebastianello (la Cassapanca, la Fontanella, la Medusa, la Numero, la Nuova
Pesa, la Primo Piano, la Salita e la San Marco), oggi purtroppo scomparse.
È sempre indaffarato a comporre nuovi lavori, a seguire i concerti e gli
eventi culturali che lo interessano e parte del suo tempo lo dedica alla
lettura, a incontrare e parlare con i suoi ex-allievi, ormai tutti colleghi illustri.
Di certo è un personaggio importante nel panorama della musica
contemporanea, tanto che il suo ingresso nelle varie sale da concerto è
sempre salutato da un’infiorata di sorrisi, alcuni veri, altri di convenienza
com’è naturale.
Primo movimento: L’incontro
Nota scenografica:
Il MLAC (Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università di Roma
“La Sapienza”), con i suoi duali e sovrapposti luoghi espositivi leggermente
ellittici, le loro ricorsività binate di luci continue, la sala dei rinfreschi, la terrazza
emiciclica e le doppie scale che si rincorrono.
I locali del MLAC sono gremiti di tante persone e di altrettanti schermi
invasi dal dinamismo di immagini cromatiche, astratte e non.
Diamo uno sguardo:
Nel video in un interno, schematico nelle sue linee geometriche, una
donna bella nel suo reggiseno nero tiene fra le dita una sigaretta che non
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GIOVANNI PIZZO
porta mai alla bocca.Tutto è fermo tranne il leggerissimo tremore che si
avverte nelle dita della giovane che stringono la sigaretta; questa si
consuma con una lentezza esasperante, poi la cicca cade a terra, la donna
si gira e va via in un tempo fortemente rallentato.
In una proiezione, nell’angolo fra due pareti ed il pavimento, c’è una giovane
seduta su una sedia con le gambe accavallate; poi il paradosso: le gambe in
successione binaria iniziano a moltiplicarsi da due diventano quattro, poi sei,
poi otto poi dieci, poi il busto ed il viso della donna scompaiono dietro
quell’ammasso ingombrante e pesante di arti sovrapposti.
Su un grande schermo passano teorie di camion saturi di colori diversi che
sul davanti hanno degli occhi dipinti, pieni di stupore. Gli automezzi
procedono in calettature temporali, ora rallentate ed ora accelerate, su una
strada disordinata di Bombay.Talvolta la videocamera, posizionata nel mezzo
del grande viale, riprende l’andare contrapposto degli automezzi con un
effetto dinamico inatteso, enfatizzato dalle diversificate successioni o
progressioni temporali nella dinamica dei due inversi flussi dei camion. Sul
viale ci sono degli uomini sdraiati che dormono, i veicoli non li investono, ma
paradossalmente li spingono in avanti con una delicatezza che sorprende.
In un televisore passa il dramma della morte di un uomo per incidente
automobilistico. Garze imbevute d’olio ricompongono in modo sintetico ed
essenziale le sequenze temporali dei luoghi testimoni della morte: la strada
dell’incidente con la macchina accartocciata, la sala operatoria e la corsia di un
ospedale. Da queste bende, immerse in un contenitore trasparente colmo
d’acqua, si staccano in continuazione delle bollicine bianche che lievitano verso
l’alto per poi sparire riassorbite dalla superficie del liquido. Le garze scoprono
sempre più la loro orditura, e il dramma si compie nell’immobilità assoluta,
quando dalle bende non si staccano più le vescicole bianche.
Simonetta Lux, infaticabile curatrice e animatrice delle mostre del MLAC,
mi presenta Mauro che, ancor prima della stretta di mano, mi accoglie con
il suo sorriso buono e accattivante, in contrasto bianco/nero con il
cappello floscio e a larghe tese che, indebitamente, copre la sua
capigliatura argentata, inanellata di riccioli impertinenti.
Secondo movimento: Il riscontro sul filo della logica
Nota scenografica:
È l’inizio dell’estate torrida, tutto è fermo nel calore che arrostisce gli sparuti
arbusti nei campi. Lo studio di Formello è così pieno di tele, cartoni e
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quant’altro, che a stento si riesce a vedere qualche lacerto della tessitura dei
blocchetti di tufo dei muri.
Gli occhi curiosi di Mauro e del compositore Fausto Razzi seguono i
percorsi delle mie immagini geometrico-astratte che vanno dal
bianco/nero degli anni ’60 fino all’attuale policromatismo.
I camminamenti delle immagini geometriche si strutturano in processualità
combinatorie, in visualizzazioni operazionali di equazioni e in orditure di
insiemi successivi e progressivi.
Dice Mauro: “Ma guarda! Ritrovo gli stessi percorsi fatti dalle note nei miei
lavori degli anni ’60”.
Risponde Razzi: “Si! Cambia solo il contesto da visivo a sonoro, ma gli
organigrammi seriali sono gli stessi”.
Ed io: “L’artista, sia esso pittore o compositore, può prendere in prestito le
procedure da altre discipline, riproponendole nel suo specifico contesto
come valore metalinguistico”.
Simonetta Lux: “Le immagini, siano esse pittoriche e/o musicali, oggettivano
nelle loro specificità uguali percorsi logici e procedure condivise”.
Seguono dei: “Sì, sì è vero, ci sembra proprio così!”.
Poi si va nello studio accanto al mio a vedere i quadri operazionali della
pittrice Lucia Di Luciano.
Terzo movimento: La frequentazione
Nota scenografica:
In primo piano si succedono, brevi flash temporali, i luoghi deputati dove
vengono eseguiti i lavori di Mauro: l’Auditorium dell’Accademia Nazionale di
Santa Cecilia in via della Conciliazione, il Goethe Institut-Rom, le Accademie
tedesca e svizzera, il Palazzo Orsini a Bomarzo, il Nuovo Auditorium – Parco
della Musica.
Spesso ho seguito i concerti di Mauro, sempre caratterizzati dalla
sperimentazione di nuovi linguaggi musicali.
Mauro si serve del gioco dei suoni e della ricchezza dell’orchestra come di
strumenti che gli permettono di entrare all’interno di un testo o di una
poesia. Per scoprirne e svelarne qualcosa di non detto o di non esplicito.
L’intervento timbrico e sonoro di Mauro nei testi è un valore aggiunto di
completezza, mai di snaturamento, di parcellizzazione o di disunità
concettuale con gli stessi.
Quando si chiede al compositore il perché della sua operazione
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suono/testo, lui suole rispondere: “il valore della musica è il non detto di
un testo poetico…”
Mauro rivisita musicalmente opere di scrittori e poeti quali Marziale,
Michelangelo Buonarroti, Paul Éluard, E. E. Cummings, John Berryman,
Rainer Maria Rilke, ma anche di Pier Paolo Pasolini, di Edoardo Sanguineti
e con continuità di Alfredo Giuliani.
Ma la sperimentazione di Mauro va oltre, coinvolgendo e integrando con
il suo apporto musicale anche opere di arte visiva, interessandosi ai lavori
dei pittori Antonio Capaccio e Piero Mottola.
Lungo lo snodarsi visivo di tramature segniche che invadono in successioni
verticali lo spazio, anche le note tessono i loro algoritmi musicali,
rafforzando nei segni la ritmicità e la resa di una spazialità più esplicita.
Le creazioni di Mauro Bortolotti vanno assumendo sempre più le
sembianze di vere e proprie rappresentazioni scenico-musicali, dove la
musica scava il gesto all’interno della narrazione.
L’intervista
Nota scenografica:
Esterno: un cielo di metà luglio nero di nuvole temporalesche.
Interno: l’appartamento-studio di Mauro inverosimilmente ingombro di quadri
alle pareti e in ogni dove di spartiti, libri, riviste, foglietti vari… a stento si
riesce a far posto alle coppette per un gelato.
Prima domanda: Si avverte che i vari settori delle arti stanno perdendo le loro
specificità, qual è il tuo parere?
Mauro Bortolotti: “La vera arte, la grande arte non può mai perdere la
sua specificità, perché di essa vive. Il compositore che ha una sua estesa e
profonda cultura musicale, venendo dallo studio, per esempio, delle fughe
di Bach, delle sonate per pianoforte o dei quartetti di Beethoven, come
può perdere per strada il patrimonio di conoscenze della sua formazione?
Naturalmente la musica ha sempre subito delle mutazioni, in linea con i
cambiamenti socio-culturali che si sono succeduti nel corso del tempo.
Anche il modo di suonare ha subito notevoli cambiamenti. Da tempo si
percuotono le casse armoniche degli archi, si suona oltre il ponticello,
anche usando il legno dell’archetto, così come si pizzicano le corde del
pianoforte, si percuotono le chiavi del clarinetto e dei legni in genere. E
tutto ciò non per fare scandalo con facilità, ma per un vero e proprio
arricchimento che si porta all’interno della musica e per un processo di
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ampliamento delle possibilità di produzione dei suoni. Agli esecutori si
impongono nuove responsabilità quando si chiede loro di abbandonare il
leggio per muoversi intorno al pubblico, magari recitando versi o, nel caso
di una esecutrice disponibile, di accennare passi di danza, convincendosi
tutti che il fine resta la musica con, in più, la volontà, il desiderio di
inserimento nella scena, nel teatro.
La musica non è assoluta e immobile: è un organismo vivente che – come
le altre arti e le scienze e tutto – è in continua evoluzione e da sempre ha
accolto al suo interno nuove sperimentazioni linguistiche come ulteriore
scoperta del mondo e di se stesso da parte dell’uomo-artista. Resta fatto
essenziale e irrinunciabile che tali contributi nascano da esigenze
profonde, espressive, sociali, etiche”.
Seconda domanda: Secondo te, quale posto occupa la musica nei sistemi
macro-informativi di oggi?
Mauro Bortolotti: “Qui la musica, e la contemporanea in particolare, è la
grande esclusa.Vorrei citare un vecchio “Fotogramma” di Aldo Lastella (“la
Repubblica”,15.XI.2002), nel quale, recensendo un concerto diretto da
Pierre Boulez svoltosi due giorni prima all’Auditorium Pio di Roma, si
esordiva così: “La musica, nei nostri tempi, vive una situazione paradossale;
amatissima e debordante nelle sue forme popolari e commerciali, è in realtà
la più negletta e misconosciuta fra le arti contemporanee”. Dopo aver
notato come artisti, letterati e cineasti (quali Burri e Bacon, Calvino, Carter,
Fellini o Fassbinder) siano ormai entrati nell’immaginario collettivo, nota
come i nomi e le opere di compositori moderni restino invece chiusi
all’interno di una cerchia di appassionati, e la loro musica sia in generale
sentita nella percezione collettiva come oscura, cervellotica e noiosa.
Inspiegabilmente, sembrava dire Lastella, a fronte dello straordinario impatto
che in quel concerto avevano avuto proprio brani difficili e complessi di
Berio e dello stesso Boulez. Una annotazione personale: ricordo le
espressioni del pubblico ufficiale alla inaugurazione del nuovo Auditorium –
parco della Musica dopo l’ascolto del Sacre di Stravinskij. Gli illustri presenti,
in gran parte personaggi del mondo politico ed economico, apparivano
come smarriti, interdetti per l’incontro con il Sacre, che con ogni probabilità
(spero di sbagliarmi) non avevano mai ascoltato prima, nonostante la fama
dell’autore e la grandezza della composizione; avrebbero certamente
preferito Il lago dei cigni o Lo Schiaccianoci di Caikovskij!
I sistemi di informazione si rivolgono massicciamente, e prestano
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attenzione solo, alla cosiddetta musica leggera, alle canzonette, ai
cantautori e simili, insomma al disimpegno, a ciò che possiede, che
propone, un solo senso di lettura, anche quando usa argomenti come la
fame nel mondo, la democrazia, la libertà… La massa dei giovani viene
edotta solo a ciò che possiede un solo senso di lettura, anche quando si
considera impegnata, e in tale ambito e dietro tale solerzia ci sono
grossissimi interessi commerciali. S’induce nei giovani il desiderio del facile,
dell’ovvio, spesso del volgare allo scopo di sollecitarli a comprare i dischi, i
nastri e i video: così il mercato va a gonfie vele, pur con qualche dichiarata
flessione, vera o presunta.
Per la nostra musica non vedo via di soluzione, finché i mezzi di
informazione non cambieranno rotta. Non si tratta di una preoccupazione
che riguarda il dato estetico, di gusto, ammesso che possa essere
recuperato in qualche misura. La cultura condivisa e di massa non poteva
che essere cavalcata dal sistema della comunicazione e dell’informazione,
in quanto sistema basato su un concetto di cultura di consumo e
sull’accoglimento di un pubblico dato e non formato, i cui limiti culturali
hanno rappresentato la base da conquistare ad un prodotto
corrispondente a tali limiti, secondo la regola imprenditoriale di
accontentare ad ogni costo ‘il cliente’, il futuro consumatore”.
Giovanni Pizzo: “Insomma anche la televisione che da decenni si è inserita
nel gioco dello spettacolo, e che avrebbe dovuto necessariamente
coinvolgere sia i compositori sia i pittori, ha relegato la nostra arte e la
nostra musica ai margini estremi del sistema informativo”.
Terza domanda: Secondo te in che rapporto quantità/qualità sono con la
musica le diverse discipline artistiche, oggi che tutti i mezzi possono essere
usati e tutti i sensi sollecitati illimitatamente?
Mauro Bortolotti: “In un mondo che si va sempre più globalizzando e
dove le problematiche di culture emergenti occupano il centro della
scena, la musica ha già fatto e dovrà fare nuove scelte. È infatti impensabile
che i musicisti non vivano o subiscano le sollecitazioni che provengono dai
grandi mutamenti, non solo sociali e inerenti alla comunicazione, ma
scientifici, politici e culturali. D’altronde, anche nella musica del recente
passato c’è stato un processo di inclusione in essa di elementi eterogenei,
usati tuttavia come fatti sonori: ad esempio, il ticchettio della macchina da
scrivere, i colpi di revolver, i sibili dei fischietti, gli apparecchi radio e i
mezzi percussivi più diversi. Anche l’elettronica è entrata nella musica
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quale processo creativo, di arricchimento e integrazione dei processi
tradizionali del fare musicale. È ormai prassi corrente l’inserimento del
video, la video-proiezione di immagini in movimento e talvolta di vere e
proprie installazioni.
Tutto ciò avviene simultaneamente in America e in Europa, nel secondo
dopoguerra, anche con il modificarsi della scrittura musicale, che vuole
adeguarsi e che perde la sua precisione e corrispondenza esecutiva,
diventando un elemento di suggestione che lascia all’interprete la libertà di
essere tradotta in un’opera continuamente rinnovata. Le partiture
divengono vere e proprie opere visuali autonome, alcune delle quali sono
oggi esibite in musei d’arte contemporanea (ad esempio, alcune pagine
del mio lavoro Links sono state esposte al MoMA di New York).
Anche nel ‘600 l’opera in musica, già spettacolo composito, vuole divertire
e meravigliare non con la sola inventiva musicale, ma con la ricchezza dei
costumi, la presenza delle masse, la scenografia. Nel Pomo d’Oro di
Marcantonio Cesti, opera di corte rappresentata a Vienna nel 1648,
l’architetto Burnacini non economizza nel creare scene spesso di un
realismo estremo, nell’imitare terremoti e cataclismi tali da impressionare
la distinta platea di aristocratici che solo con tali effetti, assai più che con la
musica, si lasciava coinvolgere. Non era dunque la musica l’elemento
principale, bensì le invenzioni degli architetti-scenografi, che avevano la
capacità di impressionare il pubblico attraverso il meraviglioso scenico.
Questo può considerarsi oggi l’equivalente degli spettacoli rock, pop, techno,
etc., ove luci stroboscopiche, nebbie, profumi e decibel, nonché azioni sulla
scena come nella recente performance di Madonna, contribuiscono alla resa
estetica totale dello spettacolo. Occorre dire che tali pratiche del
‘meraviglioso’ nella musica di intrattenimento di oggi si avvalgono spesso di
motivi – o di vere e proprie copie – di opere realizzate da artisti,
vitalizzandole però a scopo scandalistico e di shock sul pubblico giovanile e
sulla massa, svuotandole dell’originario spirito critico. Penso alla crocifissione
di Madonna, proiettata durante il concerto, copiata dall’artista Sükran Moral,
che per prima ha creato una crocifissione femminile: tema inedito quello
della donna in croce nella iconografia storica che qui la Moral usa con
finalità ben diverse rispetto a quelle del puro e semplice intrattenimento.
La provocazione e il sensazionalismo sono la deformazione utilitaristica e
spettacolare dell’opera d’arte, e rappresentano l’uso deviato della ricerca
sia artistica sia musicale. D’altronde, il polilinguismo e la ricerca artistica
inter-campo nascono nell’arte e nella musica dell’avanguardia storica e
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delle neoavanguardie del secondo dopoguerra.Tale ricerca è ininterrotta e
continua attualmente con finalità di conoscenza e di sollecitazione
dell’immaginario critico dell’uomo contemporaneo, ed è soggetta alle
accennate strumentalizzazioni spettacolari consumistiche.
A Torino con l’artista Antonio Capaccio, e lavorando su una ampia scelta
di testi di Thomas Bernhard – uno dei maggiori scrittori austriaci del
secondo Novecento – e mie musiche, abbiamo realizzato un’opera in cui
si danno simultaneamente esecuzione dal vivo, videoproiezione, canto e
parole, per un’opera che restituisce i complessi coinvolgimenti del
pensiero attuale. Con l’idea di giungere a un prodotto condiviso nei mezzi
e nella percezione, ed equilibrato nelle varie componenti dell’arte,
abbiamo lavorato intensamente per circa due anni”.
Quarta domanda: Cosa prevedi per la musica, data l’attuale diffusa
spettacolarizzazione dell’arte?
Mauro Bortolotti: “Lo spettacolare è un elemento costitutivo della
modernità. Quando parliamo di spettacolarizzazione, ci riferiamo in verità
al processo negativo (prefigurato da Adorno prima e da Debord poi, nel
1967), ormai purtroppo pienamente attuato, di trasformazione delle
istituzioni culturali e dei luoghi della comunicazione in complessi
economici e ideologici, volti a imporsi mediante una spettacolarità a
sensazione, come luoghi privilegiati del consumo e dell’intrattenimento.
Dell’apparente apertura alle masse sinora escluse dal gioco della cultura e
della fruizione, va sempre considerato il carattere strumentale e il
sottofondo economico, nonché l’assenza di finalità liberatorie e critiche,
finalità queste ultime notoriamente estranee al consenso ricercato
dall’industria della cultura, cioè dalla spettacolarizzazione dell’arte.
Perdita definitiva di quelle finalità formative e critiche, dovremmo continuare
a chiederci? La ricerca minimale ed epidermica, e quella volta alla profonda e
dura riflessione della condizione umana, saranno sempre due cose diverse e
lontane. Certo i modi di lettura e di ascolto sono molteplici e i generi
musicali tanti quanti sono i fruitori. Ma quei due modi sopra enunciati della
creazione e della proposta musicale non potranno mai essere equiparati. La
presunta perdita dei confini e lo sbriciolamento delle diversità sono una
proclamazione interessata. In questa epoca di relativismo culturale non
possono significare l’universale incapacità di usare i mezzi a disposizione della
poesia, del suono, del colore e di ogni altro mezzo dell’arte conoscibile nella
storia e nelle pratiche pure sempre presenti nel mondo contemporaneo.
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Assistiamo a una caduta del senso etico e religioso della vita e della creatività
umana. C’è da chiedersi sempre: cui prodest? A chi giova tutto ciò? Alla
leggerezza e alla amichevole complicità con cui anche personaggi in vista e
genitori colti accompagnano i figli ai concerti rock, spettacolari e meravigliosi,
corrisponde - c’è da chiedersi – una analoga preoccupazione educativa al
fine di colmare i vuoti di esperienza e di sapere, che certo in quella
accattivante spettacolarizzazione non possono, non devono essere presenti?”
Ultima nota scenografica.
Nel cielo su via Gregorio VII il nero delle nubi lascia intravedere sprazzi
informali di azzurro sbiadito.
Con stima
Formello, agosto 2006
Giovanni Pizzo, opera-collage dedicata alle Variazioni
sul grido di Mauro Bortolotti e Piero Mottola, 2004
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Un augurio coetaneo (quasi) a Mauro Bortolotti
Boris Porena
I prati, i boschi intorno a Jugenheim (Darmstadt), Franco Evangelisti e le
ragazze, poi i big, Stockhausen, Boulez, per noi soprattutto Nono e la folla
di giovani compositori (tra cui appunto noi) assetati (chi più chi meno) di
Neue Musik…
Ricordi, Mauro? E prima ancora, la classe di Petrassi, che ci ha aperto gli
occhi, le orecchie e il cervello al ‘nuovo’, cui tu sei rimasto fedele fino ad oggi,
mentre per me l’idea stessa del ‘nuovo’ è andata impallidendo fino a confondersi con uno ‘ieri’ senza contorni.
Non siamo mai stati assidui l’uno dell’altro, neppure nei lunghi anni di insegnamento della “Nuova didattica della composizione” al Conservatorio di
Santa Cecilia, ma poi ci si incontrava sempre volentieri, io soprattutto ammiravo in te la serietà del musicista impegnato in territori a me estranei, eppure sempre disposto a stemperare questo impegno in un’ironia intelligente e
bonaria che gli toglieva ogni pesantezza.
Ancora molti anni di lavoro e di scoperta del ‘sempre nuovo’ ti augura il tuo
amico
Cantalupo, 3.X.2006
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Programma di sala del 1 festival di “Nuova Consonanza” (Roma, 1963), progetto grafico di
Franco Nonnis
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PARTE TERZA
Scritti di Mauro Bortolotti (1981-2003)
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Testo cantato/Testo parlato*
Fin dagli anni del conservatorio, ma anche molto prima (brevi, non
dimenticate liriche da Wright, Sinisgalli o Whitman) la scelta del testo da
musicare – minuziosa, rileggendo decine di poesie, felice di approfondire
contatti con poeti che già in partenza mi interessavano – costituiva
motivo di scavo puntiglioso… dovevo assolutamente capire lo spirito del
testo, penetrare all’interno del clima espressivo che la poesia riusciva a
creare per poi partire verso soluzioni che nel corso degli anni sono state
le più varie ed hanno sottolineato sviluppi ed aperture culturali, crisi o
impegni sociali.
Inutile dire che del testo non mi sono mai preoccupato di rendere il
suono o l’elemento semantico più esplicito; né mi sono posto dei
problemi circa la comprensibilità immediata del testo cantato (che è
tutt’altra cosa dal testo letto o recitato!), la cui comunicabilità avviene per
vie ben diverse… mi sono preoccupato, invece, della tensione generale e
del modo più adeguato di renderla nella sua totalità, arrivando anche in
molti lavori a frantumare la parola nelle sue componenti fino a sfruttare i
singoli fonemi e usando tutta la gamma di possibilità dell’organo vocale,
unendolo a strumenti o al nastro magnetico.
Poeti diversissimi mi hanno interessato, per ragioni anche contrastanti: da
Éluard a Scotellaro, Cummings, Berryman recentemente e Alfredo
Giuliani… Giuliani che scrive cose che possono valere bene anche per il
musicista: “Ormai il disagio e la confusione si sono insinuati fra i criteri di
lettura. Il mondo scappa da tutte le parti e volerlo fissare in una qualche
forma dà perlopiù risultati meschini”. Insieme a lui si è discusso a lungo sui
possibili rapporti fra testo e musica, oggi. Abbiamo analizzato questo
aspetto della storia della musica che da momenti di grandi certezze quali
quelli del madrigale – presto d’altronde soffocato da abusi e giochetti di
ogni genere – dell’opera (con le sue tante, scaltrissime, convenzioni), della
liederistica romantica, è giunto sino a noi: ormai rapporto logorato e
perennemente in cerca di una epifania, frantumato in tante ricerche quanti
sono i compositori attratti dalla parola…
* In Poesia in pubblico. Parole per musica. Atti degli Incontri Internazionali di Poesia 1979-1980, a cura di
Massimo Bacigalupo e Carola De Mari, Genova, Liguria Libri, 1981, pp. 162-163.
