50 Idee e società
Sabato 1 ottobre 2011
Nella notte fra il 7 e l’8 ottobre di vent’anni fa moriva nella sua casa romana
Tutte le voci
di Natalia Ginzburg
Familiare a diverse generazioni di lettori e studenti, oggi la sua opera
è una interessante riscoperta. In “Le piccole virtù” insegna a scrivere senza volerlo
di LUIGI TASSONI
letti per una settantina di
pagine, aggiungendo un
tassello di volta in volta, e
rendendo via via più precisi
i rapporti di familiarità rituale, consuetudinaria, e la
rara affettività della protagonista e narratrice in prima persona rispetto al suo
piccolo mondo al confine
fra isolamento e possibilità, periferia e città, pensieri e parola, silenzio e comunicazione.
Non a caso uno
dei saggetti nel libro su citato parla del silenzio come grande vizio
della nostra civiltà, al quale bisogna strappare le
parole prima che vengano
ingoiate.
In questa dimensione i
personaggi del racconto
d'esordio sono bestialmente feriti e lacerati, perché
costretti a comunicare per
segnali che non sanno interpretare, costretti ad annusarsi e a non riconoscersi, costretti ad amare senza
poterlo dire e fino all'autodistruzione. Il breve romanzo del '42 è un capolavoro della riscoperta di ciò
che ci è più necessario, di
una sorta di fiato tiepido
che aiuterebbe a superare
la prova, e che commettiamo l'errore di riconoscere
troppo tardi. Ciò che più
sollecita la decisa narrazione de “La strada che va in
città” è il richiamo ad imparare a strappare al silenzio
le parole che meglio rappresentino il nostro percepire di animali in cerca di libertà, e che ci rappresentino rispetto alla nostra diretta alterità, per esorcizzare il destino
delle solitudini
subite e costruite come
inviolabili nel
tempo, nel rapporto mai bilanciato fra dolore e piacere,
casualità e desiderio. Quello
che fino ad oggi non è stato ancora detto e
scritto con sufficiente partecipazione è che “La strada
che va in città” è un esperimento ben riuscito di romanzo-racconto, una forma mista che provocatoriamente si distribuisce in tutto il Novecento, senza peraltro essere identificata
come tale. Sì, perché qui la
narrazione si chiude con
l'immagine dell'amato non
riconosciuto in tempo, diventato alla fine un morto
di cui la protagonista dice
di avere persino paura, e
dunque si chiude perentoriamente come un racconto, e come un racconto procede nel suo sviluppo lineare progressivo, con aggiunte
di informazioni per
il lettore sullo svi-
«IL mio mestiere è scrivere
delle storie, cose inventate
o cose che ricordo della mia
vita ma comunque storie,
cose dove non c'entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia». Si confessa così, in un passo che ha il
tipico ritmo veloce, il tono
netto, il linguaggio diretto,
elementare, per nulla allusivo, duro e appartato, Natalia Ginzburg in uno dei
brevi saggi che dal 1962
compongono “Le piccole
virtù”, scritto per imparare
a riflettere e che, senza che
la scrittrice lo pretendesse,
insegna a scrivere e a leggere. Nella narrativa della
Ginzburg le “cose” partono
dal basso, e le storie si muovono nel modo naturale e
inesorabile che spetta alle
stagioni: impacciate, violente, delicate, fredde, calde, momentanee. Anche se
avesse potuto, credo che la
scrittrice non avrebbe mai
rinunciato a questa mescolanza di umori, tutti riconoscibili e senza ambiguità, come annotano tempestivamente i suoi primi
grandi lettori, e soprattutto Cesare Garboli, che nel
1984 ha tracciato il disegno contorto e visibile di
questa narrativa in un saggio memorabile, affettuoso
ma non indulgente (tratti
che accomunavano il critico all'amica scrittrice). In
questo testo, che
oggi si trova nel
volumetto di Garboli “Scritti servili”, si sottolinea
che, malgrado il
grande movimento di uomini e cose,
il loro spostamento e la loro volubilità, nelle storie della Ginzburg vi è un
costante interesse
di partenza: «l'urto che il corpo ancora inarticolato
nella tana riceve
dal contatto col
mondo (…). Quest'incontro è atteso, sospirato nella
consapevolezza
che la vita può cominciare solo con
una prova, con
una lacerazione».
