A nno I - N ° 2
N otiz iar io di i niz ia tiv e f e de r alis t e
Bobbio e Sartori, ma
ascoltando Jemolo e
Pietro Rossi.
Joe Motore.
Il nostro appello all’alta cultura per approfondire e dare basi culturali adeguate
ed aggiornate alla nostra scelta presidenzialista è giustificato dalle opposte scelte
di due maestri quali Norberto Bobbio
( vedi “Ci manca De Gaulle” - La Stampa
del 28 Genn. 1996. ) e Giovanni Sartori
( vedi “La costituzione immateriale” Corsera del 31 Ott. 2009 ) per non parlare
delle Sue innumeri argomentazioni sulle
riforme istituzionali e più ancora, volendo approfondire, riferendosi ai suoi testi
quali “Elementi di teoria politica” o
“Mala costituzione ed altri malanni” in
cui l’editore presenta l’autore come il
“più impietoso commentatore dei nostri
vizi pubblici, sotto la cui lente sfila la
classe politica del Paese, incapace di garantire buon governo, istituzioni stabili e
riforme ben congegnate”.
Certo al Gran Professor Bobbio, icona
della nostra torinesità colta ed intransigente, è difficile imputare un’argomentazione debole per un breve scritto datato e
sicuramente mirato a sostenere il poco
che la commissione Fisichella faticosamente stava elaborando in tema di riforma costituzionale nell’ormai lontano 1996.
Oggi però gli argomenti di Bobbio non
paiono convincenti in quanto troppo legati ai percorsi della Sua storia umana e resistenziale, più che non al farsi concreto
delle nostre istituzioni negli anni 2000.
Tant’è che pur da culture diverse ed a
fronte dei più disparati accadimenti , siano l’evento del 150° dell’Unità d’Italia o
30 N ov e mbr e 2009
Sommario
Joe Motore - Bobbio e Sartori, ma ascoltando Jemolo e Pietro Rossi.
Redazione - Cestello di Titoli dei quotidiani
il Muletto
- Cronache di due straordinarie disfunzioni.
G. Orlandi
- Lettera aperta a Walter Veltroni
Rassegna Stampa con le Opinioni di Veltroni, Bobbio, La Spina e Rusconi
Redazione - Il convegno “Torino, città Europea”
Cronaca di due straordinarie disfunzioni.
Dall’ultima uscita del nostro periodico alla fine di Luglio sul nostro tavolo si
sono ammassate molteplici opinioni a corredo della campagna per la scelta del
nuovo segretario del Pd o sulle varie esternazioni dei leader del Pdl accompagnate dal controcanto di Bossi o dalle grida dell’indipendente Casini.
Ovviamente tralasciamo le intere vicende in stile gossip per quanto riguarda
intercettazioni ed escort varie in quanto a noi interessa sottolineare le due questioni politiche che a nostro avviso caratterizzano l’attuale momento politico e
precisamente lo stato del socialismo in Europa e la ripresa del dibattito sulle
riforme istituzionali.
In Italia la questione socialista è stata dismessa nel troppo lungo processo che
ha portato all’elezione di Bersani alla segreteria del Pd e per sottolineare la
novità del partito che mira a dare corpo unitario alle varie anime del riformismo italiano. Anzi si è immaginato il Pd come momento di superamento dell’ambivalenza socialismo-socialdemocrazia senza supporre che ciò poteva
disconoscere l’identità della maggioranza degli aderenti e dei possibili elettori
del nascente partito.
Di più, molti assistendo alla crisi del socialismo francese ed alla sconfitta della Spd tedesca, hanno sottolineato i motivi di decadenza dell’idea socialista
talvolta arrivando ad ipotizzarne la fine.
Ma presto l’elezione in Grecia di Papandreu e la stessa mancata elezione di
D’Alema alla carica di rappresentante dell’Europa per l’estero, hanno rivelato
un socialismo ben vivo e dunque hanno posto un brusco arresto a quelle argomentazioni.
( segue a pag. 2 )
( segue in ultima )
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Anno I - N° 2
Mosaico Federale
30 Novembre 2009
IL CESTELLO DEI TITOLI
Dai Titoli delle Gazzette 2
Ecco una modestissima ma pur sempre significativa carrellata sui
titoli che hanno declinato in vari modi la vita della coalizione di centro-destra.
In realtà noi avremmo preferito sottolineare differenze e contrapposizioni di un ipotizzato congresso del Pdl come abbiamo fatto in occasione delle gara per l’elezione del segretario del Partito Democratico nella edizione di Luglio di questo notiziario.
Ciò non è stato possibile in quanto il congresso non è stato convocato e probabilmente non lo sarà ancora per molto tempo.
Allora si fa strada una domanda che col passare del tempo diventa
derimente e sempre più necessaria: è mai possibile che in un paese
democratico, e siamo tra quelli che non hanno dubbi sulla democraticità dell’intero paese, la maggioranza parlamentare che fa capo al
Pdl non riesca ad imporre ai propri organi statutari la convocazione
di un congresso ? E secondariamente che il dibattito congressuale
venga sostituito dalle beghe fra ministri, sottosegretari e chi più ne
ha na metta, e dunque che il cosiddetto “popolo delle libertà” di fatto
sia posto nelle condizioni di non poter scegliere alcunché ?
A fronte di queste anomalie sempre più a noi pare che una gara per
scegliere un candidato presidente designato per un quinquennio a
svolgere un determinato programma, dia molte più garanzie ai propri
elettori ed a quelli che sceglieranno altri competitori e che, in caso di
sconfitta, costituiranno l’opposizione.
la Redazione
( dalla prima pagina )
Di più, basta rileggere l’intervista
a Guenter Grass ( vedi La Repubblica del 27 Sett. 2009 ) o le tesi
del filosofo Michael Waltzer
( vedi La Stampa del 17 Ott. 2009 ) per rendersi conto dell’abbaglio preso da commentatori superficiali o erroneamente spinti a
privilegiare il futuribile del Pd
rispetto alla consistenza storica ed
identitaria del socialismo italiano.
Se questa è la prima disfunzione
politica del presente, occorre sottolinearne una seconda costituita
dalla ripresa del dibattito sulle
riforme istituzionali in forma discontinua, quasi sottotono, mentre è noto che tali riforme rappresentano la chiave di volta dell’intera legislatura.
Qualcuno ipotizza che il tema sia
tanto importante da far sì che la
sua lenta maturazione avvenga in
un percorso carsico e che all’oggi
emerga solo a fronte delle esigenze
del funzionamento della giustizia,
dell’attuazione del federalismo
fiscale o delle disfunzioni del bicameralismo perfetto.
Invece a noi pare che lo stallo
della politica su questo fronte si
riveli con un pareggio inconcludente ( vedi Luigi La Spina - La
Stampa del 29 Ott. 2009 ) foriero
di un pessimo futuro se mai dovesse perdurare nelle sue non
scelte e dunque perseguiremo nel
nostro sforzo per proporre la soluzione del presidenzialismo. Di
fatto nelle prossime regionali non
staremo tanto a guardare alle
scelte fra Bresso e Chiamparino o
fra Cota e Ghigo o volendo all’autsider Michele Vietti, ma sceglieremo fra chi, essendo più vicino alle nostre scelte istituzionali,
vorrà partecipare alla nostra scelta di campo per il futuro del Paese.
il Muletto
Torino, 20 Nov. 2009.
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Anno I - N° 2
Mosaico Federale
30 Novembre 2009
Lerrera aperta in risposta a Veltroni
Caro Veltroni,
chiedo venia per il caro che è rivolto come si usa nel rapporto con un direttore di giornale e certo non nel senso di amicale rapporto e tantomeno di entente politica.
E più compiutamente per sinteticamente esprimere le qualità della fonte che ti interpella dichiaro di essere stato uno dei tanti che ricordando la gloriosa Democrazia Cristiana di De Gasperi e della ricostruzione cercò invano di attualizzarla da sinistra negli anni critici intorno al ‘968, per poi subirne
prima l’involuzione delle “ convergenze parallele “ ed infine contrastando senza successo la decadente stagione dei corifei demitiani, imperanti tra
lottizzazioni estese e laute operazioni di sottogoverno.
Dunque uno dei tanti ”Noi” che tu bene descrivi nel Tuo libro, senza mai aver fatto parte delle maggioranze silenziose pronte a servire sempre l’utile
proprio ed a voltar gabbana alla prima occasione favorevole.
Tutto ciò è detto senza acrimonia o supponenza, ma semplicemente come dato storico proprio come Tu descrivi il dato tragico della guerra civile senza revisionismo o giustificazionismo alcuno.