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TESTO CANTATO/ TESTO PARLATO
È a questo punto, e dopo risultati di tante collaborazioni che partono dal
1970, che abbiamo pensato all’improvvisazione; che ci siamo detti come la
ricerca di possibili nuovi equilibri poteva passare per la fase dell’incontro –
anche casuale, non accademico, non congelato in notazioni varie – tra il
poeta che legge i propri versi ed il compositore che improvvisa
liberamente.
Su tali considerazioni è nato questo esperimento di Genova, se si vuole a
livello elementare, come prima ipotesi di lavoro… pensiamo così che sia
possibile proporre una forma nuova, o se si vuole recuperare in modo
nuovo una pratica, del resto assai antica, di ‘intrattenimento’, capace di
ricongiungere intenzionalmente i due momenti autonomi della parola e
della musica.
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Brevi note intorno alla salute dei teatri*
Queste annotazioni, anche se affrettate e non rigorosamente organiche,
nascono da una mia presenza quasi decennale nel Consiglio
d’Amministrazione dell’Opera di Roma e da un interesse per il teatro non
superficiale. Non sono considerazioni ottimistiche, tutt’altro! I perché
spero risultino chiari da ciò che segue, pur nella consapevolezza che solo
ulteriori interventi potranno offrire un’analisi esaustiva dell’argomento.
La sopravvivenza dei teatri d’opera, sia pure a livello museologico, in questi
ultimi anni, a mio parere, è stata messa più volte in discussione. Sempre
più spesso abbiamo dovuto leggere articoli dai vistosi titoli: “Lirica: dieci
anni di inadempienze dei governi”, “Polemica dopo l’incriminazione dei
direttori degli enti”, “La vera imputata è una legge che non si può
applicare”, “Dimissioni in blocco. La Fenice non ha più organi direzionali”.
E si potrebbe continuare per molto…
Questi titoli evidenziano una situazione legislativa caotica, pur tuttavia
esterna o collaterale al vero problema che è un altro e riguarda la validità
sul piano sociale e culturale dei teatri d’opera; validità che ha subìto forti
critiche, ha vissuto momenti di crisi drammatici, è passata attraverso
esperienze e interrogativi ancora non risolti. Il primo di essi dovrebbe
essere: quale è oggi la funzione del teatro d’opera in una situazione
totalmente mutata, rispetto al secolo passato, per ciò che riguarda il
mercato, l’offerta di cultura, di informazione, di svago? La risposta, meno
ovvia di quanto possa sembrare, diviene più complessa se si aggiungono i
seguenti altri interrogativi: quali nuovi criteri adottare? Per quale pubblico
svolgere questa funzione? È ancora possibile rispondere che la funzione è
solo quella di rappresentare opere? Che il pubblico è solo quello degli
abbonati (che diminuiscono per la naturale… selezione), dei critici, degli
appassionati del ‘bel canto’, delle belle signore (oh, i deliziosi commenti
delle poltrone vicine!)? Certamente no. Ai pubblici nuovi, alla loro
formazione attraverso canali ben studiati e certamente in modi non
pietistici, si pensa molto poco e con scarsi risultati. Come poco o nulla si
fa per una produzione nuova (che non piace agli abbonati!) da scoprire,
commissionare, favorire nei modi più ampi e adeguati, perché il teatro non
* In “1985 la musica”, I, 1985, n. 5, pp. 5-6.
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BREVI NOTE INTORNO ALLA SALUTE DEI TEATRI
diventi sempre più museo, ma sia anche portatore del nuovo, luogo di
discussioni non solo per ciò che riguarda le voci, le orchestre, le
scenografie che è, poi, un vecchio, utilissimo modo di fare critica a tempo
perso (Schönberg direbbe ‘al rabarbaro’), malvezzo che riguarda anche il
rito del concerto al punto che la composizione non sembra più
dell’autore ma proprietà, creatura del direttore, del pianista, ecc. ecc.V’è
da sottolineare a proposito di una programmazione più aperta, che essa è
resa indispensabile, obbligata direi, dal fatto che diversamente dai musei, in
ogni città numerosi e rigorosamente divisi in specializzazioni (Egizi, Greci,
Barocchi, Moderni, Contemporanei ecc.), di teatri d’opera ve n’è uno
soltanto, perlopiù ristagnante nella solita produzione-tipo, tale da non
consentire aggiornamenti, confronti, ma, anzi, da addormentare coscienze
e sensibilità. Se i costi non fossero assurdi si potrebbe e si dovrebbe
chiedere la creazione di più teatri altamente specializzati per l’opera, ad
esempio, del Sei-Settecento, dell’Ottocento e moderna, contemporanea e
sperimentale. Quale esempio di civiltà e consapevolezza, se accadesse! Ma
potrà mai accadere in Italia? Forse dividendo equamente i finanziamenti?
Ma cosa si può dividere in una economia al collasso, eternamente in
deficit, con interessi passivi folli?! Cosa si può dividere se la maggior parte
dei teatri a fine mese si chiede se dare priorità agli stipendi o all’Iva,
all’Enpals, alla Siae?
La cosa di cui abbondano i teatri è lo spazio: perché, allora, non aprire
tanta disponibilità, anche di apparecchiature, alla città? Perché non
permettere ad altre Istituzioni concertistiche, ai Conservatori, all’attività
musicale privata in genere, di usare e l’uno e le altre, così da divenire un
vero centro di attività e cultura musicale? Anche perché un teatro che
ampliasse il proprio raggio di azione con molteplici attività (almeno nei
periodi di silenzio o nei vuoti settimanali) obbligherebbe l’abbonato ad
aggiornarsi, a rieducarsi, a vedere oltre l’assurdo meccanismo dello starsystem che impone il cantante/matador del momento, magari rubato,
conteso agli altri teatri a suon di milioni. E sappiamo bene quanto questa
mentalità, che poco o nulla ha a che vedere con la musica, abbia
cittadinanza a Milano come a Parigi o a Roma e quali violente reazioni
sappia scatenare la malattia di una Caballé o di un Pavarotti, quando dopo
febbrili attese vengono sostituiti all’ultimo momento da pur ottimi
cantanti. Questo non è amore per l’opera è feticismo bell’e buono, ricerca
del mito esattamente come accade per i tifosi del calcio! Proprio a
proposito di uno di questi non infrequenti casi di sostituzione, così
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scriveva Zurletti nel 1982, a proposito della malattia della Caballé che le
impedì di interpretare Anna Bolena: “sarebbe ora di riflettere una volta
per tutte su questo balletto di divine che alla Scala ha preso il posto della
musica. Ma possibile che nessuno della direzione scaligera abbia avuto il
coraggio di affrontare la situazione spiegando che ammalarsi è possibile,
che è possibile essere sostituiti anche quando si è divine?”. E Pestalozza
aggiunge di suo: “L’aggressività della protesta…fa pensare ai meccanismi
aggressivi di un criterio generale che ritorna a collegare reclamisticamente
la musica alla presenza del divo, del divo cantante, del divo direttore, del
divo orchestra. Dunque dell’Anna Bolena, ieri sera, non interessava niente a
nessuno… Bisogna cambiare il sistema, e non ripescando dal passato”.
Dunque rivoluzioni capaci di mettere in crisi sovrintendenze, direzioni
artistiche e di far nascere all’interno dei Consigli d’Amministrazione prese
di posizione violente alla ricerca del responsabile ecc. Ma a proposito dei
Consigli di Amministrazione molto ci sarebbe da dire: organismi
dall’aspetto abnorme, i cui membri dovrebbero sapere di tutto (perché di
tutto dovrebbero essere corresponsabili): dal leggere complicati bilanci, al
conoscere problemi giuridico-amministrativi, essere dotti in questioni
sindacali e sociali e, naturalmente, essere coscienti della differenza tra Lo
schiavo di sua moglie e la Lulu, oltre ovviamente a conoscere i costi delle
scarpine da punta e dei tutù per poter raffrontare i prezzi…
Certo i costi di gestione sono altissimi, incidono in maniera pesante sui
bilanci e non è qui il caso di calcolare (anche perché facilmente
verificabile) il numero delle maestranze di ogni teatro e valutarne
l’effettiva indispensabilità.
È anche vero però che nulla o assai poco si è fatto e si fa tuttora per
economizzare: per esempio sulle scenografie, stabilendo un regime di
scambi tra i vari teatri, grazie al quale riciclarne alcune ad ogni stagione,
ovviamente accordandosi in primo luogo sulla programmazione, quindi
sulle misure medie dell’apparato scenografico perché possa essere
trasferito da uno spazio scenico all’altro senza grandi difficoltà.
Così come appare ancora oggi impossibile (a causa anche di un pubblico
che tutto ti impone) creare compagnie di canto stabili, o semistabili, che,
assicurando il rispetto del testo, magari senza follie vocali o interpretative,
potrebbero permettere, in un clima di relativa tranquillità, il
raggiungimento del triplice obbiettivo del risparmio, della scoperta e del
lancio di giovani talenti, cantanti o direttori che siano, e di un ben maggior
numero di messe in scena nel corso di una stagione. Per fare ciò
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BREVI NOTE INTORNO ALLA SALUTE DEI TEATRI
occorrerebbe estrema chiarezza di idee, capacità e forza polemica tali da
sfidare le mille impopolarità cui si è soggetti nel mondo della lirica;
indifferenza o perlomeno non dipendenza verso le critiche del giorno
dopo, tanto attese quanto inutili, o forse utili soltanto per i finanziamenti
ministeriali!
Quanto sopra potrà essere possibile solo quando con estrema chiarezza
si sarà spiegato da quali motivazioni e considerazioni globali, in una parola
da quale nuova politica culturale, di autentico rinnovamento, il teatro
intende ripartire: una politica che sia consapevole dell’antistorico,
dispendioso e improduttivo antagonismo esistente tra i teatri d’opera,
causa non ultima dei molti mali che li affliggono.
Ricordo di aver parlato senza perifrasi, e ovviamente in un momento di
grave difficoltà economica, in Consiglio di Amministrazione, di una
ipotetica possibilità di dare delle opere senza costumi né scene, in forma
oratoriale, come:
protesta per finanziamenti tardivi o insufficienti;
volontà di economizzare;
dimostrazione estrema di attaccamento verso il teatro.
Bene, credo di essere stato preso per un incolto plebeo disinformato sulle
tante esigenze di un teatro d’opera, sull’importanza degli elementi extramusicali che contribuiscono a formare uno spettacolo composito quale è
appunto l’Opera; per tacere della presunta offesa che così facendo si
sarebbe recata al prestigio che distingue queste istituzioni.
L’opera è fatto culturale in cui sono in ballo mezzi economici notevoli, ma
è anche momento di intrattenimento e di mondanità e vanità varie:
bisogna fare una scelta, se si vuole annullare (oh, solo in parte!) quanto di
esteriore e di elitario sopravvive al suo interno. Eliminare la sensazione,
per il comune cittadino tutt’oggi viva, che si entri nel Tempio Eterno
dell’Arte: sensazione che stucchi, velluti e livree, avallano frenando
l’intervento di un più ampio pubblico.
Cinema e televisione sono i mezzi autentici del nostro tempo, con essi il
teatro d’opera deve fare i conti. La soluzione non sta, però, nell’affidare al
regista cinematografico il compito di procurare pubblico per la sua
sopravvivenza; sta, invece, nelle scelte di fondo che sono poi quelle
sollecitate dagli interrogativi iniziali, ai quali occorre rispondere con
urgenza e consapevolezza.
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Sulla scuola sperimentale di composizione… e d’altro*
Che intorno alla Scuola Sperimentale di Composizione (già Nuova
Didattica della Composizione), pur tra tanti consensi, vi siano
disinformazione se non resistenze e ostilità, è fatto che appare
incontrovertibile, come sanno i neodiplomati in attesa di incarico e come
appare da tanti piccoli segnali agli stessi titolari di cattedra. Questo anche
se da più parti, in occasione di indagini ministeriali, si sono avute relazioni
sulla sua validità e attualità e, addirittura, sulla necessità che la didattica
tradizionale della composizione si adegui ad essa, pena il suo
declassamento sul piano culturale unicamente a momento formativo di
insegnanti di armonia e contrappunto. Come tali diversi giudizi possano
convivere è spiegabile solo se si tiene conto degli incredibili dislivelli
culturali (nel senso vero della parola), dei timori, dei luoghi comuni sulle
funzioni della musica (distensive, digestive?) esistenti all’interno dei
Conservatori, per cui sette anni passati tra armonia, contrappunto e fuga,
romanze senza parole (per non parlare del corso superiore), nonché
ricalchi vari del passato remoto, vengono considerati forse insufficienti a
formare un compositore…
Ah! Dunque è vero? La Scuola Sperimentale di Composizione forma
compositori senza solide basi, con scarsa conoscenza del passato?
È vero, invece, il contrario: proprio il rispetto per la storia e quello per gli
allievi, ha fatto sì che si capovolgessero i vecchi criteri di insegnamento, le
vecchie metodologie: non l’inizio degli studi partendo dall’armonia setteottocentesca fino a quella tardo romantica, per poi tornare secoli indietro
– ad un linguaggio prearmonico –, cominciando lo studio del
contrappunto a due parti, nota contro nota; ma l’immediato avvio con il
contrappunto rigoroso dal quale, con l’aumentare delle parti e attraverso
le varie specie, dedurre – come è stato attraverso secoli di sofferto
sviluppo, di ben note polemiche – tutte le considerazioni armonicoverticali che renderanno palesi l’avvento dell’armonia e della tonalità
moderne, nonché delle forme da esse generate.
Da queste brevi premesse dovrebbe essere chiaro come non deve più
* In “Il mondo della musica. Rassegna internazionale di vita musicale – Concerti – Opera - Balletto”,
XXVI, 1988, n. 25, pp. 13-14.
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SULLA SCUOLA SPERIMENTALE DI COMPOSIZIONE… E D'ALTRO
essere un corso di composizione, o, quanto meno, in cosa deve
differenziarsi dai programmi edizione 1930. Intanto si dovrebbe partire
dalla convinzione che fare il compositore, oggi più che mai, vuol dire porsi
in una posizione di consapevolezza del perché dei mutamenti, delle
rivoluzioni accadute nella cultura e quindi nella musica del nostro secolo;
rendersi conto che con tali complessi mutamenti dobbiamo fare i conti.
Convincersi che il passato è alle spalle; che va conosciuto e studiato,
ovviamente, ma non per ricrearlo (nostalgie di paradisi perduti a parte!):
forse per prenderne ciò che ognuno di noi ritiene utile per il proprio
sviluppo; ma soprattutto per poter constatare di ogni autore, di ogni
composizione (fuga bachiana, sonata beethoveniana, quartetto
brahmsiano) i momenti della trasgressione quale scatto fantastico, di
qualità; come superamento dei limiti imposti dal proprio tempo che, così,
vengono rimessi in discussione).
Dunque, come si diceva, una visione non immobile, non feticistica, ma
rigorosamente storicistica della musica e del suo divenire. Ma, anche, la
presa di coscienza che la figura del compositore, dell’artista e dell’arte è
mutata profondamente in una società che tutto ‘consuma’, che non si
pone interrogativi più o meno inquietanti, che evita scelte qualitative in
favore dell’ovvio.
Quanto sopra detto illustra chiaramente in quale misura si siano modificati
i rapporti tra allievo e maestro, nonché il tipo di problematica in
discussione nella Scuola Sperimentale, che si articola in nove anni di
studio, suddivisi in un quinquennio normale ed in un quadriennio
superiore. Cosa importante è che rispetto al corso tradizionale si giova di
una ammissione ‘aperta’ (anche se con tendenze a ‘chiudere’ di nuovo), di
una disponibilità felicemente anomala, tale da superare i limiti di età
vigenti; limiti che si possono comprendere per lo studio di molti strumenti,
ma che non hanno ragione di essere per la composizione.
Ma è nel programma che sta la vera innovazione, per il suo procedere su
due direttrici: lo studio dei linguaggi storicizzati, da un lato (e su questo
punto credo di essere stato chiaro all’inizio), e, dall’altro, la pratica viva della
composizione, la lenta ricerca e conoscenza di se stessi attraverso il fare,
senza paure e remore. Punto nodale del problema, momento essenziale da
approfondire in base alle tante e più varie esperienze, credo sia proprio la
ricerca di un equilibrio tra il momento dell’attualità (momento libero e
creativo) e quello di un’adeguata conoscenza del passato (momento
‘imposto’ anche se indispensabile) della disciplina compositiva. A oltre
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MAURO BORTOLOTTI
quindici anni dall’istituzione del corso, ritengo possano trarsi delle
conclusioni in proposito, anche se va data come premessa innegabile che
gli allievi siano soprattutto interessati all’oggi, alle nuove tecniche e
ricerche, che vivono, nella maggioranza dei casi, in modo attivissimo, come
esigenza insopprimibile. Meno interessati ad approfondire il passato (oggi
tra l’altro pressoché escluso dagli interessi anche dei ben aggiornati
compositori televisivi e cinematografici), si chiedono, e ci chiedono, quanto
quel corpus imponente che sono le leggi del contrappunto, dell’armonia,
delle forme, sia indispensabile – in specie se date in modo così ripetitivo e
ridotte perlopiù a semplicistici ‘ricettari’ - per il giovane compositore già
con salde convinzioni, cultura ecc.; o quanto invece sia limitativo,
condizionante, di fronte all’urgenza di una libera scelta. Ma a questo punto
v’è da precisare, per comprendere meglio il perché di tali interrogativi, che
gli iscritti alla Scuola Sperimentale di Composizione hanno una età media
di 20-24 anni, nella maggior parte una preparazione universitaria, e
interessi vari che li rendono consapevoli (ah, questa cultura, così diffusa!),
che oggi ogni compositore tende a crearsi una propria grammatica, un
proprio modus operandi le cui componenti, del vissuto, dell’alea, della
tecnologia ecc., si sovrappongono con ironia, con rabbia, sempre
lucidamente, vanificando ogni tentativo di sistematizzazione a priori.
In una situazione così ricca e complessa – e perciò didatticamente difficile
– non è proprio il caso di irrigidirsi, ma è invece necessario discutere, e far
comprendere che passato e presente sono uniti oggi come non mai, non
foss’altro che per rifiutarsi a vicenda. Che quello della conoscenza è solo il
primo stadio di quel rifiuto (anche totale) che si raggiunge attraverso
superamenti e difficoltà varie; e, ancora, che rivivere le esperienze vissute
dal suono, le tappe che lo hanno portato a saturare grammatiche e codici,
fino ad arrivare alla negazione di se stesso, dell’opera, evita false vittorie e
– perché no? – crisi ingiustificate e false sconfitte. Scrive Boulez: “credo che
l’opera non sia valida quando la tecnica non è abbastanza flessibile e
diventa una preoccupazione tale da nascondere le considerazioni
estetiche”; e più avanti: “l’invenzione senza disciplina è sovente
un’invenzione insulsa”. Disciplina, tecnica: in una parola, rigore. Per coloro
che vedono il dilettantismo nel fare odierno, mentre sono proprio loro i
dilettanti dell’accademia, una bella lezione di serietà e moralità.
Naturalmente il corso prevede, oltre la composizione, altre discipline per
una completa preparazione dell’allievo: lettura di partitura, che lo
accompagna sino al diploma, e Storia della musica – ormai articolata in un
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SULLA SCUOLA SPERIMENTALE DI COMPOSIZIONE… E D'ALTRO
quinquennio – con la quale si condivide uno dei momenti importanti del
corso: l’analisi.
È evidente che un corso il cui fine è la formazione di compositori aggiornati
e consapevoli (ma è pensabile un medico non al corrente delle ultime
conquiste della scienza medica?), che giustifica la propria ragion d’essere con
la conoscenza non superficiale dei lavori del nostro tempo, non può non
puntare molto sul momento dell’analisi, sulla capacità di smontare in ogni
sua parte qualsiasi lavoro significativo di una particolare corrente estetica,
per comprenderne meglio gli elementi grammaticali e sintattici, l’intima
coerenza, anche dove – soprattutto dove – il linguaggio usato può con
difficoltà ricondursi a codici noti. Ciò accade non certo quando si analizza
Schönberg o Webern, ma quando ci si trova in presenza di lavori degli anni
Sessanta, in cui alea, polilinguismi, zone di improvvisazione e grafismi vari
rendono difficile la comprensione, l’uscita dal labirinto…
Questo ci viene richiesto con urgenza, a questo dobbiamo rispondere, e
non per volontà anticonformista, ma perché i programmi di esame
prevedono, oltre a complesse prove scritte, la presentazione e discussione
di almeno cinque lavori personali articolati e diversificati negli organici, nei
linguaggi usati; il diploma vuole, d’obbligo, che due delle cinque (o più)
composizioni siano per orchestra.
Queste – sia pure in modo poco organico per le tante considerazioni
extra-didattiche – le linee generali, il programma di massima, di un corso
di cui si è ampiamente sperimentata la validità.Va chiarito che quanto
detto nasce da esperienze di una classe con caratteristiche, lineamenti,
esigenze sue proprie, determinate, e in qualche modo condizionate, dagli
allievi. Da ciò la possibile differenza di metodo da classe a classe.
Certo la scatto qualitativo avvenuto negli studi della composizione è
notevole: può non essere il toccasana, il meglio in assoluto, ma i risultati sono
in attivo: i giovani che escono dalla Scuola Sperimentale di Composizione
sono diplomati che non hanno bisogno di colmare paurosi vuoti di
conoscenza, correndo da questo o quel compositore aggiornato. Ciò non
vuol dire che siano annullati i tanti dubbi, la necessità di rimettere
continuamente in discussione la nostra responsabilità di insegnanti di
composizione; come pure, di fare un discorso sulle strutture – oggi
paurosamente assenti, per indifferenza della classe dirigente – che dovrebbero
assorbire i nuovi diplomati. Ma questo è un discorso diverso e complesso,
che non può intaccare l’esistenza della Scuola Sperimentale di Composizione.
Un discorso che dovrà essere fatto a parte, quanto prima.
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Paesaggi intravisti*
Mauro Bortolotti e Walter Branchi
Il luogo del fare musicale ha sempre subito nei secoli mutamenti più o
meno profondi; e anche oggi possiamo individuare situazioni operative del
comporre sostanzialmente diverse dal passato anche prossimo.
Quando l’universo sonoro del compositore è rappresentato
essenzialmente dagli strumenti dell’orchestra, questi si trova ad avere a
che fare con generatori di suono che ben conosce e di cui può prevedere
quasi interamente gli effetti e i risultati che poi trascrive simbolicamente
sulla carta. Il musicista, in questo caso, fa riferimento ad una situazione
musicale che si è via via trasformata dinamicamente nel tempo e che oggi
trova una più che sperimentata codificazione. Allo stesso modo egli può
fare affidamento su una serie di passaggi – esecutore, pubblico, sala da
concerto e organizzazioni musicali in genere – che gli assicurano la
concretizzazione dell’opera indipendentemente da lui stesso.
Egli può comporre il suo lavoro in qualsiasi luogo, non specificatamente
adibito a tale scopo, come la propria casa, il proprio studio ecc. Il
pianoforte può divenire strumento di verifica essenziale anche se
ovviamente non potrà rendere le smaglianti sfumature di una abile
orchestrazione o di un inusuale amalgama strumentale.
Una volta consegnata la partitura all’esecutore, il compositore cessa, per
così dire di operare sulla sua creazione, mentre il luogo del lavoro si
trasferisce nella privatezza dello studio dell’esecutore che dovrà tradurre i
segni grafici in suoni e più avanti ancora esprimere la composizione e se
stesso attraverso il suo strumento. È poi nella sala da concerto e quindi
nel rapporto con il pubblico che l’intero processo del fare musicale viene
a completarsi.
Quando il musicista accoglie e indaga le possibilità offerte dagli strumenti
elettronici, inevitabilmente trasforma il suo ambiente mentale e sonoro. Gli
‘oggetti musicali’ a sua disposizione esulano quasi totalmente dalle
esperienze sonore precedenti, essi devono essere prima di tutto scoperti
e compresi nelle loro modalità di funzionamento per poter essere
* Note di copertina, in Paesaggi intravisti, disco Edipan, PAN PRC S20-33 stereo.
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PAESAGGI INTRAVISTI
efficacemente impiegati. E non solo. Il compositore dovrà imparare a
modellare e ricavare da una sorta di continuum sonoro i suoni e solo
quelli che meglio soddisferanno le sue esigenze espressive. Egli può
lavorare e progettare la sua opera in qualsiasi luogo, ma sarà obbligato a
recarsi in un luogo stabilito dove poter porre mano agli strumenti che gli
occorrono per la realizzazione della sua composizione.