E' proprio il riconoscimento di un
trauma primitivo, La foto mostra la risposta della Ginzburg a Tassoni
di un peccato inconsapevole, che dà ai perPubblichiamo una lettera che il critico, semiosonaggi della Ginzburg la
logo, e storico della letteratura Luigi Tassoni
possibilità di vivere in una
scrisse alla Ginzburg negli anni Ottanta. La
porzione di gioia innocenfoto in alto mostra la risposta della scrittrice.
te, magari colpevole ed
egoista, ma comunque sufPrato, 2 maggio 1985
ficiente a non farsi schiacCara Natalia Ginzburg,
ciare dai macigni della stouna lettera è una cosa difficile, forria, del presente, e appunto
se perché è il frammento di un monodella memoria e della fantalogo inviato all'altro e destinato ad
sia, che sono il pane quotiavere come risposta un ennesimo
diano. Questa caratteristiframmento di monologo. Così, senca di incosciente e soggettiza che lo si sappia prima, le lettere ci
va volontà vitale riguarda
consentono didialogare. Ecosì, senla prima delle eroine femza che il lettore se ne renda conto, le
minili fra le tante dei rolettere de “La città e la casa” gli conmanzi, racconti e del teatro
sentono di intravedere un romanzo
della Ginzburg, l'adolenel quale i «minimi incidenti» e le
scente che diventa donna
«faccende» più cheessere raccontati
nel libretto d'esordio “La
sono “parlati” epistolarmente dai
strada che va in città”, pubnumerosi mittenti che sfilano via via
blicato nel 1942 a 26 anni.
fra le pagine del libro come voci narQui la storia cresce progressivamente nei capito-
«Il mio mestiere
è creare storie
Serve memoria
non cultura»
luppo degli eventi e sul
cambiamento dei personaggi in relazione al perno
centrale che è la narratriceprotagonista. Ma allo stesso tempo, parallelamente e
non incidentalmente, l'intreccio di questa storia ha
una sua evoluzione da romanzo che distribuisce il
peso degli episodi salienti
lungo le varie fasi della narrazione. Anche se può sembrare pedante (e sono pedanterie che la Ginzburg
non disprezzava), solo visualizzando la carta d'identità del racconto si riesce a
capire quale grande invenzione concreta di genere e
di linguaggio essa sia, e come il suo sia un invito allo
sforzo della comunicazione
fra diversi come fossero simili, nelle relazioni umane
che nulla possono dare per
scontato sin dalla nascita.
Di una tale faticosa conquista proprio dei sentimenti,
oltre che della nostra identità e della nostra posizione
nel mondo, “fisiologici” direbbe Garboli, Natalia Ginzburg è stata testimone intransigente in ogni suo libro, fino al suo ultimo sorprendente romanzo, “La
città e la casa”, pubblicato
nel dicembre del 1984 (case, città, tane, stanze sono
per la Ginzburg gli spazi
dello zoo umano insoddisfatto e volubile). Perché
sorprendente? Perché ancora una volta la scrittrice
mette tra parentesi lo strumento, il disegno, la natura
del romanzo, e inventa un
La scrittrice Natalia Ginzburg, scomparsa il 7 ottobre di venti anni
fa
narratore fantasma che
questa volta non parla ma
raccoglie silenziosamente
lettere che incrociano fra
loro vari destinatari, come
in una mappa in cui ciascuno cerca l'altro e allo stesso
tempo si allontana dall'altro, cambiando città, casa,
famiglia. Queste romanzo
epistolare di innumerevoli
voci, mittenti e destinatari,
è il tracciato di una mancanza che, a causa della fuga, non riesce a essere presenza. A differenza di Garboli, io ho amato subito questo spinoso e coraggioso
romanzo di fughe, mancanze e sopravvivenze, e ne
avevo parlato a lungo con la
Ginzburg in una bella giornata d'aprile in Toscana,
nel 1985, camminando fra
le vie silenziose della mia
città d'allora. Poi glielo avevo scritto, e quelle mie poche riflessioni tempestive
(che potete leggere di fianco con l'autografo della lettera di risposta della Ginzburg) non erano proprio
una recensione, solo un atto interlocutorio, diretto e
naturale, di quelle cose che
accadono perché devono
accadere, come succede nei
romanzi della Ginzburg, e
poi lasciano una traccia
nella memoria, nella fantasia, e nell'intelligenza del
presente.