Ed è in forza di questo dato che dopo oltre un ventennio ( mi pare che la grande riforma di Craxi dati all’incirca a metà degli anni ‘990 ) penso sia
giunto il tempo in cui una parte della classe dirigente del Paese debba farsi carico della responsabilità di una statuizione aggiornata che vada oltre,
senza rinnegarne i fondamenti, i dettami compromissori della Costituzione promulgata il 1 Gennaio 1948.
E questo ben al di là di quelli che saranno gli equilibri politici interni ed esterni delle aggregazioni del Pd e del Pdl: anzi occorreranno del coraggio e
delle qualità notevoli per chi vorrà staccarsi dalla routine consuetudinaria del far politica in Italia per proporre una istanza in grado di superare l’ormai
quindicinale stallo della politica.
Questa mia mira dunque a chiederTi se il Tuo “ I care “ del congresso di Torino o il Tuo più recente “ I can “ del Pd avesse, magari in un inconfessato
arrière pensée, l’ipotesi di un futuro possibile di mutazione costituzionale nel senso presidenziale di tipo americano, più che non della proposta dalemiana di semipresidenzialismo alla francese.
Ovviamente la domanda è del tutto retorica e qui non interessa tanto una delucidazione sul passato quanto l’impegno per un possibile futuro, un futuro
favorito dal Tuo presente disimpegno dalla politica politicienne e nel contempo dall’affermazione della “speranza che….siamo chiamati a far crescere” per “una stagione più civile nella quale la maggioranza degli italiani potrà finalmente ritrovarsi”. ( NdR - La Stampa del 17.10.2009 – Il silenzio
colpevole. )
Ma se questo non è soltanto un auspicio allora, al di fuori della quindicennale inconcludenza partitica ed in forza di un sentire pubblico sempre più
orientato all’indispensabilità di poteri che abbiano facoltà di decidere nei tempi rapidi del mondo globalizzato, occorre avere il coraggio di spendersi
per promuovere un assetto presidenziale del paese, senza temere, anzi come profilassi anti inciuci vari, che gli interessi contrastanti di piazze, informazione e poteri consistenti potrebbero gestire a scapito di una democratica partita tutta da giocare in piena trasparenza e libertà.
Certo queste affermazioni sono del tutto eteree, ma chissà che la situazione seria del Paese non provochi la necessità di una rapida decantazione per
cui ciò che fino all’ultimo pareva questione improponibile, quasi per rapida catarsi, diventi sostanza urgente di inderogabili aggiornamenti istituzionali.
Buon lavoro lì in “alto”, che qui in “basso” c’è bisogno di chiarezza !
Torino, 21. 10. 2009.
Giuliano Orlandi.
Premesa alla Bancarella dei libri
ovvero
Il muro di gomma di Bersani ed il ripiego di Cicchitto.
Nota Redazionale del 16 novembre 2009.
Senza entrare nel merito di ciascuno dei libri esposti sulle
nostra bancarella, proponiamo questa improvvisata raccolta
per dire che il contesto politico che stiamo vivendo ha degli
antesignani molto lontani, altri che datano di una decina di
anni addietro ed alcuni sviluppi del tutto recenti.
Il nostro tentativo di trovare delle spiegazioni non superficiali
alla crisi politica attuale ha origine da quanto dibattuto nella
giornata finale del Convegno di Saint Vincent “Le nuove sfide per l’Italia” organizzato dalla fondazione “Carlo DonatCattin”.
Di tale convegno vogliamo solo ricordare che all’affermazione di Bersani riguardo il mantenimento delle leggi ad personam significava l’impossibilità di riprendere il dialogo fra le
due componenti maggioritarie della maggioranza e dell’opposizione, anzi più esplicitamente attraverso la proposta di legge sulle riduzione dei tempi processuali ai due anni per ogni
livello di giudizio, si erigeva un muro di gomma che respingeva al mittente le argomentazioni dell’una e dell’altra parte.
Ad una affermazione così tranchant Cicchitto rispondeva che
l’opposizione doveva rendersi conto che non si vivevano più
tempi simili a quelli intorno al 1993 quando le decisioni della
magistratura di fatto eliminarono quattro dei cinque partiti
avevano perso la loro spinta propulsiva e dunque non seppero
superare né le decisioni dei tribunali ne contrastare l’ascesa in
campo dell’imprenditore lombardo. Oggi il Presidente del
Consiglio gode dei favori di una larga maggioranza del Paese
e dunque, di fronte ad una eventuale campagna giudiziaria
potrebbe reagire sottoponendosi ad un nuovo giudizio elettorale.Ecco per noi le due vie sono percorribili da sinistracentro ( Bersani ) e da centro-destra ( Berlusconi ): ma dopo
una campagna elettorale traumatica, Berlusconi, anche nel
caso risultasse vincitore non solo per sondaggio, ma sul campo, potrebbe essere giudicato e, se condannato, ridotto in carcere o, come Forlani, comandato ai sevizi sociali ?
Ci pare che se la nostra classe politica fosse degna di questo
nome dovrebbe passare dai minuetti di parole inconcludenti
ad alcuni atti che dissolvano il muro di gomma, così come la
presunzione che una chiamata alle urne possa rappresentare il
fatto taumaturgico per cui la politica riassuma il suo ruolo e
la magistratura possa tornare ad un buon funzionamento al
servizio dei cittadini.
La rassegna dei libri della nostra bancarella potrà mai dare un
qualche contributo per passare dai minuetti di parole ai fatti
che la politica ha il dovere di mettere in atto ?
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Anno I - N° 2
Mosaico Federale
0 Novembre 2009
Bancarella dei libri
Introduzione
Non è senza esitazione che affido alla stampa una cosi modesta opera sopra un cosi ricco tema.
L'analisi della crisi dello Stato moderno potrebbe avere ricchissima documentazione; di ogni aspetto che se
ne accenni, sarebbe desiderabile dare il diagramma, farne risaltare tutti gli elementi, tracciarne tutte le fasi.
Penso al lavoro che sul tema potrebbe scrivere un economista dall' informazione sempre completa e
sempre perfetta ed al tempo stesso con profondo senso di storico, quale Luigi Einaudi; penso in particolare alla bella opera collettiva che sul tema potrebbe nascere dall’ iniziativa di un ente culturale (l'Accademia dei Lincei, o l’Università di Padova, che promosse appunto quella serie di conferenze “La crisi del diritto” in una delle quali svolsi proprio l’argomento che ora forma oggetto di questo libretto), che chiamasse, ad illustrare i vari aspetti della crisi dello Stato, uomini di tendenze diverse, contrapponendo su ogni capitolo del lavoro l'opinione di un liberale, di un comunista, di un corporativista cattolico, cercando quanto possibile di allargare il dibattito.
L'avere presente quello che avrebbe potuto e dovuto essere lo svolgimento del tema mi ha reso dubbioso se licenziare un'opera tanto modesta. Mi ha deciso per il
si la riflessione che il pensiero politico non è l'arte, dove l'opera imperfetta
non ha ragione di vedere la luce, ma partecipa piuttosto delle scienze morali, dove c’è posto anche per l'esposizione delle minori idee, per il semplice avviamento a dibattiti; ed altresì il ricordare l'utilità che, in certi
periodi soprattutto, può avere quanto valga il colloquio intorno a
certi argomenti, a suscitare degl’interessamenti.
Se questo libretto potesse riuscire ad accendere una discussione
degna intorno ai problemi dello Stato moderno, intorno alla
soluzione dei singoli problemi, avrebbe raggiunto appieno il
Note dell’Editore
suo scopo, e poco importerebbe che fosse rapidamente
dimenticato.
Oggi, nel nostro paese, all’inerzia del senso di appartenenza
nazionale si sovrappongono ipotesi di autonomia regionale, tra le
quali la proposta leghista delle macroregioni — prima annunciata,
Arturo Carlo Jemolo.
poi ritirata o solo sospesa — costituisce l'esempio più vistoso.
È tempo ormai di andare oltre l'allarme e il lamento per ricominciare a
pensare se e come possiamo rimanere una nazione, e se e come dobbiamo
diventare una nazione di cittadini. Prendendo lo spunto dall'Italia, ma in un'ottica europea, Gian Enrico Rusconi riflette sui concetti di nazione, etnia,
cittadinanza, che il mutato scenario internazionale ha riportato alla ribalta in un
ancora indistinto miscuglio di vecchio e di nuovo. La Resistenza italiana e la lunga
«guerra civile» che dal 1914 al 1945 ha ridisegnato
1 confini d'Europa, e che dopo il 1989 ha nuovamente cambiato il volto del continente,
sono i due periodi storici che l'autore rivisita: alla ricerca delle radici della legittimazione
della Repubblica, da un lato, e del significato e della persistenza delle identità nazionali nel
processo di integrazione europea, dall'altro. Quello che preme all'autore è sottolineare il nesso
tra democrazia e nazione. Solo un paese consapevole della propria identità nazionale è in grado
di articolare nei valori universalistici della cittadinanza le proprie differenze regionali o le richieste di nuovi soggetti provenienti dall'esterno. E solo in un'Europa che non neghi, ma costringa a ridefinirsi, le singole identità nazionali il progetto di unificazione politica ha qualche speranza di successo.