Qui non è indispensabile la presenza e la funzione mediatrice
dell’esecutore, perché è il compositore medesimo che segue il proprio
lavoro in prima persona fino al momento ultimo della realizzazione. In
effetti, nella maggior parte dei casi, la concretizzazione sonora non avviene
solo ad uno stadio finale, ma è un vero e proprio montaggio e
assemblaggio di parti che si vengono via via formando fino al
completamento del tutto.
È appunto il nastro magnetico che diviene il supporto fisicamente
immutabile – ma non per questo uguale a se stesso nell’esperienza
dell’ascolto – che concentra la doppia funzione di memoria e
rappresentazione.
Con l’avvento dell’elaboratore il luogo di lavoro del compositore subisce
un ulteriore cambiamento. Come si sa, l’elaboratore è un mezzo non
specificatamente musicale in quanto non presenta caratteristiche di
strumento predeterminato – come pure lo erano le apparecchiature dello
studio di musica elettronica – ma esegue soltanto ciò per cui è
programmato. In altre parole, se il compositore vuole ottenere dei suoni
da un computer, dovrà prima programmarlo adeguatamente fornendo
tutta quella serie di istruzioni adatte a far sì che il suono desiderato possa
essere generato. Ciò significa che, se prima si partiva da una globalità
sonora da cui poter ricavare delle particolarità, ora, con l’uso
dell’elaboratore, diviene possibile simulare direttamente la particolarità
sonora. Si crea in questo modo un atteggiamento compositivo
profondamente diverso da quelli precedenti: è il capovolgimento del
rapporto compositore-strumento che rappresenta l’aspetto più
particolare di questo modo di comporre. Il compositore deve in pratica
fornire in precedenza ogni dato necessario alla definizione del suono e del
suo comportamento nel tempo. Comunque, esiste oggi la possibilità,
tramite tecnologie adeguate, di interagire ‘manualmente’ o meglio
analogicamente, sull’elaboratore, riproponendo così il rapporto che il
compositore ha con lo strumento tradizionale. Evidentemente, nel corso
della realizzazione della composizione egli potrà apportare tutte le
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MAURO BORTOLOTTI E WALTER BRANCHI
modifiche che ritiene opportune per una migliore estrinsecazione del suo
scopo artistico.
Paradossalmente, ad una sempre più minuziosa descrizione dei suoni e del
loro susseguirsi nel tempo, corrisponde uno strumento ed un luogo del
tutto generalizzato: un grosso calcolatore a disposizione di un centro di
calcolo, quasi sempre indifferente che si tratti di suoni o del
comportamento di comete.
Si è detto un grosso elaboratore, intendendo con questo la sua potenza e
velocità, perché tale deve essere un elaboratore impiegato per produrre
suoni dato che per un secondo di suono esso deve eseguire circa
trentamila operazioni, ma la tecnologia odierna ha concentrato potenza e
velocità in piccole dimensioni e l’accoppiamento di personal computer con
sintetizzatori digitali normalmente in commercio può costituire la base per
un discreto avvio verso questo genere di musica. E ancora l’ambiente di
lavoro si trasforma, ritornando alla privatezza dello studio questa volta
personale, ma aprendo le finestre su una fitta rete di interconnessioni
rappresentate dalla telematica che permette al compositore di attingere o
a banche-dati o di usufruire delle prestazioni di grandi sistemi di
elaborazione.
Si vengono ad allargare allora non soltanto le procedure operative del
comporre, ma anche quelle del partecipare musicale che può prevedere
riti d’ascolto estremamente diversi da quelli che siamo culturalmente
abituati a seguire.
Paesaggi intravisti impiega tecnicamente per la sua realizzazione le diverse
procedure legate ai luoghi di lavoro sopradescritti, mentre il tramite sono
le immagini delle diverse attività umane e dei loro ambienti.
Paesaggi intravisti, composta espressamente per la mostra “Il luogo del
lavoro”, elabora materiale elettronico – generato sia in modo tradizionale
che attraverso il computer – e concreto (rumori di macchine, di aerei,
brusio di cantieri ecc.). L’opera si articola in un unico arco di tempo pur
nell’intenzione di illustrare quattro momenti ognuno dei quali evidenzi
particolari aspetti del lavoro e degli ambienti nei quali, attraverso i secoli,
esso si è svolto.
Inizialmente, dunque, il lavoro nei campi, negli ampi spazi illimitati, a cielo
aperto, o in mare per soddisfare l’esigenza primaria della sopravvivenza: la
natura asservita, ma anche subita; ritmi e canti che accompagnano sempre
e ovunque il lavoro, spesso solitario, dell’uomo.
Poi la macchina come sua estensione fisica e quale potenziamento delle
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PAESAGGI INTRAVISTI
sue possibilità e capacità creative. Il cantiere, il lavoro comune e
organizzato delle fabbriche, delle officine: tante voci qui, che a differenza
della prima parte, danno vita ad uno sfondo sonoro ricco e articolato.
I mezzi di comunicazione avvicinano gli uomini tra loro: treni, aerei, navi,
offrono materiale musicale al compositore mentre modificano totalmente
l’ambiente sonoro in cui l’uomo vive e lavora. Ma anche la scuola, il
fanciullo che conosce e apprende; telescriventi, radio, notizie velocemente
trasmesse. I viaggi, la conoscenza di altre terre grazie alla macchina e alla
scienza dell’uomo. Infine, il futuro. Comunicazioni interplanetarie,
l’elettronica, la conquista dello spazio, il calcolatore come mezzo in grado
di concretizzare e di essere estensione diretta del pensiero umano.
Mauro Bortolotti-Walter Branchi, Paesaggi intravisti, copertina del disco Edipan,
PAN PRC S20-33 stereo
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A proposito di “modernità” non sovvenzionata…*
“Roma è cauta e prudente […], mi è sembrato che questa città avesse il
problema della modernità, determinato soprattutto dal peso della chiesa,
ancora evidente e ingombrante. Così ho pensato che toccasse a noi
ringraziarla per l’ospitalità aiutandola in questa direzione. Così abbiamo
portato a Roma Xenakis, Boulez, la danza francese moderna, il cinema,
Bartók”. Queste le pesanti dichiarazioni che furono rilasciate il 2.IV.1991 al
“Messaggero” dal Direttore dell’Accademia di Francia prof. J. M. Drot e alle
quali chi scrive rispose (“Paese Sera”, 2.VI.1991), ricordando che Roma –
grazie a “Nuova Consonanza” e non solo ad essa – aveva da sempre, per
statuto, offerto alla città autori contemporanei; quelli citati e tanti, tanti
altri, e questo già venti, trenta anni fa quando questi compositori erano
solo giovanissime promesse, sconosciute ai più. Se Roma oggi “è cauta e
prudente”, se qualcosa è cambiato in questi anni, se la sensazione è che
non vi sia capacità di rinnovarsi da parte di molte istituzioni, né di
conservare i passati livelli di interesse, tutto ciò per una volta non va
addebitato alla chiesa troppo presente a Roma, prof. Drot!, la colpa è dello
Stato che secondo la Costituzione dovrebbe promuovere la cultura e
l’arte attraverso il suo ministero competente, che tale non è perché non
in grado di fare scelte oculate, autorevoli e di respiro ampio per superare
provincialismi e porci a livelli internazionali. La critica severa va a questi
funzionari ministeriali che assegnano contributi non a chi promuove
cultura attraverso una programmazione aperta, ricca di stimoli e
problematiche ma che, al contrario, premiano l’ovvio, ciò che si conosce
ovvero che loro conoscono! Di questa situazione è esemplare il caos
culturale del teatro dell’Opera che tutto macina, che nella sua
programmazione passa dai cantautori a Rossini, attraverso l’operetta, il
jazz, i grandi solisti, e chi più ne ha, più ne metta… Ma visto che il
parametro ‘presenze/ biglietti venduti’ è quello che fa testo, e visto che
così programmando il teatro è sempre (?) pieno, cosa si vuole di più?... E,
invece, cosa accade a programmazioni troppo colte e ricche di novità?
Sono disertate dal pubblico (dal grosso pubblico) perciò vanno punite con
tagli, spesso mortali, alle sovvenzioni.Vanno di fatto colpevolizzate, mentre
* In “1985 la musica. Rivista di musica contemporanea”, luglio 1992, n. 21, p. 47.
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A PROPOSITO DI “MODERNITÀ” NON SOVVENZIONATA…
dovrebbero, semmai, esserlo le altre per il danno che recano alla cultura,
al pubblico ignaro e pago della bassa operazione che si compie su di lui.
Sembra un invito ad adeguarsi in basso, a svilire programmazioni, per
ottenere un piccolo riconoscimento.
Urge ribaltare l’attuale criterio di giudizio che penalizza chi sente l’esigenza
di informare e formare il pubblico (ovviamente quello che vuole essere
informato e chi considera ciò un suo diritto); danneggiare chi procede su
questa strada, riducendo o annullando sovvenzioni già esigue in partenza –
mentre non si economizza su traviate, su vivaldiane, su associazioni la cui
utilità e funzione non è ben chiara a nessuno –, significa anche stravolgere
ogni metro di giudizio, distorcere la vita musicale, ‘farci aiutare’ dalle
Accademie che generosamente ospitiamo e – incredibile a dirsi –
sovvenzioniamo.
Ma così facendo e puntando su motivazioni patriottardo-economiche, che
nascondono solo odio verso ciò che non si è in grado di capire, si
racimolano un pugno di milioni che non salvano l’economia italiana anche
perché, come in un campo boario, qualcuno che sa gridare di più riesce,
lui, ad ottenere gli aumenti alla faccia del penalizzato.
Riuscirà il nuovo ministro, signora Boniver, a mettere ordine nel suo
Ministero, all’interno della Commissione Centrale di Musica?
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Musica e poesia*
Fu verso la metà degli anni Cinquanta che grazie a un comune carissimo
amico, il compositore Franco Evangelisti, ci incontrammo con Alfredo
Giuliani. Erano gli anni difficili del lungo dopoguerra; in ogni genere di
attività si tentava di riprendere quota, e noi, non proprio giovanissimi e
con alle spalle scelte ‘temerarie’, e comunque scarsamente pratiche, ormai
irrimediabilmente prese, cercavamo di trovare la giusta direzione da dare
al nostro lavoro in una situazione in continua ebollizione.
Si ricostruivano ponti, quartieri, città. Si ricollegavano luoghi vicini, per anni
divenuti quasi irrangiungibili (Narni-Roma, via Orte, km. 99, in 3-4 ore su
carri bestiame); e si ricostruiva nelle sfere della cultura. Intanto
riconquistando il tempo perduto per colpa dell’autarchia che aveva
impedito il libero scambio non solo delle idee, ma anche degli strumenti
della cultura. Aperti nuovamente i mercati con l’estero si divoravano libri,
riviste, si ascoltava la nuova musica, si andavano a vedere le ultime novità
teatrali che finalmente giungevano sui nostri palcoscenici. Si discuteva di
politica e del modo di organizzare la cultura, lo spettacolo.
Capimmo presto, proprio sulla scia di una riconquistata libertà di
discussione e di associazione, che occorreva assumersi responsabilità
organizzative e che l’autogestione poteva essere il mezzo per non restare
schiacciati dalle vecchie istituzioni (teatrali, editoriali, concertistiche) che si
riappropriavano dei ruoli di governo per gestirli alla vecchia maniera: con
sovvenzioni male amministrate, con ampi spazi dedicati alle grandi e
rassicuranti figure di un passato più o meno remoto, con arte e
mondanità appaiate e con scarse o nulle considerazioni verso il nuovo, le
produzioni dei giovani.
In questo clima, e da queste e altre considerazioni, sarebbero nate,
attraverso più o meno lunghe gestazioni, “Nuova Consonanza” e le
“Settimane Nuova Musica” di Palermo (1960-61) per la musica
contemporanea, il Gruppo ’63, tanti spazi autogestiti di sperimentazione
teatrale, i primi cineclub nelle grandi città.
Non ricordo di choc al nostro incontro: abbastanza schivi tutti e due non
* In Chi l’avrebbe detto. Arte, poesia e letteratura per Alfredo Giuliani, a cura di Corrado Bologna, Paola
Montefoschi e Massimo Vetta, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 57-60.
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MUSICA E POESIA
dovemmo certo reciprocamente impressionarci né per l’aspetto esterno
(che so: occhio invasato, puzzo di zolfo, aspetto bohémien), né per la
conoscenza dei rispettivi lavori (ancora piuttosto limitati quantitativamente e
scarsamente diffusi), se si escludono alcune poesie che Evangelisti mi aveva
fatto leggere e che mi avevano colpito per i tanti elementi innovativi.
Via via che approfondivo il contatto con la poesia di Giuliani cresceva
l’ammirazione per la lucida ironia con cui violentava la sintassi, e la
sapienza con cui superava passati movimenti neocrepuscolari senza
nostalgie, anzi, con fredda determinazione e senza rinunciare al ritmo e
alla musicalità del verso. Fu questa caratteristica, oltre al significato
simbolico che vi lessi, a farmi scegliere, come prima poesia di Alfredo da
musicare Resurrezione dopo la pioggia, che resi dando alla voce del tenore
un andamento cantabile quasi recitativo, e al pianoforte scarne linee
contrappuntistiche sostenute da lievi accordi.
Successivamente ricordo di essere andato a trovarlo nel suo ufficio nei
pressi di piazza Regina Margherita, per proporgli una collaborazione che
sapevo complicata da realizzarsi: fargli rivedere Contre 2, un mio lavoro per
soprano e strumenti, caratterizzato da toni di accesa protesta sociale
(eravamo nel 1965), del cui testo, da me organizzato, non ero soddisfatto.
Si trattava di un collage di citazioni in varie lingue, di parole in libertà per
me ricche di significati, nonché di vocalizzi, glissati e sopracuti pensati per
la bravissima Michiko Hirayama. Avrei desiderato un suo intervento
ordinatore ma Alfredo, con garbo, mi fece comprendere le difficoltà di
mettere le mani sopra qualcosa di già compiuto, comunque di
preesistente e pensato da un unico autore. Al contrario, mi consigliava di
non toccare nulla di ciò che era nato di getto, sulla spinta dell’esigenza del
momento: e così feci.
Attingendo ancora da Povera Juliet e dall’ultimo suo volume allora uscito, Il
tautofono, nel 1969-1970 iniziai un breve lavoro teatrale, che intitolai E tu?
nondramma in un atto e due intermezzi parlati, senza finale. Il titolo era
tratto dall’ultimo verso di Prosa, una poesia dedicata da Giuliani a
Balestrini: “…E tu? Me lo ripeto sempre”, verso con il quale si concludeva
il lavoro costruito secondo la tecnica del collage, come un montaggio
accurato di momenti estratti da varie poesie di Giuliani. Nella prima
versione per esigenze di climax e per accentuare l’effetto di contrasto
avevo inserito una breve citazione di Mallarmé e alcuni versi di Porta che
in seguito decisi di eliminare nella versione definitiva.
Al di là dei testi da me musicati, la poesia di Giuliani (e più in generale del
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MAURO BORTOLOTTI
Gruppo ’63), oltre a un’inevitabile influenza per così dire culturale nel senso
più ampio del termine – in quanto nata all’interno di ricerche analoghe a
quelle compiute negli stessi anni da noi musicisti –, mi ha offerto spesso
motivi di suggestione anche per composizioni puramente strumentali, nelle
quali risulta egualmente chiara l’allusione ad atmosfere suggerite dalla sua
opera: parlo, tra l’altro, della Musica per una scena per trio d’archi, a lui
dedicata, in cui come dicevo nelle poche righe di presentazione scritte per
la copertina del disco: “[…] è ancora adombrata la figura di Juliet”.
Credo non gli spiaccia se ricordo di un tentativo di lettura di alcuni suoi
testi commentato da mie improvvisazioni alla tromba e al pianoforte, che
ci divertì moltissimo e per il quale ricevemmo, nel 1980, un invito a
partecipare agli incontri di “Poesia per musica” organizzati dal Comune di
Genova. Giuliani lesse alcune sue poesie che io ‘commentai’,
sonorizzandole in vario modo; contestualmente si ascoltò anche un
estratto da E tu? per voce e percussione, registrato su nastro.
Pure al 1980 risale L’attesa, per voce e nastro, il cui testo deriva da una
scelta di alcuni momenti del lavoro di Alfredo Il professor PI ossia il
fenomeno non è un fatto. In esso la voce veniva impiegata su due diversi e
contrapposti registri stilistici, allo scopo di creare una netta differenziazione
del clima drammaturgico. Come già avevo sottolineato allora nelle note
del programma di sala, la commistione di abusati elementi linguistici del
passato ma anche del presente, un accenno verdiano sulla parola
Lebensmoment – punto culminante di tutto il testo -, il recitativo
settecentesco, e su tutto un nastro elettronico che accompagna,
commenta e sottolinea, servivano a evidenziare l’intenzione fortemente
ironica che è alla base della composizione.
Nel 1984 misi in musica Invetticoglia, per basso e quartetto d’archi, un testo
difficilissimo per la violenta operazione sulla parola, che mi fece scrivere a
commento del brano, sulla copertina della partitura, “Il lavoro, che per le
difficoltà del testo particolarissimo nasce da una scommessa fatta con me
stesso, chiede agli esecutori, e al cantante in primis, una particolare
attenzione al significato/suono della parola e una notevole libertà inventiva
nella interpretazione del testo musicale, tutt’altro che definitivo!...”
Inutile dire che non mi sono mai preoccupato di rendere il suono né
l’elemento semantico più esplicito del verso, né mi sono posto troppi
problemi circa la comprensibilità immediata del testo cantato (che è
tutt’altra cosa dal testo letto o recitato, come dovrebbe essere evidente),
la cui comunicabilità avviene per vie ben diverse.
Mi sono preoccupato, invece, della tensione generale e del modo più
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MUSICA E POESIA
adeguato di renderla nella sua totalità, arrivando anche in molti lavori a
frantumare la parola nelle sue componenti sino a sfruttare, com’era ed è
prassi diffusa, i singoli fonemi. Con Giuliani d’altronde, si discusse a lungo,
durante l’esperienza della lettura-improvvisazione, sui possibili rapporti tra
testo e musica, oggi: rapporto che dal madrigale, e prima ancora dall’Ars
Nova, attraverso l’opera lirica e la liederistica romantica, è giunto sino a noi.
Un rapporto ormai logorato e perennemente in cerca di una nuova epifania,
frantumato in tante ricerche quanti sono i compositori attratti dalla parola…
Infine nel 1991 – per ora ultima nostra collaborazione – a una mia
richiesta di un breve testo che contenesse in qualche modo un
riferimento alla natura (il brano doveva essere eseguito in un’occasione
particolare: un festival che si teneva ad Amelia, in Umbria, il cui direttore
artistico era Renato Nicolini), Alfredo mi offrì (per telefono!) una poesia
inedita, I pesci di vento, per lui piuttosto insolita nella sua brevità
epigrammatica, che musicai per soprano, flauto e pianoforte, aggiungendo
a mo’ di sottotitolo Scherzo franco-ispano, in omaggio ai vari Le vent dans la
plaine, o Ce qu’a vu le vent d’ouest, di debussiana memoria. Mi piace
sottolineare che con questo breve lavoro ho recuperato un tipo di
vocalità più distesa e divertita, che ho cercato di trasmettere anche ai due
strumenti, dando loro ampie e veloci scale esagonali e brevi citazioni di
chiara derivazione francese.
In più di trent’anni un percorso per molti versi parallelo, perché comuni,
pur nella diversità degli specifici, erano le ricerche e le finalità
dell’operazione creativa. Operazione che, come scriveva lo stesso Giuliani,
“[…] ci ha condotto nel mezzo dei movimenti di punta che agitano la
letteratura, in altri paesi, ha reso possibili nuovi svolgimenti, convincendo
ognuno di noi che era venuto il momento di affrontare altri generi
letterari (il romanzo, il teatro)… Ci ha avvicinati più organicamente al
linguaggio della musica e della pittura” (dall’introduzione al volume a cura
dello stesso Giuliani, I Novissimi,Torino, Einaudi, 1965). Ciò che può ben
valere anche per i musicisti, solo che si pensi ai grafismi delle nostre
partiture, all’impiego della parola parlata, al gesto, ai tanti polilinguismi che
hanno caratterizzato quei decenni: sintomo di una insoddisfazione ma
anche di un’esigenza di infrangere barriere e limiti fra le varie arti.
Mi auguro che dalle mie frequenti intrusioni/manipolazioni nelle sue
poesie Alfredo non si sia sentito tradito. Sarei lieto, invece, se fossi riuscito
a scoprire una qualche zona remota, a rendere un ‘in più’ di ciò che è nella
sua poesia, che solo la musica e il canto sono in grado di far emergere.
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Tributo per il maestro*
All’incirca vent’anni prima della scomparsa di Goffredo Petrassi (Roma,
3.III.2003) Mauro Bortolotti, in qualità di presidente di “Nuova Consonanza”,
firmava le seguenti note al programma di sala del XX festival del sodalizio
romano, tra l’altro il festival d’esordio del suo nuovo mandato, dedicato all’
anziano maestro della scuola di composizione. Ci piace introdurre così il testo
poi redatto nel 2003 in forma di compianto e al quale idealmente esso si
congiunge:
“Il segno più evidente dell’attualità di Nuova Consonanza, del rigore delle sue
proposte, dell’unicità del ruolo che è venuta conquistandosi a Roma ed in
Italia, è dimostrato dal fatto che a ventiquattro anni dalla sua nascita
nessun’altra istituzione ha saputo sostituirsi ad essa, alla sua funzione di
portatrice del nuovo in musica, sotto qualsiasi forma, tecnica e linguaggio si
presentasse, senza pregiudizi di scuola e di latitudine. Nessun altro gruppo o
* In Testimonianze per Goffredo Petrassi, Milano, Suvini Zerboni, 2003, pp.11-12. In data 22.II.2003, a
pochi giorni dalla scomparsa del maestro, Bortolotti scriveva la seguente lettera a Corrado Augias,
per la rubrica di corrispondenze con i lettori del quotidiano “la Repubblica”, solo parzialmente poi
pubblicata: “Caro Augias, una rapida considerazione sull’Auditorium romano, rivolta a un aspetto
apparentemente secondario. A Parigi, la Sala Messiaen. A Lione, la Sala Varèse. A Madrid, la Sala De
Falla… A Roma, quando si decide (ma da chi e con quale procedura?) di intitolare la Sala Grande del
nuovo Auditorium, si pensa (veramente con poca fantasia) a Santa Cecilia, alla quale nella città eterna
è già affidata la protezione dell’Accademia omonima, dell’Orchestra omonima, del Conservatorio
omonimo (ciò che peraltro fornisce l’opportunità di creare simpatici giochi di parole, del tipo: per la
stagione dell’Accademia di Santa Cecilia, l’Orchestra di Santa Cecilia eseguirà presso la Sala Santa
Cecilia etc.). Senza voler fare polemica ad ogni costo, ritengo che in questa circostanza si poteva (e
aggiungo: ancora si potrebbe) rendere omaggio a un grande musicista come Goffredo Petrassi,
maestro di tanti compositori italiani e di un’infinità di altri venuti da ogni parte del mondo. Petrassi è
senz’altro tra i maggiori compositori del secolo appena trascorso, autore di un corpus imponente di
opere strumentali e vocali, che ha il suo apice negli otto Concerti per Orchestra (forse il punto più
alto del nostro Novecento musicale): un ciclo che, in un crescendo costante di perfezionamento e
scavo, culmina nell’VIII, che definirei “il Meraviglioso” per le sorprese dell’orchestrazione, l’originalità
della forma, la libertà della fantasia. Petrassi compirà 100 anni nel 2004. Non ci sono dubbi ch’egli
meriterebbe i massimi riconoscimenti che lo stato italiano può tributare alle personalità che hanno
onorato il paese (e ciò costituirebbe anche un segno di considerazione nei confronti della musica,
così negletta nella sua componente contemporanea colta). Ma Petrassi meriterebbe che in
particolare Roma, la città dov’è sempre vissuto, si ricordasse imperituramente di lui, dedicandogli la
maggiore sala da concerto di quella che infine è diventata una delle grandi realtà musicali d’Europa: il
nuovo Auditorium di Renzo Piano.” Com’è noto, l’appello di Bortolotti è rimasto inascoltato. Soltanto
nell’ottobre del 2004, in concomitanza con le celebrazioni ceciliane del centenario della nascita del
compositore, la sala piccola del nuovo Auditorium, la sala da settecento posti, è stata intitolata a
Goffredo Petrassi..