IL DOCUMENTO
Il romanzo epistolare
e le lettere che parlano
ranti a turno. Ma sarebbe impreciso
dire che tutti loro scrivono una storia soggettiva, risultato di individualità distinte: nel romanzo infatti
il registro linguistico è pressoché
omogeneo, di modo che il narratorefantasma faccia sentire la propria
presenza discreta lungo la linea che
unisce segretamente queste lettere.
La non eterogeneità dei linguaggi
forse non differenzia abbastanza le
persone (soprattutto Alberico da suo
padre), ma al contempo rappresenta
una prerogativa dello scrittore. Del
resto, mi pare che questa presunta
differenziazione linguistica degli
scriventi non si attui neanche in “Caro Michele”. Voglio dire che sarebbe
pretestuoso pretendere dal romanzo epistolare la caratterizzazione
linguistica dei vari autori di lettere,
che invece restano e sono, nello
straordinario gioco della finzione,
personaggi di un romanzo e non effettivi autori di lettere. E' in questo
amalgama pressoché omogeneo
che, come in un qualsiasi romanzo,
si percepisce la presenza (fantasma)
del narratore.Perciò nientemimesi:
il vero personaggio che tiene insieme i propri personaggi è colui che
scrive e con lui la voce narrante qui
assente fra le decine di voci narranti
in proprio. A che pro tentare di imitare ciò che non è? Mi accorgo che sto
parlando di personaggi, anche se
l'autore si guarda bene dal descriverli, come invece fa nella narrazione di “Caro Michele”, ma consente ad
essi di raccontarsi mediante lo
scambio epistolare. E' questo il suo
modo di distribuire la voce entro la
narrazione, di volta in volta, direttamente e senza mediazioni, di distribuirla e anche di darla in prestito ai
coprotagonisti dell'intreccio: è questo il suo modo di sembrare assente.
Si intravede cosìla consistenza della
voce del narratore, la sua mano dietro le quinte, proprio valutando il racconto epistolare degli avvenimenti dolorosi che, nella
totale assenza di pathos
o di inflessione partecipata, rientrano in una
comune lettera e non sono sottolineati da alcuna
cornice particolare, così
come arrivano al lettore
del libro e contemporaneamente a chi sta leggendo nella
finzione la lettera, con tutto il loro
peso, contutto illoro laconicoferire.
Sono cose già accadute, il loro strascico emotivo appartiene al nostro
silenzio proprio nel momento in cui
gli eventi si imprimono nella memoria, e sono come un veleno assorbito
che attende nel silenzio. Tutto accade perché deve accadere, e forse anche con il privilegiare una casualità
che ha sapore di paradosso. Perché
paradossale è un personaggio come
Giuseppe, il destinatario principale
di lettere, che con l'improvviso viaggio a Princeton intende fuggire il
presente ma, dal nostro punto di vista, innesca il magnifico meccanismo epistolare di fraintendimenti,
coperture, omissioni, ammissioni.
Paradossale è nel suo insieme la funzione della lettera che tenta di rispecchiare un tempo presente pur appartenendo inequivocabilmente al passato, al passato di chi
scrive e anche a un passato (pensi all' “Ortis” di
Foscolo) che non conosceva la provvisorietà
del telefono. Le lettere
mantengono vivo nella
voce (riletta) il desiderio
di richiamare l'altro a sé,
e mantengono anche
una sorta di cordone
ombelicale con le persone, con le cose, con le epoche della nostra vita, malgrado le sparizioni, le
lontananze, le partenze, gli addii,
malgrado la morte, forse proprio
perchéadesse èriservatounaspecie
di tempo inattuale.
Tutto questo mi pareva giusto ricordarglielo per lettera, anche se
una lettera è una cosa molto difficile.
l. t.
Si percepisce
la presenza
fantasma
del narratore
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