Gian Enrico Rusconi insegna Scienza politica nell'Università di ; Torino. Tra le sue più recenti pubblicazioni
con il Mulino: "Rischio ', 1914.. (1988) e "Capire la Germania» (1990).
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Mosaico Federale
30 Novembre 2009
Bancarella dei libri
D’Alema - La grande Occasione – 1997, Mondadori.
«Questo libro racconta gli inizi di una storia che si concluderà nel nuovo millennio. È una piccola storia, se si pensa che
viviamo nell'epoca della globalizzazione in cui i confini tra le nazioni si dissolvono, le tecnologie trasformano il lavoro, le
reti di comunicazione modificano il concetto stesso di democrazia. Ma è una storia importante per questo pezzo di mondo
chiamato Italia: per la sua struttura economica e sociale che deve stare al passo con i mutamenti, per le sue istituzioni che
rischiano di deperire se non si rinnovano.
In un paese che da molti anni parla di riforme senza farle è cominciato il tentativo di cambiare seriamente le regole del
gioco democratico. Una Commissione nominata dal Parlamento ha proposto alcune modifiche alla seconda parte della nostra Costituzione, le Camere le discuteranno nel giro di un anno o poco più e, infine, le sottoporranno all'approvazione degli italiani in un referendum popolare.
Queste riforme si propongono obiettivi apparentemente lontani e astratti, in realtà molto importanti per la vita quotidiana
di ognuno: una giustizia più veloce e vicina al cittadino comune; un Parlamento meno numeroso e più funzionale; uno
Stato sburocratizzato che redistribuisce verso il basso i suoi poteri; un governo che sia espressione più dei cittadini che
delle segreterie di partito. Ho voluto raccontare l'avvio di questa impresa che può cambiare l'Italia e di cui sono stato con
altri protagonista, cercando di non essere uomo di parte, ma sforzandomi di capire le ragioni di tutti.»
Massimo D'Alema è nato a Roma il 20 Aprile 1949. Dal
luglio 1994 è segretario del Partito Democratico della
Sinistra. Il 5 febbraio 1997 è stato eletto presidente della
Commissione parlamentare per le riforme costituzionali.
Nel 1995 ha pubblicato da Mondadori Un paese normale.
49. Dal luglio 1994 è segretario del Partito Democratico
della Sinistra. Il 5 febbraio 1997 è stato eletto presidente
della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali.
Arnaldo Forlani, venendo da una lunga milizia di partito che prende l'avvio dalla guerra
dì liberazione, e stato partecipe attivo del confronto politico e delle controverse vicende
che hanno accompagnato la vita democratica del paese nell'arco dì mezzo secolo.
Ha guidato la DC in periodi cruciali della vita nazionale, il primo culminato con le elezioni del 1972 e il secondo concluso con quelle del 1992 che aprono di fatto la crisi della prima repubblica.
Ha alternato ai compiti di direzione nel partito di maggioranza le responsabilità di governo, alle Nazioni Unite, alle Partecipazioni Statali, alla Difesa, agli Esteri, alla Presidenza
Arnaldo Forlani – Il potere discreto – 2009, Marsiglio.
Arnaldo Forlani è stato per cinquant’anni protagonista della vita politica e istituzionale italiana. Le sue idee e la sua azione
l'hanno segnata in particolare in due periodi. Il primo - tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70 - in cui si esauriva la politica di centro-sinistra avviata da Moro nel 1962.
Il secondo negli anni '80, quando nella DC Forlani è stato il più convinto sostenitore dell'alleanza strategica tra la DC e il
Psi di Craxi, al fine di creare anche in Italia le condizioni di un bipolarismo sicuramente democratico e in grado di fare
fronte ai nuovi, giganteschi problemi posti dalia fine della guerra fredda e dall'inizio della globalizzazione.
Il racconto di fatti vissuti come protagonista da Arnaldo Forlani, e le sue valutazioni e giudizi su vicende e uomini che
hanno inciso profondamente nella storia contemporanea dell’Italia, meritano dunque l'attenzione degli storici, dei politici e
di quanti siano interessati a conoscere meglio le radici di vicende che spesso influenzano anche l'attualità politica e istituzionale.
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Mosaico Federale
Anno I - N° 2
30 Novembre 2009
Bancarella dei libri
Note dell’editore.
Note dell’editore
1943: Il quattordicenne Giovanni fissa sull'album da disegno gli
ultimi giorni del fascismo, il bombardamen-to di Roma del 19
luglio, la deportazione degli ebrei il 16 ottobre.
1963: Andrea, tredici anni, attraversa col padre, su un Maggiolino decap-pottabile, l'Italia del boom. 1980: l'undicenne Luca
registra sulle cassette del suo mangianastri l'anno terribile del
terremoto in Irpinia, del ter-rorismo, dell'assassinio di John Lennon.
2025: l'adolescente Nina vuole costruire la sua vita preservando
le esperienze uniche e irripetibili di coloro che l'hanno preceduta. Quattro ge-nerazioni della stessa famiglia, quattro ragazzi
colti ciascuno in un punto di svolta (l'esperien-za della morte e
della distruzione, la malattia dì una madre perduta e ritrovata, il
tradimento degli affetti, la rivelazione dell'amore) che coin-cide
con momenti decisivi della recente storia italiana, o si proietta in
un futuro di inquietu-dini e di speranze.
Il nuovo romanzo di Walter Veltroni intreccia voci, destini, ricordi, even-ti, oggetti-simbolo, canzoni, film, sentimenti e passioni che vengono da giorni e luoghi per-duti, eppure così familiari. Forse perché quelle voci siamo Noi.
È difficile sostenere che il Partito democratico non sia nato.
Ma si tratta davvero dell'adempimento
Della sua promessa?
La lettura della società da parte del Pd, partito nuovo, è stata
vecchia. La sua politica è stata oscillante tra un eclettismo di
iniziative che non catturano l'attenzione e non mobilitano il
popolo, e il ritorno al passato.
In un paese che si ripiega e si frammenta in cento direzioni è
possibile una svolta? Ci può essere
un coraggioso cambiamento, che riporti il Pd al centro, nel
cuore della società italiana ?
È necessario dire con chiarezza quali sono gli errori da evitare. Avanzare proposte per sconfiggere in modo serio e onesto
i populismi dì destra e di sinistra, che si preparano a cavalcare sfiducia e rabbia sociale di molti cittadini.
Niente illusioni: se i democratici - liberali, moderati, riformatori, progressisti - non ce la faranno,
il centrodestra potrà essere in grado di affrontare e confermarsi maggioranza del paese. Questo libro è un appello,
l'apertura di una battaglia delle idee.
WALTER VELTRONI
è stato direttore dell’ “Unità”, vicepresidente del Consiglio nel
governo di Romano Prodi, segretario nazionale dei Democratici
di sini-stra, sindaco di Roma e segretario nazionale del Partito
democratico.
Oltre ad alcuni libri sulla televisione e su! cinema, ha pubblicato
presso Baldini Castoldi Dalai II sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy (1993 e 1999), Governare da sinistra (1997), La
sfida interrotta (1999), I care (2000) e presso Rizzoli La bella
politica (1995), Forse Dio è malato. Diario di un viaggio africano (2000), a cui si è ispirato il regista Franco Brogi Taviani per
il film omonimo, // disco del mondo. Vita breve di Luca Flores,
musicista (2003), da cui è stato tratto il film Piano, solo di Riccardo Milani con Kim Rossi Stuart, Senza Patricio (2004), La
scoperta dell'alba (2006, oltre 250.000 copie vendute, sette edizioni stranie-re) e La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi (2007).
FRANCESCO RUTELLI (Roma, 1954) ha iniziato l'attività politica con il Parato radicale.
Nel 1983 viene eletto depurato. Nel 1993, nominato ministro
per l'Ambiente e le Aree Urbane, si dimette dopo tre giorni.
Nello stesso anno è il primo sindaco di Roma eletto direttamente, a 39 anni. Resta in carica dai dicembre 1993 al gennaio 2001. È commissario del governo per il Giubileo del 2000. Dal 2006 al 2008 è vicepresidente del Consiglia e ministro per i Beni e le Attività Culturali.