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TRIBUTO PER IL MAESTRO
ente si è dimostrato in grado, alla distanza, di garantire – in un panorama
dinamico, articolato e spesso di difficile controllo critico qual è quello della
musica contemporanea – né la sua capacità di offrire spazi a giovani
esecutori, direttori e compositori (anche quelli particolarmente ‘difficili’, tali da
non offrire alcuna garanzia di pubblico, di mondanità o altro), né la sua
capacità di ampie e approfondite analisi e accorte sintesi sugli avvenimenti
musicali e culturali più recenti. A non voler andare troppo indietro è sufficiente
citare il festival “Franco Evangelisti”, quello sulle “Giovani generazioni”, quello
ultimo sulla “Vocalità contemporanea”: tutte tappe essenziali nel processo di
chiarificazione e messa a punto della musica di questi ultimi anni.
È proseguendo su questa linea che Nuova Consonanza dedica il suo XX
festival a Goffredo Petrassi: per festeggiarne l’ottantesimo compleanno e quale
doveroso riconoscimento dell’importanza e attualità della sua arte. Un’arte in
continua evoluzione, nata da accorte scelte artistiche, da continui contatti e
scambi con altre esperienze culturali – figurative, letterarie etc. – così vive in
quegli anni. Non solo, quindi, un grande avvenimento celebrativo ma,
soprattutto, uno studio su Petrassi ed il suo tempo, sui musicisti che lo hanno
interessato negli anni della sua formazione (Casella, Hindemith, Stravinskij,
etc.) e su quelli a lui contemporanei (Dallapiccola, Salviucci, Scelsi, etc.); infine
su Petrassi e la sua lunga attività didattica, con l’influenza che egli ha avuto
sui musicisti italiani e stranieri (Jeney, Davies, Villa Rojo, Durkó) che alla sua
scuola (Conservatorio e Perfezionamento) si sono formati numerosissimi,
purtroppo non tutti presenti in questa occasione, divenendo elementi
altamente qualificati e propositivi nei rispettivi paesi. Certo i musicisti romani, e
non solo quelli che hanno frequentato i suoi corsi, sono stati particolarmente
favoriti dalla presenza del maestro a Roma; ciò giustifica la loro massiccia
partecipazione in questo XX Festival. È, forse, l’occasione per tentare una
indagine storico-critica sulla musica del dopoguerra a Roma, sulla giovane
scuola romana che certamente è partita sotto il segno di Petrassi. Un segno
ancor oggi netto e deciso, un punto di riferimento validissimo per noi tutti, ci
auguriamo ancora per lungo tempo”.
“J’aime la règle que modifie l’inspiration, mais je préfère l’inspiration que
modifie la règle”: mi ricordo di questa citazione, limpido aforisma che
Petrassi ci offrì a mo’ di conclusione durante una discussione fattasi troppo
accesa, e forse troppo involuta, nella sua classe di composizione. Posso
testimoniare che il messaggio presentò una forza tale, per gli interrogativi
che apriva, da intercettare e sin quasi inibire il pur animato contraddittorio.
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MAURO BORTOLOTTI
Ne parlo, perché in una delle frequenti passeggiate che in questi anni
eravamo soliti fare con Goffredo a Piazza del Popolo (e che sono sempre
state per me una gioia e un privilegio speciale), la citazione, a più di
quarant’anni di distanza, fece nuovamente la sua apparizione, certo
inattesa ma ancora piena di tutti i suoi significati e della sua problematicità.
Evidentemente per il compositore Petrassi, non meno che per il didatta,
l’assunzione di responsabilità era stata totale (né avrei mai pensato il
contrario) ed era ancora vivissima.
Petrassi, da seguace convinto della ragione illuministica, controllava sino in
fondo il mestiere e imponeva il rigore del più alto artigianato. Ma al
contempo ti lasciava – in quanto somma della tua cultura e delle tue
conoscenze, del tuo gusto e della tua sensibilità – la scelta ultima, e con essa
i dubbi, la certezza di non avere certezze, e quindi la necessità di creare, di
scavare per catturare il momento di verità. Quella verità che l’opera ti illude
di aver trovato, ma che in fin dei conti vale solo per quel singolo manufatto,
dopo di che declina, si sfibra, decade a formula: e allora devi riprendere la
ricerca, perché, per dirla con Pessoa, “todo passo è uma cruz”.
Pur consapevole della logica evolutiva storica all’interno della quale si
situava il processo pancromatico, Petrassi rifiutava, nella sua visione del fare
musica, ogni procedura meccanica alla quale attribuire un ruolo di garante
del risultato estetico finale. Da ciò derivava un certo fastidio, in specie in
ragione delle nostre crescenti richieste di usarla, verso la dodecafonia che
tanto ci incuriosiva e stimolava. Erano gli anni Cinquanta. Petrassi aveva
composto le mordaci Invenzioni per pianoforte, Noche oscura per coro
misto e orchestra, il Terzo concerto per orchestra (ampiamente
dodecafonico), tutti con impiego di intervalli sommamente vicini al totale
cromatico, talché le nostre richieste potevano apparire particolarmente
naturali e legittime. Ma il Maestro aveva in odio la faciloneria e le
scorciatoie, e insisteva perché si raggiungesse la maturità stilistica
attraverso la piena padronanza delle tecniche e il vero controllo del
suono, quale unica garanzia di serietà e onestà intellettuale, e come
definitiva rinuncia al dilettantismo.
Anche per questo aspetto del suo insegnamento, della cui importanza
attraverso gli anni abbiamo potuto assumere piena coscienza, tutti noi
allievi, indistintamente, gli siamo stati e gli saremo eternamente grati.
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Programma di sala della 1 “Settimana Internazionale Nuova Musica” (Palermo, 1960),
progetto grafico di Franco Nonnis
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PARTE QUARTA
Archivio fotografico
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Foto n. 1 - Mauro Bortolotti con gli amici di Narni, Alvaro Stanco e Gastone Franceschini
Foto n. 2 - Mauro Bortolotti, Mario Bertoncini, Domenico Guaccero, Fausto Razzi nella
classe di Goffredo Petrassi (Conservatorio di Santa Cecilia, 1954-1956)
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Foto n. 3 - Aldo Clementi, Charlotte Salm, Franco Evangelisti, Mauro Bortolotti, Boris
Porena, Domenico Guaccero (Darmstadt, 1957)
Foto n. 4 - Lorna Salzman, Domenico Guaccero, Eric Salzman, Mauro Bortolotti, Boris
Porena, Camillo Togni (Darmstadt, 1957)
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Foto n. 5 - Eric Salzman, Mauro Bortolotti, Domenico Guaccero di ritorno da Darmstadt
(1957)
Foto n. 6 - Simonetta, Mauro e Luca Bortolotti
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Foto n. 7 - Jesus Villa Rojo, Mauro Bortolotti, Francesco Pennisi, Guido Baggiani, Daniele
Paris, Francesco Carraro, Mario Bortolotto
Foto n. 8 - Franco Evangelisti, Mauro Bortolotti, Benno Amman, Walter Branchi, Michiko
Hirayama, Richard Trythall, Jesus Villa Rojo
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Foto n. 9/10/11 - Mauro Bortolotti
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Foto n. 12 a - Mauro Bortolotti con la la moglie Leda, Roma, 26-5-1955
Foto n. 12 b - La moglie Leda (al centro), con le sorelle Luciana e Paola, a Narni
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Foto n. 13 - Mauro Bortolotti e Patrizia Cerroni nel 1980
Foto n. 14 - Mauro Bortolotti, Domenico Guaccero, Paolo Renosto, Daniele Lombardi
(festival Pontino 1982)
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Foto n. 15 - Mauro Bortolotti nel suo studio
Foto n. 16 - Mauro Bortolotti e Goffredo Petrassi al bar Canova di piazza del Popolo a Roma
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Foto n. 17 - Mauro Bortolotti e Goffredo Petrassi a piazza del Popolo a Roma
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Foto n. 18 - Mauro Bortolotti, Maria Chiara Pavone, Goffredo Petrassi
Foto n. 19 - Mauro Bortolotti con Simonetta Lux, 2000
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Foto n. 20 - Mauro Bortolotti al pianoforte nella casa romana, 2004
Foto n. 21 - Mauro Bortolotti con gli amici di Narni, Ugo Proietti, Alvaro Stanco,
Brunetto Boscherini, 2003
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PARTE QUINTA
Apparati
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Biografia
1926
Nasce a Narni, in Umbria, il 26 novembre.
1943-1944
Inizia la frequenza del Conservatorio di Santa Cecilia nella classe di pianoforte di Rodolfo
Caporali, musicista di scuola caselliana, ottimo didatta, pianista e maestro illuminato.
1945-1949
Intraprende lo studio della composizione nella classe di armonia e contrappunto di
Antonio Ferdinandi, uomo di cultura e di grande impegno (cattolico e comunista),
eccellente contrappuntista, attento alle varie esperienze della modernità. Scrive il brano
giovanile Duo in unum, alcune liriche per voce e pianoforte su testi di Hughes, Wright,
Whitman, Sinisgalli, e una breve Sonata per violino e pianoforte.
Nel 1948 si diploma in pianoforte: si distingue per l’esecuzione, accanto al III Concerto per
pianoforte e orchestra di Beethoven, del II Concerto di Malipiero. Lo studio del pianoforte
rimarrà una costante della sua vita.
1950-1956
Si iscrive alla scuola di organo di Ferdinando Germani allo scopo di approfondire lo studio
della musica di Bach e di Franck. Conosce nella classe di Germani Franco Evangelisti e
padre Antonio Sartori, direttore del coro della Chiesa di Santa Maria della Vallicella (dopo
il conseguimento del diploma di organo, nel ’52, Bortolotti è organista della Chiesa Nuova
per alcune celebrazioni ufficiali). Conosce Domenico Guaccero, al quale lo unisce il
comune impegno politico e sociale, e ottiene, insieme all’amico e grazie all’interessamento
di Ferdinandi, l’iscrizione alla classe di Goffredo Petrassi (ne fanno parte, tra gli altri, Aldo
Clementi, Ennio Morricone, Boris Porena). Segue con grande interesse le lezioni di estetica
di Luigi Ronga, anche presso l’Istituto di Storia della musica della facoltà di Lettere
dell’Università di Roma “La Sapienza”. Consegue nel 1956 il diploma di composizione.
Scrive il quintetto per fiati Preludio, Ricercare e Finale (1953), ancora ineseguito, il Concerto
(1955-1956) per orchestra e la Cantata (1955) su testo di T. S. Eliot (confluirà nei 5
Epigrammi di Marziale del ’79 un vecchio madrigale degli anni di studio con Petrassi); le
musiche di scena per Il Candelaio di Giordano Bruno, allestito presso il teatro Comunale di
Narni dal regista (anche poeta) Giuseppe Manini.
1957-1958
Nel ’57 compie il primo viaggio a Darmstadt per i Ferienkurse di quell’anno insieme a
Guaccero, al compositore americano Eric Salzman e alla moglie Lorna (a Darmstadt in
quell’anno incontra anche Aldo Clementi, Franco Evangelisti, Boris Porena e la moglie Ida,
tutti provenienti da Roma).
Sempre nel ‘57 è a Milano insieme a Guaccero per visitare il neonato Centro di fonologia
della RAI grazie a una lettera di presentazione di Petrassi (incontra Marino Zuccheri, Bruno
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BIOGRAFIA
Maderna e Luciano Berio). Entra a far parte del Sindacato Musicisti Italiani.
Nel 1957 sposa Leda Gentile, italo-argentina, studentessa presso l’Università per stranieri
di Perugia; dalle nozze nasceranno i figli Simonetta (1958) e Luca (1963).
1959-1965
Sono gli anni della rivista “Ordini. Studi sulla nuova musica” (1959), della nascita
dell’associazione per la musica contemporanea “Nuova Consonanza”, ad opera di Franco
Evangelisti, Mario Bertoncini, Mauro Bortolotti, Antonio De Blasio, Domenico Guaccero,
Egisto Macchi, Daniele Paris, delle “Settimane Internazionali Nuova Musica” di Palermo
(1960-1968). Grazie all’amicizia con Franco Evangelisti conosce il pittore Franco Nonnis e
il poeta Alfredo Giuliani; frequenta i compositori americani, ospiti a Roma dell’American
Academy (Larry Austin, John Eaton, John Heineman, Richard Trythall).
Scrive le prime tre delle 4 Poesie di Paul Éluard (le prime due vengono eseguite da Magda
László, dedicataria delle liriche, presso l’American Academy di Roma), gli Studi (1960) per
clarinetto, corno e viola dedicati a Luigi Nono e gli Episodi concertanti (1961) per
orchestra, eseguiti a Palermo rispettivamente negli incontri del ’60 e del ’61. Con
l’esecuzione dei Tre movimenti (1960-61) per flauto e pianoforte presso il Conservatorio
“Cherubini” di Firenze, nell’ambito della rassegna “Vita musicale contemporanea”, si avvia la
conoscenza con Pietro Grossi e l’esperienza elettronica presso lo studio S2FM, dapprima
all’interno del Conservatorio, poi presso il CNUCE dell’Università di Pisa.
Negli anni 1963-65 si svolgono a Roma, presso il teatro delle Arti, i primi tre festival di
“Nuova Consonanza”: nel corso del primo, nel 1963, si ascoltano, tra l’altro, le sue Due
poesie per Cummings [ma Studio per E. E. Cummings n. 1].
1966-1969
È consigliere dell’associazione “Nuova Consonanza” insieme a Vittorio Consoli (presidente),
Franco Evangelisti, Paolo Renosto, Giacinto Scelsi, al quale è legato da amicizia sin dai primi
anni Sessanta. Nel ’68 partecipa per l’ultima volta ai Ferienkurse di Darmstadt; conosce
Adam Kaczy?ski, Marek Mietelski e il gruppo polacco MW2.
Nel 1967-68 ottiene la nomina per l’insegnamento delle materie musicali presso
l’Accademia Nazionale di Danza di Roma in sostituzione di Nicola Costarella, musicista e
critico musicale. Ottiene successivamente il passaggio alla cattedra di Storia della musica,
lasciata da Luigi Colacicchi per raggiunti limiti d’età, incarico che manterrà sino al 1978.
Scrive Simmetrie (1965), eseguito a Venezia dal duo Gazzelloni/Canino, Contre 2 (1965),
vocalizzo per soprano e strumenti, pensato per la voce sperimentale della cantante
giapponese Michiko Hirayama e dedicato alla moglie Leda, Transparencias (1968) per
clavicembalo e archi, Pour le piano (1969) e Links (1969), divertimento per archi dedicato ai
“Solisti Veneti”. Realizza a Firenze, presso lo studio di Grossi S2FM, la sua prima
composizione elettronica, Studio 1 (1968).
1970-1975
Negli anni Settanta collabora con l’ente radiofonico della RAI per la programmazione degli
ascolti musicali del terzo canale e della filodiffusione.
Nel 1973 scompare prematuramente la moglie Leda, per la quale scriverà Sine nomine
(1974) per voce e strumenti.
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BIOGRAFIA
Inizia la collaborazione con la ballerina e coreografa Patrizia Cerroni, sua ex-allieva presso
l’Accademia di Danza di Roma. Alcuni suoi lavori, già realizzati, vengono utilizzati per le
coreografie della Cerroni e della sua compagnia “I danzatori scalzi”, fondata nel ’74.
Conosce a casa della Cerroni la storica e critica dell’arte Simonetta Lux.
Scrive Grazie per essere venuti! Carnaval per Klavietrio e lettore (1970), E tu? nondramma su
testi di Alfredo Giuliani (1970-‘71), la sua prima esperienza teatrale, E tuttavia…
concatenazioni per archi (1972), eseguito a Roma nella stagione 1972 dell’Istituzione
Universitaria dei Concerti, Appunti per un trio “Cher nocturne” (1972), composizione
vincitrice della medaglia d’oro al concorso “A. Casella” di Napoli dello stesso anno e ivi
eseguita per i concerti dell’Accademia musicale napoletana, Studio dal vero: BS 28.V.74.,
ispirato alla strage di Brescia ed eseguito a L’Aquila dall’Officina aquilana diretta da Gianluigi
Gelmetti, ai quali il lavoro è dedicato. Realizza a Firenze la sua seconda composizione
elettronica, Mottetto (1971).
1976-1980
Entra a far parte del Consiglio di amministrazione del teatro dell’Opera di Roma. Lascia nel
1978 l’Accademia di danza in quanto vincitore della cattedra per l’insegnamento della
Nuova Didattica della Composizione (oggi Composizione sperimentale) presso il
Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Nel 1980 muore a Roma Franco Evangelisti.
Scrive I carry (1977) per voce e chitarra su testo di E. E. Cummings, Hommages Dommages
(1978), rondò per Klaviertrio, dedicato a Simonetta Lux, Tiuit (1979) per violoncello solo
(poi anche in versione scenica per cello, contrabbasso e attrice-danzatrice) e la serie dei
pezzi dedicati alla poesia di John Berryman: Quartetto d’archi (Preludio a Berryman) (197879), anche nella versione per trio d’archi), Room 231: Something black (1980), poi confluiti
nello spettacolo Berryman: LetturAzione, realizzato a Roma nel 1981 presso il teatro
Spaziozero, L’attesa…Il professor PI (1980) su testi di Alfredo Giuliani per voce e nastro
magnetico. Realizza le musiche per lo spettacolo C’est ici que l’on prend le bateau di Patrizia
Cerroni e partecipa insieme ai “Danzatori scalzi” e alla Cerroni stessa ad una lunga tournée
in India e poi in Europa (e in Italia).
1981-1985
Ottiene il trasferimento a Roma presso il Conservatorio di Santa Cecilia a partire dall’a.a.
1981-1982. Entra a far parte del comitato di redazione della rivista “1985. La Musica” della
casa editrice Edipan di Roma, fondata da Bruno Nicolai e diretta dal pianista compositore
Daniele Lombardi. Nel 1984 scompare a Roma il caro amico Domenico Guaccero. Nel
triennio 1983-1985 viene eletto presidente di “Nuova Consonanza” (del Consiglio di
amministrazione dell’associazione fanno parte Egisto Macchi, Carlo Marinelli, Ennio
Morricone, Alessandro Sbordoni) e realizza così i festival Petrassi, già impostato dal suo
predecessore, Guaccero, omaggio al musicista scomparso nell’aprile ‘84, e la retrospettiva
sugli anni Sessanta intitolata “Musica-gesto-parola-azione”.
Scrive Due poesie di Pasolini (1981) per baritono e pianoforte che esegue all’Idroscalo di
Ostia, insieme a Mario Poce, per commemorare il poeta assassinato, Musica per una scena
(1984) per trio d’archi e Arioso per la scena III (1984) per basso e quartetto d’archi, lavori
entrambi nati dalle suggestioni della poesia di Giuliani, il primo dei quali dedicato all’amico
poeta, la Sinfonia “Est animum” (1985) per orchestra dedicata a Domenico Guaccero,
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BIOGRAFIA
sinfonia rimasta poi ineseguita malgrado l’inserimento nel programma della stagione
concertistica della RAI di quell’anno.
1986-1990
Scrive diverse composizioni cameristiche (anche per strumento solo) e Nell’impoetico
mondo (1989), sulla poesia Le ceneri di Pasolini di Edoardo Sanguineti, per soprano e sei
strumenti. Grazie a una commissione di Eugenio Battisti, realizza con Walter Branchi
Paesaggi intravisti, composizione elettronica per la manifestazione “Il luogo del lavoro”, XVII
Triennale di Milano (1987).
1991-1995
Lascia la cattedra di composizione nell’ottobre del 1993 per raggiunti limiti d’età. Assume
nel 1995 la direzione artistica dell’Orchestra regionale di Roma e del Lazio (ora
Fondazione “Ottavio Ziino”), incarico che manterrà sino al 2000. Ottiene nel 1991-92 una
commissione da parte dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia per la composizione di un
lavoro per voce e orchestra, Grandes misterios habitam, su versi di Fernando Pessoa, poi
eseguito nel corso della stagione sinfonica di quell’anno. Nel biennio 1995-96 è
nuovamente presidente di “Nuova Consonanza” (del Consiglio direttivo fanno parte Ada
Gentile, Luca Lombardi, Michele Lomuto, Enrico Marocchini).
Scrive I pesci di vento (1991), su versi dettati al telefono da Giuliani, per soprano, flauto e
pianoforte, i Sonetti licenziosi (1992) su versi di Dacia Maraini per soprano e sei strumenti,
Se un altro giorno saluto (1994) su un testo inedito di Elio Pecora per coro di voci bianche,
diverse composizioni per strumento solo e per gruppo strumentale (Ai margini frastagliati
(1993) e “Della guerra, del mistero, delle stelle” (1995)), i due melologhi La nuvola in calzoni
da Io Majakovskij (1994) e il Monologo di Goethe da Carlotta a Weimar (1994).
1996-2000
Nel 2000 lascia la direzione artistica dell’Orchestra di Roma e del Lazio. Scrive O poeta è
um fingidor (1998-99), una terna di composizioni cameristiche ispirate a una lirica di
Fernando Pessoa, Cadenze, quasi un concerto per flauto e orchestra (1999) e Composizione
per timpani e fiati, nel quarto centenario della morte di Giordano Bruno su commissione
dell’Orchestra regionale di Roma e del Lazio.
2001-2005
Collabora con gli artisti Antonio Capaccio e Piero Mottola: realizza per la manifestazione
“Incantesimi. Azioni dell’arte”, curata nella primavera 2004 da Simonetta Lux ed Elisabetta
Cristallini presso il palazzo Orsini di Bomarzo (Viterbo), Variazioni sul grido con Mottola e
…questa umidità l’acqua calcarea con Capaccio. Avvia la composizione di lavori scenici su
testi degli amici poeti Bruno Cagli ed Elio Pecora.
Scrive La vallée incommensurable su versi di Giacinto Scelsi per soprano, clarinetto basso e
viola, eseguita nel corso del festival Scelsi 2005.
2006Nell’aprile 2006 a Roma, nell’ambito della stagione dei concerti dell’Orchestra regionale di
Roma e del Lazio, si ascolta in prima esecuzione assoluta la composizione per voce
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BIOGRAFIA
recitante e orchestra Ou le silence, versione ampliata della composizione omonima del
2004, sulle elegie duinesi di Rainer M. Rilke.
Nel maggio 2006 a Torino, nell’ambito della manifestazione “Brecce.Teatro d’arte”, viene
rappresentato in prima esecuzione assoluta il lavoro ...questa umidità, l'acqua calcarea.
Frammenti da Thomas Bernhard su immagini di Antonio Capaccio, per voce recitante,
soprano, percussioni e nastro magnetico.
Francesco Guadagnuolo, opera pittorica su Links di Mauro Bortolotti dalla collezione
“Segno Suono Luce”, 1997 (originale a colori)
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Catalogo delle opere (1953-2006)
Il catalogo delle opere di Mauro Bortolotti è stato compilato sulla base dei materiali
custoditi presso l’archivio privato del musicista (partiture manoscritte e a stampa,
programmi di sala, locandine, recensioni, note di copertina dei dischi e dei cd) e delle
edizioni a stampa cedute dalle case editrici Edipan (Roma), Ricordi e Suvini Zerboni
(Milano) all’Archivio storico della musica contemporanea di Roma (Museo Laboratorio di
Arte Contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza”).
Le composizioni sono state ordinate tenendo conto del genere di appartenenza (cfr. i
paragrafi del catalogo: 1. Teatro per musica, 2. Coro (con o senza strumenti), 3. Voce e orchestra,
4. Voce e strumenti, 5. Orchestra, 6. Musica per strumenti, 7. Musica elettronica (con e senza voci
e/o strumenti)) e, nell’ambito di ciascun genere, in successione cronologica. Al catalogo per
generi fa seguito un indice cronologico, ove ciascun lavoro è segnalato semplicemente con
il titolo, l’anno di composizione e l’organico, e un indice alfabetico di tutte le opere.