Dal 2002 al 2007 ha guidato La Margherita-Democrazia è
Libertà poi confluita nel Partito democratico.
Attualmente è senatore, presiede il Comitato parlamentare
per la sicurezza della Repubblica; è co-presidente de! Partito
democratico europeo; promotore della Fondazione bipartisan
sull'ambiente e i cambiamenti climatici «Centro per un futuro
sostenibile».
Il sito del romanzo è www.walterveltroninoi.it
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Anno I - N° 2
Mosaico Federale
30 Novembre 2009
Rassegna Stampa
LASTAMPA.IT
20091017
Il silenzio colpevole
WALTER VELTRONI
Caro direttore, un mio amico appassionato di montagna mi ha raccontato che ormai su alcune grandi vette italiane si vede la neve nera. Questa
immagine mi torna nella mente guardando il mio Paese oggi. La meraviglia della sua storia, della sua identità, della sua cultura, nitida come la
neve. E la pesantezza di uno spirito pubblico, di un senso comune, in cui
smarrimento e odio sembrano avere il colore della pece.
«Alla democrazia ghe pensi mi»: è una frase che racconta per intero
l’assurdità della condizione politico-istituzionale in cui si trova oggi
l’Italia. Così come racconta molto il fatto che, diciassette anni dopo,
numerosi indizi fanno pensare alla morte di Paolo Borsellino come alla
conseguenza dell’eroico rifiuto di una trattativa tra Stato e mafia.
Eccola, l’istantanea del nostro Paese. Rissosità politica condita da un
odio che ha paragoni solo con i momenti più duri degli Anni Settanta e
Ottanta.
E immobilità, ripetizione sistematica di diseguaglianze, conservatorismi,
illegalità. Tutto questo non può durare sino allo sfinimento del Paese.
«Maggioranza silenziosa». Dalla fine degli Anni Sessanta in America, e
subito dopo da quest’altra parte dell’oceano, Italia compresa, è con queste parole, che si descrive la larga parte di cittadini abituata a non partecipare attivamente alla vita politica e a non esprimere opinioni sulle
grandi scelte del proprio Paese. È un’espressione che nel tempo ha avuto
indubbio successo, che ancora oggi è ampiamente usata e che permette
spesso a chi governa di accreditarsi come beneficiario di un consenso
popolare a prova di qualunque opposizione.
Io credo che oggi, in questo preciso momento storico, sia però un’altra
la definizione che meglio racconta lo spirito diffuso, il clima prevalente,
del nostro Paese. In Italia, questa è la mia idea, c’è una «maggioranza
civile» che forse non riesce ancora a farsi sentire, visto se non altro il
clamore di polemiche e scontri ormai continui e assordanti, ma che certo
non è passiva, non è disinteressata, non è rinunciataria. È una maggioranza civile stanca di Berlusconi e delle sue urla, sempre più attonita di
fronte ad un presidente del Consiglio che negando alla radice il suo stesso ruolo è in guerra ormai con tutti: con il Capo dello Stato e con i giudici della Corte Costituzionale, con i mezzi di informazione che raccontano quel che non dovrebbero e con i giornali che affermano con il loro
lavoro la sacralità di quel diritto che si chiama libertà di stampa, con i
sindacati che difendono i diritti dei lavoratori, con l’Unione Europea che
ammonisce l’Italia a non scadere in comportamenti inumani nei confronti degli immigrati. È una maggioranza civile stanca anche di un
«grillismo» che non a caso, come il «berlusconismo», fa rima con populismo. Stanca pure di un certo «dipietrismo» che troppe volte preferisce
la facilità della polemica alla difficoltà della ricerca delle soluzioni.
Non è una maggioranza, nessuno si illuda e nessuno fraintenda, da catalogare nel gioco della composizione e scomposizione di questo o quello
schema politico, di questa o quella prospettiva di governo. Per essere
chiari, considererei un errore gravissimo ipotesi di governi pasticciati o
di grandi coalizioni, che apparirebbero tanto velleitarie quanto inopportune in un Paese che ha invece bisogno di radicali innovazioni, di profonde sfide ai conservatorismi e non di accordi politici al minimo comun denominatore. Non è tempo di «governissimi». È tempo di una
sana alternanza di tipo europeo.
È la larga parte della popolazione italiana che vorrebbe un Paese retto
semplicemente (anche se dopo un quindicennio sappiamo quanto semplice non sia) da una naturale dialettica democratica: due schieramenti
alternativi, in serrata e anche aspra competizione politica, ideale e programmatica, per guadagnare il diritto di governare e il dovere di rispondere a fine legislatura del proprio operato. Dovrebbe essere una cosa
scontata? Sì, è vero, e in effetti in ogni grande Paese europeo è così. Ma
da noi no. Proprio non riusciamo ad uscire da logiche vecchie e paralizzanti, da conservatorismi, veti e rissosità di diverso tipo e con un solo
esito: il male dell’Italia. E la mia paura è che così proseguendo il nostro
continuerà ad essere un Paese fermo e terribilmente diseguale, con infrastrutture arretrate e senza mobilità sociale, sempre più diviso fra ricchi e
poveri, fra chi paga le tasse e chi no. E se aggiungiamo l’atteggiamento
di chi spinge a contrapporre Nord e Sud e un clima di cupa intolleranza
e ora di vergognosa omofobia e di violenza, verbale e non solo, che avvolge le nostre città e colpisce i più deboli, gli indifesi, chiunque sia
percepito come «altro», ecco emergere il ritratto preoccupante di un’Italia che tende a frammentarsi pericolosamente e che rischia davvero di
smarrire se stessa, la sua identità, il suo futuro.
Io ora sono fuori da responsabilità nella vita politica attiva. Ma amo il
mio Paese e oggi lo vedo impaurito, sfiduciato, attraversato di nuovo da
un clima di odio e contrapposizione che nella storia italiana è spesso
sfociato in intolleranza e violenza. Sento perciò che il malessere diffuso
che c’è nell’opinione pubblica e che confessano sottovoce molti uomini
politici, anche della maggioranza, dovrebbe produrre a breve un sussulto
di responsabilità politica e istituzionale, di tutti e di ciascuno. Anche con
il coraggio di cercare quella riforma della macchina delle decisioni e
delle garanzie che per me costituisce da tempo il cuore dei problemi
italiani.
Nella storia di questo Paese quando la democrazia, specie in tempi di
insicurezza sociale, si è inceppata, la nazione è sempre precipitata verso
avventure pericolose. Per questo i silenzi oggi sono colpevoli. Per questo la speranza, una speranza che ogni persona di buon senso è chiamata
a far crescere, vorrei dire ora o mai più, è che il silenzio si rompa definitivamente, che una stagione si chiuda e un’altra se ne apra. Una stagione
più civile, nella quale la maggioranza degli italiani potrà finalmente
ritrovarsi.
_________________________________________
LA STAMPA
19960128
Ci manca un De Gaulle
Norberto Bobbio.
Che Gianfranco Fini fosse un presidenzialista convinto e intransigente,
lo sapevamo da un pezzo. Si dice che il presidenziali sino non è di per sé
stesso una forma di governo antidemocratica, quando il Presidente è
eletto dal popolo. Ma come mai i più accanito presidenzialista nello
schieramento politico italiano è il leader di un partito che affonda le sue
radici nell'Italia fascista, e ne ha conservalo, nonostante le ripetute dichiarazioni in contrario, alcune idee fondamentali, come ha giustamente
scritto ieri Sergio Romano su questo giornale?
Si cerca di sedurre il cittadino raccontandogli che il presidenzialismo
non solo non è antidemocratico, ma è addirittura un sistema politico che
gli permette di «contare di più».
Ma è proprio vero? Affinché il singolo cittadino possa contare politicamente, occorre che fra l'elettore e l'eletto vi sia un rapporto di fiducia. E,
invece, chi elegge un Presidente per quattro anni, come negli Stati Uniti,
o addirittura per sette, come in Francia una volta gettata la scheda nell’
urna, non conta più nulla.
I cittadini americani lo sanno cosi bene che circa la metà non va neppure
a votare.
Se non avessimo sempre saputo che Fini è un presidenzialista, lo avremmo bene appreso in questi giorni dal modo naturale con cui ha sconfessato il professore Domenico Fisichella, l'esperto che lui stesso aveva
nominato come membro del piccolo comitato cui era stato dato l'incarico di redigere un primo abbozzo di riforma. Sconfessato perché quell'abbozzo cercava di venire incontro alle richieste di riforma senza essere presidenzialista.
Nota di redazione
La nostra Rassegna Stampa è ridotta al minimo necessario per riportare correttamente i testi degli
autori citati e nel contempo per non violare i diritti di copyright delle testate di provenienza. I costi di pubblicazione sono notevoli e dunque lo spazio è del tutto ridotto: con l’anno nuovo ci auguriamo di poter migliorare contenuti e dimensioni.
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Anno I - N° 2
Mosaico Federale
30 Novembre 2009
LASTAMPA.IT
20091029
Il pareggio malattia del Paese
LUIGI LA SPINA
Escort contro trans; arbitro monsignor Della Casa; risultato: pareggio.
Tremonti contro Berlusconi; arbitro Bossi; risultato: pareggio. Le banche contro Tremonti; arbitro Guzzetti, risultato: pareggio.
Bisogna ammetterlo. Tranne la Gelmini che, con lombarda ostinazione,
continua a sfornare progetti di riforma, in Italia spira una gran voglia di
raggiungere quell’esito perfetto di una partita di calcio che teorizzava un
famoso allenatore del secolo scorso, Annibale Frossi. Con l’alibi di un
pericoloso fraintendimento: quello di chi scambia la necessità di una
tregua tra eserciti sempre in armi con la convinzione che sia meglio non
fare nulla, perché, come diceva il grande Eduardo, «ha da passà ’a nuttata» e, poi, tutto tornerà come prima. Sì, tutto come prima, compresa la
vecchia Dc resuscitata in un grande (?) centro, la vecchia socialdemocrazia risorta in un nuovo (?) Ulivo e con il riaffacciarsi di quella formidabile fantasia politologica d’antan che trova nella «cabina di regia» un
classico esempio.
Eppure, come dimostrano due interessanti libri usciti da poco, quello di
Salvatore Rossi, intitolato «Controtempo», e quello dell’americano Jeff
Israeli, «Stai a vedere che ho un figlio italiano», dopo la crisi non è vero
che si potrà tornare al nostro recente passato. Meglio, se mai potremmo
tornarci, sarà un disastro. Perché si accentuerebbe il distacco tra la nostra economia e quella degli altri Paesi continentali, come è avvenuto
negli ultimi quindici anni. Perché diverrebbe asfissiante la conservazione classista della nostra società, con l’esito di una vera e propria fuga
all’estero dei migliori giovani del nostro Paese. Perché sarebbe insostenibile l’onere di garantire le pensioni a un numero crescente di anziani
da parte di un numero sempre più ridotto di occupati.
In Italia, un’apparente frenetica lotta politica, spumeggiante di gossip
sulle abitudini sessuali dei leader, di guerre giudiziarie tra il capo del
governo e i magistrati, di litigi tra banchieri e industriali, nasconde un
sostanziale immobilismo. Una inazione che, in realtà, fa comodo a
(quasi) tutti, perché assicura la protezione dei veri padroni della società
italiana, le corporazioni. Quelle che garantiscono il posto di medico ai
figli dei medici, quello di notaio al figlio del notaio, quello di giornalista
al figlio del giornalista. Ma anche il sistema che trasmette, di generazione in generazione, il volante del taxi, la titolarità dell’ombrellone sulle
nostre spiagge, il banco della farmacia e, persino, la cattedra universitaria.
Ben venga, perciò, un clima di maggior serenità tra i due schieramenti
auspicato dopo l’elezione popolare di Bersani alla segreteria del Pd e lo
spostamento dell’attenzione politica dai problemi erotici a quelli lavorativi, come indicato dallo stesso Bersani nel discorso sulla sedia dello
stabilimento di Prato. Ma l’effetto della prima «P», quella del pareggio,
non si deve trasformare nella tentazione di una seconda, esiziale «P»,
Infantile è l'idea che non ci siano altre soluzioni che la repubblica presidenziale per rafforzare l'esecutivo, separarlo dal legislativo, e quindi
eliminare la piaga dei governi che durano pochi mesi. (A ogni modo,
sempre meglio cinquanta governi in cinquant’anni, che uno solo in venti ! ). Infantile, e proprio per questo poco gradita alla maggior parte dei
costituzionalisti italiani.
Non capisco perché Giovanni Sartori — e sono un po' a disagio nei dirlo
per la stima e l'affetto che ho per lui — abbia intrapreso con tanta ardimentosa tenacia, e non c'è che dire, con tanta competenza, la crociata
per il presidenzialismo alla francese. È stata, questa, una forma di governo, oggi in crisi, inventata apposta per il generale De Gaulle, cui le vicende tragiche della Francia (come, del resto, di tutta l'Europa) avevano
dato una legittimazione storica a governare il Paese come capo indiscusso della Resistenza alla dominazione nazista e c'è da domandarsi con
una certa apprensione chi oggi potrebbe essere in Italia il maggior beneficiario di un'elezione diretta del Capo dello Stato in uno dei momenti
più oscuri della storia del nostro Paese.
Tra l'altro, proprio in questi giorni abbiamo appreso che il 67% degli
italiani, quelli che dovrebbero eleggere il nuovo Presidente chiamato a
salvare il Paese dalla crisi morale e politica in cui è caduto, sono favorevoli alla pena di morte. In realtà, quello che Fini vuole ottenere ponendo
il veto alla soluzione proposta, pur mostrandosi dispostissimo, perché
non costa niente, alla continuazione delle trattative, non è tanto riaffermare il principio irrinunciabile della repubblica presidenziale, quanto ostacolando il confronto tra il polo di destra e il polo di sinistra - affrettare le elezioni.
Sempre più difficile, lo riconosco, a questo punto, far finta di niente. In
molti siamo convinti che anche le elezioni, senza una nuova legge elettorale e senza un minimo di soluzione del conflitto dì interessi con il
principale leader del polo di destra, siano per il nostro Paese un gravissimo errore. Se ne può fare a meno? Siano almeno, le nove elezioni, per
entrambi i poli ( o, se non altro, per la parte più assennata di entrambi )
un'occasione per raccogliere le proprie truppe sparse, ristabilire tra i vari
gruppi e gruppetti in continua rissa fra di loro quel minimo di unità senza la quale la battaglia è perduta prima ancora di cominciare.
L'Italia dei due poli alternativi è ancora molto lontana. La prima prova è
già fallita. C'è da temere che fallisca anche la seconda. Durante l'incontro tra Berlusconi e D'Alema, Bruno Vespa, che lo conduceva, diede
notizia di un sondaggio, secondo il quale il 32% degli interpellati preferisce il centro-sinistra, il 29% il centrodestra, il 20% li rifiuta tutti e due.
Come si vede, il bipolarismo è contestato. In quel 20% ci sono da un
lato gli indifferenti, dall'altro coloro che occupano le ali estreme, dure a
morire, fascisti e comunisti che hanno sempre resa malferma e pericolante la nostra democrazia.
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ca alla democrazia si è basata sulla distinzione tra «democrazia formale» (legata alle elezioni e a procedure di funzionamento riconosciute anche
al sistema italiano) e «democrazia sostanziale» sempre carente, sempre attesa, sempre invocata.
Oggi questa distinzione sembra aver perso ogni efficacia esplicativa per due
ragioni: per la rivoluzione mediatica, nel senso detto sopra e, più sottilmente, per la centralità assegnata nel gergo politico al concetto di «popolo» - il
depositario degli interessi sostanziali della democrazia. Pensiamo alla denominazione del «Popolo della libertà» e alla retorica della Lega. In entrambi i
casi il concetto di popolo è usato in senso polemico contro il sistema democratico esistente e le sue regole di rappresentanza.
Berlusconi ha retoricamente introdotto la novità del «popolo-degli-elettori».
Il «popolo» è chi lo vota. Non è la nazione o l’etnia (vera o inventata) ma
un evento politico. La democrazia del voto diventa la democrazia tout court.
Più la stratificazione sociale nasconde i suoi connotati di classe tradizionali,
complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di
lavoro o di precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell’autopercezione personale e sociale - più si crea la finzione del «popolo» che
persegue i suoi interessi sostanziali seguendo il leader. Di più: nelle intenzioni del leader se questo «popolo» vince le elezioni può pretendere di modificare a suo piacimento la Costituzione. Prende il posto del demos sovrano che è il fondamento stesso della democrazia. Se questa nostra osservazione è giusta, più che ad un dopo-democrazia siamo davanti a una mutazione genetica del concetto di demos. Il problema è antico: il demos nato
come alta finzione di cittadini liberi, maturi, responsabili è entrato a partire
dal XIX secolo in collisione, poi in competizione con la classe sociale, trovando quindi faticosi equilibri nelle varie forme di democrazia sociale. Oggi si annuncia una nuova fase innescata dalla destrutturazione delle classi e
dal ruolo decisivo assunto dalla comunicazione di massa. Il demos è socialmente destrutturato e frammentato, ma una parte consistente di esso si polarizza politicamente verso il leader.