Per ciascuna composizione sono stati riportati: il titolo (e l’eventuale sottotitolo), l’anno di
composizione, l’organico, l’autore del testo letterario, il titolo e i dati bibliografici della fonte
utilizzata (nel caso delle opere vocali), la dedica (ove presente), la casa editrice (nel caso
delle opere stampate), i dati riguardanti la prima esecuzione assoluta del lavoro (città,
rassegna, luogo, data, interpreti).
Per ciò che concerne le opere vocali ci si è limitati a indicare i riferimenti bibliografici dei
testi effettivamente ‘lavorati’ dal musicista (viceversa, sono stati omessi tali riferimenti in
mancanza di una fonte bibliografica precisa) e, qualunque ne fosse la provenienza,
omettendo di volta in volta di indicare l’impiego di un frammento o del testo nella sua
interezza. Ove non diversamente segnalato, s’intende che il testo è di libera invenzione; nel
caso delle trascrizioni di opere vocali di altri autori, si omettono i riferimenti bibliografici
relativi al testo impiegato nella fonte trascritta e rimasto fedele all’originale.
Va infine ricordato che buona parte delle opere di Bortolotti ha subìto nel corso degli
anni aggiustamenti, revisioni, a volte anche radicali mutamenti di struttura e di organico: si è
cercato di dare conto di tutte queste varianti (perlomeno di quelle compiute a tutt’oggi),
che vanno dalla semplice trascrizione, alla revisione e alla nuova versione, in
corrispondenza della prima comparsa di ciascun lavoro (s’intende dire, nell’ambito del
genere originario di appartenenza), con la sola eccezione dei rari casi ove le novità della
versione successiva hanno determinato un nuovo percorso nella storia dell’opera stessa
(nuove edizioni, particolari commissioni ed esecuzioni, etc.)
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CATALOGO DELLE OPERE
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(1953-2006)
Abbreviazioni
ar.
att.
B.
Bar.
cb.
chit.
cl.
cl.b.
clav.
co.
comp. el.
cor.
cr.
danz.
dir.
esec./esecc.
fg.
fis.
fl.
gr. strum.
lett.
ms.
na. magn.
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arpa
attore/attrice
Basso
Baritono
contrabbasso
chitarra
clarinetto in Sib
clarinetto basso
clavicembalo
coro
composizione elettronica
coreografa
corno in Fa
danzatrice
direttore
esecutore/i
fagotto
fisarmonica
flauto
gruppo strumentale
lettore/lettrice
manoscritto
nastro magnetico
ob.
orch.
org.
ott.
perc.
pf.
quart.
rev.
S.
sax
strum./strumm.
T.
timp.
tr.
trascr.
trb.
v./vv.
vc.
vers.
v. rec.
vl.
vla
oboe
orchestra
organo
ottavino
percussioni
pianoforte
quartetto d’archi
revisione
Soprano
sassofono
strumento/i
Tenore
timp.
tromba in Do
trascrizione
trombone
voce/i
violoncello
versione
voce recitante
violino
viola
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CATALOGO DELLE OPERE
(1953-2006)
1. Teatro per musica
E tu? nondramma in un atto, su testi di Alfredo Giuliani in un prologo, due intermezzi (anche
parlati), senza finale [ma E tu? Scena in grigio (pp) (Materiale poetico di Giuliani)] (19701971) incompiuto
S.,T., mimo, orch. da camera
ALFREDO GIULIANI, Povera Juliet e altre poesie: Povera Juliet, Milano, Feltrinelli, 1965; ID., Il
Tautofono, Milano, Feltrinelli, 19691
Estratto da “E tu?”, nondramma in un atto, scena per soprano e percussioni (materiale
poetico di S. Mallarmé, A. Giuliani e A. Porta) (1970-71)
v., perc.
STÉPHANE MALLARMÉ, ALFREDO GIULIANI, ANTONIO PORTA
“a Michiko Hirayama”
Roma, “V Rassegna di musica moderna e contemporanea”, teatro Beat 72, 12.V.1975
(Michiko Hirayama, Michele Iannaccone)
Berryman: LetturAzione (1981)
S., B., att., lett., danz., gr. strum., na. magn.
JOHN BERRYMAN, Canti onirici e altre poesie, trad. it. a cura di Sergio Perosa,Torino, Einaudi,
1978
Roma, teatro Spaziozero, 3.IV.1981 (Joan Logue, Ugo Proietti, Patrizia Cerroni, Mauro
Bortolotti, Quartetto Nuova Musica)
Aucassin et Nicolette, cantafavola del XII secolo (1983-1984)
2 vv., co. di voci bianche, 3 tr., trb., perc.
s.a., Aucassin et Nicolette, trad. it. a cura di Mariantonia Liborio,Torino, Einaudi, 1976
Terni, Istituto Musicale “Briccialdi”, 8.VI.1984
La nuvola in calzoni da Io Majakovskij, melologo futurista in cinque episodi su testi di V.
Majakowskij, musiche di Bortolotti, Ada Gentile, Michelangelo Lupone, Lamberto Macchi,
Enrico Marocchini (1994)
v. rec., S., ob., cl., sax, pf., perc., vl., vc.
VLADIMIR MAJAKOWSKIJ, testi a cura di Bruno Grieco e Georges De Canino
Roma, XXXI festival di “Nuova Consonanza”, Acquario Romano, 19.XI.1994 (Roberto
Herlitzka, Maria Chiara Pavone, Gruppo strumentale Telejon, dir. Enrico Marocchini)
Monologo di Goethe da Carlotta a Weimar (1994)
v. rec., S., lO strumm.
THOMAS MANN, Carlotta a Weimar, trad. it. a cura di Lavinia Mazzucchetti, Milano,
Mondadori, 1955
Edipan, n. ed. EP 8521
1
Nella prima versione del lavoro erano stati inseriti, accanto ai testi di Giuliani, due frammenti
rispettivamente di S. Mallarmé e di A. Porta.
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(1953-2006)
Roma, “Nuova Musica Italiana XI”, Acquario Romano, 20.X.1995 (Alessandro Rossi, Maria
Chiara Pavone, Gruppo strumentale di Roma, dir.Vittorio Bonolis)
…questa umidità, l’acqua calcarea. Frammenti per Thomas Bernhard (2004, 2006 [vers.
ampliata])
musiche di Bortolotti, immagini di Antonio Capaccio
na. magn. (I vers.); v. rec., S., perc., na. magn.
THOMAS BERNHARD, Ave Virgilio, trad. it. a cura di Anna Maria Carpi, Parma, Guanda, 1991,
L’imitatore di voci, trad. it. a cura di Eugenio Bernardi, Milano, Adelphi, 1987, Ungenach
(1968), trad. it. a cura di Eugenio Bernardi,Torino, Einaudi,1993, Conversazioni di Thomas
Bernhard, trad. it. a cura di Elisabetta Niccolini, Parma, Guanda, 1989, Il nipote di Wittgenstein,
trad. it. a cura di Renata Colorni, Milano, Adelphi, 1989, La partita a carte, trad. it. a cura di
Magda Olivetti,Torino, Einaudi, 1983, Il soccombente, trad. it. a cura di Renata Colorni,
Milano, Adelphi, 1985
Bomarzo, “Incantesimi. Azioni sull’arte”, palazzo Orsini, 20.III.2004 (I vers.)
Torino, “Brecce. Per l’arte contemporanea”, teatro della Cavallerizza, Manica Lunga,
26.V.2006 (Antonio Locorriere, Maria Chiara Pavone, Antonio Caggiano, Gianluca Ruggeri)
2. Coro (con o senza strumenti)
C’est l’arbre de la liberté, Toute sa vie, due Lieder per coro misto e orchestra (1962-1964)
co. misto, orch.
PAUL ÉLUARD, Poesie (con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica): En Espagne, La dernière nuit,
trad. it. a cura di Franco Fortini,Torino, Einaudi, 1955
“a Goffredo Petrassi” (I Lied)
5 balletti da Gastoldi [trascr.] (1973)
co., perc., archi
Reggio Emilia, teatro Municipale, 8.XII.1973 (I Solisti Aquilani, Ottetto vocale italiano, dir.
Vittorio Antonellini)
5 Epigrammi di Marziale, per ottetto vocale (1979)2
8 vv.; 5 vv.; 5 vv., 4 cl.
MARZIALE, Nil lascivus, Arctoa de gente, Heredes, Mentitur, Intactas, in Epigrammi, Parma,
Guanda, 1962
BMG
Roma, “RomaEuropa festival 1991”, Accademia di Ungheria [ma Sala dello Stenditoio al
Complesso del San Michele],17.VI.1991 (Novo Parnaso e Quartetto “Claravoce”, dir.
Vittorio Bonolis)
2
Nella versione per 5 voci l’epigramma Arctoa de gente è il penultimo, con il titolo Flava magis (ultimo
verso dell’epigramma). La partitura presenta il motto iniziale “O tu! Cara scienzia mia, musica”.
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CATALOGO DELLE OPERE
(1953-2006)
Se un altro giorno saluto (1994)
co. di voci bianche
ELIO PECORA, Se un altro giorno saluto, ms. inedito
“a Bruna Liguori Valenti e al suo Coro Aureliano”
Edipan, n. ed. EP 8504
Roma, teatro dei Satiri, 1994 (Coro Aureliano, dir. Bruna Liguori Valenti)
3. Voce e orchestra
Cantata (1954-1955)
T., orch. da camera
THOMAS S. ELIOT, Four Quartets: Little Gidding, trad. it. a cura di R. La Capria e T. Giglio, Siena,
Edizioni Ali, 1944
Roma, Saggio della Scuola di composizione di Goffredo Petrassi, Sala accademica di Santa
Cecilia, 26.V.1955 (Herbert Handt, orchestra del Conservatorio, dir. Daniele Paris)
Contre encore…vocalizzo per soprano e orchestra (1994 [nuova vers. di Contre 2])
S., orch.
Ricordi, n. ed. 137196
Grandes misterios habitam. Omaggio a Pessoa (1992)
S., orch.; S., orch. da camera (trascr.)
FERNANDO PESSOA, Poesias: Cancioneiro, Lisboa, Atica, 1942, trad. it. Una sola moltitudine, a
cura di A.Tabucchi, I, Milano, Adelphi, 1979
Edipan, n. ed. EP 101
Roma, Stagione Sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Auditorium di via della
Conciliazione, 31.V.1992 (Luisa Castellani, orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa
Cecilia, dir. Roberto Abbado)
Ou le silence. Studio per le Elegie Duinesi (R. M. Rilke) per voce recitante, [soprano] e
orchestra (2004 [I vers., v. rec., 4 strumm.], 2006 [II vers.])
v. rec., orch. (II ver.)
RAINER MARIA RILKE, Elegie duinesi I, II,VII, trad. it. a cura di Franco Rella, Milano, Rizzoli, 2001
Roma, Stagione concertistica dell’Orchestra di Roma e del Lazio, Nuovo Auditorium –
Parco della Musica, 30.IV.2006 (Rossana Piano, Orchestra di Roma e del Lazio, dir. Lü Jia)
4. Voce e strumenti
Tre poesie di Rocco Scotellaro (1957, 1990 [trascr. di Desiderio e Due eroi])
v., cl., pf.; Desiderio e Due Eroi (trascr. per v., fl., cl. pf.)
ROCCO SCOTELLARO, È fatto giorno: Desiderio, Due eroi, O Fons Bandusiae, Milano, Mondadori,
1956
“a Carlo Levi”
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(1953-2006)
Roma, RAI, 1958 (Luisa Ferrero)
Roma, 10.III.1991 (trascr. 1990) (Maria Chiara Pavone, Gruppo Collage, dir. Cristina
Cimagalli)
Breve cantata sacra (da “La Passione secondo San Matteo”), per basso, viola, violoncello e
pianoforte (1957)
B., vla, vc., pf.
EMILIO TADINI, La Passione secondo San Matteo (poemetto), “Il Politecnico. Rivista di cultura
contemporanea”, II (edizione mensile), settembre 1947, n. 36, pp. 15-18
Edipan, 1987, n. ed. EP 7685
Roma, Sala Borromini, 26.II.1958 (Ugo Proietti, Osvaldo Pedercini, Paolo Leonori, Mauro
Bortolotti)
4 Poesie di Paul Éluard, per soprano, clarinetto e cello: Sur les pentes inférieures (1959), da
“Nous sommes” (frammento) (1959), da “Égolios” (frammenti) (1970), En chili (1978) (19841988 [trascr.])
S., cl., vc. (I, trascr. per v., fl., chit., vl., pf.; III, trascr. per v., fl., cl.b., chit., pf., vl., vc.)
PAUL ÉLUARD, Poesie (con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica): Nous sommes, Sur les pentes
inférieures, Égolios, En Espagne, trad. it. a cura di Franco Fortini,Torino, Einaudi, 1955
“a Magda László” (I), (II); “a Leda” (III)
Edipan, 1983, n. ed. EP 612
Roma, festival SIMC, American Academy of Rome, 14.V.1959 [I, II] (Magda László, Alberto
Fusco, A. Bartolozzi)
Latina, festival Pontino, 1988 (Joan Logue, Logos Ensemble)
Studio per E. E. Cummings n. 1 (1962 – 1963)
S., 5 esecc. (fl., cl., 3 perc.)
E. E. CUMMINGS, Poesie, Milano, Lerici, 1963
Roma, I Festival di “Nuova Consonanza”, teatro delle Arti, 28.V.1963 (Sylvia Brigham, K.
Kraber, William O. Smith, M. Dorizzotti, E. Catania, dir. Daniele Paris)
Contre 2, vocalizzo per soprano [ma voce] e strumenti (1965-67,1994 [Contre encore…,
trascr. e rev. per soprano e orchestra])
S., 5 strumm. (cl., vl., trb., cb., pf.)
“a mia moglie” (I vers.)
Ricordi, n. ed. 131889, 137196
Roma, Accademia Filarmonica Romana, 28.VI.1965 (Michiko Hirayama, William O Smith,
Massimo Coen, John Heineman, Franco Petracchi, John Eaton, dir. Daniele Paris)
Resurrezione dopo la pioggia (1966)
T., pf.
ALFREDO GIULIANI, Povera Juliet e altre poesie: Resurrezione dopo la pioggia, Milano,
Feltrinelli,1965
Grazie per essere venuti! Carnaval per trio e lettore (1970)
v. rec., vl., vc., pf.
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(1953-2006)
GIACOMO LEOPARDI, Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di
Mad. La Baronessa di Staël Holstein ai medesimi, Recanati, 18.VII.1816; ID., A Pietro Giordani, a
Milano, Recanati 30.IV.1817 (in FRANCESCO DE SANCTIS, Saggi e scritti critici e vari, Milano,
Barion, 1937); ABRAHAM MOLES, Analisi delle strutture del messaggio poetico ai differenti livelli
di sensibilità. L’aspetto informazionale dei problemi di una poetica, “Il Verri”, aprile 1964, n. 14,
pp. 3-21; estratto dalla sentenza sul disastro del Vajont del 17.XII.1969, depositata al
Tribunale dell’Aquila il 20.IV.1970
Ricordi, n. ed. 131880
Roma, teatro Ateneo, 21.XII.1970 (Andrea Giordana, Massimo Coen, Guido Mascellini,
Antonello Neri)
L’alba scivolando (1972)
Bar., pf.
NUNZIO COSSU, L’alba scivolando, ms. inedito
Sine nomine, per soprano e strumenti (1974)
v., 4 strumm. (fl., vc., trb., perc.)
“Scritto per Nuove Forme Sonore 1974”
Roma, teatro Beat 72, 22.XII.1974 (Nuove Forme Sonore)
I carry (7.II.1977)
v., chit.
E. E. CUMMINGS, Poesie, Milano, Lerici, 1963
Roma, teatro Beat 72, 27.III.1977 (Joan Logue con chitarra)
Room 231: Something black (1980, 2003 [rev.])
S., quart.
JOHN BERRYMAN, Canti onirici e altre poesie: Room 231: the fourth week, trad. it. a cura di
Sergio Perosa,Torino, Einaudi, 1978
Edipan, n. ed. EP 7686
Roma,Villa Medici, 18.VI.1980 (Michiko Hirayama, I Solisti di Roma)
Due poesie di Pasolini (1980)
Bar., pf.
PIER PAOLO PASOLINI, Poesia in forma di rosa: Nuova poesia in forma di rosa, Cosa fate, Milano,
Garzanti, 1964
Ostia, 1981 (Mario Poce, Mauro Bortolotti)
Cantata n. 3 (1981-1982)
v. rec., gr. strum.
ARNOLD SCHÖNBERG, Manuale d’armonia: Introduzione, trad. it. a cura di Giacomo Manzoni,
Milano, il Saggiatore, 1963
Terni, Istituto Musicale “Briccialdi“, 25.V.1982 (allievi dell’Istituto, dir. Mauro Bortolotti)
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(1953-2006)
Arioso per la Scena III, per basso e quartetto d’archi (1984)
B., quart.
ALFREDO GIULIANI, Povera Juliet e altre poesie: Invetticoglia, Milano, Feltrinelli, 1965
Edipan, 1985, n. ed. EP 7241
Roma, teatro Ghione, 10.XII.1984 (Ugo Proietti, Gruppo Musica 900)
Nell’impoetico mondo, per soprano e strumenti, testo di E. Sanguineti (1989)
S., 6 strumm. (cl., cr., trb., vl., vc., cb.)
EDOARDO SANGUINETI, Stracciafoglio (poesie 1977-79): Le ceneri di Pasolini, Milano, Feltrinelli,
1980
Edipan, 1990, n. ed. EP 7895
Roma, XXV11 Festival di “Nuova Consonanza”, Auditorium del Foro Italico della RAI,
22.II.1990 (Jana Mrazova, M. Dionette, M. Costanzi, G. Bonolis, M.Vaffier, S. Genovese, dir.
Vittorio Bonolis)
I pesci di vento. Scherzo franco-ispano (1991, 1992 [trascr.])
S., fl., pf.
ALFREDO GIULIANI, Ebbrezza di placamenti: Minimali [frammento],3 Lecce, Piero Manni, 1993
Amelia, 4.V.1991 (Maria Chiara Pavone, Annalisa Spadolini, Stephen Kramer)
Sonetti licenziosi, per soprano, viola e strumenti (1992, 2000 [nuova vers.])
S., 6 strumm. (fl., cl., cr., pf., vla, vc.)
DACIA MARAINI, dimenticato di dimenticare: ti terrò, Se avesse, Rotolando fra acidi,Torino,
Einaudi, 1982
BMG
Arcavacata di Rende (Cosenza), Università della Calabria, 4.XII.1992 (Barbara Lazotti,
Gruppo Musica d’Oggi, dir. Luigi Lanzillotta)
J. Brahms, Gestillte Sehnsucht op. 91 n.1 [trascr.] (1992)
v., fl., ob., cl., chit., pf., vl., vla, vc.
Norwich, festival Norwich, 14.X.1992 (Sara Stowe, Logos Ensemble)
I. Stravinskij, Pastorale [trascr.] (1992)
v., fl., ob., cl., chit., pf., vl., vla, vc.
Norwich, festival Norwich, 14.X.1992 (Sara Stowe, Logos Ensemble)
Scena VII. Cocktail per Michiko (estratti da contenitori vari) (1993)
v., pf.
3
La prima versione di questo frammento fu dettata al telefono dal poeta al compositore (Bortolotti
conserva ancora l’appunto manoscritto, con la seguente disposizione dei versi: “I pesci di vento,/ snelli
branchi,/ traversano ancora l’erba del pendio/ e si perdono agili sul fondo”). Alcuni anni dopo Giuliani
ha inserito il frammento nella raccolta edita nel ’93 nella forma seguente: “I pesci di vento snelli
branchi/ ancora traversano l’erba del pendio/ si perdono agili sul fondo”.
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CATALOGO DELLE OPERE
(1953-2006)
“a Michiko”
Roma, “Concerto per e con Michiko Hirayama”, Istituto Giapponese di Cultura, 17.VI.1993
(Michiko Hirayama)
S’un casto amor (1995)
S., pf.
MICHELANGELO, Rime: S’un casto amor, Bari, Laterza, 1967
Stoccarda, settembre 1995 (Ilaria Galgani, Stephen Kramer)
Due poesie di M. Marshall: Schatten, Ein Spiel (1995)
v., pf.
MICHAEL MARSHALL VON BIEBERSTEIN, Nuovi testi di poesia. Dediche italiane e altri versi:
Schatten, Ein Spiel, a cura di Maria Mannos e Ariodante Mariani, Biblioteca Cominiana, 1991
Roma, XXXII festival di „Nuova Consonanza“, Accademia Tedesca Villa Massimo, 29.X.1995
(Maria Chiara Pavone, Mauro Bortolotti)
Ghirlanda per Penna (1997)
Bar., fl., vl., vla, vc.
SANDRO PENNA, Poesie: Lavoro di pescatori, se trasalisce, Com’era l’onda, Milano, Garzanti,
1995
Roma, “Sandro Penna poeta a Roma”, Palazzo delle Esposizioni, 16.V.1997 (Gianpaolo
Fiocchi, Guido Sasso, Giorgio Sasso, Fabrizio De Melis, Luca Peverini)
Il Museo di Delphi (1997)
v., pf.
ELSA DE GIORGI
“alla sempre divina sempre Elsa con amore“
Roma, libreria Bibli, 1997 (Maria Chiara Pavone, Mauro Bortolotti)
Due poesie di Angela Chermaddi (2003)
v., cl., vc.
ANGELA CHERMADDI, Per cominciare il giorno: e l’anima trema ancora, e trema la mia gioia,
Roma, Fermenti, 1999
Collestatte (Terni), Chiesa di San Liberatore, 28.VI. 2003 (Maria Chiara Pavone, Guido
Arbonelli, Giacomo Menna)
Trittico sonoro. Omaggio a Giuseppe Manini (2005)
Bar., cl.b., tr., vc., pf.
GIUSEPPE MANINI, Italia mia, benché ‘l parlar sia ‘ndarno: Amicizia, Scherzo, Un pezzo de’ storia,
Terni, Nuovo teatro edizioni, 1980
Narni (Terni), teatro Comunale, 19.III.2005 (Roberto Abbondanza, ensemble In Canto, dir.
Fabio Maestri)
La vallée incommensurable (2004-2005)
S., cl.b., vla
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(1953-2006)
GIACINTO SCELSI, L’archipel nocturne (1954): La vallée incommensurabile; La conscience aiguë
(1955): Cette nuit, Roma – Venezia, le parole gelate, 1988
Roma, festival Scelsi, Goethe Institut-Rom,13.XII.2005 (Keiko Morikawa, Massimo Munari,
Gabriele Croci)
Ou le silence. Studio per le Elegie Duinesi (R. M. Rilke) (2004, 2006 [II vers.])
v. rec., 4 esecc. (fl. cl., vcl., pf.)
RAINER MARIA RILKE, Elegie duinesi I, II,VII, trad. it. a cura di Franco Rella, Milano, Rizzoli, 2001
Roma, “Concerto per i sessant’anni di Agostino Ziino”, Auditorium dell’Università di Roma
Tor Vergata, 8.XI.2004 (Rossana Piano, Gruppo “Musica d’oggi”: Anna de Luca, Franco
Ferranti, Michele Chiapperino, Antonello Maio, dir. Fausto Anzelmo)
5. Orchestra
Concerto per Orchestra (1956)
orch.
Roma, Saggio della Scuola di composizione di Goffredo Petrassi, Sala accademica di Santa
Cecilia, 19.V.1956 (Orchestra del Conservatorio, dir. Daniele Paris)
Episodi concertanti (1960-1961)
orch.
Palermo, II Settimana Internazionale Nuova Musica, Sala Scarlatti del Conservatorio
“V. Bellini”, 24.V.1961 (Orchestra sinfonica siciliana, dir. Daniele Paris)
Studio dal vero: BS. 28.V.74 (1974,1975 [trascr. e rev.])
15 strumm.; pf. solista, orch. da camera
“a Gianluigi Gelmetti e all’Officina dell’Aquila”
L’Aquila, Auditorium Castello, 19.III.1975 (L’Officina dell’Aquila, dir. Gianluigi Gelmetti)
Sinfonia “Est Animum”, per orchestra (1984-1985)
orch.