Facciamo un altro passo in avanti nella nostra analisi. Spesso per spiegare
l’anomalia italiana molti analisti (a sinistra) hanno parlano di un’estraneità
tra «il sistema politico» (inefficiente, inadeguato o appunto di semplice
«democrazia formale») e «la società civile» (vitale e ricca di risorse e di
energie, portatrice di «democrazia sostanziale»). E oggi quindi molti fanno
appello ad una «società civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi.
E’ un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso espressione della «società
civile» italiana. O se vogliamo, della sua disgregazione e del suo disorientamento. Molte patologie sociali (generalizzata assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicità di molte regioni e gruppi sociali con la
criminalità organizzata, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non
provengono dal di fuori, ma dal ventre della società civile. Non si tratta di
negare l’esistenza di gruppi, settori, pezzi di «società civile» attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta della democrazia. Ma è inaccettabile la
contrapposizione di principio tra «la società civile» e il «sistema politico»
come se fossero due poli ed entità autonome.
Il quadro della democrazia italiana è davvero complicato e difficile da decifrare. Le pulsioni autoritarie che provengono dall’alto e da altri settori non
sono sufficienti per tracciare una diagnosi di una possibile, sia pure soffice,
fascistizzazione. Ci sono solidi anticorpi democratici nel Paese, dentro e
fuori le istituzioni. Non siamo nel 1923 o nel 1924. Assistiamo tuttavia ad
una mutazione profonda della democrazia che, misurata ai suoi criteri ideali, ci sconcerta. Ma può e deve essere guidata. Chi ne ha la capacità?
quella del passato.
Perché non proporre, almeno, quel minimo nucleo di riforme, nel campo del
lavoro e del welfare, sul quale i nostri più importanti economisti sono tutti
d’accordo, dall’innalzamento dell’età pensionabile allo sblocco dei finanziamenti per gli enti locali «virtuosi»? Si potrebbe verificare, in concreto,
chi sta dalla parte dell’innovazione e chi sta dietro le comode barriere della
conservazione. Se la maggioranza, invece, tornerà alla disputa tra coloro
che vogliono tagliare le tasse oggi e quelli che vogliono farlo domani, se
l’opposizione continuerà a dividersi tra chi preferisce l’alleanza con Di Pietro e chi quella con Casini, avremo un solo risultato, quello dello «zero a
zero». I tifosi avranno sventolato inutilmente le loro bandiere, la buon’anima di Annibale Frossi si consolerà nella tomba, ma gli spettatori avrebbero
preferito magari un altro pareggio, quello con tanti gol.
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LASTAMPA.IT
20090915
Italia anche questa è democrazia
GIAN ENRICO RUSCONI
Fine della democrazia? Postdemocrazia? No: più banalmente, la democrazia
che c’è. O che ci meritiamo. I milioni di italiani che accettano questa situazione sono degli sprovveduti o dei turlupinati? Stento a crederlo. O se sono
complici, di che cosa sono complici esattamente?
L’uso e l’abuso della particella post applicata alla democrazia e a quasi tutti
i fenomeni attuali segnala l’incapacità di definire la nostra condizione specifica. Rischiamo di essere epigoni che si definiscono per differenza da ciò
che c’era prima - un prima spesso idealizzato.
Nel nostro Paese - dove quasi tutti gli studiosi offrono diagnosi sulla soglia
del catastrofismo - c’è mai stato un momento storico in cui funzionava una
buona democrazia o quanto meno una democrazia accettabile? La risposta è
affermativa a patto che si cancellino o si sdrammatizzino le critiche dure
che gli stessi analisti di oggi (o i loro maestri) avevano fatto a suo tempo.
Abbiamo dimenticato la «democrazia bloccata», la «democrazia di massa»,
«la democrazia senza alternanza», «l’ingovernabilità» e poi «il decisionismo» (craxiano) e «la democrazia dell’applauso» (Bobbio 1984)?
Alla fine non era unanime la denuncia che «i partiti» avevano espropriato «i
cittadini» di ogni autentica possibilità di partecipazione democratica?
Si dirà che adesso siamo arrivati ad un punto rispetto al quale i difetti denunciati ieri appaiono persino veniali. Ma allora dobbiamo chiederci se si è
trattato di un accumularsi irreversibile di vizi di struttura che non sono stati
corretti quando si potevano correggere. Oppure di un «salto di qualità» imputabile a nuovi fattori strutturali generali che elenchiamo come una giaculatoria (globalizzazione, de-industrializzazione, precarizzazione del lavoro,
tracollo dei movimenti operai tradizionali, elefantiasi dei sistemi mediatici,
e quindi populismi di varia natura). Ma perché soltanto nel nostro Paese
questi fattori hanno prodotto l’ascesa irresistibile di un personaggio come
Silvio Berlusconi? Il monopolio mediatico-comunicativo e la sovrapposizione degli interessi privati e pubblici (con l’irrisolto conflitto di interessi)
sono stati la causa o non piuttosto il sintomo di una insensibilità democratica diffusa e pregressa che aveva cause e motivazioni precedenti? Nel frattempo il berlusconismo ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dall’immediato dopoguerra. E sembra godere di un consenso che resiste ad ogni bufera.
I beneficiari e i protagonisti di questa mutazione, politici e intellettuali, si
tengono ben stretto il successo di cui godono oggi, ma non fanno nessun
______________________________________________serio tentativo di dare una forma concettuale o ideologica coerente alla situazione che si è creata. Uno solo continua a parlare e a dettare l’agenda
politica e ciò che resta della cultura politica: Silvio Berlusconi. Gli altri
reagiscono, compresa l’opposizione. L’indifferenza intellettuale personale
del Cavaliere verso la qualità culturale del consenso/dissenso di cui può
godere/soffrire si è trasmessa anche ai suoi sostenitori, compresi gli intellettuali di professione. Non è fuori luogo il sospetto che la campagna contro il
giornalismo nasconda l’ostilità al ceto intellettuale come tale. Se è così,
siamo davanti ad un fenomeno interessante in un Paese tradizionalmente
caratterizzato dall’enfasi e dalla retorica dei «letterati» e degli ideologi. Ma
a ben vedere l’impoverimento della riflessione politica e ideologica è l’altra
Aderire al MOFED
faccia della logica del sistema comunicativo mediatico-televisivo rispetto
significa partecipare a delle
alle forme tradizionali di trasmissione sia dell’informazione che della cultura. La politica come intrattenimento. Come intermezzo e sintesi del flusso
sfide aperte per chi voglia contribuire ad una
mediatico continuo.
nuova stagione
Che razza di democrazia è questa? In proposito da tempo è stato coniato il
di Comuni, Regioni e dell’intero Paese.
concetto di «populismo mediatico» che presuppone quello di «democrazia
populista». Fermiamoci un istante a riflettere. Per decenni a sinistra la criti-
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Anno I - N° 2
Mosaico Federale
30 Novembre 2009
Voci per l’Europa
Nota di Redazione
In questa nuova pagina del notiziario cercheremo di dare voce alle iniziative di sostegno all’idea dell’Europa unita e dunque, oltre l’esimio e perdurante sforzo del Movimento Federalista Europeo, segnaleremo e accoglieremo tutte gli argomenti utili a
questo fine.
Il convegno “Torino, città Europea”, organizzato dall’AICCRE, dal Centro culturale
Frassati e dal Centro Einstein di studi internazionali e pubblicato dallo stesso CESI
nel settembre del 2009, ci offre l’occasione per proporre un filo di storia torinese che
nella concretezza dei “gemellaggi” sottende i più grandi e talvolta ardui percorsi che
hanno portato all’Europa prima dei sei paesi, indi ai dodici ed ora ad unire ben ventisei
Stati.
La prolusione di Fabio Zucca dell’università di Pavia, corredata da 96 rimandi bibliografici, ci pare un itinerario che ben rappresenta la complessità dei problemi in campo
e nel contempo dimostra come la chiarezza delle idee e l’unità d’intenti possano riuscire a superare gli ostacoli ritenuti insormontabili.
Infine, per mancanza di spazio e per evitare tagli impropri, siamo costretti a pubblicare
la relazione del Prof. Zucca in due parti di cui la prima fa parte del presente notiziario
e la seconda sarà pubblicata nella prossima edizione.