“A Domenico Guaccero”
Cadenze, quasi un concerto per flauto e orchestra (1999, 2004 [rev.])
fl., orch.
Edipan, n. ed. EP 8621
Sanremo, teatro dell’Opera del Casinò Municipale, 16.III.2000 (Mario Ancillotti, dir. Angelo
Campori)
6. Musica per strumenti
Preludio, Ricercare e Finale (1953)
fl., cl., tr., cr., fg.
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CATALOGO DELLE OPERE
(1953-2006)
Studi, per clarinetto, viola e corno (1960)
cl., cr., vla
“a Luigi Nono”
Suvini Zerboni, 1964, n. ed. s. 6264 z.
Palermo, I Settimana Internazionale Nuova Musica,Villa Igea, 14.V.1960 (Giacomo Gandini,
Domenico Ceccarossi, Osvaldo Remedi)
Tre movimenti, per flauto e pianoforte (1960-1961)
fl., pf.
Edipan, 1989, n. ed. EP 7893
Firenze, “Vita musicale contemporanea”, Conservatorio “Luigi Cherubini”, 17.III.1961 (Mario
Gordigiani, Paolo Renosto)
Frammenti 5 [ma Aleatorio I, prima vers.], quartetto per archi (con la possibilità di
aggiungere da 1 a 4 archi o fiati) (1961-1966 [vers. definitiva])
quart. (con la possibilità di aggiungere da 1 a 4 archi o fiati)
Ricordi, 1968, n. ed.131425
Roma, “La Nuova Musica in Italia”, teatro Ateneo, 31.III.1964 (Quartetto Nuova Musica)
Studio per E. E. Cummings n. 2, per undici esecutori (1964)
11 esecc. (ob., cl. (anche piccolo), cl.b., sax contralto, cr., vla, vc., cb., perc.(3 esecc.: block,
tam tam, piatto sospeso, wood block, bongos, tamburo, tom tom, xilomarimba)
Suvini Zerboni, 1964, n. ed. s. 6303 z.
Venezia, XXVII festival della Biennale, teatro La Fenice, 14.IX.1964 (Gruppo strumentale da
camera per la musica contemporanea italiana, dir. Bruno Nicolai)
Simmetrie (1965,1966 [trascr. e rev.])
fl. (anche ott. e fl. in Sol), pf.; fl. (anche in Sol)
Ricordi
Venezia, XXVIII festival della Biennale, teatro La Fenice, 12.IX.1965 (Severino Gazzelloni,
Bruno Canino)
Combinazioni libere, improvvisazione per viola e pianoforte (1965)
vla, pf.
Ricordi, 1968, n. ed. 131426
“a Aldo e Gabriella Bennici”
Firenze, “Vita musicale contemporanea”, Conservatorio “Luigi Cherubini”, 30.XI.1965 (duo
Bennici - Barsotti)
Tre tempi, introduzione, musique de nuit e toccata (1966)
cl.b., perc.
“a Bill”
Madrid, Real Musical Istituto Aleman, 1975 (Jesus Villa Rojo, J. Anraja)
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(1953-2006)
Parentesis, trio per clarinetto, fagotto e pianoforte (1967)
cl., fg., pf.
Suvini Zerboni, 1970, n. ed. s. 6926 z.
Madrid, 1967 (Gruppo Koan, dir. Arturo Tamayo)
Parentesis para cinco (1968,1975 [trascr.])
cl., fg., vl., vc., cb.
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, stagione di “Nuova Consonanza”, 17.VI.1968
(Claudio Taddei, Fernando Fadini, Massimo Coen, Luigi Lanzillotta, Giuseppe Viri, dir. Romolo
Grano)
Transparencias, per archi e clavicembalo (1968)
clav., archi
Suvini Zerboni, 1970, n. ed. S. 6900 Z.
“per Claudio Scimone e i Solisti Veneti”
Roma, Istituzione Universitaria dei Concerti, teatro Eliseo, 10.XII.1968 (I Solisti Veneti, dir.
Claudio Scimone)
Cadenza per Transparencias, per clavicembalo (1968)
clav.
Suvini Zerboni, 1970, n. ed. S. 6957 Z.
“a Mariolina de Robertis”
Roma, American Academy of Rome, 26.XI.1974 (Mariolina de Robertis)
Pour le piano (1969)
pf.
Suvini Zerboni, 1971, n. ed. s. 7049 z.
“a Brunetto ed Emilia Boscherini” (“Mosso”, p. 4); “a Th. W. Adorno (in memoriam)” (p. 7);
“a Mario Bortolotto” (p. 11)
Firenze, Graduate School of Fine Arts, 21.V.1975 (Stefano Ragni)
Links, divertimento (1969, 1971 [nuova vers.])
vl., cb., archi
Edipan, n. ed. EP 7286
“ai Solisti Veneti”
Venezia, XXX11 festival della Biennale, teatro La Fenice, 9.IX.1969 (I Solisti Veneti, dir.
Claudio Scimone)
Quattro momenti (1970)
fg., pf.
Napoli, Accademia Musicale Napoletana, Conservatorio di musica “S. Pietro a Majella”,
28.IV.1973 (duo Adriano Sabbatici - Graziella Altieri)
Alcune variazioni... (1971)
fl., 8 strumm. (cl., cr., fg., trb., 2 vl., vc., cb.)
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CATALOGO DELLE OPERE
(1953-2006)
Appunti per un trio “Cher nocturne” (1972)
cl., vc., pf. (oppure varie combinazioni di strumenti affini)
Edipan, n. ed. EP 7564
Napoli, Accademia Musicale Napoletana, Conservatorio “S. Pietro a Majella”, 13.XI.1972 (I
Nuovi Cameristi)
E tuttavia... concatenazioni per archi (1972)
11 archi; orch. di archi
Edipan, 1984, n. ed. EP 7121
Roma, Istituzione Universitaria dei Concerti, 11.XI.1972 (I solisti aquilani, dir.Vittorio
Antonellini)
A In Ran (1974)
fl. dolce, pf.
“ad Alberto Devoto”
Buenos Aires, Conserv. National de Musica, 29.VI.1974 (Alberto Devoto, Dora Castro)
“Echi” per trombone e percussione (1976)
trb., perc.
Roma, American Academy of Rome, 7.XII.1976 (Giancarlo Schiaffini, Michele Iannaccone)
hommages, dommages; rondò per trio (1978)
vl., vc., pf.
“a Simonetta Lux”
Ricordi, 1979, n. ed. 132961
Roma, festival di “Nuova Consonanza”, Palazzo delle Esposizioni, 9.XI.1978 (Massimo Coen,
Frances Marie Uitti, Mauro Bortolotti)
Quartetto (Preludio a Berryman), per archi (1978,1979 [trascr.])
quart.; trio d’archi (2 vl., vla)
Edipan, 1985, n. ed. EP 7107, 7678
Roma, Sala accademica di Santa Cecilia, 26.X.1978 (Quartetto Nuova Musica)
Roma, 11.VI.1984 (Gruppo Musica Novecento: B. Novelli, L. Astori, Michele Sicolo)
Tiuit, per violoncello (1979, 2005 [Nuit Tune, vers. scenica])4
vc.; vc., cb., att.-danz. (II vers.)
Edipan, 1988, n. ed. EP 7093
Roma, stagione di “Nuova Consonanza”, Auditorium del Foro Italico della RAI, 26.X.1981
(Luigi Lanzillotta)
Serenata, per chitarra (1979)
chit.
4
La versione teatrale, intitolata Nuit Tune, è stata composta nel settembre 2005 per Adam Kaczynski e
l’ensemble MW2 di Cracovia.
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(1953-2006)
Edipan, 1986, n. ed. EP 7287
Latina, 5.IX.1981 (Eugenio Becherucci)
…and Scherzo (1980)
vl.
Edipan, n. ed. EP 7204
Roma, teatro Centrale, 23.XI.1981 (Massimo Coen)
Foglie, per quattro esecutori (1980)
4 esecc. (fl., chit., perc., pf.)
Edipan, 1987, n. ed. EP 7103
Latina, 31.X.1986 (Logos Ensemble)
Gran Duo da concerto, per pianoforte a quattro mani (1980)
pf. a 4 mani
Edipan, 1987, n. ed. EP 7593
Perugia, Galleria Nazionale Umbra, 6.III.1975 (Duo Prodigo-Ragni)
Sulla scia dell’ispirazione (1980)
pf.
To Gather Together. A Collective Piano Composition 1978-1981, a cura di Daniele Lombardi,
Milano, Edizione Multhipla, 1982
Amsterdam, “Tentoonstelling ’60 ’80 attitudes/concept/images”, Stedelijk Museum, 3.IV.1982
(Daniele Lombardi)
Poema per arpa “Omaggio a Tarkovskij” (1982)
ar.
“a Claudia Antonelli”
BMG
Madrid, Radio Spagnola, 15.XI.1983 (Claudia Antonelli)
Ragtime (1984-1985 [trascr. e rev.])
fl., cl., pf., perc., 2 vl., vla, vc.; pf., quart.
Edipan, n. ed. EP 7606
Roma, Nuova Consonanza, 31.X.1985 (Gruppo Musica d’Oggi)
Musica per una scena, per trio d’archi (1984)
trio di archi (2 vl., vla)
“per Alfredo Giuliani”
Edipan, 1984, n. ed. EP 7100
Roma, Nuovi Spazi Musicali, Castel Sant’Angelo, 8.V.1984 (Trio di Como)
Per il L.I.M. (1985)
5 strumm. (cl., pf., perc., vl., vc.)
Malaga, Conserv. Superior de Musica, 2.XII.1986 (Gruppo L.I.M.)
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CATALOGO DELLE OPERE
(1953-2006)
Il luogo dell’incontro (1985-1990 [trascr. e rev.])
sax; sax, pf.
Roma, Nuovi Spazi Musicali, 14.VI.1989 (Federico Mondelci)
Recitativo obbligato (1986)
cl., 5 archi (2 vl., vla, vc., cb.)
“per Ciro Scarponi”
Edipan, 1986, n. ed. EP 7285
Roma, XXIII festival di “Nuova Consonanza”, Auditorium del Foro Italico della RAI,
15.XI.1986 (Ciro Scarponi, Gruppo Musica d’Oggi, dir. Fabio Maestri)
Cadenza (fantasia) per Ciro da Recitativo obbligato (1987)
cl.
Foggia, 19.XI.1990 (Ciro Scarponi)
L’homme armé (1988)
cl.b., cb.
Fanfara (scherzo) e Ricercare (1988-1989)
vc., pf.
Edipan, n. ed. 7894
Roma,Teatro dell’Orologio,10.IV.1989 (Paolo Capasso, Cristiano Becherucci)
Dizem? Esquecem - Não dizem? Fatal (1989)
fl., perc.
Roma, 1991(Enrico Casularo, Roberto Capacci)
Homage to India, per ottetto di fiati e contrabbasso (1989)
2 cl., 2 ob., 2 cr., 2 fg., cb.
Edipan, 1989, n. ed. EP 7833
Roma, Cooperativa La Musica, Sala 1 della RAI, 30.XI.1989 (Ottetto Italiano di fiati, dir.
Enrico Marocchini)
Hostia de assombro a alma, notturno per otto fiati (1990)
fl., ob., cl., cr., 2 tr., 2 trb.
Roma, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza”,
21.IX.1990 (New Winds Ensemble, dir. Patrizio Esposito)
Bacco adoro et amo (tema e variazioni da un balletto di Gastoldi) (1990)
4 cl.
Penna in Teverina, 7.X.1990
Omaggio. Dedicato a Burri (1990)
perc.
Roma, Sala Baldini, 13.XII.1990 (Roberto Capacci)
O limiar onde hesitam (1991)
fl.basso e fl. in sol
“a Edda Silvestri”
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(1953-2006)
Anzio (Roma), “Anzio festival 1991”, 17.VIII.1991 (Edda Silvestri)
R. Schumann: Vogel als Prophet da Waldszenen op. 82 [trascr.] (1991)
11 fiati (fl., 2 ob., cl., 2 fg., cr., 2 tr., 2 trb.)
Roma, Auditorium del Foro Italico della RAI, 13.X.1989 (New Winds Ensemble, dir. Patrizio
Esposito)
Oboe sommerso, oboe emerso, oboe... (1991-1992 [Duo in capriccio, rev.])
ob.; ob., chit.
Roma, Concerto per il 70° compleanno di Massimo Pradella, Acquario Romano,
11.XII.1994 (Paolo di Cioccio)
Ai margini frastagliati (1993)
6 strumm. (fl., cl., chit., pf., vl., vc.)
Edipan, n. ed. EP 8463
Roma, Sala A della RAI, 22.XI.1993 (Logos Ensemble)
Canzon e Finale (1993)
fl.
“per Egisto”
Roma, XXX festival di “Nuova Consonanza”, 8.XI.1993 (Lauren Weiss)
Della guerra, del mistero, delle stelle (1995, 1998 [rev.])
6 strumm. (fl., cl., pf., vl., vla, vc.); 6 strumm., na magn.(II vers.); quart., pf. (trascr.)
Edipan, n. ed. EP 8562
Roma, Acquario Romano, 5.X.1995 (Ex Novo Ensemble, dir. Claudio Ambrosini)
Carillon per Carlo (1996-1997)
pf.
“a Carlo Marinelli”
Luogo dell’ incontro n. 3 (1997)
sax, trb.
Torino, “Settembre musica”, teatro Piccolo Regio, 18.IX.1997 (Federico Mondelci, Michele
Lomuto)
L’ impervia, pervia, via (Studio di media difficoltà per chitarra) (1998)
chit.
in Musica Incerta. Un’introduzione alla musica contemporanea per chitarra, a cura di Arturo
Tallini, Bologna, UT Orpheus Edizioni, 2000, pp. 4-9
“ad Arturo Tallini”
Sassari, festival “Spaziomusica 2000”, 5.XII.2000 (Arturo Tallini)
Sinfonietta para viola e conjunto de Câmara [ma O poeta è um fingidor] (1998-1999)
vla, 8 strumm.
Lisbona, XXIII Encontros Música Contemporânea, Grande Auditorio Gulbenkian, 5.V.1999
(Maurizio Barbetti, Officina Musical, dir. Álvaro Salazar)
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CATALOGO DELLE OPERE
(1953-2006)
Estratto da O poeta è um fingidor, fantasia per viola sola (1998-1999)
vla
“per Maurizio”
Porto, Esmae, 29.V.1998 (Maurizio Barbetti)
Variazioni su O poeta è um fingidor (1999)
vl., vla, vc., pf.
Composizione per 12 strumenti a fiato e timpani (1999-2000; 2002 [Composizione 2002, ma
Dovuto a G. Bruno Nolano, nuova vers.])
timp.,12 strumenti a fiato
“a Giordano Bruno”
Narni (Terni), teatro Comunale, 24.II.2000 (Kerl Leister, dir. C. Melles)
Narni, teatro sociale, stagione dell’Orchestra Regionale di Roma e del Lazio, 26.X.2002
(orchestra di Roma e del Lazio, dir. Luc Baghdassarian)
Preludio “Elegia” per corno (sax contralto, clarinetto, ecc.) (2001, 2002 [vers. definitiva])
cr. (sax oppure cl.), archi (quartetto)
Roma, “Omaggio a Francesco Pennisi”, Accademia Filarmonica Romana, 7.VII.2001 (Gruppo
Musica d’Oggi, dir. Fausto Anzelmo)
Come un messaggio (2001)
cl., clav. (o pf.)
“a Paola Bernardi”
Roma, Biblioteca Casanatense, 21.V.2001 (Paolo Ravaglia, Monica Lonero)
Geometrie sonore: lignes, carré, romboides (2001)
fis.
“a Claudio Jacomucci”
Pechino, “La seconda rassegna di musica italiana”, Conservatorio di musica di Pechino,
18.III.2003 (Corrado Rojac)
Ein Feste Burg ist unser Mr. Bach (2002)
2 org.
Roma, XXX Festival di Nuova Consonanza, S. Giovanni in Laterano, 9.XI.2002 (Luca
Salvatori, Giandomenico Piermarini)
Divertimento suite (2003)
ar., piccolo gr. strum.
Roma, Accademia Filarmonica Romana, 17.XI.2003 (Antonella Ciccozzi, i Solisti della
Filarmonica, dir. Fabio Maestri)
Per Ennio (Morricone) (2003)
vc.
Roma, Auditorium dell’Università di Tor Vergata, 19.XI.2003 (Michele Chiapperino)
Improvvisi lirici, improvvisando per un percussionista (2005)
perc.
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(1953-2006)
Bergamo, Chiostro del Seminarino [ma Comune di Ameno, Fondazione Calderara],
12.IX.2005 (Riccardo Balbinutti)
Scherzo (Dialogo) Augurale per Franco Oppo (2005)
perc., pf.
Cagliari, festival “Spaziomusica 2005” (Andrea Bini, F. Deriu)
7. Musica elettronica (con e senza voci e/o strumenti)
Composizione elettronica 1 [ma Studio 1] (1968)
na. magn. (Studio S2FM di Pietro Grossi)
Firenze, 4 audizioni di musica elettronica, Conservatorio “Luigi Cherubini”, Circolo
l’Incontro, 30.V.[1968]
Mottetto (1971)
na. magn. (realizzato al CNUCE di Pisa)
Roma, “Ricerche sul synthesizer”, Istituto Italolatinoamericano, 30.XII.1972 (Guido De
Amicis)
L’attesa... Il professor P1 (1980, 1986)
v., na. magn.
ALFREDO GIULIANI, in Povera Juliet e altre poesie: Il professor PI ossia il fenomeno non è un fatto,
Milano, Feltrinelli, 1965
Roma, Auditorium del Foro Italico della RAI, 1981 (Michiko Hirayama)
C’est ici que l’on prend le bateau (1980)
comp. el. per un balletto (con improvvisazioni al pianoforte dal vivo)
Nuova Delhi (India), Kamani Auditorium, 24.II.1980 (I danzatori scalzi, cor. Patrizia Cerroni,
Mauro Bortolotti)
Roma, teatro Eliseo, 10-16.X.1980 [I esecuzione italiana]
Birgitta here and there. Fantasia per voce di soprano e nastro magnetico su “Birgitta on flask
walk” (1982)
v., na. magn. [v. rec. Robin Freeman]
ROBIN FREEMAN, Birgitta on flask walk, datt. inedito
Roma (Joan Logue)
Paesaggi intravisti (1987)
comp. el. (in collaborazione con Walter Branchi)
Milano, XVII Triennale, “Il luogo del lavoro”, 1987
Variazioni sul grido, studi sui percorsi emozionali di Piero Mottola (2003-)
na. magn.; na. magn., gr. strum.: fl., cl., pf., fis., cb.
Roma, XL festival di “Nuova Consonanza”, American Academy of Rome – Villa Aurelia,
ottobre 2003 (ensemble Alianova, dir. Alessandro Sbordoni, na. magn.)
Bomarzo (Viterbo),“Incantesimi. Azioni sull’arte”, palazzo Orsini, 20.III.2004 (I vers.)
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Indice cronologico delle opere
Preludio, Ricercare e Finale (1953) fl., cl., tr., cr., fg.
Cantata (1955),T., orch.
Concerto per Orchestra (1956), orch.
Tre poesie di Rocco Scotellaro (1957, 1991 [nuova vers. di Desiderio e Due eroi]), v., cl., pf.
Breve cantata sacra (da “La Passione secondo San Matteo”) (1957), B., vla, vc., pf.
4 Poesie di Paul Éluard (1959-1978 [ma 1984-1988]), S., cl. vc.
Studi (1960), cl., cr., vla
Tre movimenti (1960-1961), fl., pf.
Episodi concertanti (1961), orch.
Frammenti 5 (1961-1966), quart.
C’est l’arbre de la liberté, Toute sa vie (1962-1964), co., orch.
Studio per E. E. Cummings n. 1 (1962-1963), S., fl., cl., perc.
Studio per E. E. Cummings n. 2 (1964), 11 esecc.
Simmetrie (1965-1966), fl. (ott.), pf.
Combinazioni libere (1965), vla, pf.
Contre 2 (1965-67, 1994 [Contre ancore…]), S., cl., trb., pf., vl., cb.
Tre tempi (1966), cl. perc.
Resurrezione dopo la pioggia (1966),T., pf.
Parentesis (1967), cl., fg., pf.
Parentesis para cinco (1968,1975), cl., fg., vl., vc., cb.
Composizione elettronica 1[ma Studio 1] (1968), na. magn.
Transparencias (1968), clav., archi
Cadenza per Transparencias (1968), clav.
Pour le piano (1969), pf.
Links (1969-1971), vl., cb., archi
Quattro momenti (1970), fg., pf.
Grazie per essere venuti! Carnaval per trio e lettore (1970), v. rec., vl. vc., pf.
E tu? nondramma in un prologo, due intermezzi (anche parlati), senza finale (1970), S.,T.,
mimo, orch. da camera
Alcune variazioni... (1971), fl., cl., cr., fg., trb., 2 vl., vc., cb.
Mottetto (1971), comp. el.
L’alba scivolando (1972), Bar., pf.
Appunti per un trio “Cher nocturne” (1972), cl., vc., pf.
5 balletti da Gastoldi (1973), co., perc., archi
E tuttavia... concatenazioni per archi (1973,1996), 11 archi
Gran Duo da concerto (1974-1975 [ma 1980]), pf. a 4 mani
A In Ran (1974), fl. dolce, pf.
Sine nomine (1974), v., fl., trb., perc., vc.
Studio dal vero: BS. 28.V.74 (1974-1975), 15 strumm.
Per trombone e percussione (1976), trb., perc.
I carry (1977), v., chit.
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INDICE CRONOLOGICO DELLE OPERE
hommages, dommages (1978), vl., vc., pf.
Quartetto (Preludio a Berryman) (1978-1979), quart.
Tiuit (1979, 2005 [Nuit Tune]), vc.
5 epigrammi di Marziale (1979), 8 vv.
Serenata (1979), chit.
Room 231: Something black (1980), S., quart.
L’attesa... Il professor P1 (1980), v., na. magn.
…and Scherzo (1980), vl.
C’est ici que l’on prend le bateau (1980), comp. el. per un balletto
Foglie (1980), fl., chit., pf. perc.
Sulla scia dell’ispirazione (1980), pf.
Berryman: LetturAzione (1981), S., Bar., att., lett., danz., gr. strum., na. magn.
Due poesie di Pasolini (1981), Bar., pf.
Cantata n. 3, v. rec., gr. strum. (1981-1982)
Birgitta on flask walk [ma Birgitta here and there] (1982), na magn.
Poema per arpa “Omaggio a Tarkovskij” (1982), ar.
Aucassin et Nicolette (1983-1984), 2 vv., co., 3 tr., 1 trb., perc.
Musica per una scena (1984), 2 vl. vla
Arioso per la Scena III (1984), B., quart.
Ragtime (1984,1985 [trascr. e rev.]), fl., cl., pf., perc., 2 vl., vla, vc.
Sinfonia “Est Animum” (1985), orch.
Per il L.I.M. (1985), cl., pf., perc., vl., vc.
Il luogo dell’incontro (1985,1990 [trascr. e rev.]), sax
Recitativo obbligato (1986), cl., 2 vl., vla, vc., cb.
Cadenza (fantasia) per Ciro da Recitativo obbligato (1986), cl.
Paesaggi intravisti (1987), comp. el.
L’homme armé (1988), cl. B., cb.
Fanfara-scherzo e Ricercare (1989), vc., pf.
Dizem? Esquecem - Nao dizem? Fatal (1989), fl., perc.
Homage to India (1989), 8 fiati, cb.
Nell’impoetico mondo (1989), S., cl., cr., trb., vl., vc., cb.
Hostia de assombro a alma (1990), fl., ob., cl., cr., 2 tr., 2 trb.
Bacco adoro et amo (tema e variazioni da Gastoldi) (1990), 4 cl.
Omaggio. Dedicato a Burri (1990), perc.
I pesci di vento (1991), S., fl. pf.
O limiar onde hesitam (1991), fl.
R. Schumann: Vogel als Prophet da Waldszenen op.82 [trascr.] (1991), fl., 2 ob., cl. 2 fg., cr., 2 tr.,
2 trb.
Oboe sommerso, oboe emerso, oboe... (1991,1992[rev.]), ob.
Grandes misterios habitam. Omaggio a Pessoa (1992), S., orch.
Sonetti licenziosi (1992), S., fl., cl., cr., pf., vla, vc.
J. Brahms, Gestillte Sehnsucht op. 91 n.1 [trascr.] (1992)
I. Stravinskij, Pastorale [trascr.] (1992)
Ai margini frastagliati (1993), fl., cl., chit., pf., vl., vc.
Canzon e Finale per Egisto (1993), fl.
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INDICE CRONOLOGICO DELLE OPERE
Scena VII. Cocktail per Michiko (estratti da contenitori vari) (1993), v. pf.
Se un altro giorno saluto (1994), co.
La nuvola in calzoni da Io Majakovskj (1994), v. rec., S., ob., cl., sax, pf., perc., vl. vc.
“Della guerra, del mistero, delle stelle” (1995), fl., cl., pf., vl. vla, vc.
Monologo di Goethe da Carlotta a Weimar (1994), v. rec., S., 10 strumm.
S’un casto amor (1995), S., pf.
Due poesie di M. Marshall: Schatten, Ein Spiel (1995), v., pf.
Carillon per Carlo (1996-97), pf.
Ghirlanda per Penna (1997), Bar., quart.
Il Museo di Delphi (1997), v., pf.
Luogo dell’ incontro n. 3 (1997), sax, trb.
L’ impervia, pervia, via (1998), chit.
O poeta è um fingidor (1998-99), vla, 8 strumm.
Estratto da O poeta è um fingidor (1998-99), vla
Variazioni su O poeta è um fingidor (1999), vl., vla, vc., pf.
Cadenze, quasi un concerto (1999), fl., orch.
Nuova composizione per 12 fiati e timpani (1999-2000; 2002 [Dovuto a G. Bruno Nolano]),
12 fiati, timp.
Preludio (2001), cr., archi
Come un messaggio (2001), cl., clav. (o pf.)
Geometrie sonore: lignes, carré, romboides (2001), fis.
Ein Feste Burg ist unser Mr. Bach (2002), 2 org.
Divertimento suite (2003), ar., gr. strum.
Due poesie di Angela Chermaddi (2003), v., cl. vc.
Per Ennio (Morricone) (2003), vc.
Variazioni sul grido (2003-), na. magn.; strumm., na. magn.
…questa umidità, l’acqua calcarea. Frammenti per Thomas Bernhard (2004-2006), S., v. rec.,
perc., na. magn.
Improvvisi lirici (2005), perc.
Trittico sonoro. Omaggio a Giuseppe Manini (2005), Bar., cl.b., tr., vc. pf.
La vallée incommensurable (2004-2005), S., cl.b., vla
Scherzo (Dialogo) augurale per Franco Oppo (2005), perc., pf.
Ou le silence (2004-2006), v. rec., orch.
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Indice alfabetico delle opere
4 Poesie di Paul Éluard (1959-1978 [ma 1984-1988])
5 balletti da Gastoldi (1973)
5 epigrammi di Marziale (1979)
Ai margini frastagliati (1993)
A In Ran (1974)
Alcune variazioni... (1971)
…and Scherzo (1980)
Appunti per un trio “Cher nocturne” (1972)
Arioso per la Scena III (1984)
Aucassin et Nicolette (1983-1984)
Bacco adoro et amo (tema e variazioni da Gastoldi) (1990)
Berryman: LetturAzione (1981)
Birgitta on flask walk [ma Birgitta here and there] (1982)
Breve cantata sacra (da “La Passione secondo San Matteo”) (1957)
Cadenza (fantasia) per Ciro da Recitativo obbligato (1986)
Cadenza per Transparencias (1968)
Cadenze, quasi un concerto (1999)
Cantata (1955)
Cantata n. 3, v. rec., gr. strum
Canzon e Finale per Egisto (1993)
Carillon per Carlo (1996-97)
C’est ici que l’on prend le bateau (1980)
C’est l’arbre de la liberté, Toute sa vie (1962-1964)
Combinazioni libere (1965)
Come un messaggio (2001)
Composizione elettronica 1[ma Studio 1] (1968)
Concerto per Orchestra (1956)
Contre 2 (1965-67, 1994 [Contre ancore…])
Della guerra, del mistero, delle stelle (1995)
Divertimento suite (2003)
Dizem? Esquecem - Nao dizem? Fatal (1989)
Due poesie di Angela Chermaddi (2003)
Due poesie di M. Marshall: Schatten, Ein Spiel (1995)
Due poesie di Pasolini (1981)
E tu? nondramma in un prologo, due intermezzi (anche parlati), senza epilogo (1970)
E tuttavia... concatenazioni per archi (1973,1996)
Ein Feste Burg ist unser Mr. Bach (2002)
Episodi concertanti (1961)
Estratto da O poeta è um fingidor (1998-99)
Fanfara-scherzo e Ricercare (1989)
Foglie (1980)
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INDICE ALFABETICO DELLE OPERE
Frammenti 5 (1961-1966)
Geometrie sonore: lignes, carré, romboides (2001)
Ghirlanda per Penna (1997)
Gran Duo da concerto (1974-1975 [ma 1980])
Grandes misterios habitam. Omaggio a Pessoa (1992)
Grazie per essere venuti! Carnaval per Trio e lettore (1970)
Homage to India (1989)
hommages, dommages (1978)
Hostia de assombro a alma (1990)
I carry (1977)
I pesci di vento (1991)
I. Stravinskij, Pastorale [trascr.] (1992)
Il luogo dell’incontro (1985,1990 [trascr. e rev.])
Il Museo di Delphi (1997)
Improvvisi lirici (2005)
J. Brahms, Gestillte Sehnsucht op. 91 n.1 [trascr.] (1992)
L’alba scivolando (1972)
La nuvola in calzoni da Io Majakovski (1994)
L’attesa... Il professor P1 (1980)
La vallée incommensurable (2004-2005)
L’ impervia, pervia, via (1998)
L’homme armé (1988)
Links,(1969-1971)
Luogo dell’ incontro n. 3 (1997)
Monologo di Goethe da Carlotta a Weimar (1994)
Mottetto (1971)
Musica per una scena (1984)
Nell’impoetico mondo (1989)
Nuova composizione per 12 fiati e timpani (1999-2000; 2002
[Dovuto a G. Bruno Nolano])
O limiar onde hesitam (1991)
O poeta è um fingidor (1998-99)
Oboe sommerso, oboe emerso, oboe... (1991,1992[rev.])
Omaggio. Dedicato a Burri (1990)
Ou le silence (2004-2006)
Paesaggi intravisti (1987)
Parentesis (1967)
Parentesis para cinco (1968,1975)
Per Ennio (Morricone) (2003)
Per il L.I.M. (1985)
Per trombone e percussione (1976)
Poema per arpa “Omaggio a Tarkovskij” (1982)
Pour le piano (1969)
Preludio (2001)
Preludio, Ricercare e Finale (1953)
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INDICE ALFABETICO DELLE OPERE
Quartetto (Preludio a Berryman) (1978-1979)
Quattro momenti (1970)
…questa umidità, l’acqua calcarea. Frammenti per Thomas Bernhard (2004-2006)
R. Schumann: Vogel als Prophet da Waldszenen op.82 [trascr.] (1991)
Ragtime (1984,1985 [trascr. e rev.])
Recitativo obbligato (1986)
Resurrezione dopo la pioggia (1966)
Room 231: Something black (1980)
Scena VII. Cocktail per Michiko (estratti da contenitori vari) (1993)
Scherzo (Dialogo) augurale per Franco Oppo (2005)
Se un altro giorno saluto (1994)
Serenata (1979)
Simmetrie (1965-1966)
Sine nomine (1974)
Sinfonia “Est Animum” (1985)
Sonetti licenziosi (1992)
Studi (1960)
Studio dal vero: BS. 28.V.74 (1974-1975)
Studio per E. E. Cummings n. 1 (1962-1963)
Studio per E. E. Cummings n. 2 (1964)
Sulla scia dell’ispirazione (1980)
S’un casto amor (1995)
Tiuit (1979, 2005 [Nuit Tune])
Transparencias (1968)
Tre movimenti (1960-1961)
Tre poesie di Rocco Scotellaro (1957, 1991)
Tre tempi (1966)
Trittico sonoro. Omaggio a Giuseppe Manini (2005)
Variazioni sul grido (2003-)
Variazioni su O poeta è um fingidor (1999)
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Bibliografia
Scritti di Mauro Bortolotti
La liberazione culturale,“Cronache umbre”, II, novembre 1974, n. 13, pp. 13-14
Programmazione delle attività culturali nella VIII circoscrizione. Progetto 1976-77 del Centro 8 –
Centro culturale polivalente, 21.X.1976, datt. inedito
Musica perché. Una valutazione sull’indagine, “Terni Provincia”, III, febbraio 1977, n. 6, p. 13
Musica e riforma della Quadriennale, “Paese sera”, 31.VII.1977
L’arte dei rumori di Luigi Russolo. Testimonianze e studi sul futurismo [recensione], “Paese
sera”, 26.III.1978
Il seminario al S. Francesco d’Assisi, 18.V.1980, datt. inedito
s. t., in programma di sala della stagione pubblica di “Nuova Consonanza”, Roma – Viterbo, 1981
Testo parlato/ testo cantato, in Poesia in pubblico. Parole per musica. Atti degli Incontri
Internazionali di Poesia 1979-1980, a cura di Massimo Bacigalupo e Carola De Mari, Liguria
Libri, Genova, 1981, pp. 162-163
Brevi note intorno alla salute dei teatri, “1985 la musica”, I, 1985, n. 5, pp. 5-6
La nuova didattica della composizione,“1985 la musica”, I, 1985, n. 6, pp. 39-40
Sulla scuola di composizione e … d’altro, “Il mondo della musica. Rassegna internazionale di
vita musicale – Concerti – Opera - Balletto”, XXVI, 1988, n. 25, pp. 13-14
M. B. – WALTER BRANCHI, Paesaggi intravisti, note di copertina al disco omonimo, Roma,
Edipan, s.d. [ma 1989], PAN PRC S20-33 stereo
*** [s. t.], in DANIELA TORTORA, Nuova Consonanza. Trent’anni di musica contemporanea in
Italia (1959-1988), Lucca, LIM, 1990, pp. 173-174
A proposito di “modernità” non sovvenzionata… “1985 la musica. Rivista di musica
contemporanea”, luglio 1992, n. 21, p. 47
Musica e poesia, in Chi l’avrebbe detto. Arte, poesia e letteratura per Alfredo Giuliani, a cura di
Corrado Bologna, Paola Montefoschi e Massimo Vetta, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 57-60
s. t., in PIERO MOTTOLA, Percorsi emozionali 1995/2001, CD ssssht! Musspac, Roma, 2002
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BIBLIOGRAFIA
Tributo per il maestro, in Testimonianze per Goffredo Petrassi, Milano, Suvini Zerboni, 2003,
pp.11-12
Aspettiamo per vedere se la musica è cambiata, in Arte e cultura negli anni Novanta. Dalla fine
del Muro all’11 settembre, “I Quaderni della Quadriennale”, nuova serie/ 2, a cura di Ilaria
Della Torre e Manuela Esposito, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2004, pp. 125-130
Correvano gli anni Cinquanta: le ricordanze, le collaborazioni, in Voce come soffio, voce come
gesto. Omaggio a Michiko Hirayama, a cura di Daniela Tortora, in corso di stampa
Scritti su Mauro Bortolotti
1. Voci enciclopediche
s. a., in Enciclopedia della musica, I, Milano, Ricordi, 1963
s. a., in La Musica. Parte seconda. Dizionario, I,Torino, UTET, 1968
CLAUDIO ANNIBALDI, in The new Grove Dictionary of Music and Musicians, III, ed. by Stanley
Sadie, London, Macmillan, 1980
s. a., in Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti. Le Biografie, I,Torino,
UTET, 1985
STEFANO LEONI, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, IV, edited by Stanley
Sadie, London, Macmillan, 20012
2. Recensioni, interviste, programmi di sala, note ai dischi (e ai CD)
GIANFRANCO ZACCARO, Profilo di giovani musicisti: Mauro Bortolotti, “Avanti!”, 8.III.1962
A. M. BONISCONTI, “Contre 2” di Mauro Bortolotti, “Il Veltro”, XI, 1967, pp. 320-323
STEFANO RAGNI, Incontro con Bortolotti, “La Nazione. Umbria”, 21.XII.1974
BERENICE, Cosa vogliono i lavoratori della musica. Intervista col maestro Mauro Bortolotti, “Paese
Sera”, 8.II.1976
SIMONETTA LUX, C’est ici que l’on prend le bateau (o: la dis-cronica), programma di sala, teatro
Eliseo, Roma, 1980
D.V. [ma DINO VILLATICO], Gruppo di strumenti con voci recitanti e piano pizzicato. A Spaziozero
musica d’avanguardia […], “la Repubblica”, 7.IV.1981
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BIBLIOGRAFIA
ERASMO VALENTE, Nuova Consonanza a Frosinone. Mauro Bortolotti: la ricerca musicale come
dramma e poesia, “L’Unità”, 1.XI.1981
ID., Gli archi di Mauro Bortolotti, booklet, Edipan, Roma, 1986, disco PAN PRC S20-38 stereo
ID., Mauro Bortolotti e le preziose parentesi del compositore d’oggi, “L’Unità”, 7.I.1986
ID., Bortolotti, trent’anni di ricerca. Il concerto, “L’Unità”, 22.XII.1989
GUIDO BARBIERI, Bortolotti dà suono alle inquietudini di Pessoa. Concerto a S. Cecilia ispirato ai
versi del celebre scrittore portoghese, “Il Messaggero”, 2.VI.1992
AUGUSTO ROCA, Bortolotti più Pessoa, melismi mediterranei, “il Manifesto”, 4.VI.1992
ERASMO VALENTE, Il suono d’una poesia. A Santa Cecilia una composizione di Bortolotti, “l’Unità”,
6.VI.1992
MICHELANGELO ZURLETTI, Mettendo in musica la poesia di Pessoa. A S. Cecilia Roberto Abbado
ha diretto una novità di Mauro Bortolotti, “la Repubblica”, 2.VI.1992
PAOLO ROTILI, s.t., in programma di sala del concerto dell’ associazione musicale “Il
Coretto”, Bari, Aula Magna dell’ Ateneo, 15 aprile 1996
N.S.
[indecifrabile], Bortolotti, da Petrassi a “Nuova Consonanza”. Incontro col compositore al
“Coretto”, “Gazzetta del Mezzogiorno”, 17.IV.1996
FIORELLA SASSANELLI, ‘Nuovi linguaggi in musica per ricercare il bel suono’. Intervista al
compositore ternano Mauro Bortolotti, “Puglia”, 25.IV.1996
ERASMO VALENTE – FRANCESCO RIMOLI, s. t., in Mauro Bortolotti, booklet, Edipan, Roma, 1997,
PAN CD 3061
ETTORE ZOCARO, programma di sala per Nuova composizione per 12 strumenti a fiato e
timpani di Mauro Bortolotti, Fondazione Orchestra del Lazio, Narni, Latina, Roma, 2000
LANDA KETOFF, programma di sala per la prima esecuzione assoluta di Composizione 2002
per dodici strumenti a fiato e timpani di Mauro Bortolotti, Orchestra di Roma e del LazioFondazione Ottavio Ziino, Narni e Roma, 2002
3. Studi e ricerche
DANIELA TORTORA, Poesia e musica nell’opera di Mauro Bortolotti, “Avanguardia”,VII, 2002, n.
19, pp. 51-74
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BIBLIOGRAFIA
ALESSANDRO MASTROPIETRO, Due tangenze con la poesia ‘novissima’, in ID., Nuovo teatro
musicale a Roma e Palermo: 1961-1973, tesi di dottorato, Università di Roma “La Sapienza”
/ Università di Palermo, a.a. 2003-04, pp. 293-304
ID., Poesia – teatro musicale – elettronica: due apporti di area romana intorno al 1970, in
Poetronics - al confine tra suono, parola, tecnologia, a cura di Anna Maria Giancarli e Anna Di
Vincenzo, L’Aquila, Itinerari Armonici, 2004, pp. 44-56
DANIELA TORTORA, Intorno a Berryman: LetturAzione di Mauro Bortolotti, “Luxflux proto-type
arte contemporanea”, II, 2004, n. 4-5-6, pp. 161-167
EAD., Ultime ipotesi per un teatro musicale e d’arte, in SIMONETTA LUX – DOMENICO SCUDERO,
Incantesimi. Scene di arte e poesia a Bomarzo. IV Edizione. Castello Palazzo Bosco. Azioni
dell’arte, in preparazione
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Discografia
La discografia che segue include tutti i dischi e i cd editi, contenenti musiche di Mauro
Bortolotti; accoglie inoltre l’elenco delle musiche del maestro registrate e riversate su cd, e
quello delle registrazioni su nastro ordinate sino ad oggi. Per ciò che concerne questi due
ultimi elenchi sono state riportate tutte le indicazioni presenti sui cd e sui nastri custoditi
presso l’archivio privato Bortolotti.
Dischi
Sine Nomine – Nuove Forme Sonore: musiche per voce, flauto, trombone, violoncello,
percussione
Esecutori: Michiko Hirayama, A.B. Zimmer, Giancarlo Schiaffini, Frances Marie Uitti,
Michele Iannaccone
Registrato nello studio Junior di Roma nel Luglio del 1974
Distribuito da Dischi Ricordi S.p.A.
Roma, Ed. Curci, stereo SPL915
Gli archi di Mauro Bortolotti (Links, Tiuit, E tuttavia…, Quartetto per archi “Preludio a
Berryman”)
Esecutori: Gruppo Musica d’Oggi, dir. Daniele Paris; I Solisti di Roma
Roma, Edipan, 1986, PAN PRC S20-38 stereo
Trio di Como: musiche di Ivan Fedele, Mauro Bortolotti (Musica per una scena), Giuseppe
Colardo, Fausto Razzi, Ruggero Lolini
Esecutori:Trio di Como (2 vl, vla)
Roma, Edipan, 1987, PAN PRC S20-47 stereo
MAURO BORTOLOTTI – WALTER BRANCHI, Paesaggi intravisti, composizione elettronica
realizzata per la XVII Triennale di Milano: “Il luogo del lavoro”
Roma, Edipan, 1989, PAN PRC S20-33 stereo
CD
Mauro Bortolotti: musiche di Mauro Bortolotti (Recitativo obbligato, Tre movimenti, Foglie,
Fanfara-Scherzo e Ricercare, Tre poesie di Paul Éluard, Appunti per un trio (Cher nocturne), Ai
margini frastagliati)
Esecutori: Maria Chiara Pavone, Logos Ensemble
Roma, Edipan, 1997, PAN CD 3061
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DISCOGRAFIA
Gran Duo – tra Ottocento e Novecento: musiche per pianoforte a 4 mani di Franco Faccio,
Mauro Bortolotti (Gran Duo da concerto), Giancarlo Simonacci, Fabio Borgazzi
Esecutori: Gabriella Morelli, Giancarlo Simonacci (pf. a 4 mani)
Roma, Domani Musica Edizioni musicali, DMCD 20002
s. t., musiche di G. Pernaiachi, M. Lupone, M. Bortolotti (Dizem? Esquecem. Não dizem?
Fatal): B. Porena, J. Fresno, S. Montori. E. Casularo, E. Capacci, eseguite da Enrico Casularo
(flauto) e Roberto Capacci (percussioni)
Roma, Pentaphon, Silver Classic 1991, CDS052
Divertimento suite, registrazione del 17.XI.2003
(Roma, Accademia Filarmonica Romana, I Solisti della Filarmonica, dir. Fabio Maestri)
cd ined.
Bortolotti – Mottola, Il grido (versione 2004), registrazione del 1.VIII.2004
cd ined.
Scherzo (Dialogo) augurale, registrazione del 17.XII.2005
(Cagliari, festival “Spazio Musica”, duo Andrea Bini, F. Deriu)
cd ined.
Preludio, registrazione del 7.VII.2001
(Roma, “Omaggio a Francesco Pennisi”, Gruppo Musica d’Oggi, dir. Fausto Anzelmo)
cd ined.
Come un messaggio, registrazione del 21.V.2001
(Roma, Biblioteca Casanatense, “Per Paola Bernardi”, duo Paolo Ravaglia, Monica Lonero)
cd ined.
Come un messaggio, registrazione del 16.V.2003
(G. Arbonelli, P. Subrizi)
cd ined.
Per Ennio (Morricone), registrazione del 19.XI.2003
(Roma, Auditorium della Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata, “Compositori romani
per Ennio”, Michele Chiapperino)
cd ined.
Nastri
1.
2.
3.
4.
282
Studio dal vero BS 22.V.1974
Simmetrie
L’attesa (base nastro, 15’, 1990)
E tuttavia…(dir. Daniele Paris, 26.X.1981)
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DISCOGRAFIA
5.
6.
6.*
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
23.
24.
25.
26.
27.
28.
29.
30
31.
32.
Due poesie di Cummings; Tre poesie di Éluard (copia mono, 1980)
La cognizione del dolore (da Gadda) (musiche di scena)
La cognizione del dolore (da Gadda) (mostra, 7’)
L’attesa (base nastro, 7’)
Combinazioni libere; Due poesie di Cummings
Birgitta (base nastro, 4’32”, 5.XI.1982)
Pratica I (composizione elettronica, Firenze 1969)
Movimenti (Gazzelloni / Canino)
Simmetrie (festival di Venezia, Gazzelloni / Canino)
E tu? (Hirayama/Iannaccone)
Tre poesie di Paul Éluard
Simmetrie (Gazzelloni, Canino); Transparencias (I Solisti Veneti);
Tre movimenti (Martinotti, Renosto); Due poesie di Cummings (Brigham)
LetturAzione (1981)
Mottetto (CNUCE di Pisa)
Transparencias
Danza della fogna (da Gadda)
Links (registrazione RAI)
Contre 2 (confezione rigida)
Per [Leda] Lojodice (1971)
Paréntesis para cinco; L’alba scivolando; Frammenti 5 (Roma, 23.XI.1969, 3 versioni)
Sine nomine 2
E tuttavia…(I Solisti aquilani)
L’attesa (I vers. con canto, 1980)
Combinazioni libere [?]