I GEMELLAGGI DELLA CITTA' DI TORINO E L'AZIONE DI AMEDEO PEYRON
Fabio Zucca
Università di Pavia, Direttore Archivio storico d'Ateneo
Questo Convegno sul ruolo europeo della città di Torino e del
suo Sindaco Amedeo Peyron (1903-1965) (1) nell'avvio del
processo d'integrazione europea ha creato l'occasione per far
emergere momenti e aspetti poco o nulla noti non solo alla storiografia che tratta i temi legati alla storia contemporanea europea, ma anche agli studiosi che si occupano della storia dei
movimenti per l'unità europea. Per quel che concerne i gemellaggi il materiale è ovviamente disperso in decine di migliaia
di archivi comunali sìa di grandi città che di piccoli centri. Encomiabile eccezione è costituita dal fondo Conseil des Communes et des Règions d'Europe (CCRE) che, recuperato dalla
garde meublé presso l'aeroporto Charles de Gaulle dove giaceva da tempo dimenticato, è stato catalogato e messo a disposizione presso gli Archivi storici delle Comunità europee a Firenze (2). Questo fondo contiene preziosi materiali per una
prima visione d'insieme sul tema dei gemellaggi, ma non è esaustivo di tutta la complessa tematica in quanto ogni gemellaggio ha una sua storia legata alle condizioni polìticoamministrative in cui si trovano i comuni interessati, all'azione
delle sezioni nazionali del movimento delle autonomie locali
europee nonché al momento politico nazionale e internazionale nel cui contesto viene realizzato.
Gli studi storici con cui confrontarsi risultano sostanzialmente
assenti con alcune circoscritte eccezioni come la ricerca condotta da Antoine Vion sul tema della Constitution des enjeux
ìnternationaux dans le gouvemement des villes francaises (3).
Eppure la parola gemellaggio, definita negli anni Cinquanta
come azione dell'accoppiamento di oggetti, è oggi intesa, an-
10
che nell'uso comune, con il significato di "atto simbolico con
cui due città o paesi appartenenti a nazioni diverse stabiliscono
di istituire e sviluppare fra loro legami di stretta fraternità a
scopi culturali, economici o politici” (4). Il principale attore di
questo cambiamento è stato il citato CCRE, all'epoca della
fondazione Conseil des Communes d'Europe (CCE) (5), il
quale ha promosso più di ottomila gemellaggi fra comuni europei (6) che hanno portato, in circa cinquant’anni, milioni di
cittadini di diverse nazionalità a confrontarsi nonché ad essere
sensibilizzati all'idea di un'Europa unita. Le iniziative realizzate hanno prodotto un tale fortunato contagio che altre associazioni o singoli enti territoriali hanno effettuato gemellaggi fra
città, province e regioni di tutto il modo. Oggi il termine e l'azione del gemellare sono sicuramente abusati e tendenzialmente usati al di là del loro significato politico originale che Jean
Bareth (7), primo segretario internazionale del movimento degli enti locali europei, ebbe a definire come “la rencontre de
deux Communes qui entendent proclamer qu’elles s'associent
pour agir dans une perspective européenne, pour confronter
leurs problèmes et pour agir et développer entre elles des liens
d'amitié de plus en plus étroits “ (8).
Anche i gemellaggi effettuati prima nell'ambito delle Comunità poi dell'Unione non sempre hanno rispettato lo spirito e la
politica europeista che doveva e deve contrassegnare queste
iniziative nello spirito dei suoi ideatori (9) quelli realizzati fra
città delle stesso paese sfuggono ad esempio a questa prospettiva.
1. Dalle autonomie locali all’Unione Europea.
Senza risalire, per la civiltà occidentale, alla polis greca è un
dato di fatto come almeno a partire dal Medioevo le città europee hanno intrattenuto relazioni istituzionali fra di loro. Questi
rapporti si svilupparono attraverso i commerci, le fiere, ma
anche le Università e le istituzioni religiose. Furono firmate
Anno I - N° 2
Mosaico Federale
alleanze, trattati commerciali, si combatterono guerre per il controllo del territorio e dei traffici. L'avvento degli Stati nazionali
accentrati ha però cancellato queste relazioni rendendole illegali.
Lo Stato aveva la rappresentanza esterna esclusiva e quindi era
l'unico soggetto legittimato a tenere rapporti internazionali. Fra
la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento furono faticosamente riprese relazioni dirette fra le amministrazioni locali in
questo favorite dall'internazionalismo socialista e cattolico. I
contatti trovarono una loro embrionale forma istituzionale nella
fondazione, a Gand nel 1913, della prima organizzazione internazionale dei Comuni - l’International Union of Local Authorities (IULA) - allora più nota nella denominazione francese di
Union internationale des villes (UIV) (10). L'associazione prendeva vita principalmente sulla base dell'esperienza riformista,
ma al movimento non erano estranee altre componenti fra cui
quella dei tecnici comunali desiderosi di confrontarsi per trovare
soluzioni a problemi già allora avvertiti come comuni (11). In
questo ambito ebbe un ruolo lo studioso e militante socialista
Edgard Milhaud (12) che attraverso la rivista Annales de la règie dìrecte, più tardi Annales de l'Economie collective, sviluppò,
insieme ai suoi numerosi collaboratori di diversa provenienza
nazionale, il concetto di intermunicipalità per cui i comuni dovevano collaborare per la diffusione delle conoscenze e delle esperienze in materia di progresso tecnico e sociale nell'amministrazione locale nonché per costruire una rappresentanza dei loro
interessi, lo studio delle questioni relative alla costruzione di
città e all'organizzazione della vita comunale, la creazione e il
funzionamento di istituzioni e di servizi collettivi(13). Oltre a
Milhaud, all'assemblea costitutiva dell' UIV partecipò, fra gli
altri, anche Alessandro Schiavi (14) riformista e convinto comunalista. Il primo avrà un ruolo fondamentale nella costituzione
del ricordato CCE, il secondo in quello dell'Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni d'Europa (AICCE) di cui sarà il
primo Presidente (15) e cui succederà Amedeo Peyron che guiderà, con lungimiranza e capacità, il movimento fra il '57 e il
'65.
Malgrado le positive premesse l'azione dell'UIV non potè svilupparsi a causa della guerra che sconvolse il continente europeo.
All'indomani della prima guerra mondiale alcuni comuni francesi, tedeschi, inglesi, belgi e lussemburghesi ripresero relazioni
dirette sia per superare insieme i traumi di una guerra devastante
sia perché affratellati dal ricordo di comuni tragici eventi (16). Il
secondo congresso dell'UIV si tenne però ad Amsterdam, quindi
in un paese neutrale, solo nel '24 e segnò la ripresa dei contatti
istituzionali fra i comuni che videro la loro concretizzazione attraverso la rifondazione del movimento avvenuta a Parigi nel '25
(17). Fra questa data e la fine degli anni Trenta l'associazione
dei comuni si dedicò all'approfondimento di temi quali l'organizzazione finanziaria degli enti locali, le imprese comunali, le
espropriazioni e l'urbanistica. Allo stato attuale delle ricerche
non sembra che in questo periodo si siano concretizzate iniziative riconducibili, nella forma e nella sostanza, ai gemellaggi. Dopo l'avvento dei fascismi in diversi Paesi europei, all’UIV mancò progressivamente l'apporto prima degli amministratori locali
italiani, poi tedeschi e quindi iberici. La sua attività andò quindi
scemando sino alla vigilia della nuova guerra civile europea.
La svolta nel campo delle relazioni intracomunali si ebbe all'indomani della seconda guerra mondiale grazie all'acquisita consapevolezza, da parte di alcuni militanti federalisti integrali (18),
che per costruire la pace occorreva realizzare l’Europa dei cittadini.
30 Novembre 2009
Fra i principali attori di questo corso si deve annoverare il movimento federalista francese La Fédération. Centre d'études instìtutìonnelles pour l’organisatìon de la societé francaise che, fondato nel luglio '44 da un gruppo di federalisti legati ai movimenti cattolici, aveva fra i principali obiettivi quello di fornire i mezzi politico-teorici per la riorganizzazione non solo dello Stato,
ma anche della società francese (19). Ben presto i suoi aderenti
si resero conto che per portare a termine i loro obiettivi di federalismo infranazionale non potevano prescindere dalla situazione internazionale e in particolare da un nuovo assetto europeo.
La federazione doveva così andare "du quartier ou du village"
all'Europa (20). In questa prospettiva Andre Voisin (21), leader
del movimento federalista transalpino, promosse relazioni fra
comuni francesi e inglesi che dovevano aiutarsi a risorgere dalle
macerie della guerra ancora in corso. Successivamente si ebbero
le prime unioni fra i comuni di Orléans e Dundee nel '46, Bordeaux e Bristol, Velettes-sur-mer e Greenock nel '47 (22). In questa fase non venne prevista nessuna forma per istituzionalizzare
e rendere stabili i rapporti intracomunali, ma la volontà di riprendere le antiche relazioni dirette fra enti locali era ormai evidente.