E tuttavia…(dir. Angelo Faja)
Cummings I e II (studio per viola, clarinetto e corno)
Contre 2 (Michiko Hirayama, Musica d’Oggi, dir. Daniele Paris, 3.II.1983)
E tuttavia… (Musica d’Oggi, dir. Daniele Paris, 3.II.1983)
composizioni varie (India, Giappone, Campania)
283
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Indice dei nomi
Legenda:
d (rinvia ai nomi nelle didascalie)
n (rinvia ai nomi in nota)
Abbado, Roberto: 257, 279
Abbondanza, Roberto: 261
Acerra, Massimiliano: 15
Adorno,Theodor W.: 159, 202, 264
Agnello, Francesco: 83n
Allende Gossens, Salvador: 36
Altieri, Gabriella: 264
Ambrosini, Claudio: 268
Amman, Benno: 237d
Ancillotti, Mario: 262
Annibaldi, Claudio: 278
Annicchiarico,Vito: 193
Anouilh, Jean: 147n, 150
Anraja, J.: 263
Antonelli, Claudia: 266
Antonellini,Vittorio: 61, 256, 265
Anzelmo, Fausto: 262, 269, 282
Arbonelli, Guido: 261, 282
Artaud, Antonin: 82
Astori, L.: 265
Austin, Larry: 249
Bacigalupo, Massimo: 24n, 208n, 277
Bach, Johann Sebastian: 123, 198,
248, 269, 273, 274
Bacon, Francis: 199
Badura Skoda, Paul: 187
Baghdassarian, Luc: 269
Baggiani, Guido: 15, 126, 237d
Balbinutti, Riccardo: 269
Balestrini, Nanni: 38, 88n, 168, 225
Barbetti, Maurizio: 268, 269
Barbieri, Guido: 279
Barsotti: 263
Bartók, Bela: 157, 222
Bartolozzi, A.: 258
Battisti, Eugenio: 251
Baudrillard, Jean: 137n
Becherucci, Cristiano: 10n, 267
Becherucci, Eugenio: 10n, 266
Becherucci, Massimo: 10n
Beethoven, Ludwig van: 10, 11, 68,
103, 104, 105, 107, 108,198, 248
Benn, Gottfried: 137, 141n, 144n,
145n
Bennici, Aldo: 263
Bennici, Gabriella: 263
Berenice: 278
284
Berio, Luciano: 61, 74, 84,152,
158,199, 249
Bernardi, Eugenio: 141n, 149, 256
Bernardi, Paola: 269, 282
Bernhard,Thomas: 14, 139n, 141n,
144n, 146n, 147, 148,149,155, 202,
251, 256, 273, 276
Berryman, John: 24, 47, 51, 60, 96d,
97, 98, 99, 99n, 100, 103, 103n, 105,
106, 111, 112, 152, 198, 208, 250,
255, 259, 265, 272, 274, 276, 281
Bertoncini, Mario: 15, 134, 249
Bianchini, Massimo: 10n, 158
Biggi, Gastone: 236d
Bini, Andrea: 270, 282
Blanchot, Maurice: 27, 27n
Boccaccio, Giovanni: 11
Bologna, Corrado: 32n, 224n, 277
Bongarzoni, Francesca Romana: 15
Bonisconti, Anna Maria: 278
Boniver, Margherita: 223
Bonolis, Gabriele: 260
Bonolis,Vittorio: 256, 260
Borgazzi, Fabio: 282
Borges, Jorge Luis: 9
Borio, Gianmario: 29n
Bortolotti, Luca: 166, 166n, 185,
187, 236, 249
Bortolotti, Mauro: 9, 10, 10n 12, 13,
14, 15, 18, 19, 20, 21, 21n, 22, 22n,
23, 23n, 24, 24n, 25, 27, 28, 29, 32,
32n, 33, 36, 37, 37n, 40, 43, 43n, 45,
46, 47, 48, 49, 50, 52, 58, 59, 60, 61,
62, 63, 67n, 68, 69, 71, 72, 73, 73n,
75, 79, 80d, 84, 86, 87, 87n, 88, 88n,
89 91, 96d, 98, 98n, 99, 100n, 102,
102n, 104, 111, 112, 113, 114, 114n,
115, 116d, 117, 119, 120, 121, 123,
126, 127, 130, 133, 151, 155, 163,
163n, 164, 165d, 166, 166n, 172d,
173, 174, 174n, 177, 178, 179, 180,
181, 181d, 182, 182n, 183, 183n,
184,185, 187, 188, 189d, 192, 193,
195, 196, 197, 198, 199, 200, 202,
203d, 204, 207, 218, 228, 234d,
235d, 236d, 237d, 238d, 239d,
240d, 241d, 242d, 243d, 244d,245d,
248, 249, 252d, 253, 255, 256, 258,
259, 260, 261, 265, 270, 277, 278,
279, 280, 281, 282
Bortolotti, Paola: 187
Bortolotti, Simonetta: 8, 236, 249
Bortolotto, Mario: 82n, 237d, 264
Boscherini, Brunetto: 264
Boscherini Emilia: 264
Boulez, Pierre: 130n, 191, 199, 204,
216, 222
Bracci, Stefano: 10n
Brahms, Johannes :10, 260, 272, 275
Branchi, Walter: 158, 218, 237d,
251, 270, 277, 281
Breton, André: 27n, 28n
Brigham, Sylvia: 258, 283
Bruno, Giordano: 113, 114, 114n,
115, 116d, 120, 123, 248, 251, 269,
273, 275
Bucarelli, Palma: 194
Burnacini: 201
Burri, Alberto:199, 272, 275
Bussotti, Sylvano: 18, 82n, 83,193
Buzzi, Aldo: 143n
Caballé, Montserrat: 211, 212
Cacciatore, Edoardo: 156
Cage, John: 152
Caggiano, Antonio: 149, 256
Cagli, Bruno: 14, 15, 135, 251
Ciaikovskij, Pëtr: 199
Calvino, Italo: 11, 11n, 199
Campori, Angelo: 262
Canino, Bruno: 181, 249, 263, 283
Canulli, Lorena: 15
Capacci, Roberto: 267, 282
Capaccio, Antonio: 14, 15, 136,
150d, 198, 202, 251, 256
Capasso, Paolo: 267
Caporali, Rodolfo: 156, 248
Caproni,Vittorio: 156
Carapezza, Paolo Emilio: 15, 18, 18n
Carpi, Anna Maria: 149, 256
Carraio, Francesco: 237d
Carter, Elliot: 199
Casella, Alfredo: 228, 250
Castellani, Luisa: 257
Castelvecchi, Stefano: 10n
Castro, Dora: 265
Casularo, Enrico: 267, 282
Catania, E.: 258
Cavalcanti, Guido: 11
Cebron, Jean Maurice: 151
Ceccarossi, Domenico: 263
Cerroni, Patrizia: 15, 111, 151, 241d,
249, 250, 255, 270
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INDICE DEI NOMI
Cesti, Marcantonio: 201
Chermaddi, Angela: 261, 273, 274
Chiapperino, Michele: 262, 269, 282
Chomsky, Noam Avram: 150
Chopin, Fryderyk: 173
Cianca, Anna: 112n
Ciccozzi, Antonella: 269
Cimagalli, Cristina: 10n, 15, 155,186,
258
Cinieri, Cosimo: 83n
Cinque, Luigi: 166
Clementi, Aldo: 15, 18, 19, 81, 81n,
83, 86, 158,162, 235d, 236d, 248
Clementi, Muzio: 160
Cocco, Enrico: 10n,180,186
Coen, Massimo: 15, 163, 166, 258,
259, 264, 266
Colacicchi, Luigi: 249
Colardo, Giuseppe: 281
Colorni, Renata: 149, 256
Consoli,Vittorio: 249
Corelli, Simone: 178n
Cossu, Nunzio: 52, 259
Costanzi, M.: 259
Costarella, Nicola: 249
Cresti, Renzo: 129, 129n
Cristallini, Elisabetta: 148,182, 251
Croci, Gabriele: 262
Cummings, Edward Estlin: 24, 32,
47, 52, 60, 98, 103, 126,198, 208,
249, 250, 258, 259, 263, 271, 276,
283
Curran, Alvin: 173
Cyrano de Bergerac: 11
D’Agostino, Nemi: 82
Dallapiccola, Luigi: 93, 157, 229
Dante Alighieri: 11, 45
Davies, Peter Maxwell: 229
De Amicis, Guido: 270
De Bernardinis, Leo: 83n
De Blasio, Antonio: 249
Debord, Guy: 202
Debussy, Claude: 167, 168
De Canino, Georges: 255
De Giorgi, Elsa: 261
Deleuze, Gilles: 133
Della Torre, Ilaria: 278
De Luca, Anna: 262
De Mari, Carola: 24n, 208n, 277
De Melis, Fabrizio: 261
Deriu, F.: 270, 282
De Robertis, Mariolina: 62, 264
De Rossi Re, Fabrizio: 10n, 186
De Sanctis, Francesco: 259
Devoto, Alberto: 265
Dewey, Ken, 83n, 88n
Diacono, Mario: 82
Di Cioccio, Paolo: 268
Dickinson, Emily: 11
Di Luciano, Lucia: 197
Dionette, M.: 259
Di Stefano, Giovanni: 177
Di Vincenzo, Anna: 81n, 280
Donadio, Carlo: 10n
Dorizzotti, M.: 258
Drot, J. M.: 222
Duchamp, Marcel: 27
Durkó, Zsolt : 229
Eaton, John: 249, 258
Eliot,Thomas S.: 24, 46, 98, 103,
112, 156, 161, 248, 257
Éluard, Paul:18, 21, 24, 25, 26, 26n,
27, 28, 29, 30d, 31, 32, 33, 34n, 35,
45, 46, 47, 51, 59, 97, 98, 106,
127,156, 175n, 198, 208, 256, 258,
271, 274, 283
Esposito, Manuela: 278
Esposito, Patrizio: 10n, 267, 268
Evangelisti, Franco: 13, 18, 19, 37,
37n, 53, 82, 82n, 83n,164, 170, 173,
191, 204, 224, 225, 228, 235d, 236d,
237d, 248, 249, 250
Faccio, Franco: 282
Fadini, Fernando: 264
Failla, Salvatore Enrico: 13, 15, 113
Faja, Angelo: 283
Fasano, : 176
Fassbinder, Rainer: 199
Fedele, Ivan: 281
Fellini, Federico: 199
Ferdinandi, Antonio: 156, 248
Ferranti, Franco: 262
Ferrari, Giordano: 82n
Ferraris, Paola: 178
Ferrero, Luisa: 258
Ferri, Patrizia: 181
Fiancarli, Anna Maria: 81n
Filippini, Enrico: 83n
Fiocchi, Gianpaolo: 261
Fiorenza, Antonino, 18n
Fiorini, Igor: 182
Firpo, Luigi: 114, 114n
Foa, Anna, 114n
Forti, Gilberto: 137
Fortini, Franco: 25, 26, 26n, 256, 258
Foscolo, Ugo: 8
Franck, César-Auguste: 10, 12, 248
Franceschini, Gastone, 234d
Franco, Francisco: 36
Freeman, Robin: 103, 270
Fresno, J.: 282
Freud Sigmund: 115
Fringuelli, Fabrizio: 148, 149
Fusco, Alberto: 258
Gadda, Carlo Emilio: 283
Galgani, Ilaria: 261
Gandini, Giacomo: 263
Garda, Michela: 29n
Gastoldi, Giovanni Giacomo: 256,
267, 271, 274
Gazzelloni, Severino: 181, 249, 263,
283
Gelmetti, Gianluigi: 250, 262
Gelmetti,Vittorio: 83n, 84, 84n, 85,
85n, 193
Genovese, S.: 260
Gensini, Leonardo: 10n
Gentile, Ada: 251, 255
Gentile, Leda: 249
George, Stefan: 103
Germani, Ferdinando: 248
Gesualdo, Carlo principe di Venosa:
10, 46
Gesù Cristo: 11
Fiancarli, Anna Maria: 280
Giglio,T.: 257
Giordana, Andrea: 259
Giordani, Pietro: 259
Giuliani, Alfredo: 8, 10, 10n, 15, 24,
25n, 32n, 36, 37, 37n, 38, 38n, 39,
40, 43, 43n, 44, 47, 48, 53, 59, 84,
86, 87, 87n, 88, 88n, 89, 90, 94,98n,
167, 198, 208, 224, 224n, 225, 226,
227, 249, 250, 251, 255, 255n, 258,
259, 260, 266, 270, 277
Goethe, Wolfgang: 48, 52, 110, 251,
255, 273, 274
Gordigiani, Mario: 263
Gracq, Giulien: 28, 28n
Grano, Romolo: 264
Gregoretti, Lucio: 10n, 186
Grieco, Bruno
Groff, Claudio: 139n
Grossi, Pietro: 13, 14, 61, 117, 151,
158,164, 178, 181, 249, 270
Guadagnuolo, Francesco: 252d
Guaccero, Domenico: 18, 53, 82,
82n, 83, 131,157, 158, 163, 164,
170, 171, 173, 175n, 234d, 235d,
236d, 241d, 248, 249, 250, 262
Guaccero, Giovanni: 182
Handt, Herbert: 257
Heineman, John: 249, 258
Herlitzka, Roberto: 255
Hindemith, Paul: 10, 157, 228
Hirayama, Michiko: 19, 32, 86n, 87,
151, 163, 163n,168, 193, 225, 237d,
249, 255, 258, 259, 260, 261, 270,
272, 276, 278, 280, 281, 283
Hofmannsthal, Hugo von: 140n,
145n
285
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INDICE DEI NOMI
Hölderlin, Johann Christian
Friedrich: 110
Hughes, James Langston: 248
Husserl, Edmund: 169
Iannaccone, Michele: 86n, 255, 265,
281, 283
Jacomucci, Claudio: 269
Jankelevitch;Vladimir: 126, 126n
Jeney, Zoltán: 229
Jung, Carl Gustav: 138n
Kaczyìski, Adam: 249, 265
Kafka, Franz: 11, 110, 137n, 141n,
143n
Kennedy, John Fitzgerald: 99
Ketoff, Landa: 114n, 279
Kleist,Heinrich von: 110
Kraber, K: 258
Kramer, Stephen: 260, 261
Kundera, Milan: 10
Labé, Louise: 82
La Capria, Raffaele: 257
La Face, Giuseppina, 82n
Landini, Federico: 10n
Lanza Tomasi, Gioacchino: 84n, 85n
Lanzillotta, Luigi: 260, 264, 265
Lastella, Aldo: 199
László, Magda: 249, 258
Lazotti, Barbara: 260
Leister, Kerl: 269
Leoni, Maurizio: 112
Leoni, Stefano: 278
Leonori, Paolo: 258
Leopardi, Giacomo: 8, 10, 11, 38, 47,
48, 259
Levi, Carlo: 257
Liborio, Mariantonia: 255
Liguori Valenti, Bruna: 257
Locorriere, Antonio: 149, 256
Logue, Joan: 111, 255, 258, 259, 270
Lojodice, Leda: 283
Lolini, Ruggero: 281
Lombardi, Daniele: 15, 166, 170,
172d, 182,241d, 250, 266
Lombardi, Germano: 83n
Lombardi, Luca: 15, 84, 170, 173,
251
Lombardi, Marco: 103n
Lombardo, Sergio: 177, 178
Lomuto, Michele: 251, 268
Lonero, Monica: 269, 282
Lü Jia: 257
Lucrezio: 11
Lupone, Michelangelo: 255, 282
Lux, Simonetta: 14, 15, 148, 153,
178, 181,182, 182n, 184,196, 197,
250, 251, 265, 280
Macchi, Egisto: 18, 82,82n, 83,
286
83n,131,170, 249, 250, 268, 278
Macchi, Lamberto: 255
Maderna, Bruno: 61, 115, 158, 249
Madonna: 201
Maestri, Fabio: 261, 269, 282
Mahler, Gustav: 123
Maio, Antonello: 262
Majakovskij,Vladimir: 48, 251, 255,
273, 275
Malipiero, Gian Francesco: 248
Mallarmé, Stéphane: 37, 47, 86, 88,
89, 90, 92, 94, 94n,103, 106, 167,
168, 225, 255, 255n
Manini, Giuseppe: 51, 248, 261, 273,
276
Mann,Thomas: 47, 52, 255
Mannos, Maria: 261
Manzoni, Giacomo: 259
Maraini, Dacia: 47, 251, 260
Mariani, Ariodante: 261
Marshall, Michael von Bieberstein:
261, 273, 274
Margoni, Ivos: 27, 27n
Marinelli, Carlo: 250, 268
Marocchini, Enrico: 251, 255, 267
Marta: 189, 245d
Martinotti: 283
Martusciello, Elio: 182
Marziale, Marco Valerio: 24, 46, 49,
53, 53n, 98, 198, 256, 272
Mascellini, Guido: 259
Mastropietro, Alessandro: 15, 81,
81n, 82n, 83n, 84n, 280
Mazzucchetti, Lavinia: 255
Melles, C.: 269
Menna, Giacomo: 261
Menotti, Giancarlo: 193
Michelangelo Buonarroti: 60,198,
261
Michaux, Henri: 73n, 136n, 139n,
140n, 143n, 144n, 146n
Mietelski, Marek: 249
Minnucci, Biagio: 181
Mirolla, Miriam: 178
Moles, Abraham: 47, 48, 48n, 73n,
259
Molinari, Alessandro: 10n
Mondelci, Federico: 267, 268
Montale, Eugenio: 156
Montefoschi, Paola: 32, 87n, 224n,
277
Monteverdi, Claudio: 10, 46, 186
Montori, S.: 282
Moral, Sükran: 201
Morelli, Gabriella: 282
Morelli, Giovanni: 45
Morikawa, Keiko: 112n, 183, 262
Morricone, Ennio: 15, 131, 176, 248,
250, 269, 273, 275, 282
Moscardelli, Francesco: 84n
Mottola, Piero: 14, 15, 177,177n,
178n, 179d, 179n, 180,180d, 180n,
183, 183n, 198, 203d, 251, 270, 278,
282
Mozart, Wolfgang Amadeus: 10
Mrazova, Jana: 260
Munari, Massimo: 262
Mussio, Magdalo: 86
Natoli, Eduardo: 10n
Nehaus: 152
Neri, Antonello: 166, 259
Neri, Guido: 136
Nicolai, Bruno: 170, 250, 263
Nicolini, Renato: 227
Nietzsche, Friedrich Wilhelm: 11
Nonnis, Franco: 37n, 82, 205d,
231d, 249
Nono, Luigi: 45, 99, 131, 204, 249,
263
Novelli, B.: 265
Olivetti, Magda: 149, 256
Olivetti Belardinelli, Marta: 178
Olivieri, Mario: 191
Oppo, Franco: 270, 273, 276
Ovidio: 11
Pachini, Paolo: 10n, 186
Pagliarani, Elio: 38
Palestrina, Pierluigi da: 46
Panni, Marcello: 170
Panofka, Heinrich: 186
Paolantoni, Rossella: 10n
Paris, Daniele: 249, 257, 258, 262,
281, 283
Parmenide: 11
Pasolini, Pier Paolo: 52, 88,198, 250,
251, 259, 272, 274
Pavarotti, Luciano: 211
Pavone, Maria Chiara: 15,149,185,
244d, 255, 256, 258, 260, 261, 281
Pecora, Elio: 14, 15, 47, 156, 190,
251, 257
Pedercini, Osvaldo: 258
Penazzi, Bernardino: 182
Penna, Sandro: 47, 261, 273, 275
Pennisi, Francesco: 18, 82,113, 170,
237d, 269, 282
Perilli, Achille: 15, 81n, 86191
Pernaiachi, Gianfranco: 282
Perosa, Sergio: 99, 99n, 255, 259
Pessoa, Fernando: 12, 51, 60, 229,
251, 257, 272, 275, 279
Pestalozza, Luigi: 212
Petracchi, Franco: 258
Petrassi, Goffredo: 10, 13, 23, 25n,
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INDICE DEI NOMI
59, 87, 117, 119, 130, 131,155, 156,
157, 170, 176, 178, 191, 204, 228,
228n, 229, 230, 234d, 242d,
243s,244d, 248, 256, 257, 262, 278,
279
Peverini, Luca: 261
Piano, Rossana: 257, 262
Piccolini, Elisabetta: 149, 256
Pierelli, Attilio: 15, 193
Piermarini, Giandomenico: 269
Pinochet Ugarte, Augusto: 36
Piperno, Franco: 10n
Pisicchio, Michele: 112n
Pirrotta, Nino: 45, 45n
Pizzo, Giovanni: 15, 195, 200, 203d
Pocar, Ervino: 137n, 141n
Poce, Mario: 250, 259
Porena, Boris: 15, 204, 158, 235d,
248, 282
Porena, Ida: 248
Porta, Antonio: 37, 38, 88, 89, 94,
225, 255, 255n
Pradella, Massimo: 157, 268
Prodigo: 266
Proietti, Giorgio: 10n
Proietti, Ugo: 111, 255, 258, 260
Puxeddu, Marcello: 10n
Quartucci, Carlo: 83n, 85
Ragni, Stefano: 264, 266, 278
Ravaglia, Paolo: 269, 282
Razzi, Fausto: 84, 170, 197, 281
Refice, Licinio: 250
Rella, Franco: 55, 55n, 257, 262
Remedi, Osvaldo: 263
Remondi, Claudio: 83n
Renosto, Paolo: 170, 241d, 249, 263,
283
Rilke, Rainer Maria: 47, 52, 55, 140n,
143n,161,198, 251, 257, 262
Rimbaud, Jean-Nicolas-Arthur: 129
Rimoli, Francesco: 10n, 15, 186, 279
Roca, Augusto: 279
Rodighiera, Andrea: 147n
Rogulja, Milica: 10n
Rojac, Corrado: 269
Ronchetti, Lucia: 10n, 186
Ronga, Luigi: 248
Rosselli, Amelia: 155
Rossellini, Roberto: 8
Rossi, Alessandro: 256
Rossini, Gioachino: 222
Rotili, Paolo: 10n, 15, 22n, 58, 186,
279
Rozio, Claudio: 149
Ruggeri, Gianluca: 149, 256
Russo, Guido: 138n
Russolo, Luigi: 277
Rzewski, Frederic: 83n
Sabbatici, Adriano: 264
Sade, Donatien-Alphonse-Francois:
199
Sadie, Stanley: 278
Salazar, Álvaro: 268
Salm, Charlotte, 235d
Salvatori, Luca: 269
Salviucci, Giovanni: 228
Salzman, Eric: 235d, 236d, 248
Salzman, Lorna: 235d, 248
Sanguineti, Edoardo: 24, 38, 39, 46,
47, 50, 54, 54n, 60, 84, 89, 95, 98,
198, 251, 260
Santoloci, Alfredo: 10n
Sartori, Antonio: 248
Sassanelli, Fiorella: 279
Sasso, Giorgio: 261
Sasso, Guido: 261
Sbordoni, Alessandro: 170, 182, 250,
270
Scarponi, Ciro: 267
Scelsi, Giacinto: 19, 131, 152, 170,
228, 249, 251, 262
Schiaffini, Giancarlo: 166, 265, 281
Scimone, Claudio: 264
Schöffer, Nicola: 193
Schönberg, Arnold: 68, 157, 158,
178, 211, 217, 259
Schubert, Franz: 10, 12
Schumann, Robert: 10, 12, 156, 187,
268, 272, 276
Scimone, Claudio: 61
Scotellaro, Rocco: 24, 47, 98, 208,
257, 281
Scudero, Domenico: 14, 15, 182n,
280
Sebastiani, Fausto: 10n, 186
Serra, Alessandro: 137n
Shakespeare, William: 11
Sicolo, Michele: 265
Silvestri, Edda: 267, 268
Simonacci, Giancarlo: 282
Sinisgalli, Leonardo: 24, 156, 208,
248
Smith, William O.: 258
Sordini, Ettore: 148
Spadolini, Annalisa: 260
Staël, Madame de: 259
Stanco, Alvaro: 234
Steinberg, Saul: 143n
Stockhausen, Karlheinz: 191, 204
Stowe, Sara: 260
Stravinskij, Igor: 119, 178, 199, 228,
260, 272, 275
Subrizi, P.: 282
Tabucchi, Antonio: 257
Taddei, Claudio: 264
Taddei, Pablo Maximo: 112, 112n
Tadini, Emilio: 258
Tallini, Arturo: 268
Tarkovskij, Andrej: 266, 272
Tau, Sergio: 82
Testa, Gaetano: 83n
Tessitore, Floriana: 83n
Thau Coen, Mirella: 163
Togliatti, Palmiro: 8
Togni, Camillo: 235d
Torelli Landini, Enrica: 37n, 178n
Tortora, Daniela: 9, 10n, 18, 18n, 21,
81n, 82n121, 185, 186, 277, 278,
279, 280
Tosti, Francesco Paolo:186
Totò, Andrea:10n
Traverso, Leone: 140
Triantafillou, Alessandro: 10n
Trythall, Richard: 237d, 249
Uitti, Frances Marie: 103, 265, 281
Ungaretti, Giuseppe: 151, 153, 156
Vaffier, M.: 260
Valente, Erasmo: 174, 175n, 279
Valobra, Franco: 82
Varèse, Edgar. 19, 119, 182
Verrengia, Andrea: 10n
Vetta, Massimo: 32, 88n, 224n, 277
Villa Rojo, Jesus: 229, 237d, 263
Villatico, Dino: 279
Viri, Giuseppe: 264
Vittorini, Elio: 22, 23, 97n
Volpi Kellermann, Edoardo:10n
Webern, Anton: 18, 29n, 119, 217
Weiss, Lauren: 268
Whitman, Walt: 24, 99, 208, 248
Wordsworth, William: 99
Wright, Richard: 24, 208, 248
Yates, Frances Amelia: 114
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Francesco Guadagnuolo, Ritratto di Mauro Bortolotti, 2006 (originale a colori)
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Prova
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12:31
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Prova
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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche
Area 02 – Scienze fisiche
Area 03 – Scienze chimiche
Area 04 – Scienze della terra
Area 05 – Scienze biologiche
Area 06 – Scienze mediche
Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 – Ingegneria civile e Architettura
Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche
Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Area 12 – Scienze giuridiche
Area 13 – Scienze economiche e statistiche
Area 14 – Scienze politiche e sociali
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Finito di stampare nel mese di gennaio del 
dalla «Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»
 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 
per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma
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