Contemporaneamente a queste iniziative si svolse, il 26 aprile
del '48, nel contesto delle attività a sostegno del Benelux, un incontro fra i comuni di Amersfoort -Olanda- e Esch-sur-Alzette –
Lussemburgo - quest'ultima città non a caso protagonista del
gemellaggio multiplo con Torino nel 1958.
Promotore fu Hubert Clément, Sindaco del Comune lussemburghese e futuro cofondatore del CCE (23). Clément, legato sia ai
movimenti europeisti sia a quelli riformisti e internazionalisti
che gravitavano intorno alla ricordata rivista. Annales, diede vita
all'iniziativa convinto che, per arrivare all'unione dei tre Paesi,
in una prospettiva più avanzata dell'Europa, si dovesse operare
al livello delle amministrazioni locali. per organizzare e favorire
"les échanges d'idées entre citoyens, commercants. employeurs,
ouvriers " (24). L'idea che i comuni dovessero e potessero accompagnare la riconciliazione dei Paesi europei e quindi favorire la pace nel continente e nel mondo stava trovando le prime
forme per concretizzarsi.
Nel gennaio del '51 veniva fondato a Ginevra il CCE. All'assemblea costitutiva parteciparono una sessantina di persone, in maggioranza sindaci e amministratori locali di nove Paesi dell'Europa occidentale legati ai movimenti federalisti, comunalisti e all'internazionalismo cattolico e socialista (25). Fra i promotori
dell'iniziativa vi erano i ricordati Edgard Milhaud, Hubert Clément, Andre Voisin e Jean Bareth. Il nuovo movimento rappresentava la volontà di questi militanti europeisti e federalisti di
coniugare le esigenze del decentramento amministrativo con
l'unione politica europea avvertita come imminente. Un contributo fondamentale sia nella definizione del progetto politico sia
nell’organizzazione del CCE venne svolto da La Fédération e
da alcuni suoi uomini: Jean Barelli e Andre Voisin che assumevano ruoli decisivi - il primo organizzativi, il secondo politici all'interno del movimento degli enti locali europei. Uno degli
obiettivi che assegnarono al CCE fu quello di promuovere i jumelages come azione politica attraverso la quale gli amministratori locali potessero coinvolgere i loro cittadini nel processo
d'integrazione europea. Il vocabolo jumelage fu scelto per
distinguere "une telle association des communes, durable et
étendue a l'ensemble des activités humaines, avec d'une part,
certaines relatìons ìntercommunales plus limitèes telles que les
«parrainages» qui ont pour but d'aider une commune èprouvèe
et d'autre part avec certains échanges spécifìquement
11
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Mosaico Federale
30 Novembre 2009
( dalla prima pagina )
il perdurare del divario tra Nord e Sud o le polemiche della Lega e dei suoi omologhi meridionali ( il 3 Ott. 2009, il sottosegretario Gianfranco Miccicchè annuncia l’uscita dal Pdl per favorire la nascita di un non meglio definito Pdl-Sicilia ! ), da più parti si
denunciano immobilismo e mancanza di prospettive in grado di trarre il Paese dall’attuale situazione di crisi politica ed istituzionale.
Eppure da sinistra Michele Salvati (L’ora della commissione bicamerale - Corsera del 20 Ag. 2009) propose l’idea che il federalismo fiscale possa completarsi solo riforme istituzionali condivise.
Più recentemente Gian Enrico Rusconi ( La Stampa del 15 sett. 2009 ) salta a piè pari tutte le polemiche estive pro o contro Berlusconi per constatare come “il Berlusconismo è esso stesso espressione della società civile italiana ovvero della sua disaggregazione e del suo disorientamento”, ma anche per affermare che, se il quadro della democrazia italiana è complicato, non per questo si può parlare di fascistizzazione in quanto nel Paese vivono solidi anticorpi democratici.
Certo però la nostra democrazia dev’essere guidata e Rusconi pone la domanda: Chi ne ha la capacità ?
Come dice Bobbio, ci è mancato un De Gaulle ed ora non è certo proponibile il governo di un uomo forte, ma, alla lettura della
costituzione vigente, un sempliciotto potrebbe pensare ad un intervento del Presidente della Repubblica. In realtà tutto ciò non è
solo ipotizzabile, ma neanche pensabile: Giorgio Napolitano è espressione di quella borghesia rossa che ha sempre servito le
maggioranze di partito o istituzionali per meglio accreditare il suo ruolo di servitore del popolo e dunque non potrà mai forzare il
dato costituzionale che lo limita alla “moral suasion”, anche quando di morale se ne vede poca e la suasion pare data solo dalla
forza dei pugni in faccia, e questi non bastando, dai colpi sotto la cintola, colpi peraltro validi in quanto l’arbitro non esiste.
Allora bisogna rendersi conto che la prima repubblica è defunta e la seconda non è ancora nata se non nella vulgate di piazza o
giornalistiche e questo non solo per l’inadeguatezza della nostra classe politica, ma anche per il profondo mutamento delle società a cui gli stati stentano a contemperarsi.
Di questo fatto ne è testimonianza antica la disanima di Carlo Arturo Jemolo con il suo “La crisi dello stato moderno” (vedi Bancarella dei Libri a pag. 6) o l’odierno testo di Pietro Rossi “Oltre la nazione: la metamorfosi dello stato nell’Europa contemporanea”, testo che costituisce la Lecture Altiero Spinelli 2009 e che pare discorso fatto alla suocera Europa perché la nuora Italia intenda. ( la Lecture 2009 è riportata in allegato per gentile concessione del Centro Studi sul Federalismo ).
Certo la nostra ipotesi di Repubblica Federale è certamente da considerarsi presuntuosa, ma è possibile trascurare la sostanza di
un argomento che con grande umiltà i due illustri studiosi sottopongono alla attenzione nostra ed, ancor più, alla classe dirigente
del Paese ?
Joe Motore.
Torino, 20 Novembre 2009.
économiques, universìtaires et autres, de caractère limite, qui
résultent souvent d'initiatives privées et qui échappent a la
direction des communes (26).
I gemellaggi diventavano così strumento per la propaganda federalista ed europeista attraverso la sensibilizzazione prima degli
amministratori locali poi dei cittadini. La posizione dei federalisti francesi poteva avvalersi anche dell'esperienza e dell'appoggio di Hubert Clément che. come visto, aveva in precedenza organizzato uno dei primi incontri internazionali fra comuni mentre, inizialmente, aveva una tiepida accoglienza da parte di Umberto Serafini (27) allora Segretario nazionale dell'AICCE (28) e
futuro leader intemazionale del movimento degli enti locali europei. Fu anche l'esigenza della riconciliazione franco tedesca
(29) a spronare i federalisti francesi a trovare una formula d'unione che l'allora segretario organizzativo della Fédération Jean
Bareth denominò jumelage(30). In questa fase si pensò anche a
un documento che doveva essere approvato dai Consigli comunali e firmato dai sindaci coinvolti. Il testo, che prenderà il nome
di serment du jumellage, affermava in modo esplicito la volontà
di "mantenere legami permanenti tra le Municipalità" per favorire in ogni campo gli scambi tra i cittadini e "per sviluppare con
una migliore comprensione reciproca il sentimento vivo della
fraternità europea". I Comuni si impegnavano inoltre a intraprendere azioni per "la fondazione dell'unità europea" (31). L'azione del gemellare, attraverso la sua simbologia e i suoi riti,
reintroduceva nella storia europea stabili e libere relazioni internazionali fra i comuni al fine di favorire l'integrazione del continente e quindi la pace. Il primo jumelage ufficiale promosso dal
CCE fu quello fra le città di Troyes e Tornai (32), ma occorre
sottolineare come, in realtà, fosse voluto ed organizzato da La
Fèdèratìon quale azione di propaganda che doveva svolgersi
contemporaneamente al congresso nazionale del Movimento federalista che si tenne a Troyes nel novembre del '51 (33). Immediatamente dopo questa iniziativa, l 'Association Franqaise pour
le Conseil des Communes d'Europe (AFCCE) organizzò a Parigi
un convegno di studio sull'organizzazione dei gemellaggi fra le
comunità locali dei Paesi europei.
( continua nel N° 3 del Notiziario )
Mosaico Federale
Notiziario di iniziative federaliste
Numero 2 - 30 Novembre 2009
Direttore :- Giuliano Maria Orlandi.
T.P.: - 3395739791
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Autorizzazione del Tribunale di Torino
N° 15 del 2 Aprile 2009
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